LO SCIAMANISMO
E LE TECNICHE DELL'ESTASI
di Mircea
Eliade
Introduzione
alla prima edizione
Introduzione alla seconda edizione
Capitolo 1. Generalità. Metodi di reclutamento.
Sciamanismo e vocazione mistica.
L'acquisto
dei poteri sciamanici
Il reclutamento degli sciamani
nella Siberia occidentale e centrale
Il reclutamento fra i Buriati
e gli Altaici
Trasmissione ereditaria e
ricerca dei poteri sciamanici
Capitolo 2. Malattie e sogni iniziatici.
Estasi e visioni iniziatiche
degli sciamani yakuti
Sogni iniziatici degli
sciamani samojedi
L'iniziazione presso i
Tungusi, i Buriati, ecc.
L'iniziazione dei maghi australiani
Confronti fra Australia,
Siberia, America del Sud ecc.
Lo smembramento iniziatico
nell'America del Nord e del Sud, in Africa e in Indonesia
Iniziazione degli sciamani
eschimesi
La contemplazione del proprio
scheletro
Iniziazioni tribali e società
segrete
Capitolo 3: L'acquisto dei poteri
sciamanici
Miti siberiani sull'origine
degli sciamani
L'elezione sciamanica presso i
Goldi e gli Yakuti
L'elezione presso i Buriati e i
Teleuti
Le donne-spiriti protettrici
dello sciamano
La
parte delle anime dei morti
"Linguaggio segreto".
"Lingua degli animali"
La ricerca dei poteri
sciamanici nell'America Settentrionale
Capitolo 4: L'iniziazione sciamanica
L'iniziazione presso i Tungusi
e i Manciù
L'iniziazione degli Yakuti,
dei Samoiedi e degli Ostiachi
L'iniziazione
presso i buriati
Iniziazione dello sciamano araucano
Il viaggio celeste dello sciamano
caribe
Altre forme del rito di ascensione
Capitolo 5: Il simbolismo del costume e del tamburo
sciamanico
Gli specchi e i berretti sciamanici
Costumi rituali e tamburi
magici attraverso il mondo
Capitolo 6: Lo sciamanismo nell'Asia centrale e
settentrionale
Le ascensioni celesti -
discese agli inferni
"Sciamani bianchi" e
"sciamani neri". Mitologie "dualiste"
Sacrificio del cavallo e
ascensione dello sciamano in cielo (Altai)
Bai
Ulgan e lo sciamano altaico
La
discesa agli inferni (Altai)
Lo sciamano psicopompo
(Altaici, Goldi, Yuraki)
Capitolo 7: Lo sciamanesimo nell'Asia centrale e
settentrionale
Guarigioni magiche - Lo sciamano psicopompo
Ricerca e richiamo dell'anima
(Tartari, Buriati, Kirghisi)
La seduta sciamanica presso
gli Ugri e i Lapponi
Sedute presso gli Ostiachi,
gli Yuraki e i Samoiedi
Lo sciamanismo fra gli Yakuti
e i Dolgani
Sedute sciamaniche presso i
Tungusi e gli Orocci
Religione e sciamanismo presso
i coriachi
Capitolo 8:
Sciamanismo e cosmologia
Le tre zone cosmiche e il
pilastro del mondo
Sciamanismo e cosmologia
nell'area oceanica
Capitolo 9: Lo sciamanismo nell'America del Nord e del
Sud
Lo sciamanismo tra gli eschimesi
Cura sciamanica presso i Paviotso
Seduta sciamanica presso gli
Achumawi
Le confraternite segrete e lo
sciamanismo
Lo sciamanismo sud-americano:
rituali vari.
Antichità dello sciamanismo
nel continente americano
Capitolo 10: Lo sciamanismo nell'Asia sud-orientale e in
Oceania
Credenze e tecniche
sciamaniche fra i Sakai, i Semang e i Jakun
Sciamanismo nelle isole
Andamene e Nicobare
Sciamani
e sacerdoti a Sumatra
Sciamanismo nel Borneo e a Celebes
La "barca dei morti"
e la barca sciamanica
Viaggi d'oltretomba fra i Daiachi
Capitolo 11: Ideologie e tecniche sciamaniche tra gli indoeuropei
Tecniche dell'estasi presso
gli antichi Germani
India
antica: riti di ascensione
India
antica: il "volo magico"
Tecniche e simbolismi
"sciamanici" in India
Lo sciamanismo presso alcune
tribù aborigene dell'India
Capitolo 12: Tecniche e simbolismi sciamanici nel Tibet
e nell'Estremo Oriente
Buddhismo,
Tantrismo, Lamaismo
Pratiche
sciamaniche tra i Lolo
Tecniche e simbolismi
sciamanici in Cina
Capitolo 13: Miti, simboli e riti paralleli
Il ponte e il "passaggio
difficile"
La scala - Il cammino dei
morti - L'ascensione
La formazione dello
sciamanismo nord-asiatico
Introduzione alla prima edizione
Per quel che ci
risulta, la presente è la prima opera che abbraccia la sciamanismo nella sua
totalità, pur situandolo nella prospettiva di una storia generale delle
religioni; il che dice già del suo margine di imperfezione e di approssimazione
e del rischio, che essa affronta. Attualmente si dispone di una quantità
considerevole di documenti sui vari sciamanismi: su quello siberiano,
nord-americano, 'Sud-americano, indonesico, oceanico e così via. D'altra parte,
numerosi lavori, importanti sotto più di un riguardo, hanno iniziato lo studio
etnologico, sociologico e psicologico dello sciamanismo (o, per meglio dire, di
un certo tipo di sciamanismo). Ma, a prescindere da qualche notevole eccezione
(pensiamo soprattutto ai lavori di Harva sullo sciamanismo altaico), l'enorme
bibliografia sciamanica ha trascurato una interpretazione di questo fenomeno
quanto mai complesso dal punto di vista della storia generale delle religioni.
Ora, è appunto in quanto storici delle religioni che noi abbiamo cercato di
avvicinarci allo sciamanismo, di comprenderlo e di presentarlo. Non intendiamo
affatto sottovalutare ricerche ammirevoli condotte secondo le prospettive della
psicologia, della sociologia o dell'etnologia - a nostro parere, esse sono
indispensabili per conoscere i diversi aspetti dello sciamanismo. Riteniamo
tuttavia che vi sia anche posto per un'altra prospettiva, per quella che
abbiamo cercato appunto di lumeggiare nelle pagine che seguiranno.
L'autore che
affronta l'esame dello sciamanismo da psicologo sarà indotto a considerarlo
anzitutto come l'espressione di una psiche in crisi, se non perfino in
regressione; egli non mancherà di confrontarlo con certi comportamenti psichici
aberranti o di inserirlo fra le malattie mentali di struttura isteroide o
epilettoide.
Diremo perché
l'assimilazione dello sciamanismo ad una qualsiasi malattia mentale ci sembra
inaccettabile. Ma resta un punto, importante, su cui lo psicologo avrà sempre
ragione di richiamare l'attenzione: che la vocazione sciamanica, non
dissimilmente da qualsiasi altra vocazione religiosa, si manifesta attraverso
una crisi, attraverso una rottura provvisoria dell'equilibrio mentale del
futuro sciamano. Tutte le osservazioni e le analisi che si son potute
accumulare a tale riguardo sono preziose: esse ci mostrano, in un certo modo
sul vivo, le ripercussioni che all'interno della psiche ha ciò che noi abbiamo
chiamato la «dialettica delle ierofanie»: la separazione radicale tra
profano e sacro e la conseguente frattura del reale. Dal che appare tutta
l'importanza che noi volentieri riconosciamo a siffatte ricerche di psicologia
religiosa.
Quanto al sociologo,
egli si preoccuperà della funzione sociale dello sciamano, del sacerdote, del
mago: studierà l'origine dei prodigi magici, la parte che essi hanno
nell'articolazione della comunità, i rapporti fra capi religiosi e capi
politici e cosi via. L'analisi sociologica dei miti del «Primo Sciamano»
fornirà degli indici rivelatori circa la posizione eccezionale che i più
antichi sciamani ebbero in certe società primordiali. La sociologia dello
sciamanismo deve essere ancora scritta e, quando lo sarà. costituirà uno dei
capitoli più importanti di una
sociologia generale della religione. Di tutte coteste ricerche, e dei relativi
risultati, lo storico delle religioni non può non tener conto; aggiunte alle
condizionalità psicologiche accertate dallo psicologo. Le condizionalità
sociologiche, nel senso più ampio del
termine. andranno a rafforzare la concretezza umana e storica dei documenti che
devono servire da base al suo lavoro.
Questa
concretezza acquisterà ulteriore rilievo grazie alle ricerche dell'etnologo.
Sarà compito delle monografie etnologiche inquadrare lo sciamano nel suo
ambiente culturale. Si rischia di disconoscere la personalità vera di uno
sciamano ciukco, ad esempio, ove se ne leggano le gesta senza nulla sapere
della vita e delle tradizioni dei Ciukci. E spetterà di nuovo all'etnologo
studiare a fondo il costume e il tamburo sciamanico, descrivere le sedute,
registrare i testi e le melodie, e cosi via. Nel suo stabilire la «storia»
dell'un elemento costitutivo dello sciamanismo, o dell'altro - del tamburo, ad
esempio, o dell'uso di narcotici durante la seduta, ecc. - l'etnologo che, in
tale occasione, sarà anche uno storico e saprà stabilire adeguati raffronti,
potrà mostrarci il circolare del motivo in quistione nel tempo e nello spazio;
nella misura del possibile egli individuerà il suo centro di espansione e,
altresì, le tappe e la cronologia della sua diffusione. In una parola, lo
stesso etnologo diverrà uno «storico», che egli faccia suo o meno il
metodo dei cicli di civiltà di Graebner-Schmidt-Koppers. Peraltro, a parte una
meravigliosa letteratura etnografica puramente descrittiva, si dispone
attualmente di diversi lavori di etnologia storica; nella immensa «materia
grigia» dei fatti culturali appartenenti ai cosiddetti «popoli senza storia» si
vedono già disegnarsi certe linee di forza; si comincia a distinguere della «storia»
là dove ci si era abituati a vedere dei Naturvolker, dei «primitivi» o dei «selvaggi».
È superfluo
mettere in rilievo i grandi servigi che l'etnologia storica ha già resi alla
storia delle religioni. Tuttavia noi non crediamo che essa possa sostituirsi a
quest'ultima. Il compito della storia delle religioni è infatti di integrare i
risultati dell'etnologia non meno di quelli della psicologia e della
sociologia: pertanto, essa non rinuncerà al metodo di lavoro suo proprio e alla
prospettiva specifica che la definisce. L'etnologia culturale potrà ben
stabilire, ad esempio, i rapporti esistenti fra lo sciamanismo e certi cicli
culturali, la diffusione di questo o quel complesso sciamanico e via dicendo;
ciò non impedisce che non sia affar suo rivelarci il senso profondo di tutti
questi fenomeni religiosi, chiarire il loro simbolismo, articolarli nella
storia generale delle religioni. In ultima analisi, è allo storico delle
religioni che spetta il sintetizzare tutte queste ricerche particolari sullo
sciamanismo e di presentare una veduta d'insieme che rappresenti la morfologia
e, nel contempo, la storia di questo complesso fenomeno religioso.
Qui però sarà
bene intendersi circa l'importanza che, in genere, in quest'ordine di studi, va
riconosciuta alla «storia». Come altrove
abbiamo già rilevato e come avremo occasione di mostrare ampiamente in un'opera
che farà da complemento al nostro Traité
d'Histoire des Religions, le condizionalità storiche di un fenomeno
religioso, per importanti che siano - perché, in ultima analisi, ogni fatto
umano è un fatto storico - non lo esauriscono del tutto. Di ciò, indicheremo un
solo esempio: lo sciamano altaico sale ritualmente su di un albero di betulla
sul quale è stato fissato un certo numero di pioli: la betulla simboleggia
l'Albero del Mondo, i pioli rappresentano i diversi Cieli che lo sciamano deve
attraversare nel corso del suo viaggio estatico in Cielo; ed è probabilissimo
che lo schema cosmologico insito in un tale rituale sia di origine orientale.
Idee religiose del Vicino Oriente antico si sono spinte molto avanti nell' Asia
centrale e settentrionale contribuendo a dare allo sciamanismo centro-asiatico
e siberiano la sua attuale fisionomia. Ecco un ottimo esempio circa se che la
«storia» può farci sapere intorno alla diffusione delle ideologie e delle
tecniche religiose. Ma, come abbiamo detto poco fa, la storia di un fenomeno
religioso non può non rivelarci tutto ciò che questo fenomeno, già col semplice
fatto della sua manifestazione, cerca di mostrarci. Nulla ci autorizza a
supporre che le influenze della cosmologia e della religione orientale abbiano
creato, fra i popoli altaici, l'ideologia e il rituale dell'ascensione celeste;
ideologie e rituali analoghi . affiorano un po' dappertutto nel mondo, e in
paesi tali che, delle influenze paleo-orientali possono esser escluse a priori.
È invece verosimile che le idee orientali non abbian fatto che modificare la
formula rituale e le implicazioni cosmologiche dell'ascensione celeste: la
quale sembra essere un fenomeno originario - vogliamo dire, appartenente
all'uomo in quanto tale nella sua interezza, e non in quanto essere storico:
cosa testimoniata dai sogni di ascese, dalle allucinazioni e dalle imagini
ascensionali che s'incontrano dappertutto nel mondo, al di fuori di ogni
«condizionalità», o storica, o di altra specie. Tutti questi sogni,
questi miti, queste nostalgie aventi per tèma centrale l'ascendere o il volare
non si lasciano risolvere mediante una semplice spiegazione psicologica;
sussisterà sempre, in essi, un residuo irreducibile alla spiegazione, un non so
che di originario che forse ci rivela il vero luogo dell'uomo nel Cosmo, luogo
che - noi non ci stancheremo mai di ripeterlo - non è esclusivamente «storico».
Cosi, pur
occupandosi dei fatti storico-religiosi, pur avendo cura di organizzare, nella
misura del possibile, i documenti nel quadro della prospettiva storica - che è
la sola ad assicurare a tali fatti un carattere concreto - lo storico delle
religioni non deve dimenticare che i fenomeni con cui ha da fare rivelano,
insomma, delle situazioni-limite dell'uomo, e che coteste situazioni vogliono
esser comprese, vogliono esser rese intelligibili. Quest'opera di deciframento
del senso profondo di fenomeni religiosi appartiene di diritto allo storico
delle religioni. Certo, lo psicologo, il sociologo, l'etnologo e persino il
filosofo o il teologo potranno dire la loro, ciascuno secondo la prospettiva e
il metodo suo proprio. Tuttavia è lo storico delle religioni che fisserà il
maggior numero di elementi validi circa il fatto religioso in quanto fatto
religioso - e non in quanto fatto psicologico, sociale, etnico, filosofico o perfino
teologico. E proprio per ciò lo storico delle religioni si distingue altresì
dal fenomenologo, perché questi, per principio, s'interdice ogni lavoro di
comparazione, egli si limita ad «avvicinarsi» a questo o quel fenomeno
religioso e ad indovinarne il senso, mentre lo storico delle religioni giunge
alla comprensione di un fenomeno solo dopo averlo adeguatamente confrontato con
migliaia di fenomeni simili o differenti, solo dopo averlo situato fra di essi;
e queste migliaia di fenomeni sono separati gli uni dagli altri tanto nello
spazio che nel tempo. Per una ragione analoga lo storico delle religioni non si
limiterà ad una semplice tipologia o morfologia dei fatti religiosi: certo,
egli sa che la «storia» non esaurisce il contenuto di un fatto religioso, ma
egli non dimentica nemmeno che è sempre nella Storia - nel senso più vasto del
termine - che un fatto religioso si sviluppa in tutti i suoi aspetti e rivela
tutti i suoi significati. In altri termini, lo storico delle religioni
utilizzerà tutte le manifestazioni storiche di un fenomeno religioso per
scoprire ciò che esso «vuol dire»; da un lato, si
atterrà alla concretezza storica, ma dall'altro si darà a decifrare ciò che un
fatto religioso, attraverso la storia, rivela di superstorico.
Non è il caso di
fermarci su simili considerazioni metodologiche; per esporle adeguatamente,
occorrerebbe assai più spazio di quel che una prefazione consenta. Bisogna
tuttavia rilevare che la parola «storia» crea spesso confusione: essa infatti
può significare sia la storiografia (lo scrivere la storia di qualcosa), sia -
puramente e semplicemente - «ciò che è accaduto» nel mondo. Ora, questa seconda
accezione del termine presenta a sua volta varie sfumature: la storia intesa
come ciò che è avvenuto entro dati limiti spaziali o temporali (storia di un
dato popolo, storia di una data epoca), quindi la storia di una continuità o di
una struttura; ma anche la storia nel senso generale del termine, come nelle
espressioni «l'esistenza storica dell'uomo», «situazione storica»,
«momento storico», ecc. o perfino come nell'accezione esistenzialista
del termine: l'uomo è «in una situazione», ossia è nella storia.
La storia delle
religioni non è né sempre né necessariamente la storiografia delle religioni:
perché quando si scrive la storia di una qualche religione o di un dato fatto
religioso (il sacrificio fra i Semiti, il mito di Eracle, ecc.) non si tratta
sempre di mostrare tutto quel che «è accaduto» secondo una prospettiva
cronologica; certo, questa è cosa che si può anche fare, se i documenti lo
consentono, ma non si è tenuti affatto a far della storiografia quando si vuol
scrivere una storia delle religioni. La polivalenza del termine «storia» ha
propiziato, qui, vari malintesi fra i ricercatori: in realtà, è il senso, ad un
tempo generale e filosofico, della «storia» quello che conviene maggiormente
alla nostra disciplina. Si fa della storia delle religioni nella misura in cui
ci si applica a studiare i fatti religiosi come tali, cioè sul piano della loro
specifica manifestazione: questo piano specifico è sempre storico, concreto,
esistenziale, anche se i fatti religiosi che vi si manifestano non son sempre,
né completamente, riducibili alla storia. A partir dalle ierofanie più
elementari - ad esempio, la manifestazione del sacro in un certo albero o in
una certa pietra - fino alle più complesse fra di esse (la «visione» di una
nuova «forma divina» da parte di un profeta o di un fondatore di religioni),
tutto si manifesta in una concretezza storica e tutto è, in un qualche modo,
storicamente condizionato. Tuttavia perfino nelle ierofanie più modeste si
palesa un «eterno ricominciare», un continuo ritorno ad un istante
atemporale, un desiderio di abolire la storia, di cancellare il passato, di
ricreare il mondo. I fatti religiosi «mostrano» tutto questo; non è cosa che lo
storico delle religioni inventi. Naturalmente, uno storico che non voglia esser
nulla di più di uno storico, ha il diritto di ignorare il senso specifico e
superstorico di un fatto religioso; un etnologo, un sociologo, uno psicologo
possono parimenti trascurarlo. Ma lo storico delle religioni non lo può; al suo
occhio, che si è familiarizzato con un numero considerevole di ierofanie, non
potrà sfuggire il significato propriamente religioso di questo o quel fatto. E,
per tornare al punto preciso da cui siam partiti, con riguardo a ciò la
presente opera merita esattissimamente il titolo di storia delle religioni
benché non si muova lungo la prospettiva cronologica della storiografia.
Del resto,
questa prospettiva cronologica, per interessante che possa pur essere per
qualche storico, è lungi dall'avere l'importanza che si è generalmente propensi
ad accordarle. Infatti - e noi abbiamo già cercato di mostrarlo nel nostro Traité d'Histoire des Religions - la
stessa dialettica del sacro tende a ripetere indefinitamente una serie di
archetipi, tanto che una ierofania realizzatasi in un certo «momento storico»
spesso si sovrappone, quanto a struttura, ad una ierofania più antica - o più
giovane - di un millennio. È in base a questa tendenza del processo ierofanico
a riprendere all'infinito una stessa paradossale sacralizzazione della realtà
che noi possiamo comprendere un fenomeno religioso e scriverne la «storia».
In altri termini, proprio perché le ierofanie si ripetono i fatti religiosi
possono venir distinti e si può giungere a intenderli. Senonché il proprio
delle ierofanie sta nel fatto che esse cercano di rivelare il sacro nella sua
totalità, anche se gli uomini, alla cui coscienza il sacro si «mostra»,
si appropriano solo di un aspetto o di una modesta particella di esso. Nella
ierofania più elementare è già detto tutto: la manifestazione del sacro in una «pietra»
o in un «albero» non è meno misteriosa o degna della manifestazione del sacro
in un «dio». Il processo di sacralizzazione della realtà è sempre
lo stesso: solo la forma assunta da tale processo di sacralizzazione nella
coscienza religiosa dell'uomo è, caso per caso, diversa.
Il che non è
senza conseguenze per chi volesse considerare la religione secondo una
prospettiva cronologica: se esiste una storia delle religioni, essa non è
irreversibile come ogni altra storia. Una coscienza religiosa monoteista non è
necessariamente monoteista sino al termine della sua esistenza per il fatto del
suo partecipare ad una «storia» monoteista, perché, all'interno di cotesta
storia, non si può tornare ad essere politeisti o totemisti una volta che si
abbia conosciuto il monoteismo e ad esso si abbia aderito. Al contrario, si può
esser benissimo politeisti o comportarsi religiosamente da totemisti malgrado
il credersi e il pretendere di essere monoteisti. La dialettica del sacro
ammette ogni reversibilità: nessuna «forma» esclude una degradazione e una
decomposizione, nessuna «storia» è definitiva. Non solo una comunità può
praticare - coscientemente o involontariamente - religioni molteplici, ma anche
uno stesso individuo può vivere una quantità di esperienze religiose, dalle più
«elevate» alle più viete e alle più aberranti.
Ciò è parimenti
vero dall'altro punto di vista: in qualsiasi punto di un ciclo culturale può
aversi la rivelazione più completa del sacro concepibile per la condizione
umana. Malgrado l'enorme differenza storica, le esperienze dei profeti monoteismo
possono ripetersi m seno alla più «arretrata» delle tribù primitive: a ciò,
basta «realizzare» la ierofania di un dio celeste, dio attestato un po'
dappertutto nel mondo anche se presentemente è quasi assente dall'attualità
religiosa. Non esiste forma religiosa, per degradata che sia, la quale non
possa dar nascita ad una mistica purissima e coereritissima. Se casi del genere
non sono sufficientemente numerosi da imporsi all'attenzione degli osservatori,
la causa di ciò non è la dialettica del sacro ma sono i comportamenti umani:
nel riguardo di questa dialettica. E lo studio dei comportamenti umani va al di
là dei compiti dello storico delle religioni: esso interessa il sociologo, lo
psicologo, il moralista, il filosofo. Quali storici delle religioni, a noi
basterà constatare che la dialettica del sacro permette la reversibilità
spontanea di ogni posizione religiosa. Il fatto stesso di queste reversibilità
è importante: essa non si verifica altrove. Per questo noi non ci lasciamo
troppo suggestionare da certi risultati dell'etnologia storicoculturale: naturalmente
i diversi tipi di civiltà sono organicamente collegati a certe forme religiose,
ma ciò non esclude affatto la spontaneità e, in ultima analisi, la storicità
della vita religiosa. Infatti, in un qualche modo, tutto ciò che è storia è
sempre una caduta del sacro, una sua limitazione e diminuzione. Ma il sacro non
cessa di manifestarsi, e in ogni sua nuova manifestazione riafferma la sua
originaria tendenza a rivelarsi totalmente e perfettamente. È vero che le
innumerevoli nuove manifestazioni del sacro ripetono - nella coscienza
religiosa dell'una o dell'altra società - altre innumerevoli manifestazioni di
esso già conosciute da queste società nel loro passato, nella loro «storia»:
ma è parimenti vero che l'esistenza di questa storia non giunge fino a paralizzare
la spontaneità delle ierofanie: una rivelazione più completa del sacro resta
sempre possibile, in qualsiasi momento.
Ora - e qui noi
riprendiamo la discussione circa la visuale cronologica nella storia delle
religioni - ora può accadere che la reversibilità delle posizioni religiose si
presenti ancor più netta nel campo delle esperienze mistiche delle società
primordiali. Come avremo spesso occasione di mostrarlo, esperienze mistiche
particolarmente coerenti sono possibili in un qualsiasi grado di civiltà o di
situazione religiosa. Ciò equivale a dire che in certe coscienze religiose in
crisi è sempre possibile un salto storico che permette loro di raggiungere
delle posizioni spirituali altrimenti inaccessibili. Certo, la «storia» - la
tradizione religiosa della corrispondente tribù - interviene alla fine, per
ricondurre e piegare ai propri canoni le esperienze estatiche di certi
privilegiati. Ma non è men vero che queste esperienze hanno spesso lo stesso
rigore e la stessa nobiltà delle esperienze dei grandi mistici d'Oriente e
d'Occidente.
Ora, lo
sciamanismo è proprio una delle tecniche primordiali dell'estasi; esso è, ad un
tempo, mistica, magia e «religione» nel senso più lato del termine. Noi ci
siamo sforzati di presentarlo nei suoi vari aspetti storici e culturali ed
abbiamo anche tentato di tracciare una breve storia della formazione dello
sciamanismo dell'Asia centrale e settentrionale. Noi però attribuiamo maggior
valore alla presentazione del fenomeno sciamanico in se stesso, all'analisi
della sua ideologia, alla discussione delle sue tecniche, del suo simbolismo,
delle sue mitologie. Noi riteniamo che un tale lavoro è tale da interessare non
solo lo specialista, ma anche l'uomo colto, ed è proprio a questi che, in primo
luogo, il libro si rivolge. È lecito pensare, ad esempio, che tutto ciò che di
più preciso si potrebbe dire sulla diffusione del tamburo centro-asiatico nelle
regioni artiche, se interesserebbe un circolo ristretto di specialisti,
lascerebbe piuttosto indifferente un gran numero di lettori; ma le cose stanno
altrimenti - almeno ce lo auguriamo _ quando si tratta di penetrare in un
universo mentale cosi vasto e mosso quale è quello dello sciamanismo in
generale e delle tecniche dell'estasi che esso implica. In questo caso, si ha a
che fare con tutto un mondo spirituale che, per quanto cosi diverso dal nostro,
non gli è da meno né per coerenza, né per interesse. Noi osiamo sperare che la
conoscenza di esso attiri ogni umanista in buona fede; giacché già da qualche
tempo si è cessato di identificare l'umanismo con la semplice tradizione
culturale occidentale, per grandiosa e feconda che essa sia.
Concepita in
questo spirito, la presente opera non esaurirà nessuno degli aspetti trattati
nei diversi capitoli. Non abbiamo intrapreso uno studio esaustivo dello
sciamanismo: non ne abbiamo avuto né i mezzi, né l'intenzione. È sempre in sede
di confronti e quali storici delle religioni che noi abbiamo trattato
l'argomento: per cui confessiamo già in partenza le lacune e le imperfezioni
inevitabili di un lavoro che, in fondo, vuole essere una sintesi. Non siamo né
altaizzanti, né americanisti, né oceanisti, ed è probabile che un certo numero
di opere di specialisti ci sia sfuggito.
Non crediamo
però che il quadro generale qui tracciato avrebbe potuto esser modificato nelle
sue grandi linee per la conoscenza di un più vasto materiale: una quantità di
memorie non fa che ripetere, con minime 'varianti, le relazioni dei primi
osservatori. La bibliografia di Popov, pubblicata nel 1932, e limitata
esclusivamente allo sciamanismo siberiano, registra 650 lavori di etnologi
russi. La bibliografia degli sciamanismi nord-americani e indonesici non è meno
considerevole. Non si può leggere tutto. E lo ripetiamo: noi non abbiamo la pretesa
di sostituirei all'etnologo, all'altaizzante o all'americanista. Però si è
sempre avuto cura di indicare in nota i principali lavori ove può esser trovato
dell'altro materiale. Certo, si avrebbe potuto moltiplicare la documentazione,
però scrivendo più di un volume. Non ne abbiamo vista l'utilità: noi non ci
siamo proposti di compilare una serie di monografie sui diversi sciamanismi,
bensi uno studio generale destinato ad un pubblico non specializzato.
D'altronde, diversi dei soggetti che qui son stati solo accennati ci proponiamo
di studiarli più da presso in altre nostre opere (Morte e Iniziazione,
Mitologia della Morte, ecc.).
