STORIA  DELL’ECONOMIA

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L'ECONOMIA  MEDIOEVALE. IL RINASCERE DELL'ATTIVITÀ ECONOMICA DOPO IL MEDIOEVO. IL MERCANTILISMO. LA FISIOCRAZIA.

I caratteri dell’economia medioevale

La ripresa dell'economia dopo il medioevo

La nascita degli stati nazionali

L'epoca del mercantilismo

La fisiocrazia

L’ETICA  PROTESTANTE

La Riforma protestante

Il pensiero protestante

IL  CAPITALISMO E LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

La crisi del mercantilismo

La rivoluzione industriale: la fase preparatoria

La rivoluzione industriale: la fase iniziale (o delle grandi invenzioni)

La rivoluzione industriale: la seconda fase (o delle grandi comunicazioni)

La rivoluzione industriale: i caratteri del nuovo modo di produzione

La rivoluzione industriale: le condizioni di vita dei lavoratori durante la rivoluzione industriale.

La scuola economica classica

La crescita delle rendite a seguito dell'industrializzazione

L'evoluzione della figura dell'imprenditore nel corso dei secoli fino ad oggi

IL  LIBERALISMO. IL LIBERISMO.

Le societa' premoderne e le loro credenze

Le idee-cardine del liberalismo

Il liberismo

La separazione tra stato e societa civile. La separazione dei poteri

Le "leggi naturali" del sistema. La "mano invisibile"

Il principio dello scambio. L'eguaglianza

Il valore della proprietà

IL  CIRCUITO REDDITO-SPESA E LA TEORIA DEGLI SBOCCHI DI SAY

Il circuito reddito-spesa e la legge degli sbocchi

LE  TEORIE DI MALTHUS E DI LASSALLE

La popolazione nel Settecento

Le teorie di Malthus

La "legge ferrea (o bronzea) dei salari"

La critica di ricardo a malthus. Il pensiero degli economisti successivi

LA  TEORIA DELLA RENDITA DI RICARDO

La rendita assoluta e la rendita differenziale

LA  DOTTRINA SOCIALE CRISTIANA

La concezione cristiana dei rapporti economici

Cristianesimo e marxismo

Il divieto dell'usura

Le origini del cattolicesimo sociale. Il movimento cristiano sociale di fine ottocento

Il cattolicesimo sociale del primo e del secondo dopoguerra. Il personalismo

IL  SOCIALISMO UTOPISTICO

I "socialisti utopisti"

Saint Simon

Fourier

Owens

IL  PENSIERO ECONOMICO MARXISTA. LA DOTTRINA DEL VALORE-LAVORO PRESSO GLI ECONOMISTI CLASSICI.

Il plusvalore

Il profitto normale e l'extraprofitto

La teoria del valore di Adam Smith

La teoria del valore di Ricardo

La teoria di Marx del plusvalore

La caduta del saggio di profitto

La crisi del capitalismo secondo Marx

IL  PENSIERO DI HEGEL

Biografia di Hegel

Hegel scriveva in modo atroce e quasi incomprensibile. Ciò favorì il sorgere di molte scuole filosofiche che si rifacevano al suo pensiero, ciascuna interpretandolo a suo modo

Hegel è un filosofo idealista

Ciò che è reale e razionale e ciò che è razionale è reale

L'idea di Hegel (detta anche idea assoluta, assoluto, spirito, spirito del mondo, ecc.)

L'unità del reale

L 'evoluzione dialettica. Il progresso storico

Lo storicismo hegeliano

Lo statalismo hegeliano. Il rapporto tra l'uomo e la società

I rapporti tra gli stati

IL  PENSIERO DI FEUERBACH

Biografia di Feuerbach

Marx lesse Feuerbach con entusiasmo

Trasformazione della teologia in antropologia

La dottrina morale di Feuerbach

MARX: BIOGRAFIA  DI KARL MARX

La vita di Karl Marx

MARX: IL PENSIERO  FILOSOFICO DI KARL MARX

I rovesciamenti di pensiero marxisti rispetto al pensiero borghese

L'essenza umana è storicamente e socialmente determinata (carattere sociale dell'uomo)

L'uomo e il lavoro. I rapporti di produzione

Il materialismo storico

La sovrastruttura. Gli ideologi attivi

La "filosofia della prassi"

I capisaldi dell'antropologia marxista

Il progresso storico. La storia

Lo stato secondo Marx

L'alienazione dell'uomo: l’alienazione dell’uomo in dio

L’alienazione dell’uomo: alienazione del lavoro

L’alienazione dell’uomo: alienazione del capitalista

L’alienazione dell’uomo: alienazione del genere umano

L’alienazione dell’uomo; l'uomo è un essere materiale

DESTRA  E SINISTRA

La destra liberale

La destra religioso-tradizionale

La destra che si ispira a Nietzche

La destra "esoterica"

Il darwinismo sociale

Il pensiero della scrittrice Marguerite Yourcenar sulla destra e la sinistra

Destra e sinistra viste... da sinistra

LA CRISI DEL 1929

La crisi del 1929: descrizione generale

La crisi del 1929: le cause della caduta della domanda

La crisi del 1929: come reagirono le autorità

La crisi del 1929: cosa fece capire ad economisti ed uomini politici

La crisi del 1929: quali scuole economiche tramontarono e quali nacquero

IL WELFARE STATE

Il  Welfare State

Assistenzialismo, crisi fiscale, aumento del debito pubblico (anni ’60-’80)

Ridimensionamento del Welfare State, privatizzazioni, politica di austerità finanziaria e monetaria (ingresso dell’Italia nell’area dell’euro)

GLOBALIZZAZIONE E OCCUPAZIONE NEI PAESI INDUSTRIALIZZATI

Il calo dell’occupazione nei paesi industrializzati

La flessibilità del lavoro

Necessità di riqualificare il lavoro nei paesi industrializzati

Le ragioni del successo delle politiche keynesiane del dopoguerra

La fine delle politiche keynesiane rigorose

La stagflazione, la globalizzazione e la fine della possibilità pratica delle politiche keynesiane

I modelli capitalistici più efficienti

Le imprese multinazionali

La globalizzazione rende estremamente difficili politiche keynesiane basate sull’aumento della spesa pubblica

Globalizzazione e fine del protezionismo

La globalizzazione mette in pericolo le politiche sociali dei vari stati

La valutazione ottimista della globalizzazione

La perdita degli strumenti di politica economica dei governi nazionali

La Unione Europea come risposta ai pericoli della globalizzazione

Il declino della legislazione sociale

LE SCUOLE ECONOMICHE PIU’ RECENTI

Le teorie economiche più recenti

Le posizioni della Scuola Monetarista o Scuola di Chicago

Le critiche dell’economista John Kenneth Galbraith ai monetaristi

 

 

 

L'ECONOMIA  MEDIOEVALE. IL RINASCERE DELL'ATTIVITÀ ECONOMICA DOPO IL MEDIOEVO. IL MERCANTILISMO. LA FISIOCRAZIA.

 

 

 

I CARATTERI DELL’ECONOMIA MEDIOEVALE

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Il medioevo fu caratterizzato da un assetto economico basato sulla corte feudale (sistema curtense). Nell'ambito della Corte si svolgeva un'attività economica, sotto il comando del signore feudale. Il commercio era locale e esclusivamente relativo ai beni di lusso, prevaleva l'attività di autoconsumo (cioè di produzione finalizzata al proprio consumo personale o a quello del feudatario).

 

 

 

LA RIPRESA DELL'ECONOMIA DOPO IL MEDIOEVO.

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Dopo l'anno Mille iniziò un maggior dinamismo negli scambi commerciali, nelle aree dell'Europa.

Con la scoperta delle Americhe i prodotti iniziarono a distribuirsi in un mercato più esteso.

Tre fattori determinanti per lo sviluppo dell'economia sono: a) l'ampliarsi del mercato; b) il nascere degli stati nazionali; c) la riforma protestante

Dopo l'anno Mille cominciò a manifestarsi un maggior dinamismo negli scambi commerciali, specie in alcune aree dell'Europa (Inghilterra, Paesi Bassi, Italia) e crebbe in pari tempo la considerazione e l'importanza della figura del mercante, anche se essa era vista ancora con timore e sospetto da quanti consideravano l'attività di scambio di prodotti come una forma indebita di arricchimento, in base agli insegnamenti della tradizione cattolica.

 

 

 

LA NASCITA DEGLI STATI NAZIONALI.

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A seguito dello sfaldamento dell'organizzazione feudale vennero gradualmente a costituirsi gli Stati nazionali, che affermarono il loro potere assoluto ("potere di imperio") su un dato territorio concentrandolo nelle mani di un monarca.

Lo stato moderno nasce come stato assoluto, caratterizzato da tre elementi:

   Esercito permanente

   Sistema fiscale

   Sistema burocratico, tra cui importanti i tribunali del Re

   Corpo diplomatico

A partire dal 1400 gli stati nazionali (Francia, Spagna e Inghilterra) iniziarono a creare uno "spazio comune", con un'unica moneta, identiche leggi, identica lingua, un unico sistema di unità di misura, privo di barriere doganali feudali, all'interno del quale il sovrano garantiva con i suoi tribunali l'assenza di violenza. All'interno di questo spazio i traffici poterono svilupparsi molto più intensamente che nell'epoca precedente.

 

 

 

L'EPOCA DEL MERCANTILISMO.

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Con il termine "mercantilismo" si indicano in realtà due cose diverse:

   un periodo storico caratterizzato dalle monarchie assolute, dallo sviluppo dei commerci e dal controllo delle attività economiche da parte del sovrano;

   l'insieme delle teorie economiche che sovrani ed economici cercarono di mettere in pratica in questo periodo

Le teorie economiche mercantilistiche avevano lo scopo di rendere ricco e potente lo stato e florida la sua economia. I monarchi del Seicento e del Settecento vedevano nello sviluppo economico una base per aumentare la loro potenza militare ottenendo una maggiore popolazione per l'esercito e la possibilità di produrre più mezzi militari.

In politica interna i consigli dei mercantilisti erano i seguenti:

   Si raccomandava ai sovrani una politica di incremento demografico; più popolazione comportava a un tempo più soldati e più braccia produttive, ciò di cui aveva appunto bisogno lo Stato.

   Si raccomandava, inoltre, un penetrante sistema di imposizione fiscale, tale da poter fornire allo Stato quanto gli necessitava per mantenere ed estendere la sua imponente struttura politico-militare. Il prelievo fiscale non doveva però gravare sui mercanti, perché era proprio questo a fare arricchire la nazione.

   I mercantilisti indicavano nel commercio e non nella produzione la fonte della ricchezza di uno Stato.

   Si considerava opportuna una forte regolamentazione di tutta l'economia, mediante interventi dello Stato in tutti i settori e un sistema minuzioso di controlli e di privilegi (concessioni, monopoli, esenzioni fiscali per alcune categorie ecc.)

In politica estera i consigli dei mercantilisti erano i seguenti i mercantilisti erano favorevoli all'allargamento dei traffici e a tutto quanto fosse in grado di determinarlo:

   Estensione delle colonie

Esse rappresentavano profittevoli mercati di sbocco dei prodotti finiti, serbatoi di rifornimento costante di materie prime e valvole di sfogo dell'eccesso di popolazione che si fosse eventualmente verificato nella terra madre

   Acquisizione di tesori dalle terre conquistate.

La scoperta di grandi giacimenti di metalli preziosi nei territori di recente dominio favorì ed estese la corsa all'accaparramento delle ricchezze a spese delle popolazioni indigene, che furono quasi totalmente annientate.

   Protezionismo dei commerci

Si sostenne il principio secondo cui, per rendere più fiorente lo Stato, occorreva proteggere la produzione interna rispetto a quella importata, e nel contempo bisognava favorire la produzione nazionale diretta verso l'estero.

 

 

 

LA FISIOCRAZIA.

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Il passaggio dal capitalismo prevalentemente commerciale a quello manifatturiero non avvenne uniformemente in tutti i paesi occidentali. La Gran Bretagna aveva avviato un massiccio processo di industrializzazione, sia pure con connotati ancora prevalentemente artigiani, già dalla metà del Settecento, mentre in altri paesi - tra cui l'Italia - non si era ancora affermata su larga scala la produzione di fabbrica. Anche in Francia l'economia, in questa fase storica, era ancora a livello prevalentemente pre-industriale, con una netta configurazione commerciale e agricola.

In queste condizioni si sviluppò in Francia, tra il 1750 e il 1780, una scuola economica chiamata "fisiocrazia". Con la morte dell'esponente principale, Quesnay (1774) iniziò il declino della scuola, che però ebbe ancora una certa influenza in Svezia,

Polonia, Germania, Inghilterra, prima della nascita del pensiero economico classico a cavallo del Settecento (Adam Smith aveva letto con interesse le opere dei fisiocratici).

GLi economisti fisiocratici attribuivano grande importanza alla natura (foreste, terreni, miniere, animali) in quanto capace di produrre ricchezza

Le attività economiche non legate alla natura (artigianato, industria) si limitano a manipolare i beni forniti dall'agricoltura e dall'attività estrattiva.

L'economia sarebbe regolata da leggi naturali, che vanno rispettate, sfruttate, ma non contrastate.

I fisiocratici consigliavano in particolare:

   Provvedimenti e innovazioni tecniche per il settore primario (specie per l'agricoltura), perché l'aumento della ricchezza poteva venire solo dall'unico settore realmente produttivo

   Eliminazione delle barriere doganali, in modo che un paese potesse esportare la propria produzione agricola.

   Eliminazione delle tasse sugli agricoltori e tassazione unica dei proprietari terrieri, la cui rendita rappresentava il prodotto netto o surplus della nazione.

 

 

 

L’ETICA  PROTESTANTE

 

 

 

 

LA RIFORMA PROTESTANTE

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Nel XVI secolo in Europa l’influenza della riforma protestante, in particolare del calvinismo, sulla filosofia e sulla morale dell’epoca (e, attraverso questa, sull’economia) fu rilevante. L’uomo del Medioevo era dominato da una morale ferrea, che gli impediva l’accaparramento delle ricchezze, il prestito a usura, la fissazione del prezzo al disopra di un certo livello ritenuto “equo”. I padri della Chiesa, infatti, concordavano tutti nel sostenere la dottrina del giusto prezzo, in base alla quale nessun mercante avrebbe dovuto chiedere per i prodotti che vendeva un prezzo superiore a quello che gli avrebbe assicurato di vivere decorosamente, ma senza arricchirsi. Solo la rettitudine – anche economica – era in sintonia con la legge divina.

Con Calvino però la morale si fa progressivamente più “disponibile”, più malleabile nei confronti dell’interesse individuale.

Partendo dalla tolleranza verso l’attività mercantile e le sue espressioni, la morale calvinista, sotto la pressione della realtà storica, diviene più spregiudicata, fino a giungere all’esaltazione del commercio e a considerare il successo economico un chiaro segno dell’elevazione divina.

Alla base della nuova etica protestante sta l’idea che il destino è nelle mani di Dio: nel trovare la propria collocazione sociale ogni individuo si armonizza dunque con le leggi di Dio. L’eventuale successo raggiunto prova che si è trovata la propria “vocazione” e che Dio ha “approvato”.

Secondo Calvino, la storia è interamente opera della provvidenza divina. Al centro dell’azione provvidenziale di Dio è l’uomo, predestinato alla salvezza o alla perdizione. La predestinazione divina, per Calvino, assume il significato di una scelta insindacabile di Dio per ciò che riguarda ogni essere umano. Dio, infatti, non crea tutti gli uomini nella stessa condizione: alcuni li destina alla vita eterna, mentre altri all’eterna dannazione. Gli eletti da Dio, pur essendo peccatori, acquisiscono consapevolezza dei loro peccati, che espiano in vita attraverso la penitenza e le opere. Tra queste ultime fondamentale è il lavoro, il più chiaro segno dell’elevazione divina. Il governo della provvidenza indica, quindi, il posto che ciascun essere umano deve occupare sulla terra. Dio ha fissato per ciascuno il dovere da compiere, afferma Calvino: una maniera di vivere che egli chiama vocazione, alla quale l’uomo deve adeguarsi come a una regola perenne. La vocazione viene così ad essere un elemento dinamico, che giustifica anche attività condannate dalla Chiesa medievale (e persino da Martin Lutero, un altro grande riformatore) come l’esercizio del prestito a interesse e l’attività bancaria. Se tali attività  vengono esercitate con successo dagli uomini, è segno che esse piacciono a Dio, che sono iscritte nel grande piano della provvidenza. L’etica calvinista basata sul concetto di vocazione contribuì dunque a giustificare religiosamente e a stimolare  l’intraprendenza economica, che si andava affermando nel corso del XVI secolo. Il nascente capitalismo commerciale ebbe così modo di dispiegarsi senza ostacoli, avendo Calvino operato una chiara riconciliazione fra religione e acquisizione della ricchezza.

Conseguenze di questi fattori furono, da un lato, un assetto politico di nuova formazione (lo Stato nazionale), con precise esigenze di consolidamento e, dall’altro, un nuovo assetto economico caratterizzato dallo sviluppo dei commerci, che necessitava, anch’esso, di una regolamentazione.

 

 

 

IL PENSIERO PROTESTANTE

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   Pessimismo. La salvezza per fede e non per le opere.

L’uomo è irrimediabilmente corrotto dal peccato originale. Non potrà mai liberarsi dal peccato originale. Persino la possibilità di giungere a comprendere o giustificare con la ragione l’esistenza di Dio è dubbia. L’unica possibilità è l’intervento della grazia divina.

Non c’è alcuna azione che l’uomo possa compiere per guadagnare con sicurezza la grazia. Essa è un dono che Dio fa ai predestinati.

Non sono quindi le opere dell’uomo che attirano su di lui la grazia, ma è la sua fede che potrà indurre Dio a salvarlo

   La negazione dei sacramenti

I sacramenti sono delle invenzioni della Chiesa, un residuo di credenze magiche nel potere di certi atti di assicurare la salvezza.

   Il libero esame delle Sacre Scritture

La Chiesa non ha il monopolio della interpretazione della parola divina. Il rapporto con Dio è un rapporto individuale, e non un rapporto collettivo: Dio parla all’anima ed essa intende la sua parola, senza bisogno della mediazione della Chiesa.

   La predestinazione

La salvezza è riservata a coloro che dio ha prescelto come destinatari della sua grazia

   La prosperità materiale come segno della predilezione e approvazione di Dio.

Sebbene le opere di per sé non possano guadagnare la salvezza, tuttavia la prosperità materiale è il segno della approvazione di Dio, mentre la miseria e la rovina sono il segno della sua riprovazione.

   Il valore del lavoro

Il lavoro è un atto buono, perché mette al servizio degli altri i propri talenti attraverso la propria attività. Rendersi utile al prossimo mediante il proprio lavoro è un imperativo etico.

 

 

 

IL  CAPITALISMO E LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

 

 

 

LA CRISI DEL MERCANTILISMO.

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Gli imprenditori, che in un primo momento avevano avuto bisogno dello Stato Assoluto che proteggesse e incoraggiasse i propri traffici, si trovarono, specie con lo sviluppo dell'attività industriale accanto a quella commerciale, sempre più ostacolati nello svolgimento delle loro attività dal controllo statale e dalle pesanti imposte che mantenevano una classe dirigente corrotta e parassitaria.

Gli stati, con i loro interventi ispirati alla politica mercantilistica, peggioravano anzi la situazione, provocando una grande inflazione e instabilità economica.

Lo slogan delle nuove classi era: "Laissez faire, laissez passer!" ("Lasciate fare, lasciate passare!")

Le colonie, che avevano sviluppato una propria attività economica, si sentivano sfruttate dalla madrepatria, e questo stato di cose diede origine alla rivoluzione delle colonie americane nel 1776.

 

 

 

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE: LA FASE PREPARATORIA

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Con il termine "rivoluzione industriale" si fa riferimento alla rapida trasformazione economica verificatasi per effetto dell'introduzione della macchina nel processo produttivo, che ha consentito la produzione di merci su larga scala. L'espressione fu applicata per la prima volta al processo di industrializzazione menifestatosi nel Regno Unito fra la seconda metà del XVIII secolo e la prima metà del XVIII secolo.

La rivoluzione industriale ha attraversato varie fasi. La fase preparatoria è stata caratterizzata da:

   Accumulazione di ricchezza da parte degli imprenditori mediante le attività commerciali

Questa ricchezza accumulata consentì di fare i primi ingenti investimenti nella nascente attività manifatturiera.

   Eliminazione dei vincoli feudali sulle terre, specie sulle terre comuni

Le terre comuni appartenevano a tutta la collettività. Qualunque abitante del villaggio aveva diritto di "acquatico" (attingere acqua, anche per irrigazione), "legnatico" (raccogliere legna), "pascolo" (dei propri animali), "spigolatura" (raccolta delle spighe cadute durante i raccolti), "caccia", "raccolta" (di funghi, mirtilli...), "coltivazione" (su limitate parti delle terre comuni) ecc.

Le terre comuni rappresentavano dunque una risorsa essenziale per gli abitanti più poveri del villaggio, privi di terra o con una quantità insufficiente di terra da coltivare.

Ma il sistema delle terre comuni era basato sull'agricoltura estensiva. Gli imprenditori contestavano questo sistema perché a loro avviso nessuno sarebbe invogliato ad investire denaro ed energie per sfruttare una terra che non era esclusivamente propria.

Con le "enclosures" si ebbe la assegnazione della terra a singoli proprietari e la sua chiusura ("enclosure", appunto) all'uso comune. In passato i proprietari, anziché coltivare tali terre, le riservavano al pascolo per ottenere lana di pecora (già nel 1500 Tommaso Moro si lamentava che "le pecore mangiano gli uomini"); ma con lo sviluppo di efficaci tecniche agricole le terre furono sempre più sfruttate per l'agricoltura intensiva, in particolare per la coltivazione dei cereali.

   Espulsione dal settore agricolo dei lavoratori in sovrannumero, che andarono a costituire riserve di manodopera nelle città

 

 

 

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE: LA FASE INIZIALE (O DELLE GRANDI INVENZIONI)

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La fase propriamente iniziale è quella definita "delle grandi invenzioni", tra cui ricordiamo:

   Macchine per la filatura veloce della lana

   Telai meccanici per la tessitura

   Macchine a vapore per le fabbriche e i trasporti (locomotiva a vapore, nave a vapore)

 

 

 

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE:LA SECONDA FASE (O DELLE GRANDI COMUNICAZIONI)

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La seconda fase, legata in particolare all'uso del vapore per la locomozione terrestre e marittima, è quella "delle grandi comunicazioni", che è contraddistinta da un ampliamento costante dei mercati di sbocco dei prodotti.

 

 

 

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE: I CARATTERI DEL NUOVO MODO DI PRODUZIONE

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La rivoluzione industriale ebbe il suo epicentro, almeno per un trentennio, in Inghilterra. Ma già agli inizi dell'Ottocento diversi paesi, tra cui Germania, Olanda, Belgio e alcuni stati nord-europei seguirono l'esperienza di industrializzazione avviata nel Regno Unito.

Il sistema produttivo capitalistico era basato:

   sull'impiego delle macchine

   sull’impiego del lavoro salariato

   sulla divisione del lavoro

   sulla concentrazione del lavoro in fabbrica

   sulla accumulazione di capitale.

Mentre i tessitori e gli agricoltori medioevali e dell'inizio dell'epoca moderna erano padroni dei loro telai e dei loro terreni, nell'Ottocento la proprietà dei mezzi di produzione non era più in mano all'artigiano che produceva, ma all'imprenditore che si limitava ad organizzare l'altrui lavoro salariato.

Ciascun lavoratore non eseguiva tutte le fasi della produzione, ma si specializzava in una determinata fase, che era in grado in tal modo di svolgere molto più velocemente e con l'aiuto di una macchina.

Mentre nelle età precedenti prevaleva il lavoro a domicilio, con i telai e le piccole manifatture sparse nelle campagne, nell'Ottocento le manifatture si concentrarono vicino ai luoghi di estrazione del carbone o vicino ai grandi nodi ferroviari o marittimi, creando enormi agglomerati di industrie.

I capitali necessari per l'attività produttiva divennero molto elevati, anche per l'uso di macchine, e la figura tradizionale dell'artigiano, in grado di comperarsi gli attrezzi del mestiere, a poco a poco scomparve.

Mentre l'attività tradizionale produceva soprattutto beni di consumo, e la modesta quantità di beni strumentali necessaria a rimpiazzare quelli logorati, nel sistema capitalistico una parte notevole del valore del prodotto (i profitti) cade in mano agli imprenditori, che la reinvestono nella produzione di beni strumentali. In tal modo la crescita del sistema capitalistico risulta molto più veloce di qualsiasi altro sistema economico sino ad allora conosciuto.

 

 

 

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE: LE CONDIZIONI DI VITA DEI LAVORATORI DURANTE LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE.

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I lavoratori agli inizi dell'Ottocento abitavano nei nuovi e vecchi quartieri delle città industriali, dove le condizioni igieniche erano pessime. I quartieri raggiunsero il culmine della sporcizia e del fetore. Nelle nuove città industriali, soprattutto quelle popolate dai lavoratori, erano del tutto assenti anche i più elementari e tradizionali servizi municipali. Interi quartieri non erano in grado di attingere acqua neppure nei pozzi, a causa dell'eccessivo utilizzo da parte delle industrie siderurgiche, cotoniere e chimiche. Con questa scarsità d'acqua per bere e lavarsi non faceva meraviglia l'accumularsi della sporcizia e fetore. Queste erano praticamente le condizioni di tutti gli operai nei nuovi centri industriali, una volta che il regime si fu consolidato.

 

 

 

LA SCUOLA ECONOMICA CLASSICA.

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Nasce nell'ultimo scorcio del Settecento e si consolida nei primi decenni dell'Ottocento.

Nasce con l'affermarsi del sistema del capitalismo industriale e costituisce una riflessione sui meccanismi di funzionamento di tale sistema.

 

 

 

LA CRESCITA DELLE RENDITE A SEGUITO DELL'INDUSTRIALIZZAZIONE.

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Un fenomeno tipico che si accompagna sempre all'industrializzazione è la crescita delle rendite. Esso non sfuggì all'attenzione degli economisti classici, che lo additarono come conseguenza negativa dello sviluppo delle città industriali e delle manifatture.

Secondo gli economisti classici, il grande aumento di popolazione del Settecento rese necessaria una sempre crescente produzione agricola e manifatturiera per provvedere ai suoi bisogni e fornì al contempo la manodopera a buon mercato necessaria per questa produzione.

Ma fattori come la terra coltivabile, le aree edificabili delle città, gli edifici e i capannoni industriali, gli alloggi per i lavoratori, le miniere, i corsi d'acqua erano disponibili in quantità scarsa, e il prezzo richiesto dai proprietari per il loro utilizzo crebbe rapidamente fino ad assorbire gran parte dei profitti degli imprenditori e dei compensi dei lavoratori oltre la pura sussistenza.

Imprenditori e lavoratori erano uniti nel denunciare il furto operato dalle classi improduttive proprietarie di risorse non riproducibili a danno delle classi produttive.

Il fenomeno era giudicato grave perché, dato che ad esempio gli imprenditori agricoli dovevano cedere la quasi totalità dei loro guadagni ai proprietari delle terre coltivabili, essi non avevano sufficienti incentivi per mettere a coltura nuove terre, e quindi si correva il serio rischio che le risorse alimentari non crescessero in misura sufficiente a sfamare la crescente popolazione.

Questo fenomeno assunse dimensioni molto preoccupanti nell'Inghilterra dell'Ottocento, ma è comune nelle epoche e nei paesi in cui la produzione industriale cresce rapidamente e si concentra in determinate aree.

Ad esempio, con l'industrializzazione dell'Italia del centro-nord nel secondo dopoguerra di questo secolo, le famiglie proprietarie di terreni, specie edificabili, di edifici industriali, di alloggi da affittare ai lavoratori migranti hanno ottenuto ingenti guadagni, che hanno permesso loro un alto tenore di vita, la possibilità di mandare i figli alle università, anche estere, ecc.

 

 

 

L'EVOLUZIONE DELLA FIGURA DELL'IMPRENDITORE NEL CORSO DEI SECOLI FINO AD OGGI.

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Nel medioevo il produttore (contadino o artigiano) era proprietario dei mezzi di produzione (terre, attrezzi) e partecipava direttamente col suo lavoro alla produzione.

Nel tardo medioevo e fino alla rivoluzione industriale nacque la figura dell'imprenditore che, sebbene proprietario dei mezzi di produzione, non partecipava direttamente alla produzione, ma si limitava ad organizzarla. Ad esempio, nelle Fiandre dei secoli XV-XVII gli imprenditori tessili davano in affitto i telai ai contadini nelle campagne, fornivano le materie prime per la filatura e passavano poi a ritirare il tessuto finito.

Con il capitalismo, nacque la figura dell'imprenditore moderno, che non solo non partecipa all'attività produttiva, ma non è neanche proprietario dei mezzi di produzione, che si procura con capitali presi a prestito.

Le figure dell'imprenditore, del proprietario delle risorse naturali, del proprietario dei capitali e dal lavoratore si separano e sono rappresentate da soggetti distinti.

Il tipico imprenditore agricolo inglese dell'Ottocento possiede solo la capacità organizzativa di combinare insieme i fattori di produzione che si procura dietro compenso (il salario che va al lavoratore; la rendita che va al proprietario della terra coltivabile; l'interesse che va a chi gli ha prestato i capitali). Egli si appropria delle somme - ricavate dalla vendita dei prodotti - che avanzano dopo pagati i fattori, e che rappresentano il suo profitto.

 

 

 

IL  LIBERALISMO. IL LIBERISMO.

 

 

 

 

LE SOCIETA' PREMODERNE E LE LORO CREDENZE.

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   Cosa si intende per "società premoderne"?

Per "società premoderne" intendiamo le società della preistoria, della storia antica, della storia medioevale e (con qualche cautela che esclude alcune delle idee del Rinascimento) della storia moderna anteriore all'età illuministica.

   L'idea fondamentale delle società premoderne è che tutto deve essere guidato dall'alto.

Una delle concezioni fondamentali di tali società era che ogni aspetto della vita individuale e soprattutto sociale viene retto dall'alto: dalla divinità, o da saggi o eroi ispirati dalla divinità, o da sovrani designati dalla divinità o da antiche leggi di ispirazione divina.

Ancora nel 1500 Lutero esortava i principi tedeschi a "bruciare, uccidere, vessare la teppaglia". L'umanità comune veniva vista come preda di vizi, passioni, incapace di comprendere il bene proprio e a maggior ragione il bene comune. Lasciare che essa si governasse da sé avrebbe rappresentato la catastrofe.

La vita della collettività in una società premoderna si basa su modelli, leggi, norme, riti che provengono da mitici eroi fondatori, o da profeti ispirati dalla divinità (vedi la legge di Mosè), o da sovrani che in oriente erano considerati semidei (in oriente) o amici di dei o ninfe (Minerva, Giove, Era, la ninfa Egeria di Numa Pompilio...) che li consigliavano e assistevano e combattevano perfino al loro fianco (in occidente).

