Nardone, Psicosoluzioni

 

 

  Capitolo 1: La teoria

  Capitolo 2: L’intervento clinico>Psicosi o presunte tali

  Capitolo 2: L’intervento clinico >Paura, panico, fobie

  Capitolo 2: L’intervento clinico > Ossessioni e compulsioni

  Capitolo 2: L’intervento clinico > Manie e paranoie

  Capitolo 2: L’intervento clinico > Anoressia, Bulimia, Vomiting

  Capitolo 2: L’intervento clinico > Depressione

  Capitolo 2: L’intervento clinico > Coppie in crisi

  Capitolo 2: L’intervento clinico > Blocco della performance

  Capitolo 3: Il “self-help strategico”: l’autoinganno terapeutico

  Epilogo

 

 

Capitolo 1: La teoria

Locke diceva che riteniamo folli coloro che, partendo da premesse sbagliate e usando una logica coretta e stringente, giungono a conclusioni erronee. Ogni persona costruisce la propria realtà sulla base di ciò che fa, guidata dalla prospettiva che assume nella percezione della realtà con la quale interagisce: lindividuo arrestato sul volo da New York per Parigi perché in possesso di una bomba si giustificò asserendo che stava cercando di minimizzare la probabilità che vi fosse una bomba sullaereo.

Ogni realtà cambia a seconda del punto di vista dal quale la si guarda: ciò conduce a reazioni diverse sulla base delle diverse attribuzioni che si possono fare alla medesima realtà.

Un aneddoto narra che un padre ed un figlio, con un asino, stavano recandosi in una località distante e furono criticati ora perché il padre sedeva sullasino e il figlio camminava, ora perché padre e figlio procedevano appiedati accanto allasino etc. Esso mostra come della stessa realtà si possono avere percezioni e opinioni molto diverse e, sulla base di ognuna di queste, le reazioni delle persone cambiano.

Non esiste una conoscenza davvero vera delle cose, ma può esistere solo una conoscenza idonea, ovvero strumetnale, che ci permette di gestire le realtà con le quali interagiamo. Questo, che è il punto di vista della filosofia della scienza attuale, conduce a prendere le distanze dalle tesi deterministe o positiviste che vorrebbero affermare la possibiltà di una conoscenza scientificamente vera, optando  per lo studio dei modi più funzionali di agire nei confronti di una realtà mai definitivamente vera, poiché essa è il frutto dei punti di vista da noi assunti, dei nostri strumenti conoscitivi e del nostro modo di comunicre. Questo approccio, definito costruttivismo, sulla base della consapevoleszza della impossibilità del raggiungimento di una verità definitiva, si indirizza verso il perfezionamento della nostra consapevolezza operativa: ossia della nostra capacità di gestire strategicamente la realtà che ci circonda: non sono le cose in sé che ci preoccupano, ma lopinione che noi abbiamo di esse (Epitteto).

Da quando Einstein e Heisenberg introdussero la relatività e il principio di indeterminazione, la scienza moderna si è orientata verso la ricerca di una conoscenza strumentale e operativa e non più verso la ricerca di verità assolute. Da quando Godel nel 1931 con il suo articolo sulle Proposizioni indecidibili  fece crollare la possibilità di una logica rigorosamente razionale, la logica matematica si è evoluta verso modelli che contemplano la contraddizione, lautoinganno e il paradosso come procedimenti rigorosi e predittivi per il costruirsi delle credenze e del comportamento umano.

Oggi si deve adattare la nostra consocenza alle realtà parziali, mettendo a punto, di fronte ai problemi, strategie che si fondino ogni volta sugli obiettivi che ci si pone e che si adattino, passo dopo passo, allevolversi di tali realtà. Quindi il passaggio è da una conoscenza che pretedne di descrivere la verità delle cose, quella positivista e determinista, a una conoscenza costruttivista, che ci permette di adattarci nel modo più funzionale a ciò che percepiamo, che si evolve verso una conoscenza operativa che ci permette di gestire la realtà nel modo più funzionale possibile.

Il caso delluomo con la bomba mostra che ciò che costituisce una patologia e la mantiene è ciò che le persone tentano di fare per risolverla. Una tentata soluzione che non funziona, se reiterata, non solo non risolve il problema, ma lo complica, sino a portare al costituirsi di un vero e proprio circolo vizioso, allinterno del quale ciò che viene fatto nella direzione del cambiamento alimenta la persistenza di ciò che dovrebbe essere cambiato. Il caso del fobico che evitando le situazioni che scatenano la sua paura incrementa la sua reazione fobica è particolarmente eloquente.

Anche laiuto che il fobico riceve da coloro che lo circondano contribuisce a creare/aggravare/mantenere il problema, confermando al soggetto che da solo non ce lavrebbe fatta. Una patologia grave viene a costituirsi sulla base delle reazioni a fenomeni inizialmente tenui; tali reazioni, tese a controllare la paura, nella loro disfunzionalità lhanno incrementata fino a condurla a una elevata espressione patogena.

Ciò che fa reiterare atteggiamenti e comportamenti disfunzionali non è altro che lapplicazione rigida di soluzioni che precedentemente nella propria vita hanno funzionato in problemi dello stesso tipo

Gli esseri umani, come mostra la psicologia cognitiva e delle attribuzioni, hanno difficoltàù a cambiare le loro visioni e i loro copioni comportamentali anche se inadeguati.

Spesso le soluzioni sono riconosciute dallo stesso soggetto non funzionali, ma egli non riesce a modificarle e alla fine diviene sfiduciato nella possibilità di un cambiamento.

Gli esperimenti di Bavelas a Stanford in cui i soggetti dovevano trovare leggi e regole in realtà inesistenti per avere segnalazioni di successo da parte dello sperimentatore in un esperimento di pressione di pulsanti o di riconoscimento di nessi numerici mostra come essi difendessero la loro soluzione anche una volta svelato il trucco. Ciò dimostra come una persona abbia grandi difficoltà  a cambiare una propria convinzione, dopo che se la è costruita mediante un processo esperienziale vissuto come efficace.

COSTRUIRE REALTA TERAPEUTICHE

Non è importante come un problema si è venuto a formare nel tempo, ma come si mantenga nel presente. Ciò che dobbiamo interrompere, se vogliamo cambiare una realtà, è la sua persistenza; sulla sua formulazione, svoltasi nel passato, non abbiamo alcun potere di intervento.

La maggior parte dei modelli psicologici e psichiatrici di terapia, sulla base di una ideologia determinista o riduzionista, si occupano di ricostruire le cause passate di un problema presente con la convinzione che una volta svelate e rese consapevoli, il problema svanisca. In realtà non esiste alcuna connessione causale lineare tra come un problema si è formato e come questo persiste; né soprattutto tra come il problema si è formato e come può essere cambiato o risolto. Invece esiste una causalità circolare tra come un problema persiste e ciò che le persone fanno per risolverlo senza successo. Nellottica del provocare cambiamenti, ciò che è importante è concentrarsi sulle tentate soluzioni disfunzionali in atto; poiché, cambiando o bloccando queste, si interrompe il circolo vizioso che alimenta la persistenza del problema. Una volta interrotta la ripetitività il cambiamento sarà inevitabile, in quanto la rottura dellequilibrio precedente condurrà alla necessità dello stabilirsi di uno nuovo, basato sulle nuove percezioni della realtà.

Immergiamo la mano destra in un secchio di acqua calda e la sinistra in un secchio di acqua fredda, e poi in un secchio di acqua tiepida: la sinistra avvertirà lacqua tiepida come molto calda, mentre la destra la avvertirà come molto fredda. In relazione a queste percezioni si terrà un comportamento diverso: si aggiungerà acqua fredda o acqua calda al secchio di acqua tiepida.

Quindi è chiaro come sia la nostra percezione delle cose che costruisce letteralmente la realtà dei nostri comportamenti, e come la ostra percezione sia costruita sulla base di quello che abbiamo sperimentato e creduto precedentemente. Di conseguenza, lintervento che conduce al cambiamento è il provocare delle esperienze percettive concrete che mettano la persona nella condizione di provocare qualcosa di diverso nei confronti della realtà da cambiare, in modo da aprire così la porta a reazioni differenti sia emotive che comprotamentali. In tal modo si effettua non solo un cambiamento nei soli comportamenti, o nelle sole cognizioni, o nelle sole emozioni, ma un cambiamento che avviene a livello sia di emozioni sia di cognizioni sia di comportamenti, sulla scia di una esperienza concreta che modifica il modo di percepire quella realtà.

I disturbi mentali vengono visti come il prodotto di una modalità disfunzionale di percezione e reazione nei confronti della realtà, letteralmente costruita dal soggetto attraverso le sue reiterate disposizioni ed azioni; processo di costruzione allinterno del quale, come già dimostrato, se cambiano le modalità percettive della persona cambieranno anche le sue reazioni.

La concezione del problem-solving strategico che sta alla base della erapia breve è guidata da questa logica apparentemente semplice che nella pratica clinica si esprime nel condurre il paziente, spesso mediante stratagemmi, trabocchetti comportamentali, benefici imbrogli e forme di raffinata suggestione, a esperire percezioni alternative della sua realtà. Tali nuove e correttive esperienze percettive condurranno a cambiare le precedenti disfunzionali disposizioni emotive, cognitive e comportamentali del soggetto.

La terapia strategica è un intervento breve e focale orientato allestinzione dei disturbi presentati dal paziente. Questo approccio non è una terapia superficiale e sintomatica, ma un intervento radicale, poiché mira alla ristrutturazione delle maniere attraverso le quali ognuno costruisce la realtà che poi subisce.

La risoluzione del disturbo richiede la rottura del sistema circolare di retroazione tra soggetto e realtà che mantiene la situazione problematica. A tale prima fase seguirà la ridefinizione e la conseguente modifica delle rappresentazioni del mondo che costringono la persona alle risposte disfunzionali.

Il terapeuta, invece di indottrinare il paziente con la sua teoria e il suo linguaggio, cerca di entrare nella logica di questi e usarne lo stesso linguaggio e le medesime modalità di rappresentazione del mondo; questo al fine di aggirare le resistenze al cambiamento.

