La
filosofia di Friedrich Nietzsche |
❍ Cronologia delle opere di
Nietzsche
❍ Il pensiero di
Nietzsche esposto da Nicola Abbagnano
❍ Il pensiero di Nietzsche esposto
da Fabio Cioffi
Nietzsche
era solito vantare nobili origini polacche. Le minuziose genealogic della sua
famiglia non hanno tuttavia trovato traccia di queste origini. Egli nasce il
15 ottobre 1844 a Roecken, non lontano da Lipsia, figlio del pastore Karl
Ludwig e di Franziska Oehler, anch'essa figlia di un pastore. Nel 1846 nasce la
sorella Elisabeth; due anni dopo nasce il fratello Joseph che morirà a soli
due anni, pochi mesi dopo la morte del padre, scomparso in seguito al
progressivo aggravamento di una serie di disturbi al sistema nervoso e al
cervello. Dopo la morte del padre, per il quale provava una profonda
venerazione, Nietzsche cresce affidato alle cure della madre, donna di solide
qualità morali ma di cultura limitata. Trasferitosi nel 1850 nella città di
Naumburg, Nietzsche riceve i primi insegnamenti di religione, latino e greco
e impara a suonare il pianoforte. Nel 1858 entra, con una borsa di studio,
nella prestigiosa scuola di Pforta, la cui dura disciplina lo educa allo
sforzo intellettuale e alla capacità di concentrazione. Al buon livello dei
corsi umanistici della scuola egli dovrà la sua abilità letteraria; superficiali
sono invece gli studi scientifici. In questi anni, il giovane Friedrich dimostra
scarsi interessi per le arti figurative; assai vivo, al contrario, è il suo
senso musicale: fin dai primi anni Sessanta prende contatto con la musica di
Wagner. Nel 1861 viene "confermato" secondo il rito luterano: già in questo periodo il suo legame con il
cristianesimo è tuttavia assai debole.
il periodo di basilea
Nel
1864, insieme con l'amico Paul Deussen, si iscrive all'Università di Bonn. dove
aderisce all'associazione studentesca "Franconia", La frequentazione
delle lezioni di filologia classica del professor Ritschllo spinge ad
abbandonare la teologia e a dedicarsi alla filologia. La rottura con il
cristianesimo, che così si annuncia, dà luogo a profondi contrasti con la madre
la quale, delusa nelle sue speranze di vedere il figlio abbracciare la
carriera ecclesiastica, chiede a Nietzsche il silenzio assoluto sull'argomento
religioso. Nel 1865 si trasferisce a Lipsia per studiare filologia classica.
In questo anno avviene il suo incontro con l'opera di Schopenhauer. Soffre, in
questo periodo, di dolori di testa e di nausea; viene curato, per qualche
tempo, probabilmente per sifilide. A Lipsia stringe un'intensa amicizia con il
futuro filologo Erwin Rohde. Studia Teognide, Eschilo, Diogene Laerzio; tiene
le prime conferenze per le quali ottiene ampi riconoscimenti. I suoi interessi
volgono tuttavia sempre più alla filosofia: studia i presocratici e la
filosofia kantiana. Un'opera che gli lascia una profonda impressione è la Storia
del materialismo di Friedrich Lange. Nel marzo del 1868 interrompe il
servizio militare, che aveva avviato in un reggimento di artiglieria. per una
caduta da cavallo in cui si ferisce gravemente
al petto. La sera dell'8 novembre 1868 incontra per la prima volta Richard Wagner: la grande impressione
che ricava dell'incontro rafforza la sua passione musicale e filosofica,
indebolendo vieppiù i suoi interessi filologici. Nel 1869, grazie all'appoggio
di Ritschl, ottiene la cattedra di lingua e letteratura greca presso
l'Università di Bailea. La nomina, oltre al prestigio che comporta, significa
per Nietzsche la sicurezza di una vita stabile. Mentre la famiglia esulta,
egli manifesta però profondi dubbi circa la sua vocazione accademica. In
ossequio alla legge svizzera, rinuncia alla cittadinanza prussiana, senza
tuttavia chiedere quella svizzera. Morirà così apolide. A Basilea entra in un
rapporto di grande rispetto con Jacob Burckhardt, Si reca spesso a Tribschen.
dove vivono Richard e Cosi ma Wagner. per la quale prova una vera e propria
venerazione. Accolto cordialmente dai colleghi e dalla borghesia di Basilea,
Nietzsche si stanca tuttavia ben presto della vita mondana, a cui preferisce
l'intensa amicizia con lo storico della chiesa Franz Overbeck. Durante la
guerra franco-prussiana del 1870 chiede un congedo per arruolarsi come
infermiere volontario; colpito però dalla difterite, ritorna a Basilea, gravemente
indebolito.
L'uscita della Nascita della tragedia danneggia irreparabilmente la carriera di
Nietzsche: Ritschl lo condanna, l'accademia lo attacca; solo Rohde e Wagner
prendono le sue difese. Nietzsche vorrebbe lasciare l'insegnamento per
dedicarsi unicamente alla propaganda wagneriana: inaspettatamente, tuttavia,
non si reca a Bayreuth - dove i Wagner si erano trasferiti - per le vacanze
natalizie del 1872. A partire dall'anno seguente il suo stato di salute peggiora:
a trent'anni Nietzsche è già un uomo seriamente malato, con una situazione affettiva
precaria. Indebolitesi le amicizie giovanili, egli stringe ora nuove
relazioni: con Malwida von Meysenburg, con Paul Hée, con il musicista Peter
Gast. Il desiderio di un'esistenza più stabile lo spinge perfino a coltivare
fantasiosi progetti matrimoniali. Nel 1876 ottiene un anno di congedo per
motivi di salute, periodo che trascorre in Italia, a Sorrento, insieme con Rée.
All'estate del 1878 risale la rottura, ormai definitiva, con Wagner. Nel maggio
dell'anno seguente Nietzsche presenta le dimissioni per ragioni di salute
all'università, che gli concede una pensione annua di 30.000 franchi. Nietzsche
ha ora davanti a sé una vita errabonda, segnata dalla solitudine e dagli
attacchi del suo male, un'infezione progressiva di probabile origine luetica.
Vive prima a St. Moritz, in Engadina, poi a Venezia, con Peter Gast, e a Marienhad;
infine a Genova. Nell'estate del 1881, dopo aver progettato un viaggio mai
realizzato in Tunisia, raggiunge per la prima volta Sils-Maria, in Engadina,
dove trascorrerà, di qui in poi, tutte le estati. Deluso dalla musica wagneriana, si entusiasma a Genova, nell'autunno
dello stesso anno, per la Carmen di Bizet. Sempre a Genova, dove
trascorre l'inverno 1881- 82, riceve da Paul Rée una macchina da scrivere. Di
ritorno da un breve soggiorno a Messina - dove compone alcuni idilli - si ferma
a Roma, ospite di Malwida von Meysenburg. Qui, nella primavera del 1882,
conosce una giovane russa, Lou von Salomé, che vorrebbe sposare. I complicati
rapporti sentimentali che si vengono a creare tra Nietzsche e Lou e tra Lou e
Rée danno luogo a una vicenda confusa, aggravata dall' ostilità che la sorella
Elisabeth prova per la giovane russa. Alla fine Lou e Rée rompono il sodalizio
amicale a tre che Nietzsche intendeva creare e il filosofo precipita in una
sofferta solitudine. Guastati i rapporti con la famiglia, egli vede ora
peggiorare sempre di più il suo stato di salute. Ai difficili e umilianti rapporti
con gli editori si uniscono il fallimento di un tentativo di rientrare nel
mondo accademico, a Lipsia, e la preoccupazione per il matrimonio della sorella
con l'agitatore antisemita Bernhard Foerstcr, che è intenzionato a fondare in
Paraguay una colonia tedesca sulla base di princìpi razziali. Apprende a
Rapallo nell'inverno del 1883 della morte di Wagner. Gli anni fino al 1888 sono
occupati da una intensa attività di scrittura e da peregrinazioni sempre più
sofferte. Nel 1887 la notizia del fidanzamento di Lou con il dottor Andreas
gli provoca una grande depressione. Poco dopo rompe l'amicizia con Rohde, che incautamente si era espresso in modo poco rispettoso nei
confronti dello storico Taine, con cui Nietzsche aveva avuto l'anno prima un
intenso scambio epistolare.
Gli
anni della malattia Nell'aprile del 1888, da Nizza raggiunge Torino, di cui
riporta un'impressione molto positiva. Qui attende alle sue ultime opere. In questa città, il 3
gennaio del 1889 Nietzsche dà gravi segni di squilibrio; nei giorni seguenti
scrive lettere esaltate agli amici e mette per iscritto sconnesse osservazioni
a sfondo politico. Il destinatario di una delle sue lettere, Burckhardt,
allarmato, avverte Overbeck il quale, recato si a Torino, scopre l'amico
nella più completa follia. Ricoverato prima a Basilea e poi a Iena, in una
clinica per malattie nervose, Nietzsche sopravviverà per undici anni, prigioniero
della pazzia. Nel 1897, dopo la morte della madre, che lo aveva curato per
lungo tempo, viene portato a Weimar dalla sorella, che già nel 1890 era
rientrata dal Paraguay dopo un fallimento finanziario che si era concluso con
il suicidio del marito. Nel 1894 essa aveva fondato a Weimar il
Nietzsche-Archiv destinato a occuparsi dell' edizione completa delle opere del
filosofo. In questi anni le condizioni di Nietzsche peggiorano rapidamente:
nel 1892 già non è più in grado di riconoscere gli amici, che spesso riceve in
preda all'ira; a partire dal 1894, smette di parlare e alterna a momenti di
serenità urla sconnesse.
Muore
il 25 agosto del 1900.
❍ Cronologia delle opere di Nietzsche
L'opera letteraria di Nietzsche è caratterizzata da una
grande produttività: in meno di vent'anni, tra il 1871 e il 1888, il filosofo
tedesco dà alla luce una voluminosa e composita messe di scritti, alcuni dei
quali appariranno postumi. Lo schema oggi largamente accettato è quello che
divide le opere di Nietzsche in tre periodi:
a) le opere
giovanili del periodo di Basilea, la cui pubblicazione è curata dallo
stesso autore: la Nascita della tragedia
(1871); le quattro Considerazioni
Inattuali (1873-76); a questa fase appartengono anche gli abbozzi postumi
del Libro del filosofo;
b) gli scritti della "fase illuminista": Umano troppo umano (1878), Aurora (I881), Gaia scienza (1882);
c) la filosofia dell'eterno ritorno, contenuta in Così
parlò Zarathustra (1883-85) e negli scritti successivi fino alla follia: Al di là del bene e del male (1886), Genealogia della morale (1887), Il caso Wagner (1888), Crepuscolo degli idoli (1888), L'anticristo, Ecce homo, Nietzsche contra
Wagner (postumi).
Due mutazioni critiche segnano i tre periodi: da
discepolo adorante di Wagner e Schopenhauer a spirito libero, da spirito
libero a maestro che insegna la dottrina dell'eterno ritorno. La massa dei
frammenti postumi non è superflua: essi svolgono temi di grande ricchezza e
forniscono spesso la chiave per comprendere le opere pubblicate in vita. Di
fatto costituiscono i materiali originari da cui hanno avuto origine,
attraverso revisioni e aggiunte, i capitoli delle opere pubblicate.
Minori adesioni raccolgono due periodizzazioni
alternative: la prima che considera in modo sostanzialmente unitario tutti gli
scritti della maturità, da Umano troppo
umano in poi; la seconda che rileva un'ulteriore distinzione tra lo Zarathustra e le opere più tarde
governate dal progetto, alla fine abbandonato, di una grande opera sistematica,
il cui titolo doveva essere La volontà di
potenza. Che Umano troppo umano e
lo Zarathustra segnino le due cesure
fondamentali nella biografia intellettuale di Nietzsche è convinzione accolta
in maniera quasi unanime. Tale conclusione trova conferma nella ricostruzione
autobiografica delle proprie opere che Nietzsche stesso compie in Ecce homo. Parimenti, per quanto riguarda
la Volontà di potenza, che l'opera
edita con questo titolo nel 1901 e poi nel 1906, a cura di Peter Gast e della
sorella di Nietzsche Elisabeth Foerster, raccolga gli aforismi relativi solo a
uno dei tanti progetti di sistemazione e di titolazione pensati dall'autore
negli ultimi anni è stato dimostrato conclusivamente da G. Colli e M.
Montinari, i quali hanno chiarito come nell'estate del 1888 Nietzsche avesse
abbandonato definitivamente il progetto sopra citato e avesse, di conseguenza,
rifuso parte del materiale scritto all'uopo nell'Anticristo e nel Crepuscolo
degli idoli.
❍ Il pensiero di Nietzsche esposto da Nicola Abbagnano
DIONISO O L'ACCETTAZIONE DELLA VITA
La diagnosi di Schopenhauer sul valore della vita rimane il
presupposto costante dell'opera di Nietzsche, anche quando Nietzsche respinge e
condanna lì'atteggiamento di rinunzia e di abbandono che da quella diagnosi
Schopenahuer aveva dedotto. La vita è dolore, lotta, distruzione, crudeltà,
incertezza, errore. Essa è l'irrazionalità stessa: non ha ordine nel suo
sviluppo né ha scopo, il caso la domina, i valori umani non trovano in essa
alcuna radice. Due atteggiamenti sono allora possibili di fronte alla vita. Il
primo è quello della rinunzia e della fuga, che mette capo all'ascetismo;
questo è l'atteggiamento che Schopenhauer derivò dalla sua diagnosi ed è
l'atteggiamento, secondo Nietzsche, proprio della morale cristiana e della
spiritualità comune. Il secondo è quello dell'accettazione della vita come essa
è, nei suoi caratteri originari e irrazionali, ed è l'atteggiamento che mette
capo all'esaltazione della vita e al superamento dell'uomo. Questo è
l'atteggiamento di Nietzsche. Tutta l'opera di Nietzsche è intesa a difendere e
a chiarire l'accettazione totale ed entusiastica della vita. Dioniso è il simbolo divinizzato di
questa accettazione e Zaratustra è il
suo profeta.
Dioniso è "l'affermazione religiosa della vita totale,
non rinnegata né frantumata". E' l'esaltazione entusiastica del mondo
com'è, senza diminuzione, senza eccezione e senza scelta: esaltazione infinita
dell'infinita vita. Lo spirito dionisiaco non ha nulla a che fare con
l'accettazione rassegnata della vita, con l'atteggiamento di chi vede in essa
la condizione negativa di quei valori di bontà, di perfezione, di umiltà, che
sono la sua negazione. E' la volontà orgiastica della vita nella totalità della
sua potenza. Dioniso è il dio dell'ebrezza e della gioia, il dio che canta,
ride e danza: egli bandisce ogni rinunzia, ogni tentativo di fuga di fronte
alla vita. Ciò vuol dire, secondo Nietzsche, che l'accettazione integrale della
vita trasforma il dolore in gioia, la lotta in armonia, la crudeltà in
giustizia, la distruzione in creazione. Essa rinnova profondamente la tavola
dei valori morali. Tutti i valori fondati sulla rinunzia e sulla diminuzione
della vita, tutte le cosiddette virtù che tendono a mortificare l'energia
vitale, a spezzare e a impoverire la vita, appaiono indegne dell'uomo.
Nietzsche dà alla virtù il significato amoralistico che essa ebbe nel
Rinascimento italiano. E' virtù ogni passione che dice sì alla vita e al mondo: "la fierezza, la gioia, la salute,
l'amore sessuale, l'inimicizia e la guerra, la venerazione, le belle
attitudini, le buone maniere, la volontà forte, la disciplina
dell'intellettualità superiore, la volontà di potenza, la riconoscenza verso la
terra e verso la vita – tutto ciò che è ricco e vuol dare, e vuol gratificare
la vita, dorarla, eternizzarla e divinizzarla – tutta la potenza di queste
virtù che trasfigurano, tutto ciò che approva, afferma, ed agisce per
affermazione" (Wille zur Macht,
§ 479). Queste passioni che non hanno più nulla di primitivo, perché sono il
ritorno consapevole dell'uomo alle fonti originarie della vita, costituiscono
la nuova tavola dei valori fondata
sull'accettazione della vita. Nietzsche pone crudamente il dilemma tra la
morale tradizionale e quella che egli difende; ma in realtà questo dilemma è
già incluso nell'altro, che è il solo fondamentale, tra l'accettazizone della
vita e la rinunzia alla vita, tra il sì
e il no di fronte al mondo. Solamente
l'atto dell'accettazione, la scelta libera e gioiosa di ciò che la vita è nella
sua potenza primitiva, determina la trasfigurazione dei valori e indirizza
l'uomo verso l'esaltazione di sé anziché verso l'abbandono e la rinunzia.
Il carattere romantico
dell'atteggiamento di Nietzsche è evidente in questa infinitizzazione o
divinizzazione della vita. Dioniso ignora e disconosce ogni limite umano. La
vita è, sì, essenzialmente dolore; e ogni arte, come ogni filosofia, può essere
considerata come una medicina e un soccorso alla vita che si accresce e lotta.
