MAGIA |
Eravamo un gruppo di ragazzi e ragazze che, quando scendeva la
sera, in Finlandia, durante la rivoluzione del 1918, si divertivano a fare
sedute spiritiche. Abitavamo in mezzo alla foresta ed era inverno: laggiù,
l'estate dura soltanto tre mesi. Ora, appena calava il crepuscolo, i sentieri
della foresta diventavano pericolosi: i ribelli fuggitivi si nascondevano
dietro gli alberi, nei borri pieni di neve, e i soldati dell'esercito nemico li
inseguivano, braccandoli implacabilmente tra i boschi cedui. Si sparava, e se
una pallottola vagante avesse preso un viaggiatore russo che si era rifugiato
in quel Paese, lontano dalla sua, di rivoluzione… be'! noi non avevamo un
console che potesse difenderci o avvisare la nostra famiglia di un decesso prematuro.
In quel villaggio, formavamo una piccola colonia russa che
viveva, alla meno peggio, in una vecchia casa di legno, una pensione a
conduzione familiare, decrepita, fatiscente, fatta di ampie stanze nere e
grandi saloni vuoti. Una di queste stanze era stata riservata alla gioventù; i
nostri genitori giocavano a bridge o a whist nelle stanze vicine.
L'elettricità era stata tagliata dal mese di novembre; ci
venivano concesse sei candele ogni sera: quattro illuminavano i tavoli dei
giocatori, due il nostro. Immaginate una stanza immensa, con il soffitto basso,
le finestre a bovindo, senza tende né imposte, con i vetri coperti di ghiaccio;
c'era un pianoforte in un angolo, sotto una fodera di panno grigio, uno
specchio al muro in una grande cornice di legno, un armadio dove tomi
scompagnati di Balzac convivevano con vasetti di marmellata, ahimé, per lo più
vuoti, e, infine, al centro della stanza, un tavolino tondo.
Ci sedevamo tutti intorno a quel tavolo, con le due candele
conficcate nelle bottiglie. Come descrivere il silenzio di quelle notti del
Nord, senza un alito di vento, senza un cigolio di ruote, senza un grido di
gioia su una strada, senza un richiamo, senza una risata? A volte, soltanto il
secco e leggero schiocco di uno sparo nella foresta o i pianti di una bimbo che
si era svegliato nelle stanze in alto. Allora, si sentiva la madre gettare le
carte e correre verso la scala, e il rumore del suo abito lungo si perdeva nei
corridoi. Erano interminabili, ghiacciati, sinistri, quei corridoi. Di solito,
facevamo in modo di salire in camera nostra tutti insieme, tutti in una volta;
li attraversavamo in gruppo, ridendo, cantando, con il cuore stretto dal
terrore.
Non so se lo stato nervoso in cui ci trovavamo ne fosse la
causa, o se fu l'opera di qualche spiritoso, ma non vidi mai il tavolo più
leggero impennarsi più facilmente sotto le nostre mani, scagliato da una parete
all'altra, beccheggiare come una barca sotto un vento di tempesta, e fare
infine un tale baccano che i nostri genitori venivano a supplicarci di
divertirci in qualche altro modo. Dicevano che gli urti di quel maledetto
tavolo e il rumore dei colpi di fucile erano veramente più di quanto potessero
sopportare e che la vecchiaia meritava dei riguardi.
Dopo un po' di tempo, avevamo dunque modificato e perfezionato
il nostro metodo. Ecco come procedevamo: scrivevamo l'alfabeto su un foglio di
carta; mettevamo al centro un piattino rovesciato, segnato con un tratto di
matita; appoggiavamo molto leggermente la punta delle dita sul bordo di quel
piattino e lui andava da una lettera all'altra, formando parole e frasi a una
velocità prodigiosa.
Nessuno di noi – perché avevamo tra i quindici e i vent'anni,
l'età dello scetticismo –, nessuno credeva a una manifestazione sovrannaturale,
tuttavia pensavamo giustamente che l'oscurità, il silenzio, e senza dubbio
anche il pericolo, al quale cominciavamo a fare l'abitudine, ma che, da mesi,
ci teneva in sospeso, pensavamo che bastasse tutto questo a mettere in opera le
forze inconsce delle nostre anime e che ci permettesse di percepire in modo più
forte e sofisticato del normale i nostri desideri, le nostre inclinazioni
segrete, i nostri sogni. Infatti, come potete immaginare, non si trattava
d'altro che d'amore, e, instancabilmente, il piattino magico svelava,
commentava, precisava le nostre speranze e i nostri piaceri.
Ora, quella sera era il 6 gennaio. In Russia, è la notte in
cui le ragazze escono sulla soglia di casa e chiedono ai passanti il loro nome,
e quel nome è lo stesso del loro fidanzato ancora sconosciuto. Altre buttano
cera bollente nell'acqua fredda e cercano di indovinare, dalla forma che
prenderà solidificandosi di colpo, quale sarà il loro destino. Dall'acqua a
volte, vengono tirate fuori immagini grossolane di croci, anelli o corone.
Certo, ci sono altri giochi, ma a tutti preferivamo quello che ci intratteneva
già da tante sere in quel salone gelato.
Fu allora che uno di noi – lo chiameremo Sacha –, che era un
ragazzo di vent'anni, domandò: "Spirito, dimmi il nome della donna del mio
destino".
Sacha faceva la corte ad una ragazza bionda e robusta che si
chiamava Nina. Dunque, pensavamo tutti che lo spirito, docilmente, avrebbe
scritto quel nome, ma il piattino girò velocissimo sotto le nostre dita e
leggemmo: Doris.
Quel nome, molto comune in inglese, non esiste in russo.
Nina disse con un certo nervosismo: "E' uno scherzo? Vi
ho sentito ridere".