I risultati
delle presenti ricerche, in parte, eran stati da noi già esposti negli
articoli: Le problème du chamanisme («Revue
de l'histoire des religions», t. CXXXI, 1946, pp. 5-52), Shamanism (Forgotten Religions, edited by Vergilius Ferm, Philosophical
Library, New York, 1949, pp. 299-308) e Einfürende
Betracbtungen über den Schamanismus («Paideuma», V, 1951, pp. 87-97)
- e in conferenze che abbiamo avuto l'onore di tenere, nel marzo del 1950,
all'Università di Roma e all'Istituto Italiano per il Medio e l'Estremo Oriente
dietro invito dei professori R. Pettazzoni e G. Tucci.
Per ragioni
tipografiche, la trascrizione dei termini orientali è stata sensibilmente
semplificata.
MIRCEA ELIADE, Parigi,
marzo 1946 - marzo 1951.
Introduzione alla seconda edizione
Cogliendo
l'occasione delle traduzioni italiana (Roma-Milano, 1953), tedesca (Zurigo,
1957) e spagnola (Città del Messico, 1960), abbiamo già cercato di correggere e
migliorare questo libro che, nonostante ogni sua imperfezione, era il primo che
fosse comparso sullo sciamanismo complessivamente considerato. Ma soprattutto
preparando la traduzione inglese (New York-Londra, 1964) abbiamo corretto a
fondo e sensibilmente ampliato il testo originale. Nel corso degli ultimi
quindici anni son stati pubblicati, sui diversi sciamanismi, lavori in numero
considerevole che ci siamo sforzati di utilizzare nel testo o, quanto meno, di
segnalare nelle note. Benché si siano registrate più di duecento pubblicazioni
nuove (comparse dopo il 1948), non pretendiamo d'aver esaurito la bibliografia
recente sullo sciamanismo. Ma questo libro - come già s'è detto - è l'opera
d'uno storico delle religioni che affronta l'argomento in termini di
comparazione, né può surrogare le monografie che gli specialisti hanno
consacrato alle diverse specie di sciamanismo. Abbiamo esaminato le
pubblicazioni comparse fino al 1960 nel nostro Recent Works on Shamanism: a
Review Artide («History
of Religions»,
I, 1961, pp. 152-186). Altre analisi critiche compariranno ad intervalli
irregolari nella stessa rivista.
Teniamo a
ringraziare, ancor qui, la Bollingen Foundation; grazie alla borsa di studio
che ci ha accordato abbiamo potuto continuare le nostre ricerche sullo
sciamanismo dopo la pubblicazione della prima edizione.
Infine, siamo
felici di poter qui esprimere tutta la nostra riconoscenza al nostro allievo ed
amico Henry Pernet, che si è adoperato a rivedere e migliorare il testo di
questa seconda edizione e si è incaricato della correzione delle bozze.
MIRCEA ELIADE, Università
di Chicago, marzo 1967
Capitolo 1. Generalità. Metodi di reclutamento. Sciamanismo e
vocazione mistica.
A partir
dall'inizio del secolo gli etnologi hanno preso il vezzo di usare
indifferentemente i termini sciamano, medicine-man,
stregone o mago per designare certi individui dotati di prestigio
magico-religioso conosciuti da ogni società «primitiva». Per estensione, la
stessa terminologia è stata usata nello studio della storia religiosa dei
popoli «civilizzati», e si è parlato, ad esempio, di
uno sciamanismo indù, iranico, germanico, cinese e perfino babilonese,
riferendosi agli elementi «primitivi» presenti nelle corrispondenti religioni.
Per molte ragioni, cotesta confusione può solo nuocere alla comprensione dello stesso
fenomeno sciamanico. Se col termine «sciamano» s'intende ogni mago, stregone, medicine-man o estatico che s'incontra
nel corso della storia delle religioni e dell'etnologia religiosa, il risultato
sarà una nozione estremamente complessa e, ad un tempo, imprecisa, di cui non
si vede l'utilità: ciò, anche perché si dispone già dei termini «mago» o
«stregone» per esprimere nozioni abbastanza distinte, se pure approssimative,
quali quelle di «magia» o «mistica primitiva».
Noi riteniamo
che giovi limitare l'uso dei vocaboli «sciamano» e «sciamanismo» proprio per
evitare gli equivoci e per veder più chiaro nella stessa storia della «magia» e
della «stregoneria». Certo, lo sciamano è anche lui un
mago e un medicine-man; si ritiene
che egli possa guarire, come tutti i medici, e operare dei miracoli fachirici,
come tutti i maghi primitivi o moderni. Ma, in più, egli è psicopompo e
fors'anche sacerdote, mistico e poeta. Nella massa grigia e «confusionista»
della vita magico-religiosa delle società primordiali considerate nel loro
insieme lo sciamanismo, preso nel suo significato stretto ed esatto, presenta
già una struttura propria e tradisce una sua «storia» che vale precisare.
Lo sciamanismo stricto sensu è, per eccellenza, un
fenomeno religioso siberiano e centro-asiatico. Attraverso il russo, il termine
deriva dalla parola tungusa shaman.
In altre lingue del centro e del nord dell'Asia i termini corrispondenti sono:
lo yakuta ojun, il mongolo buga, boga (buge, bu) e udagan (cfr. anche il buriato udayan,
lo yakuta udoyan: «la donna-sciamano»),
il turco-tartaro kam (l'altaico kam, gam,
il mongolo kami, ecc.). Si è cercato
di spiegare il termine tunguso col pali samana,
e su questa possibile etimologia - che ci riconduce al grande problema delle
influenze indù sulle religioni siberiane - torneremo nell'ultimo capitolo di
questo libro. In tutta quest'area immensa che comprende il centro e il nord
dell'Asia la vita magico-religiosa delle società s'incentra nello sciamano. Ciò
non equivale certo a dire che egli sia il solo ed unico manipolatore del sacro,
né che l'attività religiosa sia totalmente monopolizzata dallo sciamano. In
molte tribù il prete sacrificatore coesiste presso allo sciamano, senza contare
il fatto che ogni capo di famiglia è anche il capo del culto domestico.
Tuttavia lo sciamano resta la figura predominante: perché in tutta questa zona
ove l'esperienza estatica è considerata come l'esperienza religiosa per
eccellenza, lo sciamano, e soltanto lui, è il gran maestro dell'estasi. Una
prima definizione di questo fenomeno complesso, quella, forse, che, ancora, è
la meno azzardata, potrebbe essere: sciamanismo = tecnica dell'estasi.
Come tale esso è
stato conosciuto e descritto dai primi viaggiatori delle diverse regioni
dell'Asia centrale e settentrionale. Più tardi fenomeni magico-religiosi
consimili sono stati osservati nell'America del Nord, in Indonesia,
nell'Oceania e altrove. E, come subito vedremo, tali fenomeni son realmente
sciamanici e vale studiarli insieme allo sciamanismo sineriano. Però ci
s'impone anzitutto un rilievo: la presenza di un complesso sciamanico in una
qualunque zona non implica necessariamente che la vita magico-religiosa dell'un
popolo o dell'altro si sia cristallizzata intorno allo sciamanismo. Un simile
caso può verificarsi (è quel che, ad esempio, è accaduto in certe regioni
dell'Indonesia), ma non è il più corrente. In genere, lo sciamanismo coesiste
presso ad altre forme di magia e di religione.
Dal che appare
il vantaggio di usare il termine sciamanismo nel suo senso proprio e rigoroso.
Perché, se ci si dà la pena di differenziare lo sciamano da altri «maghi» e medicine-men delle società primitive,
l'identificazione di complessi sciamanici nell'una o nell'altra religione andrà
subito ad avere un significato assai importante. Magia e maghi li si incontrano
un po' dappertutto nel mondo, mentre lo sciamanismo corrisponde ad una
«specialità» magica particolare sulla quale sempre torneremo: implica il «dominio
del fuoco»,
il volo magico e cosi via. Cosi, benché lo sciamano sia, fra l'altro, un mago,
non ogni mago può esser qualificato come sciamano. La stessa precisazione
s'impone nel riguardo delle guarigioni sciamaniche: ogni medicine-man è un guaritore, ma lo sciamano utilizza una tecnica
propria solo a lui. Quanto alle tecniche sciamaniche dell'estasi, esse non
esauriscono tutte le varietà dell'esperienza estatica attestate dalla storia
delle religioni e dall'etnologia religiosa: non si può dunque considerare un
qualsiasi estatico come uno sciamano; questi è lo specialista di una trance durante la quale si ritiene che
la sua anima può lasciare il corpo per intraprendere ascensioni celesti o
discese infernali.
Una distinzione
dello stesso genere è parimenti necessaria per precisare il rapporto dello
sciamano con gli «spiriti». Dovunque, nel mondo primitivo e
in quello moderno, si trovano individui che pretendono di essere in rapporto
con gli «spiriti»,
sia che vengano «posseduti» da questi, sia che essi invece li dominino.
Occorrerebbero diversi volumi per studiare adeguatamente tutti i problemi che
si pongono in relazione all'idea stessa di «spirito» e dei suoi possibili
rapporti con gli esseri umani: perché uno «spirito» può essere tanto l'anima di
un defunto che uno «spirito della natura», che un animale mitico e via
dicendo. Ma lo studio dello sciamanismo non esige tutto questo: basterà fissare
la posizione dello sciamano nei confronti dei suoi spiriti ausiliari. Ad
esempio, si vedrà facilmente in che uno sciamano si distingue da un «ossesso»:
egli domina i suoi «spiriti» nel senso che lui, essere umano, riesce a
comunicare coi morti, coi «demoni», con gli «spiriti
della natura» senza per questo trasformarsi in loro strumento. Certo,
s'incontrano degli sciamani che sono realmente degli «ossessi»,
ma essi costituiscono piuttosto delle eccezioni aberranti aventi, d'altronde,
una loro spiegazione.
Queste
precisazioni preliminari, per succinte che siano, indicano già il cammino che
ci proponiamo di seguire per giungere alla giusta comprensione dello
sciamanismo. Dato che questo fenomeno magico-religioso si è manifestato nella
sua forma più completa nell'Asia centrale e settentrionale, si prenderà come
esemplare tipico lo sciamano di tali regioni. Non ignoriamo, ed anzi cercheremo
di mostrare, che, almeno nel suo stato attuale, lo sciamanismo centro-asiatico
e nord-asiatico non è un fenomeno originario, esente da ogni influenza esterna:
al contrario, è un fenomeno che ha una lunga «storia». Ma questo sciamanismo
centro-asiatico e siberiano ha il merito di presentarsi come una struttura
nella quale vari elementi che esistono diffusi nel resto del mondo - e cioè:
rapporti speciali con gli «spiriti», capacità estatiche permettenti il
volo magico, l'ascensione al Cielo, la discesa agli Inferni, il dominio sul
fuoco, e così via - si rivelano già, nella zona in quistione, integrati m una
particolare ideologia e convalidati da tecniche specifiche.
Un tale
sciamanismo stricto sensu non è
limitato all'Asia centrale e settentrionale, e più giù noi andremo a rilevare
un gran numero di fenomeni paralleli in altri paesi del mondo. Certi elementi
sciamanici li si incontrano allo stato isolato in diverse forme primordiali di
magia e di religione e l'interesse che essi presentano è considerevole: perché
essi ci fanno riconoscere in che misura lo sciamanismo propriamente detto
conserva un fondo di credenze e di tecniche «primitive» e in che
misura esso è invece innovazione. Sempre attenti a ben delimitare il posto che
compete allo sciamanismo in seno alle religioni primitive (con tutto ciò che
queste implicano: «magia», credenza negli Esseri Supremi e
negli «spiriti», concezioni mitologiche e tecniche dell'estasi, ecc.),
noi saremo sempre costretti ad accennare a fenomeni più o meno simili senza per
questo considerarli come «sciamanici». Ma sarà sempre utile confrontare
e mostrare ciò a cui un elemento magi. co-religioso analogo a un dato elemento
sciamanico ha potuto dar luogo in altri casi, integrato che sia in un diverso
insieme culturale e presso ad un diverso orientamento spirituale.
Pur dominando la
vita religiosa dell'Asia centrale e settentrionale, lo sciamanismo non è per
questo la religione - la religione al singolare - di quest'area immensa. Solo
per comodità o per aver confuso si è potuto talvolta' considerare lo
sciamanismo come la religione dei popoli artici o turco-tartari. Le religioni
dell'Asia centrale e settentrionale oltrepassano per ogni verso i limiti dello
sciamanismo, allo stesso modo che una qualsiasi religione va sempre oltre
l'esperienza mistica di dati suoi membri privilegiati. Gli sciamani sono degli
«eletti» e come tali essi hanno accesso ad una zona del sacro impenetrabile per
gli altri membri della comunità. Le loro esperienze estatiche hanno esercitato
e continuano ad esercitare una possente influenza sulla stratificazione
dell'ideologia religiosa, sulla mitologia, sui rituali. Ma né l'ideologia, né
la mitologia, né i riti delle popolazioni artiche, siberiane e asiatiche sono
creazioni dei loro sciamani. Tutti questi elementi sono anteriori allo
sciamanismo o, per lo meno, sono ad esso paralleli nel senso che son dei
prodotti dell'esperienza religiosa generale e non di quella di una certa classe
di esseri privilegiati: gli estatici. Al contrario: come avremo occasione di
constatarlo, più di una volta si avverte lo sforzo dell'esperienza sciamanica,
e cioè estatica, di esprimersi a mezzo di una ideologia che non le è sempre
favorevole.
Per non
anticipare troppo il contenuto dei capitoli che seguiranno, accontentiamoci di
dire che gli sciamani son degli esseri che si differenziano in seno alle
corrispondenti comunità per via di certi tratti che, nelle società dell'Europa
moderna, potrebbero apparire come segni di una «vocazione» o, almeno, di una
«crisi religiosa». Essi si distinguono dal resto della loro comunità per
l'intensità dell'esperienza religiosa ad essi propria. Il che equivale a dire
che si avrebbe maggior ragione di collocare lo sciamanismo nella categoria dei
misticismi anziché nel quadro di ciò che abitualmente si designa come «religione».
Avremo occasione di ritrovare lo sciamanismo all'interno di un numero
considerevole di religioni, perché lo sciamanismo è sempre una tecnica estatica
a disposizione di una certa élite e costituente in un certo modo la mistica
della corrispondente religione. Un confronto si offre già in partenza allo
spirito: quello coi monaci, coi mistici e coi santi all'interno delle Chiese
cristiane. Ma non bisogna portar troppo oltre l'analogia: a differenza di
quanto accade nel cristianesimo (almeno nella sua storia più recente), i popoli
che si dichiarano «sciamanici» danno una importanza considerevole alle
esperienze estatiche dei loro sciamani; queste esperienze li riguardano
personalmente e direttamente, perché sono gli sciamani che, per mezzo delle
loro trance, li guariscono,
accompagnano i loro morti nel «Regno delle Ombre» e fanno da mediatori fra essi
e i loro dèi, celesti o infernali, grandi o piccoli. Questa ristretta élite
mistica non solo dirige la vita religiosa della comunità, ma in un certo modo
veglia sulla sua «anima». Lo sciamano è il grande
specialista dell'anima umana: lui solo la «vede», perché ne conosce
la «forma» e il destino.
E ove non si
tratti della sorte immediata dell'anima, ove non si abbia a che fare con la
malattia (= perdita dell'anima) o con la morte, o con una sventura, o con un
importante sacrificio che implica una certa esperienza estatica (viaggio
mistico nel Cielo o negli Inferni), lo sciamano non è indispensabile. Una gran
parte della vita religiosa si svolge senza di lui.
Come è noto, i
popoli artici, siberiani e centro-asiatici son composti nella grande
maggioranza da cacciatori-pescatori e da pastori-allevatori. Un certo nomadismo
li caratterizza tutti. E, nelle grandi linee, le loro religioni coincidono,
malgrado le differenze etniche-e linguistiche. Ciukci, Tungusi, Samoiedi o
TurcoTartari - per non nominare che qualcuno dei gruppi più importanti -
conoscono e venerano un Gran Dio celeste, già creatore e onnipotente, ma in via
di divenire un deus otiosus. Talvolta
il nome stesso del Gran Dio vuol dire «Cielo»; tale è, ad esempio,
il Num dei Samoiedi, il Buga dei Tungusi o il Tengri dei Mongoli (si cfr. anche il Tengeri dei Buriati, il Tangere dei Tartari del Volga, il Tingir dei Beltiri, il Tangara degli Yakuti, ecc.). Perfino
quando il nome concreto di «cielo» manca, si ritrova uno degli attributi più
specifici di esso, come «alto», «elevato»,
«luminoso»,
ecc. Cosi fra gli Ostiachi dell'Irtyosh il nome del dio celeste deriva da sfinke, parola il cui senso originario è
«luminoso,
lucente, luce». Gli Yakuti lo chiamano «l'assai elevato
Signore» (ar tojon), i Tartari dell'
Altai «Luce bianca» (ak atas), i
Koryaki «l'Uno d'in alto», il «Signore dell'alto»,
ecc. I Turco-Tartari, presso i quali il Gran Dio celeste conserva la sua
attualità religiosa più che fra i loro vicini del Nord e del Nord-Est, lo
chiamano parimenti «Capo», «Padrone», «Signore» e spesso
«Padre».
Questo dio
celeste, che abita il cielo superiore, ha diversi «figli» o «messaggeri»
a lui subordinati che occupano i cieli inferiori. Il loro numero e i loro nomi
variano di tribù in tribù: generalmente si parla di Sette o Nove «Figli» o
«Figlie»,
e con diversi di essi lo sciamano mantiene rapporti del tutto particolari.
Questi Figli, Messaggeri o Servitori del Dio celeste hanno la missione di
sorvegliare e di aiutare gli uomini. Il pantheon spesso è assai più numeroso;
di ciò ne è, per esempio, il caso fra i Buriati, gli Yakuti e i Mongoli. I
Buriati parlano di 51 dèi «buoni» e di 44 dèi «malvagi» e di una lotta senza
fine che li oppone gli uni agli altri. Ma, come si mostrerà più sotto, si può
pensare che questa moltiplicazione degli dèi e la loro stessa opposizione siano
innovazioni, forse abbastanza recenti.
Presso i
Turco-Tartari le dee hanno un ruolo piuttosto modesto. La divinità della terra
è alquanto sfumata. Gli Yakuti, ad esempio, non possiedono statuine della dea
della terra e non le offrono sacrifici. I popoli turco-tartari e siberiani
conoscono diverse divinità femminili, ma esse son riservate alle donne perché
il loro ambito è quello del parto e delle malattie infantili. La parte
mitologica della Donna è, anch'essa, assai ridotta - benché sussistano traccie
di essa in certe tradizioni sciamaniche. Fra gli Altaici, dopo il Dio celeste o
dell'atmosfera il solo gran dio è il Signore dell'Inferno, Erlik khan, anche
lui ben noto allo sciamano. Il culto, importantissimo, del fuoco, i riti della
caccia, la concezione della morte - sulla quale avremo spesso da tornare -
completano questo breve quadro della vita religiosa dell'Asia centrale e
settentrionale. Morfologicamente, nelle sue grandi linee siffatta religione si
avvicina a quella degli Indoeuropei: qui come là si ha la stessa importanza del
Gran Dio celeste o della tempesta, la stessa assenza di Dee (cosi
caratteristiche, invece, per l'area indo-mediterranea), la stessa funzione
attribuita ai «figli» o «messaggeri» (Açvin, Dioscuri, ecc.), la stessa
glorificazione del fuoco. Sul piano sociologico ed economico il ravvicinamento
fra gli Indoeuropei della protostoria e i Turco-Tartari antichi s'impone ancor
più nettamente: le due società hanno una struttura patriarcale, comportante un
grande prestigio del capo della famiglia, e la loro economia è nel complesso
quella dei cacciatori e dei pastori-allevatori. L'importanza religiosa che ha
il cavallo fra i Turco-Tartari e fra gli Indoeuropei è stata già da tempo
rilevata; come lo ricorderemo più giù, nel sacrificio greco più antico, nel
sacrificio olimpico, sono state recentemente individuate delle traccie del tipo
di sacrificio proprio ai Turco-Tartari, agli Ugri e ai popoli artici, del
sacrificio, cioè, che appunto caratterizza i cacciatori delle origini e i
pastori-allevatori. Questi fatti hanno il loro peso per il problema che ci
interessa: data la simmetria esistente in sede economica, sociale e religiosa
fra gli antichi Indoeuropei e i Turco-Tartari (o, per meglio dire: i
Proto-Turchi), sarà d'uopo vedere in che misura nei vari popoli indoeuropei
della storia esistono ancora delle vestigia «sciamaniche» comparabili allo
sciamanismo turco- tartaro,
Però, non lo si
ripeterà mai abbastanza: non v'è possibilità alcuna di rinvenire ove che sia
nel mondo o nella storia un fenomeno religioso «puro» e perfettamente
«originario». I documenti paletnologici e preistorici di cui
disponiamo non vanno oltre il paleolitico e nulla ci autorizza a credere che
durante le centinaia di migliaia di anni che han preceduto la più antica età
della pietra l'umanità non abbia conosciuto una vita religiosa così intensa e
varia quanto quella delle epoche successive. È quasi certo che almeno una parte
delle credenze magico-religiose dell'umanità prelitica si è conservata nelle
concezioni religiose e nelle mitologie più recenti. Ma è parimenti
probabilissimo che questo retaggio spirituale dell'epoca prelitica abbia subito
continue modificazioni in seguito ai numerosi contatti culturali fra le varie
popolazioni preistoriche e protostoriche. Cosi in nessuna parte della storia
delle religioni si ha a che fare con fenomeni «originari», la «storia» essendo
passata dappertutto, modificando, rifondendo, arricchendo o impoverendo le
concezioni religiose, le creazioni mitologiche, i riti, le tecniche
dell'estasi. Naturalmente, ogni religione che, dopo lunghi processi di
trasformazione interiore, finisce col costituirsi secondo una propria struttura
autonoma, presenta una «forma» che le è propria e che passa come tale nella
storia ulteriore dell'umanità: ma nessuna religione è completamente «nuova»,
nessun messaggio religioso abolisce completamente il passato. Si tratta piùttosto
della rifusione, del ringiovanimento, della rivalorizzazione, dell'integrazione
di elementi - e degli elementi più essenziali - di una tradizione religiosa le
cui origini si perdono nella notte dei tempi.
Queste brevi
considerazioni basteranno per delimitare provvisoriamente l'orizzonte storico
dello sciamanismo: alcuni dei suoi elementi, che saranno precisati in seguito,
sono nettamente arcaici, ma ciò non vuol dire che essi siano «puri» e
«originari». Lo sciamanismo turco-mongolo, nella forma in cui oggi
ci si presenta, è anzi sensibilmente impregnato da influenze orientali e, per
quanto esistano altri sciamanismi esenti da influenze così specifiche e
recenti, pure nemmeno essi sono «originari».
Quanto alle
regioni artiche, siberiane e centro-asiatiche, dove lo sciamanismo ha raggiunto
il suo grado più spinto d'integrazione, noi abbiamo detto che esse son caratterizzate,
da un lato, dalla presenza appena sensibile di un Gran Dio celeste, dall'altro
da riti di caccia e da un culto degli antenati che presuppongono tutt'altro
orientamento religioso. Come lo si vedrà più giù, lo sciamano è più o meno
direttamente implicato in ciascuno di questi settori religiosi. Ma si ha
l'impressione che egli sia «a casa sua» più in un dato settore che non in un
altro. Basato sull'esperienza estetica e sulla magia, lo sciamanismo si adatta
più o meno male alle varie strutture religiose che l'hanno preceduto. Talvolta,
nel ricollocare la descrizione di una seduta sciamanica nell'insieme della vita
religiosa della corrispondente popolazione (si pensa, ad esempio, al Gran Dio
celeste ed ai miti che lo concernono), si ha l'impressione di due universi
religiosi completamente differenti. Ma questa impressione è erronea: la
differenza non sta nella struttura degli universi religiosi, bensì nella
intensità dell'esperienza religiosa scatenata dalla seduta sciamanica. Questa
quasi sempre ricorre all'estasi e la storia delle religioni sta a dirci che
nessuna esperienza religiosa è più esposta a deformazioni e ad aberrazioni
quanto l'esperienza estatica.
E per concludere
queste osservazioni preliminari, noteremo ancora che bisogna sempre ricordarsi,
quando si studia lo sciamanismo, che esso predilige un certo numero di elementi
religiosi particolari e perfino «privati» e che, per ciò stesso, è lontano dall'esaurire
la vita religiosa del resto della comunità. Lo sciamano inizia la sua vita
nuova e vera con una «separazione», cioè, come subito vedremo, con
una crisi spirituale non priva né di grandezza tragica né di bellezza.
L'acquisto dei poteri sciamanici
Nella Siberia e
nell'Asia nord-orientale le principali vie di reclutamento degli sciamani sono:
1) la trasmissione ereditaria della professione sciamanica, e 2) la vocazione
spontanea, la «chiamata» o 1'«elezione». Si dà anche il caso
di individui divenuti sciamani mediante la loro sola volontà (come ad esempio
fra gli Altaici) o per volontà del clan (Tungusi, ecc.), ma costoro son
considerati meno potenti di quelli che hanno ereditato cotesta professione o
che han seguito la «chiamata» degli dèi e degli spiriti. Quanto alla scelta da
parte del clan, essa è subordinata all'esperienza estatica del candidato; se
questa non si verifica, l'adolescente designato per prendere il posto dello
sciamano morto viene scartato (vedi più giù).
Quale pur sia il
metodo di selezione, uno sciamano vien riconosciuto tale solo dopo aver
ricevuta una doppia istruzione: 1) istruzione d'ordine estatico (sogni, trance ecc.), e 2) istruzione d'ordine
tradizionale (tecniche sciamaniche, nomi e funzioni degli spiriti, mitologia e
genealogia del clan, linguaggio segreto, ecc.). Questa doppia istruzione,
impartita dagli spiriti o dai vecchi maestri sciamani, equivale ad una
iniziazione. Talvolta l'iniziazione è pubblica e forma, in se stessa, un
rituale autonomo. Ma l'assenza di un rituale di tale genere non implica affatto
l'assenza di iniziazione: questa può essersi benissimo effettuata in sogno o
nell'esperienza estatica del neofita. I rari documenti di cui disponiamo sui
sogni sciamanici mostrano precipuamente che si tratta di una iniziazione la cui
struttura è ben nota nella storia delle religioni; in nessun caso si tratta di
allucinazioni disordinate e di una affabulazione strettamente personale: queste
allucinazioni e questa affabulazione seguono dei modelli tradizionali coerenti,
ben articolati e di un contenuto storico di una stupefacente ricchezza.
Tutto ciò ha una
precisa importanza nel problema della psicopatia degli sciamani, che fra breve
tratteremo. Psicopatici o no, i futuri sciamani debbono passare attraverso
certe prove iniziatiche e ricevere un'istruzione che è spesso estremamente
complessa. Solo questa doppia iniziazione - estatica e tradizionale - trasforma
l'eventuale nevrotico in uno sciamano riconosciuto dalla società. La stessa
osservazione s'impone quanto all'origine dei poteri sciamanici: l'essenziale
qui non è il punto da cui si parte per ottenere tali poteri (eredità, dono
degli spiriti, ricerca deliberata), bensi la tecnica e la teoria che fa da base
a questa tecnica, che vengono trasmesse mediante l'iniziazione.
Una tale
constatazione ha il suo peso. Infatti a più riprese sono state tratte
conclusioni inadeguate circa la struttura e perfino circa la storia di questo
fenomeno religioso in base al fatto che un certo sciamanismo è ereditario,
ovvero spontaneo, che la «chiamata» che decide della carriera
di uno sciamano appare condizionata, o meno, dalla sua costituzione
psicopatica. Torneremo più gin su questi problemi metodologici. Per ora,
limitiamoci il passare in rassegna alcuni documenti siberiani e nord-asiatici
relativi all'elezione degli sciamani senza cercare di classificarli per
rubriche t trasmissione ereditaria chiamata designazione da parte del clan,
decisione personale) perché, come subito lo vedremo, la maggior parte delle popolazioni
che ci interessano conoscono quasi sempre più di una via di reclutamento.