Ma quelli che soffrono di un impoverimento della vita domandano all'arte e alla
filosofia la calma e il silenzio o anche l'ebrezza e lo stordimento; e ad essi
viene incontro quello che Nietzsche chiama il romanticismo filosofico ed
artistico, il romanticismo di Schopenhauer e di Wagner. L'uomo dionisiaco
soffre invece di una sovrabbondanza di vita e tende ad una visione tragica
della vita interiore e di quella esterna. Dioniso non solo si compiace dello
spettacolo terribile e inquietante, ma ama il fatto terribile in se stesso e il
lusso della distruzione, della disgregazione, della negazione; la malvagità,
l'insania, la bruttezza, gli sembrano in qualche modo permesse da una sovrabbondanza
vitale che è capace di fare un fertile paese di ogni deserto (Die froeliche Wiss. § 370). Perciò, nei
mali e negli orrori della vita, Dioniso non scorge un limite insuperabile che
chiuda l'uomo in confini ben definiti, ma piuttosto il segno di una ricchezza
superiore ad ogni limite, l'infinità di una forza che si espande al di là di
ogni argine e che feconda e trasfigura tutto. Per lo stesso motivo, Dioniso
respinge a allontana l'idea della morte.
Gli uomini s'immaginano che il passato è niente o è poca
cosa e che l'avvenire è tutto. Ciascuno vuol essere il primo in questo avvenire
e tuttavia la morte e il silenzio della morte sono le sole certezze che tutti
abbiano in comune. "Come è strano, nota Nietzsche (Ib. § 278), che questa unica certezza, questa unica comunione sia
quasi impotente ad agire sugli uomini e che essi siano così lontani dal sentire
la fraternità della morte". Eppure Nietzsche stesso respinge e annulla
questa fraternità, rigettando il pensiero della morte. "Sono felice di
constatare che gli uomini si rifiutano assolutamente di concepire l'idea della
morte e vorrei contribuire a rendere per essi ancora cento volte più degna di
essere pensata l'idea della vita". Con l'idea della morte è respinto il
contrassegno più evidente della finitudine umana. Dioniso è il simbolo
dell'accettazione della vita e anche il simbolo del rifiuto di ogni limite
umano.
LA TRASMUTAZIONE DEI VALORI
Nella trasmutazione dei valori, Nietzsche riconobbe il suo
compito proprio, il suo destino. "La mia verità, egli dice (Ecce homo, § 4), è spaventosa perché
finora si è chiamata verità la menzogna. Inversione di tutti i valori: ecco la
mia formula per un atto di supremo riconoscimento di sé, di tutta l'umanità, atto
che in me è diventato carne e genio. Il mio destino esige che io sia il primo
uomo onesto, che io mi senta in opposizione alle menzogne di vari
millenni". L'inversione dei valori si presenta nell'opera di Nietzsche
come una critica della morale cristiana, da lui ridotta sostanzialmente alla
morale della rinunzia e dell'ascetismo. La morale cristiana è la rivolta degli
individui inferiori, delle classi sottomesse e
schiave, alla casta superiore e aristocratica. Il suo vero fondamento è
il risentimento: il risentimento di
coloro ai quali la vera reazione, quella dell'azione, è interdetta, e che
trovano compenso in una vendetta immaginaria. "Mentre ogni morale
aristocratica nasce da una trionfale affermazione di sé, la morale degli
schiavi oppone sin dal principio un no
a ciò che non fa parte di se stessa, a ciò che è differente da sé ed è il suo
non-io; e tale è il suo atto creatore. Questo capovolgimento del colpo d'occhio
valutativo, questo punto di vista che si inspira necessariamente all'esterno
invece di fondarsi su se stesso, appartiene in proprio al risentimento (Genealogie der Moral, 1, § 10). I
capisaldi della morale cristiana: il disinteresse, l'abnegazione, il sacrificio
di sé, sono il frutto del risentimento dell'uomo debole verso la vita. E' la
vita che si mette contro la vita, la fuga di fronte alla vita. L'ideale
ascetico è un espediente per conservare la vita nello stato di degenerazione e
di decadenza in cui l'ha ridotta la mancata accettazione di essa. E i puri di
cuore, le anime belle che si
drappeggiano poeticamente della loro virtù, sono anch'essi uomini del
risentimento,che fremono di un sotterraneo spirito di vendetta contro coloro
che incarnano la ricchezza e la potenza della vita. La scienza stessa non è
lontana dall'ideale ascetico del cristianesimo per la sua adorazione della
verità oggettiva, per il suo stoicismo intellettuale che interdice il sì e il no di fronte alla realtà, per il suo rispetto dei fatti e la
rinunzia all'interpretazione di essi. La credenza nella verità oggettiva è
l'ultima trasformazione dell'ideale ascetico. L'uomo veridico, veridico nel
senso estremo e temerario che la fede nella scienza presuppone, afferma con ciò
la fede in un mondo diverso da quello della vita, della natura e della storia;
e nella misura in cui afferma questo mondo diverso, deve negare l'altro (Die froeliche Wiss. § 344). Il risultato
è anche qui l'impoverimento dell'energia vitale: la dialettica prende il posto
dell'istinto, la gravità imprime la sua impronta sul viso e nei gesti come
segno infallibile di una evoluzione più penosa della materia e di un
rallentamento delle funzioni vitali (Genealogie
der Moral, 3, § 25).
Il tipo ideale della morale corrente, l'uomo buono, esiste soltanto a costo di una fondamentale menzogna:
giacché chiude gli occhi di fronte alla realtà e non vuole a nessun patto
vedere com'è fatta: essa infatti non è tale da stimolare a ogni momento gli
istinti di benevolenza né tanto meno da consentire in qualsiasi momento un
intervento bene intenzionato e stupido.
L'ultimo risultato della concezione del mondo fondata sulla non accettazione
della vita è il pessimismo che, nella
sua espressione finale, è nihilismo.
La vita è rinnegata perché include il dolore e il mondo è disapprovato a
vantaggio di un mondo ideale in cui si ripongono tutti i valori antivitali.
A tali negazioni dell'ascetismo, Nietzsche contrappone le
più risolute ed entusiastiche affermazioni. Tutto ciò che è terrestre,
corporeo, antispirituale, irrazionale, viene esaltato da Nietzsche con la
stessa violenza con cui è condannato dalla morale ascetica. "il mio io,
dice Zaratustra, mi ha insegnato una nuova fierezza e io l'insegno agli uomini:
non nascondere la testa nella sabbia delle cose celesti, ma portarla
fieramente, una testa terrestre, che crea il senso della terra. Io insegno agli
uomini una volontà nuova: seguire volontariamente la via che gli uomini hanno
seguito ciecamente, approvare questa via e non più cercare di fuggirla, come i
malati e i decrepiti". L'esistenza dell'uomo è un'esistenza interamente
terrestre: l'uomo è nato per vivere sulla terra e non c'è altro mondo per lui.
L'anima, che dovrebbe essere il soggetto dell'esistenza ultra-mondana, è
insussistente: l'uomo è soltanto corpo. "Io sono corpo tutto intero e
nient'altro, dice Zaratustra; l'anima è soltanto una parola che indica una particella del
corpo. Il corpo è un grande sistema di ragione, una molteplicità con un solo
senso, una guerra e una pace, una mandria e un pastore". Il vero io dell'uomo
è il corpo, che Nietzsche chiama "la grande ragione" in cui l'uomo
riconosce l suo io singolo. La vera soggettività dell'uomo non è quella che
egli indica col monosillabo io, ma il
se stesso che è insieme corpo e
ragione. Si trova in Nietzsche anche una critica del principio cartesiano che è
tra e più radicali. "Dire che quando si pensa bisogna che ci sia qualcosa
che pensi è, dice Nietzsche, semplicemente la formulazione dell'abitudine
grammaticale che all'azione aggiunge un
attore. Se si riduce la proposizione a questo: "Si pensa, dunque ci sono
pensieri" ne risulta una semplice tautologia e la "realtà del
pensiero" rimane fuori questione sicché in questa forma si è portati a
riconoscere solo l'apparenza del
pensiero. Ma Cartesio voleva che il pensiero
fosse non una realtà apparente ma un in sé" (Wille zur Macht, § 260).
La rivendicazione della natura terrestre dell'uomo è
implicita nell'accettazione totale della vita che è propria dello spirito
dionisiaco. In virtù di questa accettazione, la terra e il corpo dell'uomo si
trasfigurano: la terra cessa di essere il deserto in cui l'uomo è in esilio e
diventa la sua dimora gioiosa; il corpo cessa di essere prigione o tomba
dell'uomo e diventa il suo vero se stesso. La trasfigurazione dei valori è
intesa da Nietzsche come l'annullamento dei limiti, come la conquista di una padronanza assoluta
dell'uomo sulla terra e sul corpo, come l'eliminazione del carattere
problematico della vita di ogni perdita
o smarrimento cui l'uomo possa andare soggetto.
L'ARTE
Allo spirito dionisiaco si collega l'arte che perciò diventa per Nietzsche l'espressione più alta
dell'uomo. Nel suo primo libro, La
nascita della tragedia, (1872, Nietzsche aveva riconosciuto a fondamento
dell'arte la dualità dello spirito apollineo
e dello spirito dionisiaco: il primo
dei quali domina l'arte plastica che è armonia di forme, l'altro la musica, che
è invece priva di forma perché ebrezza ed esaltazione entusiastica. Soltanto in
virtù dello spirito dionisiaco, affermava Nietzsche, il popolo greco riuscì a
sopportare l'esistenza. Sotto l'influenza della verità contemplata, l'uomo
greco vedeva dappertutto l'aspetto orribile e assurdo dell'esistenza. L'arte
gli venne in soccorso, trasfigurando l'orribile e l'assurdo in immagini ideali,
in virtù delle quali la vita fu resa accettabile. Queste immagini sono il sublime, col quale l'arte doma e
assoggetta l'orribile e il comico che
libera dal disgusto dell'assurdo (Die
Geburt der Trag. § 7). La trasfigurazione fu compiuta dallo spirito
dionisiaco, modulato e disciplinato dallo spirito apollineo, e dette luogo
rispettivamente alla tragedia e alla commedia. Il pessimismo, trasfigurato
dall'arte, distolse i Greci dalla fuga di fronte alla vita. Questo avveniva
nella giovinezza del popolo greco; in seguito, con l'apparizione di Socrate e
del platonismo, lo spirito dionisiaco fu combattuto e represso e cominciò, con
la rinuncia alla vita, la decadenza del popolo greco.
Le successive speculazioni di Nietzsche sull'arte
confermano la stretta connessione di
essa con lo spirito dionisiaco. L'arte è
condizionata da un sentimento di forza e di pienezza, quale si verifica
nell'ebrezza. Sono stati non artistici tutti quelli che dipendono da un
impoverimento della volontà:
l'oggettività, l'astrattività, l'impoverimento dei sensi, le tendenze
ascetiche. Il brutto, che è la negazione dell'arte, è connesso con tali stati:
"Ogni volta che nasce l'idea di degenerazione, di impoverimento della
vita, d'impotenza, di decomposizione, di dissoluzione, l'uomo estetico reagisce
con un no (Wille zur Macht, § 357). La bellezza è l'espressione di una volontà vittoriosa, di una
coordinazione più intensa, di un'armonia di tutti i voleri violenti, di un
equilibrio perpendicolare infallibile. "L'arte, dice Nietzsche (Ib., § 361), corrisponde agli stati di
vigore animale. E' da una parte l'eccesso di una costituzione florida che
trabocca nel mondo delle immagini e dei desideri; dall'altra è l'eccitamento
delle funzioni animali mediante le immagini e i desideri di una vita intensificata,
una sopraelevazione del sentimento della vita e uno stimolante della vita.
Essenziale all'arte è la perfezione
dell'essere, il compimento, l'avviamento dell'essere alla pienezza; l'arte è
essenzialmente l'affermazione, la benedizione, la divinizzazione
dell'esistenza. Lo stato apollineo non è che la risultanza estrema dell'ebrezza
dionisiaca: è il riposo di certe sensazioni estreme di ebrezza; una specie di
semplificazione e concentrazione dell'ebrezza stessa. Lo stile classico
rappresenta questo riposo ed è la forma più elevata del sentimento di potenza.
Ciò non implica che nell'arte l'uomo si abbandoni senza
freno ai suoi istinti. Se l'artista non vuol essere inferiore al suo compito,
deve dominarsi e raggiungere la sobrietà e la castità. Appunto il suo istinto
dominante esige questo da lui e non gli permette di disperdersi in modo da
restare inferiore alle esigenze dell'arte (Wille
zur Macht, § 367). In generale un certo ascetismo, una rinuncia di buon
grado, dura e serena, fa part delle condizioni favorevoli d'una spiritualità
superiore (Genealogie der Moral, 3 §
9). "Si riconosce il filosofo, dice Nietzsche (Ib., 3, § 8), da ciò, che egli evita tre cose brillanti e rumorose:
la gloria, i principi e le donne, il che non vuol dire che esse non vengano a
lui Egli fugge la luce troppo viva:fugge anche il suo tempo e il 'lume' che
esso spande. In questo è come un'ombra: più il sole si abbassa, più l'ombra
cresce". Ma nulla sembra a Nietzsche così sterile come la formula
dell'arte per l'arte e il cosiddetto disinteresse estetico. Egli si richiama al
detto di Stendhal che ha definito la bellezza "una promessa di
felicità" (Ib., 3, § 6). Il
pessimismo artistico è la contropartita esatta del pessimismo morale e
religioso. Questo soffre della corruzione dell'uomo e dell'enigma della vita.
L'arte invece considera bello anche ciò che l'istinto di impotenza considera
come degno di odio, cioè brutto. L'arte accetta ciò che c'è di problematico e
di terribile nella vita, essa è la più totale ed entusiastica affermazione
della vita. "La profondità dell'artista tragico consiste in ciò che il suo
istinto estetico abbraccia le conseguenze lontane e non si arresta alle cose
più vicine, afferma l'economia in grande, l'economia che giustifica ciò che è
terribile, cattivo e problematico, e on si contenta soltanto di
giustificarlo" (Wille zur Macht
§ 374). Nietzsche ripete qui a suo modo l'idea centrale dell'estetica di Kant:
l'arte trasforma con un atto di accettazione la debolezza umana in forza,
l'impotenza in potenza, la problematicità in certezza. Ma per Kant l'arte
conferma e consolida così la finitudine dell'uomo, della quale è una delle
manifestazioni positive fondamentali. Per Nietzsche, l'arte apre all'uomo
l'infinito della potenza e dell'esaltazione di sé.
L'ETERNO RITORNO
"Tu sei il profeta dell'eterno ritorno, questo è il tuo
destino", dicono a Zaratustra i suoi animali. E in realtà l'eterno ritorno
è la formula semplice e complessiva che abbraccia e riduce ad unità tutti gli
aspetti della dottrina di Nietrzsche ed esprime egualmente l destino dell'uomo
e quello del mondo. L'eterno ritorno è il sì
che il mondo dice a se stesso, è l'autoaccettazione del mondo, la volontà
cosmica di riaffermarsi e di essere se stessa. L'eterno ritorno è l'espressione
cosmica di quello spirito dionisiaco che esalta e benedice la vita.
Il mondo si presenta a Nietzsche sfornito di ogni carattere
di razionalità. "La condizione generale del mondo è, per tutta l'eternità,
il caos, non come assenza di necessità, ma nel senso di una mancanza d'ordine,
di struttura, di forma, di bellezza, di saggezza e di quali che siano i nostri
estetismi umani" (Die froeliche
Wiss., § 109). Il mondo non è perfetto, né bello né nobile e non risponde a
nessuna qualifica che possa comunque concernere l'uomo. I nostri giudizi
estetici e morali non lo toccano, né esso ha una qualsiasi finalità. Se il
divenire del mondo avesse dovuto metter capo
a un termine definito, ad una condizione finale di stabilità, all'essere
o al nulla, quel termine definitivo avrebbe già dovuto essere raggiunto; questa
è la sola certezza che noi abbiamo intorno al mondo, secondo Nietzsche (Wille zur Macht, * 384). Con ciò è
escluso dal mondo ogni carattere razionale: il caso lo domina. "Un po' di
ragione, dice Zaratustra, un grano di saggezza disperso di stella in stella,
questo lievito è mescolato a tutte la cose; solo a causa della follia, la
saggezza è mescolata a tutte le cose. Un po' di saggezza è possibile; ma io ho
trovato in tutte le cose questa certezza felice: esse preferiscono danzare sui
piedi del caso".
