LO SCIAMANISMO E LE TECNICHE DELL'ESTASI

di Mircea Eliade

 

back to HomePage

 

 

 

 

INDICE

Introduzione alla prima edizione

Introduzione alla seconda edizione

Capitolo 1. Generalità. Metodi di reclutamento. Sciamanismo e vocazione mistica.

Approssimazioni

L'acquisto dei poteri sciamanici

Il reclutamento degli sciamani nella Siberia occidentale e centrale

Il reclutamento fra i Tungusi

Il reclutamento fra i Buriati e gli Altaici

Trasmissione ereditaria e ricerca dei poteri sciamanici

Sciamanismo e psicopatologia

Capitolo 2. Malattie e sogni iniziatici.

Malattie iniziatiche

Estasi e visioni iniziatiche degli sciamani yakuti

Sogni iniziatici degli sciamani samojedi

L'iniziazione presso i Tungusi, i Buriati, ecc.

L'iniziazione dei maghi australiani

Confronti fra Australia, Siberia, America del Sud ecc.

Lo smembramento iniziatico nell'America del Nord e del Sud, in Africa e in Indonesia

Iniziazione degli sciamani eschimesi

La contemplazione del proprio scheletro

Iniziazioni tribali e società segrete

Capitolo 3: L'acquisto dei poteri sciamanici

Miti siberiani sull'origine degli sciamani

L'elezione sciamanica presso i Goldi e gli Yakuti

L'elezione presso i Buriati e i Teleuti

Le donne-spiriti protettrici dello sciamano

La parte delle anime dei morti

"Vedere gli spiriti"

Gli spiriti ausiliari

"Linguaggio segreto". "Lingua degli animali"

La ricerca dei poteri sciamanici nell'America Settentrionale

Capitolo 4: L'iniziazione sciamanica

L'iniziazione presso i Tungusi e i Manciù

L'iniziazione degli Yakuti, dei Samoiedi e degli Ostiachi

L'iniziazione presso i buriati

Iniziazione dello sciamano araucano

L'ascesa rituale degli alberi

Il viaggio celeste dello sciamano caribe

Ascesa mediante l'arcobaleno

Iniziazioni austrialiane

Altre forme del rito di ascensione

Capitolo 5: Il simbolismo del costume e del tamburo sciamanico

Note preliminari

Il costume siberiano

Il costume buriate

Il costume altaico

Gli specchi e i berretti sciamanici

Simbolismo ornitologico

Il simbolismo dello scheletro

Rinascere dalle proprie ossa

Le maschere sciamaniche

Il tamburo sciamanico

Costumi rituali e tamburi magici attraverso il mondo

Capitolo 6: Lo sciamanismo nell'Asia centrale e settentrionale

Le ascensioni celesti - discese agli inferni

Funzioni dello sciamano

"Sciamani bianchi" e "sciamani neri". Mitologie "dualiste"

Sacrificio del cavallo e ascensione dello sciamano in cielo (Altai)

Bai Ulgan e lo sciamano altaico

La discesa agli inferni (Altai)

Lo sciamano psicopompo (Altaici, Goldi, Yuraki)

Capitolo 7: Lo sciamanesimo nell'Asia centrale e settentrionale

Guarigioni magiche -  Lo sciamano psicopompo

Ricerca e richiamo dell'anima (Tartari, Buriati, Kirghisi)

La seduta sciamanica presso gli Ugri e i Lapponi

Sedute presso gli Ostiachi, gli Yuraki e i Samoiedi

Lo sciamanismo fra gli Yakuti e i Dolgani

Sedute sciamaniche presso i Tungusi e gli Orocci

Lo sciamanesimo Yukaghiro

Religione e sciamanismo presso i coriachi

Lo sciamanismo tra i Ciukci

Capitolo 8: Sciamanismo e cosmologia

Le tre zone cosmiche e il pilastro del mondo

La montagna cosmica

L'albero del mondo

I numeri mistici 7 e 9

Sciamanismo e cosmologia nell'area oceanica

Capitolo 9: Lo sciamanismo nell'America del Nord e del Sud

Lo sciamanismo tra gli eschimesi

Sciamanismo nord-americano

La seduta sciamanica

Cura sciamanica presso i Paviotso

Seduta sciamanica presso gli Achumawi

La discesa agli inferni

Le confraternite segrete e lo sciamanismo

Lo sciamanismo sud-americano: rituali vari.

La guarigione sciamanica

Antichità dello sciamanismo nel continente americano

Capitolo 10: Lo sciamanismo nell'Asia sud-orientale e in Oceania

Credenze e tecniche sciamaniche fra i Sakai, i Semang e i Jakun

Sciamanismo nelle isole Andamene e Nicobare

Lo sciamanismo malese

Sciamani e sacerdoti a Sumatra

Sciamanismo nel Borneo e a Celebes

La "barca dei morti" e la barca sciamanica

Viaggi d'oltretomba fra i Daiachi

Sciamanismo melanesiano

Sciamanismo polinesiano

Capitolo 11: Ideologie e tecniche sciamaniche tra gli indoeuropei

Considerazioni preliminari

Tecniche dell'estasi presso gli antichi Germani

Grecia antica

Sciti, Caucasici, Irani

India antica: riti di ascensione

India antica: il "volo magico"

Il Tapas e la Viksha

Tecniche e simbolismi "sciamanici" in India

Lo sciamanismo presso alcune tribù aborigene dell'India

Capitolo 12: Tecniche e simbolismi sciamanici nel Tibet e nell'Estremo Oriente

Buddhismo, Tantrismo, Lamaismo

Pratiche sciamaniche tra i Lolo

Lo sciamanismo tra i Mo-So

Tecniche e simbolismi sciamanici in Cina

Mongolia, Corea, Giappone

Capitolo 13: Miti, simboli e riti paralleli

Il cane e il cavallo

Sciamani e fabbri

Il calore magico

Il "volo magico"

Il ponte e il "passaggio difficile"

La scala - Il cammino dei morti - L'ascensione

Conclusioni

La formazione dello sciamanismo nord-asiatico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Introduzione alla prima edizione

back to index

 

Per quel che ci risulta, la presente è la prima opera che abbraccia la sciamanismo nella sua totalità, pur situandolo nella prospettiva di una storia generale delle religioni; il che dice già del suo margine di imperfezione e di approssimazione e del rischio, che essa affronta. Attualmente si dispone di una quantità considerevole di documenti sui vari sciamanismi: su quello siberiano, nord-americano, 'Sud-americano, indonesico, oceanico e così via. D'altra parte, numerosi lavori, importanti sotto più di un riguardo, hanno iniziato lo studio etnologico, sociologico e psicologico dello sciamanismo (o, per meglio dire, di un certo tipo di sciamanismo). Ma, a prescindere da qualche notevole eccezione (pensiamo soprattutto ai lavori di Harva sullo sciamanismo altaico), l'enorme bibliografia sciamanica ha trascurato una interpretazione di questo fenomeno quanto mai complesso dal punto di vista della storia generale delle religioni. Ora, è appunto in quanto storici delle religioni che noi abbiamo cercato di avvicinarci allo sciamanismo, di comprenderlo e di presentarlo. Non intendiamo affatto sottovalutare ricerche ammirevoli condotte secondo le prospettive della psicologia, della sociologia o dell'etnologia - a nostro parere, esse sono indispensabili per conoscere i diversi aspetti dello sciamanismo. Riteniamo tuttavia che vi sia anche posto per un'altra prospettiva, per quella che abbiamo cercato appunto di lumeggiare nelle pagine che seguiranno.

L'autore che affronta l'esame dello sciamanismo da psicologo sarà indotto a considerarlo anzitutto come l'espressione di una psiche in crisi, se non perfino in regressione; egli non mancherà di confrontarlo con certi comportamenti psichici aberranti o di inserirlo fra le malattie mentali di struttura isteroide o epilettoide.

Diremo perché l'assimilazione dello sciamanismo ad una qualsiasi malattia mentale ci sembra inaccettabile. Ma resta un punto, importante, su cui lo psicologo avrà sempre ragione di richiamare l'attenzione: che la vocazione sciamanica, non dissimilmente da qualsiasi altra vocazione religiosa, si manifesta attraverso una crisi, attraverso una rottura provvisoria dell'equilibrio mentale del futuro sciamano. Tutte le osservazioni e le analisi che si son potute accumulare a tale riguardo sono preziose: esse ci mostrano, in un certo modo sul vivo, le ripercussioni che all'interno della psiche ha ciò che noi abbiamo chiamato la «dialettica delle ierofanie»: la separazione radicale tra profano e sacro e la conseguente frattura del reale. Dal che appare tutta l'importanza che noi volentieri riconosciamo a siffatte ricerche di psicologia religiosa.

Quanto al sociologo, egli si preoccuperà della funzione sociale dello sciamano, del sacerdote, del mago: studierà l'origine dei prodigi magici, la parte che essi hanno nell'articolazione della comunità, i rapporti fra capi religiosi e capi politici e cosi via. L'analisi sociologica dei miti del «Primo Sciamano» fornirà degli indici rivelatori circa la posizione eccezionale che i più antichi sciamani ebbero in certe società primordiali. La sociologia dello sciamanismo deve essere ancora scritta e, quando lo sarà. costituirà uno dei capitoli più  importanti di una sociologia generale della religione. Di tutte coteste ricerche, e dei relativi risultati, lo storico delle religioni non può non tener conto; aggiunte alle condizionalità psicologiche accertate dallo psicologo. Le condizionalità sociologiche, nel senso più  ampio del termine. andranno a rafforzare la concretezza umana e storica dei documenti che devono servire da base al suo lavoro.

Questa concretezza acquisterà ulteriore rilievo grazie alle ricerche dell'etnologo. Sarà compito delle monografie etnologiche inquadrare lo sciamano nel suo ambiente culturale. Si rischia di disconoscere la personalità vera di uno sciamano ciukco, ad esempio, ove se ne leggano le gesta senza nulla sapere della vita e delle tradizioni dei Ciukci. E spetterà di nuovo all'etnologo studiare a fondo il costume e il tamburo sciamanico, descrivere le sedute, registrare i testi e le melodie, e cosi via. Nel suo stabilire la «storia» dell'un elemento costitutivo dello sciamanismo, o dell'altro - del tamburo, ad esempio, o dell'uso di narcotici durante la seduta, ecc. - l'etnologo che, in tale occasione, sarà anche uno storico e saprà stabilire adeguati raffronti, potrà mostrarci il circolare del motivo in quistione nel tempo e nello spazio; nella misura del possibile egli individuerà il suo centro di espansione e, altresì, le tappe e la cronologia della sua diffusione. In una parola, lo stesso etnologo diverrà uno «storico», che egli faccia suo o meno il metodo dei cicli di civiltà di Graebner-Schmidt-Koppers. Peraltro, a parte una meravigliosa letteratura etnografica puramente descrittiva, si dispone attualmente di diversi lavori di etnologia storica; nella immensa «materia grigia» dei fatti culturali appartenenti ai cosiddetti «popoli senza storia» si vedono già disegnarsi certe linee di forza; si comincia a distinguere della «storia» là dove ci si era abituati a vedere dei Naturvolker, dei «primitivi» o dei «selvaggi».

È superfluo mettere in rilievo i grandi servigi che l'etnologia storica ha già resi alla storia delle religioni. Tuttavia noi non crediamo che essa possa sostituirsi a quest'ultima. Il compito della storia delle religioni è infatti di integrare i risultati dell'etnologia non meno di quelli della psicologia e della sociologia: pertanto, essa non rinuncerà al metodo di lavoro suo proprio e alla prospettiva specifica che la definisce. L'etnologia culturale potrà ben stabilire, ad esempio, i rapporti esistenti fra lo sciamanismo e certi cicli culturali, la diffusione di questo o quel complesso sciamanico e via dicendo; ciò non impedisce che non sia affar suo rivelarci il senso profondo di tutti questi fenomeni religiosi, chiarire il loro simbolismo, articolarli nella storia generale delle religioni. In ultima analisi, è allo storico delle religioni che spetta il sintetizzare tutte queste ricerche particolari sullo sciamanismo e di presentare una veduta d'insieme che rappresenti la morfologia e, nel contempo, la storia di questo complesso fenomeno religioso.

Qui però sarà bene intendersi circa l'importanza che, in genere, in quest'ordine di studi, va riconosciuta alla «storia». Come altrove abbiamo già rilevato e come avremo occasione di mostrare ampiamente in un'opera che farà da complemento al nostro Traité d'Histoire des Religions, le condizionalità storiche di un fenomeno religioso, per importanti che siano - perché, in ultima analisi, ogni fatto umano è un fatto storico - non lo esauriscono del tutto. Di ciò, indicheremo un solo esempio: lo sciamano altaico sale ritualmente su di un albero di betulla sul quale è stato fissato un certo numero di pioli: la betulla simboleggia l'Albero del Mondo, i pioli rappresentano i diversi Cieli che lo sciamano deve attraversare nel corso del suo viaggio estatico in Cielo; ed è probabilissimo che lo schema cosmologico insito in un tale rituale sia di origine orientale. Idee religiose del Vicino Oriente antico si sono spinte molto avanti nell' Asia centrale e settentrionale contribuendo a dare allo sciamanismo centro-asiatico e siberiano la sua attuale fisionomia. Ecco un ottimo esempio circa se che la «storia» può farci sapere intorno alla diffusione delle ideologie e delle tecniche religiose. Ma, come abbiamo detto poco fa, la storia di un fenomeno religioso non può non rivelarci tutto ciò che questo fenomeno, già col semplice fatto della sua manifestazione, cerca di mostrarci. Nulla ci autorizza a supporre che le influenze della cosmologia e della religione orientale abbiano creato, fra i popoli altaici, l'ideologia e il rituale dell'ascensione celeste; ideologie e rituali analoghi . affiorano un po' dappertutto nel mondo, e in paesi tali che, delle influenze paleo-orientali possono esser escluse a priori. È invece verosimile che le idee orientali non abbian fatto che modificare la formula rituale e le implicazioni cosmologiche dell'ascensione celeste: la quale sembra essere un fenomeno originario - vogliamo dire, appartenente all'uomo in quanto tale nella sua interezza, e non in quanto essere storico: cosa testimoniata dai sogni di ascese, dalle allucinazioni e dalle imagini ascensionali che s'incontrano dappertutto nel mondo, al di fuori di ogni «condizionalità», o storica, o di altra specie. Tutti questi sogni, questi miti, queste nostalgie aventi per tèma centrale l'ascendere o il volare non si lasciano risolvere mediante una semplice spiegazione psicologica; sussisterà sempre, in essi, un residuo irreducibile alla spiegazione, un non so che di originario che forse ci rivela il vero luogo dell'uomo nel Cosmo, luogo che - noi non ci stancheremo mai di ripeterlo - non è esclusivamente «storico».

Cosi, pur occupandosi dei fatti storico-religiosi, pur avendo cura di organizzare, nella misura del possibile, i documenti nel quadro della prospettiva storica - che è la sola ad assicurare a tali fatti un carattere concreto - lo storico delle religioni non deve dimenticare che i fenomeni con cui ha da fare rivelano, insomma, delle situazioni-limite dell'uomo, e che coteste situazioni vogliono esser comprese, vogliono esser rese intelligibili. Quest'opera di deciframento del senso profondo di fenomeni religiosi appartiene di diritto allo storico delle religioni. Certo, lo psicologo, il sociologo, l'etnologo e persino il filosofo o il teologo potranno dire la loro, ciascuno secondo la prospettiva e il metodo suo proprio. Tuttavia è lo storico delle religioni che fisserà il maggior numero di elementi validi circa il fatto religioso in quanto fatto religioso - e non in quanto fatto psicologico, sociale, etnico, filosofico o perfino teologico. E proprio per ciò lo storico delle religioni si distingue altresì dal fenomenologo, perché questi, per principio, s'interdice ogni lavoro di comparazione, egli si limita ad «avvicinarsi» a questo o quel fenomeno religioso e ad indovinarne il senso, mentre lo storico delle religioni giunge alla comprensione di un fenomeno solo dopo averlo adeguatamente confrontato con migliaia di fenomeni simili o differenti, solo dopo averlo situato fra di essi; e queste migliaia di fenomeni sono separati gli uni dagli altri tanto nello spazio che nel tempo. Per una ragione analoga lo storico delle religioni non si limiterà ad una semplice tipologia o morfologia dei fatti religiosi: certo, egli sa che la «storia» non esaurisce il contenuto di un fatto religioso, ma egli non dimentica nemmeno che è sempre nella Storia - nel senso più vasto del termine - che un fatto religioso si sviluppa in tutti i suoi aspetti e rivela tutti i suoi significati. In altri termini, lo storico delle religioni utilizzerà tutte le manifestazioni storiche di un fenomeno religioso per scoprire ciò che esso «vuol dire»; da un lato, si atterrà alla concretezza storica, ma dall'altro si darà a decifrare ciò che un fatto religioso, attraverso la storia, rivela di superstorico.

Non è il caso di fermarci su simili considerazioni metodologiche; per esporle adeguatamente, occorrerebbe assai più spazio di quel che una prefazione consenta. Bisogna tuttavia rilevare che la parola «storia» crea spesso confusione: essa infatti può significare sia la storiografia (lo scrivere la storia di qualcosa), sia - puramente e semplicemente - «ciò che è accaduto» nel mondo. Ora, questa seconda accezione del termine presenta a sua volta varie sfumature: la storia intesa come ciò che è avvenuto entro dati limiti spaziali o temporali (storia di un dato popolo, storia di una data epoca), quindi la storia di una continuità o di una struttura; ma anche la storia nel senso generale del termine, come nelle espressioni «l'esistenza storica dell'uomo», «situazione storica», «momento storico», ecc. o perfino come nell'accezione esistenzialista del termine: l'uomo è «in una situazione», ossia è nella storia.

La storia delle religioni non è né sempre né necessariamente la storiografia delle religioni: perché quando si scrive la storia di una qualche religione o di un dato fatto religioso (il sacrificio fra i Semiti, il mito di Eracle, ecc.) non si tratta sempre di mostrare tutto quel che «è accaduto» secondo una prospettiva cronologica; certo, questa è cosa che si può anche fare, se i documenti lo consentono, ma non si è tenuti affatto a far della storiografia quando si vuol scrivere una storia delle religioni. La polivalenza del termine «storia» ha propiziato, qui, vari malintesi fra i ricercatori: in realtà, è il senso, ad un tempo generale e filosofico, della «storia» quello che conviene maggiormente alla nostra disciplina. Si fa della storia delle religioni nella misura in cui ci si applica a studiare i fatti religiosi come tali, cioè sul piano della loro specifica manifestazione: questo piano specifico è sempre storico, concreto, esistenziale, anche se i fatti religiosi che vi si manifestano non son sempre, né completamente, riducibili alla storia. A partir dalle ierofanie più elementari - ad esempio, la manifestazione del sacro in un certo albero o in una certa pietra - fino alle più complesse fra di esse (la «visione» di una nuova «forma divina» da parte di un profeta o di un fondatore di religioni), tutto si manifesta in una concretezza storica e tutto è, in un qualche modo, storicamente condizionato. Tuttavia perfino nelle ierofanie più modeste si palesa un «eterno ricominciare», un continuo ritorno ad un istante atemporale, un desiderio di abolire la storia, di cancellare il passato, di ricreare il mondo. I fatti religiosi «mostrano» tutto questo; non è cosa che lo storico delle religioni inventi. Naturalmente, uno storico che non voglia esser nulla di più di uno storico, ha il diritto di ignorare il senso specifico e superstorico di un fatto religioso; un etnologo, un sociologo, uno psicologo possono parimenti trascurarlo. Ma lo storico delle religioni non lo può; al suo occhio, che si è familiarizzato con un numero considerevole di ierofanie, non potrà sfuggire il significato propriamente religioso di questo o quel fatto. E, per tornare al punto preciso da cui siam partiti, con riguardo a ciò la presente opera merita esattissimamente il titolo di storia delle religioni benché non si muova lungo la prospettiva cronologica della storiografia.

Del resto, questa prospettiva cronologica, per interessante che possa pur essere per qualche storico, è lungi dall'avere l'importanza che si è generalmente propensi ad accordarle. Infatti - e noi abbiamo già cercato di mostrarlo nel nostro Traité d'Histoire des Religions - la stessa dialettica del sacro tende a ripetere indefinitamente una serie di archetipi, tanto che una ierofania realizzatasi in un certo «momento storico» spesso si sovrappone, quanto a struttura, ad una ierofania più antica - o più giovane - di un millennio. È in base a questa tendenza del processo ierofanico a riprendere all'infinito una stessa paradossale sacralizzazione della realtà che noi possiamo comprendere un fenomeno religioso e scriverne la «storia». In altri termini, proprio perché le ierofanie si ripetono i fatti religiosi possono venir distinti e si può giungere a intenderli. Senonché il proprio delle ierofanie sta nel fatto che esse cercano di rivelare il sacro nella sua totalità, anche se gli uomini, alla cui coscienza il sacro si «mostra», si appropriano solo di un aspetto o di una modesta particella di esso. Nella ierofania più elementare è già detto tutto: la manifestazione del sacro in una «pietra» o in un «albero» non è meno misteriosa o degna della manifestazione del sacro in un «dio». Il processo di sacralizzazione della realtà è sempre lo stesso: solo la forma assunta da tale processo di sacralizzazione nella coscienza religiosa dell'uomo è, caso per caso, diversa.

Il che non è senza conseguenze per chi volesse considerare la religione secondo una prospettiva cronologica: se esiste una storia delle religioni, essa non è irreversibile come ogni altra storia. Una coscienza religiosa monoteista non è necessariamente monoteista sino al termine della sua esistenza per il fatto del suo partecipare ad una «storia» monoteista, perché, all'interno di cotesta storia, non si può tornare ad essere politeisti o totemisti una volta che si abbia conosciuto il monoteismo e ad esso si abbia aderito. Al contrario, si può esser benissimo politeisti o comportarsi religiosamente da totemisti malgrado il credersi e il pretendere di essere monoteisti. La dialettica del sacro ammette ogni reversibilità: nessuna «forma» esclude una degradazione e una decomposizione, nessuna «storia» è definitiva. Non solo una comunità può praticare - coscientemente o involontariamente - religioni molteplici, ma anche uno stesso individuo può vivere una quantità di esperienze religiose, dalle più «elevate» alle più viete e alle più aberranti.

Ciò è parimenti vero dall'altro punto di vista: in qualsiasi punto di un ciclo culturale può aversi la rivelazione più completa del sacro concepibile per la condizione umana. Malgrado l'enorme differenza storica, le esperienze dei profeti monoteismo possono ripetersi m seno alla più «arretrata» delle tribù primitive: a ciò, basta «realizzare» la ierofania di un dio celeste, dio attestato un po' dappertutto nel mondo anche se presentemente è quasi assente dall'attualità religiosa. Non esiste forma religiosa, per degradata che sia, la quale non possa dar nascita ad una mistica purissima e coereritissima. Se casi del genere non sono sufficientemente numerosi da imporsi all'attenzione degli osservatori, la causa di ciò non è la dialettica del sacro ma sono i comportamenti umani: nel riguardo di questa dialettica. E lo studio dei comportamenti umani va al di là dei compiti dello storico delle religioni: esso interessa il sociologo, lo psicologo, il moralista, il filosofo. Quali storici delle religioni, a noi basterà constatare che la dialettica del sacro permette la reversibilità spontanea di ogni posizione religiosa. Il fatto stesso di queste reversibilità è importante: essa non si verifica altrove. Per questo noi non ci lasciamo troppo suggestionare da certi risultati dell'etnologia storicoculturale: naturalmente i diversi tipi di civiltà sono organicamente collegati a certe forme religiose, ma ciò non esclude affatto la spontaneità e, in ultima analisi, la storicità della vita religiosa. Infatti, in un qualche modo, tutto ciò che è storia è sempre una caduta del sacro, una sua limitazione e diminuzione. Ma il sacro non cessa di manifestarsi, e in ogni sua nuova manifestazione riafferma la sua originaria tendenza a rivelarsi totalmente e perfettamente. È vero che le innumerevoli nuove manifestazioni del sacro ripetono - nella coscienza religiosa dell'una o dell'altra società - altre innumerevoli manifestazioni di esso già conosciute da queste società nel loro passato, nella loro «storia»: ma è parimenti vero che l'esistenza di questa storia non giunge fino a paralizzare la spontaneità delle ierofanie: una rivelazione più completa del sacro resta sempre possibile, in qualsiasi momento.

Ora - e qui noi riprendiamo la discussione circa la visuale cronologica nella storia delle religioni - ora può accadere che la reversibilità delle posizioni religiose si presenti ancor più netta nel campo delle esperienze mistiche delle società primordiali. Come avremo spesso occasione di mostrarlo, esperienze mistiche particolarmente coerenti sono possibili in un qualsiasi grado di civiltà o di situazione religiosa. Ciò equivale a dire che in certe coscienze religiose in crisi è sempre possibile un salto storico che permette loro di raggiungere delle posizioni spirituali altrimenti inaccessibili. Certo, la «storia» - la tradizione religiosa della corrispondente tribù - interviene alla fine, per ricondurre e piegare ai propri canoni le esperienze estatiche di certi privilegiati. Ma non è men vero che queste esperienze hanno spesso lo stesso rigore e la stessa nobiltà delle esperienze dei grandi mistici d'Oriente e d'Occidente.

Ora, lo sciamanismo è proprio una delle tecniche primordiali dell'estasi; esso è, ad un tempo, mistica, magia e «religione» nel senso più lato del termine. Noi ci siamo sforzati di presentarlo nei suoi vari aspetti storici e culturali ed abbiamo anche tentato di tracciare una breve storia della formazione dello sciamanismo dell'Asia centrale e settentrionale. Noi però attribuiamo maggior valore alla presentazione del fenomeno sciamanico in se stesso, all'analisi della sua ideologia, alla discussione delle sue tecniche, del suo simbolismo, delle sue mitologie. Noi riteniamo che un tale lavoro è tale da interessare non solo lo specialista, ma anche l'uomo colto, ed è proprio a questi che, in primo luogo, il libro si rivolge. È lecito pensare, ad esempio, che tutto ciò che di più preciso si potrebbe dire sulla diffusione del tamburo centro-asiatico nelle regioni artiche, se interesserebbe un circolo ristretto di specialisti, lascerebbe piuttosto indifferente un gran numero di lettori; ma le cose stanno altrimenti - almeno ce lo auguriamo _ quando si tratta di penetrare in un universo mentale cosi vasto e mosso quale è quello dello sciamanismo in generale e delle tecniche dell'estasi che esso implica. In questo caso, si ha a che fare con tutto un mondo spirituale che, per quanto cosi diverso dal nostro, non gli è da meno né per coerenza, né per interesse. Noi osiamo sperare che la conoscenza di esso attiri ogni umanista in buona fede; giacché già da qualche tempo si è cessato di identificare l'umanismo con la semplice tradizione culturale occidentale, per grandiosa e feconda che essa sia.

Concepita in questo spirito, la presente opera non esaurirà nessuno degli aspetti trattati nei diversi capitoli. Non abbiamo intrapreso uno studio esaustivo dello sciamanismo: non ne abbiamo avuto né i mezzi, né l'intenzione. È sempre in sede di confronti e quali storici delle religioni che noi abbiamo trattato l'argomento: per cui confessiamo già in partenza le lacune e le imperfezioni inevitabili di un lavoro che, in fondo, vuole essere una sintesi. Non siamo né altaizzanti, né americanisti, né oceanisti, ed è probabile che un certo numero di opere di specialisti ci sia sfuggito.

Non crediamo però che il quadro generale qui tracciato avrebbe potuto esser modificato nelle sue grandi linee per la conoscenza di un più vasto materiale: una quantità di memorie non fa che ripetere, con minime 'varianti, le relazioni dei primi osservatori. La bibliografia di Popov, pubblicata nel 1932, e limitata esclusivamente allo sciamanismo siberiano, registra 650 lavori di etnologi russi. La bibliografia degli sciamanismi nord-americani e indonesici non è meno considerevole. Non si può leggere tutto. E lo ripetiamo: noi non abbiamo la pretesa di sostituirei all'etnologo, all'altaizzante o all'americanista. Però si è sempre avuto cura di indicare in nota i principali lavori ove può esser trovato dell'altro materiale. Certo, si avrebbe potuto moltiplicare la documentazione, però scrivendo più di un volume. Non ne abbiamo vista l'utilità: noi non ci siamo proposti di compilare una serie di monografie sui diversi sciamanismi, bensi uno studio generale destinato ad un pubblico non specializzato. D'altronde, diversi dei soggetti che qui son stati solo accennati ci proponiamo di studiarli più da presso in altre nostre opere (Morte e Iniziazione, Mitologia della Morte, ecc.).

I risultati delle presenti ricerche, in parte, eran stati da noi già esposti negli articoli: Le problème du chamanisme («Revue de l'histoire des religions», t. CXXXI, 1946, pp. 5-52), Shamanism (Forgotten Religions, edited by Vergilius Ferm, Philosophical Library, New York, 1949, pp. 299-308) e Einfürende Betracbtungen über den Schamanismus («Paideuma», V, 1951, pp. 87-97) - e in conferenze che abbiamo avuto l'onore di tenere, nel marzo del 1950, all'Università di Roma e all'Istituto Italiano per il Medio e l'Estremo Oriente dietro invito dei professori R. Pettazzoni e G. Tucci.

Per ragioni tipografiche, la trascrizione dei termini orientali è stata sensibilmente semplificata.

 

MIRCEA ELIADE, Parigi, marzo 1946 - marzo 1951.

 

 

 

 

 

Introduzione alla seconda edizione

back to index

 

Cogliendo l'occasione delle traduzioni italiana (Roma-Milano, 1953), tedesca (Zurigo, 1957) e spagnola (Città del Messico, 1960), abbiamo già cercato di correggere e migliorare questo libro che, nonostante ogni sua imperfezione, era il primo che fosse comparso sullo sciamanismo complessivamente considerato. Ma soprattutto preparando la traduzione inglese (New York-Londra, 1964) abbiamo corretto a fondo e sensibilmente ampliato il testo originale. Nel corso degli ultimi quindici anni son stati pubblicati, sui diversi sciamanismi, lavori in numero considerevole che ci siamo sforzati di utilizzare nel testo o, quanto meno, di segnalare nelle note. Benché si siano registrate più di duecento pubblicazioni nuove (comparse dopo il 1948), non pretendiamo d'aver esaurito la bibliografia recente sullo sciamanismo. Ma questo libro - come già s'è detto - è l'opera d'uno storico delle religioni che affronta l'argomento in termini di comparazione, né può surrogare le monografie che gli specialisti hanno consacrato alle diverse specie di sciamanismo. Abbiamo esaminato le pubblicazioni comparse fino al 1960 nel nostro Recent Works on Shamanism: a Review Artide («History of Religions», I, 1961, pp. 152-186). Altre analisi critiche compariranno ad intervalli irregolari nella stessa rivista.

Teniamo a ringraziare, ancor qui, la Bollingen Foundation; grazie alla borsa di studio che ci ha accordato abbiamo potuto continuare le nostre ricerche sullo sciamanismo dopo la pubblicazione della prima edizione.

Infine, siamo felici di poter qui esprimere tutta la nostra riconoscenza al nostro allievo ed amico Henry Pernet, che si è adoperato a rivedere e migliorare il testo di questa seconda edizione e si è incaricato della correzione delle bozze.

 

MIRCEA ELIADE, Università di Chicago, marzo 1967

 

 

 

 

 

Capitolo 1. Generalità. Metodi di reclutamento. Sciamanismo e vocazione mistica.

 

 

Approssimazioni

back to index

 

A partir dall'inizio del secolo gli etnologi hanno preso il vezzo di usare indifferentemente i termini sciamano, medicine-man, stregone o mago per designare certi individui dotati di prestigio magico-religioso conosciuti da ogni società «primitiva». Per estensione, la stessa terminologia è stata usata nello studio della storia religiosa dei popoli «civilizzati», e si è parlato, ad esempio, di uno sciamanismo indù, iranico, germanico, cinese e perfino babilonese, riferendosi agli elementi «primitivi» presenti nelle corrispondenti religioni. Per molte ragioni, cotesta confusione può solo nuocere alla comprensione dello stesso fenomeno sciamanico. Se col termine «sciamano» s'intende ogni mago, stregone, medicine-man o estatico che s'incontra nel corso della storia delle religioni e dell'etnologia religiosa, il risultato sarà una nozione estremamente complessa e, ad un tempo, imprecisa, di cui non si vede l'utilità: ciò, anche perché si dispone già dei termini «mago» o «stregone» per esprimere nozioni abbastanza distinte, se pure approssimative, quali quelle di «magia» o «mistica primitiva».

Noi riteniamo che giovi limitare l'uso dei vocaboli «sciamano» e «sciamanismo» proprio per evitare gli equivoci e per veder più chiaro nella stessa storia della «magia» e della «stregoneria». Certo, lo sciamano è anche lui un mago e un medicine-man; si ritiene che egli possa guarire, come tutti i medici, e operare dei miracoli fachirici, come tutti i maghi primitivi o moderni. Ma, in più, egli è psicopompo e fors'anche sacerdote, mistico e poeta. Nella massa grigia e «confusionista» della vita magico-religiosa delle società primordiali considerate nel loro insieme lo sciamanismo, preso nel suo significato stretto ed esatto, presenta già una struttura propria e tradisce una sua «storia» che vale precisare.

Lo sciamanismo stricto sensu è, per eccellenza, un fenomeno religioso siberiano e centro-asiatico. Attraverso il russo, il termine deriva dalla parola tungusa shaman. In altre lingue del centro e del nord dell'Asia i termini corrispondenti sono: lo yakuta ojun, il mongolo buga, boga (buge, bu) e udagan (cfr. anche il buriato udayan, lo yakuta udoyan: «la donna-sciamano»), il turco-tartaro kam (l'altaico kam, gam, il mongolo kami, ecc.). Si è cercato di spiegare il termine tunguso col pali samana, e su questa possibile etimologia - che ci riconduce al grande problema delle influenze indù sulle religioni siberiane - torneremo nell'ultimo capitolo di questo libro. In tutta quest'area immensa che comprende il centro e il nord dell'Asia la vita magico-religiosa delle società s'incentra nello sciamano. Ciò non equivale certo a dire che egli sia il solo ed unico manipolatore del sacro, né che l'attività religiosa sia totalmente monopolizzata dallo sciamano. In molte tribù il prete sacrificatore coesiste presso allo sciamano, senza contare il fatto che ogni capo di famiglia è anche il capo del culto domestico. Tuttavia lo sciamano resta la figura predominante: perché in tutta questa zona ove l'esperienza estatica è considerata come l'esperienza religiosa per eccellenza, lo sciamano, e soltanto lui, è il gran maestro dell'estasi. Una prima definizione di questo fenomeno complesso, quella, forse, che, ancora, è la meno azzardata, potrebbe essere: sciamanismo = tecnica dell'estasi.

Come tale esso è stato conosciuto e descritto dai primi viaggiatori delle diverse regioni dell'Asia centrale e settentrionale. Più tardi fenomeni magico-religiosi consimili sono stati osservati nell'America del Nord, in Indonesia, nell'Oceania e altrove. E, come subito vedremo, tali fenomeni son realmente sciamanici e vale studiarli insieme allo sciamanismo sineriano. Però ci s'impone anzitutto un rilievo: la presenza di un complesso sciamanico in una qualunque zona non implica necessariamente che la vita magico-religiosa dell'un popolo o dell'altro si sia cristallizzata intorno allo sciamanismo. Un simile caso può verificarsi (è quel che, ad esempio, è accaduto in certe regioni dell'Indonesia), ma non è il più corrente. In genere, lo sciamanismo coesiste presso ad altre forme di magia e di religione.

Dal che appare il vantaggio di usare il termine sciamanismo nel suo senso proprio e rigoroso. Perché, se ci si dà la pena di differenziare lo sciamano da altri «maghi» e medicine-men delle società primitive, l'identificazione di complessi sciamanici nell'una o nell'altra religione andrà subito ad avere un significato assai importante. Magia e maghi li si incontrano un po' dappertutto nel mondo, mentre lo sciamanismo corrisponde ad una «specialità» magica particolare sulla quale sempre torneremo: implica il «dominio del fuoco», il volo magico e cosi via. Cosi, benché lo sciamano sia, fra l'altro, un mago, non ogni mago può esser qualificato come sciamano. La stessa precisazione s'impone nel riguardo delle guarigioni sciamaniche: ogni medicine-man è un guaritore, ma lo sciamano utilizza una tecnica propria solo a lui. Quanto alle tecniche sciamaniche dell'estasi, esse non esauriscono tutte le varietà dell'esperienza estatica attestate dalla storia delle religioni e dall'etnologia religiosa: non si può dunque considerare un qualsiasi estatico come uno sciamano; questi è lo specialista di una trance durante la quale si ritiene che la sua anima può lasciare il corpo per intraprendere ascensioni celesti o discese infernali.

Una distinzione dello stesso genere è parimenti necessaria per precisare il rapporto dello sciamano con gli «spiriti». Dovunque, nel mondo primitivo e in quello moderno, si trovano individui che pretendono di essere in rapporto con gli «spiriti», sia che vengano «posseduti» da questi, sia che essi invece li dominino. Occorrerebbero diversi volumi per studiare adeguatamente tutti i problemi che si pongono in relazione all'idea stessa di «spirito» e dei suoi possibili rapporti con gli esseri umani: perché uno «spirito» può essere tanto l'anima di un defunto che uno «spirito della natura», che un animale mitico e via dicendo. Ma lo studio dello sciamanismo non esige tutto questo: basterà fissare la posizione dello sciamano nei confronti dei suoi spiriti ausiliari. Ad esempio, si vedrà facilmente in che uno sciamano si distingue da un «ossesso»: egli domina i suoi «spiriti» nel senso che lui, essere umano, riesce a comunicare coi morti, coi «demoni», con gli «spiriti della natura» senza per questo trasformarsi in loro strumento. Certo, s'incontrano degli sciamani che sono realmente degli «ossessi», ma essi costituiscono piuttosto delle eccezioni aberranti aventi, d'altronde, una loro spiegazione.

Queste precisazioni preliminari, per succinte che siano, indicano già il cammino che ci proponiamo di seguire per giungere alla giusta comprensione dello sciamanismo. Dato che questo fenomeno magico-religioso si è manifestato nella sua forma più completa nell'Asia centrale e settentrionale, si prenderà come esemplare tipico lo sciamano di tali regioni. Non ignoriamo, ed anzi cercheremo di mostrare, che, almeno nel suo stato attuale, lo sciamanismo centro-asiatico e nord-asiatico non è un fenomeno originario, esente da ogni influenza esterna: al contrario, è un fenomeno che ha una lunga «storia». Ma questo sciamanismo centro-asiatico e siberiano ha il merito di presentarsi come una struttura nella quale vari elementi che esistono diffusi nel resto del mondo - e cioè: rapporti speciali con gli «spiriti», capacità estatiche permettenti il volo magico, l'ascensione al Cielo, la discesa agli Inferni, il dominio sul fuoco, e così via - si rivelano già, nella zona in quistione, integrati m una particolare ideologia e convalidati da tecniche specifiche.

Un tale sciamanismo stricto sensu non è limitato all'Asia centrale e settentrionale, e più giù noi andremo a rilevare un gran numero di fenomeni paralleli in altri paesi del mondo. Certi elementi sciamanici li si incontrano allo stato isolato in diverse forme primordiali di magia e di religione e l'interesse che essi presentano è considerevole: perché essi ci fanno riconoscere in che misura lo sciamanismo propriamente detto conserva un fondo di credenze e di tecniche «primitive» e in che misura esso è invece innovazione. Sempre attenti a ben delimitare il posto che compete allo sciamanismo in seno alle religioni primitive (con tutto ciò che queste implicano: «magia», credenza negli Esseri Supremi e negli «spiriti», concezioni mitologiche e tecniche dell'estasi, ecc.), noi saremo sempre costretti ad accennare a fenomeni più o meno simili senza per questo considerarli come «sciamanici». Ma sarà sempre utile confrontare e mostrare ciò a cui un elemento magi. co-religioso analogo a un dato elemento sciamanico ha potuto dar luogo in altri casi, integrato che sia in un diverso insieme culturale e presso ad un diverso orientamento spirituale.

Pur dominando la vita religiosa dell'Asia centrale e settentrionale, lo sciamanismo non è per questo la religione - la religione al singolare - di quest'area immensa. Solo per comodità o per aver confuso si è potuto talvolta' considerare lo sciamanismo come la religione dei popoli artici o turco-tartari. Le religioni dell'Asia centrale e settentrionale oltrepassano per ogni verso i limiti dello sciamanismo, allo stesso modo che una qualsiasi religione va sempre oltre l'esperienza mistica di dati suoi membri privilegiati. Gli sciamani sono degli «eletti» e come tali essi hanno accesso ad una zona del sacro impenetrabile per gli altri membri della comunità. Le loro esperienze estatiche hanno esercitato e continuano ad esercitare una possente influenza sulla stratificazione dell'ideologia religiosa, sulla mitologia, sui rituali. Ma né l'ideologia, né la mitologia, né i riti delle popolazioni artiche, siberiane e asiatiche sono creazioni dei loro sciamani. Tutti questi elementi sono anteriori allo sciamanismo o, per lo meno, sono ad esso paralleli nel senso che son dei prodotti dell'esperienza religiosa generale e non di quella di una certa classe di esseri privilegiati: gli estatici. Al contrario: come avremo occasione di constatarlo, più di una volta si avverte lo sforzo dell'esperienza sciamanica, e cioè estatica, di esprimersi a mezzo di una ideologia che non le è sempre favorevole.

Per non anticipare troppo il contenuto dei capitoli che seguiranno, accontentiamoci di dire che gli sciamani son degli esseri che si differenziano in seno alle corrispondenti comunità per via di certi tratti che, nelle società dell'Europa moderna, potrebbero apparire come segni di una «vocazione» o, almeno, di una «crisi religiosa». Essi si distinguono dal resto della loro comunità per l'intensità dell'esperienza religiosa ad essi propria. Il che equivale a dire che si avrebbe maggior ragione di collocare lo sciamanismo nella categoria dei misticismi anziché nel quadro di ciò che abitualmente si designa come «religione». Avremo occasione di ritrovare lo sciamanismo all'interno di un numero considerevole di religioni, perché lo sciamanismo è sempre una tecnica estatica a disposizione di una certa élite e costituente in un certo modo la mistica della corrispondente religione. Un confronto si offre già in partenza allo spirito: quello coi monaci, coi mistici e coi santi all'interno delle Chiese cristiane. Ma non bisogna portar troppo oltre l'analogia: a differenza di quanto accade nel cristianesimo (almeno nella sua storia più recente), i popoli che si dichiarano «sciamanici» danno una importanza considerevole alle esperienze estatiche dei loro sciamani; queste esperienze li riguardano personalmente e direttamente, perché sono gli sciamani che, per mezzo delle loro trance, li guariscono, accompagnano i loro morti nel «Regno delle Ombre» e fanno da mediatori fra essi e i loro dèi, celesti o infernali, grandi o piccoli. Questa ristretta élite mistica non solo dirige la vita religiosa della comunità, ma in un certo modo veglia sulla sua «anima». Lo sciamano è il grande specialista dell'anima umana: lui solo la «vede», perché ne conosce la «forma» e il destino.

E ove non si tratti della sorte immediata dell'anima, ove non si abbia a che fare con la malattia (= perdita dell'anima) o con la morte, o con una sventura, o con un importante sacrificio che implica una certa esperienza estatica (viaggio mistico nel Cielo o negli Inferni), lo sciamano non è indispensabile. Una gran parte della vita religiosa si svolge senza di lui.

Come è noto, i popoli artici, siberiani e centro-asiatici son composti nella grande maggioranza da cacciatori-pescatori e da pastori-allevatori. Un certo nomadismo li caratterizza tutti. E, nelle grandi linee, le loro religioni coincidono, malgrado le differenze etniche-e linguistiche. Ciukci, Tungusi, Samoiedi o TurcoTartari - per non nominare che qualcuno dei gruppi più importanti - conoscono e venerano un Gran Dio celeste, già creatore e onnipotente, ma in via di divenire un deus otiosus. Talvolta il nome stesso del Gran Dio vuol dire «Cielo»; tale è, ad esempio, il Num dei Samoiedi, il Buga dei Tungusi o il Tengri dei Mongoli (si cfr. anche il Tengeri dei Buriati, il Tangere dei Tartari del Volga, il Tingir dei Beltiri, il Tangara degli Yakuti, ecc.). Perfino quando il nome concreto di «cielo» manca, si ritrova uno degli attributi più specifici di esso, come «alto», «elevato», «luminoso», ecc. Cosi fra gli Ostiachi dell'Irtyosh il nome del dio celeste deriva da sfinke, parola il cui senso originario è «luminoso, lucente, luce». Gli Yakuti lo chiamano «l'assai elevato Signore» (ar tojon), i Tartari dell' Altai «Luce bianca» (ak atas), i Koryaki «l'Uno d'in alto», il «Signore dell'alto», ecc. I Turco-Tartari, presso i quali il Gran Dio celeste conserva la sua attualità religiosa più che fra i loro vicini del Nord e del Nord-Est, lo chiamano parimenti «Capo», «Padrone», «Signore» e spesso «Padre».

Questo dio celeste, che abita il cielo superiore, ha diversi «figli» o «messaggeri» a lui subordinati che occupano i cieli inferiori. Il loro numero e i loro nomi variano di tribù in tribù: generalmente si parla di Sette o Nove «Figli» o «Figlie», e con diversi di essi lo sciamano mantiene rapporti del tutto particolari. Questi Figli, Messaggeri o Servitori del Dio celeste hanno la missione di sorvegliare e di aiutare gli uomini. Il pantheon spesso è assai più numeroso; di ciò ne è, per esempio, il caso fra i Buriati, gli Yakuti e i Mongoli. I Buriati parlano di 51 dèi «buoni» e di 44 dèi «malvagi» e di una lotta senza fine che li oppone gli uni agli altri. Ma, come si mostrerà più sotto, si può pensare che questa moltiplicazione degli dèi e la loro stessa opposizione siano innovazioni, forse abbastanza recenti.

Presso i Turco-Tartari le dee hanno un ruolo piuttosto modesto. La divinità della terra è alquanto sfumata. Gli Yakuti, ad esempio, non possiedono statuine della dea della terra e non le offrono sacrifici. I popoli turco-tartari e siberiani conoscono diverse divinità femminili, ma esse son riservate alle donne perché il loro ambito è quello del parto e delle malattie infantili. La parte mitologica della Donna è, anch'essa, assai ridotta - benché sussistano traccie di essa in certe tradizioni sciamaniche. Fra gli Altaici, dopo il Dio celeste o dell'atmosfera il solo gran dio è il Signore dell'Inferno, Erlik khan, anche lui ben noto allo sciamano. Il culto, importantissimo, del fuoco, i riti della caccia, la concezione della morte - sulla quale avremo spesso da tornare - completano questo breve quadro della vita religiosa dell'Asia centrale e settentrionale. Morfologicamente, nelle sue grandi linee siffatta religione si avvicina a quella degli Indoeuropei: qui come là si ha la stessa importanza del Gran Dio celeste o della tempesta, la stessa assenza di Dee (cosi caratteristiche, invece, per l'area indo-mediterranea), la stessa funzione attribuita ai «figli» o «messaggeri» (Açvin, Dioscuri, ecc.), la stessa glorificazione del fuoco. Sul piano sociologico ed economico il ravvicinamento fra gli Indoeuropei della protostoria e i Turco-Tartari antichi s'impone ancor più nettamente: le due società hanno una struttura patriarcale, comportante un grande prestigio del capo della famiglia, e la loro economia è nel complesso quella dei cacciatori e dei pastori-allevatori. L'importanza religiosa che ha il cavallo fra i Turco-Tartari e fra gli Indoeuropei è stata già da tempo rilevata; come lo ricorderemo più giù, nel sacrificio greco più antico, nel sacrificio olimpico, sono state recentemente individuate delle traccie del tipo di sacrificio proprio ai Turco-Tartari, agli Ugri e ai popoli artici, del sacrificio, cioè, che appunto caratterizza i cacciatori delle origini e i pastori-allevatori. Questi fatti hanno il loro peso per il problema che ci interessa: data la simmetria esistente in sede economica, sociale e religiosa fra gli antichi Indoeuropei e i Turco-Tartari (o, per meglio dire: i Proto-Turchi), sarà d'uopo vedere in che misura nei vari popoli indoeuropei della storia esistono ancora delle vestigia «sciamaniche» comparabili allo sciamanismo turco- tartaro,

Però, non lo si ripeterà mai abbastanza: non v'è possibilità alcuna di rinvenire ove che sia nel mondo o nella storia un fenomeno religioso «puro» e perfettamente «originario». I documenti paletnologici e preistorici di cui disponiamo non vanno oltre il paleolitico e nulla ci autorizza a credere che durante le centinaia di migliaia di anni che han preceduto la più antica età della pietra l'umanità non abbia conosciuto una vita religiosa così intensa e varia quanto quella delle epoche successive. È quasi certo che almeno una parte delle credenze magico-religiose dell'umanità prelitica si è conservata nelle concezioni religiose e nelle mitologie più recenti. Ma è parimenti probabilissimo che questo retaggio spirituale dell'epoca prelitica abbia subito continue modificazioni in seguito ai numerosi contatti culturali fra le varie popolazioni preistoriche e protostoriche. Cosi in nessuna parte della storia delle religioni si ha a che fare con fenomeni «originari», la «storia» essendo passata dappertutto, modificando, rifondendo, arricchendo o impoverendo le concezioni religiose, le creazioni mitologiche, i riti, le tecniche dell'estasi. Naturalmente, ogni religione che, dopo lunghi processi di trasformazione interiore, finisce col costituirsi secondo una propria struttura autonoma, presenta una «forma» che le è propria e che passa come tale nella storia ulteriore dell'umanità: ma nessuna religione è completamente «nuova», nessun messaggio religioso abolisce completamente il passato. Si tratta piùttosto della rifusione, del ringiovanimento, della rivalorizzazione, dell'integrazione di elementi - e degli elementi più essenziali - di una tradizione religiosa le cui origini si perdono nella notte dei tempi.

Queste brevi considerazioni basteranno per delimitare provvisoriamente l'orizzonte storico dello sciamanismo: alcuni dei suoi elementi, che saranno precisati in seguito, sono nettamente arcaici, ma ciò non vuol dire che essi siano «puri» e «originari». Lo sciamanismo turco-mongolo, nella forma in cui oggi ci si presenta, è anzi sensibilmente impregnato da influenze orientali e, per quanto esistano altri sciamanismi esenti da influenze così specifiche e recenti, pure nemmeno essi sono «originari».

Quanto alle regioni artiche, siberiane e centro-asiatiche, dove lo sciamanismo ha raggiunto il suo grado più spinto d'integrazione, noi abbiamo detto che esse son caratterizzate, da un lato, dalla presenza appena sensibile di un Gran Dio celeste, dall'altro da riti di caccia e da un culto degli antenati che presuppongono tutt'altro orientamento religioso. Come lo si vedrà più giù, lo sciamano è più o meno direttamente implicato in ciascuno di questi settori religiosi. Ma si ha l'impressione che egli sia «a casa sua» più in un dato settore che non in un altro. Basato sull'esperienza estetica e sulla magia, lo sciamanismo si adatta più o meno male alle varie strutture religiose che l'hanno preceduto. Talvolta, nel ricollocare la descrizione di una seduta sciamanica nell'insieme della vita religiosa della corrispondente popolazione (si pensa, ad esempio, al Gran Dio celeste ed ai miti che lo concernono), si ha l'impressione di due universi religiosi completamente differenti. Ma questa impressione è erronea: la differenza non sta nella struttura degli universi religiosi, bensì nella intensità dell'esperienza religiosa scatenata dalla seduta sciamanica. Questa quasi sempre ricorre all'estasi e la storia delle religioni sta a dirci che nessuna esperienza religiosa è più esposta a deformazioni e ad aberrazioni quanto l'esperienza estatica.

E per concludere queste osservazioni preliminari, noteremo ancora che bisogna sempre ricordarsi, quando si studia lo sciamanismo, che esso predilige un certo numero di elementi religiosi particolari e perfino «privati» e che, per ciò stesso, è lontano dall'esaurire la vita religiosa del resto della comunità. Lo sciamano inizia la sua vita nuova e vera con una «separazione», cioè, come subito vedremo, con una crisi spirituale non priva né di grandezza tragica né di bellezza.

 

 

 

 

 

 

L'acquisto dei poteri sciamanici

back to index

 

Nella Siberia e nell'Asia nord-orientale le principali vie di reclutamento degli sciamani sono: 1) la trasmissione ereditaria della professione sciamanica, e 2) la vocazione spontanea, la «chiamata» o 1'«elezione». Si dà anche il caso di individui divenuti sciamani mediante la loro sola volontà (come ad esempio fra gli Altaici) o per volontà del clan (Tungusi, ecc.), ma costoro son considerati meno potenti di quelli che hanno ereditato cotesta professione o che han seguito la «chiamata» degli dèi e degli spiriti. Quanto alla scelta da parte del clan, essa è subordinata all'esperienza estatica del candidato; se questa non si verifica, l'adolescente designato per prendere il posto dello sciamano morto viene scartato (vedi più giù).

Quale pur sia il metodo di selezione, uno sciamano vien riconosciuto tale solo dopo aver ricevuta una doppia istruzione: 1) istruzione d'ordine estatico (sogni, trance ecc.), e 2) istruzione d'ordine tradizionale (tecniche sciamaniche, nomi e funzioni degli spiriti, mitologia e genealogia del clan, linguaggio segreto, ecc.). Questa doppia istruzione, impartita dagli spiriti o dai vecchi maestri sciamani, equivale ad una iniziazione. Talvolta l'iniziazione è pubblica e forma, in se stessa, un rituale autonomo. Ma l'assenza di un rituale di tale genere non implica affatto l'assenza di iniziazione: questa può essersi benissimo effettuata in sogno o nell'esperienza estatica del neofita. I rari documenti di cui disponiamo sui sogni sciamanici mostrano precipuamente che si tratta di una iniziazione la cui struttura è ben nota nella storia delle religioni; in nessun caso si tratta di allucinazioni disordinate e di una affabulazione strettamente personale: queste allucinazioni e questa affabulazione seguono dei modelli tradizionali coerenti, ben articolati e di un contenuto storico di una stupefacente ricchezza.

Tutto ciò ha una precisa importanza nel problema della psicopatia degli sciamani, che fra breve tratteremo. Psicopatici o no, i futuri sciamani debbono passare attraverso certe prove iniziatiche e ricevere un'istruzione che è spesso estremamente complessa. Solo questa doppia iniziazione - estatica e tradizionale - trasforma l'eventuale nevrotico in uno sciamano riconosciuto dalla società. La stessa osservazione s'impone quanto all'origine dei poteri sciamanici: l'essenziale qui non è il punto da cui si parte per ottenere tali poteri (eredità, dono degli spiriti, ricerca deliberata), bensi la tecnica e la teoria che fa da base a questa tecnica, che vengono trasmesse mediante l'iniziazione.

Una tale constatazione ha il suo peso. Infatti a più riprese sono state tratte conclusioni inadeguate circa la struttura e perfino circa la storia di questo fenomeno religioso in base al fatto che un certo sciamanismo è ereditario, ovvero spontaneo, che la «chiamata» che decide della carriera di uno sciamano appare condizionata, o meno, dalla sua costituzione psicopatica. Torneremo più gin su questi problemi metodologici. Per ora, limitiamoci il passare in rassegna alcuni documenti siberiani e nord-asiatici relativi all'elezione degli sciamani senza cercare di classificarli per rubriche t trasmissione ereditaria chiamata designazione da parte del clan, decisione personale) perché, come subito lo vedremo, la maggior parte delle popolazioni che ci interessano conoscono quasi sempre più di una via di reclutamento.

 

 

 

 

 

 

Il reclutamento degli sciamani nella Siberia occidentale e centrale

back to index

 

Presso i Voguli, afferma Gondatti, lo sciamanismo è ereditario e si trasmette anche per linea femminile. Ma il futuro sciamano lo si distingue già a partire dall'adolescenza: presto egli diviene nervoso e talvolta è perfino soggetto ad attacchi epilettici, attacchi che vengono interpretati come un incontro con gli dèi. Presso gli Ostyaki orientali le cose sembrano stare diversamente: secondo Dunin-Gorkavitc lo sciamanismo qui non lo si impara, è un dono del Cielo che si riceve nascendo. Nella regione dell'Irtys, è un dono di Sanke (il dio del Cielo) che si fa sentire fin dalla più tenera età. Anche i Vasiugani ritengono che si nasce sciamani. Ma, come nota Karjalainen ereditario o spontaneo che sia, lo sciamanismo è pur sempre un dono degli dèi o degli spiriti; da un certo punto di vista, non è ereditario che in apparenza.

In genere, le due forme di acquisizione dei poteri coesistono. Presso i Votyaki, ad esempio, la qualità di sciamano è ereditaria, ma può anche esser creata direttamente dal dio supremo, che istruisce lui stesso il futuro sciamano attraverso sogni e visioni. Si ha esattamente lo stesso fra i Lapponi; il dono si trasmette nella famiglia ma può anche esser conferito dagli spiriti a chi vogliono.

Presso i Samoiedi siberiani e gli Ostyaki lo sciamanismo è ereditario. Alla morte del padre, il figlio modella in legno una imagine della mano di questi e per mezzo di tale simbolo si fa trasmettere i poteri. Però la qualità costituita dall'esser figlio di sciamano non basta: occorre che il neofita sia inoltre accetto agli spiriti e da essi confermato. Presso i Samoiedi Yurak il futuro sciamano viene identificato sin dalla nascita; infatti i bambini che vengono al mondo con la «camicia» sono destinati a divenire sciamani (quelli che nascono soltanto con la «camicia» sulla testa diverranno degli sciamani minori). All'avvicinarsi della maturità il candidato comincia ad aver delle visioni, canta durante il sonno, ama andarsene a passeggiare in luoghi solitari e cosi via; dopo tale periodo d'incubazione egli si unisce ad un vecchio sciamano per essere istruito. Presso gli Ostyaki talvolta è lo stesso padre a scegliere tra i figli il suo successore, attenendosi, in ciò, non al diritto di primogenitura bensi alle capacità intrinseche del candidato. Poi gli trasmette la scienza segreta tradizionale. Chi non ha figli, la trasmette ad un amico o ad un discepolo. In ogni modo, coloro che sono destinati a divenire sciamani passano la loro giovinezza sforzandosi a padroneggiare le dottrine e le tecniche dell' arte.

Presso gli Yakuti, scrive Sieroszewski, il dono dello sciamanismo non è ereditario. Però l'amagat (segno, spirito protettore) non svanisce dopo la morte dello sciamano ma tende a rincarnarsi in un altro membro della stessa famiglia. Pripuzov riferisce i seguenti dettagli: la persona destinata a divenire sciamano comincia a mostrarsi furiosa, poi, d'un tratto, perde la coscienza abituale, si ritira nelle foreste, si nutre di scorze d'alberi, si getta nell'acqua e nel fuoco, si ferisce con dei coltelli. Allora la famiglia ricorre ad un vecchio sciamano che si dà ad istruire il giovane smarrito sulle diverse specie di spiriti e sul modo di chiamarli e di dominarli. Questo non è che il principio dell'iniziazione propriamente detta, la quale implica una serie di cerimonie su cui torneremo.

Presso i Tungusi transbaikaliani colui che desidera divenire sciamano afferma che lo spirito di uno sciamano morto gli è apparso in sogno ordinandogli di assumerne la successione. È di regola che questa dichiarazione viene ritenuta fondata, solo se accompagnata da un disordine mentale assai spinto nel soggetto in quistione. Secondo le credenze dei Tungusi di Turushansk colui che è destinato a divenir sciamano vede nei suoi sogni il «diavolo» Khargi compiere riti sciamanici. È in tale occasione che egli apprende i segreti dell'arte. Avremo da tornare su questi «segreti», poiché essi costituiscono il cuore stesso dell'iniziazione sciamanica, la quale si realizza talvolta in sogni e in trance d'un carattere apparentemente patologico.

 

 

 

 

 

 

Il reclutamento fra i Tungusi

back to index

 

Fra i Manchi e i Tungusi della Manciuria vi sono due classi di «grandi» sciamani (amba saman): quelli del clan - e quelli indipendenti dal clan. Nel primo caso la trasmissione dei poteri sciamanici avviene abitualmente dal nonno al nipote perché, tenuto a provvedere ai bisogni del padre, al figlio non è dato di divenire sciamano. Presso i Manciù il figlio può divenirlo, ma, se non vi sono figli, è il nipote che eredita il dono, cioè gli «spiriti» divenuti disponibili alla morte dello sciamano. Sorge un problema quando nella famiglia dello sciamano non vi è più nessuno a prendere possesso di questi spiriti; allora si ricorre ad un estraneo. Quanto allo sciamano indipendente, non vi son regole che debba seguire (Shirokogorov). E lo si comprende: egli segue la sua sola vocazione.

Shirokogorov descrive più casi di vocazioni sciamaniche. Sembra trattarsi sempre di una crisi isterica o isteroide seguita da un periodo di insegnamento durante il quale il neofita viene iniziato da uno sciamano qualificato. Nella maggioranza dei casi coteste crisi hanno luogo nel periodo della pubertà. Però non si può divenire sciamani che parecchi anni dopo la prima esperienza. E come sciamani si deve esser riconosciuti da tutta la comunità dopo aver superata la prova iniziatica, senza la quale nessuno sciamano può esercitare la sua funzione. Molti rinunciano alla professione quando il clan non li riconosce degni di essere sciamani.

L'istruzione ha una parte importante, ma non interviene che dopo la prima esperienza estatica. Presso i Tungusi della Manciuria il bambino è, ad esempio, scelto ed educato in vista del suo divenir sciamano, ma a decidere è sempre una prima estasi: se l'esperienza non ha luogo, il clan rinuncia al suo candidato. Talvolta il comportamento del giovane candidato decide ed accelera la consacrazione; cosi può accadere che questi fugga nelle montagne e vi resti sette giorni, o ancor più, cibandosi di animali «catturati direttamente da lui coi denti», tornando poi al villaggio sporco, insanguinato, con le vesti lacere e i capelli in disordine, «come un selvaggio». Solo dopo una dozzina di giorni il candidato comincia a balbuziare delle parole incoerenti. Allora un vecchio sciamano comincia a rivolgergli caute domande; il candidato (più esattamente: lo «spirito» che lo possiede) s'infuria e infine indica quale sciamano dovrà offrire dei sacrifici agli dèi e preparare la cerimonia di iniziazione e di consacrazione (per il seguito della cerimonia propriamente detta, vedi più giù).

 

 

 

 

 

 

Il reclutamento fra i Buriati e gli Altaici

back to index

 

Presso i Buriati Alari studiati da Sandschejew, lo sciamanismo si trasmette per linea paterna o materna - ma può anche essere spontaneo. In entrambi i casi la vocazione si manifesta attraverso sogno e convulsioni provocati, gli uni e le altre, dagli spiriti degli antenati (utcha). La vocazione sciamanica è imperativa: non ci si può sottrarre ad essa. Se non vi sono candidati adatti, gli spiriti degli antenati vanno a tormentare dei bambini; questi piangono durante il sonno, divengono nervosi e fantastici, finché, sui tredici anni, vengono prescelti per essere sciamani. Il periodo preparatorio comporta una lunga serie di esperienze, estatiche e iniziatiche ad un tempo: gli spiriti degli antenati si manifestano nei sogni e talvolta conducono il neofita sino all'inferno. Nel contempo il giovane continua ad istruirsi presso sciamani ed anziani; impara la genealogia e le tradizioni del clan, la mitologia e il vocabolario sciamanico. L'istruttore vien chiamato il Padre-Sciamano. Durante la sua estasi, il candidato canta inni sciamanici. Questo è il segno che il contatto con l'aldilà si è già stabilito.

Pressi i Buriati della Siberia meridionale lo sciamanismo è in genere ereditario, ma può anche accadere che si divenga sciamani in seguito ad una elezione divina o ad un accidente: ad esempio, gli dèi scelgono il futuro sciamano colpendolo con la folgore o manifestandogli la loro volontà a mezzo di pietre cadute dal Cielo; v'è chi ha bevuto per caso del tarasun là dove si trova una di queste pietre ed è stato trasformato in sciamano. Ma anche questi sciamani scelti dagli dèi debbono esser poi guidati e istruiti da vecchi sciamani (Mikhailowski). La parte che ha la folgore nella designazione del futuro sciamano è importante: ci dice dell'origine celeste dei poteri sciamanici. Né il caso è isolato: anche presso i Soyoti si diviene sciamani se si è sfiorati dalla folgore, e la folgore è talvolta raffigurata sul costume sciamanico.

Nel caso dello sciamanismo ereditario le anime degli antenati sciamani scelgono un giovane della loro famiglia; questi diviene distratto e sognatore, ama la solitudine, ha delle visioni profetiche e talvolta degli attacchi che gli tolgono la coscienza. Durante un tale periodo - pensano i Buriati - l'anima è portata via dagli spiriti verso l'Occidente, se si è destinati a divenire sciamani-bianchi, verso l'Oriente se si è destinati a divenire sciamani-neri (per la distinzione tra questi due tipi di sciamani, cfr. avanti, p. 208). Accolta nel palazzo degli dèi, l'anima del neofita viene istruita dagli antenati-sciamani nei segreti dell'arte, nelle forme e nei nomi degli dèi, nel culto e nel nome degli spiriti e così via. Solo dopo questa prima iniziazione l'anima torna ad unirsi col corpo. Vedremo che l'iniziazione si continuerà per ancora lungo tempo.

Per gli Altaici, la qualità sciamanica è generalmente ereditaria. Già da bambino il futuro kam appare malaticcio, solitario, contemplativo. Ma egli viene preparato per un lungo periodo dal padre che gli insegna i canti e la tradizione della tribù, Quando in una famiglia un giovane è colpito da attacchi epilettici, gli Altaici sono convinti che uno dei suoi antenati è stato sciamano. Ma si può divenire kam anche per volontà propria, benché un tale sciamano così sia considerato inferiore agli altri.

Presso i Kazak-Kirghisi, la professione di baqça si trasmette abitualmente di padre in figlio; solo in via eccezionale il padre la trasmette a due dei suoi figli. Tuttavia si conserva il ricordo di un'epoca antica in cui il neofita veniva scelto direttamente dai vecchi sciamani. «Talvolta, in altri tempi, i baqça prendevano presso di loro dei Kazak-Kirghisi giovanissimi, quasi sempre degli orfani, per iniziarli alla professione di baqça; per la riuscita nell'arte era però considerata indispensabile una predisposizione alle malattie nervose. I soggetti destinati al baqçylvk erano caratterizzati da improvvisi cambiamenti di stato, da un rapido passare dall'irritazione allo stato normale, dalla malinconia all'agitazione».

 

 

 

 

 

 

Trasmissione ereditaria e ricerca dei poteri sciamanici

back to index

 

Già da questo rapido esame dei fatti siberiani e centro asiatici scaturiscono due conclusioni: 1) la coesistenza dello sciamanismo ereditario con uno sciamanismo determinato direttamente dagli dèi e dagli spiriti; 2) la frequenza di fenomeni patologici che accompagnano la manifestazione spontanea o la trasmissione ereditaria della vocazione sciamanica. Vediamo ora come stanno le cose in altre regioni, a parte la Siberia, l'Asia centrale e le zone artiche.

Non occorre fermarsi oltre misura sulla quistione della trasmissione ereditaria o della vocazione spontanea del mago e del medicine-man. Nel complesso, la situazione è la stessa ovunque: le due vie di accesso ai poteri magico-religiosi coesistono. Basterà riferire qualche esempio.

La professione del medicine-man è ereditaria fra gli Zulù e i Beciuani dell'Africa del Sud, fra i Nyima del Sudan meridionale, fra i Negritos e gli Jakun della penisola malese, fra i Batachi ed altre popolazioni di Sumatra, fra i Daiachi, fra gli stregoni delle Nuove Ebridi e in diverse tribù guianesi e amazzoniche (Shipibo, Cobeno, Macushi, ecc.). «Secondo i Cobeno, ogni sciamano per diritto di successione gode di un potere superiore a quello il cui titolo è dovuto soltanto alla propria iniziativa» (Métraux). Presso le tribù delle Montagne Rocciose dell'America del Nord il potere sciamanico può esser anche ereditato, ma la sua trasmissione avviene sempre attraverso una esperienza estatica (sogno). Come lo nota Park (p. 29), l'eredità sembra piuttosto consistere nella tendenza di uno dei figli o di altri membri della famiglia ad acquistare il potere, dopo la morte dello sciamano, attingendolo dalla stessa fonte. Presso i Puyallup - rileva Marian Smith - «il potere tende a restare nella famiglia». Sono anche noti dei casi in cui lo sciamano trasmette ancor vivo i poteri a suo figlio (Park, p. 30). L'ereditarietà del potere sciamanico sembra esser di regola fra le tribù degli Altopiani (Thompson, Shuswap, Okanagon del Sud, Klallam, Naso Forato, Klamath, Tenino), nella Carolina del Nord (Shasta, ecc.) e la si incontra anche fra gli Hupa, i Chimariko, i Wintu e i Mono occidentali. La trasmissione degli «spiriti» costituisce sempre la base di questa eredità sciamanica, a differenza del metodo più corrente che s'incontra un po' dappertutto fra le tribù nord-americane, di assicurarsi cotesti «spiriti» o con una esperienza spontanea (sogno, ecc.) oppure con una ricerca volontaria. Fra gli Eschimesi lo sciamanismo è assai di rado ereditario. Un Iglulik divenne sciamano dopo esser stato ferito da un tricheco; ma per tal via egli, in un certo modo, andò ad ereditare la qualificazione di sua madre divenuta sciamana in seguito all'entrare di una sfera di fuoco nel suo corpo. L'ufficio di medicine-man non è ereditario presso un numero considerevole di popolazioni primitive, elencare le quali, qui, non ha alcun interesse. Ciò vuol dire che dovunque nel mondo viene ammessa la possibilità di ottenere dei poteri magico-religiosi sia spontaneamente (malattia, sogno, incontro fortuito di una qualche sorgente di «potenza», ecc.) sia volontariamente (con una ricerca). Vale osservare che il conseguimento non-ereditario dei poteri magico-religiosi presenta un numero quasi illimitato di forme e di varianti che interessano più la storia generale delle religioni che non uno studio sistematico dello sciamanismo; e qui è possibile sia acquistare in modo spontaneo o volontario i poteri magico-religiosi per divenire sciamano, medicine-man o stregone, sia l'assicurarsi tali forze per la propria sicurezza o per un profitto personale. È cosi che le cose si presentano un po' dappertutto nel mondo arcaico. Il secondo caso non importa una distinzione di condizione religiosa o sociale del singolo nei confronti del resto della comunità. Colui che in virtù di certe tecniche elementari, ma tradizionali, consegue un accrescimento delle proprie disponibilità magico-religiose (tanto da poter garantire la ricchezza del raccolto, o da potersi difendere dal malocchio, ecc.) non mira a mutare il suo stato socio-religioso e a divenire un medicine-man in virtù di questo stesso potenziamento delle sue disponibilità del sacro. Egli desidera semplicemente aumentare le sue capacità vitali e religiose. La sua ricerca - modesta e limitata - dei poteri magico-religiosi rientra dunque fra i comportamenti tipici più elementari dell'uomo dinanzi al sacro. Giacché, come l'abbiamo mostrato altrove, nell'uomo primitivo, cosi come in ogni essere umano, il desiderio di entrare in contatto col sacro ha per controparte il timore di esser obbligato a rinunciare alla sua condizione semplicemente umana e a trasformarsi nello strumento più o meno passivo di una qualche manifestazione del sacro (dèi, spiriti, antenati, ecc.).

Nelle pagine che seguiranno, la ricerca volontaria dei poteri magico-religiosi o l'ottenimento di tali poteri grazie a dèi o spiriti attirerà la nostra attenzione nella sola misura in cui si tratterà di una acquisizione massiccia del sacro chiamata a mutare radicalmente il regime socio-religioso dell'interessato il quale, per tal via, si troverà trasformato in un tecnico specializzato. Perfino in casi di questo genere avremo occasione di scoprire una certa resistenza di fronte all'«elezione divina».

 

 

 

 

 

 

Sciamanismo e psicopatologia

back to index

 

Esaminiamo ora i rapporti che alcuni hanno creduto di poter stabilire fra lo sciamanismo artico e siberiano e le malattie nervose, in primo luogo le varie forme di isteria artica. A partire da Krivoshepkin (1861.1865), da Bogoraz (1910), da Vitashevskij (1911) e da Czaplicka (1914) si è sempre tornati a mettere in rilievo la fenomenologia psicopatologica dello sciamanismo siberiano. L'ultimo fautore della spiegazione dello sciamanismo a mezzo dell'isteria artica, A Ohlmarks, è stato perfino condotto a distinguere uno sciamanismo artico da uno sub-artico in base al grado di nevropatia di coloro che lo esercitano. Secondo questo autore lo sciamanismo in origine sarebbe stato un fenomeno esclusivamente artico, essenzialmente dovuto all'influenza dell'ambiente cosmico sulla labilità nervosa degli abitanti delle regioni polari. Il freddo eccessivo, le lunghe notti, la solitudine desertica, la mancanza di vitamine, ecc., avrebbero agito sulla costituzione nervosa delle popolazioni artiche provocando sia delle malattie mentali (l'isteria artica, il meryak, il menerik, ecc.), sia la trance sciamanica. La sola differenza fra uno sciamano e un epilettico consisterebbe nel fatto che il secondo non può realizzare la trance a volontà. Nella zona artica l'estasi sciamanica è un fenomeno spontaneo ed organico: soltanto in questa zona si può parlare di «grande sciamanismo», cioè di una cerimonia che si conclude con una trance catalettica reale durante la quale si suppone che l'anima abbandoni il corpo e viaggi verso i cieli o verso gli inferni sotterranei. Nelle regioni sub-artiche lo sciamano, non essendo più vittima dell'oppressione cosmica, non giunge spontaneamente ad una trance effettiva e si trova costretto ad usare narcotici per provocare una semi-trance ovvero ad imitare con una pantomima il «viaggio» dell' anima.

La tesi che assimila lo sciamanismo ad una malattia mentale è stata anche sostenuta nel riguardo di forme di sciamanismo diverse da quelle artiche. G.A. Wilken, già circa sessant'anni fa, aveva sostenuto che lo sciamanismo indonesiano in origine era stato una vera malattia e che solo più tardi ci si era dati a imitare drammaticamente la trance autentica. E non si è mancato di rilevare le relazioni assai nette che sembrano esistere tra certe forme di squilibrio mentale e le varie forme di sciamanismo sud-asiatico e oceanico. Secondo Loeb lo sciamano di Niue sarebbe epilettico o nervoso all'eccesso e proverrebbe da famiglie nelle quali l'instabilità nervosa è ereditaria. Basandosi sulle descrizioni diCzaplicka, Layard ha creduto di scoprire una stretta somiglianza fra lo sciamano siberiano e il bwili di Malekula. Il sikerei di Meutawei, il bomor di Kelantan sono parimenti dei nevropatici. A Samoa gli epilettici divengono degli indovini. I Batachi di Sumatra ed altri popoli dell'Indonesia scelgono di preferenza persone malaticcie o deboli per l'ufficio di mago. Presso i Subanum di Mindanao il mago perfetto è generalmente un nevrastenico o, almeno, un tipo eccentrico. Lo stesso si verifica altrove: presso i Sema Maga il medicine-man rassomiglia talvolta ad un epilettico; nell'arcipelago delle Andamane gli epilettici vengono considerati come dei grandi maghi; presso i Lotuko dell'Uganda i malati e i nevropatici sono abitualmente dei candidati alla magia per quanto debbano sottoporsi ad una lunga iniziazione prima di essere qualificati per la loro professione.

Secondo il Padre Housse i candidati sciamani presso gli Araucani del Cile «son sempre dei malati o dei sensitivi dal cuore debole, dallo stomaco in cattivo stato, soggetti a vertigini. Pretendono che al richiamo della divinità essi non possono opporsi e che una morte prematura punirebbe inevitabilmente la loro resistenza e la loro infedeltà». Talvolta, come presso i Jivaro, il futuro sciamano ci si presenta solo come un essere riservato e taciturno, o, come presso i Selk'nam e gli Yamana della Terra del Fuoco, predisposto alla meditazione e all'ascesi. Paul Radin mette in rilievo la struttura epilettoide o isteroide della gran parte dei medicine-men che cita a sostegno della sua tesi circa l'origine psicopatologica della classe degli stregoni e dei sacerdoti. E aggiunge, proprio nello stesso senso di un Wilken, di un Layard e di un Ohlmarks: «Ciò che dapprima era dovuto a delle necessità psichiche divenne una formula prescritta e meccanica ad uso di tutti coloro che desiderano divenire sacerdoti o prender contatto col sovrannaturale». Ohlmarks afferma che in nessun'altra parte del mondo le malattie psichico-mentali sono cosi intense e generalizzate come nell'Artide e cita una frase dell'etnologo russo Dimitri Zelenin: «Nel Nord queste psicosi erano assai più diffuse che altrove». Senonché osservazioni dello stesso genere son state anche fatte nei riguardi di molte altre popolazioni primitive e non si vede bene in che esse possano facilitarci la comprensione di un fenomeno religioso.

Considerato dal punto di vista dell'homo religiosus - che è il solo ad interessarci nel presente lavoro - il malato mentale ci si palesa come un mistico mancato o, ancor meglio, come la scimmiottatura di un mistico. La sua esperienza è priva di contenuto religioso anche se in apparenza rassomiglia ad una esperienza religiosa, allo stesso modo che un atto di autoerotismo può produrre lo stesso risultato dell'atto sessuale propriamente detto (l'emissione del seme) pur non essendo, di questo, che una imitazione scimmiesca data la mancanza della presenza concreta dell'altra parte. Del resto, è ben possibile che l'assimilazione di un soggetto nevrotico ad un individuo posseduto dagli spiriti - assimilazione fatta assai di frequente nei riguardi del mondo arcaico - in molti casi abbia per sola base le osservazioni imperfette dai primi etnologi. Presso le tribù sudanesi recentemente studiate da Nadel l'epilessia è assai diffusa; ma né l'epilessia, né qualsiasi altra malattia mentale sono considerate dagli indigeni come una vera possessione. Comunque, a noi s'impone la conclusione che la pretesa origine artica dello sciamanismo non si lega necessariamente alla labilità nervosa delle popolazioni viventi troppo vicino al polo e alle epidemie che sono specifiche per le regioni del Nord, a partire da una certa latitudine. Come l'abbiamo visto or ora, fenomeni psicopatologici analoghi si ritrovano un po' dovunque su tutto il globo.

Che tali malattie appaiano avere quasi sempre un certo rapporto con la vocazione del medicine-man, ciò non ha nulla di sorprendente. Come il malato, l'uomo religioso si trova proiettato ad un livello vitale che gli rivela i dati fondamentali dell'esistenza umana, cioè la solitudine, la precarietà e l'ostilità del mondo che lo circonda. Ma il mago primitivo, il medicine-man o lo sciamano non sono semplicemente dei malati: essi sono, anzitutto, dei malati guariti, dei malati che son riusciti a guarirsi da se stessi. Quando la vocazione dello sciamano o del medicine-man si rivela attraverso una malattia o un attacco epilettoide, l'iniziazione del candidato equivale spesso alla guarigione. Il famoso sciamano yakuta Tiisput (cioè: «caduto dal Cielo») era stato malato a vent'anni; si mise a cantare e si senti meglio. Quando Sieroszewski l'incontrò aveva sessant'anni; e dava prova di una infaticabile energia. «Se occorreva, poteva battere il tamburo, ballare e saltare per tutta una notte». Peraltro, era un uomo che aveva viaggiato; aveva perfino lavorato nelle miniere d'oro della Siberia. Ma sentiva il bisogno di far dello sciamanismo: se restava troppo tempo senza farne, si sentiva male. Uno sciamano golda raccontò a Sternberg: «Gli anziani dicono che qualche generazione fa tre grandi sciamani facevan parte della mia famiglia. Non si conoscono sciamani fra i miei ascendenti più prossimi. I miei genitori godono di una perfetta. salute. lo ho quarant'anni, sono sposato e non ho figli. Fino ai venti anni stavo benissimo; poi mi ammalai, il corpo mi doleva, avevo dei terribili mali di testa. Degli sciamani cercarono di guarirmi senza riuscirvi. Quando io stesso mi misi a far dello sciamanismo, il mio stato migliorò. Divenni sciamano dieci anni or sono, ma sul principio non esercitai questa qualità che su me stesso; è solo da tre anni che mi sono dato a curare anche gli altri. La professione dello sciamano è faticosa, molto, molto faticosa».

Sandschejew incontrò un Buriate che, da giovane, era stato «antisciamanista». Ma si ammalò e, dopo aver cercato inutilmente la guarigione (per trovare un buon medico si spinse fino a Irkutsk), tentò di far dello sciamanismo. Guari immediatamente e divenne sciamano per il resto della vita. Anche Sternberg rileva che l'elezione dello sciamano si manifesta attraverso una grave malattia che generalmente coincide con la maturità sessuale. Ma il futuro sciamano finisce col guarire grazie all'aiuto di quegli stessi spiriti che in seguito diverranno i suoi spiriti protettori e ausiliari. Talvolta questi sono degli antenati che. desiderano trasmettergli gli spiriti ausiliari rimasti disponibili. In realtà, si tratta di una specie di trasmissione ereditaria: in tali casi la malattia non è che un segno della «scelta» e si dimostra passeggera.

Così si ha sempre a che fare con una guarigione, con un padroneggiamento, con un equilibrio i quali si realizzano attraverso l'esercizio stesso dello sciamanismo. Ad esempio, non è al fatto del suo esser soggetto agli attacchi dell'epilessia che lo sciamano eschimese o indonesiano deve la sua forza e il suo prestigio: è invece al fatto che egli può dominare questa epilessia. Esteriormente, si avrà un bel rilevare tutte le analogie che esistono fra la fenomenologia del meryak o del menerik e la trance dello sciamano siberiano; ma il fatto essenziale è che quest'ultimo ha il potere di provocare volontariamente la «trance epilettoide». Non basta: gli sciamani in apparenza tanto simili agli epilettici e agli isterici danno prova di una costituzione nervosa più che normale: essi riescono a concentrarsi con una intensità sconosciuta ai profani; resistono ai massimi sforzi; controllano i loro movimenti estatici, e cOSI via.

Secondo le informazioni di Bjeljavskij e di altri, raccolte da Karjalainen, lo sciamano vogulo presenta una intelligenza viva, un corpo agilissimo, una energia che sembra non aver limiti. Con la stessa preparazione richiesta per la sua futura attività di neofita cerca di fortificare il suo corpo e di perfezionare le sue qualità intellettuali. Mytchyll, sciamano yakuta che Sieroszewski conobbe, benché vecchio, superava nella seduta i più giovani quanto all'altezza dei suoi salti e all'energia dei suoi gesti. «Si animava, sfoggiava di spirito e di parlantina. Si feriva con dei coltelli, inghiottiva dei bastoni, divorava carboni ardenti». Per gli Yakuti lo sciamano perfetto «deve esser serio, aver del tatto, saper convincere chi gli è d'intorno; soprattutto, non deve mostrarsi presuntuoso, orgoglioso, impulsivo. Si deve sentire in lui una forza interiore che non urta ma che ha coscienza della propria potenza». Sarebbe difficile riconoscere in questo profilo il tipo dell'epilettoide che ci si è immaginati in base ad altre descrizioni ...

Benché gli sciamani eseguano la loro danza estatica all'interno di una yurta affollata, in uno spazio limitatissimo, con dei costumi contenenti più di quindici chili di ferro sotto specie di dischi e di diversi altri oggetti, non v'è persona che venga da essi urtata. E il baqça kazak kirghiso, durante la trance, «benché si precipiti da ogni parte ad occhi chiusi, trova tutti gli oggetti che gli occorrono». Questa stupefacente capacità di controllo perfino dei movimenti estatici, tradisce una meravigliosa costituzione nervosa. In genere, lo sciamano siberiano e nord-asiatico non dà segni di disintegrazione psichica. La memoria e la capacità di autodominio sono, in lui, superiori alla media. Secondo Donner, «si può affermare che presso i Samoiedi, gli Ostiachi e certe altre tribù lo sciamano è generalmente sano e, nel riguardo intellettuale, spesso superiore al suo ambiente», Presso i Buriati gli sciamani sono i principali custodi della ricca letteratura eroica orale. Il vocabolario poetico di uno sciamano yakuta comprende dodicimila' parole, laddove la sua lingua ordinaria - la sola conosciuta dal resto della comunità - non ne ha che quattromila (Chadwick). Presso i Kazak-Kirghisi il baqça, «cantore, poeta, musico, indovino, sacerdote e medico, sembra essere il custode delle tradizioni religiose popolari, il conservatore di leggende antiche di molti secoli» (Castagné).

Rilievi analoghi sono stati fatti nel riguardo di sciamani di altre regioni. Secondo Koch-Grlinberg «gli sciamani Taulipang sono, in via generale, individui intelligenti, talvolta scaltri, ma forniti sempre di una grande forza di çarattere, perché nella loro formazione e nell'esercizio delle loro funzioni essi debbono dar prova di energia e di dominio di se stessi». Métraux, a proposito degli sciamani amazzonici, osserva: «Nessuna anomalia o particolarità fisica o fisiologica sembra esser considerata come sintomo di speciale predisposizione per l'esercizio dello sciamanismo».

Presso i Wintu la formulazione e la trasmissione del pensiero speculativo sono privilegio degli sciamani. Lo sforzo intellettuale dello sciamano-profeta daiaco è enorme e dice di una capacità mentale assai superiore a quella della collettività. Lo stesso è stato osservato per gli sciamani africani in genere (Chadwick). Quanto alle tribù sudanesi studiate da Nadel, «non esiste sciamano che, nella sua vita quotidiana, sia un individuo "anormale", un nevrastenico o un paranoico: se fosse tale, lo si metterebbe fra i pazzi, non lo si rispetterebbe come un sacerdote. Tutto sommato, lo sciamanismo non lo si può mettere in relazione con una anormalità nascente o latente; non ricordo un solo sciamano in cui l'isteria professionale abbia degenerato in un disordine mentale serio». In Australia, le cose sono ancor più chiare: i medicine-men debbono essere perfettamente sani e normali, e lo sono quasi sempre.

E bisogna anche tener conto del fatto, che l'iniziazione propriamente detta non comporta soltanto una esperienza estatica ma, come subito vedremo, una istruzione teorica e pratica troppo complicata per esser accessibile ad un malato. Che siano ancora soggetti a veri attacchi di epilessia o di isterismo, o che non lo siano più, gli sciamani, gli stregoni, i medicine-men in genere non possono essere considerati come semplici malati: la loro esperienza psicopatica ha un contenuto teorico. Perché se essi si san guariti da sé e sanno guarire gli altri, ciò, fra l'altro, è dovuto al fatto che essi conoscono il meccanismo - o, meglio ancora, la teoria - della malattia.

Tutti questi esempi mettono in luce, in un modo o nell'altro, la singolarizzazione o differenziazione del medicine-man all'interno della sua comunità. Che egli sia scelto dagli dèi o dagli spiriti come loro portavoce, o che sia predisposto ad una tale funzione da tare fisiche o, infine, che sia il portatore di una eredità equivalente ad una vocazione magico-religiosa - in ogni caso il medicine-man si stacca dal mondo dei profani proprio perché si trova in un rapporto più diretto col sacro e ne manipola più efficacemente le manifestazioni. Infermità, malattie nervose, vocazione spontanea o ereditata, sono altrettanti segni esteriori di una «scelta», di una «elezione». Talvolta cotesti segni sono fisici (infermità innate o acquisite); in altri casi, si tratta di un accidente, perfino dei più comuni (ad esempio: esser caduti da un albero, esser stati morsi da una serpe, ecc.); abitualmente - come lo vedremo da presso nel prossimo capitolo - l'elezione si palesa attraverso un accidente insolito: folgore, apparizioni, sogni, eccetera.

Importa metter in rilievo questa nozione della singolarizzazione determinata da una esperienza inusuale e anormale, perché, a considerare bene le cose, la singolarizzazione come tale procede dalla dialettica stessa del sacro. In effetti le ierofanie più elementari altro non sono che una separazione radicale, avente valore ontologico, fra un oggetto qualunque e la zona cosmica che lo circonda: una certa pietra, un certo albero, un certo luogo pel fatto stesso che si rivelano come sacri, che essi sono stati in un qualche modo «scelti» quali ricettacoli di una manifestazione del sacro, appaiono ontologicamente distinti dalle altre pietre, dagli altri alberi e dagli altri luoghi e vanno a collocarsi su di un piano diverso, sovrannaturale. Altrove  abbiamo analizzato le strutture e la dialettica delle ierofanie delle cratofanie, cioè delle manifestazioni del sacro magico-religioso. Quel che qui importa rilevare è la simmetria esistente fra la singolarizzazione degli oggetti come esseri e segni sacri, e la singolarizzazione determinantesi per elezione, per «scelta», in coloro che sperimentano il sacro con una ben diversa intensità che non il resto della comunità, in coloro che incarnano, in un certo modo, questo sacro perché lo vivono profondamente o, meglio, perché «vengono vissuti» dalla «forma» religiosa che li ha scelti (dèi, spiriti, antenati, ecc.). La portata di queste precisazioni preliminari ci si paleserà dopo che avremo studiati i metodi di preparazione e le tecniche di iniziazione dei futuri sciamani.

 

 

 

 

 

 

Capitolo 2. Malattie e sogni iniziatici

 

 

Malattie iniziatiche

back to index

 

Si è visto che le malattie, i sogni e le estasi più o meno patogene sono tanti mezzi di accesso alla condizione di sciamano. Talvolta queste singolari esperienze non significano altro che una «scelta» fatta dall'alto e valgono solo a preparare il candidato a ricevere ulteriori rivelazioni. Ma per lo più le malattie, i sogni e le estasi costituiscono in se stesse una iniziazione: vogliamo dire che esse vanno a trasformare l'uomo profano di prima della «scelta» in un tecnico del sacro. L'esperienza d'ordine estatico è sempre e dappertutto seguita da una istruzione teorica e pratica da parte di vecchi maestri: ma non per questo essa è meno decisiva, perché è essa che modifica radicalmente lo stato religioso della persona «scelta».

Vedremo subito come tutte le esperienze estatiche che decidono della vocazione del futuro sciamano comportino lo schema tradizionale di una cerimonia iniziatica: passione, morte e resurrezione. Considerata da questo punto di vista, una qualsiasi «malattia-vocazione» ha il valore di una iniziazione. Infatti le sofferenze da essa causate corrispondono alle torture iniziatiche, l'isolamento psichico di un «malato scelto» è l'equivalente dell'isolamento e della solitudine rituale delle cerimonie iniziatiche, l'imminenza della morte avvertita dal malato (agonia, incoscienza, ecc.) ricorda la morte simbolica che figura nella maggior parte delle cerimonie di iniziazione. Gli esempi che seguiranno mostrano tutta l'estensione di tali corrispondenze. Certe sofferenze fisiche trovano la loro precisa traduzione nei termini di una morte (simbolica) iniziatica: ad esempio, lo smembramento del corpo del candidato (= malato), esperienza estatica che può realizzarsi sia grazie alle sofferenze della «malattia-vocazione», sia per mezzo di certe cerimonie rituali, sia, infine, nei sogni.

Quanto al contenuto di coteste esperienze estatiche iniziali, benché esso sia abbastanza ricco, ripete quasi sempre uno o più d'uno dei temi seguenti: smembramento del corpo seguito da un rinnovamento degli organi interni e delle viscere; ascensione al Cielo e dialogo con gli dèi o gli spiriti; discesa agli Inferni e colloqui con gli spiriti e le anime degli sciamani morti; rivelazioni varie d'ordine religioso e sciamanico (segreti dell'arte). Tutti questi temi, come si vede facilmente, hanno carattere iniziatico. In alcuni documenti li ritroviamo tutti; in altri casi, se ne incontrano solo uno o due (smembramento del corpo, ascensione al Cielo). Del resto, è possibile che l'assenza di certi temi iniziatici sia dovuta, almeno in parte, all'insufficienza delle nostre informazioni, i primi etnologi essendosi generalmente accontentati di notizie sommarie.

Come pur stiano le cose, la presenza o l'assenza di questi temi indicano anche il particolare orientamento religioso delle tecniche sciamaniche che, caso per caso, sono state usate. V'è indubbiamente una differenza fra l'iniziazione sciamanica «celeste» e quella che si potrebbe chiamare, con certe riserve, «infernale». La parte che ha un Essere Supremo e celeste nel raggiungimento della trance estatica o, invece, l'importanza accordata agli spiriti degli sciamani morti o ai «demoni», dicono di orientamenti divergenti. È probabile che queste differenze siano dovute a delle concezioni religiose distinte, se non pure opposte. In ogni caso esse implicano una lunga evoluzione e, di certo, una storia che, allo stato attuale delle ricerche, si può ricostruire solo in modo ipotetico e provvisorio. Pel momento non dobbiamo occuparci della storia di questi vari tipi di iniziazione, e, per non complicare l'esposizione, presenteremo separatamente ciascuno di questi grandi temi mitico-rituali: spezzettamento del corpo del candidato, ascensione al Cielo, discesa agli Inferni. Bisogna però non dimenticare che questa separazione corrisponde raramente alla realtà, che, come subito lo vedremo nei riguardi degli sciamani siberiani, i tre temi iniziatici principali talvolta coesistono nell'esperienza di uno stesso individuo e che, in ogni caso, essi generalmente si ritrovano all'interno di una stessa religione. Infine, si dovrà tener presente che queste esperienze estatiche, benché costituiscano l'iniziazione propriamente detta, sono sempre integrate in un sistema complesso d'istruzione tradizionale.

Cominceremo la descrizione dell'iniziazione sciamanica con la presentazione della sua forma estatica, per la doppia ragione che essa ci sembra essere sia la più antica, sia la più completa per il suo includerne tutti i temi mitico-rituali sopra enumerati. Dopo di che indicheremo degli esempi di questa stessa forma di iniziazione quali s'incontrano anche in regioni diverse dalla Siberia e dall' Asia nord-orientale.

 

 

 

 

 

 

Estasi e visioni iniziatiche degli sciamani yakuti

back to index

 

Nel precedente capitolo abbiamo citati diversi esempi di vocazione sciamanica manifestatasi nella forma di una malattia. Talvolta non si tratta di una malattia vera e propria, ma piuttosto di una graduale trasformazione del comportamento. Il candidato diviene meditativo, cerca la solitudine, dorme molto, sembra assente, ha sogni profetici, talvolta degli accessi. Tutti questi sintomi non sono che il preludio della vita nuova che aspetta il candidato, senza che questi lo sappia. Il suo comportamento ricorda, del resto, i primi segni della vocazione mistica, che appaiono gli stessi in tutte le religioni e che son troppo noti perché qui vi si debba insistere.

Ma vi sono anche «malattie», accessi, sogni e allucinazioni tali da decidere in un breve tempo della carriera di uno sciamano. Importa poco che queste estasi patogene siano state realmente vissute, o siano invece state immaginate o perfino arricchite postumamente mediante reminiscenze folkloristiche, tanto da essere infine integrate nel quadro della mitologia sciamanica tradizionale. L'essenziale a noi sembra essere l'adesione a tali esperienze, il fatto che esse giustificano la vocazione e la forza magico-religiosa di uno sciamano e che ci si riferisce ad esse come alla sola possibile garanzia del cambiamento radicale dello stato religioso del singolo.

Ad esempio, uno sciamano yakuta, Sofron Zateiev, afferma che abitualmente il futuro sciamano muore e resta disteso tre giorni nella sua yurta senza né mangiare né bere. In tempi passati il rito, nel quale si era tagliati a pezzi, veniva ripetuto tre volte. Un altro sciamano, Piotr Ivanov, c'informa più da presso su tale cerimonia: le membra del candidato vengono staccate e separate mediante un uncino di ferro: le ossa vengono pulite, la carne viene raschiata, le sostanze liquide del corpo vengono gettate via e gli occhi strappati dalle orbite. Successivamente tutte le ossa vengono nuovamente messe insieme e legate con del ferro. Secondo un altro sciamano, Timofei Romanov, la cerimonia dello smembramento dura da tre a sette giorni: durante tutto questo tempo il candidato resta senza respirare, come un morto, in un luogo solitario.

Lo yakuta Gavriil Alekseiev afferma che ogni sciamano ha un Uccello Rapace-Madre che rassomiglia ad un grosso volatile, con un becco di ferro, artigli adunchi e una lunga coda. Questo uccello mitico appare due sole volte: alla nascita spirituale dello sciamano e alla sua morte. Gli prende l'anima, la porta nell'Inferno e la fa maturare sul ramo di un abete. Quando l'anima ha conseguito la maturità, l'uccello ritorna sulla terra, taglia il corpo del candidato a pezzi, che egli distribuisce fra gli spiriti malvagi delle malattie e della morte. Ciascuno di questi spiriti divora il pezzo del corpo che gli spetta, il che ha per effetto l'acquisizione, da parte del futuro sciamano, della facoltà di guarire le corrispondenti malattie. Dopo aver divorato tutto il corpo, gli spiriti malvagi si allontanano. Allora l'Uccello-Madre rimette a posto le ossa e il candidato si sveglia, come da un sonno profondo.

Secondo un altro insegnamento yakuta, gli spiriti malvagi portano l'anima del futuro sciamano agli Inferni ove la chiudono in una casa, per tre anni (per un solo anno, se si tratta di coloro che diverranno sciamani d'un ordine inferiore). È là che lo sciamano riceve la sua iniziazione: gli spiriti gli tagliano la testa e gliela mettono vicino (perché il candidato deve assistere coi propri occhi al suo smembramento), poi lo riducono in pezzi minuti che vengono distribuiti agli spiriti delle varie malattie. È solo a tale condizione che il futuro sciamano acquisterà il potere di operare delle guarigioni. Successivamente le ossa vengono ricoperte di carne fresca e in certi casi si immette in lui anche un nuovo sangue.

Secondo un'altra leggenda yakuta, raccolta parimenti da Ksenofontov, gli sciamani nascono nel Nord. Là cresce un abete gigantesco che porta dei nidi nei suoi rami. I grandi sciamani si trovano sui rami più alti, quelli medi nel mezzo e gli sciamani minori nella parte inferiore dell'albero. Secondo un'altra leggenda yakuta, le anime degli sciamani nascono in un abete che cresce sul Monte Dzokuo. Infine, un'altra credenza si riferisce all'Albero Yjìk-Mar la cui cima raggiunge il nono Cielo. Quest'ultimo albero non ha rami, ma le anime degli sciamani risiedono nei suoi nodi (ibid). E' evidente che qui si tratta dell'Albero Universale che cresce nel centro del Mondo e collega le tre zone cosmiche: inferno, terra e cielo. Questo simbolo ha una parte ragguardevole in tutte le mitologie centro-asiatiche e nord-asiatiche. Secondo alcuni, l'Uccello Rapace-Madre, che ha una testa d'aquila e piume di ferro, si posa sull'Albero, depone le uova e le cova: lo schiudersi di quelle cui corrispondono i medi sciamani richiedono due anni mentre per gli sciamani minori un anno basta. Quando l'anima esce dall'uovo, l'Uccello-Madre l'affida, a che venga istruita, ad una diavolessa-sciamano che ha un solo occhio, un solo braccio e un solo osso. E' una figura demoniaca che compare con notevole frequenza nelle mitologie dell'Asia centrale e della Siberia: cfr. Anakhai, demone monocolo dei Buriati, Arsari dei Ciuvasci (con un solo occhio, un solo braccio, un solo piede, ecc.), la dea tibetana Ral Gcing-ma (con un piede, una mammella scarna, un dente, un occhio, ecc.), gli dei Li-byin-ha-ra, ecc. Questa culla l'anima del futuro sciamano in una culla di ferro e la nutre con sangue quagliato. Sopravvengono poi tre «diavoli» neri che gli fanno a pezzi il corpo, gli conficcano una lancia nella testa gettano dei pezzi della sua carne in varie direzioni, nel senso di una offerta. Tre altri «diavoli» gli tagliano le mascelle, un pezzo per ogni malattia che egli dovrà in seguito curare. Se, nel computo, un osso risulta mancante, un membro della sua famiglia. dovrà morire per sostituirlo. Accade che, a causa di ciò, debbano morire fin nove persone del suo parentado.

Secondo un altro insegnamento, i «diavoli» custodiscono l'anima del candidato finché questi abbia assimilato la loro scienza. Durante tutto questo tempo il candidato giace, malato. La sua anima si è trasformata o in un uccello, o in un altro animale, o anche in un altro uomo. La «forza» del candidato vien conservata in un nido nascosto nel fogliame di un albero, e quando gli sciamani si combattono a vicenda - avendo assunta la forma di animali - ognuno si sforza di distruggere il nido del suo avversario (Lehtisalo).

In tutti questi esempi noi incontriamo il tema centrale di una cerimonia d'iniziazione: spezzettamento del corpo del neofita e rinnovamento dei suoi organi; morte rituale seguita da resurrezione e da pienezza mistica. Sarà bene tener anche presente il motivo dell'Uccello gigante che cova gli sciamani sui rami dell'Albero del Mondo; esso è di grande importanza nelle mitologie nord-asiatiche, specialmente in quella sciamanica.

 

 

 

 

 

 

Sogni iniziatici degli sciamani samojedi

back to index

 

Secondo gli informatori samoiedi yurak di Lehtisalo l'iniziazione propriamente detta comincia nel periodo in cui s'impara l'arte del tamburo; in tale occasione si cominciano a vedere gli spiriti. Lo sciamano Ganykka racconta che mentre una volta stava battendo il suo tamburo gli spiriti discesero e lo tagliarono a pezzi, troncandogli anche le mani. Rimase steso al suolo, incosciente, per sette giorni e sette notti. Durante un tale periodo, la sua anima si trovava nel Cielo, a passeggiare insieme con lo Spirito del Tuono e a far visita al dio Mikkulai.

Popov racconta quanto segue di uno sciamano dei Samoiedi Avam. Malato di vaiolo, questi restò per tre giorni in stato d'incoscienza, mezzo morto: a tal segno, che egli corse il pericolo di esser seppellito il terzo giorno. Durante questo tempo ebbe luogo la sua iniziazione. Egli si ricorda di esser stato condotto in mezzo ad un mare. Là udi la Voce della Malattia (cioè del vaiolo) che gli diceva: «Dai Signori dell'Acqua riceverai il dono dell'arte sciamanica. Il tuo nome di sciamano sarà huottarie (Colui che s'immerge)». Poi la Malattia sconvolse l'acqua di quel mare. Egli ne emerse e sali su di un monte. Là incontrò una donna nuda, e si mise a prender latte dal suo seno. La donna, che probabilmente era la Signora dell'Acqua, gli disse: «Sei mio figlio, per questo permetto che tu ti allatti al mio seno. Avrai da incontrare parecchie difficoltà e ti sentirai spossato». Il marito della Signora dell'Acqua, il Signore dell'Inferno, gli dette poi due guide, un ermellino e un topo, per condurlo all'Inferno. Raggiunto un posto elevato, le guide gli mostrarono sette tende dai tetti lacerati. Egli entrò nella prima trovandovi gli abitanti dell'Inferno e gli uomini della grande Malattia (il vaiolo). Costoro gli strapparono il cuore che gettarono in una marmitta. Nelle altre tende egli doveva conoscere il Signore della Pazzia e i Signori di tutte le malattie nervose; vi incontrò anche i cattivi sciamani. Egli apprese il significato delle diverse malattie che torturano gli uomini.

Il candidato, sempre preceduto dalle sue guide, giunse in seguito nel Paese degli Sciamani-Donne che gli fortificarono la gola e la voce. Fu poi condotto sulle rive dei Nove Mari. In mezzo ad uno di essi si trovava un'isola e, in mezzo a quest'isola, un giovane albero di betulla cosi alto da toccare il Cielo. Era l'Albero del Signore della Terra. Vicino, crescevano nove erbe, che erano i capi stipite di tutte le piante della terra. L'Albero era circondato da Mari, su ognuno dei quali nuotava una specie di uccello, coi suoi piccoli: vi si trovavano diverse varietà di anitre, un cigno e uno sparviero. Il candidato visitò tutti questi mari: alcuni erano salati, altri talmente caldi che egli non poteva avvicinarsi alla riva. Dopo averne fatto il giro, il candidato alzò la testa e, sulla cima dell'Albero, vide uomini di diverse nazioni: Samoiedi Tavgy, Russi, Dolgani, Yakuti e Tungusi. Si tratta degli avi primordiali delle nazioni, che si trovano fra i rami dell'Albero del Mondo, mito, questo, che ritroveremo anche altrove.

Udì delle voci: «È stato deciso che avrai un tamburino (cioè la cassa di un tamburo) fatto con rami di quest'Albero» (sul simbolismo del tamburo = Albero del Mondo, e sulle conseguenze che ne derivano per la tecnica sciamanica, cfr. più avanti). E cominciò a volare con gli uccelli di quei mari. Mentre si allontanava dalla riva, il Signore dell'Albero gli gridò: «Il mio ramo è caduto or ora: prendilo e fa' di esso il tamburo che dovrà servirti per tutta la vita». Da questo ramo si partivano tre rami minori e il Signore dell'Albero gli ordinò di fare con essi tre tamburi che dovranno essere custoditi da tre donne per speciali cerimonie: l'uno, per praticare lo sciamanismo sulle donne partorienti, il secondo per guarire i malati, l'ultimo per ritrovare gli uomini sperdutisi fra la neve.

Il Signore dell'Albero dette parimenti dei rami a tutti coloro che stavano in cima all'Albero. Ma, assumendo figura umana e uscendo dall'albero fino a metà del busto, soggiunse: «Un ramo solo non lo do agli sciamani, perché lo riservo per il resto degli uomini. Con questo ramo essi potranno farsi delle abitazioni e potranno anche utilizzarlo per i loro bisogni. Io son l'Albero che dà la vita ad ogni essere umano». Stringendo forte il ramo, il candidato era già pronto a riprendere il suo volo, quando udì di nuovo una voce umana che gli rivelò le virtù medicinali delle sette piante e gli trasmise certe istruzioni circa l'arte dello sciamanismo. La voce aggiunse che egli però avrebbe dovuto sposare tre donne (cosa che, peraltro, fece, sposando tre orfane da lui guarite dal vaiolo l.

Successivamente egli giunse fino ad un mare sconfinato e là trovò degli alberi e sette pietre. Queste gli parlarono l'una dopo l'altra. La prima, che aveva denti simili a quelli dell'orso e una cavità della forma di un cesto, gli rivelò che era la pietra che preme sulla Terra: esercita il suo peso sui campi affinché essi non siano portati via dal vento. La seconda serviva per fondere il ferro. Egli restò sette giorni presso tali pietre apprendendo ciò a cui esse potevano servire nel mondo degli uomini.

Le due guide, il topo e l'ermellino, lo condussero in seguito su di un monte alto e arrotondato. Vide dinanzi a lui un'apertura e penetrò in una caverna luminosissima rivestita di specchi in mezzo alla quale v'era qualcosa di simile ad un fuoco. Rivelò la presenza di due donne, nude ma ricoperte di peli, come le renne (sono delle personificazioni della Madre degli Animali, essere mitico che ha una gran parte nelle religioni artiche e siberiane). Poi si accorse che non ardeva là alcun fuoco, ma che la luce veniva dall'alto, attraverso un'apertura. Una delle donne gli annunciò d'essere incinta e di dover dare alla luce due renne: l'una sarà l'animale sacrificale dei Dolgani e degli Evenki, l'altra quello dei Tavgy. Essa gli dette anche un pelo che gli sarà prezioso quando sarà chiamato a far dello sciamanismo sulle renne. L'altra donna partorì parimenti due renne, simbolo degli animali che aiuteranno l'uomo in tutti i suoi lavori e che gli serviranno anche da nutrimento. La caverna aveva due aperture, l'una verso il Nord e l'altra verso il Sud; attraverso ognuna di esse le donne inviano una giovane renna per servire i popoli della foresta (Dolgani e Evenki). Anche la seconda donna gli dette un pelo; quando farà dello sciamanismo, è verso questa caverna che, in ispirito, si dirigerà.

In seguito il candidato raggiunse un deserto e scorse, assai distante, una montagna. Dopo tre giorni di marcia vi arrivò e attraverso un'apertura penetrò nel suo interno, incontrando un uomo nudo che si dava da fare con un mantice. Sul fuoco si trovava un calderone «grande come la metà della terra». L'uomo nudo lo scorse e lo afferrò con una enorme tenaglia. «Son morto» - ha appena il tempo di pensare il neofita. L'uomo gli tagliò la testa, fece il suo corpo a pezzetti e mise il tutto nel calderone. Cosi il corpo fu messo a cuocere, per tre anni. Nel luogo si trovavano inoltre tre incudini e l'uomo nudo dette forma alla sua testa usando la terza di esse, destinata a forgiare i migliori sciamani. Poi gettò la testa in una delle tre marmitte che si trovavano là vicino e l'acqua della quale era la più fredda. In tale occasione gli rivelò che quando si è chiamati per curare qualcuno, se l'acqua è molto calda, è inutile ricorrere all'arte sciamanica, perché l'uomo è già perduto; se I'acqua è tiepida, egli è malato ma suscettibile di guarire; l'acqua fredda, infine, è caratteristica di un uomo sano.

Poi il fabbro ripescò le sue ossa ora galleggianti su di un fiume, le rimise insieme e le ricopri di carne. Le contò e dichiarò che ve ne erano tre di troppo; a causa di ciò, l'aspirante avrebbe dovuto procurarsi tre costumi da sciamano. Gli forgiò la testa mostrandogli come si possono leggere le lettere che vi si trovano dentro. Gli cambiò gli occhi, ed è per questo che quando l'aspirante farà dello sciamanismo egli non vedrà coi suoi occhi carnali, bensì con questi occhi mistici. Gli forò le orecchie mettendolo in grado di comprendere il linguaggio delle piante. Successivamente il candidato si ritrovò sulla cima di un monte e alla fine si risvegliò nella yurta, presso i suoi. Ora, egli può cantare e far dello sciamanismo indefinitamente, senza mai stancarsi.

Abbiamo riprodotto questo racconto a causa della sua stupefacente ricchezza di contenuto mitologico e religioso. Se ci si fosse presa altrettanta cura nel raccogliere le confessioni di altri sciamani siberiani, è probabile che non ci si sarebbe mai ridotti alla solita formula: il candidato restò per un certo numero di giorni in uno stato di incoscienza, sognò che era stato fatto a pezzi dagli spiriti e condotto nei Cieli, ecc. Si vede che l'estasi iniziatica ripete assai da presso certi temi tipici: l'aspirante incontra varie figure divine (la Signori! delle Acque, il Signore degli Inferni, la Signora degli Animali) prima che i suoi animali-guida lo conducano al Centro del Mondo, sulla vetta della Montagna Cosmica, dove si trovano l'Albero del Mondo e il Signore Universale; dall'Albero Cosmico e dalle mani dello stesso Signore egli riceve il legno per costruirsi un tamburo; esseri semidemoniaci gli rivelano la natura e il modo di cura di tutte le malattie; infine, altri esseri demoniaci gli tagliano il corpo a pezzi, pezzi che poi essi cuociono e sostituiscono con organi migliori.

Ciascuno di questi elementi del racconto iniziatico è coerente e s'inquadra in un sistema simbolico o rituale ben noto nella storia delle religioni. Avremo da tornare su ciascuno di essi. L'insieme costituisce una variante ben articolata del tema universale della morte e della resurrezione mistica del candidato sotto specie di una discesa agli Inferni e di un'ascesa al Cielo.

 

 

 

 

 

 

L'iniziazione presso i Tungusi, i Buriati, ecc.

back to index

 

Lo stesso schema iniziatico lo si ritrova anche in altri popoli siberiani. Lo sciamano tunguso Ivan Colko afferma che un futuro sciamano deve ammalarsi, che il suo corpo deve essere fatto a pezzi e il suo sangue deve esser bevuto dagli spiriti malvagi (saargi). Questi - che in realtà sono le anime degli sciamani morti - gli gettano la testa in un calderone ove essa vien forgiata insieme a parti metalliche che in seguito faran parte del suo costume rituale. Un altro sciamano tunguso racconta di essere stato malato per tutto un anno. Durante questo tempo egli cantava per sentirsi meglio. Gli antenati-sciamani vennero e lo iniziarono; lo trafissero con delle freccie fino a che perdette la conoscenza e cadde al suolo; gli tagliarono la carne, gli strapparono le ossa, che furono contate: se qualche osso fosse risultato mancante, egli non avrebbe potuto divenire sciamano. Durante questa operazione, restò - per un'intera estate - senza mangiare né bere (Ksenofontov).

Benché i Buriati conoscano cerimonie pubbliche molto complesse di consacrazione sciamanica, anch'essi sanno delle «malattie-sogno» di tipo iniziatico. Ksenofontov riferisce le esperienze di Michail Stepanov: costui sa che prima di divenire sciamano il candidato deve ammalarsi per un lungo tempo; le anime degli antenati-sciamani circondano allora il candidato e lo torturano, lo colpiscono, gli tagliano il corpo con un coltello e così via. Durante tutto ciò il futuro sciamano giace inanimato; la sua faccia e le sue mani divengono bluastre, il suo cuore batte appena (Ksenofontov). Secondo un altro sciamano burlate, Bulagat Buchatcheiev, gli spiriti degli antenati conducono l'anima del candidato in Cielo, dinanzi all'«Assemblea dei Saaitan» ed è là che egli viene istruito. Dopo l'iniziazione gli si cuociono le carni per insegnargli l'arte sciamanica. È durante questa tortura iniziatica che lo sciamano resta come morto per sette giorni e sette notti. In tale occasione i parenti (eccettuate le donne) gli si avvicinano e cantano: «Il nostro sciamano risusciterà e ci aiuterà». Mentre il suo corpo viene spezzettato e cotto dagli antenati, nessuno estraneo può toccarlo.

Le stesse esperienze le si ritrovano anche altrove. Una donna teleuta è divenuta sciamana dopo aver avuto la visione di sconosciuti che le tagliarono il corpo a pezzi facendolo cuocere in una marmitta. Secondo le tradizioni degli sciamani altaici gli spiriti degli antenati mangiano la carne dei neofiti, ne bevono il sangue, aprono il loro ventre, ecc.; il baqça kazak-kirghiso afferma: «Ho nel cielo cinque spiriti che mi tagliano con quaranta coltelli, mi trafiggono con quaranta chiodi, ecc.». Presso i Bhaiga e i Gond, lo sciamano primordiale chiede ai suoi figli, ai suoi fratelli e al suo discepolo di far bollire il suo corpo in un calderone per dodici anni. L'esperienza estatica dello spezzettamento del corpo seguito dal rinnovamento dei suoi organi è nota anche agli Eschimesi. Essi parlano di un animale (orso, cavallo marino, tricheco, ecc.) che ferisce il candidato, lo fa a pezzi o lo divora; successivamente una carne nuova cresce intorno alle sue ossa (Lehtisalo). Talvolta l'animale che lo tortura diviene lo stesso spirito ausiliario del futuro sciamano (ibid.). Di solito, questi casi di vocazione spontanea si manifestano, se non attraverso una malattia, almeno in relazione a qualche speciale accidente (lotta contro un animale marino, caduta sotto il ghiaccio, ecc.) a causa del quale il futuro sciamano resti gravemente ferito. Ma la maggior parte degli sciamani eschimesi cerca da sé l'iniziazione estatica e, nel corso di questa iniziazione, attraversa varie prove, che spesso sono assai simili allo spezzettamento siberiano e centro-asiatico. Eventualmente, si tratta di una esperienza mistica di morte e resurrezione provocata dalla contemplazione del proprio scheletro, esperienza sulla quale presto avremo da tornare. Nel frattempo, vogliamo ricordare alcune esperienze iniziatiche di altri popoli che costituiscono un parallelo ai documenti ora passati in rassegna.

 

 

 

 

 

 

L'iniziazione dei maghi australiani

back to index

 

Già da tempo i primi osservatori hanno attestato che certe iniziazioni dei medicine-men australiani implicano la morte rituale e il rinnovamento degli organi del candidato, operazione compiuta sia dagli spiriti che dalle anime dei morti. Cosi il colonnello Collins (che pubblicò nel 1798 le sue impressioni) riferisce che presso le tribù di Port Jackson si diviene medicine-man dormendo sopra una tomba. «Lo spirito del morto veniva, lo afferrava per la gola, l'apriva, gli prendeva le viscere, le sostituiva con altre, la ferita chiudendosi poi da se stessa».

Gli studi più recenti hanno pienamente confermato e completato queste informazioni. Secondo i dati raccolti da Howitt, i Wotjoballuk ritengono che è un essere sovrannaturale, Ngatya, a consacrare il medicine-man: egli gli apre il ventre inserendovi i cristalli di rocca che conferiscono la potenza magica. Per creare un medicine-man gli Euahlayi procedono nel modo seguente: conducono il giovane prescelto in un cimitero e lo lasciano là legato, per parecchie notti. Dopo che egli è restato solo, numerosi animali appaiono, che toccano e leccano il neofita, Successivamente appare un uomo con un bastone; egli gli configge il bastone nella testa e mette nella piaga una pietra magica della grandezza di un limone. Allora sopravvengono altri spiriti che intonano delle canzoni magiche e iniziatiche per istruirlo nell'arte di guarire.

Presso gli indigeni di Warburton Ranges (Australia occidentale) l'iniziazione ha luogo nel modo seguente: l'aspirante penetra in una caverna e due eroi totemici (il gatto selvatico e l'ermi) lo uccidono, gli aprono il corpo, ne traggono gli organi, che vengono poi sostituiti con sostanze magiche. Gli tolgono anche la scapola e la tibia, che fanno seccare, e, prima di rimetterle a posto, le farciscono con le stesse sostanze. Durante questa prova l'aspirante è sorvegliato dal suo maestro iniziatore, che mantiene accesi i fuochi e controlla le sue esperienze estatiche.

Gli Arunta conoscono tre metodi per creare i medicine-men 1) a mezzo degli Iruntarinia, o «spiriti»; 2) a mezzo degli Eruncha dei tempi mitici Alchera); 3) a mezzo di altri medicine-men. Nel primo caso il candidato si avvicina all'apertura di una caverna e si addormenta. Arriva un Iruntarinia che «gli scaglia contro una lancia invisibile che gli entra nella nuca, gli traversa la lingua producendo una larga ferita e esce dalla bocca». In seguito, la lingua del candidato resta forata, tanto che vi si può far passare il mignolo. Una seconda lancia gli taglia la testa, e la vittima soccombe. L'Iruntarinia la porta all'interno di una caverna, che si dice essere profondissima e dove si suppone che gli Iruntarinia vivano in una luce continua, presso fresche sorgenti (in realtà, si tratta dello stesso paradiso degli Arunta). Nella caverna lo spirito gli strappa gli organi interni e li sostituisce con altri, completamente nuovi. Il candidato ritorna in vita, ma per un certo tempo si comporta come un folle. Gli spiriti Iruntarinia - che sono invisibili per il resto degli uomini, eccezion fatta per i medicine-men - lo portano in seguito nel suo villaggio. L'etichetta gli proibisce di praticare prima di un anno; se nel frattempo l'apertura prodottasi nella lingua si chiude, il candidato rinuncia, perché si ritiene che le sue virtù magiche siano scomparse. Durante questo periodo egli apprende dagli altri medicine-men i segreti dell'arte, specialmente il modo di utilizzare i frammenti di quarzo (atnongara) che gli Iruntarinia gli hanno introdotto nel corpo.

Il secondo modo per creare un medicine-man rassomiglia sensibilmente al primo, con la sola differenza che gli Eruncha invece di portare il candidato in una caverna lo trascinano con essi sotto terra. Infine, il terzo metodo implica un lungo rituale che si svolge in un luogo deserto, ove il candidato deve soffrire in silenzio l'operazione fatta da due vecchi medicine-men; questi gli strofinano il corpo con dei cristalli di rocca fino a scorticargli la pelle, premono altri cristalli sul suo cuoio capelluto, gli configgono un chiodo sotto l'unghia della mano destra e gli praticano una incisione nella lingua. Infine gli tracciano sulla fronte un disegno chiamato eruncbilda - letteralmente: «la mano del diavolo», Eruncha essendo il cattivo spirito degli Arunta. Sul corpo gli vien fatto un altro disegno, avente per centro una linea nera che rappresenta l'Eruncha con altre linee intorno, simboleggianti, a quel che sembra, i cristalli magici che porta nel suo corpo. Dopo questa iniziazione il candidato deve seguire uno speciale regime che comporta innumerevoli tabù.

Ilpailurkna, un celebre mago della tribù degli Unmatjera, raccontò a Spencer e Gillen che «quando divenne medicine-man, un giorno un dottore vecchissimo venne e gli scagliò contro alcune pietre atnongara (Queste pietre atnongara sono dei piccoli cristalli che si crede si trovino distribuiti nel corpo di un medicine-man e che egli saprebbe estrarre a volontà. E' il possesso dr queste pietre a conferire al medicine-man il suo potere) con una balestra. Di queste pietre alcune lo colpirono nel petto, altre gli traversarono la testa da un orecchio all'altro uccidendolo. Poi il vecchio gli tolse tutti gli organi interni - intestino, fegato, cuore e polmoni - lasciandolo disteso al suolo tutta la notte. Ritornò all'indomani, lo osservò e, dopo aver poste delle altre pietre atnongara all'interno del suo corpo, delle sue braccia e delle sue gambe, lo copri di foglie; poi cantò sopra il suo corpo finché questo si gonfiò. Successivamente lo munì di organi nuovi, depose in lui molte altre pietre atnongara e gli dette dei colpi sulla testa: ciò valse a rianimarlo e a farlo balzare in piedi. Allora il vecchio medicine-man gli dette da bere dell'acqua e gli fece mangiare della carne contenente pietre atnongara. Svegliatosi, il neofìta non sapeva più dove si trovasse. " Credo d'esser perduto! ", disse. Ma, guardandosi d'intorno, egli vide al suo fianco il vegliardo che gli disse:

"No, non sei perduto; ti ho ucciso già da tempo". Ilpailurkna aveva tutto dimenticato di se stesso e della sua vita passata. Poi il vecchio lo ricondusse al campo e gli mostrò sua moglie, la sua lubra: l'iniziando aveva dimenticato tutto dì essa. Il suo ritorno cosi curioso e il suo strano comportamento fecero subito capire agli indigeni che era divenuto un medicine-man».

Presso i Warramunga l'iniziazione si compie a mezzo degli spiriti puntidir che sono l'equivalente degli Iruntarinia degli Arunta. Un medicine-man raccontò a Spencer e Gillen che era stato inseguito per due giorni da due spiriti che dicevano di essere «suo padre e suo fratello». Nella seconda notte tali spiriti si avvicinarono nuovamente e lo uccisero. «Mentre giaceva morto, essi gli aprirono il corpo portandone via gli organi che furono tuttavia sostituiti con organi nuovi, infine gli misero nel corpo una piccola serpe che gli conferì ilpotere proprio al medicine-man» (The Northern Tribes, p. 484).

Una esperienza analoga ha luogo in occasione della seconda iniziazione dei Warramunga, iniziazione che, secondo Spencer e Gillen (ibid., p. 485), è ancor più misteriosa. I candidati debbono camminare o restare in piedi continuamente, finché cadono spossati e privi di coscienza. «Allora i loro fianchi vengono aperti e, come al solito, si tolgono i loro organi interni che vengono sostituiti con degli altri, nuovi». Si introduce una serpe nella loro testa e si fora il loro naso con un oggetto magico (kupitja) che, in seguito, servirà loro per curare i malati. Questi oggetti sono stati fatti nei tempi mitici Alcheringa da certe serpi potentissime.

Presso i Bimbinga si ritiene che i medicine-men vengano consacrati dagli spiriti Mundadji e Munkaninji (padre e figlio). Il mago Kurkutji racconta come egli un giorno, penetrando in una caverna, trovò il vecchio Mundadji che lo prese per il collo e lo uccise. «Mundadji gli aprì il corpo all'altezza della vita, gli tolse gli organi interni e mise i propri nel corpo di Kurkutji aggiungendovi un certo numero di pietre sacre. Ciò fatto, lo spirito più giovane, Munkaninji, gli si avvicinò e gli restitui la vita; gli significò che egli era ormai divenuto un medicine-man e gli indicò il modo di strappare le ossa e di liberare coloro che son colpiti da un sortilegio. Dopo averlo fatto salire fino al cielo lo ricondusse in terra, al suo campo, ove gli indigeni già lo piangevano, credendolo morto. Restò a lungo in uno stato di stupore, ma poi, a poco a poco, tornò in sé: allora gli indigeni compresero che egli era divenuto un medicine-mano Si ritiene che quando costui effettua un'operazione magica, lo spirito Munkaninji gli sia vicino per sorvegliarlo, senza - naturalmente - che sia veduto dalla gente ordinaria. Quando cava un osso - operazione comunemente compiuta col favore della notte - Kurkutji, anzitutto, sugge intensamente in corrispondenza dello stomaco del paziente e ne trae una certa quantità di sangue. Quindi fa sopra il corpo dei passi, lo percuote coi pugni, lo martella e lo sugge fino a che non ne sia uscito l'osso che, poi, getta via immediatamente, prima che i presenti possano accorgersene, verso il luogo in cui Munkaninji è assiso a sorvegliarlo in piena tranquillità. A questo punto Kurkutji racconta agli indigeni che deve andare a chiedere a Munkaninji il permesso di far vedere l'osso; dopo averlo ottenuto, va nel posto in cui, probabilmente, ne aveva deposto uno in precedenza, e ne ritorna con esso».

Nelle tribù Mara la tecnica è pressoché identica. Chi desidera divenire medicine-man accende un fuoco e vi brucia del grasso, attirando in tal modo due spiriti, Minungarra. Questi si avvicinano e incoraggiano il candidato, assicurando che essi non lo uccideranno completamente. «Anzitutto lo rendono insensibile e, come al solito, gli fanno un taglio nel corpo ritirando gli organi che vengon sostituiti da quelli di uno degli spiriti. Poi gli si ridà la vita, gli si dice che ormai è divenuto un medicine-man, gli si mostra come si estraggono le ossa ai pazienti o si liberano gli uomini dai sortilegi; dopo di che, lo si trasporta in cielo. Infine lo si fa ridiscendere e lo si lascia nelle immediate vicinanze del campo, dove gli amici, che lo piangevano per morto, lo trovano... Fra i poteri posseduti da un medicine-man della tribù Mara figura quello di arrampicarsi di notte su per una corda invisibile ai comuni mortali fino a raggiungere il cielo, ove egli può conversare con gli spiriti siderali».

 

 

 

 

 

 

Confronti fra Australia, Siberia, America del Sud ecc.

back to index

 

Come si vede, l'analogia fra le iniziazioni degli sciamani siberiani e quelle dei medicine-men australiani è molto stretta. Nell'uno come nell'altro caso il candidato subisce, da parte di esseri semi-divini o di antenati, un'operazione che comprende lo spezzettamento del corpo e il rinnovamento degli organi interni e delle ossa. Nell'uno come nell'altro caso questa operazione ha luogo in un «inferno», o implica una discesa agli inferni. Quanto ai pezzi di quarzo o agli altri oggetti magici che gli spiriti introdurrebbero nel corpo del candidato australiano (sull'importanza che i medicine-men australiani accordano ai cristalli di rocca, cfr. più avanti; si pensa che questi cristalli siano gettati giù dal cielo da parte degli Esseri Supremi, o che siano staccati dal trono di queste divinità; dunque partecipano della forza magico-religiosa uranica), essi fan parte di una pratica che fra i Siberiani è di scarsa importanza. Infatti, come si è visto, solo di rado si fa allusione a pezzi di ferro o ad altri oggetti messi a fondere nello stesso calderone ove sono state gettate le ossa e le carni del futuro sciamano. Un'altra differenza oppone Siberia e Australia: in Siberia la maggior parte degli sciamani vien «scelta» dagli spiriti e dagli dèì, mentre in Australia la carriera del medicine-man sembra poter essere tanto il risultato di una ricerca volontaria del candidato quanto quello di una «elezione» spontanea da parte di spiriti e di esseri divini.

Occorre del resto aggiungere che i metodi iniziatici dei maghi australiani non si riducono ai tipi ora citati (cfr. più avanti). Benché l'elemento essenziale di una iniziazione sembra essere lo spezzettamento del corpo e la sostituzione degli organi interni, vi sono anche altri metodi per consacrare un medicine-man, e, in primo luogo, l'esperienza estatica di una ascesa al Cielo includente una istruzione da parte degli esseri celesti. Talvolta l'iniziazione comporta sia lo spezzettamento del candidato che la sua ascensione al Cielo (si è appena visto che proprio di ciò è il caso presso i Bimbinga e i Mara). Altrove l'iniziazione si realizza nel corso di una discesa mistica agli Inferni. Tutti questi tipi di iniziazione li incontriamo parimenti fra gli sciamani siberiani e centro-asiatici. Una siffatta simmetria fra due gruppi di tecniche mistiche appartenenti a popolazioni arcaiche cosi distanti spazialmente non è priva di significato per quel che riguarda il posto che conviene dare allo sciamanismo nella storia generale delle religioni.