Il reclutamento degli sciamani nella
Siberia occidentale e centrale
Presso i Voguli,
afferma Gondatti, lo sciamanismo è ereditario e si trasmette anche per linea
femminile. Ma il futuro sciamano lo si distingue già a partire dall'adolescenza:
presto egli diviene nervoso e talvolta è perfino soggetto ad attacchi
epilettici, attacchi che vengono interpretati come un incontro con gli dèi.
Presso gli Ostyaki orientali le cose sembrano stare diversamente: secondo
Dunin-Gorkavitc lo sciamanismo qui non lo si impara, è un dono del Cielo che si
riceve nascendo. Nella regione dell'Irtys, è un dono di Sanke (il dio del
Cielo) che si fa sentire fin dalla più tenera età. Anche i Vasiugani ritengono
che si nasce sciamani. Ma, come nota Karjalainen ereditario o spontaneo che
sia, lo sciamanismo è pur sempre un dono degli dèi o degli spiriti; da un certo
punto di vista, non è ereditario che in apparenza.
In genere, le
due forme di acquisizione dei poteri coesistono. Presso i Votyaki, ad esempio, la
qualità di sciamano è ereditaria, ma può anche esser creata direttamente dal
dio supremo, che istruisce lui stesso il futuro sciamano attraverso sogni e
visioni. Si ha esattamente lo stesso fra i Lapponi; il dono si trasmette nella
famiglia ma può anche esser conferito dagli spiriti a chi vogliono.
Presso i
Samoiedi siberiani e gli Ostyaki lo sciamanismo è ereditario. Alla morte del
padre, il figlio modella in legno una imagine della mano di questi e per mezzo
di tale simbolo si fa trasmettere i poteri. Però la qualità costituita
dall'esser figlio di sciamano non basta: occorre che il neofita sia inoltre
accetto agli spiriti e da essi confermato. Presso i Samoiedi Yurak il futuro
sciamano viene identificato sin dalla nascita; infatti i bambini che vengono al
mondo con la «camicia» sono destinati a divenire sciamani (quelli che nascono
soltanto con la «camicia» sulla testa diverranno degli sciamani minori).
All'avvicinarsi della maturità il candidato comincia ad aver delle visioni,
canta durante il sonno, ama andarsene a passeggiare in luoghi solitari e cosi
via; dopo tale periodo d'incubazione egli si unisce ad un vecchio sciamano per
essere istruito. Presso gli Ostyaki talvolta è lo stesso padre a scegliere tra
i figli il suo successore, attenendosi, in ciò, non al diritto di primogenitura
bensi alle capacità intrinseche del candidato. Poi gli trasmette la scienza
segreta tradizionale. Chi non ha figli, la trasmette ad un amico o ad un
discepolo. In ogni modo, coloro che sono destinati a divenire sciamani passano la
loro giovinezza sforzandosi a padroneggiare le dottrine e le tecniche dell'
arte.
Presso gli
Yakuti, scrive Sieroszewski, il dono dello sciamanismo non è ereditario. Però
l'amagat (segno, spirito protettore) non svanisce dopo la morte dello sciamano
ma tende a rincarnarsi in un altro membro della stessa famiglia. Pripuzov
riferisce i seguenti dettagli: la persona destinata a divenire sciamano
comincia a mostrarsi furiosa, poi, d'un tratto, perde la coscienza abituale, si
ritira nelle foreste, si nutre di scorze d'alberi, si getta nell'acqua e nel
fuoco, si ferisce con dei coltelli. Allora la famiglia ricorre ad un vecchio
sciamano che si dà ad istruire il giovane smarrito sulle diverse specie di
spiriti e sul modo di chiamarli e di dominarli. Questo non è che il principio
dell'iniziazione propriamente detta, la quale implica una serie di cerimonie su
cui torneremo.
Presso i Tungusi
transbaikaliani colui che desidera divenire sciamano afferma che lo spirito di
uno sciamano morto gli è apparso in sogno ordinandogli di assumerne la
successione. È di regola che questa dichiarazione viene ritenuta fondata, solo
se accompagnata da un disordine mentale assai spinto nel soggetto in quistione.
Secondo le credenze dei Tungusi di Turushansk colui che è destinato a divenir
sciamano vede nei suoi sogni il «diavolo» Khargi compiere riti
sciamanici. È in tale occasione che egli apprende i segreti dell'arte. Avremo
da tornare su questi «segreti», poiché essi costituiscono il
cuore stesso dell'iniziazione sciamanica, la quale si realizza talvolta in
sogni e in trance d'un carattere
apparentemente patologico.
Fra i Manchi e i
Tungusi della Manciuria vi sono due classi di «grandi» sciamani (amba saman): quelli del clan - e quelli
indipendenti dal clan. Nel primo caso la trasmissione dei poteri sciamanici
avviene abitualmente dal nonno al nipote perché, tenuto a provvedere ai bisogni
del padre, al figlio non è dato di divenire sciamano. Presso i Manciù il figlio
può divenirlo, ma, se non vi sono figli, è il nipote che eredita il dono, cioè gli
«spiriti» divenuti disponibili alla morte dello sciamano. Sorge un problema
quando nella famiglia dello sciamano non vi è più nessuno a prendere possesso
di questi spiriti; allora si ricorre ad un estraneo. Quanto allo sciamano
indipendente, non vi son regole che debba seguire (Shirokogorov). E lo si
comprende: egli segue la sua sola vocazione.
Shirokogorov
descrive più casi di vocazioni sciamaniche. Sembra trattarsi sempre di una
crisi isterica o isteroide seguita da un periodo di insegnamento durante il
quale il neofita viene iniziato da uno sciamano qualificato. Nella maggioranza
dei casi coteste crisi hanno luogo nel periodo della pubertà. Però non si può
divenire sciamani che parecchi anni dopo la prima esperienza. E come sciamani
si deve esser riconosciuti da tutta la comunità dopo aver superata la prova
iniziatica, senza la quale nessuno sciamano può esercitare la sua funzione.
Molti rinunciano alla professione quando il clan non li riconosce degni di
essere sciamani.
L'istruzione ha
una parte importante, ma non interviene che dopo la prima esperienza estatica.
Presso i Tungusi della Manciuria il bambino è, ad esempio, scelto ed educato in
vista del suo divenir sciamano, ma a decidere è sempre una prima estasi: se
l'esperienza non ha luogo, il clan rinuncia al suo candidato. Talvolta il
comportamento del giovane candidato decide ed accelera la consacrazione; cosi
può accadere che questi fugga nelle montagne e vi resti sette giorni, o ancor
più, cibandosi di animali «catturati direttamente da lui coi denti», tornando
poi al villaggio sporco, insanguinato, con le vesti lacere e i capelli in
disordine, «come un selvaggio». Solo dopo una dozzina di giorni il candidato
comincia a balbuziare delle parole incoerenti. Allora un vecchio sciamano
comincia a rivolgergli caute domande; il candidato (più esattamente: lo
«spirito» che lo possiede) s'infuria e infine indica quale sciamano dovrà
offrire dei sacrifici agli dèi e preparare la cerimonia di iniziazione e di
consacrazione (per il seguito della cerimonia propriamente detta, vedi più giù).
Il reclutamento fra i Buriati e gli Altaici
Presso i Buriati
Alari studiati da Sandschejew, lo sciamanismo si trasmette per linea paterna o
materna - ma può anche essere spontaneo. In entrambi i casi la vocazione si
manifesta attraverso sogno e convulsioni provocati, gli uni e le altre, dagli
spiriti degli antenati (utcha). La
vocazione sciamanica è imperativa: non ci si può sottrarre ad essa. Se non vi
sono candidati adatti, gli spiriti degli antenati vanno a tormentare dei bambini;
questi piangono durante il sonno, divengono nervosi e fantastici, finché, sui
tredici anni, vengono prescelti per essere sciamani. Il periodo preparatorio
comporta una lunga serie di esperienze, estatiche e iniziatiche ad un tempo:
gli spiriti degli antenati si manifestano nei sogni e talvolta conducono il
neofita sino all'inferno. Nel contempo il giovane continua ad istruirsi presso
sciamani ed anziani; impara la genealogia e le tradizioni del clan, la
mitologia e il vocabolario sciamanico. L'istruttore vien chiamato il
Padre-Sciamano. Durante la sua estasi, il candidato canta inni sciamanici.
Questo è il segno che il contatto con l'aldilà si è già stabilito.
Pressi i Buriati
della Siberia meridionale lo sciamanismo è in genere ereditario, ma può anche
accadere che si divenga sciamani in seguito ad una elezione divina o ad un
accidente: ad esempio, gli dèi scelgono il futuro sciamano colpendolo con la
folgore o manifestandogli la loro volontà a mezzo di pietre cadute dal Cielo;
v'è chi ha bevuto per caso del tarasun là dove si trova una di queste pietre ed
è stato trasformato in sciamano. Ma anche questi sciamani scelti dagli dèi
debbono esser poi guidati e istruiti da vecchi sciamani (Mikhailowski). La
parte che ha la folgore nella designazione del futuro sciamano è importante: ci
dice dell'origine celeste dei poteri sciamanici. Né il caso è isolato: anche
presso i Soyoti si diviene sciamani se si è sfiorati dalla folgore, e la
folgore è talvolta raffigurata sul costume sciamanico.
Nel caso dello sciamanismo
ereditario le anime degli antenati sciamani scelgono un giovane della loro
famiglia; questi diviene distratto e sognatore, ama la solitudine, ha delle
visioni profetiche e talvolta degli attacchi che gli tolgono la coscienza.
Durante un tale periodo - pensano i Buriati - l'anima è portata via dagli
spiriti verso l'Occidente, se si è destinati a divenire sciamani-bianchi, verso
l'Oriente se si è destinati a divenire sciamani-neri (per la distinzione tra
questi due tipi di sciamani, cfr. avanti, p. 208). Accolta nel palazzo degli
dèi, l'anima del neofita viene istruita dagli antenati-sciamani nei segreti
dell'arte, nelle forme e nei nomi degli dèi, nel culto e nel nome degli spiriti
e così via. Solo dopo questa prima iniziazione l'anima torna ad unirsi col
corpo. Vedremo che l'iniziazione si continuerà per ancora lungo tempo.
Per gli Altaici,
la qualità sciamanica è generalmente ereditaria. Già da bambino il futuro kam appare malaticcio, solitario,
contemplativo. Ma egli viene preparato per un lungo periodo dal padre che gli
insegna i canti e la tradizione della tribù, Quando in una famiglia un giovane
è colpito da attacchi epilettici, gli Altaici sono convinti che uno dei suoi
antenati è stato sciamano. Ma si può divenire kam anche per volontà propria,
benché un tale sciamano così sia considerato inferiore agli altri.
Presso i
Kazak-Kirghisi, la professione di baqça
si trasmette abitualmente di padre in figlio; solo in via eccezionale il padre
la trasmette a due dei suoi figli. Tuttavia si conserva il ricordo di un'epoca
antica in cui il neofita veniva scelto direttamente dai vecchi sciamani.
«Talvolta, in altri tempi, i baqça
prendevano presso di loro dei Kazak-Kirghisi giovanissimi, quasi sempre degli
orfani, per iniziarli alla professione di baqça; per la riuscita nell'arte era
però considerata indispensabile una predisposizione alle malattie nervose. I
soggetti destinati al baqçylvk erano
caratterizzati da improvvisi cambiamenti di stato, da un rapido passare
dall'irritazione allo stato normale, dalla malinconia all'agitazione».
Trasmissione ereditaria e ricerca dei
poteri sciamanici
Già da questo
rapido esame dei fatti siberiani e centro asiatici scaturiscono due
conclusioni: 1) la coesistenza dello sciamanismo ereditario con uno sciamanismo
determinato direttamente dagli dèi e dagli spiriti; 2) la frequenza di fenomeni
patologici che accompagnano la manifestazione spontanea o la trasmissione
ereditaria della vocazione sciamanica. Vediamo ora come stanno le cose in altre
regioni, a parte la Siberia, l'Asia centrale e le zone artiche.
Non occorre
fermarsi oltre misura sulla quistione della trasmissione ereditaria o della
vocazione spontanea del mago e del medicine-man.
Nel complesso, la situazione è la stessa ovunque: le due vie di accesso ai
poteri magico-religiosi coesistono. Basterà riferire qualche esempio.
La professione
del medicine-man è ereditaria fra gli
Zulù e i Beciuani dell'Africa del Sud, fra i Nyima del Sudan meridionale, fra i
Negritos e gli Jakun della penisola malese, fra i Batachi ed altre popolazioni
di Sumatra, fra i Daiachi, fra gli stregoni delle Nuove Ebridi e in diverse
tribù guianesi e amazzoniche (Shipibo, Cobeno, Macushi, ecc.). «Secondo i
Cobeno, ogni sciamano per diritto di successione gode di un potere superiore a
quello il cui titolo è dovuto soltanto alla propria iniziativa» (Métraux).
Presso le tribù delle Montagne Rocciose dell'America del Nord il potere
sciamanico può esser anche ereditato, ma la sua trasmissione avviene sempre
attraverso una esperienza estatica (sogno). Come lo nota Park (p. 29),
l'eredità sembra piuttosto consistere nella tendenza di uno dei figli o di
altri membri della famiglia ad acquistare il potere, dopo la morte dello
sciamano, attingendolo dalla stessa fonte. Presso i Puyallup - rileva Marian
Smith - «il potere tende a restare nella famiglia». Sono anche noti dei casi in
cui lo sciamano trasmette ancor vivo i poteri a suo figlio (Park, p. 30).
L'ereditarietà del potere sciamanico sembra esser di regola fra le tribù degli
Altopiani (Thompson, Shuswap, Okanagon del Sud, Klallam, Naso Forato, Klamath,
Tenino), nella Carolina del Nord (Shasta, ecc.) e la si incontra anche fra gli
Hupa, i Chimariko, i Wintu e i Mono occidentali. La trasmissione degli «spiriti»
costituisce sempre la base di questa eredità sciamanica, a differenza del
metodo più corrente che s'incontra un po' dappertutto fra le tribù
nord-americane, di assicurarsi cotesti «spiriti» o con una esperienza spontanea
(sogno, ecc.) oppure con una ricerca volontaria. Fra gli Eschimesi lo
sciamanismo è assai di rado ereditario. Un Iglulik
divenne sciamano dopo esser stato ferito da un tricheco; ma per tal via egli,
in un certo modo, andò ad ereditare la qualificazione di sua madre divenuta
sciamana in seguito all'entrare di una sfera di fuoco nel suo corpo. L'ufficio
di medicine-man non è ereditario
presso un numero considerevole di popolazioni primitive, elencare le quali,
qui, non ha alcun interesse. Ciò vuol dire che dovunque nel mondo viene ammessa
la possibilità di ottenere dei poteri magico-religiosi sia spontaneamente
(malattia, sogno, incontro fortuito di una qualche sorgente di «potenza»,
ecc.) sia volontariamente (con una ricerca). Vale osservare che il
conseguimento non-ereditario dei poteri magico-religiosi presenta un numero
quasi illimitato di forme e di varianti che interessano più la storia generale
delle religioni che non uno studio sistematico dello sciamanismo; e qui è
possibile sia acquistare in modo spontaneo o volontario i poteri
magico-religiosi per divenire sciamano, medicine-man
o stregone, sia l'assicurarsi tali forze per la propria sicurezza o per un profitto
personale. È cosi che le cose si presentano un po' dappertutto nel mondo
arcaico. Il secondo caso non importa una distinzione di condizione religiosa o
sociale del singolo nei confronti del resto della comunità. Colui che in virtù
di certe tecniche elementari, ma tradizionali, consegue un accrescimento delle
proprie disponibilità magico-religiose (tanto da poter garantire la ricchezza
del raccolto, o da potersi difendere dal malocchio, ecc.) non mira a mutare il
suo stato socio-religioso e a divenire un medicine-man
in virtù di questo stesso potenziamento delle sue disponibilità del sacro. Egli
desidera semplicemente aumentare le sue capacità vitali e religiose. La sua
ricerca - modesta e limitata - dei poteri magico-religiosi rientra dunque fra i
comportamenti tipici più elementari dell'uomo dinanzi al sacro. Giacché, come
l'abbiamo mostrato altrove, nell'uomo primitivo, cosi come in ogni essere
umano, il desiderio di entrare in contatto col sacro ha per controparte il
timore di esser obbligato a rinunciare alla sua condizione semplicemente umana
e a trasformarsi nello strumento più o meno passivo di una qualche
manifestazione del sacro (dèi, spiriti, antenati, ecc.).
Nelle pagine che
seguiranno, la ricerca volontaria dei poteri magico-religiosi o l'ottenimento
di tali poteri grazie a dèi o spiriti attirerà la nostra attenzione nella sola
misura in cui si tratterà di una acquisizione massiccia del sacro chiamata a
mutare radicalmente il regime socio-religioso dell'interessato il quale, per
tal via, si troverà trasformato in un tecnico specializzato. Perfino in casi di
questo genere avremo occasione di scoprire una certa resistenza di fronte all'«elezione
divina».
Esaminiamo ora i
rapporti che alcuni hanno creduto di poter stabilire fra lo sciamanismo artico
e siberiano e le malattie nervose, in primo luogo le varie forme di isteria
artica. A partire da Krivoshepkin (1861.1865), da Bogoraz (1910), da
Vitashevskij (1911) e da Czaplicka (1914) si è sempre tornati a mettere in
rilievo la fenomenologia psicopatologica dello sciamanismo siberiano. L'ultimo
fautore della spiegazione dello sciamanismo a mezzo dell'isteria artica, A
Ohlmarks, è stato perfino condotto a distinguere uno sciamanismo artico da uno
sub-artico in base al grado di nevropatia di coloro che lo esercitano. Secondo
questo autore lo sciamanismo in origine sarebbe stato un fenomeno
esclusivamente artico, essenzialmente dovuto all'influenza dell'ambiente
cosmico sulla labilità nervosa degli abitanti delle regioni polari. Il freddo
eccessivo, le lunghe notti, la solitudine desertica, la mancanza di vitamine, ecc.,
avrebbero agito sulla costituzione nervosa delle popolazioni artiche provocando
sia delle malattie mentali (l'isteria artica, il meryak, il menerik,
ecc.), sia la trance sciamanica. La
sola differenza fra uno sciamano e un epilettico consisterebbe nel fatto che il
secondo non può realizzare la trance a
volontà. Nella zona artica l'estasi sciamanica è un fenomeno spontaneo ed
organico: soltanto in questa zona si può parlare di «grande sciamanismo»,
cioè di una cerimonia che si conclude con una trance catalettica reale durante la quale si suppone che l'anima
abbandoni il corpo e viaggi verso i cieli o verso gli inferni sotterranei.
Nelle regioni sub-artiche lo sciamano, non essendo più vittima dell'oppressione
cosmica, non giunge spontaneamente ad una trance
effettiva e si trova costretto ad usare narcotici per provocare una semi-trance ovvero ad imitare con una
pantomima il «viaggio» dell' anima.
La tesi che
assimila lo sciamanismo ad una malattia mentale è stata anche sostenuta nel
riguardo di forme di sciamanismo diverse da quelle artiche. G.A. Wilken, già
circa sessant'anni fa, aveva sostenuto che lo sciamanismo indonesiano in
origine era stato una vera malattia e che solo più tardi ci si era dati a
imitare drammaticamente la trance autentica.
E non si è mancato di rilevare le relazioni assai nette che sembrano esistere
tra certe forme di squilibrio mentale e le varie forme di sciamanismo
sud-asiatico e oceanico. Secondo Loeb lo sciamano di Niue sarebbe epilettico o
nervoso all'eccesso e proverrebbe da famiglie nelle quali l'instabilità nervosa
è ereditaria. Basandosi sulle descrizioni diCzaplicka, Layard ha creduto di
scoprire una stretta somiglianza fra lo sciamano siberiano e il bwili di
Malekula. Il sikerei di Meutawei, il bomor di Kelantan sono parimenti dei
nevropatici. A Samoa gli epilettici divengono degli indovini. I Batachi di
Sumatra ed altri popoli dell'Indonesia scelgono di preferenza persone
malaticcie o deboli per l'ufficio di mago. Presso i Subanum di Mindanao il mago
perfetto è generalmente un nevrastenico o, almeno, un tipo eccentrico. Lo
stesso si verifica altrove: presso i Sema Maga il medicine-man rassomiglia talvolta ad un epilettico; nell'arcipelago
delle Andamane gli epilettici vengono considerati come dei grandi maghi; presso
i Lotuko dell'Uganda i malati e i nevropatici sono abitualmente dei candidati
alla magia per quanto debbano sottoporsi ad una lunga iniziazione prima di
essere qualificati per la loro professione.
Secondo il Padre
Housse i candidati sciamani presso gli Araucani del Cile «son sempre dei malati
o dei sensitivi dal cuore debole, dallo stomaco in cattivo stato, soggetti a
vertigini. Pretendono che al richiamo della divinità essi non possono opporsi e
che una morte prematura punirebbe inevitabilmente la loro resistenza e la loro
infedeltà». Talvolta, come presso i Jivaro, il futuro sciamano ci si presenta
solo come un essere riservato e taciturno, o, come presso i Selk'nam e gli
Yamana della Terra del Fuoco, predisposto alla meditazione e all'ascesi. Paul
Radin mette in rilievo la struttura epilettoide o isteroide della gran parte
dei medicine-men che cita a sostegno
della sua tesi circa l'origine psicopatologica della classe degli stregoni e
dei sacerdoti. E aggiunge, proprio nello stesso senso di un Wilken, di un Layard
e di un Ohlmarks: «Ciò che dapprima era dovuto a delle necessità psichiche
divenne una formula prescritta e meccanica ad uso di tutti coloro che
desiderano divenire sacerdoti o prender contatto col sovrannaturale». Ohlmarks
afferma che in nessun'altra parte del mondo le malattie psichico-mentali sono
cosi intense e generalizzate come nell'Artide e cita una frase dell'etnologo
russo Dimitri Zelenin: «Nel Nord queste psicosi erano assai più diffuse che
altrove».
Senonché osservazioni dello stesso genere son state anche fatte nei riguardi di
molte altre popolazioni primitive e non si vede bene in che esse possano
facilitarci la comprensione di un fenomeno religioso.
Considerato dal
punto di vista dell'homo religiosus - che è il solo ad interessarci nel presente
lavoro - il malato mentale ci si palesa come un mistico mancato o, ancor
meglio, come la scimmiottatura di un mistico. La sua esperienza è priva di
contenuto religioso anche se in apparenza rassomiglia ad una esperienza
religiosa, allo stesso modo che un atto di autoerotismo può produrre lo stesso
risultato dell'atto sessuale propriamente detto (l'emissione del seme) pur non
essendo, di questo, che una imitazione scimmiesca data la mancanza della
presenza concreta dell'altra parte. Del resto, è ben possibile che
l'assimilazione di un soggetto nevrotico ad un individuo posseduto dagli
spiriti - assimilazione fatta assai di frequente nei riguardi del mondo arcaico
- in molti casi abbia per sola base le osservazioni imperfette dai primi
etnologi. Presso le tribù sudanesi recentemente studiate da Nadel l'epilessia è
assai diffusa; ma né l'epilessia, né qualsiasi altra malattia mentale sono
considerate dagli indigeni come una vera possessione. Comunque, a noi s'impone
la conclusione che la pretesa origine artica dello sciamanismo non si lega
necessariamente alla labilità nervosa delle popolazioni viventi troppo vicino
al polo e alle epidemie che sono specifiche per le regioni del Nord, a partire
da una certa latitudine. Come l'abbiamo visto or ora, fenomeni psicopatologici
analoghi si ritrovano un po' dovunque su tutto il globo.
Che tali
malattie appaiano avere quasi sempre un certo rapporto con la vocazione del medicine-man, ciò non ha nulla di
sorprendente. Come il malato, l'uomo religioso si trova proiettato ad un
livello vitale che gli rivela i dati fondamentali dell'esistenza umana, cioè la
solitudine, la precarietà e l'ostilità del mondo che lo circonda. Ma il mago
primitivo, il medicine-man o lo
sciamano non sono semplicemente dei malati: essi sono, anzitutto, dei malati
guariti, dei malati che son riusciti a guarirsi da se stessi. Quando la
vocazione dello sciamano o del medicine-man
si rivela attraverso una malattia o un attacco epilettoide, l'iniziazione del
candidato equivale spesso alla guarigione. Il famoso sciamano yakuta Tiisput
(cioè: «caduto dal Cielo») era stato malato a vent'anni; si mise a cantare e si
senti meglio. Quando Sieroszewski l'incontrò aveva sessant'anni; e dava prova
di una infaticabile energia. «Se occorreva, poteva battere il tamburo, ballare
e saltare per tutta una notte». Peraltro, era un uomo che aveva
viaggiato; aveva perfino lavorato nelle miniere d'oro della Siberia. Ma sentiva
il bisogno di far dello sciamanismo: se restava troppo tempo senza farne, si
sentiva male. Uno sciamano golda raccontò a Sternberg: «Gli anziani dicono che
qualche generazione fa tre grandi sciamani facevan parte della mia famiglia.
Non si conoscono sciamani fra i miei ascendenti più prossimi. I miei genitori
godono di una perfetta. salute. lo ho quarant'anni, sono sposato e non ho
figli. Fino ai venti anni stavo benissimo; poi mi ammalai, il corpo mi doleva,
avevo dei terribili mali di testa. Degli sciamani cercarono di guarirmi senza
riuscirvi. Quando io stesso mi misi a far dello sciamanismo, il mio stato
migliorò. Divenni sciamano dieci anni or sono, ma sul principio non esercitai
questa qualità che su me stesso; è solo da tre anni che mi sono dato a curare
anche gli altri. La professione dello sciamano è faticosa, molto, molto
faticosa».
Sandschejew
incontrò un Buriate che, da giovane, era stato «antisciamanista».
Ma si ammalò e, dopo aver cercato inutilmente la guarigione (per trovare un
buon medico si spinse fino a Irkutsk), tentò di far dello sciamanismo. Guari
immediatamente e divenne sciamano per il resto della vita. Anche Sternberg
rileva che l'elezione dello sciamano si manifesta attraverso una grave malattia
che generalmente coincide con la maturità sessuale. Ma il futuro sciamano
finisce col guarire grazie all'aiuto di quegli stessi spiriti che in seguito
diverranno i suoi spiriti protettori e ausiliari. Talvolta questi sono degli
antenati che. desiderano trasmettergli gli spiriti ausiliari rimasti
disponibili. In realtà, si tratta di una specie di trasmissione ereditaria: in
tali casi la malattia non è che un segno della «scelta» e si dimostra
passeggera.
Così si ha sempre
a che fare con una guarigione, con un padroneggiamento, con un equilibrio i
quali si realizzano attraverso l'esercizio stesso dello sciamanismo. Ad
esempio, non è al fatto del suo esser soggetto agli attacchi dell'epilessia che
lo sciamano eschimese o indonesiano deve la sua forza e il suo prestigio: è
invece al fatto che egli può dominare questa epilessia. Esteriormente, si avrà
un bel rilevare tutte le analogie che esistono fra la fenomenologia del meryak o del menerik e la trance dello
sciamano siberiano; ma il fatto essenziale è che quest'ultimo ha il potere di
provocare volontariamente la «trance
epilettoide». Non basta: gli sciamani in apparenza tanto simili
agli epilettici e agli isterici danno prova di una costituzione nervosa più che
normale: essi riescono a concentrarsi con una intensità sconosciuta ai profani;
resistono ai massimi sforzi; controllano i loro movimenti estatici, e cOSI via.
Secondo le
informazioni di Bjeljavskij e di altri, raccolte da Karjalainen, lo sciamano vogulo
presenta una intelligenza viva, un corpo agilissimo, una energia che sembra non
aver limiti. Con la stessa preparazione richiesta per la sua futura attività di
neofita cerca di fortificare il suo corpo e di perfezionare le sue qualità
intellettuali. Mytchyll, sciamano yakuta che Sieroszewski conobbe, benché
vecchio, superava nella seduta i più giovani quanto all'altezza dei suoi salti
e all'energia dei suoi gesti. «Si animava, sfoggiava di spirito e di
parlantina. Si feriva con dei coltelli, inghiottiva dei bastoni, divorava
carboni ardenti». Per gli Yakuti lo sciamano perfetto «deve esser serio, aver
del tatto, saper convincere chi gli è d'intorno; soprattutto, non deve
mostrarsi presuntuoso, orgoglioso, impulsivo. Si deve sentire in lui una forza
interiore che non urta ma che ha coscienza della propria potenza». Sarebbe
difficile riconoscere in questo profilo il tipo dell'epilettoide che ci si è
immaginati in base ad altre descrizioni ...