Ma questa esplosione di forze disordinate, questo
"mostro di forze senza principio e senza fine", questo mondo, ha in
sé una necessità che è la sua volontà: quella di riaffermarsi e perciò
di ritornare eternamente su se stesso. Esso "si afferma da sé, anche nella
sua uniformità che rimane la stessa nel corso degli anni, si benedice da sé,
perché è ciò che deve eternamente ritornare, perché è il divenire che non
conosce sazietà, né disgusto, né fatica. Questo mondo dionisiaco dell'eterna
creazione di sé e dell'eterna distruzione di sé, non ha altro scopo se non
quello della "felicità del circolo"; non ha altra volontà se non
quella del circolo che ha la buona volontà di seguire la propria via (Ib., § 385). La necessità del divenire
cosmico non è dunque che volontà di riaffermazione. Dall'eternità, il mondo
accetta se stesso, e si ripete. L'eterno ritorno è una verità terribile che può
distruggere l'uomo o esaltarlo: di fronte ad esso si misura la forza dell'uomo,
la sua capacità di superarsi. Il pensiero che questa vita, quale l'abbiamo
vissuta, bisognerà riviverla ancora una volta e una quantità innumerevole di
volte e che non vi sarà niente di nuovo ed anzi le cose più grandi come quelle
più piccole torneranno per noi nella medesima successione e nel medesimo
ordine, questo pensiero è tale da gettare nella disperazione l'uomo
apparentemente più forte. Eppure non c'è altra alternativa di non chiudere gli
occhi di fronte a questa verità sovrumana: l'uomo deve adeguare la soluzione
della sua vita all'enigma di Dioniso. Bisogna fare assai di più che sopportare
quel pensiero: bisogna, dice Nietzsche, promettere se stesso all'anello degli anelli. Bisogna fare il
voto del ritorno di se stesso con l'anello dell'eterna benedizione di sé e
dell'eterna affermazione di sé; bisogna
attingere la volontà di volere all'indietro tutto ciò che è già accaduto, di
volere in avanti tutto ciò che accadrà (Ib.,
§ 385). Bisogna amare la vita e se stessi al di là di ogni limite, per non
poter desiderare altra cosa che questa eterna e suprema conferma (Die froeliche Wiss., § 341). Il mondo
offre all'uomo lo specchio in cui deve mirarsi. Lo spirito dionisiaco è lo
spirito dell'intero universo, già prima di essere quello che porta l'uomo al
superamento di sé.
AMOR FATI
"La formula per la grandezza dell'uomo, dice Nietzsche,
è amor fati; non voler nulla di
diverso da quello che è, non nel futuro, non nel passato, non per tutta
l'eternità. Non solo sopportare ciò che è necessario, ma amarlo". Questo amore
libra l'uomo dalla servitù del passato, giacché per esso ciò che è stato si trasforma in ciò
che volevo che fosse. La volontà non può fare in modo che il tempo si muova
all'indietro: il passato perciò le si impone
e la rende prigioniera. Di questa prigionia sono espressioni le dottrine
per le quali tutto ciò che è passato merita di passare e il tempo esercita
sulle cose una giustizia punitiva infallibile. Lo spirito del risentimento
presiede a queste dottrine che distaccano l'esistenza dal tempo e vedono nel
tempo il castigo e la maledizione dell'esistenza. Zaratustra afferma invece la
creatività della volontà rispetto al
tempo. "Tutto ciò che fu è
frammento, enigma, caso spaventevole, finché la volontà creatrice aggiunge:
così io volevo che fosse, così io voglio che sia, così io vorrò che sia".
Per questa accettazione il passato cessa di essere un vincolo della volontà e
la volontà comprende il passato nel ciclo della sua potenza.
Nella seconda delle Considerazioni
inattuali ("Sull'utilità e l'inconveniente degli studi storici per la
vita", 1873) Nietzsche aveva stabilito un antagonismo tra la vita e la
storia. Un fenomeno storico, studiato in modo assoluto e completo, è ridotto a
fenomeno oggettivo e morto per colui che lo studia perché questi ha
riconosciuto la follia, l'ingiustizia, la cieca passione e in generale tutto
l'orizzonte oscuro e terrestre del fenomeno stesso. Dall'altro lato, Nietzsche
aveva affermato che la vita ha bisogno dei servizi della storia. "La storia
appartiene al vivente sotto tre rapporti: gli appartiene perché è attivo e
perché aspira; perché conserva e venera; perché soffre e ha bisogno di
liberazione. A questa trinità di rapporti corrispondono tre specie di storia e
si possono distinguere nello studio della storia un punto di vista monumentale, un punto di vista archeologico e un punto di vista critico". Che i grandi momenti
della lotta degli individui formino una sola catena, che le manifestazioni più
alte dell'umanità si uniscano attraverso i millenni, che ciò che vi è di più
elevato nel passato possa ancora rivivere e grandeggiare, questa è l'idea che è
fondamento della storia monumentale. In virtù di questo tipo di storia, l'uomo
attivo, il lottatore, trova nel passato i maestri, gli esempi, i consolatori di
cui ha bisogno e che il presente gli rifiuta. Attraverso di essa, egli conclude
che la grandezza che è stata è stata
certamente possibile, perciò sarà ancora possibile nel futuro. La storia archeologica nasce invece quando l'uomo
si attarda a considerare nel passato ciò che è stato convenuto e ammirato a suo
tempo, al mediocrità costitutiva della vita di ogni giorno. La storia
archeologica dà alle condizioni modeste, rudi e anche precarie, in cui si
svolge la vita di un uomo o di un popolo, un sentimento di soddisfazione,
radicandola al passato, mostrandola come l'erede di una tradizione che la
giustifica. Ma per poter vivere, l'uomo ha pure bisogno di rompere col passato,
di annientarlo, per rifarsi daccapo e rinnovarsi. A questo serve la storia critica. Essa trascina il passato
davanti al tribunale, istruisce severamente un giudizio contro di esso e infine
lo condanna. Ogni passato è infatti meritevole della condanna perché sempre
nelle cose umane la debolezza e la forza vanno congiunte. Chi condanna non è
veramente la giustizia, ma la vita;
tuttavia, il più delle volte, la sentenza sarebbe la stessa se la giustizia in
persona l'avesse pronunziata. Al di là di questi servigi che la storia può
rendere alla vita, Nietzsche aveva giudicato l'eccesso degli studi storici
nocivo alla vita e rovinoso soprattutto per le personalità deboli, cioè non
abbastanza vigorose per valutare la storia alla stregua di se stesse e portare
quindi a modellare se stesse sul passato. Egli infatti concepiva ancora la vita
come una potenza non-storica alla
quale la considerazione storica fosse
estranea e subordinata.
L'eterno ritorno e l'amor
fati hanno implicitamente mutato questo punto di vista. L'accettazione
totale della vita implica, come s'è visto, l'accettazione del passato, la
volontà che esso sia così come è stato. Nell'atto di questa
accettazione la vita stessa si pone come storicità, e si salda col suo passato,
assumendolo volontariamente su di sé.
IL SUPERUOMO
Se la dottrina dell'eterno ritorno è la formula centrale,
cosmica, del filosofare di Nietzsche, quella del superuomo è il suo sbocco
finale, la sua parola conclusiva. L'accettazione della vita non è, per
Nietzsche, l'accettazione dell'uomo. Questo è il punto messo in chiaro
dall'attesa messianica del superuomo bandita da Zaratustra. "L'uomo deve
essere superato, dice Zaratustra. Il superuomo è il senso della terra… L'uomo è
una corda tesa tra la bestia e il superuomo, una corda sull'abisso. Ciò che vi
è di grande nell'uomo è che egli è un ponte e non un termine. Ciò che si può
amare nell'uomo è che egli è un passaggio e un tramonto": Il superuomo è
l'espressione e l'incarnazione della volontà di potenza. Non sussiste, afferma
Zaratustra contro Schopenhauer, una volontà di vita. Ciò che non vive non può volere
ma ciò che vive desidera qualcosa di più della vita e alla base di tutte le sue
manifestazioni c'è la volontà di potenza.
La volontà di potenza determina le nuove valutazioni che sono a fondamento
dell'esistenza superumana. L'uomo dev'essere superato: ciò vuol dire che tutti
i valori della morale corrente, che è una morale da gregge e tende al
livellamento e all'eguaglianza, devono essere trasmutati.
La prima caratteristica del superuomo è la sua libertà di
spirito. Egli deve affrancarsi dai legami soliti della vita e rinunciare a
tutto ciò che gli altri pregiano; deve riporre la sua soddisfazione nel volare
liberamente, senza timore al di sopra degli uomini, dei costumi, delle leggi e
degli apprezzamenti tradizionali (Menschliches,
Allzumenschliches, § 34). Il suo spirito deve abbandonare ogni fede, ogni
desiderio di cerezza e abituarsi a reggersi sulle corde leggere di tutte le
possibilità (Die froeliche Wiss., §
347). La sua massima fondamentale è divieni
ciò che sei; non già nel senso della concentrazione in una scelta o in un
compito unico, ma nel senso della massima differenziazione dagli altri, della
chiusura nella propria eccezionalità, della ricerca di una solitudine
inaccessibile. La libertà interiore propria del superuomo è una ricchezza di possibilità
diverse, tra le quali egli non sceglie, perché vuole dominarle e possederle
tutte. Di qui la rinunzia alla certezza, che è invece limitazione e rinunzia
alle disparate possibilità dell'errore; di qui pure la profondità del
superuomo,l'impossibilità di centrare la sua vita interiore, di cui non si
attinge mai altro che la maschera. "Tutto ciò che è profondo, dice
Nietzsche (Jenseits von Gut und Böse,
§ 40), ama mascherarsi; le cose più profonde odiano l'immagine e la
somiglianza". Il superuomo ha "fondi e doppi fondi che nessuno
giungerebbe a percorrere sino alla fine. Questa essenza misteriosa del
superuomo, questo insondabile segreto della sua interiorità, in cui Nietzsche
vede il segno della profondità superumana, non è forse l'indice della mancanza
di un impegno e di un compito che lo colleghino agli altri uomini e siano
quindi umanamente riconciliabili?
Il superuomo è il filosofo dell'avvenire. Gli operai della
filosofia, come Kant e Hegel, non sono i veri filosofi. I veri filosofi sono
dominatori e legislatori: dicono "così dev'essere", prestabiliscono
la mèta dell'uomo e per far ciò utilizzano
i lavori preparatori di tutti gli operai della filosofia e di tutti i
dominatori del passato. "Essi spingono nell'avvenire la mano creatrice e
tutto ciò che è e fu diventa per loro un mezzo, uno strumento, un martello. Il
loro conoscere equivale a creare, il loro creare a legiferare, il loro volere
la verità a volere la potenza". (Jenseits,
§ 211). Essi hanno le loro virtù che non hanno nulla a che fare con quelle
degli altri, possono sopportare la verità, l'intera e crudele verità sulla vita
e sul mondo; e così possono accettare veramente la vita e il mondo.
LA PERSONALITA' IMPOSSIBILE
La filosofia di Nietzsche è la filosofia di un grande
romantico. La brama dell'infinito è manifesta in ogni suo atteggiamento, in
ogni elemento della sua dottrina, in ogni pagina dei suoi scritti. Ma Nietzsche
ha voluto raggiungere e realizzare l'infinto per l'uomo e nell'uomo.
Ha voluto che l'uomo riassorbisse in se stesso e dominasse l'infinita potenza
della vita. Perciò l'accettazione della vita e del mondo non è per Nietzsche
l'accettazione dell'uomo come creatura finita; e non si conclude nel tentativo
di fondare le positive capacità umane sulla loro stessa limitazione, ma in
quello di trasferire nell'uomo l'infinità della vita e l'illimitatezza della
sua potenza.
Tale è il contrassegno dello spirito dionisiaco dal quale derivano tutte le caratteristiche
dell'atteggiamento e dell'opera di Nietzsche. In primo luogo, deriva da esso la
formula cosmica dell'accettazione di sé: l'eterno ritorno. La riaffermazione di
sé, da cui nascono la trasmutazione dei valori e il superuomo, non è per
Nietzsche cosa specificamente umana. E' la necessità che presiede al divenire
del mondo e in virtù della quale il mondo stesso ritorna continuamente sui suoi
passi, ripetendo in eterno le stesse
vicende. Accettando la vita, l'uomo non
fa che mirarsi nello specchio del mondo che si riafferma, si esalta, e si
benedice da sé. Questa formula generalizzatrice, che diminuisce il significato originale
dell'esistenza umana e la responsabilità della libera riaffermazione dell'uomo,
ha un presupposto cosmologico: la credenza (che viene a Nietzsche da Schopenhauer) nell'identità sostanziale
dell'uomo e del mondo e quindi nell'assoluta omogeneità di ogni evento del
mondo.
La dottrina di Nietzsche è quindi di carattere cosmologico,
non teologico. L'uso di simboli e di procedimenti religiosi, la polemica
anti-cristiana che condiziona in qualche modo l'impostazione della sua dottrina
e altri sparsi elementi di questa dottrina che hanno fatto pensare a una specie
di nostalgia religiosa di Nietzsche o a un suo nuovo annuncio teologico sono in
realtà gli aspetti subordinati di un naturalismo
cosmologico per il quale l'iniziativa
della nascita della distruzione
del mondo, nella sua eterna vicenda, è dovuta al mondo stesso: cioè alla volontà di potenza che ne è la natura.
Dall'altro lato questa stessa impostazione cosmologica rende
inutile e insignificante la filosofia come ricerca.
Il filosofare non è per Nietzsche uno sforzo paziente e metodico che si
autodisciplina nella ragione, ma il frutto di una volontà irrazionale, anzi di
un'esplosione orgiastica di entusiasmo. Al posto di Socrate, il simbolo della
filosofia come ricerca, egli pone Dioniso, il simbolo dell'infinità della vita.
La sua opera più significativa, lo Zaratustra,
è tutto meno che un libro di indagine: è poesia, profezia, attesa lirica ed
entusiastica, e già come tale rivela l'ispirazione del filosofo. La massima Divieni ciò che sei esclude la ricerca
di sé: prescrive soltanto un amore di sé portato sino all'esasperazione. Con
ciò, l'atto dell'affermazione di sé rinuncia a qualsiasi giustificazione e
fondazione autonoma: diventa un crudo
fatto che si oppone all'altro fatto
della non accettazione di sé, senza che possa pretendere ad alcuna superiorità
di valore.
Ma su questi fondamenti, l'unità della persona è impossibile. L'unità della
persona e l'unità di un compito che trascende l'individuo, nel quale
l'individuo stesso trova la ragione della sua solidarietà con gli altri uomini.
Ogni compito umano è ricerca e lavoro metodico, autolimitazione, riconoscimento
del valore e della dignità degli altri. Al di fuori di un compito determinato,
nel quale l'uomo concentri e riconduca ad unità la molteplicità dei suoi
aspetti e dei suoi rapporti col mondo e con gli altri, l'individuo, l'io, la
persona, non sono che vuote generalità, che non possono concretarsi in una
sostanza vivente.
Contro questa impossibilità, Nietzsche stesso si è urtato.
Il tentativo di divinizzare l'uomo, di trasformarlo da creatura limitata e
bisognosa in un essere autosufficiente nel quale la vita realizzasse l'infinito
della sua potenza, ha subito lo scacco decisivo della personalità stessa di
colui che lo ha compiuto. Per tutta la vita, Nietzsche ha cercato di conquistar
i valori che costituivano per lui i contrassegni del superuomo: la buona salute
e la forza fisica, la leggerezza di spirito, l'entusiasmo vitale, la ricchezza
ed energia interna, la comprensione e l'amicizia degli uguali, il successo del
dominatore. Tutto ciò gli fu negato, come gli fu negato da ultimo l'unità e
l'equilibrio della sua stessa persona.
La tragica conclusione della sua vita è un insegnamento non
meno fecondo delle grandi parole che egli seppe trovare per sottrarre l'uomo
all'esistenza banale e restituirgli il senso di eccezionalità, della grandezza
e del rischio. Ma l'eccezione, quando è veramente tale, non vuole altro che riportarsi
alla regola, ed ogni compito eccezionale esige l'umiltà e la comprensione degli
altri. Ogni grandezza è tale nell'uomo e per l'uomo, non è pretesa di
superamento dell'uomo stesso. E il rischio è inevitabile nella condizione
umana, ma va riconosciuto e affrontato, piuttosto che sfidato o esaltato.
❍ Il pensiero di Nietzsche esposto Fabio Cioffi
filologia e
filosofia
Quando
Friedrich Nietzsche muore il 25 agosto del 1900, ha alle spalle dodici anni di
silenzio. In qualche momento tra gli ultimi giorni di dicembre del 1888 e i
primi di gennaio dell'anno seguente la sua personalità era scivolata nel buio
della follia, una follia da lungo tempo ormai presentita e temuta. La
riflessione nietzscheana aveva avuto inizio nei primi anni Settanta, con la
pubblicazione della sua prima grande opera: la Nascita della tragedia dallo
spirito della musica, del dicembre del 1871. Frutto degli studi classici
esercitati in qualità di docente di filologia presso l'università svizzera di
Basilea, l'opera manifesta già un interesse spiccatamente filosofico, interesse
segnato soprattutto dall'influenza del pensiero di Arthur Schopenhauer. Fin
dalla prolusione universitaria del 1869 su Omero e la filologia classica
Nietzsche è spinto a rifiutare la "filologia accademica", disciplina
per la quale sente di non avere una vera e propria vocazione. Incapace di
guardare al passato in modo creativo e vivo, essa gli appare come un tradimento
dello spirito più autentico della classicità, ridotta a mero repertorio
ossificato di oggetti di studio. Nietzsche contesta, in particolare, l'immagine
della grecità di impronta classicista, secondo la quale i greci crearono opere
armoniose, misurate, serene perché il loro stesso spirito era armonioso,
misurato, sereno. Questa immagine è sbagliata sia perché privilegia una certa
epoca della storia greca - il V secolo - e un certo genere di arte - la
scultura e l'architettura -, sia soprattutto perché fissa l'antichità nel
momento della sua decadenza, quando lo spirito greco ha ormai smarrito
pressoché del tutto le "radici vitali" che ne contraddistinguevano le
origini; radici di cui rimane invece traccia, a parere di Nietzsche,
soprattutto nella musica e nella religione popolare greche.