In ogni modo queste analogie fra Australia e Siberia confermano visibilmente l'autenticità e l'antichità dei riti sciamanici di iniziazione. L'importanza che ha la caverna nell'iniziazione del medicine-man è ulteriore convalida di questo carattere di antichità, data la parte di rilievo che la caverna sembra aver avuto nelle religioni paleolitiche. D'altra parte, caverna e labirinto han continuato ad avere una funzione di prim'ordine nei riti d'iniziazione di altre culture arcaiche (come per es. a Malekula), l'una e l'altro essendo, infatti, simboli concreti delle vie che conducono all'altro mondo, che permettono una discesa agli Inferni. Secondo le prime informazioni che si ebbero circa gli sciamani Araucan del Cile, questi realizzavano la loro iniziazione in caverne spesso adorne di teste di animali (anche in Australia esistono delle caverne dipinte, ma esse vengono utilizzate per altri riti; allo stato attuale delle nostre conoscenze, è difficile accertare se le caverne dipinte dell'Africa del Sud sono servite, in altri tempi, per delle cerimonie d'iniziazione sciamaniche).

Presso gli Eschimesi di Smith Sound l'aspirante deve avvicinarsi, di notte, ad una scogliera ricca di caverne e andar dritto, nel buio. Se è predestinato a divenire sciamano i suoi passi lo condurranno direttamente in una caverna, altrimenti sbatterà contro la roccia. Non appena entrato, la caverna si chiude dietro di lui e non si aprirà nuovamente che dopo un certo tempo. Il candidato deve approfittare di questa riapertura per affrettarsi ad uscire; altrimenti rischia di restar chiuso per sempre all'interno della scogliera. Le caverne hanno una parte importante anche nell'iniziazione degli sciamani nord-americani; è in luoghi siffatti che gli aspiranti hanno i loro sogni e incontrano i loro spiriti ausiliari.

D'altra parte, importa metter fin d'ora in evidenza le corrispondenze che si possono trovare altrove per la credenza dell'introduzione di cristalli di rocca nel corpo del candidato da parte degli spiriti e degli iniziatori. Questo motivo lo si ritrova anche fra i Semang della Malacca (lo bala, il medicine-man dei Semang, opera mediante dei cristalli di quarzo che possono essere ottenuti direttamente dai Cenoi, che sono spiriti celesti. Essi vivono talora anche nei cristalli e, in questo caso, sono agli ordini dello bala; col loro aiuto, lo bala vede nei cristalli il male che affligge il paziente e trova subito il modo di guarirlo. Si noti l'origine celeste dei cristalli (Cenoi), la quale già ci indica qual sia la fonte dei poteri del medicine-man) mentre costituisce una precisa caratteristica dello sciamanismo sud-americano. «Lo sciamano Cobeno introdusse nella testa del novizio dei cristalli di rocca che gli rosero il cervello e gli occhi onde sostituirsi a questi organi e divenire la sua "forza"». In altri luoghi i cristalli di rocca stanno a simbolizzare gli spiriti ausiliari dello sciamano (Métraux). In genere, per gli sciamani dell'America del Sud tropicale, la forza magica si concretizza in una sostanza invisibile che i maestri talvolta trasmettono ai novizi da bocca a bocca. «Non vi è differenza di natura fra la sostanza magica, massa invisibile ma tangibile, e le freccie, le spine, i cristalli di rocca coi quali lo sciamano viene farcito. Questi oggetti materializzano la forza dello sciamano che, in numerose tribù, vien concepita sotto la forma più vaga, anche se poco astratta, di sostanza magica» (ibid.).

Questo motivo arcaico che collega lo sciamanismo sud-americano alla magia australiana è importante. Vedremo subito che esso non è il solo.

 

 

 

 

 

 

Lo smembramento iniziatico nell'America del Nord e del Sud, in Africa e in Indonesia

back to index

 

In effetti, tanto la vocazione spontanea che la ricerca iniziatica implicano, sia nell' America del Sud, sia in Australia, sia in Siberia, una malattia misteriosa ovvero un rituale più o meno simbolico di morte mistica, dato talvolta nei termini di uno spezzettamento del corpo e di un rinnovamento degli organi.

Presso gli Araucani la scelta generalmente si manifesta con una subita malattia: il giovane cade «come morto» e quando ritrova le proprie forze, dichiara che diverrà machi. Una figlia di pescatori raccontò al Padre Housse: «Raccoglievo delle conchiglie tra gli scogli, quando sentì una specie di colpo nel petto e, dentro, una voce, ben distinta, che mi diceva: "Fatti machi! È la mia volontà!". Nello stesso punto violenti dolori alle viscere mi fecero perdere la conoscenza. Era evidentemente il Ngenechen, colui che domina gli uomini, che scendeva in me» (Métraux).

Come giustamente rileva Métraux, l'idea della morte simbolica dello sciamano è in genere suggerita dai lunghi svenimenti e dal sonno letargico del candidato. I neofiti Yamana della Terra del Fuoco si fregano il viso fino a che appaia una seconda e talvolta perfino una terza pelle, «la pelle nuova», visibile ai soli iniziati.  La vecchia pelle deve sparire e far luogo ad uno nuovo strato 'delicato e traslucido; se le prime settimane di sfregamento e di verniciatura han finito per renderlo evidente, - quanto meno, secondo l'imaginazione e le allucinazioni degli yékamusb (= medicine-meni provetti) - i vecchi iniziati non provano più alcun dubbio circa le capacità del candidato. Da questo momento, egli deve raddoppiar lo zelo e soffregarsi sempre delicatamente le guance finché non giunga a una terza pelle, ancor più fine e delicata; a quel punto, essa è cosi sensibile che non la si può sfiorare senza provocare violenti dolori. Quando l'allievo ha finalmente raggiunto questo stadio, la normale istruzione, quale può offrirla Loima-Yékamush, è terminata. Presso i Bakairi, i Tupi-Imba ed i Caraibi, la morte (per mezzo di succo di tabacco) e la resurrezione del candidato sono formalmente attestate. Durante la festa di consacrazione dello sciamano araucano i maestri e i neofiti camminano a piedi nudi sul fuoco senza bruciarsi e senza che le loro vesti prendano fuoco. Li si vede anche strapparsi il naso e gli occhi. «L'iniziatore faceva credere ai profani che egli si strappava la lingua e gli occhi per scambiarli con quelli dell'iniziando. Egli lo trafiggeva anche con una bacchetta che, entrata nel ventre, usciva dalla schiena senza effusione di sangue né dolore» (Rosales, Historia generai del Regno de Chile). Gli sciamani Toba sono colpiti in pieno petto da una bacchetta che penetra in essi come una palla di fucile.

Motivi analoghi appaiono nello sciamanismo nord-americano. Gli iniziatori Maidu mettono i candidati in una fossa piena di «medicina» e lì uccidono mediante un «veleno-medicina»; grazie a questa iniziazione i neofiti acquistano la facoltà di tener in mano, senza farsi alcun male, pietre arroventate. Nella società sciamanica «Ghost ceremony» dei Pomo l'iniziazione comporta la tortura, la morte e la resurrezione dei neofiti; questi giacciono a terra come dei cadaveri e vengono ricoperti di paglia. Un non diverso rituale noi lo incontriamo presso gli Yuki, gli Huchnom e i Miwok della costa. L'insieme delle cerimonie iniziatiche degli sciamani Pomo della costa ha il nome significativo di «taglio». Presso i River Patwin chi aspira a far parte della società Kuksu si ritiene che debba esser trafitto nell'ombellico da una lancia e da una freccia ad opera dello stesso Kuksu; muore, e vien risuscitato da uno sciamano. Gli sciamani Luisefio si «uccidono» a vicenda con delle freccie. Presso i Tlingit la prima presa di possesso del candidato sciamano da parte delle forze sovrasensibili si manifesta con una trance che lo fa stramazzare al suolo. Il neofita Menomini vien «lapidato» con oggetti magici dall'iniziatore, e quindi risuscitato. È poi inutile rilevare che un po' dappertutto nell'America del Nord i riti d'iniziazione alle società segrete, sciamaniche o meno, comportano il rituale della morte e della resurrezione del candidato (Loeb).

Lo stesso simbolismo della morte e della resurrezione mistica sotto forma sia di misteriose malattie, sia di cerimonie sciamaniche di iniziazione, lo si ritrova anche altrove. Presso i Sudanesi dei Monti Nuba la prima consacrazione iniziatica è chiamata «testa» e vien riferito che si tratta di un rito nel quale «si apre la testa del novizio affinché lo spirito possa entrarvi». Però san parimenti note inizi azioni che si realizzano per mezzo di sogni sciamanici o di speciali accidenti. Ad esempio, uno sciamano all'età di circa trent'anni ebbe una serie di sogni significativi: sognò un cavallo rosso dal ventre bianco, un leopardo che gli posava una zampa sulla spalla, una serpe che lo mordeva - 'San tutti animali che hanno una parte importante nei sogni sciamanici. Poco dopo cominciò d'un tratto a tremare, perse la conoscenza e si mise a profetizzare. Era il primo segno dell'«elezione»; però poi dovette attendere dodici anni prima di poter essere consacrato Kuiur. Un altro sciamano non ebbe sogni, ma una notte la sua capanna fu colpita dalla folgore ed egli «restò come morto per due interi giorni» (Nadel).

Uno stregone amazulu racconta ai suoi amici che egli ha sognato una corrente che lo trascinava. Egli sogna varie cose. Il suo corpo s'indebolisce e i sogni lo perseguitano. Sogna molte cose e risvegliandosi dice agli amici: «Il mio corpo oggi è spezzato. Ho sognato che molte persone stavano uccidendomi. Son fuggito, non so bene come. Svegliatomi, una parte del corpo provava sensazioni diverse da quelle dell'altra. Il mio corpo non era piri lo stesso».

Che si tratti di sogno, di malattia o di rito iniziatico, l'elemento centrale è sempre lo stesso: morte e resurrezione simboliche del neofita, comportanti uno smembramento del corpo eseguito in forme diverse (spezzettamento, taglio, apertura del ventre, ecc.). Negli esempi che faremo ora seguire appare ancor più chiaramente che i maestri iniziatori mettono a morte ilcandidato.

Ecco la prima fase di una iniziazione da medicine-man a Malekula: «Un Bwili di Lol-narong ricevette la visita del figlio di sua sorella, che gli dice: "Desidero che tu mi dia qualcosa". Il Bwili dice: "Ne hai realizzate le condizioni?" - " Si, le ho realizzate". Egli chiede ancora: " Hai giaciuto con una donna? ". Il nipote risponde: "No". Il Bwili dice: "Sta bene" e allora ordina: "Vieni qui, stenditi su queste foglie". Il giovane vi si stese. Il Bwili si fece un coltello di bambù. Tagliò il braccio del giovane e lo pose su due foglie. Ride di suo nipote e questo gli risponde con uno scoppio di risa. Allora gli tagliò l'altro braccio ponendolo sulle foglie vicino al primo. Ritorna, e i due ridono di nuovo. Tagliò una gamba all'altezza della coscia e la pose vicino alle braccia. Ritorna e ride, e il giovane lo imita. Allora tagliò l'altra gamba mettendola vicino alla prima. Ritorna e ride. Il nipote rideva sempre. Infine gli troncò la testa tenendola davanti a sé. Ride, ed anche la testa ride. Dopo di che rimette la testa a posto. Riprende le braccia e le gambe che aveva tolte e le rimette a posto anch'esse». Il seguito di questa cerimonia iniziatica implica la trasformazione magica del maestro e del discepolo in volatili - simbolo ben noto, sul quale avremo da tornare, del «potere di volare» posseduto dagli sciamani e, in genere, dagli stregoni.

Secondo una tradizione dei Papua Kiwai, una notte un uomo fu ucciso da un òboro (spirito d'un morto) che gli tolse tutte le ossa e le sostituiti con ossa òboro. Quando lo spirito lo risuscitò, quell'uomo era simile agli spiriti, cioè era divenuto sciamano. L'òboro gli dette un osso col quale poteva chiamare gli spiriti.

Presso i Daiachi del Borneo l'iniziazione del manang (sciamano) comprende tre diverse cerimonie, corrispondenti ai tre gradi dello sciamanismo daiacco. Il primo grado, besudi (termine che, a quanto sembra, vuol dire «palpare, toccare») è anche il più elementare e lo si può ottenere con pochissimo danaro. Il candidato si stende sulla veranda come se fosse malato e gli altri manang gli fanno dei passi durante tutta la notte. Si suppone che in questo modo gli si insegni come il futuro sciamano può scoprire le malattie e i rimedi: appunto palpando il paziente (non è escluso che in tale occasione i vecchi maestri introducano nel corpo del candidato la «forza» magica nella forma di sassolini o di altri oggetti).

La seconda cerimonia, detta bekliti («apertura»), è più complessa e riveste un carattere nettamente sciamanico. Dopo una notte di incantesimi, i vecchi manang conducono il neofita in una stanza isolata per mezzo di cortine. «Essi affermano che là gli tagliano la testa e gli asportano il cervello; dopo averlo lavato, lo rimettono a posto allo scopo di infondere al candidato una intelligenza limpida atta a penetrare i misteri degli spiriti malvagi e delle malattie; poi gli introducono dell'oro negli occhi onde dargli una vista cosi penetrante da poter vedere l'anima, in qualunque luogo essa si trovi, smarrita o vagabonda; gli piantano degli uncini dentati all'estremità delle dita per farlo capace di catturare l'anima e di tenerla saldamente; infine gli trafiggono il cuore con una freccia per renderlo pietoso e pieno di simpatia verso coloro che son malati e che soffrono» (cfr. il mito dello smembramento dello sciamano primordiale presso i Nodora Gond). Naturalmente, si tratta di una cerimonia simbolica; gli si mette sul capo una noce di cocco che poi viene spezzata, ecc. Esiste una terza cerimonia a perfetta integrazione dell'iniziazione sciamanica, cerimonia che comprende un viaggio estatico in Cielo su di una scala rituale. Su questo rito torneremo in uno dei capitoli successivi.

Come si vede, si è in presenza di una cerimonia simboleggiante la morte e la resurrezione del candidato. La sostituzione delle viscere vien fatta in sede di rito, per cui non implica necessariamente l'esperienza estatica del sogno, della malattia o di una passeggera follia, come ne è il caso presso i candidati australiani o siberiani. La giustificazione che si dà al rinnovamento degli organi (conferire un miglior potere di visione, la tenerezza del cuore, ecc.), ove sia autentica, tradisce una dimenticanza del senso originario del rito.

 

 

 

 

 

 

Iniziazione degli sciamani eschimesi

back to index

 

Presso gli Eschimesi Ammasilik non è il discepolo che si presenta dinanzi al vecchio angakok (plurale: angàkut) per essere iniziato; è lo stesso sciamano che lo sceglie, e dalla più tenera età. Questi discerne fra i ragazzi (dai sei agli otto anni) quelli che egli ritiene più qualificati per l'iniziazione, «affinché la conoscenza dei poteri più alti che esistano possa venire conservata per le generazioni future» (Thalbitzer). «Solo certe anime particolarmente dotate, dei temperamenti di sognatori, dei visionari a tendenza isterica, possono esser scelti. Un vecchio angakok trova un discepolo e l'insegnamento ha luogo nel più profondo mistero, lontano dalla capanna, in montagna». L'angakok gli insegna come isolarsi in solitudine, presso un vecchio sepolcro, sulla riva di un lago, dove si metterà a fregare una pietra con l'altra aspettando l'avvenimento. «Allora l'orso del lago o del ghiacciaio dell'interno uscirà, ti divorerà tutta la carne, farà di te uno scheletro e tu morirai. Ma poi ritroverai la tua carne, ti sveglierai e le tue vesti voleranno verso di te». Presso gli Eschimesi del Labrador è lo stesso Torngàrsoak, il Grande Spirito, ad apparire nella forma di un enorme orso bianco, e a divorare l'aspirante (Weyer). Nella Groenlandia occidentale quando lo spirito appare il candidato resta «morto» per tre giorni (ibid.).

Si tratta evidentemente di una esperienza estatica di morte e di resurrezione rituale durante la quale il ragazzo perde la coscienza per qualche tempo. Quanto alla riduzione del discepolo ad uno scheletro e al suo successivo esser ricoperto di carne nuova, ciò costituisce una nota specifica dell'iniziazione eschimese che fra poco incontreremo di nuovo, trattando di un'altra tecnica mistica. Il neofita stropiccia le sue pietre per tutta l'estate e perfino durante più estati di seguito, fino al momento in cui ottiene i suoi spiriti ausiliari (Thalbitzer, Weyer); ma ad ogni stagione egli cerca un nuovo maestro per estendere le sue esperienze (giacché ogni angakok è specialista di una data tecnica) e per formarsi una sua truppa di spiriti (Thalbitzer). Nel periodo in cui egli frega le pietre deve osservare diversi tabù. Ovunque nel mondo, e di qualunque genere sia, l'iniziazione include un certo numero di tabù. Sarebbe noioso ricordare l'enorme morfologia di tali interdetti che, in definitiva, son senza interesse diretto nel quadro delle nostre ricerche. Un angakok istruisce cinque o sei discepoli alla volta (Thalbitzer), e vien pagato per l'istruzione che impartisce. Knud Rasmussen riferisce la storia dello sciamano Igjugarjuk che, durante il suo ritiro iniziatico nella solitudine, si sentiva «un po' morto». Più tardi, lui stesso iniziò la cognata scaricando su di essa una palla (aveva sostituito al piombo una pietra). In un terzo caso di iniziazione si fa menzione di cinque giorni trascorsi nell'acqua gelata, senza che i vestiti del candidato si bagnassero.

Presso gli Eschimesi Iglulik le cose sembrano andare diversamente. Quando un giovane o una giovane desidera divenire sciamano si presenta con un dono al maestro da lui prescelto e dichiara: «Son venuto da te perché desidero vedere». La sera stessa lo sciamano interroga i suoi spiriti «onde rimuovere ogni ostacolo». Poi il candidato e la sua famiglia procedono ad una confessione dei peccati (infrazioni ai tabù, ecc.) e, ciò facendo, si purificano di fronte agli spiriti. Il periodo d'istruzione non è lungo, specie se è di uomini che si tratta; può anche non oltrepassare i cinque giorni. È però convenuto che il candidato continuerà per conto suo la preparazione, in solitudine. L'istruzione ha luogo al mattino, a mezzogiorno, alla sera e durante la notte. Durante questo periodo il candidato mangia pochissimo, e la sua famiglia non prende parte alle caccie.

L'iniziazione propriamente detta comincia con una operazione circa la quale non siamo bene informati. Il vecchio angakok estrae dagli occhi, dal cervello e dalle viscere del discepolo la sua «anima» affinché gli spiriti conoscano ciò che nel futuro sciamano vi è di meglio (Rasmussen). Grazie a questa «estrazione dell'anima» il candidato acquista il potere di staccare di propria iniziativa lo spirito dal corpo e di intraprendere i grandi viaggi mistici attraverso lo spazio e le profondità del mare (ibid., p. 113). Può darsi che questa misteriosa operazione rassomigli, in un certo modo, alle tecniche degli sciamani australiani che abbiamo riferite più su. In ogni caso «l'estrazione dell'anima» dalle viscere è un visibile travestimento dell'operazione di «rinnovamento» degli organi interni.

Successivamente il maestro trasmette al discepolo l'angàkoq, chiamato anche qaumaneq, cioè il suo «lampo» o la sua «illuminazione», giacché l'angàkoq consiste «in una luce misteriosa che lo sciamano sente d'un tratto nel corpo, dentro la testa, nel cuore e perfino nel cervello; un faro inesplicabile, un fuoco luminoso che lo rende capace di vedere nel nero, in senso figurato, perché egli ora, perfino ad occhi chiusi, riesce a vedere attraverso le tenebre e ad appercepire cose e avvenimenti futuri, celati ad ogni altro uomo; per tal via può conoscere sia l'avvenire che i segreti degli altri», (Rasmussen).

Il candidato ottiene questa luce mistica dopo lunghe ore di attesa, passate seduto su di una panca nella sua capanna, ove egli invoca gli spiriti. Quando la sperimenta per la prima volta, è come «se d'un tratto la dimora in cui si trova s'innalzasse; egli vede lontano dinanzi a lui, attraverso le montagne, proprio come se la terra fosse tutta una grande pianura, i suoi occhi raggiungendo i confini di essa. Nulla è più nascosto dinanzi a lui. Non solo egli è in grado di vedere a grande distanza, ma può anche scoprire le anime che sono state rubate, sia che queste siano custodite e occultate in strane regioni lontane, sia che esse siano state trasportate in alto o in basso nel regno dei morti» (ibid).

Qui noi incontriamo anche quell'esperienza di elevazione, di ascensione e perfino di levitazione che, se caratterizza lo sciamanismo siberiano, si ritrova anche altrove e può esser considerata come un tratto specifico delle tecniche sciamaniche in genere. Avremo occasione di tornare più di una volta su queste tecniche ascensionali e su ciò che esse implicano dal punto di vista religioso. Per il momento noteremo che l'esperienza della luce interiore che decide della carriera dello sciamano Iglulik è familiare a numerose mistiche di tipo superiore. Per limitarci a qualche esempio, nelle Upanishad la «luce interiore» (antarjyotih) definisce l'essenza stessa dell'àtman. Nelle tecniche yoga, specialmente in quelle di certe scuole buddhiste, la luce variamente colorata indica la riuscita di determinate meditazioni. Del pari, il Libro del Morto tibetano accorda grande importanza alla luce nella quale - a quanto pare - è immersa l'anima del morente durante l'agonia ed immediatamente dopo la morte: dalla fermezza con cui si sceglie la luce immacolata dipende il destino post-mortem degli uomini (liberazione o reincarnazione). E infine, non si dimentichi la parte immensa che la luce interiore ha nella mistica e nella teologia cristiana. Tutto ciò dovrebbe indurre a considerare con maggiore comprensione le esperienze degli sciamani eschimesi: vi è ragione di credere che tali esperienze mistiche siano state, in un qualche modo, accessibili all'umanità arcaica fin da tempi remoti.

 

 

 

 

 

 

La contemplazione del proprio scheletro

back to index

 

Il quamaneq è una facoltà mistica che il maestro talvolta procura al discepolo e che procede dallo Spirito della Luna. Ma il discepolo può anche ottenerla direttamente con l'aiuto degli spiriti dei morti, della Madre dei Caribu o degli orsi (Rasmussen). Comunque, si tratta sempre di una esperienza personale; quegli esseri mistici non costituiscono che le sorgenti dalle quali il neofita sa di aver il diritto di attendere la rivelazione una volta che egli si sia adeguatamente preparato.

Già prima di procedere all'acquisizione di uno o di più spiriti ausiliari, i quali sono come i nuovi «organi mistici» di qualunque sciamano, il neofita eschimese deve superare vittoriosamente una grande prova iniziatica. Per riuscire, questa esperienza esige un lungo sforzo di ascesi fisica e di contemplazione mentale. avente il fine di ottenere la capacità di vedersi come uno scheletro. Su questo esercizio spirituale gli sciamani interrogati da Rasmussen han dato informazioni assai vaghe, che l'illustre esploratore riassume nel modo seguente: «Benché nessuno sciamano possa spiegare come e perché, tuttavia egli, in virtù della potenza che il suo pensiero riceve dal sovrannaturale, può spogliare il proprio corpo dal sangue e dalla carne tanto che restino le sole ossa. Allora egli deve nominare tutte le parti del suo corpo, deve menzionare ogni osso col suo nome; per far ciò, egli non deve utilizzare il linguaggio umano ordinario ma soltanto il linguaggio speciale e sacro degli sciamani, che ha appreso dal suo istruttore. Osservandosi cosi, nudo e affatto libero dalla carne e dal sangue caduco ed effimero, egli, usando sempre la lingua sacra degli sciamani, si consacra al grande compito attraverso la parte del corpo destinata a resistere di più all'azione del sole, del vento e delle intemperie» (Rasmussen).

Questo importante esercizio di contemplazione, che equivale ad una iniziazione (giacché l'ottenimento degli spiriti ausiliari è rigorosamente condizionato dal suo riuscire), ricorda singolarmente i sogni degli sciamani siberiani, con la sola differenza che, nel secondo caso, la riduzione allo stato di scheletro è un'operazione eseguita dagli antenati-sciamani o da altri esseri mitici, mentre fra gli Eschimesi si tratta di un'operazione mentale di cui ci si rende capaci mediante una ascesi e degli sforzi personali di concentrazione. Qui come là gli elementi essenziali di questa visione mistica sono l'asportazione della carne, l'enumerazione e la denominazione delle ossa. Lo sciamano eschimese ottiene questa visione in seguito ad una preparazione lunga e dura. Gli sciamani siberiani nella maggior parte dei casi vengono però «scelti» e assistono passivamente al proprio smembramento da parte di esseri mitici. Ma in tutti questi casi la riduzione dell'uomo a scheletro contrassegna in egual modo un superamento della condizione umana profana e, pertanto, il liberarsi da questa.

Devesi però aggiungere che siffatto superamento non ha sempre le stesse conseguenze mistiche. Come lo vedremo studiando il simbolismo del costume sciamanico, lo scheletro, secondo le prospettive spirituali dei cacciatori e dei pastori, rappresenta la scaturigine stessa della vita, tanto di quella umana che della Grande Vita animale. Ridursi allo stato di scheletro equivale ad un reintegrarsi nella matrice di questa Grande Vita, cioè, a un rinnovarsi completamente, a un mistico rinascere. D'altra parte, in certe meditazioni centro-asiatiche di origine, o, almeno, di struttura buddhista e tantrica, la riduzione allo stato di scheletro ha un valore prevalentemente ascetico e metafisico: equivale ad anticipare l'opera del tempo e a ridurre, in pensiero, la Vita a ciò che essa è realmente: un'illusione effimera in perpetua trasformazione (cfr. più giù).

Notiamo che di coteste contemplazioni alcune sono sopravvissute in seno alla stessa mistica cristiana, il che prova ancora una volta che le situazioni-limite raggiunte nelle prime prese di coscienza dell'uomo primordiale si mantengono immutabili. Certo, una differenza di contenuto separa tali esperienze religiose le une dalle altre, come lo si vedrà nei riguardi della riduzione allo stato di scheletro in uso presso i monaci buddhisti dell'Asia Centrale. Ma, da un certo punto di vista, tutte queste esperienze contemplative si equivalgono; noi ritroviamo dappertutto la stessa volontà di superare la condizione profana individuale e di raggiungere una prospettiva supertemporale: che si tratti di un riimmergersi nella vita originaria onde conseguire il rinnovamento spirituale di tutto il proprio essere, ovvero (come nella mistica buddhista e nello sciamanismo eschimese) di un liberarsi dall'illusione della carne, il risultato è lo stesso: ritrovare in un qual. che modo la sorgente stessa della vita spirituale, che è ad un tempo «verità» e «vita» .

 

 

 

 

 

 

Iniziazioni tribali e società segrete

back to index

 

Abbiamo ripetutamente messo in rilievo l'essenza iniziatica della «morte» del candidato, cui segue la sua «resurrezione», quale si sia la forma in cui essa si presenta: sogno estatico, malattia, avvenimenti insoliti o azioni rituali propriamente dette. In effetti, le cerimonie che contrassegnano il passaggio del singolo da un periodo della vita ad un altro o la sua ammissione ad una qualsiasi «società segreta» comprendono sempre una serie di riti che si possono riassumere nella comoda formula: morte e resurrezione del candidato. Ricordiamo i più usuali di essi:

a) Periodo di ritiro nella macchia (simbolo dell'aldilà) e esistenza larvale, al modo dei morti; interdizioni imposte ai candidati, derivanti dal fatto che essi vengono assimilati ai defunti (un morto non può mangiare certi cibi, non può servirsi delle dita, ecc.).

b) Volto e corpo tinti con cenere o con certe sostanze calcaree onde ottenere la bianchezza livida degli spettri; maschere funerarie.

c) Inumazione simbolica nel tempio o nella casa dei feticci.

d) Discesa simbolica negli inferni.

e) Sonno ipnotico; bevanda che fa perdere la conoscenza ai candidati.

f) Dure prove: bastonatura, abbrustolimento dei piedi al fuoco, sospensione in aria, amputazione di dita e varie altre crudeltà.

Tutti questi rituali e tutte queste prove hanno per scopo il far dimenticare la vita passata. Questa è la ragione per cui in alcuni casi il candidato, tornato al villaggio dopo l'iniziazione, fa le viste di aver perduta la memoria e gli si deve insegnare nuovamente a camminare, a mangiare, a vestirsi. In genere, i neoliti imparano una lingua nuova e portano un nome nuovo. I candidati, durante il loro soggiorno nella macchia, pel resto della comunità è come se fossero morti e sepolti, o come se fossero stati divorati da un mostro o da un dio, per cui quando ritornano al villaggio vengono considerati come fantasmi.

Morfologicamente, le prove iniziatiche del futuro sciamano presentano una grande affinità con questa vasta classe dei riti del passaggio e delle cerimonie di accesso alle società segrete. Talvolta è difficile distinguere i riti di iniziazione di tribù da quelle di una società segreta (come nella Nuova Guinea, cfr. Loeb), o i riti di ammissione ad una società segreta da quelli di iniziazione sciamanica (specie nell'America del Nord). D'altronde, in tutti questi casi si tratta della «ricerca» dei poteri da parte del candidato.

Nella Siberia e nell' Asia centrale non esistono riti iniziatici di passaggio da un periodo della vita ad un altro. Ma si avrebbe torto se si desse una importanza eccessiva a questo fatto tanto da dedurne particolari conseguenze circa l'eventuale origine dei riti siberiani di iniziazione sciamanica. Infatti i due grandi gruppi di rituali (iniziazione di tribù - iniziazione sciamanica) altrove coesistono: in Australia, per esempio, in Oceania, nelle due Americhe. Anzi, in Australia ciò appare assai chiaro: benché tutti gli uomini siano tenuti a farsi iniziare per essere riconosciuti come membri del clan, pure esiste una ulteriore iniziazione, riservata ai medicine-meno Quest'ultima conferisce al candidato poteri diversi da quelli assicurati dall'iniziazione di tribù, Essa rappresenta già un'alta specializzazione nella manipolazione del sacro. La grande differenza che si rileva fra questi due tipi d'iniziazione sta nell'importanza capitale data all'esperienza interiore, estatica, nel caso degli aspiranti alla professione di medicine-man. Non è medicine-man chi semplicemente lo vuole: la vocazione è indispensabile. E questa vocazione si manifesta soprattutto attraverso una speciale capacità di esperienza estatica. Avremo occasione di tornare su questo aspetto, che ci sembra caratteristico, dello sciamanismo, aspetto che, in ultima analisi, differenzia il tipo della iniziazione di tribù o di ammissione alle società segrete da quello di una iniziazione sciamanica propriamente detta.

Notiamo infine che il mito del rinnovamento mediante lo smembramento, la cottura o il fuoco ha continuato ad affascinare gli uomini anche al di fuori dell'orizzonte spirituale dello sciamanismo. Medea riesce a far assassinare Pelia dalle sue figlie convincendole che la risusciterà e ringiovanirà, come essa ha fatto con un ariete (Apollodoro, Bibl., I, IX, 27). E quando Tantalo uccide suo figlio Pelope e lo serve al banchetto degli dèi, questi lo risuscitano facendolo bollire in una marmitta (Pindaro, Olymp. I, 26 sg.); vi mancava solo la spalla, che Demetra aveva inavvertitamente mangiato.

Il mito del ringiovanimento mediante lo smembramento e la cottura s'è anche trasmesso nel folklore siberiano, centro-asiatico e europeo, qui la parte del fabbro essendo stata assunta da Gesù Cristo o da certi santi.

 

 

 

 

 

 

Capitolo 3: L'acquisto dei poteri sciamanici

 

Abbiamo visto che una delle forme più correnti dell'elezione del futuro sciamano è il suo incontro con un essere divino o semidivino che gli appare in occasione di un sogno, di una malattia o. di altra circostanza; che gli fa sapere di essere stato «scelto» e che l'incita a seguire, d'ora in poi, una nuova regola di vita. Più spesso sono le anime degli antenati-sciamani a comunicargli la notizia, onde si è supposto che l'elezione sciamanica stia in relazione col culto degli antenati. Ma, come a ragione lo nota L. Sternberg (Divine Election), gli stessi antenati debbono pur essere stati a loro volta «scelti», all'alba dei tempi, da un essere divino. Secondo la tradizione buriate (Sternberg), nei tempi antichi gli sciamani traevano direttamente il loro utcha (il diritto divino sciamanico) dagli spiriti celesti; solo ai nostri giorni essi lo derivano unicamente dai loro antenati. Questa credenza s'inquadra nella concezione generale della decadenza degli sciamani, concezione che si ritrova sia nelle regioni artiche che nell' Asia centrale; secondo tale concezione i «primi sciamani» volavano realmente sui loro cavalli nelle nuvole e operavano miracoli che i loro attuali discendenti sono incapaci di ripetere.

 

 

Miti siberiani sull'origine degli sciamani

back to index

 

Certe leggende spiegano la decadenza attuale degli sciamani con l'orgoglio del «primo sciamano», che si sarebbe messo in competizione con Dio. Secondo la versione dei Buriati, il primo sciamano, Khara-Gyrgan, avendo dichiarato che la sua potenza non conosceva limiti, Dio volle metterlo alla prova: prese l'anima di una ragazza e la chiuse in una bottiglia per esser certo che l'anima non fuggisse, poi Dio tappò la bottiglia col dito. Lo sciamano volò nei Cieli seduto sul suo tamburo, vide l'anima della giovane e, per liberarla, si trasformò in un ragno giallo e punse Dio al viso. Questi ritrasse il dito e l'anima della fanciulla poté fuggire. Infuriatosi, Dio limitò il potere di Khara-Gyrgan e da allora la potenza magica degli sciamani diminuì sensibilmente. Il tema mitico del conflitto tra lo sciamano-mago e l'Essere Supremo si trova pure presso gli Andamanesi e i Semang.

Secondo la tradizione yakuta il «primo sciamano» disponeva di una potenza straordinaria e, per orgoglio, rifiutò di riconoscere il Dio supremo degli Yakuti. Il corpo di questo sciamano era costituito da una massa di serpenti. Dio inviò il fuoco per bruciarlo, ma un rospo usci dalle fiamme; è da questo animale che derivano i «demoni» i quali, a loro volta, fornirono gli Yakuti di sciamani eminenti, uomini e donne. I Tungusi di Turukhan conoscono una leggenda differente: il «primo sciamano» si sarebbe fatto da solo, con le proprie forze e l'aiuto del diavolo. Egli spari volando via da un buco della yurta ma tornò qualche tempo dopo in compagna di cigni.

Noi qui ci troviamo di fronte ad una concezione dualistica che risente probabilmente di influenze iraniche. Non è nemmeno illegittimo supporre, del resto, che questa classe di leggende concerna soprattutto l'origine degli «sciamani neri», che si pensa abbiano rapporti solo con l'Inferno e il «Diavolo». Ma la maggioranza dei miti sull'origine degli sciamani fa intervenire direttamente l'Essere Supremo o il suo rappresentante, l'Aquila, l'uccello solare.

Ecco che cosa raccontano i Buriati: Al principio esistevano solo gli Dèi (tengri) ad Occidente e gli Spiriti Malvagi ad Oriente. Gli dèi crearono l'uomo e questi visse felicemente fino al momento in cui gli spiriti malvagi diffusero sulla terra la malattia e la morte. Gli dèi decisero di dare all'umanità uno sciamano per combattere la malattia e la morte e inviarono l'Aquila. Ma gli uomini non ne compresero il linguaggio; d'altronde, essi non avevano fede in un semplice uccello. L'Aquila se ne tornò fra gli dèi e li pregò di darle il dono della parola, oppure di mandare agli umani uno sciamano buriate. Gli dèi la inviarono di nuovo con l'ordine di concedere il dono dell'arte sciamanica alla prima persona che incontrasse sulla terra. Tornata sulla terra, l'Aquila vide una donna addormentata vicino ad un albero ed ebbe commercio con essa. Dopo qualche tempo la donna dette alla luce un figlio che divenne il «primo sciamano». Secondo un'altra variante la donna, in seguito ai suoi rapporti con l'Aquila, vide gli spiriti e divenne essa stessa sciamana.

Per tale ragione, in altre leggende l'apparizione di un'aquila viene interpretata come segno di vocazione sciamanica. Si racconta che una giovane buriate, vedendo un giorno un'aquila che volava sulle greggi, comprese il segno e fu costretta a farsi sciamana. La sua iniziazione durò sette anni e, dopo la sua morte, divenuta saian («spirito», «idolo»), continuò a proteggere i bambini dagli spiriti malvagi.

Presso gli Yakuti di Turushansk l'Aquila è parimenti considerata come la creatrice del primo sciamano. Ma l'Aquila come suo nome ha anche quello dell'Essere Supremo, Ajy (il «Creatore») o Ajy tojen (il «Creatore della Luce»). I figli di Ajy tojen sono concepiti sotto specie di spiriti-uccelli posati sui rami dell'Albero del Mondo; sulla cima sta l'Aquila a due teste, Tojon Kotor (il «Signore degli Uccelli»), che probabilmente personifica lo stesso Ajy tojen. Gli Yakuti come, del resto, numerose altre popolazioni siberiane, mettono in relazione l'Aquila con gli alberi sacri, e specialmente con la betulla. Quando Ajy tojen creò lo sciamano piantò anche nella sua dimora celeste una betulla ad otto rami e su questi rami dispose dei nidi dove si trovano i figli del Creatore. Inoltre piantò tre alberi sulla terra; ed è in loro ricordo che lo stesso sciamano possiede un albero, dalla vita del quale egli, in un certo modo, dipende. Sulle relazioni fra albero, anima e nascita nelle credenze dei Mongoli e dei Siberiani, cfr. Pestalozza, Il manicheismo presso i Turchi occidentali ed orientali. Ci si ricorderà che nei sogni iniziatici degli sciamani il candidato viene trasportato presso l'Albero Cosmico, in cima al quale si trova il Signore del Mondo. Talvolta l'Essere Supremo vien rappresentato sotto forma di una aquila e fra i rami dell'Albero si trovano le anime dei futuri sciamani (cfr. Emsheimer). È probabile che questa imagine mitica riproduca un prototipo paleo-orientale.

Sempre presso gli Yakuti, l'Aquila viene anche messa in relazione con i fabbri: ma si sa che questi si crede abbiano la stessa origine degli sciamani (Sternberg, Adlerkult). Secondo gli Ostiachi dello Ienissei, gli Orocci e altre popolazioni siberiane, il primo sciamano sarebbe nato da un'Aquila o, almeno, dall'Aquila sarebbe stato istruito nella sua arte. Certe tribù nutriscono talvolta le aquile con carne cruda, ma questo sembra essere un costume sporadico e tardivo. Presso i Tungusi il «culto» dell'aquila è piuttosto insignificante. Vaìnàmoìnen, il «primo sciamano» della tradizione mitologica finlandese, discendeva anche lui dall'aquila. Il dio celeste supremo finnico, Ukko, si chiama anche Aljù (lappone: Aijo, Aije), nome che Sternberg ravvicina a Ajy. Come lo Ajy yakuta, l'Aljù finnico è l'antenato degli sciamani. Lo «sciamano bianco», chiamato Aiy Ojùna dagli Yakuti, secondo Sternberg sarebbe assai vicino al finnico Alja Ukko. Il motivo dell' Aquila e dell' Albero Cosmico (Yggdrasul) lo si può ritrovare nella mitologia germanica: Odino è spesso chiamato «Aquila».

Ricordiamo anche la parte che ha l'Aquila nei racconti d'iniziazione sciamanica (v. sopra) e gli elementi ornitomorfi dei costumi degli sciamani in virtù dei quali avviene la trasformazione magica in un'aquila (si veda più avanti). Tutte queste constatazioni ci pongono dinanzi ad un simbolismo complesso, cristallizzato intorno ad un Essere divino celeste e all'idea di un volo magico verso il Centro del Mondo (= Albero del Mondo), simbolismo che in seguito avremo di nuovo da incontrare. Qui importa rilevare che la parte che hanno gli antenati nell'elezione di uno sciamano è, in realtà, meno importante di quel che si sarebbe portati a credere. Gli antenati non sono che i discendenti di questo «primo sciamano» mitico, creato direttamente dall'Essere Supremo solarizzato sotto forma di Aquila. La vocazione sciamanica decisa dalle anime degli antenati non rappresenta, talvolta, che la trasmissione di un messaggio sovrannaturale, ereditato da un illud tempus mitico.

 

 

 

 

 

 

L'elezione sciamanica presso i Goldi e gli Yakuti

back to index

 

I Goldi distinguono nettamente fra lo spirito protettore (àyami) che sceglie lo sciamano, e gli spiriti ausiliari (sywén) che gli sono subordinati e che lo sciamano consegue a mezzo dello stesso àyami (Sternberg, The divine election). Secondo Sternberg, i Goldi spiegherebbero le relazioni esistenti fra lo sciamano e il suo àyami con un complesso emozionale sessuale. Ecco quel che riferisce uno sciamano golde (la prima parte delle sue confidenze l'abbiamo già riferita nel primo capitolo):

«Un giorno stavo a dormire nel mio letto di pena quando uno spirito mi si avvicinò. Era una donna bellissima, molto esile, più alta di un mezzo arsbin (71 cm.). Nel viso e nelle vesti essa rassomigliava del tutto a una delle nostre golde. I capelli le cadevano sulle spalle in piccole treccie nere. Vi sono degli sciamani che dicono di aver avuta la visione di una donna il cui viso è metà nero e metà rosso. Essa mi disse: " Sono l'àyami dei tuoi antenati, gli sciamani. Io ho insegnato loro l'arte sciamanica; ed ora quest'arte l'insegnerò anche a te. I vecchi sciamani sono morti l'uno dopo l'altro, e non c'è più nessuno per guarire i malati. Tu diverrai sciamano!". Poi essa aggiunse: "Ti amo. Sarai mio marito, perché ora non ne ho, ed io sarò tua moglie. Ti darò degli spiriti che ti aiuteranno nell'arte di guarire; t'insegnerò quest'arte ed io stessa ti assisterò. La gente ci porterà il cibo". Costernato, volevo resisterle. "Se non mi obbedisci - mi disse - tanto peggio per te. Io ti ucciderò".

«Da allora, quella donna non cessò di venire a visitarmi: giaccio con lei come con mia moglie, ma non abbiamo bambini. Vive tutta sola, senza genitori, in una capanna situata su di una montagna. Ma cambia spesso dimora. Talvolta si presenta sotto l'aspetto di una vecchia o di un lupo, sicché non si può guardarla senza spavento. Altre volte, assumendo la forma di una tigre alata, mi trasporta per farmi vedere diverse regioni. Ho visto delle montagne ove non vivono che dei vecchi e delle vecchie, e dei villaggi abitati soltanto da uomini e donne giovanissimi: rassomigliano ai Goldi e parlano la lingua dei Goldi; talvolta accade che essi siano trasformati in tigri. Lo Spirito-istruttore dei giovani candidati all'iniziazione appare, nell'Asia settentrionale e sud-orientale, sotto forma di orso o di tigre. Talvolta il candidato vien portato nella jungla (simbolo dell'aldilà) sul dorso di un tale animale-spirito. Le persone che si trasformano in tigri sono degli iniziati o dei «morti» (il che, nei miti, è talvolta la stessa cosa). Attualmente la mia àyami non viene da me cosi spesso come prima. Quando mi istruiva, veniva tutte le sere. Mi ha dato tre assistenti: lo jarga (la pantera), il doonto (l'orso) e l'amba (la tigre). Essi mi visitano in sogno e appaiono ogni volta che, nel praticare l'arte sciamanica, io li chiamo. Se uno di essi rifiuta di venire l'àyami ve lo costringe; ma si dice che ve ne sono che resistono perfino ai suoi ordini. Quando pratico lo sciamanismo sono posseduto dall'àyami e dagli spiriti ausiliari: essi mi penetrano come lo farebbe un fumo o l'umidità. Quando l'àyami è in me, è essa che parla a mezzo della mia bocca e che dirige tutto. E perfino quando mangio i sukdu (le offerte) o bevo sangue di maiale (solo lo sciamano ha il diritto di berne, i profani non debbono toccarlo) non sono io che mangio e bevo, ma soltanto la mia àyami». Pìù avanti leggeremo delle autobiografie di sciamani, uomini e donne, saora, il cui matrimonio con spiriti abitanti il mondo sotterraneo costituisce un sorprendente parallelo dei documenti raccolti dallo Sternberg.

Non v'è dubbio che in questa autobiografia sciamanica gli elementi sessuali abbiano una parte importante. Però è il caso di osservare che l'àyami non dà al suo «sposo» il potere di far dello sciamanismo col solo fatto di aver con lui dei rapporti sessuali: è l'istruzione segreta da essa portata a termine durante lunghi anni e sono i viaggi estatici nell'aldilà a cambiare lo stato religioso dello «sposo» e a prepararlo a poco a poco alla sua funzione di sciamano. Come subito vedremo, chiunque può aver rapporti sessuali con le donne-spiriti senza per questo venire al possesso dei poteri magico-religiosi degli sciamani.

Sternberg ritiene invece che l'elemento primario dello sciamanismo sia l'emozione sessuale, alla quale si sarebbe poi aggiunta l'idea della trasmissione ereditaria degli spiriti (op. cit.). E ricorda diversi altri fatti che, secondo lui, corroborano tutti siffatta interpretazione: una donna-sciamano osservata da Shirokogorov durante le prove iniziatiche provava emozioni sessuali; la danza rituale dello sciamano golde in atto di nutrire la sua àyami (è allora che si pensa che essa penetri in lui) avrebbe un significato sessuale; nel folklore yakuta studiato da Trostschansky ricorre sempre il tema di giovani spiriti celesti (i figli del Sole, della Luna e delle Pleiadi, ecc.) che scendono sulla terra a sposare donne mortali, e così via. Ma nessuno di questi fatti ci sembra decisivo: nel caso della donna-sciamano studiato da Shirokogorov e dello sciamano golde le emozioni sessuali sono nettamente secondarie, se non pure aberranti, perché in numerose testimonianze non si trova traccia alcuna di trance di questa specie erotica. Quanto al folklore yakuta, esso riflette una credenza popolare generale la quale non chiarisce affatto il problema che ci interessa, e cioè: perché fra una folla di soggetti «posseduti» dagli spiriti celesti solo alcuni sono chiamati a divenire sciamani? Non ci sembra dunque che le relazioni sessuali con gli spiriti costituiscano l'elemento essenziale e decisivo della vocazione sciamanica. Ma Sternberg si rifà anche ad informazioni inedite sugli Yakuti, i Buriati e i Teleuti, informazioni che in se stesse hanno un altro interesse e sulle quali vale fermarci un momento.

Secondo una sua informatrice yakuta, N.M. Sliepzova, gli abassy, maschi o femmine, penetrano nel corpo dei giovani di sesso opposto al loro, li addormentano e fanno l'amore con essi. I giovani visitati da abassy non si avvicinano più a nessuna ragazza e alcuni di essi restano celibi per il resto della loro vita. Se un'abassy ama un uomo sposato, questi diviene impotente nei rapporti con sua moglie. Tutto ciò, conclude Sliepzova, accade fra gli Yakuti in genere; a fortiori, la stessa cosa dovrebbe verificarsi per gli sciamani.

Ma nel caso di questi ultimi si tratta anche di spiriti di un diverso ordine. «I padroni o le padrone di abassy del mondo superiore o inferiore - scrive la Sliepzova - appaiono in sogno allo sciamano, ma non hanno personalmente rapporti sessuali con lui: ciò è riservato ai loro figli e alle loro figlie». Questo dettaglio è importante e va contro la tesi di Sternberg circa l'origine erotica dello sciamanismo: la vocazione dello sciamano, secondo la stessa testimonianza della Sliepzova, si lega dunque all'apparizione degli Spiriti celesti o infernali, e non all'emozione sessuale provocata da abassy. I rapporti sessuali con questi vengono dopo la consacrazione dello sciamano determinata dalla visione estatica degli Spiriti.

D'altronde, come lo rivela la stessa Sliepzova, le relazioni sessuali dei giovani e delle giovani con gli spiriti sono assai frequenti fra gli Yakuti; lo sono egualmente presso una quantità di altri popoli, senza che per questo si possa affermare che costituiscano l'esperienza primaria generatrice di un fenomeno religioso cosi complesso, quale è lo sciamanismo. Di fatto, gli abassy hanno una parte secondaria nello sciamanismo yakuta; secondo le informazioni della Sliepzova, se lo sciamano sogna una abassy e i rapporti sessuali con essa, si sveglia ben disposto, sicuro che sarà chiamato per una qualche consultazione in quello stesso giorno e sicuro, anche, del successo; se invece nel suo sogno vede l'abassy insanguinata e in atto di inghiottire l'anima del malato, sa che questi non vivrà e ove lo si cerchi l'indomani per curarlo egli farà tutto il possibile per non farsi trovare. Infine, se egli vien chiamato senza che abbia avuto sogni di alcun genere, è perplesso e non sa come comportarsi.

 

 

 

 

 

 

L'elezione presso i Buriati e i Teleuti

back to index

 

Circa lo sciamanismo dei Buriati, Sternberg si rifà alle informazioni di uno dei suoi discepoli, Mikhailof, che, buriate, in altri tempi aveva lui stesso preso parte alle cerimonie sciamaniche. Secondo questo informatore la carriera dello sciamano comincia con un messaggio da parte di un antenato-sciamano che in seguito porta la sua anima in Cielo per istruirla. Lungo la via i due si fermano presso gli dèi del Centro del Mondo e presso Tekha Shara Matzkala, la divinità della danza, della fecondità e delle ricchezze, la quale vive con le nove figlie di Solboni, il dio dell'aurora. Sono, queste, divinità particolari dello sciamano e solo gli sciamani fanno loro delle offerte. L'anima del giovane candidato ha relazioni erotiche con le nove spose di Tekha. Quando l'istruzione sciamanica è portata a termine l'anima dello sciamano incontra in Cielo la sua futura sposa celeste; anche con lei l'anima del candidato ha rapporti sessuali. Due o tre anni dopo questa esperienza estatica ha luogo la cerimonia dell'iniziazione propriamente detta, la quale comporta un'ascensione al Cielo ed è seguita da tre giorni di feste di carattere abbastanza licenzioso. Prima di tale cerimonia il candidato percorre tutti i villaggi vicini e riceve doni aventi un significato nuziale. L'albero che serve per l'iniziazione e che è simile a quello che si mette nelle case degli sposi novelli rappresenterebbe, secondo Mikhailof, la vita della sposa celeste, e la corda che collega questo albero (piantato nella yurta) con l'albero dello sciamano (che si trova nel cortile), sarebbe l'emblema dell'unione nuziale dello sciamano con la sua donna-spirito. Sempre secondo Mikhailof, il rito dell'iniziazione sciamanica buriate esprimerebbe le nozze dello sciamano con la sua fidanzata celeste. Di fatto Sternberg ricorda che durante l'iniziazione si beve, si danza e si canta proprio come nei matrimoni.

Tutto questo è forse vero, ma non basta a spiegare lo sciamanismo buriate. Abbiamo visto che fra i Buriati, come del resto dappertutto, l'elezione dello sciamano implica una esperienza estatica assai complessa, durante la quale si ritiene che il candidato venga torturato, fatto a pezzi e ucciso, per infine risuscitare. Unicamente questa morte e questa resurrezione iniziatiche consacrano uno sciamano. Dopo di che, l'istruzione impartita dagli spiriti e dai vecchi sciamani completeranno questa prima consacrazione. L'iniziazione propriamente detta - sulla quale torneremo nel prossimo capitolo - consiste nel viaggio trionfale in Cielo. È naturale che i divertimenti ai quali in questa occasione la tribù si dà ricordino quelli delle feste nuziali, giacché le possibilità di tali divertimenti collettivi, come si sa, sono scarse. Ma la parte della sposa celeste sembra secondaria: non va oltre quella propria ad una inspiratrice e di una coadiutrice dello sciamano. Vedremo che questa parte deve esser anche interpretata alla luce di altri fatti.

Utilizzando il materiale raccolto da V.A. Anochin sullo sciamanismo dei Teleuti, Sternberg afferma che ogni sciamano teleuta ha una sposa celeste che abita nel settimo Cielo. Durante il suo viaggio estatico alla volta di Ulgan lo sciamano incontra la sua donna che l'invita a rimanere con lei: a tale scopo, ha preparato pietanze squisite. «Marito mio, giovane kam - essa gli dice, sediamoci alla tavola azzurra... Vieni, ci nasconderemo all'ombra della tenda, faremo all'amore e ci divertiremo!». Essa gli assicura che la via del Cielo è stata tagliata. Ma lo sciamano rifiuta di crederle e riafferma la sua volontà di proseguire l'ascensione: «Avanzeremo sui tapty (pioli dell'albero sciamanico) e renderemo omaggio alla Luna!» - allusione alla fermata che lo sciamano fa nel suo viaggio celeste onde venerare la Luna e il Sole. E prima di tornare in terra non toccherà nessuna pietanza. Egli la chiama «la sua cara sposa», e la sposa terrestre «non è degna di versarle l'acqua nelle mani». Nelle sue operazioni lo sciamano è assistito non solo dalla sua sposa celeste ma anche da altre donne-spiriti. Nel quattordicesimo Cielo si trovano le nove figlie di Ulgan: sono queste che conferiscono allo sciamano i poteri magici (inghiottire carboni ardenti, ecc.). Quando un uomo muore, esse scendono in terra, ne prendono l'anima e la trasportano nei Cieli.

In queste informazioni sui Teleuti vanno messi in rilievo vari dettagli. L'episodio della sposa celeste dello sciamano che invita il marito a mangiare ricorda il ben noto tema mitico del cibo che le donne-spiriti dell'aldilà offrono ad ogni mortale che raggiunge il loro dominio onde fargli dimenticare la vita terrestre ed averlo per sempre in loro potere: ciò vale in egual misura per le semi-dee e per le fate dell'aldilà. Il dialogo che lo sciamano ha con la sua sposa durante l'ascensione è parte di una lunga e complessa scenografia drammatica sulla quale ritorneremo e in nessun caso può esser considerato come un elemento essenziale: come vedremo in seguito, l'elemento essenziale di ogni ascensione sciamanica è invece il dialogo finale con Ulgan. Esso deve dunque apparirci come un elemento drammatico di una certa vivezza che naturalmente, è tale da interessare i partecipanti ad una seduta che spesso diviene abbastanza monotona. Tuttavia esso ha pur sempre un contenuto iniziatico: il fatto che lo sciamano abbia una sposa celeste che gli prepara il cibo nel settimo Cielo e che giace con lui è ancora un segno che egli, in un certo modo partecipa alla condizione degli esseri semi-divini, che egli è un eroe il quale ha conosciuto la morte e la resurrezione e che, pertanto, gode di una seconda esistenza, su nei Cieli.

Sternberg cita inoltre una leggenda uriankhai relativa al primo sciamano, Bo-Khàn. Questi amava una fanciulla celeste. Venendo a sapere che egli era sposato, la fata fa inghiottire e lui, e sua moglie, dalla terra. Essa poi dà alla luce un figlio che abbandona sotto una betulla, le linfe della quale dovranno servirgli da nutrimento. Da tale fanciullo sarebbe discesa la razza degli sciamani (Bo-Kha-niikn).

Il motivo della sposa-fata che abbandona lo sposo mortale dopo aver avuto da lui un figlio è universalmente diffuso. Le peripezie della ricerca della fata da parte del suo sposo riflettono talvolta la scenografia dell'iniziazione (ascensione al Cielo, discesa agli Inferni, ecc.). La sposa dell'eroe maori Tawhaki, fata discesa dal cielo, non resta con lui che fino alla nascita del primo figlio, dopo di che monta su di una capanna e scompare. Tawhaki s'innalza al cielo arrampicandosi su di un ceppo di vigna, riuscendo poi a tornare sulla terra (Grey, Polynesian Mytbology). Secondo altre varianti l'eroe raggiunge il cielo salendo su di un albero di cocco o su di una corda, un fil di ragno, un cervo volante. Nelle isole Hawaii si dice che egli si arrampica sull'arcobaleno; a Tahiti egli ascende un'alta montagna e incontra la sua donna per via. Anche la gelosia delle fate nei riguardi delle donne terrestri è un tema mitico e folkloristico molto frequente: le ninfe, le fate, le semi-dee invidiano la felicità delle spose terrestri, di cui uccidono o rapiscono i figli. D'altra parte esse sono considerate come madri, spose o istruttrici degli eroi, vale a dire di coloro che, fra gli uomini, riescono a superare la condizione umana e ottengono, se non l'immortalità divina, almeno un destino privilegiato nel post-mortem. Una quantità considerevole di miti e di leggende ci dice della parte essenziale che ha una fata, una ninfa o una donna semi-divina nelle avventure degli eroi: è essa che li istruisce, che li aiuta nelle loro prove (che spesso sono prove iniziatiche) e che rivela loro il modo di impadronirsi di un simbolo di immortalità o di lunga vita (l'erba meravigliosa, i pomi miracolosi, la fontana della gioventù, ecc.). Una importante sezione della «mitologia della donna» sta a mostrare che è sempre un essere femminile ad aiutare l'Eroe a conquistare l'immortalità o a superare felicemente le sue prove iniziatiche.

Qui non è il caso di approfondire questo tema mitico; certo è però che esso tradisce tracce di una mitologia «matriarcale» tardiva, nella quale si possono già individuare i segni della reazione «maschile» (eroica) contro l'onnipotenza della Donna (= Madre). In certe varianti la parte della fata nella ricerca eroica dell'immortalità è pressoché trascurabile: così la ninfa Siduri alla quale, nelle versioni arcaiche della leggenda di Gilgamesh, questo eroe aveva direttamente richiesta l'immortalità, passa inosservata nel testo classico. Talvolta l'eroe, benché invitato a partecipare alla condizione beatifica della donna semi-divina, epperò alla sua immortalità, accetta malvolentieri questa beatitudine e cerca di liberarsi il più presto possibile per tornare dalla sua donna terrestre e dai suoi compagni (come nel caso di Ulisse e della ninfa Calipso). L'amore di una tale donna semi-divina diviene per l'eroe più un ostacolo che non un ausilio.

 

 

 

 

 

 

Le donne-spiriti protettrici dello sciamano

back to index

 

È ad un orizzonte mitico del genere che debbono essere riportati i rapporti degli sciamani con le loro «spose celesti»: propriamente parlando, non sono esse a consacrare lo sciamano, benché lo aiutino sia nella sua istruzione, sia nella sua esperienza estatica. È naturale che più di una volta l'inserirsi della «sposa celeste» nell'esperienza mistica dello sciamano sia accompagnato da emozioni sessuali: ogni esperienza estatica è soggetta a tali deviazioni, e sono abbastanza note le strette relazioni esistenti fra amor mistico e amor carnale per non sbagliarsi quanto al meccanismo di questo cambiamento di livello. D'altra parte non bisogna perdere di vista il fatto che gli elementi erotici presenti nei riti sciamanici non si esauriscono nei rapporti dello sciamano con la «sposa celeste». Presso i Cumandi della regione di Tomsk il sacrificio del cavallo comprende anche una esibizione di maschere e di falli di legno, portati da tre giovani: costoro galoppano col fallo fra le gambe, «come stalloni», e toccano i presenti. Il canto che s'intona in questa occasione è nettamente erotico. Presso i Teleuti quando lo sciamano, durante l'ascensione dell'albero, raggiunge la terza tapty, le donne, le ragazze e i bambini lasciano il luogo e lo sciamano si mette a cantare un canto osceno simile a quello dei Cumandi: lo scopo è il rinvigorimento sessuale degli uomini (Zelenin). Di questo rito si trovano anche altrove delle corrispondenze (Caucaso, Cina antica, America ecc., cfr. Zelenin) e il suo senso risulta chiaro già per il suo integrarsi nel sacrificio del cavallo, sacrificio la cui funzione cosmologica è ben nota (rinnovamento del mondo e della vita).

Sugli elementi sessuali presenti nell'açvamedha e in altri riti consimili (cfr. Dumont). A tale riguardo si potrebbe anche segnalare un altro rito sciamanico della fecondità che si realizza ad un livello religioso affatto diverso. Gli Yakuti venerano una dea della fecondità e della procreazione, Aisyt, che risiede nell'Est, nella parte del Cielo dove il sole sorge in estate. Le feste in suo onore han luogo nella primavera e nell'estate e sono di competenza di sciamani speciali, chiamati «sciamani dell'estate» (saingy) o «sciamani bianchi». Aisyt viene invocata per avere dei bambini, specialmente bambini maschi. Lo sciamano, cantando e battendo il tamburo, apre la processione alla testa di nove giovani e di nove vergini, che lo seguono tenendosi per mano e cantando in coro. «Lo sciamano sale cosi verso il Cielo e vi conduce le giovani coppie; ma i servi di Aisyt stanno alle porte, armati di fruste d'argento: essi respingono tutti coloro che sono corrotti, malvagi e pericolosi; e nemmeno vengono ammessi coloro che han perduto troppo presto la loro innocenza».

Per tornare alla parte della «sposa celeste», è degno di nota il fatto che proprio come nelle varianti tardive dei miti cui abbiamo alluso poco fa lo sciamano sembra essere si aiutato, ma anche importunato dalla sua àyami. Infatti, pur proteggendolo, essa si sforza di averlo per lei sola, trattenendolo nel settimo cielo, e si oppone al proseguimento della sua ascensione celeste. Essa lo tenta anche con un cibo celeste, cosa che avrebbe potuto aver per effetto lo strappare lo sciamano alla sua donna terrestre e alla società degli umani.

Per concludere, lo spirito protettore (àyami. ecc.), concepito anche sotto forma di una sposa (o di uno sposo) celeste, ha nello sciamanismo siberiano una parte importante si, ma non decisiva. L'elemento decisivo, come si è visto, è il dramma iniziatico della morte e della resurrezione rituale (malattia, smembramento, discesa agli Inferni, ascensione ai Cieli, ecc.). I rapporti sessuali che si suppone che lo sciamano abbia con la sua àyami non sono costitutivi per la sua vocazione estatica: da un lato, l'esser sessualmente posseduti in sogno da «spiriti» non è cosa limitata agli sciamani; dall'altro, gli elementi sessuali presenti m certe cerimonie sciamaniche non si restringono ai rapporti fra lo sciamano e la sua àyami e rientrano in rituali ben noti destinati ad accrescere la forza sessuale della comunità.

Come si è detto, la protezione accordata allo sciamano siberiano dalla sua àyami ricorda la parte che fate e semi-dee hanno nell'istruzione e nell'iniziazione degli eroi. Cotesta «protezione» riflette indubbiamente delle concezioni «matriarcali». La «Grande Madre degli Animali» - con la quale lo sciamano siberiano e artico sta in ottimi rapporti - è una imagine ancor più netta del matriarcato arcaico. È legittimo credere che questa Grande Madre degli Animali, ad un certo momento, abbia preso il posto e la funzione di un Essere Supremo uranico, ma un problema del genere esula dal nostro argomento. Vale solo tener presente che come la Gran Madre degli Animali accorda agli uomini - specie agli sciamani - il diritto di cacciare e di nutrirsi della carne degli animali, del pari gli «spiriti protettori donne» danno agli sciamani gli spiriti ausiliari che, in un certo modo, sono ad essi indispensabili per i loro viaggi estatici.

 

 

 

 

 

 

La parte delle anime dei morti

back to index

 

Si è visto che la vocazione del futuro sciamano può venire destata - nei sogni, nell'estasi o durante una malattia - dall'incontro fortuito con un essere semi-divino, con l'anima di un antenato o di un animale, oppure da un avvenimento straordinario (folgore, accidente mortale, ecc.). Generalmente quell'incontro inaugura una «familiarità» fra il futuro sciamano e lo «spirito» che ha deciso la sua carriera: familiarità, sulla quale torneremo più giù. Pel momento vogliamo considerare più  da presso la parte che hanno le anime dei morti nel reclutamento dei futuri sciamani. Come abbiamo visto, spesso le anime degli antenati prendono, in un certo modo, «possesso» di un giovane e procedono alla sua iniziazione. Ogni resistenza è inutile. Questo fenomeno di pre-elezione è generale nell'Asia settentrionale e artica. Naturalmente, lo stesso fenomeno lo si incontra anche altrove. Ad esempio, presso i Batachi di Sumatra il rifiuto di divenire sciamano dopo esser stati «scelti» dagli spiriti è seguito dalla morte. Nessun Bataco diviene sciamano di sua volontà.

Una volta consacrato grazie a questo primo essere «posseduto» e alla susseguente iniziazione, lo sciamano diviene un ricettacolo suscettibile ad esser integrato indefinitamente da ancora altri spiriti; ma questi sono sempre anime di sciamani morti o «spiriti» che già hanno servito antichi sciamani. Il celebre sciamano yakuta Tiìspiit raccontò a Sieroszewski: «Un giorno che erravo per le montagne, là verso il nord, mi fermai dinanzi ad un mucchietto di legna per cuocere il mio pasto. Vi misi fuoco; ora, sotto i ceppi era seppellito uno sciamano tunguso. Il suo spirito s'impadroni di me». È per questo che durante le sedute Tiispiit pronunciava parole tunguse. Ma egli riceveva anche altri spiriti: Russi, Mongoli, ecc. e allora parlava la loro lingua. Uguali credenze presso i Tungusi e i Goldi. Uno sciamano Haida, se è posseduto da uno spirito Tlingit, parla la lingua tlingit, lingua che in qualsiasi altra occasione egli ignora

La parte delle anime dei morti nell'elezione del futuro sciamano è, altrove, non meno importante che in Siberia. Esamineremo subito la loro funzione nello sciamanismo nord-americano. Gli Eschimesi, gli Australiani e le persone di ancor altri popoli che desiderano divenire dei medicine-men dormono vicino a delle tombe; e questa usanza è perfino sopravvissuta fra certi popoli storici, come per esempio i Celti. Nell'America del Sud l'iniziazione ad opera di sciamani defunti, pur non essendo la sola, è frequentissima. «Gli sciamani Bororo, sia che appartengano alla classe degli aroettauiaraare o a quella dei bari, vengono scelti dall'anima di un morto o da uno spirito. Nel caso degli aroettauiaraare la rivelazione avviene nel modo seguente: l'eletto, mentre passeggia per la foresta, vede d'un tratto un uccello posarsi a portata di mano, e subito dopo sparire. Stormi di pappagalli scendono su di lui e poi svaniscono come d'incanto. Il futuro sciamano torna a casa tremando e pronunciando parole inintelliggibili. il suo corpo emana un odor di putredine e di rucu. Come si vede, egli, ritualmente, è già un "morto". Ad un tratto una ventata lo fa vacillare: cade come morto. A tal punto egli è divenuto il ricettacolo di uno spirito che parla per mezzo della sua bocca. Da allora egli è uno sciamano».

Presso gli Apinayé gli sciamani vengono designati dall' anima di un parente che li mette in rapporto con gli spiriti; sono però questi a trasmettergli la scienza e le tecniche sciamaniche. Presso altre tribù si diviene sciamani per via di una esperienza estatica spontanea: ad esempio, avendo la visione del pianeta Marte, ecc. (Métraux). Presso i Campa e gli Amahuaca i candidati ricevono l'istruzione da uno sciamano vivente o morto. «L'allievo sciamano dei Conibo dell'Ucayali traggono la loro scienza medica da uno spirito. Per entrar in rapporto con lui lo sciamano beve un decotto di tabacco e fuma fin che può in una capanna ermeticamente chiusa». Il candidato Cashinawa viene istruito nella boscaglia, le anime gli forniscono le sostanze magiche necessarie ed anzi gliele inoculano nel corpo. Gli sciamani Yaruro vengono istruiti dai loro dèi, benché la tecnica propriamente detta la apprendano da altri sciamani. Ma essi non si sentono in grado di praticare la loro arte prima di aver incontrato in sogno uno spirito. «Nella tribù degli Apapocuvà-Guarani si diviene sciamani solo con la conoscenza di canti magici sui quali si è stati istruiti in sogno da qualche parente defunto». Quale sia pur stata l'origine della rivelazione, tutti gli sciamani praticano però la loro arte seguendo le norme tradizionali della loro tribù. «Essi dunque si conformano a delle regole e ad una tecnica che essi hanno potuto acquistare solo alla scuola di uomini sperimentati», conclude Métraux. E lo stesso si verifica in ogni altro sciamanismo.

Come si vede, se l'anima dello sciamano morto ha una funzione importante nel risveglio della vocazione sciamanica, essa però non fa altro che preparare il candidato ad ulteriori rivelazioni. Le anime degli sciamani morti lo mettono in rapporto con gli spiriti o lo conducono in Cielo (cfr. Siberia, Altai, Australia, ecc.). Queste prime esperienze estatiche sono seguite, del resto, da una istruzione impartita dai vecchi sciamani. Presso i Selk'nam la vocazione spontanea si palesa mediante una strana attitudine del giovane: questi canta mentre dorme, ecc. (Gusinde). Ma ad un tale stato si può anche giungere volontariamente: l'essenziale è riuscire a vedere gli spiriti. «Veder gli spiriti» in sogno o allo stato di veglia è il segno decisivo della vocazione sciamanica, spontanea o volontaria che sia: giacché aver dei contatti con le anime dei morti significa, in un certo modo, esser morti. È cOSI che in tutta l'America del Sud lo sciamano deve morire per poter incontrare le anime degli sciamani e per esser istruito da esse: perché i morti sanno tutto (Lublinski). È una credenza universale che la mantica si spieghi col commercio coi morti).

Come si è detto, l'elezione o inizi azione sciamanica nell'America del Sud segue talvolta lo schema esatto di una morte e resurrezione rituale. Ma la «morte» può esser realizzata anche con altri mezzi: estrema fatica, torture, digiuno, colpi, ecc. Il giovane Jivaro che si decide a divenire sciamano cerca un maestro, gli paga l'onorario dovuto e s'impegna a seguire un regime quanto mai severo: per dei giorni non tocca cibo, beve invece bevande narcotiche, specialmente succo di tabacco (questo succo, come è noto, ha una parte essenziale nell'iniziazione degli sciamani sud-americani). Alla fine uno spirito, Pasuka, appare al candidato sotto la forma di un guerriero. Allora il maestro si mette subito a colpire 1'allievo, che cade a terra privo di sensi. Quando torna in sé, tutto il corpo gli fa male. Questo è il segno che lo spirito si è impadronito di lui. Infatti le sofferenze, le intossicazioni e le percosse che han provocato lo svenimento vengono in un qualche modo assimilate ad una morte rituale.

Risulta da ciò che le anime dei morti, quale pur sia la parte che esse hanno nel risveglio della vocazione o nell'iniziazione dei futuri sciamani, non creano questa vocazione con la loro sola presenza (prendendo possesso dell'iniziando, o sotto altra forma), ma servono al candidato come un mezzo per entrare in contatto con gli Esseri divini o semi-divini (mediante i viaggi estatici in Cielo o negli Inferni, ecc.) o per appropriarsi delle realtà sacre accessibili ai soli defunti. Ciò è stato messo ottimamente in luce da Marcel Mauss a proposito dei poteri magici ottenuti grazie ad una rivelazione sovrannaturale degli stregoni australiani. Anche qui la parte che hanno i morti si confonde con quella degli «spiriti puri». Ancor più significativo è il fatto che quando è lo spirito del morto ad accordare direttamente la rivelazione, questa implica sia il rito iniziatico dell'uccisione seguita dalla rinascita del candidato (vedi il precedente capitolo), sia i viaggi estatici nel Cielo - tema sciamanico per eccellenza - nei quali lo spirito-antenato ha funzione di psicopompo e che, per la loro stessa struttura, escludono lo stato di «possessione». Sembra appunto che la funzione principale dei morti nel conseguimento dei poteri sciamanici sia meno quella di prender «possesso» del soggetto che non di aiutarlo a trasformarsi in un «morto»: in una parola, quella di aiutarlo a divenire anche lui uno «spirito».

 

 

 

 

 

 

"Vedere gli spiriti"

back to index

 

Ciò spiega l'estrema importanza che la «visione degli spiriti» ha in tutte le varietà dell'iniziazione sciamanica: «vedere» uno spinto in sogno o allo stato di veglia è un segno certo che, in un certo modo, si è ottenuta una «condizione spirituale», vale a dire che la condizione umana profana è stata superata. Ecco perché nelle Mentawei la «visione» (degli spiriti), verificatasi spontaneamente o ottenuta con la propria volontà, conferisce istantaneamente il potere magico (kerei) agli sciamani. I maghi andamanesi si ritirano nella jungla per conseguire questa «visione»; coloro che hanno avuto soltanto dei sogni ricevono poteri magici di importanza minore. I dukun del Minangkabau di Sumatra si istruiscono nella solitudine, su di una montagna: là apprendono il modo di rendersi invisibili e riescono a vedere, di notte, le anime dei morti; il che equivale a dire che essi divengono degli spiriti, che essi sono dei morti.

Uno sciamano australiano della tribù degli Yaralde (Murray inferiore) descrive mirabilmente i terrori iniziatici che accompagnano la visione degli spiriti e dei

morti: «Quando ti spingerai ad avere le visioni in questione, e le avrai, esse saranno orribili, ma non temere. M'è difficile descriverle, benché mi siano nello spirito e nel miwi (forza psichica), e quantunque possa proiettare in te l'esperienza, dopo che tu sia stato ben preparato.

«Dirò tuttavia che certe di queste visioni sono spiriti malvagi, certe son simili a serpenti, certe sembrano cavalli a testa umana, e certe, infine, sono spiriti d'uomini malvagi che assomigliano a fuochi divoratori. Vedrai bruciare il tuo accampamento, salire acque di sangue; vi sarà il tuono, il lampo e la pioggia; la terra tremerà, le colline si sfalderanno, le acque turbineranno e gli alberi ancora in piedi si piegheranno sotto il vento. Non temere. Se ti levi, non vedrai queste scene; ma se resti a giacere le vedrai, a meno che il tuo spavento non divenga troppo grande. Se questo è il caso, ciò romperà la tela (o il filo) cui queste scene son sospese. Può darsi che tu veda morti che vengono verso di te e che tu oda il ticchettio delle loro ossa. Se odi e vedi queste cose senza paura, tu non temerai poi più niente. Questi morti non ti appariranno più, giacché il tuo miwi sarà divenuto forte. Allora sarai possente, perché avrai visto i morti». (Elkin). Effettivamente, i medicine-men son capaci di vedere gli spiriti dei morti presso le loro tombe, ed è loro facile catturarli. Questi spiriti divengono allora loro coadiutori e, durante la cura sciamanica, i medicine-me» li inviano a grandi distanze a recuperare l'anima vagante del malato che stanno curando (Elkin).

Sempre nelle Mentawei «un uomo o una donna possono divenir veggenti se sono stati fisicamente rapiti dagli spiriti. Secondo la storia di Sitakigagailau il giovane fu trasportato in cielo dagli spiriti del cielo, e là ricevette un corpo meraviglioso simile al loro. Tornò poi in terra, e divenne un veggente; gli spiriti del cielo l'aiutavano nelle sue cure. Per divenir veggenti i giovani debbono esser colpiti da una malattia, aver dei sogni e attraversare un periodo di follia passeggera. La malattia e i sogni sono provocati dagli spiriti del cielo o della jungla. Il sognatore s'imagina di salire in cielo o di errare pei boschi alla ricerca di scimmie». Successivamente il maestro-veggente procede all'inizi azione del giovane: i due vanno insieme nella foresta per cogliere delle piante magiche. Il maestro canta: «Spiriti del talismano, rivelatevi. Rischiarate gli occhi di questo giovane affinché egli possa vedere gli spiriti». Tornati nella dimora del maestro-veggente, questi invoca gli spiriti: «Che i tuoi occhi si facciano chiari, che i tuoi occhi si facciano chiari, affinché possano vedere i nostri padri e le nostre madri nei cieli inferiori». Dopo questa invocazione «il maestro stropiccia gli occhi del discepolo con delle erbe. Durante tre giorni e tre notti i due restano l'uno di fronte all'altro, cantando e suonando delle campanelle. Non prendono cibi di nessuna specie finché gli occhi dell'allievo non siano divenuti chiaroveggenti. Alla fine del terzo giorno ritornano nella foresta per cercare altre erbe... Se al settimo giorno il giovane vede gli spiriti dei boschi, la cerimonia ha termine. Se no, bisognerà ripetere questi sette giorni di cerimonie» (Loeb). Tutta questa lunga e faticosa operazione ha per scopo il trasformare l'esperienza estatica iniziale e passeggera dell'allievo-mago (l'esperienza dell'«elezione») in uno stato permanente: in quello, in cui si possono «vedere gli spiriti», cioè in cui si può partecipare della loro natura «spirituale».

 

 

 

 

 

 

Gli spiriti ausiliari

back to index

 

Ciò risulta più chiaramente ancora dall'esame di altre categorie di «spiriti» aventi anch'essi una loro parte sia nell'iniziazione dello sciamano, sia nella produzione delle sue esperienze estatiche. Dicemmo più su che fra k sciamano e i suoi «spiriti» si stabiliscono dei rapporti di familiarità. Del resto, nella letteratura etnologica essi vengono chiamati spiriti familiari, spiriti ausiliari o spiriti custodi. Ma è opportuno distinguer bene fra gli spiriti familiari propriamente detti e un'altra categoria di spiriti, più potenti, che vengon chiamati spiriti protettori; del pari, bisogna riconoscere la differenza esistente fra questi spiriti e gli esseri divini o semi-divini che gli sciamani evocano durante le sedute. Lo sciamano è un essere che ha rapporti concreti, diretti, col mondo degli dèi e degli spiriti: egli li vede faccia a faccia, parla con essi, li prega, li implora - ma ne «controlla» soltanto un numero limitato. Non è che un qualsiasi spirito o dio invocato durante la seduta sciamanica sia, per questo semplice fatto, un «familiare» o un «ausiliario» dello sciamano. Spesso vengono invocati i grandi dèi, come ne è il caso presso gli Altaici: prima d'intraprendere il suo viaggio estatico lo sciamano invita Jajyk Kan (il Signore del Mare), Kaira Kan, Bai Ulgan con le sue figlie e ancor altre figure mitiche (Radlov). Lo sciamano li invoca e gli dèi, i semi-dèi e gli spiriti vengono - proprio come le divinità vèdiche scendono vicino al sacerdote quando egli le evoca durante il sacrificio. D'altronde, gli sciamani hanno delle divinità particolari, specifiche, ignote al resto della popolazione, alle quali essi soli sacrificano. Ma tutto questo pantbeon non è a disposizione dello sciamano allo stesso modo degli spiriti familiari; e gli esseri divini o semidivini che aiutano lo sciamano non debbono esser catalogati fra questi suoi spiriti familiari, ausiliari o guardiani.

Questi, nello sciamanismo, hanno una parte considerevole: vedremo più da presso che funzioni essi abbiano quando studieremo le sedute sciamaniche. Pel momento, accenneremo che la maggioranza di questi spiriti familiari e ausiliari ha forme animali. Cosi presso i Siberiani e gli Altaici essi possono apparire sotto forma di orsi, di lupi, di cervi, di lepri e di uccelli d'ogni specie (soprattutto di oche, di aquile, di gufi, di cornacchie, ecc.), di grandi vermi ma anche come spettri, spiriti dei boschi, della terra, del focolare, ecc. Inutile farne qui la lista. Gli spiriti vengono generalmente chiamati per mezzo del tamburo. Gli sciamani possono trasferire i loro spiriti ausiliari a dei colleghi; possono perfino venderli (ad esempio, presso gli Jurachi e gli Ostiachi. Per forma, nomi e numero essi differiscono dall'una regione all'altra. Secondo Karjalainen il numero degli spiriti ausiliari di uno sciamano vasiugano varia, ma generalmente egli ne ha sette. Oltre a questi «familiari», lo sciamano gode della protezione di uno «Spirito della Testa» che lo difende durante i suoi viaggi estatici, di uno «Spirito in forma d'orso» che l'accompagna nelle sue discese agli Inferni, di un cavallo grigio sul quale egli si reca nei Cieli, e via dicendo. In altre regioni a tutto questo complesso di spiriti ausiliari dello sciamano vasiugano corrisponde un unico spirito: un orso presso gli Ostiachi settentrionali, un «messaggero» presso i Tremjugan e altri popoli; quest'ultimo ci ricorda i «messaggeri» degli spiriti celesti (uccelli, ecc.). Gli sciamani li chiamano da ogni parte del mondo ed essi vengono, l'uno dopo l'altro, e parlano con la loro voce.

La differenza fra uno spirito familiare in forma di animale e lo spirito protettore propriamente sciamanico risulta abbastanza chiaramente presso gli Yakuti. Ogni sciamano ha un suo ié-kyla [«animale-madre»), che è una specie di imagine mitica di un animale ausiliario, che tengono celato. Gli sciamani deboli sono quelli che per ié-kyla hanno un cane: i più potenti dispongono di un toro, di un puledro, di un'aquila, di un'alce o di un orso bruno; quelli che posseggono lupi, orsi o cani sono i meno fortunati. L'amagat è un essere del tutto diverso. Generalmente è l'anima di uno sciamano morto o uno spirito celeste minore. «Lo sciamano vede e sente solo per mezzo del suo iimiigiit - mi insegnava Tiìspiìt. - lo vedo e odo ad una distanza di tre nosleg, ma ve ne sono che vedono e sentono molto più lontano».

Si è visto che dopo la sua illuminazione lo sciamano eschimese deve procurarsi da sé i suoi spiriti ausiliari. Questi sono generalmente degli animali che appaiono sotto forma umana: essi vengono di propria volontà se l'allievo dimostra dei meriti. L'anitra, il gufo, l'orso, il cane, il pescecane e ogni specie di spiriti delle montagne sono ausiliari possenti ed efficaci. Presso gli Eschimesi dell'Alaska lo sciamano è tanto più potente per quanto più i suoi spiriti ausiliari sono numerosi. Nella Groenlandia del Nord un angakok possiede fin quindici spiriti ausiliari. Gli spiriti si manifestano tutti attraverso lo sciamano, producendo rumori strani, suoni inintelligibili, ecc.

Rasmussen ha raccolto dalla bocca stessa di alcuni sciamani il racconto del mondo con cui essi si sono procurati gli spiriti. Nel ricevere 1'«illuminazione» lo sciamano Aua senti nel corpo e nel cervello una luce celeste che, in un certo modo, emanava da tutto il suo essere; benché gli umani non la percepissero, essa era visibile a tutti gli spiriti della terra, del cielo e del mare, i quali vennero a lui e divennero i suoi spiriti ausiliari. «Il mio primo spirito ausiliario fu un mio omonimo, una piccola aua. Quando ella venne a me, fu come se la casa si fosse di colpo scoperchiata e io sentiiin me una tale potenza di visione che vedevo attraverso la casa e attraverso la terra, e lontano nel cielo: era stata la mia piccola aua a portarmi questa luce interiore volteggiando sopra di me mentre cantavo. In seguito, l'ho posta in un angolo della casa, invisibile agli altri, ma sempre pronta se ne avessi avuto bisogno». Un giorno in cui si trovava in mare a bordo del suo kayak, un secondo spirito, un pescecane, venne a lui: nuotando gli si avvicinò chiamandolo per nome. Aua invoca i suoi due spiriti ausiliari con un canto monotono: «Gioia gioia, - lo vedo uno spiritello dalla spiaggia, - Una piccola aua, - lo stesso sono un'aua, - l'omologo dello spirito, - Gioia, gioia ...» Egli ripete questo canto finché scoppia in lacrime: allora sente in sé una gioia illimitata. Come si vede, in questo caso l'esperienza estatica dell'illuminazione è in un certo modo legata all'apparizione dello spirito ausiliare. Ma questa estasi non manca di mistico terrore: Rasmussen insiste sul sentimento di «terrore inesplicabile» che si prova quando si è «assaliti da uno spirito ausiliare» e mette in relazione questo spavento col pericolo mortale proprio dell'iniziazione.

Peraltro, gli sciamani di ogni categoria hanno i loro spiriti ausiliari e protettori, anche se, a seconda appunto della categoria, la loro natura ed efficacia possano differire notevolmente. Il poyang jakun possiede uno spirito familiare che gli è venuto in sogno o che ha ereditato da altro sciamano. Nell'America del Sud tropicale si entra in possesso degli spiriti guardiani al termine dell'iniziazione: essi «penetrano» nello sciamano «sia direttamente, sia sotto specie di cristalli di rocca che cadono nella sua bisaccia... Presso i Caribi del Barama ogni classe di spiriti con cui lo sciamano entra in rapporto è rappresentata da piccoli ciottoli di diversa natura. Il piai li inserisce nel suo campanaccio, e cast può invocarli a piacere». Ci si ricorderà del significato celeste dei cristalli di rocca nella religione australiana; questo significato risulta naturalmente oscurato nello sciamanismo sud-americano attuale, ma non per questo è meno indicativo quanto all'origine dei poteri sciamanici. Nell'America del Sud, come del resto dappertutto, gli spiriti ausiliari possono essere di diversa specie: anime di antenati-sciamani, spiriti delle piante o degli animali. Presso i Bororo vengono distinte due classi di sciamani a seconda degli spiriti da cui essi traggono il loro potere: demoni della natura e anime di sciamani defunti _ oppure anime di antenati (Métraux). Ma, in questo caso, abbiamo a che fare meno con spiriti ausiliari cbe non con spiriti protettori, anche se la differenza fra queste due categorie di spiriti non è sempre facile da definire.

La relazioni fra il mago o lo stregone e i suoi spiriti vanno da quelle del benefattore e del suo protetto fino a quelle di un servo di fronte al padrone; però esse han sempre un carattere intimo. Sugli spiriti ausiliari nella stregoneria europea del Medioevo, cfr. Margaret Alice Murray. Gli spiriti ricevono raramente sacrifici o preghiere, ma, se vengono lesi, anche il mago ne viene a soffrire (vedi per es. Webster). In Australia, nell'America del Nord ed anche altrove predominano le forme animali degli spiriti ausiliari e protettori: in un certo modo li si potrebbero paragonare al bush soul dell'Africa occidentale e al nagual dell'America centrale e del Messico. Sugli spiriti custodi nell'America del Nord, cfr. Frazer.

Questi spiriti ausiliari di forma animale hanno una parte importante nel preludio della seduta sciamanica, cioè nella preparazione del viaggio estatico nei cieli e negli inferni. Generalmente la loro presenza si manifesta con l'imitazione, da parte dello sciamano, delle grida o delle mosse dei rispettivi animali. Lo sciamano tunguso, che ha una serpe per spirito ausiliare, si sforza, durante la seduta, di riprodurre i movimenti del rettile; un altro, avendo per syvén il vortice, si muove in modo corrispondente (Harva). Gli sciamani ciukci ed eschimesi si trasformano in lupi, gli sciamani lapponi divengono lupi, orsi, renne, pesci, il hala semang può trasformarsi in tigre, come lo possono il halak dei Sakai e il bomor di Kelantan. Siamo qui di fronte ad una credenza universalmente diffusa. Per l'Europa antica e moderna, cfr. ad esempio Kittredge.

Questa imitazione sciamanica dei gesti e della voce di animali può far pensare ad una «possessione». Ma è forse più esatto parlare di una presa di possesso, da parte dello sciamano, dei suoi spiriti ausiliari: è lui che si trasforma in animale, proprio come ne è il caso quando, di un animale, si mette la maschera. Oppure si potrebbe parlare di una identità nuova dello sciamano, che diviene animale-spirito e «parla», canta e vola come gli animali e gli uccelli. La «lingua degli animali» non è che una variante della «lingua degli spiriti», di quel linguaggio segreto sciamanico su cui presto torneremo.

Ma vorremmo prima attirare l'attenzione sul seguente punto: la presenza di uno spirito ausiliare sotto forma di animale, il dialogo con esso in una lingua segreta o l'incarnazione di questo spirito-animale nella persona dello sciamano (maschere, gesti, danze, ecc.) - tutto ciò dimostra ancora una volta che lo sciamano è capace di abbandonare la condizione umana, che, in una parola, egli è capace di «morire». A partir dai tempi più remoti quasi tutti gli animali son stati concepiti sia come esseri psicopompi che accompagnano le anime nell'aldilà, sia come la forma nuova che assume il morto. Che si tratti dell'«antenato» oppure del «maestro dell'iniziazione», l'animale simboleggia sempre una relazione reale e diretta con l'aldilà. In un numero considerevole di miti e di leggende di tutto il mondo l'eroe vien trasportato nell'aldilà (cielo, inferno sotterraneo o sottomarino, foresta impenetrabile, montagna, luogo deserto, jungla, ecc.) da un animale. È sempre un animale che porta sul suo dorso il neofita verso la macchia (= l'Inferno) o che lo tiene fra le mascelle, o che 1'«inghiotte» onde «ucciderlo» e poi «risuscitarlo», ecc.

Infine, bisogna tener conto della solidarietà mistica tra l'uomo e l'animale che costituisce una nota dominante della religione dei cacciatori primordiali. In ragione di questa solidarietà, certi esseri umani son capaci di trasformarsi in animali, di comprendere la loro lingua o di partecipare della loro prescienza e dei loro poteri occulti. Ogni qual volta uno sciamano giunge a partecipare del modo d'essere degli animali, egli ristabilisce, in un certo qual modo, la situazione che esisteva in illo tempore, nei tempi mitici, quando la frattura tra l'uomo e il mondo animale non s'era ancora compiuta.

L'animale protettore degli sciamani buriati si chiama khubilgan, termine interpretabile come «metamorfosi» (da khubilkhu, «trasformarsi», «prendere altra forma»). In altri termini, non solo l'animale protettore permette allo sciamano di compiere la metamorfosi, ma è in certo senso il suo «doppio», il suo alter ego. Esso è una delle «anime» dello sciamano, 1'«anima sotto forma animale» (Harva) o, più esattamente, 1'«anima-vita». Gli sciamani si affrontano sotto forma d'animali e, se nel combattimento è ucciso l'alter ego, ben presto anche lo sciamano muore.

Su questo tema, estremamente frequente nelle credenze e nel folklore dello sciamanismo, cfr. Friedrich-Buddruss, Schmidt, Dioszegi,. Quest'ultimo autore crede di poter precisare che, in origine, l'animale da combattimento degli sciamani era la renna. Ciò sembra confermato dal fatto che i disegni rupestri di Saymali Tas, nel Kirghisistan, risalenti al secondo e al primo millennio a.C., rappresentano degli sciamani che si affrontano sotto forma di renne. Quanto al tàltos ungherese, cfr. lo stesso autore.

Di conseguenza, gli spiriti guardiani e ausiliari, senza i quali non è possibile alcuna seduta sciamanica, possono esser considerati come i segni autentici dei viaggi estatici compiuti dallo sciamano nell'aldilà. Cosi gli animali-spiriti partecipano della stessa funzione delle anime degli antenati: anche questi portano lo sciamano nell'aldilà (Cielo, Inferno), gli rivelano i misteri, l'istruiscono, ecc. La parte dell'animale-spirito nei riti d'iniziazione e nelle leggende relative al viaggio di un eroe nell'aldilà corrisponde a quella dell'anima del morto nella «possessione» iniziatica (sciamanica). Ora, appare ben chiaro che è lo sciamano che diviene il morto (o l'animale-spirito, o il dio, ecc.) a dimostrare che egli è realmente capace di un'ascensione celeste o di una discesa infernale. Per tal via s'intravvede la possibilità di un'unica spiegazione di tutti questi gruppi di fatti: in un certo modo, si tratta della ripetizione periodica (cioè rinnovata in ogni seduta) della morte e della resurrezione dello sciamano. L'estasi non è che l'esperienza concreta della morte rituale - in altri termini: del superamento della condizione umana, profana. E, come vedremo, lo sciamano è capace di realizzare questa «morte» con mezzi di ogni specie, che vanno dall'uso dei narcotici e del tamburo fino alla «possessione» da parte degli spiriti.

 

 

 

 

 

 

"Linguaggio segreto". "Lingua degli animali"

back to index

 

Nel periodo dell'iniziazione il futuro sciamano deve imparare la lingua segreta che userà durante le sedute per comunicare con gli spiriti e gli animali-spiriti. Questa lingua segreta l'apprende da un maestro, ovvero con mezzi propri, cioè direttamente dagli «spiriti»: i due metodi coesistono, per esempio, fra gli Eschimesi. Si è potuto constatare l'esistenza di un linguaggio segreto specifico fra i Lapponi, gli Ostiachi, i Ciukci, gli Yakuti, i Tungusi. Si vuole che durante la trance lo sciamano tunguso comprenda il linguaggio di tutta la Natura. La lingua segreta sciamanica è molto elaborata presso gli Eschimesi e viene usata come mezzo di comunicazione fra gli angakut e i loro spiriti. Ogni sciamano ha un suo canto speciale che egli intona per invocare gli spiriti. Anche quando non s'incontra senz'altro un linguaggio segreto, se ne possono riconoscere le vestigia nelle strofe incomprensibili che vengono ripetute durante le sedute, come, per esempio, ne è il caso presso gli Altaici.

Questo fenomeno non è esclusivamente nord-asiatico e artico: lo si ritrova un po' dappertutto. Durante la seduta lo bala dei Pigmei Semang parla con gli Chenoi (spiriti celesti) nella loro lingua; ma pretende di aver tutto dimenticato non appena esce dalla capanna ove si svolgono i riti. Nelle Mentawei il maestro iniziatore soffia attraverso un bambù nell'orecchio dell'allievo per renderlo capace di capire le voci degli spiriti. Lo sciamano batak durante le sedute usa la «lingua degli spiriti» (Loeb) e i canti sciamanici dei Dusun (Borneo settentrionale) sono composti in un linguaggio segreto. «Secondo la tradizione dei Caribi il primo piai (sciamano) fu un uomo che, udendo un canto elevarsi da una corrente, vi si immerse intrepidamente e non ne usci che dopo aver imparato a memoria il canto delle donne-spiriti e aver ricevuto da esse gli accessori della sua arte» (Métraux).

Assai spesso questa lingua segreta è, di fatto, il «linguaggio degli animali» o trae origine dall'imitazione di grida degli animali. Nell' America del Sud, durante il periodo di iniziazione il neofita deve imparare ad imitare le voci degli animali. Si ha lo stesso nell'America del Nord: presso i Pomo e i Menomini, per non citare che queste tribù, gli sciamani imitano il canto degli uccelli. Durante le sedute degli Yakuti, degli Yukaghiri, dei Ciukci, dei Goldi, degli Eschimesi e di altri popoli ancora vengono emesse grida di animali selvaggi e di uccelli. Castagné ci presenta il baqça tartaro-kirghiso in atto di correre intorno alla tenda, di far dei salti e di ruggire saltando: egli «abbaia come un cane, annusa i presenti, muggisce come un bove, nitrisce, grida, bela come un agnello, grugnisce come un suino, tuba, imitando con una precisione notevole le grida degli animali, il canto degli uccelli, il rumore del loro volo, ecc. - cosa che non manca di impressionare i presenti». La «discesa degli spiriti» spesso si manifesta in tal guisa. Presso gli Indiani della Guiana «il silenzio è spesso interrotto dallo scoppio di grida bizzarre e effettivamente paurose; sono dei muggiti, delle urla che riempiono la capanna fino a farne vibrare le pareti. Questo clamore è come un muggito ritmico che diviene a poco a poco un grugnito sordo e lontano per poi di nuovo riprendere».

Tali grida annunciano la presenza degli spiriti, quella espressa anche dalle imitazioni animalesche di cui si è detto poco fa. Una quantità di parole usate durante la seduta traggono la loro origine da grida di uccelli o di altri animali (Lehtisalo). Come l'ha appunto notato Lehtisalo, lo sciamano per entrare in estasi usa il tamburo e lo Jodler, e dei testi magici vengono cantati dappertutto. «Magia» e «canto» - specie un canto come quello degli uccelli - sono nozioni spesso espresse dallo stesso termine. Il vocabolo germanico per la formula magica è galdr, derivante dal verbo galan «cantare», termine riferito specialmente alle grida degli uccelli.

Dappertutto nel mondo imparare il linguaggio degli animali e, per primo, quello degli uccelli, equivale a conoscere i segreti della Natura e, pertanto, ad esser capaci di profetizzare. La lingua degli uccelli la si apprende, in genere, mangiando carne di serpe o di altro animale considerato magico. Questi animali possono rivelare i segreti dell'avvenire perché vengono concepiti come il ricettacolo delle anime dei morti o come epifanie di dèi. Impararne la lingua, imitarne le voci, equivale a poter comunicare con l'aldilà e coi Cieli. Ritroveremo la stessa identificazione con· un animale, specie con l'uccello, quando tratteremo del costume degli sciamani e del volo magico. Gli uccelli sono psicopompi. Il divenire uccello o l'esser accompagnati da un uccello esprime la capacità di intraprendere già da vivi il viaggio estatico nel Cielo e nell'aldilà.

Imitare la voce degli uccelli, usare questo linguaggio segreto durante la seduta è un nuovo segno del fatto, che lo sciamano può circolare liberamente nelle tre zone cosmiche: Inferno, Terra, Cielo, vale a dire, che egli può penetrare impunemente là dove soltanto i morti o gli dèi hanno accesso. Come lo si è visto nel riguardo dei morti, incarnare un animale durante la seduta significa più un magico trasformarsi dello sciamano in quell'animale che non un suo esserne posseduto. Una tale trasformazione, del resto, la si può anche realizzare con altri mezzi: ad esempio, rivestendo il costume sciamanico o coprendosi il volto con una maschera.

Ma v'è di più. In parecchie tradizioni, l'amicizia con gli animali e la comprensione della loro lingua rappresentano delle sindromi paradisiache. Al principio, vale a dire nei tempi mitici, l'uomo viveva in pace con gli animali e comprendeva la loro lingua. Solo in seguito ad una catastrofe primordiale, paragonabile alla «caduta» della tradizione biblica, l'uomo è divenuto quel che attualmente è: mortale, sessuato, obbligato a lavorare per nutrirsi ed in conflitto con gli animali. Preparandosi all'estasi, e durante quest'estasi, lo sciamano abolisce la condizione umana presente e ritrova, provvisoriamente, la situazione iniziale. L'amicizia con gli animali, la conoscenza della loro lingua, la trasformazione in animale, sono altrettanti segni che lo sciamano ha reintegrato la situazione «paradisiaca» perduta all'alba dei tempi.

 

 

 

 

 

 

La ricerca dei poteri sciamanici nell'America Settentrionale

back to index

 

Abbiamo già accennato ai diversi modi con cui nell'America del Nord si conseguono i poteri sciamanici. Secondo le tradizioni locali la scaturigine di tali poteri è costituita sia dagli Esseri divini, sia dalle anime di antenati-sciamanici, sia da certi animali mitici, sia, infine, da certi oggetti o da determinate zone cosmiche. Si giunge ai poteri o spontaneamente, oppure grazie ad una ricerca deliberata; ma nell'uno come nell'altro caso il futuro sciamano deve passare attraverso certe prove di carattere iniziatico. Sia nell'America del Nord che altrove il conseguimento dei poteri sciamanici fa generalmente tutt'uno con l'acquisto di uno spirito protettore o ausiliario.

Ecco come le cose si svolgono presso gli Shaushwap, che sono una tribù del ceppo Salish dell'interno della Columbia britannica: «Lo sciamano viene iniziato da animali che diverranno i suoi spiriti protettori. I riti di iniziazione, lo scopo dei quali non è altro che l'acquisto di un aiuto sovrannaturale per quanto egli desidera, sembrano esser gli stessi per i guerrieri e per gli sciamani. Il giovane giunto alla pubertà prima ancora di aver toccato una donna deve andarsene fra le montagne ove compirà determinate azioni. Egli si costruirà una casa del sudore (sweat-house) ove egli deve trascorrere le notti; al mattino, gli è permesso di tornare al suo villaggio. Durante la notte egli si purifica nei vapori, canta e balla. Questa vita egli talvolta la continua perfino per anni interi fino a che l'animale, di cui egli desidera fare il suo spirito protettore, gli appare in sogno e gli promette di aiutarlo. A tale apparizione il novizio cade in deliquio. «Si sente come ebbro, incapace di rendersi conto di quel che gli succede e se sia giorno o notte» (Come si sa, questo è segno di una autentica esperienza estatica - si ricordi lo «spavento inesplicabile» degli aspiranti sciamani eschimesi all'apparire dei loro spiriti ausiliari). La bestia gli dice di invocarla se egli abbisogna di aiuto e gli comunica un canto particolare mediante il quale può chiamarlo. Per questo ogni sciamano ha un canto suo proprio che nessun altro ha il diritto di cantare, a meno che non si cerchi di scoprire uno stregone. Talvolta lo spirito discende sul novizio sotto forma di folgore. Si è visto che presso i Buriati colui che è stato colpito da folgore viene sepolto come uno sciamano e che i suoi parenti più prossimi hanno il diritto di divenire sciamani; perché, in un certo modo, egli è stato «scelto» dalla divinità del Cielo (Mikhailowki). I Soyoti, i Camciadali, e varie altre popolazioni, credono che si divenga sciamani quando, durante le tempeste, si scatena la folgore. Uno sciamano-donna eschimese consegui i poteri dopo esser stato colpito da una "palla di ferro"

Quando un animale inizia il novizio gli insegna il suo linguaggio. Si racconta che uno sciamano di Nicola Valley parlava, nei suoi incantamenti, la «lingua del coyote». «Quando un uomo dispone di uno spirito protettore diviene invulnerabile alle palle e alle freccie e se una palla o una freccia lo raggiunge, la sua ferita non sanguina; il sangue cola nel suo stomaco: allora egli lo sputa fuori e si sente bene come prima... Gli uomini possono assicurarsi diversi spiriti protettori: gli sciamani più potenti ne hanno sempre più di uno ad aiutarli» (avremo occasione di tornare sul valore sciamanico della «casa del sudore»).

Nel caso ora riferito, l'ottenimento dei poteri sciamanici appare dunque essere il risultato di una ricerca intenzionale. Anche altrove nell'America settentrionale i candidati si ritirano in caverne montane o in luoghi solitari e si sforzano di ottenere, mediante una intensa concentrazione, le visioni che, sole, son decisive per una carriera sciamanica. Di solito si è tenuti a precisare quale specie di «potere» sia desiderato; dettaglio importante, perché ci dice che si tratta di una tecnica intesa ad assicurarsi poteri magico-religiosi in genere, e non soltanto poteri sciamanici.

Ecco la storia di uno sciamano Paviotso, raccolta e pubblicata da Park: a cinquant'anni, tale sciamano aveva deciso di divenire «dottore». Egli si reca in una caverna e prega: «La mia gente è malata, voglio salvarla, ecc.». Cerca di addormentarsi, ma ne è impedito da strani rumori: sente dei grugniti e delle grida di animali (orsi, leoni delle montagne, daini, ecc.). Finalmente si addormenta e, in sogno, assiste ad una seduta di guarigione sciamanica: «essi erano laggiù, ai piedi della montagna. Potevo udire le loro voci e i loro canti. Poi ho sentito gemere un malato. Un dottore cantava e lo curava». Infine, il malato muore e il candidato ode i lamenti della famiglia. La roccia comincia a scricchiolare. «Un uomo appare da una fessura: grande e esile. Ha nelle mani una penna d'aquila». Gli ordina di procurarsi penne siffatte e gli insegna il modo di ottenere una guarigione. Quando, al mattino, il candidato si desta, non trova più nessuno vicino a lui (Park).

Se un candidato non segue le istruzioni ricevute nei sogni o i loro schemi tradizionali, è condannato all'insuccesso (Park). In certi casi lo spirito dello sciamano morto appare nel primo sogno del suo erede: ma nei sogni successivi sono spiriti superiori a manifestarsi e a conferirgli il «potere». Se l'erede non assume questo potere, si ammala. Il lettore ricorderà che abbiamo incontrato la stessa situazione un po' dappertutto.

Le anime dei morti vengono considerate come fonte dei poteri sciamanici presso i Paviotso, gli Shoshoni, i Seed Eaters e, piti a Nord, presso i Lilloet e i Thompson. Nella California del Nord questo modo di ottenere i poteri è estremamente ricorrente. Gli sciamani Yurok sognano in genere un morto che però non sempre è uno sciamano. Presso i Sinkyone il potere talvolta lo si riceve durante sogni nei quali si manifestano i parenti morti. I Wintu divengono sciamani grazie a sogni del genere, specie se in essi appaiono i propri figli morti. Presso gli Shasta il primo segno della presenza di un potere sciamanico lo si ha dopo sogni nei quali si manifestano la madre, il padre o un antenato morto. La stessa tradizione la si ritrova fra gli Atsugewi, i Maidu settentrionali, i Crow, gli Arapaho, i Grandi-Ventre, ecc. In alcune di queste tribù, ed anche altrove, si ricercano i poteri dormendo vicino a delle tombe; talvolta (ad esempio, presso i Tlingit) si ricorre ad un mezzo ancor più impressionante: l'allievo trascorre la notte insieme al corpo dello sciamano morto.

Ma nell'America del Nord esistono anche altre sorgenti di poteri sciamanici, e così pure altri istruttori oltre le anime dei morti e gli animali custodi. Nel Gran Bacino si parla di un «omicino verde», alto non più di due piedi, che ha arco e freccie. Vive nelle montagne e scaglia tali freccie contro coloro che parlano male di lui. L'«omicino verde» è lo spirito custode dei medicine-men, di coloro che son divenuti maghi unicamente grazie ad un aiuto sovrannaturale (Park). La concezione di un nano che trasmette i poteri o funge da spirito custode è molto diffusa ad Ovest delle Montagne Rocciose, fra le tribù dei Plateau Groups (Thompson) e nella California settentrionale (Shasta, Atsugewi, Maidu settentrionali e Yuki).

Talvolta il potere sciamanico procede direttamente dall'Essere Supremo o da altre entità divine. Cosi, ad esempio, presso i Cahuilla della California meridionale (Desert o Cahuilla) gli sciamani avrebbero avuto la loro potenza da Mukat, il Creatore, facendo però da intermediari certi spiriti custodi (il gufo, la volpe, il coyote, l'orso, ecc.) che si comportano come messaggeri del Dio agli sciamani (Park). Presso i Mohawe e gli Yuma il potere deriva da grandi esseri mitici che lo hanno trasmesso agli sciamani all'inizio del mondo. La trasmissione avviene in sogno e comporta una scenografia iniziatica. Lo sciamano Yuma assiste in sogno alle origini del mondo e rivive i tempi mitici. L'iniziazione della società segreta sciamanica Mide' wiwin comporta anche un ritorno ai tempi mitici degli inizi del mondo, quando il Grande Spirito rivelò i misteri ai primi «grandi medici». Vedremo come, in questi rituali iniziatici, sia questione d'una comunicazione tra Terra e Cielo, quale fu stabilita al momento della creazione del mondo. Presso i Manicopa i sogni iniziatici riflettono uno schema tradizionale: uno spirito prende l'anima del futuro sciamano e la porta di montagna in montagna, insegnandogli via via canti e metodi di cura. Presso i Walapai il viaggio sotto la guida di spiriti costituisce una caratteristica essenziale dei sogni sciamanici (Park).

Come si è già ripetutamente veduto, l'istruzione degli sciamani spesso ha luogo durante il sogno. È in sogno che si raggiunge la via sacra per eccellenza e che si ristabiliscono i rapporti diretti con gli dèi, con gli spiriti e con le anime degli antenati. È sempre in sogno che si abolisce il tempo storico e si ritrova il tempo mitico - il che permette al futuro sciamano di assistere agli inizi del mondo e pertanto di trasformarsi in un contemporaneo sia della cosmogonia, sia delle rivelazioni mitiche primordiali. Talvolta i sogni iniziatici sono involontari e si manifestano fin dall'infanzia: cosi, ad esempio, presso le tribù del Gran Bacino (cfr. Park, p. 110). Pur senza seguire una rigida scenografia, i sogni presentano un carattere stereotipo: si sogna di spiriti e di antenati, o se ne ode la voce (canti e istruzione). È sempre in sogno che si ricevono le regole iniziatiche (circa il regime, i tabù, ecc.) e che si viene a sapere degli oggetti di cui si avrà bisogno nelle cure sciamaniche. Presso gli Okanagon del Sud il futuro sciamano non vede gli spiriti custodi, egli ode soltanto i loro canti e le loro istruzioni. Anche presso i Maidu del Nord-Est si diviene sciamani sognando degli spiriti. Benché lo sciamanismo sia ereditario, non si è qualificati ad esso se prima non si son visti, in sogno, gli spiriti; i quali, del resto, in un certo modo vengono ereditati dall'una generazione all'altra. Gli spiriti talvolta si mostrano sotto forma di animali (e in tal caso lo sciamano non deve mangiare carne dell'animale corrispondente), ma vivono anche, senza avere una forma precisa, nelle roccie, nei laghi ecc.

La credenza che gli animali-spiriti o i fenomeni naturali siano sorgenti di poteri sciamanici è molto diffusa in tutta l'America del Nord. Presso i Salish dell'interno della Columbia britannica son pochi gli sciamani che ereditano gli spiriti custodi dei loro genitori. Quasi tutti gli animali e un numero considerevole di oggetti possono divenire degli spiriti: tutto ciò che ha una relazione qualsiasi con la morte (per es. le tombe, le ossa, i denti, ecc.) e qualunque fenomeno naturale (il cielo azzurro, l'Est e l'Ovest, ecc.). Però, come in molti altri casi, qui abbiamo a che fare con una esperienza magico-religiosa che va oltre la sfera specifica dello sciamanismo. Difatti anche i guerrieri hanno spiriti guardiani nelle loro armature e nelle fiere; i cacciatori traggono i loro spiriti guardiani dall'acqua. dalle montagne e dalla selvaggina, e così via.

Al dire di certi sciamani Paviotso il potere vien loro dallo «Spirito della Notte». Questo spirito «si trova dappertutto. È senza nome. Per lui non esiste un nome». L'Aquila e il Gufo son soltanto messaggeri che trasmettono l'istruzione da parte dello Spirito della Notte. I water-babies ed anche altri animali possono egualmente essere suoi messaggeri. «Quando lo Spirito della Notte dà il potere sciamanico (power for doctoring) egli dice allo sciamano di chieder l'aiuto dei water-babies, dell'aquila, del gufo, del daino, dell'antilope, dell'orso o di un altro animale o uccello. Il coyote per i Paviotso non costituisce mai una sorgente di potere, benché abbia una parte preminente nei loro racconti come personaggio (Park). Gli spiriti che conferiscono i poteri sono invisibili: solo gli sciamani possono vederli. Lo «Spirito della Notte» è probabilmente una designazione mitologica tardiva per l'Essere supremo, che divenuto, in un certo modo, deus otiosus, aiuta gli esseri umani per mezzo di "messaggeri".

Occorre aggiungere che le «pene» (pains) vengono concepite qui tanto come sorgenti del potere che come causa delle malattie. Le «pene» sembrano esser animate ed aver talvolta perfino una certa personalità. Esse non hanno una forma umana, eppure son considerate come realtà concrete. Presso gli Hupe, ad esempio, ne esistono di tutti i colori: ve ne è una che rassomiglia ad un pezzo di carne cruda, altre sono simili a granchi di mare, a piccoli daini, a punte di freccia, ecc. (Park). La credenza nelle «pene» è generale fra le tribù della California settentrionale, ma è sconosciuta o rara nelle altre regioni dell'America del Nord.

I damagomi degli Achumawi sono ad un tempo spiriti custodi e «pene». Una donna sciamano, Old Dixie, ha raccontato come si manifestò la sua vocazione: essa era già sposata quando un giorno «il mio primo damagomi venne a cercarmi. L'ho ancora. È una piccola cosa nera che si riesce appena a vedere. Quando venne la prima volta fece un gran rumore. Fu di notte. Mi disse che avrei dovuto andare a vederlo nei monti. Vi sono andata. Ciò mi faceva assai paura. Quasi non osavo. Poi ne ebbi di altri. Li ho catturati». Erano damagomi già appartenuti ad altri sciamani che erano stati mandati per avvelenare la gente o per altre missioni sciamaniche. Old Dixie inviava uno dei suoi damagomi e li catturava. Per tal via era giunta a possederne più di cinquanta, mentre un giovane sciamano non ne ha che tre o quattro (J. de Angulo). Gli sciamani li nutrono col sangue che succhiano nel praticare le cure. Secondo de Angulo questi damagomi sono ad un tempo reali (in carne ed ossa) e fantastici. Quando lo sciamano vuole avvelenare qualcuno gli invia un damagomi: «Va a trovare il tale. Entra in lui. Fallo ammalare. Non ucciderlo subito. Fallo morire in un mese».

Come l'abbiamo già visto a proposito dei Salish, ogni animale od oggetto cosmico può divenire una sorgente del potere o uno spirito custode. Presso gli Indiani Thompson, ad esempio, l'acqua vien considerata come lo spirito custode degli sciamani, dei guerrieri, dei cacciatori e dei pescatori; il sole, la folgore o l'uccello della folgore, le cime dei monti, l'orso, il lupo, l'aquila e il corvo sono spiriti custodi degli sciamani e dei guerrieri. Altri spiriti custodi sono comuni agli sciamani e ai cacciatori, ovvero agli sciamani e ai pescatori. Esistono anche spiriti custodi riservati esclusivamente agli sciamani: la notte, la bruma, il cielo azzurro, l'Est, l'Ovest, la donna, la giovinetta adolescente, il bambino, le mani e i piedi dell'uomo, gli organi sessuali dell'uomo e della donna, il pipistrello, il paese delle anime, i fantasmi, le tombe, le ossa, i denti e i capelli dei morti, ecc. Ma con tutto ciò la lista delle «sorgenti dei poteri sciamanici» è ben lungi dall'esser esaurita (cfr. Park).

Si vede dunque che una qualsiasi entità spirituale, animale o fisica può divenire una sorgente di potere o uno spirito custode sia per lo sciamano che per ogni altro individuo. Ciò ci sembra assai importante per il problema delle origini dei poteri sciamanici: in nessun caso la loro peculiare qualità di «poteri sciamanici» è dovuta alla natura delle corrispondenti sorgenti (che spesso non son diverse per tutti gli altri poteri magico-religiosi) né al fatto che siffatti poteri appaiono incarnati da certi animali-custodi. Ogni indiano può ottenere un suo spirito custode se è pronto a compiere un certo sforzo di volontà e di concentrazione. D'altronde anche l'iniziazione di tribù si conclude con l'acquisto di uno spirito custode. Da questo punto di vista la ricerca dei poteri sciamanici rientra nella ricerca delle potenze magico-religiose in genere. Come abbiamo già visto in un precedente capitolo, gli sciamani non si differenziano dagli altri membri della collettività per la loro ricerca del sacro - tale ricerca corrispondendo ad una tendenza normale e universale di ogni essere umano - bensì per la loro capacità di esperienza estatica che, per un buon periodo, si lega ad una elezione.

Possiamo perciò concludere che gli spiriti custodi e gli animali mitici ausiliari non sono una caratteristica del solo sciamanismo. Questi spiriti protettori e ausiliari si trovano un po' dappertutto per il cosmo e sono accessibili ad ogni individuo che, deciso ad assicurarseli, passa attraverso certe determinate prove. Ciò vuol dire che l'uomo arcaico sa identificare dappertutto nel cosmo una sorgente del sacro magico-religioso, che, conformemente alla dialettica del sacro, un qualsiasi frammento del cosmo può costituirgli una ierofania. Ciò che distingue uno sciamano da un altro individuo del clan non è il possesso di un potere o di uno spirito custode, ma è l'esperienza estatica. Ora, si è già visto e avremo meglio occasione di vedere che gli spiriti custodi o ausiliari non sono gli autori diretti di questa esperienza estatica. Essi sono soltanto i messaggeri di un essere divino o gli ausiliari in una esperienza che implica ben altre presenze che la loro.

D'altra parte sappiamo che il «potere» spesso vien conferito dalle anime degli antenati sciamani (i quali, a loro volta, l'hanno ricevuto all'alba dei tempi, nei tempi mitici), da personaggi divini o semi-divini, talvolta da un Essere supremo. Anche qui si ha l'impressione che gli spiriti custodi e ausiliari non siano che strumenti indispensabili all'attività sciamanica, quasi nuovi organi che lo sciamano riceve in seguito alla sua iniziazione per poter meglio orizzontarsi nel nuovo universo magico-religioso che ormai gli è dischiuso. Nei capitoli che seguiranno la parte degli spiriti custodi e ausiliari quali «organi mistici» verrà ancor più distintamente in luce.

Come in ogni altro luogo, cosi anche nell' America del Nord ci si trova ad avere questi spiriti custodi e ausiliari sia per via spontanea, sia volontariamente. Si è voluto differenziare l'ìniziazione degli sciamani nord-americani da quella degli sciamani siberiani per il fatto che nei primi si avrebbe sempre una ricerca voluta, mentre in Asia la vocazione sciamanica verrebbe in un certo qual modo imposta dagli spiriti. Utilizzando i risultati di Ruth Benedict Bogoras riassume come segue il modo con cui nell'America del Nord si conseguono i poteri sciamanici: per entrare in contatto con gli spiriti o per ottenere gli spiriti custodi, l'aspirante si ritira in solitudine e si sottomette ad un rigoroso sistema di autotortura. Quando gli spiriti si manifestano sotto forma animale, l'aspirante è tenuto a dar loro come cibo la propria carne (Bogoras). Ma l'offerta di se stessi sotto specie di cibo agli animali-spiriti, realizzata con uno spezzettamento del proprio corpo (come ad esempio presso gli Assiniboin), non è che una formula parallela al rito estatico dello smembramento del corpo dell'allievo, rito che abbiamo già analizzato in un precedente capitolo, e che ricalca uno' schema iniziatico (morte e resurrezione). Il tema lo si ritrova, del resto, anche in altre regioni - ad esempio in Australia e nel Tibet (del rito tantrico-bon tchod) - e va considerato come un surrogato o una formula parallela a quella dello smembramento estatico del candidato da parte di spiriti demoniaci; là dove l'esperienza estatica spontanea dello smembramento del corpo e del rinnovamento degli organi non è più conosciuta o si è fatta rara essa viene talvolta sostituita dall'offerta del proprio corpo agli animali-spiriti (come presso gli Assiniboin) o agli spiriti demoniaci (Tibet). Presso le tribù australiane Lunga e Djara colui che vuoI divenire un medicine-man entra in uno stagno che si pensa sia abitato da serpenti mostruosi. Questi lo «uccidono» e grazie a questa morte iniziatica l'aspirante consegue i poteri magici.

Se è vero che la «ricerca» è nota predominante dello sciamanismo nord-americano, essa però anche qui è lungi dall'essere il metodo esclusivo per ottenere dei poteri. Abbiamo già riferito diversi esempi di vocazione spontanea (cfr. ad esempio, più sopra, il caso di Old Dixie), ma ve ne sono molti altri ancora. Ci si ricordi della trasmissione ereditaria dei poteri sciamanici, ove, in ultima analisi, il tutto vien deciso dagli spiriti e dalle anime degli antenati. Ci si ricordi anche dei sogni premonitori dei futuri sciamani, sogni che, secondo Park, provocherebbero malattie mortali se non vengono compresi e seguiti religiosamente. Ad interpretarli si chiama un vecchio sciamano che ordina al malato di seguire le ingiunzioni degli spiriti che hanno provocato tali sogni. «In genere una persona acconsente malvolentieri a divenire sciamano, e non si decide ad assumere i poteri e a seguire le ingiunzioni dello spirito che quando gli altri sciamani lo assicurano che, altrimenti, andrà incontro alla morte». Ma non diversamente vanno le cose presso gli sciamani siberiani, centroasiatici e di altre regioni ancora. Cotesta resistenza all'«elezione divina» si spiega, come dicemmo, con l'attitudine ambivalente che l'uomo ha di fronte al sacro.

Aggiungiamo che, benché più di rado, anche in Asia s'incontra la ricerca voluta dei poteri sciamanici. Nell' America del Nord e specialmente nella California meridionale il conseguimento dei poteri sciamanici si associa spesso alle cerimonie di iniziazione. Presso i Kawaiisu, i Luisefio, i juanefio e i Gabrielino, e così pure presso i Dieguefio, i Cocopa e gli Akwa'ala, si attende la visione dell' animale protettore che seguirebbe all'intossicazione provocata da una certa pianta (jimson weed). Qui si tratta propriamente più di un rito di iniziazione ad una società segreta che non di una esperienza sciamanica. Le autotorture degli aspiranti cui accenna Bogoras appartengono più alle prove terribili che un candidato deve superare per poter far parte di una società segreta che non allo sciamanismo vero e proprio, benché nell'America del Nord sia sempre difficile tracciare limiti netti fra queste due forme religiose.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 4: L'iniziazione sciamanica

 

 

L'iniziazione presso i Tungusi e i Manciù

back to index

 

L'elezione estatica è generalmente seguita, tanto nell'Asia settentrionale che altrove, da un periodo di istruzione durante il quale il neofita è adeguatamente iniziato da un vecchio maestro. È ora che il futuro sciamano è tenuto ad imparare e a padroneggiare le tecniche mistiche e ad assimilare la tradizione religiosa e mitologica della tribù. Spesso, ma non sempre, il periodo di preparazione è coronato da una serie di cerimonie abitualmente definite iniziazione del nuovo sciamano. Ma come lo rileva giustamente Shirokogorov a proposito dei Tungusi e dei Manciù, qui non può trattarsi di iniziazione vera e propria, giacché i candidati sono effettivamente «iniziati» assai prima di esser formalmente riconosciuti nella loro qualità dai maestri-sciamani e dalla comunità. D'altronde, lo stesso si verifica un pc' dappertutto in Siberia e nell'Asia Centrale: anche quando si tratta di una cerimonia pubblica (come ad esempio presso i Buriati), questa non fa che confermare e convalidare la vela iniziazione estatica e segreta, che, come si è visto, avviene ad opera degli spiriti (malattie, sogni, ecc.) ed è condotta a termine nel periodo di istruzione trascorso presso un maestro sciamano.

Però esiste anche un riconoscimento formale da parte dei maestri-sciamani. Presso i Tungusi della Transbaikalia, un bambino vien prescelto ed educato allo scopo di far di lui uno sciamano. Dopo una certa preparazione, egli affronta le prime prove: deve interpretare i sogni, dimostrare le sue facoltà divinatorie, ecc. Il punto più drammatico è il seguente: il candidato, in estasi, descrive con precisione perfetta gli animali che gli saranno inviati dagli spiriti a che con la loro pelle si faccia un costume. Molto tempo dopo, quando tali animali sono stati cacciati e il costume è già confezionato, ha luogo una nuova riunione: si sacrifica una renna allo sciamano morto, il candidato riveste il costume e, in «grande seduta», dà saggio di arte sciamanica (Shirokogorov).

Presso i Tungusi della Manduria le cose vanno un po' diversamente. Il fanciullo vien sì scelto ed istruito, ma sono le possibilità estatiche a decidere della sua carriera (vedi più su). Dopo il periodo di preparazione cui abbiamo già accennato viene la cerimonia propriamente detta dell'«iniziazione».

Si drizzano due turo (alberi a cui sono stati tagliati i rami laterali, conservando però quelli della cima) davanti ad una abitazione. Questi due turo sono collegati da traverse di circa 50-100 centimetri di lunghezza, in numero dispari, e cioè o cinque, o sette, o nove. Si drizza un terzo turo verso il sud ad una distanza di qualche metro dagli altri e lo si collega al turo ad est con una cordicella o una sottile correggia tsiiim, «corda») ornata, ogni trenta centimetri, da nastri e da piume di diversi uccelli. Si può usare della seta di Cina rossa o dei tendini tinti in rosso. Questo è il «cammino» lungo il quale si sposteranno gli spiriti. Attraverso la cordicella si fa passare un anello di legno che può scorrere dall'un turo all'altro. Nel momento in cui il maestro l'invia, lo spirito si trova nel pieno dell'anello (iuldu). Tre figure antropomorfiche di legno (an'nakan) abbastanza larghe (30 cm.) vengono poste vicino ad ogni turo.

«Il candidato si siede fra i due turo e si mette a suonare il tamburo. Il vecchio sciamano evoca gli spiriti ad uno ad uno e, mediante l'anello, li invia al candidato. Volta per volta, prima di spedire un nuovo spirito, il maestro riprende l'anello: se cosi non facesse, gli spiriti penetrerebbero nel candidato in modo tale, da non uscirne più ... Nel punto in cui è posseduto dagli spiriti, il candidato viene interrogato dagli anziani e deve raccontare tutta la storia (la "biografia") dello spirito, in ogni dettaglio, dicendo soprattutto quel che egli era in precedenza, dove viveva, che faceva, con quale sciamano si trovava e quando questi è morto ... ; tutto ciò, onde convincere gli spettatori che lo spirito visita davvero il candidato... Ogni sera, dopo la dimostrazione, lo sciamano si arrampica sulla traversa più alta e vi resta un certo tempo. Il suo costume viene sospeso alle traverse del turo» (Shirokogorov). La cerimonia può durare tre, cinque, sette o nove giorni. Se il candidato riesce, si sacrifica agli spiriti del clan.

Pel momento, prescindiamo dalla parte degli «spiriti» nella consacrazione del futuro sciamano: in effetti, lo sciamanismo tunguso sembra esser dominato dagli spiriti-guida. Limitiamoci invece a mettere in rilievo due dettagli: 1) la corda chiamata «cammino»; 2) il rito della salita. Vedremo subito quale importanza abbiano questi riti: la corda è simbolo del «cammino» che collega la Terra al Cielo benché fra i Tungusi attuali il «cammino» serva piuttosto ad assicurare la comunicazione con gli spiriti; quanto al salire sull'albero, esso in origine deve aver significato l'ascensione dello sciamano in cielo. Se, come è probabile, ai Tungusi questi riti iniziatici son venuti dai Buriati, può darsi che essi li abbiano adattati all'ideologia loro propria svuotandoli del loro primitivo significato; questa perdita di significato potrebbe esser avvenuta assai recentemente, per l'influenza esercitata da altre ideologie (ad esempio, dal lamaismo). Checché ne sia, questo rito sciamanico, anche supponendo che sia stato preso in prestito da un'altra area, rientrava in un certo modo nella concezione generale dello sciamanismo tunguso; perché, come si è già visto e come lo vedremo ancor meglio in seguito, i Tungusi dividono con tutte le altre popolazioni nordasiatiche e artiche la credenza nell'ascensione celeste dello sciamano.

Presso i Manciù la cerimonia dell'iniziazione pubblica comportava, in tempi passati, il passar del candidato su dei carboni ardenti: se l'allievo disponeva davvero degli «spiriti» che pretendeva possedere, poteva camminare impunemente sul fuoco. Oggi tale cerimonia è divenuta abbastanza rara: si afferma che i poteri degli sciamani si sono indeboliti (Shirokogorov), il che corrisponde alla concezione generale nord-asiatica dell'attuale decadenza dello sciamanismo.

I Manciù conoscevano ancora un'altra prova iniziatica: d'inverno, si operavano nove aperture nel ghiaccio; il candidato era tenuto ad immergersi per una di queste aperture e ad uscire per la seconda nuotando sotto il ghiaccio, e cosi via, fino alla nona apertura. I Manciù pretendono che l'eccessivo rigore di questa prova è dovuto ad un'influenza cinese (Shirokogorov). In effetti, essa rassomiglia a certe prove yogico-tantriche tibetane, che consistono nell'asciugare, durante una notte invernale e in piena neve, col corpo nudo, un certo numero di panni bagnati. L'allievo-yogi in tal modo dà prova del «calore psichico» che egli è capace di produrre nel suo stesso corpo. Ci si ricorderà che presso gli Eschimesi una analoga prova di resistenza al freddo vien considerata come segno certo di elezione sciamanica. In effetti, produrre del calore a volontà è uno dei prestigi essenziali del mago e del medicine-man primitivi.

 

 

 

 

 

 

L'iniziazione degli Yakuti, dei Samoiedi e degli Ostiachi

back to index

 

Circa le cerimonie iniziatiche degli Yakuti, dei Samoiedi e degli Ostiachi disponiamo soltanto di informazioni precarie e di vecchia data. È assai probabile che le descrizioni che ci sono state date siano superficiali e approssimative, perché gli osservatori e gli etnografi del XIX secolo vollero spesso vedere nello sciamanismo un'opera demoniaca; per essi il futuro sciamano non poteva essere che un individuo che si metteva a disposizione del «diavolo». Ecco come Pripuzov ci presenta la cerimonia iniziatica in uso presso gli Yakuti: dopo che l'elezione da parte degli spiriti è avvenuta (vedi più su), il vecchio sciamano conduce il discepolo su di una collina o in una pianura, gli consegna il costume sciamanico, l'investe del tamburo e del bastone e fa mettere alla sua destra nove giovani casti e alla sua sinistra nove vergini. Poi, indossato il proprio costume, va dietro il neofita e gli fa ripetere certe formule. Anzitutto gli domanda di rinunciare a Dio e a tutto ciò che egli ama e gli fa promettere di consacrare tutta la sua vita al diavolo, che a tal prezzo esaudirà ogni suo voto. Poi il maestro-sciamano gli indica i luoghi ove risiede il diavolo, le malattie che questo guarisce e il modo di placarlo. Infine il candidato uccide l'animale destinato al sacrificio; il sangue deve bagnare il suo costume mentre la carne sarà consumata dai partecipanti (qui siamo probabilmente di fronte ad un'iniziazione di «sciamani neri», votati esclusivamente agli spiriti ed alle divinità infernali, quali si incontrano anche preso so le altre popolazioni siberiane).

Secondo le informazioni raccolte da Ksenofontov presso gli sciamani yakuti, il maestro prende seco l'anima del novizio in un lungo viaggio estatico. Essi cominciano con lo scalare una montagna. Di lassù, il maestro mostra al novizio le biforcazioni del cammino donde altri sentieri salgono verso i crinali: è là che risiedono le malattie che debilitano gli uomini. Il maestro conduce quindi il discepolo in una casa. I vi i due indossano i costumi sciamanici e fanno dello sciamanismo insieme. Il maestro rivela al discepolo come si riconoscono e si guariscono le malattie che attaccano le diverse parti del corpo. Ogni volta che nomina una parte del corpo gli sputa nella bocca, ed il discepolo deve inghiottire lo sputo, affinché possa riconoscere «i cammini dei malanni dell'Inferno». Finalmente, lo sciamano conduce il suo discepolo nel mondo superiore, dagli spiriti celesti. Lo sciamano dispone ormai d'un «corpo consacrato» e può esercitare la sua arte..