Benché gli
sciamani eseguano la loro danza estatica all'interno di una yurta affollata, in
uno spazio limitatissimo, con dei costumi contenenti più di quindici chili di
ferro sotto specie di dischi e di diversi altri oggetti, non v'è persona che
venga da essi urtata. E il baqça kazak kirghiso,
durante la trance, «benché si
precipiti da ogni parte ad occhi chiusi, trova tutti gli oggetti che gli
occorrono». Questa stupefacente capacità di controllo perfino dei movimenti
estatici, tradisce una meravigliosa costituzione nervosa. In genere, lo
sciamano siberiano e nord-asiatico non dà segni di disintegrazione psichica. La
memoria e la capacità di autodominio sono, in lui, superiori alla media.
Secondo Donner, «si può affermare che presso i Samoiedi, gli Ostiachi e certe
altre tribù lo sciamano è generalmente sano e, nel riguardo intellettuale,
spesso superiore al suo ambiente», Presso i Buriati gli sciamani
sono i principali custodi della ricca letteratura eroica orale. Il vocabolario
poetico di uno sciamano yakuta comprende dodicimila' parole, laddove la sua
lingua ordinaria - la sola conosciuta dal resto della comunità - non ne ha che
quattromila (Chadwick). Presso i Kazak-Kirghisi il baqça, «cantore, poeta, musico, indovino, sacerdote e medico,
sembra essere il custode delle tradizioni religiose popolari, il conservatore di
leggende antiche di molti secoli» (Castagné).
Rilievi analoghi
sono stati fatti nel riguardo di sciamani di altre regioni. Secondo
Koch-Grlinberg «gli sciamani Taulipang sono, in via generale, individui
intelligenti, talvolta scaltri, ma forniti sempre di una grande forza di
çarattere, perché nella loro formazione e nell'esercizio delle loro funzioni
essi debbono dar prova di energia e di dominio di se stessi». Métraux, a
proposito degli sciamani amazzonici, osserva: «Nessuna anomalia o particolarità
fisica o fisiologica sembra esser considerata come sintomo di speciale
predisposizione per l'esercizio dello sciamanismo».
Presso i Wintu
la formulazione e la trasmissione del pensiero speculativo sono privilegio
degli sciamani. Lo sforzo intellettuale dello sciamano-profeta daiaco è enorme
e dice di una capacità mentale assai superiore a quella della collettività. Lo
stesso è stato osservato per gli sciamani africani in genere (Chadwick). Quanto
alle tribù sudanesi studiate da Nadel, «non esiste sciamano che, nella sua vita
quotidiana, sia un individuo "anormale", un nevrastenico o un
paranoico: se fosse tale, lo si metterebbe fra i pazzi, non lo si rispetterebbe
come un sacerdote. Tutto sommato, lo sciamanismo non lo si può mettere in
relazione con una anormalità nascente o latente; non ricordo un solo sciamano
in cui l'isteria professionale abbia degenerato in un disordine mentale serio».
In Australia, le cose sono ancor più chiare: i medicine-men debbono essere perfettamente sani e normali, e lo
sono quasi sempre.
E bisogna anche
tener conto del fatto, che l'iniziazione propriamente detta non comporta
soltanto una esperienza estatica ma, come subito vedremo, una istruzione
teorica e pratica troppo complicata per esser accessibile ad un malato. Che
siano ancora soggetti a veri attacchi di epilessia o di isterismo, o che non lo
siano più, gli sciamani, gli stregoni, i
medicine-men in genere non possono essere considerati come semplici malati:
la loro esperienza psicopatica ha un contenuto teorico. Perché se essi si san
guariti da sé e sanno guarire gli altri, ciò, fra l'altro, è dovuto al fatto
che essi conoscono il meccanismo - o, meglio ancora, la teoria - della
malattia.
Tutti questi
esempi mettono in luce, in un modo o nell'altro, la singolarizzazione o
differenziazione del medicine-man
all'interno della sua comunità. Che egli sia scelto dagli dèi o dagli spiriti
come loro portavoce, o che sia predisposto ad una tale funzione da tare fisiche
o, infine, che sia il portatore di una eredità equivalente ad una vocazione
magico-religiosa - in ogni caso il medicine-man
si stacca dal mondo dei profani proprio perché si trova in un rapporto più
diretto col sacro e ne manipola più efficacemente le manifestazioni. Infermità,
malattie nervose, vocazione spontanea o ereditata, sono altrettanti segni
esteriori di una «scelta», di una «elezione».
Talvolta cotesti segni sono fisici (infermità innate o acquisite); in altri
casi, si tratta di un accidente, perfino dei più comuni (ad esempio: esser
caduti da un albero, esser stati morsi da una serpe, ecc.); abitualmente - come
lo vedremo da presso nel prossimo capitolo - l'elezione si palesa attraverso un
accidente insolito: folgore, apparizioni, sogni, eccetera.
Importa metter
in rilievo questa nozione della singolarizzazione determinata da una esperienza
inusuale e anormale, perché, a considerare bene le cose, la singolarizzazione
come tale procede dalla dialettica stessa del sacro. In effetti le ierofanie
più elementari altro non sono che una separazione radicale, avente valore
ontologico, fra un oggetto qualunque e la zona cosmica che lo circonda: una
certa pietra, un certo albero, un certo luogo pel fatto stesso che si rivelano
come sacri, che essi sono stati in un qualche modo «scelti» quali ricettacoli
di una manifestazione del sacro, appaiono ontologicamente distinti dalle altre
pietre, dagli altri alberi e dagli altri luoghi e vanno a collocarsi su di un
piano diverso, sovrannaturale. Altrove
abbiamo analizzato le strutture e la dialettica delle ierofanie delle
cratofanie, cioè delle manifestazioni del sacro magico-religioso. Quel che qui
importa rilevare è la simmetria esistente fra la singolarizzazione degli
oggetti come esseri e segni sacri, e la singolarizzazione determinantesi per
elezione, per «scelta», in coloro che sperimentano il
sacro con una ben diversa intensità che non il resto della comunità, in coloro
che incarnano, in un certo modo, questo sacro perché lo vivono profondamente o,
meglio, perché «vengono vissuti» dalla «forma» religiosa che li ha scelti (dèi,
spiriti, antenati, ecc.). La portata di queste precisazioni preliminari ci si
paleserà dopo che avremo studiati i metodi di preparazione e le tecniche di
iniziazione dei futuri sciamani.
Capitolo 2. Malattie e sogni iniziatici
Si è visto che
le malattie, i sogni e le estasi più o meno patogene sono tanti mezzi di
accesso alla condizione di sciamano. Talvolta queste singolari esperienze non
significano altro che una «scelta» fatta dall'alto e valgono solo a preparare il
candidato a ricevere ulteriori rivelazioni. Ma per lo più le malattie, i sogni
e le estasi costituiscono in se stesse una iniziazione: vogliamo dire che esse
vanno a trasformare l'uomo profano di prima della «scelta» in un tecnico
del sacro. L'esperienza d'ordine estatico è sempre e dappertutto seguita da una
istruzione teorica e pratica da parte di vecchi maestri: ma non per questo essa
è meno decisiva, perché è essa che modifica radicalmente lo stato religioso
della persona «scelta».
Vedremo subito
come tutte le esperienze estatiche che decidono della vocazione del futuro
sciamano comportino lo schema tradizionale di una cerimonia iniziatica:
passione, morte e resurrezione. Considerata da questo punto di vista, una
qualsiasi «malattia-vocazione» ha il valore di una iniziazione.
Infatti le sofferenze da essa causate corrispondono alle torture iniziatiche,
l'isolamento psichico di un «malato scelto» è l'equivalente dell'isolamento e
della solitudine rituale delle cerimonie iniziatiche, l'imminenza della morte
avvertita dal malato (agonia, incoscienza, ecc.) ricorda la morte simbolica che
figura nella maggior parte delle cerimonie di iniziazione. Gli esempi che seguiranno
mostrano tutta l'estensione di tali corrispondenze. Certe sofferenze fisiche
trovano la loro precisa traduzione nei termini di una morte (simbolica)
iniziatica: ad esempio, lo smembramento del corpo del candidato (= malato),
esperienza estatica che può realizzarsi sia grazie alle sofferenze della «malattia-vocazione»,
sia per mezzo di certe cerimonie rituali, sia, infine, nei sogni.
Quanto al
contenuto di coteste esperienze estatiche iniziali, benché esso sia abbastanza
ricco, ripete quasi sempre uno o più d'uno dei temi seguenti: smembramento del
corpo seguito da un rinnovamento degli organi interni e delle viscere;
ascensione al Cielo e dialogo con gli dèi o gli spiriti; discesa agli Inferni e
colloqui con gli spiriti e le anime degli sciamani morti; rivelazioni varie
d'ordine religioso e sciamanico (segreti dell'arte). Tutti questi temi, come si
vede facilmente, hanno carattere iniziatico. In alcuni documenti li ritroviamo
tutti; in altri casi, se ne incontrano solo uno o due (smembramento del corpo,
ascensione al Cielo). Del resto, è possibile che l'assenza di certi temi
iniziatici sia dovuta, almeno in parte, all'insufficienza delle nostre
informazioni, i primi etnologi essendosi generalmente accontentati di notizie
sommarie.
Come pur stiano
le cose, la presenza o l'assenza di questi temi indicano anche il particolare
orientamento religioso delle tecniche sciamaniche che, caso per caso, sono
state usate. V'è indubbiamente una differenza fra l'iniziazione sciamanica
«celeste» e quella che si potrebbe chiamare, con certe riserve, «infernale».
La parte che ha un Essere Supremo e celeste nel raggiungimento della trance estatica o, invece, l'importanza
accordata agli spiriti degli sciamani morti o ai «demoni», dicono di
orientamenti divergenti. È probabile che queste differenze siano dovute a delle
concezioni religiose distinte, se non pure opposte. In ogni caso esse implicano
una lunga evoluzione e, di certo, una storia che, allo stato attuale delle
ricerche, si può ricostruire solo in modo ipotetico e provvisorio. Pel momento
non dobbiamo occuparci della storia di questi vari tipi di iniziazione, e, per
non complicare l'esposizione, presenteremo separatamente ciascuno di questi
grandi temi mitico-rituali: spezzettamento del corpo del candidato, ascensione
al Cielo, discesa agli Inferni. Bisogna però non dimenticare che questa
separazione corrisponde raramente alla realtà, che, come subito lo vedremo nei
riguardi degli sciamani siberiani, i tre temi iniziatici principali talvolta
coesistono nell'esperienza di uno stesso individuo e che, in ogni caso, essi
generalmente si ritrovano all'interno di una stessa religione. Infine, si dovrà
tener presente che queste esperienze estatiche, benché costituiscano
l'iniziazione propriamente detta, sono sempre integrate in un sistema complesso
d'istruzione tradizionale.
Cominceremo la
descrizione dell'iniziazione sciamanica con la presentazione della sua forma
estatica, per la doppia ragione che essa ci sembra essere sia la più antica,
sia la più completa per il suo includerne tutti i temi mitico-rituali sopra
enumerati. Dopo di che indicheremo degli esempi di questa stessa forma di
iniziazione quali s'incontrano anche in regioni diverse dalla Siberia e dall'
Asia nord-orientale.
Estasi e visioni iniziatiche degli sciamani
yakuti
Nel precedente
capitolo abbiamo citati diversi esempi di vocazione sciamanica manifestatasi
nella forma di una malattia. Talvolta non si tratta di una malattia vera e
propria, ma piuttosto di una graduale trasformazione del comportamento. Il
candidato diviene meditativo, cerca la solitudine, dorme molto, sembra assente,
ha sogni profetici, talvolta degli accessi. Tutti questi sintomi non sono che
il preludio della vita nuova che aspetta il candidato, senza che questi lo
sappia. Il suo comportamento ricorda, del resto, i primi segni della vocazione
mistica, che appaiono gli stessi in tutte le religioni e che son troppo noti
perché qui vi si debba insistere.
Ma vi sono anche
«malattie»,
accessi, sogni e allucinazioni tali da decidere in un breve tempo della
carriera di uno sciamano. Importa poco che queste estasi patogene siano state
realmente vissute, o siano invece state immaginate o perfino arricchite
postumamente mediante reminiscenze folkloristiche, tanto da essere infine
integrate nel quadro della mitologia sciamanica tradizionale. L'essenziale a
noi sembra essere l'adesione a tali esperienze, il fatto che esse giustificano
la vocazione e la forza magico-religiosa di uno sciamano e che ci si riferisce
ad esse come alla sola possibile garanzia del cambiamento radicale dello stato
religioso del singolo.
Ad esempio, uno
sciamano yakuta, Sofron Zateiev, afferma che abitualmente il futuro sciamano
muore e resta disteso tre giorni nella sua yurta senza né mangiare né bere. In
tempi passati il rito, nel quale si era tagliati a pezzi, veniva ripetuto tre
volte. Un altro sciamano, Piotr Ivanov, c'informa più da presso su tale
cerimonia: le membra del candidato vengono staccate e separate mediante un
uncino di ferro: le ossa vengono pulite, la carne viene raschiata, le sostanze
liquide del corpo vengono gettate via e gli occhi strappati dalle orbite.
Successivamente tutte le ossa vengono nuovamente messe insieme e legate con del
ferro. Secondo un altro sciamano, Timofei Romanov, la cerimonia dello
smembramento dura da tre a sette giorni: durante tutto questo tempo il
candidato resta senza respirare, come un morto, in un luogo solitario.
Lo yakuta
Gavriil Alekseiev afferma che ogni sciamano ha un Uccello Rapace-Madre che
rassomiglia ad un grosso volatile, con un becco di ferro, artigli adunchi e una
lunga coda. Questo uccello mitico appare due sole volte: alla nascita
spirituale dello sciamano e alla sua morte. Gli prende l'anima, la porta
nell'Inferno e la fa maturare sul ramo di un abete. Quando l'anima ha
conseguito la maturità, l'uccello ritorna sulla terra, taglia il corpo del
candidato a pezzi, che egli distribuisce fra gli spiriti malvagi delle malattie
e della morte. Ciascuno di questi spiriti divora il pezzo del corpo che gli
spetta, il che ha per effetto l'acquisizione, da parte del futuro sciamano,
della facoltà di guarire le corrispondenti malattie. Dopo aver divorato tutto
il corpo, gli spiriti malvagi si allontanano. Allora l'Uccello-Madre rimette a
posto le ossa e il candidato si sveglia, come da un sonno profondo.
Secondo un altro
insegnamento yakuta, gli spiriti malvagi portano l'anima del futuro sciamano
agli Inferni ove la chiudono in una casa, per tre anni (per un solo anno, se si
tratta di coloro che diverranno sciamani d'un ordine inferiore). È là che lo
sciamano riceve la sua iniziazione: gli spiriti gli tagliano la testa e gliela
mettono vicino (perché il candidato deve assistere coi propri occhi al suo
smembramento), poi lo riducono in pezzi minuti che vengono distribuiti agli
spiriti delle varie malattie. È solo a tale condizione che il futuro sciamano
acquisterà il potere di operare delle guarigioni. Successivamente le ossa
vengono ricoperte di carne fresca e in certi casi si immette in lui anche un
nuovo sangue.
Secondo un'altra
leggenda yakuta, raccolta parimenti da Ksenofontov, gli sciamani nascono nel
Nord. Là cresce un abete gigantesco che porta dei nidi nei suoi rami. I grandi
sciamani si trovano sui rami più alti, quelli medi nel mezzo e gli sciamani
minori nella parte inferiore dell'albero. Secondo un'altra leggenda yakuta, le
anime degli sciamani nascono in un abete che cresce sul Monte Dzokuo. Infine,
un'altra credenza si riferisce all'Albero Yjìk-Mar la cui cima raggiunge il
nono Cielo. Quest'ultimo albero non ha rami, ma le anime degli sciamani
risiedono nei suoi nodi (ibid). E' evidente che qui si tratta dell'Albero
Universale che cresce nel centro del Mondo e collega le tre zone cosmiche:
inferno, terra e cielo. Questo simbolo ha una parte ragguardevole in tutte le
mitologie centro-asiatiche e nord-asiatiche. Secondo alcuni, l'Uccello
Rapace-Madre, che ha una testa d'aquila e piume di ferro, si posa sull'Albero,
depone le uova e le cova: lo schiudersi di quelle cui corrispondono i medi
sciamani richiedono due anni mentre per gli sciamani minori un anno basta.
Quando l'anima esce dall'uovo, l'Uccello-Madre l'affida, a che venga istruita,
ad una diavolessa-sciamano che ha un solo occhio, un solo braccio e un solo
osso. E' una figura demoniaca che compare con notevole frequenza nelle
mitologie dell'Asia centrale e della Siberia: cfr. Anakhai, demone monocolo dei Buriati, Arsari dei Ciuvasci (con un solo occhio, un solo braccio, un solo
piede, ecc.), la dea tibetana Ral
Gcing-ma (con un piede, una mammella scarna, un dente, un occhio, ecc.),
gli dei Li-byin-ha-ra, ecc. Questa
culla l'anima del futuro sciamano in una culla di ferro e la nutre con sangue
quagliato. Sopravvengono poi tre «diavoli» neri che gli fanno a pezzi il corpo,
gli conficcano una lancia nella testa gettano dei pezzi della sua carne in
varie direzioni, nel senso di una offerta. Tre altri «diavoli» gli tagliano le
mascelle, un pezzo per ogni malattia che egli dovrà in seguito curare. Se, nel
computo, un osso risulta mancante, un membro della sua famiglia. dovrà morire
per sostituirlo. Accade che, a causa di ciò, debbano morire fin nove persone
del suo parentado.
Secondo un altro
insegnamento, i «diavoli» custodiscono l'anima del candidato finché questi
abbia assimilato la loro scienza. Durante tutto questo tempo il candidato
giace, malato. La sua anima si è trasformata o in un uccello, o in un altro
animale, o anche in un altro uomo. La «forza» del candidato vien conservata in
un nido nascosto nel fogliame di un albero, e quando gli sciamani si combattono
a vicenda - avendo assunta la forma di animali - ognuno si sforza di
distruggere il nido del suo avversario (Lehtisalo).
In tutti questi
esempi noi incontriamo il tema centrale di una cerimonia d'iniziazione:
spezzettamento del corpo del neofita e rinnovamento dei suoi organi; morte
rituale seguita da resurrezione e da pienezza mistica. Sarà bene tener anche
presente il motivo dell'Uccello gigante che cova gli sciamani sui rami
dell'Albero del Mondo; esso è di grande importanza nelle mitologie
nord-asiatiche, specialmente in quella sciamanica.
Sogni iniziatici degli sciamani samojedi
Secondo gli
informatori samoiedi yurak di Lehtisalo l'iniziazione propriamente detta
comincia nel periodo in cui s'impara l'arte del tamburo; in tale occasione si
cominciano a vedere gli spiriti. Lo sciamano Ganykka racconta che mentre una
volta stava battendo il suo tamburo gli spiriti discesero e lo tagliarono a
pezzi, troncandogli anche le mani. Rimase steso al suolo, incosciente, per
sette giorni e sette notti. Durante un tale periodo, la sua anima si trovava
nel Cielo, a passeggiare insieme con lo Spirito del Tuono e a far visita al dio
Mikkulai.
Popov racconta
quanto segue di uno sciamano dei Samoiedi Avam. Malato di vaiolo, questi restò
per tre giorni in stato d'incoscienza, mezzo morto: a tal segno, che egli corse
il pericolo di esser seppellito il terzo giorno. Durante questo tempo ebbe
luogo la sua iniziazione. Egli si ricorda di esser stato condotto in mezzo ad
un mare. Là udi la Voce della Malattia (cioè del vaiolo) che gli diceva: «Dai
Signori dell'Acqua riceverai il dono dell'arte sciamanica. Il tuo nome di
sciamano sarà huottarie (Colui che
s'immerge)». Poi la Malattia sconvolse l'acqua di quel mare. Egli
ne emerse e sali su di un monte. Là incontrò una donna nuda, e si mise a
prender latte dal suo seno. La donna, che probabilmente era la Signora
dell'Acqua, gli disse: «Sei mio figlio, per questo permetto che tu ti allatti
al mio seno. Avrai da incontrare parecchie difficoltà e ti sentirai spossato».
Il marito della Signora dell'Acqua, il Signore dell'Inferno, gli dette poi due
guide, un ermellino e un topo, per condurlo all'Inferno. Raggiunto un posto
elevato, le guide gli mostrarono sette tende dai tetti lacerati. Egli entrò
nella prima trovandovi gli abitanti dell'Inferno e gli uomini della grande
Malattia (il vaiolo). Costoro gli strapparono il cuore che gettarono in una
marmitta. Nelle altre tende egli doveva conoscere il Signore della Pazzia e i
Signori di tutte le malattie nervose; vi incontrò anche i cattivi sciamani.
Egli apprese il significato delle diverse malattie che torturano gli uomini.
Il candidato,
sempre preceduto dalle sue guide, giunse in seguito nel Paese degli
Sciamani-Donne che gli fortificarono la gola e la voce. Fu poi condotto sulle
rive dei Nove Mari. In mezzo ad uno di essi si trovava un'isola e, in mezzo a
quest'isola, un giovane albero di betulla cosi alto da toccare il Cielo. Era
l'Albero del Signore della Terra. Vicino, crescevano nove erbe, che erano i
capi stipite di tutte le piante della terra. L'Albero era circondato da Mari,
su ognuno dei quali nuotava una specie di uccello, coi suoi piccoli: vi si
trovavano diverse varietà di anitre, un cigno e uno sparviero. Il candidato
visitò tutti questi mari: alcuni erano salati, altri talmente caldi che egli
non poteva avvicinarsi alla riva. Dopo averne fatto il giro, il candidato alzò
la testa e, sulla cima dell'Albero, vide uomini di diverse nazioni: Samoiedi
Tavgy, Russi, Dolgani, Yakuti e Tungusi. Si tratta degli avi primordiali delle
nazioni, che si trovano fra i rami dell'Albero del Mondo, mito, questo, che
ritroveremo anche altrove.
Udì delle voci:
«È stato deciso che avrai un tamburino (cioè la cassa di un tamburo) fatto con
rami di quest'Albero» (sul simbolismo del tamburo = Albero del Mondo, e sulle
conseguenze che ne derivano per la tecnica sciamanica, cfr. più avanti). E
cominciò a volare con gli uccelli di quei mari. Mentre si allontanava dalla
riva, il Signore dell'Albero gli gridò: «Il mio ramo è caduto or ora: prendilo
e fa' di esso il tamburo che dovrà servirti per tutta la vita».
Da questo ramo si partivano tre rami minori e il Signore dell'Albero gli ordinò
di fare con essi tre tamburi che dovranno essere custoditi da tre donne per
speciali cerimonie: l'uno, per praticare lo sciamanismo sulle donne
partorienti, il secondo per guarire i malati, l'ultimo per ritrovare gli uomini
sperdutisi fra la neve.
Il Signore
dell'Albero dette parimenti dei rami a tutti coloro che stavano in cima
all'Albero. Ma, assumendo figura umana e uscendo dall'albero fino a metà del
busto, soggiunse: «Un ramo solo non lo do agli sciamani, perché lo riservo per
il resto degli uomini. Con questo ramo essi potranno farsi delle abitazioni e
potranno anche utilizzarlo per i loro bisogni. Io son l'Albero che dà la vita
ad ogni essere umano». Stringendo forte il ramo, il
candidato era già pronto a riprendere il suo volo, quando udì di nuovo una voce
umana che gli rivelò le virtù medicinali delle sette piante e gli trasmise
certe istruzioni circa l'arte dello sciamanismo. La voce aggiunse che egli però
avrebbe dovuto sposare tre donne (cosa che, peraltro, fece, sposando tre orfane
da lui guarite dal vaiolo l.
Successivamente
egli giunse fino ad un mare sconfinato e là trovò degli alberi e sette pietre.
Queste gli parlarono l'una dopo l'altra. La prima, che aveva denti simili a
quelli dell'orso e una cavità della forma di un cesto, gli rivelò che era la
pietra che preme sulla Terra: esercita il suo peso sui campi affinché essi non
siano portati via dal vento. La seconda serviva per fondere il ferro. Egli
restò sette giorni presso tali pietre apprendendo ciò a cui esse potevano
servire nel mondo degli uomini.
Le due guide, il
topo e l'ermellino, lo condussero in seguito su di un monte alto e arrotondato.
Vide dinanzi a lui un'apertura e penetrò in una caverna luminosissima rivestita
di specchi in mezzo alla quale v'era qualcosa di simile ad un fuoco. Rivelò la
presenza di due donne, nude ma ricoperte di peli, come le renne (sono delle
personificazioni della Madre degli Animali, essere mitico che ha una gran parte
nelle religioni artiche e siberiane). Poi si accorse che non ardeva là alcun
fuoco, ma che la luce veniva dall'alto, attraverso un'apertura. Una delle donne
gli annunciò d'essere incinta e di dover dare alla luce due renne: l'una sarà
l'animale sacrificale dei Dolgani e degli Evenki, l'altra quello dei Tavgy.
Essa gli dette anche un pelo che gli sarà prezioso quando sarà chiamato a far
dello sciamanismo sulle renne. L'altra donna partorì parimenti due renne,
simbolo degli animali che aiuteranno l'uomo in tutti i suoi lavori e che gli
serviranno anche da nutrimento. La caverna aveva due aperture, l'una verso il
Nord e l'altra verso il Sud; attraverso ognuna di esse le donne inviano una
giovane renna per servire i popoli della foresta (Dolgani e Evenki). Anche la
seconda donna gli dette un pelo; quando farà dello sciamanismo, è verso questa
caverna che, in ispirito, si dirigerà.
In seguito il
candidato raggiunse un deserto e scorse, assai distante, una montagna. Dopo tre
giorni di marcia vi arrivò e attraverso un'apertura penetrò nel suo interno, incontrando
un uomo nudo che si dava da fare con un mantice. Sul fuoco si trovava un
calderone «grande come la metà della terra». L'uomo nudo lo scorse e lo
afferrò con una enorme tenaglia. «Son morto» - ha appena il tempo di
pensare il neofita. L'uomo gli tagliò la testa, fece il suo corpo a pezzetti e
mise il tutto nel calderone. Cosi il corpo fu messo a cuocere, per tre anni.
Nel luogo si trovavano inoltre tre incudini e l'uomo nudo dette forma alla sua
testa usando la terza di esse, destinata a forgiare i migliori sciamani. Poi
gettò la testa in una delle tre marmitte che si trovavano là vicino e l'acqua
della quale era la più fredda. In tale occasione gli rivelò che quando si è
chiamati per curare qualcuno, se l'acqua è molto calda, è inutile ricorrere all'arte
sciamanica, perché l'uomo è già perduto; se I'acqua è tiepida, egli è malato ma
suscettibile di guarire; l'acqua fredda, infine, è caratteristica di un uomo
sano.
Poi il fabbro
ripescò le sue ossa ora galleggianti su di un fiume, le rimise insieme e le
ricopri di carne. Le contò e dichiarò che ve ne erano tre di troppo; a causa di
ciò, l'aspirante avrebbe dovuto procurarsi tre costumi da sciamano. Gli forgiò
la testa mostrandogli come si possono leggere le lettere che vi si trovano
dentro. Gli cambiò gli occhi, ed è per questo che quando l'aspirante farà dello
sciamanismo egli non vedrà coi suoi occhi carnali, bensì con questi occhi
mistici. Gli forò le orecchie mettendolo in grado di comprendere il linguaggio
delle piante. Successivamente il candidato si ritrovò sulla cima di un monte e
alla fine si risvegliò nella yurta, presso i suoi. Ora, egli può cantare e far
dello sciamanismo indefinitamente, senza mai stancarsi.
