OGNI RIFERIMENTO E' PURAMENTE CASUALE |
Potrei dire che la mia confessione fu quantomeno insolita. Di
sicuro non diretta, o non proprio spontanea, ecco. La mia coscienza si esercitò
in una sorta di complesso gioco di sponde che progressivamente mi portò a
rivelare la verità agli inquirenti.
Questo semplificando quanto mi spiegava il dottor
Franceschini, lo psicologo del penitenziario con cui ho il colloquio
settimanale. Tuttora non ho le idee molto chiare sui fatti, anche se ne sono
direttamente responsabile: so soltanto che la notte inevitabilmente arrivava e
che il buio mi entrava dentro, come fosse un liquido nero, un caffè avvelenato,
e io una spugna.
Nessuno sospettava di me, neppure mia moglie, e questo mi
conferiva una strana euforia. Mi sentivo come fossi l'unico abitante del mondo,
libero di fare tutto quello che gli passa per la testa senza correre alcun
rischio. Proprio per questo mi esposi troppo. Soltanto la visita inaspettata
del commissario Cardarelli cominciò a spezzare il mio equilibrio e le mie
certezza, e la sua presenza cadde nella mia vita come un sasso sulla superficie
piatta di un lago dalla profondità insondabile.
Mi spiegò che aveva ricevuto una segnalazione da Andrea
Pinketts, uno degli scrittori membri della giuria del concorso di scrittura
noir a cui avevo inviato un racconto. Quella era stata la mia provocazione
estrema: raccontare per filo e per segno la mia storia, confidando sul fatto
che nessuno l'avrebbe interpretate come reale, anche se nel racconto c'erano
delle sorprendenti corrispondenze con alcuni fatti di sangue avvenuti nella
periferia di Livorno. Guarda caso, dove vivevo io.
"La stampa locale ne ha parlato fino alla nausea, spiegai
al commissario ostentando una estrema rilassatezza "e non credo che sia
raro che uno scrittore si ispiri a fatti realmente accaduti. Anzi, trovo
davvero assurdo che lei sia stato scomodato per una faccenda del genere".
"Sì, ma vede nel suo racconto ci sono elementi
particolari, troppo precisi per esser delle semplici coincidenze. Insomma cose
che non capiamo come lei faccia a sapere".
"Non credo di sapere nulla di particolare", dissi
sottolineando il mio disappunto con tono feroce. "Tutto ciò che
corrisponde alla realtà l'ho letto sui giornali, ed il resto l'ho inventato.
Insomma, le potrei ripetere la solita noiosa formula: ogni riferimento è
puramente casuale".
Cardarelli mi guardò dritto negli occhi per qualche istante,
quasi volesse leggermi la mente, poi mi domandò se poteva fumare.
Avevo ammazzato prima un barbone e poi una donna, a distanza
di sei mesi uno dall'altra. Non saprei ancora dire perché l'ho fatto o se lo
rifarei, ma di sicuro c'entra la notte. La notte che mi penetrava dentro e mi
cancellava l'anima. Ero convinto di non essere l'unico al mondo a covare certe pulsioni
e quest'idea in qualche modo mi confortava. Mi dicevo che forse certe storie
come quelle dei vampiri o di Dottor Jekyll e Mister Hyde non avrebbero mai
avuto successo se al mondo non ci fossero state persone con al notte dentro,
una notte densa e senza suono, come ce l'avevo io. Dentro.
Tutte le sere tornando dal lavoro passavo davanti al parco. I
fari della mia auto inondavano di luce una panchina su cui dormiva un barbone,
coperto da cartoni e stracci. Era sempre lì, tutte le sere. Disarmato, indifeso,
solo e senza un nome. A volte speravo che sparisse, così da spezzare la
certezza che la sua vita potesse incrociare le mie pulsioni. Se solo una sera
fosse andato a dormire altrove forse l'avrei dimenticato. Semplicemente non ci
avrei pensato più. Forse lui sarebbe ancora vivo, e io ancora innocente.
Una sera, per salvare me e lui, decisi di fare un'altra strada
e raggiunsi il mare. Telefonai a mia moglie e le raccontai una scusa per
giustificare il ritardo con cui sarei tornato a casa. Rimasi a lungo sulla spiaggia
a guardare l'orizzonte, a cercare qualcosa di me stesso lì dove il mare e il
cielo si toccano. Ma poi la notte inevitabilmente arrivò, e si allargò come una
macchia d'inchiostro sul tessuto, fino a sporcare quello straccio che portavo
al posto del cuore. Uno straccio ficcato nella bocca del mio cuore fino a togliergli
il respiro. Diventò nero il cielo, e nero il mare, e neri i miei pensieri.