Secondo Tretjakov, i Samoiedi e gli Ostiachi della regione di Turushansk procedono all'iniziazione dei nuovi sciamani nel modo seguente: il candidato si volge ad Occidente mentre il maestro prega lo Spirito delle tenebre di aiutare il novizio e di concedergli una guida. Poi intona un inno a questo stesso Spirito delle tenebre, inno che il candidato, a sua volta, ripete. Infine hanno luogo le prove alle quali lo Spirito sottopone il novizio, domandandogli la moglie, i figli, i beni, ecc.

Presso i Goldi l'iniziazione, come presso i Tungusi e i Buriati, ha luogo pubblicamente: la famiglia del candidato e numerosi invitati vi prendono parte. Si canta e si balla (ci debbono essere almeno nove danzatori) e si sacrificano nove maiali; gli sciamani bevono il loro sangue, cadono in estasi e si danno a lunghe esibizioni dell'arte loro. La festa dura diversi giorni e, in un certo modo, si trasforma in un divertimento pubblico.

È chiaro che un tale avvenimento finisce con l'interessare l'intera tribù e che le spese relative non possono esser sempre sostenute dalla sola famiglia dell'iniziando. Da tale punto di vista, l'iniziazione ha una parte importante nella sociologia dello sciamanismo.

 

 

 

 

 

 

L'iniziazione presso i Buriati

back to index

 

La cerimonia iniziatica più complessa meglio conosciuta soprattutto grazie a Changalov e al «Manuale» pubblicato da Pozdneiev e tradotto da Partanen - è quella dei Buriati. Si tratta di un manoscritto trovato da Pozdeyev nel 1879 in un villaggio buriate e da lui pubblicato nella sua Chrestomathie mongole. Il testo è redatto in mongolo letterario, con traccie di buriate moderno. L'autore sembra esser stato un Buriate mezzo lamaista. Disgraziatamente questo documento non riferisce che il lato esteriore del rituale.

Anche qui la vera iniziazione precede la consacrazione pubblica del nuovo sciamano. Dopo le prime esperienze estatiche (sogni, visioni, dialoghi con spiriti, ecc.), per lunghi anni l'allievo si prepara nella solitudine, istruito da vecchi maestri e specialmente da chi diverrà il suo iniziatore e che assumerà il nome di «sciamano-padre». Durante tutto questo periodo egli esercita l'arte sciamanica, invoca gli dèi e gli spiriti, impara i segreti del mestiere. Anche presso i Buriati 1'«iniziazione» è più una dimostrazione pubblica delle capacità mistiche già acquisite dal candidato, seguita dalla consacrazione impartita dal maestro, che non una vera rivelazione dei misteri.

Fissata che sia la data della, consacrazione, ha luogo una cerimonia purificatoria, che in via di principio dovrebbe ripetersi da tre a nove volte, ma che in pratica ci si accontenta di celebrare due volte soltanto. Lo «sciamano-padre» e nove giovani, chiamati suoi «figli», vanno a prendere acqua da tre sorgenti e offrono libagioni di tarasun agli spiriti di tali sorgenti. Al ritorno, dei giovani alberi di betulla vengono divelti e trasportati nella casa. Si fa bollire l'acqua e, per purificarla, si getta nella marmitta timo selvatico, ginepro e scorza di abete con l'aggiunta di alcuni peli tagliati dall'orecchio di un capro. Poi l'animale viene ucciso facendo sì che alcune goccie del suo sangue cadano nella marmitta. La carne è rimessa alle donne, a che la preparino. Dopo aver proceduto alla divinazione mediante una spalla del montone, lo «sciamano-padre» invoca gli antenati sciamani del candidato e offre loro vino e tarasun. Bagnata nella marmitta una scopa fatta con foglie di betulla, con essa egli tocca il dorso dell'allievo. I «figli dello sciamano» ripetono a loro volta questo gesto rituale, mentre il «padre» dichiara: «Quando un povero avrà bisogno di te, non chiedergli molto, prendi quel che ti dà. Pensa ai poveri, aiutali e prega Dio di proteggerli contro gli spiriti malvagi e i loro poteri.

«Se un ricco e un povero ti chiamano nello stesso tempo, va prima dal povero e poi dal ricco». Harva descrive questo rito di purificazione dopo l'iniziazione propriamente detta. Come subito vedremo, un rito analogo ha effettivamente luogo subito dopo l'ascesa cerimoniale degli alberi di betulla. È del resto probabile che la scenografia iniziatica sia molto mutata col tempo; esistono anche differenze notevoli dall'una tribù all'altra. L'allievo promette di osservare queste norme e ripete la preghiera pronunciata dal maestro. Dopo l'abluzione vengono di nuovo offerte libagioni di tarasun agli spiriti custodi, col che la cerimonia preparatoria ha termine. Questa purificazione a mezzo dell'acqua è obbligatoria per gli sciamani, che debbono compierla almeno una volta all'anno se non pure ogni mese, ad ogni luna nuova. Inoltre lo sciamano si purifica in questa stessa guisa ogni volta che si contamina; se la contaminazione è particolarmente grave, per la purificazione si usa anche il sangue.

Qualche tempo dopo la purificazione ha luogo la cerimonia della prima consacrazione, kharagii-khulkhii; alle spese che essa comporta contribuisce tutta la comunità. Le offerte vengono raccolte dallo sciamano e da nove coadiutori (i «figli») che se ne vanno in processione, a cavallo, dall'una capanna all'altra. In genere le offerte consistono in fazzoletti e nastri, di rado in danaro. Vengono anche comprate tazze di legno, campanelle per i bastoni a testa di cavallo (horse-sticks), seta, vino, ecc. Nella regione di Balagansk il candidato, lo «sciamano padre» e i novi «figli dello sciamano» si ritirano in una tenda e digiunano per nove giorni, vivendo solo di tè e di farina bollita. Intorno alla tenda vien disposta, in triplice cerchio, una corda fatta di crine di cavallo alla quale sono attaccate piccole pelli di animali.

Alla vigilia della cerimonia dei giovani, sotto la direzione dello sciamano, vanno a tagliare una quantità sufficiente di alberi di betulla saldi e dritti. Essi sono scelti nella foresta ove sono sepolti gli abitanti del villaggio, e per placare gli spiriti della foresta vengono fatte delle offerte di carne di montone e di tarasun. Nella mattina del giorno destinato alla festa degli alberi vengono disposti in modo adeguato: anzitutto si fissa nella yurta una robusta betulla, con le radici nel focolare e con la cima uscente dall'orificio superiore (buco del fumo). Questa betulla vien chiamata udesbi burkhan, cioè «il custode della porta» (o «dio portinaio»), perché apre allo sciamano la soglia del Cielo. Resterà sempre nella tenda, servendo da contrassegno per ogni dimora da sciamano.

Le altre betulle vengono piantate lungi dalla yurta, là dove avrà luogo la cerimonia di iniziazione, in un certo ordine: 1) una betulla, sotto la quale si mettono tarasun ed altre offerte, e ai cui rami vengono legati nastri rossi e gialli se si tratta di uno «sciamano nero», e bianchi e azzurri nel caso di uno «sciamano bianco», di tutti e quattro i colori se il nuovo sciamano intende servire spiriti di ogni categoria, e buoni e cattivi; 2) un'altra betulla alla quale si appendono una campana e la pelle di un cavallo sacrificato; 3) un terzo albero, solido e ben piantato, sul quale il neofita dovrà arrampicarsi. Queste tre betulle, di solito divelte insieme alle radici, son chiamate «pilastri» (sarga); 4) nove betulle, a gruppi di tre, legate insieme da una corda di crine di cavallo bianco alla quale sono attaccati nastri di vari colori disposti in un certo ordine: bianchi, azzurri, rossi, gialli (questi colori stanno forse a significare i diversi piani celesti); su queste betulle saranno esposte le pelli dei nove animali sacrificati, insieme a dei cibi; 5) nove pali ai quali vengono legati gli animali destinati al sacrificio; 6) sei grossi alberi di betulla ben ordinati ai quali poi verranno sospese le ossa degli animali sacrificati, avvolte nella paglia. Il testo tradotto da Partanen fornisce una quantità di dettagli circa le betulle e i pali rituali. «L'albero situato a nord si chiama Albero-Madre. Alla sua cima è sospeso, con nastri di seta o di cotone, un nido d'uccelli nel quale sono poste, su del cotone o della lana bianca, nove uova ed una luna fatta con un pezzo di velluto bianco incollato su un tondo di scorza di betulla... Il grande albero del sud si chiama Albero-Padre. Alla sua cima (è sospeso un pezzo) di scorza ricoperto di velluto rosso che si chiama Sole». «A nord dell'Albero-Madre, accanto alla yurta, si piantano sette betulle; su ciascuno dei quattro angoli: della yurta si mettono quattro alberi ed alla loro base si piazza un gradino per bruciarvi (a mo' d'incenso) ginepro e timo. Questo si chiama Scala (sta) o Gradino (geskigiir) ». Dalla betulla principale, che si trova all'interno della yurta, due nastri, rosso l'uno e turchino l'altro, vanno a tutti gli altri alberi disposti all'esterno: è il simbolo dell'arcobaleno», della via seguendo la quale dominio degli spiriti, il Cielo.

Una volta terminati tutti questi preparativi, il neofita e i «figli dello sciamano», tutti vestiti di bianco, procedono alla consacrazione degli istrumenti sciamanici: si sacrifica un montone in onore al Signore e alla Signora del bastone a testa di cavallo e si offre del tarasun, Talvolta s'intride il bastone col sangue dell'animale sacrificato: a partire da tale momento il bastone a testa di cavallo diviene animato e si trasforma in un vero cavallo.

Dopo questa consacrazione degli strumenti sciamanici comincia una lunga cerimonia consistente in un'offerta di tarasun alle divinità tutelari - i Khan occidentali e i loro nove figli - e agli antenati dello «sciamano-padre», ad alcuni celebri sciamani morti, ai burkhan e ad altre divinità minori. Il «padre-sciamano» rivolge nuovamente una preghiera ai diversi dèi e spiriti e il candidato ne ripete le parole; secondo certe tradizioni, questi impugna una spada e, cosi armato, si arrampica sulla betulla che si trova all'interno della yurta, ne raggiunge la cima e, uscendo dall'apertura destinata al fumo, grida per invocare l'aiuto degli dèi. Nel frattempo le persone e gli oggetti che si trovano nella yurta vengono continuamente purificati. Dopo di che quattro «figli dello sciamano» portano il candidato fuori della yurta su di un tappeto di feltro, cantando.

Tutto il gruppo, con alla testa il «padre-sciamano» seguito dal candidato e dai nove «figli», dai genitori e dal pubblico, si dirige verso il posto ove si trova la fila delle betulle. Il corteo si arresta in un dato punto, vicino ad una betulla; si sacrifica un capro e il candidato, a dorso nudo, viene unto col sangue della bestia alla testa, agli occhi, alle orecchie, mentre gli altri sciamani battono il tamburo. I nove «figli» immergono le loro scope nell'acqua, battono con esse il dorso nudo del candidato e sciamanizzano.

Vengono anche sacrificati nove animali, se non di più, e mentre si prepara la loro carne ha luogo il rituale dell'ascensione in cielo. Il «padre-sciamano» monta su di una delle betulle e pratica nove incisioni sul tronco, verso la cima. Scende e si siede su di un tappeto che i suoi «figli» han disposto sotto l'albero. A sua volta il candidato vi monta, seguito dagli altri sciamani. Mentre si arrampicano, cadono in estasi. Presso i Buriati di Balagansk il candidato, seduto su di un tappeto di feltro, vien portato nove volte intorno alle betulle: sale su ciascuna di esse e fa nove incisioni sui tronchi, verso la cima. Mentre si trova in alto, sciamanizza: giù, lo «sciamano-padre» sciamanizza anche lui, facendo il giro degli alberi. Secondo Potanin, le nove betulle vengono piantate l'una vicino all'altra; il candidato trasportato sul tappeto salta davanti l'ultima, si arrampica fino alla cima ripetendo lo stesso rito per ciascuno dei nove alberi: questi, al pari delle nove incisioni, simbolizzerebbero i nove cieli.

Dopo di che il cibo vien preparato e, dopo aver fatte delle offerte agli dèi (gettando pezzi di carne nel fuoco e in aria), il banchetto comincia. Dopo di ciò lo sciamano e i suoi «figli» si ritirano nella yurta, ma gli invitati restano a lungo a festeggiare. Le ossa degli animali vengono sospese, avvolte di paglia, alle nove betulle.

Anticamente ci sarebbero state diverse iniziazioni: nove secondo Changalov e Sandchejev, cinque secondo Petri (Harva). Secondo il testo pubblicato da Pozndeiev, dopo tre anni e dopo altri sei anni dovrebbero aver luogo una seconda e una terza iniziazione (Partanen). Cerimonie simili sono state accertate presso i Sibo (gente apparentata coi Tungusi), presso i Tartari dell'Altai e, in una certa misura, anche presso gli Yakuti e i Goldi (Harva).

Anche là dove non si trova una iniziazione di questo tipo, incontriamo riti sciamanici di ascensione che riflettono concezioni analoghe. Ci renderemo conto di questa unità fondamentale dello sciamanismo centro-asiatico e nord-asiatico studiando la tecnica delle sedute; allora potremo anche individuare la struttura cosmologica che sta alla base di tutti questi riti sciamanici. Ad esempio, è evidente che l'albero di betulla simboleggia l'Albero Cosmico, o Asse del Mondo, e che, di conseguenza, si ritiene che occupi il Centro del Mondo: arrampicandovisi, lo sciamano compie questo importante motivo mitico studiando i sogni iniziatici, ed esso risulterà ancor più distinto nel trattare le sedute degli sciamani altaici e il simbolismo dei tamburi.

D'altronde vedremo che l'ascesa su di un albero o su di un palo ha una parte importante anche in altre iniziazioni di tipo sciamanico: essa va considerata come una delle varianti del tema mitico-rituale dell'ascensione al Cielo (tema che comprende altresi il «volo magico», il mito della «catena di freccie», della corda, del ponte, ecc.). Lo stesso simbolismo ascensionale è attestato dalla corda (= ponte) che collega le betulle e alla quale sono appesi nastri di diversi colori (= i raggi dell'Arcobaleno, le varie regioni celesti). Questi temi mitici e questi rituali, benché specifici della religione siberiana e altaica, non sono esclusivamente propri a tali culture, la loro area di diffusione estendendosi ben oltre il Centro e il Nord-Est dell'Asia. Ci si potrebbe perfino domandare se un rito complesso come l'iniziazione dello sciamano buriate possa essere una creazione indipendente dato che, come Uno Harva l'ha rilevato già un quarto di secolo fa, l'iniziazione buriata ricorda singolarmente alcune cerimonie dei misteri mithraici. Il candidato, a dorso nudo, vien purificato col sangue di un becco che talvolta viene sacrificato sopra la sua testa: in alcuni luoghi, egli deve perfino bere il sangue dell'animale sacrificato. È, questa, una cerimonia che rassomiglia al taurobolio, cioè al rito principale dei misteri di Mithra. Nel secondo secolo della nostra era Prudenzio (Peristeob., X, pp. 1011 sgg.) descriveva questo rituale mettendolo in relazione coi misteri della Magna Mater, ma v'è ragione di credere che il taurobolio frigio sia stato preso in prestito dai Persiani. E in questi stessi Misteri veniva usata una scala (climax) a sette gradini, ogni gradino essendo fatto di un diverso metallo. Secondo Celso (Origene, Contra Celsum, VI, 22), il primo gradino era di piombo (corrispondente al «cielo» del pianeta Saturno), il secondo di stagno (Venere), il terzo di bronzo (Giove), il quarto di ferro (Mercurio), il quinto di una «lega da moneta» (Marre), il sesto d'argento (la Luna), il settimo d'oro (il Sole). L'ottavo gradino - ci dice Celso - rappresentava la regione delle stelle fisse. Salendo su questa scala cerimoniale, l'iniziato percorreva effettivamente i «sette cieli», s'innalzava fino all'Empireo.

Sull'ascensione al Cielo attraverso gradini, scale, monti, ecc., cfr. A. Dieterich. Ricordiamo che anche presso gli Altaici e i Samoiedi il numero sette ha una parte importante. Il "pilastro del mondo" ha sette piani, l'Albero Cosmico ha sette rami, ecc. I! numero sette, che predomina nel simbolismo mithraico (sette sfere celesti, sette stelle o sette coltelli o sette alberi o sette altari ecc. nei monumenti figurati), è dovuto ad influenze babilonesi esercitatesi già agli inizi sulla misteriosofia iranica.

Se si tiene conto di altri elementi irànici presenti, in forma più o meno sfigurata, nelle mitologie centro-asiatiche. Segnaliamone qualcuno: il mito dell'Albero miracoloso Gaokèrèna che cresce su di un'isola del lago (o del mare) Vourukasha e presso il quale si trova una mostruosa lucertola, creata da Ahrimane, mito che si ritrova anche presso i Calmucchi (un drago nell'oceano presso l'Albero miracoloso Zambu), presso i Buriati (la serpe Abyrga presso l'Albero nel "lago di latte") e altrove, ma bisogna anche pensare ad una possibile influenza indù; su ciò, vedi più giù. Se ci si ricorda della parte importante che, nel primo millennio della nostra èra, i Sogdiani hanno avuto come intermediari fra la Cina e l'Asia Centrale da un lato, e fra l'Iran e il Vicino Oriente dall'altro, l'ipotesi dell'erudito finlandese appare verosimile.

Pel momento, ci basta di aver indicato queste probabili influenze iràniche sul rituale buriate. L'importanza di tutto ciò apparirà chiara quando tratteremo degli apporti sud-asiatici e asiatico-occidentali nello sciamanismo siberiano.

 

 

 

 

 

 

Iniziazione dello sciamano araucano

back to index

 

Non è nostra intenzione passare in rassegna riti di altre popolazioni che presentano delle corrispondenze con questo rituale buriate d'iniziazione sciamanica. Ricorderemo solo quelli nei quali la corrispondenza colpisce di più e che presentano il simbolo essenziale del salire su di un albero o altro rito più o meno alludente ad un'ascensione al Cielo.

Cominceremo con la consacrazione sud-americana: quella della machi, la donna-sciamano araucana. Questa cerimonia di iniziazione ha per centro l'ascesa rituale di un albero o, meglio, di un tronco denudato, chiamato rewe; il quale, del resto, è l'emblema stesso della professione sciamanica ed ogni machi lo conserva indefinitamente davanti alla sua capanna.

Si scorteccia un albero alto un tre metri, sul cui tronco si fanno degli intacchi a guisa di scala; questo albero vien poi piantato solidamente davanti all'abitazione della futura sciamana, «un po' obliquo, per facilitare l'ascesa». Talvolta «dei lunghi rami vengono confitti per terra intorno alla rewe, tanto da costituire una cinta di 15 metri per 4» (Métraux). Quando questa scala sacra è a posto, la candidata si sveste e avendo addosso la sola camicia si distende su di un giaciglio fatto di pelle di montone e di coperte. Le vecchie sciamane cominciano a fregarle il corpo con foglie di canelo eseguendo in pari tempo dei passi magici. Intanto le assistenti cantano in coro e agitano dei sonagli. Questo massaggio rituale vien ripetuto più volte. Poi «le sue figlie più anziane si curvano su di lei succhiandole il petto, il ventre e la testa con una tale forza da far uscire del sangue» (Métraux). Dopo questa prima preparazione, la candidata si alza, si riveste e si siede su di una sedia. I canti e le danze continuano per tutta la giornata.

L'indomani la festa raggiunge il suo àpice. Una folla di invitati giunge. Le vecchie machi formano un circolo, battendo il tamburo e ballando a turno. Infine le machi e la candidata si avvicinano all'albero-scala e iniziano l'arrampicata, l'una dopo l'altra (secondo l'informatore di Moesbach, la candidata sale per prima). La cerimonia si chiude col sacrificio di un montone.

Qui abbiamo riassunta la descrizione fatta da Robles Rodriguez. Padre Housse fornisce altri dettagli. I presenti fan cerchio intorno all'altare ove vengono immolati agnelli offerti dalla famiglia della sciamana. La vecchia machi si rivolge a Dio: «O Dominatore e Padre degli uomini, io ti aspergo col sangue di questi animali che hai creati. Siici propizio!» ecc. L'animale viene ucciso e il cuore di esso vien sospeso ad uno dei rami del canelo. La musica comincia e tutti si accalcano attorno al rewe. Segue il banchetto e la danza, che si protraggono per tutta la notte.

All' alba la candidata riappare e le machi si mettono di nuovo a danzare al ritmo del tamburo. Molte di esse cadono in estasi. La vecchia si benda gli occhi e, dopo aver tastato qua e là, pratica diverse incisioni sulle dita e sulle labbra della candidata con un coltello di quarzo; poi fa le stesse incisioni su se stessa e mescola il proprio sangue con quello della candidata. Dopo altri riti la giovane iniziata «sale sul rewe, danzando e battendo il tamburo; le due madrine la sistemano sulla piattaforma. Le tolgono la collana di foglie e la pelle sanguinante (n. b. con cui era stata ornata poco prima) che esse sospendono agli arbusti. Solo il tempo dovrà a poco a poco distruggerle, perché sono sacre. Poi il collegio delle streghe ridiscende, la giovane per ultima, a parte dietro e con un certo ritmo. Appena i suoi piedi toccano il suolo un immenso clamore la saluta; è il trionfo, è un delirio, è un tumulto, ognuno vuole vederla da vicino, toccarle le mani, abbracciarla» (Housse). Segue il banchetto, al quale partecipano tutti i presenti. Le ferite guariscono in otto giorni.

Secondo i testi raccolti da Moesbach la preghiera della machi sembrerebbe esser rivolta al Dio-Padre («Padre dios rey anciano», ecc.). Ella gli chiede il dono della doppia vista (per percepire il male nel corpo del malato) e dell'arte di battere il tamburo. Inoltre si chiede un «cavallo», un «toro», un «coltello» - simboli di certi poteri spirituali - e, infine, una pietra «striata o a colori» (è, questa, una pietra magica che si può proiettare nel corpo del paziente per purificarlo: se ne esce insanguinata, è segno che il malato è in pericolo di vita. Con questa pietra si strofinano i malati). Le machi promettono all'assemblea che la giovane iniziata non praticherà mai la magia nera. Il testo di Rodriguez non parla di un «Dio-Padre», ma del vileo, che è il machi del Cielo, vale a dire il Grande Sciamano celeste (i vileo abitano «il mezzo del Cielo»),

Come in tutti i casi nei quali è quistione di una ascensione iniziatica, così anche qui la stessa ascensione viene ripetuta quando si procede ad una cura sciamanica (Métraux).

Mettiamo in rilievo le note dominanti di questa iniziazione: l'ascesa estatica su di un albero-scala, simboleggiante il viaggio al cielo; la preghiera rivolta sulla piattaforma al Dio supremo o al Grande Sciamano celeste che dovrebbe accordare alla machi sia i poteri terapeutici (chiaroveggenza, ecc.), sia gli oggetti magici necessari per l'arte medica (la pietra striata, ecc.). L'origine divina o, almeno celeste dei poteri terapeutici in molte altre popolazioni primordiali è ben chiara: ad esempio, presso i Pigmei Semang, dove lo baia cura le malattie con l'aiuto dei Cenoi (intermediari fra Ta Pedn il Dio supremo, e gli esseri umani) o di pietre di quarzo nelle quali spesso si suppone che questi spiriti celesti abitino - ma anche con l'aiuto di Dio. Quanto alla «pietra striata o a colori», anch'essa è di origine celeste; è dello stesso tipo di quella che abbiamo spesso incontrata sia nel Sud-America che altrove (cfr. sopra) e su di essa avremo da tornare. Bisogna anche rilevare che presso gli Araucani sono le donne a praticare lo sciamanismo: in altri tempi, questo era una prerogativa degli invertiti sessuali. S'incontra una situazione molto simile presso i Ciukci: la maggior parte degli sciamani sono degli invertiti i quali talvolta prendono anche marito; ma anche nel caso che siano normali sessualmente, dai loro spiriti-guida sono costretti a vestirsi da donna. Esiste una relazione genetica fra questi due sciamanismi? Ci sembra difficile deciderlo.

 

 

 

 

 

 

L'ascesa rituale degli alberi

L'ascesa rituale di un albero quale rito iniziatico sciamanico la si ritrova anche nell' America del Nord. Presso i Pomo, la cerimonia di ammissione alle società segrete dura quattro giorni, dei quali uno è esclusivamente dedicato al salire su di un albero-palo alto da otto a dieci metri, e di quindici centimetri di diametro. Ci si ricorderà che i futuri sciamani siberiani si arrampicano su alberi durante la loro consacrazione o prima di essa. E vedremo che il sacrificatore vedico sale anche lui su di un palo rituale per raggiungere il Cielo e gli dèi. L'ascendere a mezzo di un albero, di una liana o di una corda è un motivo mitico diffusissimo: ne daremo alcuni esempi in uno dei capitoli successivi.

Infine vale aggiungere che l'iniziazione al terzo e massimo grado sciamanico del manang a Sarawak (cfr. sopra) comporta parimenti un'ascesa rituale: sulla veranda si porta una grande tinozza ai margini della quale vengono appoggiate due scalette; dandosi il turno durante tutta la notte, i maestri iniziatori fanno salire il candidato su di una di queste scale e lo fanno discendere dall'altra. Uno dei primi osservatori di siffatta iniziazione, l'arcidiacono L. Perham, il quale ne scrisse verso il 1885, confessò di non aver potuto ottenere nessuna spiegazione del rito. Eppure il suo senso sembra abbastanza chiaro: non può trattarsi che di un'ascensione simbolica al cielo seguita da una ridiscesa in terra. Riti consimili si ritrovano a Malekula: uno dei gradi superiori della cerimonia Maki si chiama proprio «scala» e il salire su di una piattaforma costituisce l'atto essenziale di questa cerimonia.

Ma v'è di più: gli sciamani e i medicine-men, proprio come - del resto - certi tipi di mistici, son capaci di volar via come uccelli, e d'appollaiarsi su rami d'albero. Lo sciamano ungherese (tàltos) «poteva balzare su un salice ed assidersi su un ramo che sarebbe stato troppo fragile per un uccello». Il santo iraniano Qutb ud-din Haydar era scorto di frequente in cima agli alberi (si confronti più avanti). San Giuseppe da Copertino se ne volò su un albero e restò mezz'ora su un ramo «che si vedeva oscillare come se vi si fosse posato un uccello» (cfr. più giù).

Son pure interessanti le esperienze dei medicine-men australiani. Costoro pretendono di disporre d'una specie di corda magica con cui possono arrampicarsi in cima agli alberi. «Il mago si distende sul dorso sotto un albero, fa salire la corda e vi si arrampica fino a raggiungere un nido posto in cima all'albero; quindi passa in altri alberi e, quando cala il sole, ridiscende lungo il tronco» (A.P. Elkin). Secondo le informazioni raccolte da Berndt e da Elkin, «un mago wongaibon, distesosi sul dorso ai piedi di un albero, fece salir su, dritta dritta, la sua corda e vi si arrampicò, con la testa all'indietro, il corpo rilassato, le gambe divaricate e le braccia sui fianchi. Arrivato in cima, a quaranta piedi, agitò le braccia verso quelli che erano sotto e quindi discese alla stessa maniera; e, mentre stava ancora steso sul dorso, la corda gli rientrò dentro il corpo» (Elkin). Questa corda magica non può non rammentarci il «giro della corda» rope-trick) indiano, del quale dovremo studiare più avanti la struttura sciamanica.

 

 

 

 

 

 

Il viaggio celeste dello sciamano caribe

back to index

 

L'iniziazione degli sciamani caribi della Guiana olandese, benché s'incentri parimenti sul viaggio estatico del neofita al Cielo, utilizza però mezzi differenti da quelli già riferiti. Non si può divenire pujai prima di giungere a vedere gli spiriti e a stringere con essi relazioni dirette e durevoli. Si tratta meno di una «possessione» che non di una visione estatica la quale rende possibile di comunicare e di parlare con gli spiriti. Questa esperienza estatica non può aver luogo che salendo in cielo. Ma il novizio può intraprendere tale viaggio solo se è stato istruito nella ideologia tradizionale e, in secondo luogo, se si è preparato fisicamente e psichicamente per la trance. Come vedremo, il metodo di preparazione è di estrema durezza.

Di solito, si iniziano sei giovani alla volta. Essi debbono vivere in assoluto isolamento in una capanna costruita a questo preciso scopo, ricoperta di foglie di palma. Da essi si esige un certo lavoro manuale; essi debbono occuparsi delle coltivazioni di tabacco del maestro-iniziatore e fare con un tronco di cedro una panca in forma di caimano che essi mettono davanti la capanna; è su questa panca che si siedono tutte le sere per ascoltare il maestro o per attendere le visioni. Inoltre ognuno di essi si fabbrica dei sonagli e un «bastone magico» lungo due metri ad uso proprio. Sei giovinette, sorvegliate da una vecchia istitutrice, sono al servizio dei candidati. Esse provvedono giornalmente del succo di tabacco che i neofiti san tenuti a bere in quantità e, ogni sera, ciascuna di esse friziona con un liquido rosso tutto il corpo di ogni allievo: ciò, per farlo bello e degno di presentarsi dinanzi agli spiriti.

Il corso di iniziazione, che dura ventiquattro giorni e venticinque notti, si divide in quattro parti: dopo ogni tre giorni e tre notti di istruzione seguono tre giorni di riposo. L'istruzione ha luogo durante la notte, all'interno della capanna: si balla in circolo, si canta e poi, seduti sulla panca in forma di caimano, si ascolta il maestro che parla degli spiriti, buoni e malvagi, e specialmente del «Grande Padre Avvoltoio», animale che in questa iniziazione ha una parte essenziale. Esso ha l'aspetto di un Indiano nudo; è lui ad aiutare gli sciamani a volare in Cielo per mezzo di una scala girevole. Dalla bocca di questo Spirito parla il «Gran-Padre Indiano», cioè il Creatore, l'Essere Supremo. Rileviamo che anche fra i Caribi il potere sciamanico deriva in ultima analisi dal Cielo e dall'Essere Supremo. Ricordiamo anche la parte che ha I'Aquila nelle mitologie sciamaniche siberiane: padre del primo sciamano, uccello solare, messaggero del dio celeste, intercessore fra Dio e gli esseri umani. Le danze imitano i movimenti degli animali di cui il maestro ha parlato nella sua istruzione. Di giorno i candidati restano stesi sulle amache, all'interno della capanna. Durante il periodo di riposo essi siedono sulla panca e, essendosi ben stropicciati gli occhi con succo di pimento, meditano sugli insegnamenti del maestro e si sforzano di scorgere gli spiriti (Andres).

Per tutta la durata dell'istruzione il digiuno è quasi assoluto: gli allievi fumano continuamente delle sigarette, masticano foglie di tabacco e bevono succo di tabacco. Dopo le danze estenuanti della notte, e aggiungendovisi gli effetti del digiuno e dell'intossicazione, i discepoli vengono preparati per il viaggio estatico. Nella prima notte del secondo periodo si insegna loro a trasformarsi in giaguari e in pipistrelli (Andres). Nella quinta notte, dopo un digiuno completo (perfino il succo di tabacco viene proibito), il maestro tende varie corde a diverse altezze e gli allievi danzano a turno su queste corde o si dondolano in aria tenendosi con le mani (ibid., p. 338). È allora che essi vivono la loro prima esperienza estatica: incontrano un Indiano che, in realtà, è uno spirito benigno (Tukajana). «Vieni, discepolo. Tu andrai in Cielo per mezzo della scala del Gran-Padre Avvoltoio. Non è lontano». Il discepolo «si arrampica su di una specie di scala girevole e raggiunge il primo piano del cielo ove attraversa villaggi di Indiani e città abitate da bianchi. Poi il discepolo incontra uno Spirito delle Acque (Amana), che è una donna di grande bellezza la quale lo induce ad immergersi insieme a lei nel fiume. E là essa gli comunica incantesimi e formule magiche. L'allievo e la sua guida raggiungono l'altra sponda del fiume e il bivio "della Vita e della Morte". Il futuro sciamano può scegliere di andare nel "Paese-senza-sera" o nel "Paese-senza-alba". Lo spirito che lo accompagna gli rivela allora il destino delle anime dopo la morte. Il candidato vien bruscamente ricondotto in terra da una viva sensazione di dolore. È che il maestro ha applicato sulla sua pelle il maraqué, una specie di stuoia negli interstizi della quale sono state messe delle grosse formiche velenose».

Nella seconda notte del quarto periodo dell'istruzione il maestro ordina che gli allievi, a turno, montino su di «una piattaforma sospesa al soffitto della capanna mediante diverse corde attorcigliate che, svolgendosi, fan girare la piattaforma con velocità crescente» (Métraux). Il novizio canta: «La piattaforma del putai mi porterà in Cielo. Vedrò il villaggio di Tukajana». E penetra via via nelle varie sfere celesti, avendo la visione di spiriti. Andres cita Fuehner a proposito dell'estasi provocata dall'alloro. Sulla parte che hanno i narcotici nello sciamanismo siberiano, e cosi pure in altri sciamanismi. Per produrre l'intossicazione viene anche usata la pianta takini, che dà una forte febbre. L'allievo trema in tutto il corpo e crede che gli spiriti malvagi siano entrati in lui e stiano lacerandogli il corpo (qui si può riconoscere il motivo iniziatico ben noto dello smembramento del corpo ad opera dei demoni). Infine l'allievo si sente trasportato nei cieli e gode di visioni celesti (Andres).

Il folklore caribe conserva il ricordo di un tempo in cui gli sciamani erano molto potenti: si vuole che essi potevano vedere gli spiriti coi loro occhi di carne e che erano perfino capaci di risuscitare i morti. Una volta un pujai salì in Cielo e minacciò Dio; questi prese una sciabola e respinse l'insolente; da allora gli sciamani non possono più raggiungere il Cielo se non in estasi (Andres). Vale mettere in rilievo la convergenza di queste leggende con le credenze nord-asiatiche relative alla grandezza originaria degli sciamani e alla loro successiva decadenza, decadenza che ai nostri giorni è ancor più spinta. Come in filigrana, qui traspare il mito di un'epoca' primordiale nella quale la comunicazione fra gli sciamani e Dio era più diretta e avveniva in un modo concreto. In seguito ad un atto d'orgoglio o di rivolta da parte dei primi sciamani Dio interdisse loro t'accesso diretto alle realtà spirituali: essi non possono piri vedere con gli occhi carnali gli spiriti e l'ascesa in Cielo non potrà piri compiersi che in estasi. Come presto vedremo, questo tema mitico ha ulteriori, ricchi sviluppi.

Métraux ricorda le documentazioni di antichi viaggiatori circa l'iniziazione dei Caribi delle Isole Laborde riferisce che i maestri "spalmano anche il corpo (dell'iniziando) con gomma e lo ricoprono di penne per renderlo capace di volare e di andare alla ricerca degli zemeen (spiriti)…". Dettaglio, questo, che non deve sorprenderci, il costume ornitomorfo e gli altri simboli del volo magico facendo parte integrante dello sciamanesimo siberiano, nord-americano e indonesiano.

Parecchi elementi dell'iniziazione caribe li ritroviamo anche in altre religioni nell'America del Sud: l'intossicazione col tabacco è una nota caratteristica dello sciamanismo sud-americano: la reclusione rituale in una capanna e le dure prove fisiche alle quali si assoggettano gli iniziandi è uno degli aspetti essenziali dell'iniziazione dei Fuegini (Selk'nam e Yamana); l'istruzione ad opera di un maestro e la «visualizzazione degli spiriti sono parimenti elementi costitutivi dello sciamanismo sud-americano. Ma la tecnica preparatoria del viaggio estatico in Cielo sembra esser cosa specifica del pujai caribe. Rileviamo che qui ci troviamo di fronte ad una scenografia completa dell'iniziazione-tipo: ascensione, incontro con una Donna-spirito, immersione nelle acque, rivelazione dei segreti (concernenti anzitutto il destino degli esseri umani nel post-mortem), viaggio nelle regioni dell'aldilà. Ma il pujai cerca di avere ad ogni costo una esperienza estatica di questo schema iniziatico: pur di raggiungere l'estasi, egli non rifugge dall'impiego di mezzi aberranti. Si ha l'impressione che lo sciamano caribe metta tutto in opera per vivere in concreto una condizione spirituale che, per la sua stessa natura, non ammette di essere «sperimentata» come si ha l'esperienza di certe situazioni umane. Ricordiamoci di ciò: riprenderemo e integreremo l'argomento più giù, quando considereremo altre tecniche sciamaniche.

 

 

 

 

 

 

Ascesa mediante l'arcobaleno

back to index

 

L'iniziazione del medicine-man australiano della regione di Forrest River comporta sia la morte e la resurrezione simbolica del candidato, sia una ascesa al cielo. Il metodo abituale è il seguente: il maestro si presenta sotto forma di scheletro e si provvede di un sacchetto nel quale introduce il candidato ridotto, grazie alla sua magia, alle proporzioni di un neonato. Poi monta a cavalcioni del Serpente-Arcobaleno e comincia a portarsi in alto, aiutandosi con le braccia, come farebbe chi si arrampica su di una corda. Giunto in cima, egli lancia il candidato in cielo, «uccidendolo». Qui, nel Cielo, il maestro introduce nel corpo dell'allievo dei serpentelli-arcobaleno, i brimure (sono piccole serpi d'acqua) e dei cristalli di quarzo (che hanno lo stesso nome del mitico Serpente-Arcobaleno). Dopo di che il candidato viene ricondotto in terra, sempre a cavallo dell'arcobaleno. Di nuovo il maestro introduce in lui altri oggetti magici attraverso l'ombellico e infine lo sveglia toccandolo con una pietra magica. Allora il candidato riprende anche la sua grandezza naturale. L'indomani vien ripetuta l'ascesa sull'arcobaleno, negli stessi termini.

Diversi motivi presenti in questa iniziazione australiana ci sono già noti: la morte e la resurrezione del candidato, l'inserzione di oggetti magici nel suo corpo. È interessante notare che il maestro-iniziatore, che si è trasformato magicamente in uno scheletro, riduce la grandezza dell'allievo alle proporzioni di un neonato: i due elementi simboleggiano l'abolizione del tempo profano e la restaurazione di un tempo mitico, del «tempo del sogno» australiano. L'ascensione avviene per mezzo dell'arcobaleno, mitizzato sotto specie di un'enorme serpe, sul dorso della quale il maestro-istruttore si arrampica come su per una corda. Abbiamo già accennato alle ascensioni celesti dei medicine-men australiani e presto avremo occasione di incontrarne ulteriori e più precisi esempi.

Quanto all'arcobaleno, si sa che un numero rilevante di popoli lo ha considerato come il ponte che collega la Terra al Cielo, e specialmente come il «ponte degli dèi». È per questo che il suo apparire dopo una tempesta viene interpretato come segno de! placarsi del Dio (presso i Pigmei, ad esempio). È sempre per mezzo dell'arcobaleno che gli eroi mitici raggiungono il cielo. Cosi, ad esempio, in Polinesia l'eroe maori Tawhaki e la sua famiglia, e l'eroe hawaiano Aukelenuiaiku visitano regolarmente le regioni superiori scalando l'arcobaleno o utilizzando un cervo volante, con lo scopo di liberare le anime dei morti o di ritrovare le loro donne-spiriti. Le tradizioni polinesiane considerano generalmente dieci cieli sovrapposti; nella Nuova Zelanda essi sono dodici (l'origine indù di queste cosmologie è più che probabile). L'eroe passa dall'un cielo all'altro, come abbiamo visto innalzarsi lo sciamano burlate. Egli incontra delle donne-spiriti (le quali spesso appartengono ai suoi stessi antenati) che l'aiutano a trovare la via; cfr. la parte delle donne-spiriti nell'iniziazione del puiai caribico, la parte della «sposa celeste» presso gli sciamani siberiani, e via dicendo. Questa stessa funzione mitica l'arcobaleno l'ha in Indonesia, in Melanesia e in Giappone.

Benché indirettamente, questi miti accennano ad un tempo nel quale la comunicazione fra Cielo e Terra era ancora possibile; in seguito ad un certo avvenimento o ad una colpa rituale, tale comunicazione si è interrotta; ma l'eroe e i medicine-men sanno ristabilirla. Questo mito di un'èra paradisiaca bruscamente abolita a causa della «caduta» dell'uomo ci si ripresenterà anccora, ripetutamente, nel corso del presente libro: in un certo modo, esso è la controparte di certe concezioni sciamaniche. Come molti altri sciamani e maghi di altre regioni, i medicine-men australiani non fanno che restaurare provvisoriamente e a loro solo uso quel «ponte» fra Cielo e Terra, che in altri tempi era a disposizione di tutti gli umani.

Il mito dell'arcobaleno quale via degli dèi e ponte fra Cielo e Terra lo si ritrova nelle tradizioni giapponesi e esso faceva indubbiamente parte anche delle concezioni religiose mesopotamiche. I sette colori dell'arcobaleno sono stati inoltre riferiti ai sette cieli, secondo un simbolismo presente tanto in India e in Mesopotamia che nel giudaismo. Negli affreschi di Bàmiyàn il Buddha è rappresentato seduto su di un arcobaleno a sette raggi: con ciò si vuol dire che egli trascende il cosmo, proprio come nel mito della Natività egli trascende i sette cieli facendo sette passi verso Nord e raggiungendo il «Centro del Mondo», raffigurato come la vetta più alta dell'universo.

Nell'Apocalisse (IV, 3) il trono di Dio è circondato da un arcobaleno, e questo simbolismo doveva continuarsi nell'arte cristiana del Rinascimento (Rowland). La ziqqurat babilonese veniva talvolta rappresentata a mezzo di sette colori, simboleggianti le sette regioni celesti: salire su per i vari piani della ziqqurat, era come raggiungere la sommità del mondo cosmico. Idee analoghe le si ritrovano in India (Rowland), e, cosa ancor più significativa, nella mitologia australiana. Il dio supremo dei Kamilaroi, dei Wiradjuri e degli Euahlay, risiede nel cielo superiore, seduto su di un trono di cristallo; Bundjil, l'Essere Supremo dei Kulin, si tiene al disopra delle nubi. Gli eroi mitici e i medicine-men salgono verso questi Esseri celesti utilizzando, come uno dei tanti mezzi, l'arcobaleno.

Ci si ricorderà che i nastri usati nelle iniziazioni buriate son chiamati «arcobaleno»: essi simbolizzano in genere l'itinerario del viaggio dello sciamano verso il cielo. I tamburi sciamanici recano disegni dell'arcobaleno, raffigurato come un ponte verso il Cielo. Nelle lingue di ceppo turco, del resto, l'arcobaleno ha anche il significato di ponte (Rasanen). Presso i Samoiedi Yurak, il tamburo sciamanico vien chiamato «arco»: grazie alla sua magia lo sciamano vien proiettato come una freccia verso il cielo. Inoltre vi son ragioni per credere che i Turchi e gli Uiguri considerassero il tamburo come un «ponte celeste» (arcobaleno), sul quale lo. sciamano compiva la sua ascesa (Rasanen). Questa idea s'intègra nel complesso simbolismo del tamburo e del ponte, aventi relazione, in forma diversa, con una stessa esperienza estatica e cioè con quella dell'ascensione celeste. È grazie alla magia musicale del tamburo che lo sciamano può raggiungere il più alto dei cieli.

 

 

 

 

 

 

Iniziazioni austrialiane

back to index

 

Ci si ricorderà che parecchi racconti di iniziazione dei medicine-men australiani, pur avendo per centro l'uccisione simbolica e la resurrezione del candidato, accennavano ad una ascensione celeste del medesimo (cfr. sopra). Ma esistono anche altre forme di iniziazione nelle quali l'ascensione ha la parte essenziale. Presso i Wiradjuri il maestro iniziatore introduce nel corpo dell'allievo dei cristalli di rocca e gli dà da bere dell'acqua in cui sono stati messi cristalli del genere; in seguito a ciò l'allievo riesce a vedere degli spiriti. Poi il maestro lo conduce in una tomba e i morti, a loro volta, gli danno pietre magiche. Il candidato incontra anche una serpe che poi diverrà il suo totem e che lo guida verso l'interno della terra, dove si trovano numerose altre serpi: strofinandosi contro di lui, esse gli infondono dei poteri magici. Dopo questa simbolica discesa negli Inferni il maestro si accinge a condurre l'iniziando al campo di Baiame, l'Essere Supremo. Per giuagervi, i due 'Si arrampica su per ana corda finché incontrano Wombu, l'uccello di Baiame. Attraversammo le nubi - racconta il discepolo - e dall'altra parte c'era il cielo. Vi penetrammo attraverso una apertura per la quale passano i dottori, apertura che si apriva e richiudeva rapidissimamente». Se si fosse stati toccati dalle porte in movimento, si sarebbe perduto il potere magico e, una volta tornati in terra, si sarebbe sicuri di dover morire.

Noi qui ci troviamo dinanzi ad uno schema quasi completo dell'iniziazione: discesa nelle regioni infere seguita dall'ascensione in Cielo, dove l'Essere Supremo conferisce il potere sciamanico. L'accesso alle regioni superiori è difficile e pericoloso: in effetti, bisogna entrarvi in un baleno, prima che le porte si richiudano (è, questo, un motivo specificamente iniziatico che abbiamo già incontrato altrove).

In un altro racconto, raccolto sempre da Howitt, si parla di una corda con la quale il candidato vien trasportato, ad occhi chiusi, su di una roccia, ove egli trova la stessa porta magica che s'apre e si richiude rapidissimamente. 11 candidato e i suoi maestri iniziatori penetrano nella roccia e là al primo vien tolta la benda dagli occhi. Egli si trova in ambiente tutto luce, sulle pareti del quale scintillano dei cristalli. Riceve diversi di questi cristalli e viene istruito circa il modo di servirsene. Poi, sempre sospeso alla corda, egli vien riportato al campo per via aerea, e deposto sulla cima di un albero.

Questi riti e questi miti iniziatici rimandano alla credenza più generale riguardante la capacità dei medicine-men di raggiungere il cielo per mezzo di una corda, di una sciarpa o semplicemente volando, o, infine, salendo su per una scala a spirale. Numerosi miti e leggende parlano dei primi uomini che si erano innalzati fino al Cielo arrampicandosi su per un albero: gli antenati dei Mara erano appunto usi a salire su di un albero del genere fino al cielo, per poi ridi scendere. Presso i Wiradjuri il primo uomo, creato da Baiame, l'Essere Supremo, poteva ascendere al Cielo percorrendo un sentiero montano arrampicandosi poi su per una scala fino a Baiame, proprio come lo farebbero ancor oggi i medicine-men fra i Wurundjeri e i Wotjobaluk (Howitt). I medicine-men Yuin salgono fino alla dimora di Daramulun, che dà loro i rimedi per le malattie (Pettazzoni).

Un mito Euahlayi ci dice come i medicine-men raggiunsero Baiame: marciarono per più giorni In direzione Nord-Est finché raggiunsero le pendici della grande montagna Ubi-Ubi, le cui cime si perdono fra le nubi. Si misero a scalarla utilizzando una scala di pietra a spirale e al quarto giorno raggiunsero la vetta. Là incontrarono lo Spirito-messaggero di Baiame; questi chiamò degli Spiriti-servitori che, attraverso un'apertura, trasportarono i medicine-men in Cielo (van Gennep).

I medicine-men possono dunque ripetere a volontà ciò che i primi uomini - gli uomini mitici - già fecero all'alba dei tempi: salire in cielo e ridi scendere in terra. Come la capacità di ascendere (o di volare magicamente) è essenziale per la carriera dei medicine-men, del pari l'iniziazione sciamanica comporta un rito ascensionale. Anche quando non si fa allusione diretta ad esso, tale rito, in qualche modo, è sempre presupposto. I cristalli di rocca che hanno una cosi importante parte nell'iniziazione del medicine-man australiano sono di origine celeste o per lo meno hanno una qualche relazione - sia pure talvolta indiretta - col cielo. Baiame è seduto su di un trono di cristallo trasparente (Howitt). E presso gli Euahlayi è lo stesso Baiame (= Boyerb) a gettare sulla terra frammenti di cristallo che debbono essere certamente del suo trono. Il trono di Baiame è la volta celeste. I cristalli staccati dal suo trono sono «luce solidificata». I medicine-men immaginano Baiame come un essere in tutto simile agli altri dottori, «salvo che per la luce che s'irradia dai suoi occhi» (Elkin). In altri termini, hanno la sensazione che esista un rapporto tra la condizione d'essere sovrannatura e la sovrabbondanza di luce. Baiame compie altresi l'iniziazione dei giovani medicine-men aspergendoli di un'«acqua sacra e potente» che è considerata essere quarzo liquefatto (ibid.). Tutto ciò significa che si diviene sciamano quando si è farciti di «luce solidificata», cioè di cristalli di quarzo; questa operazione giunge a cambiare il modo d'essere dell'aspirante medicine-man facendolo entrare in solidarietà mistica col cielo. Se si ingoia uno di questi cristalli, si vola in cielo (Howitt).

Credenze analoghe si ritrovano, come abbiamo già visto, tra i Negritos della Malacca. Nella sua terapeutica, lo hala utilizza dei cristalli di quarzo che o ha ottenuto da spiriti aerei (cenai), o ha fabbricato egli stesso con acqua solidificata magicamente, o - infine - ha staccato dai frammenti che l'Essere Supremo ha fatto cadere dal cielo (Pettazzoni). È per questo che tali cristalli possono riflettere ciò che accade sulla terra (vedi più giù). Gli sciamani dei Daiachi marittimi di Sarawak (Borneo) hanno delle «pietre di luce» (light stones) che riflettono tutto quello che avviene all'anima del malato e, pertanto, rivelano dove si trova smarrita. Un giovane capo della tribù Ehatisaht Nootka (Isola di Vancouver) s'imbatté un giorno in certi cristalli magici che si muovevano e s'urtavano tra loro. Gettò il suo abito su qualcuno di essi e ne prese quattro. Gli sciamani kwakiutl ricevono il loro potere per il tramite di cristalli di quarzo.

Si è visto che i cristalli di rocca, in stretta relazione con la Serpe-Arcobaleno, conferiscono il potere di elevarsi al Cielo. Presso altri popoli le stesse pietre renderebbero capaci di volare: come per es. in un mito americano riferito da Boas, ove un giovane, scalata una «montagna rilucente», si copre di cristalli di rocca e subito si mette a volare. La stessa concezione di una volta celeste solida spiega la virtù dei meteoroliti e delle pietre della folgore: cadute dal Cielo esse sono impregnate di una forza magico-religiosa che può essere utilizzata, trasmessa, diffusa: in un certo modo, vanno a costituire un nuov centro di sacralità uranica sulla terra, Sempre in relazione con questo simbolismo uranico va altresi ricordato il motivo delle montagne o dei palazzi di cristallo che gli eroi incontrano nelle loro avventure mitiche. motivo che si è conservato anche nel folklore europeo. Infine, come creazione tardiva di un non diverso simbolismo va considerato il motivo della pietra frontale di Lucifero e degli angeli decaduti (la quale, in certe varianti, si è staccata nel momento della loro caduta), dei diamanti che si trovano nella testa o nelle fauci di serpi, ecc. Naturalmente, qui abbiamo a che fare con credenze estremamente complesse, spesso rielaborate e rivalorizzate ma la cui struttura fondamentale resta ancora trasparente: si tratta sempre di un cristallo o di una pietra magica staccata dal cielo che, malgrado il suo esser caduta sulla terra, continua a dispensare la sacralità uranica, cioè la chiaroveggenza, la saggezza, il potere divinatorio, la capacità di volare e così via.

I cristalli di rocca hanno una parte essenziale nella magia e nella religione australiana, né la loro importanza è minore in tutta l'area oceanica e nelle due Americhe. La loro origine uranica non è sempre dichiarata nelle corrispondenti credenze, ma si deve tener presente che l'oblio di un significato originario è un fenomeno ricorrente nella storia delle religioni. Quel che a noi importa è l'aver mostrato che sia in Australia che altrove i medicine-men collegano oscuramente i loro poteri alla presenza, all'interno del loro stesso corpo, di questi cristalli di rocca. È come dire che si sentono diversi dagli altri esseri umani per via dell'assimilazione - nel senso più concreto della parola - di una sostanza sacra di origine uranica.

 

 

 

 

 

 

Altre forme del rito di ascensione

back to index

 

Per ben comprendere il complesso delle idee religiose e cosmologiche che stanno alla base dell'ideologia sciamanica dovremmo passare in rassegna tutta una serie di miti e di rituali di ascensione. Nei capitoli che seguono studieremo qualcuno dei più importanti di essi, ma il problema nel suo insieme non può essere trattato a fondo in questa sede e, se mai, verrà ripreso in un altro libro. Qui, a completare la morfologia ascensionale delle iniziazioni sciamaniche, accenneremo a qualche altro aspetto di essa senza aver la pretesa di esaurire con ciò l'argomento.

Presso i Nias colui che è destinato a divenire sacerdote-profeta scompare improvvisamente, rapito dagli spiriti (molto probabilmente, il giovane vien portato in cielo) e ritorna nel villaggio dopo tre o quattro giorni. Se ciò non accade, ci si dà a cercarlo e di solito lo si trova in cima ad un albero in conversazione con gli spiriti. Sembra aver perduto la ragione, e bisogna ricorrere a dei sacrifici affinché la ritrovi. L'iniziazione comporta anche una marcia rituale presso tombe, un corso d'acqua e un monte.

Nelle Mentawei il futuro sciamano vien trasportato in cielo dagli spiriti celesti e là riceve un corpo meraviglioso simile al loro. In genere si ammala e crede di salire in cielo. Dopo questi primi sintomi ha luogo la cerimonia di iniziazione a cura di un maestro. Talvolta, durante o subito dopo l'iniziazione, l'allievo-sciamano perde la conoscenza e il suo spirito sale in cielo in una barca condotta da aquile, onde intrattenersi con gli spiriti celesti e domandar loro dei rimedi (Loeb, Sbaman and Seer).

Come avremo subito occasione di vedere, con l'ascensione iniziatica il futuro mago acquista la facoltà di volare. In effetti, in ogni parte del mondo vien riconosciuto agli sciamani e agli stregoni il potere di volare, di percorrere in un baleno distanze enormi e di divenire invisibili. È difficile accertare se ogni mago che crede di potersi trasportare attraverso l'atmosfera abbia vissuta, durante il periodo di alunnato, una esperienza estatica o seguito un rituale a schema ascensionale, cioè se abbia conseguito il potere magico di volare in seguito ad una iniziazione o ad una esperienza estatica che ha reso in atto la vocazione sciamanica. Si può supporre che almeno una parte di essi ha ottenuto questo potere magico proprio dopo una iniziazione e grazie ad essa. È vero che numerose informazioni relative alla capacità di volare degli sciamani e degli stregoni non precisano il modo con cui si è pervenuti a siffatti poteri; ma può ben darsi che questo silenzio derivi solo dalla manchevolezza delle nostre fonti.

Checché ne sia, in molti casi la vocazione o l'iniziazione sciamanica è direttamente connessa ad un'ascensione in cielo. Cosi, per citar soltanto qualche esempio, un gran profeta Basuto conobbe la sua vocazione in seguito ad un'estasi durante la quale vide il soffitto della capanna aprirsi sulla sua testa e si senti trasportato in Cielo, ove incontrò una moltitudine di spiriti. Numerosi casi del genere sono stati registrati in Africa (Chadwick). Presso i Nuba, il futuro sciamano ha la sensazione che «lo spirito gli afferra la testa da su» o che «entra nella sua testa» (Nadel). La gran parte di questi spiriti è celeste, e si può supporre che la «possessione da parte loro si traduca in una trance di natura ascensionale.

Nell'America del Sud il viaggio iniziatico in cielo o in alta montagna ha una parte essenziale. Presso gli Araucani, ad esempio, la malattia che decide della carriera di una machi è seguita da una crisi estatica durante la quale la futura sciamana sale in cielo e vi incontra lo stesso Dio. Durante questo soggiorno celeste esseri sovrannaturali le indicano i rimedi atti alle varie cure. La cerimonia sciamanica dei Manasi comprende la discesa del dio nella capanna, a cui segue una ascensione: il dio trasporta con sé lo sciamano in cielo. «La sua partenza si accompagnò a scosse che fecero tremare le pareti del santuario. Poco dopo la divinità ricondusse lo sciamano o lo fece cadere a testa in gin nel tempio».

Citiamo infine un esempio di ascensione iniziatica nord-americana. Un medicine-man Winnebago ebbe la sensazione di essere ucciso e, dopo avventure varie, di esser trasportato in cielo, dove s'intrattenne con l'Essere Supremo. Gli spiriti celesti lo misero alla prova: egli riuscì ad uccidere un orso ritenuto invulnerabile e poi a risuscitarlo col suo soffio. Infine ridiscese in terra ed ebbe una seconda nascita.

Il fondatore della «Ghost Dance Religion» e, del resto, anche tutti i principali profeti di questo movimento mistico, ebbero una esperienza estatica, che fu decisiva per la loro carriera. Ad esempio, il fondatore ascese in stato di trance un monte incontrandovi una bella donna biancovestita che gli rivelò che il «Signore della Vita» si trovava sulla vetta. Seguendo i consigli della donna il profeta si sbarazzò delle sue vesti, si immerse in una corrente e, in questo stato di nudità rituale, si presentò al «Signore della Vita». Questi gli trasmise ingiunzioni di ogni specie: non tollerare più i bianchi sul territorio, combattere l'ubriachezza, rinunciare alla guerra e alla poligamia, ecc. e poi gli dette una preghiera a che la comunicasse agli umani.

Woworka. il profeta più notevole della «Ghost Dance Religion», ebbe la sua prima rivelazione a diciotto anni: si addormentò in pieno giorno e si senti trasportato nell'aldilà. Vide Dio e i morti, felici e eternamente giovani. Dio gli dette un messaggio per gli uomini, col quale raccomandava loro di essere onesti, laboriosi, caritatevoli, ecc. (Mooney). Un altro profeta dello stesso movimento, John Slocum di Pujet Sound, «morì» e vide la sua anima abbandonare il corpo. «Ho visto una luce abbagliante, una grande luce... ho guardato ed ho visto che il mio corpo non aveva più l'anima; era morto ... La mia anima abbandonò il corpo e s'innalzò verso il luogo del giudizio di Dio... Ho visto una grande luce nella mia anima, luce che veniva da quel buon paese».

Queste esperienze estatiche originarie dei profeti dovevano servire da modello a tutti i seguaci della «Ghost Dance Religion». Anche costoro cadono in trance dopo lunghe danze e canti; allora visitano le regioni dell'aldilà e incontrano le anime dei morti, gli angeli e talvolta perfino Dio. Le prime rivelazioni del fondatore e dei profeti divennero così la base di tutte le successive conversioni e estasi.

Le ascensioni in cielo sono parimenti un tratto specifico della società segreta fortemente sciamanizzata midéwiwin degli Ojibwa. Si può citare come esempio tipico la visione di una giovane che udì una voce che la chiamava, la segui, e arrampicandosi su per uno stretto sentiero raggiunse alla fine il Cielo. Là incontrò il Dio celeste che l'incaricò di portare un messaggio per gli umani. Lo scopo della società midéwiwin è di restaurare il cammino fra Cielo e Terra, quale era stato stabilito nella Creazione (si veda più avanti); è per tale ragione che i membri di questa società segreta intraprendono periodicamente il viaggio estatico nel cielo; ciò facendo, aboliscono in un certo modo la decadenza attuale dell'Universo e dell'umanità e reintegrano la situazione primordiale, quando il comunicare col Cielo era cosa facilmente accessibile a tutti gli esseri umani.

Benché qui non si tratti di sciamanismo in senso proprio - dato che sia la «Ghost Dance Religion» che la midéwiwin sono organizzazioni segrete alle quali ad ognuno è dato di aggregarsi, sempreché superi certe prove o presenti una certa predisposizione estatica - pure in questi movimenti religiosi nordamericani ritroviamo molti tratti specifici dello sciamanismo: tecniche dell'estasi, viaggio mistico in Cielo, discesa agli Inferni, colloquio con Dio, con esseri semi-divini e con le anime dei morti, eccetera.

Si vede dunque che parte essenziale abbia l'ascensione ce leste nelle iniziazioni sciamaniche. Ascese rituali di un albero o di un palo, miti di ascensione o di volo magico, esperienze estatiche di levitazione, di volo, di viaggi mistici in cielo, ecc. - tutti questi elementi assolvono una funzione decisiva nelle vocazioni o consacrazioni sciamaniche. Talvolta questo insieme di pratiche sembra aver relazione col mito di una epoca antica nella quale le comunicazioni fra il Cielo e In Terra erano molto più facili. Da tale punto di vista l'esperienza sciamanica equivale ad un ripristino di quel tempo mitico primordiale e lo sciamano ci appare come un essere privilegiato che ritrova, per conto suo personale, la condizione felice dell'umanità all'alba dei tempi. Una quantità di miti, alcuni dei quali saranno ricordati nei capitoli che seguono, illustrano questo stato paradisiaco di un illud tempus beatifico, al quale gli sciamani tornano intermittentemente a partecipare durante le estasi.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 5: Il simbolismo del costume e del tamburo sciamanico

 

 

Note preliminari

back to index

 

Il costume sciamanico costituisce di per sé una ierofania e una cosmografia religiosa: esso non rivela soltanto una presenza sacra, ma anche simboli cosmici e itinerari metapsichici. Ove lo si esamini attentamente, il costume ci dà a conoscere il sistema dello sciamanismo nella stessa trasparenza propria ai miti e alle tecniche sciamaniche.

In inverno lo sciamano altaico indossa il costume sopra una camicia, lo indossa direttamente sul corpo nudo in estate. I Tungusi si tengono invece alla seconda usanza sia in estate che in inverno. Lo stesso accade presso altre popolazioni artiche (cfr. Harva), anche se nel Nord-Est della Siberia e presso la maggior parte delle tribù eschimesi non esiste un costume vero e proprio. Questo si riduce ad una cintura di cuoio a cui sono attaccate numerose frange di pelle di caribu e figurine di osso; lo strumento rituale essenziale dello Sciamano eschimese resta il tamburo. Ad esempio, fra gli Eschimesi lo sciamano denuda il torso e conserva soltanto una cintura che costituisce tutto il suo vestito. Questa semi-nudità racchiude assai probabilmente un significato religioso, anche se il caldo che regna nelle abitazioni artiche sembrerebbe già spiegare una tale consuetudine. Comunque, sia che si tratti di nudità rituale (come nel caso degli sciamani eschimesi), sia che si tratti di uno speciale costume da indossare per l'esperienza sciamanica, l'importante è che una esperienza del genere non la si realizza mai avendo addosso il costume quotidiano, profano. Anche quando uno speciale costume non esiste, esso è sostituito da una berretta, da una cintura, da un tamburello e da altri oggetti magici che fan parte del guardaroba sacro dello sciamano e fanno le veci di una veste vera e propria. Cosi Radlov assicura, ad esempio, che i Tartari Neri, gli Schores e i Teleuti ignorano un costume sciamanico; spesso (come per es. presso i Tartari Lebed - Harva, op. cit.) si usa però un panno che vien serrato intorno alla testa, senza di che sarebbe impossibile far dello sciamanismo.

Il costume rappresenta in se stesso un microcosmo spirituale, qualitativamente diverso dallo spazio profano dell'ambiente. Per un lato esso costituisce un sistema simbolico quasi completo, per un altro esso è impregnato, per consacrazione, di forze spirituali multiple e in primo luogo di «spiriti». Pel semplice fatto di indossarlo - o di maneggiare gli istrumenti che ne tengono il luogo - lo sciamano trascende lo spazio profano e si prepara ad entrare in contatto col mondo spirituale. In genere, questa preparazione costituisce già una introduzione concreta in tale mondo: infatti il costume lo si indossa dopo vari preparativi e proprio alla vigilia della trance sciamanica.

Il candidato nei suoi sogni deve riuscire a vedere il luogo esatto ove si trova il suo futuro costume e deve poi andare lui stesso a cercarlo (Si può constatare, del resto, una progressiva degradazione della confezione rituale del costume; una volta lo sciamano dello jenissei uccideva lui stesso la renna con la pelle della quale intendeva confezionare il suo costume, ai nostri giorni egli compra direttamente la pelle dai Russi). Il costume sarà poi acquistato dai genitori dello sciamano morto pagando come prezzo un cavallo (per es. presso i Birarcen). Ma il costume non può lasciare il clan (Shìrokogorov). Infatti, in un certo senso, esso interessa tutto il clan, non solo perché, di fatto, è stato confezionato o acquistato grazie ad un contributo di tutta la comunità, ma soprattutto perché, essendo impregnato dagli «spiriti», non deve esser indossato da qualcuno che non sappia dominarli; gli spiriti allora andrebbero a turbare tutta la tribù (Shirokogorov).

Il costume è oggetto degli stessi sentimenti di timore e di apprensione che suscita ogni altro «supporto degli spiriti». Quando è consunto, lo si lascia appeso ad un albero nella foresta; allora gli «spiriti» lo abbandonano e vanno a legarsi ad un nuovo costume.

Presso i Tungusi sedentari, dopo la morte dello sciamano il suo costume viene conservato nella sua abitazione: gli «spiriti» che l'impregnano danno segno della loro presenza facendolo vibrare, muovere, ecc. I Tungusi nomadi, e con essi la gran parte delle tribù siberiane, depongono il costume presso la tomba dello sciamano (Shirokogorov; Harva). In vari luoghi si pensa che il costume diviene impuro se, dopo esser servito nella cura di un malato, accade che questi tuttavia muoia. Lo stesso vale per i tamburi che si siano dimostrati incapaci di produrre la guarigione (Kai Donner).

 

 

 

 

 

 

Il costume siberiano

back to index

 

Secondo Shashkov - che ne scrisse circa un secolo fa - ogni sciamano siberiano dovrebbe possedere: 1) un caftano al quale sono sospesi dei dischi di ferro e certe figure raffiguranti animali mitici; 2) una maschera (presso i Samoiedi Tadìbei un fazzoletto per bendare gli occhi, affinché lo sciamano penetri nel mondo degli spiriti grazie alla sua sola vista interiore); 3) un pettorale di ferro o di rame; 4) un berretto, che l'autore ritenne essere uno dei principali attributi dello sciamano. Presso gli Yakuti il dietro del caftano ha al centro, fra dischi sospesi di significato solare, un altro disco forato; secondo Sieroszewski esso vien chiamato 1'«orifizio del sole» (o"ibonkungiitii); però, più in generale, si ritiene che esso rappresenti la Terra con l'apertura centrale attraverso la quale lo sciamano penetra negli Inferi (vedi Nioradze, Harva). Il retro del costume reca altresi una falce lunare e una catena di ferro, simbolo della potenza e della resistenza dello sciamano (Mikhailowski). Le placche di ferro, a sentire gli sciamani, servirebbero per proteggersi dai colpi degli spiriti malvagi. I fiocchi cuciti sulla pelliccia stanno a significare le piume (Mikhailowski, seguendo Pripuzov).

Un bel costume da sciamano yakuta - afferma Sieroszewski deve avere da trenta a quaranta libbre di ornamenti metallici. È soprattutto il rumore di questi ornamenti che trasforma la danza dello sciamano in una sarabanda infernale. Siffatti oggetti metallici hanno un'«anima» e non si arrugginiscono mai. «Lungo le maniche son disposte delle sbarre che rappresentano le ossa delle braccia (tabytala). Ai due lati del petto sono cucite piccole foglie che rappresentano le costole (digos timir); un po' più su delle grandi placche tonde figurano i seni della donna, altre ancora il fegato, il cuore e gli altri organi interni. Spesso sono anche cucite figurazioni di animali e di uccelli sacri. Inoltre, al costume viene appeso un piccolo iimagiit (lo «spirito deMa follia») metallico, nella forma di una piccola piroga con una imagine umana».

Presso i Tungusi del Nord e della Transbaikalia predominano costumi di due specie: in forma di anitra gli uni e gli altri in forma di renna. I bastoni hanno una estremità scolpita a guisa di testa di cavallo. Sul di dietro del caftano sono appesi dei nastri larghi un dieci centimetri e lunghi un metro, detti kulin («serpi»). Sia i «cavalli» che le «serpi» servono pei viaggi shamanici agli Inferni. Secondo Shirokogorov gli oggetti di ferro dei Tungusi - la «luna», il «sole», le «stelle», ecc. - son stati ripresi, come motivo, dagli Yakuti. Le «serpi» derivano dai Buriati e dai Turchi, i «cavalli» dai Buriati (sarà bene ricordarsi di questi riferimenti per il problema delle influenze meridionali di cui risente lo sciamanismo nordasiatico e siberiano).

 

 

 

 

 

 

Il costume buriate

back to index

 

Pallas, che scrisse verso la metà del XVIII secolo, ci descrive nei seguenti termini l'aspetto di una donna-sciamano buriate: essa' porta due bastoni dalla testa equina ai quali sono appesi dei campanelli; dalle sue spalle ricadono, fino al suolo, trenta «serpi» fatte di pelliccie nere e bianche; per copricapo ha un casco di ferro con tre sporgenze simili alle corna di un cervo. Ma è a Agapitov e a Changalov che noi dobbiamo la descrizione più completa dello sciamano buriate. Questi deve possedere: 1) una pelliccia (orgo'i) che sarà bianca per lo «sciamano bianco» (aiutato dagli spiriti buoni), nera per lo «sciamano nero» (che ha per ausiliari gli spiriti malvagi); sulla pelliccia sono cucite numerose figure metalliche che rappresentano cavalli, uccelli, ecc.; 2) un berretto in forma di lince; dopo la quinta abluzione (che si pratica un certo tempo dopo l'iniziazione) lo sciamano riceve un casco di ferro (vedi Agapitov e Changalov, fig. 3, tavola II)) con una doppia punta ricurva tale da raffigurare due corna; 3) due «bastoni-cavallo», uno di legno e uno di ferro; il primo viene confezionato alla vigilia della prima iniziazione e si deve badare che l'albero di betulla da cui è stato ricavato non muoia; l'altro, di ferro, lo si riceve solo dopo la quinta iniziazione; la sua estremità è forgiata in forma in testa di cavallo e ornata da vari campanelli.

Ecco ora la descrizione data dal «Manuale» dello sciamano buriate tradotto dai mongolo da Partanen: «Un casco di ferro la cui sommità è formata da più cerchi di ferro ed ornata di due corna; dietro v'è una catena di ferro di nove anelli e, nella parte inferiore, un pezzo di ferro a forma di lancia chiamato spina dorsale (nigurasun; cfr. in tunguso nikima, nikama, vertebra). Sulle tempie, ai due lati del casco, v'è un anello e tre asticelle di ferro d'un vershok (cm. 4,445) di lunghezza, torte a martello e chiamate qolbuga (unione, andare in coppia, paio _ dunque, attaccatura, legame). Ai due lati del casco e dietro sono appesi dei nastri di seta, di cotone, di panno fine e di pelliccia di vari animali selvatici e domestici, ritorti a guisa di serpenti; vi si attaccano poi delle frange di cotone del colore della pelle del korune, dello scoiattolo e della donnola fulva. Questa acconciatura ha il nome di maiqabci («copricapo»).

«Ad un pezzo di cotone di circa trenta centimetri di larghezza, formante una benda attaccata al collo della veste, son fissate varie imagini di serpenti e di animali selvatici. Questo si chiama dalabci («ila») o ziber («pinna» o «ala»).

«Due bastoni a forma di stampella di circa due aune di lunghezza (grossolanamente scolpiti) e rappresentanti, alla loro estremità, una testa di cavallo al cui collo è attaccato un anello con tre qolbuga e che si chiama Criniera del Cavallo; alla loro estremità inferiore sono attaccati dei qolbuga analogamente chiamati Coda del Cavallo. Sul davanti di questi bastoni son fissati, allo stesso modo, un anello qolbuga e (in miniatura) una staffa, una lancia e una spada, un'ascia, un martello, una nave, un remo, la punta d'un arpione, tutto di ferro; sopra di essi, come più in alto, sono attaccati tre qolbuga. Questi quattro (anelli qolbuga) son detti Piedi, ed i due bastoni son designati col nome di sorbi.

«Una frusta formata da un'asticella suqai coperta da una pelle di topo muschiato arrotolata otto volte intorno ad essa, con un anello di ferro e tre qolbuga, un martello, una spada, una lancia, una mazza a punta (tutto in miniatura); inoltre, vi si attaccano bende di cotone e di seta colorata. L'insieme porta il nome di Frusta delle «cose viventi». Quando pratica lo sciamanismo, (il boge) lo tiene in mano contemporaneamente a un sorbi; può fare a meno di quest'ultimo quando pratica lo sciamanismo entro yurte».

Alcuni di questi dettagli li ritroveremo più oltre. Pel momento rileviamo l'importanza che si dà al «cavallo» dello sciamano buriate. Il motivo del cavallo, quale mezzo utilizzato dallo sciamano per compiere il suo viaggio è proprio dell'Asia centrale e settentrionale; avremo occasione d'incontrarlo altrove. Gli sciamani dei Buriati di Olkhonsk posseggono inoltre un cofano ove conservano i loro oggetti magici (tamburelli, bastone-cavallo, pelliccie, campanelle, ecc.), cofano che generalmente reca le imagini del Sole e della Luna. Nil, arcivescovo di Jaroslav, menziona altri due oggetti dell'equipaggiamento dello sciamano buriate: l'abagaldei, maschera mostruosa di pelle, di legno o metallo su cui è dipinta una enorme barba, e il toli, specchio metallico con le figure di dodici animali, che si porta appeso sul petto o sul dorso, quando non è cucito direttamente sul caftano. Secondo Agapitov e Changalov, in pratica questi due oggetti son quasi scomparsi. Fra breve vedremo che essi si ritrovano però altrove e diremo del loro complesso significato religioso.

 

 

 

 

 

 

Il costume altaico

back to index

 

La descrizione che Potanin fornisce dello sciamano altaico ci dà il senso che il suo costume sia più completo e si sia meglio conservato di quello degli sciamani siberiani. Il suo caftano è fatto di pelle di becco o di renna. Una quantità di nastri e di fazzoletti cuciti al cappuccio, rappresentano delle serpi, alcuni di essi formando una testa di serpe con due occhi e con le fauci aperte. La coda delle serpi più grandi è forcuta e talvolta si hanno tre serpi con una sola testa. Si dice che uno sciamano ricco deve avere sul costume 1.070 serpi. Più  a nord, l'originario significato ofidico di questi nastri si sta perdendo, a vantaggio di una nuova valorizzazione magico-religiosa. Cosi, per esempio, certi sciamani ostiachi hanno dichiarato a Kai Donner che i nastri hanno la stessa proprietà dei capelli. Gli sciamani yakuti chiamano e capelli» i nastri. Assistiamo perciò ad un trasferimento di significato, processo che la storia delle religioni constata di frequente: il valore magìco-religioso delle serpi - valore ignoto a parecchi popoli siberiani - vien sostituito, nello stesso oggetto che già rappresentava le serpi, dal valore magico-religioso dei «capelli», Infatti anche i capelli lunghi stanno a significare una forte potenza magico-religiosa che si troverebbe concentrata negli stregoni (ad esempio, nei muni del Rig-Veda, X, 136, 7), nei re (ad esempio, i re babilonesi), negli eroi (Sansone) ecc. Ma la spiegazione data dallo sciamano interrogato da Kai Donner resta piuttosto isolata.

Vi figura anche un buon numero di oggetti metallici, fra i quali un piccolo arco con le relative freccie, per spaventare gli spiriti. Sul dietro del cappuccio sono cucite pelli di animali e due tondi di rame. Il collare è ornato da una frangia di più ma di gufi neri e di gufi bianchi. Uno sciamano aveva inoltre cucite sul suo collare sette pupattole, ognuna con una penna di gufo bruno per testa. Egli diceva che erano le sette vergini celesti e che le sette campanelle corrispondevano alle loro voci, che chiamavano e attiravano gli spiriti. In altri luoghi tali imagini sono nove e starebbero a rappresentare le figlie di Ulgan (tra gli altri Harva).

Fra gh altri oggetti sospesi al costume sciamanico, aventi un loro significato religioso, ricorderemo: presso gli Altaici, due piccoli mostri, abitanti del regno di Erlik, jupta e arba, fatti di stoffa nera e bruna l'uno, e verde l'altro, con due paia di piedi, una coda e le fauci semiaperte (Harva); presso i popoli dell'estremo settentrionale siberiano certe imagini di uccelli acquatici, come il gabbiano e il cigno, che simboleggiano il potere dello sciamano di scendere nell'inferno sottomarino - concezione, questa, sulla quale avremo da tornare quando studieremo le credenze eschimesi -; un buon numero di animali mitici (l'orso, il cane, l'aquila con un anello intorno al collo, che, secondo le popolazioni dello Jenissei, simboleggerebbe il fatto che l'uccello imperiale sta al servizio dello sciamano (cfr. Nioradze); perfino disegni degli organi sessuali umani che contribuiscono anch'essi a sacralizzare il costume.

 

 

 

 

 

 

Gli specchi e i berretti sciamanici

back to index

 

Presso i vari gruppi tungusi della Manciuria settentrionale (Tungusi Khingan, Birarcen, ecc.) gli specchi di rame hanno una parte importante (cfr. Shirokogorov). La loro origine è senz'altro cino-manciuriana, ma il loro significato magico varia dall'una tribù all'altra: si dice che lo specchio aiuta lo sciamano a «vedere il mondo» (cioè a concentrarsi), o a «porre gli spiriti», o che egli lo usa affinché i bisogni dell'uomo vi si riflettano, ecc. V. Diòszegi ha dimostrato che il termine manciù-tunguso designante lo specchio, panaptu, deriva da pana, «anima, spirito», più precisamente 1'«anima-ombra». Guardando nello specchio, lo sciamano può vedere l'anima del defunto. Certi sciamani mongoli vedono nello specchio il «cavallo bianco degli sciamani». H destriero è l'animale sciamanico per eccellenza: il galoppo, la velocità vertiginosa, sono espressioni tradizionali del «volo», vale a dire dell'estasi (vedi più giù).

Quanto al berretto, in certe tribù (per es. presso i Samoiedi Yurak) esso è considerato come la parte più importante del paludamento sciamanico: «A udire questi sciamani, gran parte del loro potere è dunque nascosta in tali berretti» (Kai Donner). «È cosi che quando gli sciamani si esibiscono essendone richiesti da Russi, essi non usano portare il berretto» (Donner). «Da me interrogati a tale riguardo, essi hanno risposto che facendo dello sciamanismo senza berretto essi erano privi di ogni vero potere, tanto che tutta la cerimonia si riduceva ad una parodia destinata soprattutto a divertire i presenti» (Donner). «L'importanza attribuita al berretto risulta anche da antichi disegni rupestri dell'età del bronzo nei quali lo sciamano porta un berretto ben riconoscibile, senza che siano sempre presenti tutti gli altri attributi indicativi della sua dignità». Nella Siberia occidentale il berretto consiste in una larga fascia che vien passata intorno alla testa alla quale sono appese lucertole o altri animali tutelari, oltre ad una quantità di nastri. Ad oriente di Ket i berretti «rassomigliano talvolta a corone di ferro munite di corna di renna; talvolta sono ricavati da una testa d'orso a cui son state lasciate attaccate le parti principali della pelle del cranio» (Kai Donner; vedi anche Harva). Il tipo più comune è quello che rappresenta le corna di una renna (Harva), benché fra i Tungusi orientali certi sciamani pretendano che le corna di ferro che adornano il loro copricapo riproducano quelle di un cervo. Altrove, sia nel Nord, come fra i Samoiedi, sia nel Sud, come fra gli Altaici, il berretto sciamanico è ornato da piume di uccelli, di cigno, d'aquila, di gufo: per es. di piume di aquila dorata o di gufo bruno fra gli Altaici (Potanin), 5 di piume di gufo fra i Soioti e i Karagassi, ecc. (Harva). Certi sciamani teleuti portano un berretto di pelle di gufo nero, con le ali e talvolta anche con la testa dell'animale come ornamenti (Mikhailowski) (Del resto, in certe regioni il berretto di gufo bruno non può esser portato dallo sciamano subito dopo la sua consacrazione. Nel corso della kamlanie gli 'spiriti fanno conoscere in che momento il berretto e altre insegne d'alto grado potranno essere assunte senza che vi sia pericolo per il nuovo sciamano).

 

 

 

 

 

 

Simbolismo ornitologico

back to index

 

È chiaro che grazie a tutti questi ornamenti il costume sciamanico tende a fornire allo sciamano un nuovo corpo, un corpo magico in forma di animale. Tre sono i tipi principali: in forma di uccello, di renna (o cervo) e d'orso - ma specialmente d'uccello. Torneremo subito sul significato dei corpi in forma di renna o d'orso. Pel momento, occupiamoci del solo costume ornitomorfo. Abbiamo incontrate le piume di uccelli un po' dappertutto, nelle descrizioni dei costumi sciamanici; non solo: la stessa struttura dei costumi cerca di riprodurre il più fedelmente possibile la forma di un uccello. Cosi gli sciamani altaici, quelli dei Tartari di Minnusinsk, dei Teleuti, dei Soioti e dei Karagassi s'ingegnano a far si che il loro costume rassomigli ad un gufo (Harva). Il costume soiota può essere perfino considerato come una perfetta ornitofania. Si cerca soprattutto di rappresentare l'aquila. Anche presso i Goldi è il costume a forma di uccello che predomina (Shirokogorov). Lo stesso vale pei popoli siberiani abitanti più a Nord, pei Dolgani, gli Yakuti e i Tungusi. Le calzature dello sciamano tunguso imitano le zampe di un uccello (Harva). La forma più complicata di costume sciamanico la si incontra presso gli sciamani yakuti; il loro costume rappresenta uno scheletro completo di uccello, in ferro (Shirokogorov). Del resto, secondo lo stesso autore, il centro di diffusione del costume in forma d'uccello sembra essere proprio la regione attualmente occupata dagli Yakuti.

Anche quando il costume non presenta una struttura visibilmente ornitomorfa - come per es. presso i Manciù, fortemente influenzati da ondate successive di cultura cino-buddhista (Shirokogorov) - s'incontra un'acconciatura della testa con piume tale da far pensare ad un uccello. Lo sciamano mongolo ha delle «ali» alle spalle e si sente trasformato in uccello quando indossa il costume (Ohlmarks). È probabile che in altri tempi gli elementi ornitomorfi presso gli Altaici in genere fossero ancor più accentuati (Harva). Oggi le piume di gufo non ornano più che il bastone del baqça kazak kirghiso (Castagné).

Rifacendosi ai suoi informatori tungusi Shirokogorov ci dice che il costume da uccello sarebbe indispensabile per volare verso l'altro mondo: «Essi affermano che è più facile recarvisi quando il costume è leggero». È così che in una leggenda, una donna-sciamano spicca il volo dopo che essa ha ottenuto la più ma magica. Il tema folkloristico di un volo propiziato da penne di uccelli è abbastanza diffuso, specie nell' America del Nord.. Ancor più frequente è il tema di una fata-uccello sposa di un uomo, la quale prende il volo non appena riesce a impadronirsi di una penna da tempo custodita dal marito. Cfr. anche la leggenda della sciamana buriate che s'innalza sul suo cavallo magico ad otto gambe.

Ohlmarks crede che questo complesso sia di origine artica e abbia una relazione diretta con le credenze circa gli «spiriti ausiliari» che aiutano lo sciamano a compiere il suo viaggio aereo. Ma, come abbiamo già visto e come avremo ancora occasione di vedere, lo stesso simbolismo aereo lo si ritrova un po' dappertutto nel mondo, riferito proprio agli sciamani, agli stregoni e agli esseri mitici che questi talvolta vanno a personificare.

D'altronde bisogna tener conto delle relazioni mitiche esistenti fra l'aquila e lo sciamano. Ricordiamoci che l'aquila sarebbe stata la genitrice del primo sciamano, che essa ha una parte considerevole nella stessa iniziazione dello sciamano e, infine, che essa costituisce il centro di un complesso mitico il quale riprende anche il motivo dell'Albero del Mondo e del viaggio estatico dello sciamano. Nemmeno si deve trascurare il fatto che l'Aquila rappresenta, in un certo modo, l'Essere Supremo, anche se in una sua forma fortemente solarizzata. A noi sembra che tutti questi elementi concorrano a precisare abbastanza nettamente il significato religioso del costume sciamanico: quando lo si indossa, ci si sforza di ritrovare lo stato mistico rivelato e fissato durante le lunghe esperienze e cerimonie dell'iniziazione.

 

 

 

 

 

 

Il simbolismo dello scheletro

back to index

 

Ciò viene confermato dalla presenza, nel costume sciamanico, di certi oggetti di ferro che riproducono la conformazione delle ossa e che tendono a dargli, sia pure parzialmente, l'aspetto di uno scheletro (vedi per es. Findeisen, seguendo Anutschin), Alcuni autori, e fra essi Harva, hanno pensato trattarsi di uno scheletro d'uccello. Ma già nel 1902 Troschtschanskij aveva dimostrato che, almeno nello sciamanismo yakuta, queste «ossa» di ferro cercano di imitare lo scheletro umano. Uno Jenisseiano disse a Kai Donner che le ossa erano lo scheletro dello stesso sciamano. E anche Harva ha finito col condividere l'idea che si tratti di uno scheletro umano, malgrado che nel frattempo (1910) N. Pekarskij avesse proposta un'altra ipotesi: secondo lui si avrebbe piuttosto a che fare con una combinazione dello scheletro dell'uomo con quello di un uccello. Presso i Manciù le «ossa» son fatte di ferro e di bronzo e gli sciamani affermano (almeno al giorno d'oggi) che essi rappresentano delle ali (Shirokogorov, p. 294). Tuttavia non v'è dubbio che in molti casi si è mirato alla rappresentazione di uno scheletro umano. Findeisen riproduce (Der Mensch und seine Teile, fig. 39) un oggetto di ferro che imita mirabilmente la tibia umana (Berliner Museum fiir Volkerkunde).

Come pur stiano le cose, le due ipotesi, in fondo, rimandano ad una stessa idea fondamentale: sforzandosi di imitare lo scheletro - scheletro di uomo o di uccello - il costume sciamanico testimonia dello stato speciale di colui che lo indossa, dello stato di un essere che è morto ed è risuscitato. Si è visto che presso gli Yakuti, i Buriati e altri popoli siberiani si ritiene che gli sciamani sarebbero stati uccisi dagli spiriti dei loro antenati i quali, dopo aver «cotto» il loro corpo, hanno contate le ossa che poi hanno rimesso a posto, legandole con dei ferri e ricoprendole infine di una carne nuova (sulla concezione dell'osso come sede dell'anima presso i popoli del nord dell'Eurasia. cfr. Paulson). Ora, presso i popoli cacciatori le ossa stanno a rappresentare la sorgente prima della vita - della vita tanto dell'uomo che degli animali - sorgente, partendo dalla quale la specie si ricostituisce a piacimento. È per tale ragione che le ossa della selvaggina uccisa non vengono spezzate, ma raccolte con cura e trattate come vuole il costume, cioè o sotterrate, o deposte su piattaforme, o su alberi, o gettate in mare e così via. A tale riguardo, gli animali sono sotterrati nella stessa, esatta maniera con cui si inumano gli esseri umani (Harva). Infatti, sia negli uni che negli altri 1'«anima» risiederebbe nelle ossa e si può sperare in una resurrezione degli individui partendo dalle loro ossa.

Ora, lo scheletro presente nel costume sciamanico riassume e attualizza il dramma dell'iniziazione, cioè il dramma della morte e della resurrezione. Che si ritenga che esso rappresenti uno scheletro d'uomo, oppure d'animale, ciò poco importa. Nell'un caso come nell'altro si tratta sempre della sostanza-vita, della materia prima connessa agli antenati mitici. Lo scheletro umano corrisponde in un certo modo all'archetipo dello sciamano, perché si vuole che esso rappresenti il ceppo dal quale la serie degli antenati-sciamani è sorta (del resto, il ceppo familiare vien designato come 1'«osso»; si dice «delle ossa di X» nel senso di «discendente di X»). Lo scheletro di uccello è una variante della stessa concezione: da un lato, il primo sciamano è nato dall'unione di un'aquila con una donna; dall'altro, lo sciamano cerca di trasformarsi lui stesso in uccello e di volare e, in realtà, egli è un uccello nella misura in cui, come gli uccelli, ha accesso alle regioni superiori. Nel caso in cui questo scheletro - o la maschera - trasforma lo sciamano in un altro animale (cervo, ecc.), incontriamo una teoria consimile. Ad esempio, il costume dello sciamano tunguso rappresenta un cervo, io scheletro del quale è indicato da pezzi di ferro. Anche le corna sono di ferro. Secondo le leggende yakute gli sciamani, quando combattono fra loro, assumono la forma di toro, ecc. Infatti l'animale-antenato mitico vien concepito come la matrice inesauribile della vita della specie, matrice riconosciuta nelle ossa di tali animali. Qui non si può parlar senz'altro di totemismo. Si tratta piuttosto delle relazioni mistiche che intercorrono fra l'uomo e la selvaggina che egli caccia, relazioni fondamentali per le società dei popoli cacciatori, che da Friedrich e Meuli sono state recentemente messe assai bene in risalto.

 

 

 

 

 

 

Rinascere dalle proprie ossa

back to index

 

Che l'animale cacciato e lo stesso animale domestico possano rinascere dalle proprie ossa, è credenza che non s'incontra soltanto in Siberia. Ad esempio, già Frazer aveva registrato diversi esempi americani. Numerosi indiani Minnetaris «credono che le ossa dei bisonti da essi uccisi e squartati rinascano con una nuova carne e una nuova vita in animali che crescono e che possono essere uccisi di nuovo partendo dal giugno successivo alla loro morte. Secondo Frobenius questo motivo mitico-rituale si conserva ancora ben vivo presso gli Aranda, presso le tribù dell'interno dell'America del Sud, presso i Boscimani e i Camiti africani. Friedrich ha completato e integrato la documentazione relativa all'area africana considerando giustamente in quella credenza un'espressione della spiritualità pastorale. Sìfiatto complesso rnitico-rituale si è mantenuto anche altrove in civiltà più evolute, al centro stesso delle corrispondenti tradizioni religiose, oppure sotto forma di racconti. Liungman rammenta che!'interdizione di spezzare le ossa degli animali si trova nei racconti degli Ebrei e degli antichi Germani, nel Caucaso, in Transilvania, in Austria, nei paesi alpini, in Francia, in Belgio, in Inghilterra e in Svezia. Ma, schiavo delle sue teorie oriental-diffusioniste, lo studioso svedese considera tutte queste credenze piuttosto recenti e d'origine orientale. Secondo una leggenda dei Gagautz, Adamo, per procurare delle donne ai suoi figli, avrebbe raccolte le ossa di diversi animali pregando Dio di animarle. In un racconto armeno un cacciatore assiste ad uno sposalizio degli spiriti dei boschi. Invitato al festino, egli si astiene dal mangiare ma trattiene una costola di bove che gli era stata offerta. Gli spiriti che in seguito raccolsero tutte le ossa dell'animale per farlo rivivere, furono costretti a sostituire la costola mancante con un ramo di noce. Lehtisalo racconta un'avventura consimile riferentesi all'eroe Bodga Gessen Khan: un vitello ucciso e divorato rinasce dalle sue ossa, ma ad esse ne manca una.

A tale riguardo si potrebbe anche ricordare un episodio dell'Edda in prosa: l'accidente del becco di Thòrr. Essendo in viaggio col suo carro e i suoi becchi Thòrr prende alloggio presso un contadino. «Quella sera Thòrr prese i becchi e li uccise. Poi essi furono scorticati e messi in un calderone. Una volta bolliti, Thòrr e i suoi compagni si misero a sedere per cenare. «Thòrr invitò anche il contadino, sua moglie e i loro bambini... Alla fine Thòrr mise le pelli di becco presso il camino dicendo al contadino e ai suoi di gettarvi sopra le ossa. Thjalfi, figlio del contadino, aveva avuto l'osso della coscia di uno dei becchi e l'aveva spaccato col coltello _per estrarre il midollo. Thòrr trascorse la notte in quel luogo. L'indomani si svegliò prima del levarsi del sole, si vesti, prese il martello Mjòllnir e benedisse i resti dei becchi. I becchi tornarono in vita, ma uno di essi zoppicava in una delle zampe posteriori».

Questo episodio attesta la sopravvivenza della concezione primordiale dei popoli cacciatori e nomadi. Essa non fa necessariamente parte della spiritualità sciamanica. Abbiamo tuttavia voluto segnalarla, e ci riserviamo di esaminare i resti dello sciamanismo indo-ario più oltre, dopo che saremo giunti ad una veduta d'insieme delle teorie e delle pratiche sciamaniche.

Sempre a proposito di un risorgere dalle ossa, si potrebbe ricordare la celebre visione di Ezechiele, benché essa vada integrata in un orizzonte religioso del tutto diverso da quello degli esempi su citati: «La mano dell'Eterno si posò su di me; l'Eterno mi rapi in spirito trasportandomi in una valle piena d'ossa ... Egli mi disse: "Figlio di uomo, queste ossa possono rivivere? ". Risposi: "Signore Eterno, sei tu a saperlo!". Allora mi disse: "Profetizza su queste ossa e di' loro: Ossa disseccate, ascoltate la parola dell'Eterno! Cosi parla il Signore, l'Eterno, a queste ossa: io farò entrare in voi lo spirito e voi rivivrete; e saprete che sono l'Eterno". Io dunque profetizzai, come mi era stato comandato; e mentre profetizzavo, vi fu un fremito, poi un frastuono e le ossa si avvicinarono le une alle altre. Guardai, ed ecco che intorno ad esse si formavano muscoli e carne», ecc. (Ezechiele, XXXVII, 1-8, sgg.). Anche in Egitto le ossa dovevano venir conservate per la resurrezione: cfr. Il Libro dei Morti, c. CXXV. Cfr. Corano, II, 259. In una leggenda azteca l'umanità nasce da ossa portate dalla regione sotterranea

A. Friedrich ricorda anche una pittura scoperta da Griinwedel fra le rovine di un tempio a Sangimiìghiz, che rappresenta la resurrezione di un uomo dalle sue ossa, resurrezione avvenuta grazie alla benedizione di un monaco buddhista. Questo non è il luogo per entrare in dettagli circa le influenze iràniche esercitatesi sull'India buddhista né per affrontare il problema, finora mal studiato, delle simmetrie esistenti fra la tradizione tibetana e quella irànica. Come J.J. Modi l'ha notato già qualche tempo fa, vi è una rassomiglianza che colpisce fra l'uso tibetano di esporre i cadaveri e il corrispondente uso iranico. Gli uni come gli altri lasciano che cani ed avvoltoi divorino i corpi; per i Tibetani è assai importante che i corpi si trasformino in scheletri il più presto possibile. Gli Irani depongono le ossa nell'astodan, il «luogo delle ossa», ove esse aspetteranno la resurrezione. Questa usanza può essere considerata come una sopravvivenza della spiritualità pastorale.

Nel folklore magico dell'India, certi santi e certi yogi si ritiene che abbiano il potere di risuscitare i morti dalle loro ossa o dalle loro ceneri; è quel che, per es., fa Gorakhnàth, e non è privo d'interesse rilevare fin d'ora che questo mago famoso viene considerato come il fondatore di una setta yogico-tantrica, quella degli Yogi Kànphata, nella quale si potrebbero ritrovare altre sopravvivenze sciamaniche. Infine vale ricordare certe meditazioni buddhiste il cui oggetto è la visione del corpo che si trasforma in scheletro; la parte importante che hanno i crani e le ossa umane nel lamaismo e nel tantrismo; la danza dello scheletro nel Tibet e in Mongolia; la funzione della Brdhmarandbra (= sutura frontalis) nelle tecniche indo-tibetane dell'estasi e nel lamaismo, ecc. Tutti questi nn e tutte queste concezioni ci sembra che, malgrado il loro appartenere a sistemi assai vari, mostrino come le tradizioni primordiali circa la relazione del principio vitale con le ossa non siano completamente scomparse dall'orizzonte della spiritualità asiatica.

Ma nei miti e nei riti sciamanici le ossa hanno anche altre funzioni. Ad esempio, quando lo sciamano ostiaco-vasiugano va in cerca dell'anima del malato, usa per il suo viaggio estatico una barca fatta come un cofano e come remo si serve di una scapola (Karjalainen). A tale riguardo bisognerebbe citare anche la divinazione a mezzo di una scapola di ariete o di pecora, molto diffusa fra i Calmucchi, i Kirghisi e i Mongoli; e a mezzo di una scapola di foca fra i Coriacchi. In se stessa, la divinazione è una tecnica intesa a attualizzare le realtà spirituali che costituiscono la base dello sciamanismo, o a facilitare un contatto con esse. L'osso dell'animale qui simbolizza di nuovo la «Vita totale» perennemente rigenerantesi, e pertanto include in sé - sia pure virtualmente - tutto quanto appartiene al passato e al futuro di questa «Vita».

Non crediamo di esserci allontanati troppo dal nostro argomento - lo scheletro raffigurati) sul costume sciamanico - ricordando tutte queste pratiche e queste concezioni. Esse appartengono quasi per intero a dei livelli di cultura simili o fra loro omologabili e, col farne menzione, abbiamo indicato certi punti di riferimento nella vasta area della spiritualità pastorale. Precisiamo tuttavia che tutte queste vestigia non rimandano in egual misura ad una struttura «sciamanica», Infine, vale aggiungere che, per quel che riguarda le corrispondenze segnalate fra certi costumi tibetani, mongoli e nord-asiatici, o artici, si deve tener conto delle influenze provenienti dall' Asia meridionale e particolarmente dall'India, influenze sulle quali avremo da tornare.

 

 

 

 

 

 

Le maschere sciamaniche

back to index

 

Ci si ricorderà che Nil, arcivescovo di Iaroslav, fra gli oggetti dello sciamano buriate ha anche menzionato una maschera mostruosa (vedi sopra). Ai nostri giorni, l'uso di essa fra i Buriati è scomparso. Del resto, maschere sciamaniche s'incontrano abbastanza di rado in Siberia e nell'Asia settentrionale. Shirokogorov riferisce un unico caso di sciamano tunguso che aveva confezionata una maschera «per mostrare che lo spirito malu era in lui». Presso i Ciukci, i Coriacchi, i Camciadali, gli Yukaghiri e gli Yakuti la maschera non ha nessuna parte nello sciamanismo: essa viene usata, e solo sporadicamente, per spaventare i bambini (come presso i Ciukci) oppure durante i funerali, per non farsi riconoscere dalle anime dei morti (Yukaghiri). Quanto alle popolazioni artiche, è soprattutto fra gli Eschimesi dell'Alaska, fortemente influenzati dalle culture americane, che lo sciamano usa una maschera.

In Asia i rari casi accertati si riferiscono quasi esclusivamente a tribù meridionali. Presso i Tartari Neri gli sciamani fanno uso talvolta di una maschera di scorza di betulla coro baffi e sopracciglia fatti di coda di scoiattolo. Uguale usanza presso i Tartari di Tomsk. Nell'Altai e presso i Goldi lo sciamano quando conduce l'anima del defunto nel regno delle ombre s'impiastriccia il viso di grasso per non esser riconosciuto dagli spiriti. La stessa usanza la si ritrova altrove, e con lo stesso scopo, nel sacrificio dell'orso. Qui occorre però ricordare che il costume di ungersi la faccia di grasso è, in genere, abbastanza diffuso fra i «primitivi» e che il suo significato non è sempre cosi semplice come sembrerebbe. Non si tratta sempre di camuffarsi di fronte agli spiriti o di un mezzo per difendersi da essi, ma anche di una tecnica elementare che mira ad un'integrazione magica nel mondo degli spiriti. Infatti in molte regioni del globo le maschere rappresentano gli antenati e si ritiene che chi le porta vada ad incarnare questi stessi antenati. Quanto all'impiastricciarsi il volto con del grasso, esso costituisce uno dei modi più semplici per assumere una maschera, epperò per incorporare le anime dei defunti. Del resto, esiste una relazione fra le maschere, le società segrete di uomini e il culto degli antenati. In genere, gli etnologi concordano nel ritenere che il complesso maschere-culto-degli-antenati-società-segrete-iniziatiche appartenga al ciclo culturale del matriarcato, le società segrete avendo effettivamente costituito una reazione contro il dominio della donna.

La rarità delle maschere sciamaniche non deve sorprenderci. In effetti, come l'ha giustamente rilevato Harva, il costume sciamanico costituisce da per se stesso una maschera e può considerarsi derivato da una maschera originaria. Si è cercato di dimostrare l'origine orientale, epperò recente, dello sciamanismo siberiano adducendo, fra l'altro, proprio il fatto che le maschere, più frequenti nelle regioni meridionali dell'Asia, divengono sempre più rare e poi scompaiono verso l'estremo settentrione. Qui non possiamo affrontare il problema dell'«origine» dello sciamanismo siberiano. Dobbiamo tuttavia rilevare che nello sciamanismo nord-asiatico e artico il costume e la maschera vengono valorizzati in modo differente. In certi luoghi (per es. presso i Samoiedi) si vuole che la maschera faciliti la concentrazione. Abbiamo visto che il panno che copre gli occhi od anche tutto il viso dello sciamano ha una funzione analoga. D'altra parte, anche se talvolta non si parla di una maschera vera e propria, non si tratta di cosa molto diversa: per es. le pelliccie e le pezze che, presso i Goldi e i Soioti, coprono quasi interamente la testa dello sciamano (Harva).

Pur tenendo conto del valore vario ad essa attribuito nei rituali e nelle tecniche dell'estasi, per queste ragioni si può concludere che la maschera ha la stessa funzione del costume sciamanico e che i due elementi possono considerarsi come mutuabili. Infatti in tutte le regioni in cui la si usa (al di fuori dell'ideologia sciamanica propriamente detta) la maschera attesta manifestamente l'incarnazione di un personaggio mitico (antenato, animale mitico, divinità). Da parte sua, il costume transustanzializza lo sciamano trasformandolo, agli occhi di tutti, in un essere sovrumano, quale pur sia l'attributo predominante che viene al primo piano: il prestigio di un morto che è risuscitato (scheletro), la capacità di volare (uccello), la condizione di marito di una «sposa celeste» (costume di donna, attributi femminili), ecc.

 

 

 

 

 

 

Il tamburo sciamanico

back to index

 

Il tamburo ha una parte di primo piano nelle cerimonie sciamaniche. Il suo simbolismo è complesso e le sue virtù magiche sono multiple. Esso è indispensabile per lo svolgimento della seduta, sia che conduca lo sciamano al «Centro del Mondo», sia che gli permetta di volare, sia che chiami e «imprigioni» gli spiriti, sia, infine, che il suono da esso prodotto aiuti lo sciamano a concentrarsi e a riprender contatto col mondo spirituale che egli si prepara ad attraversare.

Ci si ricorderà che in molti sogni iniziatici dei futuri sciamani figura un viaggio mistico al «Centro del Mondo», alla sede dell'Albero Cosmico e del Signore Universale. È da uno dei rami di quest'albero, lasciato cadere dal Signore a tal fine, che lo sciamano, come già detto, forma la cassa del suo tamburo. Ci sembra che il significato di un tale simbolismo risulti abbastanza chiaramente dal complesso di cui fa parte: quello di un comunicare di Cielo e Terra grazie all'Albero del Mondo, cioè all'Asse che sta al «Centro del Mondo». Per essere, la cassa del suo tamburo, fatta del legno stesso dell'Albero Cosmico, lo sciamano, battendo il tamburo, vien proiettato magicamente presso tale Albero: vien proiettato nel «Centro del Mondo» e per ciò stesso può anche ascendere nei Cieli.

Da tale punto di vista il tamburo può essere assimilato all'albero sciamanico a pioli multipli, l'arrampicarsi sul quale è per lo sciamano simbolo del salire in Cielo. Scalando la betulla o suonando il tamburo lo sciamano si avvicina all' Albero del Mondo e poi sale effettivamente su di esso. Gli sciamani siberiani posseggono anche loro alberi personali che non hanno altra funzione se non di rappresentare l'Albero Cosmico: alcuni utilizzano altresì degli «alberi rovesciati», cioè attaccati con le radici in aria, alberi che, come è noto, sono fra i simboli primordiali dell'Albero del Mondo. Tutto ciò, insieme ai rapporti già rilevati fra lo sciamano e gli alberi di betulla cerimoniali, mostra la solidarietà esistente fra l'Albero Cosmico, il tamburo sciamanico e l'ascensione celeste.

La stessa scelta del legno di cui sarà fatta la cassa del tamburo dipende unicamente dagli «spiriti» o da una volontà transumana. Lo sciamano ostiaco-samoiedo prende l'ascia e, ad occhi chiusi, va in una foresta e tocca a caso un albero; è da tale albero che, l'indomani, i suoi compagni prenderanno il legno per la cassa. All'altra estremità della Siberia, presso gli Altaici, lo sciamano ha direttamente dagli spiriti la precisa indicazione del bosco e del posto ove cresce l'albero, e manda i suoi coadiutori a individuarlo e a procurarsi il legno con cui sarà fatta la cassa del tamburo. In altre regioni, lo sciamano stesso raccoglie nel bosco tutte le scaglie di legno. Altrove si offrono sacrifici all'albero, che si bagna di sangue e di vodka. Si procede anche all'«animazione del tamburo», ottenuta versando dell'alcool sulla cassa. Presso gli Yakuti si raccomanda di scegliere un albero che sia stato colpito dalla folgore (Sieroszewski). Tutte queste usanze e queste precauzioni rituali mostrano chiaramente che l'albero concreto è stato trasfigurato dalla rivelazione superumana, che in realtà esso ha cessato di essere un albero profano e va a rappresentare lo stesso Albero del Mondo.

La cerimonia dell'«animazione del tamburo» è estremamente interessante. Quando lo sciamano altaico l'irrora di birra, il cerchio si «anima» e, per il tramite dello sciamano, racconta come l'albero di cui faceva parte sia cresciuto nella foresta, come sia stato tagliato, portato nel villaggio, ecc. Lo sciamano irrora poi la pelle del tamburo che, animandosi, racconta anch'essa il suo passato. Attraverso la voce dello sciamano, l'animale parla della sua nascita, dei suoi genitori, della sua infanzia e di tutta la sua vita fino al momento in cui è stato abbattuto dal cacciatore. Finisce assicurando allo sciamano che gli renderà numerosi servigi. In un'altra tribù altaica, i Tubalari, lo sciamano imita la voce e l'andatura dell'animale cosi rianimato.

Come hanno dimostrato L.P. Potapov e G. Buddruss, l'animale che lo sciamano rianima è il suo alter ego, il suo più potente spirito coadiutore; quando penetra nello sciamano, costui si trasforma nell'antenato mitico teriomorfo. Si comprende dunque perché, durante il rito del- 1'«animazione», lo sciamano deve raccontare la vita dell'animale-tamburo: egli canta il suo modello esemplare, l'animale primordiale che è all'origine della sua tribù, Nei tempi mitici, ciascun membro della tribù poteva trasformarsi in animale, e cioè ciascuno era capace di partecipare della condizione dell'antenato. Ai nostri giorni, così intimi rapporti con gli antenati mitici son riservati esclusivamente agli sciamani.

Sottolineiamo questo fatto: durante la seduta, lo sciamano ristabilisce, per sé solo, una situazione che all'origine era quella di tutti. Il significato profondo d'un tal ritrovare la condizione umana originaria ci apparirà più chiaro quando avremo esaminato altri esempi simili. Per ora ci basta aver evidenziato che tanto la cassa quanto la pelle del tamburo rappresentano strumenti magico-religiosi grazie ai quali lo sciamano è capace d'intraprendere il viaggio estatico al «Centro del Mondo». In parecchie tradizioni, l'antenato mitico teriomorfo vive nel mondo sotterraneo, vicino alla radice dell'Albero Cosmico la cui cima tocca il cielo (Friedrich). Siamo qui di fronte ad idee distinte, ma solidali. Da un lato, lo sciamano, suonando il tamburo, vola verso l'Albero Cosmico; vedremo tra poco che il tamburo comporta un gran numero di simboli ascensionali. Dall'altro, grazie ai suoi rapporti mistici con la pelle «rianimata» del tamburo, lo sciamano giunge a partecipare della natura dell'antenato teriomorfo; in altri termini, egli può abolire il tempo e recuperare la condizione originaria di cui parlano i miti. In un caso come nell'altro, siamo di fronte ad un'esperienza mistica che permette allo sciamano di trascendere il tempo e lo spazio. La metamorfosi nell'animale-antenato, cosi come l'estasi ascensionale, sono espressioni differenti, ma omologabili, d'una stessa esperienza: il trascendimento della condizione profana, il recupero d'una esistenza «paradisiaca» perduta alla fine del tempo mitico.

In genere, il tamburo è ovale; è fatto di pelle di renna, di pescecane o di cavallo. Presso gli Ostiachi e i Samoiedi della Siberia occidentale la superficie esterna non ha disegni. Secondo Georgi, sulla pelle dei tamburi tungusi sono invece raffigurati uccelli, serpi ed altri animali. Shirokogorov descrive come segue i disegni da lui visti sui tamburi dei Tungusi della Transbaikalia: il simbolo della Terra ferma (perché lo sciamano utilizza il tamburo come imbarcazione per attraversare il mare - per tale ragione indica le parti continentali); vari gruppi di figure antropomorfe, a destra e a sinistra, e numerosi animali. In mezzo al tamburo non è dipinta nessuna imagine; le otto linee doppie che vi sono segnate simboleggiano gli otto piedi che sostengono la Terra al disopra del Mare. Presso gli Yakuti si possono osservare, sempre sulla pelle del tamburo, dei segni misteriosi in rosso e nero, che raffigurano uomini e animali (Sieroszewski). Imagini varie sono state accertate sui tamburi degli Ostiachi dello Ienissei (Kai Donner).

«Sul dietro del tamburo vi è un manico verticale di legno e di ferro che lo sciamano impugna con la sinistra. A dei fili di metallo o a delle stecche orizzontali di legno sono assicurati, in quantità, dei pezzetti di ferro tintinnanti, dei sonagli e insieme ad essi delle imagini di ferro rappresentanti spiriti, animali vari, ecc., spesso anche armi, come una freccia, un arco o un coltello». Ognuno di questi oggetti magici ha un suo particolare valore simbolico ed una sua parte nella preparazione o nell'attuazione del viaggio estatico, come pure in altre esperienze mistiche dello sciamano.

I disegni che adornano la pelle del tamburo sono una caratteristica di tutte le tribù tartare e dei Lapponi. Presso i Tartari le due faccie della pelle sono ricoperte di imagini, che presentano una grande varietà malgrado il ricorrere di certi simboli predominanti, come per es. l'Albero del Mondo, il Sole e la Luna, l'Arcobaleno, ecc. In effetti, i tamburi costituiscono un microcosmo: in essi una linea di demarcazione separa il Cielo dalla Terra e, in alcuni casi, la Terra dall'Inferno. L'Albero del Mondo, cioè la betulla sacrificale scalata dallo sciamano, il cavallo, l'animale sacrificato, gli spiriti ausiliari dello sciamano, il Sole e la Luna che egli raggiunge nel corso del suo viaggio celeste, l'Inferno di Erlik Khan (coi Sette Figli e le Sette Figlie del Signore dei Morti, ecc.) nel quale egli penetra quando discende nel regno dei morti - tutti questi elementi che riassumono in un certo modo l'itinerario e le avventure dello sciamano, si ritrovano raffigurati sul suo tamburo. Ci manca lo spazio per elencare tutti i 'legni e le imagini e spiegarne il simbolismo. Rileveremo soltanto che il tamburo raffigura un microcosmo nelle sue tre zone - Cielo, Terra, Inferno - e in pari tempo indica i mezzi coi quali lo sciamano attua le varie rotture di livello e stabilisce la comunicazione del mondo d'in alto con quello d'in basso. Infatti, come si è visto, non è che s'incontri la sola imagine della betulla sacrificale (l'Albero del Mondo); noi troviamo anche l'Arcobaleno: lo sciamano s'innalza nelle sfere superiori montando sull'Arcobaleno. Abbiamo inoltre l'imagine del Ponte, che serve allo scia mano per passare da una regione cosmica all'altra.

L'iconografia dei tamburi è dominata dal simbolismo del viaggio estatico, cioè di esperienze che implicano una rottura di livello e che per punto di partenza hanno un «Centro del Mondo». L'operazione di suonare il tamburo all'inizio della seduta, per evocare gli spiriti e «chiuderli» in esso, costituisce i preliminari del viaggio estatico. Per tale ragione il tamburo vien chiamato il «cavallo dello sciamano» (Yakuti, Buriati). L'imagine di un cavallo è disegnata sul tamburo altaico; quando lo sciamano suona il tamburo, si pensa che vada in cielo sul suo cavallo (Radlov). Del pari, presso i Buriati, il tamburo fatto con una pelle di cavallo rappresenta il medesimo animale (Mikhailowski). Secondo O. Manchen-Helfen, il tamburo dello sciamano soiote è ritenuto essere un cavallo ed è chiamato khamu-at, cioè, letteralmente, «sciamano-cavallo», e «il capriolo dello sciamano» quando la sua pelle è appunto di capriolo (Karagassi, Soioti). Nelle leggende yakute si trovano lunghi racconti circa sciamani che volano col loro tamburo attraverso i sette cieli. «lo viaggio con un capriolo selvaggio!» - cantano gli sciamani Karagassi e Soioti, In certe tribù mongole, il tamburo sciamanico è chiamato «cervo nero» (Heissig). La bacchetta con cui si batte il tamburo ha il nome di «frusta» presso gli Altaici (Harva). La velocità miracolosa è una delle caratteristiche del tàltos, lo scìamano ungherese (Ròheim). Un giorno, un tàltos «inforcò una canna e parti al galoppo ed arrivò alla meta prima del cavaliere». Tutte queste credenze, queste imagini e questi simboli aventi relazione col «volo», la «cavalcata» o la «velocità» degli sciamani sono espressioni figurate dell'estasi, vale a dire di viaggi mistici intrapresi con mezzi sovrumani ed in regioni inaccessibili agli uomini.

L'idea del viaggio estatico la si ritrova anche nel nome che fra gli Yurak della tundra gli sciamani danno al loro tamburo: arco o arco che canta. Secondo Lehtisalo e Harva il tamburo sciamanico serviva originariamente a scacciare gli spiriti malvagi, effetto che si poteva egualmente conseguire servendosi di un arco. È senz'altro esatto che il tamburo vien talvolta usato per scacciare gli spiriti malvagi, effetto che si poteva egualmente conseguire servendosi di un arco. È senz'altro esatto che il tamburo vien talvolta usato per scacciare gli spiriti cattivi (Harva), ma in tali casi il suo uso specifico appare dimenticato e si ha a che fare con la «magia del rumore», con la quale si esorcizzano i demoni. Esempi consimili di modificazioni di funzione sono assai frequenti nella storia delle religioni. Pertanto, non crediamo che la funzione originaria del tamburo sia stata quella di scacciare gli spiriti. Il tamburo sciamanico si distingue da tutti gli altri strumenti usati per la «magia del rumore» proprio perché rende possibile una esperienza estatica. Che questa in origine sia stata propiziata dall'incantesimo del suono del tamburo, incantesimo valorizzato in termini di «voce degli spiriti», oppure che si giunga ad una esperienza estatica in seguito all'estrema concentrazione provocata da un prolungato tambureggiamento - questo è un problema che per ora non abbiamo da considerare. Un fatto è però certo: è la magia musicale a definire la funzione sciamanica del tamburo - e non la magia antidemoniaca del rumore. Le freccie hanno pure la loro parte in certe sedute sciamaniche. La freccia possiede un duplice prestigio magico-religioso: da un lato, è un'imagine esemplare della velocità, del «volo», e, d'altro canto, è l'arma magica per eccellenza (la freccia uccide da lontano). Impiegata nelle cerimonie di purificazione o d'espulsione dei demoni, la freccia «uccide» cosi come «allontana» e «espelle» gli spiriti maligni. Per la freccia come simbolo sia del «volo» sia della «purificazione» cfr. avanti.

Prova di ciò ne è che quando il tamburo è sostituito da un arco - come presso i Tartari Lebed e certi Altaici - noi ci troviamo sempre a che fare con un istrumento di musica magica e non con un'arma antidemoniaca: non ci sono freccie e l'arco viene utilizzato come un istrumento musicale monocorde. Neanche i baqça kirghisi usano il tamburo per preparare la trance, ma usano il kobuz, che è uno strumento a corda. E qui la trance, come negli sciamani siberiani, interviene mentre si danza sulla melodia magica del kobuz. Come vedremo meglio in seguito, la danza riproduce il viaggio estatico dello sciamano in cielo. Ciò vuoi dire che la musica magica, come il simbolismo del tamburo e del costume sciamanico, come la stessa danza dello sciamano, sono altrettanti mezzi per intraprendere il viaggio estatico o per assicurarsi della buona riuscita di esso. I bastoni a testa equina che, del resto, i Buriati chiamano «cavalli», riconducono allo stesso simbolismo.

Le popolazioni ugre ignorano i tamburi sciamanici disegnati.

Per contro, gli sciamani lapponi ornano i loro tamburi in modo ancor più ricco dei Tartari. Nella grossa opera di Manker sul tamburo magico lappone si possono trovare le riproduzioni e l'analisi completa di un gran numero di disegni. Non è sempre agevole identificare i personaggi mitici e il significato di tutte le imagini, che spesso sono assai misteriose. In genere, i tamburi lapponi recano le tre zone cosmiche, separate da linee di demarcazione. Nel Cielo si possono riconoscere la luna e il sole, dèi e dee (probabilmente per influenza della mitologia scandinava), uccelli (cigno, cuculo, ecc.), il tamburo, animali sacrificali, ecc.; nello spazio mediano (la Terra) figurano l'albero cosmico, una quantità di personaggi mitici, barche, sciamani, il dio della caccia, dei cavalieri, ecc.; infine nella zona inferiore s'incontrano gli dèi dell'inferno, gli sciamani coi morti, serpi ed uccelli e varie altre imagini.

Gli sciamani lapponi usano il tamburo anche per scopi divinatori. Questa usanza è ignota ai Turchi. I Tungusi praticano una forma semplificata di divinazione che consiste nel gettare in aria la bacchetta del tamburo: caduta che sia, dalla posizione della bacchetta si desume la risposta alla domanda che si era fatta (Harva).

Il problema dell'origine e della diffusione del tamburo sciamanico nell' Asia settentrionale è estremamente complesso e lungi dall'esser risolto. Vari elementi fan pensare che il centro probabile di diffusione cada nell'Asia meridionale. Non c'è dubbio che il tamburo lamaico ha esercitato un'influenza quanto alla forma del tamburo dei Ciukci e degli Eschimesi, oltre che a quella del tamburo siberiano (Shirokagorov). Tale constatazione non è senza conseguenze per quel che riguarda il problema della formazione dello sciamanismo attuale dell'Asia centrale e della Siberia, e noi avremo a tornare su ciò quando cercheremo di tracciare, nelle sue grandi linee, l'evoluzione dello sciamanismo asiatico.

 

 

 

 

 

 

Costumi rituali e tamburi magici attraverso il mondo

back to index

 

Qui non pensiamo a compilare una tabella comparativa dei costumi, dei tamburi o di altri strumenti rituali usati dagli stregoni, dai medicine-men e dai sacerdoti di tutto il mondo. La cosa sarebbe piuttosto di pertinenza dell'etnologia, essa interessa solo accessoriamente la storia delle religioni. Comunque noteremo che lo stesso simbolismo da noi accertato nel costume dello sciamano siberiano lo si ritrova altrove. Anche altrove si incontrano le maschere - dalle più semplici alle più elaborate - le pelli e le pelliccie di animali e specialmente le piume di uccello, la relazione delle quali col simbolismo ascensionale non ha bisogno di essere ancora sottolineato. S'incontrano anche i bastoni magici, i campanelli e i tamburi, di varie forme. Hoffmann ha opportunamente studiato le somiglianze tra il costume e il tamburo dei sacerdoti bon da un lato e, dall' altro, quelli degli sciamani siberiani. Il costume di questi sacerdoti tibetani comprende, in particolare, delle piume di aquila, un casco con larghi nastri di seta, uno scudo e una lancia. Goloubew già aveva accostato i tamburi di bronzo scavati a Dongson ai tamburi degli sciamani mongoli. Recentemente, Quaritch Wales ha più dettagliatamente precisato la struttura sciamanica dei tamburi di Dongson; egli paragona i personaggi, che vanno in processione con un'acconciatura di piume, della scena rituale rappresentata sul timpano, agli sciamani dei Daiachi marittimi che, adorni di piume,  pretendono d'essere uccelli. Quantunque, ai nostri giorni, l'impiego del tamburo da parte dello sciamano indonesiano sia suscettibile di molteplici valorizzazioni, accade talvolta che significhi il viaggio celeste, o che sia considerato come una preparazione dell'ascensione estatica dello sciamano (cfr. qualche esempio in Wales).

Lo stregone dusun indossa qualche ornamento e delle piume sacre quando inizia una cura (Evans); lo sciamano delle Mentawei utilizza un costume cerimoniale comprendente piume d'uccello e campanelli (Loeb); gli stregoni e i guaritori africani si coprono di pelli di bestie selvatiche, di denti e d'ossa d'animali, ecc. (Webster). Benché nell'America del Sud tropicale il costume rituale sia piuttosto raro, ne tengono il posto certi accessori dello sciamano come, ad esempio, la maraca o sonaglio «fatto con una zucca contenente dei granelli o delle pietre e provvista d'un manico». Questo strumento è considerato sacro, ed i Tupinamba gli recano pure offerte di nutrimento. Gli sciamani Yaruro eseguono sui loro sonagli «raffigurazioni molto stilizzate delle principali divinità che visitano durante la trance» (Métraux).

Gli sciamani nord-americani hanno un costume cerimoniale notevolmente simbolico: piume d'aquila o d'altri uccelli, una sorta di sonaglio o un tamburello, sacchetti contenenti cristalli di rocca, pietre ed altri oggetti magici, ecc. L'aquila cui si prendono le piume è considerata sacra e, per questa ragione, lasciata in libertà (Park). Il sacchetto con gli accessori non lascia mai lo sciamano; di notte, questi se lo mette sotto il cuscino o sotto il letto. Presso i Tlingit e gli Haida si può anche parlare di un vero costume cerimoniale (una veste, una coperta, un cappello, ecc.) che lo sciamano si confeziona secondo le indicazioni del suo spirito protettore (Swanton). Presso gli Apache, oltre le piume d'aquila, lo sciamano possiede un rombo, una corda magica (che lo' rende invulnerabile e gli permette anche di prevedere gli avvenimenti futuri, ecc.) ed un cappello rituale. Altrove, come presso i Sanpoil e i Nespelem, la potenza magica del costume si riduce in una pezza rossa che si lega intorno al braccio (Park). Le piume d'aquila si ritrovano presso tutte le tribù nord-americane (Park). Del resto, attaccate a dei bastoni, sono impiegate nelle cerimonie d'iniziazione (per es., presso i Maidu nord-orientali), e questi bastoni si pongono sulle tombe degli sciamani (Park). È un segno che indica la direzione che prende l'anima del trapassato.

In America del Nord, come nella maggior parte delle altre aree, lo sciamano impiega un tamburello o un sonaglio. Là dove il tamburo cerimoniale manca, è rimpiazzato dal gong o dalla conchiglia (specialmente a Ceylon, nell'Asia meridionale, in Cina, ecc.) Ma si è sempre di fronte a uno strumento capace di stabilire, in un modo o nell'altro, il contatto col «mondo degli spiriti». Questa espressione va intesa nel suo senso più ampio, che include non solo gli dei, gli spiriti ed i demoni, ma anche le anime degli antenati, i morti, gli animali mitici. Questo contatto col mondo sovrasensibile implica necessariamente una concentrazione preliminare facilitata dall'inserimento dello sciamano o del mago nel suo costume cerimoniale, ed accelerata dalla musica rituale.

Lo stesso simbolismo del costume sacro è sopravvissuto in seno alle religioni più evolute: si possono ricordare le pelliccie di lupo o di orso in Cina, le piume di uccello dei profeti irlandesi, ecc. Il simbolismo macrocosmico lo si ritrova nelle vestimenta dei sacerdoti e dei sovrani dell'antico Oriente. Questo insieme di fatti s'inquadra in una legge ben nota nella storia delle religioni: si diviene ciò che si mostra. Coloro che portano le maschere sono realmente gli antenati mitici figurati da queste maschere. Ma lo stesso effetto - cioè il totale trasformarsi dell'individuo in qualcosa di altro - bisogna attenderselo anche dai vari segni e dai vari simboli che talvolta sono appena accennati sul costume o direttamente sul corpo: si fa proprio il potere del volo magico portando una più ma d'aquila e perfino un disegno fortemente stilizzato di tale più ma, e così di seguito. L'uso dei tamburi e di altri strumenti di musica magica non è però limitato esclusivamente alle sedute. Molti sciamani battono il tamburo e cantano anche per il solo loro piacere, senza che tuttavia vi sia differenza quanto a ciò che a tali azioni si lega: salire in Cielo o discendere agli Inferni per visitarvi i morti. Questa «autonomia» che finisce con l'investire gli strumenti della musica magico-religiosa conduce alla formazione di una musica che, pur non essendo ancora «profana», è però più libera e più imaginata. Lo stesso fenomeno si verifica nei riguardi dei canti sciamanici che descrivono i viaggi estatici in Cielo e le perigliose discese agli Inferni. Dopo un certo tempo questo genere di avventure passa nel folklore dei corrispondenti popoli e va ad arricchire la letteratura orale popolare di nuovi temi e di nuovi personaggi.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 6: Lo sciamanismo nell'Asia centrale e settentrionale

 

 

Le ascensioni celesti - discese agli inferni

back to index

 

 

Funzioni dello sciamano

back to index

 

La parte dello sciamano nella vita religiosa dell'Asia centrale e settentrionale, per importante che sia, è limitata. Nondimeno, la posizione sociale degli sciamani siberiani è di primissimo ordine; eccetto che fra i Ciukci, dai quali gli sciamani non sembrano esser troppo considerati. Presso i Buriati gli sciamani sarebbero stati originariamente capi politici. Lo sciamano non è il sacrificatore: «non rientra nelle sue attribuzioni badare ai sacrifici che, in certe date, si debbono offrire agli dèi dell'acqua, delle foreste e della famiglia» (Donner). Come l'ha già notato Radlov, nell'Altai lo sciamano non ha nulla a che vedere con le cerimonie relative a nascita, sponsali e sepoltura - a meno che non si verifichi qualcosa d'insolito: ad esempio, allo sciamano ci si rivolgerà in casi di sterilità o di parto difficile (Radlov). Più a settentrione lo sciamano vien talvolta invitato ai seppellimenti, a che impedisca all'anima del morto di ritornare, e presenzia anche agli sposalizi, per proteggere gli sposi nuovi dai cattivi spiriti. Secondo Sieroszewski lo sciamano yakuta assisterebbe a ogni più importante avvenimento; ma ciò non equivale a dire che egli domini la vita religiosa «normale», il essenzialmente in caso di malattia che egli diviene indispensabile. Presso i Buriati i bambini fino all'età di quindici anni sono protetti contro gli spiriti malvagi dagli sciamani. Come si vede, in tali casi la sua funzione si limita a quella di una difesa magica.

Invece lo sciamano appare insostituibile in ogni cerimonia che interessi le esperienze dell'anima umana come tale, come unità psichica precaria, come entità incline ad abbandonare il corpo e facile preda dei demoni e degli stregoni. È per questo che in tutta l'Asia e l'America del Nord, ed anche altrove (Indonesia, ecc.), lo sciamano ha funzioni di medico e di guaritore; egli formula le diagnosi, va alla ricerca dell'anima fuggitiva del malato, la cattura e la reintegra nel corpo da essa abbandonato. È sempre lui che conduce l'anima del morto agli inferni, perché egli è per eccellenza psicopompo.

E tale qualifìcazione di terapeuta e di psicopompo, lo sciamano la possiede perché conosce le tecniche dell'estasi, ossia perché la sua anima può abbandonare impunemente il corpo e portarsi lontano, perché può penetrare negli Inferni e salire in Cielo. Egli conosce per propria esperienza estatica gli itinerari delle regioni extraterrestri. Può discendere agli Inferni e elevarsi nei Cieli perché vi è già stato. Certo, il rischio di smarrirsi in queste regioni interdette è sempre grande, ma lo sciamano, consacrato dall'iniziazione e munito dei suoi spiriti custodi, resta pur sempre il solo essere umano che possa affrontare questo rischio e avventurarsi in una geografia mistica.

Del pari, è questa facoltà estatica che - come presto vedremo - rende atto lo sciamano ad accompagnare l'anima del cavallo offerto al Dio nei sacrifici periodici praticati dagli Altaici. In tal caso è lo sciamano stesso a sacrificare il cavallo: ma ciò, appunto perché egli dovrà condurre l'animale nel suo viaggio celeste fino al trono di Bai Ulgan, non perché la sua funzione sia quella del sacerdote sacrificatore. Sembra anzi che presso i Tartari dell'Altai lo sciamano si sia sostituito solo a partire da un dato periodo al sacerdote sacrificatore, perché nei sacrifici di cavalli al dio celeste supremo dei Prototurchi (Hiungno, Tukiìe), dei Katshina e dei Beltiri gli sciamani non hanno parte alcuna, mentre intervengono attivamente in altri sacrifici.