Indicava me, e anche la mia vicina. Noi difendemmo la nostra
buona fede.
"Ricominciamo. Che lo spirito ripeta il nome!".
"D.O.R.I.S.", lesse Sacha a voce bassa.
"Il cognome", reclamammo noi.
Il piattino ci diede le leggere: "W.I.L.L.I.A.M.S.".
Nina esclamò, alzando le spalle: "Avete scelto questo
nome in un romanzo inglese! Che stupidaggine! E' uno scherzo,
confessatelo…!".
Nulla riuscì a farla ricredere. Spinse violentemente via la
sedia.
"Che scemenza! Inventatevi qualcos'altro! Che
facciamo?".
Io proposi, molto timidamente, poiché ero la più piccola e
solo tollerata tra di loro: "Gli specchi?".
Questo è sempre un gioco tipico per la sera del 6 gennaio.
Resti solo, in una stanza buia. Metti due candele davanti a un grande specchio
e due specchi più piccoli, uno a destra l'altro a sinistra della tua faccia.
Aspetti. Aspetti che suoni la mezzanotte. Le fiamme delle candele formano un
lungo percorso sinuoso e fosco nello specchio. Dopo un po', smetti di scorgere
il tuo volto, pallido e impaziente. Dal fondo dello specchio spuntano delle
ombre e gli attribuisci la forma dei tuoi sogni.
Così facemmo. Ognuno di noi, a turno, restò solo davanti alla
sua immagine; gli altri aspettavano nell'oscurità del corridoio, accalcandosi
alla porta e raccontando a voce bassa storie di fantasmi, per alzare ancora di
più, se possibile, il tono della serata.
Quando toccò a Sacha uscire dalla stanza, aveva un'aria
interdetta e sgomenta. Disse: "Ve lo giuro, non vi sto prendendo in giro,
ma ho visto l'immagine di una donna. Sorrideva. Indossava un cappellino nero
con delle rose e faceva il gesto di togliersi un velo o di sollevare una
veletta, non so…".
"L'hai vista in volto?".
"Solo un istante, e poi tutto è scomparso…".
"Era carina, almeno?".
Sembrava così assorto che neanche rispose. Vi lascio
immaginare le punzecchiature che seguirono e che Nina sopportò anche meno
pazientemente di lui.
Poi… passò il tempo. Tanto tempo. Anni. Di quei russi, alcuni
rientrarono nel loro Paese e scomparvero come se fossero stati gettati
nell'acqua. Altri vennero a Parigi, e tra loro Sacha e Nina, che si erano
sposati qualche mese dopo quel 6 gennaio, a Helsinki.
Li vedevano spesso. Non sembravano infelici. E neanche felici,
devo dire. Ma un emigrato russo, preso tra la preoccupazione di trovare lavoro,
i debiti da pagare e la carta di identità da rinnovare, non ha tanto il tempo
per pensare alla sua felicità coniugale. Si vive insieme perché si è cominciato
così, un bel giorno, e gli anni passano poco a poco, alla meno peggio.
Una volta, da amici comuni, incontrai Sacha. La sera, mi
riaccompagnò a casa. Era autunno, e mi disse: "Lo sai? Ho trovato Doris
Williams".
Non dovette darmi altre spiegazioni. Mi ricordai a un tratto,
con una precisione straordinaria, il grande salone buio e spoglio, lo specchio
appeso al muro e quel vecchio tavolino rotondo di abete chiaro…
"Dove?".
"A casa di…".
Mi fece il nome di alcuni russi che conoscevo.
"Sono entrato", disse, "C'era una donna che
indossava un cappello nero con delle rose. Stava prendendo una sigaretta quando
sono entrato, e per accenderla ha sollevato la veletta nera. Ho pensato:
"Dove l'ho vista?". Non riuscivo a ritrovare quel ricordo… Sono
venuto a sapere che era una giornalista inglese, non più giovanissima: doveva
avere una quarantina d'anni. Ci disse che aveva viaggiato molto, e in ognuno
dei Paesi che conosceva avevo soggiornato o ero passato nelle mie peregrinazioni,
durante o dopo la rivoluzione, ma mai nello stesso momento in cui c'era lei. Io
ero in Persia nel 1919, e lei nel 1921. Io ero stato a Bournemouth per otto
giorni, tre anni fa, e lei nell'aprile scorso. Infine, ci siamo mancati per
quarantott'ore a Salisburgo quattro anni fa. Mentre si stava alzando per
andarsene, a un tratto mi ricordai di quella notte in Finlandia, e dissi:
"Lei si chiama Doris Williams, vero?". Parve sorpresa: "Era il
mio nome da ragazza. Sono sposata, ora". Se n'è andata. E io l'ho lasciata
andare".
Doris Williams è un nome molto comune, dissi per consolarlo.
Si sforzò di sorridere.
"Sì, vero?".
"Eppure, dissi, se…".
Rispose, alzando le spalle: "Sono sposato. Ho dei figli.
Al diavolo il destino! Si è pronunciato troppo tardi".
"Be', se davvero è scritto che tu debba appartenere a
questa donna e lei a te, vi ritroverete di nuovo…".
"Dio me ne guardi", mormorò. "La mia vita è già
abbastanza dura e difficile perché possa anche mescolarvi sentimenti o
passioni".
"La rincontrerai", dissi.
E tuttavia, era lui ad aver ragione. Ho letto stamattina che è
stato rinvenuto a Londra, nel suo appartamento, il cadavere di una giovane
donna, giornalista di professione, Doris Williams, che si è data la morte. Si
precisa che aveva delle sofferenze intime, e viveva separata da suo marito. Ci
deve essere stato a un certo punto, nel filo che il destino tesse per noi, un
errore, una maglia mancata.