La pianta di molte città babilonesi rispecchiava lo schema delle costellazioni. Le piramidi potrebbero essere state costruite secondo calcoli di allineamento siderale.

Immensa era l'influenza dei sacerdoti, che stabilivano le norme molte attività individuali e sociali. Fu da queste prescrizioni religiose, chiamate nel loro insieme "fas", che nell'antica Roma nacquero le vere e proprie norme giuridiche, chiamate “ius" (ordinamento giuridico): in origine la norma giuridica non era altro che una prescrizione per non sbagliare i propri atti offendendo la divinità.

   Il mito della perfezione originaria.

Nelle società premoderne sono diffusi i miti che fanno risalire tutte le arti e le conoscenze su cui si basa la società, compresa l'invenzione della scrittura, a mitici eroi di natura semidivina, vissuti nel passato, che le avrebbero insegnate agli uomini.

Nella Bibbia si ritrova un mito analogo: vi furono degli angeli che, innamoratisi delle donne umane, scesero sulla terra e si congiunsero con loro, generando la stirpe dei giganti e insegnando alle donne le "arti proibite" della metallurgia e dell'alchimia.

Le società premoderne diverse da quella cristiana non avevano il concetto di "progresso": per esse la vita consisteva nella ripetizione di gesti e cerimonie sempre eguali, perfino nella caccia o nella costruzione delle imbarcazioni o nei corteggiamenti, compiuti o mostrati all'inizio dei tempi da eroi o divinità. Solo così facendo gli uomini avrebbero attirato su di sé la benedizione del cielo e avrebbero vissuto come gli uomini di quei tempi felici.

In molte religioni esiste il mito del paradiso terrestre: anche la religione babilonese, come altre religioni dell'antichità, credeva che la vita dell'inizio dei tempi fosse perfetta e che gli uomini dovessero fare ogni sforzo per restaurarla ed imitarla.

Perfino nella religione cristiana, il fedele assume come "modello" Cristo; la famiglia assume come "modello" la sacra famiglia di Giuseppe e Maria; la società assume come "modello" il popolo ebreo che cammina alla ricerca della terra promessa guidato da Mosè.

   La legge della decadenza.

In simili società non esiste progresso, ma semmai corruzione, decadenza. Esiste la visione pessimistica secondo cui, quanto più tempo trascorre, tanto più l'umanità si allontana dai modelli ideali. I miti siberiani contengono lamenti sulla decadenza degli sciamani o stregoni, che non avrebbero più, come un tempo, la potenza di scacciare malattie e maledizioni dai loro villaggi.

Nel Canto XIV dell'"Inferno" di Dante è riportato (versi 94-114) il mito antichissimo, attestato anche nella Bibbia, delle "quattro età": la storia umana è simboleggiata da una enorme statua con la testa d'oro (=l'inizio dei tempi, in cui tutto era perfetto), le braccia e il petto d'argento, le gambe di ferro e il piede destro, su cui si appoggia, di terracotta (=l'età ultima, in cui tutto vacilla e crolla).

Gli indù parlavano dei quattro "yugas" o età. Secondo loro l'umanità sarebbe attualmente nella quarta ed ultima età, il "kali-yuga" o "età di Kalì la sanguinaria", età del ferro e del sangue, destinata a concludersi con la distruzione del mondo. Kalì è la più terribile delle tre incarnazioni della consorte di Shiva: Parvati, la compagna e moglie; Durga, dea della guerra; e Kalì, ornata da una collana di teschi e che si onorava con sacrifici umani. La donna accanto alla divinità simboleggia spesso la forza creatrice che plasma il mondo materiale secondo il modello divino.

   La concezione cristiana.

Per la prima volta, col pensiero cristiano, si afferma l'idea che l'umanità non è destinata a ripetere sempre gli stessi atti, ma la sua storia è "aperta". Gli antichi padri della Chiesa, specie Sant'Agostino, vedevano il popolo cristiano come un popolo in cammino, che grazie all'assistenza della provvidenza può avvicinarsi sempre più a Dio.

Ma secondo alcuni studiosi anche questa potrebbe essere una idea che si ricollega a quelle delle altre società premoderne: occorre ritornare al paradiso terrestre, alla perfezione delle origini.

   La concezione liberale, che una società è capace di funzionare senza alcun intervento dall'alto è rivoluzionaria.

I pensatori liberali sostennero che gli uomini possono reggersi da se stessi eleggendo i propri rappresentanti e creando da sé le proprie leggi (contrattualismo).

Questa idea è del tutto nuova e rivoluzionaria: l'uomo premoderno, anche quello della "polis" greca, trovava inconcepibile una società che volgesse le spalle alle antiche leggi ed usanze, alle divinità, per regolarsi da sé. Un simile stato di cose avrebbe violato la "dykè", legge cosmica che fissava il posto di ogni cosa nell'universo sin dall'inizio dei tempi, e avrebbe attirato una terribile punizione.

Ancora nell'età del mercantilismo i sovrani si ispiravano a questa idea e sentivano il bisogno di intervenire per regolare dall'alto l'attività economica.

Secondo Dante la società umana ha bisogno, accanto al Papa, di un imperatore egualmente ispirato da Dio (teoria dei "due soli") che deve garantire la giustizia e la pace contrastando gli istinti violenti e viziosi degli uomini, in modo che essi, costretti a rinunciare alla violenza, possano più facilmente volgersi a Dio.

Machiavelli ancora considerava il popolo come una "bestia grossa e varia" che andava governata, sia pur nel suo stesso bene, con le arti "della golpe e del lione": l'inganno e la violenza.

I teorici del liberalismo affermarono che non solo il popolo poteva reggersi da sé (scriveva Benjamin Franklin che, se è vero che spesso le persone comuni sono ignoranti riguardo le questioni di politica ed economia, tuttavia dimostrano di saper scegliere con grande avvedutezza i loro rappresentanti tra i più capaci), prendendo la ragione come guida, ma che la società poteva reggersi sull'egoismo dei singoli, con poche leggi e quasi senza quasi preoccuparsi del funzionamento di tutto l'insieme. Adam Smith e gli altri economisti classici mostravano come esempio la vita delle città dei loro tempi: all'alba, una lunga fila di mezzi di trasporto e di uomini si recava entro le mura per fornire alimenti, vestiario, lavoro, e tutti gli altri beni che venivano poi distribuiti nel corso della giornata. Il fatto sorprendente - la vera scoperta - era che NESSUNO in realtà si occupava di coordinate tutto questo. Nessuno stabiliva quanti carri dovessero arrivare, e quali beni dovessero trasportare. Nessuno si occupava di stabilire chi aveva e chi non aveva il diritto a questi beni. Eppure, tutte queste decisioni venivano prese. Da qui due grandi scoperte: a) il sistema economico è principalmente un sistema per prendere decisioni; b) i meccanismi del sistema economico capitalistico sono in grado di prendere automaticamente le decisioni migliori possibili, senza che alcun sovrano debba occuparsene. Esisteva una specie di provvidenza (la "mano invisibile") che permetteva di fare a meno dell'intervento del Sovrano o della Chiesa. Per un uomo premoderno (e anche per i cattolici più tradizionali) queste idee erano non solo incomprensibili, ma mostruose: la società doveva essere retta dai sovrani e guidata dalla Chiesa.

 

 

 

LE IDEE-CARDINE DEL LIBERALISMO

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   L'individuo è il punto di riferimento fondamentale.

L'idea-base del liberalismo è l'individualismo, cioè il valore dell'individuo, che è il punto di riferimento di qualsiasi sistema economico o politico. La libertà dell'individuo è il valore più alto. Non esiste altro punto di riferimento al disopra dell'interesse dell'individuo, come ad es. la volontà dello stato, gli interessi della nazione ecc. La libera attività degli individui rende possibile produrre e realizzare tutto ciò di cui l'uomo e la società hanno bisogno (imprese, scuole, ospedali, associazioni religiose, culturali ecc.)

L’individuo è in grado di procurarsi da sé quasi tutto ciò che gli occorre: educazione, previdenza per la vecchiaia, assistenza sanitaria, lavoro, divertimento)

   Il contrattualismo.

Il "contrattualismo" è la dottrina politica secondo la quale la società è stata creata dal libero patto degli individui per soddisfare i loro bisogni e nessun monarca può violare le libertà individuali e imporre agli individui imposte, sacrifici, servizi pubblici o obbiettivi che non siano nel loro proprio interesse.

L’individuo contratta con gli altri individui per il raggiungimento degli obiettivi comuni. L’applicazione più interessante si ha in politica: lo stato, il potere del sovrano, nasce da un libero accordo dei cittadini, che liberamente conferiscono potere al sovrano o ai rappresentanti che eleggono.

   Razionalismo

Un individuo razionale accetterà tutti i culti, perché non vede delle evidenze razionali a favore di una religione piuttosto che di un’altra.

Un individuo razionale stabilirà delle pene moderate, che mirano alla rieducazione del condannato e alla prevenzione di futuri reati, e non alla vendetta.

Un individuo razionale rinuncia alla violenza e si affida all’accordo politico, riconosce che presumibilmente nessuno possiede l’intera verità e quindi accetta il dibattito, il confronto e il pluralismo dei partiti.

Un individuo razionale vede con favore lo sviluppo della scienza e della tecnica

   Valore dato all’istruzione

I liberali danno una grande importanza all'istruzione, che permette all'individuo di poter meglio competere con gli altri e di fare consapevolmente le proprie scelte politiche invece di seguire senza riflettere leader disonesti e incapaci.

Un individuo che deve competere deve sviluppare pienamente tutti i suoi talenti. L’istruzione, come mezzo per sviluppare la propria personalità e le proprie abilità è importantissima. Inoltre, una società democratica deve essere una società di uomini istruiti, in grado di  scegliere e controllare l’operato dei propri rappresentanti.

   Valore della proprietà

La proprietà è importante per garantire la indipendenza di un individuo, un individuo che possiede cose di sua proprietà, è meno influenzabile e vulnerabile di un altro individuo. Inoltre la proprietà è la giusta ricompensa per coloro che lavorano e si danno da fare

   La giustizia sociale è basata sul principio di controprestazione

Ogni individuo riceve (anche dallo stato) in base a quanto dà

   Libertà e diritti inviolabili dell’individuo

L’individuo deve godere di una sfera inviolabile di libertà, al riparo dall’arbitrio del sovrano assoluto. I suoi diritti inviolabili possono essere limitati solo per tutelare i diritti inviolabili di un’altra persona.

   Libertà di iniziativa economica

Libertà in economia si chiama “libertà di iniziativa economica”. Ciascuno può iniziare una qualsiasi attività produttiva e scegliere cosa produrre, quanto produrre, in che modo produrre e a chi vendere.

   Tutti nascono eguali e la successiva diseguaglianza è un prodotto delle circostanze

   Ottimismo

Fiducia nella scienza, nel progresso, nello sviluppo economico

   Netta separazione tra stato e società civile

Mentre in passato il sovrano si occupava di religione, di economia, di cultura, nella società liberale lo stato rimane neutrale e si occupa solo di far rispettare le leggi, le “regole del gioco” concorrenziale

   Separazione dei poteri

La grande concentrazione del potere in mano al Parlamento doveva essere controbilanciata dal principio di separazione del potere giudiziario da quello legislativo e da quello esecutivo

   La libertà come valore fondamentale per lo sviluppo dell'individuo.

La libertà consente all'individuo di sviluppare pienamente la propria personalità e la propria intraprendenza: la libera attività degli individui rende possibile produrre e realizzare tutto ciò di cui l'uomo ha bisogno, senza necessità che lo Stato intervenga.

   L'individualismo si oppone a ogni forma di tirannide e di dittatura.

L'individualismo si oppone a qualsiasi forma di oppressione da parte di dittatori che vogliano violare la libertà degli individui col pretesto di farli agire per la "grandezza della nazione", per l'"interesse dello Stato" o in base alla "superiore morale cristiana", ai "veri comandi dell'Islam" ecc.

   L'uomo è naturalmente egoista e il suo comportamento naturale ha come scopo soddisfare esclusivamente i suoi bisogni.

L'uomo è naturalmente egoista e deve accettare questo fatto senza scandalizzarsi. Egli non sopravviverebbe se non avesse degli impulsi egoistici che garantiscono la propria sopravvivenza.

L'egoismo è un impulso potente che, se ben incanalato, può produrre grandi cose. L'altruismo è un impulso debole, su cui si può fare in realtà modesto affidamento.

Il modello di una società fondata sull'altruismo è la comunità di religiosi che non hanno nulla di proprio (tutto è in comune) e non agiscono a scopo di acquisire ricchezza, ma di aiutare i compagni.

Il modello di una società fondata sull'egoismo è una società in cui ciascuno sa che, sviluppando i propri talenti e lavorando sodo riuscirà a fare fortuna e a trasmettere ai figli le proprie ricchezze.

Dice una famosissima frase di Adam Smith: "Non dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del panettiere noi aspettiamo il nostro pranzo, bensì dal riguardo che essi hanno per il proprio interesse. Noi ci indirizziamo non al loro umanitarismo ma al loro egoismo e non parliamo con essi delle nostre necessità ma dei loro vantaggi".

   L'egoismo, illuminato dalla razionalità e tenuto sotto controllo dalla competizione (concorrenza) pacifica è benefico per tutta la società (utilitarismo).

Paradossalmente, l'egoismo è molto più sollecito verso i bisogni altrui (visti come occasioni di guadagno) che non l'altruismo (che sovente si accompagna alla raccomandazione cristiana di reprimere i propri bisogni ed istinti).

La stessa cura dei figli, che è una delle forme più importanti di collaborazione tra individui, avviene per egoismo.

L'egoismo completamente sfrenato porterebbe rapidamente all'uso della violenza e dell'inganno.

Ma l'uomo è un essere razionale, e non può non vedere che in tal modo tutti risulterebbero danneggiati e il soddisfacimento dei bisogni risulterebbe incerto e precario.

La stessa razionalità ed egoismo umani creano pertanto un patto per evitare la violenza e l'inganno. Nasce un'autorità voluta da tutti che fa rispettare le regole del gioco, e cioè della convivenza civile.

   L’egoismo è temperato dalla concorrenza e da essa trasformato in una forza utile

In una condizione di convivenza civile l'egoismo è temperato dalla concorrenza non violenta, e in tal modo va a vantaggio di tutti.

La concorrenza finisce per regolare ogni ambito dell'attività umana. La concorrenza tra imprenditori fornisce ai consumatori le merci migliori ai prezzi più bassi; la concorrenza tra studenti e lavoratori per il posto di lavoro fornisce la manodopera più capace e qualificata per la produzione, i medici migliori, gli architetti migliori, gli scienziati migliori; la concorrenza tra gli uomini politici per ottenere i voti degli elettori fa prevalere i programmi migliori e più vicini ai desideri della gente; la concorrenza dei filosofi e degli scienziati per far affermare le proprie idee produce un continuo avanzamento della scienza e del sapere. Si può dire che tutto il sistema sociale si regge sulla concorrenza, che premia i migliori e procura vantaggi a tutta la collettività.

Per concorrere gli uomini debbono incontrarsi alla pari, con eguali diritti di fronte alla legge, senza che nessuno possa far valere la forza delle corporazioni o i privilegi del proprio rango.

   Lo Stato deve intervenire il meno possibile solo per garantire le regole del gioco.

Lo stato, secondo i liberali, deve assicurare la giustizia (tribunali), l'ordine pubblico (polizia) e la difesa (esercito). Deve insomma garantire la difesa dall'esterno e le regole del gioco all'interno (niente violenza, concorrenza sleale, ecc.).

Per il resto deve lasciar fare agli individui, e in particolare è sconsigliabile che imponga troppe tasse e che voglia partecipare alle attività produttive o cerchi di influenzare l'economia.

   La molla dell'egoismo e della concorrenza fa sviluppare la personalità umana.

Spinto dalla competizione, potendo contare solo sulle proprie forze e non su ricchezza o rango sociale, l'individuo sarà costretto a far fruttare tutti i propri talenti, ad essere accorto, frugale, parsimonioso e intraprendente.

L'egoismo risveglia l'intraprendenza umana e fa crescere i commerci, come dice Hume: "poiché gli uomini si abituano ai piaceri del lusso e ai profitti del commercio, la loro sensibilità e il loro spirito attivo, così risvegliatisi, li sospingono verso nuovi progressi in ogni ramo del commercio sia interno sia estero".

 

 

 

IL LIBERISMO.

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Il liberismo è la dottrina economica del liberalismo: assegna allo stato un ruolo di semplice "arbitro" nella lotta economica e sostiene che l'attività produttiva va lasciata alla libera iniziativa privata, perché solo in tal modo si assicura il massimo impiego delle risorse, la ricchezza e la crescita del sistema economico.

Lo Stato deve intervenire il meno possibile, per garantire il rispetto delle "regole del gioco" della concorrenza e fornire i servizi pubblici più essenziali: difesa, ordine pubblico, giustizia.

 

 

 

LA SEPARAZIONE TRA STATO E SOCIETA CIVILE. LA SEPARAZIONE DEI POTERI.

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Il potere economico deve rimanere separato dal potere politico e dal potere culturale.

Lo Stato (il potere politico), in particolare, non deve intervenire in campo religioso, economico, scientifico.

 I liberisti erano molto polemici nei confronti delle idee del mercantilismo, tipiche dello stato assoluto del Seicento e del Settecento. Secondo loro lo stato mercantilista interveniva troppo nell'attività economica in vari modi:

   Monopolizzando molte attività economiche e concedendone il brevetto di sfruttamento a determinati soggetti o categorie di soggetti

   Emanando un numero eccessivo di leggi per regolare l'attività economica che finivano per soffocarla (ad es. le leggi sul commercio dei grani, citate anche dal Manzoni finivano per essere così opprimenti che provocavano carestie)

   Dazi doganali

Secondo i liberisti andavano tolti tutti questi ostacoli e altri ancora:

   Servitù della gleba, che impediva la libera circolazione dei lavoratori

   Corporazioni di arti e mestieri, che impedivano il libero esercizio dell'attività economica

   Terre comuni (che impedivano di sfruttare vaste aree agricole lasciandole a pascolo o a bosco)

 

 

 

LE "LEGGI NATURALI" DEL SISTEMA. LA "MANO INVISIBILE".

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I liberisti avevano la teoria della "mano invisibile", secondo cui esistono meccanismi (come quello dei prezzi) che garantiscono che l'attività economica si sviluppi da sé e proceda nel migliore dei modi senza bisogno di leggi e controlli (tranne quelli per evitare la violenza e la concorrenza sleale)

L'egoismo è una legge naturale messa da Dio nel cuore dell'uomo.

Ma l'egoismo di una singola persona, se fosse libero di sfrenarsi, rovinerebbe tutti gli altri.

Così pure, un egoismo che volesse affermarsi con mezzi violenti condurrebbe alla catastrofe.

In realtà, nel cuore dell'uomo, l'egoismo è temperato dalla ragione (concezione illuminista).

E' la ragione a spingere gli uomini a limitare i loro egoismi e a stipulare un patto per creare una autorità che impedisca i conflitti violenti e tuteli la proprietà che ciascuno ha guadagnato con il proprio lavoro.

In tale situazione, a causa della presenza di altri uomini, la legge distruttiva dell'egoismo viene temperata dalla concorrenza, cioè dalla lotta pacifica con gli altri per ottenere il soddisfacimento dei propri interessi.

La concorrenza trasforma una forza distruttiva in una grande forza di progresso: gli imprenditori in concorrenza tra loro produrranno prodotti migliori e più a buon mercato; i politici, facendosi concorrenza di fronte all'elettorato, proporranno i programmi politici migliori; gli studenti, stimolati dalla prospettiva di un lavoro rimunerativo, cercheranno di impiegare tutte le loro energie nello studio; ecc.

 

 

 

IL PRINCIPIO DELLO SCAMBIO. L'EGUAGLIANZA.

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Mentre nell'Ancien Régime (1600-1700) alcuni individui (nobili, clero) erano in posizione di forza rispetto ad altri, e in virtù dei propri privilegi si appropriavano per legge di una parte del prodotto nazionale, i liberali rivendicarono la assoluta eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e il principio per cui, se un individuo vuole qualcosa deve scambiarlo con qualcosa di equivalente: denaro, lavoro, beni, ecc. Questo principio dello scambio o "principio della controprestazione" è stato affermato anche nei confronti dello Stato: esso deve fornire servizi pubblici di valore equivalente alle imposte che i cittadini pagano, evitando gli sprechi e il mantenimento di classi parassite come la nobiltà.

 

 

 

IL VALORE DELLA PROPRIETA.

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La proprietà guadagnata con il proprio lavoro è una importante ricompensa che va lasciata agli individui.

La proprietà è anche garanzia di indipendenza e libertà: chi ha dei beni non deve dipendere da altri per il proprio sostentamento e non può essere costretto a comportarsi in modo contrario alla propria libertà e coscienza.

La cosiddetta "proprietà dei beni personali" (delle stanze in cui tutelare la propria privacy, libri, vestiario, strumenti per i propri hobby, auto per gli spostamenti ecc.) è indispensabile per la manifestazione della personalità di un individuo, e non può essergli espropriata né messa in comune con altri.

 

 

 

IL  CIRCUITO REDDITO-SPESA E LA TEORIA DEGLI SBOCCHI DI SAY

 

 

 

IL CIRCUITO REDDITO-SPESA E LA LEGGE DEGLI SBOCCHI

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Osserviamo la figura 1, con lo schema dei rapporti tra famiglie e imprese in un sistema economico semplificato:


L’impresa Alfa produce automobili, utilizzando lamiere che paga lire 150 all’impresa Beta.

L’impresa Beta produce lamiere, utilizzando minerale che paga lire 50 all’impresa Gamma

L’impresa Gamma produce minerale senza utilizzare beni strumentali acquistati da altre imprese

I beni finali prodotti dal sistema economico consistono in auto per un valore di 300 lire, che costituiscono l’incasso dell’impresa Alfa (freccia verticale dalle famiglie all’impresa Alfa)

Ciascuna impresa, una volta pagato il valore dei beni intermedi utilizzati, distribuisce tutto il rimanente alle famiglie che hanno preso parte alla produzione, sotto forma di flusso W+P di

   salari

   profitti

   stipendi

   interessi

   royalties (compensi per i brevetti utilizzati)

   rendite (compenso ai proprietari dei terreni, delle miniere e delle altre risorse naturali utilizzate)

Tra le famiglie che hanno preso parte alla produzione includiamo ovviamente anche quelle degli imprenditori.

Possiamo subito vedere che i flussi W+P dalle imprese alle famiglie sono pari a 150+100+50 = 300, e cioè hanno lo stesso valore del prodotto finale, costituito da automobili (300).

In sintesi,  tutto il valore dei beni finali prodotti dalle imprese nell’unità di tempo (mese, anno, etc.) viene distribuito alle famiglie sotto forma di flusso W+P di salari, stipendi, profitto, royalties, rendite.

Questo fatto risulta ancor meglio da uno schema che riunisce in un unico gruppo le famiglie e in un unico gruppo le imprese:

 

 

Osservando questo schema notiamo che i salari e gli stipendi W+P distribuiti il 27 di ogni mese finanziano le spese di consumo C delle famiglie fino al 27 del mese successivo, quando i soldi sono rientrati tutti nelle casse delle imprese e il ciclo si ripete.

Possiamo dire che le famiglie acquistano i beni con gli stessi soldi che sono stati dati loro dagli imprenditori per produrli. Questo fatto colpì l’economista classico Jean-Baptiste Say (la scuola classica è la scuola di pensiero economico dominante tra il 1790 e il 1850 circa, e comprende economisti come Say, Smith, Ricardo, Marx), che formulò la legge degli sbocchi nella sua prima forma (dovuta a Say): L’offerta (cioè la produzione) crea la sua domanda; in altre parole gli imprenditori non hanno ragione di preoccuparsi che rimangano merci invendute, perché è lo stesso denaro che essi distribuiscono alle famiglie che consentirà ad esse di acquistarle.

Gli economisti neoclassici (la scuola neoclassica è la scuola di pensiero economico dominante tra il 1850 e il 1930 circa) perfezionarono l’analisi di Say considerando anche la possibilità che le famiglie potessero risparmiare. Essi misero a punto lo schema di figura 3 di un sistema economico con famiglie, banche e imprese:

In questo schema tutto il denaro risparmiato dalle famiglie (100) viene depositato nelle banche e poi preso in prestito dagli imprenditori per acquistare beni strumentali durevoli e scorte di beni strumentali non durevoli (flusso orizzontale I di investimenti tra banche e imprese). In questo modo, le 300 lire distribuite dalle imprese il 27 del mese, alla fine del mese successivo ritornano nelle loro casse sotto forma di flusso C+I, e il ciclo si ripete invariato. In questo caso si dice che il sistema è in equilibrio.

Come possono essere sicuri i neoclassici che tutte le somme risparmiate dalle famiglie torneranno alle imprese sotto forma di investimenti? La risposta a questa obiezione è contenuta nella legge degli sbocchi nella sua seconda forma (dovuta ai neoclassici): Se le famiglie risparmiano più di quanto gli imprenditori intendono investire, allora l’interesse offerto sui capitali risparmiati si abbasserà e questo avrà l’effetto di far risparmiare meno le famiglie, che aumenteranno le spese di consumo e di far aumentare gli investimenti agli imprenditori. In tal modo, si raggiunge il punto in cui gli imprenditori investono esattamente quanto le famiglie risparmiano. Anche in questo caso, tutta la produzione ha trovato il suo sbocco, cioè è stata acquistata o dalle famiglie o dagli imprenditori.

Osserviamo la figura 4, che illustra il funzionamento del mercato dei capitali:

 

 

La domanda di capitali proviene dalle imprese, che li impiegano per fare investimenti (acquisto di beni strumentali durevoli e non durevoli), mentre l'offerta di capitali proviene dal risparmio delle famiglie. La curva di offerta di capitali è ascendente: più alto è il saggio di interesse "i" più le famiglie sono invogliate a risparmiare. La curva di domanda di capitali è discendente: più alto è il saggio di interesse, più le imprese trovano costoso imprestarsi denaro e limitano i prestiti. Il saggio di equilibrio iEQ è quello al quale la domanda di capitali coincide con l'offerta: risparmiatori e imprese hanno trovato un accordo. Al disopra del saggio di interesse di equilibrio si ha eccesso di offerta di capitali da parte delle famiglie (saggio i1) ; al disotto del saggio di equilibrio si ha scarsità di capitali o eccesso di domanda da parte delle imprese (saggio di interesse i2)

Come abbiamo già detto, il funzionamento del mercato dei capitali assicura la validità della legge degli sbocchi (“tutta la produzione viene acquistata”); infatti, la situazione in cui le famiglie risparmiano più di quanto gli imprenditori investono è la situazione che si ha al saggio i2, con un eccesso di offerta di moneta pari al segmento AB. Questo eccesso di offerta spingerà il saggio di interesse al livello Ieq, corrispondente al punto P. Come si vede osservando l’andamento della curva di domanda nel tratto AP e l’andamento della curva di offerta nel tratto BP, mentre il saggio di interesse scende, gli investimenti degli imprenditori aumentano (gli imprenditori trovano che il costo del denaro è diminuito sono più invogliati ad investire) mentre l’offerta di moneta da parte delle famiglie diminuisce (le famiglie trovano meno conveniente risparmiare e aumentano i loro consumi). Alla fine domanda ed offerta coincideranno nel punto P

 

 

 

LE  TEORIE DI MALTHUS E DI LASSALLE

 

 

 

LA POPOLAZIONE NEL SETTECENTO.

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Nel medioevo e nei secoli del mercantilismo (1500-1600) le campagne erano spopolate e foreste, paludi e terreni accidentati coprivano una gran parte delle terre coltivabili.

L'aumento di popolazione contribuiva a diffondere il disboscamento, l'agricoltura e le aree coltivate ed era considerato una fonte di potenza economica e militare della nazione.

Ancora legato fortemente ad una visione cristiana e biblica del mondo, il medioevo considerava una popolazione abbondante e una numerosa discendenza come la benedizione di Dio all'uomo.

Ma a partire dal 1700 le campagne cominciarono ad espellere manodopera in eccesso, a causa della chiusura delle terre comuni e del progresso delle tecniche agricole.

Gli economisti classici si accorsero con preoccupazione che quella che nei secoli passati era considerata una ricchezza - l'abbondanza di popolazione - ora costituiva una situazione drammatica che rischiava di togliere valore e dignità ad una vita umana di cui nessuno (né le campagne né le città) aveva più bisogno.

 

 

 

LE TEORIE DI MALTHUS.

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Le analisi più pessimistiche della situazione sono quelle dell'economista classico Thomas Robert Malthus (1766-1836).

Egli ebbe il merito di attirare per primo l'attenzione degli studiosi sul rapporto tra popolazione e risorse. Da allora questo è rimasto un importante tema di studio della scienza economica.

Secondo Malthus, mentre la crescita delle risorse alimentari (cioè dei beni di consumo alimentare disponibili) segue un andamento "aritmetico", la crescita della popolazione segue un andamento "geometrico", che è molto più veloce.

In matematica, si dice "successione" una serie infinita di numeri.

Una successione si dice "aritmetica" quando ciascun numero successivo è ottenuto sommando sempre la stessa quantità al numero precedente. Ad esempio, la successione:

 

3, 5, 7, 8, 11, 13,...

 

è ottenuta sommando il valore 2 per ottenere il numero successivo

Una successione si dice "geometrica" quando ogni numero successivo è ottenuto moltiplicando il numero precedente sempre per la stessa quantità, che viene detta "ragione della successione".

Ad esempio, la successione:

 

3, 6, 12, 24, 48, 96,...

 

è ottenuta moltiplicando ogni termine per 2 (la "ragione" della successione) per ottenere il successivo.

Come si vede, i valori di una successione geometrica crescono molto più rapidamente di quelli di una successione aritmetica.

Secondo Malthus, questa diversità dei ritmi di crescita provoca una sovrappopolazione cronica che mantiene per la maggior parte del tempo le masse in uno stato di miseria e di mancanza di mezzi di sussistenza.

L'istinto riproduttivo delle masse è una legge naturale, e le risorse si sviluppano secondo leggi altrettanto naturali, per cui, secondo Malthus, vi è ben poco da fare per rimediare a questa situazione.

Secondo lui, anzi, essa è destinata ad aggravarsi dal fatto che i fattori produttivi tendono a fornire nel tempo rendimenti sempre più bassi, man mano che il loro sfruttamento diviene più intenso: basti pensare al fatto che per espandere la produzione agricola occorre mettere a coltivazione nuove terre via via meno fertili.