Neppure più l'acqua poteva restituirmi purezza, ora che era impregnata di
notte: un petrolio pesante, una pece che batteva potente sulla spiaggia
cancellando inevitabilmente ogni segno, ogni impronta dei miei passi, che
indietreggiavano veloci verso qualche luce. Le luci in fila sulla strada.
Montai in macchina e tornai in città. Il barbone era sempre
là, e il parco deserto, costeggiato da una fila di lampioni fulminati. C'erano
solo le luci della mia auto contro una notte immensa.
"La cosa strana", spiegò Cardarelli accendendo la
sigaretta e strizzando un po' gli occhi "è che i due casi non sono assolutamente
in relazione tra loro. O meglio, non lo erano. Nessuno dei giornali ha mai
suggerito una simile possibilità. E mi riferisco in particolare alla storia
della catenina del barbone".
"Vuole dire la catenina… che l'assassino del mio racconto
mette nella tasca della seconda vittima?".
"Sì, esatto. E' stato proprio il suo racconto ad aprire
questa chiave di lettura. Vede, nessuno degli inquirenti aveva mai immaginato
una simile relazione. Due omicidi compiuti con modalità completamente diverse,
in luoghi così distanti… Però poi in effetti la catenina d'oro era tra i
reperti e l'abbiamo data subito alla Scientifica. Stiamo aspettando i
risultati".
"Le ripeto, una semplice coincidenza" sentenziai.
"Una semplice coincidenza dice? Si rende conto che se su
quella catenina troviamo una qualche traccia del clochard lei è il primo
sospettato?"
Mia moglie scoppiò in lacrime e lasciò cadere il vassoio. Mi
alzai e le misi una mano sulla spalla,
ma lei continuava a piangere e a strofinare nervosamente la macchia sulla gonna
impregnata di caffè. Abbracciandola le sussurrai di stare tranquilla, ma
cercava di liberarsi dalla mia presa quasi fossi diventato improvvisamente un
estraneo.
"Le ripeto che è una semplice coincidenza", dissi al
commissario. "Non troverete alcuna traccia del barbone. Il mio era solo un
racconto. Sono innocente e non ho nulla da temere. Stai tranquilla cara".
Cardarelli schiacciò la sigaretta nel posacenere e si alzò,
eclissando con la sua grossa stazza la luce della lampada.
"Signori Melotti, devo chiederle di restare a
disposizione".
"D'accordo", sospirai. "D'accordo".
Trascorsi una notte insonne. Mi resi conto di avere sfidato la
sorte in modo troppo sfacciato, come quando da ragazzo camminavo sui muri
sottili che circondavano il collegio, e i miei compagni stavano tutti lì a
guardarmi con la bocca aperta. Mi chiamavano Melotti l'equilibrista. Non cadevo
mai, e anche stavolta ero certo di non cadere. Melotti l'equilibrista, già.
Avevo addirittura evitato di entrare nelle chiese per il timore che mi venisse
voglia di confessare, o che mi assalisse qualche tipo di pentimento. Invece a
fregarmi fu la pagina di una rivista nella sala di attesa del medico di
famiglia, che appunto annunciava un concorso di scrittura noir.
Che sfida! pensai. Ero come quei giocatori d'azzardo
compulsivi che per un motivo o per l'altro si ritrovano davanti a un casinò, o
a una qualunque slot machine. Tornato a casa cominciai subito a scrivere di
getto, a raccontare i dettagli di quei delitti. E raccontandoli sentivo in
corpo la stessa adrenalina che avevo provato
nel compierli. Certo, non proprio la stessa cosa. Ma ora tutta
quell'euforia si era disciolta, lasciandomi invischiato nel terrore più
concreto di essere scoperto. Franceschini, lo psicologo, sostiene che io volevo
essere scoperto, lo volevo con tutto il cuore, anche se non me ne rendevo
conto. Sinceramente a questo non ci credo ancora molto.
Dopo la vista del commissario mi spacciai per malato e
l'indomani non andai al lavoro. Mia moglie era uscita presto, e anche lei non
aveva chiuso occhio, anche se con lunghi discorsi ero riuscito a recuperare un
po' della sua fiducia. Le ripetevo di stare tranquilla. Cominciai però ad
annaspare nel tentativo di ripercorrere le mie mosse per verificare che non vi
fossero elementi in grado di incastrarmi. Volevo esser certo di non aver
lasciato alcuna traccia.
Telefonai anche alla segreteria del premio letterario. La
tizia con cui parlai non voleva darmi il numero di Pinketts. Poi gliela misi
sul piano che era una questione di vita o di morte, così ottenni finalmente un
numero di cellulare.
Pinketts era evidentemente sorpreso della mia telefonata, e mi
chiedeva in continuazione da chi avessi avuto il suo numero di telefono, prima
ancora di ascoltare quello che avevo da dirgli.