Lo stesso si verifica fra i popoli ugri. Presso i Voguli e gli Ostiachi dell'Irtish gli sciamani sacrificano in occasione di una malattia, prima di iniziare le cure; ma questo sacrificio sembra una innovazione tardiva, non è originario e importante quanto la ricerca dell'anima smarrita del malato (Karjalainen). In questi stessi popoli gli sciamani assistono ai sacrifici di espiazione - nelle regioni dell'Irtish, ad esempio, possono perfino celebrare i sacrifici: ma non si può dedurre nulla da tale fatto, perché qui si ritiene che qualsiasi persona possa sacrificare agli dèi. Anche quando prende parte ai sacrifici, lo sciamano ugro non uccide l'animale, ma si riserva, per cosi dire, la parte «spirituale» del rito: compie i suffumigi, pronuncia le preghiere, ecc. Nel sacrificio dei Tremyugan lo sciamano vien detto «l'uomo che prega», ma non è indispensabile. Presso i Vasiugani, dopo che lo sciamano vien consultato circa una data malattia, si fanno dei sacrifici secondo le sue ingiunzioni, ma la vittima viene uccisa dal capo di casa. Nei sacrifici collettivi dei popoli ugri lo sciamano si limita a dire le preghiere e a condurre le anime delle vittime alle corrispondenti divinità. Concludendo, anche quando prende parte ai sacrifici lo sciamano assolve un compito «spirituale» (Si noti l'analogia con la funzione che ha il brahman nei riti vedici): si occupa soltanto dell'itinerario mistico dell'anima dell'animale sacrificato. E se ne capisce facilmente il perché lo sciamano conosce questo itinerario e, per giunta, è capace di dominare e di scortare un'«anima», sia l'anima di un uomo oppure quella di una vittima.

Più a Settentrione l'importanza e la complessità della funzione religiosa dello sciamano sembrano essere maggiori. Nell'estremo Nord dell'Asia, quando la selvaggina scarseggia, accade che si ricorra all'intervento dello sciamano (Harva). Lo stesso avviene presso gli Eschimesi e presso certe tribù nord-americane, ma tali riti di caccia non possono esser considerati come propriamente sciamanici. Se lo sciamano sembra avere una certa parte in simili circostanze, ciò deriva sempre dalle sue facoltà estatiche: egli prevede i mutamenti atmosferici, dispone di chiaroveggenza e di vista a distanza (per cui può scoprire la selvaggina); inoltre ha rapporti più intimi, d'ordine magico-religioso, con gli animali.

La divinazione e la chiaroveggenza fan parte delle tecniche mistiche dello sciamano. Cosi si va a consultare uno sciamano per poter ritrovare uomini o animali smarriti si nella tundra o fra le nevi, per rintracciare un oggetto perduto, e cosi via. Però queste piccole imprese sono piuttosto di pertinenza delle donne-sciamani e di altre categorie di maghi e di maghe. Del pari, non è una «specialità» degli sciamani il nuocere agli avversari dei loro clienti, anche se a tanto essi talvolta si prestino. Lo sciamanismo nord-asiatico è un fenomeno estremamente complesso, avente dietro di sé una lunga storia; soprattutto' grazie al prestigio via via acquistato dagli sciamani nel corso dei tempi, esso ha finito per assorbire in sé una molteplicità di tecniche magiche.

 

 

 

 

 

 

"Sciamani bianchi" e "sciamani neri". Mitologie "dualiste"

back to index

 

Almeno in certe popolazioni, la specializzazione più netta è quella onde gli sciamani «bianchi» si distinguono dagli sciamani «neri», benché non sia sempre facile definire questa contrapposizione. Per gli Yakuti, Czaplicka menziona gli ajy ojuna, che sacrificano agli dèi, e gli abasy ojuna, che hanno invece rapporti con gli «spiriti malvagi». Ma, come lo nota Harva, lo ajy ojuna non è necessariamente uno sciamano: può anche essere un sacerdote sacrificatore. Secondo Pripuzov, fra gli Yakuti uno stesso sciamano può evocare indifferentemente gli spiriti superiori (celesti) e quelli delle regioni infere. Sieroszewski classifica gli sciamani yakuti secondo la loro potenza e distingue: a) gli «ultimi» (kennikt ouna) che sono piuttosto degli indovini, degli interpreti di sogni e tali che curano solo malattie leggere; h) gli sciamani «comuni» (orto ouna), che sono i guaritori abituali; c) i «grandi» sciamani, i maghi possenti, ai quali lo stesso Ulu-Toion ha inviato uno spirito protettore. Come subito vedremo, il pantheon degli Yakuti è caratterizzato da una bipartizione, ma non sembra che essa abbia riscontro in una corrispondente differenziazione della classe degli sciamani. Una opposizione esiste, piuttosto, fra sacerdoti sacrificatori e sciamani. Si parla, nondimeno, degli «sciamani bianchi» o «sciamani d'estate», specializzati nelle cerimonie della dea Aisyt.

Presso i Tungusi di Turushansk la classe degli sciamani non presenta differenziazioni; al dio celeste può sacrificare qualsiasi sacerdote sacrificatore, non però lo sciamano, e tali riti han sempre luogo di giorno, mentre i riti sciamanici vengono praticati di notte (Harva).

La distinzione appare invece chiaramente presso i Buriati, che parlano di «sciamani bianchi» (sagani bo) e di «sciamani neri» (karain bo), gli uni aventi rapporti con gli dèi, gli altri con gli spiriti. I costumi sono diversi, bianchi per i primi, azzurri per i secondi. La stessa mitologia buriate presenta un dualismo marcatissimo: la classe innumerevole dei semidèi si suddivide in Khan neri e Khan bianchi, e fra gli uni e gli altri regna un'aspra inimicizia. I Khan neri son serviti dagli «sciamani neri»; questi non sono amati, per quanto siano spesso di utilità agli esseri umani, perché essi soli possono fare da intermediari presso i Khan neri (Sandschejew). L'accennata situazione non è però quella delle origini: secondo il mito, il primo sciamano era «bianco»; il nero è apparso solo in seguito. Ci si ricorderà anche che fu il dio celeste ad inviare l'Aquila per investire dei poteri sciamanici il primo essere umano che essa avesse incontrato sulla terra. La suddivisione degli sciamani potrebbe anche essere un fenomeno secondario abbastanza tardivo, dovuto sia ad influenze iraniche, sia ad una valorizzazione negativa delle ierofanie ctoniche e «infernali», le quali con l'andar del tempo han finito col dar persona a delle potenze «demoniache» (Sui rapporti tra l'organizzazione dualista del mondo spirituale ed una possibile organizzazione sociale dualista, cfr. Krader).

Non ci si deve infatti dimenticare che una gran parte delle divinità e delle potenze della Terra e degli Inferni per i popoli primordiali non sono necessariamente «cattive» o «demoniache». In genere, esse rappresentano delle ierofanie autoctone, cioè topiche, decadute dal loro rango a causa di modificazioni intervenute all'interno del pantheon complessivo. Talvolta la bipartizione degli dèi in celesti e cronico-infernali non è che una classificazione che obbedisce a criteri di comodità e che non implica nulla di negativo nel riguardo dei secondi. I Buriati concepiscono dunque una opposizione assai netta fra i Khan bianchi e quelli neri. Anche gli Yakuti conoscono due grandi categorie (bis) di dèi: quelli «d'in alto» e quelli «d'in basso», i tangara («celesti») e i «sotterranei» («alto» e «basso» sono termini abbastanza vaghi; possono anche designare regioni situate a monte o a valle di un corso d'acqua), senza che tuttavia fra di essi si possa stabilire una netta opposizione (Sieroszewski): si tratta piuttosto di una classificazione e di una specializzazione di diverse forme e' potenze religiose.

Gli dèi e gli spiriti «d'in alto» sono benevoli, ma impassibili, onde son di ben poco aiuto pel dramma dell'esistenza umana. Essi abitano «le sfere superiori del cielo, non si mescolano nelle faccende umane e, relativamente, hanno meno influenza sul corso della vita che non gli spiriti del "bis d'in basso ", spiriti vendicativi, più vicini alla terra, alleati degli uomini per via di vincoli di sangue e di una organizzazione in clans assai più rigorosa» (Sieroszewski). Il capo degli dèi e degli spiriti celesti è Art-Toion-Aga, il «Signore Padre Capo del Mondo», che risiede «nelle nove sfere del cielo. È possente ma non agisce; risplende come il sole, che è il suo emblema, parla attraverso la voce del tuono, ma poco si mescola nelle faccende umane. Invano si indirizzerebbero a lui le preghiere pei nostri bisogni quotidiani: solo in casi straordinari si può turbare il suo riposo, ed anche allora è malvolentieri che egli si interessa alle cose umane».

Oltre Arr-Toion-Aga, esistono altri sette grandi dèi «d'in alto» ed una moltitudine di dèi minori. Ma la loro dimora celeste non implica necessariamente una struttura uranica. Accanto al «Signore Creatore Bianco» (Urung Ai-Toion), che abita il quarto cielo, troviamo, ad esempio, la «Dolce Madre Creatrice», la «Dolce Signora della Natività» e la «Signora della Terra» (An-Alai-Ciotun). Il dio della caccia, Bai Bainai, abita tanto nella parte orientale del cielo quanto nei campi e nelle foreste. Ma gli si sacrificano bufali neri, indizio della sua origine tellurica: «Quando i cacciatori non sono fortunati a caccia o quando uno di loro si ammala, si sacrifica un bufalo nero del quale lo sciamano brucia le carni, le interiora ed il grasso. Durante la cerimonia si lava nel sangue della bestia sacrificata un'imagine in legno di Bainai, coperta d'una pelle di lepre. Quando il disgelo libera le acque, si piantano sul bordo dell'acqua dei pali congiunti tra loro con una corda di capelli (set'y) cui sono appesi panni variopinti e capigliature; inoltre, si getta in acqua burro, dolci, zucchero, denaro li. È il prototipo d'un sacrificio attenuato

Il «bis d'in basso» comprende otto grandi dèi con alla testa «L'onnipotente Signore dell'Infinito» (Ulutuier Ulu Toion) oltre ad una quantità illimitata di «spiriti malvagi». Ma Ulu-Toion non è cattivo: «è solo assai vicino alla terra, e alle cose della terra, si interessa... Ulu-Toion personifica l'esistenza attiva, piena di sofferenze, di desideri, di lotte... Bisogna cercarlo dalle parti dell'Occidente, nel terzo cielo. Ma non si deve invocare il suo nome per motivi futili: la terra trema e si agita quando egli vi posa il piede: il cuore del mortale scoppia dallo spavento se osa contemplare il suo viso. Nessuno l'ha dunque visto. Tuttavia fra gli dèi potenti abitanti del cielo egli è il solo a discendere in questa valle umana piena di lacrime ... È lui che ha dato agli uomini il fuoco, è lui che ha creato lo sciamano e che gli ha insegnato come si combatte la sventura... È il creatore degli uccelli, degli animali della foresta, delle stesse foreste» (Sieroszewski). UluToion non obbedisce a Art-Toion-Aga e lo tratta da pari a pari. Considerando questa descrizione, ci si rende conto di quanto poco sia acconcio l'includere Ulu-Toion fra le divinità «infere» e «d'in basso». In realtà, egli assomma in sé gli attributi di un Signore degli Animali, di un demiurgo e perfino di un dio della fertilità.

È significativo che a diverse di queste divinità «d'in basso» si offrano in sacrificio degli animali dal manto bianco o bianco-rossiccio; a Kahtyr-Kaghtan Burai-Toion, dio possente che non la cede a Ulu-Toion, si sacrifica un cavallo grigio dalla fronte bianca; alla «Signora dal puledro bianco» si offre questo stesso animale; ai rimanenti dèi e spiriti «d'in basso» si sacrificano giumente dal manto bianco-rossiccio, dai garretti bianchi o dalla testa bianca, o giumente grigie pomellate, ecc. (Sieroszewski). Naturalmente, fra gli spiriti «d'in basso» si trova anche qualche illustre sciamano.

Il più celebre è il «principe degli sciamani» degli Yakuti; risiede nella parte occidentale del cielo ed appartiene alla famiglia di Ulu-Toion. «Era prima uno sciamano dell'ulus di Nam, del nosleg di Botiiìgné, della stirpe Ciaky... Gli si offre in sacrificio un cane da caccia color acciaio pezzato di bianco, dalla testa bianca tra gli occhi e il muso».

Da questi pochi esempi si vede quanto sia difficile tracciare una frontiera precisa fra gli dèi «uranici» e gli dèi «tellurici», fra le potenze religiose considerate «buone» e le altre, «malvagie». Quel che risulta in modo certo è che il dio supremo celeste è un deus otiosus e che nel pantheon yakuta le situazioni e le gerarchie si sono spesso modificate, quand'anche non siano intervenute addirittura delle usurpazioni. Dato questo «dualismo» complesso e, ad un tempo, vago, si capisce come lo sciamano yakuta possa «servire» sia gli dèi «d'in alto» che quelli «d'in basso», giacché il «bis d'in basso» non è sempre sinonimo di «spiriti malvagi». La differenza fra gli sciamani e gli altri sacerdoti (i «sacrificatori») è d'ordine non rituale, bensì statico: a definire e specificare la particolare situazione dello sciamano in seno alla comunità religiosa (che riprende sia i preti che i laici) non è il fatto del suo poter celebrare, o meno, l'uno o l'altro sacrificio, ma è la natura particolare dei suoi rapporti con le divinità, siano esse «d'in alto» o «d'in basso». Tali rapporti, come meglio vedremo in seguito, sono più «familiari», più «concreti» di quelli degli altri membri del clan, sacerdoti sacrificatori o laici; ciò, perché nello sciamano le esperienze religiose hanno sempre una struttura estatica, quale pur sia la divinità cui si lega questa esperienza.

Anche se non così differenziata come fra i Buriati, la stessa bipartizione la s'incontra fra gli sciamani altaici. Anochin parla degli «sciamani bianchi» (ak kam) e degli «sciamani neri» (kara kam). Radlov e Potapov non riferiscono una differenza del genere: secondo le loro informazioni, uno stesso sciamano può intraprendere sia il viaggio al Cielo che la discesa agli Inferni. Ma in ciò non vi è contraddizione: Anochin riferisce che esistono anche sciamani «nero-bianchi» che possono compiere entrambi i viaggi; l'etnologo russo ebbe ad incontrare sei sciamani «bianchi», tre «neri» e cinque «bianco-neri», Con grande probabilità Radlov e Potapov hanno avuto a che fare unicamente con sciamani di quest'ultima categoria.

Il costume degli «sciamani bianchi» è più sommario: il caftano (menyak) non sembra essere indispensabile. Ma essi hanno un berretto di pelliccia di agnello bianco ed altre insegne. Le donne-sciamano sono sempre «nere», perché esse non intraprendono viaggi in Cielo. Riassumendo, gli Altaici sembrano conoscere tre gruppi di sciamani: quelli che si occupano esclusivamente degli dèi e delle potenze celesti, quelli specializzati nel culto (estatico) degli dèi dell'Inferno e, infine, quelli che hanno rapporti mistici con dèi delle due classi. Gli ultimi, come numero, sembrano esser abbastanza importanti.

 

 

 

 

 

 

Sacrificio del cavallo e ascensione dello sciamano in cielo (Altai)

back to index

 

Tutto ciò ci si renderà più chiaro quando avremo descritto qualche seduta sciamanica organizzata per fini diversi: sacrificio del cavallo e ascesa al cielo, ricerca delle cause di una malattia e cura del malato, accompagnamento dell'anima del defunto agli Inferni e purificazione dell'abitazione, ecc. Pel momento ci limiteremo alla descrizione delle sedute, senza studiare la trance propriamente detta dello sciamano, facendo soltanto cenno alle concezioni religiose e mitologiche che valorizzano questi viaggi estatici. Il problema delle basi mitiche e teologali dell'estasi sciamanica sarà ripreso più oltre. Vale aggiungere che la fenomenologia delle sedute varia dall'una tribù all'altra, benché la struttura resti sempre la stessa. Non abbiamo creduto necessario precisare tutte queste differenze, che riguardano soprattutto i dettagli. In questo capitolo daremo anzitutto una descrizione, accurata il più possibile, dei tipi più importanti di sedute sciamaniche. Cominceremo con la descrizione classica che Radlov ci ha fornito del rituale altaico, descrizione che non si basa soltanto sulle osservazioni dirette di questo autore ma anche sui testi dei canti e delle invocazioni registrati all'inizio del XIX secolo dai missionari dell'Altai e successivamente redatte dal prete Verbitskù. Questo sacrificio vien celebrato di tempo in tempo da ogni famiglia e la cerimonia dura una o tre sere consecutive.

La prima sera è consacrata ai preparativi del rito. Il kam, scelto un luogo in un prato, vi innalza una yurta nuova all'interno della quale pianta un giovane albero di betulla dispogliato dei rami più bassi, sul tronco del quale si segnano nove gradi (tapty). Il fogliame della cima della betulla, che reca una bandiera, esce dall'apertura superiore della yurta. S'innalza una piccola palizzata di rami di betulla intorno alla yurta e all'entrata si pianta un bastone di legno dello stesso albero con un nodo fatto di crine di cavallo. Poi si sceglie un cavallo dal manto chiaro e, dopo aver accertato se è accetto alla divinità, lo sciamano lo affida ad una delle persone presenti, che per tale ragione vien chiamata bash-tut-kan-kishi, ossia «la persona che tiene la testa». Lo sciamano agita un ramo di betulla sul dorso del cavallo per costringere l'anima della bestia ad uscire e per prepararne il volo verso Bai Ulgan. Ripete lo stesso gesto sulla «persona che tiene la testa», perché 1'«anima» di questa persona dovrà accompagnare quella del cavallo durante tutto il suo viaggio celeste e per tal motivo dovrà essere a disposizione del kam.

Lo sciamano torna nella yurta, getta dei rami sul fuoco e suffumiga il suo tamburo. Poi comincia ad invocare gli spiriti e ordina loro di entrare nel tamburo, perché avrà bisogno di essi tutti nella sua ascesa. È un appello nominale, ogni spirito risponde: «Eccomi, kam!» e lo sciamano muove il tamburo facendo un gesto, come per afferrare lo spirito e chiudervelo dentro. Dopo aver raccolto i suoi spiriti ausiliari, che son tutti spiriti celesti, lo sciamano esce dalla yurta. A qualche passo di distanza si trova uno spauracchio a forma di oca; l'inforca agitando rapidamente le mani, come per volare, e canta:

Al di sopra del bianco cielo, Al di là delle bianche nubi, Al di sopra del cielo azzurro, Al di là delle nubi azzurre, Sali al cielo, o uccello!

A questa invocazione l'oca risponde, gracidando: «Ungaigakgak ungaigak, kaigaigakgak, kaigaigak». Naturalmente è lo stesso sciamano, che imita il grido dell'uccello. Seduto sull'oca, il kam insegue l'anima del cavallo (pura - che si presume fuggita nel frattempo - e nitrisce come un corsiero. Aiutato dai presenti, egli costringe l'anima della bestia ad entrare nella palizzata mimandone laboriosamente la cattura: lo sciamano nitrisce, scalcia, fa come se il laccio lanciato per prendere l'animale gli serrasse il collo. Talvolta lascia cadere il tamburo, per significare che l'anima della bestia è fuggita. Infine essa è di nuovo catturata, lo sciamano pratica dei suffumigi con legno di ginepro e rinvia l'oca. Poi benedice il cavallo e con l'aiuto di alcuni presenti l'uccide in modo crudele, rompendogli la colonna vertebrale cosi che nessuna goccia di sangue cada per terra o spruzzi i sacrificatori. Secondo Potanin, presso la tavola sacrificale vengono fissate due pertiche che portano, in cima, uccelli di legno; una corda, alla quale vengono sospesi rami verdi e una pelle di lepre collega le due pertiche. Presso i Dolgani, delle pertiche con uccelli di legno in cima stanno a rappresentate le colonne cosmiche. Quanto all'uccello, esso, naturalmente, simbolizza il potere magico di volare posseduto dallo sciamano. La pelle e le ossa vengono esposte, sospese ad una lunga pertica (Stesso modo di sacrificare il cavallo e le capre in altre tribù altaiche e presso i Teleuti, il sacrificio specifico della testa e delle ossa lunghe, le forme più pure del quale noi le incontriamo fra le popolazioni artiche). Dopo aver proceduto a offerte agli antenati e agli spiriti protettori della yurta, si prepara la carne e la si mangia ritualmente, i migliori bocconi essendo riservati allo sciamano.

La seconda parte della cerimonia, che è la più importante, ha luogo la sera successiva. È allora che lo sciamano darà saggio delle sue capacità magiche in un viaggio estatico fino al soggiorno celeste di Bai Ulgan. Il fuoco arde nella yurta. Lo sciamano offre carne di cavallo ai Signori del tamburo, cioè agli spiriti personificanti le potenze sciamaniche della sua famiglia, e canta:

Accetta questo boccone, o Kaira Khan! Signore del tamburo a sei rilievi Vieni verso di me rintoccando!

Se grido ciok!, inchìnati!

Se grido mal, accetta questo!

Egli si rivolge in egual modo al Signore del Fuoco, che simboleggia la sacra potenza del proprietario della yurta, organizzatore della festa. Alzando una coppa, lo sciamano imita con le labbra il rumore di un'assemblea di invitati invisibili che bevono; poi taglia pezzi del cavallo per distribuirli ai presenti (che stanno a rappresentare gli spiriti), i quali li divorano rumorosamente. Infine lo sciamano suffumiga nove vesti sospese ad una corda come offerta del padrone di casa a Bai Ulgan, e canta:

Doni che nessun caualto può portare, Alàs! Alès! Alàs!

Che nessuno può sollevare,

Alàs! Alàs! Alàs!

Vesti a triplo bavero. rivoltale tre volte e guardale,

che siano una gualdrappa per il destriero Alàs! Alàs! Alàs!

Principe Ulgan, tu, tesoro di gioia! ...

Indossato il costume sciamanico, il kam si siede su di una panca e mentre suffumiga il suo tamburo comincia ad invocare una moltitudine di spiriti, grandi e piccoli, i quali rispondono a turno: «Eccomi, kam!». Cosi egli invoca Yayyk Khan, lo Spirito del Mare, Kaira Khan, Paisyn Khan, poi la famiglia di Bai Ulgan (la Madre Tasygan con nove figlie alla destra e sette figlie alla sinistra), infine i Signori e gli Eroi di Abakan e d'Altai (Mordo Khan, Altai Khan, Oktu Khan, ecc.). Terminata questa lunga invocazione egli si rivolge a Markiìt, l'Uccello-del-Cielo:

Uccello celeste, i cinque Markiit

Voi, coi vostri potenti artigli di bronzo, Gli artigli della luna son di rame

E il rostro della luna è di ghiaccio; Possente è il battito delle tue lunghe ali, La tua lunga coda è simile a un ventaglio. La tua ala sinistra nasconde la luna,

La tua ala destra nasconde il soie,

Tu, madre delle nove aquile.

Senza smarrirti voli su Yaik,

Tu non sei stanca al disopra di Edil! Vieni da me cantando!

Giocando, avvicìnati al mio occhio destro, Pòsati sulla mia spalla destra!

Lo sciamano imita il grido di questo uccello per annunciarne la presenza: Kazak, kak, kak! Eccomi, kam! - e ciò facendo piega una spalla, quasi cedesse al peso di un enorme uccello.

La chiamata degli spiriti continua e il tamburo si fa pesante. Munito di questi protettori numerosi e potenti, lo sciamano compie più volte il giro della betulla piantata all'interno della yurta. Essa simbolizza l'Albero del Mondo che si trova in mezzo all'Universo, l'Asse cosmico che collega il Cielo, la Terra e l'Inferno; le sette, nove o dodici tacche (tapty) stanno a rappresentare i «Cieli», i piani celesti. Si noti che il viaggio estatico dello sciamano si compie sempre presso al «Centro del Mondo». Ricordiamo che presso i Buriati la betulla sciamanica è chiamata udesbi-burkben, «il guardiano della porta», perché dischiude allo sciamano l'ingresso del Cielo. Lo sciamano poi s'inginocchia davanti alla porta per pregare lo Spirito-Portiere di dargli una guida. Avuta una risposta favorevole, ritorna al centro della yurta battendo il tamburo e tacendo mosse convulsive col corpo, mormorando nel contempo parole inintelligibili. Poi col tamburo purifica tutti, a cominciare dal padrone della casa. È una cerimonia lunga e complessa che si chiude con l'esaltazione dello sciamano. Questo è anche il segnale dell'ascensione propriamente detta, perché poco dopo lo sciamano si pone d'un tratto sulla prima tacca (tapty) della betulla continuando a battere con forza il tamburo e gridando: ciok! ciok! Fa anche dei movimenti per indicare che egli sta innalzandosi verso il cielo. In «estasi» fa il giro della betulla e del fuoco, imitando il rumore del tuono, poi raggiunge rapidamente una panca su cui è stata distesa una gualdrappa di cavallo. Questa rappresenta l'anima del pura, cioè del cavallo sacrificato. 10 sciamano vi monta sopra ed esclama:

Son montato su di un gradino! Aikhai! Aikhai!

Ho raggiunta una regione (celeste) ! ... Shagarbata!

Mi sono arrampicato sino alla cima dei tapty! ... Shagarbata!

Mi sono innalzato fino alla luna piena! ... Shagarbata!.

Evidentemente, tutto ciò è una esagerazione dovuta all'ebbrezza che si lega alla prima rottura di livello cosmico: giacché lo sciamano, di fatto, ha raggiunto solo il primo cielo, non si è arrampicato fino all'ultimo dei tapty, anzi non ha nemmeno raggiunto la luna piena, il cui luogo è il sesto cielo.

Mentre continua a battere il tamburo lo sciamano si eccita sempre più e ordina a Bash-tut-kan-kishi di affrettarsi. E infatti l'anima della «persona che tiene la testa» abbandona il corpo, come lo fa, nello stesso punto, l'anima del cavallo sacrificato. Il Bash-tut-kan-kishi si lamenta a causa della difficoltà del cammino, e lo sciamano l'incoraggia. Poi, col salire sul secondo tapty, penetra simbolicamente nel secondo cielo ed esclama:

Ho attraversato il secondo soffitto, Son salito sul secondo gradino, Guarda! il soffitto è caduto in pezzi! ...

E, imitando nuovamente la folgore e il tuono, proclama:

Shagarbata! Shagarbata!

San salito sul secondo gradino! ecc.

Nel terzo cielo il pura appare assai stanco e, per assisterlo, lo sciamano chiama l'oca. L'uccello si presenta: «Kagak, kagak! Eccomi qui, kam!». Lo sciamano l'inforca e continua il suo viaggio celeste. Descrive l'ascensione e imita le grida dell'oca, la quale, a sua volta, si lamenta per le difficoltà del viaggio. Nel terzo cielo si fa una sosta. Ciò dà occasione allo sciamano di parlare della stanchezza sua e della sua cavalcatura. Dà anche ragguagli sul tempo che farà, sulle epidemie e sulle disgrazie che minacciano la collettività e sui sacrifici che questa dovrà compiere.

Dopo che il Bash-tut-kan-kishi si è ben riposato, il viaggio prosegue. Lo sciamano si arrampica su ciascuna delle tacche della betulla, penetrando così successivamente nelle altre regioni celesti. Per dare al tutto una certa animazione, vengono inseriti episodi vari, alcuni alquanto grotteschi: egli offre tabacco a Karakush, l'Uccello Nero al servigio dello sciamano, e Karakush caccia il cuculo; dà da bere al pura imitando il rumore di un cavallo che si abbevera. Infine il sesto cielo è teatro di un ultimo, comico episodio: la caccia ad una lepre (La lepre essendo un animale lunare, è naturale che la caccia ad essa avvenga nel sesto cielo, che è il cielo della Luna.). Nel quinto cielo aveva avuto luogo una lunga conversazione dello sciamano col potente Yayutshi (il «Creatore Supremo») che gli aveva rivelato vari segreti concernenti l'avvenire: alcuni trasmessi ad alta voce, altri mormorati.

Nel sesto cielo lo sciamano s'inchina dinanzi alla luna - e dinanzi al sole nel settimo. Attraversa l'un cielo dopo l'altro finché arriva al nono e, se egli è davvero potente, giunge fino al dodicesimo cielo e più oltre ancora; l'ascesa dipende esclusivamente dalla forza dello sciamano. Quando ha raggiunto ciò che per la sua potenza rappresenta il punto apicale, lo sciamano si arresta, lascia cadere il tamburo e invoca umilmente Bai Ulgan nei seguenti termini:

Dio, a cui conducono tre scale,

Bai Ulgan, signore di tre greggi, L'azzurro declivio che sta comparendo, L'azzurro cielo che si mostra,

L'azzurra nube che rapidamente si volge, Inaccessibile cielo azzurro!

Inaccessibile cielo bianco!

Luogo a un anno di distanza dall'acqua! Padre Ulgiin tre volte esaltato!

Per cui splendono i cigli della luna, Che impiega lo zoccolo del cavallo

Tu, Ulgan, che hai creato tutti gli umani Che si muovono a noi d'intorno.

Tu, Ulgan, hai dotato noi tutti di greggi! Non lasciarci in preda della sofferenza!

Fa' che possiamo resistere al Malvagio, Non mostrarci Kormos (lo spirito cattivo) Non darci nelle sue mani

Tu che hai fatto girare il cielo stellato Mille e mille volte!

Non condannare i miei peccati!

Lo sciamano apprende da Bai Ulgan se il sacrificio è stato gradito e riceve delle predizioni sul tempo e il nuovo raccolto; viene anche a sapere quale altro sacrificio sia atteso dalla divinità. Quest'episodio segna il punto culminante del1'«estasi»: dopo di che lo sciamano s'abbatte al suolo, esausto. Il Bash-tut-kan-kishi gli si avvicina e raccoglie il tamburo e il bastone. Lo sciamano resta immobile e muto. Dopo un certo tempo si strofina gli occhi, sembra destarsi da un sonno profondo e saluta i presenti come se tornasse dopo una lunga assenza.

Talvolta la festa si conchiude cosi; ma più spesso, specie quando essa è celebrata presso famiglie ricche, essa dura ancora un giorno, che viene passato fra libagioni agli dèi e banchetti nei quali vengono consumate quantità enormi di bevande alcooliche. Harva riproduce il disegno di uno sciamano altaico raffigurante l'ascensione celeste in occasione del sacrificio del cavallo. Anochin pubblica testi di poemi e preghiere recitati durante l'ascensione dello sciamano al cielo, nel quadro del sacrificio a Karshiit, che è il figlio più popolare di Bai Olgiin. Amschler presenta le osservazioni di Verbitsky sul sacrificio del cavallo presso i Telengiti dell'Altai. Zelenin descrive il sacrificio del cavallo presso i Cumandini dell'Altai, rito che segue da presso quello descritto da Radlov, benché non vi figuri il viaggio celeste dello sciamano che va a presentare l'anima del cavallo a Sulta-Khan (= Bai Ulgan). Presso i Tartari Lebed il cavallo vien sacrificato alla prima luna piena dopo il solstizio d'estate: lo scopo è d'ordine «agrario» («affinché il grano cresca») ma è possibile che qui si abbia a che fare con una sostituzione tardiva. La stessa «agrarizzazione» del sacrificio del cavallo la si ritrova fra i Teleuti (sacrificio del 20 luglio, «nei campi»). I Buriati praticano egualmente il sacrificio del cavallo, ma lo sciamano non v'ha parte alcuna; si tratta d'una cerimonia caratteristica dei popoli allevatori di cavalli.

 

 

 

 

 

 

Bai Ulgan e lo sciamano altaico

back to index

 

Intorno al rituale ora analizzato faremo solo qualche osservazione. È chiaro che esso si compone di due parti, che non sono affatto inseparabili: a) il sacrificio all'Essere celeste; b) l'ascesa simbolica dello sciamano e il suo comparire, insieme all'anima della bestia sacrificata, dinanzi a Bai Ulgan. Nelle forme che hanno ancora potuto essere constatate nel XIX secolo il sacrificio altaico del cavallo rassomigliava ai sacrifici offerti agli Esseri supremi celesti nell'estremo Nord dell'Asia e non appariva dissimile da riti noti anche altrove nelle religioni più antiche e non richiedenti affatto la presenza di uno sciamano-sacrificatore. E si è già detto che diversi popoli turchi conoscono questo stesso sacrificio del cavallo offerto all'Essere celeste, senza che per questo ricorrano a degli sciamani. Il sacrificio del cavallo era anche praticato dalla maggior parte dei popoli indoeuropei, sempre con riferimento ad un dio celeste o ad un dio delle tempeste. È dunque legittimo supporre che la parte che lo sciamano ha nel rito altaico sia recente e miri a scopi diversi che non la semplice offerta dell'animale all'Essere supremo.

La seconda osservazione riguarda lo stesso Bai Ulgan. Benché egli abbia attributi celesti, pure v'è ragione di credere che egli non sia un dio supremo nettamente uranico, o che lo sia stato sempre. Egli presenta piuttosto i tratti di un dio dell'«atmosfera» e della fertilità, perché ha una paredra e numerosa prole, e sta in relazione con la fecondità delle greggi e con la ricchezza dei raccolti. Il vero dio celeste supremo degli Altaici sembra essere Tengere Kaira Khan («il misericordioso Signore Cielo») a giudicare dalla sua struttura affine al Num samoiedo e al Tengri - «Cielo» - turco-mongolo. È Tengere Kaira Khan che, nei miti concernenti la cosmogonia e la fine del mondo, ha la parte principale - mentre Bai Ulgan vi è del tutto assente. È notevole che per lui non sia previsto alcun sacrificio, mentre se ne offrono in gran copia a Bai Ulgan e a Erlik Khan. Ma questa esclusione di Tengere Kaira Khan dal culto è il destino di quasi tutti gli dèi uranici. È probabile che in origine il sacrificio del cavallo fosse offerto a Tengere Kaira Khan; infatti abbiamo visto che il rito altaico rientra nella categoria dei sacrifici della testa e delle ossa lunghe, sacrifici che sono specifici per le divinità celesti artiche e nordasiatiche. A tale riguardo vogliamo anche ricordare che nell'India vèdica il sacrificio del cavallo (açvamedha), originariamente offerto a Varuna e, verosimilmente, a Dyaus, ha finito con l'esser dedicato a Prajàpati e perfino a Indra. Questo fenomeno di sostituzione progressiva di un dio dell'atmosfera (e, nelle religioni agricole, di un dio fecondatore) a un dio celeste è frequentissimo nella storia delle religioni.

Come tutti gli dèi dell'atmosfera e della fecondità in genere, Bai Ulgàn è meno lontano, meno distaccato dalle divinità uraniche pure; egli si interessa alla sorte degli umani e li aiuta nelle loro bisogna quotidiane. La «presenza» di questo dio è più concreta, il «dialogo» con lui è più «umano» e più «drammatico». È lecito supporre che è stato grazie ad una esperienza religiosa più concreta e morfologicamente più ricca che lo sciamano è riuscito a soppiantare, nel sacrificio del cavallo, l'antico sacrificatore, proprio come Bai Ulgan aveva sopraffatto l'antico dio celeste. Il sacrificio diviene ora una specie di «psicoforia» che si conclude con un incontro drammatico fra il dio e lo sciamano e con un loro dialogo concreto (perché lo sciamano giunge talvolta fino ad imitare la voce del dio).

È facile capire la ragione per cui lo sciamano che, fra tutte le varietà dell'esperienza religiosa, è attratto dalle forme «estatiche» per eccellenza, è riuscito a far sua la funzione principale nel sacrificio altaico del cavallo: la sua tecnica dell'estasi gli permette di abbandonare il corpo e di intraprendere il viaggio celeste. Gli è dunque facile ripetere un tale viaggio conducendo seco l'anima dell'animale sacrificato per presentarla direttamente e in modo concreto a Bai Ulgàn, Che in ciò si tratti di una sostituzione, probabilmente abbastanza tardiva, lo prova anche il fatto della mediocre intensità della trance. Nel sacrificio descritto da RadIov l'estasi è nettamente imitata. In effetti, lo sciamano mima laboriosamente un'ascensione - secondo il canone tradizionale: volo d'uccello, cavalcata, ecc. - e il rito è d'interesse più drammatico che non estatico. Con ciò non è affatto detto che gli sciamani altaici siano incapaci di trance: solo che queste si realizzano in sedute sciamaniche diverse da quelle del sacrificio del cavallo.

 

 

 

 

 

 

La discesa agli inferni (Altai)

back to index

 

L'ascensione celeste dello sciamano altaico ha per controparte la sua discesa agli Inferni. Questa cerimonia è assai più difficile e benché essa possa esser celebrata da sciamani che sono «bianchi» e «neri» ad un tempo, è naturalmente una specialità dei secondi. Radlov non è riuscito ad assistere a nessuna seduta sciamanica di discesa agli Inferni. Anochin, che ha raccolti i testi di cinque cerimonie di ascensione, ha trovato un solo sciamano (Mampiìi) che ha acconsentito a ripetergli le formule di una seduta di discesa agli Inferni. Mampiii, suo informatore era uno sciamano «bianco e nero»; forse è per tale ragione che nella sua invocazione a Erlik (= Arlik) Khan egli fa anche cenno a Bai Ulgan Anochin, dà soltanto i testi della cerimonia, senza informazioni circa il rituale propriamente detto.

Secondo questi testi sembra che lo sciamano discenda verticalmente per le sette «scale» o regioni sotterranee, chiamate pudak («ostacoli»), percorrendole l'una dopo l'altra, accompagnato dagli antenati e dagli spiriti ausiliari. Nel punto di superare ognuno di questi «ostacoli», egli descrive una corrispondente, nuova epifania sotterranea: la parola «nero» ricorre quasi in ogni verso. Al secondo «ostacolo» sembra che egli accenni a certi rumori metallici; al quinto ode un rumore di onde e il sibilo del vento; infine, al settimo, dove sboccano anche i nove fiumi sotterranei, scorge il palazzo di Erlik Khan, fatto di pietra e di argilla nera e difeso da ogni parte. Giunto dinanzi a Erlik lo sciamano pronuncia una lunga preghiera (nella quale menziona anche Bai Ulgan, «quello d'in alto»), poi ritorna nella yurta e comunica agli spettatori i risultati del suo viaggio.

Potanin ci ha dato un'ottima descrizione del rituale della discesa - però senza i testi - basata sulle informazioni di un prete ortodosso, Civalkov, che in gioventù aveva assistito a varie cerimonie, partecipando perfino al coro. Fra il rituale descritto da Potanin e i testi raccolti da Anochin si possono riscontrare alcune differenze, dovute senza dubbio al fatto che si tratta di tribù diverse, oltreché al fatto che Anochin ha dato i soli testi delle invocazioni e delle preghiere, senza alcuna spiegazione circa il rituale. La differenza più sensibile è quella della direzione: verticale in Anochin, orizzontale e, poi, doppiamente verticale (ascesa seguita da discesa) in Potanin.

Lo sciamano comincia il suo viaggio nella sua stessa yurta. Prende la via del Sud, attraversa le regioni circostanti, sale sui monti Altai e, passando, descrive il deserto cinese di sabbia rossa. Poi attraversa a cavallo una steppa gialla che un avvoltoio non saprebbe sorvolare. «Per la forza dei canti l'attraverseremo!» grida lo sciamano rivolgendosi ai presenti e intonando un canto che essi riprendono in coro. Un'altra steppa, di color lino, che un corvo non riuscirebbe a sorvolare, gli si stende dinanzi. Lo sciamano usa di nuovo il potere magico del canto ed i presenti l'accompagnano in coro. Infine raggiunge la Montagna di Ferro, Temur taiksha, le cui vette toccano il Cielo. La scalata è perigliosa, lo sciamano mima la difficile ascensione, respirando profondamente esausto, quando raggiunge la cima.

Le ossa imbiancate di altri sciamani che non sono riusciti a raggiungere la cima per mancanza di forza, e quelle dei loro cavalli, sono disseminate per la montagna. Superato il monte, una nuova cavalcata conduce lo sciamano davanti ad un foro che è l'ingresso dell'altro mondo, yer mesi («le mascelle della Terra») o yer tunigi («il buco pel fumo della Terra»). Lo sciamano vi si avventura, raggiungendo dapprima un altopiano, poi un mare che egli attraversa passando su di un ponte della larghezza di un capello; per dare un'imagine viva del suo passaggio su tale ponte pericoloso barcolla e fa come se stesse per cadere. In fondo al mare scorge le ossa di innumerevoli sciamani che vi sono caduti, inquantoché i peccatori sono incapaci di attraversare il ponte. Lo sciamano passa per il luogo ove i peccatori vengono tormentati e fa in tempo a scorgere un uomo che, in vita, era uso origliare alle porte, inchiodato per un orecchio ad un pilastro; un altro, che era stato un calunniatore, è appeso per la lingua, un ghiottone è circondato da cibi squisiti che egli però non può toccare, e via dicendo.

Passato il ponte, lo sciamano sale di nuovo a cavallo dirigendosi verso la residenza di Erlik Khan. Riesce a entrarvi malgrado i cani che la custodiscono e il portiere che, alla fine, si lascia convincere grazie a dei regali (birra, manzo bollito e pelli di mofola erano stati preparati a tal fine prima della partenza dello sciamano). Ricevuti i regali, il portiere lascia entrare lo sciamano nella yurta di Erlik. Qui ha inizio la scena più movimentata. Lo sciamano si dirige verso l'ingresso della tenda nella quale si svolge la seduta e fa le mosse di avvicinarsi a Erlik. D'improvviso lo sciamano si mette a gridare, per significare che il dio lo ha visto e che è molto adirato. Lo sciamano si rifugia presso l'entrata della tenda e la scena si ripete tre volte. Infine Erlik Khan gli rivolge la parola: «Coloro che hanno piume non possono volare fin qui, coloro che hanno artigli non possono giungere fin qui; tu, scarafaggio nero e disgustoso, donde sei venuto?».

Lo sciamano dice il nome suo e quello degli antenati, invitando Erlik a bere; fa le mosse di versar del vino nel suo tamburo e l'offre al Re dell'Inferno. Erlik l'accetta, comincia a bere e lo sciamano lo imita, fino a riprodurre i suoi singulti. Poi offre a Erlik un bove che era stato ucciso in precedenza oltre a varie vesti e pelliccie, che erano state appese ad una corda. Lo sciamano nell'offrire tocca con la mano ciascuno di questi oggetti. Ma le pelliccie e le vesti restano in possesso del proprietario.

Nel frattempo Erlik si ubriaca completamente e lo sciamano mima laboriosamente le fasi della sua ebbrezza. Il dio diviene benevolo, lo benedice, promette il moltiplicarsi del bestiame, ecc. Lo sciamano se ne torna allora allegro sulla terra, a cavallo non di un destriero, ma di un'oca; nella yurta cammina in punta di piedi, come se volasse, imitando il grido dell'uccello: Naingak, naingak! La seduta ha fine, lo sciamano si siede, qualcuno gli prende il tamburo di mano e lo batte tre volte. L() sciamano si stropiccia gli occhi, come se si svegliasse. Gli si domanda: «La cavalcata è andata bene? Siete riuscito?». E lui risponde: «Ho fatto un viaggio magnifico. Sono stato ricevuto molto bene!».

Queste discese agli Inferni vengono specialmente intraprese per cercare e ricondurre l'anima di un malato. Più oltre riferiremo diversi racconti siberiani aventi per oggetto questo viaggio. Naturalmente, la discesa dello sciamano può avvenire anche per uno scopo opposto, e cioè per accompagnare l'anima di un defunto fino al regno di Erlik.

Avremo occasione di confrontare i due tipi di viaggio estatico - in Cielo e negli Inferni - e di indicare gli schemi cosmografici che essi implicano. Pel momento, esaminiamo un po' più da presso questo rituale di discesa descritto da Potanin. Alcuni dettagli sono specifici delle discese infernali: ad esempio, il cane e il custode che impediscono l'accesso al regno dei morti.

È, questo, un motivo ben noto delle mitologie infernali, che avremo occasione di incontrare più d'una volta in seguito. Meno specificamente infernale è il motivo del ponte stretto come un capello: il ponte simbolizza il passaggio che conduce nell'aldilà, ma non necessariamente agli Inferni; solo i colpevoli non riescono ad attraversarlo e precipitano nell'abisso. Il passare per un ponte estremamente stretto che collega due regioni cosmiche significa anche il passare da un modo di essere ad un altro: dallo stato del non-iniziato a quello dell'iniziato, oppure dallo stato di «vivente» a quello di «morto»,

Il racconto di Potanin presenta diversi elementi incongrui: lo sciamano, cavalcando, si dirige verso il Sud, scala una montagna discendendo poi attraverso un foro nell'Inferno, da dove ritorna non più sul suo cavallo, bensì inforcando un'oca. Quest'ultimo dettaglio ha qualcosa di sospetto: non perché sia difficile imaginarsi un volo attraverso un foro che conduce agli Inferni, ma perché il volo a cavalcioni di un'oca ricorda l'ascesa dello sciamano in cielo. Molto probabilmente qui abbiamo a che fare con una contaminazione del tema della discesa con quello dell'ascesa. Nel folklore siberiano l'eroe viene spesso portato da un'aquila o da un altro uccello dalle profondità dell'Inferno alla superficie della terra. Presso i Goldi lo sciamano non può intraprendere il viaggio estatico agli Inferni senza l'aiuto di un uccello-spirito (koori) che gli assicura la possibilità di ritorno alla superficie terrestre: il tratto più difficile di questo viaggio di ritorno lo sciamano lo compie a cavallo del suo koori.

Quanto al fatto che lo sciamano vada dapprima a cavallo verso il Sud, salga su di un monte è solo dopo discende nella bocca dell'Inferno, si è voluto vedere in questo itinerario il vago ricordo di un viaggio verso l'India e si è perfino tentato di riferire le visioni infernali alle imagini che si potrebbero trovare nei templi-caverna del Turkestan o del Tibet. Influenze meridionali, in ultima istanza indiane, si sono indubbiamente esercitate sulle mitologie e sulle varietà del folklore centro-asiatico. Solo che queste influenze hanno convogliato una geografia mitica, e non vaghi ricordi di una geografia reale (orografia, itinerari, templi, caverne, ecc.). È probabile che l'Inferno di Erlik sia stato ricalcato su modelli irano-indiani, ma la discussione di questo problema ci condurrebbe troppo lontano e noi vogliamo riservarla per qualche altro nostro studio.

 

 

 

 

 

 

Lo sciamano psicopompo (Altaici, Goldi, Yuraki)

back to index

 

I popoli dell'Asia settentrionale concepiscono l'altro mondo come una imagine invertita del nostro. In esso tutto accade come qui, ma a rovescio: quando è giorno sulla terra, là è notte (per questa ragione le feste dei morti hanno luogo verso il tramonto: è allora che essi si destano e cominciano la loro giornata); all'estate dei vivi corrisponde nell'aldilà l'inverno; se la cacciagione o il pesce è raro sulla terra, è segno che esso abbonda nell'altro mondo, e via dicendo. I Beltiri mettono le redini e la bottiglia del vino nella sinistra del morto: perché questa corrisponde alla mano destra sulla terra. E tutto. ciò che è invertito sulla terra, è in posizione normale presso i morti: è per tale motivo che gli oggetti che si pongono sulla tomba ad uso del morto, vengono rovesciati, se non addirittura spezzati, perché ciò che è spezzato quaggiù è intatto nell'altro mondo, e viceversa.

L'imagine invertita appare egualmente nella concezione degli stadi inferiori (gli «ostacoli», pudak, che lo sciamano oltrepassa nella sua discesa). I Tartari siberiani conoscono sette o nove regioni sotterranee; i Samoiedi parlano di nove strati sottomarini. Ma poiché i Tungusi e gli Yakuti ignorano questi piani infernali, è verosimile che la concezione tartara abbia una origine esotica (Harva).

La geografia funeraria dei popoli del centro e del settentrione dell'Asia è alquanto complessa, perché è stata continuamente contaminata dall'invasione di idee religiose di origine meridionale. I morti si dirigono sia verso il Nord, sia verso l'Ovest (Harva). Ma si incontra anche l'idea che i buoni s'innalzano verso il Cielo, mentre i peccatori scendono al disotto della terra (ad esempio, presso i Tartari dell'Altai; cfr. Radlov); comunque, questa valutazione morale degli itinerari dell'oltretomba sembra essere una innovazione alquanto tardiva (Harva), Gli Yakuti credono che, dopo morti, sia i buoni che i cattivi salgano al Cielo, dove le loro anime (kut) assumono forma di uccello (Harva). È verosimile che queste anime vadano a posarsi sui rami dell'Albero del Mondo, imagine mitica che incontreremo anche altrove. D'altra parte secondo gli Yakuti gli spiriti malvagi (abasy) che sono essi stessi anime di morti, abitano sotto terra: per cui è evidente che noi qui abbiamo a che fare con una doppia tradizione religiosa. Secondo Sieroszewski certi Yakuti situano il regno dei morti «al di là del settimo cielo, a settentrione, in una contrada ove regna la notte eterna, ove un vento glaciale soffia incessantemente, ove riluce il pallido sole del Nord, ove la luna si mostra solo rovesciata e i giovani e le giovani restano eternamente vergini» ... ; mentre secondo altri sotto la terra esisterebbe un altro mondo del tutto simile al nostro, che si può raggiungere grazie all'apertura lasciata dagli abitanti di tali regioni sotterranee per la loro aereazione.

E s'incontra anche la concezione secondo la quale certi privilegiati, il cui corpo viene arso, salgono insieme al fumo in Cielo, dove trascorreranno una esistenza del tutto simile alla nostra. È quel che i Buriati pensano nel riguardo dei loro sciamani, e la stessa credenza la si ritrova fra i Ciukci e i Coriachi (vedi più giù). L'idea che il fuoco assicuri un destino celeste post-mortem viene anche confermata dalla credenza, che coloro che sono colpiti dalla folgore volano in cielo. Il «fuoco», quale pur sia la sua natura, trasforma l'uomo in «spirito»; per tale ragione gli sciamani son considerati come dei «signori del fuoco» e non risentono del contatto di carboni ardenti. Il «dominio del fuoco» o l'incinerazione equivalgono in un certo modo ad una inizi azione. Una idea del genere fa da substrato alla concezione, secondo cui gli eroi e tutti i morti di morte violenta salgono al Cielo (Harva): la loro morte viene considerata come una iniziazione. Invece la morte dovuta ad una malattia può condurre il defunto soltanto agli Inferni, inquantoché la malattia è causata dagli spiriti malvagi o dai morti. Quando qualcuno si ammala gli Altaici e i Telengiti dicono che «sta per esser mangiato dai kormos (dai morti)». E di qualcuno che è morto si usa dire: «È stato mangiato dai kormos» (Harva).

È per tal motivo che i Goldi, quando seppelliscono un morto e prendono congedo da lui, lo pregano di non prender seco la vedova e i figli. Gli Uiguri gialli gli rivolgono queste parole: «Non prender con te tuo figlio, non prender con te il tuo bestiame, né i tuoi beni!». E se accade che la vedova, o i figli, o gli amici decedano poco dopo la morte di qualcuno, i Teleuti pensano che questi ne ha portato con sé le anime (Harva). I sentimenti che qui si nutrono nel riguardo dei morti sono ambivalenti: per un lato, essi sono venerati, sono invitati ai banchetti funebri, a poco a poco sono considerati come spiriti protettori della famiglia - ma in pari tempo si ha paura di essi e si prendono precauzioni d'ogni specie per impedire che essi ritornino fra i viventi. Di fatto, questa ambivalenza può essere ricondotta a due attitudini opposte e successive: si temono i morti recenti, mentre si venerano coloro che sono morti da un certo tempo e da essi ci si attende anzi una protezione. La paura per i morti è dovuta al fatto che, sul principio, nessun trapassato accetta il suo nuovo modo d'essere: egli non vuol rinunciare a vivere e cerca di tornare presso i suoi. È questa tendenza che disturba l'equilibrio spirituale della società: non essendo ancora aggregato al mondo dei trapassati, il morto recente cerca di condurre seco la famiglia e gli amici, se non pure il suo stesso bestiame; egli vuol continuare la sua esistenza bruscamente interrotta, vuole cioè «vivere» fra i suoi. Per cui, si teme meno la cattiveria del morto che non la sua ignoranza della sua nuova condizione, il suo rifiuto a lasciare definitivamente «il suo mondo».

Da qui tutte le precauzioni prese per impedire il ritorno del morto al villaggio: si va per un'altra via al ritorno dal cimitero onde disorientare l'anima del morto, si lascia in fretta la tomba e ci si purifica non appena tornati a casa, nel cimitero si distruggono tutti i mezzi di trasporto (traini, carretta, ecc., tutte cose che serviranno ai morti nel loro nuovo mondo), infine per qualche notte di seguito si fa la guardia sui sentieri che conducono al villaggio e si accendono dei fuochi (Harva). Però tutte queste precauzioni non impediscono che le anime dei morti vaghino intorno alle loro case per tre o sette giorni. Un'altra idea si precisa, in relazione a questa stessa credenza, e cioè che i morti non prendono definitivamente la via verso l'aldilà che dopo il banchetto funebre che si tiene in loro onore tre, sette o quaranta giorni dopo il decesso. Molto probabilmente queste credenze dei popoli altaici risentono dell'influenza del cristianesimo e dell'islamismo. I Teleuti chiamano uzut pairamy il banchetto funerario che ha luogo o sette, o quaranta giorni o un anno dopo la morte; lo stesso nome di pairam tradisce una origine meridionale (persiano: bairam, «festa»). V'è anche l'usanza di onorare il morto quarantanove giorni dopo il decesso, usanza che attesta una influenza lamaica. Ma v'è da supporre che coteste influenze meridionali si siano innestate su di un'antica festa dei morti, mutandone alquanto il significato. Infatti la «veglia del morto» è una usanza largamente diffusa che per scopo primo ha un simbolico accompagnare il morto nell'aldilà, o la recitazione dell'itinerario infernale che questi deve seguire per non smarrirsi. A tale riguardo il Libro dei morti tibetano rimanda ad elementi ben anteriori al lamaismo: invece di accompagnare il morto nel suo viaggio d'oltretomba (come fa lo sciamano siberiano o indonesiano) il lama gli ricorda tutti gli itinerari possibili per un trapassato (come le prefiche indonesiane, ecc.. Importante è il numero mistico 49 (7 x 7) in Cina, in Tibet, presso i Mongoli.

In questa occasione vengono loro offerti dei cibi, che si gettano nel fuoco; si visita il cimitero; si sacrifica il cavallo preferito del trapassato, lo si mangia vicino alla tomba e si appende la testa della bestia ad un palo che poi si conficca sulla tomba (Tartari Abakan, Beltiri, Sagai, Karghinzi, ecc.). In tale occasione si procede anche ad una «purificazione» della dimora del morto, operazione eseguita da uno sciamano, che implica la ricerca drammatica dell'anima del trapassato e la sua espulsione definitiva ad opera dello sciamano (Teleuti). Alcuni sciamani altaici per sicurezza accompagnano perfino l'anima del morto agli Inferni e per non esser riconosciuti dagli abitanti delle regioni infere s'impiastricciano il viso con del grasso (Radlov). Presso i Tungusi di Turushansk si ricorre allo sciamano nel solo caso in cui il morto continui ad infestare i luoghi familiari molto tempo dopo i suoi funerali (Harva).

La parte dello sciamano nel complesso funerario altaico e siberiano risulta ben chiara in base alle usanze or ora indicate. Lo sciamano diviene indispensabile quando il morto indugia a lasciare il mondo dei vivi. Soltanto in tal caso lo sciamano può fare da psicopompo: per un lato, egli conosce perfettamente la via degli Inferni, avendola lui stesso percorsa ripetutamente; dall'altro, lui solo può catturare l'anima inafferrabile del trapassato e condurla nella sua nuova residenza. Il fatto che il viaggio psicopompo non abbia luogo subito dopo il decesso ma in occasione del banchetto funebre e della cerimonia di «purificazione», sembrerebbe indicare che per un certo tempo - tre, sette o quaranta giorni - l'anima del morto risiede ancora nel cimitero e che è solo dopo questo periodo che essa si dirigerebbe definitivamente verso gli Inferni (Devesi tuttavia tener conto che per la maggior parte dei popoli turco-tartari e siberiani l'uomo ha tre anime delle quali almeno una resta sempre nella tomba). In ogni caso, presso certi popoli (come gli Altaici, i Goldi, gli Yuraki) lo sciamano conduce i morti nell'aldilà alla fine del banchetto funebre, mentre presso altre popolazioni (Tungusi) egli è chiamato ad assolvere la funzione di psicopompo solo se il morto, una volta trascorso il termine normale, continua ad infestare i luoghi dei vivi. Se si tien conto che presso altre genti praticanti una specie di sciamanismo (come per es. i Lolo) lo sciamano è tenuto ad avviare tutti i morti indistintamente verso la loro definitiva dimora, v'è ragione di pensare che in origine cotesta situazione era generale nell'Asia settentrionale e che certe innovazioni (come quella dei Tungusi) sono tardive.

Ecco come Radlov descrive la seduta organizzata per condurre l'anima di una donna morta da quaranta giorni. La cerimonia ha luogo di sera. Lo sciamano fa anzitutto il giro della yurta suonando il tamburo; poi entra nella tenda e, avvicinatosi al fuoco, invoca la morta. Ad un tratto la sua voce cambia: egli comincia a parlare con un tono acuto di testa, perché, in realtà, è la morta che parla attraverso lui. Essa si duole per il fatto di non conoscere la via, non vuole allontanarsi dai suoi, e via dicendo, ma alla fine acconsente ad essere guidata dallo sciamano, e i due partono alla volta del regno sotterraneo. Giuntivi, lo sciamano si vede rifiutare dalle anime dei morti l'ingresso della nuova venuta. Le preghiere non hanno effetto; allora si offre loro dell'acquavite. A poco a poco la seduta si anima, fino a farsi grottesca, inquantoché le anime dei morti, attraverso la voce dello sciamano, cominciano a litigare e a cantare tutte insieme. Infine essi si decidono ad accogliere la defunta. La seconda parte del rituale comprende il viaggio di ritorno; lo sciamano danza e grida finché cade a terra, privo di sensi (Radlov).

I Goldi conoscono due cerimonie funebri: il nimgan, che ha luogo sette giorni dopo il decesso, quand'anche non ancor più oltre (fino a due mesi), e il kazatauri, grande cerimonia che si celebra poco dopo la prima e che si conclude con l'avviamento dell'anima agli Inferni. Durante il nimgan, lo sciamano entra nella casa del morto con il suo tamburo, cerca l'anima, la cattura e la fa entrare in una specie di cuscino (fania) (In origine il termine fania (fan'a) significava «ombra» «anima-ombra» (Schattenseele), ma ha finito per designare pure il ricettacolo materiale dell'anima;). Segue il banchetto cui prendono parte tutti i parenti e gli amici del defunto presente nel lania; lo sciamano offre a costui dell'acquavite. Il kazatauri comincia allo stesso modo. Lo sciamano indossa il costume, e parte col tamburo alla ricerca dell'anima nelle adiacenze della yurta. In pari tempo danza e narra delle difficoltà del cammino che conduce agli Inferni. Finalmente cattura l'anima e la riporta nella casa, ove la fa entrare nel cuscino (fania). Il banchetto si prolunga fino a notte alta e i cibi che restano vengono gettati nel fuoco dallo sciamano. Le donne portano un letto nella yurta, lo sciamano mette il fania nel letto, vi stende sopra una coperta e dice al morto di dormire. Lui stesso si stende a terra nella yurta e s'addormenta.

L'indomani indossa di nuovo il suo costume e ridesta il morto a suono di tamburo. Segue un nuovo banchetto e, venuta la notte - dato che la cerimonia può durare più giorni - lo sciamano rimette il fania a letto e lo copre d'una coperta. Infine una mattina lo sciamano comincia il suo canto e, rivolgendosi al morto, gli consiglia di mangiare molto ma di bere poco perché il viaggio all'Inferno si fa assai difficile per chi sia in stato d'ebbrezza. Al tramonto si fanno i preparativi per la partenza. Lo sciamano canta, balla, s'impiastriccia il volto di grasso. Invoca gli spiriti ausiliari e li prega di guidarli nell'aldilà, lui e il defunto. Lascia la yurta per qualche istante e sale su un albero con delle tacche, che era stato piantato in precedenza: di li vede il cammino degli Inferni (in realtà, egli' scala l'Albero del Mondo e si trova al vertice del mondo). In questa circostanza vede pure molte altre cose: neve abbondante, caccia copiosa, pesca fortunata, ecc.

Rientrando nella yurta, egli chiama in aiuto due potenti spiriti protettori: buciu, una specie di mostro piumato con un sol piede e con sembiante umano, e koori, un uccello dal collo lungo (esistono figurine di legno di questi esseri mitici, che lo sciamano porta seco nella discesa agli Inferni). Senza l'aiuto di questi due spiriti lo sciamano non potrebbe più ritornare dall'Inferno; la parte più difficile del cammino egli la fa a cavallo della koori.

Dopo aver «sciamanizzato» fino allo spossamento, egli si siede, rivolto ad Occidente, su di una panca che rappresenta un traino siberiano. Vicino, gli si mette il cuscino (fenja) nel quale è stata incorporata l'anima del morto, e una cesta con del cibo. Lo sciamano prega gli spiriti di attaccare i cani al suo traino chiedendo anche un «valletto» che gli tenga compagnia nel viaggio. Qualche minuto dopo è già «partito» alla volta del paese dei morti.

I canti che egli intona, le parole che scambia col «valletto» permettono di seguire il suo itinerario. Sulle prime il cammino è facile, ma via via che ci si avvicina al regno dei morti le difficoltà si moltiplicano. Un gran fiume sbarra il cammino ed occorre essere un buono sciamano per poterlo oltrepassare e raggiungere l'altra riva. Più oltre s'incominciano a scorgere segni di umana attività: traccie di passi, ceneri, pezzi di legno: il villaggio dei morti non è più lontano. Difatti si sentono, vicini, cani che abbaiano, si scorge il fumo delle yurte, si incontrano le prime renne. Si è arrivati agli Inferni. Subito i morti si radunano e chiedono allo sciamano il suo nome e quello del nuovo venuto. Lo sciamano si guarda dal dire come davvero si chiama; fra la folla degli spiriti cerca i parenti più prossimi dell'anima che ha guidato, per affidarla ad essi. Poi si affretta a tornare in terra e, una volta tornato, racconta estesamente quel che ha visto nel paese dei morti e le impressioni del trapassato che ha accompagnato là. A ciascuno dei presenti egli porta i saluti dei loro parenti morti e distribuisce perfino dei piccoli regali da parte loro. Finita la cerimonia, lo sciamano getta il cuscino (fanja) nel fuoco. Col che sono assolti gli obblighi propriamente detti che i vivi hanno nei confronti del trapassato. Cerimonia analoga presso i Tungusi. Sulla cerimonia tibetana della «proiezione» dell'anima del morto in un'effigie allo scopo di evitarle una reincarnazione nei mondi inferiori.

Una cerimonia analoga vien celebrata presso gli Yuraki della foresta, nella Siberia centrale, a grande distanza dai Goldi. Lo sciamano cerca l'anima del morto e la conduce seco agli Inferni. Il rituale si svolge in due tempi: nel primo giorno si compie la discesa al paese dei morti, nel secondo lo sciamano ritorna solo sulla terra. I canti che egli intona permettono anche qui di seguire le sue avventure. Egli incontra un fiume ingombro di pezzi di legno; il suo spirito-uccello, jorra, gli apre una via attraverso questi ostacoli (verosimilmente si tratta di vecchi sci fuori uso degli spiriti). Un secondo fiume è pieno dei resti di vecchi tamburi sciamanici, un terzo è reso impraticabile da vertebre cervicali degli sciamani morti. Jorra riesce a sgombrare la via e lo sciamano giunge alle Grandi Acque oltre le quali si estende il paese delle ombre. In esso i morti continuano la stessa vita che avevano in terra: il ricco continua ad esser ricco. il povero resta povero. Ma essi ringiovaniscono e si preparano a rinascere sulla terra. Lo sciamano conduce l'anima verso il gruppo dei suoi parenti. Quando incontra il padre del morto questi esclama: «To', ecco mio figlio!», Per il ritorno, lo sciamano prende una via diversa, e nuove avventure si succedono. Il racconto del viaggio di ritorno occupa un'intera giornata. Lo sciamano incontra un luccio, poi una renna, poi una lepre, ecc., fa ad essi la caccia, il che propizierà la stessa caccia sulla terra.

Gli Yuraki pensano che, degli umani, alcuni dopo la morte ascendono in cielo, ma il loro numero è assai esiguo e si riduce a coloro che sono stati pii e puri durante la loro vita terrena. L'ascensione celeste post-mortem riappare anche nei racconti: un vecchio, Vvriirie Seerradeetta, annuncia alle sue due giovani spose che il dio (Num) lo chiama presso di lui e che l'indomani un fil di ferro scenderà dal cielo; egli si arrampicherà su per questo filo fino alla dimora del Dio. Cfr. il motivo dell'ascensione a mezzo di una liana, di un albero, di una sciarpa, ecc.

Di questi tempi di discese sciamaniche agli Inferni alcuni sono passati nella letteratura orale dei popoli siberiani. Così si racconta delle avventure dell'eroe buriate Mu-monto che discende agli Inferni invece di suo padre e, tornato in terra, descrive i tormenti dei peccatori (Harva). Castrén ha raccolto presso i Tartari della steppa Sajan la storia di Kubaiko, giovane ardita che scende agli Inferni per riportarne la testa del fratello, decapitato da un mostro. Dopo diverse avventure e dopo aver assistito a vari tormenti che sono il castigo dei vari peccati, Kubaiko si trova al cospetto dello stesso Re dell'Inferno, Irle-Khan, Questi le dice che le permetterà di prendere la testa del fratello se supererà vittoriosamente una prova: dovrà liberare un ariete a sette corna, così profondamente interrato che se ne distinguono solo le corna. Kubaiko compie la prodezza e torna sulla terra con la testa del fratello e con un'acqua meravigliosa dàtagli dal dio per risuscitarlo.

I Tartari hanno una letteratura considerevole su questo soggetto; ma si tratta soprattutto di cicli eroici nei quali la discesa agli Inferni è una delle molte prove che il personaggio principale deve affrontare. Coteste discese non son tutte di struttura sciamanica - cioè basate sul potere, proprio allo sciamano, di confondersi impunemente fra le anime dei morti, di cercar negli Inferni l'anima di un ammalato o di accompagnarvi un trapassato. Gli eroi tartari sono tenuti a vincere certe prove che, come si è visto or ora nei riguardi della giovane Kubaiko, corrispondono ad uno schema di iniziazione eroica e debbono attestare l'audacia, il coraggio e la forza del personaggio in questione. Però nella leggenda di Kubaiko, certi elementi sono sciamanici: la giovane discende agli Inferni per prendervi la testa del fratello (lo stesso «motivo d'Orfeo» presso i Manciù, Polinesiani e Nord-Americani), cioè la sua «anima», proprio come lo sciamano riporta dagli Inferni l'anima del malato; ella assiste ai tormenti infernali, che descrive e che, per quanto influenzati da concezioni dell' Asia meridionale o del vicino Oriente antico, riflettono certe descrizioni della topografia infernale che, dappertutto pel mondo, gli sciamani furono i primi a comunicare ai vivi. Come si avrà occasione di veder meglio in seguito, molti dei più famosi viaggi agli Inferni intrapresi con lo scopo di conoscere la sorte degli umani dopo la morte, sono di struttura «sciamanica», nel senso che essi utilizzano la tecnica estatica degli sciamani. Tutto ciò non è senza importanza per la comprensione delle «origini» della letteratura epica. Quando tenteremo di valutare l'apporto culturale dello sciamanismo, avremo occasione di mostrare come le esperienze sciamaniche abbiano contribuito a cristallizzare i primi grandi temi epici.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 7: Lo sciamanesimo nell'Asia centrale e settentrionale

 

 

Guarigioni magiche -  Lo sciamano psicopompo

back to index

 

La funzione principale degli sciamanj dell'Asia centrale e settentrionale è la guarigione magica. Quest'area, nel suo insieme, presenta diverse conceZioni circa le cause della malattia, ma quella del «ratto dell'anima. predomina nettamente su tutte le altre. Pertanto, la malattia vien riferita ad uno smarrirsi dell'anima ovvero ad un furto dell'anima - e la cura, nel complesso, consiste nel cercare quest'anima, nel catturarla e nel reintegrarla nel corpo del malato. In certe regioni dell'Asia la causa del male può anche essere un oggetto magico introdottosi nel corpo del malato oppure una «possessione» da parte degli spiriti malvagi; in tal caso la guarigione si ottiene estraendo l'oggetto nocivo oppure espellendo i demoni. Talvolta la malattia ha una doppia causa, è un furto dell'anima aggravato dalla «possessione» da parte degli spiriti malvagi, e allora la cura sciamanica implica sia la ricerca dell'anima che l'espulsione dei demoni.

Tutte queste idee risultano poi ulteriormente complicate per via della teoria della molteplicità delle anime. Come tanti altri popoli «primitivi» e specialmente gli Indonesiani - le genti nord-asiatiche ritengono che l'uomo abbia tre e perfino sette anime (su tutto ciò, cfr. Paulson). Alla morte, una di esse resta nella tomba, un'altra scende nel Regno delle ombre e una terza sale in Cielo. Ma siffatta concezione, che per esempio s'incontra fra i Ciukci e gli Yukaghiri, non è che una delle tante concernenti il destino delle tre anime dopo la morte. Per altri popoli, almeno una delle anime scompare con la morte, o viene divorata dai demoni, ecc.

Sulle tre anime dei Burlati vedi Sandschejew; una di queste anime risiede nelle ossa, la seconda risiede probabilmente nel sangue e può lasciare il corpo e circolare in forma di vespa o di ape, la terza rassomiglia in tutto e per tutto alla forma umana, è una specie di doppio. Alla morte la prima anima resta nello scheletro, la seconda vien divorata dagli spiriti e la terza si mostra agli umani sotto specie di fantasma.

Nel quadro di queste ultime concezioni, l'anima che durante l'esistenza terrestre, col fuggire, provoca le malattie, è proprio quella che dopo la morte viene divorata dagli spiriti malvagi.

In tali casi soltanto lo sciamano può operare la guarigione.

Infatti soltanto lui «vede» gli spiriti e sa come esorcizzarli; soltanto lui sa riconoscere quando si tratta di una fuga dell'anima ed è capace, in estasi, di raggiungerla e di riportarla nel corpo. Molte volte la guarigione implica certi sacrifici, ed è sempre lo sciamano a decidere se essi sono necessari e la forma che essi debbono avere; il riacquisto della salute fisica è in stretta dipendenza col ripristino dell'equilibrio delle forze spirituali. Infatti spesso accade che la malattia sia dovuta ad una negligenza o ad una omissione nei riguardi delle potenze infernali che rientrano anch'esse nella sfera del sacro. Tutto quanto concerne l'anima e le sue vicissitudini, sia quaggiù che nell'aldilà, è di competenza esclusiva dello sciamano. Grazie alle sue stesse esperienze pre-iniziatiche e iniziatiche egli conosce il dramma dell'anima umana, la sua instabilità, la sua precarietà; inoltre egli conosce le forze che la minacciano e le regioni nelle quali essa può esser trasportata. Se la cura sciamanica implica l'estasi, ciò è proprio perché la malattia vien concepita come una alterazione o un alienazione dell'anima.

In quel che seguirà riferiremo un certo gruppo di sedute terapeutiche, senza aver affatto la pretesa di esaurire la ricca documentazione che finora è stata raccolta e pubblicata su tale soggetto. Per non riuscire troppo monotoni (perché, in fondo, la maggior parte delle descrizioni si rassomigliano) ci siamo presi la libertà di raggruppare la materia senza tener sempre conto della continuità geografica o culturale.

 

 

 

 

 

 

Ricerca e richiamo dell'anima (Tartari, Buriati, Kirghisi)

back to index

 

Ecco come lo sciamano teleuta chiama l'anima del bambino ammalato: «Torna nella tua patria! nella yurta, presso il fuoco splendente! torna presso tuo padre ... presso tua madre!» (Harve). Presso certi popoli il richiamo dell'anima costituisce una tappa della guarigione sciamanica. Solo nel caso in cui l'anima del malato si rifiuta di tornare nel suo corpo o ne è incapace lo sciamano si mette alla sua ricerca e finisce col discendere nel Regno dei Morti per ricondurla indietro. Ad esempio, i Buriati conoscono tanto l'invocazione dell'anima che la sua ricerca da parte dello sciamano.

Presso i Buriati della regioni di Alarsk lo sciamano si siede su di una stuoia vicino al malato, circondato da diversi oggetti, fra i quali c'è anche una freccia: un filo rosso parte dalla sua punta e va fino alla betulla drizzata fuori della yurta, nel cortile. È seguendo questo filo che l'anima del malato dovrebbe rientrare nel corpo e per tale ragione l'ingresso della yurta vien lasciato aperto. Vicino all'albero qualcuno tiene un cavallo: i Buriati credono che il cavallo scorgerà per primo l'anima che ritorna, manifestandolo con un tremito. Sul tavolo della yurta si dispongono dei dolci, del tarasun, dell'acquavite e del tabacco. Se il malato è vecchio, s'invitano di preferenza dei vecchi ad assistere alla seduta; se è adulto, si invitano degli uomini fatti, e dei bambini, se si tratta di un bambino, lo sciamano comincia con l'invocare l'anima: «Tuo padre è A, tua madre è B, il tuo nome è C. Dove sei? dove sei andata? Triste è la yurta, ecc.». Gli assistenti si mettono a piangere. Lo sciamano parla a lungo del dolore della famiglia e della tristezza che regna nella casa. «I tuoi figli si chiedono: Dove sei, padre nostro? Ascòltali ed abbi pietà di loro; ritorna! I tuoi cavalli si chiedono: Dove sei, padrone nostro? Torna presso di noi, eccetera.

In genere, tutto ciò costituisce soltanto la prima cerimonia. Se essa non ha effetto, lo sciamano concentra i suoi sforzi in un" altro senso. Secondo le informazioni raccolte da Potanin, lo sciamano buriate procede ad una seduta preliminare per accertare se il malato ha smarrito la sua anima o se essa gli è stata invece rapita e si trova prigioniera di Erlik. lo sciamano comincia col cercare l'anima nei dintorni dci villaggio e se l'incontra qui la reintegrazione è facile. In caso contrario, egli va a cercarla nelle foreste, nelle steppe e perfino in fondo al mare. Se ciò malgrado non la trova ancora, è segno che l'anima è prigioniera di Erlik e non c'è che da ricorrere a sacrifici dispendiosi. Talvolta Erlik esige un'altra anima in sostituzione di quella che tiene prigioniera; si tratta allora di trovarne una disponibile. Col consenso del malato, lo sciamano decide quale sarà la vittima. Mentre questa dorme, egli, trasformatosi in aquila, le si avvicina, le strappa l'anima e discende con essa nel Regno dei Morti, offrendola a Erlik, che gli permette di prendere quella del malato. La vittima muore poco dopo il ristabilirsi del malato. Ma questo non è che un ripiego, perché anche il malato morirà, tre, sette o nove anni dopo ....

Presso i Tartari di Abakan la seduta dura fino a cinque o sei ore e, fra l'altro, comprende il viaggio estatico dello sciamano in lontane regioni. Ma questo viaggio è piuttosto figurativo: dopo aver sciamanizzato a lungo e pregato per la guarigione del paziente, il kam abbandona la yurta. Poi ritorna, accende la pipa e racconta di esser andato fino in Cina, di aver attraversato monti e mari per cercare il rimedio necessario per la guarigione. Qui ci si trova di fronte ad un tipo ibrido di seduta sciamanica, nella quale la ricerca dell'anima smarrita dal malato si trasforma in uno pseudo-viaggio estatico avente per scopo la ricerca dei farmaci. Lo stesso procedimento lo si ritrova nell'estremità nord-orientale della Siberia, presso i Ciukci, dove lo sciamano simula una trance di un quarto d'ora, durante la quale viaggerebbe estaticamente per andare a domandar consiglio agli spiriti (Bogoras). Il ricorso al sonno rituale per entrare in rapporto con gli spiriti e guarire una malattia è anche proprio ai popoli ugri (vedi più oltre). Ma presso i Ciukci si tratta piuttosto di una decadenza recente della tecnica sciamanica. Come subito vedremo, i «vecchi sciamani» intraprendevano dei veri viaggi estatici con lo scopo di cercare l'anima.

Un metodo ibrido nel quale la cura sciamanica appare già trasformata in cerimonia esorcistica è quello del baqça kasak kirghiso. La seduta ha inizio con una invocazione ad Allah e ai santi musulmani, e continua con un appello al jin e delle minaccie agli spiriti malvagi. Il baqça canta in continuazione. Ad un dato momento gli spiriti prendono possesso di lui e durante questa trance egli «si mette a camminare a piedi nudi su pezzi di ferro arroventati» e introduce più volte uno stoppino acceso nella bocca. Tocca con la lingua il ferro rovente e «col suo coltello, affilato come un rasoio, si colpisce il viso senza che rimanga alcuna traccia visibile». Dopo queste prodezze sciamaniche egli invoca nuovamente Allah: «Dio! concedi la felicità! Oh, dègnati di guardare le mie lacrime! lo sollecito il tuo soccorso! ecc.». L'invocazione al Dio supremo non è incompatibile con la guarigione sciamanica, e noi infatti la ritroviamo in certi popoli dell'estremo nord-est della Siberia. Presso i Kasak-kirghisi l'espulsione degli spiriti malvagi che si sono impossessati del malato viene però in prima linea; per giungere a tanto il baqça entra nello stato sciamanico, che comporta l'insensibilità al fuoco e ai colpi del coltello - in altri termini, egli fa propria la condizione di uno «spirito», assunta la quale gli è dato di spaventare i demoni delle malattie e di scacciarli.

 

 

 

 

 

 

La seduta sciamanica presso gli Ugri e i Lapponi

back to index

 

Quando è chiamato per una cura, lo sciamano tremyugan si mette a battere il tamburo e a suonare una chitarra finché non cade in estasi. Abbandonato il corpo, la sua anima penetra negli Inferni e va alla ricerca dell'anima del malato. Dai morti ottiene il permesso di ricondurla in terra, dietro promessa di regalar loro una camicia o altri oggetti; però può anche accadere che sia costretto a ricorrere a mezzi più energici. Quando si ridesta dall'estasi, lo sciamano tiene chiusa nel pugno l'anima del malato e la reintegra nel corpo facendola passare attraverso l'orecchio destro. Si ricorre a questi stessi mezzi per raggiungere l'estati (tamburo, chitarra) quando si fa dello sciamanismo per fini di caccia o per conoscere quali sacrifici siano graditi agli dèi.

Presso gli sciamanj ostiachi dell'Irtish la tecnica è sensibilmente diversa. Chiamato in una casa, lo sciamano procede a dei suffumigi e dedica una stoffa a Sanke, l'Essere celeste supremo (il senso originario di sanke è «luminoso, lucente, luce»; cfr. Karjalainen). Dopo aver digiunato tutto il giorno, la sera fa un bagno, mangia due o tre funghi e si addormenta. Si sveglia bruscamente qualche ora dopo e, tremando per tutto il corpo, comunica ciò che gli spiriti gli hanno rivelato per mezzo del loro «messaggero»: lo spirito a cui bisogna sacrificare, colui che ha pregiudicato il successo della caccia, ecc. Dopo di che lo sciamano ricade in un sonno profondo: il mattino seguente si procede ai sacrifici richiesti. Una usanza analoga la si è incontrata presso i Zingala (Ostiachi): si offrono dei sacrifici a Sanke, lo sciamano mangia tre funghi speciali e cade in trance. Le donne-sciamano usano mezzi analoghi: grazie ad una intossicazione provocata da funghi esse entrano in estasi, fanno visita a Sanke e quindi rivelano, in canzoni, ciò che esse hanno appreso dallo stesso Essere Supremo.

L'estasi per intossicazione da funghi è nota in tutta la Siberia. In altre regioni della terra essa trova riscontro nell'estasi provocata dai narcotici o dal tabacco, e sul problema delle vacanze mistiche dei tossici avremo da tornare. Rileviamo intanto alcune anomalie nel rito ora descritto: si offre una stoffa all'Essere Supremo, ma ci si mette in rapporto con degli Spiriti ed è ad essi che vengono offerti dei sacrifici; l'estasi propriamente sciamanica è ottenuta per intossicazione di funghi, mezzo al quale anche le donne ricorrono per entrare in trance analoghe, però con la differenza che esse si rivolgono direttamente al dio celeste Sanke. Incongruenze del genere tradiscono un certo ibridismo nell'ideologia che fa da substrato alle tecniche di queste estasi. Come l'ha già notato Karjalainen, questo tipo di sciamanismo ugro sembra essere abbastanza recente e importato da altre aree.

Presso gli Ostiachi Vasiugani la tecnica sciamanica è assai più complessa. Se l'anima del malato è stata rapita da un morto, lo sciamano manda uno dei suoi spiriti ausiliari a cercarla. Questi assume le sembianze di un trapassato, discende agli Inferni e, una volta incontrato il rapitore, fa uscire improvvisamente dal suo petto un altro spirito avente la forma di un orso. Il morto s'impaurisce e lascia sfuggire l'anima del malato dalla sua gola o dal suo pugno. Lo spirito ausiliario l'afferra e la porta al suo padrone, sulla terra. Durante tutto ciò lo sciamano suona la chitarra e racconta le avventure del suo messaggero. Se l'anima del malato è stata rapita da uno spirito malvagio, è lo stesso sciamano che deve compiere il viaggio di liberazione, e l'impresa è assai più difficile (Karjalainen).

Sempre presso i Vasiugani, lo sciamanismo lo si pratica anche nel modo seguente: lo sciamano si siede nell'angolo più oscuro dell'abitazione e comincia a suonare la chitarra. Nella sinistra stringe una specie di cucchiaio, di cui del resto egli si serve anche per scopi di divinazione. Poi invoca i suoi spiriti ausiliari, che sono sette. Egli dispone d'un messaggero potente, la «Donna-severa-col-bastone», che invia in volo a convocare i suoi coadiutori. L'uno dopo l'altro costoro si presentano, e lo sciamano si mette a raccontare i loro viaggi sotto forma di canti. «Dalle regioni celesti di May-junk-kàn, mi si concedano le fanciulline di May-junk-kàn; sento il loro arrivo dalle sei regioni della Terra, sento come la Bestia-pelosa-della-GranTerra (= l'Orso) viene dalla prima regione sotterranea e raggiunge l'acqua della seconda regione» (a questo punto si mette ad agitare il cucchiaio). Allo stesso modo descrive l'arrivo degli spiriti della seconda regione sotterranea, della terza, e cosi di seguito fino alla sesta, e ciascun nuovo arrivo è annunciato col cucchiaio. Poi si presentano gli spiriti delle diverse regioni celesti. Sono evocati, uno per uno, da tutte le direzioni: «Dalla regione celeste delle Renne-Samoiede, dalla regione celeste dei Popoli del Nord, dalla città dei principi degli spiriti dei Samoiedi con le loro spose, ecc. ecc.». Segue un dialogo tra tutti questi spiriti, che parlano per bocca dello sciamano. e lo sciamano. Quest'operazione si protrae per tutta una serata.

La seconda sera ha luogo il viaggio estatico dello sciamano, nel quale egli è accompagnato dai suoi spiriti coadiutori. I presenti vengono ampiamente informati circa le peripezie di questa difficile e pericolosa spedizione, che rassomiglia in tutto e per tutto al viaggio che lo sciamano intraprende per condurre in cielo l'anima del cavallo sacrificato (Karjalainen). Non si tratta di «possessione» dello sciamano da parte dei suoi spiriti ausiliari; come lo nota Karjalainen questi si limitano a sussurrare direttive all'orecchio dello sciamano, proprio come gli «uccelli» che inspirano i bardi epici. «Il soffio degli spiriti entra nel mago» - dicono gli Ostiachi del settentrione; il loro soffio «tocca» lo sciamano - affermano i Voguli.

Presso gli Ugri, l'estasi sciamanica ci si presenta meno come una trance che non come uno «stato d'ispirazione»; lo sciamano vede e ode gli spiriti; egli è «fuori di sé» perché sta viaggiando in estasi in lontane regioni, ma non è incosciente. È un visionario e un inspirato. L'esperienza fondamentale è, comunque, una esperienza estatica e qui, come in molte altre regioni, il mezzo principale usato per realizzarla è la musica magico-religiosa. L'intossicazione a mezzo di funghi speciali propizia anch'essa un contatto con gli spiriti, benché in forma passiva e brutale. Ma noi abbiamo già rilevato che questa tecnica sciamanica sembra essere tardiva e importata. L'intossicazione produce in modo meccanico e sovvertitore 1'«estasi», 1'«uscita da se stessi»: essa cerca di realizzare un modello di esperienza preesistente che però aveva avuto punti di riferimento diversi.

Presso gli Ostiachi dello Jenissei la guarigione richiede due viaggi estatici: il primo ha essenzialmente il carattere di una rapida ricognizione - solo nel secondo, che sbocca in una trance, lo sciamano si addentra nell'aldilà. Come al solito, la seduta comincia con l'invocazione degli spiriti che vengono rinchiusi l'uno dopo l'altro nel tamburo. Lo sciamano canta e danza e. una volta che gli spiriti son giunti comincia a far dei salti: il che sta a significare che egli ha lasciato la terra e sta innalzandosi verso le nuvole. Ad un dato momento egli grida: «Mi trovo molto in alto, vedo lo Jenissei ad una distanza di cento verste!». Cammin facendo egli incontra altri spiriti e racconta ai presenti tutto ciò che vede. Poi, rivolgendosi allo spirito ausiliario che lo trasporta attraverso l'atmosfera, esclama: «O mia piccola mosca, pòrtami piti alto ancora, perché voglio veder più lontano!». Poco dopo lo sciamano, con gli spiriti al suo seguito, ritorna nella yurta. Probabilmente non ha trovato l'anima del malato o l'ha vista assai lontano, nella regione dei morti. Per raggiungerla, lo sciamano ricomincia a danzare fino a che la trance ne segua; sempre portato dagli spiriti abbandona il corpo e penetra nell'aldilà, donde torna portando finalmente seco l'anima del malato.

Per quel che concerne lo sciamanismo lappone, ci limiteremo ad un accenno, perché esso è scomparso fin dal XVIII secolo e perché le influenze della mitologia scandinava e del cristianesimo visibili nelle tradizioni religiose lapponi ci imporrebbero un esame di esso nel quadro della storia delle religioni d'Europa. Secondo gli autori del XVIIsecolo, le cui informazioni sono convalidate dal folklore, gli sciamani della Lapponia, come quelli di molte altre popolazioni artiche, facevano le loro sedute completamente nudi e cadevano in vere trance catalettiche durante le quali si riteneva che la loro anima scendesse agli Inferni per accompagnare i trapassati o cercare le anime dei malati. Questa discesa nel Paese delle Ombre cominciava con un viaggio estatico verso un Monte, come tra gli Altaici: il Monte, come si sa, simboleggia l'Asse cosmico e si trova quindi nel «Centro del Mondo». I maghi lapponi d'oggi ricordano ancora i miracoli dei loro antenati, che potevano volare per l'aria ecc. La seduta comprendeva dei canti e delle invocazioni agli spiriti; il tamburo - che, come abbiamo già notato, qui recava dei disegni del tutto simili a quelli dei tamburi altaici - aveva una parte importante nella produzione della trance. Si è cercato di spiegare la seidhr scandinava come una derivazione dello sciamanismo lappone.

Lo sciamanismo ungherese aveva sollevato l'interesse dello psicanalista ed etnologo Géza Roheim che, due anni prima di morire, pubblicò il suo Hungarian Shamanism; lo stesso problema è anche affrontato nella sua opera postuma, Hungarian and Vogul Mytbology, Roheim considera evidente l'origine asiatica dello sciamanismo magiaro, «Piuttosto stranamente, se ne trovano i paralleli più  convincenti presso i Samoiedi, i Mongoloidi (Buriati), le tribù turche orientali ed i Lapponi, e non presso gli Ugri (Voguli e Ostiachi), cugini germani dei Magiari». Da buono psicanalista, Ròheim non poteva resistere alla tentazione di spiegare il volo e l'ascensione sciamanica in maniera freudiana: «... un sogno di volo è un sogno d'erezione, (e cioè), in questi sogni il corpo rappresenta il pene. La nostra conclusione ipotetica sarebbe che il sogno del volo è l'elemento centrale dello sciamanismo (sottolineatura di Roheim). Roheim sostiene che «non v'è alcuna prova diretta che il téltos (cioè, lo sciamano ungherese) cada in trances. Questa affermazione è direttamente contraddetta da Dioszegi, che dimostra a qual punto il téltos ungherese differisce dalle figure apparentemente simili che troviamo nei paesi vicini all'Ungheria, vale a dire dal solomonar romeno, dal planetnik polacco e dal garabancias dei Serbi e dei Croati. Solo il taltas fa l'esperienza d'una sotta di «malattia sciamanica», di: un «lungo sonno» (cioè, d'una morte rituale) o dello «smembramento iniziatico»; solo il téltos subisce un'iniziazione, possiede un costume particolare ed un tamburo, ed entra in estasi. Dato che tutti questi elementi si ritrovano anche presso i popoli turchi, ugro-finni e siberiani, l'Autore conclude che lo sciamanismo rappresenta un elemento magico-religioso che appartiene alla cultura originaria dei Magiari. Gli Ungheresi hanno recato seco lo sciamanismo quando vennero dall'Asia nel territorio che attualmente occupano. In uno studio sull'estasi dello sciamano ungherese, Balazs insiste sull'esperienza del «calore magico». Ma, come avremo occasione di vedere, la religione degli antichi Germani comprendeva abbastanza elementi da considerarsi come «sciamanici» perché vi sia bisogno di pensare, a tale riguardo, ad influenze della magia lappone.

 

 

 

 

 

 

Sedute presso gli Ostiachi, gli Yuraki e i Samoiedi

back to index

 

Nei canti rituali degli sciamani ostiachi e samoiedi yuraki registrati da Tretjakov durante sedute terapeutiche, ci si sofferma lungamente a descrivere il viaggio estatico intrapreso per il bene del paziente. Ma questi canti, in una certa misura, si sono resi già autonomi, si sono dissociati dalla cura propriamente detta: lo sciamano glorifica le avventure da lui vissute nelle più alte regioni dei cieli e nell'aldilà, e si ha l'impressione che; la ricerca dell'anima del malato - motivo originario di tale viaggio estatico - passi in secondo ordine se non è stata perfino dimenticata. Infatti l'argomento del canto riguarda soprattutto le proprie esperienze estatiche e non è difficile riconoscere nelle gesta raccontate la riproduzione di uno schema stereotipo, e cioè del viaggio iniziatico dello sciamano agli Inferni e della sua ascensione in Cielo.

Cosi, lo sciamano racconta come egli s'innalza verso il Cielo con l'aiuto di una corda scesa appositamente per lui e come egli metta in scompiglio le stelle che ostacolano il suo cammino. In cielo lo sciamano passeggia in barca, poi scende in terra seguendo una corrente, con una velocità tale che il vento gli passa attraverso il corpo. Aiutato da demoni alati egli penetra sotto la superficie della terra. Vi fa cosi freddo che egli chiede un mantello allo spirito delle tenebre, Ama, o allo spirito di sua madre - e a questo punto della narrazione qualcuno dei presenti gli getta un mantello sulle spalle. Infine lo sciamano risale sulla terra, si mette a parlare con ciascuno dei presenti del suo futuro annunciando anche al malato che il demone che aveva causato il suo male è stato allontanato.

Si vede che qui non si tratta più di un'estasi sciamanica che implichi l'ascesa e la discesa concreta, bensì di un racconto ricco di reminiscenze mitologiche, il quale ha per punto di partenza un'esperienza che precede sensibilmente la fase della cura. Gli sciamani ostiachi tazowsky e yuraki parlano del loro volo meraviglioso attraverso rose e fiori; essi si portano cosi lontano nel Cielo da poter vedere la tundra ad una distanza di sette verste: lontano, scorgono il luogo ove, un tempo, i loro maestri si erano fabbricati i loro tamburi (infatti scorgono il «Centro del Mondo»). Infine arrivano in Cielo e, dopo diverse avventure, penetrano in una capanna di ferro dove si addormentano circondati da nuvole purpuree. Per discendere in terra, utilizzano un fiume. E il canto finisce con un inno di adorazione a tutte le divinità, a partire dal Dio del Cielo (Mikhailowski).

Non di rado il viaggio estatico si realizza in una visione: lo sciamano vede i suoi spiriti ausiliari che, in forma di renna, penetrano in altri mondi e canta le loro avventure. Presso gli sciamani samoiedi gli spiriti ausiliari assolvono una funzione più «religiosa» che non fra le altre popolazioni siberiane. Prima di intraprendere una 'guarigione, 10 sciamano si mette in contatto coi suoi spiriti per informarsi circa la causa della malattia: se essa è stata mandata da Num, il Dio supremo, lo sciamano si rifiuta di curarla. E allora sono i suoi spiriti che salgono in Cielo per intercedere presso Num. Ciò non vuol dire che tutti gli sciamani samoiedi siano «buoni»; benché qui non esista l'opposizione fra sciamani «bianchi» e sciamani «neri», pure si sa che diversi sciamani praticano anche la magia nera e possono fare del male (Mikhailowski).

Le descrizioni delle sedute samoiede di cui disponiamo lasciano l'impressione che n viaggio estatico sia soltanto «cantato» e, per il resto, compiuto dagli spiriti ausiliari in nome dello sciamano. Talvolta il dialogo con gli spiriti basta a che lo sciamano venga a conoscere la «volontà degli dèi». Lo testimonia la seduta cui Castrén ebbe ad assistere e che egli ha descritto come segue: i presenti si raggruppano intorno allo sciamano, avendo cura di lasciar libero l'ingresso che questi guarda fissamente. Nella sinistra tiene un bastone con segni e figurine misteriose ad una delle estremità. Nella destra tiene due freccie, con la punta rivolta in alto e con un campanaccio assicurato alla punta di ciascuna. La seduta ha inizio con un canto intonato dal solo sciamano che si accompagna con le freccie dalle campanelle battute ritmicamente col bastone. È l'evocazione degli spiriti. Non appena questi giungono lo sciamano si alza e si mette a ballare, con movimenti difficili quanto ingegnosi, non cessando però di cantare e di battere col bastone. Cantando, riproduce il dialogo avuto con gli spiriti e l'intensità del canto segue l'interesse drammatico del colloquio. Quando il canto giunge al parossismo, i presenti cominciano a far coro. Dopo aver ottenuto dagli spiriti la risposta a tutte le domande, lo sciamano si arresta e comunica a tutti la volontà degli dèi.

Naturalmente, vi sono grandi sciamani che intraprendono, in trance, il viaggio estatico di ricerca dell'anima del malato: come nel caso dello sciamano samoiedo yurak o ganjkka osservato da Lehtisalo. Ma a parte questi maestri si trova una quantità non indifferente di «visionari» che ricevono in sogno le istruzioni degli dèi e degli spiriti o che ricorrono all'intossicazione per mezzo di funghi per conoscere, ad esempio, le modalità di una guarigione. In ogni caso si ha l'impressione netta che qui le vere trance sciamaniche sono piuttosto rare e che nella maggior parte delle sedute si tratta solo di un viaggio estatico intrapreso dagli spiriti o del racconto favoloso di avventure di cui è già noto il prototipo mitologico.

Gli sciamani samoiedi praticano anche la divinazione a mezzo di un bastone recante certi segni, che si lancia in aria: si legge l'avvenire in base alla posizione che ha il bastone una volta ricaduto per terra. Essi fanno altresì mostra di prodezze specificamente sciamaniche: si fanno legare, poi invocano gli spiriti (le cui voci animalesche si fanno presto udire nella yurta) e alla fine della seduta vengono trovati slegati. Oppure si tagliuzzano il corpo con dei coltelli, si danno colpi violenti alla testa e così via (Mikhailowski). Fra gli sciamani di altre genti siberiane e anche di popolazioni non asiatiche s'incontrano di continuo fenomeni del genere che, in un certo modo, partecipano del fachirismo. Ma tutto ciò nello sciamano non è mero esibizionismo o ricerca di prestigio. I «miracoli» hanno una affinità organica con la seduta sciamanica: si tratta infatti di realizzare uno «stato secondo» definito dall'abolizione della condizione profana. Lo sciamano autentica la sua esperienza coi «miracoli» che essa rende possibili.

 

 

 

 

 

 

Lo sciamanismo fra gli Yakuti e i Dolgani

back to index

 

Presso gli Yakuti e i Dolgani la seduta sciamanica ha, in genere, quattro fasi: 1) evocazione degli spiriti ausiliari; 2) scoperta della causa del male, consistente quasi sempre in uno spirito malvagio che ha rubato l'anima del malato o si è introdotto nel suo corpo; 3) espulsione dello spirito malvagio mediante minaccie, rumori, ecc. - e infine: 4) ascesa dello sciamano in Cielo. «Il problema più difficile è quello di scoprire le cause della malattia, di conoscere lo spirito che tormenta il paziente e di individuarne l'origine, il luogo gerarchico, la potenza. Perciò, la cerimonia si divide sempre in due parti: anzitutto si chiamano dal cielo gli spiriti protettori, si invoca il loro aiuto per conoscere le cause della disgrazia; poi si passa a lottare contro lo spirito nemico o contro l'fior. Come finale obbligato, il viaggio in Cielo.

La lotta contro gli spiriti malvagi è pericolosa e alla fine lo sciamano è spossato. «Siamo tutti destinati a cadere sotto il potere degli spiriti - diceva lo sciamano Tiìspiìt a Sieroszewski - gli spiriti ci detestano perché difendiamo gli uomini». Infatti lo sciamano per estrarre gli spiriti cattivi dal malato è costretto a incorporarseli: egli si dibatte e soffre, facendo ciò, più dello stesso paziente (Harva).

Ecco la classica descrizione, data da Sieroszewski, di una seduta presso gli Yakuti. Essa ha luogo di sera, nella yurta, e i vicini sono invitati a parteciparvi. «Talvolta il capo di casa confeziona due nodi scorsoi con solide corregge: lo sciamano se li infila alle spalle e le altre persone ne tengono i capi per trattenerlo nel caso che gli spiriti tentassero di rapirlo». Questa usanza la si trova presso diverse popolazioni siberiane ed artiche, anche se con significati distinti; talvolta si lega lo sciamano affinché non se ne voli; presso i Samoiedi e gli Eschimesi lo sciamano si lascia legare per mostrare invece i suoi poteri magici, inquantoché durante la seduta, «con l'aiuto degli spiriti», finisce sempre con lo sciogliersi.

Lo sciamano guarda fisso il fuoco del camino: sbadiglia, ha dei singulti spasmodici, è scosso ad intervalli da tremiti nervosi. Riveste il costume e si mette a fumare. Batte pian piano il tamburo. Poco dopo, il viso gli si sbianca, la testa gli ricade sul petto, gli occhi restano semichiusi. Allora in mezzo alla yurta viene distesa una pelle di giumenta bianca. Lo sciamano beve dell'acqua fresca e fa delle genuflessioni nella direzione dei quattro punti cardinali sputando I'acqua a destra e a sinistra. Nella yurta regna il silenzio. L'aiutante dello sciamano getta qualche crine di cavallo nel fuoco, che poi copre interamente con la cenere. L'oscurità allora è completa. Lo sciamano si siede sulla pelle di giumenta e sogna, rivolto verso Sud. Tutti trattengono il respiro.

«D'un tratto risuona, non si sa bene da dove, un grido acuto, penetrante, come uno stridore di acciaio; poi, silenzio. Di nuovo, un grido: ora dall'alto, ora dal basso, ora dinanzi allo sciamano ed ora dietro di lui si odono rumori misteriosi: come sbadigli nervosi paurosi, come singulti isterici; si crederebbe di udire il grido lamentoso del vannello mescolato al gracchiare di un falco interrotto dal sibilo della serpe: è lo sciamano a emettere tutti questi suoni, variando l'intonazione della voce».

D'un tratto egli si arresta; il silenzio regna di nuovo, a parte un debole ronzio, come di zanzara. Lo sciamano comincia a battere il tamburo. Mormora un canto. Il canto e il suono del tamburo s'intensificano, in crescendo. Presto lo sciamano muggisce. «Si ode un gracidare di aquile cui si mescolano i lamenti dei vannelli, le grida acute delle beccaccie e il ritornello dei cuculi». La musica giunge al parossismo, poi s'interrompe bruscamente per non lasciar più udire che il ronzio di zanzare. Il succedersi delle grida di uccelli, con intervalli di silenzio, dura per un certo tempo. Infine lo sciamano muta il ritmo del tamburo ed intona un inno:

Il toro possente della terra, il cavallo della steppa, Il toro possente ha muggìto!

Il cavallo della steppa ha nitrito!

Sono al disopra di voi tutti, io sono uomo! Sono l'uomo dotato di tutto!

Sono l'uomo crealo dal Signore dell'Infinito!

Giungi dunque. o cavallo della steppa, e ragguaglia! Lèvati dunque, toro mirabile dell'Universo, e rispondi! O Possente Signore, ordinate! ...

O Signora, Madre mia, mostrami i miei errori e le vie che Ho seguito! Volami innanzi, seguendo una via larga; Preparami il cammino!

O Spiriti del Sole che dimorate nel Mezzogiorno sulle nove colline boscose, o Madri di Luce, voi che conoscete la gelosia, vi imploro: che le vostre tre ombre restino in alto, molto, molto, in alto!

E tu, ad Occidente, sulla tua montagna, o Signore mio Avo dalla forza formidabile, dal collo possente, su con me! ...

La musica ricomincia e raggiunge di nuovo il parossismo.

Dopo di che lo sciamano invoca l'aiuto dell'amagat e dei suoi spiriti familiari. Il loro consenso non è immediato; lo sciamano li supplica, essi tergiversano. Ma talvolta essi arrivano in modo COSI brusco e violento che lo sciamano vien gettato a terra. Allora i presenti producono un rumor di ferraglia su di lui mormorando: «Il solido ferro tintinna - turbinano le nuvole capricciose, copiosi nembi si son levati!». Dopo che l'amagat è giunto, lo sciamano si mette a saltare e a fare gesti rapidi e violenti. Si mette nel mezzo della yurta, il fuoco viene riacceso ed egli comincia daccapo a suonare il tamburo e a ballare. Si lancia in aria talvolta fino ad un'altezza di quattro piedi. Si tratta evidentemente di un'ascensione estatica al Cielo. Gli sciamani eschimesi Habakuk cercano anch'essi di raggiungere il cielo facendo salti rituali in aria. Presso l Menri di Kelantan i medicine-men fanno dei salti in aria cantando e lanciando uno specchio o una collana verso Karei, il dio supremo. Grida in delirio. «Poi, di nuovo, una pausa: allora, con voce grave e bassa, intona un inno solenne». Segue una danza leggera durante la quale egli o canta in tono ironico, o scaglia delle maledizioni: a seconda degli esseri di cui egli imita la voce. Infine si avvicina al malato e ingiunge alla causa della malattia di ritirarsi: (oppure porta via il male, lo porta in mezzo alla stanza e senza cessare di imprecare lo scaccia, lo sputa dalla bocca, lo manda via a pedate e a schiaffi».

È allora che ha inizio il viaggio estatico dello sciamano, il quale deve condurre in cielo l'anima della bestia sacrificata. Fuori della yurta vengon piantati tre alberi dai rami tagliati; quello di mezzo è un albero di betulla e alla sua estremità vien fissato un alcione morto. Ad Oriente della betulla vien confitto un palo con un cranio di cavallo in cima. I tre alberi sono fra loro congiunti da una corda di crine di cavallo. Fra gli alberi e la yurta si mette una piccola tavola e su di essa si posa una brocca contenente dell'acquavite. Lo sciamano si mette a fare dei movimenti che dovrebbero imitare il volo di un uccello. A poco a poco sale in cielo. Il cammino ha nove stazioni e in ognuna di esse lo sciamano fa delle offerte allo spirito locale. Una volta di ritorno dal suo viaggio estatico lo sciamano chiede di essere «purificato» col fuoco (carboni ardenti) in una data parte del corpo (piede, coscia, ecc.). Donner afferma che anche i Samoiedi purificano i loro sciamani con dei carboni ardenti al termine della seduta. Probabilmente vien purificata la parte del corpo nella quale sono stati «assorbiti» gli spiriti malvagi che tormentavano il malato; ma allora quale è la ragione della purificazione dello sciamano al suo ritorno dal viaggio celeste? Non si tratterebbe piuttosto dell'antico rito sciamanico di "giuocare col fuoco"?

Beninteso, la seduta sciamanica yakuta presenta parecchie varianti. Ecco come descrive il viaggio celeste Sieroszewski: «Allora si allineano con cura dei piccoli abeti scelti in precedenza ai quali si attaccano ghirlande di crini di cavallo bianco (gli sciamani non ne impiegano altri); poi si piantano tre pali, allineati con ordine, recanti in cima raffigurazioni d'uccelli: sul primo si trova l'oksokju a due teste; sul secondo, il grana nur (kugos), oppure un corvo; sul terzo un cuculo (kogo). All'ultimo palo si attacca la bestia offerta in sacrificio. Una corda fissata in alto rappresenta la via verso il cielo «per la quale voleranno via gli uccelli e che seguirà la bestia» (Sieroszewski).

Ad ogni stazione (oloh) lo sciamano si siede e si riposa; quando si alza daccapo, è segno che riprende il viaggio. Egli rappresenta cotesto viaggio con movimenti di danza e con gesti che imitano il volo dell'uccello. «La danza raffigura sempre un viaggio nell'atmosfera in compagnia di spiriti; quando si conduce la bestia espiatoria, bisogna di nuovo danzare. Secondo la leggenda, una volta esistevano sciamani che volavano davvero verso il cielo: i presenti vedevano un animale navigare fra le nubi, seguito dal tamburo sciamanico, e lo stesso sciamano, vestito tutto di ferro, chiudeva il corteo». «Il tamburo è il nostro cavallo - dicono gli sciamani» (Sieroszewski).

La pelle, le corna e gli zoccoli della bestia sacrificata vengono esposti su di un albero disseccato. Sieroszewski ha trovato assai spesso le vestigia di tali sacrifici in luoghi desertici. Li vicino, talora sull'albero stesso, «capita di scoprire un kociai, lunga freccia di legno piantata nel tronco disseccato. Essa ha la stessa parte della corda con i ciuffi di capelli della cerimonia precedente. Indica la parte del cielo in cui si deve recare la vittima». Sempre secondo lo stesso autore, lo sciamano strappava con la sua stessa mano il cuore dal corpo della bestia sacrificata e l'alzava verso il cielo. Poi s'impiastricciava di sangue il viso e il costume, facendo lo stesso con l'imagine del suo amagat e con le figurine di legno degli spiriti (in questo caso si tratta di un sacrificio assai ibrido: offerta simbolica del cuore all'Essere celeste e libazione del sangue in onore delle potenze «infere», sjaadai ecc.; si ritrova lo stesso rituale crudele fra gli sciamani Araucani).

Altrove vengono piantati nove alberi e vicino ad essi si fissa un palo che ha alla sua estremità un uccello. Gli alberi e il palo sono collegati da una corda disposta in senso ascendente: segno dell'ascensione in Cielo (Harva). Anche presso i Dolgani troviamo i nove alberi, con un uccello di legno in cima a ciascuno e con lo stesso significato: il cammino verso il Cielo dello sciamano e dell'anima della bestia sacrificata. Di fatto, anche tra i Dolgani gli sciamani scalano i nove cieli quando intraprendono una cura; a quanto riferiscono, davanti ad ogni cielo nuovo si trovano degli spiriti guardiani la cui funzione è di sorvegliare il viaggio degli sciamani e, in pari tempo, di impedire ogni scalata da parte degli spiriti malvagi.

In una seduta sciamanica del genere, lunga e movimentata, un solo punto resta oscuro: se l'anima del malato è stata rapita dagli spiriti malvagi, perché è indispensabile che lo sciamano yakuta faccia un viaggio in cielo? Wasiljev ha proposto la seguente spiegazione: lo sciamano conduce in cielo l'anima del malato per purificarla dalla contaminazione provocata dagli spiriti malvagi. Da parte sua, Trotchshanskij ha affermato che fra gli sciamani di sua conoscenza non ve ne è nessuno che intraprenda un viaggio agli Inferni; quando curano, essi tutti usano la sola ascensione in Cielo (Harva). Ciò ci dice sia della varietà delle tecniche sciamaniche che della precarietà delle nostre informazioni: è assai probabile che le discese agli Inferni, più pericolose e più segrete, siano state meno accessibili agli osservatori europei. Ma non v'è dubbio che i viaggi agli Inferni siano parimenti noti agli sciamani yakuti, se non altro ad alcuni di essi. Infatti il loro costume reca, tra l'altro, un simbolo del «Buco della Terra», chiamato proprio «Buco degli Spiriti» (abasy-oibono), apertura attraverso la quale gli sciamani possono raggiungere le regioni infere. Inoltre lo sciamano yakuta nei suoi viaggi estatici è accompagnato da un uccello acquatico (gabbiano, colombo) che simboleggia l'immersione nel mare, cioè una discesa agli Inferni (Harva). Infine, il lessico tecnico degli sciamani yakuti usa due termini diversi per designare le direzioni possibili del viaggio mistico: allara kyrar (verso gli «spiriti d'in basso») e usa kyrar (verso gli «spiriti d'in alto»). Del resto Wasiljev aveva anche notato che fra gli Yakuti e i Dolgani lo sciamano in cerca dell'anima del malato rubata dai demoni si comporta come se si tuffasse, e i Tungusi, i Ciukci e i Lapponi parlano della trance sciamanica come di una «immersione» (Harva). Ritroveremo lo stesso comportamento e la stessa tecnica estatica fra gli sciamani eschimesi, dato che un gran numero di popolazioni, specie quelle marittime, situano l'aldilà nelle profondità del mare (Però, come si vedrà in seguito, mai esclusivamente: certi «eletti» e certi «privilegiati» salgono in Cielo dopo la loro morte.).

Per comprendere la necessità del viaggio celeste degli sciamani yakuti quando curano, bisogna tener conto di due cose: da un lato, lo stato complesso e perfino confuso delle loro concezioni religiose e mitologiche; dall'altro, il prestigio delle ascensioni celesti in tutta la Siberia e l'Asia centrale. Come si è visto, questo prestigio spiega perché lo sciamano altaico finisce col prendere in prestito alcuni elementi caratteristici della tecnica ascensionale anche quando si tratta di una discesa estatica agli Inferni (fatta sempre per sottrarre l'anima del malato al potere di Erlik Khan).

Per quel che riguarda gli Yakuti, ci si potrebbe dunque imaginare il tutto pressappoco nel modo seguente: per il fatto che si sacrificavano animali agli Esseri celesti e che, mediante simboli sensibili (freccie, uccelli di legno, corda attaccata in alto), si indicava la direzione che avrebbe presa l'anima della vittima, si è finito con l'utilizzare lo sciamano come guida per questa stessa anima nel suo viaggio celeste; e poiché egli accompagnava l'anima della bestia sacrificata in occasione di una cura, si è potuto credere che questa ascensione avesse per oggetto principale la «purificazione» dell'anima dell'ammalato. In ogni caso il rituale sciamanico di cura nella sua forma attuale è ibrido; ci si accorge che si è formato sotto l'influenza di due tecniche distinte: 1) la ricerca dell'anima smarrita dall'ammalato o l'espulsione dei cattivi spiriti e 2) l'ascensione in cielo.

Però bisogna anche tener conto di un altro fatto: a parte rari casi di «specializzazione infernale» (discese esclusivamente agli Inferni), gli sciamani siberiani sono capaci sia di ascensioni celesti che di discese nelle regioni infere. Abbiamo visto che questa doppia tecnica, in un certo modo, ha relazioni con la loro stessa iniziazione: infatti i sogni iniziatici dei futuri sciamani comprendono ad un tempo discese (= sofferenze e morti rituali) e ascensioni (= resurrezione). In questo contesto si concepisce facilmente la necessità in cui si trova lo sciamano yakuta, di ristabilire il proprio equilibrio spirituale ripetendo l'ascesa celeste dopo aver lottato contro gli spiriti malvagi o esser disceso agli Inferni per recuperare l'anima del malato.

Qui vale sottolineare di nuovo che il prestigio e la potenza dello sciamano procedono esclusivamente dalla sua capacità estatica. Egli ha preso il posto del sacerdote nei sacrifici offerti all'Essere supremo, ma, proprio come nel caso dello sciamano altaico, questa sostituzione ha dato luogo ad un cambiamento della struttura stessa del rito: l'offerta si è trasformata in una psicoforia, cioè in una cerimonia drammatizzata avente per base l'esperienza estatica. È sempre grazie alle sue capacità mistiche malvagi impadronitisi dell'anima del malato: egli non si limita che lo sciamano è in grado di scoprire e combattere gli spiriti ad esorcizzarli, ma li attrae nel proprio corpo, li «possiede», li tormenta e infine li espelle: ciò, perché ne ha fatto sua la natura, vale a dire perché è libero di lasciare il corpo, di spostarsi a considerevoli distanze, di discendere agli Inferni, di salire in Cielo, ecc. Questa mobilità e questa libertà «spirituali» che sono la sostanza delle esperienze estatiche dello sciamano, lo rendono nel contempo vulnerabile, e molte volte, a forza di lottare contro gli spiriti malvagi, egli finisce col subirne il potere, vale a dire finisce con l'esserne davvero «posseduto»,

 

 

 

 

 

 

Sedute sciamaniche presso i Tungusi e gli Orocci

back to index

 

Lo sciamanismo occupa un posto considerevole nella vita religiosa dei Tungusi. Si ricorderà che lo stesso termine «sciamano» (shaman), quale ne possa essere l'origine, è tunguso. Come Shirokogorov l'ha mostrato, e come avremo occasione di constatarlo di nuovo noi stessi, è probabilissimo che lo sciamanismo tunguso, almeno nella sua forma attuale, sia stato fortemente influenzato da idee e tecniche sino-lamaiste. Che nell'insieme dello sciamanismo centro asiatico e siberiano siano constatabili influenze d'origine meridionale, l'abbiamo già detto. Vedremo a suo luogo come ci si deve rappresentare l'espansione verso il Nord e il Nord-Est dell'Asia dei complessi culturali meridionali. In ogni modo, lo sciamanismo tunguso presenta oggidi una fisionomia complessa: vi si possono rintracciare tradizioni diverse la cui coalescenza ha talvolta prodotto forme affatto ibride. Anche qui può constatarsi una certa «decadenza» dello sciamanismo, decadenza attestata un po' dappertutto nell'Asia settentrionale: soprattutto i Tungusi contrappongono il coraggio e la forza degli «sciamani antichi» alla pusillanimità degli sciamani attuali, che in certe regioni non osano più intraprendere la pericolosa discesa agli Inferni.

Lo sciamano tunguso è chiamato ad esercitare il suo potere in occasioni multiple; indispensabile per la guarigione - sia che si tratti di cercare l'anima del malato o di esorcizzare i demoni - egli è, peraltro, psicopompo; egli porta i sacrifici al Cielo o agli Inferni e, in particolare, spetta a lui garantire l'equilibrio spirituale dell'intera comunità. Se le malattie, la sfortuna o la sterilità minacciano il clan, toccherà allo sciamano diagnosticarne la causa e ristabilire la situazione. I Tungusi sono inclini ad accordare agli spiriti una importanza assai maggiore di quel che non facciano i loro vicini: e non solo agli spiriti del mondo infero, ma altresì agli spiriti di questo mondo, autori virtuali di disordini d'ogni specie. È per questo che, a parte le occasioni classiche delle sedute sciamaniche - malattia, morte, sacrificio agli dèi - gli sciamani tungusi fanno sedute, specialmente «piccole sedute», per una quantità di altre ragioni, però sempre che esse implichino la necessità di conoscere e di dominare degli «spiriti».

Gli sciamani prendono anche parte a un certo numero di sacrifici. Il sacrificio annuale che si offre agli spiriti di uno sciamano costituisce poi un grande avvenimento religioso per l'intera tribù (Shirokogorov). Naturalmente, gli sciamani sono anche indispensabili nei riti di caccia e di pesca.

Le sedute che comportano una discesa agli Inferni possono esser tenute per i seguenti motivi: 1) sacrifici da portare agli antenati e ai morti delle regioni infere; 2) ricerca e restituzione dell'anima di un malato; 3) accompagnamento dei trapassati che non vorrebbero abbandonare questo mondo e loro inserimento nel paese delle ombre. Malgrado che occasioni non ne manchino, la cerimonia viene organizzata assai di rado perché è considerata pericolosa: pochi sciamani osano affrontarla. Il suo nome tecnico è orgiski, letteralmente: «nella direzione dell'òrgi» (regione infera, «occidentale»). Ci si decide ad intraprendere l'orgiski solo dopo una seduta preliminare di «piccolo sciamanismo». Ad esempio, nella tribù si è avuta una serie di disordini, di malattie o di sciagure; pregato di scoprirne la causa, lo sciamano fa si che uno spirito s'incorpori in lui e viene a conoscere il motivo per cui gli spiriti delle regioni infere o i morti e le anime degli antenati stanno producendo tali squilibri e gli viene anche rivelato il sacrificio che potrebbe placarli. Allora ci si decide a procedere al sacrificio richiesto e alla discesa infernale dello sciamano.

Il giorno precedente quello dell'orgiski si riuniscono gli oggetti di cui lo sciamano farà uso nel suo viaggio estatico; fra di essi figura una piccola zattera sulla quale lo sciamano attraverserà il mare (il lago Baikal), una specie di lancia per spezzare le roccie, dei piccoli oggetti rappresentanti due orsi e due cinghiali i quali sosterranno la nave ove corresse pericolo di naufragare e che apriranno un sentiero attraverso la fitta selva dell'aldilà, quattro pesciolini che nuoteranno davanti alla barca, un «idolo» che raffigura lo spirito ausiliario dello sciamano, dal quale questi sarà aiutato a portare il sacrificio, diversi strumenti di purificazione ecc. La sera della seduta lo sciamano indossa il costume, suona il tamburo, canta ed invoca il «Fuoco», la «Terra Madre», e gli «antenati», ai quali si offre il sacrificio. Dopo i suffumigi, lo sciamano getta in aria la bacchetta del suo tamburo; se essa ricade all'inverso, è buon segno.

La seconda parte della cerimonia ha per inizio il sacrificio dell'animale, che in genere è una renna. Col suo sangue si impiastricciano gli oggetti esposti; la carne sarà preparata in seguito per essere mangiata. S'introducono dei pali nella wigwan in modo che una loro estremità esca dal buco per il fumo. Un lungo filo collega i pali agli oggetti che sono stati esposti fuori, su di una piattaforma: è il «cammino» che dovranno seguire gli spiriti. Ci si rende facilmente conto che qui si ha a che fare con una contaminazione del motivo del viaggio sciamanico in Cielo, di cui daremo più giu degli esempi: infatti i pali che escono dall'apertura per il fumo simboleggiano, come si sa, l'axis mundi lungo il quale vengono inoltrati sacrifici, fino al più alto cielo. Dopo di che tutti si radunano nella wigwan. Lo sciamano comincia a suonare il tamburo, a cantare e a ballare. Fa dei salti, salti sempre più alti (Ancora un indizio della confusione con l'ascensione celeste: i salti in aria significano il «volo magico"). I suoi assistenti, insieme agli spettatori, riprendono in coro il ritornello del canto. Ad un tratto lo sciamano si ferma, beve un bicchiere di vodka, fuma qualche pipa piena, poi riprende la danza. A poco a poco egli si esalta finché cade al suolo, disanimato, in estasi. Se non riprende conoscenza, lo si bagna di sangue, tre volte. Quando è di nuovo in piedi, comincia a parlare con una voce acuta, rispondendo in forma cantata alle domande che gli rivolgono due o tre persone. Ora il corpo dello sciamano è abitato da uno spirito, ed è questo spirito a rispondere per bocca sua. Quanto allo sciamano, egli ora si trova negli inferi. Quando ne risale, tutti salutano con grida di gioia il suo ritorno dal mondo dei morti.

Questa seconda parte della cerimonia dura circa due ore.

Dopo una pausa di altre due o tre ore, e cioè all'alba, si procede all'ultima fase, che non differisce dalla precedente, durante la quale lo sciammo ringrazia gli spiriti (Shirokogorov). Presso i Tungusi della Manciuria si può sacrificare senza l'assistenza degli sciamani. Ma solo lo sciamano può discendere nelle regioni infere e riportarne l'anima del malato. Anche questa cerimonia comprende tre momenti. Quando in una seduta preliminare di «piccolo sciamanismo» si è scoperto che l'anima del malato è davvero prigioniera negli Inferni, si fanno sacrifici agli spiriti (séven) affinché aiutino lo sciamano a discendere nelle regioni infere. Lo sciamano beve il sangue e mangia la carne dell'animale sacrificato e, essendosi incorporato per tal via un dato spirito, perviene all'estasi. Esaurita questa prima fase, comincia la seconda, e cioè il viaggio mistico dello sciamano. Costui raggiunge una montagna dal lato nord-ovest, e la discende verso l'altro mondo. Via via che egli si avvicina agli Inferni, i pericoli si moltiplicano. Incontra degli spiriti e altri sciamani, e si difende dalle loro freccie col suo tamburo. 10 sciamano descrive, cantando, tutte le peripezie del viaggio, per cui i presenti possono seguire passo per passo le sue esperienze. Egli si cala per un'angusta apertura e attraversa tre corsi d'acqua prima di incontrare gli spiriti degli Inferni. Infine raggiunge H mondo delle tenebre, nel qual punto i presenti provocano delle scintille mediante pietre focaie: sono «lampi» grazie ai quali lo sciamano potrà riconoscere la via. Egli ritrova l'anima e dopo lotte o negoziati prolungati con gli spiriti la riconduce sulla terra fra mille difficoltà, restituendola al corpo del malato. L'ultima parte della cerimonia ha luogo il giorno successivo o qualche giorno dopo, e il suo significato è un ringraziamento agli spiriti dello sciamano (Shirokogorov).

Presso i Tungusi-Renna manciuriani sussiste il ricordo di un tempo lontano nel quale si «sciamanizzava verso la terra», ma ai nostri giorni nessuno sciamano oserebbe più farlo. Presso i Tungusi nomadi di Mankova, la cerimonia è diversa: di notte si sacrifica un becco nero, la cui carne non viene però mangiata; nel punto in cui raggiunge le regioni infere lo sciamano cade a terra e vi resta immobile per una mezz'ora, durante il qual tempo i presenti saltano tre volte sul fuoco (ibid., p. 308). Anche fra i Manchi la cerimonia della «discesa nel mondo dei morti» è abbastanza rara. Durante tutto il suo lungo soggiorno fra tali genti Shirokogorov poté assistere solo a tre sedute. Lo sciamano in esse invoca tutti gli spiriti - cinesi, manchi e tungusi -, spiega loro il motivo della seduta (nel caso analizzato da Shirokogorov, la malattia di un bambino di otto anni), e chiede il loro aiuto. Poi si mette a suonare il tamburo e, una volta incorporato il suo spirito particolare, cade sul tappeto. I suoi assistenti gli fanno delle domande e, in base alle risposte che ottengono, capiscono che egli si trova già nelle regioni infere. Poiché lo spirito che lo «possiede» è un lupo, lo sciamano si comporta di conseguenza. Il suo linguaggio lo si intende con difficoltà. Comunque, si giunge a scoprire che la causa della malattia non era imputabile all'anima di un morto, come s'era pensato prima della seduta, ma ad un certo spirito che chiede, in cambio della guarigione, che gli si faccia un piccolo tempio (m'ao) e che gli si offrano regolarmente sacrifici.

Una discesa analoga nel «mondo dei morti» viene raccontata nel poema manchi Nishan shaman che Shirokogorov considera come il solo documento scritto esistente in fatto di sciamanismo manchi, Ecco la storia: Ai tempi della dinastia Ming, un giovane, figlio di genitori facoltosi, va a caccia nelle montagne e vi perisce in un incidente. Una donna-sciamano, Nishan, decide di ricondurre nel nostro mondo la sua anima e discende nel «mondo dei morti». Incontra numerosi spiriti, fra gli altri quello del suo marito defunto, e, dopo diverse peripezie, riesce a tornare sulla terra con l'anima del giovane, che risuscita. Il poema, noto a tutti gli sciamani manchi, fornisce purtroppo ben pochi dettagli circa il lato rituale della seduta (Shirokogorov). Esso ha finito col divenire un testo «letterario» che si distingue da poemi tartari consimili per il fatto di esser stato fissato e diffuso in forma scritta già da molto tempo. Esso ha tuttavia una importanza considerevole, perché ci mostra fino a qual punto il tema «discesa di Orfeo» sia simile alle discese sciamaniche agli Inferni.

Sempre per fini di guarigione, si trovano viaggi estatici in senso inverso, cioè tali da comportare un'ascesa celeste. In tal caso, lo sciamano piazza convenientemente ventisette arboscelli (9 X 3) e una scala simbolica sulla quale avrà inizio la sua ascensione, Fra gli oggetti rituali presenti figurano numerose statuette di uccelli, le quali rimandano al ben noto simbolismo ascensionale. Il viaggio celeste può esser però intrapreso per molte ragioni; la seduta descritta da Shirokogorov aveva per oggetto la guarigione di un fanciullo. In essa, la prima parte rassomiglia alla preparazione di una seduta di discesa alle regioni inferiori. Per mezzo del «piccolo sciamanismo» si viene a conoscere il momento preciso in cui il dayacian, al quale si chiede la restituzione dell'anima del fanciullo malato, è disposto ad accettare il sacrificio. L'animale - che in questo caso è un agnello - viene ucciso ritualmente: gli si strappa il cuore e se ne raccoglie il sangue in vasi speciali, avendo cura che nessuna goccia tocchi il suolo. Poi la pelle viene esposta. La seconda parte della seduta è consacrata tutta alla realizzazione dell'estasi. Lo sciamano canta, suona il tamburo, balla e fa salti in aria, avvicinandosi di tempo in tempo al fanciullo malato. Poi passa il tamburo al suo assistente, beve vodka, fuma e si mette di nuovo a ballare finché cade a terra esausto. È segno che ha lasciato il corpo e che sta volando verso il Cielo. Tutti gli fanno ressa intorno e, come nelle discese alle regioni infere, il suo assistente produce delle scintille con una pietra focaia. Sedute del genere possono aver luogo sia di giorno che di notte. Lo sciamano usa un costume molto sommario e Shirokogorov ritiene che questo tipo di seduta comportante l'ascesa al Cielo i Tungusi lo abbiano tratto in prestito dai Buriati.

Il carattere ibrido di siffatte sedute è evidente: benché il simbolismo celeste in essa sia sufficientemente attestato dagli alberi, dalla scala e dalle figurine di uccelli, pure il viaggio dello sciamano appare svolgersi nella direzione opposta (le «tenebre» che debbono esser rischiarate dalle scintille). Del resto, qui lo sciamano non porta l'animale sacrificato a Buga, l'Essere supremo, bensì soltanto agli spiriti delle regioni superiori. Sedute di tal tipo sono state osservate presso i Tungusi-Renna della Transbaikalia e della Manciuria, ma sono ignote ai gruppi tungusi della Manciuria settentrionale; il che potrebbe convalidare l'ipotesi di una influenza buriata.

Oltre a questi due grandi tipi di sedute sciamaniche i Tungusi conoscono diverse altre forme che non hanno relazioni precise col mondo d'in alto o con quello d'in basso, ma che riguardano gli spiriti di questo stesso mondo. Qui lo scopo è dominare tali spiriti, allontanare quelli malvagi, sacrificare a quelli che potrebbero divenire ostili, e via dicendo. Naturalmente, numerose sedute sono motivate da malattie, perché si suppone che certi spiriti le provochino. Per identificare l'autore dei disturbi lo sciamano s'incorpora il suo spirito familiare e fa finta di dormire (mediocre imitazione della trance sciamanica), oppure si sforza di evocare e di incorporare lo spirito autore del male nel corpo stesso del malato. Infatti la molteplicità delle anime (qui se ne contano tre) e la loro instabilità rende talvolta difficile il compito dello sciamano. Si tratta di identificare quale di queste anime abbia lasciato il corpo e di cercarla: lo sciamano richiama l'anima usando o frasi convenute o certi canti, e si sforza di farla rientrare nel corpo abbozzando dei movimenti ritmici. Però talvolta accade che degli spiriti si siano installati nel malato; allora lo sciamano li espelle con l'aiuto dei suoi spiriti familiari.

L'estasi ha una parte notevole nello sciamanismo tunguso propriamente detto; la danza e il canto sono i mezzi più usati per realizzarla. La fenomenologia delle sedute tunguse ricorda in tutto quella delle sedute degli altri popoli siberiani: si odono le voci degli spiriti; lo sciamano diviene molto «leggero», può far dei salti in aria vestito del costume che talvolta pesa fino a trenta chili, e il paziente avverte appena il peso di lui quando gli cammina sopra il che va spiegato col potere magico di levitazione e di «volo»; durante la trance egli sente un gran calore, per cui può giuocare con brace e ferro arroventato; raggiunge una completa insensibilità (ad esempio, si ferisce profondamente senza che scorra sangue), e via dicendo. Tutto ciò, come si vedrà meglio in seguito, fa parte di un antico retaggio magico che sopravvive ancora negli angoli più lontani del mondo e che è dunque anteriore alle influenze meridionali che han tanto contribuito a conferire allo sciamanismo tunguso il suo aspetto attuale. Pel momento, basterà l'aver indicato brevemente le due tradizioni magiche individuabili nello sciamanismo tunguso: il suo fondo, che si potrebbe chiamare «arcaico», e l'apporto meridionale sino-buddhista. La loro importanza ci si rivelerà quando cercheremo di tracciare, nelle sue grandi linee, la storia dello sciamanismo nell'Asia centrale e settentrionale.