La popolazione ha ben pochi ostacoli al suo sviluppo. I freni che Malthus accuratamene addita come possibili modi per ridurre il divario fra il ritmo di incremento demografico e il ritmo di crescita delle sussistenze sono la restrizione morale, il vizio e la miseria. Questi freni agiscono preventivamente, nel senso che possono evitare il dramma di una popolazione eccessiva. Altri freni, quali le guerre, le pestilenza o le carestie sono, per Malthus, di natura repressiva, tali cioè da entrare inevitabilmente in funzione quando i freni preventivi siano risultati inadeguati o inconsistenti. Malthus non mostra però di avere grande fiducia circa l'efficacia della restrizione morale (in sostanza il celibato, il ritardo dei matrimoni, la continenza e simili) e condanna, da puritano ed ecclesiastico qual era, sia il vizio sia l'eventuale ricorso a forme di controllo delle nascita diverse da quelle "naturali" sopra descritte. Dunque, rimane la misera a regolare la crescita demografica.

L'innalzamento del benessere materiale conduce a creare maggiori bocche da sfamare, col risultato di aumentare le esigenze di sostentamento più di quanto siano in grado di crescere i mezzi stessi di sostentamento. L'equilibrio - se così possiamo chiamarlo - viene ripristinato con la morte di una parte della popolazione che ne riduce le dimensioni. Una sorta di concorrenza applicata all'esistenza umana.

La teoria malthusiana fu salutata con grandi onori dal conservatorismo dell'epoca, che ne trasse la giustificazione per non fare nulla rispetto al problema, sempre più grave, dell'impoverimento delle masse. L'aver tracciato una legge di natura, immutabile e inesorabile, cancellava con un colpo di spugna ogni responsabilità nei riguardi della miseria, e nello stesso tempo legittimava lo sfruttamento dei lavoratori attraverso l'erogazione di bassi salari, giacché anche in tal caso il principio di popolazione funzionava a dovere: pagare "troppo" i lavoratori avrebbe significato condizioni di vita favorevoli alla crescita demografica, con i noti effetti descritti così autorevolmente da Malthus.

 

 

 

LA "LEGGE FERREA (O BRONZEA) DEI SALARI".

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Leggiamo le parole con cui il socialista dell'Ottocento Ferdinand de Lassalle espone tale legge. “La bronzea legge economica che negli attuali rapporti sociali dominati dalla domanda e dall'offerta di lavoro determina il salario può riassumersi in questo modo: il salario si riduce costantemente alla sussistenza necessaria abitualmente richiesta in un popolo per sopravvivere e riprodursi. Questo è il punto intorno al quale oscilla sempre il salario reale senza potersi elevare ed abbassare per un tempo prolungato, proprio come un pendolo. Non può superare in modo permanente questa media perché altrimenti, diventando più sostenibile e migliore la condizione dei lavoratori, ne deriverebbe un aumento dei matrimoni e della riproduzione dei lavoratori, un incremento della popolazione operaia e quindi dell'offerta di braccia che riporterebbero il salario al suo precedente livello. Il salario non può nemmeno restare per molto tempo al di sotto del minimo necessario di sussistenza perché altrimenti ne deriverebbero emigrazioni, scarsità di matrimoni, crisi di natalità e infine diminuzione di lavoratori causata dalla miseria che riduce ancora l'offerta di braccia ripordando il salario allo stadio precedente. La limitazione del salario medio alla sussistenza abitualmente richiesta in un popolo per sopravvivere e riprodursi

è, torno a ripeterlo, questa legge bronzea e crudele che domina il salario nelle attuali condizioni sociali".

 

 

 

LA CRITICA DI RICARDO A MALTHUS. IL PENSIERO DEGLI ECONOMISTI SUCCESSIVI.

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Ricardo non condivide il pessimismo di Malthus (perlomeno nel lungo periodo). Egli è ottimista riguardo la condizione dei lavoratori, perché ha riducia nell'avvenire dell'industria che, secondo lui, è capace di espandersi molto più rapidamente dell'agricolture e di assorbire i lavoratori attualmente in eccesso.

Inoltre, non è vero che la condizione salariata abbrutisce i lavoratori a livello di miseria e analfabetismo. Mano a mano che l'industria si evolverà saranno necessari lavoratori sempre più istruiti, che saranno pagati sempre meglio.

Gli economisti successivi a Malthus a poco a poco abbandoneranno l'idea che il salario sia fatalmente legato al minimo indispensabile di sussistenza e che questo sia anzi necessario per garantire agli imprenditori i profitti necessari per incentivarli e finanziarne la attività.

Al suo posto si fanno strada le idee degli alti salari come condizione dello sviluppo industriale, e della tendenza dei profitti a decrescere per effetto di questo sviluppo, in modo tuttavia che la condizione dell'imprenditore non viene peggiorata, riprtendosi il suo guadagno sopra una più grande massa di prodotti.

 

 

 

LA  TEORIA DELLA RENDITA DI RICARDO

 

 

 

LA RENDITA ASSOLUTA E LA RENDITA DIFFERENZIALE.

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La rendita assoluta è il compenso che il proprietario della terra riesce ad ottenere dall'imprenditore perché esiste un numero limitato di terre coltivabili, insufficiente a permettere a tutti gli imprenditori che lo desiderano di produrre grano.

La rendita differenziale è il compenso che il proprietario delle terre più fertili riesce ad ottenere perché esistono imprenditori che desiderano coltivare le terre più fertili piuttosto che le meno fertili.

Possiamo chiarire il tutto con un esempio:

 

TERRENO

COSTO DI PRODUZIONE DEL GRANO

PRODUZIONE DI GRANO

A

50 € per quintale

10 quintali

B

60 € per quintale

10 quintali

C

70 € per quintale

10 quintali

D

80 € per quintale

10 quintali

 

Supponiamo che la domanda delle famiglie sia sufficientemente alta da consentire agli imprenditori agricoli di fissare il prezzo di vendita del grano a £ 100.

L'imprenditore agricolo che coltiva il terreno D ricava 20 lire in più rispetto ai costi sostenuti.

Ma queste 20 lire non andranno all'imprenditore (come profitto), ma dovranno essere cedute al proprietario come rendita. Infatti, essendo la terra scarsa, gli altri imprenditori agricoli rimasti disoccupati sarebbero disposti ad accontentarsi di un profitto più basso per poterla coltivare, e alla fine tutto il profitto va al proprietario della terra.

Questo tipo di compenso al proprietario della terra, dipendente dalla scarsità del fattore rispetto alla domanda da parte degli imprenditori, si dice "rendita assoluta".

Se le terre di tipo D fossero disponibili in numero illimitato, nuovi imprenditori inizierebbero la coltivazione di nuove terre, finché, per l'eccesso di offerta di grano, il prezzo del grano non scenderà a 80 €. A quel punto il profitto dell'imprenditore è sparito, e l'ingresso di ulteriori imprese non è possibile, perché spingerebbe il prezzo al disotto del costo di produzione.

In questa situazione i proprietari delle terre meno fertili non ottengono alcun compenso per l'utilizzo da parte degli imprenditori. In questa situazione è sparita la rendita assoluta.

Si vede subito che i terreni hanno diversa fertilità. Il terreno A è il più fertile, mentre il terreno D è il meno fertile

Se le famiglie hanno bisogno di 40 quintali di grano per la sopravvivenza, quanto dovranno pagare alle imprese per ottenere una produzione di 40 quintali?

Sembrerebbe che esse debbano pagare:

(50 * 10) + (60 * 10) + (70 * 10) + (80 * 10) = 2.600 €

In realtà Ricardo mostra che le famiglie dovranno pagare:

80 * 40 = 3.200 €

Questo perché il prezzo che si forma in un mercato concorrenziale è unico.

Se ciascun produttore chiedesse un prezzo diverso, pari al suo costo di produzione, tutte le famiglie si rivolgerebbero al coltivatore del terreno A e nessuno ai coltivatori dei terreni B, C o D.

Poiché tuttavia il prodotto del terreno A non è sufficiente per i bisogni delle famiglie, ben presto l'eccesso di domanda (= domanda maggiore dell'offerta) farà salire il prezzo di vendita del prodotto del terreno A al livello del costo del terreno D.

L'imprenditore che coltiva il terreno A ricava 40 € in più rispetto ai costi di coltivazione. Ma egli deve cederle al proprietario della terra, perché tutti gli imprenditori che coltivano le terre meno fertili (e anche quelli che non sono riusciti ad ottenere terre da coltivare) avrebbero interesse ai maggiori profitti realizzabili sulle terre più fertili, e si farebbero quindi concorrenza offrendo di cedere al proprietario una parte via via crescente del maggiore profitto ottenibile: in tal modo, alla fine essi si accontenteranno di lasciare quasi tutte le 40 € al proprietario. Per semplificare, gli economisti considerano che tutte le 40 € diventino una rendita dei proprietari. Si tratta di una "rendita differenziale" rispetto al terreno

D, che non può essere maggiore della differenza tra i costi di produzione del terreno A e i costi di produzione del terreno B.

 

 

 

LA  DOTTRINA SOCIALE CRISTIANA

 

 

 

LA CONCEZIONE CRISTIANA DEI RAPPORTI ECONOMICI.

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   La Chiesa ha spesso sostenuto lo stato e le sue leggi (comprese quelle sulla proprietà) perché lo Stato è considerato dal pensiero cristiano come un importante mezzo per poter attuare il regno di Dio.

Già Dante sosteneva che l'autorità civile ha un proprio ruolo moderatore degli egoismi individuali.

   Deve esistere una autorità religiosa o ispirata alla religione che faccia presenti agli uomini i principi cristiani. Tale autorità non deve essere ostacolata dallo Stato.

Nella concezione cattolica tradizionale il fatto che esistessero principi, basati sul vangelo, dell'agire giusto che andavano ricordati agli uomini comportava un preciso ruolo sociale della Chiesa.

Nel pensiero della Chiesa medioevale, questo comportava una posizione di predominio della Chiesa. Al vertice, vi doveva essere il potere religioso, da cui traeva riconoscimento quello politico e, sotto si trovavano i poteri economici, dotati di maggior riconoscimento se accompagnati da un titolo di potere politico (come nei proprietari terrieri feudali) e di minor riconoscimento se puramente economici (come nei commercianti, artigiani e banchieri borghesi e nei semplici lavoratori). Questa struttura soffocava lo sviluppo economico capitalistico.

Nel moderno Stato laico, la Chiesa afferma che i suoi principi hanno un valore preminente rispetto a quelli dello Stato, e che è lecito ribellarsi agli stati che vanno contro i principi di Cristo o che ostacolano il magistero della Chiesa.

   L'utilitarismo liberale conduce all'egoismo e allo sfrenamento delle passioni.

La Chiesa contesta l'utilitarismo. Manzoni, fervente cattolico, scrisse un trattatello contro Bentham, famoso utilitarista inglese, per mostrarne la incompatibilità col pensiero cristiano.

   Gli scambi debbono avvenire secondo giustizia: le due prestazioni debbono essere equivalenti e nessuno deve approfittare della sua posizione di forza. I contratti debbono avere il giusto prezzo, e in particolare i prestiti debbono avere il giusto interesse.

Secondo tale dottrina bisogna distinguere ricchezze guadagnate e non gudagnate e considerare equi i compensi di chi non abusa di situazioni monopolistiche, di privilegi o di posizioni di rendita, offerti da circostanze fortunate, dal possesso di beni scarsi di cui vi è gran richiesta ma che non sono costati particolarmente ecc...

   La proprietà è accettabile se è diffusa e ben distribuita. Essa rappresenta in tal caso una base insostituibile per la libertà e lo sviluppo della persona.

Il concetto secondo cui la proprietà è accettabile se è ben distribuita, se è diffusa - che troviamo nella dottrina cristiana - corrisponde ovviamente alla concezione della giustificazione della proprietà nel lavoro, da un lato; alla preoccupazione che i beni terreni non distraggano gli uomini dai valori extraterreni; al motivo della equità nei contratti (perché essa è garanzia di equilibrio sociale) e soprattutto al concetto che la proprietà debba accettarsi, in questo mondo imperfetto, come strumento per un equilibrato rapporto fra uomini e natura e quindi come modo per assicurare al maggior numero di persone una giusta parte di beni materiali e una difesa della loro persona e della loro famiglia dal bisogno e dalle minacce di sfruttamento di parte degl altri, a cui si predica il dovere di carità, ma dei cui egoismi è doveroso tenere conto nell'organizzazione sociale.

   La dottrina cristiana ripudia la violenza nei rapporti tra gli uomini.

La Chiesa ripudia ogni tipo di violenza nei rapporti politici, e caldeggia la persuasione, le armi incruente della predicazione del dovere cristiano, dell'esempio, dell'ammonimento o della preghiera.

La preghiera era ritenuta importantissima dalla Chiesa, che per questo era bersaglio dei marxisti quando essi parlavano della religione come "oppio dei popoli": ai disgraziati si suggerisce di attenuare le proprie sofferenze terrene pregando; ai ricchi si suggerisce di aiutare i derelitti pregando per loro e di purificare il proprio animo, contaminato dal peccato, pregando; ai conventi di pregare per gli uni e gli altri e perché proseguano le donazion dei ricchi a loro favore, in vista di tale missione. In tal modo le cose possono rimanere come prima senza che la ricchezza e la diseguaglianza ostacolino lo sviluppo spirituale delle persone.

   La sola proprietà che si giustifica è quella meritata con il lavoro e la fatica.

La dottrina medioevale afferma che la sola proprietà che si giustifica è quella accompagnata da fatica, non basata sullo sfruttamento delle condizioni di bisogno altrui, non fondata su pretese immoderate di arricchimento.

   La proprietà delle organizzazioni religiose (conventi, monasteri ecc.) che attuano la perfezione della vita evangelica tra i loro membri, le opere di carità e l'apostolato è giustificata e inviolabile. Essa è la base della indipendenza e libertà della

Chiesa e mezzo di sviluppo spirituale.

   Il lavoro, il mestiere è un "ministerium", una missione, una attuazione del precetto di amore per il prossimo.

   La organizzazione sociale ha dei difetti che non sono realisticamente eliminabili. L'uomo è imperfetto, e il rispetto della libertà degli individui impone di accettare tali imperfezioni (il profitto dell'imprenditore; l'interesse di chi presta; la proprietà privata; ecc.).

La chiesa riconosce la libertà delle persone di sbagliare. La libertà è un elemento fondamentale della condizione umana.

Bisogna eliminare però i fatti più gravi, modificabili con un intervento dello Stato.

La dottrina economico-sociale cristiana è, essenzialmente, una dottrina di conciliazione, di compromesso. Come eredità della Bibbia ha anche la concezione della imperfezione dell'uomo (peccato originale e cacciata dallo stato perfetto del paradiso nella vita imperfetta della Terra).

Da ciò una valutazione pessimistica sulle possibilità dell'organizzazione sociale: la perfezione, per quanto sia un ideale cui si deve mirare, non è di questa terra. Quindi la Chiesa ha un disegno di organizzazione sociale che sebbene ispirato al meglio, tuttavia riconosce le imperfezioni, in particolare l'egoismo umano e quindi tende al compromesso.

   Le ricchezze materiali sono accettabili solo come un mezzo, ma giammai come un fine. In particolare è vietata l'avidità.

Dio dice ad Adamo di usare della terra e sottometterla. La proprietà è uno strumento per realizzare la benevolenza e la benedizione di Dio.

Le ricchezze debbono per quanto possibile servire per l'elevazione dell'uomo a Dio. Il cristiano non vede con sfavore la proprietà, ma il cattivo uso della proprietà consistente nel riporre la propria fiducia nei beni piuttosto che in Dio.

La validità della proprietà deriva dall'assegnazione che Dio fa delle cose del mondo agli uomini. La proprietà permette di godere ordinatamente le cose del mondo, purché non si pervertisca: a) strumento di esclusione di altri; b) strumento di oppressione e violenza ad altri; c) strumento e occasione di peccato e corruzione; d) causa di perdita della fiducia in Dio

La Chiesa vieta il suicidio e considera peccatore l'uomo che non si preoccupa della sua esistenza e la mette a rischio. L'esistenza è un bene che Dio ci ha dato e che non possiamo gettare via. La proprietà assolve quindi il compito di preservare il dono dell'esistenza.

Dio vieta di accumulare la manna: non bisogna chiedere oltre le nostre necessità, perché questo spesso porta ad offendere gli esseri viventi, la natura e il prossimo, a saccheggiare, offendere, deturpare la natura, che è pur sempre un dono di Dio da preservare.

Dio ammette che sacrifichiamo animali e cose per noi, ma il sacrificio è accetto a Dio in quanto questi animali e queste cose col loro sacrificio ci aiutano a crescere. La distruzione della vita deve portare ad una crescita di amore e di vita.

Altrimenti è distruzione di vita.

Dio ci nutre (=ci fa crescere) in molti modi misteriosi e non solo col cibo. La nostra crescita spirituale dipende dalla Provvidenza, che crea occasioni.

I nostri sforzi possono produrre effetti contrari al nostro bene e non essere sufficienti. Solo la provvidenza divina fa sì che essi arrivino ad effetto.

L'accumulazione di ricchezze non deve procedere sproporzionatamente alle necessità, la proprietà privata è ammessa (in relazione alla fragilità umana) ma deve essere il più possibile distribuita e i poteri nella società debbono rispettare una gerarchia di valori, in cui quelli economici non sono al vertice, ma quelli della dignità, libertà, sicurezza dell'individuo.

   La proprietà crea un obbligo di aiuto verso il prossimo.

La proprietà privata crea in chi la possiede un obbligo di aiuto verso il prossimo bisognoso; in generale chi ha, è tenuto ad aiutare chi non ha

Obbligo di dare in prestito il denaro senza pretendere, in contraccambio, in aggiunta alla restituzione della somma, anche un interesse.

Nei contratti si deve far pagare un prezzo "giusto" il quale va calcolato in modo da consentire la copertura di costi per mezzi materiali e un ragionevole compenso per il lavoro svolto senza approfittre delle condizione di bisogno in cui possa trovarsi la controparte.

Il concetto, della dottrina cristiana medioevale, che la ricchezza e la proprietà in genere creino, in chi li possiedono, un obbligo di aiuto verso gli altri, contiene "in nuce" il principio della solidarietà sociale, dell'assistenza sociale e quindi della garanzia a ogni uomo di un sostentamento da parte della collettività.

 

 

 

CRISTANESIMO E MARXISMO.

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   La dottrina del giusto prezzo e dell'usura è stata vista come anticipatrice della teoria del plusvalore marxista. Tuttavia vi sono significative differenze tra le due concezioni.

   In generale i cristiani hanno rivendicato il merito di aver predicato molti dei principi socialisti ben prima del marxismo.

   Molti cristiani dichiarano di poter essere contemporaneamente marxisti e cristiani.

Ma Marx disse chiaramente che secondo lui "La religione è l'oppio dei popoli" e "Dio è stato inventato allo scopo di tenere buoni gli oppressi e ingannarli con il miraggio di una vita ultraterrena affinché non si ribellassero alle ingiustizie della vita terrena".

In queste condizioni, molti cristiani ritengono impossibile essere contemporaneamente anche marxista.

   Il cristianesimo non è a favore del collettivismo. Per collettivismo si intende la espropriazione di tutti i beni e la attribuzione in proprietà allo stato o a collettività di lavoratori o a collettività locali.

Esiste un comunismo tra monaci e monache, ma per la Chiesa questa è una strada che può essere percorsa con profitto solo da coloro che hanno la vocazione, e che farebbe più male che bene a persone di virtù ordinaria: non si può elevare una persona al disopra di quanto gli consentono le sue capacità senza grave danno per la sua anima e rischio di tentazione e peccato.

Esiste invece un socialismo non collettivista che si può derivare dalle dottrine cristiane (vedi i paragrafi sul cristianesimo sociale).

   La dottrina secondo cui le ricchezze materiali sono un mezzo e non un fine è simile alla dottrina marxista della mercificazione e della alienazione: della critica, cioè al capitslismo per la sua strumentalizzazione della condizione umana al lucro e ai beni materiali.

   Nella concezione della Chiesa vi è un sospetto nei riguardi del progresso materiale, una diffidenza verso la civiltà industriale, mentre in Marx vi è l'opposto atteggiamento.

Nella dottrina cattolica medioevale la critica al culto della ricchezza si accompagna a una critica alla contaminazione che la ricchezza reca all'uomo. Invece per Marx, mutati i rapporti di classe, la ricchezza sarà uno strumento di liberazione umana e una meravigliosa forza positiva per l'obbiettivo del comunismo.

   Mentre i cristiani si dolevano poco che la mancanza di profitto comportasse minore sviluppo economico (la povertà era per loro una virtù), i marxisti erano sensibili a questo aspetto, e ne facevano anzi un argomento di critica al saggio di profitto, che avrebbe condotto al ristagno degli investimenti.

Per la dottrina cattolica la ricchezza ha in sé qualcosa del peccato originale, rappresenta un elemento pericoloso per il vero fine dell'uomo, che è quello ultraterreno.

La ricchezza assorbe l'attenzione dell'uomo, rende inquieta la sua anima.

La Chiesa, secondo i marxisti, non riconosce sufficientemente il rapporto tra ricchezza materiale e sviluppo della personalità umana: non per niente, secondo i marxisti, Cristo disse "beati i poveri"

   Il concetto cristiano di carità portava alla assistenza e alla beneficenza, perché ricchezza e proprietà creano, in chi li possiedono, un obbligo di aiuto verso gli altri.

Vi è da dire però che la dottrina cristiana dell dovere di assistenza ai poveri si basa su un concetto quello della "carità" che, nella sua originaria versione individuale, si differenzia considerevolmente da quello del puro diritto all'assistenza.

I marxisti sostengono che l'assistenza cristiana è volontaria, affidata alla "carità" della persona abbiente, non organizzata su base nazionale, non costituente un vero e proprio diritto (come dovrebbe essere) e che in ultima analisi è vista principalmente come perfezionamento spirituale del ricco invece che come strumento per risollevare le condizioni materiali del povero.

Ancora più grave è, secondo i marxisti, il fatto che la carità verso il povero sia servita come giustificazione della proprietà del benestante.

 

 

 

IL DIVIETO DELL'USURA.

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I dottori medievali della Chiesa ritenevano che la sete di arricchirsi e il desiderio di beni materiali non fossero un elemento degno di trovare posto, sul terreno morale e pertanto affermavano che essi sono irrilevanti per stabilire l'equivalenza nel contratto di prestito, mentre si preoccupavano di tutelate il debitore dallo sfruttamento che dei suoi bisogni poteva fare l'usuraio. Non volevano che il denaro si moltiplicasse nelle mani di chi giò ne aveva; ritenevano che egli dovesse ritenersi pago di esso e che dovesse astenersi dall'arricchirsi troppo o, almeno, accompagnare con la propria fatica un ulteriore arricchimento.

Le condizioni in cui essi elaborarono la loro teoria, in effetti erano quelle di una società scarsa di capitali finanziari, in cui i debitori appartenenti per lo più al mondo rurale e al piccolo artigianato, erano alla mercé dei creditori, appartenenti alla classe ricca.

Gli economisti classici e neoclassici fecero una importante scoperta, che cambiò completamente la impostazione del problema dell'usura.

Essi si resero conto che il denaro è un bene scarso, e che normalmente, il numero delle persone disposto a chiedere un prestito è superiore alla quantità di moneta disponibile.

In queste condizioni DEVE esistere un meccanismo per stabilire chi otterrà il prestito e chi non lo otterrà.

Lo stesso problema si pone per i beni di consumo: il meccanismo del prezzo che si forma a seguito della domanda ed offerta ha lo scopo di scegliere le persone a cui distribuire i beni prodotti. Questo meccanismo (detto "meccanismo del mercato" o “meccanismo di mercato") attribuisce i beni agli individui disposti a pagare il prezzo più alto.

Gli alti interessi sui prestiti non sono quindi altro che un meccanismo per decidere chi otterrà il finanziamento, e sono dovuti alla scarsità della moneta disponibile. I moralisti possono smettere dunque di interrogarsi, secondo gli econonomisti classici e neoclassici, sulla "moralità" di alti interessi.

Naturalmente, vi sono meccanismi alternativi per distribuire i beni. Lo studente dovrebbe leggere, su tutta la questione, le pagine 170-174 del libro di R.G.Lipsey "Introduzione all'economia" (vedi fotocopie).

Nell'Ottocento si cercava ancora di giustificare l'interesse cul capitale come un premio per il sacrificio dell'astinenza. Ma è evidente che un benestante non ha in questo modo un particoalre sacrificio di astinenza e che un avaro ne ha uno ancora minore. L'unica vera giustificazione del tasso di interesse è, come abbiamo detto, che il denaro è "scarso".

La Chiesa ammorbidì in seguito la sua posizione nei confronti dell'usura. Le leggi morali potevano intralciare l'attività economica, che portava in fin dei conti benessere alle persone, e di fronte a questo si cedette alle ragioni dell'egoismo.

Si ammise l'interesse per ritardo, per perdite subite o mancati guadagni, per prestito ipotecario riguardante la terra (fruttifera), derivante da quote di compagnie. Si ammise infine, da parte di una scuola teologica, la liceità dell'interesse tutte le volte che si potesse adoperare l'argomento che i beni presenti hanno più valore materiale di quelli futuri.

 

 

 

LE ORIGINI DEL CATTOLICESIMO SOCIALE. IL MOVIMENTO CRISTIANO SOCIALE DI FINE OTTOCENTO.

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Ci fu un "socialismo cristiano" nell'Ottocento, di cui Marx parlava sarcasticamente, legato alla vita e ai valori delle campagne, di ispirazione agricola, che è giunto via a presentarsi come movimento dei piccoli proprietari, contro i grandi; e poi come movimento dei mezzadri braccianti per la redistribuzone di terre a loro favore.

Negli anni 1860 in Germania sorse un movimento cristiano sociale guidato dal vescovo cattolico von Ketteler, che scrisse un opuscolo "La questione operaia e il cristianesimo".

Von Ketteler era influenzato dagli autori socialisti che erano convinti che la legge bronzea dei salari fosse una realtà, che era il lavoro contenuto nei beni ad originare il loro valore e che il sistema capitalistico avesse la tendenza a cadere in periodiche crisi economiche, e che per evitare tutto questo necessitasse l'intervento dello Stato (socialismo di stato).

Il Papa, nell'enciclica "Quod apostolici muneris" del 1878, condannò il socialismo, il comunismo e l'anarchismo, perché erano movimenti atei (affermavano che la religione era un inganno).

I cristiano sociali reagirono eliminando il termine "socialismo" dai loro scritti e discorsi e attenuarono le loro posizioni riformiste, pur continuando a proporre delle leggi a favore dei lavoratori (cosiddetta "legislazione sociale").

I cristiano sociali austriaci e francesi erano antiliberali, antisemiti, antidemocratici.

Attaccavano il capitalismo per i suoi soprusi ma propugnavano un movimento sindacale basato non sul potere ai lavoratori, ma sul potere a corporazioni formate, con l'approvazione dello Stato, mediante la associazione fra datori di lavoro e lavoratori.

Nel 1891, tredici anni dopo l'enciclica "Quod apostolici muneris" fu promulgata l'enciclica "Rerum novarum" che si occupa delle condizioni delle classi lavoratrici e propone innovazioni sociali, sia pure cautamente. Il socialismo cattolico poteva ora trovare una esplicita (anche se prudente e esitante) autorevole convalida. Essa non si opponeva ai principi democratici, ma all'attività economica senza controllo.

Il partito popolare cattolico fondato in Italia da don Sturzo fu il frutto più notevole della "Rerum Novarum".

Mentre il movimento cristiano sociale di fine ottocento era antidemocratico, il socialismo cattolico dell'inizio del Novecento, col sostegno dell'enciclica "Rerum novarum", anche se non poteva menzionare la parola "socialismo", poteva far rivivere la dottrina originaria della Chiesa, combattendo i liberali non per i loro principi democratici, ma per i principi liberisti di una economia senza controllo; e quindi potevano nascere movimenti politici cattolici ispirati a idee di democrazia economica e politica.

 

 

 

IL CATTOLICESIMO SOCIALE DEL PRIMO E DEL SECONDO DOPOGUERRA. IL PERSONALISMO.

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Nel primo e secondo dopoguerra, un movimento che si ispirava al cattolicesimo sociale, molto attivo in Francia e diffuso anche tra gli uomini della Democrazia Cristiana italiana prendeva il nome di personalismo. Il movimento personalista era, per certi aspetti, contrario sia alle dottrine liberali che a quelle marxiste.

Contro le dottrine liberali sosteneva che non basta prcclamare a parole la dinità e la libertà dell'uomo, come idea astratta, e disinteressarsi delle condizioni materiali in cui gli uomini vivono. Occorre invece promuovere la giustizia sociale e l'uguaglianza, in modo che la dignità e la libertà umana siano per tutti una realtà e non vuote parole.

Contro le dottrine marxiste, sosteneva che la persona non è riducibile alla sua sola dimensione economico-materiale ma è un essere eminentemente spirituale. Per questo, occorregarantire la libertà, che è l'alimento dello spirito.

I punti importanti di questa dottrina erano i seguenti:

   In primo luogo, i diritti fondamentali della persona, che si richiamano alla tradizione liberale iniziata con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789

   In secondo luogo, la democrazial in quanto unico sistema politico conforme alla dignità delle personel poiché non le riduce a oggetti nelle mani altrui

   In terzo luogo, l'impegno per una politica a favore delle classi più deboli e contro le ingiustizie sociali, da cui deriva la concezione dello Stato interventista, autore delle riforme sociali necessarie (attraverso gli interventi nell'economia, la programmaziona, la sicurezza sociale, la politica per la piena occupazione e la tutela dei lavoratori ecc.

   Infine, la subordinazione dei diritti economici (la priprietà, l'iniziativa economica) agli interessi di tutta la collettività. Tali diritti furono ancora riconosciuti ma v ennero, per così dire, "affievoliti" di fronte all'interesse generale.

   Da ultimo, lo Stato che governa i processi economici e limita e indirizza i diritti economici dei privati (la proprietà e l'iniziativa economica), quei diritti che il secolo prEcedente aveva proclamato inviolabili e la nostra Costituzione vuole invece che siano subordinati agli interessi generali. Tutto ciò si esprime in una formula di sintesi: lo "Stato interventista".

Gli anni dal 1945 al 1960 hanno visto la definitiva accettazione del principio di democrazia politica; quelli successivi con le enticliche "Mater et magistra" e "Populorum progressio" la ripresa dell'originario pensiero sociale cattolico.

 

 

 

IL  SOCIALISMO UTOPISTICO

 

 

 

I "SOCIALISTI UTOPISTI".

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La critica all'economia capitalista si espresse, nella prima metà dell'Ottocento ad opera di un gruppo di pensatori dalle idee molto differenti, chiamati "socialisti utopisti" per distinguerli dai cosiddetti "socialisti scientifici" seguaci di Marx.