Il ricorso a informazioni sul passato o sulla storia clinica serve solo per mettere a punto le migliori strategie.

Lattenzione è focalizzata su: a) come la persona, e le persone intorno a lei, hanno cercato e cercano, senza successo, di risolvere il roblema, ovvero le tentate soluzioni che alimentano il problema; b) come è possibile cambiare tale situazione problematica nella maniera più rapida ed efficace, vale a dire le strategie o stratagemmi che possono produrre esperienze percettivo-reattive alternative.

Dopo aver concordato col paziente gli obiettivi della terapia si costruiscono, sulla base di questi, le strategie terapeutiche mirate a infrangere le modalità di persistenza del problema.

La prima fase del trattamento apre nuove prospettive al paziente, che poi in tempi brevi verranno consolidate tramite le indicazioni concrete. A tal fine si ricorre a forme di comunicazione suggestiva che permettono di aggirare le resistenze al cambiamento e di ingiungere le prescrizioni che condurranno la persona alle esperienze concrete di cambiamento.

Se lintervento funziona, di solito il paziente migliora rapidamente; nella maggioranza dei casi la patologia si sblocca entro le prime 4-5 sedute. Tale rapido cambiamento conduce ad una progressiva modifica della maniera di percepire se stesso, gli altri e il mondo, dalla precedente rigidità patogena verso una elasticità percettivo-reattiva.

A tale cambiamento corrisponde un progressivo innalzamento dellautonomia personale e un incremento dellautostima dovuto al recupero della fiducia nelle proprie risorse personali.

In molti casi, mediante un piano strategico ben congegnato e ben applicato, si possono sbloccare, come il lettore rileverà nel capitolo successivo di questo volume, in tempi rapidi, talvolta dopo un solo incontro, problemi e disturbi radicati da anni.

Se una terapia funziona, i cambiamenti debbono apparire rapidamente. Se ciò non avviene, molto probabilmente la strategia terapeutica utilizzata non funzioan e si rende necessario cambiarla con una più funzionale. A tal fine si richiede al terapeuta una grande elasticità mentale, unita a un ampio repertorio di tecniche di intervento che deve permettere di cambiare rotta quando i dati indicano che si è fuori dalla direzione desiderata, e di studiare strategie ad hoc per il caso, modificando, a volte, con creatività, tecniche già utilizzate con successo in altri casi. Oppure, come può essere necessario di fronte a casi unusuali, mettere a punto con inventiva nuove e originali strategie di soluzione.

Storia della terapia breve strategica a partire dalla scuola di Palo Alto.

Indicazioni bibliografiche sulla terapia breve strategica.

La richiesta crescente da parte di un pubblico di utenti meno sprovveduto di interventi clinici realmente efficaci ed efficienti ha reso la terapia breve strategica una esigenza formativa ineludibile anche per i professionisti della psicoterapia più tradizionalisti i quali, per reggere la concorrenza, necessitano di apprendere tecniche idonee a risolvere in tempi brevi i problemi dei loro pazienti.

Esiste una grande differenza tra il risolvere una patologia in due-tre mesi o in due tre anni o in cinque-sette anni come nel caso della psicoanalisi, poiché nel primo caso, rispetto agli altri, la persona oggetto della cura guadagna un bel po di vita libera dai suoi disturbi.

Nel 1974 il gruppo di Palo Alto mostra che su un campione di 92 pazienti affetti da svariate forme di patologia psichica e comportamentale, si è avuta, in due terzi dei casi, la soluzione dei problemi presentati in una media di sette sedute.

Nel 1988 Steve de Shazer e colleghi mostrano come su oltre 500 casi studiati circa il 75% è stato condotto alla guarigione in una media di 5 sedute.

Nel 1990 nardone e Watzlawick preentano una ricerca sulla efficacia di un modello evoluto di terapia breve applicato a oltre 100 soggetti, che mostra esiti positivi nell84% dei casi, ottenuti in una media di circa 10 sedute.

E così via.

Oggi si ritiene applicabile questo approccio alla maggioranza delle patologie psicologiche e psichiatriche.

La terapia breve strategica è il modello psicoterapeutico, tra gli oltre 500 attualmente presenti sul mercato della psicoterapia, che offre i più significativi risultati sia a livello di efficacia che a livello di efficienza.

Ma lapproccio strategico, oltre che un modello terapeutico, è una scuola di pensiero su come gli esseri umani si rapportano alla realtà, o meglio di come ognuno di noi si relaziona con se stesso, gli altri e il mondo e di come mediante tale processo il soggetto costruisce la realtà che subisce o gestisce.

Questo approccio trova applicazione anche in contesti non clinici, manageriali e organizzativi

Meno nota e meno studiata è invece lapplicazione di questo modello alla logica dellautoinganno personale, ovvero al come un soggetto possa trasformare autonomamente i propri autoinganni da disfunzionali in funzionali. Su tale argomento vedi lultima parte di tale volume.

 

Capitolo 2: L’intervento clinico>Psicosi o presunte tali

   Caso 1: I vicini vogliono vedermi nudo

   Caso 2: Ho un serpente nella pancia

   Caso 3: Delirio e controdelirio

   Caso 4: La calamita che succhia energia

 

Caso 1: I vicini vogliono vedermi nudo

Un signore di 60 anni pensava di essere spiato da telecamere dei vicini mentre si spogliava per andare a dormire. Aveva cambiato tre volte casa e perseguitato i vicini con telefonate minacciose, causando un intervento della polizia. Il suo letto aveva un baldacchino con un pesante telo nero, ma era rimasto costernato perché i reportage della guerra del golfo avevano reso nota lesistenza di telecamere in grado di guardare oltre i muri.

La famiglia lo portò in terapia con il trucco di fargli accompagnare la figlia, preda di finte crisi depressive. Il terapeuta lo consigliò di accendere dei potenti faretti piazzati ai lati del letto e persistette nellordinargli di non demordere anche di fronte alle sue asserzioni di cessato allarme e ai suoi dubbi incipienti di essersi inventato tutto. Alla fine egli riconobbe che il terapeuta lo aveva condotto con uno stratagemma a rendersi conto della trappola mentale in cui si era infilato.

 

Caso 2: Ho un serpente nella pancia

Un giovane curato con antipsicotici e terapia analitica è condotto per una crisi acuta: pensa che un serpe gli è entrato in bocca mentre dormiva. Il terapeuta ascolta, non contraddice e consiglia, per liberarsene, di dormire a bocca aperta tutta la notte. Il giorno dopo il giovane telefona che il serpente se ne è andato. Il giovane si è trovato una compagna, svolge una vita serena, ma ogni tanto entra in qualche crisi simile a quella del serpente. Ogni volta è andato da Nardone che, come una sorta di sciamano tecnologico, gli ha prescritto un rituale di liberazione, basato sempre sulla stessa logica della patologia, rovesciandone però il senso, in modo da mettere la forza della persistenza al servizio del cambiamento, conducendo così la patologia alla sua autodistruzione.

 

Caso 3: Delirio e controdelirio

Un ventenne è condotto in studio per delirio esilarante: dice cose senza senso e se la ride tra sé. Dice che è finito ad Atlantide ma è stato mandato via perché fumava. Il terapeuta gli dà ragione asserendo che lì col fumo non scherzano. Al che il giovane rimette i piedi per terra e si lamenta che lui è venuto per discutere la situazione di emarginazione da cui è stato posto per lingresso in famiglia del cognato, uomo equilibrato e di cultura superiore, che è divenuto il punto di riferimento della famiglia. La seduta va avanti e ogni volta che il paziente fa una affermazione delirante viene riportato a terra da una affermazione ancora più delirante del terapeuta. Alla fine viene concordato un rito di reincoronazione del principe usurpato, che poi perdona magnanimamente il cavaliere usurpatore. Il giovane, da schizofrenico che pensa che 2+2 fa 5 ed è sempre molto contento diviene un nevrotico che pensa che 2+2 fa 4 ma è sempre molto preoccupato. E stato necessario rivedere varie volte nel corso degli anni il giovane e la sua famiglia ma mai più per una espressioen patologica così marcata come la prima.

 

Caso 4: La calamita che succhia energia

Un soggetto ritiene che il collega di lavoro abbia il potere di succhiare le sue energie. La tentata soluzione consiste, per il soggetto, nel mantenersi duro e talvolta aggredire a parole il collega, che però rimane imperturbabile (più probabilmente non reagisce per paura di una escalation).

Gli viene presentata la metafora della calamita: il collega è una calamita ed è in questo modo che gli succhia energia. Gli viene poi prescritto di indossare una tuta di cellophane quando va al lavoro. Quando, soddisfatto, annuncia vittoria, si accorge che il collega è un poveruomo che gli fa un po pena. Gli si prescrive allora di comportarsi col collega come se questi fosse stata una persona fragile, da rassicurare. Infine i due divengono amici.

In questo caso, prima si è costruita una realtà inventata, calzante con le rappreentazinoi patologiche del paziente, poi la si è utilizzata per introdurre un cambiamento, reso possibile proprio da tale realtà che è stata sostituita, durante linterazione terapeutica, a quella precedentemente presentata dal soggetto: una realtà inventata che produce effetti concreti.

 

Capitolo 2: L’intervento clinico >Paura, panico, fobie

   Caso 1: La fobia degli specchi

   Caso 2: La paura di uscire da soli

   Caso 3: Senza di te ho il panico

   Caso 4: La paura di perdere il controllo

 

Caso 1: La fobia degli specchi

Il soggetto aveva paura di essere attratto dagli specchi e battervi il naso. La sua vita ne era pesantemente condizionata: era socialmente isolato, dormiva con il pannolone per non andare in bagno, dove era lunico specchio della casa, girava accompagnato da persone volenterose incaricate di afferrarlo nel caso fosse sul punto di battere con uno specchio. Il terapeuta gli prescrive una forma a suo dire efficacissima di protezione del naso: un casco da motocross. Il paziente, una volta acquistato il casco, non ha poi avuto bisogno di indossarlo, e ha finito per lasciarlo a casa.

