La filosofia di Friedrich Nietzsche

 

 

 

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La vita di Nietzsche

Cronologia delle opere di Nietzsche

Il pensiero di Nietzsche esposto da Nicola Abbagnano

Il pensiero di Nietzsche esposto da Fabio Cioffi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La vita di Nietzsche

 

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Nietzsche era solito vantare nobili origini polacche. Le mi­nuziose genealogic della sua famiglia non hanno tuttavia trovato traccia di queste origi­ni. Egli nasce il 15 ottobre 1844 a Roecken, non lontano da Lipsia, figlio del pastore Karl Ludwig e di Franziska Oehler, anch'essa figlia di un pastore. Nel 1846 nasce la so­rella Elisabeth; due anni dopo nasce il fratello Joseph che mo­rirà a soli due anni, pochi mesi dopo la morte del padre, scom­parso in seguito al progressivo aggravamento di una serie di disturbi al sistema nervoso e al cervello. Dopo la morte del pa­dre, per il quale provava una profonda venerazione, Nietz­sche cresce affidato alle cure della madre, donna di solide qualità morali ma di cultura li­mitata. Trasferitosi nel 1850 nella città di Naumburg, Nietz­sche riceve i primi insegna­menti di religione, latino e gre­co e impara a suonare il piano­forte. Nel 1858 entra, con una borsa di studio, nella prestigio­sa scuola di Pforta, la cui dura disciplina lo educa allo sforzo intellettuale e alla capacità di concentrazione. Al buon livello dei corsi umanistici della scuo­la egli dovrà la sua abilità lette­raria; superficiali sono invece gli studi scientifici. In questi anni, il giovane Friedrich di­mostra scarsi interessi per le ar­ti figurative; assai vivo, al con­trario, è il suo senso musicale: fin dai primi anni Sessanta prende contatto con la musica di Wagner. Nel 1861 viene "confermato" secondo il rito luterano: già in questo periodo il suo legame con il cristianesi­mo è tuttavia assai debole.

 

il periodo di basilea

 

Nel 1864, insieme con l'amico Paul Deussen, si iscrive all'U­niversità di Bonn. dove aderisce all'associazione studentesca "Franconia", La frequentazio­ne delle lezioni di filologia classica del professor Ritschllo spinge ad abbandonare la teo­logia e a dedicarsi alla filologia. La rottura con il cristianesimo, che così si annuncia, dà luogo a profondi contrasti con la madre la quale, delusa nelle sue spe­ranze di vedere il figlio abbrac­ciare la carriera ecclesiastica, chiede a Nietzsche il silenzio assoluto sull'argomento reli­gioso. Nel 1865 si trasferisce a Lipsia per studiare filologia classica. In questo anno avvie­ne il suo incontro con l'opera di Schopenhauer. Soffre, in questo periodo, di dolori di te­sta e di nausea; viene curato, per qualche tempo, probabil­mente per sifilide. A Lipsia stringe un'intensa amicizia con il futuro filologo Erwin Rohde. Studia Teognide, Eschilo, Dio­gene Laerzio; tiene le prime conferenze per le quali ottiene ampi riconoscimenti. I suoi in­teressi volgono tuttavia sempre più alla filosofia: studia i preso­cratici e la filosofia kantiana. Un'opera che gli lascia una profonda impressione è la Sto­ria del materialismo di Frie­drich Lange. Nel marzo del 1868 interrompe il servizio mi­litare, che aveva avviato in un reggimento di artiglieria. per una caduta da cavallo in cui si ferisce gravemente al petto. La sera dell'8 novembre 1868 in­contra per la prima volta Ri­chard Wagner: la grande impressione che ricava dell'in­contro rafforza la sua passione musicale e filosofica, indebo­lendo vieppiù i suoi interessi fi­lologici. Nel 1869, grazie al­l'appoggio di Ritschl, ottiene la cattedra di lingua e letteratura greca presso l'Università di Bailea. La nomina, oltre al pre­stigio che comporta, significa per Nietzsche la sicurezza di una vita stabile. Mentre la fa­miglia esulta, egli manifesta però profondi dubbi circa la sua vocazione accademica. In ossequio alla legge svizzera, ri­nuncia alla cittadinanza prus­siana, senza tuttavia chiedere quella svizzera. Morirà così apolide. A Basilea entra in un rapporto di grande rispetto con Jacob Burckhardt, Si reca spes­so a Tribschen. dove vivono Richard e Cosi ma Wagner. per la quale prova una vera e pro­pria venerazione. Accolto cor­dialmente dai colleghi e dalla borghesia di Basilea, Nietzsche si stanca tuttavia ben presto della vita mondana, a cui pre­ferisce l'intensa amicizia con lo storico della chiesa Franz Overbeck. Durante la guerra franco-prussiana del 1870 chiede un congedo per arruo­larsi come infermiere volonta­rio; colpito però dalla difterite, ritorna a Basilea, gravemente indebolito.

L'uscita della Nascita della tragedia danneggia irreparabilmente la carriera di Nietzsche: Ritschl lo condanna, l'accade­mia lo attacca; solo Rohde e Wagner prendono le sue difese. Nietzsche vorrebbe lasciare l'insegnamento per dedicarsi unicamente alla propaganda wagneriana: inaspettatamente, tuttavia, non si reca a Bayreuth - dove i Wagner si erano trasfe­riti - per le vacanze natalizie del 1872. A partire dall'anno se­guente il suo stato di salute peg­giora: a trent'anni Nietzsche è già un uomo seriamente malato, con una situazione affettiva precaria. Indebolitesi le amici­zie giovanili, egli stringe ora nuove relazioni: con Malwida von Meysenburg, con Paul Hée, con il musicista Peter Gast. Il desiderio di un'esistenza più stabile lo spinge perfino a colti­vare fantasiosi progetti matri­moniali. Nel 1876 ottiene un anno di congedo per motivi di salute, periodo che trascorre in Italia, a Sorrento, insieme con Rée. All'estate del 1878 risale la rottura, ormai definitiva, con Wagner. Nel maggio dell'anno seguente Nietzsche presenta le dimissioni per ragioni di salute all'università, che gli concede una pensione annua di 30.000 franchi. Nietzsche ha ora da­vanti a sé una vita errabonda, segnata dalla solitudine e dagli attacchi del suo male, un'infe­zione progressiva di probabile origine luetica. Vive prima a St. Moritz, in Engadina, poi a Ve­nezia, con Peter Gast, e a Ma­rienhad; infine a Genova. Nell'estate del 1881, dopo aver pro­gettato un viaggio mai realizza­to in Tunisia, raggiunge per la prima volta Sils-Maria, in Enga­dina, dove trascorrerà, di qui in poi, tutte le estati. Deluso dalla musica wagneriana, si entusia­sma a Genova, nell'autunno dello stesso anno, per la Car­men di Bizet. Sempre a Genova, dove trascorre l'inverno 1881- 82, riceve da Paul Rée una mac­china da scrivere. Di ritorno da un breve soggiorno a Messina - dove compone alcuni idilli - si ferma a Roma, ospite di Malwi­da von Meysenburg. Qui, nella primavera del 1882, conosce una giovane russa, Lou von Sa­lomé, che vorrebbe sposare. I complicati rapporti sentimenta­li che si vengono a creare tra Nietzsche e Lou e tra Lou e Rée danno luogo a una vicenda con­fusa, aggravata dall' ostilità che la sorella Elisabeth prova per la giovane russa. Alla fine Lou e Rée rompono il sodalizio ami­cale a tre che Nietzsche inten­deva creare e il filosofo precipi­ta in una sofferta solitudine. Guastati i rapporti con la fami­glia, egli vede ora peggiorare sempre di più il suo stato di sa­lute. Ai difficili e umilianti rap­porti con gli editori si uniscono il fallimento di un tentativo di rientrare nel mondo accademi­co, a Lipsia, e la preoccupazio­ne per il matrimonio della so­rella con l'agitatore antisemita Bernhard Foerstcr, che è inten­zionato a fondare in Paraguay una colonia tedesca sulla base di princìpi razziali. Apprende a Rapallo nell'inverno del 1883 della morte di Wagner. Gli anni fino al 1888 sono occupati da una intensa attività di scrittura e da peregrinazioni sempre più sofferte. Nel 1887 la notizia del fidanzamento di Lou con il dot­tor Andreas gli provoca una grande depressione. Poco dopo rompe l'amicizia con Rohde, che incautamente si era espres­so in modo poco rispettoso nei confronti dello storico Taine, con cui Nietzsche aveva avuto l'anno prima un intenso scam­bio epistolare.

Gli anni della malattia Nell'aprile del 1888, da Nizza raggiunge Torino, di cui riporta un'impressione molto positiva. Qui attende alle sue ultime ope­re. In questa città, il 3 gennaio del 1889 Nietzsche dà gravi se­gni di squilibrio; nei giorni se­guenti scrive lettere esaltate agli amici e mette per iscritto scon­nesse osservazioni a sfondo po­litico. Il destinatario di una del­le sue lettere, Burckhardt, allar­mato, avverte Overbeck il qua­le, recato si a Torino, scopre l'a­mico nella più completa follia. Ricoverato prima a Basilea e poi a Iena, in una clinica per malattie nervose, Nietzsche so­pravviverà per undici anni, pri­gioniero della pazzia. Nel 1897, dopo la morte della madre, che lo aveva curato per lungo tem­po, viene portato a Weimar dal­la sorella, che già nel 1890 era rientrata dal Paraguay dopo un fallimento finanziario che si era concluso con il suicidio del ma­rito. Nel 1894 essa aveva fonda­to a Weimar il Nietzsche-Archiv destinato a occuparsi dell' edi­zione completa delle opere del filosofo. In questi anni le condi­zioni di Nietzsche peggiorano rapidamente: nel 1892 già non è più in grado di riconoscere gli amici, che spesso riceve in pre­da all'ira; a partire dal 1894, smette di parlare e alterna a mo­menti di serenità urla sconnesse.

Muore il 25 agosto del 1900.

 

 

 

Cronologia delle opere di Nietzsche

 

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L'opera letteraria di Nietzsche è caratterizzata da una grande produttività: in meno di vent'an­ni, tra il 1871 e il 1888, il filosofo tedesco dà alla luce una volumi­nosa e composita messe di scritti, alcuni dei quali appariranno po­stumi. Lo schema oggi larga­mente accettato è quello che di­vide le opere di Nietzsche in tre periodi:

a) le opere giovanili del periodo di Basilea, la cui pubblicazione è curata dallo stesso autore: la Na­scita della tragedia (1871); le quattro Considerazioni Inattuali (1873-76); a questa fase ap­partengono anche gli abbozzi postumi del Libro del filosofo;

b) gli scritti della "fase illumi­nista": Umano troppo umano (1878), Aurora (I881), Gaia scienza (1882);

c) la filosofia dell'eterno ritor­no, contenuta in Così parlò Za­rathustra (1883-85) e negli scritti successivi fino alla follia: Al di là del bene e del male (1886), Genealogia della mo­rale (1887), Il caso Wagner (1888), Crepuscolo degli idoli (1888), L'anticristo, Ecce ho­mo, Nietzsche contra Wagner (postumi).

Due mutazioni critiche segnano i tre periodi: da discepolo ado­rante di Wagner e Schopen­hauer a spirito libero, da spirito libero a maestro che insegna la dottrina dell'eterno ritorno. La massa dei frammenti postumi non è superflua: essi svolgono temi di grande ricchezza e forni­scono spesso la chiave per com­prendere le opere pubblicate in vita. Di fatto costituiscono i ma­teriali originari da cui hanno avuto origine, attraverso revisio­ni e aggiunte, i capitoli delle opere pubblicate.

Minori adesioni raccolgono due periodizzazioni alternative: la prima che considera in modo so­stanzialmente unitario tutti gli scritti della maturità, da Umano troppo umano in poi; la seconda che rileva un'ulteriore distinzio­ne tra lo Zarathustra e le opere più tarde governate dal progetto, alla fine abbandonato, di una grande opera sistematica, il cui titolo doveva essere La volontà di potenza. Che Umano troppo umano e lo Zarathustra segnino le due cesure fondamentali nella biografia intellettuale di Nietz­sche è convinzione accolta in maniera quasi unanime. Tale conclusione trova conferma nel­la ricostruzione autobiografica delle proprie opere che Nietz­sche stesso compie in Ecce ho­mo. Parimenti, per quanto ri­guarda la Volontà di potenza, che l'opera edita con questo titolo nel 1901 e poi nel 1906, a cura di Peter Gast e della sorella di Nietzsche Elisabeth Foerster, raccolga gli aforismi relativi solo a uno dei tanti progetti di siste­mazione e di titolazione pensati dall'autore negli ultimi anni è stato dimostrato conclusivamen­te da G. Colli e M. Montinari, i quali hanno chiarito come nel­l'estate del 1888 Nietzsche aves­se abbandonato definitivamente il progetto sopra citato e avesse, di conseguenza, rifuso parte del materiale scritto all'uopo nel­l'Anticristo e nel Crepuscolo de­gli idoli.

 

 

 

Il pensiero di Nietzsche esposto da Nicola Abbagnano

 

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DIONISO O L'ACCETTAZIONE DELLA VITA

 

La diagnosi di Schopenhauer sul valore della vita rimane il presupposto costante dell'opera di Nietzsche, anche quando Nietzsche respinge e condanna lì'atteggiamento di rinunzia e di abbandono che da quella diagnosi Schopenahuer aveva dedotto. La vita è dolore, lotta, distruzione, crudeltà, incertezza, errore. Essa è l'irrazionalità stessa: non ha ordine nel suo sviluppo né ha scopo, il caso la domina, i valori umani non trovano in essa alcuna radice. Due atteggiamenti sono allora possibili di fronte alla vita. Il primo è quello della rinunzia e della fuga, che mette capo all'ascetismo; questo è l'atteggiamento che Schopenhauer derivò dalla sua diagnosi ed è l'atteggiamento, secondo Nietzsche, proprio della morale cristiana e della spiritualità comune. Il secondo è quello dell'accettazione della vita come essa è, nei suoi caratteri originari e irrazionali, ed è l'atteggiamento che mette capo all'esaltazione della vita e al superamento dell'uomo. Questo è l'atteggiamento di Nietzsche. Tutta l'opera di Nietzsche è intesa a difendere e a chiarire l'accettazione totale ed entusiastica della vita. Dioniso è il simbolo divinizzato di questa accettazione e Zaratustra è il suo profeta.

Dioniso è "l'affermazione religiosa della vita totale, non rinnegata né frantumata". E' l'esaltazione entusiastica del mondo com'è, senza diminuzione, senza eccezione e senza scelta: esaltazione infinita dell'infinita vita. Lo spirito dionisiaco non ha nulla a che fare con l'accettazione rassegnata della vita, con l'atteggiamento di chi vede in essa la condizione negativa di quei valori di bontà, di perfezione, di umiltà, che sono la sua negazione. E' la volontà orgiastica della vita nella totalità della sua potenza. Dioniso è il dio dell'ebrezza e della gioia, il dio che canta, ride e danza: egli bandisce ogni rinunzia, ogni tentativo di fuga di fronte alla vita. Ciò vuol dire, secondo Nietzsche, che l'accettazione integrale della vita trasforma il dolore in gioia, la lotta in armonia, la crudeltà in giustizia, la distruzione in creazione. Essa rinnova profondamente la tavola dei valori morali. Tutti i valori fondati sulla rinunzia e sulla diminuzione della vita, tutte le cosiddette virtù che tendono a mortificare l'energia vitale, a spezzare e a impoverire la vita, appaiono indegne dell'uomo. Nietzsche dà alla virtù il significato amoralistico che essa ebbe nel Rinascimento italiano. E' virtù ogni passione che dice alla vita e al mondo: "la fierezza, la gioia, la salute, l'amore sessuale, l'inimicizia e la guerra, la venerazione, le belle attitudini, le buone maniere, la volontà forte, la disciplina dell'intellettualità superiore, la volontà di potenza, la riconoscenza verso la terra e verso la vita – tutto ciò che è ricco e vuol dare, e vuol gratificare la vita, dorarla, eternizzarla e divinizzarla – tutta la potenza di queste virtù che trasfigurano, tutto ciò che approva, afferma, ed agisce per affermazione" (Wille zur Macht, § 479). Queste passioni che non hanno più nulla di primitivo, perché sono il ritorno consapevole dell'uomo alle fonti originarie della vita, costituiscono la nuova tavola dei valori  fondata sull'accettazione della vita. Nietzsche pone crudamente il dilemma tra la morale tradizionale e quella che egli difende; ma in realtà questo dilemma è già incluso nell'altro, che è il solo fondamentale, tra l'accettazizone della vita e la rinunzia alla vita, tra il e il no di fronte al mondo. Solamente l'atto dell'accettazione, la scelta libera e gioiosa di ciò che la vita è nella sua potenza primitiva, determina la trasfigurazione dei valori e indirizza l'uomo verso l'esaltazione di sé anziché verso l'abbandono e la rinunzia.