Tratto comune ai suoi principali esponenti, che definiamo anche "socialisti associazionisti", è la considerazione del capitalismo come un sistema economico (sociale e politico) profondamente ingiusto, caratterizzato dalla povertà diffusa e dalla disuguaglianza. Negli scritti degli associazionisti è sempre avvertibile un senso di ribellione alle iniquità manifeste della loro epoca, che peraltro non riesce a proporre soluzioni pratiche convincenti (da qui il nome di "utopisti").

 

 

 

SAINT SIMON.

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Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760-1825) ha una particolare visione del socialismo da attuarsi non attraverso la demolizione del sistema capitalistico, ma, al contrario, perfezionando sempre più l'organizzazione sorta dalla rivoluzione industriale.

Gli "industriali", cioè tutti i ceti produttivi (lavoratori dipendenti, tecnici, imprenditori, scienziati) avrebbero dovuto operare in sinergia e concordia per l'edificazione di una società più sviluppata ma anche più giusta.

Questa società doveva basarsi su una nuova morale e su una nuova religione, simile a quella cristiana, che predicasse e mantenesse la solidarietà tra le classi, di cui Saint-Simon scrisse il catechismo.

 

 

 

FOURIER.

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Charles Fourier (1772-1837), filosofo, ritiene che l'uomo sia fondamentalmente buono, ma venga contaminato e corrotto dalla società "artificiale". La società esistente, innaturale e dominata dal disordine, deve pertanto essere modificata. Fourier creò delle "comuni" di diverse centinaia di persone chiamate "Falansteri" che riunivano molte famiglie che allevavano i figli in comune e producendo tutto quanto era necessario alla propria sussistenza. Questi esperimenti ebbero però vita breve ed esito insoddisfacente.

 

 

 

OWENS.

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Robert Owens (1771-1858) era un abile imprenditore che cercò di dare alle sue fabbriche la veste di cooperativa tra operai, prima nella cittadina scozzese di New Lanark e poi negli Stati Uniti. Egli, a differenza degli altri imprenditori, interessati solo al profitto, non permise mei l'impiego di bambini al disotto dei dieci anni, limitò l'orario di lavoro a dieci ore e mezzo, aprì scuole serali per ragazzi-lavoratori, istituì asili d'infanzia e così via. L'esperimento tuttavia non ebbe fortuna, e

Owens fu costretto a chiudere le fabbriche.

 

 

 

IL  PENSIERO ECONOMICO MARXISTA. LA DOTTRINA DEL VALORE-LAVORO PRESSO GLI ECONOMISTI CLASSICI.

 

 

 

IL PLUSVALORE.

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Plusvalore = Ricavi-Costi-Profitto normale = Extraprofitto

L'insieme dei salari più il profitto normale rappresenta solo una parte del valore delle merci. La differenza viene chiamata plusvalore, che spetterebbe ai lavoratori, ma di cui si appropriano gli imprenditori come "extraprofitto". E' giusto che l'imprenditore si appropri del profitto normale

 

 

 

IL PROFITTO NORMALE E L'EXTRAPROFITTO.

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Cos'è il "profitto normale"?

E' il compenso che spetta all'imprenditore per i fattori produttivi di sua proprietà che egli impiega nell'impresa: infatti, impiegandoli nell'impresa egli subisce una perdita pari a quanto avrebbe potuto guadagnare cedendone l'uso ad altre imprese.

L'imprenditore ha perciò diritto:

   Alla retribuzione del proprio lavoro (che potrebbe prestare alla dipendenza di altri, percependo un compenso)

   Ad un interesse per i beni di sua proprietà e i suoi capitali investiti nell'impresa pari a quello che avrebbe se li desse a prestito ad altri

   Una somma pari al canone di affitto che otterrebbe affittando l'edificio o il terreno utilizzati nell'impresa, se questi sono di sua proprietà

   Nel profitto normale è compreso anche un compenso per il rischio: nessuno accetterebbe di rischiare i propri fattori produttivi (lavoro, capitali propri ecc.) in una attività produttiva se potesse ricavare esattamente LO STESSO guadagno cedendoli senza rischi ad altri (impiegandosi come dirigente presso imprese altrui, dando in affitto i propri capitali ecc.).

Il profitto normale deve quindi essere lievemente maggiore di quanto si guadagnerebbe cedendo ad altri i propri fattori, per compensare i maggiori rischi dell'attività produttiva svolta in proprio.

Il profitto normale è un segnale molto importante per l'imprenditore: se egli si rende conto che il suo profitto è inferiore al profitto normale egli chiude l'impresa: gli conviene infatti dare in affitto i fattori che impiegava nell'impresa e cedere il suo lavoro alle altre imprese, perché guadagnerebbe di più

Tutto il guadagno dell'imprenditore oltre il profitto normale costituisce l'"extraprofitto" o "surplus" (come lo chiama Marx).

In sintesi abbiamo il seguente schema:

Ricavi delle vendite - Salari - Rendite - Interessi = Profitto normale + Extraprofitto.

 

 

 

LA TEORIA DEL VALORE DI ADAM SMITH.

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Gli economisti classici (compreso Marx) si occuparono per primi del "problema del valore": che cosa determina il valore di ogni bene? Chi o che cosa stabilisce quale debba essere il prezzo di un prodotto? In che rapporto ciascun bene si scambia con ciascun altro e che relazione esiste fra esso e il valore che vi assegna ogni altro individuo?

Adam Smith (1723-1790) distingue tre concetti: a) valore d'uso; b) valore di scambio; c) valore-lavoro contenuto; d) valore-lavoro comandato.

Il valore d'uso dipende dall'utilità del bene: tanto più alta è l'utilità, tanto più alto il valore d'uso che un soggetto attribuisce ad un bene.

Il valore di scambio di un bene è determinato invece dalla quantità di altri beni che si scambia con il bene considerato.

In sostanza, il valore di scambio è quel che gli economisti chiamano "prezzo relativo". Col termine "prezzo relativo" si indica il prezzo di un bene in termini di un altro bene, mentre con il termine "prezzo assoluto" si intende il prezzo in moneta di un bene. Così, se il pane costa ha un prezzo assoluto di £ 2000 al kg e la frutta ha un prezzo assoluto di £ 4000 al kg, diremo che il prezzo relativo della frutta rispetto al pane è 2, mentre il prezzo relativo del pane rispetto alla frutta è 1/2.

Il valore di scambio, a differenza del valore d'uso, non è determinato dall'utilità del bene, ma dal mercato su cui il bene si vende e nel quale si forma il prezzo del bene: tanto più alto è il prezzo del bene in rapporto al prezzo degli altri beni, tanto più grande è il valore di scambio.

Valore d'uso e valore di scambio possono non coincidere. Esempi molto chiari sono quelli dell'acqua e dei diamanti.

L'acqua ha un altissimo valore d'uso, in quanto è indispensabile alla vita, ma ha un bassissimo valore di scambio, in quanto viene ceduta ad un prezzo irrisorio.

I diamanti hanno un bassissimo valore d'uso (essendo un bene voluttuario, a a cui si può facilmente rinunciare), ma un altissimo valore di scambio, in quanto il loro prezzo è estremamente elevato.

Ogni bene incorpora un valore-lavoro corrispondente al numero di ore lavoro che sono state necessarie per produrlo. Tale valore-lavoro viene chiamato "valore-lavoro contenuto".

Ad esempio, un paio di scarpe incorpora: a) la quantità di lavoro che è stata necessaria all'allevatore per allevare l'animale, macellarlo e conciarne la pelle; b) la quantità di lavoro che è stata necessaria per fabbricare il martello e gli attrezzi del calzolaio; c) la quantità di lavoro che è stata necessaria al calzolaio per produrre le scarpe.

Come si vede, anche i beni strumentali durevoli (attrezzi) e non durevoli (cuoio) utilizzati hanno un valore lavoro: una parte del loro valore lavoro (corrispondente al logorio che subiscono nel produrre il bene) è incorporata nel bene insieme al lavoro di colui che lo produce.

Il "valore-lavoro comandato" è invece il valore-lavoro della quantità di beni che si può scambiare col bene considerato. Ad esempio, un paio di scarpe si scambia con dieci panni di lana, il cui valore-lavoro contenuto è di 20 ore: il valore-lavoro comandato delle scarpe è di 20 ore.

Non necessariamente valore-lavoro contenuto e valore-lavoro comandato coincidono. E' possibile che per produrre un paio di scarpe necessitino 10 ore lavoro e che le si possa scambiare con panni di lana del valore di 20 ore lavoro.

E' ovvio che il valore di scambio di un bene dipende direttamente dal valore-lavoro comandato e non dal valore-lavoro contenuto.

Tuttavia, Smith pensa che valore-lavoro contenuto e valore-lavoro comandato tendano a coincidere. Quindi, in ultima analisi, il valore di scambio di un bene dipende dal valore-lavoro contenuto.

Perché il valore-lavoro contenuto e il valore-lavoro comandato tendono a coincidere?

Consideriamo ancora l'esempio delle scarpe (valore-lavoro contenuto = 10) che si scambia con la lana (valore-lavoro contenuto = 20): ben presto i produttori di lana si accorgeranno che invece di impiegare 20 ore per produrre lana, possono impiegare 10 ore per produrre scarpe e poi scambiarle con 20 ore di lana. Si avrà così uno spostamento di fattori produttivi dalla produzione della lana alla produzione delle scarpe. La produzione di lana aumenterà, mentre quella di scarpe diminuirà. L'offerta di scarpe diverrà abbondante e il loro prezzo scenderà, mentre l'offerta di lana diventerà scarsa, e il suo prezzo salirà. Questo farà sì che un paio di scarpe si scambi con meno lana, e il processo proseguirà fino a quando un paio di scarpe si scambierà esattamente con un numero di ore equivalenti in termini di lana.

Ma, secondo Smith, la teoria secondo cui valore-lavoro contenuto e valore-lavoro comandato coincidono non è più vera in una economia capitalistica.

Infatti, in una economia capitalistica,

 

 

 

LA TEORIA DEL VALORE DI RICARDO.

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Possiamo usare i prezzi per determinare il valore-lavoro o dobbiamo usare i salari?

Se il bene A costa £ 1000 mentre il bene B costa £ 2000, ma i salari pagati per la produzione di A sono di £ 800, mentre i salari pagati per la produzione del bene B sono di £ 400, diremo che il valore-lavoro di A è doppio di quello di B

(guardando i salari) o che il valore-lavoro di B è doppio di quello di A (guardando i prezzi)?

Che rapporto c'è in una economia capitalistica tra prezzi, valore-lavoro dei beni e salario pagato ai lavoratori?

Ricardo, pur accettando la teoria di Smith, chiarì il rapporto tra prezzo, valore-lavoro e salari, che Smith non era riuscito a spiegare del tutto.

Ricardo chiarì un punto molto importante: che il salario del lavoratore non è una misura del valore-lavoro contenuto, e quindi del valore di scambio del bene: la misura più esatta del valore-lavoro di un bene è data dal suo prezzo in rapporto ai prezzi degli altri beni.

Se per produrre una unità di bene A paghiamo ai lavoratori £ 1.000 (pari ad un'ora di lavoro), mentre per produrre una unità del bene B paghiamo ai lavoratori £ 2.000 (pari a due ore di lavoro), non possiamo concludere che il valore-lavoro del bene

B sia doppio di quello del bene A.

Può capitare ad esempio che il bene A sia prodotto usando semilavorati (beni strumentali non durevoli) in quantità tripla di quella necessaria per produrre il bene B.

Supponiamo che i prezzi dei beni strumentali rispecchino la quantità di ore lavoro contenute in tali beni. Se il prezzo dei semilavorati usati per produrre il bene A è di £ 3000, mentre il prezzo dei semilavorati usati per produrre il bene B è di £

1000 avremo che:

Valore-lavoro bene A = 1000/1000 + 3000/1000 = 4 ore-lavoro

Valore-lavoro bene B = 2000/1000 + 1000/1000 = 3 ore-lavoro

Come si vede, il prezzo di A (£ 4.000) rispetto a B (£ 3.000) rispecchia il valore-lavoro dei beni, mentre il salario pagato per produrre A (£ 1.000) rispetto al salario pagato per produrre B (£ 2.000) non rispecchia il valore-lavoro dei beni.

Perciò Ricardo concluse che mentre i prezzi (relativi) di mercato rispecchiano la proporzione di valore-lavoro contenuta nei vari beni, i salari pagati non rispecchiano tale proporzione.

Ma c'è anche un'altra ragione per cui il salario dei lavoratori non rispecchia il valore-lavoro dei beni.

In realtà, i lavoratori debbono cedere una parte del valore-lavoro che essi hanno contribuito ad incorporare nel bene agli imprenditori.

Questa parte di valore-lavoro viene poi spartita tra gli imprenditori (come "profitto") e i proprietari delle risorse naturali (ad es. i proprietari dei terreni o delle miniere o dei capannoni industriali utilizzati dagli imprenditori) (come “rendita").

Riprendiamo l'esempio precedente modificandone i dati:

   Bene A

Prezzo del bene A: £ 4.000

Prezzo dei semilavorati: £ 3.000

Salario dei lavoratori: £ 600

Profitto dell'imprenditore: £ 200

Rendita del proprietario di risorse naturali: £ 200

Ore lavoro incorporate nei semilavorati impiegati: 3

Ore lavoro impiegate per produrre il bene: 1

   Bene B

Prezzo del bene B: £ 3.000

Prezzo dei semilavorati: £ 1.000

Salario dei lavoratori: £ 1.800

Profitto dell'imprenditore: £ 100

Rendita del proprietario di risorse naturali: £ 100

Ore lavoro incorporate nei semilavorati impiegati: 1

Ore lavoro impiegate per produrre il bene: 2

In questo caso, il rapporto tra i salari pagati per il bene A (£ 600) e i salari pagati per il bene B (£ 1800) suggerisce addirittura che il valore-lavoro del bene A sia un terzo di quello del bene B (rapporto 3 a 1), mentre invece sappiamo, guardando i prezzi, che il rapporto tra valori-lavoro è di 4 a 3.

Concludendo, è molto importante tenere a mente che per Ricardo i prezzi tendono a rispecchiare il valore-lavoro dei beni.

Consideriamo il seguente esempio:

   Bene C

Ore-lavoro incorporate nei semilavorati: 1

Ore-lavoro dei lavoratori: 1

Ore-lavoro complessive incorporate dal bene C: 2

Prezzo: £ 1.000

   Bene D

Ore-lavoro incorporate nei semilavorati: 2

Ore-lavoro dei lavoratori: 2

Ore-lavoro complessive incorporate dal bene D: 4

Prezzo: £ 1.000

In questa situazione, gli imprenditori sono probabilmente invogliati ad abbandonare la produzione di D in favore della produzione di C.

Infatti, producendo C riuscirebbero a trattenere per sé una quota maggiore di profitto, in quanto debbono pagare solo 1 ora lavoro e 1 ora di semilavorati.

Questo provocherebbe un aumento della produzione di C e una diminuzione della produzione di D.

Il bene C diverrebbe più abbondante e il suo prezzo diminuirebbe. Il bene D diverrebbe più scarso e il suo prezzo aumenterebbe.

 

 

 

LA TEORIA DI MARX DEL PLUSVALORE .

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Secondo Marx l'extraprofitto degli imprenditori è un furto a danno dei lavoratori, perché non è giustificato dal lavoro svolto dall'imprenditore o dal rischio che egli corre: infatti, questi sono già compensati dal profitto normale, mentre l'extraprofitto o surplus spetterebbe ai lavoratori.

Sulla base delle idee di Marx, si possono fare due ragionamenti distinti per mostrare che i lavoratori vengono privati di una parte di quanto loro dovuto a vantaggio degli imprenditori.

Primo ragionamento per dimostrare l'ingiustizia della appropriazione del plusvalore da parte degli imprenditori.

Se consideriamo il valore di un prodotto, possiamo considerarlo composto dei seguenti elementi:

   Il capitale costante

E' rappresentato dalle spese per i fattori diversi dal lavoro: dai macchinari alle materie prime, alle spese di impianto, amministrative e così via.

   Il capitale variabile

E' rappresentato dai salari pagati ai lavoratori

   Il plusvalore

Rappresenta un furto ai danni dei lavoratori, col pretesto che gli imprenditori hanno diritto ad un profitto.

Ma Marx nota che il profitto degli imprenditori è già compreso nel capitale costante.

Pertanto il plusvalore spetterebbe ai lavoratori.

Secondo ragionamento per dimostrare l'ingiustizia dell'appropriazione del plusvalore ad opera degli imprenditori.

In un processo produttivo, secondo Marx, vanno compensati in modo eguale tutti i fattori produttivi che vi hanno partecipato.

Dovranno pertanto essere pagati:

   Una rendita ai proprietari dei fattori naturali

   Un interesse ai proprietari dei capitali

   Un salario ai lavoratori

   Un profitto agli imprenditori

Normalmente i proprietari dei fattori naturali e dei capitali riescono a farsi compensare adeguatamente. Anzi, secondo Marx e gli economisti classici, come abbiamo visto, i proprietari dei fattori naturali riescono spesso ad ottenere più del dovuto.

Questi compensi aggiuntivi che essi si procurano approfittando della scarsità dei loro fattori sono chiamati "rendite di posizione" (Marx li chiama "rendite parassitarie").

Gli imprenditori non possono pertanto arricchirsi a danno dei capitalisti o dei proprietari delle risorse naturali.

Gli unici soggetti sfruttabili dagli imprenditori sono i lavoratori, che non si vedono riconosciuto un adeguato compenso per la partecipazione alla attività produttiva.

Un lavoratore può essere retribuito in base a due criteri molto diversi l'uno dall'altro:

   In base al valore dei beni che ha prodotto

   In base al prezzo che il mercato assegna alle sue ore-lavoro

In base al primo criterio (che secondo Marx è l'unico giusto) l'imprenditore non dovrebbe trattenere che il compenso per i propri fattori (profitto normale) e lasciare l'extraprofitto o surplus ai lavoratori.

In base al secondo criterio il lavoratore non viene trattato come un soggetto che ha gli stessi diritti degli altri proprietari di fattori, ma come una merce molto abbondante e perciò poco pagata, e l'imprenditore si appropria di quella parte del valore dei beni prodotti che spetterebbe ai lavoratori oltre al salario di pura sussistenza.

La prova di questo, secondo Marx, è la seguente: se sommiamo il valore di tutti i beni prodotti in un sistema e lo confrontiamo con il complesso dei salari pagati ai lavoratori (il cosiddetto "monte-salari"), scopriamo che con il monte-salari i lavoratori non sono in grado di acquistare tutti i beni che hanno prodotto.

Per fare un esempio in cifre, Marx scoprì che, in un sistema che produce beni per un valore complessivo di £ 100, i compensi dei lavoratori ammontano normalmente a 50.

Come fa Marx a sostenere che tutto il valore dei beni deve andare ai lavoratori? Si potrebbe obiettare che i lavoratori non possono ricevere 100 perché una parte del valore del prodotto deve compensare i capitalisti e i proprietari di risorse naturali.

Ma secondo Marx, i proprietari di risorse naturali non svolgono materialmente alcun lavoro, e perciò non hanno diritto ad alcun compenso: le risorse naturali dovrebbero appartenere alla collettività, e in tal modo sparirebbe la rendita.

Per quanto riguarda i capitalisti, secondo Marx i loro capitali provengono in gran parte dallo sfruttamento dei lavoratori, oppure sono stati EREDITATI. Marx ritiene che non esiste una ragione logica per cui i parenti del capitalista abbiano diritto ai suoi capitali piuttosto che qualsiasi altro lavoratore. Anche tali risorse dovrebbero quindi essere considerate guadagnate da tutta la collettività, e in tal modo sparirebbe l'interesse.

Si potrebbe obiettare che ogni imprenditore deve pagare i beni strumentali durevoli e non durevoli necessari per la produzione. Ma se guardiamo il sistema economico nel suo complesso, QUALSIASI bene risulta prodotto da lavoratori, quindi, se guardiamo al valore di TUTTA la produzione di un paese, questo deve coincidere con i salari, mentre in realtà ciò non avviene.

E il profitto normale dell'imprenditore? Privato di capitali e di fattori naturali, l'imprenditore parteciperebbe al processo produttivo unicamente col proprio lavoro, e quindi viene considerato da Marx come un comune lavoratore, che ha diritto ad un

SALARIO in tutto simile a quello degli altri lavoratori.

 

 

 

LA CADUTA DEL SAGGIO DI PROFITTO.

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Nel valore del bene è contenuto: a) il lavoro che è servito per fabbricare i macchinari impiegati; b) il lavoro che viene pagato ai lavoratori; c) il plusvalore

L'imprenditore sostituisce continuamente il lavoro umano con le macchine.

Giungerà alla fine ad una situazione in cui governerà una fabbrica composta di sole macchine.

Ma non si può sfruttare una fabbrica di pure macchine. In quel momento l'imprenditore guadagnerà solo il profitto normale, senza extraprofitto, e quindi non avrà più interesse ad investire in nuove attività produttive, preferendo impiegarsi presso altri imprenditori (avrebbe infatti uno stipendio sicuro e meno rischi).

Ma in tal modo Marx dimostra che l'avidità degli imprenditori condurrà il sistema economico all'arresto dello sviluppo. Se invece le fabbriche fossero date in gestione e in proprietà ai lavoratori o allo Stato, l'impulso a creare nuove imprese non si arresterebbe, e il sistema economico si svilupperebbe senza interruzioni.

Esponiamo il ragionamento con l'aiuto dei numeri e di semplici concetti economici.

Come abbiamo visto, si ha:

Valore della merce = Capitale costante (C) + Capitale variabile (V) + Plusvalore (S) in simboli scriveremo:

Valore della merce = C + V + S

Definiamo "saggio di profitto" SP il rapporto:

 

 

Il saggio di profitto è un importante incentivo per l'imprenditore: più è alto il saggio di profitto, maggiore è la percentuale di ciò che egli incassa come valore della merce che va nelle sue tasche.

Il saggio di profitto equivale matematicamente a:

 

 

Il valore    è detto da Marx "saggio del plusvalore" e rappresenta la

percentuale dei salari che gli imprenditori riescono a "rubare" ai lavoratori.

Il valore  è detto da Marx "composizione organica del capitale"

ed è tanto più alto quanto maggiori sono i compensi che l'imprenditore deve pagare per risorse naturali, macchinari e altri fattori diversi dal lavoro.

Osservando la frazione che esprime il valore del saggio di profitto, Marx si accorse che, con l'aumento dell'impiego dei macchinari, sarebbe aumentato il rapporto C/V e ciò avrebbe fatto diminuire il saggio di profitto SP:

 

 

Mano a mano che il saggio di profitto diviene più basso, gli imprenditori sono sempre meno invogliati a intraprendere nuove iniziative, e alla fine la produzione finirà per ristagnare, e il sistema capitalistico si bloccherà.

 

 

 

LA CRISI DEL CAPITALISMO SECONDO MARX.

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Abbiamo già visto che, a causa della caduta del saggio di profitto, la produzione del sistema economico prima o poi smetterà di crescere e in tal modo non potrà più far fronte all'aumento della popolazione, che diverrà sempre più povera.

La differenza tra la ricchezza dei capitalisti, che si accresce ad ogni ripetersi del processo produttivo, grazie alla sottrazione del plusvalore a danno dei lavoratori, diverrà alla fine talmente intollerabile da scatenare la rivoluzione.

Si verificherà un impoverimento della stessa classe capitalistica. A poco a poco le imprese più forti e gli eventi imprevedibili del mercato capitalistico (dove basta un mutamento dei gusti dei consumatori per mandare in rovina interi settori produttivi) elimineranno le imprese concorrenti.

La maggior parte dell'attuale ceto imprenditoriale sarà perciò ridotta alla miseria, e si avrà quindi un piccolissimo numero di soggetti ricchi a fronte della quasi totalità che vive nella povertà. Non si potrà più illudere i lavoratori mostrando loro che è possibile per tutti fare fortuna intraprendendo una attività imprenditoriale. Questo innescherà la rivoluzione.

 

 

 

IL  PENSIERO DI HEGEL

 

 

 

BIOGRAFIA DI HEGEL.

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Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stuttgart 1770 - Berlino 1831) seguì in gioventù i corsi di filosofia e teologia dell'Università di Tubinga. Fece poi il precettore in case private, il pubblico funzionario e infine, nel 1805, divenne professore universitario, prima a Jena e poi a Berlino, dove morì.

 

 

 

HEGEL SCRIVEVA IN MODO ATROCE E QUASI INCOMPRENSIBILE. CIO' FAVORI' IL SORGERE DI MOLTE SCUOLE FILOSOFICHE CHE SI RIFACEVANO AL SUO PENSIERO, CIASCUNA INTERPRETANDOLO A SUO MODO.

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Hegel esponeva i suoi concetti in modo così oscuro e involuto che non manca chi ha parlato di una malattia nervosa.

Ecco un esempio del modo di scrivere di Hegel (da non seguire nel tema di italiano...): "Il suono è l'alternarsi del frazionamento specifico delle parti materiali; e della negazione di quel frazionamento; - idealità soltanto astratta o, per così dire, soltanto ideale, di tale specificità. Ma questo alternarsi è esso stesso immediatamente la negazione della sussistenza materiale e specifica; e la negazione è quindi l'idealità reale del peso specifico e della coesione: - il calore. Il riscaldarsi dei corpi sonanti, come diquelli percossi, ed anche di quelli soffregati l'un sull'altro, è il fenomeno del calore, che, in conformità del concetto, nasce col suono".

Secondo il famoso filosofo Karl Raimund Popper, a quanto pare Hegel voleva pressappoco dire che i fischietti che emettono suono, al pari di altri strumenti musicali, si scaldano.

 

 

 

HEGEL E' UN FILOSOFO IDEALISTA.

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Tutto è spirito, e non esiste la materia (idealismo).

 

 

 

CIO' CHE E' REALE E RAZIONALE E CIO' CHE E' RAZIONALE E' REALE.

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Nulla si può capire a fondo se non lo si guarda come parte di un tutto: il sistema ecologico, il sistema economico, il sistema sociale, il corpo umano ecc.

Un'idea vale solo se viene realizzata nella vita sociale. Per verificare e dimostrare la validità delle proprie idee non c'è che un mezzo: metterle in pratica.

Altrimenti idee come libertà, diritti dell'uomo, democrazia rimangono teoriche e superficiali. Solo un'idea messa in pratica si mostrerà come realmente deve essere.

Un'idea è valida solo se viene realizzata e nella forma in cui ci riesce di realizzarla. Infatti la storia, la realtà rifiutano le idee impossibili o inutili e lasciano sopravvivere solo le idee che costituiscono un avanzamento e un progresso.

Ad esempio, cercando di mettere in pratica l'idea di assistenza ai bisognosi ci si troverà di fronte a problemi che non avevamo mai sospettato e ci si chiarirà meglio le prospettive.

Hegel chiama "anima bella" una persona che si culla di puri ideali e rifiuta di impegnarsi a realizzarli in pratica per non "scendere a compromessi".

Cristo, secondo lui, era un'"anima bella" che preferì il supplizio e la morte all'invito fattogli dai discepoli di creare un movimento politico.

Da qui Marx trae l'idea che l'unica filosofia valida è quella realizzata, anche a costo di una rivoluzione sociale.

 

 

 

L'IDEA DI HEGEL (DETTA ANCHE IDEA ASSOLUTA, ASSOLUTO, SPIRITO, SPIRITO DEL MONDO, ECC.).

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Idea o spirito: le persone condividono un patrimonio di idee, atteggiamenti, di modi di entrare in rapporto con gli altri, di arte e letteratura, di tecniche, un linguaggio, una religione, idee sulla natura, che determinano al 90% i loro pensieri e modi di comportarsi.

La personalità dell'uomo è un prodotto sociale, non individuale.

Per Hegel lo spirito aveva raggiunto il suo massimo sviluppo con lo stato prussiano dell'inizio dell'ottocento con la filosofia di Hegel.

E' molto difficile in realtà definire bene l'"Assoluto" o "Idea" di Hegel. Talvolta egli ne parla come di una sorta di divinità o provvidenza, talaltra come uno stadio di sviluppo dello spirito umano o della società.

L'Idea, ci dice Hegel, è tutte queste cose nello stesso tempo: Il Bello; Cognizione e Attività pratica; Comprensione; Il Sommo Bene; e l'Universo Scientificamente contemplato. E per chiarire questo concetto, egli usa espressioni ancora più oscure: “L'idea assoluta. L'idea, come unità dell'Idea Soggettiva e dell'Idea Oggettiva, è la nozione dell'Idea , un oggetto che accoglie nella sua unità tutte le caratteristiche".

Essa, da un certo punto di vista, è qualcosa di simile al Dio di Aristotele. E' pensiero che pensa se stesso. E' chiaro che l'Assoluto non può pensare ad altro che a se stesso, poiché non esiste altro, tranne che per i nostri imperfetti ed erronei mezzi di conoscere la Realtà. Lo Spirito è l'unica realtà, e il suo pensiero è riflesso in se stesso attraverso l'auto-coscienza.

 

 

 

L'UNITA' DEL REALE.

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Collegato con l'idea di "Assoluto" è la oscura e difficile teoria di Hegel secondo cui in realtà le singole cose e individui non avrebbero esistenza se non agli occhi di una coscienza poco sviluppata come quella dell'uomo comune, mentre chi riuscisse a pensare l'Idea Assoluta (ma solo l'Idea Assoluta riesce a pensare se stessa) vedrebbe solo un'unica cosa composta di innumerevoli relazioni tra le sue parti. Hegel è convinto che da questa altezza cose come il tempo, lo spazio, la materia, la differenza tra me e il mondo esterno sparirebbero, e si capirebbe la vera natura dell'universo.

Per arrivare a questa conclusione Hegel parte dalla constatazione che le parole che descrivono gli oggetti del mondo, come "Giacomo", "Giovanni", "casa", "cane" ecc. indicano cose che non possono in realtà essere comprese in pieno se non si osservano le loro relazioni con il tutto. Se "Giovanni" è marito di Maria egli non può essere descritto senza descrivere i suoi rapporti con Maria; se "Giovanni" è un italiano, egli non può essere descritto senza descrivere i suoi rapporti con l'Italia; se “Giovanni" è un mammifero egli non può essere descritto senza descrivere i rapporti del suo corpo con l'ambiente fisico in cui vive; se "Giovanni" è cattolico egli non può essere descritto senza descrivere i suoi rapporti con la Chiesa Cattolica. Il suo punto di vista è che il carattere di ogni parte dell'universo sia tanto profondamente influenzato dalle sue relazioni con le altre parti e con il tutto, che nessuna vera affermazione possa esser compiuta a proposito di ciascuna di queste parti, fatta eccezione per l'assegnazione del posto che le compete nel tutto.

Già nel 1600 il filosofo tedesco Leibniz (1646-1716) si era chiesto: "ma se cambiasse una vicenda qualsiasi della vita di Giovanni, se egli sposasse Carolina invece che Maria, egli sarebbe ancora lo stesso 'Giovanni'?" e aveva risposto: "no, non sarebbe la stessa sostanza, lo stesso 'Giovanni'". Hegel trae da ciò la conseguenza che le persone e le cose con cui Giovanni viene in contatto, contribuiscono a far sì che le vicende della sua vita siano in un certo modo anziché in un altro, e pertanto entrano nella definizione di Giovanni: Giovanni sarà definito come colui che ha incontrato le tali persone, usato o guardato le tali cose... ecc. ecc.