In questo caso si è spostata lattenzione dal tentativo di controllare la paura allesecuzione di un compito distraentee suggestivamente prescritto. La persona, senza sul momento rendersene conto, realizza qualcosa fino ad allora irrealizzabile, ma inequivocabilmente tale esperienza concreta lo conduce ad avere, anche se solo per poco, una nuova percezione della realtà vissuta sino ad allora come irresistibilmente terrorizzante. Ciò conduce alla inevitabile rottura della rigidità el sistema percettivo-reattivo-fobico e apre la strada alla costruzione di nuove forme alternative di rappresentazione della realtà e di conseguenti nuove modalità comportamentali e cognitive.

 

Caso 2: La paura di uscire da soli

 Sono ormai migliaia i pazienti agorafobici che si assoggettano alla prescrizione di uscire, facendo una piroetta ogni pochi metri, andare al negozio di frutta vicino allo studio di Nardone, e tornare con una mela.

In tal mdo si ottiene la prima esperienza emozionale correttiva del paziente. Il modo di comunicare il compito deve essere quello tipico di una induzione inotica, una realtà suggestiva allinterno del quale sembra che fare piroette sia un magico rituale scaccia-paura. La prescrizione mette il paziente nella condizione di essere distratto suggestivamente da compiti apparentemente  assurdi, come fare piroette e comprare la mela, che, per essere espletati, prevedono anche lesecuzione di quella cosa fino ad allora impossibile perché troppo spaventosa. Una volta eseguito il tutto, la persona si rende conto di avere superato realmente la paura. Capisce il trucco, ma ha anche dimostrato a se stessa con una innegabile concreta azione, di essere in grado di supeare realemnte le proprie difficoltà.

Ovviamente la terapia non finisce qui; questo rappresenta solo il primo importante sblocco sintomatico. Si prescrive al paziente di eseguire qualcosa di simile ogni giorno e ogni giorno di comperare un piccolo regalo per il terapeuta. A questo punto il paziente di solito abbandona il rituale e di lì a poco riprende una vita normale.

 

Caso 3: Senza di te ho il panico

 La condizione relazionale ordinaria di chi soffre di paure, panico e fobie è quella connotata dalla massiccia richiesta di aiuto, sotto forma di presenza, supporto rassicurante e abnegazioen affettiva, che il soggetto fobico richiede alle persone a lui più vicine. Questa dinamica interattiva diventa un vero e proprio alimentatore del timore e del senso di inadeguatezza personale di chi soffre di paure.

Contro questa situazione si procede, alla fine della prima seduta, ad una ristrutturazione: si chiede al paziente di non desistere dal chiedere aiuto, poiché lei non è in grado di non chiedere aiuto, ma solo di pensare che ogni volta che chiede aiuto e lo riceve, riceve contemporaneamente due messaggi: a) ti voglio bene, ti aiuto e proteggo; b) ti aiuto perché da solo non puoi farcela, perché sei malato.

In questo modo si mette, senza chiedere alcun diretto sforzo di cambiamento  da parte del paziente, la paura contro la paura: anzi, una paura pi grande, quella di un ulteriore aggravemento, contro una più picola, lattuale sintomatologia.

Nella stragrande maggioranza dei casi la persona interrompe immediatamente il suo repertorio comportamentale della richiesta di aiuto.

A seguito di questo cambiamento si rileva un netto descrescere della sintomatologia fobica e non troppo di rado si assiste a un completo sblocco della patologia. Tutto ciò per il fatto che, non chiedendo più aiuto e supporto, il soggetto si trova ad affrontare da solo situazoni che prima avrebbe vissuto sotto protezione, scoprendo di poterle gestire. Il procedere di tale meccanismo di scoperte graduali delle capacità conduce la persona ad azzardare sempre più sino, talvolta, al superamento spontaneo di tutte le precedenti paure. In altri termini, mediante la manovra descritta si produce la trasformazione di un circolo vizioso, quello della richiesta patogena, in un circolo virtuoso, quello del recupero delle risorse personali e dellautonomia.

 

Caso 4: La paura di perdere il controllo

 Una signora è soggetta ad attacchi di ipocondria, panico e agorafobia che lei definisce severissimi. E una dottoressa che ha sconfitto innumerevoli terapeuti e ha letto tutte le opere di Nardone e dichiara che non farà mai cose stupide come le piroette. Nardone le dice di persistere nella sua resistenza, perché più resiste più agevola il terapeuta. Dopo un braccio di ferro di 5 sedute al soggetto viene prescritto di prepararsi per un viaggio in treno da sola (idea inconcepibile!) fino allo studio di Nardone, ad Arezzo. La signora deve telefonare non appena è pronta, vestita e ha consultato gli orari, in tempo per prendere il treno. Le viene prescritto di scendere in strada con le mani serrate e di pigiare i pollici in modo doloroso ogni volta che sente una fitta di panico, di pagare il taxi con le mani sempre allacciate, di salire sul treno, slacciarle e dedicarsi a infilare dei fagioli in una bottiglia di grappa vuota a collo lungo. Giunta ad Arezzo, riporre la bottiglia, incrociare le mani, chiamare un taxi e farsi portare allo studio del terapeuta.

Con sua stessa sorpresa la donna esegue il rituale e riesce ad arrivare allo studio di Nardone, anzi, dichiara che per il tragitto finale in taxi non ha più bisogno di serrare le dita.

Il terapeuta le prescrive una serie di viaggi in tutta Italia e nellarco di pochissimo tempo la paziente diviene in grado di uscire di casa da sola.

Le manovre terapeutiche devono essere calzate al linguaggio del cliente, alla sua logica e alla sua capacità di percepire la realtà. Solo se costruite adattandosi a tutto ciò, saranno accettate dai pazienti e saranno messe in atto e, pertanto, avranno la possibilità di condurre alla rottura del circolo vizioso delle precedenti tentate soluzioni che mantengono il problema.

 

Capitolo 2: L’intervento clinico > Ossessioni e compulsioni

   Caso 1: L’ossessione di farsela addosso

   Caso 2: Sterilizzare tutto per evitare contagi

   Caso 3: La ripetizione di formule mentali

 

Caso 1: L’ossessione di farsela addosso

 Molto spesso, sulla base di una ossessione si possono sviluppare reazioni di tipo fobico molto simili a quelle della sindrome da attacchi di panico descritta nei casi precedenti, ma in questo caso se non si sovverte alla radice la dinamica patogena di tipo ossessivo il cambiamento ottenuto sarà solo superficiale, e si osserveranno entro breve delle ricadute. Pertanto è importante distinguere reazioni fobiche basate sulla paura e reazioni basate sullossessione, perché il tipo di trattamento dovrà essere per certi versi simile, per altri completamente diverso.

Un intellettuale che svolgeva un lavoro artistico di alto livello, che lo metteva in condizione di dover esibirsi in pubblico, aveva sviluppato, dopo una colite, il timore di perdere il controllo dei visceri in pubblico. A poco a poco si era isolato e aveva cessato di comparire in pubblico.

La terapia, dalla seconda seduta in poi, si è centrata sul far interrompere al paziente le sue due fondamentali tentate soluzioni che mantenevano il problema: ossia il suo ossessivo tentativo di controllare il sintomo stando sempre concentrato sul suo intestino, e il suo evitare qualunque situazione di rischio, compresi molti cibi e posti dove non ci fosse una toilette pronta alluso.

La tecnica è stata quella della peggiore fantasia, che si applica anche a panico, depressione e blocchi di performance.

Il soggetto dapprima deve esercitarsi, per mezzora al giorno, in casa sua, a farsi venire degli attacchi di panico pensando alle sue peggiori fantasie. Allo scadere, dovrà abbandonare tutto quanto, e dedicarsi alla usuale attività giornaliera.

Dopo che il soggetto con sua sorpresa ha constatato che gli è praticamente impossibile farsi venire le crisi, e anzi subentra rilassamento e sinanche sonno, gli si prescrive di farsi venire le crisi per 5 minuti al giorno 4-5 volte al giorno, ovunque si trovi. Questo, sia in base alla constatazione che è impossibile provocare volontariamente le crisi, sia in base alla promessa del paziente di fare tutto quello che il terapeuta gli avrebbe ordinato.

La terapia è proseguita aumentando le esposizinoi a rischio del soggetto, incrementando la sua fiducia nella tecnica del cancellare la paura provocandola deliberatamente, sino a condurlo a mettere in pratica tale prescrizione anche quando il temuto disturbo poteva insorgere. Il soggetto riferì che allinsorgere spontaneo della paura o di qualche segnale del suo intestino, bastava esasperare immediatamente la paura deliberatamente, perché questa svanisse insieme alle sensazioni somatiche.

 

Caso 2: Sterilizzare tutto per evitare contagi

 Un giovane impiegato di banca, preso dallossessione di contrarre lAIDS (cosa peraltro improbabile dato il suo stile di vita), è divenuto un igienista compulsivo, che utilizza guanti bianchi per stringere la mano alle persone e sterilizza anche la fidanzata ogni volta che lei va a trovarlo.

Si tratta di una tentata soluzione di controllo di una fissazione fobica mediante lesecuzione di rituali di tipo protettivo-propiziatorio.

La tecnica di trattamento di questo e di disturbi simili si basa sulla seguente prescrizione: ogni volta che di qui alla prossima seduta lei esegue un rituale, se lo esegue una volta lo esegua cinque volte

Normalmente scema la compulsione ad eseguire il rituale, di pari passo con la paura della situazione da cui si vuole proteggere.

Come vedevo le cose prima, mi sembrava logico avere paura e dovermi proteggere con i lavaggi e le altre cose che facevo, come le vedo adesso mi sembra logico non avere paura e quindi stupido fare certe cose. Non so cosa sia successo, ma ora le cose vanno bene.

Ci si impossessa del sintomo irregrenabilmente compulsivo facendolo diventare qualcosa di volontario che pertanto può essere rifiutato: se te lo concedi puoi rinunciarci, se non te lo concedi sarà irrinunciabile

Questa prescrizione è formulata e ingiunta con un linguaggio fortemente suggestivo, come un comando post-ipnotico, allinterno del quale prima si prescrive una ordalia, poi si dà il permesso di non eseguirla Ma non eseguendo tale prescrizione punitiva, il paziente non mette in atto nemmeno i precedenti rituali, poiché  essa altro non è che una esasperazione paradossale e ritualizzata di quelle espressioni sintomatiche.