"Signor Pinketts, stia a sentire per favore. Le rubo solo
due minuti. Volevo solo sapere perché si è messo in testa questa idea assurda!
Lo sa che ho ricevuto visite dal commissario Cardarelli?"
"Non so cosa dirle" ripeteva lui, "non è una
faccenda che mi compete".
"Come sarebbe a dire? Scusi, ma è stato lei ad alzare
questo polverone! E ora dice che non le compete? Mi spiega piuttosto cosa le ha
fatto sorgere sospetti su di me? Cosa ho scritto di tanto strano?"
"Vede signor Miletti…"
"Melotti…"
"Sì, scusi, signor Melotti. Guardi , non si offenda, ma
il suo racconto è scritto davvero male. Non lo dico solo io, ma anche gli altri
colleghi della giuria. Io non la conosco, ma leggendo il suo racconto ho
dedotto che lei non scrive mai, o quasi mai… Mi creda, è imbarazzante per me
dire questo e lo faccio solo per la circostanza. Comunque sì, forse è il primo
racconto che lei abbia mai scritto in vita sua questo, o sbaglio?"
"Sì, è vero. Verissimo, e non mi offendo, ci mancherebbe,
ma tutto questo che c'entra? Basta scrivere male per essere sospettati di
omicidio?"
"Non proprio. E' che la storia che lei racconta è troppo
perfetta. Troppi dettagli, troppa precisione, troppa… plausibilità. Sì, troppa
plausibilità per uno che non scrive mai. Inoltre c'erano delle relazioni forti
con alcuni fatti di cronaca che avevo seguito con un certo interesse. Sì,
questo mi ha fatto sorgere alcuni dubbi. Così ne ho parlato al commissario, che
è un mio caro amico… Tutto qua".
"E non c'è altro?"
"Direi di no".
Tirai un sospiro di sollievo, avendo l'impressione di aver
ripreso il controllo della situazione. Pinketts in fondo non aveva scoperto
indizi diversi da quelli che immaginavo. Nulla di cui preoccuparmi: i suoi
erano solo vaghi sospetti.
Tuttavia ero ormai posseduto dall'ossessione di ricostruire
tutte le fasi degli omicidi, passo dopo passo, azione dopo azione.
Sulla panchina del barbone adesso c'era una giovane coppia di
innamorati. Cessarono di baciarsi e mi guardarono. Solo in quel momento mi resi
conto che li stavo fissando. Ma non stavo guardando loro. Guardavo l'invisibile
sangue su cui erano seduti, il sangue che sporcava la pavimentazione e su cui
giaceva il vecchio col cranio fracassato. Avevo usato una mazza da baseball che
da ani tenevo nel portabagagli, probabilmente messa l' da un destino che aveva
costruito pazientemente i miei giorni
senza lasciare nulla al caso. Picchiai forte, e certi colpi presero il ferro
della panchina producendo una serie di schegge mischiate al sangue. Alcune me
le ritrovai nella camicia, appena appena infilate nella mia pelle come zecche
del diavolo.
Ricostruendo le scene degli omicidi avevo la stessa impressione
che provo quando tento di ricordare un sogno: più i giorni passavano più ero
incerto dei miei ricordi. L'ansia era ormai una serpe insinuata in ogni momento
delle mie giornate. Provavo la sensazione di aver conservato un oggetto anche
della donna, ma non riuscivo a ricordare bene cosa fosse, né se davvero l'avevo
conservato. Questo mi fece star male al punto di vomitare. Era difficile
ricordare. C'era un evidente cortocircuito nella mia memoria. Rilessi il
racconto più volte nella speranza che mi aiutasse a ricordare qualcosa. Ma
scrivere era stato un errore madornale, non solo perché ormai avevo attirato i
sospetti su di me, ma anche perché scrivendo avevo circoscritto marcatamente i
miei ricordi, e adesso era davvero difficile ricordare tutto ciò che non avevo
riportato sui fogli dattiloscritti. Difficile stabilire cosa era davvero
accaduto e cosa no.
Rovistai nell'auto e in ogni angolo dell'appartamento. Mia
moglie tornando a casa trovò un disordine pazzesco, pari solo a quello che
potrebbero generare un paio di ladri senza scrupoli in cerca del bottino.
Allora lei scoppiò a piangere e gridava che non mi riconosceva più, che le
nascondevo qualcosa, che forse io avevo davvero fatto qualcosa di terribile.