Sia per Leibniz che per Hegel, solo una mente onnisciente è in grado di contemplare una parte in tutti i suoi rapporti con il tutto, e in effetti finirebbe per contemplare non tanto la parte, ma il tutto. In qualche modo misterioso, la parte dovrebbe apparirgli come una manifestazione del tutto. Ad una tale mente il tempo apparirebbe non esistente, perché non è altro che una relazione tra parti del tutto: ma il tutto, essendo il tutto, non viene né prima né dopo di alcunché. Anche lo spazio, per lo stesso motivo, non esiste. Né esiste la contrapposizione tra soggetto e oggetto o la materia.

La prova del fatto che cose, tempo, spazio, materia sono solo illusioni della coscienza dell'uomo comune è fornita dal fatto che tutte le filosofie che si sono date a ragionare su queste cose (cioè TUTTE le filosofie prima di Hegel) sono incappate in contraddizioni e difficoltà logiche.

La prova che si è riusciti finalmente a capire il tutto sarà data dal fatto che tutte le opposizioni della vecchia filosofia (finito/infinito, soggetto/oggetto, sensibilità/ragione, singolo/universo) in quel momento spariranno.

 

 

 

L'EVOLUZIONE DIALETTICA. IL PROGRESSO STORICO.

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Lo Spirito, questo patrimonio comune di idee e modi di essere, che oggi chiameremmo piuttosto "cultura" o "coscienza umana" o "pensiero umano", si evolve continuamente, e con tale evoluzione cambia il modo di essere delle persone, delle loro idee e delle istituzioni sociali.

Per le cose non c'è una essenza determinata una volta per tutte. Non possiamo parlare, come fanno Platone e Aristotele e Kant delle essenze immutabili di "uomo", di "cavallo", di "giustizia" ecc.

La evoluzione è intesa da Hegel non solo come evoluzione delle idee filosofiche, religiose, scientifiche e morali, ma anche come evoluzione della società (rapporto tra uomo e uomo), del rapporto tra uomo e natura, del modo di lavorare e produrre.

Il filosofo Immanuel Kant (1724-1804) credeva ad una natura umana unica e immutabile, fondamento della nostra intuizione e dei nostri concetti a priori. Hegel si disse che, una volta che si aderisca al punto di vista che siamo noi a creare i concetti con cui diamo forma alla realtà, i concetti evolvono, e con essi la cognizione della realtà.

L'evoluzione dello Spirito si incarna e manifesta, per Hegel, nella evoluzione della storia e della coscienza occidentale. Infatti, l'evoluzione dell'Idea è presentata da Hegel ora come evoluzione della società umana, ora come evoluzione di un misterioso soggetto chiamato spirito. Hegel disse che lo spirito ritorna a se stesso, diventa cioè consapevole di sé in tre gradini... Prima lo spirito diventa consapevole di sé nell'individuo: Hegel la chiama lo 'spirito soggettivo'. Lo spirito raggiunge poi una maggiore consapevolezza nella famiglia, nella società e nello Stato, in quello che Hegel definisce lo 'spirito oggettivo' perché emerge nell'intesa tra uomini... Lo spirito raggiunge la forma più alta di autoconsapevolezza nello

'spirito assoluto' che è rappresentato dall'arte, dalla religione e dalla filosofia. Di queste tre, la filosofia è la forma più alta perché in essa lo spirito riflette sulla propria attività nellastoria. Soltanto nella filosofia lo spirito incontra se stesso: possiamo quindi dire che essa sia lo specchio dello spirito del mondo.

L'evoluzione dello spirito è una evoluzione positiva: un progresso religioso, politico, morale, sociale, economico, scientifico che conduce lo spirito umano verso una sempre maggiore perfezione e autocoscienza.

Il mondo e la coscienza umana, spinti dallo spirito, come da una specie di provvidenza, diventano sempre migliori, e sempre più razionali: l'umanità si sta muovendo verso una razionalità, una moralità e una libertà sempre maggiori.

L'evoluzione dello Spirito culmina con la realizzazione dello stato prussiano dell'inizio dell'Ottocento e con la filosofia di Hegel.

Per Hegel, infatti, la religione (anche quella migliore, come la cristiana) è solo uno stadio provvisorio che sarà superato dalla (sua) filosofia. Come abbiamo visto, Cristo era un'"anima bella", i cui precetti rimasero allo stadio rarefatto di ideali difficili da mettere in pratica.

L'evoluzione dello Spirito procede attraverso tesi, antitesi, sintesi: ogni posizione estrema ed esagerata (tesi) fa nascere per reazione la posizione opposta (antitesi) e grazie al loro contrasto alla fine la coscienza umana raggiunge un punto di vista superiore (sintesi) che mostra come sia la tesi che l'antitesi abbiano il loro contenuto di verità.

Esempi di tesi, antitesi, sintesi.

   La donna

   tesi: la donna è una maga e sacerdotessa (società preistoriche)

   antitesi: la donna è un essere inferiore (società storiche)

   sintesi: la donna è eguale all'uomo ma diversa sotto importanti aspetti

   L'individuo e la famiglia

   tesi: esistono solo i diritti dell'individuo

   antitesi: esistono solo i diritti della famiglia

   sintesi: lo stato riconosce sia i diritti dell'individuo che della famiglia

   La democrazia rappresentativa

   tesi: solo gli eroi debbono comandare

   antitesi: solo il popolo deve comandare

   sintesi: il potere va esercitato dai più capaci, ma essi sono scelti da tutto il popolo

   Il welfare state

   tesi: Assolutismo

   Ineguaglianza tra gli uomini

   Controllo da parte del sovrano

   Vincoli feudali

   antitesi: Liberalismo

   Eguaglianza di fronte alla legge

   Diritti di libertà individuale

   Nessuno ha più obblighi verso nessuno. Molta povertà dell'Ottocento nasce da questo

   sintesi: Welfare State

   Eguaglianza di fronte alla legge

   Tutela dei più deboli

   Controllo dell'economia

   La conoscenza umana

   Tesi: noi abbiamo le idee innate. La nostra mente conosce già tutto. Quando ci pare di scoprire qualcosa in realtà lo ricordiamo.

   Antitesi: la mente è un foglio bianco. Le sensazioni entrando nella nostra mente si organizzano per associazione a formare delle idee. Noi siamo completamente passivi.

   Sintesi: Riceviamo delle sensazioni dall'esterno, ma le rielaboriamoo mediante la nostra mente.

 

 

 

LO STORICISMO HEGELIANO.

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La storia continua a superare se stessa ed è indirizzata verso uno scopo. Nessuna posizione è stabile ma viene superata da una posizione più avanzata. Non esistono verità eterne che la religione e la scienza ci possono dire: la conoscenza umana muta e migliora di generazione in generazione.

Quello che crediamo di scoprire oggi è tutto ciò che abbiamo. Non possiamo rivolgerci ai libri di ieri o alle idee di ieri per stabilire se siano o no nel giusto; dobbiamo credere alle nostre idee di oggi; dobbiamo aver fiducia nel fatto che sono migliori di quelle di ieri e non potremo mai sapere quanto siano sbagliate alla luce di quelle di domani.

La vera essenza delle cose e delle persone è mostrata dai fatti concreti, dalla storia. Tutto ciò che la storia non ci mostra ancora non ha realtà, ma corrisponde ad una essenza non sviluppata che può essere oggetto solo delle nostre fantasie.

Non possiamo parlare di "giustizia ideale", di "società ideale", di "uomo ideale" perché queste espressioni corrispondono in conclusione al tentativo vago, confuso, contraddittorio, di prevedere ciò che la evoluzione del mondo ci rivelerà solo alla fine. Solo ciò che è realizzato nella società di oggi e che i fatti oggi sembrano mostrarci costituisce la vera realtà del nostro spirito.

Per Hegel non esistono idee o punti di riferimento al di fuori di ciò che scopriamo dalle nostre esperienze e attività.

Pertanto la storia passata vive ancora nel presente e contribuisce a far sì che siamo ciò che siamo e crediamo ciò che crediamo.

La storia ha portato lo spirito a certe idee che ritroviamo nella organizzazione della società e nella coscienza degli uomini: le nostre opinioni ed idee dipendono pertanto dal momento storico in cui ci troviamo.

Lo spirito crea sempre nuovi adattamenti alla natura, sempre nuovi oggetti e strumenti di produzione, sempre nuovi modi di venire in relazione l'uno con l'altro, sempre nuove forme di organizzazione sociale, sempre nuove forme di organizzazione politica ecc.

Questo determina la visuale che può avere o non avere l'uomo di una certa epoca, le verità di cui può rendersi conto e le verità di cui non può rendersi conto (ad es. fino a quando Galileo non inventò il cannocchiale noi non sapevamo la posizione della terra nello spazio)

 

 

 

LO STATALISMO HEGELIANO. IL RAPPORTO TRA L'UOMO E LA SOCIETA'.

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Per Hegel la monarchia è la forma di governo in cui tutti sono liberi. Questo è in relazione allo stranissimo modo in cui Hegel usa la parola 'libertà'. Per lui non c'è libertà senza legge; ma egli tende ad invertire il concetto e a dimostrare che dovunque ci sia legge c'è libertà. Così "libertà", per lui, significa poco più che il diritto di obbedire alla legge.

Leggiamo nella 'Filosofia della storia' che "lo stato è la vita morale realizzata e realmente esistente" e che tutte le realtà spirituali possedute da un essere umano si hanno solamente attraverso lo stato. "Perché la realtà spirituale dell'uomo consiste in questo, che la sua propria essenza (la Ragione) gli è oggettivamente presente, e che egli possiede un'esistenza oggettiva ed immediata... Infatti la verità è l'unità della Volontà universale e soggettiva e l'universale si può trovare nello Stato, nelle sue leggi, nei suoi universali e razionali ordinamenti. Lo Stato è l'Idea Divina come esiste sulla terra".

Ancora: "Lo Stato è la personificazione della libertà razionale, che si ralizza e si riconosce in forma oggettiva... Lo Stato è l'Idea dello Spirito nella manifestazione esteriore della Volontà umana e della sua Libertà"

L'individualismo dei romantici incontrò la sua "negazione" nella filosofia di Hegel. Hegel diede molta importanza a quelli che chiamò i 'poteri obiettivi', intendendo la famiglia e lo stato. Non intendo sostenere che Hegel perse di vista il singolo individuo. Tuttavia, per lui, l'individuo era una componente organica della società. La 'ragione (o lo 'spirito') era qualcosa che diventava visibile anzitutto nell'intesa tra esseri umani... Come un individuo nasce in una lingua, così vien messo al mondo nell'ambito di certi presupposti storici, e nessuno ha un rapporto 'libero' con essi. Chi non trova un posto nello stato è un uomo 'a-storico'... Questo pensiero era importante anche per i grandi filosofi di Atene. Come non è possibile pensare ad uno stato senza cittadini, così non è possibile pensare i cittadini senza Stato... Secondo Hegel lo Stato è qualcosa 'di più' del singolo cittadino, addirittura di più della somma di tutti i cittadini. Per Hegel non è possibile 'ritirarsi dalla società'. Chi scrolla le spalle davanti alla società in cui vive e vuole 'trovare se stesso' è un buffone... Secondo Hegel non è l'individuo a trovare se stesso, ma è lo 'spirito'".

L'occhio è senza valore se separato dal corpo; un insieme di 'disjecta membra', anche se completo, non ha il valore che aveva una volta il corpo da cui furono prese. Hegel concepisce il rapporto etico tra il cittadino e lo Stato analogamente a quello tra l'occhio ed il corpo: al suo posto, il cittadino è parte di un insieme di valore, ma isolato è altrettanto inutile quanto un occhio staccato. L'analogia, però, è passibile di qualche obiezione; dalla importanza etica di alcuni interi non consegue quella di tutti gli interi. Questa trattazione del problema etico è manchevole in un punto importante; non tien conto cioè della distinzione tra fini e mezzi. Un occhio in un corpo vivente è utile, cioè ha valore come mezzo; ma non ha maggior valore intrinseco di quando è staccato dal corpo. Una cosa ha valore intrinseco quando vale di per se stessa, non come mezzo per fare qualche altra cosa".

 

 

 

I RAPPORTI TRA GLI STATI

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Dato che per Hegel il dovere è solamente una relazione tra l'individuo e il suo stato, non resta nessun principio con cui moralizzare le relazioni tra gli stati. Questo Hegel lo riconosce. Nei suoi rapporti con l'estero, egli dice, lo Stato è un individuo, ed ogni Stato è indipendente di fronte agli altri. E prosegue recando argomenti contro ogni tipo di Lega delle Nazioni da cui l'indipendenza dei singoli Stati possa venir limitata. Il dovere del cittadino è circoscritto (per quel che riguarda i rapporti internazionali del suo stato) a sostenere la sostanziale individualità, indipendenza e sovranità del suo stato. Ne segue che la guerra non è del tutto un male, o qualcosa che dobbiamo cercare di abolire.

Per Hegel lo spirito aveva raggiunto il suo massimo sviluppo con lo stato prussiano dell'inizio dell'ottocento con la filosofia di Hegel.

Con questo egli voleva tra l'altro dire che solo come servitore dello stato l'individuo realizza pienamente se stesso e conquista la razionalità, la moralità e la sapienza.

Il collettivismo radicale di Hegel dipende tanto da Platone quanto da Federico Guglielmo III, re di Prussia durante la vita di Hegel. La loro dottrina è che lo stato è tutto e l'individuo nulla.; infatti quest'ultimo deve tutto allo stato, sia la sua esistenza fisica che la sua esistenza spirituale.

Marx prenderà da Hegel l'idea che è la collettività che plasma l'individuo e non viceversa, e che la vera e piena vita dell'individuo si deve realizzare collaborando alla vita della collettività.

 

 

 

IL  PENSIERO DI FEUERBACH

 

 

 

BIOGRAFIA DI FEUERBACH.

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Filosofo tedesco, 1804-1872

 

 

 

MARX LESSE FEUERBACH CON ENTUSIASMO.

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L'opera di Feuerbach aveva provocato un vivo entusiasmo in Marx, in Engels e in tutti i giovani tedeschi seguaci di hegel (hegeliani).

 

 

 

TRASFORMAZIONE DELLA TEOLOGIA IN ANTROPOLOGIA.

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Per Feuerbach tutti gli attributi che la religione attribuisce alla divinità non sono altro che attributi che l'uomo, sia pure non come singolo, ma come specie, sente di avere o di poter possedere: una sorta di immagine ideale di sé verso cui egli tende.

L'idea di Dio non è altro che l'immagine dei desideri dell'uomo (onnipotenza, onniscienza, dominio sulla natura, amore). L'uomo può realizzare queste qualità, le sente dentro di sé: ma non come singolo, bensì come umanità (insieme degli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi).

 

 

 

LA DOTTRINA MORALE DI FEUERBACH

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La felicità non è individuale. C'è coincidenza necessaria tra felicità propria e felicità altrui

 

 

 

MARX: BIOGRAFIA  DI KARL MARX

 

 

 

LA VITA DI KARL MARX.

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Figlio di un avvocato ebreo, Marx nacque nel 1818 a Treviri, nella ricca regione della Renania.

Fu in gioventù un hegeliano entusiasta. Studiò Hegel all'Università di Berlino e di Bonn e Feuerbach con entusiasmo. Suo grande amico e fondatore con lui del partito comunista era Engels, che spesso lo aiutò finanziariamente.

Divenuto giornalista, il giovane Marx collaborò alla "Gazzetta Renana" assumendo successivamente l'incarico di redattore capo. Nel frattempo in Germania le persecuzioni politiche ad opera del Governo prussiano costringevano numerosi intellettuali liberali e radicali a seguire la via dell'emigrazione.

Nel 1843, proprio in conseguenza di un'ennesima ondata repressiva, la "Gazzetta Renana" fu costretta al silenzio, colpevole di aver attaccato lo Zar di Russia, che aveva stretto patto di alleanza con la Prussia. Marx lasciò allora la Germania per stabilirsi a Parigi.

Ma ormai Marx era troppo noto per essere lasciato libero di diffondere le proprie idee. I suoi scritti dell'epoca ("Manoscritti economico-filosofici", "Critica alla filosofia hegeliana del diritto" ecc.) destarono interesse e sollevarono preoccupazioni al Governo francese, il quale, su invito di quello prussiano, nel 1845 espulse il filosofo tedesco dalla Francia. Egli dovette allora ripiegare su Bruxelles, dove fu costretto ad assumere l'impegno di non pubblicare scritti politici.

Nel 1848, anno di grandi sommovimenti politici in tutta Europa, rientrando a Parigi Marx stese con l'amico Engels il "Manifesto del partito comunista", atto di fondazione del comunismo.

Nel 1849, espulso dalla Francia, egli ripiegò in Inghilterra, da dove non tornerà più.

Nel 1867 Marx dette alle stampe il primo volume della sua opera più matura e impegnativa: "Il Capitale" (i successivi due volumi, che completano il trattato, furono pubblicati da Engels, dopo la morte dell'autore, rispettivamente nel 1885 e nel 1894).

Morì a Londra nel 1883 in estrema povertà e solitudine.

 

 

 

MARX: IL PENSIERO  FILOSOFICO DI KARL MARX

 

 

 

I ROVESCIAMENTI DI PENSIERO MARXISTI RISPETTO AL PENSIERO BORGHESE.

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   Marx, seguendo Hegel, giunge spesso a criticare e capovolgere le idee borghesi della sua epoca:

Sono i rapporti materiali a influenzare le idee e non viceversa.

I borghesi affermavano l'importanza della filosofia e delle produzioni dello spirito come capaci di modellare e plasmare la società, mentre Marx, seguendo Hegel, individuerà nei rapporti materiali, nei rapporti di produzione l'elemento più importante di una civiltà, che a sua volta influenza la filosofia e la cultura.

   Il lavoro come aspetto inseparabile dell'uomo e non come merce.

Gli economisti dell'epoca ritenevano che il lavoro potesse essere separato dall'uomo e trattato come "merce". Marx lo ritiene invece un aspetto essenziale della personalità umana. Egli si rifà alla idea di Hegel che noi siamo ciò che facciamo.

   La storicizzazione e relativizzazione del sapere.

Il pensiero borghese ritiene di aver realizzato, in politica, in filosofia, nell'ambito scientifico la verità definitiva.

Marx storicizza e relativizza ogni sapere. Egli tiene presente la lezione di Hegel che ogni stadio di sviluppo supera il precedente e non può essere anticipato col puro pensiero.

E' questa la ragione per cui, quando parla della società perfetta (comunista) egli è vago e generico, ed assume toni mistici. Non è infatti possibile dire con PRECISIONE come sarà l'uomo di tale società.

 

 

 

L'ESSENZA UMANA E' STORICAMENTE E SOCIALMENTE DETERMINATA (CARATTERE SOCIALE DELL'UOMO).

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   Un uomo non ha una natura determinata una volta per tutte, immutabile che corrisponderebbe al modello suggerito dalla cultura entro cui vive (un'anima immortale; un essere fondamentalmente buono, inclinato alla famiglia, che rispetta i propri simili, dotato di pudore sessuale, monogamo ecc.), ma è di volta in volta come i rapporti di produzione hanno plasmato il suo modo di essere.

Non esiste una essenza o natura umana in generale. L'essere dell'uomo è sempre storicamente condizionato dai rapporti in cui l'uomo entra con gli altri uomini o con la natura per le esigenze del lavoro produttivo. Questi rapporti condizionano l'individuo, cioè la persona umana esistente; ma gli individui a loro volta lo condizionano promuovendone la trasformazione o lo sviluppo.

   I rapporti produttivi, che sono rapporti degli uomini tra loro e con la natura, condizionano la possibilità dell'uomo di realizzarsi: nessuno potrebbe oggi ad esempio realizzarsi come "cavaliere errante": Don Chisciotte, che prova ad andare contro la propria società diviene una figura isolata e bizzarra. Oggi un uomo si può realizzare come medico, avvocato, imprenditore, professore universitario... cioè secondo una dei modelli proposti dalla società in cui vive e dai rapporti di produzione esistenti.

 

 

 

L'UOMO E IL LAVORO. I RAPPORTI DI PRODUZIONE.

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   I rapporti produttivi sono rapporti degli uomini fra loro e con la natura. Lo sviluppo delle forze produttive accade in modo diverso presso popoli o gruppi umani diversi; e solo lentamente e in modo altrettanto disuguale determina lo svliuppo delle forme istituzionali corrispondenti..

   L'uomo è condizionato dai rapporti di produzione, ma non del tutto: quando la forma assunta dai rapporti di produzione appare come un ostacolo per tale manifestazione, essa viene sostituita da un'altra forma che si presta meglio a condizionare queste manifestazioni e che a sua volta può diventare un intralcio ed essere sostituita. Forme superate possono continuare a sopravvivere accanto a forme più evolute, presso diversi popoli o nello stesso popolo.

 

 

 

IL MATERIALISMO STORICO.

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In ogni periodo storico, ciò che realmente conta sono i "rapporti di produzione" o "rapporti materiali": rapporti tra uomo e uomo e tra uomo e natura riguardanti la produzione operai-padroni, Feudatario-servo della gleba, uomo-animali domestici, uomo-agricoltura

 

 

 

LA SOVRASTRUTTURA. GLI IDEOLOGI ATTIVI.

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   Le idee filosofiche, morali, religiose, politiche di una data società non sono che il riflesso della struttura dei rapporti di produzione.

Mentre le filosofie del passato hanno cercato di descrivere il mondo, l'uomo, la società così come essi sono, convinti che le cose, la società e soprattutto la natura umana siano immutabili, marx ritiene in realtà che la natura umana, la struttura dei rapporti sociali, le stesse concezioni politiche o religiose, non sono fissati una volta per tutte, ma dipendono dai rapporti di produzione. Modificando questi vi può essere una modifica, una evoluzione dello spirito e della organizzazione umana. A questo deve tendere il filosofo, perché anche la filosofia, come ogni altra attività umana, è in realtà una attività produttiva e trasformatrice della realtà, che non si limita a contemplare o interpretare il mondo, ma lo modifica.

Nella letteratura marxista si trovano molti tentativi di mostrare questa dipendenza delle idee dai rapporti materiali di una determinata epoca:

   L'idea di un Dio signore che è possibile influenzare con le preghiere non poté nascere fino a quando i prapporti economici non creano una classe di proprietari e una classe di schiavi.

   Le religioni monoteistiche non poterono nascere prima che si formassero degli imperi con un unico capo. Gli ebrei dei primi libri della Bibbia, erano politeisti, perché ogni tribù aveva il suo dio

   L'idea di un Dio che crea non poteva nascere prima della scoperta degli utensili e del fuoco.

   L'idea di un'anima immortale separata dal corpo non nasce subito. Gli uomini preistorici seppellivano i morti per consentirgli di continuare a vivere fisicamente, addormentati in uno strano sonno.

   Le tribù di cacciatori sono necessariamente con i beni in comune, i figli in comune, non posseggono il concetto di risparmio o accumulazione. I loro Dei non sono Dei del cielo o della terra fertile e della pioggia, ma Dei-totem: costituiti da antenati-animali che sono i padri, i parenti della tribù e che mandano la carne sulla terra affinché essa si possa saziare.

   E' il modo in cui è organizzata la produzione che fa emergere una classe dominante e una classe dominata.

Le idee politiche, religiose ecc. non nascono solo automaticamente ma anche da una consapevole mistificazione operata dalla classe uscita dominante dai rapporti di produzione e dai suoi ideologi attivi.

Ad esempio, l'avvento al potere della borghesia produsse il sistema della rappresentanza politica che attribuiva il voto solo ai possidenti e il principio dell'uguaglianza formale che rendeva tutti eguali dinanzi alla legge ma lasciava le diseguaglianze economiche sfruttando le quali il più forte poteva sottomettere il più debole.

Ad esempio, i sacerdoti egizi dominavano il popolo sfruttando l'idea della divinità.

Ad esempio, l'economia, per Marx, è strettamente collegata alle idee suggerite dalla classe dominante o dalla organizzazione del lavoro. Essa non è una scienza, ma un'opinione che riflette le idee delle classi dominanti.

 

 

 

LA "FILOSOFIA DELLA PRASSI".

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   L'organizzazione politica, religiosa, familiare, le idee sul mondo, i costumi, le idee religiose, filosofiche, sono "sovrastruttura" e dipendono in realtà dalla "struttura".

Quindi, cambiando la struttura si cambia la sovrastruttura: quest'ultima idea è chiamata "filosofia della prassi".

Per cambiare l'uomo basta cambiare, con una rivoluzione, i rapporti di produzione.

   Marx ha scarsa fiducia nei sistemi di convinzione basati sul dibattito e sulla dimostrazione.

Secondo la sua concezione, è solo cambiando la società con una rivoluzione che si può sperare di cambiare il modo di pensare degli individui.

   Stalin andò più in là e concluse che gli individui nati in epoca prerivoluzionaria e formatisi in una società diversa da quella comunista erano ormai impossibili da cambiare e quindi andavano eliminati fisicamente.

 

 

 

I CAPISALDI DELL'ANTROPOLOGIA MARXISTA.

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Possiamo ora ricapitolare nel modo seguente i capisaldi dell'antropologia (cioè della visione dell'uomo) di Marx:

   Non esiste una essenza o natura umana in generale

   L'essere dell'uomo è sempre storicamente condizionato dai rapporti in cui l'uomo entra con glialtri uomini o con la natura per le esisgenze del lavoro produttivo

   Questi rapporti condizionano l'individuo, cioè la persona umana esistente; ma gli individui a loro volta lo condizionano promuovendone la trasformazione o lo sviluppo

   L'individuo umano è un ente sociale.

 

 

 

IL PROGRESSO STORICO. LA STORIA.

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   Marx eredita da Hegel la fede incrollabile e mistica nel fatto che la storia umana procede verso un mondo sempre migliore, e che questo progresso non continuerà all'infinito, ma arriverà presto al suo termine perfetto.

   I principali tipi di società che si sono succedute nella storia sono, secondo Marx:

   Società antica caratterizzata dal conflitto tra patrizi e plebei

   Società feudale caratterizzata dal conflitto tra signore armato e servi della gleba che fuggivano nelle città per avere la libertà

   Società capitalista caratterizzata dal conflitto tra borghesia e proletariato destinata ad essere soppiantata dalla società comunista, una società senza classi in cui saranno quindi assenti i conflitti sociali.

   Marx pensa che le trasformazioni dela storia siano necessarie perché a ogni passaggio successivo della storia si compie una rivoluzione economica e sociale, e dunque il nuovo assetto si pone ad un livello più elevato rispetto al precedente.

Si verrà a creare una classe di imprenditori sempre più ristretta, perché i grossi imprenditori elimineranno i piccoli, e una classe proletaria sempre più sfruttata, povera, affamata. Alla fine (caduta del saggio di profitto) anche la produzione ristagnerà e non sarà in grado di nutrire i lavoratori. Ci saranno carestia, miseria, rivoluzione.

 

 

 

LO STATO SECONDO MARX.

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Lo stato diventerà, con la rivoluzione proletaria, uno strumento di lotta contro i nemici del comunismo (fase chiamata "dittatura del proletariato"); un una fase successiva, eliminate le classi e i nemici del socialismo, lo stato sparirà e si avrà la vera società comunista senza classi, nella prima fase sarà inevitabile la retribuzione in base al lavoro prestato. Successivamente però si applicherà il principio: "Da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni".

 

 

 

L'ALIENAZIONE DELL'UOMO: L’ALIENAZIONE DELL’UOMO IN DIO

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Marx distingue diverse forme di alienazione. Egli parla anzitutto dell’alienazione dell’uomo:

Mentre nelle religioni dell'antichità, in Grecia e a Roma gli dei erano vicini agli uomini e quasi loro compagni, partecipavano alle loro battaglie e ai loro amori, nelle religioni ebraica e cristiana Dio è visto come un essere perfetto, lontanissimo, mentre l'uomo è vito come assolutamente imperfetto e peccatore.

Feuerbach e Marx pensano invece che simili religioni (per la verità un po' tutte le religioni) allontanino l'uomo dalla idea di impegnarsi e costruire la propria grandezza e la propria felicità sulla terra, incitandolo alla rassegnazione e alla sopportazione delle ingiustizie sociali e politiche col miraggio del Regno dei Cieli.

In realtà l'essere perfetto a cui bisogna avvicinarsi è l'ideale dell'uomo stesso, libero da condizionamenti negativi, padrone della natura ed eterno come specie umana. Creando l'idea di Dio l'uomo "aliena", cioè pone fuori di sé le proprie aspirazioni e i propri ideali. Col cristianesimo inoltre, "aliena" la propria parte materiale, i propri bisogni fisici, sessuali ecc. considerati come peccati ispirati dal Diavolo (lussuria, gola ecc.) e finisce col considerare il proprio corpo come qualcosa di estraneo, fonte di peccato e di vergogna.

 

 

 

L’ALIENAZIONE DELL’UOMO: ALIENAZIONE DEL LAVORO.

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Marx è d'accordo con gli autori socialisti dell'Ottocento che la "mercificazione del lavoro" è alla base delle sofferenze e del disagio dei lavoratori dell'epoca. Cosa si intende con questa espressione?

Essa vuol dire in sostanza retribuire il lavoratore non secondo giustizia (considerandolo un essere umano con bisogni che vanno soddisfatti in modo da garantirgli una vita dignitosa e accettabile), ma secondo la legge della domanda e dell'offerta, come una merce che va pagata poco perché è abbondante.

Il lavoratore, con la divisione del lavoro e con la completa soggezione alla direzione del capitalista, perde la possibilità di stabilire da solo il modo di impiegare le proprie energie: il suo lavoro è una attività svolta per altri, di cui spesso egli non conosce neanche il significato (con la divisione del lavoro gli può capitare di dover muovere per ore una leva o premere un bottone), e il cui prodotto in gran parte gli viene tolto dal capitalista, che si appropria di ciò che gli spetterebbe

(plusvalore).

 

 

 

L’ALIENAZIONE DELL’UOMO: ALIENAZIONE DEL CAPITALISTA.

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Il capitalista è schiavo del capitale. Egli sacrifica i suoi bisogni umani per divenire il servo della propria ricchezza: suo unico scopo è di aumentare e difendere la sua ricchezza; non gli interessa godere del prodotto che egli fabbrica: egli cerca di venderlo per ritrasformarlo quanto prima in denaro. La vita del capitalista non è meno alienata di quella del lavoratore.

 

 

 

L’ALIENAZIONE DELL’UOMO: ALIENAZIONE DEL GENERE UMANO.