Il carattere romantico dell'atteggiamento di Nietzsche è evidente in questa infinitizzazione o divinizzazione della vita. Dioniso ignora e disconosce ogni limite umano. La vita è, sì, essenzialmente dolore; e ogni arte, come ogni filosofia, può essere considerata come una medicina e un soccorso alla vita che si accresce e lotta. Ma quelli che soffrono di un impoverimento della vita domandano all'arte e alla filosofia la calma e il silenzio o anche l'ebrezza e lo stordimento; e ad essi viene incontro quello che Nietzsche chiama il romanticismo filosofico ed artistico, il romanticismo di Schopenhauer e di Wagner. L'uomo dionisiaco soffre invece di una sovrabbondanza di vita e tende ad una visione tragica della vita interiore e di quella esterna. Dioniso non solo si compiace dello spettacolo terribile e inquietante, ma ama il fatto terribile in se stesso e il lusso della distruzione, della disgregazione, della negazione; la malvagità, l'insania, la bruttezza, gli sembrano in qualche modo permesse da una sovrabbondanza vitale che è capace di fare un fertile paese di ogni deserto (Die froeliche Wiss. § 370). Perciò, nei mali e negli orrori della vita, Dioniso non scorge un limite insuperabile che chiuda l'uomo in confini ben definiti, ma piuttosto il segno di una ricchezza superiore ad ogni limite, l'infinità di una forza che si espande al di là di ogni argine e che feconda e trasfigura tutto. Per lo stesso motivo, Dioniso respinge a allontana l'idea della morte.

Gli uomini s'immaginano che il passato è niente o è poca cosa e che l'avvenire è tutto. Ciascuno vuol essere il primo in questo avvenire e tuttavia la morte e il silenzio della morte sono le sole certezze che tutti abbiano in comune. "Come è strano, nota Nietzsche (Ib. § 278), che questa unica certezza, questa unica comunione sia quasi impotente ad agire sugli uomini e che essi siano così lontani dal sentire la fraternità della morte". Eppure Nietzsche stesso respinge e annulla questa fraternità, rigettando il pensiero della morte. "Sono felice di constatare che gli uomini si rifiutano assolutamente di concepire l'idea della morte e vorrei contribuire a rendere per essi ancora cento volte più degna di essere pensata l'idea della vita". Con l'idea della morte è respinto il contrassegno più evidente della finitudine umana. Dioniso è il simbolo dell'accettazione della vita e anche il simbolo del rifiuto di ogni limite umano.

 

LA TRASMUTAZIONE DEI VALORI

 

Nella trasmutazione dei valori, Nietzsche riconobbe il suo compito proprio, il suo destino. "La mia verità, egli dice (Ecce homo, § 4), è spaventosa perché finora si è chiamata verità la menzogna. Inversione di tutti i valori: ecco la mia formula per un atto di supremo riconoscimento di sé, di tutta l'umanità, atto che in me è diventato carne e genio. Il mio destino esige che io sia il primo uomo onesto, che io mi senta in opposizione alle menzogne di vari millenni". L'inversione dei valori si presenta nell'opera di Nietzsche come una critica della morale cristiana, da lui ridotta sostanzialmente alla morale della rinunzia e dell'ascetismo. La morale cristiana è la rivolta degli individui inferiori, delle classi sottomesse e  schiave, alla casta superiore e aristocratica. Il suo vero fondamento è il risentimento: il risentimento di coloro ai quali la vera reazione, quella dell'azione, è interdetta, e che trovano compenso in una vendetta immaginaria. "Mentre ogni morale aristocratica nasce da una trionfale affermazione di sé, la morale degli schiavi oppone sin dal principio un no a ciò che non fa parte di se stessa, a ciò che è differente da sé ed è il suo non-io; e tale è il suo atto creatore. Questo capovolgimento del colpo d'occhio valutativo, questo punto di vista che si inspira necessariamente all'esterno invece di fondarsi su se stesso, appartiene in proprio al risentimento (Genealogie der Moral, 1, § 10). I capisaldi della morale cristiana: il disinteresse, l'abnegazione, il sacrificio di sé, sono il frutto del risentimento dell'uomo debole verso la vita. E' la vita che si mette contro la vita, la fuga di fronte alla vita. L'ideale ascetico è un espediente per conservare la vita nello stato di degenerazione e di decadenza in cui l'ha ridotta la mancata accettazione di essa. E i puri di cuore, le anime belle che si drappeggiano poeticamente della loro virtù, sono anch'essi uomini del risentimento,che fremono di un sotterraneo spirito di vendetta contro coloro che incarnano la ricchezza e la potenza della vita. La scienza stessa non è lontana dall'ideale ascetico del cristianesimo per la sua adorazione della verità oggettiva, per il suo stoicismo intellettuale che interdice il e il no di fronte alla realtà, per il suo rispetto dei fatti e la rinunzia all'interpretazione di essi. La credenza nella verità oggettiva è l'ultima trasformazione dell'ideale ascetico. L'uomo veridico, veridico nel senso estremo e temerario che la fede nella scienza presuppone, afferma con ciò la fede in un mondo diverso da quello della vita, della natura e della storia; e nella misura in cui afferma questo mondo diverso, deve negare l'altro (Die froeliche Wiss. § 344). Il risultato è anche qui l'impoverimento dell'energia vitale: la dialettica prende il posto dell'istinto, la gravità imprime la sua impronta sul viso e nei gesti come segno infallibile di una evoluzione più penosa della materia e di un rallentamento delle funzioni vitali (Genealogie der Moral, 3, § 25).

Il tipo ideale della morale corrente, l'uomo buono, esiste soltanto a costo di una fondamentale menzogna: giacché chiude gli occhi di fronte alla realtà e non vuole a nessun patto vedere com'è fatta: essa infatti non è tale da stimolare a ogni momento gli istinti di benevolenza né tanto meno da consentire in qualsiasi momento un intervento  bene intenzionato e stupido. L'ultimo risultato della concezione del mondo fondata sulla non accettazione della vita è il pessimismo che, nella sua espressione finale, è nihilismo. La vita è rinnegata perché include il dolore e il mondo è disapprovato a vantaggio di un mondo ideale in cui si ripongono tutti i valori antivitali.

A tali negazioni dell'ascetismo, Nietzsche contrappone le più risolute ed entusiastiche affermazioni. Tutto ciò che è terrestre, corporeo, antispirituale, irrazionale, viene esaltato da Nietzsche con la stessa violenza con cui è condannato dalla morale ascetica. "il mio io, dice Zaratustra, mi ha insegnato una nuova fierezza e io l'insegno agli uomini: non nascondere la testa nella sabbia delle cose celesti, ma portarla fieramente, una testa terrestre, che crea il senso della terra. Io insegno agli uomini una volontà nuova: seguire volontariamente la via che gli uomini hanno seguito ciecamente, approvare questa via e non più cercare di fuggirla, come i malati e i decrepiti". L'esistenza dell'uomo è un'esistenza interamente terrestre: l'uomo è nato per vivere sulla terra e non c'è altro mondo per lui. L'anima, che dovrebbe essere il soggetto dell'esistenza ultra-mondana, è insussistente: l'uomo è soltanto corpo. "Io sono corpo tutto intero e nient'altro, dice Zaratustra; l'anima è soltanto  una parola che indica una particella del corpo. Il corpo è un grande sistema di ragione, una molteplicità con un solo senso, una guerra e una pace, una mandria e un pastore". Il vero io dell'uomo è il corpo, che Nietzsche chiama "la grande ragione" in cui l'uomo riconosce l suo io singolo. La vera soggettività dell'uomo non è quella che egli indica col monosillabo io, ma il se stesso che è insieme corpo e ragione. Si trova in Nietzsche anche una critica del principio cartesiano che è tra e più radicali. "Dire che quando si pensa bisogna che ci sia qualcosa che pensi è, dice Nietzsche, semplicemente la formulazione dell'abitudine grammaticale  che all'azione aggiunge un attore. Se si riduce la proposizione a questo: "Si pensa, dunque ci sono pensieri" ne risulta una semplice tautologia e la "realtà del pensiero" rimane fuori questione sicché in questa forma si è portati a riconoscere solo l'apparenza del pensiero. Ma Cartesio voleva che il pensiero  fosse non una realtà apparente ma un in sé" (Wille zur Macht, § 260).

La rivendicazione della natura terrestre dell'uomo è implicita nell'accettazione totale della vita che è propria dello spirito dionisiaco. In virtù di questa accettazione, la terra e il corpo dell'uomo si trasfigurano: la terra cessa di essere il deserto in cui l'uomo è in esilio e diventa la sua dimora gioiosa; il corpo cessa di essere prigione o tomba dell'uomo e diventa il suo vero se stesso. La trasfigurazione dei valori è intesa da Nietzsche come l'annullamento dei limiti, come  la conquista di una padronanza assoluta dell'uomo sulla terra e sul corpo, come l'eliminazione del carattere problematico della vita  di ogni perdita o smarrimento cui l'uomo possa andare soggetto.

 

L'ARTE

 

Allo spirito dionisiaco si collega l'arte che perciò diventa per Nietzsche l'espressione più alta dell'uomo. Nel suo primo libro, La nascita della tragedia, (1872, Nietzsche aveva riconosciuto a fondamento dell'arte la dualità dello spirito apollineo e dello spirito dionisiaco: il primo dei quali domina l'arte plastica che è armonia di forme, l'altro la musica, che è invece priva di forma perché ebrezza ed esaltazione entusiastica. Soltanto in virtù dello spirito dionisiaco, affermava Nietzsche, il popolo greco riuscì a sopportare l'esistenza. Sotto l'influenza della verità contemplata, l'uomo greco vedeva dappertutto l'aspetto orribile e assurdo dell'esistenza. L'arte gli venne in soccorso, trasfigurando l'orribile e l'assurdo in immagini ideali, in virtù delle quali la vita fu resa accettabile. Queste immagini sono il sublime, col quale l'arte doma e assoggetta l'orribile e il comico che libera dal disgusto dell'assurdo (Die Geburt der Trag. § 7). La trasfigurazione fu compiuta dallo spirito dionisiaco, modulato e disciplinato dallo spirito apollineo, e dette luogo rispettivamente alla tragedia e alla commedia. Il pessimismo, trasfigurato dall'arte, distolse i Greci dalla fuga di fronte alla vita. Questo avveniva nella giovinezza del popolo greco; in seguito, con l'apparizione di Socrate e del platonismo, lo spirito dionisiaco fu combattuto e represso e cominciò, con la rinuncia alla vita, la decadenza del popolo greco.

Le successive speculazioni di Nietzsche sull'arte confermano  la stretta connessione di essa  con lo spirito dionisiaco. L'arte è condizionata da un sentimento di forza e di pienezza, quale si verifica nell'ebrezza. Sono stati non artistici tutti quelli che dipendono da un impoverimento della volontà:  l'oggettività, l'astrattività, l'impoverimento dei sensi, le tendenze ascetiche. Il brutto, che è la negazione dell'arte, è connesso con tali stati: "Ogni volta che nasce l'idea di degenerazione, di impoverimento della vita, d'impotenza, di decomposizione, di dissoluzione, l'uomo estetico reagisce con un no (Wille zur Macht, § 357). La bellezza è l'espressione  di una volontà vittoriosa, di una coordinazione più intensa, di un'armonia di tutti i voleri violenti, di un equilibrio perpendicolare infallibile. "L'arte, dice Nietzsche (Ib., § 361), corrisponde agli stati di vigore animale. E' da una parte l'eccesso di una costituzione florida che trabocca nel mondo delle immagini e dei desideri; dall'altra è l'eccitamento delle funzioni animali mediante le immagini e i desideri di una vita intensificata, una sopraelevazione del sentimento della vita e uno stimolante della vita. Essenziale all'arte è la perfezione dell'essere, il compimento, l'avviamento dell'essere alla pienezza; l'arte è essenzialmente l'affermazione, la benedizione, la divinizzazione dell'esistenza. Lo stato apollineo non è che la risultanza estrema dell'ebrezza dionisiaca: è il riposo di certe sensazioni estreme di ebrezza; una specie di semplificazione e concentrazione dell'ebrezza stessa. Lo stile classico rappresenta questo riposo ed è la forma più elevata del sentimento di potenza.

Ciò non implica che nell'arte l'uomo si abbandoni senza freno ai suoi istinti. Se l'artista non vuol essere inferiore al suo compito, deve dominarsi e raggiungere la sobrietà e la castità. Appunto il suo istinto dominante esige questo da lui e non gli permette di disperdersi in modo da restare inferiore alle esigenze dell'arte (Wille zur Macht, § 367). In generale un certo ascetismo, una rinuncia di buon grado, dura e serena, fa part delle condizioni favorevoli d'una spiritualità superiore (Genealogie der Moral, 3 § 9). "Si riconosce il filosofo, dice Nietzsche (Ib., 3, § 8), da ciò, che egli evita tre cose brillanti e rumorose: la gloria, i principi e le donne, il che non vuol dire che esse non vengano a lui Egli fugge la luce troppo viva:fugge anche il suo tempo e il 'lume' che esso spande. In questo è come un'ombra: più il sole si abbassa, più l'ombra cresce". Ma nulla sembra a Nietzsche così sterile come la formula dell'arte per l'arte e il cosiddetto disinteresse estetico. Egli si richiama al detto di Stendhal che ha definito la bellezza "una promessa di felicità" (Ib., 3, § 6). Il pessimismo artistico è la contropartita esatta del pessimismo morale e religioso. Questo soffre della corruzione dell'uomo e dell'enigma della vita. L'arte invece considera bello anche ciò che l'istinto di impotenza considera come degno di odio, cioè brutto. L'arte accetta ciò che c'è di problematico e di terribile nella vita, essa è la più totale ed entusiastica affermazione della vita. "La profondità dell'artista tragico consiste in ciò che il suo istinto estetico abbraccia le conseguenze lontane e non si arresta alle cose più vicine, afferma l'economia in grande, l'economia che giustifica ciò che è terribile, cattivo e problematico, e on si contenta soltanto di giustificarlo" (Wille zur Macht § 374). Nietzsche ripete qui a suo modo l'idea centrale dell'estetica di Kant: l'arte trasforma con un atto di accettazione la debolezza umana in forza, l'impotenza in potenza, la problematicità in certezza. Ma per Kant l'arte conferma e consolida così la finitudine dell'uomo, della quale è una delle manifestazioni positive fondamentali. Per Nietzsche, l'arte apre all'uomo l'infinito della potenza e dell'esaltazione di sé.

 

L'ETERNO RITORNO

 

"Tu sei il profeta dell'eterno ritorno, questo è il tuo destino", dicono a Zaratustra i suoi animali. E in realtà l'eterno ritorno è la formula semplice e complessiva che abbraccia e riduce ad unità tutti gli aspetti della dottrina di Nietrzsche ed esprime egualmente l destino dell'uomo e quello del mondo. L'eterno ritorno è il che il mondo dice a se stesso, è l'autoaccettazione del mondo, la volontà cosmica di riaffermarsi e di essere se stessa. L'eterno ritorno è l'espressione cosmica di quello spirito dionisiaco che esalta e benedice la vita.

Il mondo si presenta a Nietzsche sfornito di ogni carattere di razionalità. "La condizione generale del mondo è, per tutta l'eternità, il caos, non come assenza di necessità, ma nel senso di una mancanza d'ordine, di struttura, di forma, di bellezza, di saggezza e di quali che siano i nostri estetismi umani" (Die froeliche Wiss., § 109). Il mondo non è perfetto, né bello né nobile e non risponde a nessuna qualifica che possa comunque concernere l'uomo. I nostri giudizi estetici e morali non lo toccano, né esso ha una qualsiasi finalità. Se il divenire del mondo avesse dovuto metter capo  a un termine definito, ad una condizione finale di stabilità, all'essere o al nulla, quel termine definitivo avrebbe già dovuto essere raggiunto; questa è la sola certezza che noi abbiamo intorno al mondo, secondo Nietzsche (Wille zur Macht, * 384). Con ciò è escluso dal mondo ogni carattere razionale: il caso lo domina. "Un po' di ragione, dice Zaratustra, un grano di saggezza disperso di stella in stella, questo lievito è mescolato a tutte la cose; solo a causa della follia, la saggezza è mescolata a tutte le cose. Un po' di saggezza è possibile; ma io ho trovato in tutte le cose questa certezza felice: esse preferiscono danzare sui piedi del caso".