Non mi preoccupai nemmeno più di consolarla, perché ero seduto sul letto con
una cartellina in mano e tutto il peso del mondo sulle spalle. Nella cartellina
c'erano ritagli di giornale relativi agli omicidi che avevo commesso. Ma non
solo quelli. Ce n'erano molti altri di cui non sapevo nulla. Perché avevo
conservato altri articoli? Non ricordavo neppure di averlo fatto.
La donna era piuttosto giovane. Bionda. L'avevo incontrata
sulla spiaggia, proprio quando cominciava a fare buio. Forse anche lei, come
me, era lì per dimenticare qualcosa. Rimase distante a lungo, standosene per i
fatti suoi, poi si avvicinò per chiedermi se avevo da accendere.
"Vado a prendere l'accendino in macchina", dissi.
E andai davvero a prendere l'accendino. Ma nel momento in cui
salii in macchina fui di nuovo assalito da quella strana euforia. Vidi la
sagoma di quella donna che a fatica emergeva dal buio e si innescarono in me
delle pulsioni incontenibili. L'istinto mi portò a cercare la mazza da
baseball, quasi fosse l'unico strumento in grado di esprimere la pesante
aggressività che mi esplodeva dentro, però me ne ero liberato da tempo e nel
portabagagli trovai solo un cacciavite.
Appena la donna aspirò la sigaretta, la colpii all'addome.
Una, due, tre volte. Sentii il sangue caldo sulla mia mano. La sua bocca e i
suoi occhi si aprirono come voragini, e compresi che il suo stupore era più
grande del dolore. Provò a correre, ma cadde presto senza più forze. Qualche
grido soffocato. Poi la sabbia assorbì il suo sangue, il suo terrore, la sua
vita. La notte nascose il suo corpo, perché quel corpo era per lei.
Il commissario Cardarelli tornò accompagnato da due agenti. Mi
guardò con far minaccioso e mostrandomi una catenina d'oro disse: "Signor
Melotti, non ci sono più dubbi. Su questa catenina sono state trovate
addirittura le sue impronte".
Immaginai che si trattasse di un trucco, e per poco non mi
venne da ridere. Non avevo mai visto quella catenina, e pensai che il
commissario volesse indurmi appunto a dire he non era quella la catenina del barbone.
Evidentemente voleva farmi cadere in un tranello. Allora con
fermezza dichiarai: "Non ho mai visto quella catenina, e comunque è
impossibile che ci siano le mia impronte!"
"Mi spiace Melotti, il gioco è finito. La dichiaro in
arresto".
"Ma quale arresto!" obiettai. "Quella sarebbe
la famosa catenina che apparteneva al barbone?"
"No, Melotti. Su quella non abbiamo trovato nulla.
Proprio nulla".
Rimasi allora davvero spiazzato, e muto.
"Probabilmente con la prima vittima aveva ancora la
giusta lucidità per non lasciare tracce", spiego il commissario. "No,
questa catenina apparteneva alla donna, e lei l'ha lasciata nella bocca della
bambina".
La bambina, la bambina, la bambina, la bambina, la bambina, la
bambina, la bambina, la bambina, la bambina, la bambina, la bambina, la
bambina, la bambina, la bambina, la bambina, la bambina, la bambina, la
bambina…
"Come mai non ha raccontato nulla della bambina?"
Non dissi nulla, ma caddi in ginocchio, sotto lo sguardo
severo di mia moglie, e di tutti quelli che mi circondavano. Mia moglie non
piangeva più. Già non facevo più parte della sua vita.
"Allora, non risponde? Perché non ha parlato della
bambina? Le fa troppo male ricordare quello scempio?"
Qualcosa si sgretolò. Uno spacco lungo e diagonale fece
crollare una specie di diga, e quando cominciai a piangere ero convinto che le
lacrime mi stessero sporcando, come se piangessi inchiostro nero, il nero
liquido di tutte le notti che mi avevano invaso l'anima. Allora ricordai bene
le grida di quella creatura e la prima volta che mi guardai dall'esterno, e fu
anche la prima volta che ebbi paura. Paura di me stesso. Lei gridava, gridava,
le ripetevo di stare zitta, la schiaffeggiavo, ma lei gridava e allora le avevo
ficcato in gola quella catenina d'oro e uno straccio. Tutto senza più
riflettere, senza più fare i conti con
il rischio di essere scoperto. L'unica cosa che mi interessava era non sentire
più quelle grida, e così le soffocai, per sempre. Poi fu solo silenzio.
Scappai, montai in macchina e mi lasciai ingoiare dalla notte.
La notte che era diventata mia madre, che era diventata lo scrigno dei miei
tormenti più segreti, che ormai sapeva di avermi in pugno; la notte che
d'improvviso mi cullò e mi liberò la memoria da ogni dolore, donandomi una
parvenza di vita che anche nei luminosi giorni di sole non mi lasciava più
alcun accesso alla luce.