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Nella società capitalista si erige una barriera d'odio tra capitalisti e lavoratori salariati. Anziché riconoscere la propria comune umanità e la necessità di aiutarsi e collaborare, queste due classi sociali lottano aspramente fra loro. In una società ingiusta l'uomo è speso un esser abbandonato, umiliato, spregevole verso i propri simili. Esso viene quindi privato del sentimento della propria dignità e della solidarietà reciproca: anche in questo caso viene "alienato", cioè costretto ad essere qualcosa di estraneo a se stesso, cioè alla sua umanità più vera. Ad esempio, di fronte ad azioni particolarmente malvagie noi diciamo spesso che "l'uomo non si riconosce più".

 

 

 

L’ALIENAZIONE DELL’UOMO:L'UOMO E' UN ESSERE MATERIALE.

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Seguendo Feuerbach Marx rivaluta i bisogni, la sensibilità, la materialità dell'uomo.

Il lavoro umano è un importante mezzo di realizzazione.

La vita sociale e produttiva costituisce tutto l'uomo: non esiste un'anima o una realizzazione nell'aldilà.

L'uomo si deve realizzare nell'aldiquà, nella vita sociale e produttiva.

 

 

 

DESTRA  E SINISTRA

 

 

 

LA DESTRA LIBERALE.

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Vedi paragrafi su "liberismo" e "liberalismo".

 

 

 

LA DESTRA RELIGIOSO-TRADIZIONALE.

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Monarchica; critica verso il capitalismo, che ritiene un sistema fondato sul predominio degli avidi e disonesti e sull'incentivo ai peccati capitali del consumatore (lussuria, ozio, invidia ecc.); vuole una Chiesa tradizionale e non aperta al nuovo (con particolare riguardo all'omosessualità, al celibato dei preti, all'aborto e alla famiglia, alla libertà sessuale e ai rapporti prematrimoniali, al sesso inteso come fonte di gioia anziché di procreazione, al sacerdozio femminile, alle funzioni religiose non in latino, all'eccessiva libertà di monaci, monache e preti). E' polemica nei confronti del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo (inizio anni '60), che ritiene colpevole di eccessiva condiscendenza verso le tendenze edonistiche, democratiche e individualistiche della nostra epoca.

Ritiene che le tendenze democratiche non possano trovare posto all'interno della Chiesa, poiché la parola e la guida deve provenire sempre dalla minoranza dei più ispirati di cui la maggioranza deve accettare la guida. La organizzazione romana, con a capo il Sommo Pontefice, rispecchia questa gerarchia e la Chiesa va considerata più una monarchia (o al massimo una aristocrazia) che una democrazia.

Ritiene i jeans aderenti sottilmente peccaminosi e in genere vede nella nostra epoca il pericolo di una influenza di Satana, contro cui occorre stare in guardia e ritornare ai principi cattolici tradizionali.

 

 

 

LA DESTRA CHE SI ISPIRA A NIETZCHE.

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Questo filosofo inneggia al superuomo, l'individuo dotato di forza, intelligenza superiore all'umanità comune (che lui chiama "i brutti e gli informi") che china il capo al cristianesimo e soffoca i propri istinti combattivi e di autoaffermazione con la dottrina della dolcezza e dell'amore predicata da Cristo, e che deve essere schiava di chi ha il coraggio di affermare i propri desideri e la propria volontà contro gli altri e di violare i precetti cristiani per seguire i suoi istinti.

Ha ispirato il nazismo tedesco. In maniera più indiretta il fascismo italiano.

 

 

 

LA DESTRA "ESOTERICA".

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Gli scritti dei maghi, dei cabalisti, degli alchimisti, le religioni dell'antichità (gli antichi misteri, la religione egizia ecc.) mostrerebbero che uomini di eccezionale volontà e valore, con pratiche occulte e magiche possono diventare semidei, e comunque acquistare poteri di influenzare il destino di popoli e nazioni. La società deve essere guidata dall'alto, da parte di chi è sensibile alle ispirazioni soprannaturali e celesti, e conosce qual è la giusta via tracciata dalle potenze superiori, e non dal basso, cioè dal popolo ignorante e preda di istinti che lo accecano.

 

 

 

IL DARWINISMO SOCIALE.

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Spesso la destra predica il "darwinismo sociale".

Darwin sosteneva che le specie animali si sono evolute attraverso la selezione e la mutazione.

Dapprima avviene la mutazione: determinati esemplari di una specie animale, per una mutazione casuale dei geni contenuti nei cromosomi, sviluppa una caratteristica non posseduta da altri individui (es. un becco più lungo o zampe dotate di unghie più lunghe).

Poi interviene l'importante meccanismo della selezione: gli individui che hanno sviluppato le mutazioni più utili alla sopravvivenza e alla ricerca del cibo riescono a prevalere nella lotta per l'esistenza e a riprodursi, mentre gli altri non riescono a procurarsi abbastanza cibo o protezione per sopravvivere o riprodursi. In tal modo vengono eliminate tutte le mutazioni non adatte alla sopravvivenza (ad es. una coda più lunga di quella degli altri uccelli o delle unghie troppo lunghe, che ostacolano la locomozione e provocano infezioni) mentre sono conservate le altre (ad es. zampe più lunghe e meglio adatte per la corsa o occhi capaci di vedere anche nell'oscurità).

I darwinisti sociali sostengono l'importanza della selezione naturale anche per la società umana. E' importante che gli uomini più forti (fisicamente o come carattere) e intelligenti abbiano il sopravvento e acquistino i mezzi per riprodursi con una numerosa prole, mentre i deboli non vadano protetti e siano lasciati alla povertà e alla malattia che li eliminano e ne contrastano la moltiplicazione.

Anche le migrazioni spesso selezionano gli individui migliori e più intraprendenti, che riescono a migliorare le proprie condizioni di vita nei loro nuovi paesi, mentre la popolazione che non emigra è preda della miseria e delle carestie.

Anche le persecuzioni possono selezionare gli individui più abili e astuti. Secondo i darwinisti sociali il gran numero di scienziati, artisti e imprenditori di origine ebrea sarebbe dovuto al fatto che le feroci persecuzioni cristiane lungo i secoli hanno lasciato sopravvivere solo gli individui più intelligenti ed accorti.

I darwinisti sociali lanciano oggi l'allarme perché le famiglie delle classi superiori, formate dagli individui migliori, hanno un basso numero di figli, mentre le famiglie delle classi inferiori, formate dagli individui peggiori (sconfitti nella lotta sociale perché forniti di minori capacità), hanno un alto numero di figli.

In tal modo si verificherebbe un "darwinismo sociale alla rovescia", che farebbe diminuire la percentuale di persone intelligenti e capaci ed aumenterebbe invece quella di persone mediocri.

Negli Stati Uniti è uscito recentemente un libro molto contestato, The bell curve  ("La curva a forma di campana") che sostiene la tesi che mentre l'intelligenza media delle classi superiori starebbe aumentando (perché la competizione per gli impieghi migliori è aumentata con la possibilità di accesso all'istruzione offerta oggi a tutti i meritevoli, poveri e donne compresi) l'intelligenza media della popolazione sta diminuendo, per l'alto numero di figli delle classi meno intelligenti.

Il libro prende il nome dalla "curva a campana": un grafico che riporta in ascissa il quoziente di intelligenza e in ordinata il numero di persone esistenti per un dato quoziente. Come avviene per tutti gli animali superiori, gli esemplari eccezionalmente intelligenti o eccezionalmente ritardati sono estremamente pochi, mentre la gran parte degli individui si raggruppa intorno alla intelligenza media.

Il valore dell'intelligenza media della popolazione, fatto pari a 100, serve come punto di riferimento per la indicazione dell'intelligenza dell'adulto.

La misurazione del quoziente di intelligenza viene di solito fatta per mezzo del test "Wechsler-Bellevue", messo a punto negli anni '20 negli Stati Uniti e applicato nel corso degli anni a decine di migliaia di individui. Proprio per questa taratura statistica accurata è considerato abbastanza affidabile a confronto con test analoghi.

Esso si compone di gruppi di prove che misurano l'intelligenza verbale, quella pratica, l'intelligenza matematica, e i cui punteggi concorrono a fornire il punteggio totale.

Sul test Wechsler-Bellevue esiste un rigido copyright: sia il libro che contiene le prove che i materiali (figure, ecc.) possono essere venduti solo a psicologi professionisti.

Un quoziente di intelligenza di 150 vuol dire, in termini grossolani, che si è riusciti a fare gli esercizi del Wechsler-Bellevue una volta e mezzo più velocemente della media della popolazione. Si stima che nel mondo gli individui con un quoziente di intelligenza di 150 siano centomila.

La misurazione del quoziente di intelligenza degli individui non adulti è lievemente diversa. Il valore di riferimento non è quello della media della popolazione adulta, ma della media della fascia d'età del soggetto che fa il test. Viene spesso usato il test Binet. Un bambino di 9 anni che totalizzi un quoziente di intelligenza di 200 non avrà perciò una intelligenza doppia della media degli adulti, ma della media dei bambini di nove anni. Quozienti infantili molto alti tendono a diminuire con la crescita, anche se il quoziente adulto normalmente rimane elevato.

 

 

 

IL PENSIERO DELLA SCRITTRICE MARGUERITE YOURCENAR SULLA DESTRA E LA SINISTRA.

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La famosa scrittrice Marguerite Yourcenar ebbe modo di scrivere, nel libro "Lettere ai contemporanei": "Una delle disgrazie del pensiero europeo è che la destra e la sinistra, ciascuna per proprio conto, si sono attaccate con una sorta di accanimento a concezioni quasi teologiche della natura umana: l'estrema destra agendo e legiferando come se l'uomo non fosse a nessun livello perfettibile, e come se la repressione potesse da sola trionfare sui cattivi (e anche sui buoni) istinti dell'uomo; la sinistra arroccandosi su un'immagine idilliaca dell'umanità e credendo senza alcuna limitazione ai 'domani che cantano'. Non si è mai ottenuto nessun risultato, né a destra né a sinistra, con la mancanza di generosità o con la mancanza di lucidità".

 

 

 

DESTRA E SINISTRA VISTE... DA SINISTRA.

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Riportiamo qui di seguito un brano, scritto da un intellettuale di sinistra, che presenta il punto di vista della sinistra sulla contrapposizione con la destra:

 

Premesso che entrambi gli schieramenti riconoscono i valori fondamentali della libertà e dell'uguaglianza è bene sottolineare che la differenza sostanziale tra destra e sinistra consiste proprio nel "dosaggio" relativo tra libertà ed eguaglianza. E' noto infatti che i principi di libertà ed uguaglianza sono di fatto contraddittori: la completa libertà degli individui favorirebbe al massimo le disuguaglianze, mentre per realizzare una "perfetta" uguaglianza sarebbe necessario ridurre al massimo la libertà. Maggiore è la libertà, minore è l'uguaglianza e viceversa.

Lo schieramento di destra ritiene opportuno salvaguardare ed ampliare le libertà individuali, anche se ciò comporta un affievolirsi dell'uguaglianza tra i cittadini, mentre lo schieramento di sinistra preferisce rinunciare ad alcune libertà, pur di garantire un accettabile livello di uguaglianza.

Inoltre, destra e sinistra esprimono un diverso giudizio di fronte alle diseguaglianze naturali e sociali. Esse vengono considerate un dato di fatto inevitabile per la destra, che si limita ad affermare l'uguaglianza formale o uguaglianza di fronte alla legge, nel senso che, in astratto, riconosce la parità di diritti a tutti i cittadini, senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione. Invece la sinistra accoglie questo principio, ma lo considera insufficiente e ritiene che lo stato debba intervenire per sostenere i cittadini più deboli, in modo da permettere anche ad essi l'esercizio concreto di determinate libertà.

Le diseguaglianze sono considerate un ostacolo che lo stato deve rimuovere per permettere a tutti la possibilità di sercitare i propri diritti secondo il principio di uguaglianza sostanziale o economico-sociale.

Scrive Norberto Bobbio nel saggio "Destra e Sinistra": “Quando si dice che la sinistra è egualitaria e la destra inegualitaria, non si vuole dire affatto che per essere di sinistra occorre proclamare la massima che tutti uomini sono eguali in tutto, indipendentemente da qualsiasi criterio discriminante, perché questa sarebbe non solo una visione utopistica, ma, peggio, una proposizione cui non è possibile dare un senso ragionevole. Si vuole dire un'altra cosa ### Il dato di fatto è questo: gli uomini sono tra loro tanto eguali, quanto diseguali.

Sono utuali per certi aspetti, diseguali per altri. Volendo fare l'esekmpio più familiare: sono uguali di fronte alla morte perché tutti sono mortali, ma sono diseguali di fronte al modo di morire, perché ognuno muore in modo diverso. Si può dire anche così: sono uguali se si considerano come "genus" e li si confronta come "genus" ad un genus diverso come quello degli altri animali e degli altri esseri viventi, da cui li distingue una diffrenza specifica; sono disuguali tra loro se li si considera "uti singuli", cioè prendendoli uno per uno ### Ebbene: si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, danno maggiore importanza per giudicarli e per attribuire loro diritti e doveri, a ciò che li rende uguali. Si tratta di un contrasto tra scelte ultime, che affondano le loro radici in condizionamenti storici, sociali, culturali, anche familiari, e forse biologici, di cui si sa, o per lo meno io so, molto poco. Ma è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che serve molto bene, a mio parare, a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra, da un lato il popolo di chi ritiene che gli uomini siano più uguali che disuguali, dall'altro il popolo di chi ritiene che siamo più diseguali che uguali.

A questo contrasto di scelte ultime si accompagna anche una diversa valutazione del rapporto tra uguaglianza-diseguaglianza naturale ed eguaglianza-diseguaglianza sociale.

L'egualitario parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili. L'inegualitario, invece, parte dalla convinzione opposta, che siano naturali e, in quanto tali, ineliminabili.

Il movimento femminista è stato un movimento egualitario. La forza del movimento è dipesa anche dal fatto che uno dei suoi temi preferiti è sempre stato, indipendentemente dalla veridicità fattuale, che le diseguaglianze tra uomo e donna, pur avendo radici nella natura, sono state il prodotto di costumi, leggi, imposizioni del più forte sul più debole, e sono socialmente modificabili. Si manifesta in questo ulteriore contrasto il cosiddetto "artificialismo", che viene considerato una delle caratteristiche della sinistra. La destra è più disposta ad accettare ciò che è naturale, e quella secondo natura che è la consuetudine, la tradizione, la forza del passato". (Norberto Bobbio).

Con riferimento alle ultime parole di Bobbio si può affermare che, dal punto di vista della mentalità, l'uomo di destra è colui che si preoccupa, innanzitutto, di salvare la tradizione; dal punto di vista socio-economico di tutelare vecchi privilegi di classe e per questo viene definito "conservatore".

L'uomo di sinistra, invece è colui che intende, sopra ogni altra cosa, liberare i propri simili dai vincoli loro imposti dai privilegi di razza, ceto, classe sociale; ricerca l'emancipazione e per questo viene definito "progressista".

Per quanto riguarda gli aspetti economici, i conservatori ritengono fondamentale la libera concorrenza e quindi considerano opportuno un limitato intervento dello stato in economia. Esaltano la concezione liberista e naturalista della libera competizione che permette ai migliori di emergere ed è al tempo stesso elemento di selezione, nonché di autoregolamentazione dell'economia tramite le leggi del mercato.

La destra intende promuovere l'emancipazione sociale facendo leva sulla capacità del singolo. In gener tutela soprattutto gli interessi dei ceti medio-alti sul piano economico. Per questo motivo i partiti conservatori al governo tendono ad imporre poche imposte, soprattutto indirette, evitando di redistribuire i servizi. I cittadini dovranno pertanto acquistare i servizi di cui necessitano sul mercato privato, cosicché i benestanti potranno accedere alle prestazioni migliori senza socializzare il proprio denaro con le classi più deboli, tramite le imposte.

L'ideologia di sinistra si rivolge prevalentemente alle classi economicamente inferiori, pertanto cerca di stabilire delle regole e dei correttivi alla competizione selvaggia per salvaguardare i ceti, le imprese ed i settori in difficoltà. Infatti ritiene che il sistema economico da solo non possa raggiungere l'equilibrio e quindi sia necessario l'intervento dellostato. La sinistra propugna a grandi discorsi forme di "welfare state" (stato del benessere), ossia uno stato che garantisca a tutti i cittadini il conseguimento di un tenore di vita minimo, la tutela della salute, l'istruzione, l'abitazione e l'alimentazione adeguata. Presuppone la realizzazione di un esteso programma di spesa pubblica, innanzitutto mediante un sistema fiscale che attui una ridistribuzione della ricchezza nazionale in senso egualitario.

Secondo questo modello lo stato si fa promotore di un'ampia gamma di servizi offerti a tutti i cittadini indipendentemente dal loro ceto sociale. Si contrappone quindi allo stato liberale nel quale l'amministrazione pubblica, al massimo, si fa carico di tutelare fasce di cittadini in stato di povertà.

Per quanto riguarda la politica economica, in genere i conservatori danno più importnza alla stabilità monetaria ed alla lotta contro l'inflazione, a scapito dell'occupazione (indirizzo monetarista), mentre i progressisti tutelano di più l'incremento di produzione reale e l'occupazione, anche se ciò determina degli squilibri sul piano finanziario (politica economica di indirizzo keynesiano).

Tra destra e sinistra vi sono contrapposizioni circa altri valori base.

Solidarietà-individualismo. La sinjistra prende molto in considerazione la solidarietà, in relazione all'idea di "sostegno per i deboli o svantaggiati". Invece l'orientamento classico di destra lo considera un intralcio allo stimolo dello spirito d'iniziativa individuale.

Pacifismo-militarismo. Per la destra l'uso o la dimostrazione della forza militare, anche solo per scopi difensivi è necessrio, vista la tendenza "naturale" degli stati ad accrescere il proprio potere nei confronti delle altre nazioni. Per la sinistra la pace tra i popoli, obiettivo di un mondo migliore, va perseguita con concrete dimostrazioni di volontà di disarmo e pacificazione.

Ambiente. La sinistra si pone l'obiettivo di lasciare alle generazioni future un ambiente vivibile, a costo di rinunciare a qualche quota di prodotto interno lordo (P.I.L.), convertire produzioni, cambiare abitudini di vita o tecnologie. Cerca di individuare uno sviluppo sostenibile, che consiste nel programmare crescita e progresso in modo compatibile con l'ambiente, valutandone non solo i benefici immediati, ma anche i danni arrecati agli ecosistemi. Tale modello di sviluppo tende a prendere in considerazione la complessità del problema ed ad un'analisi su scala planetaria, perché gli squilibri non sono circoscrivibili.

La destra è anch'essa favorevole alla tutela dell'ambiente, ma solo se non frena lo sviluppo tecnologico. Abbraccia la corrente economista di tutela dell'ambiente che dà per scontato che lo sviluppo tecnologico e la trasformazione dei modi di vita non possono essre rallentati. Vede il problema ambientale in chiave economica: prevenire solo se è meno costoso che recuperare, ripristinare se non è troppo oneroso, intervenire sull'ambiente se si ricavano utili in termini di reddito e nuova occupazione (industria del disinquinamento). Uno stato che imponga poche tasse ha meno denaro da spendere a fini sociali, ma anche per la difesa                                                                                                dell'ambiente (controlli, monitoraggi, parchi naturali, guardie ecologiche).

 

 

 

LA CRISI DEL 1929

 

 

 

La crisi del 1929: descrizione generale

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  Le imprese USA stavano attraversando una crisi dovuta a caduta della domanda

  Contemporaneamente, grazie a prestiti bancari a buon mercato, tutti cominciarono ad investire in borsa aspettandosi dalle azioni forti rendimenti. In realtà il valore reale delle azioni era basso, perch‚ le imprese americane stavano attraversando una crisi e non riuscivano a vendere i propri prodotti. L'accresciuta domanda di titoli spinse troppo in alto il loro valore. Quando il periodo di ottimismo passò, il prezzo dei titoli crollò al suo valore reale. I risparmiatori videro ridotti della metà e oltre i risparmi che avevano investito in borsa. Milioni di persone passarono dalla sicurezza economica alla povertà

  Il sistema bancario non possedeva dei meccanismi e degli accordi tra banche per venire in aiuto ad una banca nel caso in cui i clienti, presi dal panico, avessero deciso di ritirare tutti i loro depositi. Per una banca, anche sana, è praticamente impossibile restituire immediatamente tutti i depositi, perch‚ essa normalmente ne tiene una gran parte investiti o prestati. Da qui il fallimento a catena delle banche assaltate dai risparmiatori

  Dagli USA, che erano allora i maggiori produttori mondiali, la crisi si diffuse a tutti i paesi industrializzati: il crollo della domanda USA riguardò infatti anche la domanda di beni stranieri, e fece così crollare la domanda anche negli stati che prima esportavano verso gli USA materie prime o prodotti finiti.

 

 

 

La crisi del 1929: le cause della caduta della domanda

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  Negli USA la ricchezza era concentrata in mano a un numero ristretto di soggetti. Le spese di questi soggetti erano in gran parte per generi voluttuari. Quando iniziò la crisi della borsa questi soggetti smisero di spendere per generi voluttuari, aggravando la crisi delle imprese.

  Le imprese stentavano a vendere la propria produzione anche perch‚ non riuscivano a vendere sui mercati esteri: infatti ogni paese aveva adottato una politica protezionistica di forti barriere doganali. Ma questi provvedimenti erano sbagliati: invece di favorire le proprie imprese essi impedivano loro di esportare i propri prodotti

  Tra il 1929 e il 1933 la quantità di moneta in circolazione ("offerta di moneta") diminuì di un terzo: ma una economia che si espande ha bisogno di moneta per effettuare tutti gli scambi e i pagamenti, sia tra imprese che tra imprese e consumatori. Gli studi economici della “scuola monetarista" (Milton Friedman) e della scuola della "sintesi neoclassica" (John Hicks) mostrano che una quantità di moneta troppo scarsa può rallentare gli scambi, far innalzare il saggio di interesse e provocare una depressione)

  Esportazioni e importazioni erano rese difficili dalla mancanza di moneta di pagamento internazionale. Il dollaro non era ancora una moneta di pagamento accettata a livello internazionale: sia gli USA che gli altri paesi dovevano servirsi di oro e sterline, la cui quantità era insufficiente, anche a causa della politica monetaria della Banca di Inghilterra. In mancanza di oro e sterline un paese poteva importare prodotti di un altro paese solo se questo gli concedeva prestiti nella propria moneta. Ma una simile politica di prestiti non venne attuata da nessuno stato

  Per consumatori e imprese divenne estremamente difficile ottenere denaro per finanziare le proprie spese, a causa del fallimento delle banche e della politica monetaria restrittiva, che aveva diminuito la quantità di moneta in circolazione. Questo provocò un ulteriore crollo della domanda di investimenti da parte delle imprese e di beni di consumo da parte delle famiglie.

  Durante la prima guerra mondiale le imprese dovettero raddoppiare la loro produzione ed assumere manodopera minorile e femminile, non bastando quella maschile. Grazie ai salari pagati si diffuse una certa ricchezza anche tra le classi meno abbienti e molte imprese si specializzarono nella produzione di beni di consumo durevoli per tali famiglie. Ma alla fine della guerra, la cattiva distribuzione del reddito, concentrato in mano a poche ricchissime famiglie, impedì alle imprese che fabbricavano beni di consumo (ad es. alla Ford) di trovare uno sbocco per i beni di consumo durevoli. Inoltre, la vendita di beni di consumo durevoli (auto, elettrodomestici etc.) ha un rimpiazzo molto lento, e una volta che le (non numerose) famiglie che potevano permetterseli li ebbero comperati, la domanda crollò.

  Un'altra causa della crisi fu la prima guerra mondiale. Enormi risarcimenti di guerra furono richiesti a Germania, Austria e agli altri paesi usciti sconfitti. Questo distrusse la loro economia. I paesi sconfitti, così impoveriti, non erano in grado di acquistare i prodotti dei paesi vincitori, che furono quindi privati di importanti mercati di sbocco.

 

 

 

La crisi del 1929: come reagirono le autorità

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  Le autorità vararono politiche di lavori pubblici

  Lo stato aumentò le sue spese per sostenere la domanda aggregata attraverso il meccanismo del moltiplicatore

  Tutti i paesi svalutarono la propria moneta nella illusoria speranza di vendere di più all'estero

  Furono aumentati i salari e ridotte le ore di lavoro nell'industria ("lavorare meno per lavorare tutti")

  Furono eliminate le restrizioni ai sindacati operai, che erano importanti strumenti per ottenere retribuzioni più alte e migliori condizioni di lavoro

  La borsa fu posta sotto il controllo di enti governativi g) Furono varate misure a favore dell'agricoltura

  Lo stato concesse numerosi aiuti all'industria privata per farla risollevare (mutui etc.)

  Le spese per investimenti pubblici (ponti, strade ecc.) aumentarono la domanda aggregata tramite il meccanismo del moltiplicatore

  In paesi come la Germania nazista l'aumento delle spese militari aiutò l'industria privata a riprendersi e la produzione a decollare.

 

 

 

La crisi del 1929: cosa fece capire ad economisti ed uomini politici

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In che modo la crisi del 1929 contribuì a mutare l'atteggiamento dello stato nei confronti dell'economia e i suoi obiettivi di politica economica?

La crisi del 1929 fece capire ad economisti ed uomini di stato che il sistema economico era instabile e che le autorità dovevano intervenire ogniqualvolta le crisi o lo sviluppo del sistema assumano dimensioni preoccupanti

 

 

 

La crisi del 1929: quali scuole economiche tramontarono e quali nacquero

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  La scuola neoclassica tramontò. Essa aveva affermato che il sistema capitalistico, affidato alla libera iniziativa privata e senza intervento dello stato è in grado di raggiungere da s‚ la piena occupazione delle risorse e di garantire un costante sviluppo economico; secondo i neoclassici le crisi economiche erano di lieve entità e destinate a durare poco. In realtà la crisi del 1929 mostrò che il sistema capitalistico poteva essere soggetto crisi da carenza di domanda, crisi che non erano n‚ lievi n‚ passeggere.

  La ricetta dei neoclassici era:

   Ridurre il deficit pubblico

Ma questo portò ad una diminuzione della spesa pubblica e quindi ad una ulteriore diminuzione della domanda aggregata, che mise ancor più in difficoltà le imprese

   ridurre i salari

I neoclassici erano convinti che la domanda di lavoratori da parte delle imprese fosse inversamente proporzionale al salario richiesto dai lavoratori; lasciando pertanto scendere i salari a causa della disoccupazione essi ritenevano che le imprese avrebbero ricominciato ad assumere manodopera.

In realtà la diminuzione dei salari provocò un ulteriore impoverimento delle famiglie dei lavoratori e quindi una ulteriore caduta della domanda di beni di consumo da parte di tali famiglie, che aggravò le difficoltà delle imprese

   ridurre i prezzi

Secondo i neoclassici, poichè la domanda di un bene è inversamente proporzionale al suo prezzo, una diminuzione dei prezzi avrebbe stimolato una maggiore domanda e quindi una ripresa economica.

In realtà la diminuzione dei prezzi ebbe come effetto di impoverire gli imprenditori diminuendone i profitti. Le famiglie degli imprenditori diminuirono le loro spese per consumi aggravando la caduta della domanda. Inoltre gli imprenditori divennero ancora più pessimisti sulle prospettive di un investimento, e quindi diminuì anche la domanda di beni di investimento

   ridurre i saggi di interesse

Secondo i neoclassici gli investimenti degli imprenditori dipendevano dai saggi di interesse: se il denaro era a buon mercato (saggi di interesse bassi) essi avrebbero chiesto prestiti per acquistare beni di investimento.

Secondo gli economisti neoclassici, se la scarsa spesa delle famiglie era dovuta ad eccessivo risparmio il saggio di interesse sarebbe crollato, producendo due conseguenze che avrebbero consentito la ripresa del sistema:

le famiglie, scoraggiate dai bassi saggi di interesse, avrebbero rinunciato a risparmiare e ripreso a consumare;

le imprese, invogliate dai bassi saggi di interesse, avrebbero aumentato i propri investimenti

In realtà i fatti dimostrarono che gli imprenditori, nel decidere gli investimenti, erano più sensibili alle aspettative di profitto che al saggio di interesse: se un imprenditore vede i prezzi crescere e la domanda aumentare egli farà investimenti anche se i saggi di interesse sono alti; se un imprenditore vede i prezzi e la domanda diminuire egli prudentemente rinuncerà a fare investimenti anche se il saggio di interesse è molto basso

I fatti diedero ragione a Keynes, secondo il quale l'investimento dipende dall'ottimismo degli imprenditori, le cui aspettative di profitto diventano favorevoli quando essi notano un aumento di domanda aggregata.

  Trionfò la scuola keynesiana, che sosteneva che la produzione, l'occupazione e il reddito dipendono dalla domanda; che lo stato deve intervenire per sostenere tale domanda nei momenti di crisi, attraverso spese pubbliche; che ridurre il deficit pubblico, i salari e i prezzi può solo aggravare la crisi, poich‚ priva le famiglie e le imprese del potere di spesa e toglie il sostegno delle spese pubbliche.

  La crisi del 1929 mostrò che lo stato doveva intervenire, soprattutto con la spesa pubblica, nelle fasi di depressione, per evitare una eccessiva caduta della domanda

 

 

 

IL WELFARE STATE

 

 

Il  Welfare State

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Il "welfare state", o "stato sociale" o "stato assistenziale" o "stato del benessere" ha le seguenti caratteristiche:

  Conserva le conquiste dello stato liberale: è uno stato di diritto basato sul principio di legalità (cioè uno stato in cui la legge del Parlamento regola i doveri e i diritti dei cittadini, l'attività del potere esecutivo, l'attività del potere giudiziario), tutela i diritti fondamentali dell'individuo; è caratterizzato dalla separazione dei poteri, è caratterizzato dalla separazione tra Stato e Chiesa, si basa sulla sovranità popolare attuata mediante la rappresentanza democratica

  Compatibilmente con l’intervento in economia e a sostegno delle categorie deboli, è uno stato laico, basato sulla separazione tra Stato e società civile, tra Stato e Chiesa, tra Stato e cultura, tra Stato ed attività economica privata.