Al tema
della vita, che è il tema-chiave delle opere giovanili nietzscheane, il giovane
filologo è guidato dalla filosofia di Schopenhauer, sotto il cui segno può
essere iscritta l'intera riflessione della Nascita della tragedia. Nietzsche ha
letto Il mondo di Schopenhauer fin dal 1865, quando lo scopre da universitario
nella bottega di un vecchio libraio. "Ogni sua riga - scrive in una
lettera di quell'anno - proclamava la rinuncia, la negazione, la rassegnazione;
vi scorgevo uno specchio in cui apparivano spaventosamente ingranditi il mondo,
la vita, l'animo mio [ ... ]. Vi scorgevo malattia e guarigione, esilio e
asilo, inferno e paradiso». Da Schopenhauer Nietzsche raccoglie dunque l'immagine
di un mondo governato dal principio irrazionale del dolore, rispetto a cui
l'esistenza umana, priva di un senso trascendente che sappia darne una
spiegazione, non è che un istante transeunte destinato alla morte. Alla
noluntas e all'ascesi schopenhaueriane, Nietzsche si sente tuttavia di opporre
da sùbito un principio diverso, che accoglie piuttosto la coraggiosa
accettazione del dolore quale viene testimoniata dagli eroi della tragedia
greca. Egli riprende dunque la concezione schopenhaueriana per cui nel tragico
viene in luce il "lato terrificante" dell'esistenza, ma la conduce a
esiti diversi dalla disperazione e dalla rassegnazione. La rinuncia a ogni
soluzione consolatoria, di ordine metafisico o religioso, non può ai suoi occhi
che comportare l'accettazione dell'irrazionalità dell'esistenza, l'amore «per
le cose problematiche e terribili» di cui è fatta la vita, l'amore, in
definitiva, per la vita stessa.
La lettura
che Nietzsche compie della tragedia greca risulta così incrociata con i grandi
temi del vitalismo romantico: attraverso una nuova e ardita interpretazione
della tragedia, egli supera il pessimismo schopenhaueriano; sulla base della
concezione romantica della vita contesta alla radice la visione della grecità
di stampo neoclassico winckelmanniano. A conferma di questa impostazione sta
l'appassionata lettura delle pagine goetheane, dal cui naturalismo Nietzsche
raccoglie in ispecie gli accenti paganeggianti e anticristiani. Di Goethe
Nietzsche sottolinea il motivo della celebrazione positiva della vita e la
concezione dell'uomo come polo e misura di tutte le cose, che apre il proprio
spazio interiore al massimo di sofferenza e al massimo di felicità. La vita,
dunque, è volontà, e la volontà è forza espansiva infinita. Che la vita
distrugga poi ciò che produce e significhi per l'uomo dolore e crudeltà, non
deve spingere a rinunciare alla vita, a volere il nulla: di fronte alla
crudeltà della vita bisogna essere più crudeli, occorre rispondere con
"più vita". Al tema della vita Nietzsche perviene grazie anche
all'influenza della concezione musicale di Richard Wagner. Convertitosi alla
metafisica schopenhaueriana, dopo un inizio di segno feuerbachiano, Wagner vede
nella musica l'arte dell'interiorità per eccellenza. Essa è la lingua dell'''inesprimibile'',
dell'immediato. Specchio della vita elementare dei sensi, la musica è nella sua
essenza la forma d'arte più lontana dal concetto. Il concetto blocca la vita
nella rappresentazione; la musica supera e spezza i vincoli della ragione e restituisce
all'uomo l'esistenza' nella sua originaria dimensione produttiva, creativa.
Solo nell'arte musicale, di conseguenza, e in quella forma specifica di
esercizio della volontà che è l'esistenza artisticamente vissuta può darsi per
l'uomo la possibilità del riscatto e della salvezza. L'adesione entusiasta alle
tesi estetiche wagneriane spinge il giovane Nietzsche a vedere nel musicista
tedesco il modello di "artista tragico" destinato a rinnovare la
cultura del secolo. Con Wagner, a partire dal 1868, Nietzsche stabilisce un
intenso quanto contraddittorio sodalizio che si concluderà dieci anni dopo con
una rottura drammatica (vedi alla pagina successiva SCHEDA La vita di
Nietzsche).
spirito apollineo e spirito dionisiaco
La
filosofia nietzscheana viene dunque formulata per la prima volta attraverso
categorie estetiche: l'arte è in grado di spiegare l'essenza del mondo e della
vita; a essa deve dunque affidarsi la comprensione filosofica. Secondo un
movimento tipicamente romantico, l'arte viene posta al centro: con l'occhio
dell'arte il pensatore riesce a vedere il mondo dietro il velo delle apparenze.
La filosofia risulta così interpretata con l'ottica dell'artista e l'arte con
l'ottica della vita: concezione artistica, filosofia della vita e interpretazione
dello spirito greco si saldano in un tutto, in cui la categoria del tragico
viene a costituirsi come la dimensione caratteristica della realtà.
Interpretando tragicamente l'essenza del mondo, Nietzsche scopre nella
tragedia, in quanto opera d'arte, la chiave che apre alla vera comprensione
dell'essere: attraverso il tragico si tratta dunque di interrogare il mondo sui
suoi enigmi.
Per
esprimere la propria concezione estetica Nietzsche ricorre alle figure del mito
greco. I greci, scrive, hanno reso comprensibile la propria concezione
dell'arte «non in concetti, ma nelle figure energiche e chiare del mondo dei
loro dèi, La tesi fondamentale di Nietzsche è la seguente: la tragedia è la
massima espressione artistica e culturale della
civiltà ellenica perché in essa si incontrano le due grandi forze che animano
lo spirito greco, l'apollineo e il dionisiaco. Lo sviluppo dell'arte greca è
legato al dualismo di questi due elementi come la procreazione alla duplicità
dei sessi. In essi acquista visibilità il contrasto primigenio degli opposti
(caos e ordine, nascita e morte, ascesa e decadenza, generazione e corruzione)
che è il fondamento ontologico della vita. La duplicità dell'istinto artistico
greco si mostra attraverso le maschere di Apollo e Dioniso. Apollo è il dio
della luce e della chiarezza, della misura e della forma: l'apollineo
simboleggia l'inclinazione plastica, esprime la tensione alla forma perfetta,
quale trova espressione nella scultura e nell'architettura greche. Dioniso è il
dio della notte e dell'ebbrezza, del caotico e dello smisurato: il dionisiaco
simboleggia l'energia istintuale, l'eccesso, il furore. Esso è dunque impulso
di liberazione e di abbandono; la sua forma espressiva è la musica, non già
tuttavia la musica "rigorosa e frenata" - dominio del plastico Apollo
- ma la musica che genera la passione. Nella tragedia, che per questo esprime
il culmine della cultura ellenica, apollineo e dionisiaco si fondono nella
perfetta sintesi costituita dal canto e dalla danza del coro e dall'azione
drammatica.
All'immagine
della grecità dipinta dal classicismo, fondata sull'esaltazione dell'armonia e
della compostezza, Nietzsche ne contrappone dunque una radicalmente diversa, in
cui questi elementi "apollinei" sono in profonda tensione con la
dimensione caotica e irrazionale del dionisiaco. E proprio il dioriisiaco che,
nell'interpretazione nietzscheana, viene ad assumere un ruolo prevalente. Su un
piano più strettamente filologico, infatti, Nietzsche sostiene una tesi
sull'origine della tragedia tutta nel segno di Dioniso: la tragedia si forma
dal coro dei seguaci mascherati del dio; l'eroe tragico non è che una maschera
del dio, del quale ripete le sofferenze; nella morte dell'eroe è Dioniso stesso
che muore, per poi nuovamente rinascere. L'importanza di questa interpretazione
- discutibile e assai discussa sul piano filologico - è di carattere
soprattutto filosofico. L'opposizione che lo scritto nietzscheano incontrò da
parte dei filologi classici - celebre la stronca tura di Wilamowitz-Moellendorf,
più giovane di Nietzsche di quattro anni e all'epoca solo agli inizi della sua luminosa
carriera di filologo accademico - poggia sul malinteso, provocato e condiviso
da Nietzsche stesso, che la Nascita della tragedia fosse un vero e proprio
libro di filologia, mentre era invece il primo e ancora non compiuto tentativo
di esporre una concezione filosofica del mondo.
La
sensibilità greca, per Nietzsche, avverte con profondità mai più raggiunta la
tragicità della vita e della condizione umana: la limitatezza e la finitudine
dell'esistenza individuale, il suo essere momento di un ciclo di vita e di
morte sul quale l'uomo non ha alcun potere. Il gioco dialettico di apollineo e
dionisiaco, dunque, esprime innanzi tutto il sistema di forze e di impulsi che
agisce all'interno di ogni singolo uomo. L'apollineo è l'illusione, il sogno
che rende accettabile la vita racchiudendola in forme stabili e armoniche. Nel
dionisiaco, invece, si rivela all'uomo tutto l'abisso della sua condizione: la
vita erompe qual è, gioco crudele di nascita e di morte. Il dionisiaco è
l'esperienza del caos, il perdersi di ogni forma stabile e definita nel flusso
ambiguo della vita. In esso vi è dunque il dolore: la tragedia è infatti
dolore. Eppure, nello stesso tempo, è anche gioia, perché Dioniso è
forza
generatrice, vita che si afIerma continuamente al di là della morte. Nel
dionisiaco, l'uomo infrange i divieti e le barriere imposti dalla cultura e, secondo
un motivo fondamentale di tutta la filosofia nietzscheana, "dice sì alla
vita": si libera cioè dalle illusioni e si accorda con la sua natura, che
è forza, vitalità. Ciò è possibile, in particolare, nell'esperienza artistica, durante
la quale lo spettatore non vive, come voleva Aristotele, una catarsi, una
"purificazione" delle passioni, ma si immerge e si abbandona al
flusso di dolore e di gioia che la tragedia fa vivere sulla scena.
socrate e la morte della tragedia
Nietzsche
interpreta come decadenza l'intera storia dell'Occidente, a partire dalla
vittoria dello spirito scientifico-socratico sullo spirito musicaledionisiaco
della tragedia greca. La tragedia muore infatti per Nietzsche nel momento in
cui il pensiero greco, con Socrate, pretende di racchiudere in concetti
l'esistenza, imponendo così alla vita il primato della ragione. «La tragedia
muore suicida» per mano di Euripide, "maschera" che non rivela più né
Apollo né Dioniso, ma un nuovo demone, Socrate. Euripide infatti «porta lo
spettatore sulla scena» e trasforma l'azione drammatica in dibattito teorico,
riproduce nell'arte la mediocrità del quotidiano abbandonando la profondità
religiosa del mito. Con Euripide la tragedia sopravvive così nella sua
"forma degenerata", nella quale il mito tragico decade a mera
narrazione realistica di vicende razionalmente concatenate. Il realismo
euripideo è tuttavia solo una conseguenza dell'ottimismo razionalistico
socratico: ciò che risulta messo in scena non è più la "tensione
epica", l'''eccitante incertezza", ma la struttura razionale della
realtà. Rovesciando la tesi storiografica tradizionale, che vedeva nei presocratici
una sorta di "preparazione" al sorgere della grande filosofia
socratico-platonica, Nietzsche interpreta dunque l'età di Euripide e di Socrate
come un'età di decadenza, in cui la cultura ellenica, che aveva espresso con
Eraclito ed Eschilo una straordinaria capacità di cogliere la tragicità dell'
essere, perde il suo nesso vitale con il mondo del mito e con la comunità della
polis. Si chiude con Socrate l'epoca di Dioniso e il dionisiaco stesso viene
espulso dall'orizzonte della cultura occidentale.
All'uomo
tragico si sostituisce l'uomo teoretico, che con la potenza della ragione e
della scienza si dedica a costruire un imponente mondo di apparenze per
affermare il suo dominio tecnico sulla vita. Sospinto da un bisogno di
rassicurazione, dall'esigenza di rendere tollerante il disordine della vita,
egli aderisce alla mentalità socratica per cui «al giusto non può accadere
niente di male» .
Se la
tragedia greca è morta con Euripide, il tragico rimane tuttavia la dimensione
ineliminabile della vita. Il conflitto fra concezione tragica e concezione
teoretica del mondo resiste e sopravvive, secondo Nietzsche, al tentativo,
compiuto dal pensiero occidentale da Platone e dal cristianesimo in poi, di
costruire filosofie "antitragiche", cioè finalizzate a occultare il
tragico che è nelle cose tramite l'ottimistica pretesa di imporre al mondo un
ordine razionale oppure mediante l'ipostatizzazione di essenze e strutture
metafisiche. Il fallimento di questa pretesa, di cui Nietzsche scorge i primi sintomi
nella cultura del suo tempo, può aprire la via a un ritorno della tragedia: una
possibilità che il filosofo tedesco, in questa prima fase del suo pensiero,
vede rappresentata dal dramma musicale di Wagner. L"'opera totale"
wagneriana, in quanto riunisce gesto, parola e musica, è l'opera d'arte
completa, all'altezza della tragedia antica. Nell'arte, e in ispecie nella
musica, la tragicità dell'esistenza non solo può trovare espressione adeguata,
ma può anche venire trasformata in esperienza vitale, ossia nella
riappropriazione della gioia e del dolore che sono connessi all'insuperabile
contraddittorietà della vita. «Solo come esperienza estetica - afferma
Nietzschel'esistenza e il mondo appaiono giustificati».
il prospettivismo nietzscheano
Il primo
periodo della riflessione nietzscheana è determinato in modo essenziale dal
rapporto con la filosofia greca. A causa della sua professione di filologo,
Nietzsche si occupa ripetuta mente del pensiero antico, in particolare dei
presocratici, di Platone, di Diogene Laerzio. Tra il 1872 e il 1875 egli tenta
diversi abbozzi di un Libro del filosofo, tra i quali il più notevole è un
saggio del 1873, pubblicato postumo, La filosofia nell'età tragica dei Greci.
In continuità con le tesi della Nascita della tragedia, in questo scritto
Nietzsche postula una frattura sostanziale tra i presocratici e Socrate e
Platone. Nel pensiero dei primi vibra a suo parere la comprensione tragica del
mondo. Come dunque la tragedia morÌ nel "socratisrno" di Euripide, così
la "filosofia tragica" delle origini si spense nella dialettica
socraticoplatonica: al pessimismo eroico del pensiero tragico si sostituì
l'ottimismo morale della ragione, all'intuizione visionaria e artistica il
meccanismo sterile della dialettica delle idee. Nietzsche vede nei primi
filosofi i "grandi uomini", le personalità di stampo eccezionale,
capaci di rendere manifesto l'ideale di una vita filosofica perfino nei gesti e
nel modo di vestire. Nelle loro dottrine egli scorge il modello dell'atto creativo
del sapiente che applica il suo sommo diritto a dare le leggi di ogni cosa.
Essi sono i guaritori e i purificatori della cultura greca. In Eraclito,
soprattutto, Nietzsche crede di individuare la radice del suo stesso pensiero:
il primato del divenire sull'essere, il flusso del tempo come dimensione
veritiera della realtà, l'unità degli opposti sono i motivi eraclitei nei quali
egli vede anticipata la propria concezione dell'unità conflittuale di apollineo
e dionisiaco. Nel frammento del pensatore greco che dice «Il tempo è un
fanciullo che gioca a dadi col mondo» egli ritrova la sua stessa intuizione
dell'sinnocenza del divenire» e vede confermata la propria concezione estetica
della vita e del mondo.
Dell'estate
del 1873 è lo scritto, anch'esso postumo, Su verità e menzogna in senso
extramorale, nel quale Nietzsche sviluppa una critica al concetto scientifico e
positivistico di verità che anticipa con grande originalità alcuni temi della
critica novecentesca. Nietzsche afferma che il linguaggio è una convenzione la
cui essenza non è quella di rappresentare la natura delle cose. Esso è un
sistema di metafore, liberamente prodotto come altri sistemi di metafore, e
pertanto non va inteso come l'unico modo corretto e valido di descrivere il
mondo. Nietzsche si muove qui sul terreno indicato dagli antichi sofisti: dà
Protagora - secondo il quale l'uomo è misura di tutte le cose - e da Gorgia -
per cui il reale stesso non è altro che il proliferare di immagini che il
linguaggio produce a scopo persuasivo. Ciò che chiamiamo "verità", di
conseguenza, è solo un «gioco di dadi" concettuale che si determina nelle
infinite interpretazioni del mondo prodotte dall'intelletto umano. Essa è solo
il provvisorio configurarsi di determinate opinioni e concezioni, risultato del
prevalere a livello individuale e collettivo di determinati criteri, interessi,
rapporti di forza. Come già nella Nascita
della tragedia, all'uomo "teoretico", il quale crede che i
concetti siano l'essenza stessa delle cose, Nietzsche contrappone anche qui
l'artista creatore e forgiatore di immagini, che non è guidato «dai concetti,
ma dalle intuizioni »,
Attraverso
questo ordine di considerazioni emerge in nuce uno dei temi decisivi del
pensiero nietzscheano, il tema del prospettùnsmo. Si tratta di una concezione
che riceverà una trattazione più matura soprattutto nelle opere nietzscheane
dell'ultimo periodo; è tuttavia utile anticipare già qui alcuni dei suoi
caratteri, poiché esso costituisce uno dei motivi conduttori di tutta la
riflessione del filosofo di Roecken. Contro il mito positivistico della scienza
obiettiva in quanto scienza di fatti, il prospettivismo afferma che «non ci
sono fatti, bensÌ solo interpretazioni». Non esistono né verità, né falsità. ma
solo prospettive differenti sulla realtà. Il conoscere, di conseguenza, è un
conoscere prospettico «al di là del vero e del falso», in cui tutte le
"verità" prodotte si equivalgono, giacché nessun criterio oggettivo
può essere invocato per preferirne una o un'altra. Il mondo, nella sua qualità
polimorfa, incerta e mutevole. è solo il risultato dei giochi prospettici che
vi operano; la vita stessa non è altro che gioco e scontro di forze e di
prospettive (quelle che il Nietzsche maturo chiamerà le "volontà di potenza").