 

Caso 3: La ripetizione di formule mentali

 Una giovane donna razionale si sentiva costretta a ripetere mentalmente formule composte da nomi e numeri più volte nella giornata, prima e durante lesecuzione di alcune azioni.

In questi casi si utilizza una prescrizione paradossale che ritualizzi il rituale, come nel caso precedente, ma in maniera meno complessa da un punto di vista logico-formale: ci si impossessa del sintomo compulsivo trasformandolo. Questo di solito conduce alla sua autodistruzione.

Al soggetto fu prescritto di complicare il rituale recitando le formule al contrario.

La paziente ne risultò così affaticata che dopo qualche giorno i rituali si erano ridotti e dopo una settimana aveva avuto solo due episodi, immediatamente inibiti dal compito assegnatole.

 

Capitolo 2: L’intervento clinico > Manie e paranoie

   Caso 1: Lo psichiatra dipendente dalla madre

   Caso 2: Gli altri ce l’hanno con me

   Caso 3: Bloccare le risposte per inibire le domande

 

Caso 1: Lo psichiatra dipendente dalla madre

 Uno psichiatra di mezzetà risulta intrappolato in una situazione di incredibile inibizione dai ricatti della madre. Questa, ogni volta che non aveva notizie del figlio da più di qualche ora si ubriacava solennemente per sedare la sua ansia e preoccupazione. Ma la reazione era avvenuta anche ogni volta che il figlio aveva avuto una fidanzata. Il soggetto non aveva mai vissuto fuori della casa dei genitori né vi aveva portato una donna.

Si tratta di una classica relazione vittima-aguzzino, allinterno della quale ciò che mantiene la situazione è un legame basato su una complicità retta da tentativi disfunzionali di non fare peggiorare le cose. Così facendo, il soggetto confermava alla madre lefficacia delle sue azioni di controllo su di lui.

Dovrai anticipare la madre nelle telefonate: essere tu a chiamare lei, dieci volte al giorno, per chiederle se sta bene.

La madre si mostrò alla fine infastidita, e il terapeuta prescrisse un aumento delle telefonate per ben due volte. Le crisi alcooliche e i ricatti della madre cessarono e fu prodiga di esortazioni al figlio di prendersi cura di se stesso e rilassarsi e alla fine giunse a ventilare lidea di una relazione amorosa coinvolgente che recidesse il suo cordone ombelicale.

 

Caso 2: Gli altri ce l’hanno con me

 Un soggetto soffre di manie persecutorie e crede che tutte ce labbiano con lui o che comunque lo rifiutino. Si sente oggetto di torti continuamente ricevuti, atteggiamenti offensivi che gli altri hanno verso di lui, atteggiamenti provocatori etc.

Prima di andare al lavoro pensi: come mi comporterei oggi, diversamente da come mi comporto, come se fossi convinto di apparire simpatico, stimato, desiderabile, desiderato? Tra le cose che le vengono in mente scelga la più piccola e la metta in pratica, ogni giorno faccia una cosa piccola ma concreta come se si sentisse tale.

La settimana successiva il compito venne portato a due cose da fare e al soggetto venne detto di non illudersi sul cambiamento degli altri.

Tali piccole ma concrete azioni come se la situazione fosse cambiata rovesciano effettivamente lusuale interazione tra il soggetto e la sua realtà, in mood tale che in quei momenti, ponendosi lui diversamente, anche gli altri si pongono diversamente nei suoi confronti, conducendolo a fare realmente lesperienza di sentirsi davvero simpatico e desiderato.

Ci si focalizza sullintrodurre un piccolo cambiamento che inneschi una reazione a catena di cambiamenti fino alla completa modifica della situazione. Si provoca una esperienza emozionale correttiva concreta e la si aumenta aumentando le azioni e gli atteggiamenti come se del paziente, sino alla costruzione di una nuova realtà funzionale.

 

Caso 3: Bloccare le risposte per inibire le domande

Un soggetto era tormentato da continui dubbi: ho pensato a questa cosa nel modo migliore? Ho detto bene quella cosa? Ho fatto nel modo migliore quellaltra? Ho aggiustato nel modo migliore quegli oggetti?

Anche la più banale cosa da fare e da pensare scatena una serie di dubbi e incertezze. Negli ultimi tempi il soggetto si sente bloccato e non riesce a svolgere alcuna attività.

La tentata soluzione disfunzionale di fondo si esprime nel fatto che si cerca di dare risposte ragionevoli e rassicuranti a dubbi e domande irragionevoli, e più il dubbio è illogico più si cerca di dargli una risposta logica, in modo tale da invischiarsi sempre più dentro complicati e sofferti tentativi di risposta razionale a problemi irrazionali.

Non esistono risposte intelligenti a domande stupide. Però a lei queste domande vengono, non le può frenare. Non le sarebbe possibile farlo, perché pensare di non pensarle è già pensarle. Però lei può bloccare le risposte, in tal modo inibendo gradatamente la domanda. Per bloccare la risposta lei deve pensare che ogni volta che cerca di rispondere a una domanda stupida con una risposta intelligente, rende intelligente  la domanda e ne rafforza lutilità. Così facendo, alimenta la catena di dubbi. Pertanto, ogni volta lei darà una risposta ad un dubbio aprirà la porta a nuove domande e sarà il gioco senza fine che lei conosce bene. Tutto peggiorerà, non solo persisterà

Nellarco di qualche settimana i dubbi paranoici furono estinti e la persona fu in grado di riprendere le sue attività ordinarie.

Anche in questo caso di noti la struttura linguistica e comunicativa della manovra terapeutica: questa è basata su di una dinamica iperlogica ma ipnoticamente confusiva con ridondante articolazione del parlato. In tal modo si costruisce una realtà allinterno della quale la forza del sintomo ossessivo è veicolata contro il disturbo stesso, provocando una sorta di corto circuito nella dinamica della persistenza del problema.

 

Capitolo 2: L’intervento clinico > Anoressia, Bulimia, Vomiting

   Caso 1: Far mangiare negando il cibo

   Caso 2: Ti aiutiamo a farlo meglio

   Caso 3: Mangiare e vomitare è troppo bello!

   Caso 4: Se ti vuoi abbuffare, fallo bene!

 

Caso 1: Far mangiare negando il cibo

 Presso il centro di Nardone si possono fare terapie indirette: ossia guidare i genitori a cercare di far cambiare i figli.

Come al solito il terapeuta non chiede la storia clinica ma i tentativi attuati per risolvere il problema: tentate terapie, contatti con vari psichiatri e psicologi.

Una ragazza anoressica rifiuta la terapia ed è stata già ricoverata senza risultati. Il suo peso attuale è di 40 kg.

Il terapeuta sfrutta in questo casl la dichiarata disponibilità dei genitori a fare/provare tutto ciò che egli chiederà. Egli parla il linguaggio del tipico genitore dellanoressico, che vede le cose in termini di logica del sacrificio e della protezione: Io vi chiederò dei sacrifici ancora più grandi, forse non sarete in grado

La prescrizione terapeutica è la seguente: non dovete assolutamente parlare del problema, fare una congiura del silenzio. Non dovete neanche tentare di fare/dare da mangiare a vostra figlia. Dovete attuare un boicottaggio che la metta in posizione di frustrazione del suo sintomo; evitate di invitarla a mangiare, squalificate il suo problema smettendo di apparecchiare per lei, di invitarla a mangiare e se la vedete mangiare qualcosa ricordatele che questo la farà cadere nella disperazione. Ditele qualche volta al giorno che avete capito quanto sia per lei importante non mangiare e collaborare.

La figlia a questo punto ci rimane un po male e la notte si alza a mangiare di nascosto. Dopo unaltra settimana va a tavola e mangia qualcosa. Poi esprime il desiderio di parlare col terapeuta (cosa sino a quel momento rifiutata con estrema violenza).

 

Caso 2: Ti aiutiamo a farlo meglio

I genitori di una ragazza che negli ultimi tempi mangia e vomita continuamente si rivolgono al terapeuta per una terapia indiretta (la ragazza rifiuta asserendo che sono i genitori ad aver bisogno dello psichiatra).

Il comportamento alimentare di abbuffate seguite da vomito è per Nardone impropriamente classificato come bulimia (bulimia nervosa, per la precisione): nel suo lavoro di ricerca ha dimostrato che questo tipo di disturbo non ha niente a che fare con la bulimia, ma nella maggioranza dei casi è tipico di ragazze tendenzialmente anoressiche che trovano nel vomito una buona soluzione per non scendere troppo di peso ma nemmeno ingrassare oppure per continuare a dimagrire mangiando. Ma dopo un po di tempo che esercitano questo tipo di compulsione, tale tecnica diventa una vera e propria compulsione irrefrebanile e quindi queste giovani ragazze talvolta anche uomini è come se fossero possedute da un demone che le conduce a fare grandissima abbuffate seguite da vomitate.

La ragazza negli ultimi tempi si è praticamente ritirata in casa a mangiare e vomitare, lasciando fidanzato ed amici. Si lava poco, non si pettina più e si abbrutisce.

La soluzione vi costerà un po di sacrificio. Non sarà faticoso ma bizzarro. La madre dovrà chiedere alla figlia, prima di andare al lavoro: cosa vuoi oggi da mangiare e vomitare? e poi le comperi quanto lei le indicherà. Se la figlia si rifiuterà di rispondere lei comperi in dosi abbondanti ciò che sa lei mangia. Metta tutto in bella vista sul tavolo della sala, non in cucina, con post-it con scritto roba da mangiare e vomitare per. Quel cibo non dovrà essere toccato. Nella settimana successiva dovrete dirle guarda che la roba è lì, puoi andare a mangiare e vomitare

Gli episodi diminuiscono gradatamente. La figlia dichiara che il comportamento dei genitori ha tolto ai suoi rituali ogni piacere e anzi vuole liberarsene, e chiede di vedere il terapeuta.

 

Caso 3: Mangiare e vomitare è troppo bello!