Si incontra una forma simile di sciamanismo presso le tribù degli Orocci e degli Udehe. Lopatin fornisce una lunga descrizione della seduta terapeutica degli Orocci di Ulka (sul fiume Tumnin). Lo sciamano comincia con una preghiera al suo spirito custode, perché lui - lo sciamano - è debole, ma il suo spirito è onnipotente e nulla può resistergli. Danza a nove riprese intorno al fuoco, poi intona un canto indirizzato al suo spirito. «Tu verrai! - gli dice -. Oh, tu verrai qui! Avrai pietà di questa povera gente, ecc.». Promette sangue fresco al suo spirito che, secondo certe allusioni che fa, sembra essere il Grande Uccello del Tuono. «Le tue ali di ferro! ... Le tue piume di ferro risuonano quando voli! Il tuo rostro possente è pronto ad afferrare i tuoi nemici! ...». Questa invocazione si prolunga per una trentina di minuti e lo sciamano la termina esausto.

Tutto ad un tratto, grida con voce diversa: «Son qui! ... Sono arrivato per aiutare questa povera gente!». Lo sciamano giunge all'estasi; danza intorno al fuoco, stende le braccia pur serbando il suo tamburo e il suo bastone, e grida nuovamente: «Volo! Volo! Sto per raggiungerti! Sto per afferrarti! Tu non potrai sfuggirmi!». Come più tardi se lo spiegò Lopatin, questa danza rappresentava il volo dello sciamano nel regno degli spiriti ove dava la caccia allo spirito maligno che s'era portato via l'anima del ragazzo ammalato. Segue un dialogo a più voci cosparso di parole incomprensibili. Infine lo sciamano esclama: «Ce l'ho! Ce l'ho» e, chiudendo le mani come se avesse preso qualcosa, s'avvicina al letto in cui giace il fanciullo ammalato e gli restituisce l'anima: infatti, come l'indomani lo sciamano spiegò a Lopatin, aveva catturato l'anima del fanciullo sotto forma di passero.

L'interesse di questa seduta consiste nel fatto che l'estasi dello sciamano non si traduce in trance, ma è raggiunta e mantenuta durante la danza che simboleggia il volo magico. Lo spirito protettore sembra essere l'Uccello del Tuono o l'Aquila, che ha SI gran parte nelle mitologie e nelle religioni dell'Asia settentrionale. Sicché, quantunque l'anima del malato sia stata rapita da uno spirito maligno, a questo non si dà la caccia - come ci saremmo attesi - nelle regioni inferiori, ma assai in alto nel Cielo.

 

 

 

 

 

 

Lo sciamanesimo Yukaghiro

back to index

 

Gli Yukaghiri hanno due termini per designare lo sciamano: alma (dal verbo «fare») e irkeye - letteralmente «colui che trema». L'alma cura i malati, offre i sacrifici, prega gli dèi per ottenere una ricca selvaggina ed ha rapporti sia col mondo sovrannaturale che col Regno delle Ombre. Nei tempi antichi le sue funzioni erano sicuramente più importanti, perché tutte le tribù yukaghire fanno risalire ad uno sciamano la loro origine. Fino al secolo scorso si veneravano ancora i crani degli sciamani morti: si incastonavano in una figura di legno che si conservava in un cofano. Nulla si intraprendeva senza aver proceduto alla divinazione mediante questi crani, usando, per ciò, il metodo più ricorrente nell'Asia artica: la pesantezza o la leggerezza del cranio equivalgono rispettivamente ad un «no» o ad un «SI». E ci si atteneva scrupolosamente al responso dell'oracolo. Il resto delle ossa veniva ripartito fra i parenti e la carne del cadavere veniva disseccata a che si conservasse meglio. Venivano anche innalzati degli «uomini-di-legno» alla memoria degli antenati sciamani (Jochelson).

Quando un uomo muore, le sue tre anime si separano: l'una resta presso il cadavere, la seconda si dirige verso il Paese delle Ombre, la terza sale in Cielo. Sembra che quest'ultima raggiunga il Dio supremo, il cui nome è Pon - letteralmente: «Qualche cosa». In ogni caso, l'anima che si trasforma in ombra sembra essere la più importante di tutte. Sul cammino, essa incontra una vecchia, guardiana della soglia dell'aldilà, poi giunge davanti a una fiumana che traversa in barca. Nel Regno delle Ombre il trapassato continua a condurre la stessa esistenza che aveva condotto sulla terra, accanto ai suoi parenti, occupato a cacciare animali-ombra. È nel Regno delle Ombre che lo sciamano discende per cercare l'anima del malato.

Ma in esso si reca anche in altra occasione: quando va a «rubarvi» un'anima per farla nascere quaggiù, introducendola in un grembo femminile. Infatti i morti ritornano in terra iniziandovi una nuova esistenza. Però qualche volta, quando i viventi dimenticano i loro doveri verso i trapassati, questi si rifiutano di inviar loro delle anime e le donne non generano più, Allora lo sciamano discende nel Regno delle Ombre e se non riesce a convincere i morti ruba un'anima e l'introduce a forza nel corpo della donna. Però in casi siffatti i bambini che nascono hanno la vita breve. Le loro anime hanno fretta di tornare nel Paese delle Ombre.

Qui s'incontrano alcuni vaghi accenni ad un'antica suddivisione degli sciamani in «buoni» e «cattivi» e così pure allusioni a donne-sciamano, oggi scomparse. Presso gli Yukaghiri non v'è traccia di partecipazione delle donne a ciò che è stato chiamato lo «sciamanismo di famiglia», o «domestico», sciamanismo che sopravvive presso i Coriachi e i Ciukci, e che consente alle donne di serbare i tamburi familiari. Però nei tempi antichi ogni famiglia yukaghira possedeva un proprio tamburo, il che prova che almeno certe cerimonie «sciamaniche» venivano celebrate periodicamente dai membri della casa.

Stessa concezione di un «eterno ritorno» delle anime dei morti in Indonesia e altrove). Per scoprire quale antenato si incarni gli Yukaghiri in altri tempi praticavano la divinazione a mezzo di ossa di sciamani: si pronunciavano i nomi dei morti, e l'osso diveniva leggero quando il nome era quello di colui che si era reincarnato. Ancor oggi si recitano i nomi davanti al neonato, e questi sorride non appena ode il nome giusto.

Fra le diverse sedute descritte da Jochelson, sedute non tutte interessanti, ci limiteremo a riassumere quella che ci sembra essere la più importante e che ha per scopo una guarigione. Lo sciamano si siede per terra e dopo aver suonato a lungo il tamburo invoca i suoi spiriti protettori imitando la voce di animali: «O miei antenati! - egli grida - venitemi vicino! Per aiutarmi, portatemi vicino le mie giovani-spirito! Venite qui!». Ricomincia a suonare il tamburo e vestito si con l'aiuto del suo assistente, si avvicina alla porta e aspira profondamente l'aria onde far entrare in sé le anime degli antenati e gli altri spiriti che ha evocato. «Sembra che l'anima del malato si sia diretta verso il Regno delle Ombre!» annunciano, per mezzo della sua voce, gli spiriti degli antenati. I genitori del paziente l'incoraggiano: «Sù forte! sù forte!». Lo sciamano posa il tamburo, si stende bocconi sulla pelle di renna e diviene immobile: è, questo, il segno che egli ha lasciato il corpo e che sta viaggiando nell'aldilà. È disceso nel Regno delle Ombre «mediante il suo tamburo, come se si fosse immerso in un lago» (Del resto, il tamburo si chiama yàlgil, «mare»). Resta cosi a lungo, senza muoversi, e tutti i presenti attendono pazientemente il suo risveglio.

Lo sciamano raccontò poi a Jochelson il suo viaggio estatico. Accompagnato dai suoi spiriti ausiliari egli aveva preso il cammino che conduce al Regno delle Ombre. Era giunto ad una casetta incontrando un cane che si mise ad abbaiare. Una vecchia, che era la guardiana del cammino, usci dalla casa e gli domandò se fosse venuto per sempre oppure solo per un certo tempo. Lo sciamano non le aveva risposto e, rivolto si ai suoi spiriti, aveva detto: «Non ascoltate le parole della vecchia! Continuate il vostro cammìno!». Poco dopo essi raggiungevano un fiume. Vi era una barca e sull'altra riva lo sciamano scorse tende e uomini. Sempre accompagnato dagli spiriti lo sciamano sali sull'imbarcazione e attraversò il fiume. Incontrò le anime di parenti morti del malato e, essendo entrato nella loro tenda, vi scopri anche l'anima del malato. Poiché i parenti si rifiutavano di consegnargliela, lo sciamano fu costretto a prenderla con la forza. Per poterla ricondurre senza rischio in terra, lo sciamano aspirò l'anima del malato chiudendosi anche le orecchie per impedire che fuggisse da là. Il ritorno dello sciamano si manifestò con alcuni suoi movimenti. Due ragazze gli fecero dei massaggi alle gambe e lo sciamano, ritornato definitivamente in terra, restituì l'anima al corpo dell'ammalato. Poi si diresse verso la porta e congedò i suoi spiriti ausiliari. Si riconosce la scenografia classica delle discese' agli Inferni: la guardiana del soglio, il cane, l'attraversare il fiume. Inutile, qui, ricordare tutte le corrispondenze di tali motivi, nello sciamanismo e altrove; su alcune di esse torneremo più  giu.

Per ottenere la guarigione non è sempre necessario che lo sciamano yukaghiro vada a rubare l'anima negli Inferni. La seduta può esser da lui portata a compimento senza che intervengano le anime degli sciamani morti, e, pur invocando i suoi spiriti ausiliari e imitandone le voci, è al Creatore e ad altre potenze celesti che egli si rivolge. Questa particolarità mostra la polivalenza delle sue capacità estatiche. Di fatto, egli funge anche da intermediario fra gli uomini e gli dèi, motivo per la quale egli ha una parte di prim'ordine nella caccia: è sempre lui che può intercedere presso le divinità che, in un modo o nell'altro, governano il mondo animale. Cosi quando la carestia minaccia il clan lo sciamano procede ad una seduta simile in tutto e per tutto a quelle terapeutiche. Solo che invece di rivolgersi al Creatore-della-Luce o di discendere agli Inferni per cercarvi l'anima del malato, egli vola verso il Signore-della-Terra. Giunto al suo cospetto lo supplica cosi: «I tuoi figli mi hanno mandato affinché tu dia loro del cibo!». n Signore-della-Terra gli dà 1'«anima» di una renna e all'indomani lo sciamano si reca in un certo luogo situato presso un fiume ed attende: una renna passa e lo sciamano l'uccide con un colpo di freccia. Questo è il segno che la selvaggina non mancherà più.

Oltre che per tutti questi riti, lo sciamano è anche utilizzato come maestro di divinazione, che si pratica sia mediante ossa divinatorie, sia attraverso una seduta sciamanica. Questa qualità gli viene dai suoi rapporti con gli spiriti. Si può però supporre che l'importanza che hanno gli spiriti nelle credenze degli Yukaghiri risenta fortemente delle influenze yakute e tunguse. Due fatti ci sembrano significativi, a tale riguardo: da un lato, la coscienza, che gli Yukaghiri hanno, della decadenza attuale del loro sciamanismo ancestrale; dall'altro, le forti influenze yakute e tunguse riscontrabili nelle pratiche attuali degli sciamani yukaghiri.

 

 

 

 

 

 

Religione e sciamanismo presso i coriachi

back to index

 

I Coriachi conoscono un Essere supremo celeste: «Quello d'in alto», al quale sacrificano cani. Ma qui come altrove questo Essere supremo è piuttosto passivo: gli uomini sono esposti agli attacchi dello spirito malvagio Kalau, e «Quello d'in alto» di rado viene in loro aiuto. Però, mentre presso gli Yakuti e i Buriati l'importanza degli spiriti malvagi è divenuta considerevole, la religione dei Coriachi continua ad accordare uno spazio abbastanza grande all'Essere supremo e agli spiriti benigni. Kalau cerca sempre di intercettare i sacrifici offerti a «Quello d'in alto» e spesso vi riesce. Quando lo sciamano durante la cura sacrifica un cane all'Essere supremo, Kalau può dunque impadronirsi lui dell'offerta, nel qual caso il malato soccombe; se invece il sacrificio arriva fino in cielo, la guarigione è certa. I disegni ingenui di un Coriaco rappresentanti due sacrifici sciamanici: nel primo, Kalau intercetta l'offerta, con le note conseguenze; nel secondo, il cane sacrificato giunge fino a «Quello-d'in-alto», e il malato si salva. Si sacrifica a Dio rivolti verso Est, mentre ci si rivolge verso Ovest quando si sacrifica a Kalau. La stessa orientazione nei sacrifici presso gli Yakuti, i Samoiedi e gli Altaici. Presso i Buriati si ha una inversione: l'Est vien riferito al malvagio Tengri, l'Ovest al buon Tengri.

Kalau è il Mago Malvagio, la Morte e probabilmente anche il Primo Morto. In ogni caso, è lui a causare la morte degli umani divorando le loro carni e specialmente il fegato. Ora, si sa che in Australia ed anche altrove si crede che gli stregoni uccidano le loro vittime proprio mangiandone, durante il sonno, il fegato e gli organi interni.

Lo sciamanismo conserva ancora una parte abbastanza notevole nella religione dei Coriachi. Ma anche qui incontriamo il motivo della «decadenza dello sciamano». È importante che per questo popolo la decadenza dello sciamano avrebbe fatto seguito alla decadenza della umanità in genere, una tragedia spirituale sopravvenuta già da molto tempo. Nell'èra mitica dell'eroe Gran-Corvo gli uomini potevano ascendere senza fatica al Cielo e discendere in modo altrettanto facile agli Inferni; del che, oggi solo gli sciamani sono ancora capaci. In questi miti, al cielo si saliva attraverso l'apertura centrale della volta, che serve al Creatore-della-Terra per guardare quaggiù; oppure vi si saliva seguendo la via tracciata da una freccia lanciata verso il cielo (su questo motivo mitico, vedi più oltre). Ma, come lo abbiamo già visto nell'esporre altre tradizioni religiose, tali comunicazioni col Cielo e con gli Inferni sono state bruscamente interrotte (i Coriachi non precisano in seguito a quale avvenimento) e da allora solo gli sciamani sono ancora in grado di ristabilirle.

Senonché ai nostri giorni perfino gli sciamani hanno perduto i loro poteri miracolosi. Or non è molto gli sciamani potenti avevano ancora la capacità di restituire l'anima ad una persona morta da poco, tanto da farla tornare in vita; Jochelson ha sentito ancora raccontare prodezze del genere, di cui erano stati capaci gli «antichi sciamani», ma questi, si aggiungeva, già da tempo sono morti. In genere, la professione di sciamano appariva in regresso. Jochelson ha potuto incontrare soltanto due giovani sciamani, piuttosto poveri e senza prestigio. Le sedute alle quali ha assistito non presentavano un grande interesse. Si udivano suoni e voci strane che partivano da tutti gli angoli e che venivano attribuite agli spiriti ausiliari. D'un tratto tali voci cessavano e quando si faceva di nuovo luce, si trovava lo sciamano steso per terra, esausto, ed annunciava, in modo abbastanza maldestro, che gli spiriti gli avevano assicurato che la «malattia» avrebbe abbandonato il villaggio. In un'altra seduta che era cominciata, come d'abitudine, con canti, rulli di tamburo ed evocazioni di spiriti, lo sciamano chiese a Jochelson il coltello, dicendo che gli spiriti gli avevano ordinato di tagliuzzarsi. Ma non ne fece di nulla. È vero che gli narrò di altri sciamani che aprivano il corpo del paziente, cercavano la causa della malattie e mangiavano la parte della carne che la rappresentava, la ferita richiudendosi immediatamente.

Fra i Coriachi lo sciamano viene chiamato enenalan, cioè «uomo ispirato dagli spiriti». Infatti sono gli spiriti a decidere della carriera di uno sciamano; nessuno può divenire di propria volontà un enenalan. Gli spiriti si manifestano assumendo la forma di uccelli e di altri animali. Vi è ragione di supporre che gli «antichi sciamani» utilizzassero questi spiriti per poter discendere impunemente agli Inferni, come abbiamo visto fare agli sciamani yukaghiri e ad altri sciamani. Probabilmente essi dovevano guadagnarsi la benevolenza di Kalau e di altri personaggi infernali. Infatti alla morte l'anima sale in Cielo, verso l'Essere supremo, ma l'ombra e lo stesso trapassato discendono nelle regioni infere. L'ingresso agli Inferni è custodito da cani. L'Inferno propriamente detto è composto di villaggi simili a quelli terrestri, ogni famiglia avendo la propria casa. La via dell'Inferno comincia direttamente sotto la pira funeraria e resta aperta solo per il tempo necessario a che il morto vi passi. All'«apertura» del Cielo corrisponde quella della Terra che costituisce l'ingresso agli Inferni, secondo uno schema cosmologico caratteristico dell'Asia settentrionale - vedi: più oltre. Il cammino che si apre per subito richiudersi è un simbolo frequentissimo delle «rotture di livello», per cui ricorre nei racconti iniziatici. Cfr. il racconto coriaco di una giovinetta che si lascia divorare da un mostro cannibale per poter discendere rapidamente agli Inferni e ritornare in terra prima che il «cammino dei morti» si richiuda, insieme a tutte le altre vittime del cannibale. Questo racconto presenta, in una sorprendente coesione, vari motivi iniziatici: passaggio agli Inferni attraverso lo stomaco di un mostro; ricerca e salvataggio di vittime innocenti; cammino dell'aldilà che si apre e subito si richiude.

La decadenza dello sciamanismo coriaco si esprime anche nel fatto che lo sciamano non usa più un costume speciale; non possiede nemmeno un tamburo suo proprio. Ogni famiglia dispone di un tamburo che serve a ciò che Jochelson e Bogoras, e dopo di loro vari altri autori, han chiamato lo «sciamanismo domestico». Effettivamente, ogni famiglia pratica una sorta di sciamanismo in occasione dei suoi rituali domestici: i sacrifici e le cerimonie, periodiche o meno, che rappresentano i doveri religiosi della comunità. Secondo Jochelson e Bogoras lo «sciamanismo di famiglia» avrebbe preceduto lo sciamanismo professionale. Molti fatti, che avremo da segnalare, contraddicono questa idea. Lo sciamanismo siberiano conferma piuttosto ciò che s'incontra dappertutto nella storia delle religioni, vale a dire che sono i profani a sforzarsi di imitare le esperienze estatiche di certi esseri privilegiati, e non viceversa.

 

 

 

 

 

 

Lo sciamanismo tra i Ciukci

back to index

 

Lo «sciamanismo domestico», lo si ritrova anche fra i Ciukci inquantoché durante le cerimonie celebrate dal capo della famiglia tutti, compresi i bambini, si provano a suonare il tamburo. È quel che avviene, per esempio, in occasione delle «uccisioni d'autunno», quando si immolano degli animali col fine di assicurarsi la caccia per l'anno: si suona il tamburo - perché ogni famiglia possiede un suo tamburo - e ci si sforza di incorporarsi gli «spiriti» e di sciamanizzare. Ma secondo il parere dello stesso Bogoras è chiaro che qui si tratta solo di una mediocre imitazione delle sedute sciamaniche: la cerimonia ha luogo nella tenda esterna e di giorno, mentre le sedute sciamaniche si svolgono nella camera da letto, di notte e in una completa oscurità: i membri della famiglia imitano a turno un «esser posseduti dagli spiriti» alla sciamanica, contorcendosi, facendo salti in aria e cercando di emettere dei suoni inarticolati che dovrebbero essere la voce e il linguaggio degli «spiriti». Talvolta si tentano perfino delle guarigioni sciamaniche e vengono pronunciate delle profezie alle quali, peraltro, nessuno fa attenzione. Tutto ciò prova che qui i profani, in base ad un'esaltazione religiosa passeggera, si sforzano di raggiungere lo stato sciamanico con la riproduzione mimetica di tutti i gesti degli sciamani. Certo, il modello a cui ci si inspira è la trance del vero sciamano, ma l'imitazione si limita essenzialmente agli aspetti esterni di essa: le «voci degli spiriti» e il «linguaggio segreto», la pseudo-profezia e via dicendo. Almeno nella sua forma attuale, lo «sciamanismo domestico» non è che una imitazione scimmiesca della tecnica estatica dello sciamanismo professionale.

Del resto le sedute sciamaniche propriamente dette hanno Ìuogo di sera, dopo che le cerimonie religiose ora accennate son terminate; esse sono eseguite da sciamani professionisti. Lo «sciamanismo di famiglia» sembra esser proprio un fenomeno ibrido, dovuto verosimilmente ad una doppia causa: da un lato, vi sono una quantità di Ciukci che pretendono di essere sciamani e siccome ogni casa possiede il suo tamburo, sono molti coloro che nelle sere d'inverno si mettono appunto a cantare e a suonare il tamburo, giungendo talvolta perfino ad un'estasi para-sciamanica; d'altro lato, la tensione religiosa delle feste periodiche rende in atto forme latenti di esaltazione e facilita un certo contagio. Ma, ripetiamolo, nell'un caso come nell'altro ci si sforza di imitare un modello, e cioè la tecnica estatica dello sciamano professionista.

Come dappertutto in Asia, presso i Ciukci la vocazione sciamanica si manifesta generalmente con una crisi spirituale provocata sia da una «malattia iniziatica», sia da un'apparizione sovrannaturale (un lupo, un tricheco o altri animali che appaiono in un momento di estremo pericolo e salvano il futuro sciamano). In ogni caso, la crisi causata dal «segno» (malattia, apparizione, ecc.) ha una soluzione integrale nella stessa esperienza sciamanica: il periodo di preparazione viene assimilato, dai Ciukci, ad una grave malattia, e 1'«inspirazione» (cioè il compimento dell'iniziazione) è omologata ad una guarigione (Bogoras). La maggior parte degli sciamani incontrati da Bogoras pretendeva di non aver avuto maestri (p. 425), il che non vuole però dire che essi non abbiano avuto degli istruttori sovrumani. L'incontro degli «animali sciamanici» sta già ad indicarci il genere di istruzione che può aver ricevuta un apprendista. Uno sciamano raccontò a Bogoras che già da adolescente udi una voce che gli comandava: «Va' nella solitudine: troverai un tamburo. Mettiti a suonarlo e vedrai il mondo intero!». Egli obbedì e riusci effettivamente a salire in cielo e perfino a piantare la sua tenda sulle nubi (La tradizione delle ascese celesti è parimenti assai viva nei miti ciukci - vedi p. es. la storia del giovane che, sposando una fata celeste («skygiri») ascende in Cielo scalando una montagna a picco:). Infatti, quale pur sia la tendenza generale dello sciamanismo ciukce nella sua fase attuale (cioè in quella osservata dagli etnografi agli inizi del nostro secolo), anche lo sciamano ciukce è capace di innalzarsi nell'aria e di attraversare l'un cielo dopo l'altro, passando per l'apertura della Stella Polare.

Ma fra i Ciukci si ritrova anche ciò che abbiamo già constatato presso altre popolazioni siberiane, ossia la coscienza di una decadenza dei loro sciamani: i quali, ad esempio, ricorrono al tabacco come stimolante, costume venuto ai Ciukci dai Tungusi (Bogoras). E mentre il loro folklore è fin troppo ricco di racconti di trance e di viaggi estatici degli antichi sciamani alla ricerca delle anime dei malati, lo sciamano ciukce attuale si accontenta di una pseudo-trance. Si ha l'impressione che la tecnica estatica sia in decadenza, per cui le sedute sciamaniche si riducono il più spesso alla evocazione degli spiriti e a delle prodezze fachiriche.

Purtuttavia dallo stesso lessico sciamanico risulta il valore estatico che in questi popoli fu già attribuito alla trance. Il tamburo vien chiamato «barca» e di uno sciamano in trance si dice che egli «s'immerge» (Bogoras). Ciò prova che la seduta sciamanica veniva considerata come un viaggio nell'aldilà sottomarino (come presso gli Eschimesi), cosa che peraltro non impediva che lo sciamano, se lo desiderava, potesse anche salire al più alto dei Cieli. Ma la ricerca dell'anima perduta del malato implicava una discesa agli Inferni, come lo stesso folklore attesta. Oggi le sedute terapeutiche si svolgono nel modo seguente: lo sciamano si toglie la camicia e, a torso nudo, fuma la pipa e comincia a suonare il tamburo e a cantare. È una melodia semplice, senza parole; ogni sciamano ha canti suoi propri, che talvolta improvvisa. Ad un tratto si sente la voce degli «spiriti», da tutti gli angoli, voci che sembrano venire da sottoterra o da una grande distanza. Il ke'let entra nel corpo dello sciamano e questi, agitando il capo, comincia a gridare ed a parlare con una voce di testa, che sarebbe la voce stessa dello spirito. Bogoras crede di potere spiegare le «voci separate» degli sciamani ciukci con la ventriloquia. Ma il suo fonografo ha registrato tutte queste «voci» proprio come risuonanti nell'ambiente, cioè venute da porte o sorte da angoli della camera e non come emesse dallo sciamano. Le registrazioni «mostrano una differenza nettissima fra la voce dello sciamano, che risuonava da lontano, e le voci degli "spiriti", che sembravano parlar direttamente nel corno dell'apparecchio". Più giù riferiremo qualche altra dimostrazione dei poteri magici degli sciamani ciukci. Come abbiamo già detto, il problema dell'«autenticità» di tutti questi fenomeni sciamanici cade fuori del quadro del presente lavoro. Vedi l'analisi e l'interpretazione ardita di tali fenomeni in De Martino, Il mondo magico.

Nel frattempo nell'oscurità della tenda si verificano fenomeni strani d'ogni specie: levitazione di oggetti, un tremare della stessa tenda, pioggia di pietre e di pezzi di legno, ecc. Usando la voce dello sciamano gli spiriti dei morti s'intrattengono coi presenti.

Se qui le sedute sono ricche di fenomeni parapsicologici, la trance propriamente sciamanica vi appare sempre più di rado. Talvolta lo sciamano cade a terra privo di sensi e allora la sua anima lascerebbe il corpo e andrebbe a chieder consiglio agli spiriti. Ma si affronta questa estasi solo se il paziente è ricco abbastanza per rimunerarla adeguatamente. E perfino in tali casi, secondo Bogoras, si tratta di una simulazione: lo sciamano smette di suonare il tamburo e si stende a terra, immobile; sua moglie gli copre il volto con una stoffa, fa di nuovo luce e si mette lei a suonare il tamburo. Dopo un quarto d'ora lo sciamano fa come se si svegliasse e dà «consigli» all'ammalato. Un tempo, la vera ricerca dell'anima del malato si compiva nella trance; oggidi essa è sostituita da una pseudo-trance oppure dal sonno, giacché i Ciukci considerano i sogni come una presa di contatto con gli spiriti; dopo una notte di sonno profondo lo sciamano si desta con l'anima del malato nel pugno e procede immediatamente a reintegrarla nel corpo. Lo sciamano aprirebbe il cranio del malato per rintrodurvi l'anima che ha catturata in forma di mosca; ma può introdurvela anche attraverso la bocca, le dita della mano o del piede (cfr. Bogoras). L'anima umana si manifesta in genere sotto forma di mosca o di ape. Ma i Ciukci, come gli altri popoli siberiani, conoscono più di un'anima: dopo la morte una di esse sale al Cielo col fumo della pira funeraria, un'altra scende negli Inferni ove la sua esistenza continua esattamente come sulla terra.

Da questi pochi esempi si può valutare la decadenza attuale dello sciamanismo ciukce. Benché gli schemi dello sciamanismo classico sopravvivano ancora nelle tradizioni del folklore e anche nelle tecniche terapeutiche (ascese, discesa agli Inferni, ricerca dell'anima, ecc.), pure qui l'esperienza sciamanica propriamente detta si riduce ad una specie di incorporazione «spiritistica» e ad una fenomenologia di tipo fachirico. Gli sciamani ciukci conoscono parimenti un altro metodo classico di guarigione: la suzione. Essi mostrano poi la causa della malattia: un insetto, una pietruzza, una spina, ecc. Spesso procedono perfino ad una «operazione» conservante ancora tutto il suo carattere sciamanico: mediante un coltello rituale reso ben «caldo» da certi esercizi magici, lo sciamano pretende di aprire il corpo del malato onde esaminare gli organi interni ed estrarre la causa del male. Bogoras ha perfino assistito ad una «operazione» del genere: un ragazzo sui quattordici anni si distese completamente nudo per terra e la madre, una sciamana di grande fama, gli apri l'addome: si poteva vedere il sangue e la ferita, nella quale la sciamana affondò la mano. Nel frattempo la sciamana sentiva in sé come un fuoco e beveva acqua ininterrottamente. Poco dopo la ferita era scomparsa, e Bogoras non poté rinvenirne la minima traccia. Un altro sciamano, dopo aver suonato lungamente il tamburo onde «scaldare» il proprio corpo e il suo coltello a tal segno che, secondo lui, il colpo di coltello non lo avrebbe nemmeno sentito, si aprì l'addome. Simili prodezze sono frequenti in tutta l'Asia settentrionale ed hanno relazione col «dominio sul fuoco», perché gli stessi sciamani che si tagliano il corpo sono anche capaci di inghiottire carboni ardenti e di toccare impunemente del ferro arroventato a bianco. La gran parte di questi tricks viene eseguita in pieno giorno. Bogoras ha assistito, fra l'altro, al seguente fenomeno: una sciamana si mise a strofinare una piccola pietra e una quantità di ciottoli cadde dalle sue dita, andandosi a ammassare nel tamburo. Alla fine dell'esperimento tali ciottoli avevano formato un mucchio di notevoli dimensioni, mentre la pietra che la sciamana aveva stropicciata tra le dita, era rimasta intatta. Cose del genere avvengono durante le gare di esperimenti magici ai quali, con grande spirito di emulazione, si danno gli sciamani in occasione di cerimonie religiose periodiche. Nel folklore si trovano frequenti allusioni ad operazioni analoghe, il che fa pensare che gli «antichi sciamani» disponessero di poteri magici ancor più stupefacenti. Quanto alla divinazione, essa è praticata tanto dagli sciamani che dai profani. Il metodo più frequente consiste nell'appendere un oggetto all'estremità di un filo, come fanno gli Eschimesi. Si pratica la divinazione usando anche la testa o il piede dell'uomo e un tale sistema è usato specialmente dalle donne, ad esempio fra i Camciadali e gli Eschimesi americani. Sulla divinazione con scapole di renna, cfr. Bogoras; questo mezzo di divinazione è diffuso in tutta l'Asia centrale ed è stato anche accertato nella protostoria della Cina. Non abbiamo creduto necessario indicare gli specifici metodi divinatori relativi ad ogni popolazione di cui abbiamo esaminato le tradizioni e le tecniche sciamaniche. Nell'insieme, essi si rassomigliano. Ma è bene ricordare che in tutta l'Asia settentrionale le basi ideologiche della divinazione vanno cercate nella credenza di un «Incorpo rarsi» degli spiriti, e ciò vale anche per gran parte dell'Oceania.

Lo sciamanismo ciukce è interessante ancora per un lato: esiste una classe speciale di sciamani «trasformati in donne». Sono gli «uomini molli» o «simili alle donne» che, per ordine del ke'let, hanno fatti propri gli abiti e i costumi delle donne, sposando perfino altri uomini. In genere, l'ordine del ke'let non viene eseguito che a metà: lo sciamano si traveste, ma continua a coabitare con sua moglie e ad aver dei figli. Alcuni hanno preferito suicidarsi, anziché eseguire l'ordine, per quanto l'omosessualità non sia ignota fra i Ciukci. La trasformazione rituale in donna la s'incontra anche fra i Camciadali, gli Eschimesi asiatici e i Coriachi; però fra questi ultimi Jochelson non ne ha più trovato che il ricordo. Il fenomeno, benché raro, non è limitato all'Asia nord-orientale; il travestimento e il mutamento rituale di sesso lo si incontra, ad esempio, anche in Indonesia (i manang bali dei Daiachi marittimi), nell'America del Sud (popoli della Patagonia e Araucani) e presso certe tribù nord-americane (Arapaho, Cheynee, Ute, ecc.). La trasformazione simbolica e rituale in donna si spiega verosimilmente con una ideologia derivata dal matriarcato primordiale; ma, come a suo luogo avremo occasione di vedere, essa non sembra dirci di una preminenza della donna nel più antico sciamanismo. In ogni caso, l'esistenza di questa speciale classe di «uomini simili alle donne» - che, del resto, ha una parte secondaria nello sciamanismo ciukce - non è riconducibile alla «decadenza dello sciamano», questo essendo un fenomeno diffuso anche di là dall'area dell'Asia settentrionale.

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 8: Sciamanismo e cosmologia

 

 

Le tre zone cosmiche e il pilastro del mondo

back to index

 

La tecnica sciamanica per eccellenza consiste nel passaggio da una regione cosmica all'altra: dalla Terra al Cielo o dalla Terra agli Inferni. Lo sciamano conosce il mistero delle rotture di livello. Questa comunicazione fra le zone cosmiche è resa possibile dalla struttura stessa dell'Universo che, come subito vedremo, viene concepito, nel suo insieme, come ripartito in tre piani - Cielo, Terra e Inferni - collegati fra loro da un asse centrale. Il simbolismo col quale viene espressa la solidarietà e la comunicazione fra le tre zone cosmiche è abbastanza complesso e non sempre esente da contraddizioni: si è che questo simbolismo ha avuto una «storia» ed è stato più volte modificato e contaminato nel corso dei tempi da altri simbolismi cosmologici più recenti. Ma lo schema essenziale resta sempre visibile, anche nelle forme terminali che risentono di numerose influenze: esistono tre grandi regioni cosmiche che possono esser attraversate successivamente perché sono collegate da un asse centrale. Naturalmente, questo asse passa per una «apertura», per un «foro»; usando questo foro gli dèi scendono sulla terra e i morti nelle regioni sotterranee; ed è del pari grazie ad esso che l'anima dello sciamano in estasi può innalzarsi in volo o discendere nei suoi viaggi celesti o infernali.

Prima di dare qualche esempio di questa topografia cosmica occorre fare una osservazione preliminare. Il simbolismo del «Centro» non è necessariamente una idea cosmologica. Originariamente ha avuto carattere di «centro», luogo possibile di una rottura di livello, ogni spazio sacro, cioè ogni spazio cui si leghi una ierofania e che manifesti delle realtà (forze, figure, ecc.) che non sono del nostro mondo, che vengono da un'altra parte, e in primo luogo dal Cielo. Si è giunti all'idea di un «Centro» perché si aveva l'esperienza di uno spazio sacro, impregnato da una presenza trans-umana: in quel luogo preciso qualcosa di proveniente dall'alto o dal basso si era manifestato. In seguito, si è imaginato che la manifestazione del sacro implicasse, di per se stessa, una rottura di livello.

Come molti altri popoli, i Turco-Tartari concepiscono il cielo come una tenda; la Via Lattea ne è la «cucitura», le stelle sono i «buchi» per far passare la luce. Secondo gli Y akuti, le stelle sono le «finestre del mondo», sono aperture create per l'aereazione delle varie sfere del Cielo (che generalmente sono nove, ma che possono anche essere dodici, cinque o sette). Di tempo in tempo gli dèi aprono la tenda per guardare sulla terra, ed è allora che appaiono le meteore. Il Cielo vien parimenti concepito come un coperchio; può accadere che esso non sia perfettamente fissato agli orli della terra, ed allora si hanno le tempeste di vento che passano per l'interstizio. Attraverso queste stesse fessure gli eroi ed altri esseri privilegiati possono scivolare e penetrare nel Cielo. Ehrenreich rileva che questa idea mitico-religiosa domina tutto l'emisfero settentrionale. E ancora un'espressione del simbolismo, diffusìsslmo, dell'accesso al cielo per mezzo di una «porta stretta lO; l'interstizio fra i due livelli cosmici si spalanca per un solo istante e l'eroe (o l'iniziato, lo sciamano, ecc.) deve saper approfittare di tale istante paradossale per penerrare nell'«aldilà».

In mezzo al Cielo brilla la Stella Polare, che sostiene la tenda celeste come il suo palo centrale. I Samoiedi la chiamano «il Chiodo del Cielo», i Ciukci e i Coriachi «la stella-Chiodo»: la stessa imagine e la stessa terminologia ricorrono fra i Lapponi, i Finni, gli Estoni. I Turco-Altaici concepiscono la Stella Polare come un Pilastro: essa è «il Pilastro d'Oro» dei Mongoli, dei Calmucchi, dei Buriati, «il Pilastro di Ferro» dei Kirghisi, dei Bashkiri e dei Tartari siberiani, «il Pilastro solare» dei Teleuti. L'irminsul dei Sassoni da Rudolf von Fulda (Translatio S. Alexandri) fu chiamato universalis columna quasi sustinens omnia. I Lapponi scandinavi hanno ripreso questa idea dagli antichi Germani: essi chiamano la Stella Polare e il Pilastro del Cielo» o «del Mondo». Si può fare un raffronto tra l'irminstil e le colonne di Giove. Idee analoghe continuano a sopravvivere nel folklore dell'Europa sud-orientale - cfr. ad esempio la Coloana Ceriului (la Colonna del Cielo) dei Romeni.

Una imagine mitica complementare è quella degli astri collegati alla Stella Polare in modo invisibile. I Buriati si figurano le stelle come una mandria di cavalli e la Stella Polare («il Pilastro del Mondo») è il palo al quale esse vengono attaccate.

Come è da aspettarsi, questa cosmologia ha avuto una replica perfetta nel microcosmo abitato dagli umani. L'asse del Mondo vi è stato raffigurato in un modo concreto, sia coi pilastri che sostengono l'abitazione, sia sotto specie di pali isolati chiamati «Pilastri del Mondo». Ad esempio, per gli Eschimesi il Pilastro del Cielo è identico in tutto e per tutto al palo che si trova nel mezzo delle loro abitazioni. Il palo della tenda, dai Tartari dell'Altai, dai Buriati e dai Soioti viene assimilato al Pilastro del Cielo. Presso i Soioti esso si innalza oltre la sommità della yurta ed è ornato da stracci azzurri, bianchi e gialli, rappresentanti i colori delle regioni celesti. Questo palo è sacro; vien quasi considerato come un essere divino. Alla sua base v'è un piccolo altare di pietra sul quale vengono deposte le offerte.

Il pilastro centrale è un elemento caratteristico dell'abitazione delle popolazioni primitive (dell'«Urkultur» della scuola Graebener-Schmidt) artiche e nord-americane; lo si incontra fra i Samoiedi e gli Ainu, fra le tribù californiane del Nord e del Centro (Maidu, Pomo orientali, Patwin) e fra gli Algonchini. Ai piedi del pilastro si fanno i sacrifici e si pronunciano le preghiere, perché è lui che apre il cammino verso l'Essere supremo celeste. Lo stesso simbolismo microcosmico si è parimenti conservato fra i pastori allevatori di bestiame dell'Asia centrale, ma la forma dell'abitazione essendosi modificata (la «casa» a tetto conico con palo centrale ha dato luogo alla yurta), la funzione mitico-religiosa del pilastro è passata all'apertura superiore da dove esce il fumo. Presso gli Ostiachi questa apertura corrisponde all'analogo orificio che ha la «Casa del Cielo» e i Ciukci l'hanno assimilata al «buco» che, nella volta celeste, è costituito dalla stella polare. Gli Ostiachi parlano anche dei «tubi d'oro della Casa del Cielo» o dei «Sette tubi del Dio-Cielo». Gli Altaici credono parimenti che grazie a tali «tubi» lo sciamano può passare dall'una zona cosmica all'altra. Anche la tenda innalzata per la già descritta cerimonia dell'ascensione dello sciamano altaico è assimilata alla volta celeste e, come questa, ha un'apertura per il fumo (Harva). I Ciukci sanno che «il foro del Cielo» è la Stella Polare, che i tre mondi sono collegati fra di loro da fori dello stesso genere e che è grazie ad essi che lo sciamano e gli eroi nuncr comunicano col Cielo. E presso gli Altaici - come presso i Ciukci - il cammino del Cielo passa per la Stella Polare. Gli udesbi burkhan dei Buriati aprono il cammino allo sciamano nella stessa guisa in cui si aprono delle porte.

Naturalmente, questo simbolismo non è proprio alle sole regioni artiche e nord-asiatiche. Il sacro pilastro innalzantesi nel mezzo della casa lo si ritrova anche fra i pastori camiti Galla e Hadiya, fra i camitoidi Nandi e fra i Khasi. Presso tutti questi popoli delle offerte sacrificali vengono deposte ai piedi di tale pilastro; talvolta, si tratta di oblazioni di latte al Dio celeste (come fra le tribù africane ora citate); in dati casi si offrono anche sacrifici cruenti (per esempio fra i Galla).

Il problema dell'origine empirica di tali concezioni (la struttura del Cosmo, ad esempio, concepita in base a certi elementi materiali delle abitazioni, a loro volta da spiegare in funzione delle necessità di adattamento all'ambiente, ecc.) è un problema mai posto, epperò sterile. Infatti per i «primitivi» in genere non esiste una differenza netta fra «naturale» e «sovrannaturale», fra oggetto empirico e simbolo. Un oggetto diviene «se stesso» (cioè incorpora un valore) nella misura in cui riproduce un archetipo, ecc. In ogni caso, questo problema delle «origini» dei valori è di competenza più della filosofia che non della storia. Infatti, per fare un solo esempio, non si vede in che cosa il fatto, che la scoperta delle prime leggi geometriche fu dovuta alle necessità empiriche dell'irrigazione del delta del Nilo, possa avere una qualunque importanza quanto al valore o meno di quelle leggi.

Talvolta il «Pilastro del Mondo» è stato rappresentato indipendentemente dall'abitazione: cosi fra gli antichi Germani (irminsul, di cui nel 772 Carlomagno fece distruggere una imagine), fra i Lapponi e le popolazioni ugre. Gli Ostiachi chiamano questi pali rituali «i pali possenti del Centro della Città»; gli Ostiachi di Zingala li conoscono sotto il nome di «Uomo-Pilastro di ferro», li invocano nelle loro preghiere come «Uomo» e «Padre» offrendo loro sacrifici cruenti.

Karjalainen ritiene, a torto, che questi pali sarebbero destinati a fissare la vittima sacrificale. Ma in realtà, come l'ha mostrato Harva, questo Pilastro vien chiamato «Uomo-Padre sette volte diviso», proprio come Sanke, il dio celeste, viene invocato come «Grande Uomo sette volte diviso, Sanke, mio Padre, mio Uomo-Padre che guarda nelle tre direzioni, ecc.». Il pilastro era talvolta segnato con sette incisioni: gli Ostiachi di Salym, quando offrono sacrifici cruenti, fanno sette incisioni su di un palo. Questo palo rituale corrisponde al «Santo Palo d'Argento puro diviso in sette parti» dei racconti voguli, ai quali i figli di Dio attaccano i loro cavalli quando vanno a far visita al loro Padre. Anche gli Yuraki offrono sacrifici cruenti agli idoli di legno (s;aadai) a sette faccie o con sette tacche; secondo Lahtisalo questi idoli stanno in relazione con gli «alberi sacri» (cioè con una degradazione dell' Albero Cosmico a sette rami). Qui assistiamo ad un processo di sostituzione ben noto nella storia delle religioni, che ha avuto luogo anche in altri casi nell'insieme religioso siberiano. Così, ad esempio, il pilastro che originariamente serviva come luogo per l'offerta al dio celeste Num diviene, presso i Samoiedi Yuraki, un oggetto sacro al quale si offrono sacrifici cruenti. Sul significato cosmologico del numero sette e sulla sua parte nei rituali sciamanici, vedi più  oltre.

Il simbolismo del Pilastro del Mondo è anche stato familiare alle civiltà più evolute: Egitto, India (per es. Rig-Veda, X, 89, 4; ecc.), Cina Grecia, Mesopotamia. Ad esempio, presso i Babilonesi il legame fra Cielo e Terra - legame simbolizzato da una Montagna Cosmica o dai suoi equivalenti; la ziqqurat, il tempio, la città reale, il palazzo - era talvolta concepito come una Colonna celeste. Vedremo subito che la stessa idea è anche espressa da altre imagini: l'Albero, il Ponte, la Scala, ecc. Tutte queste figurazioni fan parte di ciò che noi abbiam chiamato il simbolismo del «Centro», simbolismo che sembra risalire ad un'epoca abbastanza arcaica, dato che lo si ritrova fra le culture più «primitive».

Qui vale metter subito in risalto il seguente fatto: benché l'esperienza sciamanica propriamente detta abbia potuto essere valorizzata in termini di esperienza mistica grazie alla concezione cosmologica delle tre zone comunicanti, pure questa concezione cosmologica non appartiene esclusivamente all'ideologia dello sciamanismo siberiano e centro-asiatico, né a quella di un qualsiasi altro sciamanismo. Essa è una idea universalmente diffusa, connessa alla credenza stessa nella possibilità di una comunicazione diretta col Cielo. Sul piano macrocosmico questa comunicazione ha la sua raffigurazione in un'Asse (Albero, Monte, Pilastro, ecc.); sul piano microcosmico essa è significata dal pilastro centrale dell'abitazione o dall'apertura superiore della tenda; il che equivale a dire che ogni abitazione umana vien proiettata nel «Centro del Mondo», epperò che ogni altare, ogni tenda o casa rende possibile la rottura di livello e, pertanto l'ascesa al Cielo.

Nelle culture primordiali la comunicazione fra Cielo e Terra viene utilizzata per inviare le offerte agli dèi celesti, e non per intraprendere un'ascensione concreta e personale, quest'ultima restando di sola pertinenza dello sciamano. Solo gli sciamani sanno compiere l'ascensione attraversando l'«apertura centrale»; essi soli trasformano una concezione cosmo-teologica in una esperienza mistica concreta. Questo è un punto importante: esso, fra l'altro, mette in risalto la differenza esistente fra la vita religiosa di un popolo nord-asiatico e l'esperienza religiosa dei suoi sciamani, la quale è una esperienza personale ed estatica. In altri termini, ciò che per il resto della comunità resta un ideogramma cosmologico, per gli sciamani (come pure per gli eroi, ecc.) diviene un itinerario mistico. Ai primi il «Centro del Mondo» permette di inoltrare le loro preghiere e le loro offerte agli dèi celesti, mentre per i secondi esso è il luogo per «involarsi» in senso proprio. Una comunicazione reale fra le tre zone cosmiche non esiste che per questi ultimi.

A tale riguardo ci si ricorderà del mito, da noi già ripetutamente incontrato, di un'èra paradisiaca nella quale gli umani potevano ascendere facilmente in Cielo ed avevano rapporti familiari con gli dèi, Il simbolismo cosmologico dell'abitazione e l'esperienza dell'ascensione sciamanica confermano, per un altro riguardo, tale mito arcaico, ed ecco come: dopo il venir meno delle comunicazioni facili che all'alba dei tempi esistevano fra Cielo e Terra, fra gli umani e gli dèi, certi esseri privilegiati (e in primo luogo gli sciamani) hanno conservato il potere di realizzare, per conto proprio personale, il collegamento con le regioni superiori; del pari, lo sciamano è capace di volare e di accedere al Cielo per 1'«apertura centrale» mentre per il resto degli umani cotesta apertura serve unicamente per trasmettere le offerte. Nell'uno come nell'altro caso il regime privilegiato dello sciamano è dovuto alla sua facoltà di avere delle esperienze estatiche.

È stato necessario tornare più di una volta su questo punto, secondo noi fondamentale, per mettere in luce il carattere universale dell'ideologia implicita dello sciamanismo. Non sono gli sciamani che, da soli, han creato la mitologia e la teologia delle loro tribù; essi l'hanno solo interiorizzata, «sperimentata» e utilizzata per l'itinerario dei loro viaggi estatici.

 

 

 

 

 

 

La montagna cosmica

back to index

 

Un'altra imagine mitica di questo «Centro del Mondo» che rende possibile il collegamento fra Terra e Cielo è la Montagna Cosmica. I Tartari dell'Altai si imaginano che Bai Ulgan stia nel mezzo del Cielo, seduto su di una montagna d'oro (Radlov). I Tartari Abakan chiamano invece questo monte «la Montagna di Ferro»; i Mongoli, i Buriati, i Calmucchi la conoscono sotto i nomi di Sambur, Sumur o Sumer, nomi che tradiscono chiaramente l'influenza indù (= Meru). I Mongoli e i Calmucchi se la rappresentano poi a tre o quattro piani, mentre per i Tartari siberiani la Montagna Cosmica avrebbe sette piani. Nel suo viaggio mistico lo sciamano yakuta scala anche lui un monte a sette piani. La sua vetta si trova nella Stella Polare, «ombellico del Cielo». I Buriati dicono che la Stella Polare è attaccata alla sua cima.

L'idea di una Montagna Cosmica con valore di Centro del Mondo non è necessariamente di origine orientale, dato che, come si è accennato, il simbolismo del «Centro» sembra esser anteriore allo sviluppo delle civiltà paleo-orientali. Ma le antiche tradizioni dei popoli dell'Asia centrale e settentrionale - i quali conoscevano indubbiamente l'imagine di un «Centro del Mondo» e dell'Asse cosmico - sono state modificate dal continuo afflusso delle idee religiose orientali, di origine sia mesopotamica (diffusesi attraverso l'Iran), sia indiana (attraverso il lamaismo). Nella cosmologia indiana il monte Meru s'innalza nel centro del mondo e su di esso splende la Stella Polare. Allo stesso modo che gli dèi indù hanno afferrata questa Montagna cosmica (= Asse del Mondo) e con essa hanno agitato l'Oceano primordiale facendo cosi nascere l'Universo, del pari, secondo un mito calmucco, gli dèi hanno usato Sumer come un bastone per muovere l'Oceano, creando cosi il sole, la luna e le stelle (Harva). Un altro mito centro-asiatico attesta la penetrazione di elementi indiani: il dio Ocirvani (= Indra), assunta la forma dell'aquila Garide (= Garuda), assali la serpe Losun nell'Oceano primordiale, l'avvolse tre volte intorno al monte Sumeru e infine le schiacciò la testa.

Inutile ricordare tutte le altre montagne cosmiche conosciute dalle mitologie orientali e europee: l'Haraberezaiti degli Irani, ad esempio, l'Himingbjorg degli antichi Germani e via dicendo. Secondo le credenze mesopotamiche una montagna centrale collega il Cielo e la Terra: è il «Monte dei Paesi» che unisce le varie regioni. Ma lo stesso nome dei templi e delle torri sacre babilonesi testimonia la loro assimilazione alla Montagna cosmica: «Monte della Casa», «Casa del Monte di tutte le terre», «Monte delle tempeste», «Legame fra Cielo 'e Terra» ecc. La ziqqurat era, invero, una Montagna cosmica, una imagine simbolica del Cosmo; i suoi sette piani rappresentavano i sette cieli planetari (come a Borsippa) o avevano i colori del mondo (come a Ur). Il tempio Barabudur, vera imago mundi, era costruito in forma di monte. Di montagne artificiali si sa in India e cosi pure fra i Mongoli e nell'Asia sud-orientale. È verosimile che influenze mesopotamiche abbiano raggiunto l'India e l'Oceano Indiano, benché il simbolismo del «Centro» (Monte, Pilastro, Albero, Gigante) appartenga organicamente alla più antica spiritualità indiana.

Il monte Thabor, in Palestina, potrebbe significare tabbàr, cioè «ombellico», omphalos. Il monte Gerizim, nel centro della Palestina, godeva indubbiamente del prestigio di «centro», perché fu chiamato «ombellico della terra» (tabbur eres - cfr. Giudici, IX, 37: «È l'esercito che scende dall'ombellico del mondo»). Secondo una tradizione raccolta da Petrus Comestor, nel solstizio d'estate il sole non produrrebbe ombra alcuna alla «Fontana di Giacobbe» (presso Gerizim). Infatti - precisa Comestot - sunt qui dicunt illum esse umbelicum terrae nostrae habitabilis. Poiché la Palestina era il paese più elevato - giacché vicino alla Montagna cosmica - essa non fu sommersa dal diluvio. Un testo rabbinico dice: «La terra d'Israele non è stata ricoperta dalle acque del diluvio». Per i cristiani il Golgota si trovava nel centro del mondo, esso corrispondeva alla cima della Montagna cosmica essendo in pari tempo il luogo ove Adamo era stato creato e sepolto. È cosi che il sangue del Salvatore cadde sul teschio di Adamo, sepolto ai piedi stessi della Croce, e lo riscattò.

Altrove abbiamo già mostrato che questo simbolismo del «Centro» è frequente ed essenziale nelle civiltà (arcaiche, «primitive») non meno che in tutte le grandi civiltà orientali. Infatti, per [imitarci ad un cenno, si supponeva che i palazzi, le città regali e perfino le semplici abitazioni si trovassero nel Centro del Mondo, sulla vetta della Montagna cosmica. Abbiamo visto poco fa il senso profondo di questo simbolismo: nel «Centro» si rende possibile la rottura di livello, cioè la comunicazione col Cielo.

È una tale Montagna cosmica che il futuro sciamano scala in sogno durante la sua malattia iniziatica e che poi visita nei suoi viaggi estatici. L'ascensione di un monte significa sempre un viaggio al «Centro del Mondo». Come abbiamo visto, questo «Centro» vien reso presente in modi multipli, perfino attraverso la struttura delle abitazioni umane - però soltanto gli sciamani e gli eroi scalano effettivamente la Montagna cosmica, proprio come è lo sciamano che, nell'arrampicarsi sul suo albero rituale, sale di fatto sull'Albero del Mondo e cosi raggiunge il vertice dell'Universo, nel Cielo supremo.

 

 

 

 

 

 

L'albero del mondo

back to index

 

Infatti il simbolismo dell'Albero del Mondo è complemento di quello della Montagna centrale. Talvolta i due simbolismi interferiscono; in genere, l'uno integra l'altro. Ma l'uno come l'altro non sono che formule mitiche più elaborate del tema dell'Asse Cosmico (Pilastro del Mondo, ecc.).

Qui non è certo il caso di passare in rassegna tutto il considerevole materiale delle tradizioni nelle quali ricorre il motivo dell'Albero del Mondo. Ci basterà ricordare i temi più frequenti nell'Asia centrale e settentrionale e indicare la parte che essi hanno nell'ideologia e nell'esperienza sciamanica. L'Albero Cosmico è cosa essenziale per lo sciamano. Col legno di esso si costruisce il suo tamburo (vedi più su); scalando la betulla rituale egli raggiunge effettivamente la cima dell'Albero Cosmico; dinanzi alla sua yurta e all'interno di essa si trovano delle repliche di tale Albero, che egli disegna anche sul suo tamburo. Cosmologicamente, l'Albero del Mondo si erge nel centro della Terra, dove è il suo «ombellico», e i suoi rami superiori toccano il palazzo di Bai Ulgàn (Radlov). Nelle leggende dei Tartari Abakan una betulla bianca a sette rami cresce sulla cima di una Montagna di Ferro. I Mongoli si raffigurano la Montagna cosmica come una piramide a quattro faccie, con in mezzo un Albero: gli dèi se ne servono come palo per attaccarvi i cavalli, funzione che abbiamo vista attribuire allo stesso Pilastro del Mondo.

L'Albero collega le tre regioni cosmiche. Gli Ostiachi Vasiugani credono che i suoi rami tocchino il Cielo e che le sue radici raggiungano l'Inferno. Secondo i Tartari siberiani, una replica dell'Albero celeste si trova nell'Inferno: un abete a nove radici (o, secondo altre varianti, nove abeti) si erge dinanzi al palazzo di Irle Khan; il re dei morti e i suoi figli attaccano i loro cavalli al suo tronco. I Goldi conoscono tre Alberi cosmici: il primo SI trova nel Cielo (e le anime degli umani son posate sui suoi rami a guisa di uccelli, in attesa di esser fatte discendere sulla terra per dar nascita ai bambini), un altro Albero sta sulla Terra e il terzo nell'Inferno. I Mongoli parlano dell'Albero zambu le cui radici si sprofondano fino alla base del monte Sumer e la cui corona si estolle sulla sua vetta; gli dèi (Tengeri) si nutrono dei frutti dell'Albero e i demoni (asura) nascosti nei crepacci della Montagna li guardano pieni d'invidia. Un mito analogo lo si ritrova anche fra i Calmucchi e i Buriati.

Varie idee religiose sono implicate nel simbolismo dell'Albero del Mondo. Da un lato, esso rappresenta l'Universo in continuo processo di rigenerazione, la sorgente inesauribile della vita cosmica, il ricettacolo per eccellenza del sacro (perché è nel «Centro» che si raccoglie il sacro celeste, ecc.); dall'altro, l'Albero simboleggia il Cielo o l'insieme dei Cieli planetari. Torneremo fra un momento sull'Albero quale simbolo dei cieli planetari, questo simbolismo avendo una parte essenziale nello sciamanismo centro-asiatico e siberiano. Importa però ricordare fin d'ora che in numerose tradizioni primordiali l'Albero Cosmico, esprimente la sacralità stessa del mondo, la sua fecondità e la sua perennità, ha relazione con le idee di creazione, di fertilità e di iniziazione epperò, in ultima istanza, con lo stesso concetto della realtà assoluta e dell'immortalità. Cosi l'Albero del Mondo diviene anche un Albero della Vita e dell'Immortalità. Arricchito da innumerevoli equivalenti mitici e da simboli complementari (la Donna, la Fonte, il Latte, gli Animali, i Frutti, ecc.), l'Albero Cosmico ci si presenta sempre come lo stesso ricettacolo della vita e come il signore dei destini. Abbiamo già accennato ad un possibile modello iranico: l'Albero Gaokèrèna che cresce in un'isola del lago Vurukasha e vicino al quale si trova lo scorpione mostruoso creato da Arimane. Quanto al mito mongolo, esso è naturalmente d'origine indu: Zambu =Jambu. Cfr. anche l'Albero di Vita (= Albero cosmico) della tradizione cinese, albero che cresce su di un monte e le cui radici si sprofondano nell'Inferno

Sono, queste, idee antichissime, perché le si ritrovano fra numerosi popoli «primitivi», nel quadro di un simbolismo lunare ed iniziatico. Ma esse sono state frequentemente modificate e sviluppate, il simbolismo dell'Albero Cosmico essendo, nei suoi vari aspetti, quasi inesauribile. Non v'è dubbio che influenze sud-orientali abbiano notevolmente contribuito a dare alle mitologie delle popolazioni dell'Asia centrale e settentrionale il loro aspetto attuale. Soprattutto l'idea dell'Albero Cosmico quale serbatoio delle anime e «Libro dei destini» sembra essere stata importata da civiltà più evolute. In effetti l'Albero del Mondo vien concepito come un Albero che è vivente e che fa vivere. Per gli Yakuti nell'«ombellico d'oro della Terra» cresce un albero ad otto rami: è una specie di Paradiso primordiale, perché fu là che nacque il primo uomo il quale fu nutrito col Latte di una Donna uscita a metà dal tronco dell'Albero stesso. Come lo nota Harva, è difficile credere che una simile imagine possa essere stata inventata dagli Yakuti, dato l'aspro clima della Siberia settentrionale. I prototipi che vi corrispondono si trovano invece nell'Oriente antico, in India (ove Yama, il primo uomo, beve insieme agli dèi presso ad un albero miracoloso - Rig-Veda, X, 135, 1) e nell'Iran (Yima sulla Montagna cosmica dispensa l'immortalità agli uomini e agli animali - Y'asna, 9, 4; Yidéodar, 2, 5).

I Goldi, i Dolgani e i Tungusi dicono che le anime dei bambini, prima della nascita, stanno posate come uccellini sui rami dell'Albero Cosmico e che è là che gli sciamani vanno a cercarle (Harva). Questo tema mitico, che abbiamo già veduto figurare nei sogni iniziatici dei futuri sciamani, non è proprio alla sola Asia centrale e settentrionale; ad esempio, lo si ritrova anche in Africa e in Indonesia. Lo schema cosmologico Albero-Uccello (= Aquila), o quello dell'Albero con l'Uccello sulla cima e la Serpe alle sue radici, benché sia specifico dei popoli dell'Asia centrale e dei Germani, è probabilmente di origine orientale: ma, di fatto, un tale simbolismo appare già in vestigia preistoriche.

Un altro tema - la cui origine, questa volta, è nettamente esogena - è quello dell'Albero-Libro-dei-destini. Presso i Turchi Osmani l'Albero della Vita ha un milione di foglie e su ciascuna di esse sta scritto il destino di un dato essere umano; ogni volta che un uomo muore, una di queste foglie cade (Harva). Gli Ostiachi credono che una Dea, seduta su di una Montagna celeste a sette gradini, alla nascita di ogni uomo ne inseriva la sorte su di un albero a sette rami. La stessa credenza la si ritrova fra i Batachi, ma siccome tanto fra i Turchi che fra i Batachi l'uso della scrittura è abbastanza recente, l'origine orientale di quel mito è evidente. Gli Ostiachi pensano anch'essi che gli dèi cerchino l'avvenire di ogni nascituro in un libro del Destino; secondo le leggende dei Tartari siberiani, sette dèi scrivono in un «Libro della Vita» il destino del neonato. Ma tutte queste imagini derivano dalla concezione mesopotamica dei sette cieli planetari considerati come un Libro del Destino. Ne abbiamo qui ricordato il contesto perché lo sciamano, quando raggiunge la sommità dell'Albero Cosmico nell'ultimo dei Cieli, in un certo modo anche lui la delle domande circa «l'avvenire» della comunità e il «destino» del- 1'«anima». Secondo certe tribù africane, nel Cielo v'è un albero su cui si trovano i bambini: Dio li coglie e li getta sulla terra (Baumann); sul mito africano dell'origine dell'uomo dagli alberi. La prima coppia d'Antenati è nata, secondo le credenze dei Daiachi, dall'Albero della Vita (Scharer); vedi anche oltre. Ma bisogna sottolineare che l'imagine dell'anima (bambino)-uccello-Albero del Mondo è specifica dell'Asia centrale e settentrionale.

 

 

 

 

 

 

I numeri mistici 7 e 9

back to index

 

L'identificazione dell'Albero Cosmico a sette rami con sette cieli planetari è certamente dovuta a influenze di origine mesopotamica. Ma, ripetiamolo, ciò non vuol dire che la nozione dell'Albero Cosmico = Asse del Mondo sia i Turco-Tartari che le altre popolazioni siberiane la abbiano conosciuta solo in base ad influenze orientali. L'ascesa al Cielo lungo l'Asse del Mondo è una idea universale e arcaica, anteriore all'idea della traversata delle sette regioni celesti (= dei sette cieli planetari), idea che ha potuto diffondersi nell'Asia centrale solo in un periodo di molto posteriore alle speculazioni mesopotamiche sui sette pianeti. È un fatto noto che il valore religioso del numero 3 - simboleggiante le tre regioni cosmiche - ha preceduto quello attribuito al numero 7. Si parla anche di 9 cieli (e di nove dèi, di nove rami dell'Albero Cosmico e cosi via), numero mistico che va verosimilmente spiegato con 3 X 3 e che è quindi da considerare come parte di un simbolismo più arcaico di quello cui rimanda il numero 7, di origine mesopotamica.

Lo sciamano monta su di un albero o su di un palo nel quale sono stati intagliati sette o nove tapty, rappresentanti altrettanti livelli celesti. Come l'ha notato Anochin, gli «ostacoli» (pudak) da vincere sono, in realtà, i cieli nei quali lo sciamano deve penetrare. Quando gli Yakuti fanno dei sacrifici cruenti, i loro sciamani drizzano allo scoperto un albero con nove gradini (tapty), su cui poi salgono, per portare l'offerta fino a Ai-tojon. L'iniziazione degli sciamani Sibo (affini ai Tungusi) richiede, come si è visto, la presenza di un albero con varie biforcazioni; un altro, più piccolo, con nove tapty intagliati sul suo tronco, vien conservato dallo sciamano nella sua yurta (Harva). È, questo, ancora un simbolo per la sua capacità di viaggiare estaticamente nelle regioni celesti.

Abbiamo visto che i Pilastri Cosmici degli Ostiachi hanno sette incisioni. I Voguli pensano che il Cielo lo si raggiunge salendo su per una scala a sette gradini. In tutta la Siberia sudorientale la concezione dei sette cieli è generale. Ma non è la sola attestata: l'imagine dei nove livelli celesti od anche di sedici, diciassette e perfino trentatré cieli non è meno diffusa in tale area. Come lo vedremo fra poco, il numero dei cieli non sta necessariamente in rapporto con quello degli dèi; le correlazioni fra il pantheon e il numero dei cieli appaiono anzi spesso alquanto forzate.

Gli Altaici parlano tanto di sette che di dodici, sedici o diciassette cieli (Radlov); presso i Teleuti l'albero sciamanico reca sedici incisioni, che rappresentano altrettanti livelli celesti (Harva). Nel cielo più alto abita Tengere Kaira Khan, «l'Imperatore misericordioso Cielo», e nei tre piani inferiori si trovano i tre principali dèi da lui prodotti con una specie di emanazione:

Bai Ulgan ha la sua sede nel sedicesimo, su di un trono d'oro posto alla sommità di un monte parimenti d'oro; Ksyùgan Tengere, «il Fortissimo», nel nono (non vien fornito nessun ragguaglio circa gli abitanti dei cieli dal quindicesimo al decimo); Mergen Tengere, «l'Onnisciente», sta nel settimo cielo, dove si trova anche il Sole. Negli altri piani ancor più  bassi abita il resto degli dèi insieme a numerose figure semi-divine (Radlov).

Fra questi stessi Tartari dell'Altai, Anochin ha anche accertato una tradizione affatto diversa: Bai Ulgan, il Dio supremo, abita il più alto cielo - qui, il settimo; Tengere Kaira Khan in questo pantbeon non ha più parte alcuna (abbiamo già rilevato come egli stia per scomparire dal l'attualità religiosa); i sette figli e le nove figlie di Ulgììn abitano nei Cieli, ma non vien precisato in quali.

Un gruppo di sette o nove figli (o «servitori») del dio celeste ricorre spesso nell' Asia centrale e settentrionale, fra gli Ugri non meno che fra i Turco-Tartari. I Voguli conoscono sette figli del Dio, gli Ostiachi Vasiugani parlano di sette dèi distribuiti nei sette Cieli: nel più alto di essi sta Num-tòrem, gli altri sette dèi son chiamati «i Guardiani del Cielo» (Tòremkarevel) o «gli interpreti del Cielo»». Un gruppo di sette dèi supremi lo si incontra anche fra gli Yakuti. Nella mitologia mongola si parla invece di «nove figli di Dio» o «Servi tori di Dio», che sono, ad un tempo, dèi protettori (sulde tengri) e dèi guerrieri. I Buriati conoscono anche i nomi di questi nove figli del Dio supremo, nomi che però variano da una regione all'altra. Il numero nove ricorre spesso nei rituali dei Ciuvasci del Volga e dei Ceremissi (Harva).

Oltre a questi gruppi di sette o nove dèi e alle corrispondenti imagini di sette o nove cieli, nell'Asia centrale s'incontrano gruppi divini ancor più numerosi: come i trentatré dèi (tengeri) che abitano Sumeru e il numero dei quali sembra essere di origine indiana (Harva). Verbitzki ha ritrovato fra gli Altaici l'idea dei trentatré cieli, idea accertata da Katanov anche fra i Soioti (Harva); tuttavia questo numero è poco frequente e si può supporre che esso sia di recente importazione, verosimilmente di origine indiana. Presso i Buriati il numero degli dèi è addirittura triplicato: si hanno novantanove dèi, divisi in buoni e malvagi e distribuiti per regioni: cinquantacinque dèi buoni nelle regioni a sud-ovest e quarantaquattro malvagi nel Nord-Est. Questi due gruppi di dèi si fanno guerra già da molto tempo. In altri tempi anche i Mongoli conoscevano novantanove tengri (Harva). Ma né i Buriati, né i Mongoli sanno dirci qualcosa di preciso su questi dèi, i cui nomi sono oscuri e artificiali.

Va tuttavia ricordato che la credenza in un Dio celeste supremo è molto antica e originaria nell' Asia centrale e nelle regioni artiche; altrettanto antica è la credenza nei «figli di Dio», benché il numero sette tradisca una influenza orientale e quindi recente. È probabile che l'ideologia sciamanica abbia avuto una sua parte nella diffusione del numero sette. Gahs pensa che il complesso mitico-culturale dell'Antenato lunare stia in relazione con gli idoli a sette incisioni e con l'Albero-Umanità a sette rami, epperò anche con i sacrifici cruenti periodici e «sciamanistici», di origine meridionale, che sono subentrati a anteriori sacrifici incruenti (offerta della testa e delle ossa agli dèi celesti supremi). Come pur stiano le cose a tale proposito, presso i Samoiedi Yuraki lo Spirito della Terra ha sette figli e gli idoli (sjaadai) hanno sette volti, o un volto con sette incisioni, o semplicemente sette incisioni; e questi sjaadai hanno relazione con gli alberi sacri. Si è visto che lo sciamano ha un costume ave sono attaccati sette campanelli, che rappresentano le voci delle Sette Figlie celesti (cfr. Mikhailovski). Presso gli Ostiachi dello Jenissei il futuro sciamano si ritira nella solitudine, si cuoce uno scoiattolo volante, ne fa otto parti, ne mangia sette e getta via l'ottava. Sette giorni dopo torna nello stesso posto e ottiene un segno decisivo per la sua vocazione. Il numero mistico 7 ha verosimilmente una parte importante nella tecnica e nell'estasi dello sciamano, inquantoché presso i Samoiedi Yuraki il futuro sciamano resta disteso sette giorni e sette notti in uno stato d'incoscienza, mentre gli spiriti lo fanno a pezzi e procedono all'iniziazione (Lehtisalo); gli sciamani ostiachi e lapponi mangiano dei funghi con sette macchie per entrare in trance; lo sciamano lappone riceve dal suo maestro un fungo a sette tacche (Itkonen); lo sciamano samoiedo yurako possiede un guanto a sette dita (Lehtisalo); lo sciamano ugro ha sette spiriti ausiliari (Karjalainen) e via dicendo. Si è potuto dimostrare che presso gli Ostiachi e i Voguli l'importanza del numero sette è dovuta a precise influenze dell'Oriente antico - e non v'è dubbio che per il resto dell'Asia centrale e settentrionale può dirsi la stessa cosa.

Quel che importa per la nostra ricerca è che lo sciamano sembra avere una conoscenza più diretta di tutti questi cieli epperò di tutti gli dèi e semi-dèi che vi abitano. Infatti, se egli può penetrare nelle varie regioni celesti è anche perché viene aiutato dai loro abitanti: prima di poter parlare a Bai Ulgan egli conversa con le altre entità celesti e chiede il loro appoggio e la loro protezione. Lo sciamano dà prova di una ugual conoscenza sperimentale anche per quel che concerne le regioni del mondo sotterraneo. L'ingresso dell'inferno dagli Altaici vien concepito come un'«apertura per il fumo» della terra e, naturalmente, esso si trova nel «Centro» (verso il Nord, secondo i miti dell'Asia centrale, che equivale al Centro del Cielo (Harva): infatti, come è noto, il «Nord» viene assimilato al «Centro» in tutta l'area asiatica, dall'India alla Siberia). Per una specie di simmetria, per l'Inferno sono stati concepiti tanti piani quanti ne ha il Cielo: tre secondo i Caragassi e i Soioti che conoscono tre cieli; sette o nove per la maggior parte dei popoli dell'Asia centrale e settentrionale. Abbiamo visto che lo sciamano altaico oltrepassa successivamente i sette «ostacoli» (pudak) dell'Inferno. Infatti è sempre lui, e lui soltanto, a possedere una conoscenza sperimentale degli Inferni, ave ha il potere di penetrare ancor da vivo, allo stesso modo che sa salire e scendere nei sette o nove cieli.

 

 

 

 

 

 

Sciamanismo e cosmologia nell'area oceanica

back to index

 

Senza aver la pretesa di confrontare due fenomeni così complessi, come lo sono da una parte lo sciamanismo del Nord e del Centro dell'Asia, e dall'altro lo sciamanismo dell'Indonesia e dell'Oceania, passeremo rapidamente in rassegna alcune tradizioni dell'area sud-orientale asiatica allo scopo di mettere in rilievo due punti: 1) il ricorrere, anche in queste regioni, del simbolismo arcaico delle tre zone cosmiche e dell'Asse del Mondo; 2) le influenze indiane (individuabili soprattutto in base al significato cosmologico e alla funzione religiosa che vi ha il numero 7) innestatesi sul fondo della religione autoctona. Ci sembra infatti che i due blocchi culturali, quello dell'Asia centrale e settentrionale da una parte, quello dell'Indonesia e dell'Oceania dall'altra, presentino, a tale riguardo, tratti comuni dovuti al fatto che l'uno come l'altro han visto le loro più antiche tradizioni religiose modificarsi sensibilmente in seguito all'irradiarsi di civiltà superiori. Qui non si tratta di fare un'analisi storico-culturale dell'area indonesiana e oceanica, un tale assunto andando troppo di là dal nostro argomento. C'importa soltanto fissare qualche punto atto a mostrarci da quali ideologie si sia partiti e con l'aiuto di quali tecniche abbia potuto svilupparsi il locale sciamanismo.

Fra le popolazioni più arcaiche della penisola di Malacca, e cioè fra i Pigmei Semang, ritroviamo il simbolo dell'Asse del Mondo: una roccia enorme, Batu-Ribn si erge sul centro del mondo; sotto ad essa sta l'Inferno. Una volta su Batu-Ribn s'innalzava verso il Cielo un tronco d'albero. Secondo informazioni raccolte da Evans, si vuole che una colonna di pietre, Batu Herem, faccia da sostegno al Cielo: la sua parte superiore attraversa la volta celeste e, uscendo di là dal cielo di Taperu, raggiunge una regione chiamata Ligoi, dove gli Shinoi risiedono e si divertono. L'Inferno, il centro della Terra e la «porta» del Cielo si trovano sullo stesso asse, ed è lungo questo asse che una volta si poteva passare da una regione cosmica all'altra. Si stenterebbe a credere nell'autenticità dì questo schema cosmologico fra i Pigmei Semeng se non si avesse ragione di credere che una teoria del genere era stata già abbozzata fin da tempi preistorici.

Quando esamineremo le credenze relative ai guaritori semang e alle loro tecniche magiche avremo occasione di riscontrarvi alcune influenze malesi (ad esempio, il potere di trasformarsi in tigre). Traccie dello stesso genere si possono altresì  rinvenire nelle loro idee intorno al destino dell'anima nell'aldilà. Alla morte l'anima lascia il corpo per il tallone e si dirige verso Oriente, fino a raggiungere il mare. Per sette giorni i trapassati possono ritornare ancora nel loro villaggio; dopo tale termine quelli fra loro che han condotto una vita onesta vengono accompagnati da Mampes in un'isola miracolosa, Belet; per giungervi, attraversano un ponte, a forma di montagne-russe, gettato al disopra del mare. Il ponte si chiama Balan Basham; Basham è una specie di felce che cresce all'altra estremità del ponte; là s'incontra una donna shinoi, Shinoi-Sagar, che si orna la testa con delle felci Basham e i morti debbon fare lo stesso prima di metter piede sull'isola Belet. Mampes è il guardiano del ponte e viene concepito come un Negrito gigantesco; è lui che mangia le offerte fatte in memoria dei morti. Arrivati all'isola, i trapassati si dirigono verso l'Albero Mapik (l'albero si trova verosimilmente nel centro dell'isola) ove sono radunati tutti gli altri defunti. Ma i nuovi venuti non possono ornarsi coi fiori dell'albero né gustarne i frutti prima che i morti che li hanno preceduti abbiano loro spezzate le ossa e abbiano loro voltati gli occhi nelle orbite, in modo che essi guardino verso l'interno. Una volta realizzate queste condizioni, essi diventano dei veri spiriti (kemoit) e possono mangiare i frutti dell'albero. Naturalmente, questo è un albero miracoloso e la Sorgente della Vita; infatti fra le sue radici si trovano dei semi gonfi di latte e si nascondono anche gli spiriti dei bambini _ probabilmente si tratta delle anime di coloro che debbono ancora nascere. Benché il mito raccolto da Evans taccia su questo punto, v'è da pensare che i trapassati ridivengano dei bambini, preparandosi dunque ad una nuova esistenza in terra.

Noi dunque ritroviamo il motivo dell'Albero della Vita, fra i rami dei quali si trovano le anime dei fanciulli, motivo che sembra essere assai antico benché appartenga ad un complesso religioso diverso da quello avente per centro il dio Ta Pedn e il simbolismo dell'Asse del Mondo. Di fatto, in questo mito traspare' da un lato la solidarietà mistica uomo-pianta, dall'altra si scorgono traccie di una ideologia matriarcale, estranea al complesso arcaico cui si lega il tema di un Dio supremo del Cielo, il simbolismo delle tre zone cosmiche, il mito di un tempo delle origini in cui le comunicazioni fra la Terra e il Cielo erano dirette e facili (mito del «Paradiso Perduto»). Inoltre il dettaglio, che i trapassati per sette giorni ancora possono tornare al loro villaggio, dimostra influenze ancor più recenti, indo-malesi.

Presso i Sakai tali influenze sono più accentuate; questo popolo crede che l'anima lasci il corpo dalla parte posteriore della testa e si diriga verso Occidente. Il morto cerca di penetrare in Cielo per la stessa porta attraverso la quale vi entrano le anime dei Malesi, ma, non riuscendovi, si avventura su di un ponte, Menteg, gettato sopra una gigantesca caldaia d'acqua bollente (questo è un motivo d'origine malese). Il ponte è costituito da un tronco d'albero senza scorza. Le anime dei malvagi cadono nella caldaia. Yenang s'impadronisce di esse e le brucia finché non ne resti che cenere; allora le pesa. Se le anime sono divenute leggere le invia in Cielo, altrimenti continua a bruciarle a che il fuoco le purifichi.

I Besisi del distretto Kuala Langat di Selangan parlano, come quelli di Bebrang, di un'Isola dei Frutti alla volta della quale partono le anime dei morti. Quest'isola ha lo stesso valore dell'Albero Mapik dei Semang. In essa gli uomini che invecchiano possono ridivenire fanciulli e ricominciare a crescere. È il mito diffusissimo del «paradiso» ove la vita si continua indefinitamente, perché ricomincia sempre di nuovo. Cfr. Tuma, l'isola degli spiriti (= morti) dei Melanesiani di Trobriand: «Quando essi (gli spiriti) si accorgono di invecchiare, abbandonano la loro pelle floscia, aggrinzita, e vengon fuori con un corpo coperto da una pelle tenera, con ricci neri, denti sani, pieni di vigore. È così che la loro vita è un perpetuo ricominciare e ringiovanire.

Secondo i Besisi l'Universo si compone di sei regioni superiori, della Terra e di sei regioni sotterranee (Evans) - sono vedute che tradiscono una mescolanza dell'antica concezione tripartita e delle idee cosmologiche indo-malesi.

Presso i Jakun si usa deporre sulle tombe un palo lungo cinque piedi, che ha quattordici incisioni: sette sull'una faccia, in senso ascendente, e sette sull'altra, in senso discendente; il palo vien chiamato «scala dell'anima». Avremo occasione di tornare sul simbolismo della scala; per ora, limitiamoci a rilevare la presenza delle sette incisioni le quali, a prescindere che i Jakun se ne rendano conto o no, rappresentano i sette livelli celesti attraverso cui l'anima deve passare: e ciò prova la pene trazione di idee di origine orientale anche fra popolazioni cosi «primitive» come i Jakun.

I Dusun del Borneo settentrionale pensano che il cammino dei morti vada su per una montagna ed attraversi un fiume. La parte che ha la montagna nelle mitologie funerarie è sempre da spiegarsi in base al simbolismo dell'ascensione ed implica la credenza in una dimora celeste dei trapassati. In un altro caso vedremo che si crede che i morti «si aggrappino ai monti» proprio come fanno gli sciamani o gli eroi nelle loro ascensioni iniziatiche. Quel che già qui è importante rilevare è che presso tutte le popolazioni passate ora in rassegna lo sciamanismo appare avere un'intima connessione con le credenze funerarie (Montagna, Isola paradisiaca, Albero di Vita) e con le concezioni cosmologiche (Asse del Mondo = Albero cosmico, le tre regioni cosmiche, i sette cieli, ecc.). Esercitando la sua professione di guaritore o di psicopompo lo sciamano fa uso delle conoscenze tradizionali relative alla topografia infernale (sia, questa, celeste, marina o sotterranea), conoscenze che in ultima analisi procedono da una cosmologia arcaica, sia pure spesso arricchita o alterata da influenze esotiche.

I Daiachi Ngadju del Borneo meridionale hanno una concezione più particolare dell'Universo; infatti essi, pur ammettendo l'esistenza di un mondo superiore e di un mondo inferiore, non considerano il nostro mondo come un terzo termine, bensì come la totalità che riflette e rappresenta anche gli altri due. Peraltro, una tale concezione rientra nell'ideologia primordiale secondo la quale le cose della Terra non sono che una replica di modelli o esemplari esistenti nel Cielo o nell'aldilà. Vale aggiungere che la teoria delle tre zone cosmiche non va a contraddire l'idea dell'unità del mondo. I numerosi simbolismi che esprimono la similitudine esistente fra i due mondi e le vie di comunicazione fra l'uno e l'altro di essi esprimono in pari tempo la loro unità, il loro far parte di un solo Cosmos. La tripartizione delle zone cosmiche - motivo che, per le ragioni suddette, abbiamo tenuto a mettere in rilievo - non esclude affatto né l'Unità profonda dell'Universo, né il suo apparente «dualismo».

La mitologia dei Daiachi Ngadju è alquanto complicata; pure vi si può sceverare una dominante, che è proprio quella di un «dualismo cosmologico». L'Albero del Mondo è anteriore a tale dualismo, perché esso sta a rappresentare il Cosmos nella sua totalità (Scharer); esso simbolizza anche l'unificazione delle due divinità supreme. La creazione del mondo sarebbe il risultato del conflitto fra i due dèi rappresentanti i due principi i polari: del principio maschile (la regione superiore, l'Uccello) e di quello femminile (cosmologicamente inferiore, rappresentato dalle Acque e dalla Serpe). Se nella lotta fra queste divinità antagoniste l'Albero del Mondo (cioè la totalità primordiale) va distrutto; tale distruzione non è definitiva: archetipo di ogni attività umana creatrice, l'Albero del Mondo non è distrutto che per poter rinascere. In questi miti noi inclineremmo a riconoscere sia l'antico tema cosmologico della ierogamia Ciel-oTerra, tema che, su di un altro piano, è parimenti espresso dal simbolismo degli opposti complementari Uccello-Serpe, sia la struttura «dualista» delle antiche mitologie lunari (l'opposizione dei contrari, l'alternanza di distruzione e di creazione, l'eterno ritorno). Del resto, non v'è dubbio che influenze ìndù si siano aggiunte posteriormente all'antico fondo autoctono, benché spesso tali influenze si siano limitate alla nomenclatura degli dèi.

Quel che a noi importa soprattutto rilevare è che l'Albero del Mondo è presente in ogni villaggio, anzi in ogni casa daiaca (cfr. Schlirer); e quest'albero vien raffigurato a sette rami. Che esso simbolizzi l'Asse del Mondo epperò la via verso il Cielo, ciò lo prova il fatto che un analogo «Albero del Mondo» lo si trova nei «battelli dei trapassati» indonesiani, i quali trasporterebbero i morti nell'aldilà celeste. Quest'albero, disegnato a sei rami (sette con la cima) e con la luna e il sole ai suoi lati, ha talvolta la forma di una lancia ornata dagli stessi simboli usati per la «scala» sulla quale lo sciamano sale verso i Cieli per riportarne l'anima fuggitiva del malato. L'Albero-Lancia-Scala raffigurato sulle «barche dei trapassati» non è che una replica dell'Albero miracoloso che cresce nell'aldilà e che le anime incontrano nel loro viaggio verso la residenza del dio Devata Sangiang. Gli sciamani indonesiani (ad esempio, presso i Sakai, i Kubu e i Daiachi) posseggono parimenti un albero di cui si servono come d'una scala per raggiungere il mondo degli spiriti e cercare le anime dei malati. Ci potremo rendere conto della parte che ha l'Albero-Lancia quando esamineremo le tecniche dello sciamanismo indonesiano. Di passata, rileviamo che l'albero sciamanico dei Daiachi Dusun, che serve per le cerimonie di guarigione, ha sette rami (Steinmann).

I Batachi, le cui idee religiose son derivate in gran parte dall'India, pensano che l'universo sia diviso in tre regioni: il Cielo a sette piani dove risiedono gli dèi, la Terra abitata dagli uomini e l'Inferno, sede dei demoni e dei trapassati. Anche qui s'incontra il mito di un'èra paradisiaca, nella quale il Cielo era il più vicino alla Terra ed esistevano comunicazioni continue fra gli dèi e gli umani: ma, causa l'orgoglio dell'uomo, il cammino che conduce al mondo celeste è stato interrotto. Il dio supremo, Mula djadi na bolon («Colui che ha in se stesso il proprio inizio»), creatore dell'universo e degli altri dèi, abita nel più alto dei cieli e, come tutti gli dèi supremi dei «primitivi», sembra esser divenuto un deus otiosus: a lui non vengono offerti sacrifici. Una Serpe cosmica vive nelle regioni sotterranee e alla fine distruggerà il mondo.

I Minangkabau di Sumatra hanno una religione ibrida, a base animistica, ma fortemente influenzata dall'induismo e dall'islamismo. L'Universo, per essi, avrebbe sette piani. Dopo la morte, l'anima deve passare su di un fil di rasoio teso sopra un inferno di fuoco: i peccatori cadono fra le fiamme, mentre i buoni salgono in Cielo, ove v'è un grande Albero. E restano là, fino alla resurrezione finale. Qui si può riconoscere facilmente la mescolanza di temi primordiali (il ponte, l'Albero di Vita ricettacolo e nutrimento delle anime) e di influenze esotiche (il fuoco dell'Inferno, l'idea della resurrezione finale).

I Nias conoscono un albero cosmico da cui si origina ogni cosa. I morti, per salire in Cielo, passano per un ponte: sotto il ponte sta spalancato l'abisso dell'Inferno. All'ingresso del Cielo si trova un guardiano, con scudo e lancia: un gatto l'aiuta per far precipitare le anime colpevoli nelle acque infernali.

Quanto all'Indonesia, gli esempi che abbiamo riferito potranno bastare. Su tutti questi temi mitici (ponte dei morti, ascensione, ecc.) e sulle tecniche sciamaniche che, in un certo modo, vi si connettono, avremo da tornare. Per ora ci basta l'aver accertato, in almeno una parte dell'area oceanica, la presenza di un complesso cosmologico e religioso di una assai remota antichità, complesso che è stato poi variamente modificato per influenza delle idee indiane e, in genere, asiatiche.

 

 

 

 

 

 

Capitolo 9: Lo sciamanismo nell'America del Nord e del Sud

 

 

Lo sciamanismo tra gli eschimesi

back to index

 

Quali pur siano le relazioni storiche che possano essere esistite fra l'Asia settentrionale e l'America del Nord, non v'è ombra di dubbio quanto alla continuità culturale degli Eschimesi e dei popoli artici attuali, asiatici ed anche europei (i Ciukci, gli Yakuti, i Samoiedi e i Lapponi). Uno dei principali elementi di questa continuità culturale è proprio costituito dallo sciamanismo: gli sciamani nella vita religiosa e sociale degli Eschimesi hanno la stessa parte capitale che si trovano ad avere fra i vicini asiatici di queste popolazioni. Si è già visto che le loro iniziazioni riproducono dappertutto, nelle grandi linee, l'iniziazione ad ogni vita mistica: vocazione, ritiro nella solitudine, alunnato presso un maestro, acquisto di uno o più spiriti familiari, rituale simbolico di morte e resurrezione, linguaggio 'segreto. Come subito vedremo, le esperienze estatiche dell'angakok eschimese comprendono il volo mistico e il viaggio nelle profondità marine, cioè le stesse imprese che caratterizzano lo sciamanismo nord-asiatico. Si notano anche i rapporti pìu intimi fra lo sciamano eschimese e la divinità celeste o il dio cosmocrate che a quella fu sostituito in seguito. Esistono tuttavia certe differenze minori rispetto all' Asia di nordest, come l'assenza, nello sciamanismo eschimese, di un costume rituale propriamente detto e del tamburo.

Le principali prerogative dello sciamano eschimese sono la guarigione, il viaggio sottomarino alla sede della Madre degli Animali per ottenere abbondante selvaggina e il bel tempo grazie ai suoi contatti con Sila, oltre ad azioni intese a rimuovere la sterilità delle donne. Fra gli Eschimesi si ritiene che le malattie siano causate o dalla violazione dei tabù - eroe da un disordine nel dominio del sacro - oppure dal ratto di un'anima da parte di un morto. Nel primo caso lo sciamano cerca di eliminare la contaminazione per mezzo di confessioni collettive; nel secondo, egli intraprende il viaggio estatico in Cielo o nelle profondità marine per cercare l'anima del malato e ricondurla al suo corpo. E sempre nei suoi viaggi estatici che l'angakok avvicina Takànakapsàluk in fondo all'oceano o Sila nei Cieli. Del resto, egli è in genere uno specialista del volo magico. Alcuni sciamani hanno visitato la Luna ed altri han fatto il giro della Terra volando. Le tradizioni dicono che gli sciamani volano come gli uccelli, distendendo le braccia come gli uccelli fanno con le ali. Gli angàkut conoscono inoltre l'avvenire, formulano profezie, annunciano i cambiamenti atmosferici, eccellono in prodezze magiche.

Tuttavia anche gli Eschimesi ricordano tempi in cui gli angàkut erano assai più potenti di oggi (Rasmussen). «Io stesso sono uno sciamano - disse qualcuno a Rasmussen - ma non sono nulla in confronto a mio nonno, Titqatsaq. Egli viveva nei tempi in cui uno sciamano poteva discendere fino alla Madre degli Animali del mare, volare fino alla Luna o far viaggi attraverso l'atmosfera». È significativo incontrare anche qui questa concezione dell'attuale decadenza degli sciamani, da noi già ritrovata in tante altre culture.

Lo sciamano eschimese non solo sa pregare Sila per ottenere il bel tempo (cfr. Rasmussen), ma è anche capace di arrestare le tempeste mediante un rituale alquanto complicato, che implica sia l'assistenza degli spiriti ausiliari e l'evocazione dei morti, sia un duello con un altro sciamano durante il quale questi vien ripetutamente «ucciso» e «risuscitato». Quale pur sia il suo fine, la seduta sciamanica ha sempre luogo di sera, alla presenza di tutto il villaggio. Gli spettatori incitano di tempo in tempo l'angakok con canzoni stridenti e con grida. Lo sciamano, per evocare gli spiriti, canta a lungo canti composti nel «linguaggio segreto», Caduto in trance, egli parla con una voce alta e strana che non sembra più esser la sua. I canti improvvisati durante la trance lasciano talvolta trasparire alcune delle esperienze mistiche dello sciamano:

Tutto il mio corpo è fatto solo di occhi! Guardatelo! Non temete!

lo vedo da tutte le parti!

canta uno sciamano

Ma oltre a queste sedute rese necessarie da problemi collettivi (tempeste, mancanza di selvaggina, informazioni sul tempo, ecc.) o da malattie (le malattie, in un modo o nell'altro, minacciano anch'esse l'equilibrio della comunità), lo sciamano eschimese intraprende viaggi estatici in Cielo, nel Paese dei Morti, per puro piacere (for joy alone). Come è d'uso quando si prepara per un'ascensione, egli si fa legare e poi in spirito se ne vola nell'atmosfera: qui s'intrattiene a lungo coi morti e, una volta tornato in terra, riferisce circa la vita dei trapassati nel cielo (Rasmussen). Ciò dimostra il bisogno che lo sciamano eschimese sente dell'esperienza estatica in se stessa e spiega in pari tempo la sua inclinazione per la solitudine e la meditazione, le sue lunghe conversazioni con gli spiriti e il suo bisogno di quiete.

Generalmente, si distinguono tre regioni per il soggiorno dei morti: il Cielo, un Inferno situato immediatamente sotto la scorza terrestre ed un secondo Inferno situato sotterra a grande profondità. Nel Cielo, come nel vero e profondo Inferno, i morti conducono un'esistenza felice, godendo d'una vita di gioia e di prosperità. La sola grande differenza con la vita terrestre è che laggiù le stagioni son sempre il contrario della stagione della terra: quando qui è inverno, nel Cielo e negli Inferni è estate, e viceversa. Solo nell'Inferno sotterraneo situato immediatamente sotto la scorza terrestre, e riservato a coloro che si son resi colpevoli di varie violazioni di tabù ed altresi ai cacciatori mediocri, regnano carestia e disperazione (Rasmussen). Gli sciamani conoscono perfettamente tutte queste regioni e quando un morto, temendo d'affrontare da solo il cammino dell'aldilà, s'impossessa dell'anima d'un vivente, l'angakok sa dove cercarla.

Talvolta il viaggio dello sciamano nell'oltretomba ha luogo durante una trance catalettica avente tutti i caratteri di una morte apparente. Uno sciamano dell'Alaska ebbe a dichiarare di esser stato morto e di aver seguita per due giorni la via dei trapassati: era una via ben battuta da tutti coloro che l'avevano preceduto. Camminando, udiva continuamente pianti e lamenti e venne a sapere che erano i vivi che stavano piangendo i loro morti. Giunse in un grande villaggio, simile in tutto a quelli dei viventi. Là due ombre lo accompagnarono in una casa. Un fuoco ardeva in mezzo all'ambiente e qualche pezzo di carne era stato messo ad arrostire sulla brace - ma esse avevano occhi vivi che seguivano ogni movimento dello sciamano. I suoi compagni gli ingiunsero di non toccare la carne (lo sciamano che gustasse una volta i cibi del paese dei morti incontrerebbe gravi difficoltà per ritornare in terra). Dopo essersi soffermato un certo tempo nel villaggio, egli proseguì il suo cammino, raggiunse la Via Lattea, la percorse per un lungo tratto e infine ridiscese nella sua tomba. Non appena raggiunta la tomba il suo corpo ritornò in vita e lo sciamano, abbandonato il cimitero, rientrò nel villaggio a raccontare le sue avventure. Si tratta, qui, di una esperienza estatica il cui contenuto trascende la sfera dello sciamanismo propriamente detto ma che, pur restando accessibile ad altri esseri umani privilegiati, è molto frequente negli ambienti sciamanici.

Le discese agli Inferni e le ascensioni al Paradiso celeste di cui è questione nelle gesta degli eroi polinesiani, turco-tartari, nordamericani e d'altre aree, si integrano in questa classe di viaggi estatici nelle zone interdette, e le mitologie funerarie rispettive sono alimentate da prodezze del genere.

Tornando ora agli sciamani eschimesi, le loro capacità estatiche permettono loro d'intraprendere viaggi «in spirito» in qualsiasi regione cosmica. Essi, per precauzione, si fanno sempre legare con corde, in modo di viaggiare soltanto «in ispirito», di non essere trasportati in aria e sparire per sempre. Adeguatamente legati, e talvolta separati dai presenti da una tenda, essi cominciano con l'invocare i loro spiriti familiari, con l'aiuto dei quali lasciano la terra e raggiungono la Luna, oppure penetrano nelle viscere della terra e. nelle profondità dell'oceano. COSI uno sciamano degli Eschimesi Baffin dal suo spirito familiare (in questo caso, un orso) fu portato nella Luna; là si trovò dinanzi ad una casa la cui porta, formata dalle fauci di un tricheco, minacciò di lacerare l'intruso (è il ben noto motivo dell'«entrata difficile», sul quale torneremo l. Essendo tuttavia riuscito a penetrare nella casa, vi incontrò l'Vomo-della-Luna e sua moglie, il Sole. Dopo varie avventure ritornò sulla terra e il suo corpo, che durante l'estasi era rimasto disanimato, dette di nuovo segni di vita. Infine lo sciamano si sciolse dalle corde che lo tenevano fermo e raccontò al pubblico le peripezie del suo viaggio. Il liberarsi dello sciamano dalle corde con cui è strettamente legato costituisce, come tanti altri fenomeni del genere, un problema di parapsicologia che qui non possiamo trattare. Dal punto di vista da noi assunto - che è quello della storia delle religioni - il liberarsi dalle corde è, al pari di tanti altri «miracoli» sciamanici, espressione della condizione di «spirito» che lo sciamano avrebbe conseguita grazie alla sua iniziazione.

Tali imprese, compiute senza un motivo apparente, ripetono in una certa misura il viaggio iniziatico disseminato di pericoli e comprendente, in particolare, il passaggio per una «porta stretta» che resta aperta per un solo istante. Lo sciamano eschimese prova il bisogno di tali viaggi estatici perché è soprattutto durante la trance che si sente davvero se stesso: l'esperienza mistica gli è necessaria perché è costitutiva della sua stessa personalità.

Ma non sono solo i viaggi «in ispirito» che lo conducono ad affrontare tali prove iniziatiche. Gli Eschimesi essendo periodicamente terrorizzati dagli spiriti malvagi, si ricorre agli sciamani per allontanarli. In casi del genere, la seduta implica un'aspra lotta fra gli spiriti familiari dello sciamano e gli spiriti malvagi (i quali possono essere sia spiriti della natura esasperati dalla violazione dei tabù, sia le anime di certi morti). Talvolta lo sci amano lascia la capanna e tornando ha le mani insanguinate (Rasmussen).

Quando sta per entrare in trance lo sciamano fa i movimenti di chi si immerge. Anche quando si ritiene che egli penetri nelle regioni sotterranee, è come se egli s'immergesse e poi tornasse alla superficie delle acque. Ad un ricercatore è stato raccontato che uno sciamano «riappare tre volte prima di immergersi definitivamente». L'espressione usata più comunemente per designare uno sciamano è «colui che scende in fondo al mare» (Rasmussen). Come si è qui visto, le discese sottomarine sono figurate simbolicamente sul costume di numerosi sciamani siberiani (piedi di anitra, disegni di uccelli usi a tuffarsi nelle acque, ecc.). Infatti in fondo all'oceano si trova la Madre degli animali marini, formula mitica della Grande Dea delle Belve, sorgente e matrice della vita universale, dalla cui volontà dipende l'esistenza della tribù. Per questo lo sciamano deve discendere periodicamente nelle acque - per ristabilire il contatto spirituale con la Madre degli Animali. Però - e lo abbiamo già accennato - la grande importanza che questa ha nella vita religiosa della comunità e nell'esperienza mistica dello sciamano non esclude affatto la venerazione di Sila, l'Essere supremo di tipo celeste che anche lui regna sul tempo e scatena gli uragani e le tormente. Per cui gli sciamani eschimesi non sembrano essere specializzati in discese sottomarine o in ascensioni celesti: la loro professione implica l'esser capaci sia delle une che delle altre.

La discesa da Takànakapsàluk, «la Madre della Foca», viene intrapresa dietro richiesta di un dato individuo in relazione sia a malattia che a sfortuna nella caccia, nel qual caso lo sciamano viene retribuito. Ma talvolta accade che la selvaggina manchi completamente e che l'intero villaggio sia minacciato dalla carestia: allora tutti gli abitanti si riuniscono nell'abitazione ove ha luogo la seduta e il viaggio estatico dello sciamano viene intrapreso in nome dell'intera comunità. I presenti debbono slegarsi le cinture e i lacci e star zitti, ad occhi chiusi. Per un certo tempo lo sciamano, che sta anche lui in silenzio, respira profondamente; poi evoca gli spiriti ausiliari. Dopo che questi sono arrivati lo sciamano si mette a mormorare: «Il cammino è aperto dinanzi a me! Il cammino è aperto!». Infatti la terra si apre, ma subito si richiude e lo sciamano deve ancora lungamente combattere contro forze sconosciute. Alla fine esclama: «Ora SI che il cammino è aperto!». Allora gli spettatori esclamano in coro: «Che il cammino resti aperto dinanzi a lui, che vi sia un cammino dinanzi a lui!». Si sente, dapprima sotto il letto, poi più lontano, sul passaggio, un grido di: halala-he-he-he, halala-he-he-he! È il segno che lo sciamano è già partito. Il grido si fa sempre più lontano, fino a svanire del tutto.

Nel frattempo gli invitati cantano in coro, ad occhi chiusi, e talvolta accade che le vesti dello sciamano, da lui deposte prima della seduta, si animino e si mettano a volare per la casa, al disopra dei presenti. Si odono anche dei sospiri e la respirazione profonda di persone morte da tempo; sono gli sciamani defunti, venuti per aiutare il loro collega nel suo pericoloso viaggio. E i sospiri e i respiri sembrano venire da molto lontano, da sotto le acque, come se fossero di animali marini.

Giunto in fondo all'oceano, lo sciamano si trova dinanzi a tre grandi pietre in continuo movimento che gli sbarrano la via: egli deve passare fra di esse, a rischio di restare schiacciato (ancora una imagine del «passaggio stretto» che interdice l'accesso al piano superiore dell'essere a chiunque non sia «iniziato», cioè capace di comportarsi da «spirito»). Oltrepassato questo ostacolo, lo sciamano segue un sentiero che lo conduce ad una specie di baia; su di una collina si erge la casa di Takànakapsàluk, fatta di pietra e con l'entrata assai stretta. Egli ode soffiare gli animali marini, senza però vederli. Un cane che digrigna i denti custodisce l'entrata; per tutti coloro che se ne spaventano esso è pericoloso, ma lo sciamano gli passa sopra e il cane capisce subito di avere a che fare con un potente mago (è agli sciamani ordinari che si presentano tutti questi ostacoli; quelli che sono davvero forti giungono in fondo al mare, presso Takànakapsàluk, direttamente, immergendosi al disotto della loro tenda o capanna di neve, come scivolando in un tubo).

Se la dea è in collera con gli umani, si trova un gran muro dinanzi alla sua dimora, che lo sciamano deve abbattere a spallate. Altri dicono che la casa di Takànakapsàluk non ha tetti affinché la dea possa vedere meglio - da dove si trova, vicino al fuoco - le azioni degli uomini. Bestie marine d'ogni specie sono riunite in uno stagno a destra del camino, e si sentono le loro grida e il loro soffiare. Il viso della dea è celato dai capelli ed essa appare sporca e trascurata: ciò, per i peccati degli uomini, che quasi la fanno ammalare. Lo sciamano dovrà andarle vicino, prenderla per la spalla e pettinarla (perché la dea non ha dita per pettinarsi da sé). Ma, prima, vi è ancora un ostacolo da superare: il padre di Takànakapsàluk, scambiando il nuovo venuto per un morto diretto al Paese delle Ombre, vuol mettergli le mani addosso. Ma lo sciamano grida: «Sono di carne e di sangue!» e riesce a passare.

Mentre lo sciamano pettina Takànakapsàluk le dice: «Gli uomini non hanno più foche!». La dea risponde, nella lingua degli spiriti: «Gli aborti segreti delle donne e le violazioni dei tabù di coloro che mangiano carne bollita hanno chiuso la via agli animali!». Lo sciamano usa ogni mezzo per placare la dea, la quale finisce con l'aprire lo stagno e col lasciar liberi gli animali. Si possono vedere i loro movimenti in fondo al mare e poco dopo si sente la respirazione affannosa dello sciamano, come di chi tornasse da sotto la superficie delle acque. Segue un lungo silenzio. Infine lo sciamano annuncia: «Devo dire qualcosa!», e tutti rispondono: «Dillo! dillo!». Lo sciamano, nella lingua degli spiriti, esige la confessione dei peccati. L'una dopo l'altra le donne confessano i loro aborti o le violazioni dei tabù, e si pentono.

Come si vede, questa discesa estatica in fondo al mare comporta una serie ininterrotta di ostacoli che rassomigliano quanto mai alle prove di una iniziazione. Il passaggio attraverso uno spazio che è continuamente in procinto di chiudersi, l'andare su di un ponte sottile come un capello, il cane infernale, la divinità irritata da placare, tornano come temi obbligati tanto nei racconti iniziatici che in quelli dei viaggi mistici nell'aldilà. Nell'uno come nell'altro caso avviene una rottura ontologica di livello: sono prove intese a confermare che colui che compie imprese siffatte ha superato la condizione umana, cioè che si è reso simile agli «spiriti» (l'imagine che sensibilizza il mutamento ontologico è: aver accesso al mondo degli «spiriti»); perché, se non fosse uno «spirito», lo sciamano non potrebbe mai passare per uno spazio cosi stretto.

A parte gli sciamani, ogni Eschimese può consultare gli spiriti con un metodo chiamato qilaneq. Basta far sedere il malato per terra e tenergli su la testa con la cintura. Invocati gli spiriti, se la testa diviene pesante è segno che essi sono presenti. Se la testa continua ad appesantirsi, la risposta è positiva; se invece si fa leggera, la risposta è negativa. Le donne usano spesso questo comodo metodo di divinazione per mezzo degli spiriti. Gli sciamani vi ricorrono talvolta servendosi del loro stesso piede (Rasmussen).

Il tutto si basa dunque sulla credenza generale negli spiriti e, in particolare, su di una comunicazione sentita con le anime dei morti. Una specie di rudimentale spiritismo fa parte, in un certo modo, dell'esperienza mistica degli Eschimesi. Sono temuti solo quei morti che, per via di violazioni varie di tabù, son divenuti crudeli e malvagi. Con gli altri morti gli Eschimesi prendono volentieri contatto. E ai morti si aggiunge il numero infinito degli spiriti della natura che, ognuno a suo modo, rendono loro dei servizi. Ogni Eschimese può ottenere l'aiuto o la protezione di uno spirito o di un morto: però tali rapporti non bastano per avere i poteri sciamanici. Come in tante altre culture, anche qui è sciamano soltanto colui che, per un richiamo mistico o di propria volontà, si sottomette all'insegnamento di un maestro, supera felicemente le prove dell'iniziazione e si rende capace di esperienze estatiche precluse al resto dei mortali.

 

 

 

 

 

 

Sciamanismo nord-americano

back to index

 

In molte tribù nord-americane lo sciamano domina la vita religiosa o, almeno, ne costituisce l'aspetto più importante. Ma in nessun luogo lo sciamano monopolizza completamente l'esperienza religiosa. Oltre a lui, vi sono altri tecnici del sacro: il sacerdote, lo stregone (il mago nero). D'altra parte abbiamo già accennato che in tali popoli ogni individuo cerca di acquistare, per i suoi usi personali, un certo numero di «poteri» magico-religiosi, generalmente connessi a certi «spiriti» protettori o ausiliari. Però lo sciamano si distingue dagli uni e dagli altri - dai suoi colleghi e dai profani - per l'intensità delle sue esperienze magico-religiose. Se ogni Indiano può assicurarsi uno «spirito protettore» o un qualche potere che gli renda possibile delle «visioni» e che accresca le sue riserve del sacro, soltanto lo sciamano, grazie alle speciali relazioni che ha con gli spiriti, è in grado di penetrare profondamente nel mondo sovrannaturale: in altri termini, lui solo sa mettere in atto una tecnica che gli permette di compiete a volontà dei viaggi estatici.

Quanto alle differenze fra lo sciamano e gli altri specialisti del sacro (i sacerdoti e i maghi neri), esse sono meno nette. Swanton ha proposto il seguente inquadramento: i sacerdoti agirebbero per la tribù o per l'intero popolo, cioè per una data comunità, mentre l'autorità degli sciamani dipenderebbe unicamente dalla loro abilità personale. Ma Park ha osservato che in varie culture (ad esempio, in quelle della costa Nord-Ovest) gli stessi sciamani assolvono a certe funzioni sacerdotali. Wissler opta per la distinzione tradizionale fra la conoscenza e la pratica dei rituali, che definirebbero il sacerdozio, e l'esperienza diretta delle forze sovrannaturali, che sarebbero caratteristiche per la funzione sciamanica. Se, nel complesso, questa distinzione è accettabile, pure bisogna ricordarsi che anche lo sciamano è tenuto ad assimilare un corpus di dottrine e di tradizioni e che egli talvolta deve passare un periodo di alunnato presso un vecchio maestro, periodo durante il quale egli subisce una iniziazione ad opera di uno «spirito» che gli comunica la tradizione sciamanica della tribù.

Quanto a Park, per lui lo sciamanismo nord-americano è definito dal potere sovrannaturale acquisito dallo sciamano grazie ad una esperienza personale diretta. «Questo potere vien generalmente usato così che esso interessi l'intera comunità. Per cui la pratica della stregoneria, nello sciamanismo, può esser parte importante quanto la cura di una malattia o l'incantesimo per assicurare la cacciagione alla tribù. Designeremo col termine sciamanismo tutte le pratiche per mezzo delle quali un potere sovrannaturale può essere acquisito dai mortali, l'uso di questo potere a fine di bene o di male e altresì l'insieme delle idee e delle credenze che a tale potere si associano». Questa definizione è comoda e permette di raccogliere in un tutto fenomeni abbastanza disparati. Da parte nostra, vorremmo però mettere in risalto la capacità estatica che ha lo sciamano nei confronti del sacerdote, e la sua funzione positiva, opposta alle attività antisociali dello stregone, del mago nero (anche se in molti casi lo sciamano nord-americano, come del resto i suoi colleghi d'ogni parte del mondo, cumulino le attitudini.

La funzione principale dello sciamano è la guarigione, ma egli ha una parte importante anche in altri riti magico-religiosi, come ad esempio in quelli per assicurare alla comunità la caccia, e, deve esse esistono, nelle società segrete (tipo «Mide' wiwin») o nelle sette mistiche (tipo «Ghost Dance Religion»). Come tutti gli altri, gli sciamani nord-americani pretendono di aver potere sui fenomeni atmosferici (provocano o arrestano la pioggia, ecc.), conoscono gli avvenimenti futuri, scoprono gli autori di furti, e via dicendo. Essi difendono gli uomini dalle fatture degli stregoni e, una volta, bastava che uno sciamano Paviotso accusasse uno stregone come autore di un delitto a che questi venisse subito ucciso e la sua casa venisse bruciata (Park). Almeno in certe tribù, sembra che in passato la forza magica degli sciamani fosse più grande e più spettacolare. I Paviotso parlano ancora dei vecchi sciamani che si mettevano carboni ardenti in bocca e potevano toccare impunemente ferro arroventato (Park). Ai nostri giorni gli sciamani si sono piuttosto trasformati in semplici terapeuti, benché i loro canti rituali e perfino certe loro dichiarazioni farebbero pensare ad una onnipotenza quasi divina. «Mio fratello bianco, - disse a Reagan uno sciamano Apache - probabilmente non mi crederai, ma io sono onnipotente. Non morirò mai. Se mi scarichi addosso il fucile, la palla non penetrerà nella mia carne o, se vi penetrerà, non mi farà alcun male... Se mi conficchi un coltello nella gola, spingendo in su, esso uscirà dalla sommità del capo, senza recarmi danno... Sono onnipotente. Se voglio uccidere qualcuno, non ho che da stendere la mano e da toccarlo, ed egli morirà. Il potere mio è come quello di un Dio».

È possibile che questa coscienza euforica di una onnipotenza abbia rapporto con la morte e la resurrezione iniziatica. In ogni caso, i poteri magico-religiosi posseduti dagli sciamani nord-americani non esauriscono né le loro capacità estatiche né quelle d'ordine magico. V'è ragione di pensare che le società segrete e le sette mistiche moderne abbiano accaparrato gran parte delle attività estatiche che avevano già caratterizzato lo sciamanismo. Si ricordino, ad esempio, i viaggi estatici al Cielo dei fondatori e dei profeti di movimenti mistici recenti, cui abbiamo già alluso e che, morfologicamente, rientrano nella sfera dello sciamanismo. Quanto all'ideologia sciamanica, essa ha fortemente impregnato di sé certi settori della mitologia e del folklore nord-americano, specialmente quelli aventi relazione con la vita d'oltretomba e coi viaggi agli Inferni.

 

 

 

 

 

 

La seduta sciamanica

back to index

 

Chiamato presso un malato, lo sciamano cerca anzitutto di scoprire la causa della malattia. Vengono distinti due principali tipi di malattie: quelle che derivano dall'introduzione nel corpo di un oggetto patogeno, e quelle che sono effetto della «perdita dell'anima». La cura è in ciascuno di questi casi essenzialmente diversa: nel primo si tratta di espellere la causa del male, nel secondo di ritrovare l'anima fuggitiva del malato e di reintegrarla nel suo corpo. Nel secondo caso il ricorso allo sciamano s'impone assolutamente, perché soltanto lui sa vedere e catturare le anime. Nelle società che, oltre agli sciamani, posseggono dei medicine-men e dei guaritori, questi ultimi possono ben curare certe malattie, ma la «perdita dell'anima» costituisce un caso riservato sempre allo sciamano. Quando la malattia è provocata dalla presenza di un oggetto magico perturbatore, è sempre grazie alle sue capacità estatiche e non ad un ragionamento basato su di un sapere profano che lo sciamano riesce a diagnosticare la causa; infatti egli dispone di numerosi spiriti ausiliari che cercano per conto suo l'origine della malattia e la seduta, per tale ragione, comprende sempre l'evocazione di tali spiriti.

Le cause della perdita dell'anima sono varie: sogni speciali, che han provocato la fuga dell'anima, morti che' non si rassegnano ancora a partire per il paese delle ombre e vagabondano intorno ai campi, cercando di prender seco un'altra anima o, infine, il semplice smarrirsi dell'anima del malato lungi dal proprio corpo. Un informatore Paviotso diceva a Park: «Quando qualcuno muore di colpo, bisogna chiamare lo sciamano. Se l'anima non è ancora molto lontana, lo sciamano può richiamarla. Egli cade in trance per ricondurre l'anima. Ma se l'anima è già andata molto avanti nella direzione dell'altro mondo lo sciamano non può far più nulla: v'è troppa distanza fra lui e l'anima» (Park). L'anima lascia il corpo durante il sonno, per cui si può far morire qualcuno quando lo si sveglia bruscamente. Non si deve mai far SI che uno sciamano sia destato di soprassalto.

Gli oggetti malefici, in genere, sono stati proiettati dentro un corpo dagli stregoni. Si tratta di pietruzze, di animalucci, di insetti; essi non sono stati introdotti in concreto dal mago, ma san stati creati dalla potenza del suo pensiero. Essi possono anche trarre origine da spiriti che talvolta prendono residenza essi stessi nel corpo del malato (Bouteiller). Una volta individuata la causa della malattia, gli sciamani estraggono gli oggetti magici succhiando.

Le sedute han luogo di notte, quasi sempre nell'abitazione del malato. Il carattere rituale della cura è ben visibile: lo sciamano e il malato son tenuti ad osservare un certo numero di interdizioni (evitano le donne incinte o in periodo di mestruazione, ed in generale ogni sorgente d'impurità; non si accostano ad alimenti salati; lo sciamano procede a purificazioni radicali utilizzando vomitivi, ecc.). Talvolta la stessa famiglia del paziente deve praticare il digiuno e la continenza sessuale. Quanto allo sciamano, egli fa un bagno all'aurora e al crepuscolo e si dà a meditazioni e a preghiere. Poiché le sedute son pubbliche, esse creano una certa tensione religiosa in tutta la comunità e, nel caso in cui non esistono altre cerimonie religiose, le guarigioni sciamaniche vanno a costituire il rituale per eccellenza. L'invito fatto da un membro della famiglia allo sciamano e la determinazione dell'onorario hanno essi stessi un carattere rituale (Park). Se lo sciamano chiede un prezzo troppo elevato, o se non chiede nulla, cade ammalato. Del resto, non è lui ma il suo «potere» a fissare gli onorari della cura. Solo la sua famiglia ha diritto ad una cura gratuita.

Nella letteratura etnologica nord-americana si trova la descrizione di numerose sedute sciamaniche. Queste, nelle loro grandi linee, si rassomigliano tutte. Cosf basterà riferire in modo alquanto particolareggiato una o due fra le meglio osservate.

 

 

 

 

 

 

Cura sciamanica presso i Paviotso

back to index

 

Dopo aver accettato di intraprendere la cura lo sciamano s'informa su ciò che il paziente ha fatto prima della malattia onde indovinarne le cause. Poi dà delle istruzioni per confezionare un bastone che sarà messo vicino alla testa dell'ammalato: si tratta di un bastone lungo dai tre ai quattro piedi, di salice, che all'estremità avrà una penna di aquila fornita dallo stesso sciamano. La più ma resta presso l'ammalato la prima notte e si ha gran cura a che il bastone non sia contaminato da contatti impuri (basta che un cane o un coyote lo tocchi perché lo sciamano si ammali o perda il suo potere). Di passata, notiamo l'importanza che ha la più ma d'aquila nella terapia sciamanica nordamericana. Questo simbolo del volo magico ha probabilmente una relazione con le esperienze estatiche dello sciamano.

Questi giunge nella casa del paziente verso le nove di sera, accompagnato dal suo interprete, il «dicitore», la cui funzione è ripetere ad alta voce tutte le parole mormorate dallo sciamano. Anche l'interprete percepisce degli onorari che, generalmente, ammontano alla metà di quelli dello sciamano. Talvolta l'interprete pronuncia una preghiera prima della seduta e si rivolge direttamente alla malattia per informarla che lo sciamano è arrivato. Interviene di nuovo a metà della seduta per implorare ritualmente lo sciamano di guarire il malato. Alcuni sciamani talvolta fanno anche uso di una danzatrice, che deve esser bella e virtuosa: essa balla o con lo sciamano, o da sola mentre questi procede al succhiamento. La partecipazione di danzatrici alle guarigioni magiche sembra però essere una innovazione abbastanza recente, per lo meno fra i Paviotso (Park).

Lo sciamano si avvicina col torso e i piedi nudi al malato e comincia a cantare in sordina. I presenti, disposti lungo i muri, insieme all'interprete, riprendono i vari canti, l'uno dopo l'altro. Sono canti improvvisati dallo sciamano, che li dimentica a seduta finita: il loro fine è di evocare gli spiriti ausiliari. Ma la loro ispirazione ha un carattere puramente estatico: certi sciamani affermano che è il loro «potere» ad inspirarli durante la concentrazione preliminare che precede la seduta; altri pretendono che i canti vengano loro dal bastone e dalla penna d'aquila.

Dopo un certo tempo lo sciamano si alza e cammina in circolo intorno al fuoco centrale della casa. Se vi è una danzatrice, lo segue. Poi torna al suo posto, accende la pipa, ne tira qualche boccata e la passa ai presenti, che seguono la sua raccomandazione di fumare, a turno, una boccata o due. Nel frattempo i canti continuano. La forma che assume la fase successiva dipende dalla natura della malattia. Se il paziente ha perduto la conoscenza, è evidente che soffre di «perdita dell'anima»: allora lo sciamano deve subito entrare in trance (yàika). Se la malattia ha un'altra causa, lo sciamano può parimenti mettersi in trance per diagnosticarla o per discutere coi suoi «poteri» circa la cura da farsi. Ma in questo secondo tipo di diagnosi si ricorre alla trance solo se lo sciamano è abbastanza forte.

Quando lo spirito dello sciamano ritorna vittorioso dal viaggio estatico intrapreso per cercare l'anima del malato, i presenti vengono messi al corrente dallo sciamano di tutte le avventure che ha vissuto. Se la trance ha per scopo la scoperta della causa della malattia, le imagini percepite durante l'estasi rivelano il segreto: se appare un turbine, è segno che la malattia è stata provocata da qualcosa che rassomiglia ad un turbine; se si vede il paziente passeggiare fra fiori, la guarigione è certa; ma se i fiori sono appassiti, la morte non può essere evitata, e via dicendo. Gli sciamani riemergono dalla trance cantando fino a riprendere la loro coscienza ordinaria. Allora si danno a riferire le loro esperienze estatiche e se hanno accertato che la causa della malattia è un oggetto introdotto nel corpo del paziente procedono all'estrazione. Succhiano la parte del corpo che, nella trance, hanno riconosciuto esser sede della malattia. In genere, lo sciamano succhia applicando direttamente la bocca sulla pelle; però alcuni succhiano anche attraverso un osso forato o un tubo di legno di salice. Durante questa operazione l'interprete e i presenti cantano in coro, finché lo sciamano li fa smettere agitando vigorosamente un campanaccio. Una volta succhiato il sangue, lo sciamano lo sputa in un piccolo buco fatto nel pavimento della capanna e ripete il rito, cioè aspira qualche altra boccata dalla pipa, balla intorno al fuoco e ricomincia a succhiare finché riesce ad estrarre l'oggetto magico: una pietruzza, una lucertola, un insetto o un verme. Lo mostra ai presenti, poi lo getta nel buco ricoprendolo di terra. I canti e la «fumata» rituale della pipa continuano fino a mezzanotte; dopo, si fa una pausa di una mezz'ora, vengono serviti dei cibi ai presenti seguendo le istruzioni dello sciamano - cibi che questi non tocca - avendo cura che nessuna briciola cada per terra. I cibi che restano vengono sepolti con grande cura.

La cerimonia ha termine poco prima dell'alba. Proprio verso la fine lo sciamano invita tutti a ballare insieme a lui intorno al fuoco per un tempo che va dai cinque minuti al quarto d'ora. Egli dirige la danza cantando. Infine comunica delle istruzioni alla famiglia quanto alla dieta del paziente e decide quali disegni vadano dipinti sul suo corpo (Park).

Gli sciamani Paviotso seguono questo stesso metodo per estrarre proiettili e punte di freccia. Le cerimonie sciamaniche a fini di chiaroveggenza e di regolazione del tempo sono assai meno frequenti di quelle terapeutiche. Ma si sa che lo sciamano può provocare la pioggia, arrestare le nubi, far fondere il ghiaccio dei fiumi, e ciò col semplice canto o agitando una piuma. Come abbiamo detto, le sue virtù magiche sembrano però esser state assai più rilevanti in altri tempi e allora egli si compiaceva di farne sfoggio. Certi sciamani Paviotso fanno profezie o interpretano i sogni. Ma non hanno parte alcuna nelle imprese di guerra, ove restano subordinati ai capi militari.

 

 

 

 

 

 

Seduta sciamanica presso gli Achumawi

back to index

 

Jaime de Angulo ci ha dato una descrizione completa della cura sciamanica in uso presso gli Achumawi. Come vedremo, qui la seduta non ha nulla di misterioso o di oscuro. Lo sciamano si dà talvolta a meditazioni e parla sottovoce; conferisce coi suoi damagomi, coi suoi «poteri» (sono gli spiriti ausiliari) per scoprire la causa della malattia. Infatti sono propriamente i damagomi a stabilire la diagnosi. Nel complesso, le malattie vengono ripartite in sei categorie: 1) accidenti visibili; 2) trasgressione di tabù: 3) spavento causato dall'apparizione di mostri; 4) il «cattivo sangue»; 5) avvelenamento ad opera di un altro sciamano; 6) perdita dell'anima.

La seduta ha luogo di sera, nell'abitazione del paziente. Lo sciamano s'inginocchia a lato del malato, che è steso per terra con la testa rivolta ad Oriente. «Egli si dondola canticchiando, con gli occhi semichiusi. Dapprima è un borbottio in tono lamentoso, come se lo sciamano volesse cantare malgrado una sofferenza interiore. Il borbottio si fa a poco a poco più alto, assume la forma di una vera melodia, però ancor sempre in sordina. Si comincia a tacere, ad ascoltare, a fare attenzione. Lo sciamano non ha ancora il suo damagomi. È in un qualche luogo, forse assai lontano nella montagna, forse nell'aria della notte, assai vicino. La canzone mira ad incantarlo, a farlo venire, anche a forzarvelo... Come tutte quelle degli Achumawi, tali canzoni si compongono di una linea o due, che costituiscono due, tre e al massimo quattro frasi musicali. Vengono ripetute dieci, venti, trenta volte di seguito senza interruzione, all'ultima nota seguendo immediatamente la prima, senza alcun intervallo musicale. Si canta all'unisono. Il tempo, lo si batte con le mani. Essa non ha niente a che vedere col ritmo della melodia. È su un ritmo differente, un ritmo qualunque - peraltro - ma uniforme e senza accento. In genere, al principio d'una canzone ciascuno batte un tempo un po' differente. Ma, dopo qualche ripetizione, i tempi si uniformano. Lo sciamano stesso non canta, si può dire, che poche battute. Dapprima è solo, poi lo segue qualche voce, infine tutti. Allora tace, lasciando al pubblico il lavoro d'attirare il damagomi. Naturalmente, più si canta forte, più si va all'unisono, e meglio è. Si hanno maggiori probabilità di risvegliare il damagomi se esso dorme in qualche posto lontano. Non è solo l'urto fisico a risvegliarlo ma, altrettanto ed ancor più, l'ardore emotivo. (Questa non è una mia interpretazione: ripeto quel che mi han detto molti Indiani). Quanto allo sciamano, egli si raccoglie. Chiude gli occhi, ascolta. Presto sente che il suo damagomi sta per venire, o che si avvicina, volteggia nell' aria notturna, nella macchia, sotterra, nel suo stesso ventre ... Allora, d'un tratto, batte le mani, e a qualunque punto sia il canto, tutti tacciono. Silenzio profondo (e in mezzo alla macchia, sotto le stelle, alla luce vacillante del camino, questo silenzio improvviso dopo il ritmo piuttosto ipnotizzante della canzone riesce assai impressionante). Allora lo sciamano si rivolge al suo damagomi: ad alta voce, come se parlasse ad un sordo, in modo rapido, cadenzato, monotono, ma nella lingua corrente che tutti comprendono. Le frasi sono brevi. E tutto ciò che gli dice 1'«interprete» lo ripete esattamente, parola per parola... Lo sciamano è talmente sovreccitato che s'ingarbuglia in quel che dice. Il suo interprete, se è il suo interprete consueto, conosce da tempo i garbugli che gli sono abituali... Quanto allo sciamano, egli è entrato in stato di estasi, in un'estasi sempre più profonda, egli parla al suo damagomi e questi risponde alle sue domande». Tanto si unisce al suo damagomi, tanto si proietta in lui che egli stesso - lo sciamano - ripete esattamente tutte le parole del damagomi ...».

Il dialogo tra lo sciamano e i suoi «poteri» è talvolta d'una straordinaria monotonia; il padrone si lagna che il damagomi si sia fatto attendere, e questo si giustifica: era addormentato presso un fiume, e simili. Il padrone lo licenzia e ne chiama un altro. «Lo sciamano si arresta. Apre gli occhi. Lo si direbbe uno che si risveglia da una meditazione profonda. Ha l'aria un po' ebete. Chiede la sua pipa. Il suo interprete la carica, l'accende e gliela passa. Tutti quanti si rilassano, si accendono sigarette, si fuma, si conversa, si dicono amenità, si attizza il fuoco. Lo sciamano stesso prende parte alle amenità, ma sempre meno, via via che passa una mezz'ora, un'ora, due ore: diventa sempre più distratto, più cupo. Ricomincia, e ricomincia di nuovo ... Ciò dura talvolta ore ed ore. Talvolta lo sciamano abbandona la terapia, scoraggiato: i suoi damagomi non trovano niente, oppure hanno paura. Il "veleno" è un damagomi potentissimo, più forte di loro ... Non è proprio il caso d'attaccarlo».

Dopo aver scoperto la causa della malattia lo sciamano si dedica alla guarigione. A meno che non si tratti di un caso di perdita dell'anima, la cura consiste nell'estrazione del «male» o nella suzione del sangue. Succhiando, lo sciamano ritira coi denti un piccolo oggetto, «come un capo di filo bianco o nero, talvolta qualcosa di simile ad un pezzo di unghia» (ibid., p. 563). Un Achumawi disse all'autore: «Non credo che quelle cose vengano fuori dal corpo dell'ammalato. Lo sciamano le ha sempre in bocca prima di cominciare la cura. Solo, vi attira la malattia, gli servono per acciuffare il veleno. Se no, come farebbe ad acciuffarlo?».

Alcuni sciamani suggono direttamente il sangue. Uno sciamano spiegò cosi il procedimento: «È sangue nero, è sangue cattivo. Prima lo sputo sulle mani per vedere se vi è davvero la malattia. Allora sento i miei damagomi che disputano. Vogliono tutti che lo dia loro a bere. Hanno ben lavorato per me. Mi hanno aiutato. Adesso, sono tutti accaldati. Hanno sete. Vogliono bere. Vogliono bere sangue ...». Se non si dà loro il sangue, i damagomi si agitano come pazzi e protestano rumorosamente. «Allora bevo il sangue. Lo inghiotto. Lo do loro. Ciò li quieta. Ciò li calma. Ciò li rinfresca».

Secondo le osservazioni di Jaime de Angulo il «sangue cattivo» non verrebbe succhiato dal corpo del malato, esso sarebbe piuttosto «il prodotto di un versamento emorragico di origine isterica avvenuto nello stomaco dello sciamano». In effetti, lo sciamano alla fine della seduta appare stanchissimo e dopo aver bevuto due o tre litri d'acqua «si addormenta di sonno profondo».

Checché ne sia, il suggimento del sangue sembra essere una forma aberrante di terapia sciamanica. Ci si ricorderà che certi sciamani siberiani bevono anche il sangue degli animali sacrificati pretendendo che, in realtà, sono i loro spiriti ausiliari a richiederlo e a berlo. Questo rito, estremamente complesso, basato sul valore sacro del sangue caldo, non è «sciamanico» che in via sussidiaria e per coalescenza con altri riti facenti parte di complessi magico-religiosi diversi.

Se si tratta di un caso di avvelenamento per opera di altro sciamano il guaritore, dopo aver succhiato a lungo la pelle, afferra l'oggetto magico coi denti e Io mostra. Talvolta l'avvelenatore si trova fra i presenti e allora lo sciamano gli restituisce 1'«oggetto»: «Prendi! Ecco il tuo damagomi, non voglio tenerlo per me!». Nel caso della perdita dell'anima lo sciamano, essendone stato informato sempre dai suoi damagomi, si dà a cercarla e la trova smarrita in luoghi selvaggi, su di un picco, ecc.