Ma questa esplosione di forze disordinate, questo "mostro di forze senza principio e senza fine", questo mondo, ha in sé una necessità che è la sua volontà: quella di riaffermarsi e perciò di ritornare eternamente su se stesso. Esso "si afferma da sé, anche nella sua uniformità che rimane la stessa nel corso degli anni, si benedice da sé, perché è ciò che deve eternamente ritornare, perché è il divenire che non conosce sazietà, né disgusto, né fatica. Questo mondo dionisiaco dell'eterna creazione di sé e dell'eterna distruzione di sé, non ha altro scopo se non quello della "felicità del circolo"; non ha altra volontà se non quella del circolo che ha la buona volontà di seguire la propria via (Ib., § 385). La necessità del divenire cosmico non è dunque che volontà di riaffermazione. Dall'eternità, il mondo accetta se stesso, e si ripete. L'eterno ritorno è una verità terribile che può distruggere l'uomo o esaltarlo: di fronte ad esso si misura la forza dell'uomo, la sua capacità di superarsi. Il pensiero che questa vita, quale l'abbiamo vissuta, bisognerà riviverla ancora una volta e una quantità innumerevole di volte e che non vi sarà niente di nuovo ed anzi le cose più grandi come quelle più piccole torneranno per noi nella medesima successione e nel medesimo ordine, questo pensiero è tale da gettare nella disperazione l'uomo apparentemente più forte. Eppure non c'è altra alternativa di non chiudere gli occhi di fronte a questa verità sovrumana: l'uomo deve adeguare la soluzione della sua vita all'enigma di Dioniso. Bisogna fare assai di più che sopportare quel pensiero: bisogna, dice Nietzsche, promettere se stesso all'anello degli anelli. Bisogna fare il voto del ritorno di se stesso con l'anello dell'eterna benedizione di sé e dell'eterna  affermazione di sé; bisogna attingere la volontà di volere all'indietro tutto ciò che è già accaduto, di volere in avanti tutto ciò che accadrà (Ib., § 385). Bisogna amare la vita e se stessi al di là di ogni limite, per non poter desiderare altra cosa che questa eterna e suprema conferma (Die froeliche Wiss., § 341). Il mondo offre all'uomo lo specchio in cui deve mirarsi. Lo spirito dionisiaco è lo spirito dell'intero universo, già prima di essere quello che porta l'uomo al superamento di sé.

 

AMOR FATI

 

"La formula per la grandezza dell'uomo, dice Nietzsche, è amor fati; non voler nulla di diverso da quello che è, non nel futuro, non nel passato, non per tutta l'eternità. Non solo sopportare ciò che è necessario, ma amarlo". Questo amore libra l'uomo dalla servitù del passato, giacché per esso ciò che è stato si trasforma in ciò che volevo che fosse. La volontà non può fare in modo che il tempo si muova all'indietro: il passato perciò le si impone  e la rende prigioniera. Di questa prigionia sono espressioni le dottrine per le quali tutto ciò che è passato merita di passare e il tempo esercita sulle cose una giustizia punitiva infallibile. Lo spirito del risentimento presiede a queste dottrine che distaccano l'esistenza dal tempo e vedono nel tempo il castigo e la maledizione dell'esistenza. Zaratustra afferma invece la creatività  della volontà rispetto al tempo. "Tutto ciò che fu è frammento, enigma, caso spaventevole, finché la volontà creatrice aggiunge: così io volevo che fosse, così io voglio che sia, così io vorrò che sia". Per questa accettazione il passato cessa di essere un vincolo della volontà e la volontà comprende il passato nel ciclo della sua potenza.

Nella seconda delle Considerazioni inattuali ("Sull'utilità e l'inconveniente degli studi storici per la vita", 1873) Nietzsche aveva stabilito un antagonismo tra la vita e la storia. Un fenomeno storico, studiato in modo assoluto e completo, è ridotto a fenomeno oggettivo e morto per colui che lo studia perché questi ha riconosciuto la follia, l'ingiustizia, la cieca passione e in generale tutto l'orizzonte oscuro e terrestre del fenomeno stesso. Dall'altro lato, Nietzsche aveva affermato che la vita ha bisogno dei servizi della storia. "La storia appartiene al vivente sotto tre rapporti: gli appartiene perché è attivo e perché aspira; perché conserva e venera; perché soffre e ha bisogno di liberazione. A questa trinità di rapporti corrispondono tre specie di storia e si possono distinguere nello studio della storia un punto di vista monumentale, un punto di vista archeologico e un punto di vista critico". Che i grandi momenti della lotta degli individui formino una sola catena, che le manifestazioni più alte dell'umanità si uniscano attraverso i millenni, che ciò che vi è di più elevato nel passato possa ancora rivivere e grandeggiare, questa è l'idea che è fondamento della storia monumentale. In virtù di questo tipo di storia, l'uomo attivo, il lottatore, trova nel passato i maestri, gli esempi, i consolatori di cui ha bisogno e che il presente gli rifiuta. Attraverso di essa, egli conclude che la grandezza che è stata è stata certamente possibile, perciò sarà ancora possibile nel futuro. La storia archeologica nasce invece quando l'uomo si attarda a considerare nel passato ciò che è stato convenuto e ammirato a suo tempo, al mediocrità costitutiva della vita di ogni giorno. La storia archeologica dà alle condizioni modeste, rudi e anche precarie, in cui si svolge la vita di un uomo o di un popolo, un sentimento di soddisfazione, radicandola al passato, mostrandola come l'erede di una tradizione che la giustifica. Ma per poter vivere, l'uomo ha pure bisogno di rompere col passato, di annientarlo, per rifarsi daccapo e rinnovarsi. A questo serve la storia critica. Essa trascina il passato davanti al tribunale, istruisce severamente un giudizio contro di esso e infine lo condanna. Ogni passato è infatti meritevole della condanna perché sempre nelle cose umane la debolezza e la forza vanno congiunte. Chi condanna non è veramente  la giustizia, ma la vita; tuttavia, il più delle volte, la sentenza sarebbe la stessa se la giustizia in persona l'avesse pronunziata. Al di là di questi servigi che la storia può rendere alla vita, Nietzsche aveva giudicato l'eccesso degli studi storici nocivo alla vita e rovinoso soprattutto per le personalità deboli, cioè non abbastanza vigorose per valutare la storia alla stregua di se stesse e portare quindi a modellare se stesse sul passato. Egli infatti concepiva ancora la vita come una potenza non-storica alla quale la considerazione storica  fosse estranea e subordinata.

L'eterno ritorno e l'amor fati hanno implicitamente mutato questo punto di vista. L'accettazione totale della vita implica, come s'è visto, l'accettazione del passato, la volontà che esso sia così come è stato. Nell'atto di questa accettazione la vita stessa si pone come storicità, e si salda col suo passato, assumendolo volontariamente su di sé.

 

IL SUPERUOMO

 

Se la dottrina dell'eterno ritorno è la formula centrale, cosmica, del filosofare di Nietzsche, quella del superuomo è il suo sbocco finale, la sua parola conclusiva. L'accettazione della vita non è, per Nietzsche, l'accettazione dell'uomo. Questo è il punto messo in chiaro dall'attesa messianica del superuomo bandita da Zaratustra. "L'uomo deve essere superato, dice Zaratustra. Il superuomo è il senso della terra… L'uomo è una corda tesa tra la bestia e il superuomo, una corda sull'abisso. Ciò che vi è di grande nell'uomo è che egli è un ponte e non un termine. Ciò che si può amare nell'uomo è che egli è un passaggio e un tramonto": Il superuomo è l'espressione e l'incarnazione della volontà di potenza. Non sussiste, afferma Zaratustra contro Schopenhauer, una volontà di vita. Ciò che non vive non può volere ma ciò che vive desidera qualcosa di più della vita e alla base di tutte le sue manifestazioni c'è la volontà di potenza. La volontà di potenza determina le nuove valutazioni che sono a fondamento dell'esistenza superumana. L'uomo dev'essere superato: ciò vuol dire che tutti i valori della morale corrente, che è una morale da gregge e tende al livellamento e all'eguaglianza, devono essere trasmutati.

La prima caratteristica del superuomo è la sua libertà di spirito. Egli deve affrancarsi dai legami soliti della vita e rinunciare a tutto ciò che gli altri pregiano; deve riporre la sua soddisfazione nel volare liberamente, senza timore al di sopra degli uomini, dei costumi, delle leggi e degli apprezzamenti tradizionali (Menschliches, Allzumenschliches, § 34). Il suo spirito deve abbandonare ogni fede, ogni desiderio di cerezza e abituarsi a reggersi sulle corde leggere di tutte le possibilità (Die froeliche Wiss., § 347). La sua massima fondamentale è divieni ciò che sei; non già nel senso della concentrazione in una scelta o in un compito unico, ma nel senso della massima differenziazione dagli altri, della chiusura nella propria eccezionalità, della ricerca di una solitudine inaccessibile. La libertà interiore propria del superuomo è una ricchezza di possibilità diverse, tra le quali egli non sceglie, perché vuole dominarle e possederle tutte. Di qui la rinunzia alla certezza, che è invece limitazione e rinunzia alle disparate possibilità dell'errore; di qui pure la profondità del superuomo,l'impossibilità di centrare la sua vita interiore, di cui non si attinge mai altro che la maschera. "Tutto ciò che è profondo, dice Nietzsche (Jenseits von Gut und Böse, § 40), ama mascherarsi; le cose più profonde odiano l'immagine e la somiglianza". Il superuomo ha "fondi e doppi fondi che nessuno giungerebbe a percorrere sino alla fine. Questa essenza misteriosa del superuomo, questo insondabile segreto della sua interiorità, in cui Nietzsche vede il segno della profondità superumana, non è forse l'indice della mancanza di un impegno e di un compito che lo colleghino agli altri uomini e siano quindi umanamente riconciliabili?

Il superuomo è il filosofo dell'avvenire. Gli operai della filosofia, come Kant e Hegel, non sono i veri filosofi. I veri filosofi sono dominatori e legislatori: dicono "così dev'essere", prestabiliscono la mèta dell'uomo e per far ciò utilizzano  i lavori preparatori di tutti gli operai della filosofia e di tutti i dominatori del passato. "Essi spingono nell'avvenire la mano creatrice e tutto ciò che è e fu diventa per loro un mezzo, uno strumento, un martello. Il loro conoscere equivale a creare, il loro creare a legiferare, il loro volere la verità a volere la potenza". (Jenseits, § 211). Essi hanno le loro virtù che non hanno nulla a che fare con quelle degli altri, possono sopportare la verità, l'intera e crudele verità sulla vita e sul mondo; e così possono accettare veramente la vita e il mondo.

 

LA PERSONALITA' IMPOSSIBILE

 

La filosofia di Nietzsche è la filosofia di un grande romantico. La brama dell'infinito è manifesta in ogni suo atteggiamento, in ogni elemento della sua dottrina, in ogni pagina dei suoi scritti. Ma Nietzsche ha voluto raggiungere e realizzare l'infinto per l'uomo e nell'uomo. Ha voluto che l'uomo riassorbisse in se stesso e dominasse l'infinita potenza della vita. Perciò l'accettazione della vita e del mondo non è per Nietzsche l'accettazione dell'uomo come creatura finita; e non si conclude nel tentativo di fondare le positive capacità umane sulla loro stessa limitazione, ma in quello di trasferire nell'uomo l'infinità della vita e l'illimitatezza della sua potenza.

Tale è il contrassegno dello spirito dionisiaco dal quale derivano tutte le caratteristiche dell'atteggiamento e dell'opera di Nietzsche. In primo luogo, deriva da esso la formula cosmica dell'accettazione di sé: l'eterno ritorno. La riaffermazione di sé, da cui nascono la trasmutazione dei valori e il superuomo, non è per Nietzsche cosa specificamente umana. E' la necessità che presiede al divenire del mondo e in virtù della quale il mondo stesso ritorna continuamente sui suoi passi, ripetendo in eterno  le stesse vicende.  Accettando la vita, l'uomo non fa che mirarsi nello specchio del mondo che si riafferma, si esalta, e si benedice da sé. Questa formula generalizzatrice, che  diminuisce il significato originale dell'esistenza umana e la responsabilità della libera riaffermazione dell'uomo, ha un presupposto cosmologico: la credenza (che viene  a Nietzsche da Schopenhauer) nell'identità sostanziale dell'uomo e del mondo e quindi nell'assoluta omogeneità di ogni evento del mondo.

La dottrina di Nietzsche è quindi di carattere cosmologico, non teologico. L'uso di simboli e di procedimenti religiosi, la polemica anti-cristiana che condiziona in qualche modo l'impostazione della sua dottrina e altri sparsi elementi di questa dottrina che hanno fatto pensare a una specie di nostalgia religiosa di Nietzsche o a un suo nuovo annuncio teologico sono in realtà gli aspetti subordinati di un naturalismo cosmologico per il quale l'iniziativa  della nascita  della distruzione del mondo, nella sua eterna vicenda, è dovuta al mondo stesso: cioè  alla volontà di potenza che ne è la natura.

Dall'altro lato questa stessa impostazione cosmologica rende inutile e insignificante la filosofia come ricerca. Il filosofare non è per Nietzsche uno sforzo paziente e metodico che si autodisciplina nella ragione, ma il frutto di una volontà irrazionale, anzi di un'esplosione orgiastica di entusiasmo. Al posto di Socrate, il simbolo della filosofia come ricerca, egli pone Dioniso, il simbolo dell'infinità della vita. La sua opera più significativa, lo Zaratustra, è tutto meno che un libro di indagine: è poesia, profezia, attesa lirica ed entusiastica, e già come tale rivela l'ispirazione del filosofo. La massima Divieni ciò che sei esclude la ricerca di sé: prescrive soltanto un amore di sé portato sino all'esasperazione. Con ciò, l'atto dell'affermazione di sé rinuncia a qualsiasi giustificazione e fondazione autonoma: diventa un crudo fatto che si oppone all'altro fatto della non accettazione di sé, senza che possa pretendere ad alcuna superiorità di valore.

Ma su questi fondamenti, l'unità  della persona è impossibile. L'unità della persona e l'unità di un compito che trascende l'individuo, nel quale l'individuo stesso trova la ragione della sua solidarietà con gli altri uomini. Ogni compito umano è ricerca e lavoro metodico, autolimitazione, riconoscimento del valore e della dignità degli altri. Al di fuori di un compito determinato, nel quale l'uomo concentri e riconduca ad unità la molteplicità dei suoi aspetti e dei suoi rapporti col mondo e con gli altri, l'individuo, l'io, la persona, non sono che vuote generalità, che non possono concretarsi in una sostanza vivente.

Contro questa impossibilità, Nietzsche stesso si è urtato. Il tentativo di divinizzare l'uomo, di trasformarlo da creatura limitata e bisognosa in un essere autosufficiente nel quale la vita realizzasse l'infinito della sua potenza, ha subito lo scacco decisivo della personalità stessa di colui che lo ha compiuto. Per tutta la vita, Nietzsche ha cercato di conquistar i valori che costituivano per lui i contrassegni del superuomo: la buona salute e la forza fisica, la leggerezza di spirito, l'entusiasmo vitale, la ricchezza ed energia interna, la comprensione e l'amicizia degli uguali, il successo del dominatore. Tutto ciò gli fu negato, come gli fu negato da ultimo l'unità e l'equilibrio della sua stessa persona.

La tragica conclusione della sua vita è un insegnamento non meno fecondo delle grandi parole che egli seppe trovare per sottrarre l'uomo all'esistenza banale e restituirgli il senso di eccezionalità, della grandezza e del rischio. Ma l'eccezione, quando è veramente tale, non vuole altro che riportarsi alla regola, ed ogni compito eccezionale esige l'umiltà e la comprensione degli altri. Ogni grandezza è tale nell'uomo e per l'uomo, non è pretesa di superamento dell'uomo stesso. E il rischio è inevitabile nella condizione umana, ma va riconosciuto e affrontato, piuttosto che sfidato o esaltato.

 

 

 

Il pensiero di Nietzsche esposto Fabio Cioffi

 

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filologia e filosofia

 

Quando Friedrich Nietzsche muore il 25 agosto del 1900, ha alle spalle dodici anni di silenzio. In qualche momento tra gli ultimi giorni di dicembre del 1888 e i primi di gennaio dell'anno seguente la sua personalità era scivolata nel buio della follia, una follia da lungo tempo ormai presentita e temuta. La riflessione nietzscheana aveva avuto inizio nei primi anni Settanta, con la pubblicazione della sua prima grande opera: la Nascita della tragedia dallo spirito della musica, del dicembre del 1871. Frutto degli studi classici esercitati in qualità di docente di filologia presso l'università svizzera di Basilea, l'opera manifesta già un interesse spiccatamente filosofico, interesse segnato soprattutto dall'influenza del pensiero di Arthur Schopenhauer. Fin dalla prolusione universitaria del 1869 su Omero e la filologia classica Nietzsche è spinto a rifiutare la "filologia accademica", disciplina per la quale sente di non avere una vera e propria vocazione. Incapace di guardare al passato in modo creativo e vivo, essa gli appare come un tradimento dello spirito più autentico della classicità, ridotta a mero repertorio ossificato di oggetti di studio. Nietzsche contesta, in particolare, l'immagine della grecità di impronta classicista, secondo la quale i greci crearono opere armoniose, misurate, serene perché il loro stesso spirito era armonioso, misurato, sereno. Questa immagine è sbagliata sia perché privilegia una certa epoca della storia greca - il V secolo - e un certo genere di arte - la scultura e l'architettura -, sia soprattutto perché fissa l'antichità nel momento della sua decadenza, quando lo spirito greco ha ormai smarrito pressoché del tutto le "radici vitali" che ne contraddistinguevano le origini; radici di cui rimane invece traccia, a parere di Nietzsche, soprattutto nella musica e nella religione popolare greche.