Non esiste dunque conoscenza al di fuori della pluralità dei punti di vista che
gli uomini aprono sul mondo: conoscere significa sempre valutare, ossia
organizzare la realtà secondo il prospettivismo dei valori attraverso i quali
ciascun uomo esprime la singolarità della propria esistenza. Sono i valori a
stabilire ciò che «viene tenuto per vero»; e dal momento che il principio del
valore è "l'utilità per la vita", il concetto di verità ha alla fine
un fondamento che è vitalistico e pragmatico insieme.
Nietzsche
giunge così a mettere radicalmente in questione i tradizionali concetti di
soggetto e di coscienza. Interno al gioco delle interpretazioni. il soggetto è
esso stesso semplicemente una posizione prospettica tra le altre, un
"effetto di superficie" privo di quei caratteri di unità e di
ultimità che la filosofia ci ha trasmesso, da Cartesio a Kant. Riprendendo un
tema già spinoziano e Ieibniziano, Nietzsche sottolinea che ogni
rappresentazione del soggetto deriva da un conatus o appetitus di quest'ultimo
nei confronti dell'oggetto; poiché tuttavia questo tendere si radica in ultima
analisi nella stessa biologia del soggetto, la rappresentazione non è
necessariamente accompagnata dalla coscienza, la quale è anzi un suo accidens,
una concomitanza non necessaria. Il soggetto, di conseguenza, non è un io
autocosciente e trasparente, come vuole la tradizione razionalistica e
idealistica. ma un complesso conflittuale di "centri di forza"
senzienti e attivi secondo una loro propria istintualità. L'io autocosciente è
una "piccola ragione" di fronte alla "grande ragione" del
corpo, che è una multiforme attività di rappresentazione e appetizione di cui
la coscienza non percepisce che una minima parte.
critica della cultura ed elogio del genio
I temi che
abbiamo visto emergere in maniera cosÌ prepotente nella Nascita della tragedia
si arricchiscono di nuove suggestioni, tra il 1873 e il 1876, con la
pubblicazione delle quattro Considerazioni inattuali. La direzione in cui muove
il pensiero di Nietzsche è ora quella della critica della cultura. Il progetto
di una rinascita della cultura tragica, di cui sono auspicio i suoi scritti
giovanili, spinge la riflessione nietzscheana verso la critica della civiltà
occidentale. L'obiettivo del filosofo tedesco non è tuttavia quello della
fondazione di una cultura "diversa", di cui egli non vede né
l'attualità, né la necessità. Egli non delinea affatto un progetto di civiltà
alternativo alla società decadente della sua epoca, né intende auspicare per il
futuro un rinnovato e più integrato rapporto fra l'uomo di cultura e il suo
tempo.
La
prospettiva nietzscheana è piuttosto quella di fare appello alle forze sane e
creative della cultura, le quali, dentro la civiltà, sappiano interpretare un
momento potentemente "critico". L"'artista wagneriano" e il
"filosofo schopenhaueriano" sono per Nietzsche - come sappiamo - i
protagonisti della rinascita della cultura tragica nel mondo attuale. Nella Nascita
della tragedia, Nietzsche aveva enunciato la sua concezione del mondo,
rappresentando la grecità dell"'età tragica" nel suo fondamento
mitico, nella sua energia creativa, nella totalità del suo stile artistico
quale risulta rappresentata nell'opera d'arte tragica. Ora questa concezione
diventa l'unità di misura per una diagnosi radicale della cultura del suo
tempo.
La prima Inattuale, David Strauss, l'uomo di fede
e lo scrittore, ha il carattere di un'aspra invettiva contro un uomo che
pure aveva incarnato uno dei suoi miti giovanili e il cui pensiero viene invece
ora liquidato come uno «svergognato ottimismo da filisteo». La Vita di Gesù di Strauss - l'opera che
nel 1835 aveva aperto la strada alla cosiddetta "teologia liberale" -
era stata una delle letture preferite da Nietzsche negli anni dell'università:
in essa egli aveva visto l'esercizio di uno spirito libero dalla superstizione
e dall'oscurantismo religioso. Possiamo comprendere il mutamento di giudizio da
parte di Nietzsche solo riferendoci all'occasione che motiva lo scritto.
L'opera viene composta nella primavera del 1873 - su incarico di Wagner, il
quale aveva un vecchio conto da regolare con il teologo liberale - per
stroncare il nuovo libro di Strauss dal titolo L'antica e la nuova fede, in cui
l'autore avvicinava la propria prospettiva alle vedute ateistiche del
positivismo evoluzionistico. A Nietzsche questa operazione appare un tradimento
della libertà di pensiero; di qui il suo violento attacco.
Sarebbe
tuttavia errato ridurre la prima Inattuale
a un mero scritto su commissione. In Ecce
homo, Nietzsche dirà retrospettivamente della sua opera giovanile: «Non
attacco mai persone, mi servo della persona come di una forte lente di
ingrandimento, con cui si può rendere visibile una crisi generale». Dietro
all'attacco al teologo "filisteo" sta dunque il violento disprezzo
per la nuova cultura tedesca, figlia della fondazione del Reich e succube della
ragione e del progresso, cultura che gli appare «senza senso, senza sostanza, senza
scopo».
Più
intensa e meditata è la riflessione che Nietzsche esercita nella seconda
Inattuale, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, del 1874, dove la
critica si concentra sulla storia. «Inattuale è questa considerazione - scrive
il filosofo tedesco - perché cerco di intendere qui come danno, colpa e difetto
dell'epoca qualcosa di cui l'epoca va a buon diritto fiera, la sua formazione
storica». Di qui l'enunciazione della tesi dell'opera: «Solo in quanto la
storia serva la vita, vogliamo servire la storia: ma c'è un modo di coltivare
la storia e una valutazione di essa, in cui la vita intristisce e degenera».
Dopo aver
criticato, nelle pagine della Nascita della tragedia, l'ottimismo scientistico,
ora Nietzsche prende a bersaglio un altro dei tratti dominanti della cultura
ottocentesca, lo storicismo, non solo e non tanto nella sua forma hegeliana,
quanto come espressione di quella mentalità storicistica che, a suo parere, è
tipica dell'educazione del tempo. L'intero Ottocento soffre di una «malattia
storica», i cui sintomi sono l'eccessivo legame con il passato e
l'atrofizzazione di ciò che in ogni cultura è l'elemento creativo e attivo.
L'eccesso di senso storico diventa così il segno della decadenza: gli uomini si
riducono a vivere solo nel passato, senza più stimoli a creare "nuova
storia", spettatori rassegnati del corso inarrestabile degli eventi.
Quando un uomo, un popolo o una civiltà intera sono dominati dalla mentalità
storiografica insorge in essi la convinzione che niente di nuovo possa mai
esserci sotto il sole e che tutto sia già stato deciso: viene meno la
convinzione che abbia senso impegnarsi a costruire ciò che in un futuro
prossimo si pensa sia destinato a scomparire nel fluire inarrestabile delle
cose. Come un semplice punto su una linea, costituito interamente dalla sua
relazione con il passato e con il futuro, l'uomo cessa in questo modo di essere
protagonista del presente.
Questa
"saturazione di storia" è in particolare pericolosa per la vita. La
personalità dell'uomo ne risulta infatti indebolita. L'enorme sviluppo di
conoscenze storiche che si è realizzato nel secolo XIX ha dato all'individuo
più cultura di quanta egli riesca a digerire; trasformati in «enciclopedie
ambulanti» riempite di «epoche, costumi, arti, filosofie, religioni», noi
uomini moderni «non caviamo niente da noi stessi», perdiamo il contatto con la
nostra interiorità, indossiamo l'abito logoro delle convenzioni e
dell'imitazione, abbracciamo una cultura ormai solo riproduttiva. In questa
«mancanza di stile» sta la decadenza dell'uomo occidentale, ridotto dal suo
eccesso di coscienza storica a passivo spettatore degli eventi. L'uomo moderno
- scrive Nietzsche, lucido premonitore della società di massa del XX secolo -
«si fa preparare dai suoi artisti della storia la festa di un'esposizione
universale [ .. .]. Ancora non è finita la guerra, e già essa è convertita in
carta stampata in centomila copie, già viene presentata come nuovissimo
stimolante al palato estenuato dei bramosi di storia».
Per
combattere la «malattia storica», Nietzsche reclama la possibilità di vivere e
di agire in modo «non storico». La vita ha bisogno di «oblio»; l'uomo deve
imparare "l'arte del dimenticare», così da poter agire secondo quel certo
grado di incoscienza, senza il quale non c'è felicità, non c'è grandezza ma
solo paura. n motivo qui è pienamente romantico: «chi non sa fissarsi sulla
soglia dell'attimo dimenticando tutto il passato - scrive - non saprà mai che
cosa sia la felicità». E ancora una volta, Nietzsche fa appello all'arte come a
quella potenza sovrastorica che è in grado di guarire la civiltà dalla decadenza
orientandola verso l'eterno. Ciò non significa tuttavia che la conoscenza del
passato non abbia alcuna utilità per la vita e che non sia possibile instaurare
un rapporto vitale e produttivo con il proprio passato. Anzi, «ciò che non è
storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un
individuo, di un popolo e di una civiltà», purché la storia sia al servizio
della vita e non si erga al contrario come "scienza pura", avida solo
di sapere. Nietzsche distingue tre modi fondamentali di porsi in un rapporto
non dannoso con la storia, i quali a loro volta danno luogo a tre forme
positive di storiografia: la storiografia monumentole, quella antiquaria e
quella critica. Ognuna di queste forme presenta dei limiti e dei rischi, i
quali tuttavia vengono compensati dalle due forme rimanenti.
La
storiografia monumentale corrisponde all'atteggiamento di chi è attivo e ha
aspirazioni e, come tale, si proietta nel futuro. Essa occorre all'individuo
potente che combatte grandi battaglie, che ha bisogno di modelli e di maestri e
che non può trovarli nel presente. La meta di costui è la felicità propria e
dell'umanità intera, per la quale non lo attende nessuna ricompensa se non la
gloria. A quest'uomo la storia serve come mezzo contro la rassegnazione: dai
grandi momenti della storia passata egli deduce che «la grandezza fu comunque
una volta possibile e perciò anche sarà possibile un'altra volta». n rischio al
quale soggiace la storiografia monumentale è tuttavia quello di falsare il
passato, di mitizzarlo per renderlo degno di imitazione. Essa, in questo caso,
inganna e seduce, eccitando il coraggioso alla temerarietà e l'entusiasta al
fanatismo.
Se l'uomo
vuol creare cose grandi si impossessa del passato per mezzo della storiografia
monumentale, chi invece ama perseverare nella tradizione coltiva
il passato
come uno storico antiquario. La storiografia antiquaria appartiene a
una specie
umana conservatrice e veneratrice, la quale ha cura delle proprie origini e
assume la tutela della tradizione come compito. Vita è per gli uomini di questo
tipo essenzialmente memoria e fedeltà. Carichi di questa pietà essi pagano il
debito di riconoscenza per la propria esistenza. Guardando oltre la propria
caduca esistenza individuale, essi ritrovano se stessi nella città e nella
stirpe a cui appartengono. Il loro scopo è servire la vita, preservando le
condizioni in cui sono nati per coloro che verranno dopo di loro. Il limite di
questo atteggiamento è quello di servire la storia passata fino al punto di
mummificare la vita. La storiografia antiquaria degenera nel momento in cui
inaridisce il presente e si mostra incapace di generare il nuovo. Chi al
contrario «soffre e ha bisogno di liberazione» è indotto, per poter vivere, a
gettar via da sé il passato che avverte come peso. Molto spesso dunque l'uomo
ha bisogno anche di un terzo modo di considerare il passato, quello critico. La
storiografia critica esprime un atteggiamento aperto al presente, in grado di
assumerlo come unità di misura per giudicare il passato, trascinando per così
dire la storia passata dinanzi al tribunale del presente. E tuttavia - osserva
Nietzsche - noi siamo sempre i figli del nostro passato, anche dei suoi errori
e dei suoi traviamenti: staccarsi dal passato è dunque sempre un processo
pericoloso, pericoloso per la vita stessa. «Uomini o tempi che servono la vita
a questo modo, giudicando e annientando un passato, sono sempre uomini e tempi
pericolosi». Solo se la vita sa porsi grandi compiti, conclude Nietzsche, ha
ancora un senso guardare nel passato. Solo chi esprime una potente volontà di
futuro sa scoprire il futuro che vive nel passato stesso. Se il progetto per il
futuro viene a crollare, allora tutto il sapere storico diventa un peso morto,
anzi un pericolo per la vita: l'uomo imparerà dalla storia solo la
rassegnazione e la vita stessa, svuotata da impulsi creativi, si rifugerà nel
passato ossia nell'illusoria pienezza di una vita già vissuta.
La terza e
la quarta Inattuale, Schopenhauer come educatore (1874) e Richard Wagner e Bayreuth (1875),
rappresentano l'ultimo compiuto omaggio agli uomini che Nietzsche ha fin qui
venerato appassionatamente. Schopenhauer è la figura esemplare di maestro ed
educatore, che ha perseguito un ideale di filosofia come denuncia del conformismo
e come ricerca della libertà. Wagner incarna la figura del
"redentore", colui che sa indicare all'uomo la via della sola verità
possibile, quella che rinasce dalle ceneri della catastrofe, come indica la
grandiosa parabola epico-musicale wagneriana dell'Anello del Nibelungo. Nello
scritto su Schopenhauer, in particolare, sviluppando una concezione già
presente nella Nascita della tragedia, Nietzsche vagheggia un progetto di
rinascita della cultura che ha per protagonista la figura ascetico-eroica del
"filosofo". Mentre "l'uomo di Goethe" è ancora l'uomo
contemplativo che, viaggiatore del mondo, «raccoglie per il suo nutrimento
tutto ciò che di grande e memorabile» la vita produce, "l'uomo di
Schopenhauer" è il devoto ricercatore della verità: egli possiede
l"'intuizione del tutto" e la sua saggezza assume la forma di una
«grande illuminazione sull'esistenza». Come l'uomo goetheano, egli si sforza di
"conoscere tutto", ma per un doloroso amore per il vero che lo
costringe anche a sacrificare se stesso.
Nietzsche
disegna così l'idea del Genio come strumento essenziale di una cultura non
ancora presente - giacché il Genio si comporta sempre in modo
"inattuale" - ma futura; idea che egli ora vede incarnata nei due
"eroi" della sua giovinezza. E chiaro che questa esaltazione del
genio acquista maggiore consistenza se collegata alla concezione tragica del
mondo che ne costituisce tuttora lo sfondo. La filosofia di Nietzsche è ancora
governata dall'impostazione della Nascita della tragedia e dalla concezione "grecizzante"
dell'uomo che vi aveva trovato espressione: l'uomo, in quanto sapiente, artista
che inventa e produce cultura, è investito di una missione cosmica che ne
determina il destino. Consacrato alla verità, ossia all'intuizione dell'essenza
tragica della vita, il Genio è strumento di una finalità sovrumana, è esso
stesso la manifestazione del destino. In questa sorta di divinizzazione del
Genio e nell'elogio del "grande uomo" che ne segue troviamo il primo
abbozzo della concezione nietzscheana del "superuomo" (Uebermensch).
Con ciò abbiamo toccato dunque uno dei motivi fondamentali della filosofia
nietzscheana. A questo proposito, Eugen Fink - uno dei più acuti interpreti di
Nietzsche - ha tuttavia osservato come l'idea nietzscheana di uomo sia già
segnata qui da una radicale ambiguità: -Nietzsche oscilla - scrive Fink - tra
una concezione che rimane nel puramente umano, in cui distingue gli estremi del
genio e dell'uomo-gregge, e una più profonda interpretazione dell'umanità, che
va al di là di ogni umanesimo, e concepisce l'uomo secondo la sua missione
cosmica, che è quella di essere il depositario della verità».
il tramonto dei miti giovanili
Nel maggio
del 1879, il manifestarsi in forme sempre più acute della malattia che lo
porterà alla follia costringe Nietzsche a lasciare definitivamente l'insegnamento
di filologia classica a Basilea. Vivendo di una modesta pensione, il filosofo
dà ora inizio a quelle incessanti e sempre più sofferte peregrinazioni
attraverso l'Italia, la riviera francese e le valli svizzere che segneranno la
sua esistenza, di qui in avanti, fino allo spegnersi della sua mente nelle
drammatiche giornate torinesi del Natale del 1888. Già nel 1876-77,
l'insegnamento di Nietzsche si era tuttavia sostanzialmente interrotto e il
filosofo tedesco aveva soggiornato a lungo a Sorrento ospite dell'amica Malwida
von Meysenburg. Sono di questi anni gli abbozzi di una nuova opera che uscirà
nel 1878 con il titolo di Umano troppo umano, sottotitolo Un libro per spiriti
liberi. A partire da quest'opera Nietzsche muta il corso della propria riflessione,
cambia l'orizzonte dei propri interessi. Significativamente, si trasforma anche
il linguaggio attraverso cui egli dà corso alle proprie riflessioni: alle forme
del saggio, della dissertazione, subentra la scrittura franta e a lampi della
composizione aforistica. Lo stile si fa più aggressivo e polemico; il tono è
ora spesso quello dell'invettiva, ironica e tagliente.