Abbiamo riprodotto
questo racconto a causa della sua stupefacente ricchezza di contenuto
mitologico e religioso. Se ci si fosse presa altrettanta cura nel raccogliere
le confessioni di altri sciamani siberiani, è probabile che non ci si sarebbe
mai ridotti alla solita formula: il candidato restò per un certo numero di
giorni in uno stato di incoscienza, sognò che era stato fatto a pezzi dagli
spiriti e condotto nei Cieli, ecc. Si vede che l'estasi iniziatica ripete assai
da presso certi temi tipici: l'aspirante incontra varie figure divine (la
Signori! delle Acque, il Signore degli Inferni, la Signora degli Animali) prima
che i suoi animali-guida lo conducano al Centro del Mondo, sulla vetta della
Montagna Cosmica, dove si trovano l'Albero del Mondo e il Signore Universale;
dall'Albero Cosmico e dalle mani dello stesso Signore egli riceve il legno per
costruirsi un tamburo; esseri semidemoniaci gli rivelano la natura e il modo di
cura di tutte le malattie; infine, altri esseri demoniaci gli tagliano il corpo
a pezzi, pezzi che poi essi cuociono e sostituiscono con organi migliori.
Ciascuno di
questi elementi del racconto iniziatico è coerente e s'inquadra in un sistema
simbolico o rituale ben noto nella storia delle religioni. Avremo da tornare su
ciascuno di essi. L'insieme costituisce una variante ben articolata del tema
universale della morte e della resurrezione mistica del candidato sotto specie
di una discesa agli Inferni e di un'ascesa al Cielo.
L'iniziazione presso i Tungusi, i Buriati,
ecc.
Lo stesso schema
iniziatico lo si ritrova anche in altri popoli siberiani. Lo sciamano tunguso
Ivan Colko afferma che un futuro sciamano deve ammalarsi, che il suo corpo deve
essere fatto a pezzi e il suo sangue deve esser bevuto dagli spiriti malvagi
(saargi). Questi - che in realtà sono le anime degli sciamani morti - gli
gettano la testa in un calderone ove essa vien forgiata insieme a parti
metalliche che in seguito faran parte del suo costume rituale. Un altro
sciamano tunguso racconta di essere stato malato per tutto un anno. Durante
questo tempo egli cantava per sentirsi meglio. Gli antenati-sciamani vennero e
lo iniziarono; lo trafissero con delle freccie fino a che perdette la
conoscenza e cadde al suolo; gli tagliarono la carne, gli strapparono le ossa,
che furono contate: se qualche osso fosse risultato mancante, egli non avrebbe
potuto divenire sciamano. Durante questa operazione, restò - per un'intera
estate - senza mangiare né bere (Ksenofontov).
Benché i Buriati
conoscano cerimonie pubbliche molto complesse di consacrazione sciamanica,
anch'essi sanno delle «malattie-sogno» di tipo iniziatico.
Ksenofontov riferisce le esperienze di Michail Stepanov: costui sa che prima di
divenire sciamano il candidato deve ammalarsi per un lungo tempo; le anime
degli antenati-sciamani circondano allora il candidato e lo torturano, lo
colpiscono, gli tagliano il corpo con un coltello e così via. Durante tutto ciò
il futuro sciamano giace inanimato; la sua faccia e le sue mani divengono
bluastre, il suo cuore batte appena (Ksenofontov). Secondo un altro sciamano
burlate, Bulagat Buchatcheiev, gli spiriti degli antenati conducono l'anima del
candidato in Cielo, dinanzi all'«Assemblea dei Saaitan» ed è là che
egli viene istruito. Dopo l'iniziazione gli si cuociono le carni per
insegnargli l'arte sciamanica. È durante questa tortura iniziatica che lo
sciamano resta come morto per sette giorni e sette notti. In tale occasione i
parenti (eccettuate le donne) gli si avvicinano e cantano: «Il nostro sciamano
risusciterà e ci aiuterà». Mentre il suo corpo viene
spezzettato e cotto dagli antenati, nessuno estraneo può toccarlo.
Le stesse
esperienze le si ritrovano anche altrove. Una donna teleuta è divenuta sciamana
dopo aver avuto la visione di sconosciuti che le tagliarono il corpo a pezzi
facendolo cuocere in una marmitta. Secondo le tradizioni degli sciamani altaici
gli spiriti degli antenati mangiano la carne dei neofiti, ne bevono il sangue,
aprono il loro ventre, ecc.; il baqça kazak-kirghiso afferma: «Ho nel cielo
cinque spiriti che mi tagliano con quaranta coltelli, mi trafiggono con
quaranta chiodi, ecc.». Presso i Bhaiga e i Gond, lo sciamano primordiale
chiede ai suoi figli, ai suoi fratelli e al suo discepolo di far bollire il suo
corpo in un calderone per dodici anni. L'esperienza estatica dello
spezzettamento del corpo seguito dal rinnovamento dei suoi organi è nota anche
agli Eschimesi. Essi parlano di un animale (orso, cavallo marino, tricheco,
ecc.) che ferisce il candidato, lo fa a pezzi o lo divora; successivamente una
carne nuova cresce intorno alle sue ossa (Lehtisalo). Talvolta l'animale che lo
tortura diviene lo stesso spirito ausiliario del futuro sciamano (ibid.). Di
solito, questi casi di vocazione spontanea si manifestano, se non attraverso
una malattia, almeno in relazione a qualche speciale accidente (lotta contro un
animale marino, caduta sotto il ghiaccio, ecc.) a causa del quale il futuro
sciamano resti gravemente ferito. Ma la maggior parte degli sciamani eschimesi
cerca da sé l'iniziazione estatica e, nel corso di questa iniziazione,
attraversa varie prove, che spesso sono assai simili allo spezzettamento
siberiano e centro-asiatico. Eventualmente, si tratta di una esperienza mistica
di morte e resurrezione provocata dalla contemplazione del proprio scheletro,
esperienza sulla quale presto avremo da tornare. Nel frattempo, vogliamo
ricordare alcune esperienze iniziatiche di altri popoli che costituiscono un
parallelo ai documenti ora passati in rassegna.
L'iniziazione dei maghi australiani
Già da tempo i
primi osservatori hanno attestato che certe iniziazioni dei medicine-men australiani implicano la morte rituale e il
rinnovamento degli organi del candidato, operazione compiuta sia dagli spiriti
che dalle anime dei morti. Cosi il colonnello Collins (che pubblicò nel 1798 le
sue impressioni) riferisce che presso le tribù di Port Jackson si diviene medicine-man dormendo sopra una tomba.
«Lo spirito del morto veniva, lo afferrava per la gola, l'apriva, gli prendeva
le viscere, le sostituiva con altre, la ferita chiudendosi poi da se stessa».
Gli studi più
recenti hanno pienamente confermato e completato queste informazioni. Secondo i
dati raccolti da Howitt, i Wotjoballuk ritengono che è un essere
sovrannaturale, Ngatya, a consacrare il medicine-man:
egli gli apre il ventre inserendovi i cristalli di rocca che conferiscono la
potenza magica. Per creare un medicine-man
gli Euahlayi procedono nel modo seguente: conducono il giovane prescelto in un
cimitero e lo lasciano là legato, per parecchie notti. Dopo che egli è restato
solo, numerosi animali appaiono, che toccano e leccano il neofita,
Successivamente appare un uomo con un bastone; egli gli configge il bastone
nella testa e mette nella piaga una pietra magica della grandezza di un limone.
Allora sopravvengono altri spiriti che intonano delle canzoni magiche e
iniziatiche per istruirlo nell'arte di guarire.
Presso gli
indigeni di Warburton Ranges (Australia occidentale) l'iniziazione ha luogo nel
modo seguente: l'aspirante penetra in una caverna e due eroi totemici (il gatto
selvatico e l'ermi) lo uccidono, gli aprono il corpo, ne traggono gli organi,
che vengono poi sostituiti con sostanze magiche. Gli tolgono anche la scapola e
la tibia, che fanno seccare, e, prima di rimetterle a posto, le farciscono con
le stesse sostanze. Durante questa prova l'aspirante è sorvegliato dal suo
maestro iniziatore, che mantiene accesi i fuochi e controlla le sue esperienze
estatiche.
Gli Arunta
conoscono tre metodi per creare i
medicine-men 1) a mezzo degli Iruntarinia,
o «spiriti»;
2) a mezzo degli Eruncha dei tempi
mitici Alchera); 3) a mezzo di altri medicine-men. Nel primo caso il
candidato si avvicina all'apertura di una caverna e si addormenta. Arriva un Iruntarinia che «gli scaglia contro una
lancia invisibile che gli entra nella nuca, gli traversa la lingua producendo
una larga ferita e esce dalla bocca». In seguito, la lingua del
candidato resta forata, tanto che vi si può far passare il mignolo. Una seconda
lancia gli taglia la testa, e la vittima soccombe. L'Iruntarinia la porta all'interno di una caverna, che si dice essere
profondissima e dove si suppone che gli Iruntarinia
vivano in una luce continua, presso fresche sorgenti (in realtà, si tratta
dello stesso paradiso degli Arunta). Nella caverna lo spirito gli strappa gli
organi interni e li sostituisce con altri, completamente nuovi. Il candidato
ritorna in vita, ma per un certo tempo si comporta come un folle. Gli spiriti Iruntarinia - che sono invisibili per il
resto degli uomini, eccezion fatta per i
medicine-men - lo portano in seguito nel suo villaggio. L'etichetta gli
proibisce di praticare prima di un anno; se nel frattempo l'apertura prodottasi
nella lingua si chiude, il candidato rinuncia, perché si ritiene che le sue
virtù magiche siano scomparse. Durante questo periodo egli apprende dagli altri medicine-men i segreti dell'arte,
specialmente il modo di utilizzare i frammenti di quarzo (atnongara) che gli Iruntarinia
gli hanno introdotto nel corpo.
Il secondo modo
per creare un medicine-man
rassomiglia sensibilmente al primo, con la sola differenza che gli Eruncha invece di portare il candidato
in una caverna lo trascinano con essi sotto terra. Infine, il terzo metodo
implica un lungo rituale che si svolge in un luogo deserto, ove il candidato
deve soffrire in silenzio l'operazione fatta da due vecchi medicine-men; questi gli strofinano il corpo con dei cristalli di
rocca fino a scorticargli la pelle, premono altri cristalli sul suo cuoio
capelluto, gli configgono un chiodo sotto l'unghia della mano destra e gli
praticano una incisione nella lingua. Infine gli tracciano sulla fronte un
disegno chiamato eruncbilda -
letteralmente: «la mano del diavolo», Eruncha essendo il cattivo
spirito degli Arunta. Sul corpo gli vien fatto un altro disegno, avente per
centro una linea nera che rappresenta l'Eruncha con altre linee intorno,
simboleggianti, a quel che sembra, i cristalli magici che porta nel suo corpo.
Dopo questa iniziazione il candidato deve seguire uno speciale regime che
comporta innumerevoli tabù.
Ilpailurkna, un
celebre mago della tribù degli Unmatjera, raccontò a Spencer e Gillen che
«quando divenne medicine-man, un
giorno un dottore vecchissimo venne e gli scagliò contro alcune pietre atnongara (Queste pietre atnongara sono dei piccoli cristalli che
si crede si trovino distribuiti nel corpo di un medicine-man e che egli saprebbe estrarre a volontà. E' il possesso
dr queste pietre a conferire al medicine-man
il suo potere) con una balestra. Di queste pietre alcune lo colpirono nel
petto, altre gli traversarono la testa da un orecchio all'altro uccidendolo.
Poi il vecchio gli tolse tutti gli organi interni - intestino, fegato, cuore e
polmoni - lasciandolo disteso al suolo tutta la notte. Ritornò all'indomani, lo
osservò e, dopo aver poste delle altre pietre atnongara all'interno del suo
corpo, delle sue braccia e delle sue gambe, lo copri di foglie; poi cantò sopra
il suo corpo finché questo si gonfiò. Successivamente lo munì di organi nuovi,
depose in lui molte altre pietre atnongara
e gli dette dei colpi sulla testa: ciò valse a rianimarlo e a farlo balzare in piedi.
Allora il vecchio medicine-man gli
dette da bere dell'acqua e gli fece mangiare della carne contenente pietre
atnongara. Svegliatosi, il neofìta non sapeva più dove si trovasse. "
Credo d'esser perduto! ", disse. Ma, guardandosi d'intorno, egli vide al
suo fianco il vegliardo che gli disse:
"No, non
sei perduto; ti ho ucciso già da tempo". Ilpailurkna aveva tutto
dimenticato di se stesso e della sua vita passata. Poi il vecchio lo ricondusse
al campo e gli mostrò sua moglie, la sua lubra:
l'iniziando aveva dimenticato tutto dì essa. Il suo ritorno cosi curioso e il
suo strano comportamento fecero subito capire agli indigeni che era divenuto un
medicine-man».
Presso i
Warramunga l'iniziazione si compie a mezzo degli spiriti puntidir che sono l'equivalente degli Iruntarinia degli Arunta. Un medicine-man
raccontò a Spencer e Gillen che era stato inseguito per due giorni da due
spiriti che dicevano di essere «suo padre e suo fratello». Nella seconda notte
tali spiriti si avvicinarono nuovamente e lo uccisero. «Mentre giaceva morto,
essi gli aprirono il corpo portandone via gli organi che furono tuttavia
sostituiti con organi nuovi, infine gli misero nel corpo una piccola serpe che
gli conferì ilpotere proprio al medicine-man»
(The Northern Tribes, p. 484).
Una esperienza
analoga ha luogo in occasione della seconda iniziazione dei Warramunga,
iniziazione che, secondo Spencer e Gillen (ibid., p. 485), è ancor più
misteriosa. I candidati debbono camminare o restare in piedi continuamente,
finché cadono spossati e privi di coscienza. «Allora i loro fianchi vengono
aperti e, come al solito, si tolgono i loro organi interni che vengono
sostituiti con degli altri, nuovi». Si introduce una serpe nella loro
testa e si fora il loro naso con un oggetto magico (kupitja) che, in seguito,
servirà loro per curare i malati. Questi oggetti sono stati fatti nei tempi
mitici Alcheringa da certe serpi potentissime.
Presso i
Bimbinga si ritiene che i medicine-men vengano
consacrati dagli spiriti Mundadji e Munkaninji (padre e figlio). Il mago
Kurkutji racconta come egli un giorno, penetrando in una caverna, trovò il
vecchio Mundadji che lo prese per il collo e lo uccise. «Mundadji gli aprì il
corpo all'altezza della vita, gli tolse gli organi interni e mise i propri nel
corpo di Kurkutji aggiungendovi un certo numero di pietre sacre. Ciò fatto, lo
spirito più giovane, Munkaninji, gli si avvicinò e gli restitui la vita; gli
significò che egli era ormai divenuto un medicine-man
e gli indicò il modo di strappare le ossa e di liberare coloro che son colpiti
da un sortilegio. Dopo averlo fatto salire fino al cielo lo ricondusse in
terra, al suo campo, ove gli indigeni già lo piangevano, credendolo morto.
Restò a lungo in uno stato di stupore, ma poi, a poco a poco, tornò in sé:
allora gli indigeni compresero che egli era divenuto un medicine-mano Si ritiene che quando costui effettua un'operazione
magica, lo spirito Munkaninji gli sia vicino per sorvegliarlo, senza -
naturalmente - che sia veduto dalla gente ordinaria. Quando cava un osso -
operazione comunemente compiuta col favore della notte - Kurkutji, anzitutto,
sugge intensamente in corrispondenza dello stomaco del paziente e ne trae una
certa quantità di sangue. Quindi fa sopra il corpo dei passi, lo percuote coi
pugni, lo martella e lo sugge fino a che non ne sia uscito l'osso che, poi,
getta via immediatamente, prima che i presenti possano accorgersene, verso il
luogo in cui Munkaninji è assiso a sorvegliarlo in piena tranquillità. A questo
punto Kurkutji racconta agli indigeni che deve andare a chiedere a Munkaninji
il permesso di far vedere l'osso; dopo averlo ottenuto, va nel posto in cui,
probabilmente, ne aveva deposto uno in precedenza, e ne ritorna con esso».
Nelle tribù Mara
la tecnica è pressoché identica. Chi desidera divenire medicine-man accende un fuoco e vi brucia del grasso, attirando in
tal modo due spiriti, Minungarra. Questi si avvicinano e incoraggiano il
candidato, assicurando che essi non lo uccideranno completamente. «Anzitutto lo
rendono insensibile e, come al solito, gli fanno un taglio nel corpo ritirando
gli organi che vengon sostituiti da quelli di uno degli spiriti. Poi gli si
ridà la vita, gli si dice che ormai è divenuto un medicine-man, gli si mostra come si estraggono le ossa ai pazienti
o si liberano gli uomini dai sortilegi; dopo di che, lo si trasporta in cielo.
Infine lo si fa ridiscendere e lo si lascia nelle immediate vicinanze del
campo, dove gli amici, che lo piangevano per morto, lo trovano... Fra i poteri
posseduti da un medicine-man della
tribù Mara figura quello di arrampicarsi di notte su per una corda invisibile
ai comuni mortali fino a raggiungere il cielo, ove egli può conversare con gli
spiriti siderali».
Confronti fra Australia, Siberia, America del Sud ecc.
Come si vede,
l'analogia fra le iniziazioni degli sciamani siberiani e quelle dei medicine-men australiani è molto
stretta. Nell'uno come nell'altro caso il candidato subisce, da parte di esseri
semi-divini o di antenati, un'operazione che comprende lo spezzettamento del
corpo e il rinnovamento degli organi interni e delle ossa. Nell'uno come
nell'altro caso questa operazione ha luogo in un «inferno», o implica una
discesa agli inferni. Quanto ai pezzi di quarzo o agli altri oggetti magici che
gli spiriti introdurrebbero nel corpo del candidato australiano (sull'importanza
che i medicine-men australiani
accordano ai cristalli di rocca, cfr. più avanti; si pensa che questi cristalli
siano gettati giù dal cielo da parte degli Esseri Supremi, o che siano staccati
dal trono di queste divinità; dunque partecipano della forza magico-religiosa
uranica), essi fan parte di una pratica che fra i Siberiani è di scarsa
importanza. Infatti, come si è visto, solo di rado si fa allusione a pezzi di
ferro o ad altri oggetti messi a fondere nello stesso calderone ove sono state
gettate le ossa e le carni del futuro sciamano. Un'altra differenza oppone
Siberia e Australia: in Siberia la maggior parte degli sciamani vien «scelta»
dagli spiriti e dagli dèì, mentre in Australia la carriera del medicine-man sembra poter essere tanto
il risultato di una ricerca volontaria del candidato quanto quello di una
«elezione» spontanea da parte di spiriti e di esseri divini.
Occorre del
resto aggiungere che i metodi iniziatici dei maghi australiani non si riducono
ai tipi ora citati (cfr. più avanti). Benché l'elemento essenziale di una
iniziazione sembra essere lo spezzettamento del corpo e la sostituzione degli
organi interni, vi sono anche altri metodi per consacrare un medicine-man, e, in primo luogo,
l'esperienza estatica di una ascesa al Cielo includente una istruzione da parte
degli esseri celesti. Talvolta l'iniziazione comporta sia lo spezzettamento del
candidato che la sua ascensione al Cielo (si è appena visto che proprio di ciò
è il caso presso i Bimbinga e i Mara). Altrove l'iniziazione si realizza nel corso
di una discesa mistica agli Inferni. Tutti questi tipi di iniziazione li
incontriamo parimenti fra gli sciamani siberiani e centro-asiatici. Una siffatta
simmetria fra due gruppi di tecniche mistiche appartenenti a popolazioni
arcaiche cosi distanti spazialmente non è priva di significato per quel che
riguarda il posto che conviene dare allo sciamanismo nella storia generale
delle religioni.
In ogni modo
queste analogie fra Australia e Siberia confermano visibilmente l'autenticità e
l'antichità dei riti sciamanici di iniziazione. L'importanza che ha la caverna
nell'iniziazione del medicine-man è
ulteriore convalida di questo carattere di antichità, data la parte di rilievo
che la caverna sembra aver avuto nelle religioni paleolitiche. D'altra parte,
caverna e labirinto han continuato ad avere una funzione di prim'ordine nei
riti d'iniziazione di altre culture arcaiche (come per es. a Malekula), l'una e
l'altro essendo, infatti, simboli concreti delle vie che conducono all'altro
mondo, che permettono una discesa agli Inferni. Secondo le prime informazioni
che si ebbero circa gli sciamani Araucan del Cile, questi realizzavano la loro
iniziazione in caverne spesso adorne di teste di animali (anche in Australia
esistono delle caverne dipinte, ma esse vengono utilizzate per altri riti; allo
stato attuale delle nostre conoscenze, è difficile accertare se le caverne
dipinte dell'Africa del Sud sono servite, in altri tempi, per delle cerimonie
d'iniziazione sciamaniche).
Presso gli
Eschimesi di Smith Sound l'aspirante deve avvicinarsi, di notte, ad una
scogliera ricca di caverne e andar dritto, nel buio. Se è predestinato a
divenire sciamano i suoi passi lo condurranno direttamente in una caverna,
altrimenti sbatterà contro la roccia. Non appena entrato, la caverna si chiude
dietro di lui e non si aprirà nuovamente che dopo un certo tempo. Il candidato
deve approfittare di questa riapertura per affrettarsi ad uscire; altrimenti
rischia di restar chiuso per sempre all'interno della scogliera. Le caverne
hanno una parte importante anche nell'iniziazione degli sciamani
nord-americani; è in luoghi siffatti che gli aspiranti hanno i loro sogni e
incontrano i loro spiriti ausiliari.
D'altra parte,
importa metter fin d'ora in evidenza le corrispondenze che si possono trovare
altrove per la credenza dell'introduzione di cristalli di rocca nel corpo del
candidato da parte degli spiriti e degli iniziatori. Questo motivo lo si
ritrova anche fra i Semang della Malacca (lo bala, il medicine-man dei
Semang, opera mediante dei cristalli di quarzo che possono essere ottenuti
direttamente dai Cenoi, che sono
spiriti celesti. Essi vivono talora anche nei cristalli e, in questo caso, sono
agli ordini dello bala; col loro
aiuto, lo bala vede nei cristalli il
male che affligge il paziente e trova subito il modo di guarirlo. Si noti
l'origine celeste dei cristalli (Cenoi),
la quale già ci indica qual sia la fonte dei poteri del medicine-man) mentre costituisce una precisa caratteristica dello
sciamanismo sud-americano. «Lo sciamano Cobeno introdusse nella testa del
novizio dei cristalli di rocca che gli rosero il cervello e gli occhi onde
sostituirsi a questi organi e divenire la sua "forza"». In altri
luoghi i cristalli di rocca stanno a simbolizzare gli spiriti ausiliari dello
sciamano (Métraux). In genere, per gli sciamani dell'America del Sud tropicale,
la forza magica si concretizza in una sostanza invisibile che i maestri
talvolta trasmettono ai novizi da bocca a bocca. «Non vi è differenza di natura
fra la sostanza magica, massa invisibile ma tangibile, e le freccie, le spine,
i cristalli di rocca coi quali lo sciamano viene farcito. Questi oggetti
materializzano la forza dello sciamano che, in numerose tribù, vien concepita
sotto la forma più vaga, anche se poco astratta, di sostanza magica» (ibid.).
Questo motivo
arcaico che collega lo sciamanismo sud-americano alla magia australiana è
importante. Vedremo subito che esso non è il solo.
Lo smembramento iniziatico nell'America del
Nord e del Sud, in Africa e in Indonesia
In effetti,
tanto la vocazione spontanea che la ricerca iniziatica implicano, sia nell'
America del Sud, sia in Australia, sia in Siberia, una malattia misteriosa
ovvero un rituale più o meno simbolico di morte mistica, dato talvolta nei
termini di uno spezzettamento del corpo e di un rinnovamento degli organi.
Presso gli
Araucani la scelta generalmente si manifesta con una subita malattia: il
giovane cade «come morto» e quando ritrova le proprie forze, dichiara che
diverrà machi. Una figlia di
pescatori raccontò al Padre Housse: «Raccoglievo delle conchiglie tra gli
scogli, quando sentì una specie di colpo nel petto e, dentro, una voce, ben
distinta, che mi diceva: "Fatti machi! È la mia volontà!". Nello
stesso punto violenti dolori alle viscere mi fecero perdere la conoscenza. Era
evidentemente il Ngenechen, colui che
domina gli uomini, che scendeva in me» (Métraux).
Come giustamente
rileva Métraux, l'idea della morte simbolica dello sciamano è in genere
suggerita dai lunghi svenimenti e dal sonno letargico del candidato. I neofiti
Yamana della Terra del Fuoco si fregano il viso fino a che appaia una seconda e
talvolta perfino una terza pelle, «la pelle nuova», visibile ai soli
iniziati. La vecchia pelle deve sparire
e far luogo ad uno nuovo strato 'delicato e traslucido; se le prime settimane
di sfregamento e di verniciatura han finito per renderlo evidente, - quanto
meno, secondo l'imaginazione e le allucinazioni degli yékamusb (= medicine-meni provetti) - i vecchi iniziati non provano
più alcun dubbio circa le capacità del candidato. Da questo momento, egli deve
raddoppiar lo zelo e soffregarsi sempre delicatamente le guance finché non
giunga a una terza pelle, ancor più fine e delicata; a quel punto, essa è cosi
sensibile che non la si può sfiorare senza provocare violenti dolori. Quando
l'allievo ha finalmente raggiunto questo stadio, la normale istruzione, quale
può offrirla Loima-Yékamush, è terminata. Presso i Bakairi, i Tupi-Imba ed i
Caraibi, la morte (per mezzo di succo di tabacco) e la resurrezione del
candidato sono formalmente attestate. Durante la festa di consacrazione dello
sciamano araucano i maestri e i neofiti camminano a piedi nudi sul fuoco senza
bruciarsi e senza che le loro vesti prendano fuoco. Li si vede anche strapparsi
il naso e gli occhi. «L'iniziatore faceva credere ai profani che egli si
strappava la lingua e gli occhi per scambiarli con quelli dell'iniziando. Egli
lo trafiggeva anche con una bacchetta che, entrata nel ventre, usciva dalla
schiena senza effusione di sangue né dolore» (Rosales, Historia generai del Regno de Chile). Gli sciamani Toba sono
colpiti in pieno petto da una bacchetta che penetra in essi come una palla di
fucile.
Motivi analoghi
appaiono nello sciamanismo nord-americano. Gli iniziatori Maidu mettono i
candidati in una fossa piena di «medicina» e lì uccidono mediante un
«veleno-medicina»; grazie a questa iniziazione i neofiti acquistano la
facoltà di tener in mano, senza farsi alcun male, pietre arroventate. Nella
società sciamanica «Ghost ceremony» dei Pomo
l'iniziazione comporta la tortura, la morte e la resurrezione dei neofiti;
questi giacciono a terra come dei cadaveri e vengono ricoperti di paglia. Un
non diverso rituale noi lo incontriamo presso gli Yuki, gli Huchnom e i Miwok
della costa. L'insieme delle cerimonie iniziatiche degli sciamani Pomo della
costa ha il nome significativo di «taglio». Presso i River Patwin chi aspira a
far parte della società Kuksu si ritiene che debba esser trafitto
nell'ombellico da una lancia e da una freccia ad opera dello stesso Kuksu;
muore, e vien risuscitato da uno sciamano. Gli sciamani Luisefio si «uccidono»
a vicenda con delle freccie. Presso i Tlingit la prima presa di possesso del
candidato sciamano da parte delle forze sovrasensibili si manifesta con una trance che lo fa stramazzare al suolo.
Il neofita Menomini vien «lapidato» con oggetti magici dall'iniziatore, e
quindi risuscitato. È poi inutile rilevare che un po' dappertutto nell'America
del Nord i riti d'iniziazione alle società segrete, sciamaniche o meno,
comportano il rituale della morte e della resurrezione del candidato (Loeb).