Al tema della vita, che è il tema-chiave delle opere giovanili nietzscheane, il giovane filologo è guidato dalla filosofia di Schopenhauer, sotto il cui segno può essere iscritta l'intera riflessione della Nascita della tragedia. Nietzsche ha letto Il mondo di Schopenhauer fin dal 1865, quando lo scopre da universitario nella bottega di un vecchio libraio. "Ogni sua riga - scrive in una lettera di quell'anno - proclamava la rinuncia, la negazione, la rassegnazione; vi scorgevo uno specchio in cui apparivano spaventosamente ingranditi il mondo, la vita, l'animo mio [ ... ]. Vi scorgevo malattia e guarigione, esilio e asilo, inferno e paradiso». Da Schopenhauer Nietzsche raccoglie dunque l'immagine di un mondo governato dal principio irrazionale del dolore, rispetto a cui l'esistenza umana, priva di un senso trascendente che sappia darne una spiegazione, non è che un istante transeunte destinato alla morte. Alla noluntas e all'ascesi schopenhaueriane, Nietzsche si sente tuttavia di opporre da sùbito un principio diverso, che accoglie piuttosto la coraggiosa accettazione del dolore quale viene testimoniata dagli eroi della tragedia greca. Egli riprende dunque la concezione schopenhaueriana per cui nel tragico viene in luce il "lato terrificante" dell'esistenza, ma la conduce a esiti diversi dalla disperazione e dalla rassegnazione. La rinuncia a ogni soluzione consolatoria, di ordine metafisico o religioso, non può ai suoi occhi che comportare l'accettazione dell'irrazionalità dell'esistenza, l'amore «per le cose problematiche e terribili» di cui è fatta la vita, l'amore, in definitiva, per la vita stessa.

La lettura che Nietzsche compie della tragedia greca risulta così incrociata con i grandi temi del vitalismo romantico: attraverso una nuova e ardita interpretazione della tragedia, egli supera il pessimismo schopenhaueriano; sulla base della concezione romantica della vita contesta alla radice la visione della grecità di stampo neoclassico winckelmanniano. A conferma di questa impostazione sta l'appassionata lettura delle pagine goetheane, dal cui naturalismo Nietzsche raccoglie in ispecie gli accenti paganeggianti e anticristiani. Di Goethe Nietzsche sottolinea il motivo della celebrazione positiva della vita e la concezione dell'uomo come polo e misura di tutte le cose, che apre il proprio spazio interiore al massimo di sofferenza e al massimo di felicità. La vita, dunque, è volontà, e la volontà è forza espansiva infinita. Che la vita distrugga poi ciò che produce e significhi per l'uomo dolore e crudeltà, non deve spingere a rinunciare alla vita, a volere il nulla: di fronte alla crudeltà della vita bisogna essere più crudeli, occorre rispondere con "più vita". Al tema della vita Nietzsche perviene grazie anche all'influenza della concezione musicale di Richard Wagner. Convertitosi alla metafisica schopenhaueriana, dopo un inizio di segno feuerbachiano, Wagner vede nella musica l'arte dell'interiorità per eccellenza. Essa è la lingua dell'''inesprimibile'', dell'immediato. Specchio della vita elementare dei sensi, la musica è nella sua essenza la forma d'arte più lontana dal concetto. Il concetto blocca la vita nella rappresentazione; la musica supera e spezza i vincoli della ragione e restituisce all'uomo l'esistenza' nella sua originaria dimensione produttiva, creativa. Solo nell'arte musicale, di conseguenza, e in quella forma specifica di esercizio della volontà che è l'esistenza artisticamente vissuta può darsi per l'uomo la possibilità del riscatto e della salvezza. L'adesione entusiasta alle tesi estetiche wagneriane spinge il giovane Nietzsche a vedere nel musicista tedesco il modello di "artista tragico" destinato a rinnovare la cultura del secolo. Con Wagner, a partire dal 1868, Nietzsche stabilisce un intenso quanto contraddittorio sodalizio che si concluderà dieci anni dopo con una rottura drammatica (vedi alla pagina successiva SCHEDA La vita di Nietzsche).

 

spirito apollineo e spirito dionisiaco

 

La filosofia nietzscheana viene dunque formulata per la prima volta attraverso categorie estetiche: l'arte è in grado di spiegare l'essenza del mondo e della vita; a essa deve dunque affidarsi la comprensione filosofica. Secondo un movimento tipicamente romantico, l'arte viene posta al centro: con l'occhio dell'arte il pensatore riesce a vedere il mondo dietro il velo delle apparenze. La filosofia risulta così interpretata con l'ottica dell'artista e l'arte con l'ottica della vita: concezione artistica, filosofia della vita e interpretazione dello spirito greco si saldano in un tutto, in cui la categoria del tragico viene a costituirsi come la dimensione caratteristica della realtà. Interpretando tragicamente l'essenza del mondo, Nietzsche scopre nella tragedia, in quanto opera d'arte, la chiave che apre alla vera comprensione dell'essere: attraverso il tragico si tratta dunque di interrogare il mondo sui suoi enigmi.

Per esprimere la propria concezione estetica Nietzsche ricorre alle figure del mito greco. I greci, scrive, hanno reso comprensibile la propria concezione dell'arte «non in concetti, ma nelle figure energiche e chiare del mondo dei loro dèi, La tesi fondamentale di Nietzsche è la seguente: la tragedia è la massima espressione artistica e culturale della civiltà ellenica perché in essa si incontrano le due grandi forze che animano lo spirito greco, l'apollineo e il dionisiaco. Lo sviluppo dell'arte greca è legato al dualismo di questi due elementi come la procreazione alla duplicità dei sessi. In essi acquista visibilità il contrasto primigenio degli opposti (caos e ordine, nascita e morte, ascesa e decadenza, generazione e corruzione) che è il fondamento ontologico della vita. La duplicità dell'istinto artistico greco si mostra attraverso le maschere di Apollo e Dioniso. Apollo è il dio della luce e della chiarezza, della misura e della forma: l'apollineo simboleggia l'inclinazione plastica, esprime la tensione alla forma perfetta, quale trova espressione nella scultura e nell'architettura greche. Dioniso è il dio della notte e dell'ebbrezza, del caotico e dello smisurato: il dionisiaco simboleggia l'energia istintuale, l'eccesso, il furore. Esso è dunque impulso di liberazione e di abbandono; la sua forma espressiva è la musica, non già tuttavia la musica "rigorosa e frenata" - dominio del plastico Apollo - ma la musica che genera la passione. Nella tragedia, che per questo esprime il culmine della cultura ellenica, apollineo e dionisiaco si fondono nella perfetta sintesi costituita dal canto e dalla danza del coro e dall'azione drammatica.

All'immagine della grecità dipinta dal classicismo, fondata sull'esaltazione dell'armonia e della compostezza, Nietzsche ne contrappone dunque una radicalmente diversa, in cui questi elementi "apollinei" sono in profonda tensione con la dimensione caotica e irrazionale del dionisiaco. E proprio il dioriisiaco che, nell'interpretazione nietzscheana, viene ad assumere un ruolo prevalente. Su un piano più strettamente filologico, infatti, Nietzsche sostiene una tesi sull'origine della tragedia tutta nel segno di Dioniso: la tragedia si forma dal coro dei seguaci mascherati del dio; l'eroe tragico non è che una maschera del dio, del quale ripete le sofferenze; nella morte dell'eroe è Dioniso stesso che muore, per poi nuovamente rinascere. L'importanza di questa interpretazione - discutibile e assai discussa sul piano filologico - è di carattere soprattutto filosofico. L'opposizione che lo scritto nietzscheano incontrò da parte dei filologi classici - celebre la stronca tura di Wilamowitz-Moellendorf, più giovane di Nietzsche di quattro anni e all'epoca solo agli inizi della sua luminosa carriera di filologo accademico - poggia sul malinteso, provocato e condiviso da Nietzsche stesso, che la Nascita della tragedia fosse un vero e proprio libro di filologia, mentre era invece il primo e ancora non compiuto tentativo di esporre una concezione filosofica del mondo.

La sensibilità greca, per Nietzsche, avverte con profondità mai più raggiunta la tragicità della vita e della condizione umana: la limitatezza e la finitudine dell'esistenza individuale, il suo essere momento di un ciclo di vita e di morte sul quale l'uomo non ha alcun potere. Il gioco dialettico di apollineo e dionisiaco, dunque, esprime innanzi tutto il sistema di forze e di impulsi che agisce all'interno di ogni singolo uomo. L'apollineo è l'illusione, il sogno che rende accettabile la vita racchiudendola in forme stabili e armoniche. Nel dionisiaco, invece, si rivela all'uomo tutto l'abisso della sua condizione: la vita erompe qual è, gioco crudele di nascita e di morte. Il dionisiaco è l'esperienza del caos, il perdersi di ogni forma stabile e definita nel flusso ambiguo della vita. In esso vi è dunque il dolore: la tragedia è infatti dolore. Eppure, nello stesso tempo, è anche gioia, perché Dioniso è

forza generatrice, vita che si afIerma continuamente al di là della morte. Nel dionisiaco, l'uomo infrange i divieti e le barriere imposti dalla cultura e, secondo un motivo fondamentale di tutta la filosofia nietzscheana, "dice sì alla vita": si libera cioè dalle illusioni e si accorda con la sua natura, che è forza, vitalità. Ciò è possibile, in particolare, nell'esperienza artistica, durante la quale lo spettatore non vive, come voleva Aristotele, una catarsi, una "purificazione" delle passioni, ma si immerge e si abbandona al flusso di dolore e di gioia che la tragedia fa vivere sulla scena.

 

socrate e la morte della tragedia

 

Nietzsche interpreta come decadenza l'intera storia dell'Occidente, a partire dalla vittoria dello spirito scientifico-socratico sullo spirito musicaledionisiaco della tragedia greca. La tragedia muore infatti per Nietzsche nel momento in cui il pensiero greco, con Socrate, pretende di racchiudere in concetti l'esistenza, imponendo così alla vita il primato della ragione. «La tragedia muore suicida» per mano di Euripide, "maschera" che non rivela più né Apollo né Dioniso, ma un nuovo demone, Socrate. Euripide infatti «porta lo spettatore sulla scena» e trasforma l'azione drammatica in dibattito teorico, riproduce nell'arte la mediocrità del quotidiano abbandonando la profondità religiosa del mito. Con Euripide la tragedia sopravvive così nella sua "forma degenerata", nella quale il mito tragico decade a mera narrazione realistica di vicende razionalmente concatenate. Il realismo euripideo è tuttavia solo una conseguenza dell'ottimismo razionalistico socratico: ciò che risulta messo in scena non è più la "tensione epica", l'''eccitante incertezza", ma la struttura razionale della realtà. Rovesciando la tesi storiografica tradizionale, che vedeva nei presocratici una sorta di "preparazione" al sorgere della grande filosofia socratico-platonica, Nietzsche interpreta dunque l'età di Euripide e di Socrate come un'età di decadenza, in cui la cultura ellenica, che aveva espresso con Eraclito ed Eschilo una straordinaria capacità di cogliere la tragicità dell' essere, perde il suo nesso vitale con il mondo del mito e con la comunità della polis. Si chiude con Socrate l'epoca di Dioniso e il dionisiaco stesso viene espulso dall'orizzonte della cultura occidentale.

All'uomo tragico si sostituisce l'uomo teoretico, che con la potenza della ragione e della scienza si dedica a costruire un imponente mondo di apparenze per affermare il suo dominio tecnico sulla vita. Sospinto da un bisogno di rassicurazione, dall'esigenza di rendere tollerante il disordine della vita, egli aderisce alla mentalità socratica per cui «al giusto non può accadere niente di male» .

Se la tragedia greca è morta con Euripide, il tragico rimane tuttavia la dimensione ineliminabile della vita. Il conflitto fra concezione tragica e concezione teoretica del mondo resiste e sopravvive, secondo Nietzsche, al tentativo, compiuto dal pensiero occidentale da Platone e dal cristianesimo in poi, di costruire filosofie "antitragiche", cioè finalizzate a occultare il tragico che è nelle cose tramite l'ottimistica pretesa di imporre al mondo un ordine razionale oppure mediante l'ipostatizzazione di essenze e strutture metafisiche. Il fallimento di questa pretesa, di cui Nietzsche scorge i primi sintomi nella cultura del suo tempo, può aprire la via a un ritorno della tragedia: una possibilità che il filosofo tedesco, in questa prima fase del suo pensiero, vede rappresentata dal dramma musicale di Wagner. L"'opera totale" wagneriana, in quanto riunisce gesto, parola e musica, è l'opera d'arte completa, all'altezza della tragedia antica. Nell'arte, e in ispecie nella musica, la tragicità dell'esistenza non solo può trovare espressione adeguata, ma può anche venire trasformata in esperienza vitale, ossia nella riappropriazione della gioia e del dolore che sono connessi all'insuperabile contraddittorietà della vita. «Solo come esperienza estetica - afferma Nietzschel'esistenza e il mondo appaiono giustificati».

 

il prospettivismo nietzscheano

 

Il primo periodo della riflessione nietzscheana è determinato in modo essenziale dal rapporto con la filosofia greca. A causa della sua professione di filologo, Nietzsche si occupa ripetuta mente del pensiero antico, in particolare dei presocratici, di Platone, di Diogene Laerzio. Tra il 1872 e il 1875 egli tenta diversi abbozzi di un Libro del filosofo, tra i quali il più notevole è un saggio del 1873, pubblicato postumo, La filosofia nell'età tragica dei Greci. In continuità con le tesi della Nascita della tragedia, in questo scritto Nietzsche postula una frattura sostanziale tra i presocratici e Socrate e Platone. Nel pensiero dei primi vibra a suo parere la comprensione tragica del mondo. Come dunque la tragedia morÌ nel "socratisrno" di Euripide, così la "filosofia tragica" delle origini si spense nella dialettica socraticoplatonica: al pessimismo eroico del pensiero tragico si sostituì l'ottimismo morale della ragione, all'intuizione visionaria e artistica il meccanismo sterile della dialettica delle idee. Nietzsche vede nei primi filosofi i "grandi uomini", le personalità di stampo eccezionale, capaci di rendere manifesto l'ideale di una vita filosofica perfino nei gesti e nel modo di vestire. Nelle loro dottrine egli scorge il modello dell'atto creativo del sapiente che applica il suo sommo diritto a dare le leggi di ogni cosa. Essi sono i guaritori e i purificatori della cultura greca. In Eraclito, soprattutto, Nietzsche crede di individuare la radice del suo stesso pensiero: il primato del divenire sull'essere, il flusso del tempo come dimensione veritiera della realtà, l'unità degli opposti sono i motivi eraclitei nei quali egli vede anticipata la propria concezione dell'unità conflittuale di apollineo e dionisiaco. Nel frammento del pensatore greco che dice «Il tempo è un fanciullo che gioca a dadi col mondo» egli ritrova la sua stessa intuizione dell'sinnocenza del divenire» e vede confermata la propria concezione estetica della vita e del mondo.