A lungo
gli studiosi si sono interrogati se si sia davanti a un cambiamento radicale, a
un "secondo periodo" del filosofo, oppure se si tratti piuttosto di
una sostanziale evoluzione di motivi e di interessi, ancorché segnata da
brusche novità. Non c'è dubbio che, da un punto di vista biografico, il periodo
che si inaugura con Umano troppo umano è segnato dalla rottura insanabile con
gli "eroi" della propria giovinezza, dal distacco interiore da Wagner
e da Schopenhauer. Esso avviene di colpo: sembra che il filosofo 'rinneghi
improvvisamente ciò che aveva amato e bruci quegli idoli nel nome dei quali
aveva fin qui pensato e scritto. Come scrive Fink, Nietzsche si sveglia dal
sogno romantico «e una più fresca, più fredda aria lo avvolge»: si libera dalla
metafisica schopenhaueriana e dalla divinizzazione wagneriana dell'arte e cerca
una nuova e più propria espressione. In realtà - come si è detto - già nella
Nascita della tragedia Nietzsche non aveva condiviso il pessimismo di
Schopenhauer.
L'esperienza
non del tutto riuscita del Feltspielhaus di Bayreuth, che Wagner realizza nel
1876, come centro di diffusione della propria opera, convince poi Nietzsche
dell'irrealizzabilità di un progetto di rinascita della cultura tragica fondata
sul dramma musicale wagneriano. L'anno seguente, quando Nietz-
sche viene
a conoscenza del progetto wagneriano del Parsifal-l' opera ispirata
alla
leggenda del santo Graal, il calice dell'ultima cena, in cui l'epopea romantica
dell'Anello del Nibelungo si salda con la prospettiva cristiana della redenzione
- l'incontro dell'artista che aveva fin qui esaltato con il cristianesimo gli
appare come un tradimento, un segno di debolezza. Scriverà più tardi, in
Nietzsche contra Wagner: «All'improvviso Richard Wagner, apparentemente il più
ricco di vittorie, in verità un disperato décadent putrefatto, si prosternò,
derelitto e a brandelli, dinanzi alla croce cristiana». Sulla rottura con
Wagner Umano troppo umano svolge una funzione decisiva nella stessa
autobiografia interiore di Nietzsche: in Ecce homo, egli chiamerà il libro «il
monumento di una crisi», intendendo che con esso il processo sotterraneo di allontanamento
da Wagner si trasforma in una crisi acuta. Quando Nietzsche spedisce l'opera a
Wagner, gli giunge "per un miracolo del caso" una copia del Parsifal
con la dedica «Al suo fedele amico Friedrich Nietzsche, Richard Wagner,
consigliere». «Questo incrociarsi dei due libri - scriverà più tardi Nietzsche
- mi sembrò che avesse un suono di presagio. Non suonava come se si fossero
incrociate due spade? In ogni modo così lo sentimmo noi: perché entrambi
tacemmo». Il distacco da Wagner non si consuma tuttavia solo su un piano
biografico e psicologico. Da un punto di vista filosofico, Nietzsche ha smesso
di pensare che il rinnovamento della cultura possa avvenire attraverso una
sorta di riscatto estetico dell'esistenza.
Decisive,
nel determinare i nuovi orientamenti, sono le amicizie che Nietzsche stringe
nell'ultimo periodo di Basilea e nei primi mesi delle sue peregrinazioni: il
sodalizio con il teologo e storico Franz Overbeck, che rimarrà l'amico più
fedele fino ai giorni della follia torinese; il dialogo con Jacob Burckhardt,
che aveva già influito sulle tesi della seconda Inattuale; l'incontro con il
giovane medico e pensatore Paul Rée, che lo avvicina agli studi di morale e di
psicologia. Nuove e più intense sono anche le letture cui Nietzsche si dedica,
spinto dal desiderio di formarsi una cultura scientifica (che tuttavia non
riuscirà mai ad avere in modo compiuto): trattati di fisica, di antropologia,
di paleontologia lamarckiana, storie della chimica, le opere di Boscovich; ma
anche i grandi moralisti francesi: Montaigne, La Rochefoucauld, Fontenelle,
Pascal. La massa di stimoli e di riflessioni suscitata da queste e da altre
letture sfocerà nella mole enorme di frammenti e di aforismi raccolti nelle
opere di questi anni: Umano troppo umano (1878) e poi Aurora (1881), Gaia
scienza (1882).
l'illuminismo di nietzsche
Al venir
meno dell'ideale di una rinascita della cultura tragica, nelle pagine di queste
opere si accompagna la fine di quella concezione "metafisica"
dell'arte e del Genio artistico che avevamo visto dominare la Nascita della
tragedia. All'arte e alla religione, subentra ora, come via di accesso alla
comprensione del mondo, la scienza. Sono l'arte e la religione stesse, anzi, a
essere chiamate in giudizio e a non valere più come i modi fondamentali della
verità, ma al contrario come quelle illusioni che la critica scientifica deve
smascherare. L'arte, in particolare, non viene più vista come la forza che può
fare uscire la civiltà moderna dalla sua decadenza: ciò che la rende una forma
"superata" dell'educazione dell'umanità (e qui Nietzsche pensa ormai
anche all'arte wagneriana) è il fatto che, al contrario dello scienziato,
l'artista esprime "una moralità più debole" nei riguardi della
conoscenza e della verità. Egli agisce sugli animi solo in forza di un richiamo
alle emozioni più mutevoli, riferendosi per di più artificialmente al mondo del
passato, ossia a un mondo che non è più il nostro, La sua dunque è una
concezione dell'esistenza puramente mitica. A fronte della quale sta la spiritualità
più matura espressa dalla cultura scientifica.
Per
scienza, tuttavia, Nietzsche non intende né le scienze positrve, ossia
l'insieme delle conoscenze e delle verità particolari sul mondo offerte dalle
discipline specialistiche del suo tempo, né tantomeno la sottile analisi dei
concetti e delle procedure della ragione quale emerge dalla tradizione del
pensiero occidentale da Socrate a Hegel. Influenzato da Burckhardt, Nietzsche
continua a annoverare questa scienza, calcolistica e oggettivistica, insieme
con la cattiva filosofia, tra i "nemici della cultura". Scienza è
invece, per il filosofo di Hocken, essenzialmente analisi critica, esercizio
del dubbio, diffidenza metodica. Da essa, dunque, Nietzsche non si aspetta
tanto un'immagine del mondo più vera di quella offerta dall'arte, quanto un
modello di pensiero più spregiudicato e più libero. La scienza può aiutarci a
rischiarare il mondo delle nostre rappresentazioni, nonostante tutti gli errori
di cui la sua storia, come anche la storia intera degli uomini, è costellata.
La lucida consapevolezza dell'ineliminabilità degli errori cui soggiace la
scienza marca la distanza tra la concezione nietzscheana della scienza e quella
positivistica e fa di Nietzsche un lucido anticipatore della tematica epistemologica
novecentesca. Ciò che rende l'arte diversa dalla scienza non è dunque la
maggiore oggettività di quest'ultima. Sotto un certo rispetto, anzi, come ha
osservato Gianni Vattimo, arte e scienza sono intesi, nelle opere di questo
periodo, come «complementari nel definire un atteggiamento maturo dell'uomo nei
confronti del mondo».
Delle
figure che fino alle Considerazioni inattuali Nietzsche indicava come i
"redentori" rimane ora in primo piano solo quella del buon filosofo,
il cui metodo - in analogia con quello dello scienziato - è critico e storico.
Critico perché egli assume il sospetto a criterio di analisi anche delle verità
apparentemente più certe; storico nel senso che egli non crede a "realtà
eterne" e "verità assolute", ma concepisce l'uomo e i suoi
valori come un risultato delle circostanze storiche e del gioco delle forze che
operano al suo interno. Nietzsche diventa così "illuminista": dedica
perfino a Voltaire - «uno dei più grandi liberatori dello spirito» -la prima
edizione di Umano troppo umano. Della filosofia settecentesca egli apprezza
l'elemento del disincanto e la riduzione delle forme di vita alle loro basi
sensistiche, più di tutte al piacere (tratto che ritrova in uno dei suoi poeti
preferiti, Leopardi); rifiuta invece l'enciclopedismo, che anticipa l'aborrito
sistema positivistico del suo tempo. Si fa ora avanti in Nietzsche l'interesse
per l'antropologia: tutti gli interrogativi circa il mondo e l'essere si
concentrano sull'uomo. Muta, di conseguenza, anche la concezione della vita:
non più la vita universale del cosmo, ma la vita dell'uomo, evento biologico di
questo mondo.
Di qui il
violento attacco che Nietzsche rivolge al concetto di "trascendenza":
cattiva filosofia è quella che "duplica" il mondo, immaginando
idealisticamente una realtà in sé, dietro ai fenomeni. Tutto si risolve al
contrario nell'apparenza e nulla, neanche la scienza, può condurci alla cosa in
sé, di cui sognava Schopenhauer, che «è degna di un'omerica risata». Il
cosiddetto "sovrumano" è in realtà solo un'illusione "troppo
umana"; la credenza in una cosa in sé, al di là della realtà fenomenica, è
solo un errore della ragione, che non può avere pretese di verità. Le ipotesi
metafisiche, così come quelle religiose, sono il frutto di un inganno cui
l'uomo volontariamente soggiace. Bugia cui l'uomo si appella per tollerare la
propria caducità e la propria debolezza, per vagheggiare un significato
infinito della propria esistenza, la metafisica «tratta degli errori
fondamentali dell'uomo come se fossero verità fondamentali •. Giustificabile
forse nello stato d'animo romantico tipico dell'età giovanile, che allevia lo
scontento di sé riconoscendosi nel "mistero del mondo", essa ha un
valore puramente consolatorio. L'esito di questa svolta metodologica è l'analisi
spietata della cultura dell'età moderna, di cui Nietzsche annuncia lo stato di
malattia. I grandi modelli culturali ottocenteschi, da questo punto di vista,
non sono altro che «raffinati imbrogli»: il Romanticismo, perché espressione di
uno spirito pessimista, estetizzante e decadente; l'idealismo, perché pretende
assurdamente di realizzare una comprensione totalizzante e definitiva della
realtà; il positivismo, infine, in quanto ingenuo ottimismo che riduce la
scienza a sistema.
Il campo
nel quale Nietzsche mette alla prova la propria "filosofia critica" è
ora quello della morale, la quale assoggetta la vita a valori pretesi
trascendenti, che hanno invece la loro radice nella vita stessa. Mentre la vita
è esplosione di forme, i valori morali bloccano l'esistenza, iscrivendola nella
cifra della trascendenza; quindi negano la vita. Ciò di cui vi è bisogno, a suo
parere, è una nuova «chimica delle idee e dei sentimenti», come suona il titolo
del primo aforisma di Umano troppo umano. Occorre ricondurre la filosofia «alla
stessa forma interrogativa di duemila anni fa», quando i filosofi greci delle
origini, prima dell'avvento della metafisica, chiedendosi come può nascere una
cosa dal suo contrario, cercavano gli elementi semplici delle cose, e di queste
ultime scoprivano la natura analizzandone la composizione. La metafisica,
affermatasi nella tradizione occidentale, ha negato che le cose derivassero dal
loro opposto e ha affermato che le idee e i valori del mondo non potevano che
avere un'origine "superiore", ossia provenire "dall'alto",
da Dio o da una misteriosa cosa in sé. Nietzsche, al contrario, disseziona i
grandi sentimenti dell'umanità, li smaschera come illusioni, ne riafferma la
radice non alta e trascendente ma "umana", «bassa e perfino
spregevole». Scriverà in Ecce homo: «Dove voi vedete le cose ideali, io vedo
cose umane, ahi troppo umane». Dietro a ogni ideale viene così scoperto il suo
opposto: l'altruismo maschera l'egoismo, la verità l'impulso alla
falsificazione, la santità la bramosia di vendetta. L'uomo agisce in quanto
spinto dall'istinto di conservazione e dall'intenzione di procurarsi il piacere
e di evitare il dolore. Anche la volontà di sapere che lo anima, lungi
dall'essere pura e disinteressata, ha dietro di sé la vita stessa, che è per
essenza scontro di forze, lotta per la
sopravvivenza.
A partire
da questi princìpi semplici è possibile per Nietzsche ricostruire i molteplici
processi che hanno portato alla nascita del mondo morale, con tutti i suoi
pregiudizi, tutte le sue astuzie, le sue finzioni. Se nel suo periodo giovanile
il sentimento esistenziale più alto era stato il sentimento tragico, ora
Nietzsche vagheggia un ideale di umanità libera dalle illusioni, in cui l'uomo
abbia la forza di riconoscersi in modo autentico. Protagonista di questa
riforma morale non è più il Genio artistico, bensì lo "spirito
libero" (Freigeist). Lo spirito libero è superiore al libero pensatore del
Settecento, perché non crede ciecamente alla ragione, ma diffida e pone
interrogativi. Egli è il grande scettico: non ha soggezione né rispetto verso
tutto ciò che gli "spiriti vincolati" accettano e venerano; ha la
gaiezza e l'audacia temeraria di chi non indietreggia davanti a nulla; è alla
caccia della verità, ma senza illusioni; ha la gelida freddezza del pensiero
radicale che "penetra nelle carni della vita». Il suo è un mondo
organizzato sul principio della "gaia scienza", libero dall'ignoranza
e dalla paura. La sua è l'etica del coraggio e della responsabilità, che
appartiene agli uomini artefici del proprio destino, i quali, come Cristoforo
Colombo, sanno dire addio al vecchio continente e farsi largo nel nuovo mare.
Spiriti liberi sono stati i grandi retori dell'età sofistica, gli uomini forti
dell'Umanesimo e del Rinascimento, i "costruttori di storia" come
Napoleone; i loro avversari sono gli inventori delle grandi ipocrisie
moralistiche: Socrate, Rousseau, e gli uomini asserviti alle società
massificate moderne, come Bismarck.
Liberato
dai miti wagneriani e schopenhaueriani, attraverso la figura dello spirito
libero, Nietzsche mette a fuoco uno dei temi caratterizzanti l'intera sua
produzione, la grandezza dell'esistenza: la vita dell'uomo ha valore per i
grandi progetti che è capace di esprimere. Tuttavia il Freigeist è solo una figura di passaggio, un viandante verso una meta non ancora chiarita. Lo stesso stato
d'animo di Nietzsche è quasi in inquieta e curiosa attesa degli sviluppi di un
pensiero ancora in movimento. Leggiamo in Aurora: «E dove dunque vogliamo
arrivare? Al di là del mare? Dove ci trascina questa possente avidità, che è
più forte di qualsiasi altro desiderio? Perché proprio in quella direzione,
laggiù dove sono fino a oggi tramontati tutti i soli dell'umanità? Un giorno si
dirà forse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di
raggiungere un'India, ma che fu il nostro destino naufragare nell'infinito».
Viandante e spirito libero egli stesso, Nietzsche si trova all' «alba di un
mondo disincantato non più coperto da nebbie mistiche e nuvole
metafisiche(Fink), alla ricerca di una nuova filosofia del mattino.
la filosofia del mattino
Con
l'immagine della "filosofia del mattino" - che non può non ricordare,
per contrasto, quella hegeliana della filosofia come "nottola di
Minerva" - Nietzsche abbozza una nuova concezione della condizione umana
che successivamente caratterizzerà più nitidamente attraverso le nozioni di
"morte di Dio" e di amor fati. Non abbiamo qui a che fare con una
vera e propria dottrina, segnata da contenuti teorici positivi. Nelle opere del
periodo "illuministico", più ancora che nelle successive, la
scrittura aforistica nietzscheana accumula in maniera disordinata materiali e
spunti che non si lasciano coordinare in un insieme sistematico. La stessa
definizione di spirito libero non è tale da conferire un contenuto dottrinario
preciso alla "filosofia del mattino", la quale esprime soprattutto
una temperie spirituale e uno stato d'animo rinnovati da cui è segnato, in
primo luogo, Nietzsche stesso, il quale attraversa nei mesi invernali del 1882
in cui compone la Gaia scienza, forse per l'ultima volta, un momento di
straordinaria serenità interiore.
L'''umanità
a venire" che egli ora vagheggia è caratterizzata dal "buon
temperamento", da quello stato di convalescenza interiore che è proprio di
uno spirito che ha resistito con pazienza all'oppressione e ora giunge
all'sesultanza dell'energia che ritorna, della fede nuovamente ridesta, del
presentire l'avvenire, con nuove avventure, nuovi mari aperti». Sottratto al
dominio della religione, della morale, della metafisica, lo spirito libero può
ora intendere la vita come esperimento. Se l'uomo occidentale si è perduto -
perché ha posto la sua vita al servizio dei precetti della morale, di un "dietromondo"
metafisico, della volontà di Dio - lo spirito libero giunge invece a
conquistare la propria esistenza e a riconoscere se stesso come colui che crea
e impone i propri valori. Non più in ginocchio e sottomessa sotto "enormi
pesi", la sua vita diventa libera: l'infinito a cui essa anela e tende non
è più Dio o la legge morale, ma l'umanità stessa.