  Integra il principio di legalità dello stato liberale con il principio di costituzionalità, secondo il quale anche l'attività del parlamento è regolata da una fonte superiore alla legge del Parlamento, cioè una Costituzione rigida, che il Parlamento può modificare solo con procedure aggravate e con quorum (2/3 dei voti) che non possono essere ottenuti senza l'accordo di maggioranza e minoranza; inoltre alcune parti della Costituzione, come la forma repubblicana, il principio democratico, il suffragio universale, la parità tra uomo e donna, la libertà sindacale, la tutela dei diritti fondamentali, non possono essere modificate neanche dal Parlamento; un apposito organo, la Corte Costituzionale, ha il potere di annullare le leggi ordinarie contrarie alla Costituzione

  E' uno stato pluriclasse, che, col suffragio universale attribuisce rappresentanza politica anche alle classi meno abbienti

  E' uno stato interventista e ad economia mista

A partire dalla crisi del 1929  interviene nell'economia con gli strumenti della politica economica (emanazione di norme, politica monetaria, politica di bilancio, politica dei redditi) per assicurare la massima occupazione, il controllo delle crisi cicliche dell'economia, lo sviluppo economico e altri importanti obiettivi allo scopo

Economia mista: la iniziativa economica privata è integrata dalla iniziativa economica pubblica che produce servizi pubblici a basso costo per le classi meno abbienti lo stato interviene anche nell'attività produttiva, direttamente (aziende autonome), o indirettamente (enti pubblici economici, partecipazioni statali)

  Il rapporto tra stato e cittadini non è più basato sul principio di controprestazione ("ciascuno ottiene dallo stato una quantità di servizi corrispondente a quanto ha pagato con le imposte"), ma sul principio di solidarietà ("ciascuno deve pagare tributi in base alla sua capacità contributiva, e non può pretendere che questi tributi siano spesi a suo esclusivo vantaggio, ma accetta che vengano impiegati anche per garantire le condizioni di vita di altre persone diverse da quella che ha pagato il tributo").

Il passaggio dal principio di controprestazione a quello di solidarietà implica che l’onere tributario viene ripartito (= i tributi vengono ripartiti) tra i contribuenti in base al principio di capacità contributiva: non più “contribuire in relazione a ciò che si riceve dallo Stato”, ma “contribuire in relazione alla propria capacità contributiva”, cioè, in ultima analisi, alla propria capacità economica. Il principio di capacità contributiva è la applicazione, in campo tributario, del principio di solidarietà.

La solidarietà tra classi sociali va a vantaggio di tutti: tutti hanno la sicurezza di ricevere un aiuto dallo stato nel momento del bisogno; tutti possono sviluppare i propri talenti a vantaggio della collettività; l'accesso all'istruzione e alla cultura garantito a tutti crea una società politicamente più consapevole e in cui i contatti umani sono più vantaggiosi e interessanti.

  E’ uno stato che cerca di realizzare la giustizia sociale

E' uno stato che, insieme alla solidarietà sociale, e per suo tramite, cerca di realizzare la "giustizia sociale", che consiste nella eliminazione di disuguaglianze (economiche, sociali) e situazioni di bisogno che sono oggi avvertite come ingiuste o eccessive perché non garantiscono che ciascuno riceva ciò che gli spetta in relazione ai bisogni suoi e della sua famiglia.

Per eliminare le diseguaglianze lo stato redistribuisce la ricchezza spendendo a favore delle classi meno abbienti ciò che preleva alle classi più abbienti

Lo stato si preoccupa di fornire a tutti le basi materiali minime per lo sviluppo della personalità, offrendo servizi pubblici gratuiti o a basso costo e opportunità di lavoro a tutti

Lo stato protegge le "categorie deboli": donne, lavoratori, anziani, persone sprovviste di mezzi, persone che vivono in aree depresse etc.)

A questo scopo talvolta lo stato abbandona il principio di eguaglianza di fronte alla legge, favorendo con le proprie norme le categorie più deboli (esempio: i lavoratori possono scioperare, mentre l'imprenditore che chiude lo stabilimento deve comunque pagare le retribuzioni; i lavoratori possono licenziarsi in qualsiasi momento, mentre l'imprenditore può licenziare solo per giusta causa; i cittadini portatori di handicap sono favoriti nell'accesso agli impieghi pubblici rispetto ai cittadini non portatori di handicap; etc.). La importante legislazione a favore di queste categorie prende il nome di "legislazione sociale"

  E' uno stato pluralista, che favorisce la presenza di molteplici formazioni sociali (partiti, sindacati, associazioni, gruppi religiosi etc.) perché riconosce che esse sono importanti strumenti per lo sviluppo della personalità del cittadino e per la sua partecipazione alla vita politica

 

 

 

Assistenzialismo, crisi fiscale, aumento del debito pubblico (anni ’60-’80)

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Lo stato “assistenzialistico” (termine peggiorativo rispetto a “stato assistenziale”) è una forma errata di attuazione dello stato sociale

Gli aspetti più rilevanti dello stato assistenzialistico riguardano:

  La esistenza e il ruolo negativo dei gruppi di pressione

Oltre che nella forma di sindacati o di partiti i gruppi di pressione o “lobbies" (singolare "lobby") possono organizzarsi sotto forma di attività di propaganda e pressione politica su iniziativa di categorie professionali (taxisti, notai, autotrasportatori etc.) o imprenditoriali (produttori di latte, agricoltori, produttori di formaggi etc.).

Le forme di propaganda e pressione politica possono essere le più varie, dalla elezione di deputati e senatori con i voti degli appartenenti alla categoria, alla partecipazione ad udienze presso le commissioni parlamentari o il Governo per illustrare le necessità della categoria, alla richiesta al governo o a gruppi di deputati o senatori di particolari provvedimenti, alla corruzione vera e propria.

Questo lavoro di "lobbying", in taluni paesi è addirittura regolamentato da apposite norme: ad es. dal "Lobbying Act" americano.

Il lavoro di "lobbying" è finalizzato alla emanazione di norme, provvedimenti, erogazioni di denaro e agevolazioni a favore della categoria considerata

  Le spese inutili e parassitarie vanno fuori controllo: lo stato non riesce più a controllare e a limitarle perché mancano efficaci meccanismi di controllo da parte della opinione pubblica o dei vertici dello Stato.

  Il tentativo da parte dello stato assistenzialistico di soddisfare tutti (o comunque un numero elevatissimo) i bisogni dei cittadini

  Il fatto che lo stato dia tutto a tutti, anche alle famiglie abbienti che non avrebbero bisogno di aiuto pubblico.

  Sostegno alle imprese decotte

  Inefficienza della Pubblica Amministrazione

  Soldi invece che servizi

  Evasione fiscale

  Produzioni pubbliche sottratte senza ragione ai privati

  Sistema previdenziale eccessivamente generoso

 

 

 

Ridimensionamento del Welfare State, privatizzazioni, politica di austerità finanziaria e monetaria (ingresso dell’Italia nell’area dell’euro)

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Negli anni ’90 si ha un ridimensionamento del Welfare State, in particolare con le privatizzazioni e la riforma del sistema pensionistico. Si ha una politica finanziaria e monetaria più austera, "di risanamento" per l'ingresso dell'Italia nell'area dell’euro

 

 

 

GLOBALIZZAZIONE E OCCUPAZIONE NEI PAESI INDUSTRIALIZZATI

 

 

Il calo dell’occupazione nei paesi industrializzati

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L'occupazione nei paesi industrializzati sta drasticamente riducendosi per diversi motivi:

  Le fabbriche occidentali si spostano nel terzo mondo

  La globalizzazione rende possibile spostare le imprese verso le aree che offrano le condizioni più favorevoli:

   basso costo del lavoro

   flessibilità del lavoro

   basse imposte

   bassi oneri sociali

   bassi costi ecologici

   pubblica amministrazione efficiente o corrompibile

   buone infrastrutture e sistemi di comunicazione

  La automazione e la informatizzazione del processo produttivo continuano ad incrementare la produttività per addetto

A partire dalla seconda metà degli anni '80, per la prima volta dall'inizio del processo, l'automazione, pur facendo aumentare il prodotto, ha cominciato a far diminuire i lavoratori. Già negli anni precedenti la crescita dell'occupazione era andata gradualmente arrestandosi: in Francia, dal dopoguerra ad oggi, il PIL è cresciuto del 700% mentre l'occupazione è cresciuta solo del 70%

  Il "ridisegno globale del processo produttivo" ("RDP") secondo il modello sperimentato inizialmente alla Toyota, ma oggi diffuso in tutto il mondo, sta portando gradualmente le grandi imprese e poi le piccole ad eliminare le sacche di lavoro improduttivo con l'obiettivo di saturare il tempo di lavoro di tutti i componenti dell'organizzazione, dirigenti compresi, al 100%, e di ricavare da tale 100% il doppio o il triplo delle prestazioni di prima; pagando molto di più la metà restante degli addetti iniziali che reggerà questa sfida. Questo si ottiene in vari modi:

   Outsorcing e produzione "just in time"

l'impresa si concentra sulle lavorazioni fondamentali e sulla progettazione del prodotto a partire dalle esigenze manifestate dal cliente: la produzione di semilavorati e di servizi (software, servizi legali, ecc.) viene appaltata a ditte esterne che debbono agire "just in time", cioè consegnare il prodotto con tempi brevissimi di preavviso, pena la perdita del contratto di fornitura. In questo modo l'impresa azzera i costi di magazzinaggio, in quanto produce solo quando e quanto le serve per evadere gli ordini effettivamente ricevuti. Quando l'impresa non ha bisogno dei servizi dell'impresa satellite, semplicemente non rinnova il contratto, risparmiando così i costi di licenziamenti e di cause legali con i lavoratori

   Informatizzazione spinta dei servizi amministrativi: telelavoro, archiviazione elettronica dei documenti, esecuzione automatizzata della pratiche di ufficio (compresi rimborsi e rapporti commerciali con fornitori e clienti e banche) ecc.

  I paesi in via di sviluppo, grazie all'"outsorcing" delle imprese occidentali, offrono servizi e semilavorati in competizione con i fornitori nazionali. Infatti, ormai le imprese europee contattano i fornitori via internet in tutto il mondo in modo che l'impresa possa approfittare anche delle offerte delle imprese dei paesi in via di sviluppo

  Il settore dei servizi, che tradizionalmente assorbiva la manodopera espulsa dal settore primario e secondario, è stato anch'esso investito dalla rivoluzione informatica, e non è più in grado di dare occupazione. Inoltre, il settore dei servizi, che sinora era rimasto al riparo dalla competizione internazionale, oggi, grazie alla facilità di spostamento delle persone, al miglioramento delle telecomunicazioni e dei trasporti, entra sempre più in competizione con altre nazioni: odontotecnici cinesi garantiscono ormai il 50% delle lavorazioni degli studi dentistici francesi; cliniche svizzere, americane, brasiliane entrano in competizione con ospedali europei; l'industria del turismo e del divertimento compete ormai a livello mondiale; persino le pubbliche amministrazioni dei vari stati competono per accaparrarsi le imprese.

  I paesi in via di sviluppo creano proprie imprese che riescono a competere con quelle dei paesi avanzati grazie a una forte politica di investimenti in istruzione e ricerca. Il "teorema dei costi comparati" dell'economista inglese dell'ottocento David Ricardo veniva spesso ripetuto in passato per dimostrare che ogni paese si specializza in relazione alla qualità delle risorse possedute: in particolare, i paesi con lavoratori più qualificati e istruiti si sarebbero accaparrati le produzioni a più alto contenuto tecnologico, mentre quelli con manodopera meno qualificata si sarebbero specializzati nell'agricoltura o nell'estrazione delle materie prime o nei settori manifatturieri più tradizionali (tessile). In tal modo i paesi occidentali speravano di mantenere indefinitamente la leadership economica e tecnologica. Già ora, alla fiera di Shangai sono numerosissime le imprese italiane che acquistano macchinari. E sono macchinari che non hanno nulla da invidiare come livello tecnologico a quelli prodotti in occidente. E chip sofisticatissimi sono prodotti a Manaus, al centro della foresta brasiliana. Questo perché tali paesi hanno inventato un nuovo modello economico estremamente competitivo, basato sulla specializzazione su determinate produzioni di esportazione, e sul reinvestimento dei profitti esclusivamente in istruzione, investimenti, ricerca, evitando di spendere per l'ambiente, per il welfare, ed evitando la legislazione sociale che potrebbe aumentare il prezzo del lavoro. E' un modello basato su una forte disciplina, sul gusto del lavoro, su una grande considerazione della istruzione e della tecnologia. Nel 2010 il 95% della popolazione lavorativa di questi paesi sarà laureata, e la preparazione matematica e scientifica degli studenti, compresi gli studenti medi, è eccellente, e superiore a quella di molti paesi occidentali. Già oggi, nelle facoltà scientifiche delle università statunitensi il 90% dei laureati è di origine asiatica, mentre la popolazione bianca preferisce facoltà come quelle di medicina o legge, e considera l'inserzione dell'insegnamento della matematica nei curriculum universitari "uno scherzo di cattivo gusto" (per usare le parole di un famoso scienziato).

 

 

 

La flessibilità del lavoro

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Flessibilità nel mercato del lavoro vuol dire:

  Contratti di lavoro a termine stagionali, annuali o pluriennali (3-5 anni): sono utili alle imprese per lavori stagionali, o per aumenti della domanda che si prevedono tempranei, o per sostituire personale a tempo pieno temporaneamente assente

  Forti investimenti nel sistema scolastico e di formazione, per creare lavoratori duttili e capaci di affrontare nuovi compiti e riqualificarsi

  Incentivo allo sviluppo del lavoro part-time, eliminando quelle regole che lo rendono (come oggi in Italia accade) più oneroso del lavoro a tempo pieno.

  Sviluppo del "telelavoro" (lavoro a distanza)

  Sviluppo del lavoro interinale (in affitto): agenzie specializzate di intermediazione forniscono alle imprese la manodopera di cui hanno bisogno per periodi temporanei; questi lavoratori hanno stipulato un contratto di impiego con l'agenzia

  Apertura del mercato del lavoro anche agli adolescenti e ai giovani, come avviene in Germania, dove una quota di lavoro estivo è svolta da studenti che vengono reclutati dalle fabbriche

  Liberalizzazione della intermediazione lavorativa, con la fine del monopolio pubblico del collocamento e l'ingresso di agenzie private di collocamento della manodopera

  Rimozione dei limiti all'orario di lavoro, la cui durata non è più fissata per legge ma stabilita dalla libera contrattazione, ed adeguata alle esigenze di sfruttamento degli impianti (lavoro notturno, festivo ecc.) in relazione alle esigenze delle imprese, che preferiscono nettamente incentivare gli straordinari anziché assumere manodopera aggiuntiva, in quanto questo si traduce in una maggiore flessibilità

  Rimozione parziale o totale dei limiti alla immigrazione di manodopera straniera, comunitaria ed extracomunitaria

  Possibilità di licenziare i lavoratori velocemente in caso di crisi aziendali per poi riassumerli durante la successiva ripresa.

  Possibilità di scelta dei lavoratori da assumere da parte delle imprese. Questo costringerebbe ad es. le donne, se volessero essere assunte, a rinunciare ai lunghi periodo di assenza per maternità di cui ora usufruiscono

  Apprendistato, salario d'ingresso, contratti di formazione, con salario e contributi ridotti per compensare i costi dell'addestramento

  Riduzione drastica degli oneri sociali a carico delle imprese e sviluppo dei fondi pensione integrativi a carico dei lavoratori. L'economista italiano Mario Baldassarri propone addirittura di azzerare per due-tre anni gli oneri sociali per l'assunzione di manodopera giovanile nel sud (naturalmente in tal caso sarebbero i giovani che dovrebbero versare privatamente i contributi per il fondo pensione integrativo)

  Corsi di riconversione a carico dello stato per promuovere la riqualificazine professionale

  Gabbie salariali" diverse da regione a regione: nelle regioni con più alta disoccupazione dovrebbero essere permessi salari più bassi, in modo da creare maggiore occupazione e spingere i lavoratori a migrare verso aree a salari più alti

  Incentivi alla mobilità geografica dei lavoratori, mediante la predisposizione di infrastrutture capaci di accogliere gli emigrati. In USA vi sono vaste aree delle periferie cittadine attrezzate a camping, dove i lavoratori migranti risiedono, vivendo nei camper e spostandosi alla ricerca di lavori stagionali o della durata di qualche anno

  Controllo dei prezzi degli affitti, dei profitti dei commercianti e dei servizi essenziali (acqua, gas, ecc.) che lo stato fornisce ai lavoratori, e che si traducono, se troppo elevati, in rivendicazioni salariali

  Minimi salariali legali molto bassi o assenti

  Salari legati maggiormente individualizzati, non legati rigidamente alla contrattazione sindacale uniforme, ma alla produttività, alla efficienza del lavoratore, all'andamento della produzione

  Eliminazione degli ostacoli alla mobilità interna della manodopera: il lavoratore non ha più diritto a mantenere le mansioni per cui è stato assunto, ma, in relazione alle esigenze dell'impresa, può essere destinato a nuove mansioni, eventualmente inferiori, o spostato in unità produttive dislocate in tutto il paese

  Eliminazione della indicizzazione automatica dei salari: la crescita dei salari deve essere collegata alla crescita degli utili o della produttività dell'impresa

  Attenuazione della legislazione sociale che si traduce in oneri economici aggiuntivi per l'impresa, ad es. quelle riguardanti la tutela della sicurezza sul posto di lavoro, l'obbligo di assunzione di lavoratori disabili, ecc.

I paesi che hanno reso "flessibile" il loro mercato del lavoro sono riusciti a tenere bassa la disoccupazione: in USA si sono creati dal 1980 ad oggi 12 milioni di posti di lavoro, mentre in Europa, nello stesso periodo, sono stati soppressi un milione di posti di lavoro. La disoccupazione USA è al 5%, quella europea al 12% e quella giapponese al 4%. Si tratta però di posti di lavoro "flessibili", per la quasi totalità nei servizi, a tempo determinato, spesso a reddito bassissimo, talvolta al disotto o vicino al limite di sussistenza, per cui in USA si parla ormai di "working poors": di "poveri che lavorano", non avendo neanche più il diritto ad una indigenza senza lavoro.

 

 

 

Necessità di riqualificare il lavoro nei paesi industrializzati

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Gli economisti sono concordi nell'affermare che nel lungo periodo gli unici differenziali salariali che potranno reggere sono quelli giustificati da competenze professionali che generano maggiori produttività. Gli stati occidentali debbono specializzare i propri lavoratori nelle produzione intellettuali e "difficili", che gli altri paesi meno avanzati non sono in grado di svolgere. Le aree in cui i lavoratori occidentali dovranno mostrare competenze migliori di quelli degli altri paesi saranno i servizi finanziari, la pubblica amministrazione, la formazione, la ricerca, l'organizzazione della produzione attraverso il coordinamento di innovazione, progettazione, fabbricazione e vendita.

Il costo del lavoro orario non è più sufficiente a vincere il confronto nella competizione globale, quando manca la flessibilità. Si tratta della possibilità di contrattare ore di lavoro straordinario e giornate lavorative più lunghe, distribuite su turni appropriati ai macchinari, ecc. Anche se il costo di un'ora lavoro in Italia è allineato alla media europea, tuttavia un lavoratore giapponese lavora in un anno quanto un lavoratore italiano in 15 mesi, e un lavoratore coreano quanto un lavoratore italiano in 18 mesi.

 

 

 

Le ragioni del successo delle politiche keynesiane del dopoguerra

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Le politiche keynesiane del dopoguerra hanno successo per una combinazione forse irripetibile di fattori favorevoli:

  Il commercio internazionale si svolgeva tra paesi omogenei sotto il punto di vista sociale, politico, economico, sotto la leadership USA che assicurava stabilità monetaria. Ciò voleva dire che qualsiasi conquista in un paese (welfare state, pensioni elevate, salari elevati) si estendeva per effetto imitativo rapidamente anche agli altri paesi, in modo da non costituire uno svantaggio competitivo per nessuno di essi

  Un paese poteva permettersi conti pubblici in disordine, spese eccessive per il Welfare state, alti salari, perché comunque gli altri paesi facevano altrettanto

  L'Asia e l'Africa non potevano partecipare alla competizione economica perché non potevano ancora prendere parte a processi produttivi tecnologicamente avanzati, che richiedevano mano d'opera qualificata, in grado di operare con macchinari molto sofisticati. In pratica la politica keynesiana si è potuta attuare esclusivamente nei paesi ricchi

  C'era la forte domanda provocata dalla ricostruzione post-bellica

  C'era la stabilità monetaria perché gli USA avevano riserve auree in grado di tenere sotto controllo e stabilizzare le oscillazioni e svalutazioni dei cambi

  Un altro grosso aiuto alla domanda aggregata fu dato dalla guerra di Corea

  La mancanza di turbolenze speculative, per la difficoltà di spostare in tempo reale i capitali in mancanza di strumenti telematici favoriva lo sviluppo economico

  I vari paesi avevano dei cicli economici asincroni, in modo che quando l'economia di uno di essi imboccava la strada recessiva, c'era un'altra economia in fase espansiva che attenuava gli effetti della crisi.

 

 

 

La fine delle politiche keynesiane rigorose

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La politica keynesiana "seria" cessa in realtà nel '63-'64. Negli anni successivi l'intervento keynesiano fu attuato in senso sbagliato, con connotazioni politiche e non economiche: Un intervento keynesiano richiede essenzialmente flessibilità, per poter contrastare gli opposti pericoli del ciclo economico: inflazione e ristagno economico. E una politica keynesiana flessibile può essere attuata unicamente con la leva degli investimenti. Gli investimenti possono essere variati senza che l'opinione pubblica intervenga ad interferire, in modo veloce e tempestivo. Invece di agire con le spese di investimento, per motivi politici e clientelari si scelse la via delle spese sociali: spese per il welfare e pensionistiche, che sono spese - a differenza di quelle di investimento - molto rigide, che una volta impegnate non si possono più ritirare. Questo perché il debito pubblico e lo stato sociale divenne un "surrogato del comunismo". L'Italia aveva un ruolo strategico troppo importante per l'occidente. Così fu bloccata l'avanzata del comunismo e furono allargati i cordoni della spesa pubblica. I partiti di sinistra, presi in contropiede da questa politica, per non fare la figura di coloro che si opponevano alle spese a favore della collettività, sottoscrissero pienamente tali spese. Il 90% delle leggi di "spesa allegra" degli anni '70 e '80 in Italia sono basate sull'accordo di tutti i gruppi politici. Tra l'altro, mentre la spesa per investimenti ha il massimo effetto moltiplicativo, anche attraverso il meccanismo dell'acceleratore, la spesa sociale ha scarsi effetti moltiplicativi: i pensionati risparmiano una grossa fetta del loro reddito e, come keynes insegna, molti piccoli redditi attribuiti a tanti soggetti significano bassa propensione al consumo. La curva di Phillips fu utilizzata come strumento di politica economica. Secondo la sua interpretazione più accreditata, un aumento dei prezzi avrebbe consentito un aumento dei salari e quindi un aumento dell'occupazione e della domanda.

 

 

 

La stagflazione, la globalizzazione e la fine della possibilità pratica delle politiche keynesiane

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Con la crisi del 1929 entra in crisi il modello neoclassico.

Con la stagflazione entra in crisi operativa il modello keynesiano: le politiche di spesa si possono attuare, ma gli effetti sono sempre meno incisivi: si scatena l'inflazione senza che aumenti significativamente l'attività economica e l'occupazione, che rimangono stagnanti

Con la globalizzazione le politiche espansive basate sulla spesa pubblica non si possono più attuare, ed il modello keynesiano entra definitivamente in crisi.

Con la stagflazione entra in crisi il modello basato sulla equivalenza inflazione = occupazione che era stabilito dalla curva di Phillips. Tra le cause della inflazione stagflattiva vi sono gli aumenti delle materie prime degli anni '70, tra cui quelle petrolifere, l'esplosione del costo del lavoro (con l'"autunno caldo" del 1968 e il terrorismo). Anche i disavanzi pubblici, provocati dalle istanze sociali contribuirono alla inflazione. La stagnazione e la disoccupazione stagflattive furono dovute alla instabilità dei cambi. Nel 1971, con l'annuncio di Nixon della inconvertibilità del dollaro in oro, cade il sistema di Bretton Woods ed iniziano le svalutazioni competitive e le politiche protezionistiche. La instabilità dei cambi, le incerte prospettive del commercio internazionale, la accesa conflittualità operaia, rendono incerte le aspettative degli imprenditori, che in un quadro così poco chiaro e rischioso diminuiscono notevolmente gli investimenti. Gli anni '80 sono gli anni della spesa pubblica allegra. Ma alcuni paesi si fermano prima e invertono la marcia: USA, Inghilterra.

 

 

 

I modelli capitalistici più efficienti

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Oggi i modelli capitalistici più efficienti sono di tre tipi: modello anglosassone, modello giapponese, modello coreano e sud-est asiatico

  Modello anglosassone (USA, inghilterra).

Si tratta di un capitalismo non solidarista, il cui principale valore è l'efficienza. In pratica è assente il Welfare: 50 milioni di persone sono sprovviste di assistenza medica gratuita. Persino i programmi di assistenza medica "Medicare" e "Medicaid" coprono solo il 35% delle spese mediche: in pratica il paziente si paga tutte le spese mediche. I disoccupati fruiscono di sussidi solo per 5 anni, di cui solo tre anni sono di sussidi continuativi.

  Modello giapponese

Si tratta di un welfare familiare e aziendale. Sono le grandi aziende che assumono i figli dei lavoratori, anche in soprannumero, consentendo loro di mantenere i genitori. Infatti non ci sono pensioni. Gli anziani possono trovare sostentamente nel settore della distribuzione commerciale al minuto, dove è stato bloccato l'ingresso delle grandi imprese: si tratta di una miriade di piccoli negozi che danno da vivere agli anziani.

  Modello coreano e del sud-est asiatico

Si tratta di un capitalismo autoritario. Tutti sono al corrente degli scioperi dei lavoratori coreani di un anno fa contro le dure condizioni di lavoro. Nonostante questo, oggi le imprese coreane hanno ottenuto dal governo una legislazione che consente loro licenzialenti in massa che consentono di spostare le imprese in Cambogia e altri paesi con manodopera a basso costo. Anche la Cina non si può più ormai definire comunista.

 

 

 

Le imprese multinazionali

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Oggi una impresa non è più collegata ad un dato stato: non si parla più di imprese "nazionali": l'impresa sceglie (ed è costretta a farlo) di andare a produrre laddove la pressione fiscale, la legislazione ambientale, il costo del lavoro, la conflittualità sociale sono più basse e più vantaggiose per lei e la Pubblica Amministrazione è efficiente o comunque facilmente corrompibile. Oggi si registrano investimenti coreani in Galles. L'Irlanda ha avuto il più alto sviluppo del PIL in Europa perché offre vantaggi competitivi alle imprese estere, primi fra tutti un basso costo del lavoro e una bassa tassazione (10%) degli utili di impresa. Una impresa che non facesse questo sarebbe spacciata. La produzione Olivetti di personal computer è stata stroncata dall'alto costo del lavoro italiano. Già oggi gli esperti sono concordi nel dire che non si potranno più produrre auto in Europa, dato soprattutto l'alto costo del lavoro. E spesso le imprese non hanno bisogno di andare lontano: come si fa ad impedire ad una impresa tedesca di ridurre di dieci volte i costi del lavoro spostandosi di soli 30-40 chilometri, oltre la frontiera con i paesi dell'est europeo?

 

La globalizzazione rende estremamente difficili politiche keynesiane basate sull’aumento della spesa pubblica

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Oggi la possibilità di politiche keynesiane espansive basate su una forte spesa pubblica, che fa aumentare prezzi e occupazione, è cessata con l'allargamento della scena economica. Se oggi provassi ad alzare i prezzi in ossequio alla curva di Phillips, e non lo facessero anche la Cina e gli altri paesi emergenti, io non venderei più nulla da un giorno all'altro. Non può essere tollerata neanche una minima inflazione. Perfino una inflazione differenziale del 5% su base annua porterebbe in 5 anni ad una differenza di prezzo del 12% rispetto alla concorrenza. E allora non si venderebbe più nulla. Globalizzazione vuol dire necessità di inflazione bassa, di politiche restrittive. Mentre l'epoca keynesiana è stata l'epoca della inflazione, l'epoca della globalizzazione è l'epoca della deflazione (competitiva). Ma i danni della deflazione selvaggia sono se possibile ancora maggiori di quelli della inflazione: un imprenditore che sopporta costi di 100 per vendere un prodotto a 90 vede ridursi margini di profitto e diminuisce investimenti e domanda di lavoro. I consumatori, che si aspettano una diminuzione dei prezzi, sono invogliati maggiormente a risparmiare e a posticipare i consumi, cosicché la domanda di consumo ristagna. Ma i governi non possono permettersi più l'inflazione. Anche un differenziale inflattivo di 0,1% segnalerebbe agli investitori internazionali che il prezzo dei prodotti è destinato in un arco di tempo più o meno lungo a divenire non competitivo, e gli investimenti abbandonerebbero istantaneamente paesi le cui imprese sono destinate a finire fuori mercato. Gl investitori fuggono anche perché si aspettano che la moneta di un paese che ha un differenziale positivo di inflazione sia destinata a svalutarsi a più o meno breve termine. Il crollo delle borse del sud est asiatico insegna quanto sia pericolosa, spietata e frenetica oggi la speculazione internazionale: i paesi di tale area avevano tutti i fondamentali parametri macroeconomici in regola: bassa inflazione, alti investimenti, alto tasso di risparmio, conti pubblici in regola. Azioni e obbligazioni non erano supervalutate, non esisteva una reale bolla speculativa da eliminare. Ma questi paesi hanno commesso l'errore di promuovere investimenti in numero troppo alto o a troppo lungo termine: nella borsa di Shangai si contrattavano azioni e obbligazioni di aeroporti ancora da costruire. E' bastato che gli investitori abbiano fiutato un lieve ritardo nel ritorno degli investimenti e una lieve diminuzione dei profitti per scatenare la fuga dalle borse asiatiche. Si tratta di "mercati di carta", emotivi, dove il minimo sbaglio si paga con perdite di centinaia di milioni di dollari e con danni alle economie.

 

 

 

Globalizzazione e fine del protezionismo

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Globalizzazione vuol dire fine del protezionismo: oggi un paese che produca prodotti tecnologicamente avanzati (farmaci, prodotti elettronici di consumo ecc.) ha bisogno di una fetta di almeno il 10-15% del mercato mondiale per ammortizzare costi come quelli di ricerca e design. In certi settori la situazione è ancora più spinta: la Intel, per continuare a produrre e sviluppare chip sempre più potenti per personal computer ha bisogno di almeno il 70% del mercato. Una industria farmaceutica spende mediamente per lo sviluppo di un nuovo farmaco, dall'inizio della ricerca alla fase finale di sperimentazione umana e animale, imposta ormai nella maggior parte dei paesi, in media 300 miliardi. Da qui la febbre di fusioni e concentrazioni che si è abbattuta nel settore farmaceutico, alla ricerca di quote di mercato sufficienti a finanziare le proprie spese.