Dell'estate del 1873 è lo scritto, anch'esso postumo, Su verità e menzogna in senso extramorale, nel quale Nietzsche sviluppa una critica al concetto scientifico e positivistico di verità che anticipa con grande originalità alcuni temi della critica novecentesca. Nietzsche afferma che il linguaggio è una convenzione la cui essenza non è quella di rappresentare la natura delle cose. Esso è un sistema di metafore, liberamente prodotto come altri sistemi di metafore, e pertanto non va inteso come l'unico modo corretto e valido di descrivere il mondo. Nietzsche si muove qui sul terreno indicato dagli antichi sofisti: dà Protagora - secondo il quale l'uomo è misura di tutte le cose - e da Gorgia - per cui il reale stesso non è altro che il proliferare di immagini che il linguaggio produce a scopo persuasivo. Ciò che chiamiamo "verità", di conseguenza, è solo un «gioco di dadi" concettuale che si determina nelle infinite interpretazioni del mondo prodotte dall'intelletto umano. Essa è solo il provvisorio configurarsi di determinate opinioni e concezioni, risultato del prevalere a livello individuale e collettivo di determinati criteri, interessi, rapporti di forza. Come già nella Nascita della tragedia, all'uomo "teoretico", il quale crede che i concetti siano l'essenza stessa delle cose, Nietzsche contrappone anche qui l'artista creatore e forgiatore di immagini, che non è guidato «dai concetti, ma dalle intuizioni »,

Attraverso questo ordine di considerazioni emerge in nuce uno dei temi decisivi del pensiero nietzscheano, il tema del prospettùnsmo. Si tratta di una concezione che riceverà una trattazione più matura soprattutto nelle opere nietzscheane dell'ultimo periodo; è tuttavia utile anticipare già qui alcuni dei suoi caratteri, poiché esso costituisce uno dei motivi conduttori di tutta la riflessione del filosofo di Roecken. Contro il mito positivistico della scienza obiettiva in quanto scienza di fatti, il prospettivismo afferma che «non ci sono fatti, bensÌ solo interpretazioni». Non esistono né verità, né falsità. ma solo prospettive differenti sulla realtà. Il conoscere, di conseguenza, è un conoscere prospettico «al di là del vero e del falso», in cui tutte le "verità" prodotte si equivalgono, giacché nessun criterio oggettivo può essere invocato per preferirne una o un'altra. Il mondo, nella sua qualità polimorfa, incerta e mutevole. è solo il risultato dei giochi prospettici che vi operano; la vita stessa non è altro che gioco e scontro di forze e di prospettive (quelle che il Nietzsche maturo chiamerà le "volontà di potenza"). Non esiste dunque conoscenza al di fuori della pluralità dei punti di vista che gli uomini aprono sul mondo: conoscere significa sempre valutare, ossia organizzare la realtà secondo il prospettivismo dei valori attraverso i quali ciascun uomo esprime la singolarità della propria esistenza. Sono i valori a stabilire ciò che «viene tenuto per vero»; e dal momento che il principio del valore è "l'utilità per la vita", il concetto di verità ha alla fine un fondamento che è vitalistico e pragmatico insieme.

Nietzsche giunge così a mettere radicalmente in questione i tradizionali concetti di soggetto e di coscienza. Interno al gioco delle interpretazioni. il soggetto è esso stesso semplicemente una posizione prospettica tra le altre, un "effetto di superficie" privo di quei caratteri di unità e di ultimità che la filosofia ci ha trasmesso, da Cartesio a Kant. Riprendendo un tema già spinoziano e Ieibniziano, Nietzsche sottolinea che ogni rappresentazione del soggetto deriva da un conatus o appetitus di quest'ultimo nei confronti dell'oggetto; poiché tuttavia questo tendere si radica in ultima analisi nella stessa biologia del soggetto, la rappresentazione non è necessariamente accompagnata dalla coscienza, la quale è anzi un suo accidens, una concomitanza non necessaria. Il soggetto, di conseguenza, non è un io autocosciente e trasparente, come vuole la tradizione razionalistica e idealistica. ma un complesso conflittuale di "centri di forza" senzienti e attivi secondo una loro propria istintualità. L'io autocosciente è una "piccola ragione" di fronte alla "grande ragione" del corpo, che è una multiforme attività di rappresentazione e appetizione di cui la coscienza non percepisce che una minima parte.

 

critica della cultura ed elogio del genio

 

I temi che abbiamo visto emergere in maniera cosÌ prepotente nella Nascita della tragedia si arricchiscono di nuove suggestioni, tra il 1873 e il 1876, con la pubblicazione delle quattro Considerazioni inattuali. La direzione in cui muove il pensiero di Nietzsche è ora quella della critica della cultura. Il progetto di una rinascita della cultura tragica, di cui sono auspicio i suoi scritti giovanili, spinge la riflessione nietzscheana verso la critica della civiltà occidentale. L'obiettivo del filosofo tedesco non è tuttavia quello della fondazione di una cultura "diversa", di cui egli non vede né l'attualità, né la necessità. Egli non delinea affatto un progetto di civiltà alternativo alla società decadente della sua epoca, né intende auspicare per il futuro un rinnovato e più integrato rapporto fra l'uomo di cultura e il suo tempo.

La prospettiva nietzscheana è piuttosto quella di fare appello alle forze sane e creative della cultura, le quali, dentro la civiltà, sappiano interpretare un momento potentemente "critico". L"'artista wagneriano" e il "filosofo schopenhaueriano" sono per Nietzsche - come sappiamo - i protagonisti della rinascita della cultura tragica nel mondo attuale. Nella Nascita della tragedia, Nietzsche aveva enunciato la sua concezione del mondo, rappresentando la grecità dell"'età tragica" nel suo fondamento mitico, nella sua energia creativa, nella totalità del suo stile artistico quale risulta rappresentata nell'opera d'arte tragica. Ora questa concezione diventa l'unità di misura per una diagnosi radicale della cultura del suo tempo.

La prima Inattuale, David Strauss, l'uomo di fede e lo scrittore, ha il carattere di un'aspra invettiva contro un uomo che pure aveva incarnato uno dei suoi miti giovanili e il cui pensiero viene invece ora liquidato come uno «svergognato ottimismo da filisteo». La Vita di Gesù di Strauss - l'opera che nel 1835 aveva aperto la strada alla cosiddetta "teologia liberale" - era stata una delle letture preferite da Nietzsche negli anni dell'università: in essa egli aveva visto l'esercizio di uno spirito libero dalla superstizione e dall'oscurantismo religioso. Possiamo comprendere il mutamento di giudizio da parte di Nietzsche solo riferendoci all'occasione che motiva lo scritto. L'opera viene composta nella primavera del 1873 - su incarico di Wagner, il quale aveva un vecchio conto da regolare con il teologo liberale - per stroncare il nuovo libro di Strauss dal titolo L'antica e la nuova fede, in cui l'autore avvicinava la propria prospettiva alle vedute ateistiche del positivismo evoluzionistico. A Nietzsche questa operazione appare un tradimento della libertà di pensiero; di qui il suo violento attacco.

Sarebbe tuttavia errato ridurre la prima Inattuale a un mero scritto su commissione. In Ecce homo, Nietzsche dirà retrospettivamente della sua opera giovanile: «Non attacco mai persone, mi servo della persona come di una forte lente di ingrandimento, con cui si può rendere visibile una crisi generale». Dietro all'attacco al teologo "filisteo" sta dunque il violento disprezzo per la nuova cultura tedesca, figlia della fondazione del Reich e succube della ragione e del progresso, cultura che gli appare «senza senso, senza sostanza, senza scopo».

Più intensa e meditata è la riflessione che Nietzsche esercita nella seconda Inattuale, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, del 1874, dove la critica si concentra sulla storia. «Inattuale è questa considerazione - scrive il filosofo tedesco - perché cerco di intendere qui come danno, colpa e difetto dell'epoca qualcosa di cui l'epoca va a buon diritto fiera, la sua formazione storica». Di qui l'enunciazione della tesi dell'opera: «Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia: ma c'è un modo di coltivare la storia e una valutazione di essa, in cui la vita intristisce e degenera».

Dopo aver criticato, nelle pagine della Nascita della tragedia, l'ottimismo scientistico, ora Nietzsche prende a bersaglio un altro dei tratti dominanti della cultura ottocentesca, lo storicismo, non solo e non tanto nella sua forma hegeliana, quanto come espressione di quella mentalità storicistica che, a suo parere, è tipica dell'educazione del tempo. L'intero Ottocento soffre di una «malattia storica», i cui sintomi sono l'eccessivo legame con il passato e l'atrofizzazione di ciò che in ogni cultura è l'elemento creativo e attivo. L'eccesso di senso storico diventa così il segno della decadenza: gli uomini si riducono a vivere solo nel passato, senza più stimoli a creare "nuova storia", spettatori rassegnati del corso inarrestabile degli eventi. Quando un uomo, un popolo o una civiltà intera sono dominati dalla mentalità storiografica insorge in essi la convinzione che niente di nuovo possa mai esserci sotto il sole e che tutto sia già stato deciso: viene meno la convinzione che abbia senso impegnarsi a costruire ciò che in un futuro prossimo si pensa sia destinato a scomparire nel fluire inarrestabile delle cose. Come un semplice punto su una linea, costituito interamente dalla sua relazione con il passato e con il futuro, l'uomo cessa in questo modo di essere protagonista del presente.

Questa "saturazione di storia" è in particolare pericolosa per la vita. La personalità dell'uomo ne risulta infatti indebolita. L'enorme sviluppo di conoscenze storiche che si è realizzato nel secolo XIX ha dato all'individuo più cultura di quanta egli riesca a digerire; trasformati in «enciclopedie ambulanti» riempite di «epoche, costumi, arti, filosofie, religioni», noi uomini moderni «non caviamo niente da noi stessi», perdiamo il contatto con la nostra interiorità, indossiamo l'abito logoro delle convenzioni e dell'imitazione, abbracciamo una cultura ormai solo riproduttiva. In questa «mancanza di stile» sta la decadenza dell'uomo occidentale, ridotto dal suo eccesso di coscienza storica a passivo spettatore degli eventi. L'uomo moderno - scrive Nietzsche, lucido premonitore della società di massa del XX secolo - «si fa preparare dai suoi artisti della storia la festa di un'esposizione universale [ .. .]. Ancora non è finita la guerra, e già essa è convertita in carta stampata in centomila copie, già viene presentata come nuovissimo stimolante al palato estenuato dei bramosi di storia».

Per combattere la «malattia storica», Nietzsche reclama la possibilità di vivere e di agire in modo «non storico». La vita ha bisogno di «oblio»; l'uomo deve imparare "l'arte del dimenticare», così da poter agire secondo quel certo grado di incoscienza, senza il quale non c'è felicità, non c'è grandezza ma solo paura. n motivo qui è pienamente romantico: «chi non sa fissarsi sulla soglia dell'attimo dimenticando tutto il passato - scrive - non saprà mai che cosa sia la felicità». E ancora una volta, Nietzsche fa appello all'arte come a quella potenza sovrastorica che è in grado di guarire la civiltà dalla decadenza orientandola verso l'eterno. Ciò non significa tuttavia che la conoscenza del passato non abbia alcuna utilità per la vita e che non sia possibile instaurare un rapporto vitale e produttivo con il proprio passato. Anzi, «ciò che non è storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo e di una civiltà», purché la storia sia al servizio della vita e non si erga al contrario come "scienza pura", avida solo di sapere. Nietzsche distingue tre modi fondamentali di porsi in un rapporto non dannoso con la storia, i quali a loro volta danno luogo a tre forme positive di storiografia: la storiografia monumentole, quella antiquaria e quella critica. Ognuna di queste forme presenta dei limiti e dei rischi, i quali tuttavia vengono compensati dalle due forme rimanenti.

 

La storiografia monumentale corrisponde all'atteggiamento di chi è attivo e ha aspirazioni e, come tale, si proietta nel futuro. Essa occorre all'individuo potente che combatte grandi battaglie, che ha bisogno di modelli e di maestri e che non può trovarli nel presente. La meta di costui è la felicità propria e dell'umanità intera, per la quale non lo attende nessuna ricompensa se non la gloria. A quest'uomo la storia serve come mezzo contro la rassegnazione: dai grandi momenti della storia passata egli deduce che «la grandezza fu comunque una volta possibile e perciò anche sarà possibile un'altra volta». n rischio al quale soggiace la storiografia monumentale è tuttavia quello di falsare il passato, di mitizzarlo per renderlo degno di imitazione. Essa, in questo caso, inganna e seduce, eccitando il coraggioso alla temerarietà e l'entusiasta al fanatismo.

Se l'uomo vuol creare cose grandi si impossessa del passato per mezzo della storiografia monumentale, chi invece ama perseverare nella tradizione coltiva

il passato come uno storico antiquario. La storiografia antiquaria appartiene a

una specie umana conservatrice e veneratrice, la quale ha cura delle proprie origini e assume la tutela della tradizione come compito. Vita è per gli uomini di questo tipo essenzialmente memoria e fedeltà. Carichi di questa pietà essi pagano il debito di riconoscenza per la propria esistenza. Guardando oltre la propria caduca esistenza individuale, essi ritrovano se stessi nella città e nella stirpe a cui appartengono. Il loro scopo è servire la vita, preservando le condizioni in cui sono nati per coloro che verranno dopo di loro. Il limite di questo atteggiamento è quello di servire la storia passata fino al punto di mummificare la vita. La storiografia antiquaria degenera nel momento in cui inaridisce il presente e si mostra incapace di generare il nuovo. Chi al contrario «soffre e ha bisogno di liberazione» è indotto, per poter vivere, a gettar via da sé il passato che avverte come peso. Molto spesso dunque l'uomo ha bisogno anche di un terzo modo di considerare il passato, quello critico. La storiografia critica esprime un atteggiamento aperto al presente, in grado di assumerlo come unità di misura per giudicare il passato, trascinando per così dire la storia passata dinanzi al tribunale del presente. E tuttavia - osserva Nietzsche - noi siamo sempre i figli del nostro passato, anche dei suoi errori e dei suoi traviamenti: staccarsi dal passato è dunque sempre un processo pericoloso, pericoloso per la vita stessa. «Uomini o tempi che servono la vita a questo modo, giudicando e annientando un passato, sono sempre uomini e tempi pericolosi». Solo se la vita sa porsi grandi compiti, conclude Nietzsche, ha ancora un senso guardare nel passato. Solo chi esprime una potente volontà di futuro sa scoprire il futuro che vive nel passato stesso. Se il progetto per il futuro viene a crollare, allora tutto il sapere storico diventa un peso morto, anzi un pericolo per la vita: l'uomo imparerà dalla storia solo la rassegnazione e la vita stessa, svuotata da impulsi creativi, si rifugerà nel passato ossia nell'illusoria pienezza di una vita già vissuta.

La terza e la quarta Inattuale, Schopenhauer come educatore (1874) e Richard Wagner e Bayreuth (1875), rappresentano l'ultimo compiuto omaggio agli uomini che Nietzsche ha fin qui venerato appassionatamente. Schopenhauer è la figura esemplare di maestro ed educatore, che ha perseguito un ideale di filosofia come denuncia del conformismo e come ricerca della libertà. Wagner incarna la figura del "redentore", colui che sa indicare all'uomo la via della sola verità possibile, quella che rinasce dalle ceneri della catastrofe, come indica la grandiosa parabola epico-musicale wagneriana dell'Anello del Nibelungo. Nello scritto su Schopenhauer, in particolare, sviluppando una concezione già presente nella Nascita della tragedia, Nietzsche vagheggia un progetto di rinascita della cultura che ha per protagonista la figura ascetico-eroica del "filosofo". Mentre "l'uomo di Goethe" è ancora l'uomo contemplativo che, viaggiatore del mondo, «raccoglie per il suo nutrimento tutto ciò che di grande e memorabile» la vita produce, "l'uomo di Schopenhauer" è il devoto ricercatore della verità: egli possiede l"'intuizione del tutto" e la sua saggezza assume la forma di una «grande illuminazione sull'esistenza». Come l'uomo goetheano, egli si sforza di "conoscere tutto", ma per un doloroso amore per il vero che lo costringe anche a sacrificare se stesso.

Nietzsche disegna così l'idea del Genio come strumento essenziale di una cultura non ancora presente - giacché il Genio si comporta sempre in modo "inattuale" - ma futura; idea che egli ora vede incarnata nei due "eroi" della sua giovinezza. E chiaro che questa esaltazione del genio acquista maggiore consistenza se collegata alla concezione tragica del mondo che ne costituisce tuttora lo sfondo. La filosofia di Nietzsche è ancora governata dall'impostazione della Nascita della tragedia e dalla concezione "grecizzante" dell'uomo che vi aveva trovato espressione: l'uomo, in quanto sapiente, artista che inventa e produce cultura, è investito di una missione cosmica che ne determina il destino. Consacrato alla verità, ossia all'intuizione dell'essenza tragica della vita, il Genio è strumento di una finalità sovrumana, è esso stesso la manifestazione del destino. In questa sorta di divinizzazione del Genio e nell'elogio del "grande uomo" che ne segue troviamo il primo abbozzo della concezione nietzscheana del "superuomo" (Uebermensch). Con ciò abbiamo toccato dunque uno dei motivi fondamentali della filosofia nietzscheana. A questo proposito, Eugen Fink - uno dei più acuti interpreti di Nietzsche - ha tuttavia osservato come l'idea nietzscheana di uomo sia già segnata qui da una radicale ambiguità: -Nietzsche oscilla - scrive Fink - tra una concezione che rimane nel puramente umano, in cui distingue gli estremi del genio e dell'uomo-gregge, e una più profonda interpretazione dell'umanità, che va al di là di ogni umanesimo, e concepisce l'uomo secondo la sua missione cosmica, che è quella di essere il depositario della verità».