Lo stesso
simbolismo della morte e della resurrezione mistica sotto forma sia di
misteriose malattie, sia di cerimonie sciamaniche di iniziazione, lo si ritrova
anche altrove. Presso i Sudanesi dei Monti Nuba la prima consacrazione
iniziatica è chiamata «testa» e vien riferito che si tratta di un rito nel
quale «si
apre la testa del novizio affinché lo spirito possa entrarvi». Però san
parimenti note inizi azioni che si realizzano per mezzo di sogni sciamanici o
di speciali accidenti. Ad esempio, uno sciamano all'età di circa trent'anni
ebbe una serie di sogni significativi: sognò un cavallo rosso dal ventre
bianco, un leopardo che gli posava una zampa sulla spalla, una serpe che lo
mordeva - 'San tutti animali che hanno una parte importante nei sogni
sciamanici. Poco dopo cominciò d'un tratto a tremare, perse la conoscenza e si
mise a profetizzare. Era il primo segno dell'«elezione»;
però poi dovette attendere dodici anni prima di poter essere consacrato Kuiur.
Un altro sciamano non ebbe sogni, ma una notte la sua capanna fu colpita dalla
folgore ed egli «restò come morto per due interi giorni» (Nadel).
Uno stregone
amazulu racconta ai suoi amici che egli ha sognato una corrente che lo
trascinava. Egli sogna varie cose. Il suo corpo s'indebolisce e i sogni lo
perseguitano. Sogna molte cose e risvegliandosi dice agli amici: «Il mio corpo
oggi è spezzato. Ho sognato che molte persone stavano uccidendomi. Son fuggito,
non so bene come. Svegliatomi, una parte del corpo provava sensazioni diverse
da quelle dell'altra. Il mio corpo non era piri lo stesso».
Che si tratti di
sogno, di malattia o di rito iniziatico, l'elemento centrale è sempre lo
stesso: morte e resurrezione simboliche del neofita, comportanti uno
smembramento del corpo eseguito in forme diverse (spezzettamento, taglio,
apertura del ventre, ecc.). Negli esempi che faremo ora seguire appare ancor
più chiaramente che i maestri iniziatori mettono a morte ilcandidato.
Ecco la prima
fase di una iniziazione da medicine-man
a Malekula: «Un Bwili di Lol-narong
ricevette la visita del figlio di sua sorella, che gli dice: "Desidero che
tu mi dia qualcosa". Il Bwili
dice: "Ne hai realizzate le condizioni?" - " Si, le ho
realizzate". Egli chiede ancora: " Hai giaciuto con una donna?
". Il nipote risponde: "No". Il Bwili dice: "Sta bene"
e allora ordina: "Vieni qui, stenditi su queste foglie". Il giovane
vi si stese. Il Bwili si fece un coltello di bambù. Tagliò il braccio del
giovane e lo pose su due foglie. Ride di suo nipote e questo gli risponde con
uno scoppio di risa. Allora gli tagliò l'altro braccio ponendolo sulle foglie
vicino al primo. Ritorna, e i due ridono di nuovo. Tagliò una gamba all'altezza
della coscia e la pose vicino alle braccia. Ritorna e ride, e il giovane lo
imita. Allora tagliò l'altra gamba mettendola vicino alla prima. Ritorna e
ride. Il nipote rideva sempre. Infine gli troncò la testa tenendola davanti a
sé. Ride, ed anche la testa ride. Dopo di che rimette la testa a posto.
Riprende le braccia e le gambe che aveva tolte e le rimette a posto anch'esse».
Il seguito di questa cerimonia iniziatica implica la trasformazione magica del
maestro e del discepolo in volatili - simbolo ben noto, sul quale avremo da
tornare, del «potere di volare» posseduto dagli sciamani e, in genere, dagli
stregoni.
Secondo una
tradizione dei Papua Kiwai, una notte un uomo fu ucciso da un òboro (spirito d'un morto) che gli tolse
tutte le ossa e le sostituiti con ossa òboro.
Quando lo spirito lo risuscitò, quell'uomo era simile agli spiriti, cioè era
divenuto sciamano. L'òboro gli dette
un osso col quale poteva chiamare gli spiriti.
Presso i Daiachi
del Borneo l'iniziazione del manang (sciamano) comprende tre diverse cerimonie,
corrispondenti ai tre gradi dello sciamanismo daiacco. Il primo grado, besudi (termine che, a quanto sembra,
vuol dire «palpare, toccare») è anche il più elementare e lo si può ottenere
con pochissimo danaro. Il candidato si stende sulla veranda come se fosse
malato e gli altri manang gli fanno
dei passi durante tutta la notte. Si suppone che in questo modo gli si insegni
come il futuro sciamano può scoprire le malattie e i rimedi: appunto palpando
il paziente (non è escluso che in tale occasione i vecchi maestri introducano
nel corpo del candidato la «forza» magica nella forma di sassolini o di altri
oggetti).
La seconda
cerimonia, detta bekliti («apertura»),
è più complessa e riveste un carattere nettamente sciamanico. Dopo una notte di
incantesimi, i vecchi manang conducono il neofita in una stanza isolata per
mezzo di cortine. «Essi affermano che là gli tagliano la testa e gli asportano
il cervello; dopo averlo lavato, lo rimettono a posto allo scopo di infondere
al candidato una intelligenza limpida atta a penetrare i misteri degli spiriti
malvagi e delle malattie; poi gli introducono dell'oro negli occhi onde dargli
una vista cosi penetrante da poter vedere l'anima, in qualunque luogo essa si
trovi, smarrita o vagabonda; gli piantano degli uncini dentati all'estremità
delle dita per farlo capace di catturare l'anima e di tenerla saldamente;
infine gli trafiggono il cuore con una freccia per renderlo pietoso e pieno di
simpatia verso coloro che son malati e che soffrono» (cfr. il mito dello
smembramento dello sciamano primordiale presso i Nodora Gond). Naturalmente, si
tratta di una cerimonia simbolica; gli si mette sul capo una noce di cocco che
poi viene spezzata, ecc. Esiste una terza cerimonia a perfetta integrazione
dell'iniziazione sciamanica, cerimonia che comprende un viaggio estatico in
Cielo su di una scala rituale. Su questo rito torneremo in uno dei capitoli
successivi.
Come si vede, si
è in presenza di una cerimonia simboleggiante la morte e la resurrezione del
candidato. La sostituzione delle viscere vien fatta in sede di rito, per cui
non implica necessariamente l'esperienza estatica del sogno, della malattia o
di una passeggera follia, come ne è il caso presso i candidati australiani o
siberiani. La giustificazione che si dà al rinnovamento degli organi (conferire
un miglior potere di visione, la tenerezza del cuore, ecc.), ove sia autentica,
tradisce una dimenticanza del senso originario del rito.
Iniziazione degli
sciamani eschimesi
Presso gli
Eschimesi Ammasilik non è il discepolo che si presenta dinanzi al vecchio angakok (plurale: angàkut) per essere iniziato; è lo stesso sciamano che lo sceglie,
e dalla più tenera età. Questi discerne fra i ragazzi (dai sei agli otto anni)
quelli che egli ritiene più qualificati per l'iniziazione, «affinché la
conoscenza dei poteri più alti che esistano possa venire conservata per le
generazioni future» (Thalbitzer). «Solo certe anime particolarmente
dotate, dei temperamenti di sognatori, dei visionari a tendenza isterica,
possono esser scelti. Un vecchio angakok
trova un discepolo e l'insegnamento ha luogo nel più profondo mistero, lontano
dalla capanna, in montagna». L'angakok
gli insegna come isolarsi in solitudine, presso un vecchio sepolcro, sulla riva
di un lago, dove si metterà a fregare una pietra con l'altra aspettando
l'avvenimento. «Allora l'orso del lago o del ghiacciaio dell'interno uscirà, ti
divorerà tutta la carne, farà di te uno scheletro e tu morirai. Ma poi
ritroverai la tua carne, ti sveglierai e le tue vesti voleranno verso di te».
Presso gli Eschimesi del Labrador è lo stesso Torngàrsoak, il Grande Spirito,
ad apparire nella forma di un enorme orso bianco, e a divorare l'aspirante (Weyer). Nella Groenlandia occidentale
quando lo spirito appare il candidato resta «morto» per tre giorni
(ibid.).
Si tratta
evidentemente di una esperienza estatica di morte e di resurrezione rituale
durante la quale il ragazzo perde la coscienza per qualche tempo. Quanto alla
riduzione del discepolo ad uno scheletro e al suo successivo esser ricoperto di
carne nuova, ciò costituisce una nota specifica dell'iniziazione eschimese che
fra poco incontreremo di nuovo, trattando di un'altra tecnica mistica. Il
neofita stropiccia le sue pietre per tutta l'estate e perfino durante più
estati di seguito, fino al momento in cui ottiene i suoi spiriti ausiliari
(Thalbitzer, Weyer); ma ad ogni stagione egli cerca un nuovo maestro per
estendere le sue esperienze (giacché ogni angakok
è specialista di una data tecnica) e per formarsi una sua truppa di spiriti
(Thalbitzer). Nel periodo in cui egli frega le pietre deve osservare diversi tabù.
Ovunque nel mondo, e di qualunque genere sia, l'iniziazione include un certo
numero di tabù. Sarebbe noioso ricordare l'enorme morfologia di tali interdetti
che, in definitiva, son senza interesse diretto nel quadro delle nostre
ricerche. Un angakok istruisce cinque
o sei discepoli alla volta (Thalbitzer), e vien pagato per l'istruzione che
impartisce. Knud Rasmussen riferisce la storia dello sciamano Igjugarjuk che,
durante il suo ritiro iniziatico nella solitudine, si sentiva «un po' morto».
Più tardi, lui stesso iniziò la cognata scaricando su di essa una palla (aveva
sostituito al piombo una pietra). In un terzo caso di iniziazione si fa
menzione di cinque giorni trascorsi nell'acqua gelata, senza che i vestiti del
candidato si bagnassero.
Presso gli
Eschimesi Iglulik le cose sembrano
andare diversamente. Quando un giovane o una giovane desidera divenire sciamano
si presenta con un dono al maestro da lui prescelto e dichiara: «Son
venuto da te perché desidero vedere». La sera stessa lo sciamano interroga
i suoi spiriti «onde rimuovere ogni ostacolo». Poi il candidato e
la sua famiglia procedono ad una confessione dei peccati (infrazioni ai tabù,
ecc.) e, ciò facendo, si purificano di fronte agli spiriti. Il periodo
d'istruzione non è lungo, specie se è di uomini che si tratta; può anche non
oltrepassare i cinque giorni. È però convenuto che il candidato continuerà per
conto suo la preparazione, in solitudine. L'istruzione ha luogo al mattino, a
mezzogiorno, alla sera e durante la notte. Durante questo periodo il candidato
mangia pochissimo, e la sua famiglia non prende parte alle caccie.
L'iniziazione
propriamente detta comincia con una operazione circa la quale non siamo bene
informati. Il vecchio angakok estrae
dagli occhi, dal cervello e dalle viscere del discepolo la sua «anima» affinché
gli spiriti conoscano ciò che nel futuro sciamano vi è di meglio (Rasmussen).
Grazie a questa «estrazione dell'anima» il candidato acquista il potere di
staccare di propria iniziativa lo spirito dal corpo e di intraprendere i grandi
viaggi mistici attraverso lo spazio e le profondità del mare (ibid., p. 113).
Può darsi che questa misteriosa operazione rassomigli, in un certo modo, alle
tecniche degli sciamani australiani che abbiamo riferite più su. In ogni caso «l'estrazione
dell'anima» dalle viscere è un visibile travestimento dell'operazione di «rinnovamento»
degli organi interni.
Successivamente
il maestro trasmette al discepolo l'angàkoq,
chiamato anche qaumaneq, cioè il suo «lampo»
o la sua «illuminazione»,
giacché l'angàkoq consiste «in una
luce misteriosa che lo sciamano sente d'un tratto nel corpo, dentro la testa,
nel cuore e perfino nel cervello; un faro inesplicabile, un fuoco luminoso che
lo rende capace di vedere nel nero, in senso figurato, perché egli ora, perfino
ad occhi chiusi, riesce a vedere attraverso le tenebre e ad appercepire cose e
avvenimenti futuri, celati ad ogni altro uomo; per tal via può conoscere sia
l'avvenire che i segreti degli altri», (Rasmussen).
Il candidato
ottiene questa luce mistica dopo lunghe ore di attesa, passate seduto su di una
panca nella sua capanna, ove egli invoca gli spiriti. Quando la sperimenta per
la prima volta, è come «se d'un tratto la dimora in cui si
trova s'innalzasse; egli vede lontano dinanzi a lui, attraverso le montagne,
proprio come se la terra fosse tutta una grande pianura, i suoi occhi
raggiungendo i confini di essa. Nulla è più nascosto dinanzi a lui. Non solo
egli è in grado di vedere a grande distanza, ma può anche scoprire le anime che
sono state rubate, sia che queste siano custodite e occultate in strane regioni
lontane, sia che esse siano state trasportate in alto o in basso nel regno dei
morti» (ibid).
Qui noi
incontriamo anche quell'esperienza di elevazione, di ascensione e perfino di
levitazione che, se caratterizza lo sciamanismo siberiano, si ritrova anche
altrove e può esser considerata come un tratto specifico delle tecniche
sciamaniche in genere. Avremo occasione di tornare più di una volta su queste
tecniche ascensionali e su ciò che esse implicano dal punto di vista religioso.
Per il momento noteremo che l'esperienza della luce interiore che decide della
carriera dello sciamano Iglulik è
familiare a numerose mistiche di tipo superiore. Per limitarci a qualche
esempio, nelle Upanishad la «luce
interiore» (antarjyotih) definisce
l'essenza stessa dell'àtman. Nelle
tecniche yoga, specialmente in quelle di certe scuole buddhiste, la luce
variamente colorata indica la riuscita di determinate meditazioni. Del pari, il
Libro del Morto tibetano accorda grande importanza alla luce nella quale - a
quanto pare - è immersa l'anima del morente durante l'agonia ed immediatamente
dopo la morte: dalla fermezza con cui si sceglie la luce immacolata dipende il
destino post-mortem degli uomini
(liberazione o reincarnazione). E infine, non si dimentichi la parte immensa
che la luce interiore ha nella mistica e nella teologia cristiana. Tutto ciò
dovrebbe indurre a considerare con maggiore comprensione le esperienze degli
sciamani eschimesi: vi è ragione di credere che tali esperienze mistiche siano
state, in un qualche modo, accessibili all'umanità arcaica fin da tempi remoti.
La contemplazione del
proprio scheletro
Il quamaneq è una facoltà mistica che il
maestro talvolta procura al discepolo e che procede dallo Spirito della Luna.
Ma il discepolo può anche ottenerla direttamente con l'aiuto degli spiriti dei
morti, della Madre dei Caribu o degli orsi (Rasmussen). Comunque, si tratta
sempre di una esperienza personale; quegli esseri mistici non costituiscono che
le sorgenti dalle quali il neofita sa di aver il diritto di attendere la
rivelazione una volta che egli si sia adeguatamente preparato.
Già prima di
procedere all'acquisizione di uno o di più spiriti ausiliari, i quali sono come
i nuovi «organi mistici» di qualunque sciamano, il neofita eschimese deve
superare vittoriosamente una grande prova iniziatica. Per riuscire, questa
esperienza esige un lungo sforzo di ascesi fisica e di contemplazione mentale.
avente il fine di ottenere la capacità di vedersi come uno scheletro. Su questo
esercizio spirituale gli sciamani interrogati da Rasmussen han dato
informazioni assai vaghe, che l'illustre esploratore riassume nel modo
seguente: «Benché nessuno sciamano possa spiegare come e perché, tuttavia egli,
in virtù della potenza che il suo pensiero riceve dal sovrannaturale, può
spogliare il proprio corpo dal sangue e dalla carne tanto che restino le sole
ossa. Allora egli deve nominare tutte le parti del suo corpo, deve menzionare
ogni osso col suo nome; per far ciò, egli non deve utilizzare il linguaggio
umano ordinario ma soltanto il linguaggio speciale e sacro degli sciamani, che
ha appreso dal suo istruttore. Osservandosi cosi, nudo e affatto libero dalla
carne e dal sangue caduco ed effimero, egli, usando sempre la lingua sacra
degli sciamani, si consacra al grande compito attraverso la parte del corpo
destinata a resistere di più all'azione del sole, del vento e delle intemperie»
(Rasmussen).
Questo
importante esercizio di contemplazione, che equivale ad una iniziazione
(giacché l'ottenimento degli spiriti ausiliari è rigorosamente condizionato dal
suo riuscire), ricorda singolarmente i sogni degli sciamani siberiani, con la
sola differenza che, nel secondo caso, la riduzione allo stato di scheletro è
un'operazione eseguita dagli antenati-sciamani o da altri esseri mitici, mentre
fra gli Eschimesi si tratta di un'operazione mentale di cui ci si rende capaci
mediante una ascesi e degli sforzi personali di concentrazione. Qui come là gli
elementi essenziali di questa visione mistica sono l'asportazione della carne,
l'enumerazione e la denominazione delle ossa. Lo sciamano eschimese ottiene
questa visione in seguito ad una preparazione lunga e dura. Gli sciamani
siberiani nella maggior parte dei casi vengono però «scelti» e assistono
passivamente al proprio smembramento da parte di esseri mitici. Ma in tutti
questi casi la riduzione dell'uomo a scheletro contrassegna in egual modo un
superamento della condizione umana profana e, pertanto, il liberarsi da questa.
Devesi però
aggiungere che siffatto superamento non ha sempre le stesse conseguenze
mistiche. Come lo vedremo studiando il simbolismo del costume sciamanico, lo
scheletro, secondo le prospettive spirituali dei cacciatori e dei pastori,
rappresenta la scaturigine stessa della vita, tanto di quella umana che della
Grande Vita animale. Ridursi allo stato di scheletro equivale ad un
reintegrarsi nella matrice di questa Grande Vita, cioè, a un rinnovarsi
completamente, a un mistico rinascere. D'altra parte, in certe meditazioni
centro-asiatiche di origine, o, almeno, di struttura buddhista e tantrica, la
riduzione allo stato di scheletro ha un valore prevalentemente ascetico e
metafisico: equivale ad anticipare l'opera del tempo e a ridurre, in pensiero,
la Vita a ciò che essa è realmente: un'illusione effimera in perpetua
trasformazione (cfr. più giù).
Notiamo che di
coteste contemplazioni alcune sono sopravvissute in seno alla stessa mistica
cristiana, il che prova ancora una volta che le situazioni-limite raggiunte
nelle prime prese di coscienza dell'uomo primordiale si mantengono immutabili.
Certo, una differenza di contenuto separa tali esperienze religiose le une
dalle altre, come lo si vedrà nei riguardi della riduzione allo stato di
scheletro in uso presso i monaci buddhisti dell'Asia Centrale. Ma, da un certo
punto di vista, tutte queste esperienze contemplative si equivalgono; noi
ritroviamo dappertutto la stessa volontà di superare la condizione profana
individuale e di raggiungere una prospettiva supertemporale: che si tratti di
un riimmergersi nella vita originaria onde conseguire il rinnovamento
spirituale di tutto il proprio essere, ovvero (come nella mistica buddhista e
nello sciamanismo eschimese) di un liberarsi dall'illusione della carne, il
risultato è lo stesso: ritrovare in un qual. che modo la sorgente stessa della
vita spirituale, che è ad un tempo «verità» e «vita» .
Iniziazioni tribali e
società segrete
Abbiamo
ripetutamente messo in rilievo l'essenza iniziatica della «morte» del
candidato, cui segue la sua «resurrezione», quale si sia la forma in cui essa
si presenta: sogno estatico, malattia, avvenimenti insoliti o azioni rituali
propriamente dette. In effetti, le cerimonie che contrassegnano il passaggio
del singolo da un periodo della vita ad un altro o la sua ammissione ad una
qualsiasi «società segreta» comprendono sempre una serie di riti che si possono
riassumere nella comoda formula: morte e resurrezione del candidato. Ricordiamo
i più usuali di essi:
a) Periodo di
ritiro nella macchia (simbolo dell'aldilà) e esistenza larvale, al modo dei
morti; interdizioni imposte ai candidati, derivanti dal fatto che essi vengono
assimilati ai defunti (un morto non può mangiare certi cibi, non può servirsi
delle dita, ecc.).
b) Volto e corpo
tinti con cenere o con certe sostanze calcaree onde ottenere la bianchezza
livida degli spettri; maschere funerarie.
c) Inumazione
simbolica nel tempio o nella casa dei feticci.
d) Discesa
simbolica negli inferni.
e) Sonno
ipnotico; bevanda che fa perdere la conoscenza ai candidati.
f) Dure prove:
bastonatura, abbrustolimento dei piedi al fuoco, sospensione in aria,
amputazione di dita e varie altre crudeltà.
Tutti questi
rituali e tutte queste prove hanno per scopo il far dimenticare la vita
passata. Questa è la ragione per cui in alcuni casi il candidato, tornato al
villaggio dopo l'iniziazione, fa le viste di aver perduta la memoria e gli si
deve insegnare nuovamente a camminare, a mangiare, a vestirsi. In genere, i
neoliti imparano una lingua nuova e portano un nome nuovo. I candidati, durante
il loro soggiorno nella macchia, pel resto della comunità è come se fossero
morti e sepolti, o come se fossero stati divorati da un mostro o da un dio, per
cui quando ritornano al villaggio vengono considerati come fantasmi.
Morfologicamente,
le prove iniziatiche del futuro sciamano presentano una grande affinità con
questa vasta classe dei riti del passaggio e delle cerimonie di accesso alle
società segrete. Talvolta è difficile distinguere i riti di iniziazione di
tribù da quelle di una società segreta (come nella Nuova Guinea, cfr. Loeb), o
i riti di ammissione ad una società segreta da quelli di iniziazione sciamanica
(specie nell'America del Nord). D'altronde, in tutti questi casi si tratta
della «ricerca» dei poteri da parte del candidato.
Nella Siberia e
nell' Asia centrale non esistono riti iniziatici di passaggio da un periodo
della vita ad un altro. Ma si avrebbe torto se si desse una importanza
eccessiva a questo fatto tanto da dedurne particolari conseguenze circa
l'eventuale origine dei riti siberiani di iniziazione sciamanica. Infatti i due
grandi gruppi di rituali (iniziazione di tribù - iniziazione sciamanica)
altrove coesistono: in Australia, per esempio, in Oceania, nelle due Americhe.
Anzi, in Australia ciò appare assai chiaro: benché tutti gli uomini siano
tenuti a farsi iniziare per essere riconosciuti come membri del clan, pure
esiste una ulteriore iniziazione, riservata ai medicine-meno Quest'ultima
conferisce al candidato poteri diversi da quelli assicurati dall'iniziazione di
tribù, Essa rappresenta già un'alta specializzazione nella manipolazione del
sacro. La grande differenza che si rileva fra questi due tipi d'iniziazione sta
nell'importanza capitale data all'esperienza interiore, estatica, nel caso
degli aspiranti alla professione di medicine-man.
Non è medicine-man chi semplicemente
lo vuole: la vocazione è indispensabile. E questa vocazione si manifesta
soprattutto attraverso una speciale capacità di esperienza estatica. Avremo
occasione di tornare su questo aspetto, che ci sembra caratteristico, dello
sciamanismo, aspetto che, in ultima analisi, differenzia il tipo della
iniziazione di tribù o di ammissione alle società segrete da quello di una
iniziazione sciamanica propriamente detta.
Notiamo infine che
il mito del rinnovamento mediante lo smembramento, la cottura o il fuoco ha
continuato ad affascinare gli uomini anche al di fuori dell'orizzonte
spirituale dello sciamanismo. Medea riesce a far assassinare Pelia dalle sue
figlie convincendole che la risusciterà e ringiovanirà, come essa ha fatto con
un ariete (Apollodoro, Bibl., I, IX,
27). E quando Tantalo uccide suo figlio Pelope e lo serve al banchetto degli
dèi, questi lo risuscitano facendolo bollire in una marmitta (Pindaro, Olymp. I, 26 sg.); vi mancava solo la
spalla, che Demetra aveva inavvertitamente mangiato.
Il mito del
ringiovanimento mediante lo smembramento e la cottura s'è anche trasmesso nel
folklore siberiano, centro-asiatico e europeo, qui la parte del fabbro essendo
stata assunta da Gesù Cristo o da certi santi.
Capitolo 3: L'acquisto dei poteri
sciamanici
Abbiamo visto
che una delle forme più correnti dell'elezione del futuro sciamano è il suo
incontro con un essere divino o semidivino che gli appare in occasione di un
sogno, di una malattia o. di altra circostanza; che gli fa sapere di essere
stato «scelto» e che l'incita a seguire, d'ora in poi, una nuova regola di
vita. Più spesso sono le anime degli antenati-sciamani a comunicargli la
notizia, onde si è supposto che l'elezione sciamanica stia in relazione col
culto degli antenati. Ma, come a ragione lo nota L. Sternberg (Divine Election), gli stessi antenati
debbono pur essere stati a loro volta «scelti», all'alba dei tempi,
da un essere divino. Secondo la tradizione buriate (Sternberg), nei tempi
antichi gli sciamani traevano direttamente il loro utcha (il diritto divino sciamanico) dagli spiriti celesti; solo ai
nostri giorni essi lo derivano unicamente dai loro antenati. Questa credenza
s'inquadra nella concezione generale della decadenza degli sciamani, concezione
che si ritrova sia nelle regioni artiche che nell' Asia centrale; secondo tale
concezione i «primi sciamani» volavano realmente sui loro
cavalli nelle nuvole e operavano miracoli che i loro attuali discendenti sono
incapaci di ripetere.
Miti siberiani
sull'origine degli sciamani
Certe leggende
spiegano la decadenza attuale degli sciamani con l'orgoglio del «primo sciamano»,
che si sarebbe messo in competizione con Dio. Secondo la versione dei Buriati,
il primo sciamano, Khara-Gyrgan, avendo dichiarato che la sua potenza non
conosceva limiti, Dio volle metterlo alla prova: prese l'anima di una ragazza e
la chiuse in una bottiglia per esser certo che l'anima non fuggisse, poi Dio
tappò la bottiglia col dito. Lo sciamano volò nei Cieli seduto sul suo tamburo,
vide l'anima della giovane e, per liberarla, si trasformò in un ragno giallo e
punse Dio al viso. Questi ritrasse il dito e l'anima della fanciulla poté
fuggire. Infuriatosi, Dio limitò il potere di Khara-Gyrgan e da allora la
potenza magica degli sciamani diminuì sensibilmente. Il tema mitico del
conflitto tra lo sciamano-mago e l'Essere Supremo si trova pure presso gli
Andamanesi e i Semang.
Secondo la
tradizione yakuta il «primo sciamano» disponeva di una potenza straordinaria e,
per orgoglio, rifiutò di riconoscere il Dio supremo degli Yakuti. Il corpo di
questo sciamano era costituito da una massa di serpenti. Dio inviò il fuoco per
bruciarlo, ma un rospo usci dalle fiamme; è da questo animale che derivano i
«demoni» i quali, a loro volta, fornirono gli Yakuti di sciamani eminenti,
uomini e donne. I Tungusi di Turukhan conoscono una leggenda differente: il
«primo sciamano» si sarebbe fatto da solo, con le proprie forze e l'aiuto del
diavolo. Egli spari volando via da un buco della yurta ma tornò qualche tempo
dopo in compagna di cigni.
Noi qui ci
troviamo di fronte ad una concezione dualistica che risente probabilmente di
influenze iraniche. Non è nemmeno illegittimo supporre, del resto, che questa
classe di leggende concerna soprattutto l'origine degli «sciamani neri»,
che si pensa abbiano rapporti solo con l'Inferno e il «Diavolo».
Ma la maggioranza dei miti sull'origine degli sciamani fa intervenire
direttamente l'Essere Supremo o il suo rappresentante, l'Aquila, l'uccello
solare.
Ecco che cosa
raccontano i Buriati: Al principio esistevano solo gli Dèi (tengri) ad Occidente e gli Spiriti
Malvagi ad Oriente. Gli dèi crearono l'uomo e questi visse felicemente fino al
momento in cui gli spiriti malvagi diffusero sulla terra la malattia e la
morte. Gli dèi decisero di dare all'umanità uno sciamano per combattere la
malattia e la morte e inviarono l'Aquila. Ma gli uomini non ne compresero il
linguaggio; d'altronde, essi non avevano fede in un semplice uccello. L'Aquila
se ne tornò fra gli dèi e li pregò di darle il dono della parola, oppure di
mandare agli umani uno sciamano buriate. Gli dèi la inviarono di nuovo con
l'ordine di concedere il dono dell'arte sciamanica alla prima persona che
incontrasse sulla terra. Tornata sulla terra, l'Aquila vide una donna
addormentata vicino ad un albero ed ebbe commercio con essa. Dopo qualche tempo
la donna dette alla luce un figlio che divenne il «primo sciamano».