 Una professionista trentenne in preda a ripetute crisi bulimiche giornaliere si dichiara disposta a fare qualsiasi cosa a patto che non mi si chieda di fare nulla direttamente circa il mangiare e vomitare; infatti come molti pazienti con tentate terapie alle spalle ritiene che quel sintomo sia inattaccabile.

Il terapeuta le chiede di descrivere il suo piacere, convenendo che il piacere fondamentalmente è il massimo che possiamo avere dalla vita.

Le chiede poi di coltivare e affinare il vizio, scegliendo lora e il luogo adatto (es. dopo mezzanotte). Disponda i cibi. Scelga il modo di mangiare e vomitare per goderselo al meglio.

Questo riduce paradossalmente gli episodi ad uno al giorno contro i cinque-sei di prima senza sentirne la mancanza perché il singolo rito è stato così piacevole.

Le viene poi suggerito che differendo di qualche giorno il piacere dellatto può aumentarlo, facendola passare a due-tre episodi a settimana senza alcun sacrificio.

Le viene suggerito di impiegare il tempo che si è liberato con attività diverse dal lavoro e dopo un po il soggetto sente un maggior bisogno di vita sociale.

Dopo circa 3 mesi ella stabilisce una relazione amorosa super passinale, colpo finale alla sua patologia, poiché comincia a dimenticarsi del suo rito di piacere. Ne ha scoperto, forse, un altro ancora più piacevole, quello naturale di una posizione amorosa alla quale adesso aveva la capacità e il coraggio di abbandonarsi.

 

Caso 4: Se ti vuoi abbuffare, fallo bene!

 Ad una giovane che aveva invano tentato di liberarsi dalla bulimia venne prescritto di scegliere una dieta e seguirla, rispettando una regola: se avesse trasgredito, doveva moltiplicare la trasgressione, mangiando cinque volte tanto (cinque pezzi di torta se ne aveva mangiato uno etc.).

Successivamente la penalità fu aumentata a sette volte tanto, a dieci volte tanto etc.

Questo stratagemma terapeutico risulta essere davvero formidabile in quanto trasforma il piacere in una tortura da evitare. I soggetti dicono che non è più la stessa cosa.

 

Capitolo 2: L’intervento clinico > Depressione

   Caso 1: Offrire il pulpito al depresso

   Caso 2: Sì, viviamo in una valle di lacrime

 

Caso 1: Offrire il pulpito al depresso

 Un soggetto depresso, che fa parte di un gruppo di famiglie meridionali molto unite, tenta la psicoterapia.

Nella depressione le usuali tentate soluzioni sono la tendenza del soggetto a lamentarsi e fare la vittima, controbilanciata dallatteggiamento incoraggiante, consolante e protettivo dei familiari.

La prescrizione in questo caso è stata: Di qui alla prox seduta, tutte le sere, prima di cena o dopo cena, trovativi tutti insieme per mezzora, lui, in piedi, avrà mezzora per lamentarsi nel silenzio più totale. Sarà proibito di parlare del problema al difuori dello spazio serale

Il soggetto, dopo tre sedute comincia a raccontare barzellette: la cosa strana è che, di colpo, ho cominciato a vedere e sentire le cose come prima, e mi sono chiesto come era possibile essere stato così male. Ho una bellissima famiglia, non mi manca nulla, non ho problemi economici. Mi vuol spiegare lei cosa era successo?

Dopo tale prima fondamentale esperienza emozionale correttiva si procede a una graduale ristrutturazione delle modalità percettivo-reattive del soggetto conducendolo, mediante altre specifiche manovre, alla costituzione di un nuovo e funzionante equilibrio personale.

 

Caso 2: Sì, viviamo in una valle di lacrime

 Una signora con figli sposati e allontanati e marito indifferente presentava un classico quadro depressivo allinterno del quale la persona si sente vittima della realtà, come se lei stessa non ne fosse partecipe.

Qualsiasi atteggiamento consolatorio non produce alcun effetto se non, spesso, lirrigidirsi della posizione di vittima.

Lei ha ragione. Veniamo al mondo solo per soffrire. Io la comprendo bene. Capita anche a me spesso di vedere tutto nero e come nulla vale la pena. Siamo tutti come Sisifo (sic), che fu punito da Zeus per aver rubato il fuoco e averlo dato agli uomini che ne fecero cattivo uso e condannato alla nota pena.

Latteggiamento terapeutico più funzionale è quello di essere più depressi di loro. Come una persona in procinto di affogare che venga spinta ancora più sotto, essi tenteranno in tutti i modi di venire a galla.

 

Capitolo 2: L’intervento clinico > Coppie in crisi

   Caso 1: La coppia che non riusciva a litigare

   Caso 2: Il muro del silenzio

   Caso 3: Caro, come sei maschio quando mi maltratti!

 

Caso 1: La coppia che non riusciva a litigare

 Una coppia non riusciva a non litigare più volte al giorno con urla etc. per poi ogni volta fare la pace promettendosi tolleranza.

I due si amano moltissimo e la notte, nellintimità, parlano per ore.

La prescrizione è stata: Credo francamente improbabile che possiate smettere ed inutile chiedervi di sforzarvi di non farlo. Scegliete una stanza della casa oops, no, vi indicherò io una stanza della casa e ogni volta che vi capita di litigare spostatevi in questa stanza e lasciatevi andare

La coppia riuscì stabilmente a sostituire allaggressione lhumour e lironia reciproca.

 

Caso 2: Il muro del silenzio

 Invece dei litigi si può avere una cupa sopportazione reciproca, rifiuto sessuale, scarso dialogo, assoluta indifferenza, sorda rabbia reciproca.

In una coppia ognuno dei due aveva accumulato negli anni una notevole rabbia per ciò che laltro gli aveva fatto e, proprio perché era legato a lui, lo puniva con lindifferenza.

Il compito fu: Ogni sera, per mezzora, quindici minuti ciascuno, in camera, tirate fuori i vostri rospi e accuse. Al difuori di questo spazio, niente recriminazioni reciproche.

Riferirono di essersi detti cose terribili, che non avevano mai ascoltato, ma di essersi anche sentiti più liberi nellesprimere laffetto. Avevano avuto rapporti sessuali e fatto una passeggiata.

Tenendo uno spazio del genere a disposizione essi guarirono.

La rabbia e i sentimenti di accusa sono come la piena di un fiume. Più si cerca di arginarli più aumentano, sicché rompono gli argini e travolgono tutto.

 

Caso 3: Caro, come sei maschio quando mi maltratti!

 Una giovane donna sposata è aggredita continuamente, squalificata per ogni minima colpa e maltrattata anche di fronte ad estranei. Per il resto, nella loro relazione non manca nulla.

Il comportamento ragionevole della donna, che spiega le sue ragioni incrementa il comportamento irragionevole del marito.

Fu prescritto alla donna di dire al marito quanto la eccitava sessualmente il suo sfogo istintuale. Questo lo bloccò contemporaneamente e fu lui a richiedere di andare dal terapeuta per imparare a controllare il suo irrefrenabile nervosismo.

 

Capitolo 2: L’intervento clinico > Blocco della performance

   Caso 1: Il blocco a parlare in pubblico

   Caso 2: Motivare, frustrandolo, l’atleta bloccato

   Caso 3: La tesi senza fine

 

Caso 1: Il blocco a parlare in pubblico

 Una manager quarantenne dalla carriera prestigiosa, dopo aver assistito alla crisi di ansia che aveva costretto un collega ad interrompere un intervento in pubblico era stata presa da tale paura che evitava tale performance.

Chiunque si mette a voler controllare le proprie reazioni fisiologiche, finisce per alterarle proprio mediante il tentativo di controllarle. In questi casi occorre spostare lattenzione del soggetto durante la sua performance, un po come per i pazienti fobici e ossessivi.

Alla paziente fu prescritto di dedicare lora prima dellintervento a pensare alle cose peggiori che avrebbero potuto capitarle, e poi di iniziare lintervento scusandosi con luditorio se fosse stata costretta ad interrompersi per una crisi dansia.

 

Caso 2: Motivare, frustrandolo, l’atleta bloccato

 Erano state tentate le usuali tecniche di rilassamento e autocontrollo nonché training di addestramento virtuale e ipnotico alla performance, senza risultato. Le persone intorno a lui lo incoraggiavano benevolmente, affermando che rimaneva sempre il migliore. Il pubblico era deluso.

Si trattava del performer afflosciato per carenza di sfide: troppo caricato dagli altri rispetto alle sue qualità tanto da non avere più la motivazione interiore a dimostrare le sue capacità.

Fu suggerito di frustrarlo mettendo in risalto come probabilmente la sua migliore stagione fosse tramontata e di interrompere contemporaneamente qualsiasi complimento e di mostrare invece tutto lo staff un atteggiamento quasi depressivo.

 

Il terapeuta breve strategico costruisce realtà che hanno il potere magico di condurre il paziente a cambiare le sue precedenti disposizioni percettivo-reattive. Molte delle tecniche usate sono state sistematizzate e rese replicabili e misurabili nella loro efficacia, efficienza e predittività.

Tutta la manualistica psichiatrica e psicologica relativa alla definizione delle diverse patologie potrebbe essere riassunta in una emplice definizione: persona bloccata e intrappolata dalle proprie costruzioni della realtà.

 

Caso 3: La tesi senza fine

 Un dirigente quarantenne rinvia allinfinito la scrittura della sua tesi di laurea su Wittgenstein. Nardone gli chiede di scriverne lultima riga e di portargliela per discuterne; poi le ultime dieci righe; poi lultimo capitolo e così via fino a che la tesi non è finita.

Leseguire la scrittura delle argomentazioni invertendone il senso usuale, operazione non semplice, ha distolto il soggetto dalla sua patogena tentata soluzione di fare un lavoro perfettamente aggiornato. Un funambolo non può elucubrare mentre cammina su una corda tesa: la mente colma coincide con la mente vuota

 

Capitolo 3: Il “self-help strategico”: l’autoinganno terapeutico

   Rilevare le proprie tentate soluzioni

   Incrementare le possibilità di scelta

   Ogni cosa conduce ad un’altra cosa

   La tecnica dello scalatore

   Come peggiorare la situazione?