 

il tramonto dei miti giovanili

 

Nel maggio del 1879, il manifestarsi in forme sempre più acute della malattia che lo porterà alla follia costringe Nietzsche a lasciare definitivamente l'insegnamento di filologia classica a Basilea. Vivendo di una modesta pensione, il filosofo dà ora inizio a quelle incessanti e sempre più sofferte peregrinazioni attraverso l'Italia, la riviera francese e le valli svizzere che segneranno la sua esistenza, di qui in avanti, fino allo spegnersi della sua mente nelle drammatiche giornate torinesi del Natale del 1888. Già nel 1876-77, l'insegnamento di Nietzsche si era tuttavia sostanzialmente interrotto e il filosofo tedesco aveva soggiornato a lungo a Sorrento ospite dell'amica Malwida von Meysenburg. Sono di questi anni gli abbozzi di una nuova opera che uscirà nel 1878 con il titolo di Umano troppo umano, sottotitolo Un libro per spiriti liberi. A partire da quest'opera Nietzsche muta il corso della propria riflessione, cambia l'orizzonte dei propri interessi. Significativamente, si trasforma anche il linguaggio attraverso cui egli dà corso alle proprie riflessioni: alle forme del saggio, della dissertazione, subentra la scrittura franta e a lampi della composizione aforistica. Lo stile si fa più aggressivo e polemico; il tono è ora spesso quello dell'invettiva, ironica e tagliente.

A lungo gli studiosi si sono interrogati se si sia davanti a un cambiamento radicale, a un "secondo periodo" del filosofo, oppure se si tratti piuttosto di una sostanziale evoluzione di motivi e di interessi, ancorché segnata da brusche novità. Non c'è dubbio che, da un punto di vista biografico, il periodo che si inaugura con Umano troppo umano è segnato dalla rottura insanabile con gli "eroi" della propria giovinezza, dal distacco interiore da Wagner e da Schopenhauer. Esso avviene di colpo: sembra che il filosofo 'rinneghi improvvisamente ciò che aveva amato e bruci quegli idoli nel nome dei quali aveva fin qui pensato e scritto. Come scrive Fink, Nietzsche si sveglia dal sogno romantico «e una più fresca, più fredda aria lo avvolge»: si libera dalla metafisica schopenhaueriana e dalla divinizzazione wagneriana dell'arte e cerca una nuova e più propria espressione. In realtà - come si è detto - già nella Nascita della tragedia Nietzsche non aveva condiviso il pessimismo di Schopenhauer.

L'esperienza non del tutto riuscita del Feltspielhaus di Bayreuth, che Wagner realizza nel 1876, come centro di diffusione della propria opera, convince poi Nietzsche dell'irrealizzabilità di un progetto di rinascita della cultura tragica fondata sul dramma musicale wagneriano. L'anno seguente, quando Nietz-

sche viene a conoscenza del progetto wagneriano del Parsifal-l' opera ispirata

alla leggenda del santo Graal, il calice dell'ultima cena, in cui l'epopea romantica dell'Anello del Nibelungo si salda con la prospettiva cristiana della redenzione - l'incontro dell'artista che aveva fin qui esaltato con il cristianesimo gli appare come un tradimento, un segno di debolezza. Scriverà più tardi, in Nietzsche contra Wagner: «All'improvviso Richard Wagner, apparentemente il più ricco di vittorie, in verità un disperato décadent putrefatto, si prosternò, derelitto e a brandelli, dinanzi alla croce cristiana». Sulla rottura con Wagner Umano troppo umano svolge una funzione decisiva nella stessa autobiografia interiore di Nietzsche: in Ecce homo, egli chiamerà il libro «il monumento di una crisi», intendendo che con esso il processo sotterraneo di allontanamento da Wagner si trasforma in una crisi acuta. Quando Nietzsche spedisce l'opera a Wagner, gli giunge "per un miracolo del caso" una copia del Parsifal con la dedica «Al suo fedele amico Friedrich Nietzsche, Richard Wagner, consigliere». «Questo incrociarsi dei due libri - scriverà più tardi Nietzsche - mi sembrò che avesse un suono di presagio. Non suonava come se si fossero incrociate due spade? In ogni modo così lo sentimmo noi: perché entrambi tacemmo». Il distacco da Wagner non si consuma tuttavia solo su un piano biografico e psicologico. Da un punto di vista filosofico, Nietzsche ha smesso di pensare che il rinnovamento della cultura possa avvenire attraverso una sorta di riscatto estetico dell'esistenza.

Decisive, nel determinare i nuovi orientamenti, sono le amicizie che Nietzsche stringe nell'ultimo periodo di Basilea e nei primi mesi delle sue peregrinazioni: il sodalizio con il teologo e storico Franz Overbeck, che rimarrà l'amico più fedele fino ai giorni della follia torinese; il dialogo con Jacob Burckhardt, che aveva già influito sulle tesi della seconda Inattuale; l'incontro con il giovane medico e pensatore Paul Rée, che lo avvicina agli studi di morale e di psicologia. Nuove e più intense sono anche le letture cui Nietzsche si dedica, spinto dal desiderio di formarsi una cultura scientifica (che tuttavia non riuscirà mai ad avere in modo compiuto): trattati di fisica, di antropologia, di paleontologia lamarckiana, storie della chimica, le opere di Boscovich; ma anche i grandi moralisti francesi: Montaigne, La Rochefoucauld, Fontenelle, Pascal. La massa di stimoli e di riflessioni suscitata da queste e da altre letture sfocerà nella mole enorme di frammenti e di aforismi raccolti nelle opere di questi anni: Umano troppo umano (1878) e poi Aurora (1881), Gaia scienza (1882).

 

l'illuminismo di nietzsche

 

Al venir meno dell'ideale di una rinascita della cultura tragica, nelle pagine di queste opere si accompagna la fine di quella concezione "metafisica" dell'arte e del Genio artistico che avevamo visto dominare la Nascita della tragedia. All'arte e alla religione, subentra ora, come via di accesso alla comprensione del mondo, la scienza. Sono l'arte e la religione stesse, anzi, a essere chiamate in giudizio e a non valere più come i modi fondamentali della verità, ma al contrario come quelle illusioni che la critica scientifica deve smascherare. L'arte, in particolare, non viene più vista come la forza che può fare uscire la civiltà moderna dalla sua decadenza: ciò che la rende una forma "superata" dell'educazione dell'umanità (e qui Nietzsche pensa ormai anche all'arte wagneriana) è il fatto che, al contrario dello scienziato, l'artista esprime "una moralità più debole" nei riguardi della conoscenza e della verità. Egli agisce sugli animi solo in forza di un richiamo alle emozioni più mutevoli, riferendosi per di più artificialmente al mondo del passato, ossia a un mondo che non è più il nostro, La sua dunque è una concezione dell'esistenza puramente mitica. A fronte della quale sta la spiritualità più matura espressa dalla cultura scientifica.

Per scienza, tuttavia, Nietzsche non intende né le scienze positrve, ossia l'insieme delle conoscenze e delle verità particolari sul mondo offerte dalle discipline specialistiche del suo tempo, né tantomeno la sottile analisi dei concetti e delle procedure della ragione quale emerge dalla tradizione del pensiero occidentale da Socrate a Hegel. Influenzato da Burckhardt, Nietzsche continua a annoverare questa scienza, calcolistica e oggettivistica, insieme con la cattiva filosofia, tra i "nemici della cultura". Scienza è invece, per il filosofo di Hocken, essenzialmente analisi critica, esercizio del dubbio, diffidenza metodica. Da essa, dunque, Nietzsche non si aspetta tanto un'immagine del mondo più vera di quella offerta dall'arte, quanto un modello di pensiero più spregiudicato e più libero. La scienza può aiutarci a rischiarare il mondo delle nostre rappresentazioni, nonostante tutti gli errori di cui la sua storia, come anche la storia intera degli uomini, è costellata. La lucida consapevolezza dell'ineliminabilità degli errori cui soggiace la scienza marca la distanza tra la concezione nietzscheana della scienza e quella positivistica e fa di Nietzsche un lucido anticipatore della tematica epistemologica novecentesca. Ciò che rende l'arte diversa dalla scienza non è dunque la maggiore oggettività di quest'ultima. Sotto un certo rispetto, anzi, come ha osservato Gianni Vattimo, arte e scienza sono intesi, nelle opere di questo periodo, come «complementari nel definire un atteggiamento maturo dell'uomo nei confronti del mondo».

Delle figure che fino alle Considerazioni inattuali Nietzsche indicava come i "redentori" rimane ora in primo piano solo quella del buon filosofo, il cui metodo - in analogia con quello dello scienziato - è critico e storico. Critico perché egli assume il sospetto a criterio di analisi anche delle verità apparentemente più certe; storico nel senso che egli non crede a "realtà eterne" e "verità assolute", ma concepisce l'uomo e i suoi valori come un risultato delle circostanze storiche e del gioco delle forze che operano al suo interno. Nietzsche diventa così "illuminista": dedica perfino a Voltaire - «uno dei più grandi liberatori dello spirito» -la prima edizione di Umano troppo umano. Della filosofia settecentesca egli apprezza l'elemento del disincanto e la riduzione delle forme di vita alle loro basi sensistiche, più di tutte al piacere (tratto che ritrova in uno dei suoi poeti preferiti, Leopardi); rifiuta invece l'enciclopedismo, che anticipa l'aborrito sistema positivistico del suo tempo. Si fa ora avanti in Nietzsche l'interesse per l'antropologia: tutti gli interrogativi circa il mondo e l'essere si concentrano sull'uomo. Muta, di conseguenza, anche la concezione della vita: non più la vita universale del cosmo, ma la vita dell'uomo, evento biologico di questo mondo.

Di qui il violento attacco che Nietzsche rivolge al concetto di "trascendenza": cattiva filosofia è quella che "duplica" il mondo, immaginando idealisticamente una realtà in sé, dietro ai fenomeni. Tutto si risolve al contrario nell'apparenza e nulla, neanche la scienza, può condurci alla cosa in sé, di cui sognava Schopenhauer, che «è degna di un'omerica risata». Il cosiddetto "sovrumano" è in realtà solo un'illusione "troppo umana"; la credenza in una cosa in sé, al di là della realtà fenomenica, è solo un errore della ragione, che non può avere pretese di verità. Le ipotesi metafisiche, così come quelle religiose, sono il frutto di un inganno cui l'uomo volontariamente soggiace. Bugia cui l'uomo si appella per tollerare la propria caducità e la propria debolezza, per vagheggiare un significato infinito della propria esistenza, la metafisica «tratta degli errori fondamentali dell'uomo come se fossero verità fondamentali •. Giustificabile forse nello stato d'animo romantico tipico dell'età giovanile, che allevia lo scontento di sé riconoscendosi nel "mistero del mondo", essa ha un valore puramente consolatorio. L'esito di questa svolta metodologica è l'analisi spietata della cultura dell'età moderna, di cui Nietzsche annuncia lo stato di malattia. I grandi modelli culturali ottocenteschi, da questo punto di vista, non sono altro che «raffinati imbrogli»: il Romanticismo, perché espressione di uno spirito pessimista, estetizzante e decadente; l'idealismo, perché pretende assurdamente di realizzare una comprensione totalizzante e definitiva della realtà; il positivismo, infine, in quanto ingenuo ottimismo che riduce la scienza a sistema.

Il campo nel quale Nietzsche mette alla prova la propria "filosofia critica" è ora quello della morale, la quale assoggetta la vita a valori pretesi trascendenti, che hanno invece la loro radice nella vita stessa. Mentre la vita è esplosione di forme, i valori morali bloccano l'esistenza, iscrivendola nella cifra della trascendenza; quindi negano la vita. Ciò di cui vi è bisogno, a suo parere, è una nuova «chimica delle idee e dei sentimenti», come suona il titolo del primo aforisma di Umano troppo umano. Occorre ricondurre la filosofia «alla stessa forma interrogativa di duemila anni fa», quando i filosofi greci delle origini, prima dell'avvento della metafisica, chiedendosi come può nascere una cosa dal suo contrario, cercavano gli elementi semplici delle cose, e di queste ultime scoprivano la natura analizzandone la composizione. La metafisica, affermatasi nella tradizione occidentale, ha negato che le cose derivassero dal loro opposto e ha affermato che le idee e i valori del mondo non potevano che avere un'origine "superiore", ossia provenire "dall'alto", da Dio o da una misteriosa cosa in sé. Nietzsche, al contrario, disseziona i grandi sentimenti dell'umanità, li smaschera come illusioni, ne riafferma la radice non alta e trascendente ma "umana", «bassa e perfino spregevole». Scriverà in Ecce homo: «Dove voi vedete le cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane». Dietro a ogni ideale viene così scoperto il suo opposto: l'altruismo maschera l'egoismo, la verità l'impulso alla falsificazione, la santità la bramosia di vendetta. L'uomo agisce in quanto spinto dall'istinto di conservazione e dall'intenzione di procurarsi il piacere e di evitare il dolore. Anche la volontà di sapere che lo anima, lungi dall'essere pura e disinteressata, ha dietro di sé la vita stessa, che è per essenza scontro di forze, lotta per la sopravvivenza.

A partire da questi princìpi semplici è possibile per Nietzsche ricostruire i molteplici processi che hanno portato alla nascita del mondo morale, con tutti i suoi pregiudizi, tutte le sue astuzie, le sue finzioni. Se nel suo periodo giovanile il sentimento esistenziale più alto era stato il sentimento tragico, ora Nietzsche vagheggia un ideale di umanità libera dalle illusioni, in cui l'uomo abbia la forza di riconoscersi in modo autentico. Protagonista di questa riforma morale non è più il Genio artistico, bensì lo "spirito libero" (Freigeist). Lo spirito libero è superiore al libero pensatore del Settecento, perché non crede ciecamente alla ragione, ma diffida e pone interrogativi. Egli è il grande scettico: non ha soggezione né rispetto verso tutto ciò che gli "spiriti vincolati" accettano e venerano; ha la gaiezza e l'audacia temeraria di chi non indietreggia davanti a nulla; è alla caccia della verità, ma senza illusioni; ha la gelida freddezza del pensiero radicale che "penetra nelle carni della vita». Il suo è un mondo organizzato sul principio della "gaia scienza", libero dall'ignoranza e dalla paura. La sua è l'etica del coraggio e della responsabilità, che appartiene agli uomini artefici del proprio destino, i quali, come Cristoforo Colombo, sanno dire addio al vecchio continente e farsi largo nel nuovo mare. Spiriti liberi sono stati i grandi retori dell'età sofistica, gli uomini forti dell'Umanesimo e del Rinascimento, i "costruttori di storia" come Napoleone; i loro avversari sono gli inventori delle grandi ipocrisie moralistiche: Socrate, Rousseau, e gli uomini asserviti alle società massificate moderne, come Bismarck.

Liberato dai miti wagneriani e schopenhaueriani, attraverso la figura dello spirito libero, Nietzsche mette a fuoco uno dei temi caratterizzanti l'intera sua produzione, la grandezza dell'esistenza: la vita dell'uomo ha valore per i grandi progetti che è capace di esprimere. Tuttavia il Freigeist è solo una figura di passaggio, un viandante verso una meta non ancora chiarita. Lo stesso stato d'animo di Nietzsche è quasi in inquieta e curiosa attesa degli sviluppi di un pensiero ancora in movimento. Leggiamo in Aurora: «E dove dunque vogliamo arrivare? Al di là del mare? Dove ci trascina questa possente avidità, che è più forte di qualsiasi altro desiderio? Perché proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino a oggi tramontati tutti i soli dell'umanità? Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere un'India, ma che fu il nostro destino naufragare nell'infinito». Viandante e spirito libero egli stesso, Nietzsche si trova all' «alba di un mondo disincantato non più coperto da nebbie mistiche e nuvole metafisiche(Fink), alla ricerca di una nuova filosofia del mattino.

 

la filosofia del mattino

 

Con l'immagine della "filosofia del mattino" - che non può non ricordare, per contrasto, quella hegeliana della filosofia come "nottola di Minerva" - Nietzsche abbozza una nuova concezione della condizione umana che successivamente caratterizzerà più nitidamente attraverso le nozioni di "morte di Dio" e di amor fati. Non abbiamo qui a che fare con una vera e propria dottrina, segnata da contenuti teorici positivi. Nelle opere del periodo "illuministico", più ancora che nelle successive, la scrittura aforistica nietzscheana accumula in maniera disordinata materiali e spunti che non si lasciano coordinare in un insieme sistematico. La stessa definizione di spirito libero non è tale da conferire un contenuto dottrinario preciso alla "filosofia del mattino", la quale esprime soprattutto una temperie spirituale e uno stato d'animo rinnovati da cui è segnato, in primo luogo, Nietzsche stesso, il quale attraversa nei mesi invernali del 1882 in cui compone la Gaia scienza, forse per l'ultima volta, un momento di straordinaria serenità interiore.