 

 

 

La globalizzazione mette in pericolo le politiche sociali dei vari stati

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Con la globalizzazione cessa la possibilità di politiche sociali nei vari stati. Diventa sempre più difficile per i paesi sviluppati operare politiche protezionistiche nei confronti dei paesi in via di sviluppo, perché essi sono mercati di sbocco per le loro produzioni o ospitano le loro imprese. I recenti episodi di indecisione dello stato italiano nei confronti di episodi di immigrazione selvaggia di cittadini albanesi è anche legato al fatto che ormai numerosissime imprese italiane operano in Albania. Oggi un singolo stato non può permettersi di chiudere i propri confini, perché ha bisogno di mercati di sbocco di sufficiente ampiezza, ed e è costretto quindi a sopportare le leggi della deflazione competitiva e a sottostare alle richieste delle imprese e degli investitori internazionali. L'OCSE ha già predisposto al 90% una bozza di accordo internazionale che sostanzialmente riconosce questa situazione, stabilendo addirittura l'obbligo del risarcimento a carico di uno stato nei confronti di una multinazionale che si sia insediata nel suo territorio se in un momento successivo tale stato modifica uno dei seguenti dati: legislazione sul lavoro, legislazione fiscale, legislazione sulla tutela ambientale, legislazione sugli aumenti e le rivalutazioni salariali; legislazione sui minimi salariali in modo sfavorevole per l'impresa ospite. Recentemente, nell'ambito del NAFTA ("North American Free Trade Agreement") il Canada si è visto costretto a pagare un indennizzo di 250 milioni di dollari a una impresa di raffinazione perché aveva modificato la normativa sugli additivi della benzina, provocandole un danno finanziario. In futuro nessuno stato avrà il coraggio di rifiutarsi di firmare la convenzione OCSE, e allora diverrà difficile perfino adottare provvedimenti a favore di handicappati, perché sarebbero ritenuti una modificazione delle regole sul trattamento comparativo dei lavoratori. La firma di questa convenzione sarà un modo di dire ai lavoratori: "basta rivendicazioni sindacali. Basta politica di sostegno dei redditi. Altrimenti niente investimenti e niente lavoro".

 

 

 

La valutazione ottimista della globalizzazione

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Gli ottimisti affermano che le aree occidentali ancora per lungo tempo costituiranno le aree di consumo principali del pianeta, perché i redditi dei paesi poveri non consentiranno di sviluppare consumi di beni diversi da quelli di prima necessità. Ma anche questa è una illusione: le previsioni di molti economisti parlano di una "globalizzazione dei consumi" che andrà di pari passo alla "globalizzazione della produzione": in un futuro ormai alquanto prossimo 150-200 milioni di persone localizzate un po' in tutte le aree del pianeta godranno di redditi elevati e costituiranno un gruppo di consumo non legato a localizzazioni geografiche; il resto della popolazione mondiale avrà redditi che andranno dalla semi-indigenza alla insufficienza per la sopravvivenza. Già adesso, i viaggiatori in visita a Pechino incontrano uno spettacolo impressionante di Jeep Toyota e Rolls-Royce, telefonini ed accessori costosissimi esibiti accanto ad una folla di lavoratori che hanno salari di pochi yuan al mese. Ogni area del pianeta avrà il suo piccolo gruppo di benestanti che contribuirà alla domanda mondiale di beni di consumo. Non è improbabile che lo stesso scenario si ripeterà nei paesi europei. Tanto per fare un esempio, sono già 5.000 le imprese italiane in Bulgaria. Gli imprenditori italiani stanno approfittando ampiamente delle possibilità di internazionalizzazione, e con ciò assicurano il loro tenore di vita futuro. I lavoratori italiani invece corrono un rischio concreto di crollo del loro reddito.

 

 

 

La perdita degli strumenti di politica economica dei governi nazionali

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In sintesi, oggi un paese che intende aprirsi al commercio mondiale e che, prdipiù, come l'Italia, entra a far parte dell'Unione Monetaria, perde la maggior parte degli strumenti di politica economica. Non può fare politiche di bilancio espansive basate su un aumento della spesa pubblica perché questo farebbe aumentare l'inflazione, e il differenziale di inflazione nei confronti degli altri paesi Ue farebbe perdere di competitività ai suoi prodotti. Inoltre, dovendo mantenere il rapporto debito/pil al disotto del 60% e il disavanzo al disotto del 3%, anche volendo, lo stato non può più fare spesa pubblica finanziandosi con prestiti, perché uscirebbe dai parametri di Maastricht. L'Italia ha poi un debito pubblico così alto (124% del pil) che gli interessi costituiscono ormai la quasi totalità del suo disavanzo. Se non si vuole che il disavanzo vada fuori controllo occorre quindi abbassare i tassi di interesse sul debito convincendo gli investitori esteri con una politica di controllo dell'inflazione. Quindi, se l'Italia non vuole che il debito esploda deve mantenere i tassi di interesse sul debito bassi, e per far questo deve tenere sotto controllo l'inflazione, perché l'inflazione è un importante parametro (accanto alla stabilità politica, alle garanzie di solvibilità del debitore pubblico ecc.) che gli operatori economici impiegano per valutare la sicurezza dell'investimento in obbligazioni del Tesoro. Non può svalutare la moneta per rendere più competitivi i propri prodotti, poiché ormai vi è una moneta unica. Non può aumentare l'occupazione nella pubblica amministrazione, in quanto il debito pubblico è troppo elevato e non sono consentite spese che lo aggraverebbero. Non può ricorrere a dazi doganali, in quanto fa parte di un'area di libero scambio, e comunque, se vuole assicurarsi mercati di approvvigionamento e di smercio non può chiudere le proprie frontiere. Per questo si teme che l'euro finirà fatalmente per incidere sui salari: l'abbassamento dei salari sarà infatti l'unico strumento di competizione che rimarrà all'economia nel breve termine.

 

 

 

La Unione Europea come risposta ai pericoli della globalizzazione

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Una possibile risposta UE a questo stato di cose è il protezionismo. IL fatto di voler estendere la UE a 26 paesi potrebbe essere letto come un passo in questa direzione: cercare di inglobare le aree di produzione agricole e le risorse petrolifere ed energetiche dell'est europeo e poi chiudersi in un'area di libero scambio. Ma col protezionismo se ne andrebbe un pezzo di democrazia. Dovremmo essere costretti ad acqusitare e consumare non i beni che vorremmo, ma quelli che ci sono imposti.

 

 

 

Il declino della legislazione sociale

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Nel corso dell'ottocento ma soprattutto del novecento la legislazione sociale ha potuto affermarsi con il consenso delle imprese per diversi motivi:

   Esigenza di nuovi sbocchi dei prodotti, che giustificava gli aumenti salariali e l'aumento del tempo libero per i consumi

   Movimenti socialisti e cristiani che affermano il concetto di eguaglianza tra gli uomini

   Rapida estensione delle conquiste sociali da un paese all'altro, in modo che la competitività reciproca rimanga immutata

   Il governo di ciascun paese ha il potere legislativo

Oggi invece non si riesce a convincere i paesi di nuova industrializzazione ad aderire a questo modello, per vari motivi:

   L'economia è fondata su poche produzioni specializzate e sulle esportazioni, in modo che un aumento dei salari non amplierebbe il mercato di consumo

   L'idea di eguaglianza è marginale nelle culture non cristiane, in cui invece è forte il rispetto dell'autorità e delle gerarchie

   Data la disomogeneità culturale è difficile che la legislazione sociale si estenda rapidamente da un paese all'altro

   Non esiste un governo mondiale capace di imporre norme di condotta agli stati

 

 

 

LE SCUOLE ECONOMICHE PIU’ RECENTI

 

 

Le teorie economiche più recenti

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  La scuola monetarista (o scuola di Chicago) sostiene che la manovra della spesa pubblica è inutile e dannosa, e lo sviluppo può essere garantito solo da manovre monetarie.

  La scuola delle scelte pubbliche è molto critica nei confronti dell’eccessivo intervento pubblico. Questa scuola, affermatasi nel corso degli anni Sessanta, specie per merito di James Buchanan, analiza i meccanismi di decisione che presiedono alla formazione delle scelte pubbliche nelle moderne democrazie parlamentari. In particolare, ha cercato di spiegare il comportamento dell’operatore pubblico, considerando i sistemi elettorali e i loro effetti sulle scelte collettive, i comportamenti della classe politica e della burocrazia, le azioni dei gruppi di pressione (lobby) ecc.

Il nucleo centrale della teoria delle scelte pubbliche resta la convinzione che il settore pubblico abbia raggiunto dimensioni abnormi, addirittura pericolose per la difesa delle libertà individuali; occorre quindi un nuovo “patto sociale” fra i cittadini, che consenta la riduzione dell’intervento pubblico e una ridefinizione dei diritti individuali.

  Le critiche alla scuola keynesiana, diffusesi dapprima in gran Bretagna e poi negli USA, hanno contribuito all’affermazione del neoliberismo, dottrina politica che si propone la riduzione dell’intrvento dello Stato nell’economia. Queta teoria non sostiene un ritorno alla finanza neutrale: oggi anche i neoliberisti condividono l’idea che la finanza pubblica svolge comunque un ruolo importante nel sistema economico. Essa però deve limitarsi a garantire il sostegno allo sviluppo, in modo da favorire la crescita della produzione (supply side economics o economia dell’offerta), e non della domanda, che si deve adeguare all’offerta n base al libero gioco della concorrenza o mediante le manovre monetarie.

 

 

 

Le posizioni della Scuola Monetarista o Scuola di Chicago

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A partire dagli anni '50 la scuola monetarista (cosiddetta Scuola di Chicago) e poi un sempre maggior numero di altri economisti, da un lato hanno denunciato gli aspetti negativi delle politiche di bilancio di tipo keynesiano e dall'altro hanno mostrato come le variabili monetarie sono in molti casi in grado di influenzare le variabili reali della economia.

Quanto al primo punto essi hanno denunciato:

  Gli effetti inflazionistici di politiche di bilancio keynesiane

Aumentando la spesa dello stato si immette moneta nel portafoglio di famiglie e imprese senza badare al controllo di questo stock di moneta in circolazione

  Il crescente indebitamento pubblico derivante dalle politiche di bilancio keynesiane

Per ragioni politiche (è più facile chiedere prestiti che non rendersi impopolari con nuove imposte) ed economiche (se lo stato si limita a rimettere in circolazione somme prelevate con le imposte, che famiglie e imprese avrebbero comunque speso, la spesa aggregata non aumenterebbe significativamente; se invece lo stato si finanzia con i risparmi di famiglie e imprese spende somme che queste non avrebbero speso, ed apporta un significativo incremento alla spesa aggregata) la spesa pubblica è stata regolarmente finanziata con prestiti pubblici piuttosto che con imposte

  Il danno per gli investimenti privati

Le crescenti necessità di finanziamento da parte dello stato lo hanno portato a fare concorrenza alle imprese per accaparrarsi il risparmio disponibile; come risultato il costo del denaro è salito e gli investimenti privati sono diminuiti, senza che a compensarli vi fosse un adeguato volume di investimenti pubblici (la spesa pubblica finisce perlopiù in stipendi e in altre spese correnti non di investimento)

Quanto al secondo punto essi hanno messo in evidenza che:

  Se l'economia non è in una situazione di massima occupazione, allora, secondo il pensiero neoclassico o monetarista l'aumento di spesa provocato dall'aumento dello stock di moneta può contribuire a far aumentare la produzione (variabile reale)

  Se invece si ritiene, con Keynes, che i soggetti cercano di liberarsi dell'eccesso di moneta acquistando titoli, allora potrà aversi una diminuzione del saggio di interesse sui prestiti e gli imprenditori, notato che il denaro è più a buon mercato, aumenteranno gli investimenti, facendo crescere il reddito nazionale (variabile reale)

I punti principali del pensiero della Scuola di Chicago, il cui principale esponente è il premio Nobel per l’economia Milton Friedman, sono i seguenti:

  La ricostruzione da parte di Keynes delle cause della crisi del 1929 è errata e quindi la affermazione che la politica monetaria si fosse rivelata inefficace era sbagliata

Secondo Friedman la crisi del 1929 non fu una crisi da carenza di domanda, ma da carenza di moneta. Essa non era quindi dovuta a scarsa influenza della politica monetaria, ma al contrario la (cattiva) politica monetaria delle autorità USA fu responsabile della crisi: la Federal Reserve statunitense, durante la crisi economica, diminuì notevolmente l’offerta di moneta, provocando in tal modo un ristagno dell’economia.

  La affermazione di Keynes secondo cui le economie ricche richiedono costanti spese dello Stato perché le famiglie dei paesi ricchi tendono sempre più a risparmiare è falsa, e dovuta alla adozione di un concetto di reddito – il reddito effettivo di una famiglia – che non è collegato col suo risparmio, che dipende invece dal “reddito permanente”

L’idea che i paesi più ricchi risparmino più dei meno ricchi è smentita dai fatti, che mostrano che la percentuale S/Y del risparmio aggregato sul reddito nazionale si mantiene costante nel tempo.

Keynes aveva dedotto, dal fatto che le famiglie più povere risparmino meno delle famiglie ricche, la conseguenza errata che quando il livello di reddito dello Stato si fosse elevato anche le famiglie povere avrebbero aumentato il loro risparmio. Questo perché egli pensava che il consumo dipendesse dal reddito effettivo della famiglia. Secondo Friedman, invece, la differenza di risparmio tra famiglie povere e famiglie ricche è collegata non al reddito effettivo ma al “reddito permanente”, che è un concetto che tiene conto della variazione di reddito che le famiglie si aspettano nel tempo: coloro che si trovano nelle classi di reddito più alte rendono a risparmiare molto, in previsione di ritornare a livelli di reddito più bassi. Allo stesso modo, coloro che si trovano a livelli di reddito bassi, tenderanno a spendere una proporzione elevata del loro rddito, dato che si apsettano di spostarsi verso livelli di reddito più elevati. Perciò, quando un paese diventa più ricco, i livelli di risparmio delle classi più abbienti e di quelle meno abbienti non dovrebbero significativamente cambiare.

  La domanda di moneta è molto più stabile di quanto pensava Keynes, che la faceva dipendere dalle aspettative instabili degli imprenditori. Perciò la teoria quantitativa della moneta era sostanzialmente esatta.

La teoria quantitativa della moneta della scuola di Cambridge, sintetizzata dalla formula:

 

M · v  =  P ·Q

 

è sostanzialmente esatta, e va interpretata nel senso che esiste un rapporto abbastanza stabile tra il volume degli scambi e la quantità di moneta M: “v” può essere considerata una costante, perché dipende dalla domanda di moneta, che è stabile e collegata ad un numero limitato di variabili (come vedremo) e scarsamente sensibile al saggio di interesse. Al massimo si può dire che tende a diminuire nei periodi di recessione o ristagno, e ad aumentare nei periodi di espansione economica. Nel lungo periodo, per tutta una serie di fattori, v tende a diminuire.

Comunque, quese lente modifiche non hanno niente a che vedere con le variazioni repentine e violente che Keynes pensava interessassero “k” e quindi “v”.

  La teoria quantitativa era nel giusto anche per quanto riguarda il modo in cui famiglie e imprese si liberano dell’eccesso di moneta: esse aumentano i loro acquisti di qualsiasi tipo di bene o servizio diverso dalla moneta e non si limitano solamente ad acquistare titoli.

Queste attività non liquide possono essere le più varie: le famiglie possono acquistare titoli a breve termine, titoli a lungo termine, beni durevoli che forniscono utilità (es. macchine, appartamenti, che forniscono quello che i monetaristi chiamano un “reddito in natura”), beni di lusso (che non forniscono alcun reddito, ma, al massimo un impiego durevole della ricchezza), in capitale umano (cioè in istruzione e qualificazione professionale, che è simile ad un investimento che darà redditi futuri) e in altro ancora.

Le vie e i meccanismi attraverso cui un aumento della quantità di moneta porta all’acquisto di questi beni possono essere i più vari, e non sono certamente limitati all’acquisto dei titoli, come pensava Keynes: la spesa di beni durevoli può aumentare direttamente quando i soggetti utilizzano la maggiore ricchezza posseduta, ma anche indirettamente, quando le banche che hanno ricevuto i depositi di moneta espandono il loro credito finanziando acquisti tramite mutui-casa o altri prestiti al consumo.

Poiché le famiglie e le imprese non concentrano tutta la loro spesa sui titoli, come pensava Keynes, l’effetto di un aumento della quantità di moneta sul saggio di interesse è notevolmente più basso.

Una consistente discesa del saggio di intersse si potrà avere solo se le autorità scelgano, tra tutti i mezzi per far aumentare la moneta, le operazioni di mercato aperto tramite l’acquisto di titoli presso le famiglie. Ma anche in tal caso i tassi di interesse tenderanno rapidamente a risalire.

  I monetaristi sono ancora più scettici di Keynes sul legame tra saggio di interesse e investimenti

  L’offerta di moneta è “esogena”, cioè non è sotto il controllo di famiglie e imprese, ma è largamente controllata dalle autorità

  La domanda di moneta proveniente dagli operatori privati (famiglie e imprese) è di due tipi:

   Domanda fatta da famiglie che desiderano investire la propria ricchezza

   Domanda fatta da imprenditori che chiedono finanziamenti per le loro attività produttive

  La domanda di moneta fatta da soggetti che desiderano investire la propria ricchezza dipende da due fattori:

   Reddito degli individui

Anche Keynes pensava che il reddito Y contribuisse a determinare la domanda di moneta (egli infatti riconosceva l’esistenza di scorte transattive), ma riteneva che l’influenza del reddito fosse meno importante di quella di fattori quali il saggio di interesse, legato alla esistenza di scorte “oziose” (precauzionali e soprattutto speculative)

Il reddito condiziona le possibilità di spesa, e quindi anche la quantità di moneta che eventualmente un individuo può permettersi di tenere.

Ma non è il reddito dei singoli anni che i soggetti considerano nel programmare i loro acquisti, bensì il “reddito permanente”, cioè una sorta di media di ciò che i soggetti guadagneranno nell’arco della loro vita lavorativa.

   Rendimento comparativo delle attività acquistabili come “portafoglio” (cioè “patrimonio”) dagli individui

Ogni soggetto deve decidere come ripartire la propria ricchezza tra una serie di attività patrimoniali: moneta, titoli a breve termine, titoli a lungo termine, beni durevoli, beni di lusso, capitale umano (cioè istruzione e qualificazione professionale per sé e per i propri figli)

Nel far questo egli considera che ogni attività patrimoniale ha un “reddito” o “rendimento”, che può essere in denaro o in natura. Ad esempio il reddito della moneta è un reddito in natura, e consiste nella utilità (in senso economico) e nella comodità di avere scorte di moneta a disposizione. Contemporaneamente la moneta produce un reddito negativo consistente nella mancata percezione degli interessi che si otterrebbero dandola in prestito. Un’auto o un appartamento danno un reddito che è pari rispettivamente al costo del trasporto pubblico e all’affitto che si dovrebbe pagare per un’abitazione non di proprietà.

E’ importante notare che le famiglie confrontano comunque sempre “rendimenti reali”, cioè depurati dalla influenza dei prezzi. Anche le scorte monetarie che esse considerano sono “scorte monetarie reali”, cioè scorte rapportate al livello dei prezzi degli scambi cui esse sono destinate a far fronte.

La scelta di tenere scorte di moneta di un certo ammontare dipende da questi calcoli, ed è scarsamente influenzata dal saggio di interesse, come ritenevano Keynes e i neoclassici.

  La domanda di moneta fatta dalle imprese che desiderano finanziare le loro attività produttive dipende dagli stessi fattori (reddito e rendimenti delle attività) che influenzano le scelte dei consumatori.

Tuttavia il reddito, e cioè le dimensioni dell’impresa ha una importanza limitata: anche una piccola impresa può ottenere un grande finanziamento

Per quanto riguarda i rendimenti delle attività è ovvio che l’impresa li valuta in modo diverso da una famiglia: le imprese saranno ad esempio molto più sensibili ai rendimenti delle azion e delle obbligazioni rispetto alle famiglie.

  Se un sistema economico non dispone di una quantià di moneta pari a k · Y esso avrà difficoltà a finanziare gli scambi necessari per produrre un reddito Y

Se invece la quantità di moneta è superiore a quella richiesta, si genera inflazione.

  Se invece la quantità di moneta è eccessiva, si genera infallibilmente inflazione.

I monetaristi non si stancano di far notare come la storia economica mostri che “ogni consistente aumento della quantità di moneta è stato accompagnato da un consistente aumento dei prezzi”, cioè da inflazione.

  Un eccesso di moneta non solo produce inflazione, ma produce anche instabilità economica.

I monetaristi pensano che possa innescarsi una catena di aggiustamenti difficile da interrompersi: un gruppo di famiglie si libera della moneta in eccesso acquistando beni da un altro gruppo di famiglie; successivamente il secondo gruppo di famiglie cerca di disfarsi a sua volta della moneta, scatenando un’altra ondata di acqusiti, e così di seguito.

  Keynes aveva probabilmente sovrastimato le potenzialità di espansione produttiva del sistema economico. Egli riteneva che nei paesi industrializzati il reddito effettivo fosse sempre largamente al disotto del reddito potenziale (=reddito ottenibile con l’impiego al 100% di tutti i fattori produttivi), ma probabilmente egli era stato influenzato in senso pessimistico dalla crisi tra le due guerre.

I monetaristi, rifacendosi alle vecchie analisi neoclassiche, rivalutano tutta una serie di fattori, trascurati da Keynes, e diversi dalla carenza di domanda aggregata, che limitano per un sistema economico, la possibilità di andare oltre un certo grado di sfruttamento delle risorse.

Tra questi fattori essi menzionano:

   La “disoccupazione strutturale” dovuta a mancanza di impianti sufficienti per assumere forza lavoro.

Questa argomentazione potrebbe essere avvicinata oggi alla constatazione che il continuo sviluppo delle tecniche produttive rende possibile produrre sempre di più con una frazione sempre più piccola di lavoratori.

   La “disoccupazione volontaria” dei lavoratori che non sono disposti a lavorare per saggi di salario non di loro gradimento

   La forza contrattuale dei sindacati, che talvolta perseguono una politica di alti redditi per gli occupati, impedendo di fatto agli imprenditori di assumere lavoro straordinario, lavoro temporaneo, lavoro a cottimo, lavoro non specializzato sottopagato

   La “disoccupazione frizionale” dei lavoratori temporaneamente in cerca di lavoro

   Lo stesso equilibrio nel mercato dei beni: la argomentazione di Keynes secondo cui nei paesi ricchi i consumatori raggiungono l’equilibrio ottimale dei consumi senza spendere tutto il loro reddito viene ribaltata dai monetaristi per mostrare che è vano cercare di spingersi oltre quel punto.

In sostanza, mentre Keynes riteneva che il principale fattore di disoccupazione delle risorse fosse la “carenza di domanda” e che questa potesse essere superata con una politica di spesa pubblica, o di alti redditi ai lavoratori, i monetaristi fanno notare che si tratta invece di una situazione di equilibrio, dovuta a fattori complessi, molteplici e non modificabili, perlomeno nel breve periodo.

Essi chiamano questa condizione “tasso naturale di disoccupazione delle risorse”, che le autorità non dovrebbero cercare di abbassare con politiche keynesiane di aumento della spesa pubblica o con politiche monetarie espansive, perché in tal modo provocherebbero solo inflazione.

In particolare, per quanto riguarda l’occupazione lavorativa, l’inflazione ridurrebbe il potere d’acquisto dei salari dei lavoratori e i lavoratori marginali, che avevano offerto il loro lavoro a seguito degli ultimi aumenti salariali, si ritirerebbero dal mercato facendo ritornare il tasso di disoccupazione ai livelli precedenti

  Compito delle autorità monetarie è quindi quello di fornire la quantità di moneta M che il sistema richiede, cercando di evitare di creare una quantità eccessiva di moneta,  che provocherebbe il tentativo di famiglie e imprese di disfarsene con acquisto di beni e avrebbe solo il risultato di far aumentare i prezzi (inflazione)

  Nell’attuare politiche di spesa pubblica per garantire occupazione e servizi alle classi meno abbienti occorre tenere d’occhio la capacità di crescita del sistema economico: le politiche keynesiane di spesa sociale provocano un aumento della quantità di moneta nel portafoglio delle famiglie, e se la spesa che ne consegue supera le capacità produttive del sistema, ne segue solo inflazione, e non aumento del tenore di vita e del benessere.

Friedman propone le sue misure frenanti sul credito e la creazione di moneta per mantenere un ritmo eguale tra l’aumento della massa monetaria e della domanda che ne deriva e l’aumento dell’offerta di beni e servizi. Al di fuori di questo equilibrio, tutto ciò che potrebbe stimolare i prestiti bancari, la creazione di moneta e di domanda, dovrebbe essere soggetto a severi controlli. Questa sarebbe la chiave del mantenimento della stabilità dei prezzi.

Nel complesso i monetaristi appaiono dare un po’ più di importanza alla competitività e alla salute del sistema economico, e quindi al pareggio del bilancio pubblico e alle politiche monetarie austere contro l’inflazione di quanto non abbiano fatto molti keynesiani preoccupati principalmente di estendere benessere ed occupazione anche alle classi meno abbienti.

  Esiste una interessante correlazione tra tasso di crescita della offerta di moneta M e tasso di crescita dell’economia: se le autorità monetarie faranno crescere la quantità di moneta M al tasso di crescita normale del sistema economico (che nei paesi più industrializzati oscilla tra il 2% e il 5%), ne seguirà una analoga crescita percentuale del PIL e del reddito nazionale

I neoclassici sbagliavano nel ritenere che un aumento della quantità di moneta portasse il più delle volte inflazione: esiste un certo grado di quantità produttive non sfruttate, che l’espansione della offerta di moneta può favorire.

  Un aumento della quantità di moneta in circolazione si riflette lentamente sui prezzi e sui salari e sull’inflazione, anche se l’occupazione non può ulteriormente crescere perché è al suo livello naturale (disoccupazione frizionale). Nel breve periodo aumenta la spesa aggregata che questi avevano assunto, e di conseguenza fa ritornare al livello precedente produzione occupazione. Ma nel lungo periodo la scarsità di lavoro innalza i salari e spinge gli imprenditori a licenziare i lavoratori che essi avevano assunto, facendo ritornare la produzione al livello iniziale. Tutto questo è confermato dalla curva di Phillips, che mostra che nel medio periodo aumenta l’occupazione, sia pure mentre i salari iniziano anch’essi a salire. Ma la legge indicata dalla curva di Phillips non è, secondo Friedman, destinata a durare: una volta che i lavoratori e le imprese abbiano imparato che un certo tasso di inflazione e di aumento di salari è normale e riporta i salari reali e i profitti reali al livello di partenza, essi, a quel tasso di inflazione, non varieranno né l’offerta né la domanda di lavoro. Occorrerà di anno in anno la immissione di una quantità maggiore di moneta, che provocherebbe una inflazione crescente.

 

 

 

Le critiche dell’economista John Kenneth Galbraith ai monetaristi

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E’ vero che la politica monetaria è efficace contro l’inflazione. Se la Banca Centrale dà al credito un giro di vite sufficiente a ridurre i fondi che possono essere prestati dalle banche commerciali, e se le obbliga ad aumentare i tassi di interesse, gli investimenti delle imprese e le spese dei privati ne risentiranno. Ma il maggior costo e la maggiore rarità del denaro  colpiranno in primo luogo l’edilizia, le piccole imprese impossibilitate a rinnovare magazzino e macchinario, e i privati che non possono più comprare a credito automobili ed elettrodomestici; per la semplice ragione che tutte queste attività sono finanziate dal credito. E se le misure restrittive vengono spinte abbastanza avanti perché i depositi bancari non siano più investiti e reinvestiti, verranno a capo dell’inflazione.

Gli effetti di queste costrizioni penalizzano le parti sociali in modo immancabilmente molto ineguale. La portata della politica monetaria è la compressione della capacità generale di spesa di imprese e famiglie, che gli economisti chiamano domanda globale o domanda aggregata. La sua caduta non costringerà la General Motors, né la Exxon, né la Renault o la Shell, né alcuna corporation gigante a frenare l’aumento dei propri prezzi. I primi colpi di freno saranno per la produzione e la vendita. Infatti, le corporation hanno il potere contrastare la tendenza alla diminuzione dei prezzi e di mantenere i prezzi che desiderano. E’ per poter fare questo che sono divenute sempre più grandi. Hanno la possibilità di assorbire l’aumento dei salari o di qualunque altro costo di produzione aumentando i prezzi. E possono decidere di tenerli stabili e resistere agli aumenti salariali solo di fronte a un’altissima capacità di produzione inutilizzata. Allora il tasso di disoccupazione sarebbe tale che i sindacati modererebbero le loro rivendicazioni. Nel settore delle grandi corporation la politica monetaria agisce quindi creando o aggravando la disoccupazione. E’ questa la triste ed evidente lezione che si deve trarre dalle prime applicazioni in grande stile degli anni ’70 della politica monetarista.

Ma la politica monetaria ha un altro effetto altrettanto discriminatorio a vantaggio dei potenti. Abbiamo visto che la corporation dispone di una fonte di autofinanziamento indipendente dalle risorse bancarie. Potendo attingere  ai propri profitti, si sottrae ai decreti della Banca centrale e alle restrizioni del credito delle banche commerciali. Poi, le corporation sono i clienti privilegiati delle banche, le prime ad essere servite quando si libera qualche disponibilità di credito. E poiché hanno il controllo dei loro prezzi, possono ripercuotere un aumento dei tassi di interessi sui prezzi imposti ai consumatori. Sono quindi più che armate contro gli inconvenienti della politica monetaria.

Le cose vanno in modo ben diverso per l’agricoltore, per il piccolo commerciante che ha bisogno di liquidi per ricostituire gli stock, e prima di tutto per l’edilizia, che lavora con capitali presi a prestito e con clienti che dipendono anch’essi dai prestiti per la casa. Le prime vittime della politica monetaria sarano questi rami. Quindi le sue conseguenze sono chiare: crea disoccupazione, ha riguardo dei grandi e dei potenti e penalizza i piccoli.

Secondo Galbraith, i monetaristi, Milton Friedman in testa, sono di opinioni politiche conservatrici, e tendono quindi a non preoccuparsi eccessivamente degli effettivi una oolitica che favoriscela grande impresa a spese della piccola o che aggrava la disoccupazione. Friedman è rimasto fedele più di altri ad una visione di una società in cui famiglie e imprese obbediscono agli stimoli della concorrenza e del mercato. Per lui l’economia della libera concorrenza è ancora viva e presente: la grande corporation non ha un posto di grande rilievo nelle sue ricerche. Se si ammette questa idea che esiste un mercato con molte imprese in concorrenza tra loro, si può anche pensare che gli effetti della politica monetaria si distribuiscono più o meno uniformemente su un insieme di aziende concorrenziali. E se queste subiscono più o meno allo stesso modo le leggi impersonali della concorrenza, una restrizione del credito bancario e della domanda globale le obbligherà ad abbassare i prezzi o almeno a rinunciare ad aumentarli. La disoccupazione è una conseguenza solo accessoria.

In sintesi, la restrizione del credito bancario non colpisce le grandi corporations e non le induce a diminuire i propri prezzi. Colpisce invece duramente il settore dell’economia di mercato. E se colpisce l’insieme dell’economia è per aggravare la disoccupazione.