Se in Umano troppo umano la filosofia
nietzscheana esprime ancora solo una scettica liberazione dalle illusioni, in
Aurora e più ancora nella Gaia scienza
essa si trasforma in una nuova e più lieta annunciazione. La figura dello
spirito libero si allontana da quella del freddo e spietato critico e trasmuta
sempre più nel tipo d'uomo che rischia e fa esperimenti con la vita, che
inventa con coraggio la propria condotta, che gioca con l'incertezza. La sua
scienza è "gaia" perché non ha la solenne serietà del concetto; e il
suo stato d'animo, come quello di un uomo consapevole all'improvviso della
propria libertà, si abbandona all'ebbrezza, alla danza dionisiaca, al gioco.
Diffidando delle concezioni generali del mondo, lo spirito libero vive
piuttosto alla "superficie" del mondo, volontariamente orfano di ogni
metafisica. L'uomo dell'avvenire non smarrisce, tuttavia, il «senso storico».
Al contrario, nella sua spiritualità egli non esprime altro che l'intera storia
passata dell'umanità assunta «come la propria storia». Avere la forza di
portare con sé il passato, sentendosi erede delle conquiste e delle vittorie
così come delle perdite e delle sconfitte, del dolore dell'umanità così come
della sua gioia: questa è la "felicità" che l'uomo finora non ha mai
conosciuto, «la felicità di un dio colmo di potenza e di amore, di lacrime e di
riso». Con Aurora e con Gaia scienza - gli scritti del "vomere" - è
così seminato il terreno su cui germoglieranno, di lì a poco, i pensieri
fondamentali della filosofia di Nietzsche: la morte di Dio, il superuomo,
l'eterno ritorno dell'uguale, la volontà di potenza.
incipit tragoedia: l'annuncio della morte di dio
Nell'aforisma
125 della Gaia scienza l'«uomo folle»
annuncia per la prima volta la morte di Dio. «Dove se ne è andato Dio? - gridò
- ve lo voglio dire! Siamo stati noi a ucciderlo. [ ... ] Dio è morto!». Ecco
dunque la verità tremenda che apre una nuova via alla filosofia nietzscheana.
Che cosa significa tuttavia che Dio è morto? E che senso ha annunciare agli
uomini la sua morte? Il motivo della morte di Dio non ha, per Nietzsche, alcun
significato psicologico: non significa dunque che gli uomini non credono più in
Dio; né rappresenta una tesi metafisica circa la non esistenza di Dio. Esso ha
piuttosto il valore di una constatazione: non c'è più alcun Dio che ci può
salvare; oltre gli uomini sta solo il nulla. Alla lettera, si tratta dunque
dell'annuncio di un evento, ancorché terribile, di cui occorre prendere atto.
Perché tuttavia Dio muore? Dio muore perché il mondo moderno è investito da una
crisi mortale, che ha sprofondato l'umanità nell'angoscia dell'assurdo. Proclamando
la morte di Dio, Nietzsche intende dunque riassumere in una formula radicale
l'irruzione del nichilismo nel mondo moderno, ossia il fatto che l'insieme
degli ideali e dei valori su cui, grazie al cristianesimo, la civiltà europea
ha costruito per secoli la propria regola di comportamento tradisce ora il
nulla che ne era il fondamento nascosto. Agli occhi di un'umanità che non crede
più ai suoi fini e ai suoi valori, così come essi si sono storicamente
affermati nell' occidente cristiano, anche il Valore supremo si svalorizza:
«Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna».
La morte
di Dio è dunque il segno della tragicità del tempo. Con essa la Terra si
snatura e l'umanità, orfana, priva del fondamento, corre verso la sua
decadenza. Se Dio è morto non ha più senso parlare di morale, di bene e di
male, di giusto e di ingiusto. Non ha più senso domandarsi dove l'uomo stia
andando e da dove sia venuto. «Non è il nostro un eterno precipitare? - si
chiede l'«uomo folle» - Non stiamo forse vagando attraverso un infinito nulla?
Non alita su di noi lo spazio vuoto?»
La
categoria chiave di questa "nuova scena" della filosofia nietzscheana
è ora quella di nichilismo, categoria cui Nietzsche dedicherà di qui in avanti
un grande sforzo di analisi (DIZIONARIO Nichilismo). In prima istanza il
termine "nichilismo" svolge una funzione diagnostica: esso serve a
Nietzsche per designare la condizione pessimistica e passiva di un'umanità per
la quale nulla ha più senso. Nell'epoca della crisi dei valori, l'uomo
riconosce l'insensatezza del mondo e sviluppa un sentimento di perdita e di
dolore, di risentimento e di odio nei confronti della vita. Attraverso questa
nozione, Nietzsche matura dunque una nuova posizione che è ontologica e storica
al contempo: nel corso della civilizzazione umana la metafisica e la morale
hanno via via perduto la loro necessità vitale; dunque l'essere stesso si
avvicina al nulla. Se questa è la vita - si chiede tuttavia Nietzsche - quale compito
rimane ancora all'uomo, quale senso è concesso al suo abitare la Terra? Nella
Gaia scienza, vi si fa solo un cenno: «Non dobbiamo noi stessi diventare dèi,
per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande: tutti
coloro che verranno dopo di noi apparterranno in virtù di questa azione, ad una
storia più alta di quanto siano mai state tutte le storie fino a oggi». E il
primo accenno a un nichilismo "attivo", di cui tuttavia può essere
protagonista solo un uomo superiore, il quale non si accontenta più di assistere
alla rovina degli antichi ideali, ma se ne fa personalmente il promotore,
preparando - così, in modo distruttivo, l'avvento di una nuova umanità, lo
schiudersi di una nuova storia. Si esaurisce, con questo motivo, la "fase
illuminista" della ricerca nietzscheana. Il terreno è seminato per la
filosofia di Zarathustra.
Annunciata
dagli ultimi aforismi della Gaia scienza, la filosofia di Così parlò
Zarathustra comincia là dove si era conclusa la "filosofia del
mattino". Con quest'opera il pensiero di Nietzsche trova il suo
compimento, giunge al suo «grande meriggio». Con essa il filosofo di Hocken
trova il linguaggio per i propri pensieri più radicali e percorre senza
esitazioni il grande mutamento della sua vita. I tre insegnamenti fondamentali
che Zarathustra intende donare agli uomini, la dottrina del Superuomo, quella
dell'Eterno ritorno dell'uguale, la Volontà di potenza non giungono tuttavia
inaspettati. Non si tratta di un'eruzione improvvisa. Nello' Zarathustra
prorompe con violenza solo ciò che scorreva già come una corrente sotterranea
in Aurora e in Gaia scienza: se lo spirito libero era l'uomo della vita libera
e coraggiosa, del rischio e dell'esperimento, il superuomo, l'uomo dell'eterno
ritorno e della volontà di potenza, è la realizzazione estrema dello spirito
libero. Analizziamo i tre motivi fondamentali dello Zarathustra.
il superuomo
Alla folla
raccolta sulla piazza del mercato Zarathustra dice: «lo vi insegno il
superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. [ ... ] Tutti gli esseri
hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete [ ... ] retrocedere alla
bestia piuttosto che superare I'uomo?». E aggiunge: «L'uomo è un cavo teso tra
la bestia e il superuomo-. Il superuomo nietzscheano, dunque, sta al di là
dell'uomo del presente, come quest'ultimo sta attualmente al di là della
scimmia. L'uomo superiore è la tappa successiva che l'umanità deve compiere
dopo essersi lasciata alle spalle la condizione animale. Queste formule
"evoluzionistiche" hanno fatto lungamente discutere. Esse hanno dato
luogo, soprattutto nei primi decenni del nostro secolo, a interpretazioni
fuorvianti che hanno trasformato il superuomo in una sorta di supereroe
darwinianamente privìlegiato, secondo una lettura quantomeno semplicistica.
Questa lettura, storicamente avviata dalla sorella di Nietzsche Elisabeth e poi
ripresa dal nazismo, interessato a fare del filosofo tedesco un anticipatore
della dottrina del primato della razza ariana, è oggi abbandonata. Si
fraintenderebbe dunque il significato che in Nietzsche assume l'idea di
superuomo se la si prendesse come il cardine di una concezione
scientifico-naturalistica di tipo lamarckiano o darwiniano. Allo scopo di
fugare errate interpretazioni viziate da precomprensioni di origine ideologica,
lo studioso italiano Gianni Vattimo ha utilmente proposto di tradurre il
termine tedesco Uebermensch (in cui il prefisso avverbiale ueber significa sia
"sopra" sia "oltre") con "oltreuomo", neologismo
che consente di marcare con nettezza la differenza tra il tipo di umanità nuova
vagheggiata da Nietzsche e una concezione della medesima come puro e
semplice
soggetto di potenza e di forza.
Il
passaggio dall'uomo al superuomo non è dunque da intendere come un'evoluzione
in cui dall'homo sapiens si sviluppa una nuova razza di individui superiori.
Ciò trova una conferma nelle obiezioni assai aspre che Nietzsche muove in
moltissimi frammenti all'evoluzionismo del suo tempo, inficiato, a suo parere,
da una concezione del progresso ingenua e fideistica. Innanzitutto, obietta Nietzsche,
sono spesso i deboli, più che i forti, a prevalere nella lotta per la vita;
inoltre il lamarckismo esagera l'influenza dell'ambiente nella selezione delle
specie. A queste obiezioni Nietzsche unisce la considerazione che, nella
società umana, non si è affatto costituita una élite stabile, che costituisca
un progresso rispetto alla massa: anzi l'umanità oggi sembra aver subito un
processo di regressione, se la si confronta con gli uomini del Rinascimento o
con gli antichi Greci. Responsabile di questa ingiustificata fede nel progresso
non è tuttavia solo la scienza, ma anche il cristianesimo, con la sua nefasta
concezione di Provvidenza, e l'idealismo, specie quello hegeliano, la cui
idolatria della storia porta erroneamente a concepire la storia stessa come lo
sviluppo vittorioso dei valori moralmente migliori, come la realizzazione
razionale del bene e del giusto. Nietzsche constata, al contrario, che ciò che
è forte e nobile deve spesso farsi largo e aprirsi un passaggio forzoso nelle
maglie della storia. Pur preoccupato di trovare nel passato i precursori
individuali o collettivi del superuomo (il popolo greco, l'aristocrazia
antico-indiana, lo stesso Napoleone) Nietzsche non intende dunque mai il
superuomo come il risultato di una presunta "logica immanente" alla
Storia.
Chi è
dunque il superuomo? Nello Zarathustra e nelle opere successive, la figura del
superuomo oscilla tra quella della "bella individualità" di origine
umanistica (gli spiriti forti e liberi) e quella dell'avventuriero, che è spinto
da un impulso più distruttivo che costruttivo. Il superuomo dei discorsi di
Zarathustra è spesso figura "luminosa": è l'uomo che «dona la virtù»,
che redime, che vive il meriggio come l'ora della felicità e della compiutezza
del mondo. Egli è l"'eroe affermatore" per eccellenza: c'è in lui una
disposizione dionisiaca verso la vita che lo pone al centro del mondo animato
da un "fatalismo" gioioso e fiducioso; disposizione che è tuttavia
temperata da una sorta di pessimismo coraggioso che lo rende in grado di
assumere su di sé il peso delle contraddizioni della vita e di non chiudere gli
occhi anche di fronte alle verità più orribili. Il superuomo è tuttavia anche
colui che pecca di hybris, che ha la tracotanza, l'indifferenza di chi è al di
là del bene e del male. E l'uomo insieme del grande amore e del grande
disprezzo, spirito creatore, uomo della "grande decisione" che
salverà l'umanità dal nichilismo. Del barbaro conserva il vigore e l'intensità
degli istinti, che integra tuttavia in un ordine superiore risultato dell'
educazione greca alla libertà. Il superuomo, dunque, è senza morale, in quanto
"precristiano": contrapposto al crocefisso (simbolo per Nietzsche di
sconfitta e di rassegnazione) sta per Nietzsche ancora «Dioniso» che rappresenta,
come già nella Nascita della tragedia, l'energia tumultuosa che tutto tramuta
in affermazione. Nietzsche sa che il superuomo verrà tacciato di immoralismo;
non dubita che «i buoni e i giusti chiamerebbero diavolo il superuomo». Questi
virtuosi sono tuttavia incapaci di capire, egli commenta, come all'uomo
superiore possano essere concesse la malvagità e l'azione terribile se esse
servono a fare del deserto della vita una contrada ubertosa e fertile.
Da queste
caratterizzazioni (che abbiamo qui tra scelto all'interno delle numerose note
che Nietzsche dedica al tema non solo nello Zarathustra ma anche nelle opere
successive e nei Frammenti postumi) il superuomo risulta essenzialmente
disegnato come una figura mitica, protagonista letterario di un archetipo del pensiero
«per tutti e per nessuno» - come recita il sottotitolo dello Zarathustra - che
Nietzsche stesso esita a identificare in questo. e quel personaggio del passato
o del presente e che ha più il tratto dell'individuo. cosmico-storico della
prosa romantica che i caratteri individuali dell'uomo concretamente possibile.
Su un
piano. più strettamente filosofico, il superuo.mo. si caratterizza per la sua
"fedeltà alla terra". Poiché Dio. è morto, l'unica realtà è ora la
vita terrena. Alla terra dunque la nuova umanità deve far ritorno ed esservi
fedele, rifiutando. l'estrema illusione in una speranza sovraterrena: non
essendoci pm Dio. infatti no.n esiste più un «mondo dietro il mondo- in cui
trovare consolazione al pensiero della morte, Consapevole della perdita dell'al
di là, il superuomo riconosce in questo. al di là solo l'utopica immagine
riflessa della terra: e alla terra egli si volge con quel fervore e con quel
senso. di appartenenza che l'uomo riservava in precedenza al mondo divino, Il
legame con la terra è dunque per l'uomo dell'età del nichilismo la grande occasione
di guarigione; nella terra, la Grande Madre da cui ebbero. ongme tutte le cose,
egli ritrova la sua natura più propria e originaria, Non dunque il superuomo,
al posto di Dio., bensì la terra: dove per l'umanità imprigio.nata dalla sua
alienazione stava Dio, ora sta la terra: «Un tempo. il sacrilegio contro Dio
era il massimo sacrilegio - dice Zarathustra - peccare contro la terra, questa
e oggi la cosa più orribile». Siamo. ora in grado. di definire meglio. i tratti
del superuomo. nietzscheano: egli è innanzitutto uomo di questo mondo, che sa
dire di sì alla vita, sapendo che non c'è nulla al di là di essa. Si rivela una
volta di pm Il fondo dionisiaco, mal abbandonato, della filosofia nietzscheana:
la grandezza del superuomo sta nel saper accettare la vita come
"transizione e tramonto".
l'eterno ritorno dell'uguale
La
concezione del superuomo. trova nella dottrina dell'eterno ritorno dell'uguale
(«il più abissale dei miei pensieri») il suo orizzonte definitivo di
comprensione. Si tratta del concetto di maggiore difficoltà interpretativa
dell'intero pensiero nietzscheano. Nietzsche stesso vi si accosta con timore ed
eccitazione tanto. da dare all'esposizione della dottrina, qui più ancora che
altrove, un carattere fortemente allusivo. e allegorico, quasi iniziatico. La
prima folgorante intuizione dell'eterno ritorno. è dell'agosto. del 1881. Lo.
stesso. Nietzsche lo racconta in un passo di Ecce homo: «Camminavo in quel giorno lungo il lago di Silvaplana
(nella valle svizzera dell'Engadina) attraverso. i boschi; presso una possente
roccia, che si levava in figura di piramide, vicino. a Surlej: mi arrestai. Ed
ecco giunse a me quel pensiero. [ ... ]. L'inverno seguente vivevo vicino a
Genova, in quell'insenatura graziosa e quieta di Rapallo. [ ... ] la mattina
andavo. verso sud, salendo. per la splendida strada di Zoagli, in mezzo ai
pini, con l'ampia distesa del mare sotto di me; il pomeriggio facevo Il giro.
di tutta la baia di Santa Margherita, arrivando. fin dietro Portofino [ .. .].
Su queste due strade mi venne incontro il tipo. di Zarathustra; più esattamente
mi assalì». Il primo testo in cui Nietzsche annuncia l'idea del ritorno è
l'aforisma 341 della Gaia scienza. Solo tre anni dopo tuttavia, nel terzo.
libro dello. Zarathustra; Nietzsche riesce a dare della dottrina un'esposizione
compiuta,
Com'è
tipico. del filosofare nietzscheano, il concetto di eterno. ritorno viene
presentato. come il risultato. di un'intuizione improvvisa: il tempo non ha
fine;
il
divenire non ha scopo. Il corso del mondo non è retto da alcun piano
provvidenziale teso a inaugurare il regno. di Dio o della morale, il tempo. non
procede in modo rettilineo, né verso un fine trascendente (come ha preteso. la
tradizione ebraico-cristiana], né verso. una finalità immanente (come ha creduto
lo storicismo). L'uomo della cultura occidentale è dunque prigioniero di una
errata concezione lineare del tempo secondo cui ogni cosa ha un inizio e una
fine, un principio e uno scopo; e tutto tende a una meta, ossia a una
stabilizzazione definitiva delle forze agenti nel mondo, rispetto alla quale i
momenti del processo sono iscritti in una "grande logica" che li
rende transitori e quindi irrilevanti. In questa visione, il passato ci
condiziona in quanto irreversibile e il futuro si impone come un evento sempre
incombente che ci impedisce di godere del presente. A questa concezione
ebraico-cristiana - che intende il tempo scandito da istanti irripetibili:
creazione, peccato, redenzione, fine dei tempi - Nietzsche oppone invece una
concezione ciclica, ripresa dalla tradizione antica, presocratica e orientale,
secondo la quale gli eventi sono destinati eternamente a ripetersi in un tempo
circolare. Il mondo risulta dominato, in questa visione, dalla necessità della
ripetizione: «tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse, e noi fummo
già eterne volte e tutte le cose con noi». Ogni istante vissuto, ogni piacere e
ogni dolore, sono già esistiti infinite volte e infinite volte, in eterno,
esisteranno. Se tutto ritorna, ogni istante non è né un passo in avanti, né uno
indietro, in quanto non vi sono più direzioni prescritte: cade la possibilità
di orientarsi nel tempo rispetto a scopi o principi assoluti; si svela così il
fondamento ontologico fallace di ogni progetto etico, religioso o metafisico.