L'''umanità a venire" che egli ora vagheggia è caratterizzata dal "buon temperamento", da quello stato di convalescenza interiore che è proprio di uno spirito che ha resistito con pazienza all'oppressione e ora giunge all'sesultanza dell'energia che ritorna, della fede nuovamente ridesta, del presentire l'avvenire, con nuove avventure, nuovi mari aperti». Sottratto al dominio della religione, della morale, della metafisica, lo spirito libero può ora intendere la vita come esperimento. Se l'uomo occidentale si è perduto - perché ha posto la sua vita al servizio dei precetti della morale, di un "dietromondo" metafisico, della volontà di Dio - lo spirito libero giunge invece a conquistare la propria esistenza e a riconoscere se stesso come colui che crea e impone i propri valori. Non più in ginocchio e sottomessa sotto "enormi pesi", la sua vita diventa libera: l'infinito a cui essa anela e tende non è più Dio o la legge morale, ma l'umanità stessa.

Se in Umano troppo umano la filosofia nietzscheana esprime ancora solo una scettica liberazione dalle illusioni, in Aurora e più ancora nella Gaia scienza essa si trasforma in una nuova e più lieta annunciazione. La figura dello spirito libero si allontana da quella del freddo e spietato critico e trasmuta sempre più nel tipo d'uomo che rischia e fa esperimenti con la vita, che inventa con coraggio la propria condotta, che gioca con l'incertezza. La sua scienza è "gaia" perché non ha la solenne serietà del concetto; e il suo stato d'animo, come quello di un uomo consapevole all'improvviso della propria libertà, si abbandona all'ebbrezza, alla danza dionisiaca, al gioco. Diffidando delle concezioni generali del mondo, lo spirito libero vive piuttosto alla "superficie" del mondo, volontariamente orfano di ogni metafisica. L'uomo dell'avvenire non smarrisce, tuttavia, il «senso storico». Al contrario, nella sua spiritualità egli non esprime altro che l'intera storia passata dell'umanità assunta «come la propria storia». Avere la forza di portare con sé il passato, sentendosi erede delle conquiste e delle vittorie così come delle perdite e delle sconfitte, del dolore dell'umanità così come della sua gioia: questa è la "felicità" che l'uomo finora non ha mai conosciuto, «la felicità di un dio colmo di potenza e di amore, di lacrime e di riso». Con Aurora e con Gaia scienza - gli scritti del "vomere" - è così seminato il terreno su cui germoglieranno, di lì a poco, i pensieri fondamentali della filosofia di Nietzsche: la morte di Dio, il superuomo, l'eterno ritorno dell'uguale, la volontà di potenza.

 

incipit tragoedia: l'annuncio della morte di dio

 

Nell'aforisma 125 della Gaia scienza l'«uomo folle» annuncia per la prima volta la morte di Dio. «Dove se ne è andato Dio? - gridò - ve lo voglio dire! Siamo stati noi a ucciderlo. [ ... ] Dio è morto!». Ecco dunque la verità tremenda che apre una nuova via alla filosofia nietzscheana. Che cosa significa tuttavia che Dio è morto? E che senso ha annunciare agli uomini la sua morte? Il motivo della morte di Dio non ha, per Nietzsche, alcun significato psicologico: non significa dunque che gli uomini non credono più in Dio; né rappresenta una tesi metafisica circa la non esistenza di Dio. Esso ha piuttosto il valore di una constatazione: non c'è più alcun Dio che ci può salvare; oltre gli uomini sta solo il nulla. Alla lettera, si tratta dunque dell'annuncio di un evento, ancorché terribile, di cui occorre prendere atto. Perché tuttavia Dio muore? Dio muore perché il mondo moderno è investito da una crisi mortale, che ha sprofondato l'umanità nell'angoscia dell'assurdo. Proclamando la morte di Dio, Nietzsche intende dunque riassumere in una formula radicale l'irruzione del nichilismo nel mondo moderno, ossia il fatto che l'insieme degli ideali e dei valori su cui, grazie al cristianesimo, la civiltà europea ha costruito per secoli la propria regola di comportamento tradisce ora il nulla che ne era il fondamento nascosto. Agli occhi di un'umanità che non crede più ai suoi fini e ai suoi valori, così come essi si sono storicamente affermati nell' occidente cristiano, anche il Valore supremo si svalorizza: «Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna».

La morte di Dio è dunque il segno della tragicità del tempo. Con essa la Terra si snatura e l'umanità, orfana, priva del fondamento, corre verso la sua decadenza. Se Dio è morto non ha più senso parlare di morale, di bene e di male, di giusto e di ingiusto. Non ha più senso domandarsi dove l'uomo stia andando e da dove sia venuto. «Non è il nostro un eterno precipitare? - si chiede l'«uomo folle» - Non stiamo forse vagando attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?»

La categoria chiave di questa "nuova scena" della filosofia nietzscheana è ora quella di nichilismo, categoria cui Nietzsche dedicherà di qui in avanti un grande sforzo di analisi (DIZIONARIO Nichilismo). In prima istanza il termine "nichilismo" svolge una funzione diagnostica: esso serve a Nietzsche per designare la condizione pessimistica e passiva di un'umanità per la quale nulla ha più senso. Nell'epoca della crisi dei valori, l'uomo riconosce l'insensatezza del mondo e sviluppa un sentimento di perdita e di dolore, di risentimento e di odio nei confronti della vita. Attraverso questa nozione, Nietzsche matura dunque una nuova posizione che è ontologica e storica al contempo: nel corso della civilizzazione umana la metafisica e la morale hanno via via perduto la loro necessità vitale; dunque l'essere stesso si avvicina al nulla. Se questa è la vita - si chiede tuttavia Nietzsche - quale compito rimane ancora all'uomo, quale senso è concesso al suo abitare la Terra? Nella Gaia scienza, vi si fa solo un cenno: «Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto siano mai state tutte le storie fino a oggi». E il primo accenno a un nichilismo "attivo", di cui tuttavia può essere protagonista solo un uomo superiore, il quale non si accontenta più di assistere alla rovina degli antichi ideali, ma se ne fa personalmente il promotore, preparando - così, in modo distruttivo, l'avvento di una nuova umanità, lo schiudersi di una nuova storia. Si esaurisce, con questo motivo, la "fase illuminista" della ricerca nietzscheana. Il terreno è seminato per la filosofia di Zarathustra.

Annunciata dagli ultimi aforismi della Gaia scienza, la filosofia di Così parlò Zarathustra comincia là dove si era conclusa la "filosofia del mattino". Con quest'opera il pensiero di Nietzsche trova il suo compimento, giunge al suo «grande meriggio». Con essa il filosofo di Hocken trova il linguaggio per i propri pensieri più radicali e percorre senza esitazioni il grande mutamento della sua vita. I tre insegnamenti fondamentali che Zarathustra intende donare agli uomini, la dottrina del Superuomo, quella dell'Eterno ritorno dell'uguale, la Volontà di potenza non giungono tuttavia inaspettati. Non si tratta di un'eruzione improvvisa. Nello' Zarathustra prorompe con violenza solo ciò che scorreva già come una corrente sotterranea in Aurora e in Gaia scienza: se lo spirito libero era l'uomo della vita libera e coraggiosa, del rischio e dell'esperimento, il superuomo, l'uomo dell'eterno ritorno e della volontà di potenza, è la realizzazione estrema dello spirito libero. Analizziamo i tre motivi fondamentali dello Zarathustra.

 

il superuomo

 

Alla folla raccolta sulla piazza del mercato Zarathustra dice: «lo vi insegno il superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. [ ... ] Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete [ ... ] retrocedere alla bestia piuttosto che superare I'uomo?». E aggiunge: «L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo-. Il superuomo nietzscheano, dunque, sta al di là dell'uomo del presente, come quest'ultimo sta attualmente al di là della scimmia. L'uomo superiore è la tappa successiva che l'umanità deve compiere dopo essersi lasciata alle spalle la condizione animale. Queste formule "evoluzionistiche" hanno fatto lungamente discutere. Esse hanno dato luogo, soprattutto nei primi decenni del nostro secolo, a interpretazioni fuorvianti che hanno trasformato il superuomo in una sorta di supereroe darwinianamente privìlegiato, secondo una lettura quantomeno semplicistica. Questa lettura, storicamente avviata dalla sorella di Nietzsche Elisabeth e poi ripresa dal nazismo, interessato a fare del filosofo tedesco un anticipatore della dottrina del primato della razza ariana, è oggi abbandonata. Si fraintenderebbe dunque il significato che in Nietzsche assume l'idea di superuomo se la si prendesse come il cardine di una concezione scientifico-naturalistica di tipo lamarckiano o darwiniano. Allo scopo di fugare errate interpretazioni viziate da precomprensioni di origine ideologica, lo studioso italiano Gianni Vattimo ha utilmente proposto di tradurre il termine tedesco Uebermensch (in cui il prefisso avverbiale ueber significa sia "sopra" sia "oltre") con "oltreuomo", neologismo che consente di marcare con nettezza la differenza tra il tipo di umanità nuova vagheggiata da Nietzsche e una concezione della medesima come puro e

semplice soggetto di potenza e di forza.

Il passaggio dall'uomo al superuomo non è dunque da intendere come un'evoluzione in cui dall'homo sapiens si sviluppa una nuova razza di individui superiori. Ciò trova una conferma nelle obiezioni assai aspre che Nietzsche muove in moltissimi frammenti all'evoluzionismo del suo tempo, inficiato, a suo parere, da una concezione del progresso ingenua e fideistica. Innanzitutto, obietta Nietzsche, sono spesso i deboli, più che i forti, a prevalere nella lotta per la vita; inoltre il lamarckismo esagera l'influenza dell'ambiente nella selezione delle specie. A queste obiezioni Nietzsche unisce la considerazione che, nella società umana, non si è affatto costituita una élite stabile, che costituisca un progresso rispetto alla massa: anzi l'umanità oggi sembra aver subito un processo di regressione, se la si confronta con gli uomini del Rinascimento o con gli antichi Greci. Responsabile di questa ingiustificata fede nel progresso non è tuttavia solo la scienza, ma anche il cristianesimo, con la sua nefasta concezione di Provvidenza, e l'idealismo, specie quello hegeliano, la cui idolatria della storia porta erroneamente a concepire la storia stessa come lo sviluppo vittorioso dei valori moralmente migliori, come la realizzazione razionale del bene e del giusto. Nietzsche constata, al contrario, che ciò che è forte e nobile deve spesso farsi largo e aprirsi un passaggio forzoso nelle maglie della storia. Pur preoccupato di trovare nel passato i precursori individuali o collettivi del superuomo (il popolo greco, l'aristocrazia antico-indiana, lo stesso Napoleone) Nietzsche non intende dunque mai il superuomo come il risultato di una presunta "logica immanente" alla Storia.

Chi è dunque il superuomo? Nello Zarathustra e nelle opere successive, la figura del superuomo oscilla tra quella della "bella individualità" di origine umanistica (gli spiriti forti e liberi) e quella dell'avventuriero, che è spinto da un impulso più distruttivo che costruttivo. Il superuomo dei discorsi di Zarathustra è spesso figura "luminosa": è l'uomo che «dona la virtù», che redime, che vive il meriggio come l'ora della felicità e della compiutezza del mondo. Egli è l"'eroe affermatore" per eccellenza: c'è in lui una disposizione dionisiaca verso la vita che lo pone al centro del mondo animato da un "fatalismo" gioioso e fiducioso; disposizione che è tuttavia temperata da una sorta di pessimismo coraggioso che lo rende in grado di assumere su di sé il peso delle contraddizioni della vita e di non chiudere gli occhi anche di fronte alle verità più orribili. Il superuomo è tuttavia anche colui che pecca di hybris, che ha la tracotanza, l'indifferenza di chi è al di là del bene e del male. E l'uomo insieme del grande amore e del grande disprezzo, spirito creatore, uomo della "grande decisione" che salverà l'umanità dal nichilismo. Del barbaro conserva il vigore e l'intensità degli istinti, che integra tuttavia in un ordine superiore risultato dell' educazione greca alla libertà. Il superuomo, dunque, è senza morale, in quanto "precristiano": contrapposto al crocefisso (simbolo per Nietzsche di sconfitta e di rassegnazione) sta per Nietzsche ancora «Dioniso» che rappresenta, come già nella Nascita della tragedia, l'energia tumultuosa che tutto tramuta in affermazione. Nietzsche sa che il superuomo verrà tacciato di immoralismo; non dubita che «i buoni e i giusti chiamerebbero diavolo il superuomo». Questi virtuosi sono tuttavia incapaci di capire, egli commenta, come all'uomo superiore possano essere concesse la malvagità e l'azione terribile se esse servono a fare del deserto della vita una contrada ubertosa e fertile.

Da queste caratterizzazioni (che abbiamo qui tra scelto all'interno delle numerose note che Nietzsche dedica al tema non solo nello Zarathustra ma anche nelle opere successive e nei Frammenti postumi) il superuomo risulta essenzialmente disegnato come una figura mitica, protagonista letterario di un archetipo del pensiero «per tutti e per nessuno» - come recita il sottotitolo dello Zarathustra - che Nietzsche stesso esita a identificare in questo. e quel personaggio del passato o del presente e che ha più il tratto dell'individuo. cosmico-storico della prosa romantica che i caratteri individuali dell'uomo concretamente possibile.

Su un piano. più strettamente filosofico, il superuo.mo. si caratterizza per la sua "fedeltà alla terra". Poiché Dio. è morto, l'unica realtà è ora la vita terrena. Alla terra dunque la nuova umanità deve far ritorno ed esservi fedele, rifiutando. l'estrema illusione in una speranza sovraterrena: non essendoci pm Dio. infatti no.n esiste più un «mondo dietro il mondo- in cui trovare consolazione al pensiero della morte, Consapevole della perdita dell'al di là, il superuomo riconosce in questo. al di là solo l'utopica immagine riflessa della terra: e alla terra egli si volge con quel fervore e con quel senso. di appartenenza che l'uomo riservava in precedenza al mondo divino, Il legame con la terra è dunque per l'uomo dell'età del nichilismo la grande occasione di guarigione; nella terra, la Grande Madre da cui ebbero. ongme tutte le cose, egli ritrova la sua natura più propria e originaria, Non dunque il superuomo, al posto di Dio., bensì la terra: dove per l'umanità imprigio.nata dalla sua alienazione stava Dio, ora sta la terra: «Un tempo. il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio - dice Zarathustra - peccare contro la terra, questa e oggi la cosa più orribile». Siamo. ora in grado. di definire meglio. i tratti del superuomo. nietzscheano: egli è innanzitutto uomo di questo mondo, che sa dire di sì alla vita, sapendo che non c'è nulla al di là di essa. Si rivela una volta di pm Il fondo dionisiaco, mal abbandonato, della filosofia nietzscheana: la grandezza del superuomo sta nel saper accettare la vita come "transizione e tramonto".

 

l'eterno ritorno dell'uguale

 

La concezione del superuomo. trova nella dottrina dell'eterno ritorno dell'uguale («il più abissale dei miei pensieri») il suo orizzonte definitivo di comprensione. Si tratta del concetto di maggiore difficoltà interpretativa dell'intero pensiero nietzscheano. Nietzsche stesso vi si accosta con timore ed eccitazione tanto. da dare all'esposizione della dottrina, qui più ancora che altrove, un carattere fortemente allusivo. e allegorico, quasi iniziatico. La prima folgorante intuizione dell'eterno ritorno. è dell'agosto. del 1881. Lo. stesso. Nietzsche lo racconta in un passo di Ecce homo: «Camminavo in quel giorno lungo il lago di Silvaplana (nella valle svizzera dell'Engadina) attraverso. i boschi; presso una possente roccia, che si levava in figura di piramide, vicino. a Surlej: mi arrestai. Ed ecco giunse a me quel pensiero. [ ... ]. L'inverno seguente vivevo vicino a Genova, in quell'insenatura graziosa e quieta di Rapallo. [ ... ] la mattina andavo. verso sud, salendo. per la splendida strada di Zoagli, in mezzo ai pini, con l'ampia distesa del mare sotto di me; il pomeriggio facevo Il giro. di tutta la baia di Santa Margherita, arrivando. fin dietro Portofino [ .. .]. Su queste due strade mi venne incontro il tipo. di Zarathustra; più esattamente mi assalì». Il primo testo in cui Nietzsche annuncia l'idea del ritorno è l'aforisma 341 della Gaia scienza. Solo tre anni dopo tuttavia, nel terzo. libro dello. Zarathustra; Nietzsche riesce a dare della dottrina un'esposizione compiuta,

Com'è tipico. del filosofare nietzscheano, il concetto di eterno. ritorno viene presentato. come il risultato. di un'intuizione improvvisa: il tempo non ha fine;

il divenire non ha scopo. Il corso del mondo non è retto da alcun piano provvidenziale teso a inaugurare il regno. di Dio o della morale, il tempo. non procede in modo rettilineo, né verso un fine trascendente (come ha preteso. la tradizione ebraico-cristiana], né verso. una finalità immanente (come ha creduto lo storicismo). L'uomo della cultura occidentale è dunque prigioniero di una errata concezione lineare del tempo secondo cui ogni cosa ha un inizio e una fine, un principio e uno scopo; e tutto tende a una meta, ossia a una stabilizzazione definitiva delle forze agenti nel mondo, rispetto alla quale i momenti del processo sono iscritti in una "grande logica" che li rende transitori e quindi irrilevanti. In questa visione, il passato ci condiziona in quanto irreversibile e il futuro si impone come un evento sempre incombente che ci impedisce di godere del presente. A questa concezione ebraico-cristiana - che intende il tempo scandito da istanti irripetibili: creazione, peccato, redenzione, fine dei tempi - Nietzsche oppone invece una concezione ciclica, ripresa dalla tradizione antica, presocratica e orientale, secondo la quale gli eventi sono destinati eternamente a ripetersi in un tempo circolare. Il mondo risulta dominato, in questa visione, dalla necessità della ripetizione: «tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse, e noi fummo già eterne volte e tutte le cose con noi». Ogni istante vissuto, ogni piacere e ogni dolore, sono già esistiti infinite volte e infinite volte, in eterno, esisteranno. Se tutto ritorna, ogni istante non è né un passo in avanti, né uno indietro, in quanto non vi sono più direzioni prescritte: cade la possibilità di orientarsi nel tempo rispetto a scopi o principi assoluti; si svela così il fondamento ontologico fallace di ogni progetto etico, religioso o metafisico.