 

 

 

 

 

 

La discesa agli inferni

back to index

 

La seduta degli sciamani Achumawi si distingue per la sua moderazione. Ma questa non è sempre la regola. La trance che, fra gli Achumawi, non sembra esser troppo profonda, è accompagnata da movimenti estatici abbastanza pronunciati. Lo sciamano Shushwap (tribù dell'interno della Columbia britannica) «agisce come se fosse pazzo» non appena si mette una parrucca rituale (fatta di una banda lunga due metri e larga un metro). Canta canti che il suo spirito protettore gli ha insegnati nel momento dell'iniziazione. Balla fino a sudare copiosamente e fino a che lo spirito venga e gli parli. Allora si distende a fianco del malato e gli succhia la parte dolorante. Finisce con l'estrarre una correggia o una più ma, che è la causa della malattia e che egli fa sparire soffiandovi sopra.

Quanto alla ricerca dell'anima smarritasi o rapita dagli spiriti, essa assume talvolta aspetti drammatici. Presso gli Indiani Thompson lo sciamano si mette la sua maschera e comincia col seguire il sentiero antico, già percorso dagli antenati per recarsi nel paese dei morti; se non v'incontra l'anima del malato, fruga nei cimiteri ave san sepolti gli Indiani che sono stati convertiti al cristianesimo. In ogni caso egli deve però lottare contro i fantasmi per poter strappar loro l'anima del malato e, tornato in terra, mostra ai presenti la sua clava insanguinata. Presso gli Indiani Tuanas dello stato di Washington la discesa agli Inferni ha tratti ancor più realistici: spesso si pratica una apertura sulla superficie del suolo; si imita il passaggio attraverso un corso d'acqua; si riproduce con una mimica energica la lotta contro gli spiriti, e via dicendo (Nell'isola Vea del Pacifico il medicine-man si reca parimenti al cimitero, in processione. Lo stesso rituale nel Madagascar). Presso i Nootka, che attribuiscono il «furto dell'anima» agli spiriti marittimi, lo sciamano s'immerge in estasi in fondo all'oceano e torna bagnato, «talvolta perdendo in abbondanza sangue dal naso e dalle tempie, e recando l'anima rubata entro un ciuffetto di piume d'aquila» (Drucker).

Come negli altri casi, qui la discesa dello sciamano agli Inferni compiuta per riprendere l'anima del malato segue l'itinerario sotterraneo dei trapassati, per cui si integra nelle mitologie funerarie delle corrispondenti tribù. Durante una cerimonia funeraria, una Yuma perse conoscenza. Dopo qualche ora, quando si rianimò, raccontò ciò che le era accaduto. S'era trovata all'improvviso a seguire a cavallo un suo parente, morto da anni. Era circondata da un gran numero di cavalieri. Direttisi verso sud, erano giunti a un villaggio i cui abitanti erano Yuma. Aveva riconosciuto molta gente che aveva conosciuto in vita. Erano venuti tutti ad incontrarla manifestando una gran gioia. Tuttavia, di li a poco, aveva scorto una gran nube di fumo come se l'intero villaggio fosse in fiamme. Tutti erano fuggiti. Quanto a lei, s'era messa a correre ma, essendo inciampata in un pezzo di legno, era caduta in terra. A questo punto aveva ripreso conoscenza e scorto lo sciamano chino su di lei in atto di curarla (Forde). Più raramente lo sciamano nordamericano vien chiamato per restituire ad una persona il suo spirito custode, portato via da trapassati nella regione dei morti. Almeno sette sciamani alla volta compiono questa cerimonia, che comprende un viaggio estatico agli Inferni in una barca immaginaria.

Ma è soprattutto nella ricerca dell'anima del malato che egli utilizza le sue conoscenze in fatto di topografia infernale e le sue capacità di chiaroveggenza estatica. Qui è inutile riferire tutto ciò che si sa circa la perdita dell'anima e la ricerca dì essa da parte dello sciamano nord-americano. Basterà rilevare che una tale credenza è frequente nell'America del Nord, specie nella zona occidentale, e che il suo essere presente anche nell'America del Sud esclude l'ipotesi che essa sia stata importata in un periodo abbastanza recente dalla Siberia. Come avremo occasione di mostrare in seguito, la teoria della perdita dell'anima quale causa di malattia, benché sia probabilmente più recente delle spiegazioni in base ad un agente perturbatore, sembra essere assai arcaica e la sua presenza sul continente americano non può esser spiegata con una influenza tardiva da parte dello sciamanismo siberiano.

Qui, come in ogni altro paese, l'ideologia sciamanica (o, meglio, la parte dell'ideologia tradizionale che è stata assimilata e largamente sviluppata dagli sciamani) la si incontra anche in miti e leggende ove non figurano degli sciamani propriamente detti. Questo è il caso, ad esempio, per ciò che è stato chiamato il «mito nord-americano di Orfeo», mito la cui presenza è stata accertata nella gran parte delle tribù del continente americano, specie delle regioni orientali ed occidentali. Il mito è ignoto fra gli Eschimesi, il che sembra escludere l'ipotesi di una influenza asiatico-siberiana; le eroine qui sono due donne che seguono un giovane negli Inferni, però fallendo del tutto nel loro intento. Ecco la forma in cui esso si presenta presso i Telumni Yakuti: Un uomo ha perduto sua moglie. Decide di seguirla e veglia sulla tomba. Alla seconda notte la donna esce dalla tomba e, come in stato di sonno, si mette a camminare alla volta di Tipikinits, il paese dei morti, che si trova ad Ovest (o Nord-Ovest). Il marito la segue finché essa giunge ad un fiume sul quale si trova un ponte che vibra e si muove continuamente. La donna si volge e gli dice: «Che fai qui? Tu sei vivo e non potrai attraversare il ponte. Cadrai in acqua e diverrai un pesce». In mezzo al ponte un uccello fa la guardia; coi suoi gridi, terrorizza coloro che si avventurano su di un tale cammino, tanto che alcuni precipitano nell'abisso. Ma l'Indiano ha un talismano, una corda magica; grazie ad essa riesce ad attraversare il fiume. Sull'altra riva incontra sua moglie in mezzo ad una folla di trapassati che ballano in circolo (la forma classica della «Ghost Dance»). L'uomo si avvicina e tutti cominciano a lamentarsi del suo cattivo odore. Il messaggero di Tipikinits, Signore dell'Inferno, l'invita alla sua tavola. È la stessa moglie del messaggero che serve le vivande, le quali sono senza numero e non diminuiscono per quanto se ne mangi. Il Signore dell'Inferno chiede il motivo della visita. Conosciutolo, gli promette che potrà ricondurre la sua donna sulla terra, a patto che riesca a restar sveglio tutta la notte. La ronda ricomincia ma l'uomo, per non stancarsi, se ne sta in disparte a guardare. Tipikinits gli ingiunge di fare un bagno. Poi chiama la donna per verificare che essa è davvero la sua sposa. La coppia trascorre tutta la notte a letto in conversari. Prima dell'aurora l'uomo si addormenta e svegliandosi si trova con un tronco putrido fra le braccia. Tipikinits invia il suo messaggero per invitarlo a colazione. Gli offre ancora una possibilità, cioè gli propone di ripetere la prova, e l'uomo dorme tutto il giorno per non trovarsi stanco la notte seguente. La sera, tutto si ripete come la vigilia. La coppia ride e si diverte fino all'alba, ma alla fine l'uomo torna ad addormentarsi e si risveglia col tronco putrido fra le braccia. Allora Tipikinits gli dà certi granelli che gli permetteranno di attraversare il fiume ingiungendogli di abbandonare l'Inferno. Tornato fra i suoi, l'uomo racconta le sue avventure ma prega i parenti di non parlarne; infatti, se non gli riuscirà di starsene nascosto per sei giorni, morirà. Ma i vicini vengono a sapere della sua scomparsa e del suo ritorno, per cui l'uomo si decide a rivelare tutto, per raggiungere sua moglie. Invita l'intero villaggio ad un gran banchetto e racconta ciò che ha visto e udito nel regno dei morti. L'indomani muore, morso da una serpe.

Questo mito presenta, nei suoi motivi, una sorprendente corrispondenza con uno schema a noi ben noto. Il ponte, la corda con l'aiuto della quale l'eroe attraversa le acque infernali, il personaggio benevolo (una vecchia o un vecchio, Signore degli Inferni), l'animale che fa la guardia al ponte, ecc., questi temi classici delle discese agli Inferni sono presenti in quasi tutte le varianti del mito conosciuto nel Nord-America. In parecchie versioni (Gabriellino, ecc.) all'eroe si impone anche la prova della castità: deve restar casto vicino alla sua sposa per tre notti (Gayton). In una versione Alibamu si tratta di due fratelli che seguono la sorella morta. Camminano verso Occidente fino a raggiungere l'orizzonte: qui il cielo è instabile, si sposta continuamente. Trasformatisi in animali, i due penetrano nell'aldilà e, con l'aiuto di un Vecchio o di una Vecchia, superano vittoriosamente quattro prove. Vien loro mostrata la loro abitazione terrestre, che sta esattamente sotto ai loro piedi (motivo del «Centro del Mondo»). Segue una danza dei morti: fra i morti riconoscono la sorella e toccandola con un oggetto magico la fanno cadere e la trasportano in una specie di orciolo. Però, mentre se ne tornano sulla terra, sentono la sorella piangere all'interno dell'orciolo che essi, allora, imprudentemente aprono. L'anima della giovane se ne fugge via.

Vedremo che un mito consimile lo si ritrova anche in Polinesia; però il mito nord-americano conserva più distinto il ricordo di una prova iniziatica che implica la discesa agli Inferni. Le quattro prove cui allude la variante Alibamu, la prova della castità e soprattutto la prova della «veglia» hanno un carattere nettamente iniziatico. Nell'isola dell'antenato mitico Ut-Napishtim anche Gilgamesh deve ve gliare sei giorni e sei notti di seguito per ottenere l'immortalità e, proprio come l'Orfeo nord-americano, fallisce. Ciò che in tutti questi miti è «sciamanico», è la discesa agli Inferni per riportarne l'anima della donna amata. Infatti si ritiene che gli sciamani abbiano il potere non solo di reintegrare nei corpi le anime vagabonde dei malati, ma anche di far rivivere i morti; e questi, una volta tornati dagli Inferni, raccontano ai vivi quel che hanno veduto, proprio come lo fanno coloro che son discesi «in ispìrito» nel paese dei morti, coloro che hanno visitato in estati gli Inferni e i Paradisi e che hanno fornito la materia ad una letteratura visionaria plurimillenaria del mondo intero. Sarebbe eccessivo considerare in genere questi miti come creazioni aventi per sola base delle esperienze sciamaniche; quel che però è certo è che essi hanno utilizzato ed interpretato tali esperienze. Nella variante Alibamu gli eroi catturano l'anima della loro sorella nello stesso modo con cui lo sciamano, per riportarla sulla terra, si impadronisce dell'anima del malato rapita nel paese dei morti.

 

 

 

 

 

 

Le confraternite segrete e lo sciamanismo

back to index

 

Il problema dei rapporti che intercorrono fra lo sciamanismo propriamente detto da una parte, le diverse società segrete e i movimenti mistici nord-americani dall'altro, è abbastanza complesso ed è ancor lungi dall'aver trovato una soluzione. Si può però dire che tutte queste organizzazioni a base misterica hanno una struttura sciamanica, nel senso che la loro ideologia e le loro tecniche risentono della grande tradizione sciamanica. Daremo subito qualche esempio, con riferimento alle società segrete (tipo Mide' wiwin) e ai movimenti estatici (tipo «Ghost Dance Religion»): vi si potrà facilmente riconoscere, nelle grandi linee, la tradizione sciamanica: iniziazione comprendente morte e resurrezione del candidato, visite estatiche nel paese dei morti e in Cielo, inserzione di sostanze magiche nel corpo del candidato, rivelazione della dottrina segreta, insegnamento della terapia sciamanica e così via. La differenza principale fra lo sciamanismo tradizionale e le società segrete sta nel fatto che le seconde sono aperte a chiunque dimostri una certa predisposizione estatica, sia disposto a pagare un dato contributo richiesto e, soprattutto, accetti di sottoporsi alle prove iniziatiche e di passare un certo periodo di alunnato. Non di rado si può constatare una tal quale opposizione fra le confraternite segrete e i movimenti estatici da un lato, gli sciamani dall'altro. Sia le confraternite che i movimenti estatici si oppongono allo sciamanismo nella misura in cui questo sia sinonimo di stregoneria e di magia nera. Un'ulteriore opposizione deriva dallo spirito esclusivista di certi ambienti sciamanici: le società segrete e i movimenti estatici dimostrano invece uno spirito di proselitismo abbastanza accentuato che, in ultima istanza, tende ad abolire la posizione privilegiata dello sciamano. Tutte queste confraternite e queste sette mistiche mirano ad una rivoluzione religiosa, alla rigenerazione spirituale dell'intera comunità, anzi - come nel caso della «Ghost Dance Religion» - della totalità delle tribù nord-americane. Hanno pertanto la coscienza di essere all'opposto degli sciamani che, a tale riguardo, rappresentano sia l'elemento più conservatore della tradizione religiosa, sia le tendenze meno generose della spiritualità di tribù.

Solo che nella realtà le cose si presentano in modo assai più complesso. Infatti se tutto ciò che abbiamo rilevato or ora è esatto, non è men vero che nell'America del Nord la differenza fra «profani» e «uomini sacri» è d'ordine più quantitativo che non qualitativo: consiste essenzialmente nella maggior quantità di sacro che i secondi hanno assimilata. Abbiamo già avuto occasione di dire che ogni indiano cerca il potere religioso, che ogni indiano dispone di uno spinto custode acquisito mediante le stesse tecniche usate dallo sciamano per avere i suoi (si veda il cap. VI). La differenza fra un profano e uno sciamano sta nel segno della quantità: lo sciamano dispone di un maggior numero di spiriti protettori o custodi e di un «potere» magico-religioso più forte. A tale riguardo si potrebbe quasi dire che ogni Indiano «sciamanizza» anche se non desidera coscientemente di essere uno sciamano.

Se la differenza fra i profani e gli sciamani è cosi fluida, quella fra gli ambienti sciamanici e le confraternite segrete o le sette mistiche non è più decisa. Per un verso, nelle seconde si ritrovano dunque tecniche e ideologie considerate «sciamaniche»; per l'altro, gli sciamani, in genere, fan parte delle più importanti società segrete a base misterica, quando non accada perfino che le sostituiscano. Tutto ciò appare chiaro presso la Mide'wiwin o, come la si è chiamata erroneamente, la «Società della Grande Medicina», degli Ojibwa. Gli Ojibwa conoscono due specie di sciamani: i wabeno' (gli «uomini dell'aurora», gli «uomini orientali») e i jes'sakkid', profeti e veggenti chiamati anche «giocolieri» e «rivelatori delle verità nascoste». Entrambe le categorie sono egualmente capaci di prodigi sciamanici: i wabeno' vengono anche chiamati «maneggiatori del fuoco» e manipolano impunemente carboni ardenti; jes'sakkid' operano guarigioni, per bocca loro parlano dèi e spiriti e sono «prestigiatori» famosi perché sanno sciogliersi in un attimo da corde e catene con cui siano stati legati). Bisogna però rilevare che le prodezze magiche degli sciamani nord-americani non si limitano a tanto. Ad essi si attribuisce anche il potere di far germogliare e crescere un chicco di grano sotto gli occhi dello spettatore; di far venire in un attimo rami di abete da montagne lontane, di far apparire conigli e caprioli, di far volare piume ed altri oggetti, ecc. Essi possono anche gettarsi da grandi altezze in piccole ceste, far sorgere un coniglio vivo dal suo scheletro, trasformare in animali vari oggetti. Ma gli sciamani sono soprattutto «signori del fuoco» ed eseguono «fire tricks» d'ogni genere: fanno bruciare un uomo fra i carboni ardenti, lo riducono in cenere, e lo stesso uomo, poco dopo, partecipa ad una danza in un luogo assai lontano - cfr. Parsons. Presso gli Zufù e i Keresan esistono confraternite segrete specializzate nei «fire tricks», c i loro membri sono capaci di inghiottire carboni, di camminare sul fuoco, di toccare senza danno ferro arroventato, ecc. Stevenson riferisce anche cose osservate da lui personalmente (uno sciamano che tiene carboni ardenti in bocca dai 30 ai 60 secondi, ecc.). Gli uni come gli altri, peraltro, si aggregano volentieri alla Mide'wiwin: il wàbeno' quando si è specializzato nella medicina magica e negli incantesimi, il jes'sakkid' quando vuole accrescere il prestigio di cui gode nella tribù. Naturalmente, nella confraternita della «Grande Medicina» essi costituiscono una minoranza, perché quell'organizzazione è largamente aperta a tutti coloro che s'interessano di cose spirituali e sono in grado di pagare la quota d'inscrizione. Presso i Menomini, che ai tempi di Hoffman contavano mille e cinquecento anime, vi erano cento membri della Mide'wiwin e fra di essi si trovavano due wàbeno' e cinque ies'sakkid (Hoffman). Né dovevano esservi molti altri sciamani, non affiliati alla Mide'wiwin.

In questo caso il più importante sta però nel fatto che la confraternita della «Grande Medicina» presenta essa stessa una struttura sciamanica. Del resto, i suoi membri, i mide, son chiamati «sciamani» da Hoffman, benché altri autori li chiamino ora sciamani, ora medicine-men, ora profeti, veggenti e perfino sacerdoti. Tutte queste designazioni sono in parte giustificate, perché i mide hanno funzioni sia di sciamani terapeuti, sia di veggenti e, in una certa misura, anche di preti. Le origini storiche della Mide'wiwin non sono note, ma le sue tradizioni mitologiche non sono molto diverse dei miti siberiani circa il «primo sciamano». Infatti si racconta che Mi'nabo'zho, messaggero del Dzhe Manido (il Grande Spirito) e intercessore fra questi e gli umani, vedendo la miseria dell'umanità malata e prostrata, rivelò i segreti più sublimi alla lontra e introdusse nel corpo di essa delle migi (simbolo dei mide) per renderla immortale e capace di iniziare e, con ciò stesso, di consacrare gli uomini. Cosi la borsa di pelle di lontra ha una parte capitale nell'iniziazione dei mide: è in essa che si custodiscono le migi, piccole conchiglie, che si crede contengano la forza magico-religiosa (Hoffman).

L'iniziazione dei candidati, nelle sue grandi linee, segue lo schema di tutte le inizi azioni sciamaniche. Essa comprende la rivelazione dei misteri (cioè, anzitutto, del mito di Mi'nabo'zho e dell'immortalità della lontra), la morte e resurrezione del candidato e l'introduzione nel suo corpo di una quantità di migi (il che ricorda singolarmente le «pietre magiche» con le quali, in Australia ed altrove, vien farcito il corpo dell'allievo mago). I gradi iniziatici sono quattro, ma le tre ultime iniziazioni sono, all'incirca, una ripetizione della prima cerimonia. Si costruisce il midewigan - la «Grande Loggia-Medicina» - che è una specie di recinto di venticinque metri per otto, e si copre la staccionata che la limita con del fogliame onde prevenire delle indiscrezioni. Ad una trentina di metri s'installa una wigiwam, il bagno di vapori per il candidato. Il capo designa un istruttore che gli rivela l'origine e le proprietà del tamburo e dei sonagli, come pure il modo di servirsene per invocare il Gran Dio (Manidu) e per esorcizzare i demoni. Gli vengono insegnati i canti magici, gli vengono indicate le erbe medicinali, lo si istruisce nella terapeutica e, soprattutto, gli vengono rivelati gli elementi della dottrina segreta. A partir dal sesto o dal quinto giorno prima del rito di iniziazione il candidato si purifica quotidianamente col bagno di vapore e poi assiste alla dimostrazione dei poteri magici fatta dai mide: i quali, all'interno della midewigan fan muovere a distanza varie figurine di legno e soprattutto le loro borse. Durante l'ultima notte l'iniziando resta solo col suo istruttore nel bagno di vapore e l'indomani, dopo una nuova purificazione e se il cielo è chiaro, si procede alla cerimonia dell'iniziazione. Tutti i mide si radunano nella «Grande Loggia-Medicina». Dopo aver fumato a lungo in silenzio intonano dei canti rituali che rivelano aspetti segreti della tradizione primordiale (spesso inintelligibili). Ad un dato momento tutti i mide si alzano e, avvicinatisi al candidato, 10 «uccidono» toccandolo con delle mig]. Il candidato trema, cade in ginocchio e quando gli si introduce una migi nella bocca perde i sensi e resta disanimato al suolo. Poi lo si tocca con la borsa, ed egli «risuscita». Allora gli vien trasmesso un canto magico e il capo gli consegna una borsa di pelle di lontra ove il candidato mette le sue migi. Per verificare il potere di queste conchiglie egli tocca i confratelli, l'uno dopo l'altro, ed essi cadono a terra come fulminati per risuscitare grazie allo stesso procedimento con la borsa. Così egli ha la prova che le conchiglie danno sia la vita che la morte. Nel banchetto, con cui si termina la cerimonia, il mide più anziano racconta la tradizione della Mide'wiwin e, per finire, il nuovo membro intona il suo canto e suona il tamburo.

La seconda iniziazione ha luogo almeno un anno dopo la prima. La forza magica viene allora accresciuta per mezzo di un gran numero di migj con cui si farcisce il corpo dell'iniziato, specie vicino alle articolazioni e nella regione del cuore. Con la terza iniziazione il mide riceve abbastanza forza per divenire un jes'sakkid', cioè per poter eseguire tutte le «prestidigitazioni» sciamaniche, e viene inoltre promosso maestro delle guarigioni. Con la quarta iniziazione altre migi ancora vengono introdotte nel suo corpo (Hoffman, pp. 204-276).

In base a questo esempio ci si può rendere conto delle intime relazioni esistenti fra lo sciamanismo propriamente detto e le società segrete nord-americane: sia l'uno che le altre partecipano alla stessa tradizione magico-religiosa arcaica. E in certe confraternite segrete, soprattutto nella Mide'wiwin, si manifesta proprio un tentativo di «ritorno alle origini», inquantoché ci si sforza di riprender contatto con la tradizione primordiale e di eliminare gli stregoni. La parte degli spiriti protettori e ausiliari sembra essere, in società del genere, mediocre, mentre si dà maggior importanza al Grande Spirito e ai viaggi celesti. Ci si sforza di ristabilire le comunicazioni fra Terra e Cielo quali esistevano all'alba dei tempi. Però la Mide'wiwin, malgrado il suo carattere «riformistico», riprende le tecniche dell'iniziazione magico-religiosa più antica (la morte e la resurrezione (Sul carattere sciamanico della «Società dei Cannibali» kwakiutl, cfr. Moller), il corpo farcito di «pietre magiche», ecc.). E, come si è visto, i mide divengono dei medicine-men, inquantoché l'iniziazione fa loro conoscere le varie tecniche di terapia magica (esorcismo, farmacopea magica, cura mediante suzione, ecc.).

Alquanto diverso è il caso del «Medicine Rite» dei Winnebago, il cui cerimoniale iniziatico completo è stato recentemente pubblicato dal Paul Radin. Anche qui si tratta di una confraternita segreta alla quale si è ammessi con un rituale assai complesso d'iniziazione, consistente anzitutto nella «morte» e nella resurrezione del candidato mediante toccamento con le conchiglie magiche conservate in tasche di pelle di lontra. Ma la rassomiglianza con la Mide'wiwin degli Ojibwa e dei Menomini finisce qui. È verosimile che il rito consistente nel proiettare conchiglie nel corpo sia stato aggiunto piuttosto tardivamente (verso la fine del XVÙ secolo) ad una cerimonia Winnebago più antica, ricca di elementi sciamanici. E siccome il «Medicine Rite» presenta vari tratti simili a quelli della cerimonia dei medicine-men dei Pawnee e siccome la distanza fra le due tribù esclude la possibilità di un'influenza diretta, si può concludere che l'uno e l'altra hanno conservato resti di un unico rituale molto antico, appartenente ad un complesso culturale di origine messicana. Del pari, è probabilissimo che la stessa Mide'wiwin degli Ojibwa non sia che lo sviluppo di un tale rituale.

In ogni caso il punto da sottolineare è che il «Medicine Rite» dei Winnebago aveva per suo fine la rigenerazione perpetua dall'iniziato. Il demiurgo mitico, la lepre, che era stata mandata sulla terra dal Creatore per assistere gli umani, era rimasta colpita dal fatto che gli uomini siano soggetti alla morte. Per rimediare al male, essa fondò la loggia iniziatica, trasformandosi essa stessa in un bambino. «Se qualcuno ripete ciò che ho fatto ora - disse - ecco l'aspetto che avrà». Ma il Creatore interpreta altrimenti la rigenerazione che ha concessa agli uomini: gli uomini potranno rincarnarsi quante volte vorranno. E il «Medicine Rite» rivela, in fondo, il segreto di un ritorno ad infinitum sulla terra, facendo conoscere il vero itinerario nel post-mortem e le parole che il trapassato deve rivolgere alla Donna custode dell'aldilà e allo stesso Creatore. Ciò, evidentemente, dà anche ragguaglio circa la cosmogonia e l'origine del «Medicine Rite», perché si tratta pur sempre di ritornare alle origini mitiche, di abolire il tempo epperò di riportarsi all'istante miracoloso della Creazione.

Numerosi elementi sciamanici sopravvissero anche nel grande movimento mistico noto sotto il nome di «Ghost Dance Religion» il quale, pur avendo avuto un carattere endemico già all'inizio del XIX secolo, non sconvolse le tribù nord-americane che verso la fine del secolo. È assai probabile che il cristianesimo abbia esercitato la sua influenza almeno su qualcuno dei «profeti» di esso (cfr. Mooney). La tensione messianica e l'attesa di una imminente «fine dei tempi» proclamata dai profeti e dai maestri della «Ghost Dance Religion» erano facilmente associabili ad una esperienza cristiana frusta e elementare. Ciò però non impedisce che questo importante movimento mistico popolare presenti nella sua stessa struttura caratteri autoctoni. Infatti i suoi profeti ebbero le loro visioni nel modo arcaico più puro: essi son «morti» e son saliti nei Cieli ove una Donna celeste li ha istruiti circa il modo di presentarsi dinanzi al «Signore della Vita» (Mooney); essi hanno avuto le loro grandi rivelazioni durante delle trance, nelle quali han viaggiato nelle regioni dell'aldilà e, tornati in se stessi, han raccontato quel che avevano veduto; durante le loro trance volontarie essi potevano esser feriti con dei coltelli o abbruciacchiati senza che nulla sentissero, e così via.

La «Ghost Dance Religion» annunciava l'imminenza della rigenerazione universale: in essa tutti gli Indiani, quelli morti così come quelli vivi, sarebbero stati chiamati a vivere su di una «terra rigenerata» che avrebbero raggiunta volando attraverso l'atmosfera con l'aiuto di piume magiche. Alcuni profeti - come John Slocum, il creatore dei movimenti dei «tremanti» - avevan preso posizione contro l'antica religione indiana e specialmente contro i medicine-men. Ciò però non impedì agli sciamani di aderire al movimento: si è che essi avevano ritrovato l'antica tradizione delle ascensioni celesti e delle esperienze della luce mistica, e, come gli sciamani, gli shakers giungevano a risuscitare i morti (vedi per es. il caso di quattro persone risuscitate). Il rituale essenziale di questa setta consisteva nella contemplazione prolungata del cielo e nel tremito continuo delle braccia, tecniche sommarie che, in aspetti ancor più aberranti, si ritrovano anche nel Vicino Oriente antico e moderno, sempre in relazione con ambienti «sciamanici». Altri profeti denunciarono anche le pratiche di stregoneria e i medicine-men della tribù, ma soprattutto per riformarli e per rigenerarli. Si può ricordare l'esempio di un profeta Shawano che, verso i trent'anni, fu rapito nei cieli e ricevette una nuova rivelazione dal Signore della Vita, la quale gli permise di conoscere gli avvenimenti passati e futuri; questi, pur condannando lo sciamanismo, dichiarò di aver ricevuto il potere di guarire tutte le malattie e di prevenire la morte perfino sui campi di battaglia. Peraltro, questo profeta si considerava come l'incarnazione di Manabozho, il primo «Grande Demiurgo» degli Algonkini, e voleva riformare la Mide'wiwin.

Il suo sorprendente successo popolare la «Ghost Dance Religion» lo dovette però alla semplicità della sua tecnica mistica. Per preparare la venuta del Salvatore della razza i membri della confraternita ballavano di seguito per cinque o sei giorni, cadendo per tal via in trance nelle quali vedevano i morti e conversavano con essi. Si danzava in circolo presso il fuoco, si cantava, ma senza accompagnamento di tamburo. L'apostolo confermava i nuovi sacerdoti dando loro una più ma d'aquila durante la danza. E bastava che egli toccasse con tale più ma un danzatore a che questi cadesse a terra privo di sensi: restava lungamente in tale stato, mentre la sua anima incontrava i morti e parlava con essi. Non mancava nessuno degli elementi sciamanici essenziali: i danzatori divenivano dei guaritori, indossavano le «camicie dei fantasmi» (ghost shirts), cioè costumi rituali con raffigurazioni di astri, di entità mitologiche e perfino di visioni avute durante le trance, usavano il bagno di vapore e via dicendo. Il fatto del danzare va messo in rilievo: è una tecnica mistica che, pur non essendo esclusivamente sciamanica, ha, come si è già avuto occasione di vedere, una parte decisiva nella preparazione estatica degli sciamani.

Naturalmente, la «Ghost Dance Religion» va sotto ogni riguardo di là dallo sciamanismo stricto sensu. Ad esempio, l'assenza dell'iniziazione e di una istruzione tradizionale segreta basta già a distinguerla dallo sciamanismo. Ma qui si tratta di una esperienza religiosa collettiva cristallizzatasi intorno al tema dell'imminenza di una «fine del mondo». L'origine stessa di questa esperienza - la comunicazione coi morti - implica, in chi la vive, l'abolizione del mondo presente e l'instaurazione, sia pure provvisoria, di una «confusione» che costituisce sia il termine del ciclo cosmico attuale che il germe della restaurazione gloriosa di un nuovo ciclo paradisiaco. Poiché le visioni mitiche dell'«inizio» e della «fine» dei tempi sono omologabili l'escatologia riproducendo, in certi suoi aspetti, la cosmogonia, l'eschaton della «Ghost Dance Religion» riattualizzava l'illud tempus mitico, quello in cui le comunicazioni col Cielo, col Gran Dio e i morti erano accessibili a ogni essere umano. Siffatti movimenti mistici si differenziavano dallo sciamanismo tradizionale per il fatto che, pur conservando elementi essenziali dell'ideologia e delle tecniche sciamaniche, credevano che per tutto il popolo indiano fossero venuti i tempi in cui esso avrebbe potuto conseguire lo stato privilegiato dello sciamano, ossia avrebbe potuto veder ristabilite le «comunicazioni facili» col Cielo, proprio come esse erano all'alba dei tempi.

 

 

 

 

 

 

Lo sciamanismo sud-americano: rituali vari.

back to index

 

Nelle tribù dell' America del Sud la parte dello sciamano sembra esser abbastanza importante. Non solo egli è il guaritore per eccellenza e, in alcune regioni, la guida dell'anima del trapassato verso la sua nuova dimora, ma è anche l'intermediario fra gli uomini e gli dèi o gli spiriti e, sostituendosi talvolta ai sacerdoti (come ad esempio fra i Mojo e i Manasi della Bolivia orientale, fra i Taino delle Grandi Antille, ecc.), egli cura l'osservanza delle interdizioni rituali, difende la tribù contro gli spiriti malvagi, indica i luoghi ove caccia e pesca possono esser fruttuose. moltiplica la selvaggina, ha potere sui fenomeni atmosferici (gli sciamani arrestano piogge torrenziali; «gli sciamani Ipurina mandano il loro doppio in cielo per spegnere le meteore che minacciano di bruciare l'universo»), facilita le nascite (secondo i Tapirapé e altre tribù ancora le donne non possono generare e dare alla luce un bambino se lo sciamano non fa scendere nel loro grembo un bambino-spirito. In certe tribù lo sciamano viene chiamato per identificare lo spirito incarnatosi nel fanciullo), rivela il futuro (per conoscere l'avvenire gli sciamani Tupinamba «si ritiravano in piccole capanne dopo aver osservato vari tabù, fra cui otto giorni di continenza»; gli spiriti scendevano e rivelavano gli eventi futuri nella lingua degli spiriti), ecc. Cosi in tutte le comunità sud-americane egli gode di un prestigio e di una autorità considerevoli. Soltanto gli sciamani possono arricchirsi, cioè accumulare coltelli, pettini, asce, ecc. Essi han fama di compiere miracoli (spesso di tipo strettamente sciamanico: volo magico, ingestione di brace, ecc. (Métraux). Fra i Guarani la venerazione degli sciamani era tale che si rendeva un culto alle loro ossa; nelle capanne venivano conservati i resti dei maghi più potenti, che venivano consultati e ai quali in dati casi si facevano delle offerte.

Naturalmente, come i suoi colleghi di tutto il mondo, lo sciamano sud-americano può anche fungere da stregone; ad esempio, può trasformarsi in un animale per bere il sangue dei suoi nemici. La credenza nei lupi-mannari è diffusissima nell'America del Sud (Métraux). Però più che al suo prestigio quale mago, è alle sue capacità estatiche che lo sciamano sud-americano deve la sua posizione magico-religiosa e la sua autorità sociale. Infatti queste capacità estatiche non solo gli assicurano la sua prerogativa ordinaria di terapeuta, ma gli permettono anche viaggi estatici in Cielo per incontrare gli dèi e per trasmettere loro le preghiere degli umani. Talvolta è il dio a discendere nella capanna cerimoniale dello sciamano: ne è il caso presso i Manasi, ove il dio discende in terra, conversa con lo sciamano e infine lo solleva seco in Cielo, per lasciarlo ricadere dopo qualche istante.

Come esempio di funzione sacerdotale assunta dallo sciamano ricorderemo la cerimonia collettiva periodica degli Araucani, detta ngillatun, avente per scopo il rafforzare le relazioni fra Dio e la tribù. In essa la machi ha la parte principale. È essa che cade in trance e invia la sua anima dinanzi al «Padre Celeste» per fargli presente i desideri della comunità. La cerimonia è pubblica; un tempo la machi saliva su di una piattaforma portata da arbusti (la rewe) e là, contemplando a lungo il cielo, aveva delle visioni. Due fra i presenti assolvevano funzioni il cui carattere sciamanico è evidente: «con la testa avvolta in un panno bianco, col viso impiastricciato di nero, a cavallo di un cavallo di legno e con una spada di legno e un bastone a sonagli nelle mani», questi due paggi «fanno caracollare il loro cavallo di legno ed agitano i loro sonagli in una vera frenesia» non appena la machi entra in trance (Housse). (Si ricordino il «cavallo» dello sciamano buriate e le danze su un cavallo di legno dei Murias). Lo sciamano yaruro compie il suo viaggio al paese dei morti, che è anche il paese della Grande Dea Madre, in groppa ad un «cavallo». Durante la trance della machi altri cavalieri lottano contro i demoni e si procede all'espulsione degli spiriti maligni (Del resto, è probabile che la festa ngillatun faccia parte del complesso delle cerimonie periodiche di rigenerazione del tempo). Una volta ripresi i sensi, la machi racconta il suo viaggio nei cieli e annuncia che il Padre Celeste ha esaudito tutti i desideri della comunità. Tali parole vengono accolte da ovazioni prolungate e scatenano un entusiasmo generale. Quando il tumulto si è un po' calmato, alla machi vien raccontato tutto quanto è accaduto durante il suo viaggio in Cielo: la lotta coi demoni, la loro espulsione, eccetera.

Fra questo rituale araucano e il sacrificio altaico del cavallo seguito dal viaggio celeste dello sciamano fino al palazzo di Bai Ulgan esiste una rassomiglianza palese: nell'uno come nell'altro caso si tratta di un rituale collettivo periodico destinato a far presente al Dio celeste i desideri della tribù; nell'uno come nell'altro caso è lo sciamano che ha la parte principale, e ciò unicamente grazie alle sue capacità estatiche che gli permettono il viaggio mistico in Cielo e un dialogo diretto con Dio. In pochi altri casi la funzione religiosa dello sciamano - lo sciamano come intermediario fra gli uomini e Dio - ha un cosi netto risalto come appunto fra gli Araucani e gli Altaici.

Noi abbiamo già rilevate altre rassomiglianze fra lo sciamanismo sud-americano e quello altaico: il montare su di una piattaforma vegetale (fra gli Araucani) o su di una piattaforma sospesa al soffitto della capanna cerimoniale a mezzo di parecchie corde attorcigliate (presso i Caribi della Guiana olandese), la parte del Dio celeste, il cavallo di legno, le cavalcate frenetiche dei presenti. Notiamo infine che, proprio come fra gli Altaici e i Siberiani, certi sciamani sudamericani sono psicopompi. Presso i Bakairi il viaggio nell'aldilà è troppo difficile perché un morto possa compierlo da solo; egli abbisogna di qualcuno che conosca il cammino, per aver compiuto più volte quel viaggio; ora, lo sciamano raggiunge il Cielo in un batter d'occhio: per lui - dicono i Bakairi - il Cielo non è più alto di una casa. Presso i Manacica lo sciamano conduce l'anima del trapassato in Cielo non appena finiti i funerali. Il cammino è lungo e difficile: si attraversa una foresta vergine, si scala un monte, si oltrepassano mari, fiumi e paludi finché si raggiunge la sponda di un gran corso d'acqua: ed allora bisogna passare per un ponte custodito da una divinità. Senza l'aiuto dello sciamano l'anima non potrebbe venir a capo di tutto ciò.

 

 

 

 

 

 

La guarigione sciamanica

back to index

 

Come dappertutto, nel Sud-America la funzione essenziale e rigorosamente personale dello sciamano resta la guarigione. Questa non ha sempre un carattere esclusivamente magico. Lo sciamano sudamericano conosce anche lui le virtù medicinali delle piante e degli animali, usa il massaggio, ecc. Ma poiché secondo lui la grande maggioranza delle malattie ha una causa d'ordine spirituale - dipende cioè o dalla fuga dell'anima, o dall'introduzione di un oggetto magico nel corpo del malato ad opera di spiriti o di stregoni - cosi egli è costretto a ricorrere alla guarigione sciamanica.

La concezione della malattia in funzione di perdita dell'anima, in quanto l'anima o si è smarrita, o è stata rapita da uno spirito o da uno spettro, è assai diffusa nella regione del Rio delle Amazzoni e delle Ande, mentre è piuttosto rara nell'America del Sud tropicale. Tuttavia la si è ritrovata anche in un certo gruppo di tribù di questa zona e fra gli Yahgan della Terra del Fuoco. Generalmente insieme a questa concezione coesiste la teoria dell'introduzione di un oggetto magico nel corpo del malato, la seconda essendo però maggiormente diffusa.

Quando si tratta di ritrovare l'anima rapita da spiriti o da morti, si crede che lo sciamano lasci il corpo e si avventuri negli Inferni o nelle regioni abitate dal rapinatore. Cosi secondo gli Apinayé egli si reca nel paese dei morti: questi, presi da panico, fuggono e lo sciamano cattura l'anima del malato e la riconduce al suo corpo. Un mito taulipang tratta della ricerca dell'anima di un fanciullo che la luna aveva rapita e nascosta in un vaso; lo sciamano sale sulla luna e dopo varie peripezie scopre il vaso e libera l'anima del fanciullo. I canti delle machi araucane trattano talvolta delle disavventure dell'anima: un cattivo spirito ha condotto il malato per un ponte o un morto lo ha spaventato. In certi casi, invece di darsi alla ricerca dell'anima, la machi si limita a supplicarla di tornare e di riconoscere i suoi parenti (Métraux), cosa che si fa anche altrove (cfr. per es. l'India vèdica). Il viaggio estatico intrapreso dallo sciamano a fini di guarigione presenta talvolta i tratti aberranti di una ascensione celeste di cui non si capisce più il senso: cosi vien riferito che «per i Taulipang il risultato di una cura dipende talvolta dall'esito del combattimento fra il doppio dello sciamano e lo stregone. Per raggiungere il paese degli spiriti lo sciamano beve un'infusione fatta di una liana la cui forma ricorda quella di una scala» (Métraux). Il Simbolismo della scala indica il significato ascensionale della trance. Però, in genere, gli spiriti rapitori di anime non abitano regioni celesti. Come in altri casi, anche lo sciamanismo taulipang presenta una confusione di idee religiose, il senso più profondo delle quali sta per andar perduto.

Il viaggio estatico dello sciamano è qui quasi sempre indispensabile, anche se la malattia non è dovuta al ratto dell'anima ad opera di demoni o di morti. La trance sciamanica fa parte della cura: quale pur sia l'interpretazione che lo sciamano gli dà, è sempre per mezzo dell'estasi che egli scopre la causa precisa del male e viene a sapere quale cura sia più efficace. La trance finisce talvolta in una «possessione» dello sciamano da parte dei suoi spiriti familiari (come per es. fra i Taulipang e gli Yekuanà). Ma noi abbiamo già visto che, per lo sciamano, la «possessione» può talvolta significare un prender possesso di tutti i suoi «organi mistici» costituenti, in un certo modo, la sua personalità spirituale vera e completa. Nella maggior parte dei casi la «possessione» non fa che mettere a disposizione dello sciamano i suoi spiriti ausiliari, che realizzare la loro presenza effettiva manifestantesi attraverso segni sensibili d'ogni specie: e questa presenza, invocata dallo sciamano, non conduce alla trance, ma al dialogo fra lo sciamano e i suoi spiriti ausiliari. Nella realtà, le cose si presentano ancor più complesse: poiché lo stesso sciamano può trasformarsi in un animale, talvolta non si sa in che misura le grida animalesche che si odono nella seduta siano quelle degli spiriti familiari o rappresentino piuttosto le tappe del trasformarsi dello sciamano in animale, cioè la rivelazione manifesta della sua vera personalità mistica.

La morfologia della terapia sciamanica sud-americana è quasi dovunque identica. Essa implica dei suffumigi di tabacco, dei canti, dei massaggi della parte malata del corpo, l'identificazione della causa della malattia con l'aiuto degli spiriti ausiliari (e qui interviene la trance dello sciamano, durante la quale i presenti gli fanno talvolta domande prive di relazioni dirette con la malattia) e, infine, l'estrazione dell'oggetto patogeno per suzione. Presso gli Araucani, la machi, per esempio, si rivolge anzitutto a «Dio-Padre» il quale, benché influenze cristiane non siano da escludersi, mantiene ancora la sua struttura arcaica (per esempio, l'androginia: egli viene invocato come «Padre-Dio, vecchia che sei in Cielo» (Métraux). Poi la machi si rivolge ad Anchimalen, che è la sposa o 1'«amica» del Sole, e alle anime delle machi morte, «quelle, di cui è detto che son nei cieli e che portano lo sguardo verso le loro colleghe di quaggiù»; si prega che intervengano presso il Dio.

Va rilevata l'importanza che i motivi dell'ascensione celeste e della cavalcata aerea hanno nella tecnica delle machi. Infatti poco dopo aver invocato l'aiuto e la protezione di Dio e delle machi morte, la sciamana annuncia «che sta per montare a cavallo con le sue assistenti, le machi invisibili» iibid., p. 334). Durante la trance la sua anima abbandona il corpo e se ne vola per l'atmosfera (ibid., p. 336). Per raggiungere l'estasi la macbi usa mezzi elementari: danza, movimenti delle braccia, accompagnamento coi sonagli. Mentre balla, si rivolge alle machi celesti a che l'aiutino durante l'estasi. «Quando la sciamana è sul punto di cadere per terra priva di sensi, alza le braccia e si mette a girare su se stessa, allora un uomo le si avvicina per sostenerla ed impedirle di cadere. Un altro Indiano accorre ed esegue una danza chiamata Iankan, destinata a rianimarla». Si giunge alla trance dondolandosi in cima alla scala sacra (rewe).

Durante tutta la cerimonia si fa grande uso di tabacco. La machi trae una boccata di fumo e l'invia verso il cielo, verso Dio. «Ti offro questo fumo!» dice. Ma Métraux precisa che «in nessuna occasione ci è stato detto specificamente che il tabacco l'aiuti a raggiungere uno stato estatico».

Secondo quanto fu riferito dai viaggiatori europei del XVIII secolo, la cura sciamanica allora implicava anche il sacrificio di un montone, al quale lo sciamano strappava il cuore ancora palpitante. Ai nostri giorni ci si limita a fare un'incisione all'animale sacrificale. Ma la maggior parte degli osservatori antichi e moderni riferisce concordemente che le machi, con un qualche espediente illusionistico, fanno credere ai presenti che esse aprono il petto e il ventre del malato mettendo a nudo le visceri e il fegato. Secondo il Padre Housse la machi «sembra aprire il corpo dell'infelice, cercarvi dentro, estrarre qualcosa». E mostra poi la causa del male, una pietruzza, un verme, un insetto, ecc. Si vuole che la ferita si chiuda subito da sé. Ma siccome la cura abituale non implica l'apparente apertura del corpo ma solo la suzione (talvolta fino al sangue) della parte del corpo indicata dallo spirito, è assai probabile che qui si tratti di una applicazione aberrante di una tecnica iniziatica ben nota: perché si apre magicamente il corpo del neofita per mettere nuovi organi interni al posto di quelli antichi e per farlo «rinascere». Nel caso della guarigione araucana le due tecniche - il cambio degli organi interni di un candidato e l'estrazione dell'oggetto patogeno - si sono confuse e ciò, senza dubbio, perché lo schema iniziatico (morte e resurrezione con rinnovamento degli organi interni) è andato a poco a poco perduto.

Come pur stiano le cose a tale riguardo, quell'operazione magica nel XVIII secolo era connessa ad una trance catalettica: lo sciamano (perché a quel tempo lo sciamanismo era prerogativa degli uomini e degli invertiti, più che delle donne) cadeva «come morto». Mentre era in trance gli si facevano domande circa il nome dello stregone che aveva provocato la malattia e il rimedio - ma questa trance non interviene subito dopo 1'«apertura» del corpo del paziente. In alcuni casi, non v'è traccia di tale operazione magica, si ha soltanto la suzione che viene eseguita dopo la trance, seguendo le istruzioni degli spiriti.

La suzione e l'estrazione dell'oggetto patogeno restano però pur sempre un'operazione di carattere magico-religioso. Per lo più quell'oggetto è infatti d'ordine sovrannaturale ed è stato proiettato invisibilmente nel corpo da un demone o da un morto. L'oggetto non è che la manifestazione sensibile di un «male» che non è di questo mondo. Come lo si è visto nel caso degli Araucani, lo sciamano vien certo aiutato nel suo lavoro dai propri spiriti familiari, ma anche dai colleghi morti e da Dio stesso. Le formule magiche della machi si ritiene che sian state perfino dettate da Dio (Métraux, ibid., p. 338). Lo sciamano Yamana, che usa anche lui la suzione per estrarre lo 'yekush (il «male» proiettato magicamente nel corpo del paziente), non per questo tralascia di pregare. Anche lui dispone di uno yefatchel, di uno spirito ausiliario, e durante tutto il tempo in cui questo lo «possiede» è insensibile. È però una insensibilità che ha specifico carattere sciamanico, perché egli può anche camminare sul fuoco a piedi nudi e inghiottire carboni ardenti (Gusinde) come i suoi colleghi dell'Oceania, dell'America settentrionale e della Siberia.

Riassumendo, nello sciamanismo sud-americano è ancora presente un buon numero di tratti estremamente arcaici: l'iniziazione mediante la morte e la resurrezione rituale del candidato, l'inserzione di sostanze magiche nel suo corpo, l'ascensione celeste per esporre al Dio supremo i desideri dell'intera comunità, la guarigione sciamanica per suzione o la ricerca dell'anima del malato, il viaggio estatico dello sciamano in funzione di psicopompo, i «canti segreti» rivelati da Dio o dagli animali, specie dagli uccelli. Qui è inutile compilare una tavola comparativa di tutti i casi nei quali si ritrova lo stesso complesso. Ricorderemo soltanto le rassomiglianze con i medicine-men australiani (quanto all'inserzione di sostanze magiche nel corpo del candidato, al viaggio iniziatico celeste, alla guarigione per suzione) per mostrare l'alta antichità di alcune delle tecniche e delle credenze degli sciamani sud-americani. In questa sede non è il caso di pronunciarsi sul problema, se rassomiglianze così notevoli siano dovute al fatto che gli strati sud-americani più antichi rappresentano, al pari degli Australiani, i resti di una umanità arcaica, respinti ai margini estremi dell'ecumene - o se si ebbero dei contatti diretti fra Australia e America del Sud attraverso le regioni antartiche. La seconda ipotesi è stata difesa da studiosi come Mendes Correa, Koppers e Rivet. Ed è stata anche formulata l'ipotesi di migrazioni successive dall'area malese-polinesica verso l'America del Sud. Rivet crede di poter distinguere, dal punto di vista cronologico, tre migrazioni che hanno popolato il continente americano: asiatica, australiana e melano-polìnesìana. Quest'ultima sarebbe nettamente più importante di quella australiana. Benché fino a questo momento non si siano rinvenute stazioni dell'uomo paleolitico nell' America del Sud, è assai probabile che le migrazioni e i contatti culturali tra questa e l'Oceania (qualora la loro realtà non sia piiì messa in dubbio) siano stati molto precoci.

 

 

 

 

 

 

Antichità dello sciamanismo nel continente americano

back to index

 

Quanto al problema dell'«origine» dello sciamanismo nelle due Americhe, esso è ancora ben lungi dall'esser risolto. È probabile che un certo numero di pratiche magico-religiose si sia a poco a poco aggiunto alle credenze e alle pratiche dei primi abitanti delle due Americhe. Se consideriamo i Fuegini come i discendenti di una delle prime ondate degli immigranti penetrati in America, si è in diritto di supporre che la loro religione, dal punto di vista che qui ci interessa, rappresenti la sopravvivenza di una ideologia arcaica comprendente la credenza in un Dio celeste, l'iniziazione sciamanica per elezione o per ricerca volontaria, i rapporti con le anime degli sciamani morti e con gli spiriti familiari (rapporti, che talvolta giungono fino alla «possessione»), la concezione della malattia come effetto della presenza di un oggetto magico nel corpo o della perdita dell'anima, l'insensibilità dello sciamano al fuoco, Ora, sembra che la maggior parte di questi elementi si ritrovino tanto nelle zone ove lo sciamanismo domina effettivamente la vita religiosa della comunità (America del Nord, Eschimesi, Siberiani) quanto nelle regioni in cui è solo uno dei fenomeni costitutivi della vita magico-religiosa (Australia, Oceania, Asia di sud-est). Si può dunque supporre che una certa forma di sciamanismo si è diffusa nei due continenti americani insieme alle prime ondate di immigranti, qualunque fosse la «patria originaria» di questi ultimi.

Certo, i contatti prolungati che si sono avuti fra l'Asia 'settentrionale e l'America del Nord hanno rese possibili influenze di molto posteriori alla penetrazione dei primi occupanti. Heine-Geldem ha messo in luce l'origine asiatica dell'arte delle tribù americane della Costa Nordoccidentale; egli pensa d'aver identificato lo stesso principio stilistico presso le tribù costiere della Columbia Britannica e dell'Alaska meridionale, nel nord della Nuova Irlanda, in Melanesia, su certi monumenti e oggetti rituali del Borneo, di Sumatra e della Nuova Guinea e, infine, nell'arte cinese dell'epoca Chang. L'autore suppone che questo stile artistico, d'origine cinese, si sia propagato, da una parte, verso l'Indonesia e la Melanesia, e dall'altra, in direzione orientale, verso l'America, ove non sarebbe arrivato più tardi che nella prima parte del I millennio a.C.

Dopo Tylor, Thalbitzer, Hallowell ed altri ancora (Rammentiamo che il parallelismo tra America e antica Cina, studiato specialmente su documenti artistici, è già stato messo in luce da Hentze), Lowie ha rilevate numerose rassomiglianze fra i Lapponi e le tribù americane, specialmente quelle del Nord-Est. Un viaggiatore della fine del XVII secolo descrive così una usanza finnica: i contadini riscaldavano delle pietre in mezzo ad un apposito ambiente, versandovi poi sopra dell'acqua e restando vicini per qualche tempo affinché il vapore caldo aprisse bene i pori della pelle; subito dopo andavano a gettarsi in un corso d'acqua freddissimo. La stessa usanza fu riferita nel XVI secolo per gli Scandinavi. Lowie ricorda che i Tlingit e i Crow si gettano anch'essi in un fiume semigelato dopo esser restati a lungo in un bagno di vapore. Vedremo più giù che il bagno di vapore fa parte delle tecniche elementari intese ad accrescere il «calore mistico», la traspirazione avendo talvolta un valore creativo per eccellenza; in molte tradizioni mitologiche l'uomo primordiale vien creato da Dio in seguito ad una forte traspirazione. In particolare, i disegni del tamburo lappone ricordano in modo sorprendente lo stile pictografico degli Eschimesi e degli Algokini orientali (Lowie). Questo stesso studioso ha richiamato l'attenzione sulla somiglianza del canto dello sciamano lappone, ispirato da un animale, soprattutto da un uccello, col canto degli sciamani nord-americani, che ha la stessa origine. Devesi tuttavia rilevare che lo stesso fenomeno lo s'incontra anche nell'America del Sud, il che, secondo noi, esclude una influenza euroasiatica recente. Lowie nota anche le somiglianze fra la teoria della perdita dell'anima quale è professata sia dagli Americani del Nord che dai Siberiani, il giuoco sciamanico col fuoco, comune all'Asia del Nord e a numerose tribù nord-americane (come i Fox e i Menomini), lo scuotimento della capanna cerimoniale e la ventriloqui a fra i Ciukci e i Cree, i Saulteaux e i Cheyenne, infine certi tratti comuni presentati dal bagno di vapore iniziatico nell'America del Nord e nell'Europa settentrionale: il che farebbe supporre non solo una solidarietà culturale fra Siberia e America occidentale, ma anche delle relazioni fra America e Scandinavia.

Notiamo tuttavia che tutti questi elementi culturali (la ricerca dell'anima, lo scuotimento della capanna sciamanica, la ventriloquia, il bagno di vapore, l'insensibilità al fuoco) non si incontrano solo nell'America del Sud, ma, fra di essi, i più  specifici (il giocare col fuoco, il bagno di vapore, la capanna cerimoniale oscillante, la ricerca dell'anima) sono stati parimenti constatati in molti altri luoghi (Africa, Australia, Oceania, Asia) e proprio in relazione con le forme più arcaiche della magia in genere e soprattutto con lo sciamanismo. Ci sembra particolarmente importante la parte che ha il «fuoco» e il «calore» nello sciamanismo sud-americano. Questo «fuoco» e questo «calore» mistico sono sempre in rapporto con l'accesso ad un certo stato estatico - e ciò si ritrova negli strati più arcaici della magia e della religione universale. Il dominio del fuoco, l'insensibilità al calore e, pertanto, il «calore mistico» che fa sopportare sia un freddo estremo che la temperatura dei carboni ardenti, è una virtù magico-mistica che, unita ad altri poteri non meno meravigliosi (ascensione, volo magico, ecc.), traduce in termini sensibili il fatto che lo sciamano ha superato la condizione umana e partecipa di già della condizione degli «spiriti».

Ove ci si renda conto di ciò, l'ipotesi dell'origine recente dello sciamanismo americano appare discutibile. Le grandi linee di uno s,tesso complesso sciamanico le ritroviamo dall'Alaska alla Terra del Fuoco. Gli apporti nord-asiatici od anche asiatico-oceanici molto probabilmente non sono valsi che a fortificare, modificandone talvolta solo i dettagli, una ideologia e una tecnica sciamanica gia largamente diffuse nelle due Americhe e in un qualche modo in esse naturalizzate.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 10: Lo sciamanismo nell'Asia sud-orientale e in Oceania

 

 

Credenze e tecniche sciamaniche fra i Sakai, i Semang e i Jakun

back to index

 

Gli studiosi convengono nel riconoscere nei Negritos gli abitanti più antichi della penisola di Malacca. Kari, Karei o Ta Pedn, l'Essere supremo dei Semang, ha tutte le caratteristiche di un dio celeste (del resto, Kari significa «fulmine», «tempesta»), senza che però sia l'oggetto di un culto vero e proprio: lo si invoca solo in caso di tempesta, con offerte espiatorie di sangue. Il medicine-man dei Semang si chiama hala o halak, termine usato anche dai Sakai. Quando qualcuno si ammala il hala e il suo assistente si ritirano in una capanna fatta di fogliame e cominciano a cantare invocando i cenoi, i «nipoti di Dio» («Piccoli esseri celesti amabili e luminosi; fanciulli e servitori della divinità»).

Dopo un certo tempo si odono, nella capanna, le voci di questi cenoi; il hala e il suo assistente cantano e parlano in una lingua sconosciuta che, quando lasciano la capanna, pretendono di aver dimenticata: i cenoi avrebbero appunto cantato per loro bocca. È, naturalmente, la «lingua degli spiriti», il linguaggio segreto proprio agli sciamani. Evans fornisce alcune invocazìonì e trascrive testi di canti di stupefacente semplicità. Secondo lo stesso autore, durante la seduta il baia è sotto il controllo dei cenoi, ma la descrizione di Evans lascia piuttosto l'impressione d'un dialogo tra il hala e i suoi spiriti ausiliari. La discesa di tali spiriti si manifesta con un tremar della capanna (vedi le sedute degli sciamani nord-americani, più sopra). Sono essi a rivelare la causa della malattia e ad indicare la cura; ed è in tale occasione che il bala cadrebbe in trance (Evans).

In realtà, qui la tecnica non è cosi semplice come parrebbe. La presenza concreta dei cenoi implica, in un modo o nell'altro, una comunicazione fra il hala e il Cielo, se non perfino fra lui e il Dio celeste. «Se Ta Pedn non gli avesse detto qual medicina impiegare, quando darla al malato, e le parole che deve pronunciare, il bala come farebbe a guarire?», chiedeva un pigmeo Semang. Infatti è lo stesso Ta Pedn che invia le malattie, per punire i peccati degli uomini (Evans). Che fra il bala e il Dio celeste esistano rapporti più diretti che non fra questi e gli altri Negritos, ciò lo prova anche il fatto che i Menri di Kelantan pretendono che i hala posseggano poteri divini, per cui non fanno oblazioni di sangue durante le tempeste. Il hala dei Menri durante la cerimonia fa dei salti, canta e getta uno specchio e una collana verso Karei; ma si sa ormai che il salto rituale è simbolo dell'ascesa celeste.

Esistono anche informazioni più precise sui rapporti fra lo sciamano pigmeo e il Cielo. Durante la seduta il halak dei Negritos Pahang ha fra le mani dei fili fatti di foglie di palme o, secondo altre informazioni, certe corde sottili. Questi fili e queste corde vanno fino a Bonsu, il Dio celeste che risiede al di là dei sette piani del cielo. (Vi vive con suo fratello Teng; negli altri piani del Cielo non c'è nessuno). Durante tutta la seduta il halak è connesso direttamente col Dio celeste per mezzo di questi fili o corde, che la divinità stessa fa scendere e che essa ritira dopo la cerimonia (Evans), Infine, un elemento essenziale della guarigione è costituito dai cristalli di quarzo tsbebusb), la cui relazione con la volta celeste e gli dèi uranici è stata da noi già rilevata (vedi sopra). Cristalli di tal genere si possono ricevere direttamente dai cenoi, ma possono anche esser confezionati: si nnene che all'interno di queste pietre magiche vivano dei cenoi, che sono agli ordini del hala. Si vuole che il guaritore veda la malattia nei cristalli - cioè che i cenoi che vi si trovano gli indichino la causa del male e la cura adatta. Ma nei cristalli il hala - può anche vedere una tigre che si avvicina all' accampamento (Evans). Il hala stesso può trasformarsi in tigre (Evans), proprio come i bomors di Kelantan e gli sciamani, uomini e donne, della Malacca. In tale concezione si tradiscono influenze malesi; tuttavia non si deve dimenticare che in tutta la zona dell'Asia sud-orientale la Tigre quale antenato mitico vien considerata come «colui che inizia» è essa a condurre i neofiti nella jungla per iniziarli (di fatto: per «ucciderli» e «risuscitarli». In altri termini, essa fa parte di un complesso religioso estremamente arcaico. Un bomor belian (cioè uno specialista in fatto di invocazioni allo spio rito della tigre) della regione d Kelantan non ricordava, del suo periodo iniziale di follia, che l'aver errato a lungo per la jungla e l'aver incontrato una tigre: egli l'aveva cavalcata e la tigre l'aveva condotto a Kadang baluk, il luogo mitico dove gli uomini-tigre vivono. Tornò dopo tre anni e da allora non ebbe più attacchi epilettici. Naturalmente Kadang baluk è 1'«inferno nella boscaglia» ove si compie l'iniziazione, che però non è necessariamente una iniziazione sciamanica.

Una leggenda dei Negritos sembra averci conservata un'antica scenografia di iniziazione sciamanica. Si racconta che una grande serpe, Mat Shinoi, vive sulla strada che conduce al Palazzo di Tapern (Ta Pedn). È essa che fabbrica i tappeti per Tapern: son dei bei tappeti, con numerosi ornamenti, che sono stesi su una traversa; sotto, abita appunto la Serpe. Nel suo ventre si trovano da venti a trenta donne-Shinoi belle quanto mai, insieme ad una quantità di ornamenti per il capo, di pettini, ecc. Uno Shinoi chiamato Halak-Gihmal (1'«Arma-Sciamano») sta sul dorso della serpe, facendo la guardia ai suoi tesori. Ove uno Shinoi desideri entrare nel ventre della Serpe, Halak Gihmal gl'impone due prove, la cui struttura e il cui significato sono nettamente iniziatici. Al disopra del luogo dove la Serpe sta distesa sette tappeti si muovono, avvicinandosi e allontanandosi continuamente gli uni dagli altri. Lo Shinoi candidato deve passarvi attraverso così presto da non cadere sul dorso della Serpe. La seconda prova consiste nel penetrare in un cofano il cui coperchio si apre e si richiude rapidissimamente. Se supera queste due prove, il candidato può entrare nella Serpe e prendersi una sposa fra le donne-Shinoi che vi si trovano (Evans).

Qui noi dunque ritroviamo il tema iniziatico della porta magica che si apre e si richiude fulmineamente, tema da noi già incontrato in Australia, nell'America del Nord e in Asia. Ricordiamo anche che il penetrare all'interno di un mostro ofidico equivale ad una iniziazione.

Presso i Batachi di Palawan, altro ramo pigmeo della Malacca, lo sciamano (balian) raggiunge la trance ballando. Questo è già segno che qui la tecnica ha subito influenze indo-malesi. Tali influenze sono ancor più visibili nelle credenze funerarie. L'anima del morto resterebbe per quattro giorni vicino ai suoi; poi attraverserebbe una pianura in mezzo alla quale si erge un albero. Essa vi monta sopra e raggiunge il punto ove la Terra tocca il Cielo. Là si trova uno Spirito-Gigante che decide, in base alle azioni da lei compiute in vita, se l'anima può procedere o se deve esser gettata nel fuoco. Il paese dei morti ha sette piani - il che è quanto dire che è il Cielo. Lo spirito li percorre, l'uno dopo l'altro. Raggiunto l'ultimo, si trasforma in lucciola. Il numero 7 e la punizione col fuoco, come si disse (pp. 306 sgg.), sono idee di origine indiana.

Le due altre popolazioni aborigene premalesi della Malacca, i Sakai e i Jakun, pongono all'etnologo più di un problema. Dal punto di vista della storia delle religioni è certo che lo sciamanismo ha presso di esse una parte assai più importante che non fra i Pigmei Semang, benché la tecnica sia essenzialmente la stessa. Si ritrova la capanna circolare fatta di fogliame, dove il bala (Sakai) o il poyang (Jakun: variante del termine malese pawang) entra coi suoi assistenti; si ritrova anche l'uso, da parte loro, di canti e di invocazioni agli spiriti ausiliari. La maggior importanza concessa a questi ultimi, che vèr.tgono ereditati e che si ottengono in seguito ad un sogno, denota influenze malesi: talvolta gli spiriti ausiliari vengono invocati appunto in malese. Dentro la capanna si trovano due piccole piramidi a gradinata (Evans), segno di una scalata simbolica al cielo. Lo sciamano usa, per la seduta, uno speciale copricapo ornato da numerosi nastri, altro indizio di una influenza malese.

I cadaveri degli sciamani sakai vengono lasciati nelle case in cui son morti, senza sepoltura. I puteu dei Kenta Semang vengon seppelliti in modo che la testa sporga dalla tomba; si crede che l'anima loro si diriga verso Oriente, invece che verso Occidente, come le anime degli altri mortali (Evans). Questi particolari ci dicono che si tratta di una classe di esseri privilegiati che come tale ha un post-mortem diverso da quello del resto della tribù. I poyang dei Jakun, dopo la loro morte, vengono deposti su delle piattaforme, perché «le loro anime salgono in Cielo, mentre quelle dei comuni mortali, il corpo dei quali vien seppellito, scendono nelle regioni infere».

 

 

 

 

 

 

Sciamanismo nelle isole Andamene e Nicobare

back to index

 

Secondo le informazioni raccolte da Radcliffe-Brown, nelle Andamane del Nord il medicine-man (oko-juma, letto «il sognatore» o «colui che parla dei sogni») consegue il suo potere per contatto con gli spiriti. Con gli spiriti ci s'incontra direttamente, nella jungla o nei sogni. Il modo più abituale di entrare in rapporto con gli spiriti è però la morte: quando qualcuno muore e poi torna in vita, è ormai divenuto oko-juma. Così Radcliffe-Brown ha visto un uomo gravemente ammalato che restò senza coscienza per dodici ore e fu considerato morto. Un altro si vuole che fosse morto e risuscitato tre volte. In questa tradizione si può facilmente riconoscere lo schema della morte iniziatica seguita dalla resurrezione del candidato. Ma si ignorano i particolari relativi alla teoria e alla tecnica dell'iniziazione: gli ultimi oko-juma erano morti quando, verso il principio di questo secolo, si pensò di studiarli oggettivamente.

Gli oko-juma «debbono il loro prestigio all'efficacia delle loro cure e alla loro magia meteorologica ( essi avrebbero il potere di prevenire le tempeste). Ma il trattamento propriamente detto consiste nel raccomandare rimedi già noti e usati da tutti. Talvolta essi procedono all'espulsione dei demoni che provocano la malattia o promettono di compiere direttamente la guarigione in sogno. Gli spiriti rivelano loro le virtù magiche di vari oggetti (sostanze minerali e piante). Però essi ignorano l'uso dei cristalli di quarzo.

I medicine-men delle Isole Nicobare conoscono sia la guarigione per «estrazione» dell'oggetto magico che ha provocato la malattia (un frammento di carbone, o una pietruzza, o una lucertola, ecc.), sia la ricerca dell'anima rapita da spiriti malvagi. Nell'isola Car dell'arcipelago delle Nicobare troviamo una interessantissima cerimonia di iniziazione dei futuri medicine-men In genere, chi dimostra un temperamento malaticcio è fra i predestinati a divenire sciamano; gli spiriti dei parenti o degli amici morti di recente danno a conoscere la loro scelta lasciando di notte nell'abitazione certi segni (foglie, polli con le zampe legate, ecc.). Se il malato rifiuta di divenire sciamano muore. Accertata questa elezione, ha luogo una cerimonia pubblica che segna l'inizio del noviziato: mentre i parenti e gli amici si radunano dinanzi alla casa, dentro gli sciamani stendono il novizio per terra e lo coprono di foglie e di rami, mettendogli sulla testa piume di ali di gallina (questo seppellimento vegetale lo si potrebbe interpretare come una sepoltura simbolica e si potrebbe veder nelle piume il segno magico del potere mistico del volo). Quando il novizio si rialza i presenti gli danno collane e gioielli vari che egli dovrà portare al collo per tutto il periodo del noviziato; renderà questi oggetti ai proprietari quando finirà il suo tirocinio.

Poi si fabbrica un trono sul quale l'iniziando vien portato di villaggio in villaggio, e gli si rimettono una specie di scettro e una lancia per combattere contro i cattivi spiriti. Dopo qualche giorno vien condotto dai maestri sciamani nel cuore della jungla, in mezzo all'isola. Taluni amici accompagnano il gruppo fino ad una certa distanza, arrestandosi prima di penetrare nel «paese degli spiriti». Infatti, le anime dei morti potrebbero spaventarsi. L'insegnamento segreto riguarda essenzialmente l'apprendimento di certe danze e il modo di vedere gli spiriti. Dopo aver trascorso un certo tempo nella jungla (e, cioè, nel paese dei morti), il novizio e i maestri ritornano al villaggio. Per tutto il periodo del noviziato il discepolo continua a ballare ogni notte, per lo meno per un'ora, davanti alla casa. Quando la sua iniziazione ha termine, i maestri gli rimettono un bastone. Esiste di certo un'altra cerimonia nella quale egli vien consacrato sciamano: ma non si è riusciti ad avere nessuna informazione precisa al riguardo.

Questa interessantissima iniziazione sciamanica la si trova solo nell'isola Car; essa è conosciuta nel resto dell'Arcipelago delle Nicobare. In essa certi elementi sono sicuramente arcaici (il seppellimento sotto le foglie, il ritiro nel «paese degli spiriti»), ma una quantità di altri tradisce una influenza indiana (il trono dell'iniziando, la lancia, lo scettro, il bastone). Qui abbiamo un esempio tipico di ibridazione di una tradizione sciamanica in seguito a contatti culturali con un'alta civiltà che ha elaborato una tecnica magica estremamente complessa.

 

 

 

 

 

 

Lo sciamanismo malese

back to index

 

Ciò che vien chiamato lo sciamanismo malese ha per note distintive l'evocazione dello spirito della tigre e il conseguimento dello stato lupa. Questo è lo stato d'incoscienza in cui cade lo sciamano e durante il quale gli spiriti si impadroniscono di lui, lo «posseggono» e rispondono alle domande rivolte dai presenti. Che si tratti di una cura individuale oppure di una cerimonia di difesa collettiva contro le epidemie (come ne è il caso, ad esempio, per le danze belian di Kelantan), la seduta malese implica abitualmente l'evocazione della tigre. Ciò dipende dalla parte di Antenato mitico, epperò di maestro di inizi azione, devoluta alla Tigre in tutta quest'area.

I Benua, tribù protomalese, credono che il poyang si trasformi in tigre sette giorni dopo la sua morte. Se il figlio desidera ereditarne i poteri, deve vegliare da solo presso il cadavere, bruciando profumi. Lo sciamano defunto appare il settimo giorno nella forma di una tigre in atto di avventarsi contro l'aspirante. Senza dare alcun segno di timore questi deve continuare a bruciare degli aromi. Allora la tigre sparisce e appaiono invece due belle donne-spirito; al che, l'aspirante perde i sensi ed è durante tale trance che ha luogo l'iniziazione. Le donne si trasformeranno poi in suoi spiriti familiari. Se il figlio del poyang non compie questo rito, lo spirito del morto resterà per sempre nel corpo della tigre e la sua «energia» sciamanica andrà irrimediabilmente perduta per la collettività. Si riconoscerà, qui, lo scenario della iniziazione tipica: la solitudine nella boscaglia, la veglia vicino ad un cadavere, la prova dello spavento, l'apparizione terrifica del Maestro dell'iniziazione (= Antenato mitico), la protezione di una bella donna-spirito.

Le sedute propriamente dette si svolgono all'interno di una capanna circolare o di un cerchio magico, e la gran parte di esse ha per fine delle guarigioni, la scoperta di oggetti rubati o perduti, la conoscenza dell'avvenire. Durante la seduta lo sciamano sta, di solito, sotto una coperta. Il bruciamento di profumi, la danza, la musica e il rullo del tamburo sono elementi preparatori indispensabili in ogni seduta malese. L'arrivo dello spirito si manifesta col tremare della fiamma di una candela. Si crede che lo spirito anzitutto penetri nella candela, per cui lo sciamano tiene a lungo gli occhi fissi sulla fiamma, cercando di scoprire già per tal mezzo la causa della malattia. La cura consiste generalmente nella suzione della parte malata, ma il poyang, quando è in trance, può anche scacciare i demoni e rispondere ad ogni domanda che gli venga rivolta.

Quando si evoca la Tigre, s'intende chiamare e far incarnare l'Antenato mitico, il primo Grande Sciamano. Il pawang osservato da Skeat si trasformava effettivamente in tigre: correva a quattro zampe, ruggiva e leccava a lungo il corpo del paziente come la tigre fa coi suoi piccoli. Le danze magiche dei belian bomor di Kelantan, qualunque sia il fine della seduta, comportano necessariamente l'evocazione della Tigre. La danza produce lo stato lupa, 1'«oblio» o «trance» (dal sanscrito lopa, perdita, scomparsa), stato nel quale il soggetto perde la coscienza della propria personalità e diviene l'incarnazione di un qualche spirito. Seguono dei dialoghi interminabili fra il danzatore in trance e i presenti. Se la danza era stata organizzata a fini terapeutici il guaritore approfitta della trance per fare delle domande e per scoprire la causa della malattia e il modo di curarla.

Non sembra che queste danze magiche e queste guarigioni possano essere considerate come fenomeni sciamanici nel senso proprio del termine. L'evocazione della Tigre e la trance-possessione non sono di esclusiva pertinenza dei bomor e dei poyiang. Fra le popolazioni in parola molti altri individui possono vedere, evocare la Tigre, e trasformarsi in essa. Quanto allo stato lupa, in altre regioni della Malesia (per es. fra i Besissi) chiunque può raggiungerlo: durante l'evocazione degli spiriti chiunque può cadere in trance (cioè esser «posseduto») e rispondere alle domande che allora gli vengono rivolte. È questo, un fenomeno di medianità molto caratteristico anche fra i Batachi di Sumatra. Ma, secondo tutto ciò che abbiamo cercato di mostrare nel presente libro, la «possessione» non va senz'altro confusa con lo sciamanismo.

 

 

 

 

 

 

Sciamani e sacerdoti a Sumatra

back to index

 

La religione dei Batachi di Sumatra è fortemente influenzata da idee provenienti dall'India (vedi sopra) ed è dominata dal concetto di anima (tondi); la quale viene concepita come un ente che penetra nel corpo e lo abbandona attraverso la sommità del capo. La morte, in realtà, altro non esprimerebbe che il ratto dell'anima ad opera di uno spirito (begu); se il defunto è un giovane, è un begu-donna che l'ha preso per sposo, e viceversa. I morti e gli spiriti parlano per mezzo dei medium.

Sciamani (sibaso, «la parola») e sacerdoti (datu), benché diversi quanto a struttura e vocazione religiosa, fra i Batachi perseguono gli stessi fini: difendono l'anima (tondi) contro i demoni che vogliano rapirla, assicurano l'integrità della persona umana. Presso i Batachi del Nord è sempre una donna che fa da sibaso e lo sciamanismo è, in genere, ereditario. Non esiste l'istruzione impartita da un maestro: chi è stato «scelto» dagli spiriti riceve da essi direttamente l'iniziazione, diviene cioè capace di «vedere» e di profetizzare o di essere «posseduto» da uno spirito, cioè di fare tutt'uno con lui. La «possessione», spontanea o provocata, è fenomeno frequente presso i Batachi. Chiunque può divenire il ricettacolo di un begu, vale a dire dello spirito di un defunto; questi parla per bocca del medium e rivela segreti. La possessione spesso si manifesta in forme sciamaniche: il medium prende dei carboni ardenti e se li mette in bocca, danza e saltella fino al parossismo, ecc. A differenza dello sciamano, il medium bataco non può però controllare il suo begu, è alla mercé di questi o di ogni altro defunto che desidera "possederlo". Questa medianità spontanea, che caratterizza la sensibilità religiosa dei Batachi, può esser considerata come una imitazione scimmiesca di certe tecniche sciamaniche. Sullo sciamanismo indonesiano in genere. Le sedute dei sibaso han luogo di notte; lo sciamano batte il tamburo e balla intorno al fuoco per invocare gli spiriti. Ogni spirito ha una melodia sua particolare e perfino un suo speciale colore _ e il si baso indossa un costume di vari colori se desidera invocare molti spiriti. La presenza di questi si manifesta con parole in linguaggio segreto, nella «lingua degli spiriti», che il sibaso pronuncia e che vanno interpretate. Il dialogo ha per oggetto la causa della malattia e la cura: il begu finisce con l'assicurare che otterrà la guarigione purché il paziente offra certi sacrifici.

Il sacerdote bataco, datu, è sempre di sesso maschile e gode della posizione sociale più elevata subito dopo il capo-tribù, Ma anche lui è un guaritore ed anche lui invoca gli spiriti in una lingua segreta. Il datu protegge dalle malattie e dai sortilegi; la seduta terapeutica consiste nella ricerca dell'anima dell'ammalato. Inoltre egli può esorcizzare i begu penetrati nei malati; e per quanto venga considerato un «mago bianco», egli può anche avvelenare. A differenza dei sibaso, il datu è iniziato da un maestro: in particolare, gli vengono rivelati i segreti della magia, contenuti in «libri» fatti di scorza d'albero. Il maestro ha il nome indiano di guru, e grande importanza ha il suo bastone magico, incrostato di figure ancestrali e avente un foro nel quale sono introdotte le sostanze magiche. Con l'aiuto di tale bastone il guru protegge il villaggio e può anche provocare la pioggia. La sua fabbricazione è estremamente complicata; nell'occasione si sacrifica perfino un bambino, che viene ucciso con piombo fuso al fine di togliergli l'anima e di trasformarlo in uno spirito al servigio del mago (Loeb).

Tutto ciò tradisce influenze della magia indiana. V'è ragione di supporre che il datu corrisponda al prete-mago, mentre il sibaso rappresenterebbe soltanto l'estatico, «l'uomo dagli spiriti». Il datu ignora l'estasi mistica; agisce da mago e da «ritualista»: esorcizza i demoni. Anche lui va alla ricerca dell'anima del malato, ma questo viaggio mistico non ha carattere estatico; i suoi rapporti col mondo degli spiriti son rapporti di ostilità o di superiorità: rapporti da signore a servo. Il sibaso è invece l'estatico per eccellenza; egli vive in familiarità con gli spiriti, si lascia «possedere», diviene chiaroveggente e profeta. Egli è stato «eletto» - e all'elezione divina o semidivina non è possibile opporsi.

Il dukun dei Minangkabau di Sumatra è ad un tempo terapeuta e medium. Il suo ufficio - generalmente ereditario _ è accessibile ai due sessi. Si diviene dukun dopo aver avuta una inizi azione, cioè dopo aver appreso come ci si rende invisibili e come si possono vedere gli spiriti di notte. La seduta ha luogo sotto ad una coperta: dopo una quindicina di minuti il dukun comincia a tremare e questo è segno che la sua anima ha lasciato il corpo e sta recandosi al «villaggio degli spiriti». Sotto la coperta, si sentono delle voci. Egli chiede ai suoi spiriti di cercare l'anima fuggitiva del malato. La trance è simulata: il dukun non ha il coraggio di fare la seduta sotto gli occhi dei presenti come il suo collega bataco (Loeb). A Nias si ritrova il tipo del dukun, insieme ad altre categorie di sacerdoti e di terapeuti. Durante la cura egli indossa un costume speciale: si para i capelli e si getta una stoffa sulle spalle. Anche qui si ritiene generalmente che la malattia sia dovuta al ratto dell'anima ad opera degli dèi, dei demoni o degli spiriti, e la seduta consiste nella ricerca di essa: di solito, si finisce con lo scoprire che l'anima è stata rapita dalle «Serpi del Mare» (il Mare essendo un simbolo dell'aldilà). Per riprenderla, il medicine-man si rivolge ai tre dèi - Ninwa, Falahi e Upi - che egli evoca fischiando ininterrottamente finché entra in contatto con essi; allora cade in trance. Ma il dukun procede anche per suzione e, quando è riuscito a cogliere la causa del male mostra ai presenti delle pietruzze rosse e bianche.

Lo sciamano Mentawei pratica anche cure a base di massaggi, purificazioni; erbe, ecc. Ma la vera seduta segue lo schema indonesiano abituale: lo sciamano balla a lungo, fino a cadere per terra privo di sensi e la sua anima viene allora portata in Cielo in una barca tirata da aquile. È in Cielo che egli discorre con gli spiriti intorno alle cause della malattia (fuga dell'anima, avvelenamento per opera di altri stregoni) e che riceve i farmaci. Lo sciamano delle Mentawei non dà mai segno di «possessione» e non sa esorcizzare gli spiriti maligni del corpo del malato. Egli è piuttosto un farmacista che trova le sue sostanze in seguito a un viaggio celeste. La trance non è drammatica; non si assiste al dialogo con gli spiriti celesti. Non pare ch'egli abbia rapporti coi demoni, o «poteri» su di essi.

Una tecnica simile è impiegata dallo sciamano Kubu (Sumatra meridionale): egli danza fino a cadere in trance, e allora vede l'anima del malato prigioniera d'uno spirito o appollaiata su di un albero come un uccello (Loeb).

 

 

 

 

 

 

Sciamanismo nel Borneo e a Celebes

back to index

 

Fra i Dusun del Borneo settentrionale che, di razza protomalese, sono gli abitanti aborigeni dell'isola, le sacerdotesse hanno una parte capitale. La loro iniziazione dura tre mesi. Durante le cerimonie esse usano un linguaggio segreto e indossano un costume speciale. Le loro sedute consistono in danze e canti, mentre gli uomini si limitano ad accompagnarle con la musica. La loro tecnica specifica ha carattere divinatorio epperò rientra più nella piccola magia che non nello sciamanismo propriamente detto: la sacerdotessa tiene In equilibrio su di un dito una cannuccia di bambù e dice: se il tale è ladro, che il bambù si muova così, e simili.

Presso i Daiachi dell'interno vi sono maghi terapeuti di due specie: i daya beruri, generalmente uomini, che si occupano delle cure, e i barish, di solito reclutati fra le donne, specialisti del «trattamento» dei raccolti di paddy, Le malattie qui le si spiegano o con la presenza di uno spirito malvagio nel corpo, o con l'allontanamento dell'anima. Gli sciamani delle due categorie hanno il potere di vedere estaticamente l'anima umana o l'anima del raccolto, anche se se ne son fuggite molto lontano. Allora le inseguono, le catturano (sotto forma di un capello) e le reintegrano nel corpo (o nel raccolto). Se la malattia è provocata da uno spirito malvagio la seduta si riduce ad una cerimonia di espulsione.

Fra i Daiachi marittimi lo sciamano vien chiamato manang. Il suo rango sociale è notevole: viene subito dopo il capo. In genere, la professione di manang è ereditaria; ma si distinguono due classi: i manang che banno ricevuto, una rivelazione in forma di sogni e che per tal via hanno ottenuta la protezione di uno o pio spiriti, e quelli che sono divenuti tali di propria iniziativa e che quindi non dispongono di spiriti familiari. In ogni caso, la qualificazione da manang la si possiede solo dopo essere stati iniziati da maestri autorizzati (vedi più su). Fra i manang si trovano individui dei due sessi ed anche uomini asessuali (impotenti); vedremo fra breve il significato rituale di questi ultimi.

Il manang ba una scatola contenente una quantità di oggetti magici, i pio importanti dei quali sono i cristalli di quarzo, baia ilau (la «pietra di luce»), con l'aiuto dei quali lo sciamano scopre l'anima del malato. Anche qui, infatti, la malattia è una fuga dell'anima, ed il fine della seduta è la scoperta e la reintegrazione di essa nel corpo del paziente. La seduta ha luogo di notte. Il corpo del malato viene stropicciato con delle pietre, poi i presenti intonano canzoni monotone mentre il manang-capo balla fino allo spossamento: egli cerca ed invoca con tale mezzo l'anima del malato. Se la malattia è grave, l'anima sfugge ripetutamente dalle mani del manang. Quando lo sciamano-capo cade per terra, i presenti gettano su di lui una coperta ed aspettano di sapere il risultato del suo viaggio estatico. Infatti, una volta in estasi, il manang scende negli Inferni per cercar l'anima del malato. Finisce col catturarla e allora si alza di colpo, tenendo in mano l'anima del paziente, che reintegra nel corpo facendola passare per la testa. La seduta vien chiamata belian, e Perham è giunto a distinguerne di quattordici specie, a seconda delle varie difficoltà tecniche. La cura si conclude col sacrificio di un pollo.

Nella sua forma attuale il belian dei Daiachi marittimi sembra essere un fenomeno magico-religioso abbastanza complesso e composito. L'iniziazione del manang (la frizione con le pietre magiche, il rituale dell'ascensione, ecc.) e certi elementi della cura (l'importanza dei cristalli di quarzo, la frizione con pietre) rimandano ad una tecnica sciamanica assai antica. Ma la pseudo-trance (che si ha cura di occultare sotto la coperta) tradisce influenze recenti, di origine ìndo-malese. Un tempo tutti i manang, una volta iniziati, indossavano vesti femminili che conservavano per tutto il resto della vita. Oggi tale usanza è divenuta assai rara. Tuttavia una classe speciale di manang, i manang bali di certe tribù marittime (sconosciuti fra i Daiachi delle colline) portano vesti femminili e si dedicano agli stessi lavori delle donne. Talvolta prendono «marito», malgrado lo scherno di tutto il villaggio. Il travestimento, con tutti i mutamenti che esso implica, viene accettato in base ad un ordine sovrannaturale ricevuto per tre volte in sogno: disobbedire, significherebbe andar incontro alla morte. Un giovane diviene raramente manang bali. Questi sono, in genere, vecchi o uomini senza prole, attratti da una situazione materiale molto allettante. Circa i travestiti e il mutamento di sesso fra i Ciukci, cfr. Bogoras. Nell'Isola Rambree e sulle coste della Birmania certi stregoni adottano le vesti muliebri, divengono la «sposa» di un loro collega a cui conducono poi una donna a titolo di seconda sposa, insieme alla quale i due convivono (Webster). Qui appare chiaro che si tratta di un travestimento rituale accettato sia in seguito ad un ordine divino, sia per i prestigi magici della Donna.

Tutto ciò palesa tracce precise di una magia femminile e di una mitologia matriarcale, che in altre epoche debbono aver dominato nello sciamanismo dei Daiachi marittimi: quasi tutti gli spiriti vengono invocati dai manang col nome di Ini, «Gran Madre» (Ling Roth). Tuttavia il fatto che non si conoscano manang bali all'interno dell'isola prova che l'intero complesso (travestimento, impotenza sessuale, matriarcato) è venuto dall'esterno, sia pure in tempi lontani.

Presso i Daiachi Ngadju del Borneo meridionale fanno da intermediari fra gli uomini e gli dèi (specie i Sangiang) le balian e i basir, cioè sacerdotesse-sciamane e preti-sciamani asessuali (il termine basir significa: «incapace di procreare, impotente»). I secondi sono dei veri ermafroditi, che vestono da donna e che da donna si comportano. Sia le balian che i basir vengono «scelti» da Sangiang e senza un richiamo da parte sua non possono divenire suoi servi, nemmeno usando le tecniche abituali dell'estasi, la danza e il tamburo. I Daiachi Ngadju si tengono ben fermi a questo punto: l'estasi non è possibile ove non ci si senta chiamati dalla div:rnità. Quanto alla bisessualità e all'importanza che hanno i basir, essa deriva dal fatto che questi vengono considerati come gli intermediari fra due piani cosmologici - fra Terra e Cielo - in quanto essi riuniscono nella persona loro sia l'elemento femminile (Terra) che quello maschile (Cielo). Si tratta di un androginismo rituale, formula arcaica ben nota della bi-unità divina e della coincidentia oppositorum. Al pari dell'ermafroditismo dei basir, la prostituzione delle balian si basa sul valore sacro dello «star fra i due», sulla necessità di abolire le polarità.

Gli dèi (Sangiang) s'incarnano nelle balian e nei basir e parlano direttamente attraverso di loro. Ma questo fenomeno d'incorporazione non è una «possessione». Le anime degli antenati o dei defunti non prendono mai possesso delle balian o dei basir: questi sono soltanto strumenti di espressione delle divinità. I morti usano un'altra categoria di stregoni, i tukang tawur. L'estasi delle balian e dei basir è provocata da Sangiang, oppure ha relazione coi viaggi mistici che i suoi servi compiono nei Cieli per visitare «il villaggio degli dèi».

In tutto ciò va messo in rilievo più di un punto: la vocazione religiosa determinata unicamente dagli dèi d'in alto; il carattere sacro dell'habitus sessuale (impotenza, prostituzione); la parte modesta che ha la tecnica dell'estasi (danze, musica, ecc.); la trance provocata dall'incorporazione di Sangiang o dal viaggio mistico in Cielo; l'assenza di relazioni con le anime degli antenati epperò l'assenza di «possessione». Tutti questi punti mettono in risalto l'arcaicità di tale fenomeno religioso. Benché la cosmologia e la religione dei Daiachi Ngadju abbiano probabilmente risentito di influenze orientali, si è in diritto di supporre che le balian e i basi, rappresentino una forma antica e autoctona di sciamanismo,

Ai basi, dei Daiachi Ngadju fanno riscontro i bajasa (gli «ingannatori») dei Toradja. In genere, questi sono donne, e la loro particolare tecnica consiste in viaggi estatici in Cielo o negli Inferni, effettuati sia in ispirito, sia in concreto. Una cerimonia importante è quella detta mompa ilangka («sedersi nel posto venerando»), che dura tre notti consecutive; la bajasa conduce le anime delle donne e delle fanciulle in Cielo a che si purifichino, e la terza notte le riconduce in terra e le reintegra nei corpi. Del pari, - è di pertinenza delle bajasa il cercare le anime vagabonde di malati; col concorso di uno spirito wurake (appartenente alla classe degli spmti dell'atmosfera) la bajasa sale sull'arcobaleno fino a raggiungere la casa Pue di Songe e riporta indietro l'anima del paziente. Essa cero ca e riporta anche 1'«anima del riso» quando, avendo abbandonato il raccolto, deperisce e minaccia di andar perduto. Ma le capacità estatiche delle bajasa non si esauriscono nei viaggi celesti e orizzontali; nella grande festa funebre detta mompemate esse conducono anche le anime dei morti nell'aldilà.

Secondo Downs, la «litania descriveva come i morti fossero tratti dal loro torpore, come si abbigliassero e fossero condotti, attraverso gli Inferni, all'albero dinang che scalavano per raggiungere la terra, sulla quale sboccavano a Mori (ad est dei Toradja), essendo infine condotti al tempio o alla capanna cerimoniale. Là erano accolti dai loro parenti, e questi ultimi e gli altri partecipanti si occupavano di distrarli con canti e danze... Il giorno dopo gli sciamani conducevano gli angga (cioè, le anime) al luogo del loro riposo finale».

Già da questi pochi dati si vede che le bajasa di Celebes sono delle specialiste del grande dramma dell'anima: purificatrici, guaritrici o psicopompe, esse intervengono soltanto quando la condizione stessa dell'anima umana è in giuoco. È notevole il fatto che i rapporti più frequenti li abbiano col Cielo e con gli spiriti celesti. Il simbolismo del volo magico o dell'ascensione lungo l'arcobaleno, che domina nello sciamanismo australiano, è arcaica. Del resto, anche i Toradja conoscono il mito della liana che un tempo collegava la Terra col Cielo e si ricordano di un'èra paradisiaca nella quale gli uomini comunicavano facilmente con gli dèi.

 

 

 

 

 

 

La "barca dei morti" e la barca sciamanica

back to index

 

La «barca dei morti» ha una parte di rilievo nella Melanesia e nell'Indonesia, in relazione sia a pratiche propriamente sciamaniche, sia ai costumi e alle lamentazioni funebri. Naturalmente, tali tradizioni per un verso stanno in rapporto con l'usanza di metter i morti in barche o di gettarli in mare, per l'altro, con le mitologie funerarie locali. Il costume di esporre i morti nelle imbarcazioni potrebbe ben spiegarsi con dei vaghi ricordi di migrazioni ancestrali: la barca ricondurrebbe l'anima del morto nella patria d'origine, da dove vennero gli antenati. Ma questi eventuali ricordi - eccetto, forse, nel caso dei Polinesiani - hanno perduto il loro significato «storico»: la «patria originaria» diviene un paese mitico e l'Oceano che la separa dalle terre abitate dai mortali viene assimilato alle Acque della Morte. Negli orizzonti delle mentalità primordiali, ove la «storia» è continuamente trasformata in una categoria mitica, una trasposizione del genere è, del resto, frequente.

Credenze e pratiche funerarie analoghe (barca dei morti, ecc.) si ritrovano fra i Germani e i Giapponesi. Ma per gli uni come per gli altri, e come nella stessa area oceanica, oltre ad un aldilà marino o sottomarino (complesso «orizzontale») esiste un complesso verticale: il monte come regno dei morti e lo stesso Cielo (va ricordato che il monte è «carico» di un simbolismo uranico). In genere, solo dei privilegiati (i capi, i sacerdoti e gli sciamani, gli iniziati) procedono verso il Cielo: il resto dei mortali viaggia «orizzontalmente» o discende negli Inferni sotterranei. Aggiungiamo che il problema dell'aldilà e delle sue varie possibilità è assai complesso e non è tale da poter esser risolto con la sola idea delle «patrie originarie» o delle varie forme di sepoltura. In ultima istanza, qui si ha a che fare con mitologie e concezioni religiose che, pur non essendo sempre indipendenti da usanze e pratiche materiali, sono tuttavia autonome come strutture spirituali.

Oltre al costume di esporre i morti in imbarcazioni, nell'Indonesia e, in parte, anche nella Melanesia esistono tre importanti categorie di cerimonie magico-religiose che implicano l'uso (reale o simbolico) di una barca rituale: 1) la barca per espellere i demoni e le malattie; 2) quella che serve allo sciamano indonesiano per «viaggiare nell'aria» alla ricerca dell'anima del malato; 3) la «barca degli spiriti» che trasporta le anime dei morti nell'aldilà. Nei riti delle due prime categorie gli sciamani hanno una parte capitale, anche se non sono i soli officianti; quelli della terza categoria di cerimonie, pur consistendo in una discesa agli Inferni di tipo sciamanico, vanno oltre le sole funzioni da sciamano. Come presto vedremo, queste «barche dei trapassati» son più evocate che non adoperate, e la loro evocazione ha luogo durante le lamentazioni funebri, recitate da «prefiche» e non da sciamani.

Annualmente, o in occasione di epidemie, i demoni della malattia vengono banditi come segue: essi vengono catturati e chiusi in una scatola, o direttamente nella barca; poi si spinge la barca in mare; oppure si fabbricano diverse statuette di legno che rappresentano i malati, statuette che vengono fissate in una barca che si abbandona in mare. Questa pratica, assai diffusa in Malesia e in Indonesia, è spesso eseguita da sciamani e da stregoni. L'espulsione dei demoni della malattia durante le epidemie è probabilmente una imitazione del rituale, più arcaico e più universale, dell'espulsione dei «peccati» in occasione dell'Anno Nuovo, quando si procede alla restaurazione integrale della forza e della salute di una comunità.

Inoltre lo sciamano indonesiano usa una barca durante la sua cura magica. In tutta l'area indonesiana domina la nota l'idea che la malattia è dovuta ad una fuga dell'anima. Il più spesso si pensa che l'anima sia stata rapita da demoni o da spiriti e, per cercarla, lo sciamano usa appunto una barca. Cosi fa, ad esempio, il balian dei Dusun: se egli ritiene che l'anima del malato è stata catturata da uno spirito dell'aria, si fa una barca in miniatura che ad una delle estremità ha un uccello di legno. Su questa barca lo sciamano viaggia estaticamente nell'aria, guardando a destra e a sinistra finché ritrova l'anima del malato. Questa tecnica la si pratica sia fra i Dusun del Nord che fra quelli del Sud e dell'Est del Borneo. Lo sciamano maangan dispone inoltre di una barca lunga da uno a due metri che egli conserva nella sua abitazione e nella quale sale quando vuol raggiungere il dio Sahor e chiedergli aiuto.

L'idea di un viaggio aereo in barca non è che un'applicazione indonesiana della tecnica sciamanica dell'ascensione celeste. Per il fatto che la barca aveva una funzione essenziale nei viaggi estatici nell'aldilà (nel paese dei morti e nel paese degli spiriti) compiuti per accompagnare il trapassato agli Inferni, oppure per cercare l'anima dell'ammalato rapita da demoni o da spiriti - si è passati a utilizzare la barca anche quando si è trattato di trasportarsi nei Cieli in trance. La fusione o la coesistenza dei due simbolismi sciamanici - del viaggio orizzontale nell'aldilà e dell'ascensione verticale in Cielo - si palesa anche per via della presenza di un Albero cosmico nella stessa barca dello sciamano. Questo Albero è talvolta rappresentato in mezzo alla barca in forma di lancia o di scala che collega la Terra col Cielo. l'Albero cosmico indonesiano sarebbe di origine lunare ed è per questo che esso starebbe in primo piano nelle mitologie della parte occidentale dell'Indonesia (sia nel Borneo che in Sumatra meridionale e nella Malacca), mentre esso è assente nelle parti orientali, ove la mitologia lunare sarebbe stata soppiantata da miti solari. A questa costruzione astro-mitologica son state però mosse serie critiche. Bisogna anche rilevare che l'Albero cosmico implica un simbolismo assai più complesso e che solo alcuni dei suoi aspetti (per esempio, il rinnovamento periodico) sono suscettibili ad esser interpretati in funzione di una mitologia lunare. Noi qui ritroviamo il simbolismo del «Centro» che permette allo sciamano di penetrare nel Cielo.

In Indonesia lo sciamano conduce il trapassato nell'aldilà e, per questo viaggio estatico, spesso utilizza una barca. Vedremo presto che le prefìche daiache del Borneo assolvono alla stessa funzione recitando dei canti rituali nei quali si parla del viaggio del morto in una barca. Nella Melanesia v'è anche l'usanza di dormire vicino al cadavere: in sogno, si accompagna e si guida l'anima del trapassato nell'aldilà e, una volta svegliatisi, si raccontano le peripezie di tale viaggio. Questa pratica di accompagnamento rituale del morto da parte dello sciamano o della prefìca (Indonesia) può esser ravvicinata alle orazioni funebri che, in Polinesia, si recitano sulle tombe. Su piani diversi, tutti questi riti e questi costumi funerari perseguono uno stesso scopo: guidare il morto nell'aldilà. Ma soltanto lo sciamano è uno psicopompo in senso proprio, lui solo accompagna e guida il morto in concreto.

 

 

 

 

 

 

Viaggi d'oltretomba fra i Daiachi

back to index

 

Le cerimonie funebri dei Daiachi marittimi, pur non essendo compiute da sciamani, non son prive di relazione con lo sciamanismo. Una prefica _professionale la cui vocazione le è stata rivelata grazie all'apparizione di un dio in sogno, recita a lungo (in un racconto che dura talvolta dodici ore) le peripezie del viaggio del trapassato nell'aldilà. La cerimonia ha luogo subito dopo il decesso. La prefica si siede vicino al cadavere e recita con una voce monotona, senza alcun accompagnamento musicale. Lo scopo del racconto è evitare che l'anima del morto si smarrisca nel suo viaggio verso l'Inferno. Effettivamente la prefica fa la parte dello psicopompo anche senza accompagnare di persona il morto, il testo rituale rappresentando un itinerario abbastanza preciso. La prefica cerca anzitutto un messaggero per trasmettere in Inferno la notizia del prossimo arrivo di un nuovo venuto. Ella si rivolge invano agli uccelli, alle bestie selvatiche, ai pesci: questi non hanno il coraggio di varcare la frontiera che separa i vivi dai morti. Finalmente, lo Spirito del Vento accetta di portare il messaggio. Esso si avventura in una pianura sconfinata, sale su di un albero per cercare la via perché fa buio e da ogni lato vi sono sentieri che conducono agli Inferni; infatti vi sono 77 x 7 cammini che conducono al regno dei morti. Dall'alto dell'albero, lo Spirito del Vento scopre il sentiero migliore, lascia la sua forma umana e sotto forma di uragano si lancia verso l'Inferno. I morti, spaventati dalla tempesta improvvisa, gliene chiedono il motivo. Un tale è morto or ora - risponde lo Spirito del Vento - e bisogna andar subito a prenderne l'anima. Pieni di gioia, gli spiriti saltano in una barca remando con una tale forza da uccidere tutti i pesci che incontrano. La barca si ferma dinanzi alla dimora del morto, ed essi corrono a prenderne l'anima, che, impaurita, grida e si dibatte. Ma ancor prima di raggiungere la riva dell'Inferno, sembra calmarsi.

Con ciò la prefica conclude il suo canto. La sua funzione è esaurita: raccontando tutte le peripezie dei due viaggi estatici ella, in realtà, ha guidato il morto alla sua nuova dimora. La prefica descrive un analogo viaggio nell'aldilà in occasione della cerimonia detta pana, nel corso della quale trasmette agli Inferni i cibi offerti ai morti: solo dopo la cerimonia pana i trapassati acquistano coscienza della loro nuova condizione di morti. Infine la prefica invita le anime dei morti alla grande festa funeraria gawei antu che si celebra da uno a quattro anni dopo il decesso: numerosi Invitati si riuniscono e si ritiene che i morti siano presenti. Il canto della prefica descrive come essi lascino lieti l'inferno, s'imbarchino e si precipitino al banchetto.

Tutte queste cerimonie funerarie non hanno evidentemente un carattere sciamanico: specie nel pana e nel gawei antu non appaiono relazioni dirette di natura mistica fra il morto e la prefica che descrive i viaggi nell'aldilà. Nel complesso, qui abbiamo a che fare con una letteratura rituale che conserva gli schemi delle discese agli Inferni, siano, queste, sciamaniche o meno. Occorre però ricordarsi che lo sciamano - lo sciamano altaico come quello di altri popoli - conduce anche lui le anime dei morti agli Inferni, e che, come si è visto, in tutta l'area indonesiana la «barca dei trapassati», cui continuamente si allude nei racconti funerari da noi riassunti, è, eminentemente, un mezzo sciamanico per compiere il viaggio estatico. La stessa prefica, pur non avendo alcuna funzione magico-religiosa, non è una figura «profana». È stata scelta da un dio, ha avuto sogni rivelatori. In un modo o nell'altro, è una «veggente», una «ispirata» che vive in visione i viaggi infernali e che pertanto conosce l'altro mondo, la sua topografia, le sue vie. Morfologicamente, la prefica daiaca sta sullo stesso piano delle veggenti e delle poetesse del mondo arcaico indoeuropeo e una certa categoria di creazioni letterarie tradizionali deriva dalle «visioni» e dall'«ispirazione» di tali donne scelte dagli dèi, i sogni e i sogni lucidi delle quali sono altrettante rivelazioni mistiche.

 

 

 

 

 

 

Sciamanismo melanesiano

back to index

 

Qui non intendiamo riassumere le credenze e le mitologie melanesiane che formano la base ideologica delle pratiche dei medicine-men di quest'area. Diremo soltanto che, nel complesso, nella Melanesia si possono distinguere tre tipi di cultura, rispettivamente diffusi da ciascuno dei tre gruppi etnici che sembrano aver colonizzato (od anche soltanto attraversato) quella zona: i Papua aborigeni, i conquistatori dalla pelle bianca che hanno recato l'agricoltura, i megaliti insieme ad altre forme di civiltà successivamente passate nella Polinesia, e, infine, i Melanesiani dalla pelle nera, giunti per ultimi nelle isole. Gli immigrati dalla pelle bianca diffusero una mitologia assai ricca, avente per centro un eroe culturale (Qat, Ambat, ecc.) in relazione diretta col Cielo, sia che quest'eroe prenda in sposa una fata celeste alla quale, per precauzione, ruba e nasconde le ali, e segue poi fino in Cielo scalando un albero, una liana o una «catena di freccie», sia - invece - che sia egli stesso originario del Cielo. I miti di Qat corrispondono a quelli polinesiani di Tagarao e di Maui, figure i cui rapporti col Cielo e con gli esseri celesti sono noti. È possibile che il tema mitico del «viaggio celeste» sia stato applicato ai nuovi venuti dalla pelle bianca da parte dei Papua aborigeni, ma sarebbe vano spiegare 1'«origine» d'un tal mito (peraltro, universalmente diffuso) con l'evento storico dell'arrivo o della partenza degli immigrati. Ripetiamo che gli eventi storici, lungi dal «creare» i miti, finiscono per essere integrati nelle categorie mitiche.

Comunque, in Melanesia non esiste una tradizione e una iniziazione sciamanica come controparte delle tecniche di guarigione magica che vi sono conosciute e il cui carattere arcaico, sembra essere indubbio. Bisogna forse attribuire la scomparsa delle iniziazioni sciamaniche all'importante funzione che qui hanno le società segrete a base iniziatica? È possibile. Il problema è troppo complesso perché lo si possa affrontare qui.

Esiste incontestabilmente una somiglianza morfologica schiacciante tra tutte le forme d'iniziazione - iniziazioni d'età, iniziazioni alle società segrete, o iniziazioni scia maniche. Per dare un solo esempio, il candidato d'una società segreta di Malekula sale su una piattaforma per sacrificare un porco (Deacon); orbene, s'è visto che la scalata d'una piattaforma o d'un albero è un rito specifico delle iniziazioni sciamaniche. In ogni caso nella Melanesia la funzione essenziale dei medicine-men è limitata alle guarigioni e alla divinazione. Altri prestigi specificamente sciamanici (il volo magico, ad esempio) sono quasi esclusivamente di pertinenza dei maghi neri (del resto, forse in nessun altro paese come nell'Oceania, e specialmente nella Melanesia, ciò che, in genere, vien chiamato sciamanismo si sbriciola in una tale moltitudine di gruppi magico-religiosi, che riesce difficile distinguere chi è sacerdote, chi è medicine-man, chi è indovino, chi è «posseduto», e via dicendo). Infine - e ciò ci sembra essere importante - numerosi motivi che in un modo o nell'altro, fan parte dell'ideologia sciamanica sopravvivono soltanto nei miti o nelle credenze funerarie. Abbiamo poc'anzi fatto allusione al motivo dell'eroe civilizzatore che comunica col Cielo grazie ad una «catena di freccie», a una liana, o simili; avremo occasione di tornar su ciò. Rileviamo anche la credenza secondo la quale il defunto, arrivando nel paese dei morti, subirebbe una particolare operazione da parte del Guardiano di tal paese: gli vengono forate le orecchie. Ora, si è visto che questa operazione è specifica delle iniziazioni sciamaniche.

A Dobu, che è un'isola della Nuova Guinea orientale, si ritiene che lo stregone sia «ardente» e la magia viene associata al calore e al fuoco, idea, questa, che appartiene allo sciamanismo arcaico e che è sussistita in ideologie e in tecniche più evolute (vedi più oltre). È per tal motivo che il mago deve mantenere il suo corpo «secco» e «ardente»; egli cerca di giungere a tanto bevendo acqua salata e mangiando cibi fortemente pimentati. Gli stregoni e le streghe di Dobu volano nello spazio e, di notte, si può osservare che esse lasciano dietro di sé traccie di fuoco. L'origine mitica qui attribuita al fuoco - esso si sprigionerebbe dalla vagina di una vecchia - sembra attestare 1'anteriorità della magia femminile rispetto alla stregoneria maschile. Ma son soprattutto le donne a volare perché, a Dobu, le tecniche magiche son ripartite come segue tra i due sessi: le donne sono le vere maghe operano direttamente con la loro anima mentre il corpo è immerso nel sonno, e s'abbarbicano all'anima della vittima, che possono estrarre dal corpo e poi distruggere; gli stregoni operano unicamente per mezzo di incantesimi magici (Fortune, ibid., p. 150). La differenza di struttura tra i maghi ritualisti e gli estatici assume qui l'aspetto d'una divisione fondata sul sesso.

Come in altre regioni della Melanesia, a Dobu, si ritiene che la malattia sia opera di magia o sia provocata dagli spiriti dei morti. Nell'uno come' nell'altro caso, l'anima del malato è stata attaccata, anche se non sia stata rapita al corpo ma semplicemente deteriorata. In entrambe le eventualità si ricorre al medicine-man, che individua la causa del male fissando a lungo cristalli di quarzo o dell'acqua. Si deduce che l'anima è stata rapita grazie a certe manifestazioni patologiche del malato, che delira o parla di battelli in mare, ecc.: è il segno che la sua anima ha lasciato il corpo. Nel cristallo, il guaritore scorge l'essere che ha causato la malattia, sia esso un vivente o un morto. Nell'un caso si compra l'autore della fattura per disarmare la sua inimicizia, nell'altro si fanno offerte al morto se si capisce che è lui la causa della sofferenza.

A Dobu la divinazione è praticata da tutti, però senza magia (Fortune); del pari, ognuno possiede cristalli vulcanici che si crede possano volarsene se non vi si bada e che servono agli stregoni per «vedere» gli spiriti. Non esiste più, in tale zona, alcun insegnamento esoterico concernente i cristalli, il che dimostra la decadenza dello sciamanismo maschile a Dobu, specie se si pensa che, invece, esiste un insegnamento da maestro a discepolo per quel che concerne la scienza degli incantamenti malefici.

In tutta la Melanesia l'inizio della cura di un male consiste in sacrifici e in preghiere rivolte allo spirito del morto, a che questi si «riprenda la malattia». Ma se tali passi fatti dai membri stessi della famiglia non hanno successo, si ricorre ad un mane kisu, ad un «dottore». Con mezzi magici questi scopre il morto che ha provocato la malattia e lo prega di ritirare la causa del male. Se fallisce, si ricorre ad un altro dottore. Oltre all'azione propriamente magica, il mane kisu friziona il corpo del malato facendogli massaggi d'ogni genere. A Ysabel e a Florida il «dottore» sospende un oggetto pesante ad un filo e si mette a pronunciare i nomi di persone recentemente decedute; quando gli accade di nominare quella che è l'autrice della malattia, l'oggetto comincia a muoversi. Il mane kisu chiede allora al trapassato quale sacrificio desideri: un pesce, un maiale, un uomo, e ottiene la risposta nello stesso modo. A Santa Cruz si ritiene che gli spiriti provochino la malattia lanciando freccie magiche che il guaritore estrae aiutandosi con dei massaggi (Codrington). Nelle isole Bank il male viene espulso per suzione o con massaggi: poi lo sciamano mostra al paziente una scheggia di osso o di legno o una foglia e gli dà da bere acqua nella quale ha messo pietre magiche. Il mane kisu applica lo stesso metodo divinatorio anche in altre occasioni; per esempio, prima della partenza dei pescatori, si chiede a un tindalo (spirito) se la pesca sarà fortunata, e il battello dà la risposta agitandosi (Codrington). A Motlav e in altre isole dell'arcipelago di Bank, per scoprire l'autore di un furto si impiega un bastone di bambù nel quale si annida uno spirito: il bastone si dirige da solo verso il ladro.

A parte la categoria degli indovini e dei guaritori, ogni essere umano può esser posseduto da uno spirito o da un morto; allora si mette a parlare con una strana voce e profetizza. Quasi sempre la «possessione» è involontaria: un tale si trova a trattare di questo o quell'affare coi vicini; ed ecco che comincia a starnutire e a tremare. «I suoi occhi gettano sguardi feroci, le sue membra si torcono, tutto il suo corpo è preso da convulsioni, la schiuma gli viene sulle labbra. Allora gli si sente uscire dalla gola una voce che non è la sua e che approva o disapprova l'impresa progettata. L'individuo non ha usato alcun mezzo per evocare lo spirito; questi si crede che sia venuto di propria volontà, col suo mana lo domina e quando se ne va via lo lascia completamente spossato». Nell'isola Lepers si crede che lo spirito Tagaro trasmetta il suo potere spirituale a dati uomini affinché questi possano scoprire e rivelare cose nascoste. I Melanesiani non confondono la follia - anch'essa concepita come «possessione» da parte di un tindalo - con la «possessìone» propriamente detta, la quale persegue t'no scopo, mira alla rivelazione di qualcosa di preciso. Durante la possessione il soggetto mangia una quantità considerevole di cibi e dà prova di virtti magiche: inghiotte carboni ardenti, solleva carichi enormi e profetizza.

In altre regioni della Melanesia, per esempio in Nuova Guinea, si utilizza volontariamente e in tutte le circostanze, la possessione da parte di un genitore morto. Quando qualcuno è malato o si vuole scoprire qualcosa d'ignoto, un membro della famiglia prende l'imagine del defunto al quale si vuol chiedere consiglio sulle ginocchia o sulle spalle, e si lascia «possedere» dall' anima di lui. Ma simili fenomeni di medianità spontanea, assai frequenti in Indonesia e in Polinesia, han solo rapporti superficiali con lo sciamanismo propriamente detto. Nondimeno, abbiamo voluto citarli per ricordare il clima spirituale in cui si sono organizzate le tecniche e le ideologie sciamaniche.

 

 

 

 

 

 

Sciamanismo polinesiano

back to index

 

In Polinesia le cose appaiono ancor più complicate per il fatto che esistono varie categorie di specialisti del sacro, aventi tutti rapporti più o meno diretti con gli dèi e con gli spinti. Nel complesso, si possono distinguere tre grandi gruppi di funzionari religiosi: i capi divini (ariki), i profeti (taula) e i sacerdoti (tohunga) - ai quali sono da aggiungersi i guaritori, gli stregoni, i necromanti e i «posseduti» spontanei che, in ultima analisi, usano tutti pressappoco la stessa tecnica: il mettersi in rapporto con gli dèi o gli spiriti per farsi ispirare o «possedere» da essi. È probabile che almeno alcune delle ideologie e delle tecniche religiose polinesiane siano state influenzate da idee asiatiche, ma il problema delle relazioni culturali fra la Polinesia e l'Asia meridionale è lungi dall'essere stato risolto, e qui si può tralasciarlo.

Anzitutto dobbiamo rilevare che l'essenziale dell'ideologia e della tecnica sciamanica, cioè la comunicazione fra le tre zone cosmiche lungo un asse trovantesi nel «Centro» e, con essa, la facoltà di ascensione o di volo magico, è ampiamente attestata dalla mitologia polinesiana e sopravvive nelle credenze popolari relative agli stregoni. Limitiamoci a qualche riferimento, dato che sul tema mitico dell'ascensione avremo ancora da tornare. L'eroe Maui, il cui mito ricorre in tutta l'area polinesiana e anzi va perfino di là da essa, è noto per le sue ascensioni al Cielo e le sue discese agli Inferni. Egli vola sotto forma di colomba e quando vuol scendere negli Inferni toglie il pilastro centrale della sua abitazione e dall'apertura sente venire il vento delle regioni infere. Numerosi altri miti e leggende parlano dell'ascensione in Cielo per mezzo di liane, di alberi e anche di cervi volanti, e il carattere rituale di questo giuoco sta già a testimoniare, in tutta la Polinesia, della fede nella possibilità di una ascensione celeste e del desiderio di essa. Infine, come dovunque, in Polinesia si ritiene che gli stregoni e i profeti possono volare in aria e percorrere in un batter d'occhio distanze immense.

Bisogna ricordare anche una categoria di miti che, pur non appartenendo all'ideologia sciamanica propriamente detta, comprende tuttavia un tema sciamanico essenziale: quello della discesa di un eroe agli Inferni per ricondurre in terra l'anima della donna amata. Cosi l'eroe maori Hutu scende agli Inferni alla ricerca della principessa Pare uccisasi per causa sua. Hutu incontra la Grande-Signora-della-Notte che regna sul Paese delle Ombre e ne ottiene l'aiuto; essa lo istruisce sul cammino da seguire e gli dà una cesta di viveri onde non abbia a mangiare i cibi dell'Inferno. Hutu ritrova Pare fra le ombre e riesce a riportarla con lui sulla terra. L'eroe reintegra poi l'anima nel corpo di Pare e la principessa risuscita. Nelle isole Marchesi si racconta la storia dell'amata dell'eroe Kena che si era anch'essa uccisa perché il suo amante l'aveva sgridata: Kena discende agli Inferni, cattura l'anima della donna, la chiude in un cesto e ritorna in terra. Nella versione di Mangaiana, Kura si uccide accidentalmente ed è riportata dal paese dei morti dal suo sposo. Alle Hawaii si parla di Hiku e di Kawelu, la cui storia rassomiglia a quella neo-zelandese di Hutu e Pare. Abbandonata dal suo amante, Kawelu muore di dolore. Hiku scende negli Inferni lungo un ceppo di vigna, s'impadronisce dell'anima di Kawelu, la chiude in una noce di cocco e ritorna in terra. La reintegrazione dell'anima nel corpo disanimato avviene nel modo seguente: Hiku fa entrare a forza l'anima nel pollice del piede sinistro, poi con dei massaggi sulla pianta del piede e sulla caviglia finisce per farla salire fino al cuore. Prima di discendere negli Inferni, Hiku aveva avuto la precauzione di ungersi il corpo con dell'olio rancido, onde mandare un odor di cadavere; cosa che Kena non aveva fatta, per cui era stato subito scoperto dalla Signora degli Inferni (Handy).

Come si vede, questi miti polinesiani di discesa agli Inferni son più vicini al mito orfeico che non allo sciamanismo propriamente detto, e si ricorderà che abbiamo già avuto occasione di incontrare lo stesso motivo nel folklore nord-americano. Devesi però notare che la reintegrazione dell'anima di Kawelu si compie seguendo il procedimento sciamanico. E la stessa cattura dell'anima discesa negli Inferni ricorda il modo usato dagli sciamani per cercare di afferrare le anime dei malati, sia che esse siano già entrate nel Paese dei Morti, sia che esse si siano semplicemente smarrite in regioni lontane. Quanto all'«odore da vivo», esso è un temo folkloristico assai diffuso, connesso talvolta ai miti del tipo orfeico, talaltra alle discese sciamaniche.

La maggior parte dei fenomeni sciamanici polinesiani ha però un carattere speciale: essi si riducono quasi sempre ad un esser posseduti da dèi o da spiriti, cosa che in genere si realizza per un'iniziativa del sacerdote o del profeta, ma che può anche prodursi spontaneamente. La possessione e l'ispirazione ad opera degli dèi è una specialità dei taula, dei profeti, ma essa viene anche praticata dai sacerdoti, e a Samoa e a Tahiti, ad esempio, è alla portata di ogni capo di famiglia: il dio patrono della famiglia parla abitualmente per bocca del capo vivente di essa (Handy). Un taula atua pretende di comunicare coi suoi fratelli defunti. Si dichiara capace di vederli chiaramente e, quando ha luogo l'apparizione, perde conoscenza (Loeb). Nel suo caso, son gli spiriti dei suoi fratelli a rivelargli le cause e i rimedi della malattia, o ad indicargli se il paziente è condannato. Ma si è serbato il ricordo d'un'epoca in cui lo sciamano era «posseduto dagli dei» soltanto, e non, come oggi, «posseduto dagli spiriti». Benché essi rappresentino soprattutto la tradizione ritualista della loro religione, i sacerdoti (tohunga) non rifuggono affatto da esperienze estatiche; essi sono perfino tenuti ad imparare le arti magiche e la stregoneria. Fornander parla di dieci «collegi sacerdotali» nelle Hawaii: tre sono specializzati nella stregoneria, due nella necromanzia, tre nella divinazione, uno nella medicina e nella chirurgia, uno nella costruzione di templi (Handy, p. 150). Quel che Fornander chiamava «collegi» erano piuttosto diverse classi d'esperti, ma quest'informazione mostra che i sacerdoti ricevevano pure un'istruzione magica e medica che, in altre regioni, era appannaggio degli sciamani.

Del resto, le guarigioni magiche sono praticate sia dai taula che dai tohunga. Quando viene chiamato per un caso di malattia, il sacerdote maori cerca anzitutto di scoprire per che via lo spirito maligno è venuto dal mondo infero, e a tale scopo tuffa la testa nell'acqua. Tale via è generalmente costituita dallo stelo di una pianta e allora il tohunga la prende e la posa sulla testa dell'ammalato; poi recita degli incantamenti affinché lo spirito abbandoni la vittima e se ne torni nelle regioni infere (Handy). Anche a Mangareva sono i sacerdoti a occuparsi delle guarigioni. Poiché la malattia è normalmente provocata dalla possessione da parte d'un dio della famiglia Viriga, i parenti del malato consultano immediatamente un sacerdote; costui confeziona un piccolo canotto di legno e lo porta a casa del paziente, pregando il dio-spirito di lasciare il corpo e d'imbarcarsi. Bisogna tuttavia rilevare che il nome dei sacerdoti a Mangareva è taura, vocabolo che corrisponde al taula di Samoa e Tonga, al kaula delle Hawaii e al taua delle isole Marchesi, termini che, come si è visto, designano i «profeti» (Handy). Ma a Mangareva la dicotomia religiosa non è espressa dalla coppia tohunga (sacerdote) - taula (profeta) bensl da quella taura (sacerdote) - akarata (indovino) - (Laval). Gli uni come gli altri sono posseduti dagli dèì, ma gli akarata ricevono il loro titolo in base ad una ispirazione improvvisa seguita da una breve cerimonia di consacrazione (Hiroa), mentre i taura passano un lungo periodo di iniziazione in una marae. Laval ed altre autorità affermano che per gli akarata non esiste una iniziazione; tuttavia Hiroa ha provato che il cerimoniale d'installazione (che dura cinque giorni e durante il quale il sacerdote invita gli dèi a prender residenza nel corpo del neofita) ha la struttura di una iniziazione. La principale differenza fra i «sacerdotì» e gli «indovini» consiste nel fatto che nei secondi la vocazione estatica è estremamente accentuata.

Come si è detto, la «possessione» da parte degli dèi o degli spiriti è una peculiarità della religione estatica polinesiana. Quando sono in stato di «possessione», i profeti, i sacerdoti o i semplici medium vengono considerati come incarnazioni divine e trattati in modo corrispondente. Gli inspirati sono, in un certo modo, dei «vasi» nei quali entrano gli dèi e gli spiriti. Il termine maori waka fa chiaramente capire che l'inspirato porta il dio che è in lui come una barca porta il suo proprietario (Handy). La fenomenologia dell'incorporazione del dio o dello spirito rassomiglia, qui, a quella che si osserva dappertutto: dopo una fase preliminare di calma concentrazione sopravviene uno stato frenetico durante il quale il medium parla con una voce di testa, sincopata da spasimi; le sue parole sono oracolari e comunicano ciò che si deve fare: giacché si ricorre alle consultazioni medianiche non solo per conoscere che sacrifici desideri una data divinità ma anche prima di iniziare una guerra o di partire per un lungo viaggio, ecc. Per ugual via si scopre la causa di una malattia e il modo di curarla, o l'autore di un furto.

È inutile riportare qui le descrizioni che del fenomeno dell'inspirazione e della «possessione» in Polinesia han fatto i primi esploratori ed etnologi: se ne potranno trovare di classiche in Mariner, in Ellis, in Stewart, ecc. Diremo soltanto che le sedute medianiche aventi uno scopo privato han luogo di notte e sono meno frenetiche delle grandi sedute pubbliche fatte in pieno giorno per conoscere la volontà degli dèi. La differenza fra un «posseduto» spontaneo e temporaneo e un profeta consiste nel fatto che il secondo è sempre «inspirato» da uno stesso dio o da uno stesso spirito, e può incarnarlo a volontà. Infatti si procede alla consacrazione di un nuovo profeta in base ad una sua autentificazione ufficiale da parte dello spirito-dio che lo domina: in seguito lo si interpella ed egli è tenuto a pronunciare degli oracoli. Egli non viene riconosciuto taula o akarata finché l'autenticità delle due esperienze estatiche non è dimostrata. Se egli rappresenta (o meglio: incorpora) un grande dio, la sua casa e la sua stessa persona divengono tapu ed egli gode di una considerevole posizione sociale che, come prestigio, eguaglia o addirittura supera quella del capo politico. Talvolta l'incarnazione di un grande dio è testimoniata dall'acquisto di poteri magici sovrannaturali; il profeta delle isole Marchesi, ad esempio, può restar digiuno un mese, può dormire sotto l'acqua, vede cose che avvengono a grande distanza e via dicendo (Linton).

A queste grandi classi di personaggi magico-religiosi vanno aggiunti gli stregoni o necromanti (tahu, kahu), la cui specialità è il possedere uno spirito ausiliario («familiare») che essi si procurano estraendolo dal corpo di un amico o di un parente defunto. Come i profeti e i sacerdoti essi sono dei guaritori; però vengono anche consultati per scoprire dei furti (per es. nelle Isole della Società) e spesso essi si prestano ad azioni di magia nera. Alle Hawaii, il kahu può distruggere l'anima della vittima schiacciandola tra le dita; a Pukapuka, il tangata wotu ha il potere di vedere le anime che vagabondano durante il sonno, e le uccide perché queste anime potrebbero forse prepararsi a causare la malattia. La differenza essenziale fra gli stregoni e gli inspirati sta nel fatto che i primi non sono «posseduti» dagli dèi o dagli spiriti ma hanno invece a loro disposizione una entità che compie per loro il lavoro magico propriamente detto. Alle isole Marchesi, per esempio, si fa netta distinzione tra: 1) i sacerdoti ritualisti, 2) i sacerdoti inspirati, 3) i posseduti dagli spiriti, e 4) gli stregoni. I «posseduti» hanno anch'essi continue relazioni con certi spiriti, ma queste relazioni non giungono a conferir loro dei poteri magici. Questi sono esclusivo monopolio degli stregoni, che possono essere eletti dagli spiriti o acquistare i poteri con lo studio e con l'assassinio d'un parente la cui anima diverrà il loro servitore (Linton).

Infine bisogna ricordare che certi poteri sciamanici sono trasmessi per via ereditaria all'interno di date famiglie. L'esempio più cospicuo che si può citare è il potere di camminare su carboni ardenti o su pietre arroventate a bianco, potere riservato a certe famiglie delle Figi. Circa l'autenticità di tali fenomeni non v'è dubbio; numerosi osservatori hanno constatato «il miracolo» dopo aver preso ogni possibile garanzia di oggettività. Non solo: gli sciamani figiani possono rendere insensibile al fuoco ogni appartenente della loro tribé e perfino degli stranieri. Lo stesso fenomeno è stato constatato altrove, ad esempio nell'India meridionale. Se ci si ricorda che gli sciamani siberiani hanno fama di inghiottire carboni ardenti, che «calore» e «fuoco» sono attributi magici presenti negli strati più arcaici delle società primitive, che fenomeni analoghi li si riscontrano in sistemi superiori di magia e nelle tecniche contemplative asiatiche (nello Yoga, nel tantrisrno, ecc.) si può concludere che «il potere sul fuoco» di cui danno prova certe famiglie figiane appartiene di diritto allo sciamanismo autentico. Del resto, questo potere non è stato constatato nelle sole isole Figi. Anche se non nella stessa misura, l'insensibilità al fuoco ha potuto essere accertata in numerosi profeti o inspirati polinesiani.

Nel loro insieme, queste constatazioni ci fanno concludere che le tecniche sciamaniche propriamente dette in Polinesia appaiono in modo piuttosto sporadico «Fire walking ceremony» nelle Figi, volo magico di stregoni e di profeti, ecc.), mentre l'ideologia sciamanica è presente nella sola mitologia· (ascensione celeste, discesa agli Inferni, ecc.) e sopravvive, semi-obliata, in cerimonie che stanno trasformandosi in semplici giuochi (il giuoco dei cervi volanti). La concezione della malattia qui non è quella dello sciamanismo propriamente detto (la fuga dell'anima); i Polinesiani attribuiscono la malattia o all'introduzione di un oggetto nel corpo ad opera di un dio o spirito, o alla «possessione». E la cura consiste nell'estrazione dell'oggetto magico o nell'espulsione dello spirito. L'introduzione e, simmetricamente, l'estrazione dell'oggetto magico fan parte di un complesso che sembra essere arcaico. Ma in Polinesia la guarigione non è prerogativa del solo medicine-man come in Australia ed altrove; l'estrema frequenza della possessione da parte di dèi e spiriti ha reso possibile un pullulare di guaritori. Come si è visto. i sacerdoti, gli inspirati, i medicine-men, gli stregoni - tutti costoro possono intraprendere la cura magica. Infatti la «possessione» quasi medianica nella sua facilità e nella sua frequenza ha finito con l'affermarsi per ogni dove di là dai quadri e dalle funzioni degli «specialisti del sacro»: e per via di questa medianità collettiva la stessa istituzione tradizionalista e ritualista del sacerdozio ha dovuto modificare il proprio comportamento. Soltanto gli stregoni hanno resistito alla «possessione» e può darsi che le vestigia dell'ideologia sciamanica arcaica si debbano cercare nelle tradizioni segrete di questi ultimi. Abbiamo lasciato da parte lo sciamanismo africano: la presentazione degli elementi sciamanici che si potrebbero identificare nelle diverse religioni e tecniche magico-religiose africane ci avrebbe condotto troppo lontano.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 11: Ideologie e tecniche sciamaniche tra gli indoeuropei

 

 

 

Considerazioni preliminari

back to index

 

Come tutti gli altri popoli, gli Indoeuropei hanno avuto loro maghi e i loro estatici. Come dappertutto, questi maghi e questi estatici assolvevano una funzione ben definita nell'insieme della vita magico-religiosa della comunità. Inoltre sia il mago che l'estatico disponevano talvolta di un modello mitico: cosi, ad esempio, in Varuna fu visto un «Grande Mago» e in Odino _ fra l'altro - un estatico di un tipo particolare: Wodan, id est furor - scriveva Adamo da Brema, e non è mancato chi in questa definizione lapidaria ha avvertito un certo pathos sciamanico.

Si può però parlare di uno sciamanismo indoeuropeo nello stesso senso in cui si parla di uno sciamanismo altaico o siberiano? La risposta a questa domanda dipende in parte dal significato che si dà al termine «sciamanismo». Se con questa parola s'intende un qualsiasi fenomeno estatico e una qualsiasi tecnica magica, è evidente che fra gli Indoeuropei si troveranno numerosi tratti «sciamanici», cosi come, ripetiamolo, li ritroviamo in qualsiasi altro gruppo etnico o culturale. Per esporre, anche in forma succinta, l'enorme inventario delle tecniche e delle ideologie magico-estatiche riscontrate in tutti i popoli indoeuropei occorrerebbe un volume a parte e più di una competenza specifica. Per fortuna un problema del genere, che per ogni senso va oltre l'argomento della presente opera, qui non abbiamo da affrontarlo. Qui si tratterà soltanto di vedere in che misura i vari popoli indoeuropei conservano traccie di una ideologia e di una tecnica sciamanica nell'accezione più ristretta del termine, traccie, cioè, nelle quali ricorra qualcuno dei noti temi essenziali: ascesa in Cielo, discesa agli Inferni per ricondurre l'anima del malato o accompagnare i morti, evocazione e incorporazione di «spiriti» onde intraprendere il viaggio estatico, «dominio del fuoco», e via dicendo.