Vi è
tuttavia il pericolo di interpretare l'eterno ritorno in un senso fatalistico:
se ogni istante è destinato a ripetersi, se il tempo non è altro che il fatale
ricorrere degli stessi eventi, dobbiamo allora concludere che nella vita nulla
accade di nuovo, che la vita stessa, imprigionata nella circolarità del tempo,
è inutile così come inutili e vani si rivelano gli atti di volontà degli
uomini, che infine anche l'avvento del superuomo è un'illusione priva di senso?
La risposta di Nietzsche è negativa. Non basta abbandonarsi alla ciclicità del
tempo per sottrarsi al nichilismo e all'angoscia. L'amor fati nietzscheano non
è l'accettazione rassegnata delle cose così come esse accadono. Al contrario,
l'uomo superiore è proprio colui che volontariamente vuole per sé quella legge
universale che gli altri enti (gli animali, le piante, gli stessi uomini
inconsapevoli) si limitano a seguire ciecamente; così facendo egli trasforma il
caso in una necessità consapevolmente assunta e voluta: -così io volli che fu,
così io voglio che sia, così io vorrò che sia». La dottrina nietzscheana
dell'eterno ritorno mette capo, in questo modo, a una nuova concezione
dell'agire umano. Nella visione lineare del tempo ogni istante acquista
significato solo se legato agli altri, che lo precedono e lo seguono; il corso
del tempo muove dunque verso un fine che trascende i singoli momenti di cui è
costituito. Nella visione nietzscheana invece, ogni momento del tempo, e dunque
ogni esistenza singola in ogni suo attimo di vita, possiede tutto intero il suo
senso. L'attimo presente può e merita perciò di essere vissuto per se stesso,
come se fosse eterno. Quanto nella Nascita della tragedia era compreso sotto la
categoria del primato della vita, ora viene espresso in modo più esaustivo sotto
la categoria del primato dell'attimo: la vita vince ogni morte, poiché non
muore in nessun morire, ma nel morire anzi eternamente torna a vivere; allo
stesso modo l'unità dell'attimo riassume e comprende in sé la totalità del
tempo, poiché in essa eternamente ritorna la totalità del divenire.
Ecco
dunque la prima massima nietzscheana: muovi sempre dall'attimo, dal presente
vissuto pienamente, in quanto affidato né al destino, né alla casualità, ma
alla decisione, al coraggio, alla volontà. Da cui la seconda massima: vivi
questo attimo in modo tale che tu debba desiderare di riviverlo. E chiaro
tuttavia che solo un uomo perfettamente felice potrebbe volere l'eterna
ripetizione di ogni attimo della propria vita. Ed è altrettanto chiaro che solo
in un mondo pensato nella cornice di una temporalità ciclica è possibile una
tale piena felicità, giacché in una struttura del tempo rettilinea nessun
istante vissuto può realmente avere in sé una pienezza di senso, in quanto tale
istante ha senso, come abbiamo visto, solo in funzione degli altri istanti che
lo precedono e lo seguono sulla linea del tempo. Non si tratta allora solo di
essere capaci di costruire attimi di esistenza così intensi da meritare di
essere voluti come eternamente ritornanti, ma anche del fatto che attimi di
questo tipo sono possibili solo se l'uomo felice che ne è il protagonista, il
superuomo, aderisce alla legge suprema dell'eterno ritorno. L'eterno ritorno
può essere voluto solo dal superuomo; ma il superuomo può darsi solo in un
mondo ordinato secondo l'eterno ritorno. Diventa in questo modo per la prima
volta possibile l'avvento di una nuova e felice umanità, libera di dispiegare
la propria creativa volontà di potenza sul mondo.
la volontà di potenza
Viene così
ora in primo piano la nozione di volontà di potenza, come tratto distintivo
della nuova condizione di felicità del superuomo. Il termine, che appartiene
soprattutto alla produzione posteriore allo Zarathustra, è stato a lungo
interpretato sulla base dei significati più immediati di cui si fa portatore,
ossia nella sua accezione di potere e quindi di dominio e di violenza sugli
altri. Sarebbe errato misconoscere la presenza in Nietzsche di questi
significati-. Parimenti, attraverso questo concetto, Nietzsche intende
designare però anche quel dominio di sé che già nella "fase
illuministica" aveva contrapposto alla violenza barbara, tipica
dell'individuo volgare e mediocre. Nietzsche cita, a questo proposito, il
brahmanesimo come essenza di un potere nobile fondato sulla padronanza della
potenza. "Volontà di potenza" dunque non è la semplice volontà di
dominio, pura affermazione sull'altro, né la giustificazione metafisica di
un'ideologia di potenza. Come dirà Martin Heidegger, essa è la volontà che
vuole se stessa. Di fronte al nulla dei valori, all' assurdità del mondo, alla
realtà della sofferenza, essa è la volontà dell'individuo di affermarsi come
volontà. La morte di Dio diventa la resurrezione dell'uomo responsabile e
padrone del proprio destino, la cui volontà è ora libera di affermare se
stessa. Soggetto di volontà di potenza, di conseguenza, è colui che ha la forza
per affermare la propria prospettiva del mondo.
La radice
del concetto è, ancora una volta, greca. Uno dei temi di cui esso si compone -
tema già elaborato nel saggio giovanile del 1871 su L'agone omerico - è quello
della "competizione" come principio di organizzazione della vita.
Nietzsche contesta l'immagine sbiadita che la tradizione accademica ha dato
dell'umanesimo greco. La sua vera natura non sta nell'ottimismo razionalistico
di Soerate, né nella omologhia platonica, ossia nella ricerca della convergenza
delle vedute tramite il ragionamento dialettico. La bella umanità greca, da
tutti ammirata, è segnata per Nietzsche al contrario dal tratto della crudeltà,
dal gusto per la distruzione, dalla gioia di vincere. La lezione dei greci è che
non esiste vita senza un istinto alla potenza, istinto che l'uomo greco ha
imparato a dominare e a rendere creativo. La competizione greca, di cui Omero
ha fissato il modello ed Eraclito ha tessuto l'elogio, è la
"spiritualizzazione" della lotta primitiva, che nella vita pubblica
assume le forme delle gare sportive, dei concorsi di tragedie, dei certami
oratori, delle dispute filosofiche.
Una delle
determinazioni che più di altre aiuta a delimitare il concetto di volontà di
potenza è quella che la intende come tendenza affermativa ed espansiva, come
impulso continuo a "oltrepassare se stessi". Si tratta tuttavia di
qualcosa di più di una semplice tendenza vitalistica; né va peraltro confusa con
il "voler-vivere" di ispirazione schopenhaueriana. Quest'ultimo, per
Nietzsehe, è una pseudo-volontà, un volere «sospeso nell'aria». Basata su un'interpretazione
pessimistica del mondo, sintomo decadente di malattia dello spirito, la volontà
di Schopenhauer ha rinnegato il principio del piacere e cancellato la propria
capacità creativa, cercando illusoriamente la libertà dal dolore nell'ascesi.
L'esempio più frequente cui Nietzsche ricorre per evocare il protagonista della
volontà di potenza è quello dell'artista creatore che costruisce e dà forma
alla materia. Ritorna il tema giovanile della "giustificazione
estetica" dell'esistenza: qual è l'arte sana, modello di volontà di
potenza? Non certo l'arte come catarsi, che ha solo lo scopo di placare le
passioni (come accade con la musica wagneriana), né l'arte romantica che crea
solo per scontentezza e si dissolve nel sentimentalismo esasperato, nello sfogo
momentaneo; bensì, di nuovo, l'arte tragica, che esalta i valori di chi accetta
di vivere nell'orizzonte dell'eterno ritorno.
la filosofia del "martello": la distruzione della
tradizione occidentale
Con lo
Zarathustra il cammino filosofico di Nietzsche è giunto alla sua meta: il
filosofo ha consegnato ai posteri la parte "costruttiva" del suo
pensiero. Negli ultimi tre anni prima della follia, egli si dedica febbrilmente
a svolgere la parte negativa, distruttiva. Nietzsche ormai intende il proprio
compito come una vera e propria missione epocale. Egli si sente chiamato a
determinare un mutamento radicale di civiltà, a gettare le fondamenta di una
nuova umanità. Il filosofo, scrive in questi anni, deve essere prima di tutto
un legislatore, un costruttore di valori, un edificatore di una nuova storia.
La
preoccupazione ossessiva con cui egli ora segue la ricezione pubblica dei suoi
scritti, la sollecitudine quasi penosa con la quale chiede pareri e recensioni,
l'impegno inusitato nelle polemiche, la sofferenza con cui affronta la
solitudine in cui ormai vive: tutto ciò si spiega, almeno in parte, con la
convinzione - come scrive in un frammento del 1883 - che «non basta annunciare
una dottrina: bisogna anche trasformare con la forza gli uomini, in modo che la
ricevano». L'assillo di dover assolvere una decisiva funzione pubblica spiega
la nuova attenzione che egli ora pone ai temi politici, a lui fin qui
sommamente estranei, attenzione che caratterizzerà perfino gli ultimi suoi
appunti torinesi immediatamente precedenti la catastrofe. Ritornano due tematiche
degli scritti giovanili: l'antistoricismo, che avevamo trovato nella seconda
Inattuale, e l'utopia di un rinnovamento generale della civiltà che aveva
permeato le pagine della Nascita della tragedia. Nuova è invece la violenza
distruttiva della sua critica: se il superuomo deve essere il futuro dell'uomo,
allora è necessaria la distruzione inesorabile dell'umanità forgiata dalla
tradizione occidentale. La "filosofia del martello" nietzscheana
lancia ora l'ultimo e più violento atto d'accusa contro quelli che erano stati
già i bersagli delle opere precedenti lo Zarathustra: le «menzogne di vari
millenni», la morale, le religioni.
Il XIX
secolo appare a Nietzsche come un «XVIII assottigliato, istupidito, tirato
terribilmente in lungo»: un "deserto" in cui l'uomo si è
definitivamente perduto. Dominati dal militarismo e dal nazionalismo prussiani,
dalla prudérie vittoriana, dalla logica perversa della merce e dello scambio,
dagli stati forti e burocratizzati, gli uomini dell'Ottocento vivono isteriliti
in comportamenti anonimi e ripetitivi. La loro vita risulta preordinata secondo
valori individuali e collettivi statici e opprimenti; imprigionati in ambiti di
eticità "oggettivi" (la famiglia, la società, lo stato) essi
obbediscono in «gregge» al motto del secolo: "compiere il proprio
dovere". Incantati dai predicatori del progresso e dell'uguaglianza essi
sono vittime del sistema di certezze dell'intelligenza occidentale che induce
in loro la paura della responsabilità individuale, il senso di colpa per la
propria mancanza di volontà, l'illusione di una redenzione nell'al di là. Con
Kant, Rousseau ed Hegel, essi hanno creduto che «il concetto possa prendere il
posto della natura»; e di qui hanno imparato ad agire solo «in base a
ragionamenti, non a istinti». Per questo motivo il paesaggio della loro vita
interiore è abitato solo da dicotomie astratte: virtù-vizio, premio-colpa,
altruismo-egoismo. Che ne è della vita in questo vivere? Per Nietzsche, nulla.
L'uomo
vive tuttavia protetto dalla morale e dalla religione. Innalzando l'umiltà a
valore sommo, la morale è la consolazione dei deboli. Facendo dell'uomo forte
l'immorale, essa segna il trionfo della cultura servile. «Circe di tutti i
filosofi», la morale è il «sonno della vita» in cui l'uomo vive senza coscienza
di sé, prigioniero delle illusioni e dimentico della propria natura libera e
creativa. Il sentimento che ne è il fondamento nascosto è il risentimento, che
è lo stato d'animo di malafede proprio dell'uomo "schiavo" che non sa
accettare la propria impotenza, che non ha la forza di affermarsi trionfante
sulle sofferenze della vita. Espressione del risentimento, la morale è pura
volontà di vendetta dei sofferenti contro i felici, dei mediocri contro le
eccezioni, vendetta che conduce alla negazione della volontà di potenza, cioè
al rifiuto della vita stessa: è la degradazione nichilistica del mondo. Gli
esempi della morale del risentimento Nietzsche li trova sia nella cultura
dell'occidente, da Socrate a Wagner, sia nelle grandi religioni, nel buddhismo,
nell'ebraismo e soprattutto nel cristianesimo. Se attraverso la morale i deboli
si vendicano dei forti e "fanno i padroni", attraverso la religione
cristiana viene loro promesso il premio nel regno dei cieli. La violenta
requisitoria antireligiosa, avviata da Nietzsche sin dalle opere giovanili,
culmina nell'Anticristo, l'opera degli ultimi mesi dalla sua vita consapevole,
in cui il cristianesimo, in quanto fondato sulla repressione degli istinti e
sull'aumento del senso di colpa tramite l'angoscia del peccato, viene inteso
come la più raffinata tecnica di annientamento della vita che la civiltà abbia
saputo produrre. Il cristiano è un «animale malato»: fa della propria debolezza
una virtù, proiettando in una illusoria vita oltre la morte il premio per le
proprie sofferenze e frustrazioni.
In
antitesi alla morale e alla religione, la trasvalutazione dei valori è invece
la liberazione della qualità attiva della vita, l'invenzione di nuove forme di
esistenza, di nuovi valori. Il suo protagonista - come sappiamo - è il
superuomo, che esercita il culto dell'umanità come natura vittoriosa, al di
fuori di ogni schema normativo. Alla collettivizzazione della paura, egli
risponde con l'individualità del coraggio, propria di chi soffre e resiste, ben
lungi dal rimproverare alla vita il suo carattere doloroso. Alla grande
ipocrisia, affermatasi con Socrate e Cristo, la quale afferma che non si vive
per vincere, ma per far trionfare il bene e la verità, il superuomo risponde
che valori e verità nascono solo in base a uno scontro di forze: il mondo è
simpatetico se si vince, astioso se si perde. Non ci sono dunque essenze nei
valori; essi esistono perché esistono forme di vita vincenti. La morale ha per
secoli inventato e imposto valori, come se fossero fondati sulla verità: ha
così nascosto il loro essere fondati sulla volontà di potenza di singoli e
gruppi.
Quella di
Nietzsche è una concezione individualistica e gerarchica, fondata sul
culto
della "differenza", della distanza aristocratica dalla massa.
Nietzsche detesta
la moderna
ideologia egualitaria, che gli sembra l'ostacolo più pericoloso per
l'affermazione del superuomo («Tutti molto uguali, molto piccoli, molto
tolleranti, molto noiosi»). L'attacco alle dottrine socialiste è esplicito
(anche se viene ignorato il nome di Marx che probabilmente Nietzsche non lesse
mai). Al socialismo, in particolare, rimprovera l'ottimismo, retaggio del
moralismo razionalistico: è questo ottimismo, su cui storicamente si è
innestato il provvidenzialismo cristiano, che ispira, a suo parere, le pretese
"scientifiche" del socialismo e dà vita agli ideali illusori della
giustizia e della felicità di massa, variante moderna della morale del
"gregge". Per parte sua, si dichiara invece favorevole a una
organizzazione sociale aristocratica, antistatalista, antinazionalista,
"europea", il cui compito sia quello di formare una nuova "casta
dominante" educata agli ideali del superuomo. L'aristocrazia a cui egli si
riferisce non è tuttavia né quella del sangue, né quella del denaro. Non vi è
traccia, nel pensiero di Nietzsche, di alcuna delle nozioni razziste,
antisemite e pangermaniste, che saranno invece esaltate nel secolo seguente dal
nazismo e che già nei suoi anni animavano la condotta politica dei gruppi
nazionalisti tedeschi. Il disprezzo per la politica come professione lo conduce
a immaginare una "grande politica" i cui artefici sappiano farsi
carico dell'avvenire dell'uomo e preparare il regno del superuomo. Sarebbe
tuttavia inutile cercare in Nietzsche referenti socio-politici concreti per la
realizzazione di tale "grande politica". Non è una classe sociale a
essere in grado di rispondere alle sue attese: la borghesia gli ripugna, il
proletariato lo lascia indifferente, gli intellettuali lo disturbano, il mondo
contadino gli è sconosciuto. Nietzsche non si spinge più in là del puro
vagheggiamento di una élite di uomini nobili che sappia farsi carico dell'
educazione dionisiaca del pianeta.