   Immaginare lo scenario oltre il problema

   La tecnica del “come se”

   Le peggiori fantasie

   Evitare di evitare

   Sforzarsi di non sforzarsi

   Incorniciare i ricordi

   Il “sano egoismo”

   Prescriversi la fragilità

 

Ognuno di noi può costruire e mantenere i proprio problemi e lintervento di un esperto può effettivamente risolverli in tempi rapidi. Se gli esseri umani hanno la capacità in un senso possono averla anche nel senso opposto: se siamo gli artefici attivi della nostra realtà possiamo entro certi limiti orientarla anche verso direzioni funzionali e positive.

Largomento di questo capitolo è appunto quello relativo alla possibilità di costruire autonomamente realtà terapeutiche.

Sono fondamentali le dinamiche dellautoinganno, ossia le maniere con cui costruiamo le trappole dalle quali non sappiamo più uscire.

Fin qui abbiamo parlato di come uscire dalle trappole. Qui parliamo di come evitare di costruirle e di come evitare di entrarvi una volta costruite quelle non troppo profonde. Questo è ciò che N. definisce autoinganno terapeutico: abilità del soggetto di costruirsi visioni della realtà che lo conducano a cambiare le sue disposizioni e reazioni disfunzionali.

Se il soggetto si rende conto, dopo qualche tentativo di autoinganno terapeutico, questo non funziona e tende a far peggiorare la situazione, vuol dire che il problema è giunto ad un tal punto di complicazione che è necessario rivolgersi ad un esperto.

Può dirsi che questa vigilanza sulla possibile disfunzionalità delle nostre tentate soluzioni rappresenta il passo preliminare e il punto di partenza ineludibile per un possibile utilizzo della logica dellautoinganno personale come strategia di self-help.

Lortodossia del vero si ribella agli autoinganni, ma se ne propone qui il superamento a favore di ciò che è utile o funzionale credere.

Dopo tutte le già accennate evoluzioni della scienza dal vero al probabile e il passaggio dalla logica matematica dal giusto al funzionale, il soggetto non può più basarsi, nel rapporto con se stesso, sulla ricerca della verità di sé, ma soltanto sul tentare di costruirsi gli autoinganni a lui più funzionali. Altrimenti si rischia di incorrere nellerrore dal quale ci metteva in guardia Nietzche: noi tutti non siamo ciò che sembriamo in base agli stati danimo per i quali soltanto abbiamo coscienza e parole, e dunque lode e biasimo; noi ci misconosciamo in base a queste grossolane manifestazioni, le sole che veniamo a conoscere, traiamo la conclusione da un materiale in cui le eccezioni prevalgono sulla regola, sbagliamo a leggere questa scrittura apparentemente chiarissima del nostro Sé. Ma la nostra opinioni su di noi, che abbiamo trovato su queste vie sbagliate, il cosiddetto io, dora in poi lavora anchessa al nostro carattere e al nostro destino (Aurora, 1981, p. 115).

Pertanto si deve evitare di prendere per buone e definitive le congetture relative alle nostre caratteristiche, altrimenti queste ci condurranno a costruire credenze che influenzeranno effettivamente il nosro essere. Profezie ritenute vere che si autorealizzano.

Più vicine ai nostri tempi sono le idee di John Elster sul rapporto tracredenze autoingannatrici e credenze relative allautorealizzazione della persona. Egli definisce, sulla scorta di Davidson (1980) e Ainslie (1981), lautoinganno come la tendenza a identificare la realtà con i propri desideri nel processo di formazione delle credenze.

Ad es. se mi piace pensare che un evento è vero posso ripetermelo nella mente, scriverlo e citarlo ripetutamente con formulazioni diverse, sino a persuadere altri di ciò  di cui voglio persuadere me stesso. Se riuscità ad ottenere tale scopo, quello della persuasione altrui, avr. costruito una credenza stabile nella mia mente. Tutto ciò può avvenire, ovviamente, sia per credenze postiive sia per credenze negative. Per inciso, il pessimista radicale cerca sempre di convincere gli altri che le cose sono diverse da come dovrebbero essere; se riesce a persuadere altre persone della sua vizione questo confermerà ancora di più a lui la veridicità della sua visione.

Molto di frequente, per citare un altro caso di autoinganno, si osservano gruppi di persone che, uniti da uno status simile, si confermano lun laltro: single che fra di loro celebrano i vantaggi di non essere accoppiati; credenti di una setta che lodano a vicenda la virtù di tale fede. Tutto ciò si può rilevarecontinuamente nelle interazioni comunicative umane, allinterno delle quali la maggioranza delle persone tende a voler convincere gli atlri della veridicità dei propri autoinganni.

Elster definisce lautoinganno una sorta di irrazionalità motivata basata sullinclinazione a modificare la realtà per farla calzare con le proprie visioni. Questa prospettiva apre la porta a un universo enorme di possibilità dellutilizzo dei meccanismi dellautoinganno nella direzione del produrre cambiamenti strategici.

Già Pascal, allo scopo di riportare la fede cristiana ai traviati dalle passioni e piaceri del mondo, utilizza argomenti psicologici, tra cui quello della scommessa: nessuno si trattiene dal fare una scommessa quando sente che ciò che può perdere è infinitamente più piccolo di ciò che può vincere; se uno crede, e Dio non cè, non perde nulla; mentre se uno ha fede, e Dio esiste, ottiene linfinito.

La proposta di Pascal non è una ingiunzione diretta, ma una ristrutturazione. Pascal aggiunge che ci si persuade meglio, di solito, con le ragioni che abbiamo trovato da noi che con quelle che si sono presentate allintelletto di altri.

Pascal suggerisce anche, per coloro che scelgono di credere ma hanno difficoltà a farlo: andate in chiesa, inginocchiatevi, pregate, onorate i sacramenti, comportatevi come se voi credeste. La fede non tarderà ad arrivare. Si tratta della strategia del come se.

Infatti è introducendo nel nostro comportamento lautoinganno del comportarsi come se una realtà fosse quella desiderata,  anche se le nostre rivelazioi ce la fanno ritenere diversa, che si mette in modo un processo attraverso il quale, ripetendo le azioni che derivano dal come se prescelto, si giungerà al vedere letteralmente  le cose come abbiamo scelto di vederle sulla base dei nostri desideri. Così facendo, linfluenza di ciò che vorremmo su ciò che è appare cruciale. Ne deriva che tali processi di autoinganno possono essere utilizzati con successo al fine della costruzione di percezioni e reazioni il più possibile a noi funzionali.

Un eccellente esempio è dato dalle profezie che si autodeterminano. Molte sono in psicologia sociale le ricerche e gli esperimenti che dimostrano come laspettativa che qualcosa possa accadere può indurre il soggetto che crede in ciò ad agire in modo tale da produrre effettivamente ciò che si era aspettato o che avrebbe voluto evitare.

Un esempio letterario rivisitato tra laltro da Popper è quello del mito di Edipo.

Watzlawick, in un suo saggio offre invece alcune possibilità relative al come profezie positive possano essere autorealizzate mediante un procedimento di benefico autoinganno.

Il logico matematico Newton Da Costa ha formulato dei modelli matematici rigorosi relativi alla costruzione delle credenze mediante procedimenti di autoinganno (On the logic of belief, Philosophical and Phenomenological Research, 2, 1989a; The Logic of Self-Deception, American Philosophical Quarterly, 1, 1989b).

Il razionalismo aristotelico e cartesiano imporrebbe la logica del vero o falso, terzo escluso. In altri termini, può esistere ciò che è vero o ciò che è falso, altre possibilità di escludono. Da ciò deriva il principio di non contraddizione il quale impone che i fenomeni, per essere veri, non possono né contraddittori, né paradossali, né autoillusori.

La filosofia e psichiatria tradizionale ne hanno derivato il concetto che lo stato di salute mentale di una persona equivale al superamento delle sue contraddizioni interne, come se il raggiungimento di uno stato di congruenza e coerenza interna corrispondesse al benessere di un individuo. Anche questo potrebbe essere considerato uno splendido autoinganno.

La cibernetica nelle sue evoluzioni recenti, (Von Foerster, 1987) dimostra chiaramente come non esista osservazione senza un osservatore e come losservatore sia influenzato nelle sue osservazioni dalle sue credenze.

Rosenthal ha dimostrato in celebri esperimenti come le aspettative dello sperimentatore influenzino i risultati dellesperimento. Ancora più sorprendenti sono i risultati di tali sperimentazioni sul rapporto insegnanti-allievi; anche in questo caso, le aspettative dellinsegnante riguardo le capacità die soggetti influenzano marcatamente i loro risultati effettivi.

Un meccanismo di autoinganno con esiti positivi è quello delleffetto placebo.

Lautoinganno può quindi avere effetto non solo sulle credenze e cinvinzioni e i conseguenti comportamenti ma anche sulle treazioni fisiologiche del nostro organismo. Questo rende ancor più significativo lo studio di tali processi come strumento, in certi casi, di autoguarigione da alcune forme di patologie.

Lautore, sulla scorta di quanto detto, e sulla base dellesperienza clinica circa i fenomeni suggestivi producibili mediante la comunicazione interpersonale, negli ultimi anni si è interessato della possibilità di utilizzare la logica dellautoinganno come strategia personale di self-help.

La suggestione o lipnosi, anche se eteroindotte, innescano comunque un fenomeno di autosuggestione e di autoipnosi. Pertanto anche prescrizioni terapeutiche suggestivo-ipnotiche in realtà mettono in modo nel soggetto dei meccanismi autoillusori che producono in lui degli effetti concreti di cambiamento; non si aggiunge nulla che già la persona nno abbia in sé, bensì si innescano processi che mobilitano in lei fenomeni di autoinganno terapeutico.