Traccie del genere sussistono in quasi tutti i popoli indoeuropei e noi le passeremo in rassegna rapidamente; probabilmente il loro numero è più elevato, e non pretendiamo affatto d'aver esaurito la materia. Però, a tale riguardo, già in partenza è bene mettere in rilievo due punti. Anzitutto, secondo ciò che abbiamo già detto a proposito di altri popoli e di altre religioni, va tenuto per fermo che la presenza di uno o più elementi sciamanici in una religione indoeuropea non autorizza a considerare una tale religione come dominata dallo sciamanismo o come avente una struttura sciamanica. In secondo luogo, bisogna ricordarsi che, se si ha cura di distinguere lo sciamanismo da altre magie e tecniche estatiche «primitive», le sopravvivenze sciamaniche che si possono scoprire nell'uno o nell'altro aspetto di una religione «evoluta» non implicano per nulla un giudizio negativo nel riguardo di tali sopravvivenze o dell'insieme della religione nella quale esse sono entrate a far parte. È bene insistere su questo punto, perché la letteratura etnografica moderna è incline a trattare lo sciamano come un fenomeno alquanto aberrante, sia perché lo confonde con la «possessione», sia perché si compiace di metterne in risalto soprattutto gli aspetti degenerescenti. Come in quest'opera è mostrato a più riprese, in molti casi lo sciamanismo si presenta si in uno stato di disintegrazione, ma nulla autorizza a considerare questa sua fase tarda come quella che rappresenta il fenomeno sciamanico nel suo complesso.

Bisogna anche richiamare l'attenzione su di un'altra confusione possibile a cui si è esposti non appena, invece di prender come oggetto di studio una religione «primitiva», ci si occupa della religione di un popolo avente una storia assai più ricca in fatto di scambi culturali, di innovazioni, di creazioni: in casi del genere si corre il rischio di disconoscere ciò che la «storia» ha potuto fare di uno schema magico-religioso arcaico, la misura in cui il contenuto spirituale di questo è stato trasformato e transvalutato, quando di esso si continua a considerare il solo significato «primitivo». Basterà un esempio per rendersi conto dei pericoli di una tale confusione. Si sa che varie iniziazioni sciamaniche implicano dei «sogni» nei quali il futuro sciamano si vede torturato e fatto a pezzi da demoni e da anime di morti. Ora, cose analoghe le si ritrovano nell' agiografia cristiana, ad esempio nella leggenda delle tentazioni di Sant'Antonio: dei demoni torturano, uccidono, fanno a pezzi i santi, li trasportano in aria a grandi altezze, e via dicendo. In fondo, tali tentazioni equivalgono ad una «iniziazione», perché è grazie ad esse che i santi trascendono la condizione umana, cioè si staccano dalla massa dei profani. Ma basta un po' di perspicacia per sentire tutta la differenza di contenuto spirituale che separa i due «schemi iniziatici», per affini che essi possano pur sembrare tipologicamente. Per sfortuna, se è abbastanza facile distinguere i tormenti demoniaci di un santo cristiano da quelli di uno sciamano, la distinzione non è altrettanto evidente quando si tratta di santi non-cristiani. Ora, bisogna tener sempre conto del fatto che uno schema arcaico è capace di rinnovare perpetuamente il proprio contenuto spirituale. Noi abbiamo già incontrato un numero abbastanza rilevante di ascensioni celesti sciamaniche e avremo occasione di citarne altre ancora; si è anche visto che, nel riguardo, si tratta di una esperienza estatica la quale, in sé, non ha nulla di «aberrante»; che, anzi, questo schema magico-religioso antichissimo, attestato presso tutti i «primitivi», è affatto coerente, «nobile», «puro» e, tutto sommato, «bello». Per cui, dato il piano sul quale abbiamo dunque situato l'ascensione sciamanica in Cielo, non rappresenterà per nulla qualcosa di negativo il dire, ad esempio, che l'ascensione di Maometto tradisce un contenuto sciamanico. Malgrado ogni simiglianza tipologica, sarebbe però impossibile identificare l'ascensione estatica di Maometto all'ascensione di uno sciamano altaico o buriate. Il contenuto, la significazione e l'orientamento spirituale dell'esperienza estatica del Profeta presuppongono certi mutamenti di valori religiosi che la rendono irriducibile al tipo generale dell'ascensione.

È stato necessario premettere queste osservazioni essenziali in un capitolo ave tratteremo di popoli e di civiltà infinitamente più complesse di quelle fin qui considerate. Noi sappiamo ben poco di certo quanto alla preistoria e alla protostoria religiosa degli Indoeuropei, cioè quanto alle epoche in cui gli orizzonti spirituali di questo gruppo etnico erano probabilmente simili a quelli di molti dei popoli di cui abbiamo parlato. I documenti di cui disponiamo ci presentano religioni già elaborate, sistematizzate, talvolta perfino fossilizzate. Si tratta di discernere in questa massa enorme i miti, i riti o le tecniche dell'estasi che abbiano una struttura sciamanica. Come subito constateremo, miti, riti e tecniche dell'estasi di tal genere sono attestati, in forma più o meno «pura», presso tutti i popoli indoeuropei. Non crediamo però che si possa considerar lo sciamanismo come la dominante della vita magico-religiosa degli Indoeuropei. Ciò, peraltro, potrà sembrare perfino strano, dato che, morfologicamente e nelle grandi linee, la religione indoeuropea rassomiglia a quella dei Turco-Tartari: essa è caratterizzata dalla supremazia di un Dio uranico, dall'assenza o dalla minor importanza di divinità femminili, dal culto del fuoco, e via dicendo.

Si potrebbe spiegare sommariamente la differenza esistente fra le religioni dei due gruppi quanto al punto specifico della predominanza o, invece, della minore importanza dello sciamanismo, in essi, in base a due fatti ricchi di conseguenze. Il primo è la grande innovazione degli Indoeuropei, che le ricerche di Georges Dumézil han messo brillantemente in luce: la tripartizione divina, corrispondente sia ad una particolare organizzazione della comunità che ad una concezione sistematica della vita magico-religiosa, ogni tipo di divinità possedendo una funzione speciale e una corrispondente mitologia. Una tale riorganizzazione sistematica dell'insieme della vita magico-religiosa, che nelle sue grandi linee si realizzò già in un'epoca in cui i Proto-Indoeuropei non si erano ancora separati nei vari gruppi etnici, implicò certamente una integrazione dell'ideologia e delle esperienze sciamaniche: ma questa integrazione fu pagata col prezzo di una specializzazione e, in ultima analisi, con una limitazione dei poteri sciamanici, che ebbero sì un loro posto a lato di altri poteri e di altri prestigi magico-religiosi, cessando però di monopolizzare le tecniche dell'estasi e di dominare ideologicamente l'insieme della spiritualità tribale. È un po' in questo senso che imaginiamo sia avvenuta la «collocazione» delle tradizioni sciamaniche nel lavoro di organizzazione delle credenze magico-religiose, lavoro condotto a termine già nel periodo dell'unità indoeuropea. Volendo utilizzare gli schemi di Georges Dumézil, le tradizioni sciamaniche, nella loro grande maggioranza. si sarebbero raccolte intorno alla figura mitica del Sovrano terribile, il cui archetipo sembra esser stato Varuna, il Maestro della magia, il grande «Legatore». Con ciò, naturalmente, non si vuol dire che gli elementi sciamanici si siano unicamente cristallizzati intorno alla figura del Sovrano terribile, né che questi elementi sciamanici esauriscano tutte le ideologie e le tecniche magiche o estatiche presenti all'interno della religione indoeuropea. In essa sono invece esistite anche magie e tecniche dell'estasi di struttura non-sciamanica, come, ad esempio, la magia dei guerrieri o la magia e le tecniche dell'estasi aventi relazione con le Grandi Dee materne e con la mistica agricola, le quali non erano per nulla sciamaniche.

La seconda ragione che ci sembra abbia contribuito a differenziare gli Indoeuropei dai Turco-Tartari, sempre riguardo all'importanza accordata, nei due casi, allo sciamanismo, è l'influenza esercitata sui primi dalle civiltà orientali e mediterranee di tipo agrario ed urbano. In modo diretto o indiretto, questa influenza si è fatta valere nei popoli indoeuropei via via che essi avanzarono nella direzione del Vicino Oriente. Le trasformazioni subite dal retaggio religioso delle diverse immigrazioni greche riversatesi dai Balcani verso l'Egeo sono un indizio del fenomeno molto complesso di assimilazione e di rivalutazione dovuto ai contatti con una cultura di tipo agrario ed urbano.

 

 

 

 

 

 

Tecniche dell'estasi presso gli antichi Germani

back to index

 

Nella religione e nella mitologia degli antichi Germani certi dettagli possono essere ravvicinati a concezioni e tecniche dello sciamanismo nord-asiatico. La figura e il mito di Odino - il Sovrano terribile e il Grande Mago - presentano vari tratti singolarmente «sciamanici». Per appropriarsi della saggezza segreta delle rune, Odino resta appeso ad un albero per nove giorni e nove notti (Hàvamàl, vv. 138 sgg.), nel che alcuni germanisti hanno voluto vedere un rito di iniziazione - Hofler lo mette perfino in relazione con la scalata iniziatica degli alberi eseguita dagli sciamani siberiani. L'albero al quale Odino si è «impiccato» da sé non può essere altro che l'Albero cosmico, Yggdrasil, nome che, del resto, vuoI dire il «corsiero di Ygg (Odino)». Nella tradizione nordica la selvaggina vien chiamata il «cavallo dell'impiccato» (Hofler) e certi riti germanici d'iniziazione comprendevano una «impiccagione» simbolica del candidato, usanza, questa, che risulta abbondantemente attestata anche altrove (vedi bibliografia in Hofler). Odino attacca anche il suo cavallo all'albero Yggdrasil, e si sa quanto un tema mitico del genere sia diffuso nell'Asia centrale e settentrionale (vedi più su).

Il destriero di Odino, Sleipnir, ha otto gambe ed è lui che porta il suo padrone, ed anche altri dèi (per es. Hermodhr), all'Inferno. Ora, il cavallo ad otto gambe è il cavallo sciamanico per eccellenza: lo si ritrova fra i Siberiani ed anche altrove (per es. presso i Murias), sempre in relazione con l'esperienza estatica degli sciamani (vedi più oltre). È verosimile ciò che suppone Hofler, vale a dire che Sleipnir è l'archetipo mitico di un cavallo polipodo avente una parte importante nel culto segreto delle «società di uomini» (sui rapporti fabbro, «cavallo»-socìetà segreta, Hofler; stesso complesso religioso in Giappone). Questo è però un fenomeno magico-religioso che va oltre il dominio dello sciamanismo.

Parlando della facoltà di Odino di mutar di forma a volontà, Snorri scrive: «Il suo corpo giace come se dormisse o fosse morto, mentre egli diviene un uccello o una belva, un uccello o un drago e si porta in un attimo in paesi lontanissimi...». È legittimo ravvicinare questo viaggio estatico di Odino in forma animale alla trasformazione degli sciamani in animali: e proprio come questi lottano fra di loro sotto forma di tori o di aquile, cosi anche le tradizioni nordiche menzionano spesso combattimenti fra maghi che han preso la forma di trichechi o di altri animali, durante tale lotta i loro corpi restando disanimati proprio come quello di Odino durante l'estasi. In un altro punto è narrata la storia di due maghe che, mentre i loro corpi giacevano disanimati sulla «piattaforma dell'incantesimo» (seidhjallr), furono vedute sul mare, lontano, a cavallo di una balena; esse inseguivano la nave di un eroe che volevano far naufragare, ma l'eroe riusci a spezzar loro la spina dorsale, e nello stesso istante le due streghe ricaddero sulla piattaforma col dorso infranto. La Saga Sturlangs Starfsama (XII) narra di due maghi che lottarono fra loro in forma di cani e, poi, di aquile. Naturalmente, credenze del genere noi possiamo trovarle anche fuori dello sciamanismo propriamente detto, ma qui un ravvicinamento con le pratiche degli sciamani siberiani s'impone. Del resto, altre tradizioni scandinave parlano di spiriti ausiliari che prendono forme animali percepibili ai soli sciamani (Ellis), il che ricorda ancor più da presso idee sciamaniche. Ci si può perfino domandare se i due corvi di Odino, Huginn («Pensiero») e Muninn («Memoria»), non rappresentino, fortemente mitizzati, due «spiriti ausiliari» in forma di uccello che il Grande Mago invia, in maniera sciamanica, nelle varie parti del mondo. Fra gli attributi sciamanici di Odino, Closs fa anche rientrare i due lupi, il nome di «Padre» che gli si dava (galdrs fadir = padre della magia, Baldrs draumar, 3, 3), il «motivo dell'ebbrezza» e le Valchirie. Già da tempo Chadwick aveva visto nelle Valchirie delle creature mitiche più vicine ai «lupi mannari» che non delle fate celesti. Ma tutti questi motivi non sono necessariamente «sciamanici», Le Valchirie sono psìcopompe e talvolta hanno la stessa parte delle «spose celesti» o delle «donne-spiriti» degli sciamani siberiani; abbiamo però visto che questo complesso oltrepassa la sfera dello sciamanismo e rientra sia nella mitologia della Donna che in quella della Morte.

È anche da Odino che trae origine la necromanzia. Sul suo cavallo Sleipnir egli penetra nel Hel e ordina ad una profetessa morta da tempo di sorgere dalla tomba per rispondere alle sue domande (Baldrs Draumar, vv. 4 sgg.). Altri personaggi, da allora, praticarono una necromanzia di questo genere che, certo, non è sciamanismo stricto sensu, ma rientra in un orizzonte spirituale ad esso assai vicino. E si potrebbe anche citare la divinazione a mezzo della testa mummificata di Mimir (Voluspà, 46; Ynglinga Saga, IV), che ricorda la divinazione mediante crani di antenati sciamani, praticata dagli Yukaghiri.

Secondo la tradizione nordica, si può divenire profeti sedendosi su delle tombe, e «poeti», cioè inspirati, dormendo sul sepolcro di un poeta. Si ritrova un costume analogo fra i Celti: il fili mangiava la carne cruda di un toro, ne beveva il sangue e avvoltatosi nella sua pelle si addormentava; durante il sonno «amici invisibili» gli comunicavano la risposta alle quistioni che lo assillavano. Oppure ci si metteva senz'altro a dormire sulla tomba di un parente o di un antenato, e si diveniva profeta. Tipologicamente, queste usanze si avvicinano all'iniziazione o all'inspirazione dei futuri sciamani e maghi che passano la notte vicino a dei cadaveri o nei cimiteri. L'idea che fa da substrato è la stessa: i morti conoscono l'avvenire, possono rivelare cose nascoste, ecc. Il sogno ha talvolta una parte consimile: nella G'sla Saga (XXII, sgg.) il poeta indica il destino di certi privilegiati dopo la morte (Ellis).

Qui non è il caso di esaminare i miti e le leggende celtiche e germaniche relative ai viaggi estatici nell'aldilà e, specialmente, alle discese agli Inferni. Ricorderemo soltanto che le idee concernenti l'esistenza dopo la morte non erano esenti di contraddizioni né fra i Celti né fra i Germani. Le loro tradizioni parlano di varie sedi destinate ai trapassati, concordando con le concezioni di altri popoli circa la pluralità dei destini nel post-mortem. Hel, l'Inferno propriamente detto, secondo il Grimnismàl si trova sotto una delle radici dell'albero Yggdrasil, cioè nel «Centro del Mondo». Si parla anche di nove piani sotterranei: un gigante pretende di aver acquistata la sua sapienza col discendere nei «nove mondi inferi» (Ellis). Qui noi dunque incontriamo lo stesso schema cosmologico centro-asiatico dei sette o nove Inferni corrispondenti ai sette o nove Cieli. Ma ancor più significativa è la dichiarazione del gigante: si diviene «sapienti» - cioè chiaroveggenti - grazie ad una discesa negli Inferni, discesa che, pertanto, si ha il diritto di considerare come una iniziazione.

Nel Gylfaginning (XLVIII) Snorri ci descrive la discesa di Hermòdhr nel Hel: egli vi si reca cavalcando Sleipnir, il destriero di Odino, per riportarne l'anima di Balder. Questa discesa agli Inferni è di tipo nettamente sciamanico. Come nelle diverse varianti non-europee del mito di Orfeo, nel caso di Balder la discesa non dà i risultati sperati. Che una tale impresa sia però possibile, è confermato dal Chronicon Norvegiae: uno sciamano che cercava di riprendere l'anima di una donna morta improvvisamente, cadde lui stesso morto, con una terribile ferita al ventre. Intervenne un secondo sciamano a risuscitare la donna, che allora riferì di aver visto lo spirito del primo sciamano attraversare un lago in forma di tricheco: in quel momento qualcuno l'aveva colpito con un'arma e la ferita si trovava riprodotta sul cadavere (Ellis).

Lo stesso Odino discende negli Inferni sul suo cavallo Sleipnir per risuscitare la valva e conoscere la sorte di Balder. Un terzo esempio di discesa si trova in Saxo Grammaticus Hist. Dan, I, 31) ed ha per eroe Hadingus: mentre questi stava mangiando, una donna, gli appare improvvisamente e lo invita a seguirlo. I due discendono sottoterra, attraversando una regione umida e tenebrosa, trovano un sentiero battuto sul quale vanno figure ben vestite, entrano quindi in una zona soleggiata ave crescono fiori d'ogni specie e giungono dinanzi ad un fiume che essi attraversano passando per un ponte. Allora vedono due eserciti impegnati in una battaglia che la donna dice essere eterna: sono i guerrieri caduti sui campi di battaglia che continuano a combattere. Infine giungono davanti ad una muraglia che la donna cerca invano di oltrepassare; essa uccide un gallo che aveva con sé e lo getta di là dal muro; il gallo torna in vita, perché subito dopo si sente il suo canto di là dalla muraglia. Purtroppo qui Saxo interrompe il racconto (Ellis, p. 172); ma in quanto egli dice sulla discesa di Hadingus guidato dalla donna misteriosa si ritrova già il motivo mitico ben noto: il cammino dei morti, il fiume, il ponte, l'ostacolo iniziatico (la muraglia). Il gallo che torna in vita di là dal muro sembra indicare la credenza che almeno alcuni privilegiati (cioè alcuni «iniziati») possono contare sulla possibilità di un «ritorno alla vita» dopo la morte. Questo dettaglio riferito da Saxo si potrebbe ravvicinarlo al rituale funerario di un capo scandinavo («Rus») al quale assistette nel 921 il viaggiatore arabo Ahmed ibn Fodlan nella regione del Volga: una delle schiave, prima di esser immolata a che seguisse il suo padrone, compi il seguente rito: per tre volte gli uomini la sollevarono onde potesse vedere al disopra del quadro di una porta, ed essa raccontò di aver scorto, la prima volta, suo padre e sua madre, la seconda tutti i suoi congiunti e la terza il suo signore, «seduto in Paradiso». Poi le si dette una gallina a cui la schiava tagliò la testa, che gettò nella barca funeraria (barca, che poco dopo doveva trasformarsi nel suo rogo).

Nella mitologia e nel folklore germanico vi sono anche altri racconti di discese infernali ove si possono parimenti ritrovare temi di «prove iniziatiche» (per es. l'attraversare un «muro di fiamme»), però non necessariamente del tipo della discesa sciamanica. Come viene attestato dal Chronicon Norvegiae, è fra i maghi nordici che questa era conosciuta e se si pensa ad altre loro imprese si può convenire in una rassomiglianza abbastanza caratterizzata con gli sciamani siberiani.

Ci limiteremo ad accennare ai «guerrieri belva», ai berserkir che, per via magica, fanno proprio il «furore» felino e si trasformano in belve. Questa tecnica di estasi guerriera, che si trova attestata anche presso altri popoli indoeuropei e della quale sono stati anche trovati dei paralleli in culture extra-europee, con lo sciamanismo stricto sensu ha solo rapporti superficiali. L'iniziazione di tipo guerriero (eroico) per la sua struttura si distingue dalle iniziazioni sciamaniche. La trasformazione magica in una belva appartiene ad una ideologia che va oltre la sfera dello sciamanismo. Le radici di questa ideologia riportano ai riti di caccia dei popoli paleo-siberiani e più giù vedremo quali tecniche dell'estasi possono derivare dall'imitazione mistica del comportamento di un dato animale.

Secondo ciò che Snorri riferisce, Odino conosceva e praticava la magia detta seidhr: grazie ad essa poteva prevedere il futuro e causare la morte, la sciagura o la malattia. Però Snorri dice che questa stregoneria implicava una «turpitudine» tale che gli uomini non l'usavano mai «senza vergogna»: il seidhr era piuttosto una prerogativa delle gydhjur («sacerdotesse» o «dee»). E nel Lokasenna si rinfaccia ad Odino l'uso del seidhr, cosa «indegna di un uomo». Le fonti parlano di maghi (seidhmenn) e di maghe (seidhkonur) e si sa che Odino apprese il seidhr dalla dea Freia. Pertanto, si può supporre che questa specie di magia sia stata una specialità femminile: per tale motivo venne considerata «indegna di un uomo».

Di fatto, le sedute di seidhr descritte dai testi ci presentano sempre una seidhkona, una spàkona (una «chiaroveggente», una profetessa). La descrizione migliore si trova nella Eiriks saga rautha: la spàkona possiede un costume cerimoniale tutt'altro che primitivo: manto azzurro, gioielli, un copricapo di agnello nero con pelli di gatto bianco; porta anche un bastone e, durante la seduta, si siede su di un cuscino di penne di gallina su di un piedistallo alquanto elevato. Aggiungiamo che certi tratti «sciamanìci» nel senso lato del termine traspaiono nella assai complessa figura di Loki; su questo dio, vedi l'eccellente opera di Dumezil (Loki, Paris, 1948). Trasformatosi in giumenta, Loki generò con lo stallone Svadhilfari, il cavallo ad otto gambe, Sleipnir. Loki può assumere varie forme animali, quella di una foca, di un salmone, ecc. Genera il Lupo e la Serpe del Mondo. Vola anche negli spazi dopo aver indossato il costume di penne di falco; ma questa veste magica non gli è propria, essa appartiene a Freia. Ci si ricorderà che Freia ha insegnato a Odino il seidhr; pertanto, questa tradizione la si può raffrontare con le idee circa l'arte del volo magico insegnato da una dea o da una maga ad un dio o ad un sovrano, ed analoghe leggende cinesi, Freia, maestra del seidhr, possiede un costume magico di penne che le permette di volare alla stessa guisa degli sciamani; Loki sembra aver in proprio una magia più tenebrosa il cui senso è nettamente indicato dalle sue trasformazioni animali. La seidhkona (o valva, spàkona) va di fattoria in fattoria per rivelare l'avvenire degli uomini e predire il tempo, la qualità del raccolto, ecc. Porta con sé quindici giovinette e altrettanti giovani che cantano in coro. La musica ha una parte essenziale nella preparazione dell'estasi. Durante la trance l'anima della seidhkona lascìa il corpo e viaggia nello spazio; per lo più, assume la forma di un animale, come nell'episodio più su citato.

Per vari aspetti il seidhr si avvicina alla seduta sciamanica classica: il costume rituale, l'importanza del coro e della musica, l'estasi. Non ci sembra però che per questo si debba considerare il seidbr come sciamanismo stricto sensu: il «volo mistico» è un leit-motiv della magia universale e specialmente della stregoneria europea. I temi specificamente sciamanici - discesa agli Inferni per riportare l'anima del malato o per accompagnare il defunto - benché, come si è visto, siano presenti nelle tradizioni della magia nordica, non rappresentano un elemento essenziale nella seduta del seidhr. Questa sembra invece incentrarsi nella divinazione, il che vale quanto dire che ha piuttosto attinenza con la «piccola magia».

 

 

 

 

 

 

Grecia antica

back to index

 

Qui non affronteremo lo studio delle varie tradizioni estatiche che sono state attestate nella Grecia antica. Accenneremo solo a quei documenti che, morfologicamente, possono esser ravvicinati allo sciamanismo in senso stretto. Non è il caso di rifarsi ai baccanali dionisiaci solo perché gli autori classici ci parlano della insensibilità dei bakhai; e nemmeno è il caso di considerare l'enthousiasmòs, le varie tecniche oracolari, la necromanzia o la concezione degli Inferni. Non c'è nulla di «sciamanico» nell'oracolo di Delfi e nella mantica apollinea. Si può forse ravvicinare il famoso tripode delfico alla piattaforma della seidbkona germanica. «È però Apollo che normalmente si siede sul tripode. La Pitia ne prende il posto solo eccezionalmente, in qualità di sostituto del suo dio» (Amandry). Naturalmente, in tutto ciò si troveranno motivi e tecniche analoghi a quelli dello sciamanismo, ma tali coincidenze vanno spiegate in base al sopravvivere, nella Grecia antica, di concezioni magiche e di tecniche primordiali dell'estasi universalmente diffuse. Nemmeno parleremo dei miti e delle leggende relativi ai Centauri e ai primi guaritori e medici divini, benché tali tradizioni lascino talvolta trasparire alcuni tratti incerti di un certo «sciamanismo» primordiale. Tutte queste tradizioni appaiono già interpretate, elaborate, transvalutate; esse sono parte integrante di mitologie e di teologie complesse; presuppongono contatti, mescolanze e sintesi col mondo spirituale egeo e perfino orientale, e il loro studio richiederebbe uno spazio assai maggiore di quello che possiamo loro dedicarvi in questo capitolo.

Comunque, rileviamo che i guaritori, gli indovini o gli estatici greci che potrebbero esser ravvicinati agli sciamani non hanno relazioni con Dioniso. La corrente mistica dionisiaca sembra aver avuta tutt'un'altra struttura: l'entusiasmo bacchico non rassomiglia affatto all'estasi sciamanica. Le poche figure leggendarie greche che si potrebbero paragonare agli sciamani ci riportano invece ad Apollo. Ed è dal Nord, dal paese degli Iperborei, patria originaria di Apollo, che esse sarebbero venute in Grecia (Guthrie è propenso a credere che Apollo sia originario dell'Asia nord-orientale, forse della Siberia). Tale è, ad esempio, il caso di Abaris. «Tenendo nelle mani la freccia d'oro, segno della sua natura e della sua missione apollinea, percorreva il mondo, allontanando le malattie mediante dei sacrifici, predicendo i terremoti ed altre calamità» (Rohde). Una leggenda più tarda ce lo mostra in volo per gli spazi sulla sua freccia, come Museo. La freccia, che ha una certa parte nella mitologia e nella religione degli Sciti, è simbolo del «volo magico»: ci si ricorderà della presenza della freccia in varie cerimonie sciamaniche siberiane.

È egualmente con Apollo che ha relazioni Aristeo di Proconeso: questi cadeva in estasi e allora il dio gli «prendeva» l'anima; gli accadeva di apparire simultaneamente in due luoghi distanti ed accompagnò Apollo sotto forma di corvo (Erodoto, IV, 15), il che ricorda le trasformazioni sciamaniche. Ermotimo di Clazomene aveva il potere di abbandonare il corpo «per molti anni»; durante queste lunghe estasi viaggiava lontano e «conseguiva una conoscenza profetica del futuro. Alla fine i suoi nemici gli bruciarono il corpo, che giaceva disanimato, e la sua anima non torno più» (Rohde). Questa estasi ha tutti i caratteri di una trance sciamanica.

Ricordiamo anche la leggenda di Epimenide di Creta. Aveva «dormito» a lungo nella caverna di Zeus sul monte Ida; là aveva digiunato ed aveva apprese le estasi prolungate. Lasciò la caverna maestro di «sapienza entusiastica», cioè di tecnica dell'estasi. Allora «si mise a percorrere il mondo praticando l'arte terapeutica, predicendo l'avvenire da veggente estatico, spiegando il senso nascosto del passato ed allontanando, come sacerdote purificatore, i mali inviati dai demoni per misfatti particolarmente gravi». Dodds pretende che i frammenti di Empedocle rappresentino «la sola fonte di prima mano attraverso la quale si possa ancora farci una certa idea di come realmente apparisse uno sciamano greco; era l'ultimo esempio d'una specie che, alla sua morte, si estinse nel mondo greco, quantunque ancora fosse fiorente altrove». Quest'interpretazione è stata respinta da Kahn: «L'anima di Empedocle non lascia il suo corpo come quelle di Ermotimo e di Epimenide. Non cavalca una freccia come Abaris, né appare sotto forma di corvo come Aristea. Mai lo si vede contemporaneamente in due luoghi, neppure discende agli inferi come Orfeo e Pitagora». Il ritiro in caverna (= discesa agli Inferni) è una prova iniziatica classica, però non necessariamente «sciamanica». In Epimenide, sono le estasi, le guarigioni magiche, i poteri di divinazione e di profezia che piuttosto lo ravvicinano al tipo dello sciamano.

Prima di parlare di Orfeo, diamo uno sguardo ai Traci e ai Geti, che, secondo Erodoto (IV, 93), furono «i più prodi e i più giusti fra i Traci». Benché molti autori abbiano voluto vedere in Zalmoxis uno «sciamano», una interpretazione del genere è discutibile. La «deputazione di un messaggero» a Zalmoxis, che avveniva ogni quattro anni (Erodoto, IV, 94), come pure la «dimora sotterranea» nella quale egli si occultò e visse per tre anni per poi riapparire e dimostrare ai Geti l'immortalità dell'anima (ibid., 95), non hanno nulla di sciamanico. Da un solo dato sembra attestato uno sciamanismo getico: è l'informazione di Strabone (VII, 3, 3; C. 296) circa i kapnobàtai misi, nome che, per analogia con l'espressione aristofanea àerobàtes (Le nuvole, vv. 225, 1503), è stato tradotto con' «coloro che camminano nelle nubi» da alcuni autori, mentre altri ha proposto di tradurlo con «coloro che camminano nel fumo». Probabilmente si tratta di fumo di canapa, questo essendo un mezzo rudimentale per provocare l'estasi noto sia ai Traci che agli Sciti. I kapnobàtai sarebbero stati dei danzatori e degli stregoni getici i quali usavano il fumo prodotto dalla canapa per le loro trance estatiche.

Altri elementi «sciamanici» permasero di certo nella religione tracia, ma non è sempre facile individuarli. Citiamo un esempio che dimostra l'esistenza in Tracia dell'ideologia e del rituale dell'ascensione celeste mediante una scala. Secondo Polieno (Stratagematon, VII, 22), Kosinga, sacerdote-re dei Kebrenoi e dei Sykaiboai (trìbù tracie), usava minacciare i suoi sudditi di recarsi dalla dea Hera salendo su di una scala di legno per lamentarsi con lei della loro condotta. Ora, come si è ripetutamente visto, l'ascensione simbolica in Cielo mediante una scala è tipicamente sciamanica. Più oltre vedremo che il simbolismo della scala si trova parimenti attestato in altre religioni del Vicino Oriente antico e del Mediterraneo.

Passando ora ad Orfeo, il suo mito comprende vari elementi ravvicinabili all'ideologia ed alla tecnica sciamanica. Il più importante è naturalmente la sua discesa agli Inferni per cercarvi l'anima della sua sposa Euridice. Almeno una versione del mito non menziona l'insuccesso finale - la possibilità di strappare qualcuno agli Inferni è confermata, del resto, dalla leggenda di Alceste. Ma Orfeo presenta anche altri tratti da «Grande Sciamano»: la sua arte di guaritore, il suo amore per la musica e per gli animali, i suoi «incantamenti» e la sua fascinosità, il suo potere di divinazione. Persino il suo carattere di «eroe civilizzatore» non contraddice la migliore tradizione sciamanica: forse che il «primo sciamano» non fu il messaggero inviato da Dio per proteggere l'umanità dalle malattie per civilizzarla? Ancora un episodio del mito di Orfeo è nettamente sciamanico: la testa di Orfeo, che le Baccanti avevano troncata e gettata nell'Ebron, galleggiò sulle acque e cantò fino a Lesbo. Poi essa, come la testa di Mimir, servi da oracolo. Ora i crani degli sciamani siberiani hanno egualmente una loro parte nella divinazione.

Quanto all'orfismo propriamente detto, esso non può esser ravvicinato sotto nessun riguardo allo sciamanismo, ove si prescinda dalle laminette d'oro trovate in alcune tombe, che da tempo si son volute considerare come orfiche. Macchioro paragona il clima religioso nel quale si formò l'orfismo a quello della Ghost Dance Religion e di altri movimenti estatici popolari: ma le relazioni con lo sciamanismo propriamente detto non sono che accidentali. Esse sembrano esser piuttosto orfico-pitagoriche. In ogni caso, queste laminette contengono dei testi che indicano al morto la via da seguire nell'aldilà: in un certo modo, esse rappresen tano un «libro dei morti» condensato, e possono esser ravvicinate a testi analoghi usati nel Tibet e presso i Mo-So (vedi più oltre, p. 471), ove la recitazione di itinerari funebri al capezzale del morto equivale all'accompagnamento mistico ad opera dello sciamano psicopompo. Senza spinger troppo oltre il raffronto, nella geografia funeraria delle laminette orfico-pitagoriche si potrebbe vedere il succedaneo di una psicopompia di carattere sciamanico.

Ad Ermete psicopompo accenneremo soltanto: la figura di questo dio è troppo complessa a che si possa ricondurla ad una semplice guida «sciamanica» agli Inferni. Quanto alle «ali» di Ermete, simbolo del volo magico, vaghi indizi fanno pensare che certi stregoni pretendevano di dare ali alle anime dei trapassati . per permetter loro di volarsene verso i Cieli. Ma qui abbiamo a che fare con l'antico simbolismo dell'anima-uccello, complicato e contaminato da interpretazioni numerose e recenti di. origine orientale, aventi relazione coi culti solari e con l'idea dell' ascensione-apoteosi.

Del pari, le discese agli Inferni che si trovano attestate nelle tradizioni greche - dalla più famosa, che costituisce una delle prove iniziatiche di Eracle, fino alle discese leggendarie di Pitagora e di «Zoroastro» - non hanno affatto una struttura sciamanica. Ci si potrebbe piuttosto riferire all'esperienza estatica di Er il Pamfilo, figlio di Armenio, raccontata da Platone (Repubblica, 614 b sgg.): «ucciso» sul campo di battaglia, Er ritorna in vita dopo dodici giorni, quando il suo corpo era stato già portato sulla pira funeraria, e racconta ciò che aveva visto nell'altro mondo. In questo racconto si è voluta ravvisare l'influenza di idee e di credenze orientali. Come pur sia, la trance catalettica di Er rassomiglia a quella degli sciamani e il suo viaggio estatico nell'aldilà ci ricorda non soltanto l'Arda Virai, ma anche parecchie esperienze «sciamaniche». Fra l'altro, Er vede i colori del Cielo e l'Asse centrale, come pure i destini degli uomini, determinati dagli astri (Repubblica, 617d-618c): si potrebbe ravvicinare questa visione estatica del destino astrologico ai miti, di origine orientale, circa l'Albero della Vita o del «Libro celeste», sulle foglie o sulle pagine dei quali sta scritto il destino degli uomini. Il simbolismo di un «libro celeste» racchiudente il destino, trasmesso dalla divinità a sovrani e a profeti saliti in Cielo, è antichissimo e assai diffuso in Oriente. In Mesopotamia era il Re, nella sua qualità di unto, che, dopo un'ascensione, riceveva dal dio le tavolette o il libro celeste; in Israele Mosè riceve da Yahveh le Tavole della Legge.

Qui ci possiamo fare una idea della misura in cui un mito o un simbolo primordiale possono ricevere nuove interpretazioni: nella visione di Er l'Asse cosmico diviene il Fuso della Necessità e il destino astrologico si sostituisce al «libro celeste». Notiamo però che la «situazione dell'uomo» resta invariata: è sempre per mezzo di un viaggio estatico che, proprio come gli sciamani e i mistici di civiltà rudimentali, Er il Pamfilo ha la rivelazione delle leggi che governano il cosmos e la vita: è per mezzo di una visione estatica che egli giunge ad intendere il mistero del destino e dell'esistenza di dopo la morte. La grande distanza che separa l'estasi di uno sciamano dalla contemplazione di un Platone, tutta la differenza creata dalla storia e dalla civiltà, non muta in nulla la struttura di questa presa di coscienza della realtà ultima: è attraverso l'estasi che l'uomo realizza a pieno la sua situazione nel mondo e il suo destino finale. Si potrebbe quasi parlare di un archetipo della «presa di coscienza esistenziale» che si manifesta sia nell'estasi di uno sciamano o di un mistico primitivo, sia nell'esperienza di Er il Pamfilo e in tutti gli altri visionari dell'antichità che già in vita han conosciuto la sorte dell'uomo nel post-mortem. Muster ha cercato di paragonare le credenze etrusche sull'oltretomba e i relativi viaggi agli Inferni allo sciamanismo. Non si vede però che interesse può esservi nel chiamare «sciamaniche» idee e fatti che appartengono alla magia in genere e alle diverse mitologie della morte.

 

 

 

 

 

 

Sciti, Caucasici, Irani

back to index

 

Erodoto (IV, 71 sg.) ci ha lasciato un'ottima descrizione dei costumi funerari degli Sciti. Dopo i funerali si procedeva a delle purificazioni: si gettava della canapa su pietre surriscaldate e se ne aspirava il fumo; «entusiasti di esser cosi purificati, gli Sciti lanciavano grida» (IV, 75). Rohfr aveva già notato l'uso estatico della canapa presso gli Sciti e i Massageti. Meuli ha messo assai bene in luce il carattere sciamanico di questa purificazione funeraria: il culto dei morti, l'uso della canapa, la permanenza in ambienti surriscaldati e le «grida» costituiscono effettivamente un complesso religioso specifico, lo scopo del quale non poteva essere che l'estasi. Meuli ricorda, a tale proposito, la seduta altaica descritta da Radlov (vedi più su), nella quale uno sciamano accompagnò agli Inferni l'anima di una donna morta da quaranta giorni. Nella descrizione di Erodoto lo sciamano-psicopompo non figura: si parla soltanto di purificazioni dopo i funerali. Ma coteste cerimonie purificatorie in molti popoli turco-tartari coincidono con l'accompagnamento del trapassato alla sua nuova dimora, agli Inferni, da parte dello sciamano.

Meuli ha anche richiamato l'attenzione sulla struttura «sciamanica» delle credenze scite sull'oltretomba; sul misterioso «mal di donna» che, secondo una leggenda tramandata da Erodoto (I, 105), aveva trasformato certi Sciti in «Enarei» e che lo studioso svizzero confronta con l'effeminamento degli sciamani siberiani e nord-americani; sull'origine sciamanica dell'Arimàspeia e della stessa poesia epica in genere. Lasciamo a chi è più competente di noi saggiare tali tesi. Però, per lo meno, un fatto è certo: lo sciamanismo e l'ebbrezza estatica provocata dal fumo della canapa erano note agli Sciti. Come vedremo, l'uso della canapa a fini estatici è stato egualmente constatato fra gli Irani, ed è proprio il nome iranico della canapa che, nell'Asia centrale e settentrionale, viene usato per designare l'ebbrezza mistica.

Si sa che i popoli caucasici e specialmente gli Osseti conservano numerose tradizioni mitologiche e religiose degli Sciti. Ora, le concezioni dell'oltretomba di certi popoli caucasici sono assai vicine a quelle degli Irani, specie in quel che concerne il passar del morto su di un ponte stretto come un capello, il mito di un Albero cosmico la cui cima tocca il Cielo e alla radice del quale scorre una sorgente miracolosa, ecc. Presso gli Osseti «il morto, dopo essersi congedato dai suoi, salta a cavallo. Sulla sua via presto incontra delle specie di sentinelle alle quali deve dare qualche focaccia; quelle stesse che eran state deposte sulla sua tomba. Poi raggiunge un fiume sul quale, a guisa di ponte, è gettata una semplice trave... Quando vi passa il giusto o, meglio, il veridico, la trave si allarga, si fa salda e si trasforma in un magnifico ponte" (Dumezil). «Non v'è dubbio che il "ponte" dell'aldilà provenga dal mazdeismo, come il "ponte stretto" degli Armeni, il "ponte di capello" dei Georgiani. Tutte queste travi, questi capelli, ecc. hanno la virtù di allargarsi magnificamente davanti all'anima del giusto e di assottigliarsi per l'anima colpevole fino allo spessore di una lama di spada». D'altra parte gli indovini, i veggenti e i necromanti-psicopompi hanno una certa parte presso le tribù georgiane della montagna. Fra questi stregoni e questi estatici i più importanti sono i messulethe, quasi sempre reclutati fra le donne e le ragazze. La loro principale funzione è di accompagnare i trapassati nell'altro mondo, ma esse possono anche incorporarli ed allora i morti parlano per loro bocca; sia come psicopompa che come necromante, la messulethe è in stato di trance che opera. Tutti questi tratti ricordano singolarmente lo sciamanismo altaico. La misura in cui tale stato di cose in Georgia riflette credenze e tecniche degli «Irani d'Europa», cioè dei Sarmato-Sciti, costituisce tuttavia un problema di non facile soluzione.

Abbiamo notato quanto le concezioni dell'oltretomba dei Caucasici rassomiglino a quelle degli Irani. Infatti il Ponte Cinvat ha una parte essenziale nella mitologia funeraria iranica: l'attraversarlo va, in un certo modo, a decidere del destino dell'anima, questa traversata essendo una prova difficile, equivalente, come struttura, alle prove iniziatiche: il Ponte Cinvat è «come un trave dalle molte faccie» (Dataistan-i-Denik, XXI, 3 sgg.), esso cioè si divide in più passaggi; per i giusti è largo come nove lancie, per gli empì è stretto come «la lama di un rasoio» (Dinkart, IX, 30, 3). Esso si trova nel «Centro del Mondo». In «mezzo alla Terra», «alto ottocento misure di uomo» (Bundahishn, XII, 7), si erge il Kakàd-i-Dàitlk, la «Vetta del Giudizio» e il ponte Cinvat sale fino ad Alburz del Kakad-i-Daitik - il che equivale a dire che tale ponte collega, nel «Centro», la Terra al Cielo. Sotto il ponte si spalanca l'Inferno (Videvdat, III, 7): la tradizione lo presenta come una «continuazione d'Albùrz» (Bundahishn, XII, 8 sgg.).

Qui ci troviamo di fronte allo schema cosmologico «classico» delle tre regioni cosmiche collegate da un asse centrale (Pilastro, Albero, Ponte, ecc.). Gli sciamani circolano liberamente nelle tre zone; i defunti debbono invece attraversare un ponte nel loro viaggio verso l'aldilà. Abbiamo ripetutamente incontrato questo motivo funerario e su esso avremo ancora da tornare. Nella tradizione iranica - almeno nella forma in cui essa ha sussistito dopo la riforma di Zarathustra - il punto importante è che durante la traversata del ponte si ha una specie di lotta fra demoni che cercano di far precipitare l'anima nell'Inferno, e spiriti protettori, invocati anche dai parenti del morto a questo scopo, che ai primi si oppongono - e questi sono Aristat, «il conduttore degli esseri terrestri e celesti», e il buon Vayu. Sul ponte, Vayu sorregge le anime degli uomini pii, le quali sono altresì aiutate dalle anime dei morti, a che la traversata abbia felice esito (Soderblom). Nella funzione di psicopompo svolta dal buon Vayu potrebbe riflettersi una ideologia «sciamanista».

Nei Gatha si trovano tre accenni a. questo passaggio per il ponte Cinvat (45, 10-11; 51, 13). Secondo l'interpretazione di Nyberg, nei primi due passi Zarathustra parla di se stesso come di uno psicopompo: coloro che si sono uniti a lui in estasi attraverseranno facilmente il ponte; gli empi, suoi avversari, saranno «per sempre ospiti della casa del Male». Infatti il ponte non è soltanto la via dei morti, esso è anche il cammino degli estatici ed è appunto come tale che noi spesso l'abbiamo incontrato. Peraltro, è in estasi che Ardù Viraf attraversa il ponte Cinvat nel suo viaggio mistico. Secondo Nyberg, Zarathustra, quanto ad esperienza religiosa sarebbe stato un estatico di tipo assai vicino ad uno «sciamano». Lo studioso svedese ha creduto di poter indicare nel termine gathico maga la prova che Zarathustra e i suoi discepoli pervenivano ad una esperienza estatica per mezzo di canti rituali intonati in coro in un recinto consacrato. In questo spazio sacro (maga) si rendeva possibile la comunicazione fra Cielo e Terra - conformemente ad una dialettica universalmente diffusa, lo spazio sacro diveniva cioè un «Centro». Nyberg insiste sul fatto che questa comunicazione era di natura estatica e, in ispecie, ravvicina l'esperienza mistica dei «cantanti» allo sciamanismo propriamente detto. Una tale interpretazione ha incontrato l'opposizione concorde della maggior parte degli iranisti. Vi è tuttavia da notare che le somiglianze fra gli elementi estatici e mitologici individuabili nella religione zarathustriana da una parte, l'ideologia e le tecniche dello sciamanismo dall'altra, possono rientrare in un insieme più vasto che non implica per nulla una struttura «sciamanica» dell'esperienza religiosa di Zarathustra. Lo spazio sacro, l'importanza del canto, la comunicazione mistica o simbolica fra Cielo e Terra, il ponte iniziatico o funerario - tutti questi elementi, pur facendo parte integrante dello sciamanismo asiatico, gli sono anteriori e lo trascendono.

In ogni caso l'estasi sciamanica provocata da fumi di canapa era nota nell'antico Iran. Bangha non è menzionato nei Gatha, ma nel Fravashi-yasht si parla di un certo Puru-bangha «possessore di molta canapa» (Nyberg). Di Ahura Mazdah vien detto che egli è «senza trance e senza canapa» (Yasht, 19, 20) e nel Videvdat la canapa viene demonizzata. Ciò sembra dirci di una decisa ostilità verso un'ebbrezza sciamanica che probabilmente era praticata dagli Irani, forse in non diversa misura che dagli Sciti. Certo è che Arda Viraf ebbe la sua visione dopo aver bevuto una miscela fatta. di vino e della «droga di Vishtasp», miscela che lo fece dormire per sette giorni e sette notti. È un sonno che rassomiglia alla trance degli sciamani perché - come ci dice 1'Arda Virai - «l'anima di Viraf lasciò il corpo e andò sul ponte Cinvat, sulla Kakàd-i-Dàitìk. Dopo sette giorni tornò e rientrò nel suo corpo». Come Dante, Viraf visitò tutte le regioni del Paradiso e degli Inferni mazdei, vide i tormenti degli empi e le ricompense dei giusti. Da questo punto di vista, il suo viaggio nell'oltretomba lo si può paragonare ai racconti delle discese sciamaniche, diversi dei quali, come si è visto, contengono anche riferimenti ai castighi dei peccatori. Il complesso delle imagini infernali degli scismani dell'Asia centrale ha verosimilmente subito l'influenza delle idee orientali, soprattutto iraniche. Ciò non vuol però dire che il tema della discesa sciamanica agli Inferni tragga origine da una influenza esotica: l'apporto orientale non ha fatto che amplificare e colorare le scenografie drammatiche dei castighi oltremondani. I racconti dei viaggi estatici agli Inferni si sono arricchiti in seguito alle influenze orientali; ma il [atto estasi ha preceduto di molto tali influenze - ed' infatti noi abbiamo incontrato la tecnica dell'estasi in civiltà arcaiche ove è impossibile supporre una qualunque influenza da parte dell'Oriente antico.

Cosi, anche senza volersi pronunciare sull'eventuale carattere «sciamanico» dell'esperienza dello stesso Zarathustra, non v'è dubbio che la tecnica più elementare dell'estasi, l'ebbrezza provocata dalla canapa, era nota agli antichi Irani. Nulla c'impedisce di credere che gli Irani abbiano conosciuto anche altri elementi costitutivi dello sciamanismo, ad esempio il volo magico (attestato presso gli Sciti?!), o l'ascensione in Cielo. Arda Vìraf fece «un primo passo» e raggiunse la sfera della luna, mentre il «terzo passo» lo condusse alla luce chiamata «alta fra le alte» e il «quarto» alla luce di Garotman. Quale pur sia la cosmologia presupposta da tale ascensione celeste, resta certo che il simbolismo dei «passi» - lo stesso che ritroveremo nel mito della Natività del Buddha - corrisponde esattamente a quello dei «gradini» o delle «tacche» dell'albero sciamanico. Son tutti simbolismi che hanno un intimo rapporto con l'ascensione rituale in Cielo. Ora, noi abbiamo già tante volte constatato che ascensioni siffatte sono costitutive nello sciamanismo.

L'importanza dell'ebbrezza propiziata dalla canapa risulta, d'altra parte, dall'enorme diffusione del corrispondente termine iranico in tutta l'Asia centrale. La parola iranica che designa la canapa, bangha in molte lingue ugre è andata a designare sia il fungo sciamanico per eccellenza, l'agaricus muscarius (usato proprio come tossico prima o durante la seduta), sia l'ebbrezza stessa: si veda, ad esempio, il vogulo pankh, «fungo» (agaricus muscarius), il mordvino panga e pango, il ceremisso pongo, parole significanti parimenti «fungo». Nel vogulo settentrionale pankh vuole egualmente dire «ebbrezza, ubriachezza». Negli inni alle divinità si accenna anche all'estasi provocata da una intossicazione per funghi (Munkàcsi). Tutto ciò prova che il prestigio magico-religioso dell'intossicazione a fini estatici è di origine iranica. Unitamente alle altre influenze che l'Iran ha esercitato nell'Asia centrale, influenze sulle quali torneremo, il bangha ci dice a quale grado, in quell'area, fosse giunto il prestigio della religione iranica. Fra gli Ugri, può darsi che la tecnica sciamanica dell'intossicazione sia di origine iranica. Ma ciò che potrebbe significare nel riguardo dell'esperienza sciamanica originaria? Le droghe non sono che un surrogato volgare della trance «pura». E presso molti popoli siberiani noi abbiamo già avuto occasione di constatare che le intossicazioni (con alcool, tabacco, ecc.) sono innovazioni recenti le quali, in un certo modo, accusano una decadenza della tecnica sciamanica. Si è cercato di imitare con una ebbrezza a base di droghe uno stato spirituale cui non si era più capaci di giungere in altro modo. Decadenza, oppure - bisogna aggiungere - volgarizzazione di una tecnica mistica; nell'India antica e moderna e in tutto l'Oriente s'incontra sempre questa strana mescolanza di «vie difficili» e di «vie facili» per realizzare l'estasi mistica o qualche altra esperienza decisiva.

Nelle tradizioni mistiche dell'Iran islamizzato non è facile distinguere ciò che è un retaggio nazionale e ciò che è dovuto ad influenze dell'Islam o dell'Oriente. Ma non v'è dubbio che molte leggende e molti miracoli che figurano nell'agiografia persiana appartengono al fondo universale della magia e specialmente dello sciamanismo. Basta sfogliare i due volumi di Saints des derviches tourneurs di Huart per incontrare ad ogni passo miracoli della tradizione sciamanica più pura: ascensioni, volo magico, sparizioni, camminar sulle acque, guarigioni, avvenimenti visti a distanza, luce promanante dal corpo dei santi, levitazione, incombustibilità: «il séyyd, seguendo le istruzioni dello sheikh e scoprendo i misteri, diveniva talmente infiammato che si metteva in piedi sulla brace prendendo con la mano pezzi di carbone acceso» (nel che si può riconoscere il «dominio sul fuoco» sciamanico); dei maghi lanciano un giovane in aria e lo sheikh ve lo tiene sospeso; scomparsa istantanea, invisibilità, ubiquità, camminar sulle acque, sedere a gambe incrociate sulla superficie delle acque, ascensione e volo, ecc. Fritz Meier mi informa che, secondo l'opera bibliografica ancora inedita. di Amin Ahmad Razi, redatta nel 1594, il santo Qutb ud-dìn Havdar (XII secolo) aveva la reputazione d'essere insensibile al fuoco ed al più gran freddo; inoltre lo si scorgeva di frequente sui tetti e in cima agli alberi. Orbene, il significato sciamanico dell'ascesa sugli alberi è noto. D'altra parte bisogna anche ricordare la parte che l'hashish e altri stupefacenti hanno nella mistica islamica, benché i santi più puri non siano ricorsi a simili succedanei. A partir dal XII secolo l'influenza degli stupefacenti (hashish, oppio) si fa sentir in certi ordini mistici persiani (cfr. Massignon). Il raqs, «danza» estatica di giubilo, il tamziq «laceramento delle vesti» durante la trance, il nazar ila'l mord, o «sguardo platonico», forma assai sospetta di estasi provocata da inibizione erotica, sono alcuni indici di trance ottenuta con gli stupefacenti; si potrebbero mettere in relazione queste ricette elementari di estasi sia con le tecniche mistiche pre- islamiche che con certe tecniche indi.- aberranti le quali debbono avere esercitato la loro influenza sul sufismo.

Infine, col diffondersi dell'Islam fra i Turchi dell'Asia centrale certi elementi sciamanici furono assimilati dai mistici musulmani. Kopruìluzade ricorda che, «secondo la leggenda, Ahmed Yesevi e alcuni dei suoi dervisci, trasformandosi in uccelli, avevano la facoltà di volare». Troviamo leggende analoghe nel riguardo dei santi Bektàchi. Nel XIII secolo Barak Baba, fondatore di un ordine il cui contrassegno rituale era «la pettinatura a doppio corno», si mostrava in pubblico a cavallo di uno struzzo, e_ la leggenda dice che «lo struzzo volò per qualche tempo grazie all'influsso del suo cavaliere». Può darsi che tutto ciò sia effettivamente dovuto a influenze dello sciamanismo turco-mongolo, come lo crede il dotto turcologo. Però la facoltà di trasformarsi in uccello appartiene a tutti gli sciamanismi, non solo a quello turco-mongolo, ma altresi a quello artico, americano, indiano e oceanico. Quanto allo struzzo della leggenda di Barak Baba, v'è da chiedersi se tale motivo non indichi piuttosto una origine meridionale.

 

 

 

 

 

 

India antica: riti di ascensione

back to index

 

Ci si ricorderà dell'importanza rituale che ha l'albero di betulla nella religione turco-mongola e specialmente nello sciamanismo: la betulla o il palo a sette o nove tacche simboleggia l'Albero cosmico epperò si ritiene che esso si trovi nel «Centro del Mondo». Scalandolo, lo sciamano giunge fino al cielo più alto, davanti a Bai Ulgan.

Questo stesso simbolismo noi lo ritroviamo nel rituale brahmanico, il quale comprende parimenti un salire ritualmente fino al mondo degli dèi. Infatti «il sacrificio ha un solo saldo punto d'appoggio, una sola sede: il mondo celeste» (Catapatha-Brahmana, VIII, 7, 4, 6). «Il sacrificio è un sicuro battello da traghetto» (Aitereya-Brahmana, III, 2, 29). «Il sacrificio, nel suo insieme, è la nave che conduce in cielo» (Catapatha-Brahmana, 2, 5, 10). Il meccanismo del rituale è una durohana, una «difficile ascesa», giacché implica un salire sullo stesso Albero del Mondo.

Infatti il palo sacrificale (yupa) vien ricavato da un albero assimilato all'Albero cosmico. È lo stesso sacerdote, accompagnato dal boscaiolo, a sceglierlo nella foresta (Catapatha-Brahmana, III, 6, 4, 13, ecc.) ed egli, mentre lo si abbatte, l'apostrofa cosi: «Con la tua cima non lacerare il Cielo, col tuo centro non ferire l'atmosfera!» (Catapatha-Brahmana, III, 6, 4, 13; Taittiriya Samhita, I, 3, 5, ecc.). Il palo sacrificale diviene una specie di pilastro cosmico: «Sorgi, o vanaspati (Signore della foresta), sulla sommità della Terra!» - cosi l'invoca il Rig-Veda (III, 8, 3). «Con la tua cima sostieni il Cielo, con la tua parte di mezzo riempi l'Atmosfera, coi tuoi piedi consolidi la Terra» - proclama il Catapatha-Brabmana, III, 7, 1, 14.

Lungo questo pilastro cosmico il sacrificatore sale in Cielo, solo o insieme alla sua sposa. Appoggiata una scala al palo, egli dice a sua moglie: «Vieni, saliamo in Cielo». La donna risponde: «Saliamo!» e i due ripetono tre volte queste formule rituali (Catapatha-Brabmana, V, 2, 1, lO ecc.). Giunti in cima, il sacrificatore tocca il capitello e stendendo le braccia (come un uccello apre le ali) esclama: «Ho raggiunto il Cielo, gli dèi, son divenuto immortale!» (Taittiriya-Samhita, I, 7, 9, 2, ecc.). «In verità, il sacrificante si crea una scala e un ponte per raggiungere il mondo celeste» (ibid., VI, 6, 4, 2, ecc.).

Il palo sacrificale è un Axis Mundi, e proprio come i popoli arcaici mandavano le offerte in Cielo attraverso l'apertura per il fumo o il pilastro centrale della loro abitazione, cosi lo yupa vedico era un «veicolo per il sacrificio» (Rig-Veda, III, 8, 3). Ad esso venivano rivolte preghiere, come le seguenti: «O Albero, lascia che il sacrificio vada agli dèi!» (Rig-Veda, I,13,11); «O Albero, che l'offerta si diriga verso gli dèi!» (Rig-Veda).

Ci si ricorderà anche del simbolismo ornitologico del costume sciamanico e dei numerosi esempi di volo magico fra gli sciamani siberiani. Ora, idee analoghe le si ritrovano nell'India antica: «Il sacrificatore, divenuto un uccello, s'innalza fino al mondo celeste» - afferma il Pahcavimça-Brahmana (V, 3, 5). Numerosi testi parlano delle ali che bisogna avere per raggiungere la cima dell'Albero (Jaiminiya-Upanishad-Brahmana, III, 13, 9), del «cigno la cui sede è nella luce» (Katha Upanishad, V, 2), del cavallo sacrificale che in forma di uccello trasporta il sacrificatore fino in Cielo (Mahidhara, Catapatha-Brahmana, XIII, 2, 6, 15), e cosi via. E come subito vedremo, la tradizione del volo magico ricorre a profusione nell'India antica e medievale, sempre in relazione con santi, con yogi e con maghi.

«Arrampicarsi su di un albero» nei testi brahmanici divenne una imagine frequente dell'ascesa spirituale. Lo stesso simbolismo si è conservato nelle tradizioni folkloristiche, però senza che il significato originario vi sia sempre trasparente.

L'ascensione celeste di tipo sciamanico la s'incontra anche nelle leggende della Natività del Buddha. «Appena nato - dice la Majjimanikaya (III, 123) - il Bodhisattva si mette dritto sui piedi e, rivolto verso il Nord, compie sette passi, sotto un ombrello bianco. Considera tutte le regioni d'intorno e con voce di toro dice: "Sono il sommo del mondo, sono il migliore del mondo, sono il primogenito del mondo; questa è la mia ultima nascita, per me non vi sarà più un'altra esistenza!"». I sette passi conducono il Buddha sulla vetta del mondo; e come lo sciamano altaico scala le sette o le nove tacche della betulla cerimoniale per giungere fino all'ultimo cielo, del pari il Buddha attraversa simbolicamente i sette piani cosmici ai quali corrispondono i sette cieli planetari. Inutile dire che qui il vecchio schema cosmologico dell'ascensione celeste sciamanica (e vedica) ci si presenta arricchito dall'apporto millenario della speculazione metafisica indiana. Buddha nel compiere i «sette passi» non ha più di mira il «mondo degli dèi» e 1'«immortalità», bensì il superamento della condizione umana. Infatti l'espressione: «lo sono il sommo del mondo (aggo'ham asmi lokassa)» altro non significa che la trascendenza del Buddha rispetto allo spazio, allo stesso modo che l'espressione: «lo sono il primogenito del mondo (jettho' ham asmi lokassa)» significa la sua supertemporalità. Infatti il Buddha raggiungendo la vetta cosmica raggiunge il «Centro del Mondo» e dato che la creazione è proceduta da un «Centro» (= cima), il Buddha diviene contemporaneo al principio del mondo. Questo non è il luogo per approfondire ulteriormente un tale dettaglio della Natività del Buddha; abbiamo però dovuto accennarlo di passata, per mostrare, da una parte, la plurivalenza del simbolismo arcaico, che lo rende indefinitamente suscettibile di nuove interpretazioni, e per precisare, dall'altra, che il sopravvivere di uno schema «sciamanico» in una religione evoluta non implica affatto che il suo contenuto originario vi si sia conservato. Naturalmente, queste stesse considerazioni valgono pei vari schemi ascensionali della mistica cristiana ed islamica.

La concezione dei sette cieli, cui allude la Majjimanikaya, risale al brahmanesimo e probabilmente deriva da una influenza della cosmologia babilonese di cui, sia pure indirettamente, risentono parimenti le concezioni cosmologiche altaiche e siberiane. Ma il buddhismo conosce anche uno schema cosmologico con nove cieli, peraltro, profondamente «interiorizzato», inquantoché i primi quattro cieli corrispondono ai quattro jhana, gli altri quattro ai quattro sattavasa e il nono ed ultimo cielo simboleggia il nirudna: in ciascuno di questi cieli è proiettata una divinità del pantheon buddhista che rappresenta, in pari tempi, un certo grado della meditazione yogica. Ora, noi sappiamo che secondo gli Altaici i sette o i nove cieli sono abitati da varie figure divine e semi-divine che lo sciamano incontra nella sua ascesa e con le quali egli s'intrattiene; finché nel nono cielo egli si trova dinanzi a Bai Ulgan. Come è evidente, nel buddhismo non si tratta più di una ascesa simbolica nei cieli, bensi di gradi della meditazione e, simultaneamente di «passi» verso la liberazione finale. E sembra che il monaco buddhista dopo la morte raggiunga il particolare livello celeste che ha saputo realizzare da vivo nell'esperienza yogica, mentre un Buddha raggiunge il nirvana (cfr. anche Ruben).

 

 

 

 

 

 

India antica: il "volo magico"

back to index

 

Il sacrifìcatore brahmanico giunge in cielo salendo ritualmente su per una scala; il Buddha trascende il cosmos attraversando simbolicamente i sette cieli; con la meditazione lo yogi buddhista realizza una ascensione d'ordine interamente spirituale. Tipologicamente, tutte queste azioni hanno la stessa struttura; ciascuna sul piano suo proprio, esse indicano modi particolari di trascendere il mondo profano e di raggiungere gli dèi, o l'Essere, o l'Assoluto. Più sopra abbiamo detto in che misura queste azioni possono esser fatte rientrare nella tradizione sciamanica dell'ascensione in Cielo; la sola, grande differenza sta nell'intensità dell'esperienza sciamanica che, come ormai sappiamo, implica l'estasi e la trance. Ma anche l'India antica, conosce l'estasi che rende possibile l'ascensione e il volo magico. L'«estatico» (munì) dai lunghi capelli (keçin) del Rig-Veda (X, 136, 3-5) dichiara perentoriamente: «Nell'ebbrezza dell'estasi siamo saliti sul carro dei venti. Voi mortali, non potete scorgere che il nostro corpo... L'estatico è il cavallo del vento, l'amico del dio della tempesta, spronato dagli dèi». Sul significato magico-religioso dei capelli lunghi cfr. le «serpi» dei cosrumi sciamanici siberiani, di cui già dicemmo. Sulle estasi vediche più antiche cfr. Hauer. Ricordiamo che il tamburo degli sciamani altaici viene chiamato «cavallo» e che fra i Buriati, ad esempio, il bastone a testa di cavallo, il quale del resto si chiama esso stesso «cavallo», ha una parte importante. L'estasi provocata dal suono del tamburo o dalla danza a cavalcioni di un bastone a testa di cavallo (una specie di hobby horse) viene assimilata ad una cavalcata fantastica nei cieli. Come vedremo, presso certi popoli non ariidell'India il mago ancor oggi usa un cavallo di legno o un bastone a testa di cavallo nell'eseguire la sua danza estatica.

Nello stesso inno ora citato del Rig-Veda (X, 136) è detto: «Gli dèi sono entrati in loro»; si tratta di una specie di «possessione» mistica che anche in ambienti non-estatici ha continuato a conservare un alto valore spirituale (lo testimonia la Brihadaranyaka-Upanishad, III, 3-7). Il munì «abita i due mari, quello di levante e quello di ponente... Va lungo le vie delle Apsara, dei Gandharva e delle fiere» (X, 136). L'Atharva-Veda (XI, 5, 6) parla così del discepolo animato dalla magica forza dell'ascesi (tapas): «In un batter d'occhio si porta dal mare d'Oriente al mare di Settentrione». Questa esperienza macrantropica, avente le sue basi nell'estasi sciamanica, persiste nel buddhismo ed ha una parte considerevole nelle tecniche dello yoga tantrico. In sogno, il Buddha si vede come un gigante con le braccia nei due oceani: Anguttara Nikaya, III, 240 - cfr. anche Ruben. Qui è impossibile indicare tutte le traccie «sciamaniche» presenti nei testi buddhistici più antichi. Numerose siddhi (poteri magici) hanno una struttura nettamente sciamanica: ad esempio, quella di «sprofondarsi nella terra e riemergerne come se si trattasse di acqua»

Le omologazioni fra il corpo umano e il cosmos oltrepassano naturalmente I'espe-: rienza sciamanica propriamente detta; ruttavia appare che sia il vratya che il muni conseguono la macrantropia durante una trance estatica. L'ascensione e il volo magico hanno un posto di prim'ordine nelle credenze popolari e nelle tecniche mistiche dell'India. Infatti innalzarsi negli spazi, volare come un uccello, superare fulmineamente distanze immense, scomparire, sono fra i poteri magici che il buddhismo e l'induismo riconoscono agli arhat, ai re e ai maghi. Il numero delle leggende su re e maghi volanti è considerevole. Il lago miracoloso Anavatapta poteva esser raggiunto soltanto da coloro che posseggono il potere supernaturale di volare attraverso gli spazi; Buddha e i santi buddhisti giunsero all'Anavatapta in un batter d'occhio, allo stesso modo che nelle leggende indù i rshi si lanciano negli spazi verso il divino e misterioso Paese del Nord chiamato Coeta-dolpa. In tali casi si tratta naturalmente delle «terre pure», di uno spazio mistico che ha, ad un tempo, figura di «paradiso» e figura di spazio interiore» accessibile ai soli iniziati. Il lago Anavatapta, insieme alla Cvera-dvipa e ad altri «paradisi» buddhistici, rappresentano modi dell'essere che si realizzano grazie allo Yoga, all'ascesi o alla contemplazione. Ma è importante riconoscere che qualcosa di identico si esprime tanto in tali esperienze superumane che nel simbolismo arcaico dell'ascensione e del volo, cosi ricorrente nello sciamanismo.

I testi buddhistici parlano di quattro specie di poteri magici di traslazione (gamana), il primo dei quali è il volare come un uccello. Patanjali cita, fra le siddhi, la facoltà, che gli yogi possono acquisire, di volare nello spazio (laghiman). È sempre grazie alla «forza dello yoga» che, nel Mahabharata (XII, 335, 2 sgg.), il saggio Nàrada si lancia nei cieli e raggiunge la cima del Monte Meru (il «Centro del Mondo»); da là egli vide, lontana nell'Oceano di Latte, la çveta-dvlpa. Infatti «con un tale corpo (yogico) lo yogi va dove vuole» (ibid., XII, 317, 6). Ma un'altra tradizione riportata dal Mahabharata distingue già fra la vera ascensione mistica - che non si può dire sia sempre «concreta» - e il «volo magico», che è solo un'illusione: «Anche noi possiamo volare nei cieli e manifestarci sotto molte forme, ma per illusione» (mayaya - ibid., V, 160, 55 sgg.).

Qui ci si rende conto del senso nel quale lo yoga e le altre tecniche meditative indiane hanno elaborato esperienze estatiche e prestigi sciamanici appartenenti ad un retaggio spirituale antichissimo. Vale aggiungere che il segreto del volo magico è noto anche all'alchimia indiana, e questo miracolo è talmente corrente per gli arhat buddhisti, che il termine arahant ha dato luogo al verbo singalese rahatve, «scomparire, passare istantaneamente da un luogo ad un altro»: l'arhat Nandimitra «s'innalzò nello spazio ad un'altezza di sette alberi tala», ecc.; l'arhat Pindola, che risiede nell'Anavatapta, fu punito dal Buddha perché era volato negli spazi, con un monte fra le mani, mostrando ai profani in modo inacconcio i suoi poteri magici. Come si sa, il buddhismo interdiceva l'esibizione delle siddhi.

Le daktni, fate-maghe che hanno una parte importante in certe scuole tantriche in mongolo vengon chiamate «quelle che camminano attraverso gli spazi» e, in tibetano, «quelle che se ne vanno per il Cielo». Il volo magico e l'ascensione in Cielo con l'aiuto di una scala o di una corda sono motivi frequenti anche nel Tibet, che non li ha necessariamente ricevuti dall'India, tanto più che essi si trovano attestati nelle tradizioni Bon-po o in altre da queste derivate (cfr. più giù). Del resto, come presto vedremo, gli stessi temi hanno parte considerevole nelle credenze magiche e nel folklore della Cina e si ritrovano un po' dappertutto nel mondo arcaico (cfr. oltre).

Tutti questi fatti che abbiamo passato in rapida rassegna non sono necessariamente «sciamanici»; nell'insieme dal quale li abbiamo estratti per la comodità dell'esposizione, ciascuno di essi ha un significato particolare suo proprio. Ma si trattava di mostrare le equivalenze strutturali di tali fatti magico-religiosi indiani. Al pari del mago, l'estatico sembra rappresentare un fenomeno speciale nel complesso della religione indiana soltanto per via dell'intensità della sua esperienza mistica o dell'eminenza della sua magia, giacché la teoria che qui fa da substrato - l'ascesa celeste - come si è visto, la si ritrova nello stesso simbolismo del sacrificio brahmanico.

Infatti ciò che distingue l'ascensione del muni dall'ascensione contemplata dal rituale brahmanico è appunto il suo carattere sperimentale: qui si tratta di una trance paragonabile a quella delle «grandi sedute» degli sciamani siberiani. Ma l'importante è che questa esperienza estatica non contraddice la teoria generale del sacrificio brahmanico, allo stesso modo che la trance degli sciamani s'inquadra mirabilmente nel sistema cosmo-teologico della religione siberiana e altaica. La principale differenza fra i due tipi di ascensione è dovuta all'intensità dell'esperienza, il che equivale a dire che, in ultima analisi, è una differenza d'ordine psicologico. Ma quale pur sia la sua intensità, questo fatto estatico si rende suscettibile di essere comunicato mercé un simbolismo universalmente valido ed esso viene convalidato nella misura in cui riesce ad integrarsi nel sistema magico-religioso esistente. Il potere di volare si è visto che lo si può ottenere in molti modi: per trance sciamanica, per estasi mistica, mediante tecniche magiche, ma anche con una rude disciplina psichico-sperimentale, come lo Yoga di Patanjali, con l'ascesi severa del buddhismo o con procedimenti alchemici. Questa pluralità di tecniche corrisponde indubbiamente ad una molteplicità di esperienze ed anche, sebbene in grado minore, a ideologie distinte (infatti vi è il «rapimento» ad opera degli spiriti, vi è l'ascensione «magica» o «mistica», e via dicendo). Però tutte queste tecniche e queste mitologie hanno una nota comune: l'importanza riconosciuta al potere di volare attraverso gli spazi. Questo «potere magico» non è un elemento isolato, valido in se stesso, basato esclusivamente sull'esperienza personale dei maghi; esso rientra invece in un insieme teo-cosmologico assai più vasto di ogni ideologia sciamanica.

 

 

 

 

 

 

Il Tapas e la Viksha

back to index

 

La stessa continuità esistente fra il rituale e l'estasi noi la ritroviamo nei riguardi di un altro concetto che ha parte considerevole nell'ideologia panindiana: quello di tapas, termine il cui senso iniziale è quello di «calore estremo» ma che poi è andato a designare lo sforzo ascetico in genere. Il tapas si trova nettamente attestato nel Rig-Veda (vedi per es. VIII, 59, 6; X, 136, 2; 154, 2, 4; 167, 1; 109, 4, ecc.) come qualcosa che ha una virtù creativa sia sul piano cosmico che su quello spirituale: grazie al tapas l'asceta diviene chiaroveggente e va perfino a incorporare gli dèi. Prajapati crea il mondo «riscaldandosi» fino ad un grado estremo con l'ascesi (Aitareya-Brahmana, V, 32, 1); in effetti, egli crea mediante una specie di traspirazione magica, di cui noi abbiamo già incontrato altrove dei paralleli cosmogonici. Il «calore interno», o «calore mistico», è creatore. Si traduce in una specie di forza magica che, anche quando non si manifesta direttamente in sede cosmogonica (cfr. il mito di Prajapati), «crea» su di un piano cosmico più modesto: ad esempio, crea gli innumerevoli miraggi o miracoli degli asceti e degli yogi (volo magico, abolizione delle leggi fisiche, scomparsa, ecc.). Ora, ci si ricorderà che il «calore interno» è parte integrante della tecnica dei maghi e degli sciamani «primitivi» (cfr. più giù, pp. 447 sgg.); l'acquisto del «calore interno» dà luogo dappertutto ad un dominio del fuoco» e, in ultima istanza, all'abolizione delle leggi fisiche - il che è come dire che il mago adeguatamente «riscaldato» può fare dei «miracoli», può creare nuove condizioni esistenziali nel cosmos, ripetendo in un certo modo la cosmogonia. Visto secondo questa prospettiva, Prajàpati diviene uno degli archetipi dei «maghi».

Questo «calore» estremo lo si consegue sia meditando vicino al fuoco - metodo ascetico che ha avuto grande fortuna in India - sia trattenendo il respiro (cfr. per es. Baudbhyana-Dharma-Sutra, IV, l, 24, ecc.). Va ricordato che la tecnica respiratoria e la ritenzione del soffio hanno avuto un posto considerevole nell'organizzazione di quel complesso di pratiche ascetiche e di teorie magiche, mistiche e metafisiche che vien designato col termine generale di Yoga. Il tapas nel senso di sforzo ascetico, è parte integrante di ogni specie di Yoga e, di passata, ci è sembrato interessante indicarne le implicazioni «sciamaniche», Vedremo subito che il «calore mistico», nel senso proprio del termine, ha grande importanza nello Yoga tantrico himalayano e tibetano. Aggiungiamo che la tradizione dello Yoga classico usa il «potere» conferito dal pranayama ai fini di una specie di «cosmogonia a rovescio», giacché questo potere, invece di dar luogo alla creazione di nuovi universi (cioè di nuovi «miraggi» e «miracoli»), serve allo yogi per staccarsi dal mondo e, in un certo modo, per distruggerlo: la liberazione yogica equivale infatti ad una completa disolidarizzazione col cosmos; per un jivan-mukta - per colui che già da vivo si è «liberato» - l'universo non esiste più e se si proiettasse sul piano cosmologico il processo che in lui si è realizzato si avrebbe un totale riassorbimento delle forme cosmiche nella sostanza prima (prakriti), il che vale quanto dire un ritorno allo stato non-differenziato di prima della creazione. Tutto ciò va molto oltre ogni ideologia «sciamanica»; ci sembra però significativo il fatto che la spiritualità indiana abbia utilizzato come mezzo per una liberazione metafisica una tecnica della magia arcaica ritenuta capace di abolire le leggi fisiche e di intervenire nella costituzione stessa dell'universo.

Ma il tapas non è una ascesi riservata esclusivamente agli «estatici»: esso fa anche parte dell'esperienza religiosa dei laici. Infatti il sacrificio del soma esige assolutamente che il sacrificatore e la sua sposa compiano la diksha, rito di consacrazione che implica il tapas. La diksha comprende la veglia iniziatica, la meditazione nel silenzio, il digiuno ed anche il «calore», il tapas - e questo periodo di «consacrazione» può durare un giorno o due, o perfino un anno. Ora, il sacrificio del soma è uno dei più importanti nell'India vedica e brahmanica, il che è quanto dire che l'ascesi a fini estatici fa necessariamente parte della vita religiosa dell'intero popolo indiano. La continuità fra il rituale e l'estasi, già rilevata a proposito dei riti di ascensione (compiuti da profani) e del volo mistico (degli estatici), questa continuità si verifica altresì sul piano del tapas. Resterebbe da sapere se la vita religiosa indiana nel suo insieme e con tutti i simbolismi che le sono inerenti è la creazione - in un certo modo «degradata» per renderla accessibile al mondo profano - di una serie di esperienze estatiche di qualche privilegiato, ovvero se l'esperienza estatica di questi ultimi non è che il risultato di uno sforzo di «interiorazione» di certi schemi cosmo-teologici preesistenti. Problema, questo, gravido di conseguenze, ma che trascende il piano della storia delle religioni indiane e, del resto, il soggetto stesso del presente lavoro.

 

 

 

 

 

 

Tecniche e simbolismi "sciamanici" in India

back to index

 

Per quel che riguarda la guarigione sciamanica mediante richiamo o ricerca dell'anima fuggitiva del malato, il Rig-Veda ce ne offre degli esempi. Il sacerdote parla cosi al moribondo: «Lo spirito tuo che se ne è andato in Cielo, lo spirito tuo che se ne è andato alle estremità della terra... lo facciamo tornare a te affinché tu abiti qui, affinché tu viva qui!» (X, 58, 2-4). Sempre nel Rig-Veda (X, 57, 4-5) il brahmano scongiura nel modo seguente l'anima del paziente: «Possa lo spirito tornare a te, per volere, per agire, per vivere a lungo sotto il sole. O Padri, possa il popolo degli dèi renderci lo spirito; noi vogliamo restare con la schiera dei viventi!». E nei testi medico-magici dell'Atharva-Veda (VIII, 2, 3; VIII, 1, 3, 1, ecc.) il mago per riportare il moribondo in vita, ne riprende dal Vento il soffio, dal Sole l'occhio, e reintegrandoli nel corpo libera il malato dai vincoli di Nirrti.

Naturalmente, queste non sono che semplici traccie di guarigione sciamanica e se più tardi la medicina indiana doveva utilizzare certe idee magiche tradizionali, queste, tuttavia, non appartengono all'ideologia sciamanica propriamente detta. Già il riferimento dei vari «organi» a regioni cosmiche, da parte del mago dell'Atharva-Veda (vedi anche: Rig-Veda, X, 16, 3) implica una diversa concezione: quella dell'uomo quale microcosmo. E per quanto anch'essa sembri essere abbastanza antica (forse è indoeuropea), pure non è «sciamanica». Comunque, il richiamo dell'anima fuggitiva del malato si trova attestato in un libro - il più recente - del Rig-Veda, e poiché la stessa ideologia e la stessa tecnica sciamanica predominano nelle altre popolazioni, non arie, dell'India, ci si può chiedere se non si debba pensare ad una influenza da parte del substrato. Infatti anche il mago degli Oraoni del Bengala cerca l'anima smarrita del malato attraverso monti e fiumi, e fin nel paese dei morti, proprio come fa lo sciamano altaico e siberiano.

Non solo: l'India antica conosce la dottrina dell'instabilità dell'anima che ha tanto risalto nelle varie culture dominate dallo sciamanismo. Durante il sogno l'anima va molto lontano dal corpo, onde il Catapatha-Brahmana (XIV, 7, 1, 12) raccomanda di non svegliare di colpo chi dorme, perché l'anima rischierebbe di smarrirsi sul cammino del ritorno. Ci si espone a perder l'anima anche quando si sbadiglia (Taittiriya-Samhita, II, 5, 2, 4). La leggenda di Subandhu ci dice come si possa perdere e ritrovare la propria anima (Jaiminzya-Brahmana, III, 168-170; Pancavimça-Brahmana, XI, 12, 5).

Sempre in relazione con l'idea, che il mago può abbandonare il corpo a volontà - idea strettamente sciamanica, di cui abbiamo ripetutamente constatato la base estatica - sia nei testi tecnici che nel folklore ìndù s'incontra un altro potere magico: quello di «entrare in un altro corpo» (parapurakaya-praveça). Ma un tale potere magico reca già l'impronta di una elaborazione indiana: del resto, esso figura fra le siddhi yogiche e Patanjali lo menziona presso ad altre facoltà miracolose (Yoga-sutra, III, 37).

Qui non possiamo passare in rassegna tutti gli aspetti delle tecniche dello Yoga che potrebbero aver dei punti di contatto con lo sciamanismo. Per il fatto che la grande sintesi che noi abbiamo chiamato lo Yoga barocco riprende in sé un numero rilevante di elementi appartenenti alle tradizioni magiche e mistiche dell'India, tanto arie che aborigene, accade che in tale vasta sintesi si possono identificare talvolta elementi sciamanici. È però importante accertare, caso per caso, se si tratta davvero di elementi sciamanici propriamente detti oppure di tradizioni magiche oltrepassanti la sfera dello sciamanismo. Un tale lavoro di discriminazione qui ci è impossibile intraprenderlo. Dobbiamo tuttavia precisare che, nel discutere le «origini» dello Yoga, noi non ci riferiamo necessariamente allo sciamanismo: tutta una tradizione mistica popolare, la bhakti, che ad un dato momento ha invaso lo Yoga, non è sciamanica. La stessa osservazione vale anche per le pratiche di erotica mistica e per altre pratiche magiche talvolta aberranti (implicanti il cannibalismo, l'assassinio, ecc.) che, pur avendo una origine autoctona pre-aria, non sono sciamaniche. Molte confusioni si son rese qui possibili per via dell'identificazione abusiva dello «sciamanismo» alla «mistica primitiva».

Ci limiteremo dunque a rilevare che lo stesso testo classico di Patanjali menziona alcuni «poteri» familiari allo sciamanismo: volare negli spazi, scomparire, divenire estremamente grande o estremamente piccolo, ecc. Inoltre un'allusione dello Yoga-sutra (IV, 1) alle piante medicinali (aushadhi) che proprio come la samadhi potrebbero conferire allo yogi i «poteri meravigliosi» attesta l'utilizzazione di droghe negli ambienti yogici, appunto per avere esperienze estatiche. Ma d'altra parte nello Voga classico e buddhista i «poteri» non hanno se non una parte secondaria e molti testi mettono in guardia contro il pericolo che si corre quando ci si fa tentare dal sentimento magico di potenza da essi destato, sentimento che può far dimenticare il vero scopo degli sforzi dello yogi: la liberazione finale. Per cui l'estasi che si può raggiungere usando delle droghe o con altri mezzi materiali non può esser paragonata all'estasi della vera samadhi. Peraltro noi abbiamo anche visto che nello stesso sciamanismo le droghe contrassegnano già una fase di decadenza e che si ricorre ad esse per giungere alla trance solo in difetto di mezzi propriamente estatici. Come lo Yoga barocco (popolare), così anche lo sciamanismo conosce varianti aberranti. Ma devesi di nuovo sottolineare la differenza strutturale esistente fra Voga classico e sciamanismo: benché anche il secondo conosca tecniche di concentrazione (si veda per es. l'iniziazione presso gli Eschimesi, ecc.), pure il suo scopo finale resta sempre l'estasi e il viaggio estatico dell'anima nelle varie regioni cosmiche, mentre lo Yoga persegue 1'«enstasi» («enstasi» è un neologismo introdotto dall'Autore, per designare, in opposto ad "estasi», una esperienza spirituale che, come quella yogica e iniziatica, non rappresenta un «uscire» ma piuttosto un rientrare in sé, un raggiungere il proprio centro più profondo, che è anche quello di ogni realtà; nel testo, l'uso di quel termine sta però in una certa contraddizione con l'«evasione dal cosmo»), la concentrazione suprema dello spirito e 1'«evasione» dal cosmos. Considerate le origini protostoriche dello Yoga classico non è però affatto da escludersi l'esistenza di forme intermedie di Voga sciamanico il cui scopo può esser stato la semplice realizzazione di certe esperienze estatiche.

Si potrebbero ritrovare altri elementi «sciamanici» nelle credenze indiane riferentisi alla morte e al destino del defunto. Come presso tanti altri popoli asiatici, anche qui si trovano traccie della teoria della pluralità delle anime (per es. Taittiriya-Upanishad, II, 4). Però, in genere, l'India antica credeva che l'anima dopo morte salisse in Cielo e prendesse sede vicino a Yama (Rig-Veda, X, 58) e agli antenati (pitaras). Si raccomandava al morto di non lasciarsi impressionare dai cani a quattro occhi di Yama e di andare avanti fino a raggiungere gli antenati e il dio Yama (X, 14, 10-12; Atharva-Veda, XVIII, 2, 12; VIII, 1, 9, ecc.). Nel Rig-Veda non si trovano dati precisi circa un ponte che il morto dovrebbe attraversare (Keith). Si parla di un fiume (Atharva-Veda, XVIII, 4, 7) e di una barca (Rig-Veda, X, 63, 10), il che fa pensare ad un itinerario infernale più che celeste. In ogni caso, si possono riconoscere vestigia di un antico rituale nel quale si ricordava al morto la via da seguire per raggiungere il regno dì Yama (per es. Rig-Veda, X, 14, 7-12, per i sutra cfr. Keith). E si sapeva anche che l'anima del defunto non lascia subito la terra: essa vaga nelle prossimità della sua casa per un certo tempo, che può andare fino ad un anno, Del resto, è per questa ragione che lo si invocava in occasione dei sacrifici e delle offerte fatti in suo onore (Keith).

La religione vedica e brahmanica non conosce però la nozione di un vero e proprio dio psicopompo. Rudra-Civa assolve si talvolta ad una funzione del genere, però qui si tratta di una concezione tarda e verosimilmente influenzata dalle credenze degli aborigeni pre-arii. In ogni caso nell'India vedica non si trova nulla che ricordi le guide altaiche e nord-siberiane dei defunti; al morto, veniva semplicemente indicato l'itinerario da seguire, un po' nel senso delle lamentazioni funerarie indonesiane e polinesiane e del Libro dei Morti tibetano. La presenza di uno psicopompo nel periodo vedico e brahmanico probabilmente deve esser apparsa inutile per il fatto che, malgrado tutte le eccezioni e le contraddizioni dei testi, si pensava che l'itinerario del morto avesse una direzione celeste e fosse perciò meno pericoloso della via che conduce agli Inferni.

In ogni caso l'India conobbe ben poche «discese agli Inferni». Benché l'idea di un Inferno sotterraneo si trovi già attestata nel Rig-Veda (Keith), pure i viaggi estatici nell'aldilà sono molto rari. Dal padre suo Naciketas vien dato alla «Morte» e infatti il giovane si reca nella dimora di Yama (Taittiriya-Brahmana, III, 11, 8): ma questo viaggio d'oltretomba non dà l'impressione di una esperienza «sciamanica» esso non implica un'estasi. Il solo caso nettamente attestato di un viaggio estatico nell'aldilà è quello di Bhrgu, «figlio» di Varuna (Catapatha-Brahmana, XI, 6, 1; Jaiminiya-Brahmana, I, 42-44). Il dio, dopo aver messo Bhrgu in uno stato d'incoscienza, manda la sua anima a visitare le varie regioni cosmiche e gli Inferni. Bhrgu assiste anche ai castighi riservati a coloro che si son resi colpevoli di certi delitti rituali. L'incoscienza di Bhrgu, il suo viaggio estatico attraverso il cosmo, i castighi di cui è testimone e che in seguito gli vengono spiegati dallo stesso Varuna - tuto ciò ci ricorda l'Arda Virai: naturalmente, con tutta la differenza esistente fra un viaggio d'oltretomba che dà un'imagine completa delle sanzioni post-mortem (come ne è il caso nell'Arda Virai) e un viaggio estatico che rivela soltanto un numero limitato di situazioni. Però nell'un caso come nell'altro resta visibile uno schema di viaggio iniziatico nell'oltretomba ripreso e interpretato da ambienti ritualisti.

Qui sarebbe il caso di ricordare i motivi «sciamanici» che sono sopravvissuti nelle figure cosi complesse di Varuna, di Yama e di Nirrti. Sul piano a lui proprio, ciascuno di questi dèi è un «dio che lega». Numerosi sono gli inni vedici ove si parla dei «lacci di Varuna». I lacci di Yama (yamasya pdhiça - Atharva-Veda, VI, 96, 2, ecc.) vengono generalmente chiamati i «lacci della morte» (mrtyupaçah, ibid., VII, 112, 2 ecc.). Quanto a Nirrti, egli incatena coloro che vuol perdere (ibid., VI, 63, 1-2; ecc.), per cui si pregano gli dèi di allontanare i «vincoli di Nirrti» (ibid., I, 31, 2). Infatti le malattie vengono concepite come dei «lacci» e la morte non è che il «legame supremo». In altra sede abbiamo studiato il simbolismo complesso nel quale s'inquadra la magia dei «vincoli». Qui basterà rilevare che certi aspetti di tale magia sono sciamanici. Se è vero che i «lacci» e i «nodi» figurano fra gli attributi più specifici del dio della morte, e non soltanto in India e nell'Iran, ma anche altrove (Cina, Oceania) pure gli stessi sciamani posseggono dei lacci e dei lassos destinati allo stesso uso: catturare le anime vagabonde che hanno lasciato il corpo. Gli dèi e i demoni della morte catturano le anime dei defunti con una rete; lo sciamano tunguso, ad esempio, si serve di un lasso per riprendere l'anima fuggitiva di un malato (Shirokogorov). Ma il simbolismo della «legatura» oltrepassa per ogni rispetto lo sciamanismo propriamente detto: è soltanto nella stregoneria dei «nodi» e dei «legamenti» che si possono ritrovare alcune analogie con la magia sciamanica.

Infine ricorderemo l'ascensione estatica di Arjùna sul monte di Civa, con tutte le epifanie luminose ad essa relative (Mahabharata, VII, 80, sgg.): pur senza essere «sciamanica», essa rientra nella categoria delle ascese mistiche alla quale anche l'ascensione sciamanica appartiene. Quanto alle esperienze luminose, ci si ricorderà del quamaneq dello sciamano eschimese, del «lampo», o «illuminazione», che d'un tratto gli fa vibrare tutto il corpo (cfr. sopra). La «luce interiore» che lampeggia come effetto di lunghi sforzi di concentrazione e di meditazione è ben nota a tutte le tradizioni religiose e si trova ampiamente attestata in India, partendo dalle Upanishad fino al tantrismo (cfr. sopra). Abbiamo ricordati questi pochi esempi per indicare i quadri ai quali si possono ricondurre certe esperienze sciamaniche: perché - e noi l'abbiamo spesso ripetuto nel corso di quest'opera - lo sciamanismo nel suo insieme non è sempre e necessariamente una mistica aberrante e tenebrosa.

Di passata, segnaliamo anche la presenza del tamburo magico e la parte che esso ha nella magia indiana. La leggenda riferisce talvolta l'origine divina del tamburo: secondo una tradizione, un naga (spirito-serpe) avrebbe rivelato al re Kanishka l'efficacia del ghanta pei riti per la pioggia. Qui si può sospettare un'influenza del substrato non-ario, tanto più che nella magia delle popolazioni aborigene dell'India (magia che, senza esser sempre di struttura sciamanica, confina tuttavia con lo sciamanismo) i tamburi hanno una parte considerevole. È anche per tale ragione che noi non affronteremo lo studio del tamburo nell'India non-aria, né quello del culto dei crani, che ha tanta importanza nel lamaismo e in diverse sette indiane d'indirizzo tantrico. Alcuni dettagli verranno riferiti più oltre, rinunciando però ad un'esposizione completa.

 

 

 

 

 

 

Lo sciamanismo presso alcune tribù aborigene dell'India

back to index

 

Grazie alle ricerche dello Elwin, conosciamo a sufficienza lo sciamanismo dei Saora, popolazione aborigena dell'Orissa di grande interesse etnologico. Qui riporteremo soprattutto le autobiografie degli sciamani, uomini e donne, saora: esse presentano una straordinaria affinità con i «matrimoni iniziatici» degli sciamani siberiani che abbiamo studiato sopra. Si sottolineano tuttavia due divergenze: 1) poiché i Saora hanno tanto degli uomini che delle donne sciamano, e poiché queste ultime son talvolta anche più numerose dei primi, entrambi i sessi contraggono questi matrimoni con un essere dell'altro mondo; 2) mentre le «spose celesti» degli sciamani siberiani abitano il cielo o, in qualche caso, la steppa, gli sposi spirituali dei Saora abitano tutti il mondo sotterraneo, il regno delle ombre.

Kintara, uno sciamano di Hatibadi, confidò ad Elwin quanto segue: «Avevo circa dodici anni quando una donna-spirito tutelare chiamata Jangmai venne a me in sogno e mi disse: "Io son contenta di te; io ti amo; t'amo tanto che mi devi sposare". Io però rifiutai, e per un anno intero ella venne regolarmente a farmi la corte, cercando di piegarmi. Nondimeno, la respinsi sempre fino al giorno in cui, finalmente, si stizzi ed inviò il suo cane (una tigre) a mordermi. Ciò mi spaventò ed accettai di sposarla. Ma, quasi immediatamente, un'altra protettrice venne a pregarmi di sposar lei. Quando la prima delle due ragazze lo seppe, mi disse: "Ero la prima ad amarti, e ti considero mio marito. Ed adesso ne ami un'altra: ma non lo permetterò! ". Di conseguenza, risposi" no" alla seconda ragazza. Ma la prima, nella sua rabbia e nella sua gelosia, mi rese folle, mi trascinò nella jungla e mi sottrasse la memoria. Durante un intero anno fece di me quel che volle». Infine, i genitori del ragazzo fecero ricorso allo sciamano di un vicino villaggio e la prima ragazza parlò per sua bocca: «Non abbiate paura! Intendo sposarlo ... Aiuterò il ragazzo in tutte le sue difficoltà». Soddisfatto, il padre dispose il matrimonio. Cinque anni dopo, Kintara sposò una donna del suo villaggio. Dopo le nozze Jangmai, la protettrice, si rivolse a Dasuni, la giovane sposa, per bocca del loro comune marito e disse: «Ora tu ti accingi a vivere con mio marito. Attingerai la sua acqua, monderai il suo riso e cuocerai il suo cibo: tu farai tutto, io non posso far niente. Io devo vivere nel mondo sotterraneo. Tutto ciò che posso fare è di prestare aiuto quando sopravvengono dei fastidi. Dimmi, mi onorerai o verrai a contesa con me?». Dasuni rispose: «Perché dovrei prendermela con te? Tu sei una donna-dio ed io ti darò tutto quello di cui avrai bisogno». Jangmai fu contenta di questa risposta e disse: «Va bene. Tu ed io vivremo come sorelle». Poi a Kintara: «Occupati di questa donna come ti sei occupato di me. Non picchiarla. Non maltrattarla». Dopo di che, se ne andò. Dalla sua moglie terrestre Kintara ebbe un figlio e tre figlie, e dalla sua protettrice un figlio e due figlie, che vivevano nel mondo sotterraneo. Quando il ragazzo venne al mondo, continuò Kintara, la protettrice «me lo recò e mi disse il suo nome; lo posò sulle mie ginocchia e mi chiese di fare quanto era necessario per nutrirlo. Quando le ebbi detto che l'avrei fatto, riparti col bambino per il mondo inferiore lo sacrificai una capra per il bambino e consacrai un vaso».

Ritroviamo lo stesso schema - visita da parte d'uno spirito, domanda di matrimonio, resistenza, periodo di crisi acuta che si risolve quando la proposta è accettata - presso le ragazze «scelte» per divenir sciamane. «Il sogno che costringe una ragazza ad accettare la sua professione e la segna del sigillo del consenso sovrannaturale prende la forma di visite da parte di un pretendente del mondo sotterraneo che le propone il matrimonio, con tutte le sue conseguenze estatiche e numinose. Questo "marito" è un indù, bello e prestante, ricco e osservante molti costumi stranieri ai Saora. Secondo la tradizione, egli viene nel cuore della notte; quando entra nella camera, tutti gli abitatori della casa sono presi da un incantesimo e dormono un sonno di morte. A tutta prima, e quasi in tutti i casi, la ragazza rifiuta perché la professione di sciamano è al tempo stesso ardua e piena di pericoli. Allora comincia ad essere tormentata da incubi: il suo amante divino la porta nel mondo sotterraneo o minaccia di farla cadere da una grande altezza. In genere si ammala; capita anche che perda la ragione per un certo periodo ed erri, pateticamente scapigliata, per i campi ed i boschi. A questo punto interviene la famiglia. Siccome, nella maggior parte dei casi, la ragazza ha già ricevuto da qualche tempo un'educazione' ed una preparazione, ognuno sa quel che l'attende, ed anche se non racconta ella stessa ai suoi genitori quello che sta capitando, costoro ne hanno generalmente un'idea ben precisa. Nondimeno, è necessario che la ragazza stessa confessi ai genitori d'essere stata " chiamata", d'aver rifiutato e d'essere ora in pericolo. Ciò le solleva immediatamente lo spirito dal peso della colpa e dà ai genitori piena libertà d'azione: senza indugio, essi combinano il matrimonio della figlia col suo protettore.

«Dopo il matrimonio, il marito-spirito della sciamana le rende regolarmente visita restando con lei fino all'alba. Può anche succedere, talvolta, che la conduca per diversi giorni nella jungla ove la nutre di vino di palma. Quando il momento è giunto, viene al mondo un bambino e il padre-spirito lo reca ogni notte alla moglie perché se ne occupi. Ma la loro relazione non è essenzialmente sessuale; il fatto importante è che il marito protettore ispira ed istruisce la giovane donna in sogno e che, quando costei si accinge ad assolvere alle sue sacre funzioni, le si asside vicino e le dice quel che deve fare» (Elwin).

Una sciamana rammenta la prima visita che le rese, in sogno, uno spirito protettore «vestito di eleganti abiti indù». Ella lo rifiutò e per questo, dice, «egli mi sollevò in un turbine e mi portò fino ad un albero immenso, ove mi fece sedere su di un fragile ramo. Cominciò allora a cantare e, mentre cantava, a farmi oscillare a destra e a sinistra. Fui talmente terrorizzata all'idea che stavo per cadere da una tale altezza che mi affrettai ad accettare di sposarlo». Si saranno riconosciuti certi motivi tipicamente iniziatici: il turbine, l'albero, l'oscillazione.

Un'altra sciamana era già sposata ed aveva un bambino quando ricevette la visita d'un protettore e cadde malata. «Feci cercare una sciamana e Rasuno (lo spirito protettore) venne e parlò per sua bocca: "Intendo sposarla; se non accetta, impazzirà"». Suo marito e lei cercarono, ma invano, di resistere offrendo sacrifici per il protettore. Infine, fu costretta ad accettare ed apprese in sogno l'arte sciamanica. Ebbe due figli nel mondo sotterraneo.

Nella seduta sciamanica dei Saora, lo sciamano è posseduto dallo spirito del protettore o del dio invocato che parla a lungo con la sua voce È questo spirito che, dopo aver preso possesso dello sciamano o della sciamana, rivela la causa della malattia e dice quale azione va compiuta (generalmente un sacrificio o delle offerte). Lo «sciamanismo» per possessione è pure conosciuto in altre provincie dell'India. Cfr. Harper sulle pratiche sciamaniche del Mysore nord-occidentale. Queste son dei fenomeni di possessione e non implicano necessariamente una struttura ed un'ideologia sciamanica. Si troveranno altri esempi - correttamente presentati come casi di possessione da parte di dèi o demoni - nell'eccellente monografia di Dumond.

Il «matrimonio con uno spirito» degli sciamani sacra sembra essere un fenomeno unico nell'India aborigena; comunque, non è d'origine kolariana. Questa è una delle conclusioni cui è pervenuto lo studio comparativo riccamente documentato di Rahmann. Citeremo alcune delle conclusioni di quest'importante saggio.

1. L'elezione «sovrannaturale» del futuro sciamano è indispensabile presso i Saora (Savara), i Bondo, i Birhor ed i Baiga. Presso i Baiga, i Khond ed i Bondo, l'elezione «sovrannaturale» è necessaria anche se la funzione di sciamano è ereditaria. Presso i Juang, i Birhor, gli Oraon ed i Muria, 1'«eletto» generalmente presenta i caratteri psichici tipici dello sciamanismo.

2. L'istruzione sistematica dei futuri sciamani è obbligatoria in un considerevole numero di tribù (Santal, Munda, Saora, Baiga, Oraon, Bhil, ecc.). Si rinvengono prove indiscutibili dell'esistenza d'una cerimonia d'iniziazione presso i Santal, i Munda, i Baiga, gli Oraon ed i Bhil, e v'è ragione di credere che questa cerimonia esista anche presso i Korku e i Maler.

3. Gli sciamani hanno spiriti protettori personali presso i Santal, i Saora, i Korwa, i Birhor, i Bhuiya, i Baiga, gli Oraon, i Khond ed i Maler. «Poiché i ragguagli di cui si dispone sulla maggior parte di queste tribù sono incompleti ed un po' vaghi, si può supporre, senza timore d'errare, che le caratteristiche di cui abbiamo parlato compaiano in realtà in maggior numero e più nettamente che non sia possibile indicarle sulla base dei documenti di cui disponiamo. Ma il materiale già presentato garantisce l'affermazione generale che nella magia e nello sciamanismo del Nord e del Centro dell'India si trovano i seguenti elementi: delle scuole di sciamani o almeno una certa preparazione sistematica dei candidati; un'iniziazione; uno spirito protettore personale; una chiamata da parte d'uno spirito o d'un dio».

4. Tra gli accessori utilizzati dallo sciamano, la cesta da vagliatura riveste il ruolo più importante. «Il vaglio è un elemento antico della cultura dei popoli munda». Esattamente come lo sciamano siberiano che provoca la trance battendo il tamburo, i maghi del nord e del centro dell'India «cercano di ottenere lo stesso risultato scuotendo il riso nel vaglio». Questo spiega l'assenza quasi totale del tamburo nello sciamanismo dell'India centrale e settentrionale. «Il vaglio ha pressappoco la stessa funzione».

5. Delle scale hanno una loro parte nei rituali sciamanici di alcuni popoli. Il barua baiga «si costruisce un piccolo altare davanti al quale pianta due alberi. Presso l'altare possono anche esservi: una scala di legno, un bilanciere, una corda ornata di punte di ferro, una catena di ferro con punte acuminate, una tavola irta di punte e dei sandali trapassati da chiodi taglienti. Durante la trance, egli sale talvolta sulla scala senza toccarla con le mani e si flagella con gli strumenti menzionati. Risponde alle domande o dall'alto della scala, o dalla tavola a punte». La scala sciamanica è anche attestata presso i Gond di Mohaghir (cfr. Koppers). William Crooke riferisce che lo sciamano dei Dusadh e dei Djangar (tribù della parte orientale dell'antica Provincia del Nord-Ovest dell'India) costruisce una scala con lame di spada in legno, «sulla quale il sacerdote è tenuto a salire posando la pianta dei piedi sul filo delle armi. Quando raggiunge la cima, decapita un gallo bianco che è attaccato sopra la scala». Presso i Saora, «si fa passare un bambù attraverso il tetto della casa nella quale si compie il rito, in modo che si drizzi sul suolo della stanza principale... La sciamana stese una stuoia nuova davanti al bambù e fece trafiggere un gallo su un ramo che usciva dalla scala» (Rahmann). Elwin lo chiama " scala celeste".

6. Correttamente, Rahmann interpreta come una rappresentazione dell'Albero Cosmico «il monticello di terra con l'arbusto di basilico che l'ojha santal ed il marang deora munda tengono in casa. ...Lo stesso simbolismo della montagna del mondo o dell'albero sciamanico si ritrova anche nel pezzo d'argilla connesso col serpente di ferro ed il tridente nella scuola degli sciamani-serpenti oraon, nella pietra cilindrica impiegata durante la consacrazione preliminare (cerimonia pre-iniziatica) degli sciamani santal, come anche nel seggio girevole dei Munda nonché, per finire, nella pietra che il sokha oraon, in una visione notturna, vede come imagine di Civa».

7. In un gran numero di tribù, lo sciamano richiama l'anima del trapassato tra il terzo e il decimo giorno dopo la morte. Ma non si trova alcuna prova dell'esistenza del rituale altaico e siberiano tipico dello sciamano che accompagna l'anima del defunto nel paese dei morti.

Concludendo, Rahmann fa la considerazione che lo «sciamanismo consiste essenzialmente in una relazione specifica con uno spirito protettore, relazione che si manifesta come segue: lo spirito s'impossessa dello sciamano che diviene suo medium, compenetrandolo per investirlo d'una conoscenza e di poteri superiori, massime nei confronti di (altri) spiriti». Questa definizione rende conto mirabilmente delle caratteristiche dello sciamanismo dell'India centrale e settentrionale, ma non sembra potersi applicare ad altre forme di sciamanismo - come, per esempio, a quello dell'Asia centrale e settentrionale. Gli elementi «ascensionali» (scale, pilastro, albero sciamanico, axis mandi, ecc.) - sui quali, come abbiamo visto, l'autore non ha mancato d'attirare l'attenzione - esigono una definizione più precisa dello sciamanismo. Dal punto di vista storico, l'autore conclude che «fenomeni sciamanici si sono certamente prodotti in India prima dell'avvento dello shaktismo, e (che) non sarebbe corretto supporre che quest'ultimo non abbia influenzato i popoli munda».

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 12: Tecniche e simbolismi sciamanici nel Tibet e nell'Estremo Oriente

 

 

Buddhismo, Tantrismo, Lamaismo

back to index

 

Quando il Buddha, dopo l'illuminazione, tornò a visitare per la prima volta la sua città nativa, Kapilavastu, egli fece mostra di alcuni «poteri miracolosi». Per convincere i suoi delle sue forze spirituali e per propiziare la loro conversione egli s'innalzò nello spazio, tagliò a pezzi il proprio corpo e fece ricadere per terra la sua testa e le sue membra, che poi ricompose sotto gli occhi attoniti degli spettatori. Questo miracolo vien anche ricordato da Açvagosha (Buddha-carita-kavya, vv. 1551 sgg.), ma è cosi intimamente legato alla tradizione della magia indiana da divenire il prodigio-tipo del fachirismo. Il famoso rope-trick dei fachiri crea l'illusione di una corda che si drizza verso il cielo, sulla quale il maestro fa arrampicare un giovane discepolo finché questi scompare agli sguardi degli spettatori. Allora il fachiro lancia in aria un coltello - e si vedono le membra del giovane cadere l'una dopo l'altra al suolo. Inutile ripetere che noi prescindiamo dalla «realtà» di questa operazione magica. A noi interessa unicamente vedere in che misura tali fenomeni magici presuppongono una ideologia e una tecnica sciamanica.

In India il rope-trick ha un'antica storia e può essere ravvicinato a due riti sciamanici: a quello dello smembramento iniziatico del futuro sciamano ad opera dei «demoni», e a quello dell'ascensione al Cielo. Ci si ricorderà dei «sogni iniziatici» degli sciamani siberiani: il candidato assiste allo spezzettamento del proprio corpo da parte delle anime degli antenati o degli spiriti malvagi. Ma poi le sue ossa vengono riunite e saldate con del ferro. La carne viene rinnovata e il futuro sciamano, risuscitando, si trova ad avere un «corpo nuovo» che gli permette di colpirsi impunemente con dei coltelli, di trafiggersi con delle spade, di toccare ferro incandescente, ecc. Ora, è degno di nota il fatto che i fachiri indiani godano la fama di saper compiere gli stessi prodigi. Nel rope-trick essi, in un certo modo, effettuano nella persona dei loro assistenti lo stesso «smembramento iniziatico» che i loro colleghi siberiani subiscono in sogno. Del resto il rope-trick, benché sia divenuto una specialità del fachirismo indiano, lo si incontra anche in regioni ben distanti l'una dall'altra, in Cina, a Giava, nell'antico Messico, nell'Europa medievale. Il viaggiatore marocchino Ibn Battuta ebbe ad osservarlo in Cina nel XIV secolo: «Ora, egli prese una palla di legno che aveva vari fori, per i quali passavano lunghe correggie. La gettò in aria ed essa s'innalzò tanto che non la vedemmo più ... Quando in mano non gli restò più che l'estremità di una correggia, il giocoliere ordinò ad uno dei suoi apprendisti di attaccarsi ad essa e di salire in aria - cosa che questi fece, fino a che spari dai nostri sguardi. Il giocoliere lo chiamò tre volte senza ottenere risposta: allora, come se fosse furibondo, prese un coltello, si arrampicò sulla corda e scomparve anche lui. Dall'alto caddero per terra una mano del giovane, poi un piede, poi l'altra mane il corpo e la testa. Egli discese sbuffando, con le vesti macchiate di sangue… L'Emiro avendogli ordinato qualcosa, il nostro uomo prese le membra del ragazzo, le attaccò pezzo per pezzo, ed ecco che il ragazzo sorse in piedi dritto. Ciò mi srupi molto, ne ebbi una palpitazione di cuore simile a quella di cui soffrii presso il re d'India quando fui testimone di una scena analoga». Melton lo osservò a Batavia nel XVII secolo e Sahagiin, in termini quasi identici, nel Messico. Quanto all'Europa, partendo dal XIII secolo molti testi accennano a prodigi del tutto simili eseguiti da stregoni e da maghi che, inoltre, possedevano la facoltà di volare e di rendersi invisibili proprio come gli sciamani e gli yogi. Vedi i numerosi esempi raccolti da Jacoby e da Eliade (Mefistofele e l'androgine). È tuttora difficile decidere formalmente se il rope-trick degli stregoni europei sia dovuto ad una influenza della magia orientale o se esso derivi da antiche tradizioni sciamaniche autoctone. Il fatto che, per un lato, il rope-trick appare attestato nel Messico e che, dall'altro, lo smembramento iniziatico del mago noi lo incontriamo anche in Australia, in Indonesia e nell' America del Sud ci fa credere che in Europa potrebbe trattarsi di una sopravvivenza di tecniche magiche locali, pre-indoeuropee.

Il rope-trick fachirico non è che una variante spettacolare dell'ascensione celeste dello sciamano: la quale ha sempre un carattere simbolico, perché il corpo dello sciamano non scompare e il viaggio celeste ha luogo «in ispirito». Ma il simbolismo della corda, come quello della scala, implica necessariamente l'idea di una comunicazione fra Cielo e Terra. Facendo da mezzo una corda o una scala (in altri casi, anche una liana, un ponte, una catena di freccie, ecc.), gli dèi discendono in terra e gli umani salgono in cielo. È, questa, una tradizione arcaica largamente diffusa che noi ritroviamo anche in India e nel Tibet. Il Buddha discende dal Cielo Trayastrimça per una scala, con l'intenzione di «battere la via degli umani»: da tale scala si possono vedere, in alto, tutti i Brahmaloka, e in basso le profondità degli Inferni, perché essa è un vero Axis mundi posto nel Centro dell'universo. Questa scala miracolosa si trova raffigurata nei bassorilievi di Bharhut e di Sanci, e nella pittura buddhista tibetana vien data anche come quella che serve agli umani per salire in Cielo.

Nel Tibet la funzione rituale e mitologica della corda appare ancor più nettamente attestata, specie nelle tradizioni prebuddhiste. Gna-k'ri-bstan-po, primo re del Tibet, sarebbe disceso dal Cielo per mezzo di una corda detta rmu-t'ag. Questa corda mitica è stata anche raffigurata sulle tombe reali, ad indicare che i sovrani dopo morte salgono in Cielo. Del resto, la comunicazione fra Cielo e Terra per i re non si sarebbe mai interrotta. E i Tibetani credono che nei tempi antichi i principi non morivano, ma salivano in Cielo, concezione che tradisce il ricordo di un tal quale «paradiso perduto».

Sempre nelle tradizioni Bon si parla di un clan dMu, nome che in pari tempo designa una certa classe di dèi: questi abitano il Cielo e i morti li raggiungono salendo una scala o arrampicandosi su per una corda. Una volta esisteva, in terra, una categoria di sacerdoti che pretendevano di esser in grado di guidare i defunti in Cielo perché erano i padroni della corda o della scala: erano i dMu (Tucci). Questa corda, che a quei tempi collegava la Terra al Cielo e serviva per l'ascesa dei morti verso la dimora celeste degli dèi dMu, da altri sacerdoti Bon fu sostituita con la corda divinatoria. Forse questo stesso simbolo sopravvive nella striscia di stoffa dei Na-khi, che rappresenta il «ponte dell'anima per andare nel regno degli dèi» (Tucci). Elementi del genere fan parte integrante del complesso sciamanico dell'ascensione e della psicopompia.

Sarebbe assurdo voler esaurire in qualche pagina l'esame di tutti gli altri motivi sciamanici presenti nei miti e nei rituali Bon-po, e sopravviventi nel lamaismo e nel tantrismo indo-tibetano. I sacerdoti Bon-po non si distinguono in nulla dai veri sciamani: son anche distinti in Bon-po «bianchi» e Bonpo «neri», benché sia gli uni che gli altri usino il tamburo nei loro riti. Alcuni dicono di essere «posseduti dagli dèi»; la maggior parte di essi pratica gli esorcismi (Tucci). Una categoria di Bon-po si dà il titolo di «possessori della corda celeste». I pawo ed i nyen-jomo sono medium, uomini e donne, considerati dai buddhisti come tipici rappresentanti del Bon. Non dipendono dai monasteri Bon del Sikkim e del Bhutan e sembrano esser le vestigia del Bon nella sua forma più antica, non organizzata, quale esisteva prima che il «Bon bianco» (Bon dtkar) si fosse sviluppato secondo l'esempio del buddhismo (Nebesky-Wojkowitz). Sembra ch'essi giungano ad esser posseduti dagli spiriti dei morti e che, durante la trance, entrino in comunicazione con le loro divinità protettrici. Quanto ai medium Bon, una delle loro principali funzioni era quella «di far da portavoce temporaneo degli spiriti dei morti, che dovevano poi esser condotti nell'altro mondo».

Si crede che gli sciamani Bon impieghino i loro tamburi come veicoli che permettono loro di spostarsi nell'atmosfera. Il volo di Narobon-chung in occasione del suo torneo magico con Milarèpa ne è un esempio classico. «La leggenda secondo la quale gShen-rab-mi-bo volava su una grande ruota di cui occupava la posizione centrale mentre i suoi otto discepoli erano seduti sugli otto raggi, può ben rappresentare una sopravvivenza d'una tradizione consimile». È probabile che in origine il veicolo fosse il tamburo sciamanico, sostituito più tardi dalla ruota; simbolo buddhista. La cura dello sciamano Bon comporta la ricerca dell'anima del malato (cfr. Hoffmann), tecnica specificamente sciamanica. Una cerimonia analoga ha luogo quando l'esorcista tibetano è chiamato a guarire un malato: egli intraprende una ricerca dell'anima del paziente. Il richiamo dell'anima del malato esige talora un rituale estremamente complesso implicante oggetti (fili di cinque diversi colori, freccie, ecc.) ed effigi. Nebesky-Wojkowitz ha recentemente messo in evidenza altri elementi sciamanici nel lamaismo tibetano. Nell'oracolo dello Stato, la trance profetica, indispensabile alla divinazione cerimoniale, presenta un carattere parasciamanico molto accentuato.

Il lamaismo ha conservato quasi integralmente la tradizione sciamanica dei Bon. Si vuole che anche i maestri più famosi del buddhismo tibetano abbiano operato guarigioni e fatto miracoli della più pura tradizione sciamanica. Certi fattori che han contribuito all'elaborazione del lamaismo sono verosimilmente di origine tantrica e, forse, indiana. Ma non è sempre facile distinguere: quando, secondo una leggenda tibetana, Vairochana, discepolo e collaboratore di Padmasambhava, scaccia dal corpo della regina Ts'epongs'a lo spirito della malattia sotto forma di una spilla nera, ci troviamo di fronte ad una tradizione indiana oppure tibetana? Padmasambhava non soltanto fa mostra della ben nota facoltà di volo magico propria ai Bodhisattva e agli Arhat, perché anche lui attraversa gli spazi, s'innalza al Cielo e diviene Bodhisattva - ma nella leggenda che lo riguarda si trovano anche tratti puramente sciamanici: sul tetto della sua casa egli balla una danza mistica vestito soltanto dei «sette ornamenti di ossa» (Bleichsteiner, p. 67), il che rimanda al costume degli sciamani siberiani.

Si sa della parte che i crani e i femori umani hanno nelle cerimonie tantriche e lamaiste. Vedi Eliade, Le Yoga, sugli Aghod e i KapaIika («portatori di crani»). È verosimile che queste sette, ascetiche e orgiastiche ad un tempo, che praticavano i! cannibalismo ancora alla fine del XIX secolo, abbiano assimilato certe tradizioni aberranti aventi relazione col culto dei crani. Il quale, del resto, spesso implica la manducazione rituale dei genitori - cfr. il costume degli Issedoni notato da Erodoto. I Tibetani usavano i crani dei loro padri proprio come gli Issedoni, ma oggi il culto domestico è scomparso e secondo Laufer la parte che hanno i crani sembra essere una innovazione tantrica (çivaita). È però possibile che le influenze indiane si siano sovrapposte ad un antico fondo di credenze locali; cfr. la funzione religiosa e divinatoria dei crani degli sciamani presso gli Yukaghiri (Jochelson). Sulle relazioni protostoriche fra il culto dei crani e l'idea del rinnovarsi della vita cosmica, in Cina e in Indonesia, cfr. Hentze. La danza dello scheletro ha un'importanza tutta speciale nelle scenografie drammatiche dette tcham che, fra l'altro, intendono familiarizzare gli spettatori con le imagini terribili delle divinità protettrici che si manifesterebbero nello stato del bardo, cioè nello stato intermedio fra la morte e una nuova incarnazione. Da tale punto di vista il tcham può esser considerato come una cerimonia iniziatica, perché implica certe rivelazioni concernenti esperienze dell'aldilà. Ora, è sorprendente in che misura questi costumi e queste maschere tibetane in forma di scheletro ricordino i costumi degli sciamani dell'Asia centrale e settentrionale. In certi casi, la cosa va senz'altro spiegata con influenze lamaiste, influenze testimoniate, del resto, da altri ornamenti del costume sciamanico siberiano e perfino da certe forme del tamburo. Però non si deve subito concludere che la parte che ha lo scheletro nel simbolismo del costume sciamanico dell'Asia settentrionale sia unicamente dovuta ad una influenza lamaista. Una tale influenza, quand'anche si sia davvero esercitata, non ha fatto che consolidare concezioni autoctone antichissime connesse alla sacralità delle ossa degli animali epperò anche delle ossa umane (vedi più su). Quanto all'imagine del proprio scheletro, che ha una parte così importante nelle tecniche di meditazione del buddhismo mongolo, non dobbiamo dimenticarci che l'iniziazione dello sciamano eschimese implica parimenti la contemplazione del proprio scheletro: ci si ricorderà che il futuro angakok separa col pensiero dal suo corpo la carne e il sangue facendo restare le sole ossa. Salvo ulteriori, più ampie informazioni, v'è pertanto da credere che un tale tipo di meditazione appartenga ad uno strato arcaico, pre-buddhista di spiritualità che in un qualche modo si legava all'ideologia dei popoli cacciatori (sacralità delle ossa) e che conosceva una «estrazione» dell'anima dal proprio corpo in vista del viaggio mistico, cioè dell'estasi.

Nel Tibet esiste un rito tantrico chiamato tchöd (gtchod), che ha una struttura nettamente sciamanica: esso consiste nell'offrire la propria carne ai demoni, a che essi la divorino - il che ricorda singolarmente lo smembramento iniziatico del futuro sciamano ad opera dei «demoni» e delle anime degli antenati. Ecco il riassunto che ne dà Bleichsteiner: «Al suono di un tamburo fatto di crani umani e di una tromba ricavata da un femore, ci si dà alla danza e si invitano gli spiriti a venire e a festeggiare. La potenza della meditazione fa sorgere una dea con una spada snudata; essa si slancia su chi offre il sacrificio, lo decapita e lo fa a pezzi; allora i demoni e le belve si gettano su questi avanzi palpitanti, divorandone la carne e bevendone il sangue. Le parole da pronunciare fan cenno a certi Jataka, ove si narra come il Buddha, in una precedente incarnazione, abbia dato la propria carne ad animali affamati e a demoni antropofagi. Però, malgrado questa affabulazione buddhista - conclude Bleichsteiner - qui si tratta di un sinistro mistero che risale a tempi più primitivi».

Ci si ricorderà che un rito iniziatico analogo lo abbiamo già incontrato fra certe tribù nord-americane. Nel caso del tchod ci troviamo di fronte alla transvalutazione mistica di uno schema di iniziazione sciamanica, Il lato «sinistro» riguarda soprattutto le apparenze: si tratta, di fatto, di una esperienza di morte e resurrezione che, come tutte le altre di questa classe, è «terrifica». Il tantrismo indo-tibetano ha spiritualizzato ancor più radicalmente lo schema iniziatico della «messa a morte» per mano dei demoni. Ecco alcune meditazioni tantriche aventi per oggetto lo spogliamento del corpo dalla sua carne e la contemplazione del proprio scheletro. Lo yogi deve raffigurarsi il corpo come un cadavere e la propria intelligenza come una Dea irritata, ad una faccia e con due mani che reggono un coltello e un cranio. «Pensa che ella tronca la testa al cadavere e ne fa a pezzi il corpo, gettando questi pezzi nel cranio come una offerta alle divinità». Un altro esercizio consiste nel veder se stessi come «uno scheletro bianco, luminoso ed enorme, donde si sprigionano tali fiamme da riempire il Vuoto dell'universo». Infine una terza meditazione propone allo yogi di contemplarsi come se egli fosse trasformato in una dakini irata in atto di strapparsi la pelle dal corpo. Il testo continua: «Stendi questa pelle in modo da ricoprire l'universo... Su di essa ammucchia tutte le tue ossa e tutta la tua carne. E quando gli spiriti malvagi godranno tutti dalla testa, imagina che la dakini irata prende la pelle, l'arrotola ... e la scaglia per terra così violentemente da ridurla insieme al suo contenuto, ad una poltiglia di carne e di ossa che orde di belve, prodotte mentalmente, divoreranno».

Anche da questi pochi riferimenti ci si può render conto delle trasformazioni che può subire uno schema sciamanico quando va ad integrarsi in un sistema filosofico complesso, quale è il tantrismo. Per noi, l'importante qui è costituito dal sopravvivere di certi simboli e di certi metodi sciamanici anche in tecniche di meditazione assai elaborate e miranti a scopi diversi dall'estasi. Tutto ciò ci sembra illustrare a sufficienza l'autenticità e il valore spirituale iniziatico di più di un'esperienza sciamanica.

Accenniamo brevemente a qualche altro elemento sciamanico dello Yoga e del tantrismo indo-tibetano. Il «calore mistico», che si è visto esser già attestato nei testi vedici, ha una parte considerevole nelle tecniche yogico-tantriche. Cotesto «calore» lo si provoca per ritenzione del respiro (cfr. Majjhimanikaya, I, 244, ecc.) e specialmente per «trasmutazione» della forza sessuale (cfr. Yoga tibétain, pp. 168, 201, 205 sgg.), pratica yogico-tantrica piuttosto oscura, basata sul pranayama unito a varie «visualizzazioni». Certe prove iniziatiche indo-tibetane consistono appunto nel verificare il grado di preparazione di un discepolo mediante la sua capacità di far asciugare, in una notte d'inverno e in mezzo alla neve, una certa quantità di panni bagnati applicati al suo corpo nudo. Questo «calore mistico» in tibetano si chiama gtum-mö (pronuncia tumo). «Dei panni vengono immersi nell'acqua ghiacciata: vi si gelano e vengono estratti rigidi. Ogni discepolo ne prende uno e deve sgelarlo ed asciugarlo avvolgendolo intorno al proprio corpo. Quando il panno diviene asciutto, viene immerso daccapo nell'acqua e il candidato se lo avvolge intorno di nuovo. L'operazione dura fino allo spuntar del giorno. Allora colui che ha asciugato il maggior numero di panni è proclamato primo nella gara". Una prova analoga caratterizza l'iniziazione dello sciamano manciù (vedi più su), il che può esser dovuto ad una influenza lamaista. Però il «calore mistico» non è una creazione esclusiva della magia indo-tibetana: abbiamo citato l'esempio di quel giovane eschimese del Labrador che restò cinque giorni e cinque notti sulla superficie gelata del mare e che, dimostrando di non essersi nemmeno bagnato, ottenne immediatamente il titolo di angakok. Il calore intenso provocato nel proprio corpo è in diretta relazione col «dominio del fuoco», ed è fondato considerare quest'arte come appartenente ad un retaggio affatto arcaico.

Di struttura sciamanica è parimenti il testo che è stato chiamato Il libro tibetano del morto. Benché, di rigore, non si tratti di una guida psicopompa, pure la parte che ha il sacerdote quando legge, ad uso del morto, i testi rituali concernenti gli itinerari del post-mortem può esser paragonata alla funzione dello sciamano altaico o goldo che accompagna simbolicamente il morto nell'aldilà. Questo Bardo thödol rappresenta qualcosa di intermedio fra il racconto dello sciamano psicopompo e le laminette orfiche che indicavano sommariamente al defunto le direzioni propizie da scegliere nel suo viaggio nell'aldilà: ed esso è anche per più di un tratto analogo ai canti funerari indonesiani e polinesiani. Un manoscritto tibetano di Tuen-huang intitolato Esposto sul cammino del morto, recentemente tradotto, descrive le direzioni da evitare, come tali figurando anzitutto quella verso il «Grande Inferno» che si trova ottomila yoiana al di sotto della terra e il cui centro è fatto di ferro incandescente. «All'interno della casa di ferro, in inferni d'ogni specie, legioni di demoni (rakshasa) torturano ed affliggono bruciando, arrostendo e facendo a pezzi». Cfr. il Monte di Ferro incontrato dallo sciamano altaico nella sua discesa agli Inferni. Le torture inflitte dai rakshasa ricordano in tutto e per tutto i sogni iniziatici degli sciamani siberiani. L'Inferno, il pretaloka, il mondo (Jambudvipa) e il Monte Meru si trovano su di uno stesso asse e il defunto è esortato ad andar direttamente verso il Meru, sulla cima del quale Indra e trentadue ministri discriminano i «transmigranti». Si riconosce facilmente, sotto la vernice delle credenze buddhiste, l'antico schema con l'Axis mundi, le comunicazioni fra le tre zone cosmiche e il Guardiano che sceglie le anime. Gli elementi sciamanici sono ancor più trasparenti nel rito funerario che comporta l'inserimento dell'anima del defunto nella sua effigie (cfr. sopra la descrizione di un rituale goldo analogo). L'effigie (o name-card) rappresenta il defunto inginocchiato, con le braccia levate in atto di supplica. Si invoca la sua anima: «Che il morto la cui effigie è fissata a questa carta venga qui. Che la coscienza di colui che ha lasciato questo mondo ed è in via di mutar corpo si concentri su quest'effigie simbolica, sia che già sia nato in una delle sei sfere o che ancora erri nello stato intermedio, o che si trovi...». Se una delle sue ossa è ancora disponibile, la si mette sulla name-card. Ci si rivolge ancora al defunto: «Ascolta, o tu che erri tra le illusioni d'un altro mondo! Vieni a questo luogo, tra i più seducenti del nostro mondo umano! Questo parapioggia sarà il tuo posto, la tua protezione, il tuo altare consacrato. Quest'effigie è il simbolo del tuo corpo, quest'osso è il simbolo della tua parola, questo gioiello è il simbolo del tuo spirito... Oh, fa' di questi simboli la tua dimora!» (ibid.). Poiché si crede che il defunto sia suscettibile di rinascere in una qualunque delle sei sfere dell'esistenza, ci si sforza di liberarlo «da ciascuna di esse, spostandone via via l'effigie intorno ai petali di loto in modo che progredisca dagli Inferni alla sfera degli spiriti infelici, poi a quella degli animali, degli uomini, dei titani e degli dèi» (ibid., p. 268). Lo scopo del rituale è quello d'impedire all'anima di incarnarsi in uno di questi sei mondi e di costringerla, invece, a raggiungere la regione di Avalokiteshvara (ibid., p. 274). Ma le tecniche che mirano a far entrare il defunto in un'effigie ed a guidarlo attraverso gli Inferni e i mondi extra-umani sono puramente sciamaniche.

Nel Tibet, molte altre idee e tecniche sciamaniche sono sopravvissute nel lamaismo. Cosi, ad esempio, i lama-stregoni lottano fra di loro usando mezzi magici proprio al modo degli sciamani siberiani (Bleichsteiner). I lama, non meno degli sciamani, esercitano un potere sui fenomeni atmosferici, volano attraverso gli spazi, eseguono danze estatiche, ecc. Il tantrismo tibetano conosce un linguaggio segreto, chiamato «lingua delle dakini», allo stesso modo che le varie scuole tantriche indiane usano il «linguaggio crepuscolare» nel quale uno stesso termine può assumere perfino tre o quattro significati diversi. Tutto ciò si avvicina, fino ad un certo segno, al «linguaggio degli spiriti», o «linguaggio segreto», degli sciamani, sia nord-asiatici, sia malesi e indonesiani. Sarebbe anzi assai istruttivo vedere in che misura le tecniche dell'estasi conducano a creazioni linguistiche e accertare il corrispondente meccanismo. Ora, si sa che la «lingua degli spiriti» degli sciamani non solo cerca di imitare le grida degli animali ma contiene anche un certo numero di creazioni spontanee che sono verosimilmente da spiegarsi con l'euforia pre-estatica e con l'estasi.