Secondo un'altra variante la donna, in seguito ai suoi rapporti con l'Aquila,
vide gli spiriti e divenne essa stessa sciamana.
Per tale
ragione, in altre leggende l'apparizione di un'aquila viene interpretata come
segno di vocazione sciamanica. Si racconta che una giovane buriate, vedendo un
giorno un'aquila che volava sulle greggi, comprese il segno e fu costretta a
farsi sciamana. La sua iniziazione durò sette anni e, dopo la sua morte,
divenuta saian («spirito», «idolo»), continuò a proteggere i
bambini dagli spiriti malvagi.
Presso gli
Yakuti di Turushansk l'Aquila è parimenti considerata come la creatrice del
primo sciamano. Ma l'Aquila come suo nome ha anche quello dell'Essere Supremo,
Ajy (il «Creatore») o Ajy tojen (il «Creatore della Luce»). I figli di
Ajy tojen sono concepiti sotto specie di spiriti-uccelli posati sui rami
dell'Albero del Mondo; sulla cima sta l'Aquila a due teste, Tojon Kotor (il
«Signore degli Uccelli»), che probabilmente personifica lo stesso Ajy tojen.
Gli Yakuti come, del resto, numerose altre popolazioni siberiane, mettono in
relazione l'Aquila con gli alberi sacri, e specialmente con la betulla. Quando
Ajy tojen creò lo sciamano piantò anche nella sua dimora celeste una betulla ad
otto rami e su questi rami dispose dei nidi dove si trovano i figli del
Creatore. Inoltre piantò tre alberi sulla terra; ed è in loro ricordo che lo
stesso sciamano possiede un albero, dalla vita del quale egli, in un certo
modo, dipende. Sulle relazioni fra albero, anima e nascita nelle credenze dei
Mongoli e dei Siberiani, cfr. Pestalozza, Il
manicheismo presso i Turchi occidentali ed orientali. Ci si ricorderà che
nei sogni iniziatici degli sciamani il candidato viene trasportato presso
l'Albero Cosmico, in cima al quale si trova il Signore del Mondo. Talvolta
l'Essere Supremo vien rappresentato sotto forma di una aquila e fra i rami
dell'Albero si trovano le anime dei futuri sciamani (cfr. Emsheimer). È
probabile che questa imagine mitica riproduca un prototipo paleo-orientale.
Sempre presso
gli Yakuti, l'Aquila viene anche messa in relazione con i fabbri: ma si sa che
questi si crede abbiano la stessa origine degli sciamani (Sternberg,
Adlerkult). Secondo gli Ostiachi dello Ienissei, gli Orocci e altre popolazioni
siberiane, il primo sciamano sarebbe nato da un'Aquila o, almeno, dall'Aquila
sarebbe stato istruito nella sua arte. Certe tribù nutriscono talvolta le
aquile con carne cruda, ma questo sembra essere un costume sporadico e tardivo.
Presso i Tungusi il «culto» dell'aquila è piuttosto insignificante.
Vaìnàmoìnen, il «primo sciamano» della tradizione mitologica finlandese,
discendeva anche lui dall'aquila. Il dio celeste supremo finnico, Ukko, si chiama anche Aljù (lappone: Aijo, Aije), nome che
Sternberg ravvicina a Ajy. Come lo Ajy yakuta, l'Aljù finnico è l'antenato degli sciamani. Lo «sciamano bianco»,
chiamato Aiy Ojùna dagli Yakuti,
secondo Sternberg sarebbe assai vicino al finnico Alja Ukko. Il motivo dell' Aquila e dell' Albero Cosmico
(Yggdrasul) lo si può ritrovare nella mitologia germanica: Odino è spesso
chiamato «Aquila».
Ricordiamo anche
la parte che ha l'Aquila nei racconti d'iniziazione sciamanica (v. sopra) e gli
elementi ornitomorfi dei costumi degli sciamani in virtù dei quali avviene la
trasformazione magica in un'aquila (si veda più avanti). Tutte queste
constatazioni ci pongono dinanzi ad un simbolismo complesso, cristallizzato
intorno ad un Essere divino celeste e all'idea di un volo magico verso il
Centro del Mondo (= Albero del Mondo), simbolismo che in seguito avremo di
nuovo da incontrare. Qui importa rilevare che la parte che hanno gli antenati
nell'elezione di uno sciamano è, in realtà, meno importante di quel che si sarebbe
portati a credere. Gli antenati non sono che i discendenti di questo «primo
sciamano» mitico, creato direttamente dall'Essere Supremo solarizzato sotto
forma di Aquila. La vocazione sciamanica decisa dalle anime degli antenati non
rappresenta, talvolta, che la trasmissione di un messaggio sovrannaturale,
ereditato da un illud tempus mitico.
L'elezione sciamanica
presso i Goldi e gli Yakuti
I Goldi
distinguono nettamente fra lo spirito protettore (àyami) che sceglie lo sciamano, e gli spiriti ausiliari (sywén) che gli sono subordinati e che lo
sciamano consegue a mezzo dello stesso àyami
(Sternberg, The divine election).
Secondo Sternberg, i Goldi spiegherebbero le relazioni esistenti fra lo
sciamano e il suo àyami con un
complesso emozionale sessuale. Ecco quel che riferisce uno sciamano golde (la
prima parte delle sue confidenze l'abbiamo già riferita nel primo capitolo):
«Un giorno stavo
a dormire nel mio letto di pena quando uno spirito mi si avvicinò. Era una
donna bellissima, molto esile, più alta di un mezzo arsbin (71 cm.). Nel viso e
nelle vesti essa rassomigliava del tutto a una delle nostre golde. I capelli le
cadevano sulle spalle in piccole treccie nere. Vi sono degli sciamani che
dicono di aver avuta la visione di una donna il cui viso è metà nero e metà
rosso. Essa mi disse: " Sono l'àyami dei tuoi antenati, gli sciamani. Io
ho insegnato loro l'arte sciamanica; ed ora quest'arte l'insegnerò anche a te.
I vecchi sciamani sono morti l'uno dopo l'altro, e non c'è più nessuno per
guarire i malati. Tu diverrai sciamano!". Poi essa aggiunse: "Ti amo.
Sarai mio marito, perché ora non ne ho, ed io sarò tua moglie. Ti darò degli
spiriti che ti aiuteranno nell'arte di guarire; t'insegnerò quest'arte ed io
stessa ti assisterò. La gente ci porterà il cibo". Costernato, volevo
resisterle. "Se non mi obbedisci - mi disse - tanto peggio per te. Io ti
ucciderò".
«Da allora,
quella donna non cessò di venire a visitarmi: giaccio con lei come con mia
moglie, ma non abbiamo bambini. Vive tutta sola, senza genitori, in una capanna
situata su di una montagna. Ma cambia spesso dimora. Talvolta si presenta sotto
l'aspetto di una vecchia o di un lupo, sicché non si può guardarla senza
spavento. Altre volte, assumendo la forma di una tigre alata, mi trasporta per
farmi vedere diverse regioni. Ho visto delle montagne ove non vivono che dei
vecchi e delle vecchie, e dei villaggi abitati soltanto da uomini e donne
giovanissimi: rassomigliano ai Goldi e parlano la lingua dei Goldi; talvolta
accade che essi siano trasformati in tigri. Lo Spirito-istruttore dei giovani
candidati all'iniziazione appare, nell'Asia settentrionale e sud-orientale,
sotto forma di orso o di tigre. Talvolta il candidato vien portato nella jungla
(simbolo dell'aldilà) sul dorso di un tale animale-spirito. Le persone che si
trasformano in tigri sono degli iniziati o dei «morti»
(il che, nei miti, è talvolta la stessa cosa). Attualmente la mia àyami non viene da me cosi spesso come
prima. Quando mi istruiva, veniva tutte le sere. Mi ha dato tre assistenti: lo jarga (la pantera), il doonto (l'orso) e l'amba (la tigre). Essi mi visitano in sogno e appaiono ogni volta
che, nel praticare l'arte sciamanica, io li chiamo. Se uno di essi rifiuta di
venire l'àyami ve lo costringe; ma si
dice che ve ne sono che resistono perfino ai suoi ordini. Quando pratico lo
sciamanismo sono posseduto dall'àyami
e dagli spiriti ausiliari: essi mi penetrano come lo farebbe un fumo o
l'umidità. Quando l'àyami è in me, è
essa che parla a mezzo della mia bocca e che dirige tutto. E perfino quando
mangio i sukdu (le offerte) o bevo
sangue di maiale (solo lo sciamano ha il diritto di berne, i profani non
debbono toccarlo) non sono io che mangio e bevo, ma soltanto la mia àyami». Pìù avanti leggeremo delle autobiografie
di sciamani, uomini e donne, saora, il cui matrimonio con spiriti abitanti il
mondo sotterraneo costituisce un sorprendente parallelo dei documenti raccolti
dallo Sternberg.
Non v'è dubbio
che in questa autobiografia sciamanica gli elementi sessuali abbiano una parte
importante. Però è il caso di osservare che l'àyami non dà al suo «sposo» il potere di far
dello sciamanismo col solo fatto di aver con lui dei rapporti sessuali: è
l'istruzione segreta da essa portata a termine durante lunghi anni e sono i
viaggi estatici nell'aldilà a cambiare lo stato religioso dello «sposo»
e a prepararlo a poco a poco alla sua funzione di sciamano. Come subito
vedremo, chiunque può aver rapporti sessuali con le donne-spiriti senza per
questo venire al possesso dei poteri magico-religiosi degli sciamani.
Sternberg
ritiene invece che l'elemento primario dello sciamanismo sia l'emozione
sessuale, alla quale si sarebbe poi aggiunta l'idea della trasmissione
ereditaria degli spiriti (op. cit.). E ricorda diversi altri fatti che, secondo
lui, corroborano tutti siffatta interpretazione: una donna-sciamano osservata
da Shirokogorov durante le prove iniziatiche provava emozioni sessuali; la
danza rituale dello sciamano golde in atto di nutrire la sua àyami (è allora che si pensa che essa
penetri in lui) avrebbe un significato sessuale; nel folklore yakuta studiato
da Trostschansky ricorre sempre il tema di giovani spiriti celesti (i figli del
Sole, della Luna e delle Pleiadi, ecc.) che scendono sulla terra a sposare donne
mortali, e così via. Ma nessuno di questi fatti ci sembra decisivo: nel caso
della donna-sciamano studiato da Shirokogorov e dello sciamano golde le
emozioni sessuali sono nettamente secondarie, se non pure aberranti, perché in
numerose testimonianze non si trova traccia alcuna di trance di questa specie erotica. Quanto al folklore yakuta, esso
riflette una credenza popolare generale la quale non chiarisce affatto il
problema che ci interessa, e cioè: perché fra una folla di soggetti «posseduti»
dagli spiriti celesti solo alcuni sono chiamati a divenire sciamani? Non ci
sembra dunque che le relazioni sessuali con gli spiriti costituiscano
l'elemento essenziale e decisivo della vocazione sciamanica. Ma Sternberg si
rifà anche ad informazioni inedite sugli Yakuti, i Buriati e i Teleuti,
informazioni che in se stesse hanno un altro interesse e sulle quali vale
fermarci un momento.
Secondo una sua
informatrice yakuta, N.M. Sliepzova, gli abassy,
maschi o femmine, penetrano nel corpo dei giovani di sesso opposto al loro, li
addormentano e fanno l'amore con essi. I giovani visitati da abassy non si avvicinano più a nessuna
ragazza e alcuni di essi restano celibi per il resto della loro vita. Se un'abassy ama un uomo sposato, questi diviene
impotente nei rapporti con sua moglie. Tutto ciò, conclude Sliepzova, accade
fra gli Yakuti in genere; a fortiori, la stessa cosa dovrebbe verificarsi per
gli sciamani.
Ma nel caso di
questi ultimi si tratta anche di spiriti di un diverso ordine. «I padroni o le
padrone di abassy del mondo superiore
o inferiore - scrive la Sliepzova - appaiono in sogno allo sciamano, ma non
hanno personalmente rapporti sessuali con lui: ciò è riservato ai loro figli e
alle loro figlie». Questo dettaglio è importante e va contro la tesi di
Sternberg circa l'origine erotica dello sciamanismo: la vocazione dello
sciamano, secondo la stessa testimonianza della Sliepzova, si lega dunque
all'apparizione degli Spiriti celesti o infernali, e non all'emozione sessuale
provocata da abassy. I rapporti
sessuali con questi vengono dopo la consacrazione dello sciamano determinata
dalla visione estatica degli Spiriti.
D'altronde, come
lo rivela la stessa Sliepzova, le relazioni sessuali dei giovani e delle
giovani con gli spiriti sono assai frequenti fra gli Yakuti; lo sono egualmente
presso una quantità di altri popoli, senza che per questo si possa affermare
che costituiscano l'esperienza primaria generatrice di un fenomeno religioso
cosi complesso, quale è lo sciamanismo. Di fatto, gli abassy hanno una parte secondaria nello sciamanismo yakuta; secondo
le informazioni della Sliepzova, se lo sciamano sogna una abassy e i rapporti sessuali con essa, si sveglia ben disposto,
sicuro che sarà chiamato per una qualche consultazione in quello stesso giorno
e sicuro, anche, del successo; se invece nel suo sogno vede l'abassy insanguinata e in atto di
inghiottire l'anima del malato, sa che questi non vivrà e ove lo si cerchi
l'indomani per curarlo egli farà tutto il possibile per non farsi trovare.
Infine, se egli vien chiamato senza che abbia avuto sogni di alcun genere, è
perplesso e non sa come comportarsi.
L'elezione presso i
Buriati e i Teleuti
Circa lo
sciamanismo dei Buriati, Sternberg si rifà alle informazioni di uno dei suoi
discepoli, Mikhailof, che, buriate, in altri tempi aveva lui stesso preso parte
alle cerimonie sciamaniche. Secondo questo informatore la carriera dello
sciamano comincia con un messaggio da parte di un antenato-sciamano che in
seguito porta la sua anima in Cielo per istruirla. Lungo la via i due si
fermano presso gli dèi del Centro del Mondo e presso Tekha Shara Matzkala, la
divinità della danza, della fecondità e delle ricchezze, la quale vive con le
nove figlie di Solboni, il dio dell'aurora. Sono, queste, divinità particolari
dello sciamano e solo gli sciamani fanno loro delle offerte. L'anima del
giovane candidato ha relazioni erotiche con le nove spose di Tekha. Quando
l'istruzione sciamanica è portata a termine l'anima dello sciamano incontra in
Cielo la sua futura sposa celeste; anche con lei l'anima del candidato ha rapporti
sessuali. Due o tre anni dopo questa esperienza estatica ha luogo la cerimonia
dell'iniziazione propriamente detta, la quale comporta un'ascensione al Cielo
ed è seguita da tre giorni di feste di carattere abbastanza licenzioso. Prima
di tale cerimonia il candidato percorre tutti i villaggi vicini e riceve doni
aventi un significato nuziale. L'albero che serve per l'iniziazione e che è
simile a quello che si mette nelle case degli sposi novelli rappresenterebbe,
secondo Mikhailof, la vita della sposa celeste, e la corda che collega questo
albero (piantato nella yurta) con l'albero dello sciamano (che si trova nel
cortile), sarebbe l'emblema dell'unione nuziale dello sciamano con la sua
donna-spirito. Sempre secondo Mikhailof, il rito dell'iniziazione sciamanica
buriate esprimerebbe le nozze dello sciamano con la sua fidanzata celeste. Di
fatto Sternberg ricorda che durante l'iniziazione si beve, si danza e si canta
proprio come nei matrimoni.
Tutto questo è
forse vero, ma non basta a spiegare lo sciamanismo buriate. Abbiamo visto che
fra i Buriati, come del resto dappertutto, l'elezione dello sciamano implica
una esperienza estatica assai complessa, durante la quale si ritiene che il
candidato venga torturato, fatto a pezzi e ucciso, per infine risuscitare.
Unicamente questa morte e questa resurrezione iniziatiche consacrano uno
sciamano. Dopo di che, l'istruzione impartita dagli spiriti e dai vecchi
sciamani completeranno questa prima consacrazione. L'iniziazione propriamente
detta - sulla quale torneremo nel prossimo capitolo - consiste nel viaggio
trionfale in Cielo. È naturale che i divertimenti ai quali in questa occasione
la tribù si dà ricordino quelli delle feste nuziali, giacché le possibilità di
tali divertimenti collettivi, come si sa, sono scarse. Ma la parte della sposa
celeste sembra secondaria: non va oltre quella propria ad una inspiratrice e di
una coadiutrice dello sciamano. Vedremo che questa parte deve esser anche
interpretata alla luce di altri fatti.
Utilizzando il
materiale raccolto da V.A. Anochin sullo sciamanismo dei Teleuti, Sternberg
afferma che ogni sciamano teleuta ha una sposa celeste che abita nel settimo
Cielo. Durante il suo viaggio estatico alla volta di Ulgan lo sciamano incontra
la sua donna che l'invita a rimanere con lei: a tale scopo, ha preparato
pietanze squisite. «Marito mio, giovane kam
- essa gli dice, sediamoci alla tavola azzurra... Vieni, ci nasconderemo
all'ombra della tenda, faremo all'amore e ci divertiremo!». Essa gli assicura
che la via del Cielo è stata tagliata. Ma lo sciamano rifiuta di crederle e
riafferma la sua volontà di proseguire l'ascensione: «Avanzeremo sui tapty (pioli dell'albero sciamanico) e
renderemo omaggio alla Luna!» - allusione alla fermata che lo
sciamano fa nel suo viaggio celeste onde venerare la Luna e il Sole. E prima di
tornare in terra non toccherà nessuna pietanza. Egli la chiama «la sua cara
sposa»,
e la sposa terrestre «non è degna di versarle l'acqua
nelle mani». Nelle sue operazioni lo sciamano è assistito non solo
dalla sua sposa celeste ma anche da altre donne-spiriti. Nel quattordicesimo
Cielo si trovano le nove figlie di Ulgan: sono queste che conferiscono allo
sciamano i poteri magici (inghiottire carboni ardenti, ecc.). Quando un uomo
muore, esse scendono in terra, ne prendono l'anima e la trasportano nei Cieli.
In queste
informazioni sui Teleuti vanno messi in rilievo vari dettagli. L'episodio della
sposa celeste dello sciamano che invita il marito a mangiare ricorda il ben noto
tema mitico del cibo che le donne-spiriti dell'aldilà offrono ad ogni mortale
che raggiunge il loro dominio onde fargli dimenticare la vita terrestre ed
averlo per sempre in loro potere: ciò vale in egual misura per le semi-dee e
per le fate dell'aldilà. Il dialogo che lo sciamano ha con la sua sposa durante
l'ascensione è parte di una lunga e complessa scenografia drammatica sulla
quale ritorneremo e in nessun caso può esser considerato come un elemento
essenziale: come vedremo in seguito, l'elemento essenziale di ogni ascensione
sciamanica è invece il dialogo finale con Ulgan. Esso deve dunque apparirci
come un elemento drammatico di una certa vivezza che naturalmente, è tale da
interessare i partecipanti ad una seduta che spesso diviene abbastanza monotona.
Tuttavia esso ha pur sempre un contenuto iniziatico: il fatto che lo sciamano
abbia una sposa celeste che gli prepara il cibo nel settimo Cielo e che giace
con lui è ancora un segno che egli, in un certo modo partecipa alla condizione
degli esseri semi-divini, che egli è un eroe il quale ha conosciuto la morte e
la resurrezione e che, pertanto, gode di una seconda esistenza, su nei Cieli.
Sternberg cita
inoltre una leggenda uriankhai relativa al primo sciamano, Bo-Khàn. Questi
amava una fanciulla celeste. Venendo a sapere che egli era sposato, la fata fa
inghiottire e lui, e sua moglie, dalla terra. Essa poi dà alla luce un figlio
che abbandona sotto una betulla, le linfe della quale dovranno servirgli da
nutrimento. Da tale fanciullo sarebbe discesa la razza degli sciamani (Bo-Kha-niikn).
Il motivo della
sposa-fata che abbandona lo sposo mortale dopo aver avuto da lui un figlio è
universalmente diffuso. Le peripezie della ricerca della fata da parte del suo
sposo riflettono talvolta la scenografia dell'iniziazione (ascensione al Cielo,
discesa agli Inferni, ecc.). La sposa dell'eroe maori Tawhaki, fata discesa dal
cielo, non resta con lui che fino alla nascita del primo figlio, dopo di che
monta su di una capanna e scompare. Tawhaki s'innalza al cielo arrampicandosi
su di un ceppo di vigna, riuscendo poi a tornare sulla terra (Grey, Polynesian Mytbology). Secondo altre
varianti l'eroe raggiunge il cielo salendo su di un albero di cocco o su di una
corda, un fil di ragno, un cervo volante. Nelle isole Hawaii si dice che egli
si arrampica sull'arcobaleno; a Tahiti egli ascende un'alta montagna e incontra
la sua donna per via. Anche la gelosia delle fate nei riguardi delle donne
terrestri è un tema mitico e folkloristico molto frequente: le ninfe, le fate,
le semi-dee invidiano la felicità delle spose terrestri, di cui uccidono o
rapiscono i figli. D'altra parte esse sono considerate come madri, spose o
istruttrici degli eroi, vale a dire di coloro che, fra gli uomini, riescono a
superare la condizione umana e ottengono, se non l'immortalità divina, almeno
un destino privilegiato nel post-mortem.
Una quantità considerevole di miti e di leggende ci dice della parte essenziale
che ha una fata, una ninfa o una donna semi-divina nelle avventure degli eroi:
è essa che li istruisce, che li aiuta nelle loro prove (che spesso sono prove
iniziatiche) e che rivela loro il modo di impadronirsi di un simbolo di
immortalità o di lunga vita (l'erba meravigliosa, i pomi miracolosi, la fontana
della gioventù, ecc.). Una importante sezione della «mitologia della donna» sta
a mostrare che è sempre un essere femminile ad aiutare l'Eroe a conquistare
l'immortalità o a superare felicemente le sue prove iniziatiche.
Qui non è il
caso di approfondire questo tema mitico; certo è però che esso tradisce tracce
di una mitologia «matriarcale» tardiva, nella quale si possono
già individuare i segni della reazione «maschile» (eroica) contro l'onnipotenza
della Donna (= Madre). In certe varianti la parte della fata nella ricerca
eroica dell'immortalità è pressoché trascurabile: così la ninfa Siduri alla
quale, nelle versioni arcaiche della leggenda di Gilgamesh, questo eroe aveva
direttamente richiesta l'immortalità, passa inosservata nel testo classico.
Talvolta l'eroe, benché invitato a partecipare alla condizione beatifica della
donna semi-divina, epperò alla sua immortalità, accetta malvolentieri questa
beatitudine e cerca di liberarsi il più presto possibile per tornare dalla sua
donna terrestre e dai suoi compagni (come nel caso di Ulisse e della ninfa
Calipso). L'amore di una tale donna semi-divina diviene per l'eroe più un
ostacolo che non un ausilio.
Le donne-spiriti protettrici
dello sciamano
È ad un
orizzonte mitico del genere che debbono essere riportati i rapporti degli
sciamani con le loro «spose celesti»: propriamente parlando, non sono
esse a consacrare lo sciamano, benché lo aiutino sia nella sua istruzione, sia
nella sua esperienza estatica. È naturale che più di una volta l'inserirsi
della «sposa
celeste» nell'esperienza mistica dello sciamano sia accompagnato da emozioni
sessuali: ogni esperienza estatica è soggetta a tali deviazioni, e sono
abbastanza note le strette relazioni esistenti fra amor mistico e amor carnale
per non sbagliarsi quanto al meccanismo di questo cambiamento di livello.
D'altra parte non bisogna perdere di vista il fatto che gli elementi erotici
presenti nei riti sciamanici non si esauriscono nei rapporti dello sciamano con
la «sposa celeste». Presso i Cumandi della regione di Tomsk il sacrificio
del cavallo comprende anche una esibizione di maschere e di falli di legno,
portati da tre giovani: costoro galoppano col fallo fra le gambe, «come
stalloni»,
e toccano i presenti. Il canto che s'intona in questa occasione è nettamente
erotico. Presso i Teleuti quando lo sciamano, durante l'ascensione dell'albero,
raggiunge la terza tapty, le donne, le ragazze e i bambini lasciano il luogo e
lo sciamano si mette a cantare un canto osceno simile a quello dei Cumandi: lo
scopo è il rinvigorimento sessuale degli uomini (Zelenin). Di questo rito si
trovano anche altrove delle corrispondenze (Caucaso, Cina antica, America ecc.,
cfr. Zelenin) e il suo senso risulta chiaro già per il suo integrarsi nel
sacrificio del cavallo, sacrificio la cui funzione cosmologica è ben nota
(rinnovamento del mondo e della vita).
Sugli elementi
sessuali presenti nell'açvamedha e in
altri riti consimili (cfr. Dumont). A tale riguardo si potrebbe anche segnalare
un altro rito sciamanico della fecondità che si realizza ad un livello
religioso affatto diverso. Gli Yakuti venerano una dea della fecondità e della
procreazione, Aisyt, che risiede nell'Est, nella parte del Cielo dove il sole
sorge in estate. Le feste in suo onore han luogo nella primavera e nell'estate
e sono di competenza di sciamani speciali, chiamati «sciamani dell'estate»
(saingy) o «sciamani bianchi».
Aisyt viene invocata per avere dei bambini, specialmente bambini maschi. Lo
sciamano, cantando e battendo il tamburo, apre la processione alla testa di
nove giovani e di nove vergini, che lo seguono tenendosi per mano e cantando in
coro. «Lo sciamano sale cosi verso il Cielo e vi conduce le giovani coppie; ma
i servi di Aisyt stanno alle porte, armati di fruste d'argento: essi respingono
tutti coloro che sono corrotti, malvagi e pericolosi; e nemmeno vengono ammessi
coloro che han perduto troppo presto la loro innocenza».
Per tornare alla
parte della «sposa celeste», è degno di nota il fatto che
proprio come nelle varianti tardive dei miti cui abbiamo alluso poco fa lo
sciamano sembra essere si aiutato, ma anche importunato dalla sua àyami.
Infatti, pur proteggendolo, essa si sforza di averlo per lei sola,
trattenendolo nel settimo cielo, e si oppone al proseguimento della sua
ascensione celeste. Essa lo tenta anche con un cibo celeste, cosa che avrebbe
potuto aver per effetto lo strappare lo sciamano alla sua donna terrestre e
alla società degli umani.
Per concludere,
lo spirito protettore (àyami. ecc.), concepito anche sotto forma di una sposa
(o di uno sposo) celeste, ha nello sciamanismo siberiano una parte importante
si, ma non decisiva. L'elemento decisivo, come si è visto, è il dramma
iniziatico della morte e della resurrezione rituale (malattia, smembramento,
discesa agli Inferni, ascensione ai Cieli, ecc.). I rapporti sessuali che si
suppone che lo sciamano abbia con la sua àyami non sono costitutivi per la sua
vocazione estatica: da un lato, l'esser sessualmente posseduti in sogno da «spiriti»
non è cosa limitata agli sciamani; dall'altro, gli elementi sessuali presenti m
certe cerimonie sciamaniche non si restringono ai rapporti fra lo sciamano e la
sua àyami e rientrano in rituali ben noti destinati ad accrescere la forza
sessuale della comunità.
Come si è detto,
la protezione accordata allo sciamano siberiano dalla sua àyami ricorda la
parte che fate e semi-dee hanno nell'istruzione e nell'iniziazione degli eroi.
Cotesta «protezione» riflette indubbiamente delle concezioni «matriarcali».
La «Grande Madre degli Animali» - con la quale lo sciamano siberiano e artico
sta in ottimi rapporti - è una imagine ancor più netta del matriarcato arcaico.
È legittimo credere che questa Grande Madre degli Animali, ad un certo momento,
abbia preso il posto e la funzione di un Essere Supremo uranico, ma un problema
del genere esula dal nostro argomento. Vale solo tener presente che come la
Gran Madre degli Animali accorda agli uomini - specie agli sciamani - il
diritto di cacciare e di nutrirsi della carne degli animali, del pari gli
«spiriti protettori donne» danno agli sciamani gli spiriti ausiliari che, in un
certo modo, sono ad essi indispensabili per i loro viaggi estatici.