Alcuni autori legati alla teoria tradizionale dei sistemi, affermano che ciò non può essere ossibile poiché il soggetto è allinterno del suo sistema e non può uscire da questo per introdurvi nuove retroazioni che conducano ad un reale cambiamento. Ma sottovalutano la autoriflessività della mente, ossia la capacità che gli esseri umani hanno di costruirsi realtà cirtualieffettive mediante i loro processi di pensieroe di immaginazione, che rappresentano dellevere e proprie forme di uscita dal proprio sitema e che possono avee leffetto concreto dicondurre a nuove disposizioni percettive e a conseguenti nuove modalità reattive. Ci sono moltigradi di difficoltà e problematicità finoalla patologia, ciò che fa la differenza è il livello nel quale il soggetto si trova; è evidente che quando il livello di disagio è elevato, lautoguarigionje è decisamente improbabile. Ma quando il livello di difficoltà patogena non è giunto alla costituzione di una rigida modalità percettivo-reattiva, riteniamo non solo possibile ma auspicabile il ricorso a strategie di autoinganno terapeutico. Poiché se ciò funziona la persona ne guadagna in autostima, senso di competenza personale e reali risorse di problem-solving.

Quanto segue è una serie di indicazioni che derivano dallapplicazione del modello del problem solving strategico descritto in precedenza come modello di psicoterapia, a procedimenti di self-help.

 

Rilevare le proprie tentate soluzioni

La prima manovra da mettere in atto è quella di osservare e rilevare quelle che sono le nostre disposizioni a reagire ripetute nel tempo: tutta quella serie di ridondanti modalità di porsi e reagire che ognuno di noi può carilmente ricavare dalla valutazione di come abbiamo cercato di affrontare i problemi fino a ora incontrati nel nostro cammino.

Si devono rilevare sia le nostre tentate soluzioni che hanno funzionato sia quelle che non hanno funzionato ma soprattutto quali sono le tendenze ad agire che si sono ripetute. Infatti la nostra mente tende a costruire copioni di strategie che si ripetono nei confronti anche di problemi diversi.

Come Henry Laborit ha dimostrato nei suoi studi sperimentali, il cervello umano costruisce circuiti sinaptici relativi a copioni di reazione comportamentale specifica nei confronti di determinate situazioni che lorganismo ha in precedenza incontrato più volte. Tali circuiti fanno sì che, una volta di fronte a situazioni dello stesso tipo o simili, le reazioni scattino spontaneamente, al di là dei ragionamenti e delle anticipazioni cognitive.

Pertanto ognuno di noi può rilevare le proprie tendenze a utilizzare ridondantemente usuali strategie di soluzione.

Questo di per sé non è patogeno. La patologia emerge quando tali copioni si irrigidiscono e noi non riusciamo a modificarli, nemmeno di fronte al loro evidente fallimento.

 

Incrementare le possibilità di scelta

 Il passo successivo è quello di eaminare una delle situazioni problematiche, e cercare di trovare, oltre a quella che ci viene spontanea, almeno altre cinque possibili strategie di soluzione, ciò che non è assolutamente facile, specie oltre le tre soluzioni.

Può essere utile chiedersi, nel momento dellimpasse, come vedrebbe quella situazione e come reagirebbe unaltra persona di nostra conoscenza, cercando durante questa indagine di mettersi proprio nei panni della persona prescelta. Questo spesso ci sblocca.

Si cominci poi ad applicare mentalmente la prima soluzione. Se entro breve tempo non produce effetti o produce effetti indesiderati, sostituirla con la seconda e procedere nello stesso modo.

 

Ogni cosa conduce ad un’altra cosa

 Quando abbiamo un problema, spesso ci sentiamo impotenti perché lo viviamo come insormontabile nella sua complicatezza, oppure, quando abbiamo più problemi connessi tra di loro, ci può apparire impossibile gestirli perché sono troppi.

Occorre in questo caso rammentarsi che in natura come nei fenomeni mentali e sociali anche la più grande cosa è composta di tante piccole cose, ma soprattutto che anche dentro il sistema più complesso e articolato se si introduce un piccolo cambiamento si innescherà una reazione a catena che condurrà a sovvertire lintero equilibrio.

Di conseguenza, quando si ha a che fare con grandi problemi, è bene concentrarsi sul più piccolo ma concreto cambiamento che si può indurre, il quale sarà seguito da un ulteriore piccolo cambiamento; il quale ancora, sarà seguito da un successivo piccolo cambiamento, sino a che la somma di piccoli cambiamenti condurrà al grande cambiamento. Tutto ciò riduce di gran lunga lansia e il senso di impotenza iniziale, incrementando così già in partenza la fiducia nellesito finale.

 

La tecnica dello scalatore

 Quando si ha un problema complesso da risolvere risulta utile partire dallobiettivo da raggiungere e immaginare lo stadio subito precedente, poi lo stadio precedente ancora, sino a giungere al punto di partenza. Il tutto in modo tale da suddividere il percorso in una serie successiva di stadi; ciò significa frazionare lobiettivo finale in una serie successiva di micro-obiettivi.

Questa strategia mentale agevola la strategia precedente.

 

Le strategie sopra descritte riguardano la costruzione di strategie di autoinganno, ossia sequenze di pensieri e di azioni con lobiettivo di raggiungere lo scopo finale prefissato. Pertanto queste sono composte nella loro processualità da tattiche e tecniche specifiche idonee allo sblocco di particolari sistuazioni emotive o comportamentali. Qui di seguito sarà esposta una rassegna di tali tecniche.

 

Come peggiorare la situazione?

 Questa tecnica rappresenta il più delle volte il primo passo da fare. Consiste nel domandarsi ripetutamente nellarco di qualche giorno Come potrei far andare peggio le cose? Cosa dovrei fare, pensare o non pensare?

Con ciò ci si obbliga a cercare di orientare la propria costruzione strategica verso lobiettivo di un peggioramento, con due conseguenze: a) verrà individuata tutta una serie di pensieri e di azioni da NON compiere; b) Possono emergere per reazione soluzioni alternative mai contemplate fino ad allora.

 

Immaginare lo scenario oltre il problema

 Questa tecnica può avere molte varianti, il suo obiettivo è spostare lattenzione dal presente problematico a un futuro senza il problema.

Si devono immaginare situazioni concrete al di là del problema presente, cercando di rilevare quali sarebbero le nostre percezioni, pensieri, azioni in tale contesto. In questo può aiutare la fantasia del miracolo: nella notte è avvenuto un miracolo e il tuo problema è svanito; da cosa te ne accorgi? Quali sono gli indicatori che le cose sono completamente cambiate? Cosa ti verrebbe di fare?

Si determina un effetto suggestivo di profezia che si autorealizza, poiché se io immagino la possibilità di un cambiamento miracoloso o di una situazione di soluzione del problema, apro comunque le mie aspettative in tale direzione e ciò ha di per sé un effetto terapeutico.

In secondo luogo, lo spostare la nostra attenzione da un presente problematico a un futuro non problematico, produce un rilasciamento dellatensione presente e un blocco delle attuali tentate soluzioni; tutto ciò produce un sollievo concreto e apre la strada a modalità percettive reattive alternative.

 

La tecnica del “come se”

 Strettamente connessa alla tecnica di immaginare lo scenario, ma molto più orientata  a un intervento attivo sul problematico presente, è la tecnica del come se , che si esprime nel chiedersi: cosa farei di diverso oggi, come mi comporterei diversamente in questa giornata, se il problema che ho non ci fosse più? Tra le cose che vengono in mente, scegliere la più piccola e metterla in pratica.

Ripetere questo procedimento ogni giorno.

In tal modo si innesca ogni giorno un piccolo cambiamento che innescherà una reazione a catena di ulteriori cambiamenti sino al sovvertimento totale delle nostre modalità precedenti di percepire e affrontare in modo controproducente il problema.

Come nella teoria delle catastrofi (Thom, 1990) si produce leffetto butterfly, ovvero quel battito dala di farfalla che, in un certo spazio e tempo, innesca una reazione a catena di eventi naturali che condurrà al ciclone, a qualche migliaia di chilometri di distanza da quel piccolissimo evento iniziale.

Questa tecnica di autoinganno, inoltre, siccome si basa sul creare azioni come se una realtà fosse in un modo, anche se sappiamo che così non è, aggira le nostre resistenze a mettere in atto pensieri e azioni alternativi a quelli precedentemente utilizzati.

Una finzione riesce molto meglio di una azione realmente creduta, ma la finzione reiterata diviene realtà.

 

Le peggiori fantasie

 Quando ci capita di soffrire per qualche cosa che ci è andato storto o per qualche nostra colpa o per qualche brutto incidente avvenuto nel corso della nostra esistenza, quasi tutti noi abbiamo la tendenza a cercare di arginare la nostra sofferenza cercando di razionalizzare laccaduto o cercando di non pensarci. Ma razionalizzare una sofferenza emotiva è il modo migliore per buttare fuori dalla porta una cosa che ci rientra, poi, dalla finestra. Inoltre ogni volta è come se fosse più forte, quindi ciò non solo non serve ma il più delle volte incrementa la sofferenza. Si ricordi che pensare di non pensare è già pensare. Sforzarsi di dimenticare, poiché latto di dimenticare è qualcosa di involontario, rende volontario ciò che non lo è con leffettoche lo inibiamo; pertanto, il risultato sarà che manteniamo più a lungo presente nella nostra memoria ciò che vorremmo cancellare.

In questo caso la tecnica che ha un potere davvero sorprendente è quella di prescriversi uno spazio giornaliero, precisamente pianificato, con un inizio e una fine, allinterno del quale concentrare il più possibile in modo volontario tutte le fantasie che più ci fanno soffrire. In modo tale da canalizzare e far defluire la nostra sofferenza.

Di solito leffetto di ciò può essere che: a) si riesce a stare molto male nello spazio prefissato; questo produce un alleviamento della sofferenza al di fuori, nellarco della giornata, conducendo gradatamente a farci metabolizzare e superare la sofferenza, oppure: b) dentro lo spazio predeterinato per soffrire, per effetto paradossale, non si riesce a star male anzi, più si cerca di stare male, più si hanno reazioni contrarie. Questo è il caso più frequente, su questa scia ci si può addestrare allutilizzo di tale tecnica come strategia costante per combattere i momenti critici.

Si può esercitare tale tipo di esasperazione paradossale delle sensazioni e dei pensieri negativi ogni volta questi ci vengono; in altri termini si può toccare il fondo per tornare a galla ogni volta che si comincia a sentirsi affogare nei nostri stati danimo.