Questa rapida rassegna dei materiali tibetani ci ha dunque fatto constatare, da un lato, una certa rassomiglianza strutturale fra i riti e i miti Bon-po e lo sciamanismo, e dall'altro, la sopravvivenza di temi e tecniche sciamanici nel buddhismo e nel lamaismo. Ma forse la parola «sopravvivenza» non esprime adeguatamente il vero stato di fatto: si dovrebbe piuttosto parlare di una rivalutazione di antichi motivi sciamanici e della loro integrazione in un sistema di teologia ascetica dove uno stesso loro contenuto ha subito una modificazione radicale. Ciò, del resto, appare affatto normale, se si pensa che la stessa nozione di «anima» - fondamentalmente nell'ideologia sciamanica - doveva assumere un senso completamente diverso per via della critica buddhista. Quale pur sia la regressione che il lamaismo rappresenta rispetto alla grande tradizione metafisica buddhista, non si poteva tornare alla concezione realistica dell'anima. Basterebbe questo punto per distinguere i contenuti di una tecnica lamaista da quelli di una tecnica sciamanica.

D'altra parte, come presto vedremo, l'ideologia e le pratiche lamaiste sono penetrate profondamente nell'Asia centrale e settentrionale, contribuendo a dare a un buon numero di sciamanismi siberiani la loro attuale fisionomia.

 

 

 

 

 

 

Pratiche sciamaniche tra i Lolo

back to index

 

Come i Tai e i Cinesi, i Lolo credono che i primi uomini circolassero liberamente fra Terra e Cielo: in seguito ad un «peccato», la via è stata interrotta. Quando muore l'uomo ritrova però il cammino del Cielo: Questa è, per lo meno, l'idea che risulta da certi rituali funerari nei quali il pimo, sacerdote sciamano, legge vicino al morto preghiere che parlano delle beatitudini che lo attendono in Cielo (Vannicelli). Per raggiungere il Cielo il defunto deve però attraversare un ponte: e al suono del tamburo, cui si mescolano dei cori, vengono recitate altre preghiere intese a guidare il morto verso il ponte celeste. In tale occasione il sacerdote-sciamano toglie tre tavole dal tetto dell'abitazione a che si possa vedere il cielo: l'operazione si chiama «aprire il ponte del Cielo». Presso i Lolo dello Yunnan meridionale il rituale funebre è un po' diverso. Il sacerdote-sciamano accompagna il feretro recitando ciò che vien chiamato «il rituale del cammino»: il testo, dopo aver descritto i luoghi per cui il morto passa nel tragitto fra la casa e la tomba, continua e indica le città, i monti e i fiumi che egli dovrà attraversare prima di raggiungere i monti Taliang, patria originaria della razza Lolo. Da là, il morto si dirigerà verso l'Albero del Pensiero e l'Albero della Parola e penetrerà negli Inferni. Prescindendo dalla differenza delle due tradizioni per quanto riguarda la regione verso cui si dirige il morto, qui va rilevata la parte di psicopompo dello sciamano, per cui il rituale Lolo può esser ravvicinato al Bardo thödol tibetano e alle lamentazioni funebri indonesiane e polinesiane.

Poiché la malattia viene interpretata come una fuga dell'anima, la guarigione esige il richiamo di essa. Lo sciamano legge una lunga litania nella quale si prega l'anima del malato di tornare dai monti, dalle valli, dai fiumi, dalle foreste e dai campi lontani, da qualunque luogo essa ora si trovi a vagare (Henry, Vannicelli). In non diverso modo l'anima viene richiamata presso i Kareni della Birmania, i quali, del resto, curane in modo analogo anche le «malattie» del riso, pregando l'«anima» di esso di ritornare nel raccolto. Come presto vedremo, tale cerimonia la si ritrova fra i Cinesi. Lo sciamanismo Lolo sembra aver risentito dell'influenza della magia cinese. Il coltello e il tamburo dello sciamano 1010 hanno nomi cinesi, e cinesi sono i nomi degli «spiriti» (Vannicelli). Non solo la divinazione vien praticata nel modo cinese, ma uno dei riti loro più importanti, «la scala dei coltelli», lo si ritrova in Cina. Questo rito viene eseguito in caso di epidemia. Si costruisce una scala doppia fatta di trentasei coltelli e lo sciamano, a piedi nudi, vi sale scendendo dalla parte opposta. In tale occasione vengono anche riscaldati a bianco alcuni erpici di aratro e lo sciamano deve camminarvi sopra. Il padre Lietard rileva che questo rito è propriamente loro, tanto che i Cinesi, quando debbono compierlo, ricorrono sempre agli sciamani Lolo (Vannicelli). Si tratta, probabilmente, di un antico rito sciamanico modificato per effetto della magia cinese. Infatti le formule pronunciate durante questa cerimonia sono in lingua Lolo e solo i nomi degli spiriti sono cinesi.

Questo rito sembra assai importante: l'ascensione simbolica dello sciamano su per una scala, che ne costituisce l'essenza, rappresenta infatti una variante dell'ascesa che in altri casi ha per base un albero, un palo, una corda, ecc. Esso viene praticato in casi di epidemia, cioè di estremo pericolo per la comunità, e qual pur sia il suo significato attuale, il suo senso originario era un ascendere in Cielo per incontrarvi il Dio supremo e pregarlo di por fine al flagello. Come vedremo, questo uso simbolico della scala si trova attestato anche altrove in Asia. Pel momento, aggiungiamo che lo sciamano chingpo dell'Alta Birmania sale per una scala fatta di lame quando viene iniziato. Lo stesso rito iniziatico lo ritroviamo in Cina, è però probabile che nel riguardo si abbia a che fare con un'eredità protostorica comune a tutti questi popoli - Lolo, Cinesi, Chingpo, ecc. - perché il simbolismo dell'ascensione sciamanica lo si incontra in regioni troppo numerose e troppo distanti le une dalle altre perché si possa fissare per esso un'«origine» storica precisa. Traccie d'uno sciamanismo sul tipo di quello che troviamo nell'Asia centrale si incontrano presso gli sciamani dei Meo bianchi dell'lndocina. La seduta consiste nell'imitazione d'una cavalcata; si ritiene che lo sciamano vada alla ricerca dell'anima del malato che, del resto, riesce sempre a catturare. In certi casi particolari, il viaggio mistico comporta un' ascensione celeste. Lo sciamano esegue una serie di balzi, lo! si dice che sale al cielo.

 

 

 

 

 

 

Lo sciamanismo tra i Mo-So

back to index

 

Concezioni assai simili a quelle del Libro tibetano dei morti le incontriamo fra i Mo-so o Na-khi, popoli appartenenti alla famiglia indo-birmana e risiedenti dal principio dell'era cristiana nella Cina sud-occidentale, specie nella provincia di Yunnan.

Rock riferisce del llu-bu, lo stregone autentico dei Na-khi. Secondo ogni probabilità, la funzione di llu-bu era assolta da donne nei tempi antichi. Questa funzione non è ereditaria e la vocazione è denunciata da una crisi quasi psicopatica; la persona destinata a divenire un llu-bu danza fino al tempio d'una divinità guardiana. «Si sospende un certo numero di fazzoletti rossi ad una corda» al di sopra dell'imagine del Dio. Se la divinità «gradisce quell'uomo, uno dei fazzoletti rossi gli cadrà addosso», Se no, «quell'uomo... vien considerato solo un epilettico o un pazzo e lo si riporta a casa». Durante la seduta, gli spiriti parlano per bocca del llu-bu, che però non li incarna, non ne è «posseduto», Il llu-bu dimostra di possedere poteri tipicamente sciamanici: cammina nel fuoco e tocca il ferro riscaldato a bianco. Rock riferisce anche del Nda-pa, lo stregone mo-so dello Yunnan, in Cina, e dello srung-ma tibetano, il «guardiano della Fede».

Secondo Rock, che è l'autorità più recente e meglio informata in materia, la religione dei Na-khi sarebbe un puro sciamanismo Bon. Il che però non esclude affatto un loro culto di un Essere celeste supremo, Me, assai affine, per struttura, al dio cinese del Cielo, Ti'en (Bacot). Il sacrificio periodico al Cielo è anzi la cerimonia più antica dei Na-khi: vi son ragioni per credere che venisse già praticato nei tempi in cui i Na-khi vagavano come nomadi nelle steppe erbose del Tibet nord-orientale. In tale occasione alle preghiere al Cielo seguivano preghiere alla Terra e al ginepro, l'Albero cosmico che sostiene l'universo e che si erge nel «Centro del Mondo» (Rock). Come si vede, i Na-khi han conservato gli elementi essenziali della fede dei pastori dell'Asia centrale: il culto del Cielo, la concezione delle tre zone cosmiche, il mito dell'Albero del Mondo che, radicato nel Centro dell'universo, lo sostiene coi suoi mille rami.

Dopo la morte l'anima umana dovrebbe salire in Cielo. Ma deve fare i conti coi demoni, che cercano di spingerla verso gli Inferni. Il numero, la potenza e l'importanza dei demoni hanno conferito alla religione dei Mo-so i suoi tratti così simili allo sciamanismo Bon. Infatti Dto-mba Shi-lo, fondatore dello sciamanismo Na-khi, è passato nel mito come un vincitore di demoni. Quale possa pur essere stata la sua personalità «storica», la sua biografia è del tutto mitica: egli nasce dal fianco sinistro della madre come tutti gli eroi e i santi, sale immediatamente in Cielo (come il Buddha) e terrorizza i demoni. Gli dèi gli trasmettono il potere di esorcizzare i demoni e di «guidare le anime dei morti nel regno degli dèi» (Rock). Egli è, ad un tempo, uno psicòpompo e un Salvatore. Come secondo altre tradizioni centro-asiatiche, gli dèi avrebbero inviato questo Primo Sciamano per difendere gli uomini dai demoni. La parola dto-mba, d'origine tibetana ed equivalente al tibetano ston-pa, «maestro, fondatore o promulgatore di una particolare dottrina», indica nettamente che si tratta di una innovazione: lo «sciamanismo» è un fenomeno posteriore all'organizzazione della religione Na-khi. Si è reso necessarie per il moltiplicarsi terrificante dei demoni e varie ragioni lasciano credere che questa demonologia si sia sviluppata per influenza delle idee religiose cinesi.

La biografia mitica di Dto-mba Shi-lo ripete, sia pure con alterazioni, lo schema dell'iniziazione sciamanica. Colpiti dalla straordinaria intelligenza del neonato, i trecentosessanta demoni lo rapiscono e lo portano «nel luogo ove s'incrociano mille cammini», - cioè nel «Centro del Mondo», - ove lo mettono a cuocere in un calderone per tre giorni e tre notti. Ma quando i demoni alzano il coperchio, il bambino Dto-mba Shi-lo appare intatto. Qui vien di pensare ai «sogni iniziatici» degli sciamani siberiani, ai demoni che cuociono per tre giorni il corpo del futuro sciamano. Ma poiché in questo caso si tratta di un Maestro esorcista, uccisore di demoni per eccellenza, la parte che tali demoni hanno nell'iniziazione appare camuffata e la prova iniziatica prende la figura di un tentativo di assassinio.

Dto-mba Shi-lo «apre il cammino all'anima del defunto». La cerimonia funebre si chiama appunto zhi ma, «cammino-desiderio», e i numerosi testi che vengono recitati presso al cadavere ci si presentano come un pendant del Libro tibetano dei morti. Nel giorno dei funerali gli officianti svolgono un lungo rotolo o una stoffa sulla quale sono dipinte le varie regioni infernali che il defunto deve attraversare prima di raggiungere il regno degli dèi (Rock). È la carta di un itinerario complicato e pericoloso lungo il quale il morto sarà scortato dallo sciamano (dto-mba). L'inferno è costituito da nove recinti ai quali si accede dopo esser passati su di un ponte (ibid., p. 49). La discesa è pericolosa, perché i demoni bloccano il ponte, il dto-mba ha appunto il compito di «aprire la strada». Non cessando di invocare il primo sciamano, Dto-mba Shi-lo (Infatti tutti questi rituali funebri ripetono in un certo modo la creazione del mondo e la biografia di Dto-mba Shi-lo: ogni testo comincia evocando la cosmogonia e poi racconta la nascita miracolosa e le gesta eroiche di Shi-lo nella sua lotta contro i demoni. Questa riattualizzazione di un illud tempus mitico e dell'avvenimento primordiale che ha rivelato l'efficacia delle gesta del Primo Sciamano - gesta divenute poi un archetipo e ripetibili ad infinitum - è il comportamento normale dell'uomo arcaico), egli riesce a condurre il morto di recinto in recinto fino all'ultimo di essi, cioè al nono. Dopo questa discesa fra i demoni il defunto sale sulle sette Montagne d'Oro, giunge ai piedi di un Albero la cui cima contiene «il farmaco dell'immortalità» e penetra infine nel regno degli dèi.

Nella sua qualità di rappresentante del Primo Sciamano, cioè di Dto-mba Shi-lo, il dto-mba riesce ad «aprire la via» al morto e a guidarlo fra i recinti dell'Inferno, ove, altrimenti, egli correrebbe il rischio di esser divorato dai demoni. Il dto-mba conduce il trapassato simbolicamente, leggendogli i testi rituali: ma resta sempre vicino a lui «in ispirito». Lo avverte di ogni pericolo: «O morto, quando passerai il ponte e imboccherai il cammino, lo troverai sbarrato ad opera di Lä ch'u. L'anima tua non sarà in grado di giungere fino al regno degli dèi» (Rock). In pari tempo gli indica i mezzi per superare l'ostacolo: la famiglia deve sacrificare ai demoni, perché sono i peccati del morto ad ostruire il cammino e la famiglia deve riscattare tali peccati mediante sacrifici.

Già queste indicazioni possono dare una idea della funzione dello sciamanismo nella religione na-khi: lo sciamano è stato mandato dagli dèi per difendere gli uomini dai demoni; dopo la morte questa difesa si rende ancor più necessaria, perché gli uomini sono dei grandi peccatori, cosa che, di diritto, farebbe di essi delle prede dei demoni. Ma gli dèi, mossi da pietà per gli uomini, hanno inviato il Primo Sciamano per indicare loro la via che conduce alla divina dimora. Come presso i Tibetani, la comunicazione fra la Terra, l'Inferno e il Cielo è resa possibile da un Asse verticale, l'Axis mandi. La discesa postuma agli Inferni col passaggio del ponte e la penetrazione labirintica nei nove recinti conserva ancora lo schema iniziatico: nessuno può giungere in Cielo senza esser prima sceso agli Inferni. La parte dello sciamano è tanto quella di uno psicopompo che quella di un maestro iniziatore nel post mortem. Tutto fa credere che la posizione dello sciamano all'interno della religione na-khi rappresenti un antico stadio per il quale son dovute passare anche altre religioni dell'Asia centrale: nei miti siberiani, a noi già noti, circa il Primo Sciamano si trovano accenni che non son privi di relazione con la biografia mitica di Dto-mba Shi-lo.

 

 

 

 

 

 

Tecniche e simbolismi sciamanici in Cina

back to index

 

In Cina esiste il seguente costume: quando qualcuno muore, si sale sul tetto della sua casa e si supplica l'anima di ritornare nel suo corpo, mostrandogli, per esempio, come esca, un bel vestito nuovo. Questo rituale si trova ampiamente attestato nei testi classici e si è perpetuato fino ai nostri giorni; esso ha fornito a Sung Yüh l'argomento per un lungo poema che s'intitola appunto «Il richiamo dell'anima». Anche la malattia implica spesso la fuga dell'anima: e lo stregone in estasi l'insegue e la reintegra nel corpo del paziente. Questo tipo di guarigione viene praticato ancor oggi (de Groot). Lo stregone ha il potere di richiamare e di reintegrare nel rispettivo corpo anche l'anima di una bestia morta per la resurrezione di un cavallo. Il mago thai invia qualcuna delle sue anime alla ricerca dell'anima smarrita del malato, e non dimentica di raccomandar loro di prendere il buon cammino quando torneranno in questo mondo.

La Cina antica conosceva già varie categorie di stregoni e di streghe, di medium, di esorcisti, di facitori di pioggia e via dicendo. Un certo tipo di mago merita la nostra attenzione: è l'estatico, colui la cui arte consisteva principalmente nell'«esteriorizzare» la propria anima - in altri termini, nel «viaggiare in ispirito». La storia leggendaria e il folklore della Cina abbondano di esempi di «volo magico» e noi subito vedremo che già nell'antichità i Cinesi colti consideravano il «volo» come una imagine plastica per l'estasi. In ogni caso, lasciando da parte il simbolismo ornitomorfo della Cina protostorica, sul quale torneremo, va rilevato che il primo uomo che, secondo la tradizione, sarebbe riuscito a volare fu l'imperatore Chuen (2258-2208, secondo la cronologia cinese). Le figlie dell'imperatore Yao, Nü Ying e O Huang, rivelarono a Chuen l'arte di «volare come un uccello». (Di passata, si deve ricordare che fino ad una certa epoca in Cina si pensò che l'origine del potere magico risiedesse nelle donne: il che, insieme ad altri elementi, può esser considerato come indizio di un antico matriarcato cinese). Si noti che un Sovrano perfetto doveva possedere il prestigio di un «mago». L'«estasi», ad un Fondatore di Stati, non era meno necessaria delle virtù politiche, perché tale prestigio magico equivaleva ad una autorità, ad una giurisdizione sulla Natura. Granet ha osservato che il «passo» di Yü il Grande, successore di Chuen, «non si distingue affatto dalle danze che provocano la trance degli stregoni (t'iao-chen)… La danza estatica è parte dei procedimenti mediante i quali si acquista un potere di comando sugli uomini e sulla Natura. Si sa che sia nei testi detti taoisti, sia in quelli detti confuciani questo Potere regolatore vien chiamato Tao».

In effetti, numerosi imperatori, saggi, alchimisti e stregoni cinesi «salivano in Cielo». In Cina come presso i Tai si trova il ricordo della comunicazione che esisteva tra il cielo e la terra nei tempi mitici. Secondo i miti, questa comunicazione è stata interrotta perché gli dèi non possano più discendere ad opprimere gli uomini (versione cinese), o perché gli uomini non importunassero più gli dèi. Huang-ti, il Sovrano Giallo, fu trasportato in Cielo da un drago barbuto insieme alle sue donne e ai suoi consiglieri, in tutto settanta persone (Chavannes). Ma questa è già una apoteosi, non più il «volo magico» di cui nella tradizione cinese si trovano comunque numerosi esempi (Laufer). L'ossessione del volo ha trovato espressione in una folla di leggende relative a carri volanti e ad altri apparecchi del genere. In casi siffatti si tratta del fenomeno ben noto della degradazione di un simbolismo, fenomeno che, nel complesso, consiste nel cercare sul piano concreto della realtà immediata, dei «risultati» che in origine venivano invece intesi in funzione di una realtà interiore.

In ogni caso, anche in Cina l'origine sciamanica del volo magico appare nettamente attestata. «Salire in Cielo volando» è una idea che in cinese viene espressa nel modo seguente: «per mezzo di piume di uccello egli è stato trasformato ed è asceso come un immortale» (Laufer). Ora, noi sappiamo che le piume di uccello costituiscono uno dei simboli più frequenti del «volo sciamanico» e la presenza di esso nell'iconografia protostorica cinese non è priva d'interesse per valutare la diffusione e l'antichità di' questo stesso simbolo epperò anche dell'ideologia cui si connette. Quanto ai taoisti, le cui leggende pullulano di ascensioni e di miracoli d'ogni genere, è verosimile che essi abbiano elaborato e sistematizzato l'ideologia e le tecniche sciamaniche della Cina protostorica, per cui essi possono essere considerati come i successori dello sciamanismo a maggior diritto degli esorcisti, dei medium, dei «posseduti» di cui diremo in seguito: questi ultimi, in Cina, come del resto anche altrove, rappresentano piuttosto la tradizione aberrante dello sciamanismo. Vogliamo dire che quando non si riesce a signoreggiare gli «spiriti», si finisce con l'esser «posseduti» da essi e, in tal caso, la tecnica magica dell'estasi diviene un semplice automatismo medianico.

A questo proposito nelle tradizioni cinesi circa il «volo magico» e la danza sciamanica ciò che colpisce è appunto l'assenza di allusioni a «possessioni». Più oltre indicheremo qualche esempio in cui la tecnica sciamanica sbocca in una «possessione» da parte di dèi o spiriti, ma le leggende dei Sovrani, dei taoisti immortali, degli alchimisti e perfino degli «stregoni» per quanto in esse sempre figurino ascese in Cielo ed altri miracoli, mai parlano di possessione. Si può ritenere a buon diritto che tutti questi fatti appartengano alla tradizione «classica» della spiritualità cinese, la quale ha in proprio sia un dominio spontaneo di se stessi che una integrazione perfetta di sé in tutti i ritmi cosmici. In ogni caso i taoisti e gli alchimisti avevano il potere di innalzarsi nello spazio: Liu An, noto anche sotto il nome di Huainan Tse (secondo secolo a.C.) saliva in cielo in pieno giorno e Li Chao-Kün (140-87 a.Ci) si vantava di sapersi elevare oltre il nono cielo. «Noi saliamo in Cielo e allontaniamo le comete!» dice una donna-sciamano in una canzone. Un lungo poema di K'iih Yiian ci parla di numerose ascensioni fino alle «Porte del Cielo», di cavalcate fantastiche, di ascensioni lungo l'arcobaleno - tutti motivi familiari al folklore sciamanico. I racconti alludono frequentemente a prodezze di maghi cinesi rassomiglianti fino all'indistinguibilità alle leggende formatesi intorno i fachiri: essi volano nella luna, passano attraverso i muri, fanno germinare e crescere in un attimo una pianta, ecc.

Tutte queste tradizioni mitologiche e folkloristiche hanno per punto di partenza una ideologia e una tecnica dell'estasi che implicano il «viaggio in ispirito». A partire dalla più alta antichità il mezzo classico per giungere all'estasi è stato la danza. Come dappertutto, l'estasi rendeva possibile sia il «volo magico» dello sciamano che la discesa di uno «spirito», la seconda non implicando necessariamente una «possessione», perché lo spirito poteva limitarsi ad inspirare lo sciamano. Che per i Cinesi il volo magico e i viaggi fantastici attraverso l'universo fossero semplici imagini per descrivere le esperienze dell'estasi, lo prova, fra l'altro, il seguente documento. Il Kwoh yü racconta che il re Chao (515-488 a.C.) si rivolse un giorno al suo ministro dicendogli: «Le scritture della dinastia Tcheu affermano che Tchung-li fu mandato come messaggero nelle regioni inaccessibili del Cielo e della Terra. Come è stata possibile una cosa simile? Vi son possibilità, per gli uomini, di salire in Cielo?». Il ministro allora spiega che il vero significato di questa tradizione è d'ordine spirituale: coloro che sono giusti e che sanno concentrarsi sono in grado di accedere conoscitivamente «alle alte sfere e anche di discendere nelle sfere inferiori, per apprendere la condotta da seguire, le cose da fare... Una volta realizzata quella condizione, degli shen intelligenti scendono in essi; quando uno shen si è in tal guisa stabilito in un uomo, questi vien chiamato hih, e quando si stabilisce in una donna questa è detta wu. Quali funzionari, essi hanno l'incarico di badare all'ordine di precedenza degli dèi (nei sacrifici), alle loro tavolette e anche alle vittime sacrìficali, agli strumenti ed altresì ai costumi cerimoniali da indossare a seconda delle stagioni». Rileviamo che la donna posseduta dagli shen si chiama wu, che è il nome con cui in seguito venne designato lo sciamano in genere. In ciò si potrebbe esser tentati di vedere la prova dell'anteriorità delle donne-sciamano. Tuttavia varie ragioni fan credere che la wu, donna posseduta dagli shen, era stata preceduta dallo ·sciamano con maschera e pelle d'orso, dallo «sciamano danzante» che Hopkins crede di aver identificato in una iscrizione dell'epoca Chang e in un'altra del principio de1la dinastia Tcheu. Lo «sciamano danzante» dalla maschera d'orso appartiene ad una ideologia dominata dalla magia di caccia, nella quale è l'uomo che ha la parte principale. Egli, del resto, continuò ad assolvere ad una funzione importante nei tempi storici: il capo esorcista indossava una pelle d'orso con quattro occhi d'oro (Biot). Ma se tutto ciò sembra confermare l'esistenza di uno sciamanismo «mascolino» nell'epoca protostorica, non è per questo detto che lo sciamanismo wu - che fomenta in alto grado la «possessione» - non sia un fenomeno magico-religioso dominato dalla donna.

Ciò sembra dirci che l'estasi - provocante le esperienze espresse dalle imagini del «volo magico», dell'«ascesa in Cielo», ecc. - era non l'effetto ma la causa dell'incarnarsi degli shen: era perché qualcuno appariva già capace di «accedere alle alte sfere e di discendere nelle sfere inferiori» (cioè di salire in Cielo e di discendere agli Inferni), che «gli shen intelligenti discendevano in lui». Una tale situazione sembra essere abbastanza diversa da quella delle «possessioni», che tratteremo più oltre. Naturalmente, la «discesa degli shen» ha dato rapidamente luogo a un gran numero di esperienze parallele che hanno finito col confondersi nella massa delle «possessioni». Si è che non è sempre facile distinguere la natura di un'estasi in base alla terminologia usata per esprimerla. Il termine taoista per l'estasi, kuei-ju», «entrata in uno spirito», secondo Maspéro non si spiega se non si fa derivare l'esperienza taoista dalla «possessione degli stregoni». Di fatto, di una strega in trance si diceva che essa parlava in nome di uno shen: «Il corpo è quello della strega, ma lo spirito è quello del dio». Per incarnarlo, la strega si purificava con acqua profumata, indossava il costume rituale, faceva delle offerte: «ella mimava il viaggio, con un fiore in mano, mediante una danza accompagnata da musica e da canti, al suono di tamburi e di flauti, finché cadeva a terra spossata. In quel momento si manifestava la presenza del dio, che rispondeva per bocca sua».

Il taoismo ha assimilato un maggior numero di tecniche arcaiche dell'estasi che non lo Yoga e il buddhismo, specie se si considera il tardo taoismo, così alterato da elementi magici. Si è perfino pensato di identificare il taoismo alla religione sciamanizzante Bon-po (sull'assimilazione di elementi sciamanici da parte del neo-taoismo, vedi anche Eberhard). Non bisogna nemmeno dimenticare l'influenza della magia indiana, che è indubbia nel periodo successivo alla penetrazione dei monaci buddhisti in Cina. Ad esempio Fo-T'u-Tèng, monaco buddhista di Kutcha, che aveva visitato il Kashmir ed altre regioni dell'India, arriva in Cina nel 310 e fa mostra di prodezze magiche: profetizzava in base ad un suono di campana. Tuttavia l'importanza accordata al simbolismo ascensionale e, in genere, la struttura equilibrata e sana del taoismo, lo differenziano dall'estasi-possessione così caratteristica delle streghe. Lo «sciamanismo» cinese (il wou-ism, come lo chiama De Groot) sembra che abbia dominato la vita religiosa cinese prima dell'avvento del confucianesimo e della religione di Stato. Nei primi secoli precedenti la nostra era i sacerdoti wu erano i veri officianti del sacro della Cina (De Groot). Certo, il wu non era del tutto identico ad uno sciamano: ma incorporava spiriti e come tale serviva da intermediario fra l'uomo e la divinità, essendo inoltre un guaritore, sempre grazie all'aiuto degli spiriti. La percentuale delle donne wu era schiacciante (ibid., p. 1209). E gli shen e i kuei che i wu di massima incarnavano erano anime di morti. È con l'incorporazione delle anime dei morti che prende inizio la «possessione» propriamente detta. Wang-ch'ung scriveva: «Fra gli uomini, i morti parlano attraverso persone viventi che fanno cadere in trance e i wu, stringendo le loro corde nere, invocano le anime dei morti, i quali parlano usando la voce dei wu. Ma tutto quanto cotesta gente può dire è menzogna». Questa è evidentemente l'opinione di un autore a cui i fenomeni medianici ripugnavano. Del resto la taumaturgia delle donne-wu non finisce qui: potevano rendersi invisibili, ferirsi con coltelli e sciabole, tagliarsi la lingua, inghiottire spade e sputare fuoco, farsi trasportare da una nube che allora splendeva come accesa da un fulmine. Le donne-wu ballavano in circolo, parlavano il linguaggio degli spiriti e ridevano come spettri; intorno ad esse degli oggetti si sollevavano da sé o cozzavano gli uni contro gli altri. Tutti questi fenomeni fachirici sono tuttora frequentissimi negli ambienti magici e medianici cinesi. Anzi, non è nemmeno necessario essere wu per veder gli spiriti e formulare profezie: basta esser posseduti da uno shen. Come dappertutto, qui la medianità e la «possessione» danno talvolta luogo ad uno sciamanismo spontaneo e aberrante.

È inutile moltiplicare esempi di stregoni, di wu e di «posseduti» cinesi per mostrare quanto questo fenomeno, nel suo insieme, si avvicini allo sciamanismo manchi, tunguso e siberiano in genere. Qui basterà rilevare che con l'andar del tempo l'estatico cinese venne sempre più confuso con un tipo rudimentale di stregone e di «posseduto». Ad un dato momento, e poi per tutto un lungo periodo, il wu apparve cosi simile all'esorcista (shih) che fu comunemente chiamato wu-shi. Ai nostri giorni lo si chiama sai-kong e l'ufficio si trasmette di padre in figlio. La preponderanza del sesso femminile sembra essere venuta meno. Dopo una prima istruzione, impartita dal padre, l'aspirante segue dei corsi in un «collegio» ed ottiene il titolo di sacerdote-capo al termine di una iniziazione di tipo nettamente sciamanico. La cerimonia è pubblica e consiste nell'ascensione del to t'ui, o «scala di sciabole»: a piedi nudi, il discepolo monta su di una serie di lame fino a raggiungere una piattaforma. In genere, la scala comprende dodici sciabole; talvolta esiste anche una seconda scala per la quale il discepolo deve discendere. Un rito iniziatico analogo è stato accertato presso i Karen della Birmania, ove una classe di sacerdoti si chiama proprio wee, parola che potrebbe essere una variante del termine cinese wu. (Assai probabilmente si tratta di una influenza cinese che ha contaminato antiche tradizioni magiche locali; non è però detto che si debba considerare la scala iniziatica in se stessa come venuta dalla Cina: di fatto, riti analoghi di ascensione sciamanica sono stati accertati anche in Indonesia ed altrove).

L'attività magico-religiosa dei sai-kong rientra nel quadro del rituale taoista: il sai-kong si dà il titolo di tao-shih, eroe «dottore taoista» (De Groot). Egli ha finito con l'identificarsi completamente al wu soprattutto per via del suo prestigio quale esorcista. Il suo costume rituale è ricco di simboli cosmologici: vi si può vedere l'Oceano cosmico col monte T'ai nel mezzo, e via dicendo. Il sai-kong si serve abitualmente di un medium, di un «posseduto», che anche lui dà prova di poteri fachirici: si ferisce con coltelli, ecc.. Qui si ripete un fenomeno da noi già constatato in Indonesia e in Polinesia, cioè l'imitazione spontanea dello sciamanismo per effetto di una possessione. Come lo sciamano delle Figi, il sai-kong dirige la traversata sul fuoco. La cerimonia vien chiamata «passeggiare su di una via di fuoco» ed ha luogo dinanzi ad un tempio. Il sai-kong avanza per primo sui carboni ardenti seguito dai suoi colleghi più giovani e dallo stesso pubblico. Un rito analogo consiste nel camminare su di un «ponte di sciabole». Si ritiene che una speciale preparazione spirituale prima della cerimonia basti per passare impunemente sulle lame e sul fuoco. Come negli innumerevoli casi di medianità e di spiritismo, o di tecniche oracolari, qui noi abbiamo a che fare con un fenomeno endemico, non facile a classificarsi, di pseudo-sciamanismo spontaneo la cui caratteristica più importante è la facilità.

Non abbiamo la pretesa di aver tracciata una storia delle idee e delle pratiche sciamaniche in Cina. Anzi non sapremmo dire se un tale assunto sia possibile. Si sa del lavoro di elaborazione, d'interpretazione e, in ultima analisi, di «filtraggio» che i letterati cinesi hanno compiuto per duemila anni sulle tradizioni arcaiche. Qui basterà notare la presenza di molteplici tecniche sciamaniche lungo tutta la storia cinese. Naturalmente, esse non possono esser considerate come appartenenti tutte ad una stessa ideologia e allo stesso strato culturale. Si son viste, ad esempio, le differenze che possono intercorrere fra le estasi dei Sovrani, degli alchimisti e dei taoisti, e l'estasi-possessione degli stregoni o del pubblico dei sai-kong. Analoghe differenze di contenuto e di orientamento spirituale possono essere rilevate nei riguardi di ogni altra tecnica o di ogni altro simbolismo sciamanico. Si ha sempre l'impressione che uno schema sciamanico può esser sperimentato, realizzato, su piani differenti, benché omologabili: fenomeno, questo, che oltrepassa di molto la sfera dello sciamanismo e che si verifica nel riguardo di qualsiasi simbolismo o idea religiosa.

Nel complesso in Cina si constata la presenza di quasi tutti gli elementi costitutivi dello sciamanismo: ascensione in Cielo, richiamo e ricerca dell'anima, incorporazione di «spiriti», dominio sul fuoco e altri prestigi fachirici, e cosi via. Per contro, sembrano essere più rare le discese agli Inferni e specialmente le discese aventi per scopo il ricondurre l'anima di un malato o di un morto, benché anche questi motivi si trovino attestati nel folklore cinese. Cosi si racconta la storia del re Mu di Chu che viaggiò fino alle estremità della terra, fino al monte Kun-ìun e più lontano ancora, verso la Regina-Madre dell'Occidente (la Morte), attraversando un fiume grazie ad un ponte improvvisato fatto di pesci e di tartarughe; e la Regina-Madre d'Occidente gli insegnò un canto e gli donò un talismano di lunga vita. Vi è anche la storia dell'erudito Hu Di che discese agli Inferni attraverso il Monte dei Morti e vide un fiume che le anime dei giusti superavano passando per un ponte d'oro, mentre i colpevoli erano costretti ad attraversarlo a nuoto, colpiti da demoni. Infine, si trova anche una variante aberrante del mito di Orfeo: il santo Mulian viene a sapere per chiaroveggenza mistica che la madre sua, che in vita aveva trascurato di far l'elemosina, soffriva la fame nell'Inferno, e vi discende per salvarla: se la prende sulle spalle e sale in Cielo. Due altri racconti della collezione di Eberhard comportano il motivo di Orfeo. Nel primo, un uomo discende nell'altro mondo per cercare la sua sposa deceduta. La scorge presso una sorgente, ma la donna lo supplica di andarsene perché ora è divenuta uno spirito. Tuttavia il marito resta per qualche tempo nel regno delle ombre. Infine i due sposi fuggono ma, una volta sulla terra, la donna entra in una casa e scompare. Contemporaneamente, la padrona di casa dà alla luce una figlia. Quando questa raggiunge la maturità, il marito riconosce in lei sua moglie e la sposa per la seconda volta. Nell'altro racconto, è un padre a discendere agli Inferni per ricondurne il figlio defunto ma, poiché questo non lo riconosce, l'impresa fallisce. Ma tutti questi racconti appartengono al folklore asiatico ed alcuni di essi son stati notevolmente influenzati dal buddhismo: cosi sarebbe imprudente inferi re, da essi, all'esistenza di un rituale preciso di discesa negli Inferni. (Per esempio, nella storia del santo buddhista Mulian non v'è cenno alcuno alla cattura sciamanica dell'anima). È verosimile che il rituale sciamanico delle discese, se esistette anche in Cina nella forma in cui lo incontriamo nell'Asia centrale e settentrionale, sia caduto in desuetudine in seguito al cristallizzarsi del culto degli antenati, il quale ha dato agli «Inferni» un diverso valore religioso.

Occorre fermarsi ancora un momento su di un punto che oltrepassa il problema dello sciamanismo stricto sensu, ma che pure ha la sua importanza: si tratta dei rapporti esistenti fra lo sciamano e le bestie e il contributo che le mitologie animalesche han dato all'elaborazione dello sciamanismo cinese. Il «passo» di Yu il Grande non si distingueva dalla danza dei maghi; ma Yu il Grande si vestiva anche da orso e, in qualche modo, incarnava lo spirito dell'orso. Lo sciamano descritto dal Tcheu-li indossava anche lui una pelle d'orso, e sarebbe facile moltiplicare esempi del cerimoniale noto all'etnologia sotto il nome di bear ceremonialism, cerimoniale che si trova attestato sia nell' Asia settentrionale che nell' America del Nord. È provato che la Cina antica sentiva una relazione fra la danza sciamanica e un animale saturo di un simbolismo cosmologico ed iniziatico assai complesso. Gli specialisti si sono rifiutati di vedere nella mitologia e nel rituale che mettevano in relazione l'uomo con quell'animale le traccie di un totemismo cinese. I rapporti qui sarebbero piuttosto d'ordine cosmologico (l'animale rappresentava generalmente la Notte, la Luna, la Terra, ecc.) e iniziatico (animale = antenato-mitico = iniziatore).

Come vanno interpretati questi dati alla luce di quanto abbiamo appreso circa lo sciamanismo cinese? Guardiamoci dal semplificare troppo e dallo spiegar tutto con un unico schema. Non v'è dubbio che il bear ceremonialism ha relazioni con la magia e la mitologia della caccia. Noi sappiamo che lo sciamano contribuisce in modo decisivo ad assicurare l'abbondanza della selvaggina e l'esito fortunato della caccia (previsioni meteorologiche, cambiamenti del tempo, viaggi mistici presso la Grande Madre delle Belve, ecc.). Non bisogna però dimenticare che i rapporti dello sciamano (come, del resto, dell'«uomo primitivo» in genere) con gli animali sono d'ordine spirituale e di una intensità mistica difficilmente imaginabile per una mentalità moderna, desacralizzata. Indossare la pelle di un animale cacciato equivaleva, per 1'«uomo primitivo», a divenire quell'animale, a trasformarsi in animale. Si è visto che gli sciamani hanno ancor oggi coscienza di potersi trasformare in animali. Non è il fatto del loro indossare pelli di belve che importa. L'importante è ciò che essi provano, ciò che essi realizzano travestendosi da animali. Vi son ragioni per credere che questa trasformazione magica conduceva ad una «uscita da se stessi» traducentesi assai spesso in una esperienza estatica.

Imitando le mosse di un animale o rivestendone la pelle si faceva proprio un modo superumano di essere. Non si trattava di regressione in una pura «vita animalesca»: l'animale al quale ci si identificava era già portatore di una mitologia (nella più  antica iconografia cinese s'incontrano numerosi motivi animaleschi e soprattutto ornitologici; molti di questi: motivi iconografici ricordano i disegni dei costumi sciamanici; il costume dello sciamano siberiano ha probabilmente subito l'influenza di certe idee magico-religiose cinesi); esso era, di fatto, un Animale mitico, l'Antenato o il Demiurgo. Divenendo questo animale mitico l'uomo si trasformava in qualcosa di ben più grande e possente della sua individualità. È lecito pensare che questa proiezione in un Essere mitico, centro, ad un tempo, della vita e del rinnovamento universale, provocava l'esperienza euforica che, prima di portare all'estasi, dava una sensazione di forza e faceva realizzare una comunione con la vita cosmica. Basta ricordarsi della parte di modello esemplare che certi animali hanno nelle tecniche mistiche taoiste per renderei conto della ricchezza spirituale dell'esperienza «sciamanica» ancora adombrata dal ricordo degli antichi Cinesi. Dimenticando i limiti e le false misure umane, nell'imitare congruamente i modi degli animali e i loro passi, il loro respiro, le loro grida, ecc., si ritrovava una nuova dimensione della vita: si trovava la spontaneità, la libertà, la «simpatia» con tutti i ritmi cosmici, epperò la beatitudine e l'immortalità.

Ci sembra che, considerati secondo questa visuale, gli antichi riti cinesi cosi simili al bear ceremonialism lasciano trasparire un loro valore mistico e ci permettono di capire come si potesse ottenere l'estasi sia mediante l'imitazione coreografica di un animale, sia grazie ad una danza che mimava un'ascensione: nell'un caso come nell'altro l'anima «usciva da sé» e volava. Esprimere invece questo volo mistico come la «discesa» di un dio o di uno spirito spesso non era che una pura quistione di parole.

 

 

 

 

 

 

Mongolia, Corea, Giappone

back to index

 

Uno sciamanismo fortemente commisto al lamaismo caratterizza la religione dei Monguor di Si-ning, a nord-ovest della Cina, popolo che i Cinesi conoscevano sotto il nome di T'u-jen, cioè «gente del paese». Presso i Mongoli, il lamaismo, fin dal XVII secolo, ha tentato d'annientare lo sciamanismo. Ma la vecchia religione mongola ha finito per assimilare gli apporti lamaisti senza perciò perdere definitivamente il proprio carattere. Fino a questi ultimi tempi gli sciamani, uomini e donne, avevano ancora una parte importante nella vita religiosa delle tribù.

In Corea, ove lo sciamanismo è attestato dall'epoca degli Han (cfr. Hentze), gli sciamani indossano abiti femminili e sono meno numerosi delle sciamane. È difficile precisare 1'«origine» dello sciamanismo coreano; è possibile che comprenda elementi provenienti dal sud, ma la presenza di corna di cervo sul berretto sciamanico dell'epoca Han indica l'esistenza di relazioni col culto del cervo proprio degli antichi Turchi. Inoltre, il culto del cervo caratterizza le culture di cacciatori e di nomadi in cui la sciamana non sembra svolgere una parte importante. La prevalenza delle sciamane in Corea può essere la conseguenza o d'un deteriorarsi dello sciamanismo tradizionale, o di influenze meridionali.

Non si conosce molto meglio la storia dello sciamanismo in Giappone, quantunque si disponga di ampi ragguagli sulle pratiche sciamaniche moderne grazie, soprattutto, ai lavori di Nakayama Taro e di Hori Ichirò. La conoscenza dei diversi aspetti e fasi dello sciamanismo giapponese deve ancora attendere la pubblicazione della grande opera di Masao Oka sulla storia culturale dell'antico Giappone. Quale lo si conosce attualmente, lo sciamanismo giapponese è abbastanza differente dallo sciamanismo in senso stretto, di tipo nord-asiatico o siberiano. È anzitutto una tecnica di possessione da parte degli spiriti dei morti, praticata quasi esclusivamente da donne. Secondo Eder, le principali funzioni delle sciamane sono le seguenti: «1. Fan venire l'anima di un morto dall'aldilà. Nel linguaggio popolare si parla allora di shinikuchi, che può tradursi con «bocca d'un morto». Quando fan venire di lontano lo spirito d'una persona vivente si parla di ikikuchi, che significa «bocca d'un vivo», 2. Ragguagliano chi lo chiede sul buono e cattivo avvenire; il termine popolare è allora kamikuchi, «bocca del dio». 3. Cacciano le malattie ed altri mali e s'incaricano della purificazione religiosa. 4. Chiedono al loro dio il nome del rimedio da utilizzare contro una malattia particolare. 5. Danno ragguagli circa gli oggetti perduti. I servigi più frequentemente richiesti ad una sciamana sono la chiamata dello spirito dei morti e dell'anima di persone viventi lontano, e la predizione della buona e cattiva sorte. Le anime richiamate dall'aldilà sono per lo più quelle di genitori, amanti e amici».

Un gran numero di sciamane giapponesi sono cieche dalla nascita. Ai giorni nostri, la loro «estasi» è fittizia e grossolanamente simulata. Mentre si crede che l'anima del defunto si esprima attraverso la sua voce, la sciamana maneggia una collana di perle o un arco. L'istruzione d'una futura sciamana si effettua sotto la direzione d'una precettrice e dura da tre a sette anni. Termina col matrimonio della ragazza col suo dio protettore. In certe regioni, l'iniziazione comprende pure una prova fisica estenuante alla fine della quale la novizia cade a terra, incosciente. La sua rianimazione è assimilata ad una «nascita» (tanjò) e la ragazza indossa un costume nuziale. Il matrimonio mistico tra la sciamana e il dio protettore sembra essere un costume piuttosto arcaico. Gli «dèi donne-spiriti» (mikogami) son già attestati nel Kojiki, nel Nihongi e in altre fonti antiche; sono dèi «nei quali una donna-spirito (cioè, una sciamana) è ella stessa venerata come divina e, più tardi, degli dèi nati dal matrimonio d'una donna-spirito con un dio. Queste donne-spiriti son così chiamate "Madre di Dio" o "Santa Madre". Nell'Engishiki, la lista degli dèi venerati nei luoghi santi contiene una lunga lista di tali "dèi donne-spiriti" (mikogami). Oltre queste donne-spiriti che servono ufficialmente il loro dio nei luoghi santi, v'erano delle "spose di una notte" (ichiya-tsuma) che officiavano a titolo privato e il cui compagno era un dio errante (marebito) che veniva a render loro visita. Come segno distintivo della loro posizione particolare, queste ultime fissavano una freccia ornata di piume bianche al comignolo del tetto della loro casa. Quando un dio vocava una donna a servirlo al suo altare, costei recava un vaso da riso (meshibitsu, per conservare caldo il riso dopo la cottura; a tavola, è da questo recipiente che si serve il riso nelle ciotole) ed una padella, vale a dire utensili simili a quelli che fanno parte del corredo d'una giovane sposa. Fino ad epoca recente, un coito tra un sacerdote dell'altare e la donna-spirito faceva parte del suo programma d'iniziazione: cosi il dio si faceva rappresentare».

Questo matrimonio con gli dèi ricorda i costumi delle sciamane saora, però con questa differenza, che in Giappone non si ritrova l'intensità dell'esperienza estatica personale che tanto colpisce nelle ragazze saora. In Giappone, il matrimonio col dio protettore sembra essere una conseguenza dell'istituzione piuttosto che una fatalità personale. Del resto, certi elementi non quadrano con la struttura della magia femminile, come, ad esempio, l'arco e il cavallo (sulle figurette a testa di cavallo, cfr. Eder). Tutto ciò ci porta a pensare che ci si trovi in presenza d'una fase ibrida e tardiva dello sciamanismo. D'altra parte, gli «dèi donne-spiriti» (mikogami) e alcuni dei rituali che li concernono possono essere avvicinati a tratti carattenstici del matriarcato: donne sovrane di stati territoriali, donne capofamiglia, matrimonio matrilocale, «matrimonio con un visitatore» (Besuchehe), clan matriarcale con esogamia di clan, ecc.

Sembra che Eder non sia informato dell'importante studio di Haguenauer, Origines de la civilisation Japonaise. Benché nel primo volume comparso l'autore non discuta particolarmente l'origine dello sciamanismo giapponese, cita però un certo numero di fatti che, a suo giudizio, evidenziano delle somiglianze con lo sciamanismo altaico: «Ciò che si sa, ad esempio, del comportamento e del ruolo della strega nel Giappone antico, pur malgrado la cura che i redattori degli Annali imperiali hanno posto nel far silenzio a suo riguardo, parlando unicamente della sua rivale, la sacerdotessa-vestale, la mi-ko, che era invece salita di rango tra i ritualisti della corte dello Yamato, autorizza infatti ad equipararla alla sua collega coreana, la muday, ... ed alle donne-sciamano altaiche. La funzione essenziale di tutte queste streghe consisteva nel far discendere (giapponese oro-su) un'anima nel suo supporto (pilastro sacro o qualcosa che lo sostituisse) oppure nell'incarnare quest'anima per servire da tramite tra essa ed i viventi, per poi licenziarla. Che un pilastro sacro sia servito per le pratiche in questione risulterebbe dal fatto stesso che la parola basita (colonna) è servita, in giapponese, da elemento specifico per contare gli esseri sacri. D'altra parte, gli strumenti di lavoro della strega giapponese erano gli stessi che impiegavano le sue colleghe del continente, e cioè il tamburo, ... i sonagli, ... lo specchio, ... e la spada katana (altra parola d'origine altaica) le cui virtù anti-demoniache sono illustrate in più modi nel folklore giapponese».

Bisognerà attendere il seguito dell'opera di Haguenauer per sapere in quale stadio e per qual mezzo lo sciamanismo altaico - istituzione quasi esclusivamente maschile - divenne l'elemento costitutivo d'una tradizione religiosa specificamente femminile. Né la spada, né il tamburo sono strumenti che appartengono originariamente alla magia femminile. Il fatto che siano utilizzati da delle sciamane indica che già facevano parte degli accessori di stregoni e sciamani.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XIII: Miti, simboli e riti paralleli

 

Le varie ideologie sciamaniche hanno assimilato un certo numero di temi mitici e di simbolismi magico-religiosi. Senza presumere di farne un inventario completo ed ancor meno di intraprenderne uno studio esaustivo, non sarà senza interesse ricordare qualcuno di questi miti e di questi simboli per mostrare quale sia stata la loro adattazione e la loro rivalutazione nello sciamanismo.

 

 

Il cane e il cavallo

back to index

 

Ci riferiremo all'opera di Freda Kretschmar per tutto quel che concerne i miti del cane. A tale riguardo, lo sciamanismo non ha apportato innovazioni: lo sciamano incontra il cane funerario durante la sua discesa agli Inferni, come lo incontrano i defunti o gli eroi che affrontano una prova iniziatica. Son soprattutto le società segrete aventi per base una iniziazione guerriera - nella misura in cui è lecito chiamar «sciamaniche» le loro estasi e le loro cerimonie frenetiche - che hanno sviluppato e ri-interpretato il simbolismo e la magia del cane e del lupo. Le credenze di certe società segrete cannibali e così pure, in generale, tutto ciò che è licantropia, implicano la trasformazione magica dell'affiliato in cane o in lupo. Anche gli sciamani possono trasformarsi in lupi, ma in un senso diverso di quello proprio alla licantropia: inoltre, come abbiamo visto, essi possono anche assumere molte altre forme animali.

Ben diversa è la parte che ha il cavallo nella mitologia nel rituale sciamanico. Animale funerario e psicopompo per eccellenza, il «cavallo» viene usato dallo sciamano in vari contesti, come mezzo per pervenire all'estasi, cioè ad un'«uscita da sé» che rende possibile il viaggio mistico. Questo viaggio mistico - ripetiamolo - non ha necessariamente un itinerario infernale: il «cavallo» può anche permettere agli sciamani di volare negli spazi, di raggiungere il Cielo. Nella mitologia del cavallo non è il carattere infernale ma il carattere funerario quello predominante: il cavallo è una imagine mitica della Morte e per questo entra a far parte delle ideologie e delle tecniche dell'estasi. Il cavallo porta il defunto nell'aldilà: attua la «rottura di livello», il passaggio da questo ad altri mondi. Per, tale ragione esso ha anche una parte di primo piano in certi tipi di iniziazione maschile (nei «Männerbünde» o «società di uomini»).

Il «cavallo» ossia il bastone a testa di cavallo - lo abbiamo visto usare dagli sciamani buriati nelle loro danze estatiche. Abbiamo rilevato che nelle sedute delle machi araucane si pratica una danza consimile. Ma la diffusione della danza estatica inforcando un bastone-cavallo è assai più vasta. Limitiamoci a qualche esempio. Presso i Batachi quattro persone danzano su bastoni scolpiti a foggia di cavallo quando si sacrifica il cavallo in onore degli antenati. A Giava e a Bali il cavallo appare parimenti associato alla danza estatica. Presso i Garo il «cavallo» fa parte del rituale del raccolto. Come corpo del cavallo si usano tronchi d'albero di banano, e come testa e gambe dei bambù. La testa è montata su di un bastone che un uomo tiene in modo che essa sia al livello del suo petto. L'uomo esegue una danza selvaggia mentre il sacerdote, danzandogli di fronte fa come se si rivolgesse al «cavallo».

Elwin ha osservato un rito analogo presso i Muria di Bastar. Il gran dio gondo Lingo Pen ha a sua disposizione parecchi «cavalli» di legno nel suo santuario di Semurgaon. In occasione della festa del dio cotesti «cavalli» vengono inforcati da medium e usati sia per provocare la trance estatica che per scopi di divinazione. «A Metawand osservai per intere ore i salti grotteschi di un medium che portava sulle spalle un cavallo di legno rappresentante il dio del suo clan, e a Bandapal, mentre ci aprivamo una via nella jungla per assistere alla Manka Pandum (rito nel quale vengono mangiati dei manghi), un altro medium recando sulle spalle un cavallo imaginario, andò di portante, caracollò, fece la ciambella e si lanciò qua e là per tre chilometri davanti alla mia vettura che avanzava lentamente.» Porta dio sulla schiena - mi si disse - e per diversi giorni di seguito non può smettere di ballare». Ad uno sposalizio a Malakot ho visto un medium cavalcare un curioso cavallo di legno; ne ho anche visto un altro, nel Sud, nella regione di Dhurwa, ballare montando un cavallo di legno simile al precedente. In ambo i casi se un qualcosa andava a turbare lo svolgimento della cerimonia il cavaliere cadeva in trance e allora poteva individuare la causa sovrannaturale del disordine».

In un'altra cerimonia, il Laru Kaj dei Gondi Pardhan, i «cavalli del dio» eseguono una danza estatica. Ricordiamo anche che diverse popolazioni aborigene dell'India raffigurano i loro morti a cavallo: i Bhil, ad esempio, o i Korku, che incidono su tavolette di legno figure di cavalieri e le depongono vicino alle tombe. Presso i Muria i funerali sono accompagnati da canti rituali nei quali vien raccontato che il morto giunge nell'aldilà su di un cavallo. Si parla di un palazzo in mezzo al quale si trova un'altalena d'oro e un trono di diamanti. Il morto vien portato fin là da un cavallo ad otto gambe. Ora, noi sappiamo che il cavallo ottipedo è tipicamente sciamanico. Secondo una leggenda buriate una giovane prende per secondo marito lo spirito ancestrale di uno sciamano e in seguito a queste nozze mistiche una delle giumente della sua scuderia partorisce un cavallo ad otto gambe. Il marito terrestre gli taglia quattro gambe. La donna esclama: «Ahimè! Era il mio cavallino sul quale cavalcavo come una sciamana!» e dispare, volando, per andare a stabilirsi in un altro villaggio. In seguito essa divenne uno spirito protettore dei Buriati.

I cavalli ottipedi o acefali appaiono attestati nei miti e nei riti delle «società di uomini» sia germaniche che giapponesi. In tutti questi complessi culturali i cavalli polipedi o i cavalli-fantasma hanno una funzione funeraria ed estatica ad un tempo. È parimenti con la danza estatica - ma non necessariamente «sciamanica» - che il cavallo di legno, 1'«hobby horse», ha relazioni.

Ma anche quando il «cavallo» non risulta formalmente attestato nelle sedute sciamaniche, esso vi è simbolicamente presente per via dei crini di cavallo bianco che vi vengono bruciati o della pelle di giumenta bianca sulla quale si siede lo sciamano. Bruciar crini di cavallo equivale ad evocare l'animale magico che condurrà lo sciamano nell'aldilà. Le leggende dei Buriati parlano dei cavalli che portano gli sciamani morti alla loro nuova dimora. In un mito yakuta il «diavolo» rovescia il suo tamburo, vi fa buchi col suo bastone e il tamburo si trasforma in una giumenta a tre gambe che lo trasporta verso Oriente.

Basteranno questi esempi per mostrare in che senso lo sciamanismo ha utilizzato la mitologia e i nn equini: essere psicopompo e funerario, il cavallo facilita la trance, il volo estatico dell'anima nelle regioni interdette. La «cavalcata» simbolica esprime l'abbandono del corpo, la «morte mistica» dello sciamano.

 

 

 

 

 

 

Sciamani e fabbri

back to index

 

Per importanza, il mestiere del fabbro viene subito dopo la vocazione da sciamano. «Fabbri e sciamani sono di uno stesso nido» dice un proverbio yakuta. «La donna di uno sciamano è rispettabile, la donna di un fabbro è venerabile» è un altro di questi proverbi. I fabbri hanno il potere di far guarire e perfino di predire l'avvenire. Secondo i Dolgani gli sciamani non possono «divorare» l'anima dei fabbri, perché questi la conservano nel fuoco; è invece possibile al fabbro impadronirsi dell'anima di uno sciamano e farla bruciare nel fuoco. I fabbri, a loro volta, sono perennemente minacciati dagli spiriti malvagi. Essi si trovano condannati a lavorare continuamente, a maneggiare il fuoco, a fare un rumore incessante per allontanare gli spiriti ostili.

Secondo i miti degli Yakuti il fabbro ha ricevuto la sua arte dalla divinità «cattiva» K'daai Maqsin, capo-fabbro dell'Inferno, che abita in una casa di ferro circondata da scheggie metalliche. K'daai Maqsin è un maestro rinomato; è lui che raggiusta le membra spezzate o amputate degli eroi. Accade che egli partecipi all'iniziazione degli sciamani famosi dell'altro mondo: ne tempra le anime come si tempra il ferro Ci si ricorderà della parte degli sciamani-fabbri («diavoli'») nei sogni iniziaùci dei futuri sciamani. Quanto alla casa di K' daai Maqsin, si sa che nella sua discesa estatica agli Inferni di Erlik Khan lo sciamano altaico ode rumori: metallici. Erlik incatena con ceppi di ferro le anime catturate dai cattivi spiriti. Secondo le tradizioni dei Tungusi e degli Oroccr, la testa del futuro sciamano è forgiata contemporaneamente agli ornamenti del suo costume nella stessa fornace.

Secondo le credenze buriate i nove figli di Boshintoj, fabbro celeste, scesero in terra per insegnare agli uomini la metallurgia: i loro primi discepoli furono gli antenati delle famiglie di fabbri (Sandschejew). Ad udire un'altra leggenda, lo stesso Tangriblanc avrebbe inviato sulla terra Boshintoj coi suoi nove figli per rivelare agli umani l'arte di lavorare i metalli. I figli di Boshintoj si sposarono con fanciulle terrestri e per tal via divennero gli antenati dei fabbri: nessuno può divenir fabbro se non è discendente di una di queste famiglie. I Buriati conoscono parimenti dei «fabbri neri» che si impiastricciano il viso con grasso per certe cerimonie: essi sono particolarmente temuti dalla popolazione iibid., p. 540). Gli dèi e gli spiriti protettori dei fabbri non si limitano ad aiutarli nel loro lavoro ma li difendono anche contro i cattivi spiriti. I fabbri buriati hanno loro riti speciali: sacrificano un cavallo aprendogli il ventre e strappandogli il cuore; rito, questo, che è nettamente «sciamanico». L'anima del cavallo va a raggiungere il fabbro celeste. Nove giovani assumono la parte dei nove figli di Boshintoj e un uomo, che incarna lo stesso fabbro celeste, cade in estasi e recita un monologo abbastanza lungo nel quale egli rivela come abbia inviato, in illo tempore, i suoi figli sulla terra per aiutare gli umani, ecc. Poi tocca il fuoco con la lingua. A Sandschejew fu raccontato essere un antico costume che il personaggio rappresentante Boshintoj prendesse del ferro fuso nella mano (I fabbri dogon prendono in mano un ferro arroventato per richiamare la pratica dei primi fabbri). Per conto suo egli, però, poté solo vedere toccare ferro fuso arroventato col piede. In tali prove si possono riconoscere facilmente le esibizioni sciamaniche: come i fabbri, gli sciamani sono dei «maestri del fuoco». Ma i loro poteri magici sono sensibilmente superiori.

Popov ha descritto la seduta di guarigione di un fabbro organizzata da uno sciamano. La malattia era stata provocata dagli «spiriti» del fabbro. Dopo aver sacrificato un toro nero a K'daai Maqsin, vennero intrisi di sangue tutti gli utensili del fabbro. Sette uomini accesero un gran fuoco ove gettarono la testa del toro. Nel frattempo lo sciamano dava inizio al suo incantesimo e si preparava al viaggio estatico da K'daai Maqsin. I sette uomini ripresero la testa del toro, la misero sull'incudine e la colpirono con dei martelli. Qui non abbiamo forse un «forgiamento» simbolico della «testa» del fabbro corrispondente a quello cui si danno i «demoni» nei sogni iniziatici del futuro sciamano? Lo sciamano scende negli inferni di K'daai Maqsin, riesce ad incarnare uno spirito che per sua bocca risponde alle domande che gli si fanno circa la malattia e la cura da seguire.

Il «potere sul fuoco» e soprattutto la magia dei metalli han dato dappertutto ai fabbri la reputazione di stregoni temibili. Donde un'attitudine ambivalente nei loro riguardi: essi sono ad un tempo disprezzati e venerati. Questo comportamento antitetico si trova attestato soprattutto in Africa, in numerose tribù il fabbro vien disprezzato e considerato come un paria, sino al punto che lo si può uccidere impunemente, ma in altre tribù il fabbro è invece rispettato, è assimilato al medicine-man e può perfino divenire un capo politico. Tutto ciò si spiega con le reazioni contraddittorie suscitate dai metalli e dalla metallurgia, oltre che con le delivellazioni che distinguono le varie società africane: alcune hanno conosciuto tardi la metallurgia e in contesti storici complessi. Ma quel che qui ci importa è il fatto che anche in Africa i fabbri costituiscono talvolta delle società segrete con rituali iniziatici specifici. In certi casi abbiamo perfino una simbiosi fra i fabbri e gli sciamani o i medicine-men. La presenza dei fabbri nelle società a base iniziatica («Mànnerbünde») risulta attestata presso gli antichi Germani e i Giapponesi. Relazioni analoghe sono state constatate fra la metallurgia, la magia e i Fondatori di dinastie nelle tradizioni mitologiche cinesi. Uguali rapporti, ma qui assai più complessi, si possono presentire fra i Ciclopi, i Dactili, i Cureti, i Telchini e la lavorazione dei metalli. Il carattere demoniaco, «àsurico s della lavorazione dei metalli risulta bene in evidenza nei miti delle popolazioni aborigene dell'India (Birhor, Munda, Oraon), i quali sottolineano l'orgoglio del fabbro e la sua disfatta finale ad opera dell'Essere supremo il quale fa si che egli resti bruciato nella sua stessa fucina.

I «segreti della metallurgia» ci ricordano i segreti dell'arte che gli sciamani si trasmettono per iniziazione: nell'uno come nell'altro caso ci troviamo di fronte ad una tecnica magica di carattere esoterico. È per questo che, in genere, la professione del fabbro è, come quella dello sciamano, ereditaria. Un'analisi più approfondita dei rapporti storici esistiti fra lo sciamanismo e la lavorazione dei metalli ci condurrebbe troppo lontano dal nostro tema. Qui, importa e basta mettere in evidenza che, per via del «potere sul fuoco» che essa implicava, la magia metallurgica ha assimilato numerosi prestigi sciamanici. Nella mitologia dei fabbri troviamo una quantità di temi e di motivi tratti dalle mitologie sia degli sciamani, sia degli stregoni in genere. Questo stato di cose appare anche nelle tradizioni folkloristiche europee, quale pur siano le loro origini: il fabbro vi viene spesso assimilato ad un essere demoniaco e il Diavolo viene raffigurato come un essere che getta fiamme dalla bocca. In una tale imagine ritroviamo, sia pure valorizzato negativamente, il tema del potere magico sul fuoco.

 

 

 

 

 

 

Il calore magico

back to index

 

Proprio come il Diavolo nelle credenze dei popoli europei, gli sciamani non sono soltanto «maestri del fuoco»: essi possono anche incarnare lo spirito del fuoco fino al punto di emettere fiamme dalla bocca, dal naso e da tutto il corpo durante le sedute. Un tale tipo di prodezze rientra nella categoria delle meraviglie sciamaniche aventi relazione con la «signoria del fuoco», meraviglie di cui abbiamo riferito numerosi esempi. Un potere magico del genere contrassegna la «condizione da spirito ~~ realizzata dagli sciamani.

Noi abbiamo però visto che la concezione del «calore mistico» non è monopolio dello sciamanismo, ma appartiene alla magia in genere. Un gran numero di tribù «primitive» concepisce il potere magico-religioso come qualcosa di «ardente» e lo designa con termini che voglion dire «calore», «bruciatura», «assai caldo», ecc. A Dobù l'idea di calore si trova sempre associata a quella di stregoneria. Lo stesso si osserva nelle Isole Rossel, dove il «calore» è l'attributo dei maghi. Nelle Isole Salomone tutti coloro che posseggono un alto grado di mana son considerati saka, cioè «brucianti». Altrove, per esempio a Sumatra e nell'arcipelago malese, le parole che designano il «calore» esprimono anche l'idea del male, mentre le nozioni di beatitudine, di pace e serenità sono rese tutte da parole che significano la frescura (Webster). È per questa ragione che numerosi maghi e stregoni bevono acqua salata e mangiano piante estremamente piccanti: in tal modo vogliono accrescere il loro «calore» interno. Un motivo analogo fa astenere gli stregoni e le streghe dell'Australia dal consumare sostanze «brucianti»: infatti essi posseggono già una quantità sufficiente di «fuoco interiore».

Non diverse concezioni si sono conservate in religioni pìu complesse. Gli Indù dei nostri giorni danno ad una divinità particolarmente possente gli epiteti di prakhar («assai calda»), di jaival («ardente»), di jvalit («che possiede fuoco»). I maomettani d'India credono che un uomo in comunicazione con Dio divenga «bruciante» (Abbott). Qualcuno che opera miracoli vien chiamato sahib-josh, ove josh significa «bollente». Per estensione, ogni specie di persona o di azione cui vien riferito un qualunque «potere» magico-religioso è considerata come «bruciante».

A questo punto si possono ricordare i bagni iniziatici di vapore delle confraternite mistiche nord-americane e, in genere, la parte magica che ha il trasudare in ambienti speciali surriscaldati durante il periodo di preparazione dei futuri sciamani in numerose tribù nord-americane. La funzione estatica di simili procedimenti, insieme all'intossicazione mediante fumo di canapa, l'abbiamo poi ritrovata fra gli Sciti. Sempre nello stesso contesto, bisogna ricordare il tapas delle tradizioni cosmogoniche e mistiche dell'India antica: il «calore interno» e il trasudamento sono «creatori». Si potrebbero altresì citare certi miti eroici indoeuropei, col loro furor, la loro wut, il loro ferg: l'eroe irlandese Cuchulainn si sente cosi «caldo» dopo la sua prima impresa (la quale, del resto, come Georges Dumézil l'ha mostrato, equivale ad una iniziazione di tipo guerriero), che gli si portano tre tini di acqua ghiaccia. «Fu messo nel primo tino ed egli infuse nell'acqua un calore tale che l'acqua spezzò le tavole e i cerchi del tino come si spezza un guscio di noce. Nel secondo recipiente l'acqua fece bolle grosse come un pugno. Nel terzo tino il calore fu del grado che alcuni riescono a sopportare ed altri no. Allora la collera (ferg) del fanciullo dimìnuì e gli furono messe indosso le vesti». Lo stesso «calore mistico» - di tipo «guerriero» - distingue Batradz, l'eroe dei Narti.

Tutti questi miti e queste credenze - è bene notarlo - sono la controparte dei rituali iniziatici che implicano una effettiva «signoria sul fuoco». Proprio come lo yogi himalayano o tantrico, il futuro sciamano eschimese o manchi deve dimostrare la sua potenza magica con la resistenza ad un freddo terribile e col far asciugare panni bagnati applicati al suo corpo nudo. D'altra parte tutta una serie di prove imposte ai futuri maghi completano, in senso inverso, questo dominio del fuoco. La resistenza al freddo resa possibile dal «calore mistico» o l'insensibilità al fuoco denotano entrambe uno stato «superumano» raggiunto.

Spesso l'estasi sciamanica non la si raggiunge che dopo il «riscaldamento». Come abbiamo avuto occasione di notare, la dimostrazione dei potere fachirici in dati punti della seduta deriva dalla necessità, in cui si trova lo sciamano, di autenticare lo «stato secondo» ottenuto· mediante l'estasi. Egli si colpisce con dei coltelli, tocca ferro arroventato a bianco, inghiotte carboni ardenti, perché non può fare altrimenti: egli è tenuto a provare la nuova, superumana condizione, a cui ha trovato accesso.

Vi è ogni ragione per supporre che l'uso delle droghe sia stato favorito dalla ricerca del «calore magico». Il fumo di certe erbe, la «combustione» di certe piante avevano la virtù di accrescere il «potere». L'intossicato si «riscalda»; l'ebbrezza delle droghe è «bruciante». Ci si sforzò di ottenere il «calore interiore» che conduce alla trance con mezzi meccanici. È opportuno tener anche conto del valore simbolico dell'intossicazione, inquantoché questa diviene l'equivalente di una «morte»: l'intossicato abbandona il corpo e fa propria la condizione dei trapassati e degli spiriti. L'estasi mistica essendo stata assimilata ad una «morte» provvisoria o all'abbandono del corpo, ogni intossicazione conducente a tanto fu integrata nell'insieme delle tecniche dell'estasi. Studiando più accuratamente il problema si ha però l'impressione che l'uso delle droghe attesti piuttosto la decadenza di una tecnica dell'estasi o la sua estensione a popolazioni o gruppi sociali «inferiori». Comunque, abbiamo constatato che l'uso delle droghe, del tabacco, ecc. è abbastanza recente nello sciamanismo delle regioni dell'estremo Nord-Est.

 

 

 

 

 

 

Il "volo magico"

back to index

 

Gli sciamani siberiani, eschimesi, nord-americani volano. Dappertutto nel mondo agli stregoni e ai medicine-men viene attribuito questo potere magico. A Malekula gli stregoni (bwili) hanno la capacità di trasformarsi in animali, di preferenza in polli e falchi, perché la facoltà di volare li fa rassomigliare a degli spiriti. Lo stregone Marindo «va in una specie di capanna da lui costruita nella foresta con foglie di palma e si orna parte del braccio e l'avambraccio con le lunghe penne di un airone. Poi dà fuoco alla piccola abitazione, senza abbandonarla... il fumo e le fiamme debbono sollevarlo in aria e egli, come un uccello, volerà verso il luogo che vuole ...».

Questi tratti ci ricordano il simbolismo ornitomorfo del costume degli sciamani siberiani. Lo sciamano daiaco che scorta le anime dei defunti nell'altro mondo assume anche lui forma di uccello. Abbiamo visto che il sacrificatore vedico giunto alla sommità della scala stende le braccia come l'uccello le ali, ed esclama: «Ho raggiunto il Cielo! ecc.». Lo stesso rito a Malekula: nel punto culminante del sacrificio il sacrificatore allarga le braccia imitando il falco e intona un canto in onore delle stelle. Secondo molte tradizioni il potere di volare era stato proprio a tutti gli uomini dell'età mitica: tutti potevano raggiungere il Cielo, sulle ali di un uccello favoloso o sulle nubi. Inutile tornare sui vari dettagli del simbolismo del volo che abbiamo via via indicati (piume, ali, ecc.). V'è solo da ricordare che una credenza universale ampiamente attestata anche in Europa attribuisce agli stregoni e alle streghe la facoltà di librarsi negli spazi. Si è visto che non diversi poteri magici vengono attribuiti a yogi, a fachiri e ad alchimisti. Tuttavia v'è da precisare che tali poteri presentano talvolta un carattere puramente spirituale: il «volo» sta solo ad esprimere l'intelligenza, la comprensione delle cose segrete o delle verità metafisiche. «L'intelligenza (manas) è più rapida degli uccelli» - dice il Rig-Veda (VI, 9, 5) e la Pamçavimça-Brahmana (XIV, I, 13) precisa: «Chi capisce possiede ali».

Una analisi adeguata del simbolismo del volo magico ci condurrebbe troppo lontano. Rileveremo soltanto che due motivi mitici importanti han contribuito a conferirgli la sua struttura attuale: la raffigurazione mitica dell'anima sotto forma di un uccello e la concezione degli animali quali psicopompi. Negelein, Frazer e Frobenius han raccolto un ricco materiale intorno a questi miti dell'anima. A tale riguardo, per noi l'importante sta nel fatto che gli stregoni e gli sciamani realizzano quaggiù e tutte le volte che lo vogliono 1'«uscita dal corpo», cioè la morte che, sola, può trasformare in «uccello» ciò che resta di un essere umano: gli sciamani e gli stregoni godono della condizione di «anime», di «disincarnati», mentre una tale condizione ai profani non si rende accessibile che al momento della morte. Questo volo magico sta ad esprimere, ad un tempo, l'autonomia dell'anima e l'estasi, il che spiega come questo mito abbia potuto esser ripreso in complessi culturali così diversi: stregoneria, mitologia del sogno, culti solari e apoteosi imperiali, tecniche dell'estasi, simbolismo funerario, e via dicendo. Del pari, esso è in relazione col simbolismo dell'ascensione (vedi più oltre). Cotesto mito dell'anima contiene in germe tutta una metafisica dell'autonomia e della libertà spirituale dell'uomo: è qui che va cercato il punto di partenza delle prime speculazioni sull'abbandono volontario del corpo, sull'onnipotenza dell'intelletto, sulla immortalità dell'anima umana. Una analisi dell'«imaginazione del movimento» potrà mostrarci quanto la nostalgia del volo sia essenziale alla psiche umana. Qui il punto fondamentale è che la mitologia e i riti del volo magico propri agli sciamani e agli stregoni confermano e proclamano la trascendenza di questi rispetto alla condizione umana: volando negli spazi in forma di uccello o nella loro forma normale gli sciamani denunciano, in un certo modo, la decadenza umana. Infatti abbiamo visto che numerosi miti alludono ad un tempo primordiale nel quale tutti gli esseri umani potevano salire nei Cieli scalando una montagna, salendo su di un albero o su di una scala, volando con mezzi propri o, infine, lasciandosi portare da uccelli. La decadenza dell'umanità impedisce ormai alla gran massa degli uomini di volare in Cielo: solo la morte restituisce agli uomini - e nemmeno a tutti gli uomini - la loro condizione primordiale; solo allora essi possono salire in Cielo, volare come uccelli e via dicendo.

E senza portar oltre, in questa sede, l'analisi di cotesto simbolismo del volo e della mitologia dell'anima-uccello, vale ricordare ancora una volta che la concezione dell'anima-uccello e, pertanto, l'identificazione del morto ad un uccello si trovano già attestate nelle religioni del Vicino Oriente arcaico. Il Libro dei Morti egizio descrive il morto come un falco che spicca il volo (c. XXVIII, ecc.) e in Mesopotamia i trapassati furono raffigurati in forma di uccelli. Il mito corrispondente è verosimilmente ancor più antico: sui monumenti preistorici d'Europa e d'Asia l'Albero cosmico vien rappresentato con due uccelli sui suoi rami, uccelli che, a parte il loro valore cosmogonico, sembrano esser stati anche simboli dell'Anima-Antenato. Infatti ci si ricorderà che nelle mitologie centro-asiatiche, siberiane e indonesiane, gli uccelli accovacciati sui rami dell'Albero del Mondo rappresentano le anime degli uomini. Per il fatto che possono trasformarsi in «uccelli», cioè grazie alla loro condizione da «spiriti», gli sciamani sono capaci di volare fino all'Albero del Mondo per riportarne delle «anime-uccelli». L'uccello appollaiato su un bastone è un simbolo frequente negli ambienti sciamanici. Lo si ritrova, ad esempio, sulle tombe degli sciamani yakuti. Un tàltos ungherese «aveva davanti alla sua capanna un bastone o un piolo, e un uccello era appollaiato su tale bastone. Egli inviava l'uccello dove doveva andare». Si vede già un uccello appollaiato su un piolo nel celebre rilievo di Lascaux (uomo a testa d'uccello) nel quale Horst Kirchner ha visto la rappresentazione di una trance sciamanica. Come che stiano le cose, certo è che il motivo dell'«uccello appollaiato su un piolo» è estremamente arcaico.

Da questi esempi si vede che il simbolismo e le mitologie del «volo magico» oltrepassano lo sciamanismo in senso stretto e gli sono anteriori: essi appartengono all'ideologia della magia universale ed hanno una parte essenziale in molti complessi magico-religiosi. Pertanto ci si spiega il fatto che tale simbolismo e tutte queste mitologie siano state riprese nello sciamanismo: esse non mettevano forse in rilievo e non rendevano più evidente la condizione superumana degli sciamani, epperò, in ultima istanza, la loro libertà di muoversi impunemente nelle tre zone cosmiche e di passare indefinitamente dalla «vita» alla «morte» e viceversa, proprio come gli «spiriti», di cui essi fan propri i poteri miracolosi? Il «volo magico» dei Sovrani rivela la stessa autonomia e la stessa vittoria sulla Morte.

A tale riguardo ricordiamo che la levitazione dei santi e dei maghi si trova parimenti attestata nelle tradizioni cristiane ed islamiche. L'agiografia cattolica ha anzi registrato un buon numero di levitazioni e perfino di «voli»; lo prova la rassegna recente fatta in proposito da Oliver Leroy. L'esempio più famoso è quello di san Giuseppe da Copertino (1603-1663). Un testimone descrisse la sua levitazione nel modo seguente: «Egli s'innalzò nello spazio in mezzo alla chiesa volò come un uccello verso l'altare maggiore, e qui abbracciò il tabernacolo». «Talvolta lo si vedeva anche volare ... sull'altare di san Francesco e della Vergine del Grotello». Un'altra volta se ne volò su di un olivo «restando in ginocchio per una mezz'ora su di un ramo che si vedeva appena oscillare come se fosse stato un uccello ad esservisi posato sopra». In un'altra occasione egli volò in estasi a circa due metri e mezzo dal suolo, fino ad un mandorlo lontano una trentina di metri. Fra gli innumerevoli altri esempi di levitazione o di volo di santi o di persone pie ricorderemo ancora le esperienze di suor Maria di Gesù crocifisso, carmelitana araba: ella s'innalzava assai in alto, fino alla cima degli alberi nel giardino del Carmelo di Betlemme, «ma cominciava col tirarsi su aiutandosi con qualche ramo senza restar sospesa del tutto nello spazio».

 

 

 

 

 

 

Il ponte e il "passaggio difficile"

back to index

 

Come i defunti, gli sciamani nel loro viaggio agli Inferni debbono attraversare un ponte. Al pari della morte, l'estasi implica un «mutamento» dato figurativamente dal mito nella forma di un passaggio pericoloso. Del che, abbiamo incontrato numerosi esempi. Proponendoci di tornare in uno studio speciale su tale argomento, qui ci limiteremo ad alcune osservazioni sommarie. Il simbolismo del ponte funerario è universalmente diffuso e oltrepassa l'ideologia e la mitologia sciamanica. Questo simbolismo è, da un lato, solidale col mito di un ponte - o di un albero, di una liana, ecc; - che un tempo collegava la Terra col Cielo, ponte grazie al quale gli umani comunicavano senza difficoltà con gli dèi; dall'altro lato, esso è solidale col simbolismo iniziatico della «porta stretta» o di un «passaggio paradossale», di cui già riferimmo qualche esempio. Si tratta di un complesso mitologico i principali elementi costitutivi del quale sarebbero i seguenti: a) in illo tempore, nell'era paradisiaca dell'umanità, un ponte collegava la Terra e il Cielo e si passava dall'una regione all'altra senza incontrare ostacoli, perché non esisteva la morte; b) una volta interrottesi le comunicazioni facili fra Cielo e Terra, il ponte lo si attraversa solo «in ispirito», cioè come morti o essendo in estasi; c) questo passaggio è difficile, in altri termini: è disseminato di ostacoli e non tutte le anime riescono a superarlo; bisogna affrontare demoni e mostri che vorrebbero divorare l'anima, oppure il ponte si fa stretto come la lama di un rasoio al passaggio degli empi, ecc. - solo i «buoni» e, in particolare, gli iniziati attraversano felicemente il ponte (gli iniziati, in un certo modo, conoscevano già il cammino essendo passati attraverso la morte e la resurrezione rituale); d) certi privilegiati riescono tuttavia ad attraversarlo già da vivi, sia in estasi come gli sciamani, sia «usando la forza», come certi eroi, sia, infine, «paradossalmente», per mezzo della «sapienza» o delI'inìzìazione - sul che torneremo fra un istante.

Il punto importante è, a tale riguardo, che si ritiene che numerosi rituali «costruiscano» simbolicamente un «ponte» o una «scala», per la virtù stessa del rito. Una tale idea appare attestata, per esempio, nel simbolismo del sacrificio brahmanico (cfr. Taittiriya-Samhita, VI, 5, 3, 3; VI, 5, 4 2; VII, 5; 8, 5, ecc.). Abbiamo visto che la corda che collega le betulle cerimoniali vien chiamata proprio «ponte» e simboleggia l'ascesa dello sciamano in Cielo. In certe iniziazioni giapponesi i candidati son tenuti a costruire un «ponte» con sette freccie e sette tavole. Questo rito ci riporta alle scale di coltelli sulle quali salgono i candidati durante la loro iniziazione sciamanica e, in genere, ai riti iniziatici di ascesa. Il senso di tutti questi riti di un «passaggio pericoloso» è il seguente: si stabilisce una comunicazione fra la T erra e il Cielo sforzandosi di restaurare la «comunicabilità» che era la legge in illo tempore. Da un certo punto di vista, tutti i riti inizìatici tendono alla ricostruzione di un «passaggio» verso l'aldilà e, pertanto, all'abolizione della rottura di livello che caratterizza la condizione umana dopo la «caduta».

La vitalità del simbolismo del ponte è parimenti dimostrata dalla parte che esso ha sia nelle apocalissi cristiane ed islamiche, sia nelle tradizioni iniziatiche del Medioevo occidentale. La Visione di San Paolo ci parla di un «ponte sottile come un capella» che collega il nostro mondo col Paradiso. La stessa figurazione s'incontra fra gli scrittori e i mistici arabi: il ponte è «più stretto di un capello» e connette la Terra alle sfere astrali e al Paradiso; proprio come nelle tradizioni cristiane, i peccatori non riescono ad attraversarlo e precipitano nell'Inferno. La terminologia araba sottolinea nettamente il carattere di «accesso difficile» proprio al ponte o al «sentiero». Le leggende medievali riferiscono di un «ponte nascosto sotto le acque» e di un ponte-sciabola sul quale l'eroe (Lancellotto) deve passare con mani e piedi nudi. Questo ponte è «tagliente più di una falce» e il passaggio avviene «con sofferenza ed agonia». Il carattere iniziatico della traversata del ponte-sciabola è confermato da ancora un punto: prima di avventurarsi su di esso Lancellotto scorge sull'altra riva due leoni, ma una volta giunto non trova più che una lucertola: il «pericolo» scompare per il fatto che la prova iniziatica è stata superata. Nelle tradizioni finniche, Väinämöinen e gli sciamani che viaggiano in trance verso l'altro mondo (Tuonela) devono attraversare un ponte fatto di spade e di coltelli.

Il «passaggio stretto» o «pericoloso» è un motivo corrente sia delle mitologie funerarie che delle mitologie iniziatiche - la solidarietà ed anzi la coalescenza spesso esistente fra le une e le altre essendo nota. Secondo le concezioni della Nuova Zelanda il morto deve passare attraverso uno spazio angusto fra due demoni che tentano di afferrarlo: se egli è «leggero» riesce a passare, ma se è «pesante» cade e diviene preda dei demoni. «Leggerezza» o «rapidità» - come in tutti i miti ove si tratta di passare «rapidissimamente» attraverso le mascelle di un mostro - è sempre una figurazione simbolica dell'«intelligenza», della «saggezza», della «trascendenza» e, in ultima analisi, dell'iniziazione. «Non è facile passare sulla lama affilata di un rasoio, dicono i maestri per esprimere la difficoltà del cammino [che conduce alla conoscenza suprema]» - si legge nella Katha Upanishad (III, 14). Questa formula mette in luce il carattere iniziatico della conoscenza metafisica. «Stretta è la porta e angusto il cammino che conduce alla vita, pochi sono coloro che lo trovano» (Matteo, VII, 14).

Di fatto, il simbolismo della «porta stretta» e del «ponte pericoloso» è dunque solidale col simbolismo di ciò che abbiamo chiamato il «passaggio paradossale» perché esso talvolta si presenta come una impossibilità o come una situazione senza uscita. Ci si ricordi che i candidati sciamani o gli eroi di certi miti si trovano talvolta in situazioni apparentemente disperate: debbono passare per dove «notte e giorno s'incontrano» o trovare una porta in un muro, o salire in Cielo attraverso uno spazio che si apre per un attimo, o passare fra due macine in continuo movimento, fra due roccie che ad ogni istante si rinserrano, fra le mascelle di un mostro e via dicendo. Come Coomaraswamy ha giustamente notato, tutte queste imagini mitiche esprimono la necessità di trascendere i contrari, di abolire la polarità che caratterizza la condizione umana, ove si voglia accedere alla realtà ultima. «Colui che vuol trasportarsi da questo mondo nell'altro, o tornare da questo, deve farlo nell'intervallo unidimensionale e atemporale che separa forze apparentate ma contrarie, attraverso le quali si può passare solo fulmineamente» (Coomaraswamy, Symplegades, p. 486). Nei miti questo passaggio «paradossale» va appunto a sottolineare il fatto che chi riesce a realizzarlo ha superato la condizione umana: è uno sciamano, un eroe o uno «spirito». Effettivamente non si può realizzare il passaggio «paradossale» se non si è «spiriti».

Basteranno questi esempi per chiarire la funzione dei miti, dei riti e dei simboli di «passaggio» nell'ideologia e nelle tecniche sciamaniche. Attraversando estaticamente il ponte «pericoloso» che collega i due mondi e col quale solo i morti possono misurarsi, lo sciamano per un lato dimostra di essere «spirito» e non più essere umano, dall'altro cerca di restaurare la «comunicabilità» che esisteva in illo tempore fra questo mondo e il Cielo. Quel che infatti gli sciamani realizzano ai nostri giorni in estasi, allora, all'alba dei tempi, tutti gli esseri umani erano capaci di realizzarlo in concreto: salivano al Cielo e ridiscendevano senza dover ricorrere ad una trance. L'estasi torna ad attualizzare, provvisoriamente e per un limitato numero di soggetti, lo Stato primordiale dell'intera umanità. A tale riguardo l'esperienza mistica dei «primitivi» è un ritorno alle origini, una regressione nel tempo mistico del paradiso perduto. Per lo sciamano in estasi il Ponte o l'Albero, la Liana, la Corda e cosi via che all'alba dei tempi univa la Terra al Cielo riacquista, per un istante, la sua realtà e la sua attualità.

 

 

 

 

 

 

La scala - Il cammino dei morti - L'ascensione

back to index

 

Abbiamo incontrati innumerevoli esempi di ascese sciamaniche in Cielo sotto specie di ascesa dei pioli di una scala. Lo stesso mezzo viene usato per facilitare la discesa degli dèi sulla terra e cosi pure per assicurare l'ascensione dell'anima dei morti. Cosi nell'arcipelago indiano s'invita il dio del Sole a discendere sulla terra per una scala a sette gradini. Presso i Daiachi di Dusun il medicine-man, chiamato a curare un malato, fissa in mezzo alla stanza una scala che raggiunge il tetto; è per questa scala che scenderanno gli spiriti invitati dallo stregone a prender possesso di lui. Certe tribù malesi conficcano nelle tombe dei pali che essi chiamano «scale delle anime», senza dubbio per invitare i defunti a lasciare la tomba e a volarsene in Cielo. I Mangari, tribù del Nepal, usano una scala simbolica praticando nove tacche o gradini in un'asta che conficcano nella tomba: questa scala serve al morto per salire in Cielo. I Russi di Voronez fanno cuocere delle piccole scale di pasta in onore dei loro morti e talora disegnano i sette cieli con sette incisioni. L'uso è passato anche ai Ceremissi. Stesso costume tra i Russi siberiani.

Nei loro testi funerari gli Egiziani hanno conservato l'espressione asken pet (asken = gradino) per significare che la scala messa a loro disposizione da Ra per salire in cielo è una scala reale. «È stata disposta per me la scala per veder gli dèi» - si legge nel Libro dei Morti egiziano. Gli dèi gli fanno una scala affinché, servendosi di essa, salga in cielo» (Weitl). In numerose tombe delle dinastie arcaiche e medievali son stati trovati amuleti raffiguranti una scala (maqet) o una scalinata. Figure analoghe sono state trovate interrate nelle sepolture della frontiera del Reno.

Una scala (climax) a sette gradini è attestata nei Misteri mithriaci e noi abbiam visto che il sacerdote-re Kosingas minacciava i suoi sudditi di andar a trovare Hera per mezzo di una scala. Una ascensione celeste a mezzo di un rito di salita su per una scala faceva probabilmente parte dell'iniziazione orfica. In ogni caso il simbolismo dell'ascensione per mezzo di una scala era conosciuto in Grecia.

W. Bousset già da tempo ha ravvicinato la scala mithriaca a motivi orientali consimili e ha indicato il simbolismo comune ad entrambi. Importa però mettere anche in luce il simbolismo del «Centro del Mondo» implicitamente contenuto in tutte le ascese celesti. Giacobbe sogna una scala la cui cima raggiunge il cielo e per la quale «gli angeli del Signore salgono e scendono» (Genesi, XXVIII, 12). La pietra su cui Giacobbe si addormenta è un bethel e si trova «al centro del mondo» perché è là che si realizzava il collegamento fra tutte le regioni cosmiche (non dimentichiamo un altro tipo di ascensione celeste, quella del Sovrano o del Profeta per ricevere dalle mani del Dio supremo il «libro celeste», motivo, questo, assai importante). Nella tradizione islamica Maometto vede una scala che dal tempio di Gerusalemme («Centro» per eccellenza) sale fino in Cielo, con angeli a destra e a sinistra: per tale scala le anime dei giusti salivano verso Dio. Secondo altre tradizioni Maometto raggiunge il Cielo a cavallo di un uccello: così il Libro della Scala narra che egli fece il suo viaggio sul dorso di «una specie di anitra più grande di un asino e più piccola di un mulo», guidato dall'arcangelo Gabriele. Vedi, più su, i racconti analoghi circa santi musulmani. «Volo magico», scalata, ascensione sono, del resto, formule omologabili di un simbolismo e di una esperienza mistica che restano identici. La scala mistica è abbondantemente attestata nella tradizione cristiana: citiamo il martirio di Santa Perpetua e la leggenda di Sant'Olaf.

San Giovanni Climaco usa il simbolismo della scala per esprimere le diverse fasi dell'ascensione spirituale. Un simbolismo notevolmente analogo si trova nella mistica islamica: l'ascesa dell'anima verso Dio implica l'ascesa obbligatoria per sette gradi: pentimento, astinenza, rinuncia, povertà, pazienza, confidenza in Dio, soddisfazione. Il simbolismo dei «gradini», delle «scale» e delle «ascensioni» non ha cessato di esser sfruttato dalla mistica cristiana. Dante vede nel cielo di Saturno una scala d'oro che sale vertiginosamente fino all'ultima sfera celeste, scala sulla quale salgono le anime dei beati (Paradiso, XXI-XXII). San Giovanni della Croce raffigura le tappe della perfezione mediante una difficile scala: la sua Salita del Monte Carmelo descrive gli sforzi ascetici e spirituali sotto la forma dell'ascensione lunga e fastidiosa di una montagna. In certe leggende dell'Europa orientale la Croce del Cristo vien considerata come un ponte o una scala che serve al Signore per discendere sulla terra e alle anime per salire verso di Lui. Sull'iconografia bizantina della Scala del Cielo vedi Coomaraswamy. La scala a sette gradini si è parimenti conservata nella tradizione alchemica: un codice rappresenta l'iniziazione alchemica mediante una scala a sette gradini sulla quale salgono uomini dagli occhi bendati; sul settimo gradino sta un uomo senza benda, davanti ad una porta chiusa.

Il mito dell'ascensione in Cielo mediante una scala è noto anche in Africa, in Oceania e nell'America del Nord. Ma la scala non è che una delle numerose espressioni simboliche dell'ascensione: si può raggiungere il Cielo grazie al fuoco o al fumo, salendo su per un albero, scalando una montagna, arrampicandosi su per una corda o una liana, utilizzando l'arcobaleno e anche un raggio solare, ecc. Ricordiamo infine un altro gruppo di miti e di leggende aventi relazione col tema dell'ascesa: la «catena di freccie». Un eroe sale in Cielo conficcando una prima freccia nella volta celeste, la seconda nella prima e così via fino a comporre una catena fra Cielo e Terra. Tale motivo lo si incontra in Melanesia, nell'America del Nord e del Sud; è assente in Africa e in Asia. L'arco essendo sconosciuto in Australia, la parte che esso ha nel mito qui passa ad una lancia cui è attaccato un lungo lembo di stoffa; dopo che la lancia è stata conficcata nella volta celeste, l'eroe giunge fin là grazie a questa striscia.

Occorrerebbe un intero volume per esporre in modo adeguato questi motivi mitici e tutto ciò che essi implicano nel dominio del rito. Preciseremo soltanto che stessi itinerari valgono sia per gli eroi mitici, sia per gli sciamani (gli stregoni, i medicine-meni) sia per certi morti privilegiati. Qui non dobbiamo studiare il problema, assai complesso, della varietà degli itinerari nel post-mortem nelle diverse religioni. Rileviamo solo che per certe tribù, da considerarsi fra le più arcaiche, i morti vanno in Cielo, ma che la generalità delle popolazioni dette «primitive» conosce per lo meno due itinerari del post-mortem: uno celeste per gli esseri privilegiati (i capi, gli sciamani, gli «iniziati») e uno orizzontale o infernale per il resto degli umani. Cosi un certo numero di tribù australiane - i Narrinyeri, i Dieri, i Buandik, i Kurnai e i Kulin - crede che i morti si slancino verso il Cielo; secondo i Kulin essi ascenderebbero lungo i raggi del sole che tramonta. le tribù australiane più  arcaiche sarebbero quelle del sud-est del continente, vale a dire precisamente quelle in cui si nota una più  salda concezione funerario-celeste (in relazione, senza dubbio, con le credenze in un Essere supremo di struttura uranica). Al contrario, le tribù del centro dell'Australia - ove predomina una concezione funeraria c orizzontale in relazione col culto degli antenati e il totemismo - sarebbero, dal punto di vista etnologico, le meno «primitive». Ma nel centro dell'Australia si pensa che i morti infestino i luoghi che già furono ad essi familiari; altrove, si ritiene che essi si dirigano verso certe regioni dell'Ovest.

Per i Maori della Nuova Zelanda l'ascensione delle anime è lunga e difficile, perché vi sono fino a nove cieli e solo nell'ultimo risiedono gli dèi. Il sacerdote usa mezzi vari per propiziare questo viaggio: canta e, nel fare ciò, accompagna magicamente l'anima fino in cielo; nel contempo mediante un rito speciale cerca di separare l'anima dal cadavere e di proiettarla verso l'alto. Quando è un capo che muore, il sacerdote e i suoi assistenti fissano delle penne di uccello all'estremità di un bastone e cantano alzando a poco a poco il bastone nell'aria. Notiamo che anche in questo caso solo dei privilegiati 'salgono in cielo; il resto dei mortali se ne va attraverso l'oceano o alla volta di una regione sotterranea.

Comprendendo in una veduta d'insieme tutti i miti e i riti che abbiamo succintamente enumerati si è colpiti nel constatare che essi hanno in comune un'idea dominante e cioè che la comunicazione fra il Cielo e la Terra è realizzabile - o lo fu in illo tempore - grazie ad un dato mezzo fisico: ponte, scala, liana, corda, arcobaleno, «catena di freccie», montagna, ecc. Tutte queste figurazioni simboliche della connessione fra Cielo e Terra non sono che varianti dell'Albero del Mondo o dell'Axis Mundi. In un altro capitolo abbiamo visto che il mito è il simbolismo dell'Albero Cosmico implica l'idea di un «Centro del Mondo», di un punto di collegamento fra Terra, Cielo e Inferno. Del pari, abbiamo constatato che il simbolismo del «Centro», pur avendo una parte essenziale nell'ideologia e nelle tecniche sciamaniche, è ben più diffuso dello stesso sciamanismo. Il simbolismo del «Centro del Mondo», a sua volta, è solidale col mito di un'epoca primordiale nella quale le comunicazioni fra il Cielo e la Terra erano non solo possibili, ma facili e alla portata di ognuno. I miti che abbiamo elencato si riferiscono generalmente all'illud tempus primordiale, ma alcuni di essi alludono ad una ascensione celeste realizzata da un Eroe, da un Sovrano o da uno Stregone dopo l'interruzione delle comunicazioni; in altri termini, essi postulano la possibilità, per certi eletti o privilegiati, di risalire all'origine dei tempi, di ritrovare l'istante mitico e paradisiaco di prima della «caduta», cioè di prima della rottura delle comunicazioni fra Cielo e Terra.

È a questa categoria di eletti o di privilegiati che appartengono gli sciamani: essi però non sono i soli a poter volare in Cielo o a pervenirvi per mezzo di un albero, di una scala e simili; altri privilegiati possono rivaleggiare con essi: i sovrani, gli eroi, gli iniziati. Gli sciamani si distinguono da queste altre categorie di privilegiati per via della loro tecnica specifica, che è l'estasi. L'estasi sciamanica, come si è visto, può esser considerata come il ricupero della condizione umana di prima della «caduta» - in altri termini: essa riproduce una «situazione» primordiale accessibile al resto degli umani unicamente mediante la morte (giacché le ascensioni in Cielo mediante dei riti - si veda il caso del sacrificatore dell'India vedica - sono simboliche, non concrete come quelle degli sciamani). Benché l'ideologia dell'ascensione sciamanica sia quanto mai coerente e solidale con le concezioni mitiche ora passate in rassegna («Centro del Mondo», interruzioni delle comunicazioni, decadenza dell'umanità, ecc.), pure abbiamo incontrato numerosi casi di pratiche sciamaniche aberranti: intendiamo riferirei soprattutto ai mezzi rudimentali e meccanici per ottenere la trance (droghe, danze fino allo spossamento, «possessione», ecc.) forse a causa degli aspetti aberranti della trance sciamanica che Schmidt considerava l'estasi come attributo esclusivo degli sciamani «neri». Poiché, secondo la sua interpretazione, lo sciamano «bianco» non raggiungeva l'estasi, Schmidt non lo considerava come «un vero sciamano» e proponeva di chiamarlo «servitore del cielo». Secondo ogni probabilità, Schmidt svalutava l'estasi solo perché, da buon razionalista, non poteva far soverchio credito ad un'esperienza religiosa implicante la «perdita della coscienza. Ci si può chiedere se, a parte le spiegazioni «storiche» che si potrebbero trovare per coteste tecniche aberranti (decadenza per via di influenze culturali esterne, ibridazione, ecc.), esse non possano essere anche interpretate su di un altro piano. Ad esempio, ci si può domandare se l'aspetto aberrante della trance sciamanica non sia dovuto al fatto che lo sciamano si sforza di sperimentare in concreto un simbolismo e una mitologia che, per la loro stessa natura, non sono «sperimentabili» sul piano «concreto»; se, in una parola, il desiderio di compiere ad ogni prezzo e con ogni mezzo un'ascensione in concreto, un viaggio mistico, e ad un tempo reale, nel Cielo, non abbia condotto alle trance aberranti che abbiamo incontrato; se, infine, questi comportamenti non siano la conseguenza inevitabile del desiderio esasperato di «vivere», cioè di «sperimentare» sul piano carnale, ciò che, nell'attuale condizione umana, non è più accessibile se non sul piano dello «spirito». Ma noi preferiamo lasciar aperto questo problema che, del resto, va oltre il quadro della storia delle religioni e sbocca nel dominio della filosofia e della teologia.

 

 

 

 

 

 

 

Conclusioni

 

 

La formazione dello sciamanismo nord-asiatico

back to index

 

Ci si ricorderà che la parola «sciamano» deriva, attraverso il russo, dal tunguso šaman. La spiegazione di questo termine in base al pali samana (sanscrito: çramana) - servendo da intermediario il cinese cha-men, semplice trascrizione della parola pali - accettata dalla gran parte degli Orientalisti del XIX secolo, era stata tuttavia messa in dubbio già di buona ora (Schott nel 1846, Dordji Banzarov nel 1846) ed ha trovato anche successivamente degli oppositori in Németh nel 1914 e in Laufer nel 1917. Questi studiosi hanno creduto di poter dimostrare l'appartenenza del vocabolo tunguso al gruppo delle lingue turco-mongole in base a certe corrispondenze fonetiche: il k' iniziale del turco arcaico sviluppandosi in tartaro in k, in ciukcio in j, in yakuto in x (spirante sorda, come il tedesco ach), in mongolo in ts, c e nel manciù-tunguso in s o š, il tunguso šamen sarebbe l'equivalente fonetico esatto del turco-mongolo kam (qam) che designa appunto lo «sciamano» propriamente detto nella gran parte delle lingue turche.

Ramstedt ha però dimostrato l'insufficienza della legge fonetica cui si è riferito il Németh. D'altra parte, la scoperta di parole analoghe in tocarico (samane = monaco buddhista) e in sogdiano (šmn = saman) sembra riproporci l'ipotesi dell'origine indù di questo termine. Pur senza pronunciarci sull'aspetto linguistico del problema e pur tenendo conto della difficoltà che s'incontra nello spiegare la migrazione di questo vocabolo indiano dall'Asia centrale fino all'Asia estremo-orientale, rileveremo che la quistione delle influenze indiane sulle popolazioni siberiane va posta nel suo complesso, utilizzando dati sia etnografici, sia storici.

È quel che ha fatto Shirokogorov nei riguardi dei Tungusi in una serie di lavori di cui cercheremo di riassumere i risultati e le conclusioni generali. La parola shaman - nota dunque Shirokogorov - sembra esser estranea alla lingua tungusa. Il punto piri importante è però che il fenomeno dello sciamanismo presenta elementi di origine meridionale, in ispecie buddhistici (lamaisti). In effetti il buddhismo penetrò assai avanti nell'Asia nord-orientale: nel IV secolo in Corea, nella secondo metà del primo millennio fra gli Uiguri, nel XIII secolo fra i Mongoli, nel XV secolo nella regione dell'Amur (presenza di un tempio buddhista all'imboccatura del fiume Amur). La gran parte dei nomi degli spiriti (burkhan) dei Tungusi è stata presa dai Mongoli e dai Manciù i quali, a loro volta, li avevano ricevuti dal lamaismo. Nel costume, nel tamburo e nelle pitture degli sciamani tungusi Shirokogorov ha rinvenuto influenze moderne. Inoltre i Manchi affermano che lo sciamanismo è apparso fra di loro verso la metà dell'XI secolo ma che non si è diffuso che sotto la dinastia Ming (dal XIV al XVII secolo). I Tungusi del Sud, d'altra parte, pretendono che il loro sciamanismo derivi dai Manchi e dai Dahuri. Infine i Tungusi del Nord appaiono influenzati dai loro vicini del Sud, cioè dagli Yakuti. Che l'apparizione dello sciamanismo e la diffusione del buddhismo in queste contrade dell'Asia settentrionale coincidano, Shirokogorov crede di poterlo dimostrare col fatto che lo sciamanismo è fiorito in Manciuria fra il XII e il XVII secolo, in Mongolia prima del XIV secolo, fra i Kirghisi e gli Uiguri probabilmente fra il VII e l'XI secolo, cioè un po' prima del riconoscimento ufficiale del buddhismo (come lamaismo) da parte di tali popolazioni. L'etnologo russo ricorda inoltre la presenza di alcuni elementi etnografici di origine meridionale: la serpe (in certi casi, il boa constrictor), che figura nell'ideologia e nel costume rituale dello sciamano, non s'incontra nelle credenze religiose dei Tungusi, dei Mancìù, dei Dahuri ecc. e presso alcuni di questi popoli lo stesso animale è sconosciuto. Il tamburo sciamanico - il cui centro di diffusione secondo lo studioso russo cadrebbe nella regione del lago Baikal - ha una parte di prim'ordine nella musica religiosa lamaista, come del resto anche lo specchio di rame, d'origine parimenti lamaista, divenuto così importante nello sciamanismo che si può si «sciamanizzare» senza il costume e il tamburo, ma non senza lo specchio. Certi ornamenti della testa deriverebbero anch'essi dal lamaismo.

In conclusione, Shirokogorov considera lo sciamanismo tunguso come un fenomeno relativamente recente che sembra essersi diffuso da Occidente ad Oriente e da Sud a Nord. Esso comprende molti elementi presi direttamente dal buddhismo. «Lo sciamanismo ha radici profonde nel sistema sociale e nella psicologia della filosofia animista, caratteristica dei Tungusi e di altri sciamanisti. Ma è parimenti vero che lo sciamanismo nella sua forma attuale è uno degli effetti della penetrazione del buddhismo fra i gruppi etnici dell'Asia nord-orientale. Nella sua grande sintesi The psychomental complex of the Tungus, Shirokogorov si limita alla formula: «Lo sciamanismo stimolato dal buddhismo». Questo fenomeno di stimolamento si può osservare ancor oggi in Mongolia: i lama consigliano agli squilibrati di divenire sciamani e talvolta un lama si fa sciamano e usa degli «spiriti» degli sciamani. Non bisogna dunque stupirsi se i complessi culturali tungusi sono saturi di elementi presi dal buddhismo e dal lamaismo. La coesistenza sciamanismo-lamaismo si riscontra, del resto, in altri popoli asiatici. Ad esempio, fra i Tuvani, in molte yurte, perfino in quella dei lama, accade di trovare gli éréni sciamanici, difensori contro lo spio rito malvagio, accanto alle imagini del Buddha.

Noi siamo completamente d'accordo circa la formula di Shirokogorov: «lo sciamanismo stimolato dal buddhismo». In effetti, le influenze meridionali hanno modificato ed arricchito lo sciamanismo tunguso, che però non va considerato come una creazione del buddhismo. Come lo nota lo stesso Shirokogorov, prima della penetrazione del buddhismo la religione dei Tungusi era dominata dal culto di Buga, Dio del Cielo. Un altro elemento che vi aveva una certa importanza era il rituale dei morti. Se non esistevano, fra i Tungusi, «sciamani» nel senso attuale del termine, pure esistevano dei sacerdoti e dei maghi specializzati nei sacrifici offerti a Buga e nel culto dei morti. Shirokogorov rileva che oggi in tutte le tribù tunguse gli sciamani non partecipano ai sacrifici in onore del Dio celeste; quanto al culto dei morti, noi abbiam visto che gli sciamani vi sono invitati solo in casi eccezionali, ad esempio, quando il defunto non vuol lasciare la terra e deve esser condotto fino agli Inferni per mezzo di una seduta sciamanica. Se è vero che gli sciamani tungusi non intervengono nei sacrifici offerti a Buga, non è men vero che nelle sedute sciamaniche si può sempre osservare un certo numero di elementi da considerarsi celesti: del resto, il simbolismo dell'ascensione si trova ampiamente attestato fra i Tungusi. Può darsi che questo simbolismo, nella forma attuale, sia stato preso dai Buriati e dagli Yakuti, ma ciò non prova affatto che i Tungusi non lo conoscessero prima di esser entrati in contatto con i loro vicini del Sud: l'importanza religiosa del Dio celeste e l'universalità dei miti e dei riti d'ascensione nell'estremo Nord della Siberia e nelle regioni artiche ci fanno anzi supporre proprio il contrario. La conclusione che ci crediamo in diritto di trarre circa la formazione dello sciamanismo tunguso sarebbe la seguente: le influenze lamaiste si sono manifestate soprattutto nell'importanza che si è finito per accordare agli «spiriti» e nella tecnica usata per dominare e incorporare questi «spiriti». Potremmo dunque dire che nella sua forma attuale lo sciamanismo tunguso appare fortemente influenzato dal lamaismo: ma si ha il diritto di considerare lo sciamanismo asiatico e siberiano nel suo complesso come il risultato di tali influenze sino-buddhiste?

Prima di rispondere a questa domanda ricordiamo alcuni risultati del presente lavoro. Abbiamo potuto constatare che l'elemento specifico dello sciamanismo non è l'incorporazione degli «spiriti» da parte dello sciamano, ma l'estasi che permette l'ascesa in Cielo o la discesa agli Inferni: l'incarnarsi degli spiriti e la «possessione» da parte degli spiriti sono fenomeni universalmente diffusi che non appartengono necessariamente allo sciamanismo in senso stretto. Da questo punto di vista l'attuale sciamanismo tunguso non può esser considerato come una forma «classica» di sciamanismo, proprio per via dell'importanza capitale che vi si accorda all'incorporazione degli «spiriti» e della modesta parte che vi ha l'ascensione celeste. Ora, seguendo Shirokogorov, noi abbiamo visto che proprio l'ideologia e la tecnica messa in opera per dominare e incorporare gli «spiriti» - cioè l'apporto meridionale, lamaista - hanno dato allo sciamanismo tunguso il suo aspetto odierno. Di conseguenza, siamo autorizzati a considerare questa forma moderna di sciamanismo tunguso come una ibridazione dell'antico sciamanismo nord-asiatico; del resto, come si è visto, i miti ci parlano ampiamente della decadenza attuale dello sciamanismo e tali miti li incontriamo tanto presso i Tartari dell'Asia centrale quanto presso le popolazioni dell'estremo Nord-Est della Siberia.

Quanto alle influenze del buddhismo (come lamaismo), decisive per quel che concerne lo sciamanismo tunguso, esse si sono fatte largamente valere anche presso i Buriati e i Mongoli. Abbiamo ripetutamente indicato i segni di tali influenze indiane nella mitologia, nella cosmologia e nell'ideologia religiosa dei Buriati, dei Mongoli e dei Tartari. Soprattutto il buddhismo ha servito di veicolo per l'apporto religioso dell'India nell'Asia centrale. Ma qui è necessario fissare un punto: le influenze indiane non sono state né le prime né le sole influenze meridionali irradiatesi nell'Asia centrale e settentrionale. A partir dalla più alta preistoria le culture meridionali e più tardi il Vicino Oriente antico hanno influenzato tutte le culture dell'Asia centrale e della Siberia. L'età della pietra delle regioni circumpolari dipende dalla preistoria dell'Europa e del Vicino Oriente. Le civiltà preistoriche e protostoriche della Russia settentrionale e dell'Asia del Nord sono fortemente influenzate dalle civiltà paleo-orientali.

Etnologicamente bisogna considerare tutte le culture dei nomadi come tributarie delle scoperte fatte dalle civiltà agricole e urbane; indirettamente, l'irradiamento di queste ultime si è portato molto lontano nel Nord e nel Nord-Est. E questo irradiamento, iniziatosi dalla preistoria, doveva continuarsi fino ai nostri giorni. Si è vista l'importanza che le influenze indo-iraniche e mesopotamiche hanno avuta nella formazione delle mitologie e delle cosmologie dell'Asia centrale e della Siberia. Termini iranici son stati accertati fra gli Ugri, fra i Tartari e perfino fra i Mongoli. I contatti spirituali e le influenze reciproche fra la Cina e l'Oriente ellenistico sono, del resto, ben noti. E, a sua volta, la Siberia ha approfittato di questo scambio culturale: le cifre usate dalle varie popolazioni siberiane derivano, indirettamente, tanto da Roma che dalla Cina. Le influenze della civiltà cinese giungono fino all'Ob e allo Jenissei.

A tali prospettive storico-etnologiche vanno riportate le influenze meridionali esercitatesi sulle religioni e le mitologie dei popoli dell'Asia centrale e settentrionale. Quanto allo sciamanismo propriamente detto, si è già visto quali siano stati gli effetti di tali influenze, soprattutto sulle tecniche magiche. Il costume e il tamburo sciamanico hanno parimenti subito influenze meridionali. Ma lo sciamanismo, nella sua struttura e nel suo insieme, non lo si può considerare una creazione di questi apporti meridionali. I documenti raccolti ed interpretati nella presente opera ci mostrano che l'ideologia e le tecniche specifiche dello sciamanismo appaiono attestate in culture arcaiche, nei riguardi delle quali sarebbe ben difficile ammettere l'esistenza di influenze paleo-orientali.

Basta ricordare, da un lato, che lo sciamanismo dell'Asia centrale è solidale con la cultura preistorica dei cacciatori siberiani e, d'altra parte, che troviamo tecniche ed ideologie sciamaniche nelle popolazioni primitive d'Australia, di Malesia, dell'America del Sud e del Nord, e in altre regioni ancora.

Le ricerche recenti han messo in chiara evidenza elementi sciamanici nella religione dei cacciatori paleolitici. Kirchner ha interpretato il celebre rilievo di Lescaux come una rappresentazione d'una trance sciamanica. Lo stesso autore ritiene che i «Kommandostabe» - misteriosi oggetti trovati in stazioni preistoriche - siano bacchette da tamburo. Se si accetta questa interpretazione, ciò significa che gli stregoni preistorici usavano tamburi paragonabili a quelli degli sciamani siberiani. A questo proposito, può essere interessante rilevare che si son trovate bacchette da tamburo in osso nell'isola di Oleny, nel Mar di Barents, in una stazione datata al 500 circa a.C. Finalmente, Narr ha riconsiderato il problema dell'«origine» e della cronologia dello sciamanismo nel suo importante studio Bärenzeremoniell und Schamanismus in der Alteren Steinzeit Europas. Egli mette in evidenza l'influenza delle nozioni di fertilità (statuette femminili o «Veneri») sulle credenze religiose dei cacciatori dell'Asia settentrionale; ma questa influenza non ha spezzato la tradizione paleolitica. Le sue conclusioni sono le seguenti: i crani e gli ossi d'animali che si son trovati nelle stazioni del paleolitico europeo (da prima di 50.000 a circa 30.000 anni a.C.) possono essere interpretati come offerte rituali. È probabile che, pressappoco nella stessa epoca, ed in relazione con gli stessi riti, le concezioni magico-religiose del ritorno degli animali in vita dal nucleo della loro ossatura si siano cristallizzate; appunto in questo «Vorstellungswelt» affondano le radici del culto del'orso d'Asia e d'America settentrionale. Di li a poco, probabilmente circa 25.000 anni a.C., l'Europa fornisce prove dell'esistenza delle più antiche forme di sciamanismo (Lascaux) con la rappresentazione plastica dell'uccello, dello spirito protettore e dell'estasi.

Tocca allo specialista giudicare della validità della cronologia proposta da Narr. Quel che sembra certo, è l'antichità del rituale e del simbolismo «sciamanico». Bisognerà anche determinare se i documenti messi in luce dalle scoperte preistoriche rappresentano le prime espressioni d'uno sciamanismo in statu nascendi o se sono unicamente i primi documenti di cui oggi si disponga concernenti un complesso religioso più antico che, tuttavia, non ebbe manifestazioni «plastiche» (disegni, oggetti rituali) prima del periodo di Lascaux.

Per rendersi conto della formazione del complesso sciamanico nell'Asia centrale e settentrionale non bisogna perder di vista due elementi essenziali del problema: da un lato, l'esperienza estatica come tale, cioè come fenomeno originario; dall'altro, l'ambiente storico-religioso nel quale questa esperienza estatica si inserisce e l'ideologia che, in ultima analisi, va a convalidarla. Abbiamo parlato dell'esperienza estatica come di un «fenomeno originario» perché non v'è ragione alcuna per considerarla il prodotto di un certo momento storico, cioè un fenomeno provocato da una data forma di civiltà: noi piuttosto incliniamo a considerarla come costitutiva della condizione umana, epperò conosciuta anche dall'umanità arcaica nella sua totalità. Ciò che può essersi modificato e mutato con le varie forme di cultura e di religione è solo l'interpretazione e la valorizzazione dell'esperienza estatica. Ora, quale era la situazione storico-religiosa dell'Asia centrale e settentrionale, nell'area ove più tardi lo sciamanismo doveva cristallizzarsi nei termini di un complesso autonomo e specifico? In tali regioni fin dai tempi più remoti appare attestata l'esistenza della fede in un Essere supremo di struttura celeste che, del resto, morfologicamente, corrisponde a tutti gli altri Esseri supremi uranici delle religioni arcaiche. Il simbolismo dell'ascensione con tutti i riti e i miti che ne dipendono deve esser messo appunto in relazione col culto degli Esseri supremi celesti: si sa che 1'«altezza» fu, come tale, santificata, che numerosi dèi supremi delle popolazioni arcaiche ebbero il nome di «Colui d'in alto», di «Altissimo», di «Colui del Cielo» o semplicemente di «Cielo», Questo simbolismo dell'ascensione e dell'«elevazione» conserva il suo valore e la sua attualità religiosa anche dopo 1'«allontanarsi» dell'Essere supremo celeste: perché si sa che gi Esseri supremi perdono a poco a poco la loro attualità nel culto soppiantati da figure e da forme religiose più «dinamiche» e più «familiari» (gli dèi della tempesta e della fecondità, i demiurgi, le anime dei morti, le Grandi Dee, ecc.). Il complesso magico-religioso che si è presa l'abitudine di chiamare matriarcato accentua ulteriormente la trasformazione del Dio celeste in un deus otiosus. La diminuzione o la stessa perdita totale dell'attualità religiosa degli Esseri supremi uranici trova talvolta espressione in miti che alludono ad un'epoca primordiale e paradisiaca in cui le comunicazioni fra Cielo e Terra erano facili e ad ognuno accessibili: in seguito ad un certo avvenimento (soprattutto ad una colpa rituale) tali comunicazioni si sono interrotte e gli Esseri supremi si sono ritirati nel più alto dei Cieli. Ripetiamolo: la scomparsa del culto dell'Essere supremo celeste non ha reso caduco il simbolismo dell'ascensione con tutto quanto esso implica. Come si è visto, questo simbolismo si trova attestato dovunque, in ogni complesso storico-religioso. Ora, il simbolismo dell'ascensione ha parte essenziale nell'ideologia e nelle tecniche sciamaniche.

Nel precedente capitolo si è visto in che senso l'estasi sciamanica può esser considerata come una riattualizzazione di quell'illud tempus mitico nel quale gli uomini potevano comunicare in concreto col Cielo. Non v'è dubbio che l'ascensione celeste dello sciamano - o del medicine-man, del mago, ecc. - sia una sopravvivenza, profondamente modificata e talvolta degradata, di questa ideologia religiosa arcaica che s'incentrava nella fede in un Essere supremo celeste e nella credenza nelle comunicazioni concrete fra Cielo e Terra. Ma, come abbiamo visto, lo sciamano per via della sua esperienza estatica, che gli permette di rivivere uno stato divenuto inaccessibile al resto dell'umanità, vien considerato, e lui stesso si considera, come un essere privilegiato. Del resto, i miti accennano a relazioni più intime esistenti fra gli Esseri supremi e gli sciamani: ciò, specie nei riguardi del Primo Sci amano inviato dall'Essere celeste o dal suo sostituto (il demiurgo o il dio solarizzato) sulla Terra per difendere gli umani contro le malattie e gli spiriti malvagi.

Le modificazioni storiche delle religioni dell'Asia centrale e settentrionale, cioè, nel complesso, la parte sempre più importante che ottengono il culto degli antenati e le figure divine o semidivine sostituitesi all'Essere supremo, alterano a loro volta il significato dell'esperienza estatica degli sciamani. Le discese agli Inferni (la storia delle religioni conosce diversi tipi di descensus ad inferos; basta confrontare la discesa agli Inferni compiuta da Ishtar o da Eracle con la discesa estatica degli sciamani per constatare la differenza), la lotta contro gli spiriti malvagi, ma anche i rapporti sempre più familiari con essi che vanno fino ad una loro «incorporazione» o alla «possessione» dello sciamano da parte loro, sono innovazioni, di massima piuttosto recenti, imputabili alla trasformazione generale del complesso religioso. Occorre aggiungervi le influenze meridionali esercitatesi abbastanza presto, le quali hanno modificato sia la cosmologia che la mitologia e le tecniche dell'estasi. Fra tali influenze meridionali, per gli ultimi tempi, va annoverato l'apporto del buddhismo e del lamaismo, aggiuntosi a precedenti influenze iraniche e, in ultima analisi, mesopotamiche.

È verosimile che lo schema iniziatico della morte rituale seguita dalla resurrezione dello sciamano sia anch'esso una innovazione, ma che risalirebbe a tempi assai più lontani; in nessun caso essa sarebbe imputabile ad influenze del Vicino Oriente antico, il simbolismo e il rituale della morte e della resurrezione iniziatìca apparendo già attestato nelle religioni australiane e sudamericane. Ma è soprattutto nella struttura di questo schema iniziatico che si sono effettuate le innovazioni dovute al culto degli antenati. Il concetto stesso della morte mistica è stato modificato in seguito a molteplici mutazioni magico-religiose provocate dalle mitologie lunari, dal culto dei morti e dall'elaborazione delle ideologie magiche.

Cosi bisogna rappresentarsi lo sciamanismo asiatico come una tecnica arcaica dell'estasi il cui substrato ideologico originario - la credenza in un Essere supremo celeste col quale si possono aver rapporti diretti mediante l'ascensione in Cielo - è stato continuamente trasformato da una lunga serie di apporti esotici, culminanti nell'irruzione del buddhismo. Il concetto di morte mistica ha del resto incoraggiato rapporti sempre più stretti con le anime degli antenati e con gli «spiriti», rapporti che han condotto fino a stati di «possessione». Come ha ben dimostrato Schroder, la «possessione», come esperienza religiosa, non è priva d'una certa grandezza; si tratta, insomma, d'incorporare gli «spiriti», vale a dire di rendere presente, vivente e «concreto» il «mondo spirituale». Può darsi che la «possessione» sia un fenomeno religioso estremamente arcaico. Ma la sua struttura è diversa dall'esperienza estatica caratteristica dello sciamanismo in senso stretto. Inoltre, è concepibile che la «possessione» abbia potuto svilupparsi dall'esperienza estatica: mentre l'anima (o l'«anima principale») dello sciamano viaggiava nei mondi superiori o inferiori, degli spiriti potevano prender possesso del suo corpo. Ma è difficile immaginare il processo contrario perché, una volta che gli spiriti hanno preso possesso dello sciamano, l'estasi personale, cioè l'ascensione celeste o la discesa agli Inferni, è bloccata. Son gli spiriti che, con la loro «possessione», cristallizzano l'esperienza religiosa. Del resto, v'è una certa «facilità» nella «possessione» che contrasta col carattere pericoloso e drammatico dell'iniziazione e della disciplina scìamaniche. La fenomenologia della trance, come si è visto, ha subito essa stessa vanie alterazioni e degradazioni, in gran parte dovute a confusioni circa la vera natura dell'estasi. Peraltro tutte queste innovazioni e tutte queste degradazioni non sono state capaci di abolire la possibilità stessa della vera estasi sciamanica e qua e là abbiamo potuto incontrare casi di autentiche esperienze mistiche di sciamano sotto forma di ascese «spirituali» in Cielo, preparate da metodi di meditazione paragonabili a quelli dei grandi mistici d'Oriente e d'Occidente.

Non vi sono soluzioni di continuità nella storia della mistica. A più riprese abbiamo scoperto nell'estasi sciamanica una «nostalgia del paradiso» che richiama uno dei tipi più antichi d'esperienza mistica cristiana. Quanto alla «luce interiore», il cui ruolo è capitale nella mistica e nella metafisica indiane non meno che nella teologia mistica cristiana, essa è già attestata, come abbiamo visto, nello sciamanismo eschimese. Aggiungiamo che le pietre magiche di cui si infarcisce il corpo del medicine-man australiano simboleggiano, in un certo senso, la «luce solidificata».

Ma lo sciamanismo non è solo importante per il posto che occupa nella storia della mistica. Gli sciamani hanno svolto una funzione essenziale in difesa dell'integrità psichica della comunità. Sono i campioni anti-demoniaci per eccellenza; combattono tanto i demoni, le malattie, quanto i maghi neri. Figura esemplare dello sciamano-campione è Dto-mba Shi-lo, il mitico fondatore dello sciamanismo Na-Khi, l'infaticabile uccisore di demoni (vedi sopra). Gli elementi guerrieri che han grande importanza in certi tipi di sciamanismo asiatico (lancia, corazza, arco, spada, ecc.) si spiegano con le necessità del combattimento contro i demoni, i veri nemici dell'umanità. In termini generali, si può dire che lo sciamano difende la vita, la salute, la fecondità, il mondo della «luce», contro la morte, le malattie, la sterilità, la sciagura e il mondo delle «tenebre».

La combattività dello sciamano diviene talora una mania aggressiva; in certe tradizioni siberiane, si ritiene che gli sciamani si affrontino continuamente sotto forma di animali (vedi sopra). Ma una tale aggressività è piuttosto eccezionale: caratterizza qualche forma di sciamanismo siberiano e il tàltos ungherese. Ciò che è fondamentale e universale, è la lotta dello sciamano contro ciò che potremmo chiamare «le potenze del Male». A noi è difficile imaginare quel che può rappresentare un tale campione per una società arcaica. È, in primo luogo, la certezza che gli esseri umani non sono soli in un mondo straniero, circondati da demoni e da «forze del Male». A prescindere dagli dei e dagli esseri sovrannaturali cui si indirizzano preghiere e si offrono sacrifici, vi sono degli «specialisti del sacro», degli uomini capaci di «vedere» gli spiriti, di salire al Cielo e d'incontrare gli dèi, di discendere agli Inferni e di combattere i demoni, la malattia e la morte. La funzione essenziale dello sciamano in difesa dell'integrità psichica della comunità si lega soprattutto a questo fatto: gli uomini son certi che uno di loro è in grado di aiutarli nelle circostanze critiche provocate dagli abitatori del mondo invisibile. È consolante e confortante sapere che un membro della comunità è capace di vedere quel che è nascosto ed invisibile per gli altri, e di riferire informazioni dirette e precise circa i mondi sovrannaturali.

Grazie, appunto, alla sua capacità di viaggiare nei mondi sovrannaturali e di vedere gli esseri sovrumani (dèi, demoni, spiriti dei morti, ecc.) lo sciamano ha potuto contribuire in maniera decisiva alla conoscenza della morte. È probabile che un gran numero di caratteri della «geografia funeraria», al pari di un certo numero di temi della mitologia della morte, siano il risultato delle esperienze estatiche degli sciamani. I paesaggi che lo sciamano scorge e i personaggi che incontra nei suoi viaggi estatici nell'aldilà son minuziosamente descritti dallo sciamano stesso, durante la trance o dopo. Il mondo sconosciuto e terrificante della morte prende forma, si organizza conformandosi a tipi specifici, finisce per presentare una struttura e, col tempo, diviene familiare ed accettabile. A loro volta, i personaggi che abitano il mondo della morte divengono visibili; presentano una fisionomia, assumono una personalità, perfino una biografia. A poco a poco, il mondo dei morti diviene conoscibile e la morte stessa vien valorizzata soprattutto come rito di passaggio verso un modo d'essere spirituale. In fin dei conti, i racconti dei viaggi estatici degli sciamani contribuiscono a «spiritualizzare» il mondo dei morti, pur arricchendolo di forme e figure prestigiose.

Abbiamo già fatto cenno all'esistenza di somiglianze tra i racconti delle estasi sciamaniche e certi temi epici della letteratura orale. Le avventure dello sciamano nell'altro mondo, le prove che 'Subisce nelle sue discese estatiche agli Inferni e nelle sue ascensioni celesti, ricordano le avventure dei personaggi dei racconti popolari e degli eroi della letteratura epica. È assai probabile che un gran numero di «soggetti» o di motivi epici, al pari di molti personaggi, imagini e modelli della letteratura epica, siano, in ultima analisi, d'origine estatica, nel senso che son stati tratti dai racconti degli sciamani narranti i loro viaggi e le loro avventure nei mondi sovrumani.

È 'egualmente probabile che l'euforia pre-estatica abbia costituito una delle fonti del lirismo universale. Quando prepara la trance, lo sciamano batte il tamburo, chiama i suoi spiriti ausiliari, parla un «linguaggio segreto» o il «linguaggio degli animali», imitando il verso degli animali e, soprattutto, il canto degli uccelli. Egli finisce per ottenere un «secondo stato» che mette in moto la creazione linguistica e i ritmi della poesia lirica. Ancor oggi, la creazione poetica resta un atto di perfetta libertà spirituale. La poesia rifà ed amplia il linguaggio; ogni linguaggio poetico comincia con l'essere un linguaggio segreto, cioè la creazione di un universo personale, di un mondo perfettamente chiuso. L'atto poetico più puro si sforza di ricreare il linguaggio sulla base di un'esperienza interiore che, in ciò simile all'estasi o all'ispirazione religiosa dei «primitivi», rivela il fondo stesso dalle cose. Sulla base, appunto, di creazioni linguistiche di quest'ordine, rese possibili dall'«ispirazione» pre-estatica, i «linguaggi segreti» dei mistici e i linguaggi allegorici tradizionali si sono successivamente cristallizzati.

Bisogna anche dire qualcosa del carattere drammatico della seduta sciamanica. Non pensiamo soltanto alla messa in scena talora assai elaborata della seduta che, evidentemente, esercita un'influenza benefica sul malato. Ogni seduta veramente sciamanica finisce per diventare uno spettacolo senza uguali nel mondo dell'esperienza quotidiana. I giuochi col fuoco, i «miracoli» 'Sul tipo del giuoco con la corda, l'esibizione di prodezze magiche s'Velano un altro mondo, il mondo favoloso degli dèi e dei maghi, il mondo in cui tutto sembra possibile, in cui i morti tornano alla vita e i vivi muoiono per poi resuscitare, in cui si può istantaneamente sparire e riapparire, in cui le «leggi di natura» sono abolite e una certa «libertà» sovrumana è illustrata e resa presente in maniera strepitosa.

È difficile a noi moderni imaginare la risonanza d'un tale spettacolo in una comunità «primitiva». Non solo i «miracoli» sciamanici confermano e rafforzano le strutture della religione tradizionale, ma stimolano e nutrono anche l'imaginazione, fan sparire le barriere tra il sogno e la realtà immediata, aprono finestre sul mondo abitato dagli dèi, dai morti, dagli spiriti.

Fermiamo a questo punto queste poche osservazioni intorno alle creazioni culturali rese possibili o stimolate dalle esperienze sciamaniche. Lo studio approfondito di esse supera i limiti della nostra opera. Qual bel libro si potrebbe scrivere sulle «fonti» estatiche della poesia epica e del lirismo, sulla preistoria dello spettacolo drammatico e, in generale, sul mondo favoloso scoperto, esplorato e descritto dagli antichi sciamani...