Vi è tuttavia il pericolo di interpretare l'eterno ritorno in un senso fatalistico: se ogni istante è destinato a ripetersi, se il tempo non è altro che il fatale ricorrere degli stessi eventi, dobbiamo allora concludere che nella vita nulla accade di nuovo, che la vita stessa, imprigionata nella circolarità del tempo, è inutile così come inutili e vani si rivelano gli atti di volontà degli uomini, che infine anche l'avvento del superuomo è un'illusione priva di senso? La risposta di Nietzsche è negativa. Non basta abbandonarsi alla ciclicità del tempo per sottrarsi al nichilismo e all'angoscia. L'amor fati nietzscheano non è l'accettazione rassegnata delle cose così come esse accadono. Al contrario, l'uomo superiore è proprio colui che volontariamente vuole per sé quella legge universale che gli altri enti (gli animali, le piante, gli stessi uomini inconsapevoli) si limitano a seguire ciecamente; così facendo egli trasforma il caso in una necessità consapevolmente assunta e voluta: -così io volli che fu, così io voglio che sia, così io vorrò che sia». La dottrina nietzscheana dell'eterno ritorno mette capo, in questo modo, a una nuova concezione dell'agire umano. Nella visione lineare del tempo ogni istante acquista significato solo se legato agli altri, che lo precedono e lo seguono; il corso del tempo muove dunque verso un fine che trascende i singoli momenti di cui è costituito. Nella visione nietzscheana invece, ogni momento del tempo, e dunque ogni esistenza singola in ogni suo attimo di vita, possiede tutto intero il suo senso. L'attimo presente può e merita perciò di essere vissuto per se stesso, come se fosse eterno. Quanto nella Nascita della tragedia era compreso sotto la categoria del primato della vita, ora viene espresso in modo più esaustivo sotto la categoria del primato dell'attimo: la vita vince ogni morte, poiché non muore in nessun morire, ma nel morire anzi eternamente torna a vivere; allo stesso modo l'unità dell'attimo riassume e comprende in sé la totalità del tempo, poiché in essa eternamente ritorna la totalità del divenire.

Ecco dunque la prima massima nietzscheana: muovi sempre dall'attimo, dal presente vissuto pienamente, in quanto affidato né al destino, né alla casualità, ma alla decisione, al coraggio, alla volontà. Da cui la seconda massima: vivi questo attimo in modo tale che tu debba desiderare di riviverlo. E chiaro tuttavia che solo un uomo perfettamente felice potrebbe volere l'eterna ripetizione di ogni attimo della propria vita. Ed è altrettanto chiaro che solo in un mondo pensato nella cornice di una temporalità ciclica è possibile una tale piena felicità, giacché in una struttura del tempo rettilinea nessun istante vissuto può realmente avere in sé una pienezza di senso, in quanto tale istante ha senso, come abbiamo visto, solo in funzione degli altri istanti che lo precedono e lo seguono sulla linea del tempo. Non si tratta allora solo di essere capaci di costruire attimi di esistenza così intensi da meritare di essere voluti come eternamente ritornanti, ma anche del fatto che attimi di questo tipo sono possibili solo se l'uomo felice che ne è il protagonista, il superuomo, aderisce alla legge suprema dell'eterno ritorno. L'eterno ritorno può essere voluto solo dal superuomo; ma il superuomo può darsi solo in un mondo ordinato secondo l'eterno ritorno. Diventa in questo modo per la prima volta possibile l'avvento di una nuova e felice umanità, libera di dispiegare la propria creativa volontà di potenza sul mondo.

 

la volontà di potenza

 

Viene così ora in primo piano la nozione di volontà di potenza, come tratto distintivo della nuova condizione di felicità del superuomo. Il termine, che appartiene soprattutto alla produzione posteriore allo Zarathustra, è stato a lungo interpretato sulla base dei significati più immediati di cui si fa portatore, ossia nella sua accezione di potere e quindi di dominio e di violenza sugli altri. Sarebbe errato misconoscere la presenza in Nietzsche di questi significati-. Parimenti, attraverso questo concetto, Nietzsche intende designare però anche quel dominio di sé che già nella "fase illuministica" aveva contrapposto alla violenza barbara, tipica dell'individuo volgare e mediocre. Nietzsche cita, a questo proposito, il brahmanesimo come essenza di un potere nobile fondato sulla padronanza della potenza. "Volontà di potenza" dunque non è la semplice volontà di dominio, pura affermazione sull'altro, né la giustificazione metafisica di un'ideologia di potenza. Come dirà Martin Heidegger, essa è la volontà che vuole se stessa. Di fronte al nulla dei valori, all' assurdità del mondo, alla realtà della sofferenza, essa è la volontà dell'individuo di affermarsi come volontà. La morte di Dio diventa la resurrezione dell'uomo responsabile e padrone del proprio destino, la cui volontà è ora libera di affermare se stessa. Soggetto di volontà di potenza, di conseguenza, è colui che ha la forza per affermare la propria prospettiva del mondo.

La radice del concetto è, ancora una volta, greca. Uno dei temi di cui esso si compone - tema già elaborato nel saggio giovanile del 1871 su L'agone omerico - è quello della "competizione" come principio di organizzazione della vita. Nietzsche contesta l'immagine sbiadita che la tradizione accademica ha dato dell'umanesimo greco. La sua vera natura non sta nell'ottimismo razionalistico di Soerate, né nella omologhia platonica, ossia nella ricerca della convergenza delle vedute tramite il ragionamento dialettico. La bella umanità greca, da tutti ammirata, è segnata per Nietzsche al contrario dal tratto della crudeltà, dal gusto per la distruzione, dalla gioia di vincere. La lezione dei greci è che non esiste vita senza un istinto alla potenza, istinto che l'uomo greco ha imparato a dominare e a rendere creativo. La competizione greca, di cui Omero ha fissato il modello ed Eraclito ha tessuto l'elogio, è la "spiritualizzazione" della lotta primitiva, che nella vita pubblica assume le forme delle gare sportive, dei concorsi di tragedie, dei certami oratori, delle dispute filosofiche.

Una delle determinazioni che più di altre aiuta a delimitare il concetto di volontà di potenza è quella che la intende come tendenza affermativa ed espansiva, come impulso continuo a "oltrepassare se stessi". Si tratta tuttavia di qualcosa di più di una semplice tendenza vitalistica; né va peraltro confusa con il "voler-vivere" di ispirazione schopenhaueriana. Quest'ultimo, per Nietzsehe, è una pseudo-volontà, un volere «sospeso nell'aria». Basata su un'interpretazione pessimistica del mondo, sintomo decadente di malattia dello spirito, la volontà di Schopenhauer ha rinnegato il principio del piacere e cancellato la propria capacità creativa, cercando illusoriamente la libertà dal dolore nell'ascesi. L'esempio più frequente cui Nietzsche ricorre per evocare il protagonista della volontà di potenza è quello dell'artista creatore che costruisce e dà forma alla materia. Ritorna il tema giovanile della "giustificazione estetica" dell'esistenza: qual è l'arte sana, modello di volontà di potenza? Non certo l'arte come catarsi, che ha solo lo scopo di placare le passioni (come accade con la musica wagneriana), né l'arte romantica che crea solo per scontentezza e si dissolve nel sentimentalismo esasperato, nello sfogo momentaneo; bensì, di nuovo, l'arte tragica, che esalta i valori di chi accetta di vivere nell'orizzonte dell'eterno ritorno.

 

la filosofia del "martello": la distruzione della tradizione occidentale

 

Con lo Zarathustra il cammino filosofico di Nietzsche è giunto alla sua meta: il filosofo ha consegnato ai posteri la parte "costruttiva" del suo pensiero. Negli ultimi tre anni prima della follia, egli si dedica febbrilmente a svolgere la parte negativa, distruttiva. Nietzsche ormai intende il proprio compito come una vera e propria missione epocale. Egli si sente chiamato a determinare un mutamento radicale di civiltà, a gettare le fondamenta di una nuova umanità. Il filosofo, scrive in questi anni, deve essere prima di tutto un legislatore, un costruttore di valori, un edificatore di una nuova storia.

La preoccupazione ossessiva con cui egli ora segue la ricezione pubblica dei suoi scritti, la sollecitudine quasi penosa con la quale chiede pareri e recensioni, l'impegno inusitato nelle polemiche, la sofferenza con cui affronta la solitudine in cui ormai vive: tutto ciò si spiega, almeno in parte, con la convinzione - come scrive in un frammento del 1883 - che «non basta annunciare una dottrina: bisogna anche trasformare con la forza gli uomini, in modo che la ricevano». L'assillo di dover assolvere una decisiva funzione pubblica spiega la nuova attenzione che egli ora pone ai temi politici, a lui fin qui sommamente estranei, attenzione che caratterizzerà perfino gli ultimi suoi appunti torinesi immediatamente precedenti la catastrofe. Ritornano due tematiche degli scritti giovanili: l'antistoricismo, che avevamo trovato nella seconda Inattuale, e l'utopia di un rinnovamento generale della civiltà che aveva permeato le pagine della Nascita della tragedia. Nuova è invece la violenza distruttiva della sua critica: se il superuomo deve essere il futuro dell'uomo, allora è necessaria la distruzione inesorabile dell'umanità forgiata dalla tradizione occidentale. La "filosofia del martello" nietzscheana lancia ora l'ultimo e più violento atto d'accusa contro quelli che erano stati già i bersagli delle opere precedenti lo Zarathustra: le «menzogne di vari millenni», la morale, le religioni.

Il XIX secolo appare a Nietzsche come un «XVIII assottigliato, istupidito, tirato terribilmente in lungo»: un "deserto" in cui l'uomo si è definitivamente perduto. Dominati dal militarismo e dal nazionalismo prussiani, dalla prudérie vittoriana, dalla logica perversa della merce e dello scambio, dagli stati forti e burocratizzati, gli uomini dell'Ottocento vivono isteriliti in comportamenti anonimi e ripetitivi. La loro vita risulta preordinata secondo valori individuali e collettivi statici e opprimenti; imprigionati in ambiti di eticità "oggettivi" (la famiglia, la società, lo stato) essi obbediscono in «gregge» al motto del secolo: "compiere il proprio dovere". Incantati dai predicatori del progresso e dell'uguaglianza essi sono vittime del sistema di certezze dell'intelligenza occidentale che induce in loro la paura della responsabilità individuale, il senso di colpa per la propria mancanza di volontà, l'illusione di una redenzione nell'al di là. Con Kant, Rousseau ed Hegel, essi hanno creduto che «il concetto possa prendere il posto della natura»; e di qui hanno imparato ad agire solo «in base a ragionamenti, non a istinti». Per questo motivo il paesaggio della loro vita interiore è abitato solo da dicotomie astratte: virtù-vizio, premio-colpa, altruismo-egoismo. Che ne è della vita in questo vivere? Per Nietzsche, nulla.

L'uomo vive tuttavia protetto dalla morale e dalla religione. Innalzando l'umiltà a valore sommo, la morale è la consolazione dei deboli. Facendo dell'uomo forte l'immorale, essa segna il trionfo della cultura servile. «Circe di tutti i filosofi», la morale è il «sonno della vita» in cui l'uomo vive senza coscienza di sé, prigioniero delle illusioni e dimentico della propria natura libera e creativa. Il sentimento che ne è il fondamento nascosto è il risentimento, che è lo stato d'animo di malafede proprio dell'uomo "schiavo" che non sa accettare la propria impotenza, che non ha la forza di affermarsi trionfante sulle sofferenze della vita. Espressione del risentimento, la morale è pura volontà di vendetta dei sofferenti contro i felici, dei mediocri contro le eccezioni, vendetta che conduce alla negazione della volontà di potenza, cioè al rifiuto della vita stessa: è la degradazione nichilistica del mondo. Gli esempi della morale del risentimento Nietzsche li trova sia nella cultura dell'occidente, da Socrate a Wagner, sia nelle grandi religioni, nel buddhismo, nell'ebraismo e soprattutto nel cristianesimo. Se attraverso la morale i deboli si vendicano dei forti e "fanno i padroni", attraverso la religione cristiana viene loro promesso il premio nel regno dei cieli. La violenta requisitoria antireligiosa, avviata da Nietzsche sin dalle opere giovanili, culmina nell'Anticristo, l'opera degli ultimi mesi dalla sua vita consapevole, in cui il cristianesimo, in quanto fondato sulla repressione degli istinti e sull'aumento del senso di colpa tramite l'angoscia del peccato, viene inteso come la più raffinata tecnica di annientamento della vita che la civiltà abbia saputo produrre. Il cristiano è un «animale malato»: fa della propria debolezza una virtù, proiettando in una illusoria vita oltre la morte il premio per le proprie sofferenze e frustrazioni.

In antitesi alla morale e alla religione, la trasvalutazione dei valori è invece la liberazione della qualità attiva della vita, l'invenzione di nuove forme di esistenza, di nuovi valori. Il suo protagonista - come sappiamo - è il superuomo, che esercita il culto dell'umanità come natura vittoriosa, al di fuori di ogni schema normativo. Alla collettivizzazione della paura, egli risponde con l'individualità del coraggio, propria di chi soffre e resiste, ben lungi dal rimproverare alla vita il suo carattere doloroso. Alla grande ipocrisia, affermatasi con Socrate e Cristo, la quale afferma che non si vive per vincere, ma per far trionfare il bene e la verità, il superuomo risponde che valori e verità nascono solo in base a uno scontro di forze: il mondo è simpatetico se si vince, astioso se si perde. Non ci sono dunque essenze nei valori; essi esistono perché esistono forme di vita vincenti. La morale ha per secoli inventato e imposto valori, come se fossero fondati sulla verità: ha così nascosto il loro essere fondati sulla volontà di potenza di singoli e gruppi.

Quella di Nietzsche è una concezione individualistica e gerarchica, fondata sul

culto della "differenza", della distanza aristocratica dalla massa. Nietzsche detesta

la moderna ideologia egualitaria, che gli sembra l'ostacolo più pericoloso per l'affermazione del superuomo («Tutti molto uguali, molto piccoli, molto tolleranti, molto noiosi»). L'attacco alle dottrine socialiste è esplicito (anche se viene ignorato il nome di Marx che probabilmente Nietzsche non lesse mai). Al socialismo, in particolare, rimprovera l'ottimismo, retaggio del moralismo razionalistico: è questo ottimismo, su cui storicamente si è innestato il provvidenzialismo cristiano, che ispira, a suo parere, le pretese "scientifiche" del socialismo e dà vita agli ideali illusori della giustizia e della felicità di massa, variante moderna della morale del "gregge". Per parte sua, si dichiara invece favorevole a una organizzazione sociale aristocratica, antistatalista, antinazionalista, "europea", il cui compito sia quello di formare una nuova "casta dominante" educata agli ideali del superuomo. L'aristocrazia a cui egli si riferisce non è tuttavia né quella del sangue, né quella del denaro. Non vi è traccia, nel pensiero di Nietzsche, di alcuna delle nozioni razziste, antisemite e pangermaniste, che saranno invece esaltate nel secolo seguente dal nazismo e che già nei suoi anni animavano la condotta politica dei gruppi nazionalisti tedeschi. Il disprezzo per la politica come professione lo conduce a immaginare una "grande politica" i cui artefici sappiano farsi carico dell'avvenire dell'uomo e preparare il regno del superuomo. Sarebbe tuttavia inutile cercare in Nietzsche referenti socio-politici concreti per la realizzazione di tale "grande politica". Non è una classe sociale a essere in grado di rispondere alle sue attese: la borghesia gli ripugna, il proletariato lo lascia indifferente, gli intellettuali lo disturbano, il mondo contadino gli è sconosciuto. Nietzsche non si spinge più in là del puro vagheggiamento di una élite di uomini nobili che sappia farsi carico dell' educazione dionisiaca del pianeta.