Emil Cioran racconta come abbia imparato, quando è arrabbiato con qualcuno, a prendere carta e penna e scrivere le cose peggiori su di lui. Ogni volta, dopo un po, la rabbia, lodio o la depressione si attenuano fino a scomparire. Poi afferma che grazie a questo stratagemma è riuscito a sopportare se stesso e molte delle cose del mondo.

 

Evitare di evitare

 E tipico cercare di evitare un problema o le situazioni che lo possono esasperare. Ma così si conferma a noi stessi la nostra incapacità di fronteggiare il problema. Ogni fuga conduce a unaltra fuga che conferma la precedente e prepara la successiva e tale catena alimenta la nostra sensazione di insicurezza e incompetenza personale. Perciò è necessario prescriversi di evitare di evitare, assumendo questa come regola di fondo nella nostra interazione con la realtà che continuamente costruiamo e poi subiamo.

Non si tratta di mettersi a prova costante (questa è una strategia decisamente controproducente), ma di non rinunciare ad alcuna delle situazioni che la nostra esistenza ordinaria ci propone, per la paura di non essere in grado di fronteggiarla o per il timore di soffrirne. Bisogna porsi di fronte alle realtà che ci incutono timore come se fossero occasioni per nuove esperienze di apprendimento e di crescita personale, incluse le sconfitte; anzi, utilizzare la paura degli effetti dannosi che il ripetersi di evitamenti potrebbe produrre, come risorsa per superare la paura di ogni singola situazione che vorremmo evitare. Usare la paura contro la paura stessa. Il limite di ogni paura è, infatti, una paura più grande. Si evita, in tal modo, di costruirsi quella triste realtà personale così descritta dal poeta Pessoa: Porto adesso le ferite di tutte le battaglie che ho evitato.

 

Sforzarsi di non sforzarsi

 Per alcuni la tendenza naturale di fronte ad una difficoltà è una reazione di maggiore sforzo nel tentativo di fronteggiare le cose che ci vanno storte.

Questo significa reiterare le soluzioni già tentate; mettersi costantemente alla prova; cercare di controllare emozioni e impulsi.

Chi riesce a usare bene questo freno della sua imulsività il più delle volte finisce con linnescare un processo di controllo ossessivo delle proprie reazini, il quale conduce allo stabilirsi della compulsione a un irrefrenabile bisogno dicontrollo, anche per le cose irrilevanti. Il risultato è che il controllo riuscito conduce a una forma di perdita di controllo del controllo stesso, ovvero tale inclinazione diventa compulsione.

 

Incorniciare i ricordi

 Tutti hanno ricordi tristi o penosi. Purtroppo sulla dinamica dei ricordi si è indagato solo da un punto di vista psicanalitico, mettendo in evidenza la necessità, ancoratutta da comprovare, di andare a disseppellire i cosiddetti traumi del passato remoto.

Solo di recente si è cominciato a parlare della capacità di un individuo, mediante forme di autoinganno terapeutico, di trasformare i ricordi e di mantenerne leffetto positivo sul nostro presente (Madanes, 1992)

La rappresentazione delle memorie è influenzata dagli stati danimo attuali e a sua volta poi li influenza.

Ci si può costruire una galleria immaginaria con quadri ognuno con una immagine importante del passato. Oltre le immagini che ci provocano sofferenza dovremo cercare di trovarne almeno una che ci provochi anche una sensazioen positiva. Anche nelel esperienze più tristi si può trovare, osservando bene, negli antecedenti, o magari nelle reazioni successive, qualcosa di bello o di piacevole.  Questa immagine sarà ciò che dovremo mettere in risalto nel quadro di quel ricordo, in modo che riguardandolo, ci dia prima del bruggo qualcosa, anche un minimo, di bello.

In tal modo si costruisce nella nostra mente una sorta di galleria di nostre opere pittoriche, contenenti ricordi piacevoli e non, ma ognuna con una immagine che provoca un immediato senso di piacevolezza; grazie a tale processo di autoinganno noi possiamo trasformare, orientandolo verso esiti positivi, leffetto delle memorie sul nostro stato danimo presente.

Poniamo ad es. il caso che io abbia nel mio passato una serie di sorie amorose, ognuna con una sua particoalre dinamica tra le quali qualcuna che mi ha lasciato lamaro in bocca. Io posso costruire la mia galleria di quadri dei ricordi con un quadro per ognuna di queste storie, incorniciando per ognuna di esse limmagine più bella che ne è rimasta nella mia memoria.  In questo modo, sarà nostalgico ma piacevole di tanto in tanto, magari quando si è soli, andare a visitare la propria galleria di ricordi, che, rimandandoci sensazioni piacevoli, associate a quelle belle immagini da noi stessi precedentemente selezionate, influenzerà positivamente il nostro umore presente, ma anche il ricordo di quelle persone. Nardone confessa che questo è uno degli autoinganni terapeutici di cui ha fatto più largo uso.

 

Il “sano egoismo”

 Noi tendiamo ad associare qualunque comportamento egoista a un vantaggio proprio che rende inevitabile il danno altrui.

Questa concezione ci fa ritenere cattive persone nel momento in cui perseguiamo egoisticamente uno scopo. A causa di tale convinzione, si tende ad incremenare la frequenza di atteggiamenti e comportamenti di tipo altruista. Tuttavia da un punto di vista strettamente logico, laltruista è un tipo perverso di egoista, che gioisce nel dare agli altri ma comunque gioisce lui. Inoltre, anche quando il comportamento altruista è quello del sacrificio, costoso per lindividuo, leffetto di quessto non appare così meraviglioso come il tradizionale moralismo vorrebbe indicare. Laltruista ha bisogno di egoisti, persone che si abituano a ricevere senza dare e quindi non sviluppano il proprio senso di responsabilità. La interazione tra altruisti diviene una insostenibile escalation simmetrica, perché laltruista ha bisogno dellegoista per sopravvivere come tale.

Il migliore esempio è la storia della famiglia italiana iperprotettiva nellultimo decennio, che ha prodotto una realtà giovanile connotata di rilevanti insicurezze e scarso senso di autonomia e responsabilità.

In realtà, se dobbiamo sentirci in colpa quando mettiamo in atto qualcosa di egoistico, dovremmo sentirci ancora più in colpa quando facciamo qualcosa di altruistico.

Il logico norvegese Jon Elster proponendo un calcolo rigorosamente logico-matematico mostra come un comportamento egoista intelligente sia il comportamento sociale più adeguato. Egli afferma infatti che legoista strategico è colui che calcola che, per ottenere i massimi vantaggi nella relazione con gli altri, il comportamento più efficace è quello di cominciare con il dare per ricevere. Egli distribuirà il suo dare in piccole porzioni a più persone; quello che gli tornerà indietro da queste persone, nella sua sommatoria, sarà sempre maggiore di quanto lui ha dato. Tale meccanismo può essere utilizzato anche dagli altri, poiché il comportamento  tra egoisti di questo tipo è complementare, ossia ci si mantiene a vicenda.

E quindi preferibile trasformare lautoinganno del sentirsi a posto con se stessi basato sullevitamento di comportamenti egoisti, in un autoinganno basato sul prescriversi il sano egoismo. Questo ci libera da quella nostra tendenza a volere fare troppo del bene alle nostre persone care, rendendole noi stessi persone incapaci di costruire relazioni sne e funzionali, con se stessi e con gli altri. Tale nuova assunzione e incilnazione, inoltre, ci emancipa dal senso di colpa del fare qualcosa solo per noi stessi, poiché da questa prospettiva, far star bene noi corrisponde poi a far stare meglio le persone intorno a noi.

 

Prescriversi la fragilità

Esiste la opinione diffusa che la fragilità o la cedevoleza siano sempre negative. E opinione inattendibile, e comunque, ogni virtù, orientata in un certo modo può diventare un difetto, e ogni difetto, riorientato diversamente, può diventare una virtù.

Negare i nostri limiti e cedevolezze ce li fa ignorare col risultato che in determinate situazioni ci travolgono. Chi invece accetta e si perscrive le proprie fragilità riduce o annulla i loro esiti negativi. Coloro che praticano attività estreme accettano e utilizzano la loro paura come risorsa. Addirittura i brividi divengono una sorta di piacere.

Occorre praticare lautoinganno della prescrizione paradossale ingiunta a se stessi non solo di lasciare esprimere la propria debolezza, ma di prescriversela. Se io rendo volontario qualcosa che mi verrebbe spontaneo, ne inibisco la irrefrenabilità, e in questo caso, di conseguenza, ne riduco la portata disfunzionale.

Una persona che dichiara serenamente in date circostanze la sua fragilità agli altri, non solo non appare fragile, ma decisamente forte. Poiché è necessario molto più coraggio e forza per dichiarare la propria debolezza che per celarla.

Per riassumere, lautoinganno terapeutico sta nellindursi la convinzione che le proprie fragilità, nel momento in cui ce le prescriviamo, si rovesciano su se stesse, divenendo risorse, mentre, se cerchiamo di reprimerle o di arginarle, ci travolgono. Tale assunzione autoindotta conduce inoltre, a evitare di evitare le situazioni temute, a sforzarci di non sforzarci nel controllo dei nostri impulsi, e a comportarci come se fossimo in grado di superare i nostri limiti, in modo tale da riorientare  una spirale di atteggiamenti e comportamenti disfunzionali in una spirale inversamente positiva; si trasforma così un circolo vizioso in un circolo virtuoso.

 

Epilogo

La verità è cosa sfuggente, e il paradosso è che il contrario della verità è ugualmente vero (Hesse).

Il processo secondo cui un individuo crea a se stesso trappole con la propria ragione, se usato in un senso, può funzionare in un altro.

Ognuno di noi vive di inevitabili autoinganni; ciò che fa la differenza sta in quale direzione questi siano orienati. La terapia consiste nel condurre il soggetto a costruirsi gli autoinganni a lui più funzioanli; sarebbe un guidare la persona a nuove scoperte di sé, ma la vera scoperta non sta nel vedere nuovi mondi, ma nel cambiare occhi (Proust). Tutto ciò può essere rapidamente ottenuto se si insegna alle persone non cosa e perché pensare, ma come osservare e come agire.