La parte delle anime dei
morti
Si è visto che
la vocazione del futuro sciamano può venire destata - nei sogni, nell'estasi o
durante una malattia - dall'incontro fortuito con un essere semi-divino, con
l'anima di un antenato o di un animale, oppure da un avvenimento straordinario
(folgore, accidente mortale, ecc.). Generalmente quell'incontro inaugura una
«familiarità» fra il futuro sciamano e lo «spirito» che ha deciso la sua
carriera: familiarità, sulla quale torneremo più giù. Pel momento vogliamo
considerare più da presso la parte che
hanno le anime dei morti nel reclutamento dei futuri sciamani. Come abbiamo
visto, spesso le anime degli antenati prendono, in un certo modo, «possesso» di
un giovane e procedono alla sua iniziazione. Ogni resistenza è inutile. Questo
fenomeno di pre-elezione è generale nell'Asia settentrionale e artica.
Naturalmente, lo stesso fenomeno lo si incontra anche altrove. Ad esempio,
presso i Batachi di Sumatra il rifiuto di divenire sciamano dopo esser stati
«scelti» dagli spiriti è seguito dalla morte. Nessun Bataco diviene sciamano di
sua volontà.
Una volta
consacrato grazie a questo primo essere «posseduto» e alla susseguente
iniziazione, lo sciamano diviene un ricettacolo suscettibile ad esser integrato
indefinitamente da ancora altri spiriti; ma questi sono sempre anime di
sciamani morti o «spiriti» che già hanno servito antichi sciamani. Il celebre
sciamano yakuta Tiìspiit raccontò a Sieroszewski: «Un giorno che erravo per le
montagne, là verso il nord, mi fermai dinanzi ad un mucchietto di legna per
cuocere il mio pasto. Vi misi fuoco; ora, sotto i ceppi era seppellito uno
sciamano tunguso. Il suo spirito s'impadroni di me». È per questo che durante
le sedute Tiispiit pronunciava parole tunguse. Ma egli riceveva anche altri
spiriti: Russi, Mongoli, ecc. e allora parlava la loro lingua. Uguali credenze
presso i Tungusi e i Goldi. Uno sciamano Haida, se è posseduto da uno spirito
Tlingit, parla la lingua tlingit, lingua che in qualsiasi altra occasione egli
ignora
La parte delle
anime dei morti nell'elezione del futuro sciamano è, altrove, non meno
importante che in Siberia. Esamineremo subito la loro funzione nello
sciamanismo nord-americano. Gli Eschimesi, gli Australiani e le persone di
ancor altri popoli che desiderano divenire dei medicine-men dormono vicino a delle tombe; e questa usanza è
perfino sopravvissuta fra certi popoli storici, come per esempio i Celti.
Nell'America del Sud l'iniziazione ad opera di sciamani defunti, pur non
essendo la sola, è frequentissima. «Gli sciamani Bororo, sia che appartengano
alla classe degli aroettauiaraare o a quella dei bari, vengono scelti
dall'anima di un morto o da uno spirito. Nel caso degli aroettauiaraare la
rivelazione avviene nel modo seguente: l'eletto, mentre passeggia per la
foresta, vede d'un tratto un uccello posarsi a portata di mano, e subito dopo
sparire. Stormi di pappagalli scendono su di lui e poi svaniscono come
d'incanto. Il futuro sciamano torna a casa tremando e pronunciando parole
inintelliggibili. il suo corpo emana un odor di putredine e di rucu. Come si vede, egli, ritualmente, è
già un "morto". Ad un tratto una ventata lo fa vacillare: cade come
morto. A tal punto egli è divenuto il ricettacolo di uno spirito che parla per
mezzo della sua bocca. Da allora egli è uno sciamano».
Presso gli
Apinayé gli sciamani vengono designati dall' anima di un parente che li mette
in rapporto con gli spiriti; sono però questi a trasmettergli la scienza e le
tecniche sciamaniche. Presso altre tribù si diviene sciamani per via di una
esperienza estatica spontanea: ad esempio, avendo la visione del pianeta Marte,
ecc. (Métraux). Presso i Campa e gli Amahuaca i candidati ricevono l'istruzione
da uno sciamano vivente o morto. «L'allievo sciamano dei Conibo dell'Ucayali
traggono la loro scienza medica da uno spirito. Per entrar in rapporto con lui
lo sciamano beve un decotto di tabacco e fuma fin che può in una capanna
ermeticamente chiusa». Il candidato Cashinawa viene istruito nella boscaglia,
le anime gli forniscono le sostanze magiche necessarie ed anzi gliele inoculano
nel corpo. Gli sciamani Yaruro vengono istruiti dai loro dèi, benché la tecnica
propriamente detta la apprendano da altri sciamani. Ma essi non si sentono in
grado di praticare la loro arte prima di aver incontrato in sogno uno spirito.
«Nella tribù degli Apapocuvà-Guarani si diviene sciamani solo con la conoscenza
di canti magici sui quali si è stati istruiti in sogno da qualche parente
defunto». Quale sia pur stata l'origine della rivelazione, tutti gli sciamani
praticano però la loro arte seguendo le norme tradizionali della loro tribù.
«Essi dunque si conformano a delle regole e ad una tecnica che essi hanno
potuto acquistare solo alla scuola di uomini sperimentati», conclude Métraux. E
lo stesso si verifica in ogni altro sciamanismo.
Come si vede, se
l'anima dello sciamano morto ha una funzione importante nel risveglio della
vocazione sciamanica, essa però non fa altro che preparare il candidato ad
ulteriori rivelazioni. Le anime degli sciamani morti lo mettono in rapporto con
gli spiriti o lo conducono in Cielo (cfr. Siberia, Altai, Australia, ecc.).
Queste prime esperienze estatiche sono seguite, del resto, da una istruzione
impartita dai vecchi sciamani. Presso i Selk'nam la vocazione spontanea si
palesa mediante una strana attitudine del giovane: questi canta mentre dorme,
ecc. (Gusinde). Ma ad un tale stato si può anche giungere volontariamente:
l'essenziale è riuscire a vedere gli spiriti. «Veder gli spiriti» in sogno o
allo stato di veglia è il segno decisivo della vocazione sciamanica, spontanea
o volontaria che sia: giacché aver dei contatti con le anime dei morti
significa, in un certo modo, esser morti. È cOSI che in tutta l'America del Sud
lo sciamano deve morire per poter incontrare le anime degli sciamani e per
esser istruito da esse: perché i morti sanno tutto (Lublinski). È una credenza
universale che la mantica si spieghi col commercio coi morti).
Come si è detto,
l'elezione o inizi azione sciamanica nell'America del Sud segue talvolta lo
schema esatto di una morte e resurrezione rituale. Ma la «morte» può esser
realizzata anche con altri mezzi: estrema fatica, torture, digiuno, colpi, ecc.
Il giovane Jivaro che si decide a divenire sciamano cerca un maestro, gli paga
l'onorario dovuto e s'impegna a seguire un regime quanto mai severo: per dei
giorni non tocca cibo, beve invece bevande narcotiche, specialmente succo di
tabacco (questo succo, come è noto, ha una parte essenziale nell'iniziazione
degli sciamani sud-americani). Alla fine uno spirito, Pasuka, appare al
candidato sotto la forma di un guerriero. Allora il maestro si mette subito a
colpire 1'allievo, che cade a terra privo di sensi. Quando torna in sé, tutto
il corpo gli fa male. Questo è il segno che lo spirito si è impadronito di lui.
Infatti le sofferenze, le intossicazioni e le percosse che han provocato lo
svenimento vengono in un qualche modo assimilate ad una morte rituale.
Risulta da ciò
che le anime dei morti, quale pur sia la parte che esse hanno nel risveglio
della vocazione o nell'iniziazione dei futuri sciamani, non creano questa
vocazione con la loro sola presenza (prendendo possesso dell'iniziando, o sotto
altra forma), ma servono al candidato come un mezzo per entrare in contatto con
gli Esseri divini o semi-divini (mediante i viaggi estatici in Cielo o negli
Inferni, ecc.) o per appropriarsi delle realtà sacre accessibili ai soli
defunti. Ciò è stato messo ottimamente in luce da Marcel Mauss a proposito dei
poteri magici ottenuti grazie ad una rivelazione sovrannaturale degli stregoni
australiani. Anche qui la parte che hanno i morti si confonde con quella degli
«spiriti puri». Ancor più significativo è il fatto che quando è lo
spirito del morto ad accordare direttamente la rivelazione, questa implica sia
il rito iniziatico dell'uccisione seguita dalla rinascita del candidato (vedi
il precedente capitolo), sia i viaggi estatici nel Cielo - tema sciamanico per eccellenza
- nei quali lo spirito-antenato ha funzione di psicopompo e che, per la loro
stessa struttura, escludono lo stato di «possessione». Sembra appunto che
la funzione principale dei morti nel conseguimento dei poteri sciamanici sia
meno quella di prender «possesso» del soggetto che non di aiutarlo a
trasformarsi in un «morto»: in una parola, quella di aiutarlo
a divenire anche lui uno «spirito».
Ciò spiega
l'estrema importanza che la «visione degli spiriti» ha in tutte le varietà
dell'iniziazione sciamanica: «vedere» uno spinto in sogno o allo stato di
veglia è un segno certo che, in un certo modo, si è ottenuta una «condizione
spirituale», vale a dire che la condizione umana profana è stata
superata. Ecco perché nelle Mentawei la «visione» (degli spiriti), verificatasi
spontaneamente o ottenuta con la propria volontà, conferisce istantaneamente il
potere magico (kerei) agli sciamani.
I maghi andamanesi si ritirano nella jungla per conseguire questa «visione»;
coloro che hanno avuto soltanto dei sogni ricevono poteri magici di importanza
minore. I dukun del Minangkabau di Sumatra si istruiscono nella solitudine, su
di una montagna: là apprendono il modo di rendersi invisibili e riescono a
vedere, di notte, le anime dei morti; il che equivale a dire che essi divengono
degli spiriti, che essi sono dei morti.
Uno sciamano
australiano della tribù degli Yaralde (Murray inferiore) descrive mirabilmente
i terrori iniziatici che accompagnano la visione degli spiriti e dei
morti: «Quando
ti spingerai ad avere le visioni in questione, e le avrai, esse saranno orribili,
ma non temere. M'è difficile descriverle, benché mi siano nello spirito e nel
miwi (forza psichica), e quantunque possa proiettare in te l'esperienza, dopo
che tu sia stato ben preparato.
«Dirò tuttavia
che certe di queste visioni sono spiriti malvagi, certe son simili a serpenti,
certe sembrano cavalli a testa umana, e certe, infine, sono spiriti d'uomini
malvagi che assomigliano a fuochi divoratori. Vedrai bruciare il tuo
accampamento, salire acque di sangue; vi sarà il tuono, il lampo e la pioggia;
la terra tremerà, le colline si sfalderanno, le acque turbineranno e gli alberi
ancora in piedi si piegheranno sotto il vento. Non temere. Se ti levi, non
vedrai queste scene; ma se resti a giacere le vedrai, a meno che il tuo
spavento non divenga troppo grande. Se questo è il caso, ciò romperà la tela (o
il filo) cui queste scene son sospese. Può darsi che tu veda morti che vengono
verso di te e che tu oda il ticchettio delle loro ossa. Se odi e vedi queste
cose senza paura, tu non temerai poi più niente. Questi morti non ti
appariranno più, giacché il tuo miwi sarà divenuto forte. Allora sarai
possente, perché avrai visto i morti». (Elkin). Effettivamente, i medicine-men son capaci di vedere gli
spiriti dei morti presso le loro tombe, ed è loro facile catturarli. Questi
spiriti divengono allora loro coadiutori e, durante la cura sciamanica, i
medicine-me» li inviano a grandi distanze a recuperare l'anima vagante del
malato che stanno curando (Elkin).
Sempre nelle
Mentawei «un uomo o una donna possono divenir veggenti se sono stati
fisicamente rapiti dagli spiriti. Secondo la storia di Sitakigagailau il
giovane fu trasportato in cielo dagli spiriti del cielo, e là ricevette un
corpo meraviglioso simile al loro. Tornò poi in terra, e divenne un veggente;
gli spiriti del cielo l'aiutavano nelle sue cure. Per divenir veggenti i
giovani debbono esser colpiti da una malattia, aver dei sogni e attraversare un
periodo di follia passeggera. La malattia e i sogni sono provocati dagli
spiriti del cielo o della jungla. Il sognatore s'imagina di salire in cielo o
di errare pei boschi alla ricerca di scimmie». Successivamente il
maestro-veggente procede all'inizi azione del giovane: i due vanno insieme
nella foresta per cogliere delle piante magiche. Il maestro canta: «Spiriti del
talismano, rivelatevi. Rischiarate gli occhi di questo giovane affinché egli
possa vedere gli spiriti». Tornati nella dimora del
maestro-veggente, questi invoca gli spiriti: «Che i tuoi occhi si facciano
chiari, che i tuoi occhi si facciano chiari, affinché possano vedere i nostri
padri e le nostre madri nei cieli inferiori». Dopo questa invocazione «il
maestro stropiccia gli occhi del discepolo con delle erbe. Durante tre giorni e
tre notti i due restano l'uno di fronte all'altro, cantando e suonando delle
campanelle. Non prendono cibi di nessuna specie finché gli occhi dell'allievo
non siano divenuti chiaroveggenti. Alla fine del terzo giorno ritornano nella
foresta per cercare altre erbe... Se al settimo giorno il giovane vede gli
spiriti dei boschi, la cerimonia ha termine. Se no, bisognerà ripetere questi
sette giorni di cerimonie» (Loeb). Tutta questa lunga e faticosa operazione ha
per scopo il trasformare l'esperienza estatica iniziale e passeggera
dell'allievo-mago (l'esperienza dell'«elezione») in uno stato
permanente: in quello, in cui si possono «vedere gli spiriti»,
cioè in cui si può partecipare della loro natura «spirituale».
Ciò risulta più
chiaramente ancora dall'esame di altre categorie di «spiriti» aventi anch'essi
una loro parte sia nell'iniziazione dello sciamano, sia nella produzione delle
sue esperienze estatiche. Dicemmo più su che fra k sciamano e i suoi «spiriti»
si stabiliscono dei rapporti di familiarità. Del resto, nella letteratura
etnologica essi vengono chiamati spiriti familiari, spiriti ausiliari o spiriti
custodi. Ma è opportuno distinguer bene fra gli spiriti familiari propriamente
detti e un'altra categoria di spiriti, più potenti, che vengon chiamati spiriti
protettori; del pari, bisogna riconoscere la differenza esistente fra questi
spiriti e gli esseri divini o semi-divini che gli sciamani evocano durante le
sedute. Lo sciamano è un essere che ha rapporti concreti, diretti, col mondo
degli dèi e degli spiriti: egli li vede faccia a faccia, parla con essi, li
prega, li implora - ma ne «controlla» soltanto un numero limitato. Non è che un
qualsiasi spirito o dio invocato durante la seduta sciamanica sia, per questo
semplice fatto, un «familiare» o un «ausiliario» dello sciamano. Spesso vengono
invocati i grandi dèi, come ne è il caso presso gli Altaici: prima
d'intraprendere il suo viaggio estatico lo sciamano invita Jajyk Kan (il
Signore del Mare), Kaira Kan, Bai Ulgan con le sue figlie e ancor altre figure
mitiche (Radlov). Lo sciamano li invoca e gli dèi, i semi-dèi e gli spiriti
vengono - proprio come le divinità vèdiche scendono vicino al sacerdote quando
egli le evoca durante il sacrificio. D'altronde, gli sciamani hanno delle
divinità particolari, specifiche, ignote al resto della popolazione, alle quali
essi soli sacrificano. Ma tutto questo pantbeon non è a disposizione dello sciamano
allo stesso modo degli spiriti familiari; e gli esseri divini o semidivini che
aiutano lo sciamano non debbono esser catalogati fra questi suoi spiriti
familiari, ausiliari o guardiani.
Questi, nello
sciamanismo, hanno una parte considerevole: vedremo più da presso che funzioni
essi abbiano quando studieremo le sedute sciamaniche. Pel momento, accenneremo
che la maggioranza di questi spiriti familiari e ausiliari ha forme animali.
Cosi presso i Siberiani e gli Altaici essi possono apparire sotto forma di
orsi, di lupi, di cervi, di lepri e di uccelli d'ogni specie (soprattutto di
oche, di aquile, di gufi, di cornacchie, ecc.), di grandi vermi ma anche come
spettri, spiriti dei boschi, della terra, del focolare, ecc. Inutile farne qui
la lista. Gli spiriti vengono generalmente chiamati per mezzo del tamburo. Gli
sciamani possono trasferire i loro spiriti ausiliari a dei colleghi; possono
perfino venderli (ad esempio, presso gli Jurachi e gli Ostiachi. Per forma,
nomi e numero essi differiscono dall'una regione all'altra. Secondo Karjalainen
il numero degli spiriti ausiliari di uno sciamano vasiugano varia, ma
generalmente egli ne ha sette. Oltre a questi «familiari», lo sciamano gode
della protezione di uno «Spirito della Testa» che lo difende
durante i suoi viaggi estatici, di uno «Spirito in forma d'orso» che
l'accompagna nelle sue discese agli Inferni, di un cavallo grigio sul quale
egli si reca nei Cieli, e via dicendo. In altre regioni a tutto questo
complesso di spiriti ausiliari dello sciamano vasiugano corrisponde un unico
spirito: un orso presso gli Ostiachi settentrionali, un «messaggero» presso i
Tremjugan e altri popoli; quest'ultimo ci ricorda i «messaggeri» degli
spiriti celesti (uccelli, ecc.). Gli sciamani li chiamano da ogni parte del mondo
ed essi vengono, l'uno dopo l'altro, e parlano con la loro voce.
La differenza
fra uno spirito familiare in forma di animale e lo spirito protettore
propriamente sciamanico risulta abbastanza chiaramente presso gli Yakuti. Ogni
sciamano ha un suo ié-kyla [«animale-madre»),
che è una specie di imagine mitica di un animale ausiliario, che tengono
celato. Gli sciamani deboli sono quelli che per ié-kyla hanno un cane: i più potenti dispongono di un toro, di un
puledro, di un'aquila, di un'alce o di un orso bruno; quelli che posseggono
lupi, orsi o cani sono i meno fortunati. L'amagat
è un essere del tutto diverso. Generalmente è l'anima di uno sciamano morto o
uno spirito celeste minore. «Lo sciamano vede e sente solo per
mezzo del suo iimiigiit - mi insegnava
Tiìspiìt. - lo vedo e odo ad una distanza di tre nosleg, ma ve ne sono che vedono e sentono molto più lontano».
Si è visto che
dopo la sua illuminazione lo sciamano eschimese deve procurarsi da sé i suoi
spiriti ausiliari. Questi sono generalmente degli animali che appaiono sotto
forma umana: essi vengono di propria volontà se l'allievo dimostra dei meriti.
L'anitra, il gufo, l'orso, il cane, il pescecane e ogni specie di spiriti delle
montagne sono ausiliari possenti ed efficaci. Presso gli Eschimesi dell'Alaska
lo sciamano è tanto più potente per quanto più i suoi spiriti ausiliari sono
numerosi. Nella Groenlandia del Nord un angakok possiede fin quindici spiriti
ausiliari. Gli spiriti si manifestano tutti attraverso lo
sciamano, producendo rumori strani, suoni inintelligibili, ecc.
Rasmussen ha
raccolto dalla bocca stessa di alcuni sciamani il racconto del mondo con cui
essi si sono procurati gli spiriti. Nel ricevere 1'«illuminazione» lo
sciamano Aua senti nel corpo e nel cervello una luce celeste che, in un certo
modo, emanava da tutto il suo essere; benché gli umani non la percepissero,
essa era visibile a tutti gli spiriti della terra, del cielo e del mare, i
quali vennero a lui e divennero i suoi spiriti ausiliari. «Il mio primo spirito
ausiliario fu un mio omonimo, una piccola aua. Quando ella venne a me, fu come
se la casa si fosse di colpo scoperchiata e io sentiiin me una tale potenza di
visione che vedevo attraverso la casa e attraverso la terra, e lontano nel
cielo: era stata la mia piccola aua a portarmi questa luce interiore
volteggiando sopra di me mentre cantavo. In seguito, l'ho posta in un angolo
della casa, invisibile agli altri, ma sempre pronta se ne avessi avuto
bisogno». Un giorno in cui si trovava in mare a bordo del suo kayak, un secondo
spirito, un pescecane, venne a lui: nuotando gli si avvicinò chiamandolo per
nome. Aua invoca i suoi due spiriti ausiliari con un canto monotono: «Gioia
gioia, - lo vedo uno spiritello dalla spiaggia, - Una piccola aua, - lo stesso
sono un'aua, - l'omologo dello spirito, - Gioia, gioia ...» Egli ripete questo
canto finché scoppia in lacrime: allora sente in sé una gioia illimitata. Come
si vede, in questo caso l'esperienza estatica dell'illuminazione è in un certo
modo legata all'apparizione dello spirito ausiliare. Ma questa estasi non manca
di mistico terrore: Rasmussen insiste sul sentimento di «terrore inesplicabile»
che si prova quando si è «assaliti da uno spirito ausiliare»
e mette in relazione questo spavento col pericolo mortale proprio dell'iniziazione.
Peraltro, gli
sciamani di ogni categoria hanno i loro spiriti ausiliari e protettori, anche
se, a seconda appunto della categoria, la loro natura ed efficacia possano
differire notevolmente. Il poyang
jakun possiede uno spirito familiare che gli è venuto in sogno o che ha
ereditato da altro sciamano. Nell'America del Sud tropicale si entra in
possesso degli spiriti guardiani al termine dell'iniziazione: essi «penetrano»
nello sciamano «sia direttamente, sia sotto specie di cristalli di rocca che
cadono nella sua bisaccia... Presso i Caribi del Barama ogni classe di spiriti
con cui lo sciamano entra in rapporto è rappresentata da piccoli ciottoli di
diversa natura. Il piai li inserisce nel suo campanaccio, e cast può invocarli
a piacere». Ci si ricorderà del significato celeste dei cristalli di rocca
nella religione australiana; questo significato risulta naturalmente oscurato
nello sciamanismo sud-americano attuale, ma non per questo è meno indicativo
quanto all'origine dei poteri sciamanici. Nell'America del Sud, come del resto
dappertutto, gli spiriti ausiliari possono essere di diversa specie: anime di
antenati-sciamani, spiriti delle piante o degli animali. Presso i Bororo
vengono distinte due classi di sciamani a seconda degli spiriti da cui essi
traggono il loro potere: demoni della natura e anime di sciamani defunti _
oppure anime di antenati (Métraux). Ma, in questo caso, abbiamo a che fare meno
con spiriti ausiliari cbe non con spiriti protettori, anche se la differenza
fra queste due categorie di spiriti non è sempre facile da definire.
La relazioni fra
il mago o lo stregone e i suoi spiriti vanno da quelle del benefattore e del
suo protetto fino a quelle di un servo di fronte al padrone; però esse han
sempre un carattere intimo. Sugli spiriti ausiliari nella stregoneria europea
del Medioevo, cfr. Margaret Alice Murray. Gli spiriti ricevono raramente
sacrifici o preghiere, ma, se vengono lesi, anche il mago ne viene a soffrire
(vedi per es. Webster). In Australia, nell'America del Nord ed anche altrove
predominano le forme animali degli spiriti ausiliari e protettori: in un certo
modo li si potrebbero paragonare al bush
soul dell'Africa occidentale e al nagual
dell'America centrale e del Messico. Sugli spiriti custodi nell'America del
Nord, cfr. Frazer.
Questi spiriti
ausiliari di forma animale hanno una parte importante nel preludio della seduta
sciamanica, cioè nella preparazione del viaggio estatico nei cieli e negli
inferni. Generalmente la loro presenza si manifesta con l'imitazione, da parte
dello sciamano, delle grida o delle mosse dei rispettivi animali. Lo sciamano
tunguso, che ha una serpe per spirito ausiliare, si sforza, durante la seduta,
di riprodurre i movimenti del rettile; un altro, avendo per syvén il vortice, si muove in modo
corrispondente (Harva). Gli sciamani ciukci ed eschimesi si trasformano in
lupi, gli sciamani lapponi divengono lupi, orsi, renne, pesci, il hala semang può trasformarsi in tigre,
come lo possono il halak dei Sakai e il bomor di Kelantan. Siamo qui di fronte
ad una credenza universalmente diffusa. Per l'Europa antica e moderna, cfr. ad
esempio Kittredge.
Questa
imitazione sciamanica dei gesti e della voce di animali può far pensare ad una «possessione».
Ma è forse più esatto parlare di una presa di possesso, da parte dello
sciamano, dei suoi spiriti ausiliari: è lui che si trasforma in animale,
proprio come ne è il caso quando, di un animale, si mette la maschera. Oppure
si potrebbe parlare di una identità nuova dello sciamano, che diviene
animale-spirito e «parla», canta e vola come gli animali e
gli uccelli. La «lingua degli animali» non è che una variante della «lingua
degli spiriti», di quel linguaggio segreto sciamanico su cui presto
torneremo.
Ma vorremmo
prima attirare l'attenzione sul seguente punto: la presenza di uno spirito
ausiliare sotto forma di animale, il dialogo con esso in una lingua segreta o
l'incarnazione di questo spirito-animale nella persona dello sciamano
(maschere, gesti, danze, ecc.) - tutto ciò dimostra ancora una volta che lo
sciamano è capace di abbandonare la condizione umana, che, in una parola, egli
è capace di «morire». A partir dai tempi più remoti quasi tutti gli animali son
stati concepiti sia come esseri psicopompi che accompagnano le anime
nell'aldilà, sia come la forma nuova che assume il morto. Che si tratti dell'«antenato»
oppure del «maestro dell'iniziazione», l'animale simboleggia sempre una
relazione reale e diretta con l'aldilà. In un numero considerevole di miti e di
leggende di tutto il mondo l'eroe vien trasportato nell'aldilà (cielo, inferno
sotterraneo o sottomarino, foresta impenetrabile, montagna, luogo deserto,
jungla, ecc.) da un animale. È sempre un animale che porta sul suo dorso il
neofita verso la macchia (= l'Inferno) o che lo tiene fra le mascelle, o che 1'«inghiotte»
onde «ucciderlo»
e poi «risuscitarlo», ecc.
Infine, bisogna
tener conto della solidarietà mistica tra l'uomo e l'animale che costituisce
una nota dominante della religione dei cacciatori primordiali. In ragione di
questa solidarietà, certi esseri umani son capaci di trasformarsi in animali,
di comprendere la loro lingua o di partecipare della loro prescienza e dei loro
poteri occulti. Ogni qual volta uno sciamano giunge a partecipare del modo d'essere
degli animali, egli ristabilisce, in un certo qual modo, la situazione che
esisteva in illo tempore, nei tempi
mitici, quando la frattura tra l'uomo e il mondo animale non s'era ancora compiuta.
L'animale
protettore degli sciamani buriati si chiama khubilgan,
termine interpretabile come «metamorfosi» (da khubilkhu, «trasformarsi», «prendere altra forma»).
In altri termini, non solo l'animale protettore permette allo sciamano di
compiere la metamorfosi, ma è in certo senso il suo «doppio», il suo alter ego.
Esso è una delle «anime» dello sciamano, 1'«anima sotto forma animale» (Harva)
o, più esattamente, 1'«anima-vita». Gli sciamani si
affrontano sotto forma d'animali e, se nel combattimento è ucciso l'alter ego, ben presto anche lo sciamano
muore.
Su questo tema,
estremamente frequente nelle credenze e nel folklore dello sciamanismo, cfr.
Friedrich-Buddruss, Schmidt, Dioszegi,. Quest'ultimo autore crede di poter
precisare che, in origine, l'animale da combattimento degli sciamani era la
renna. Ciò sembra confermato dal fatto che i disegni rupestri di Saymali Tas,
nel Kirghisistan, risalenti al secondo e al primo millennio a.C., rappresentano
degli sciamani che si affrontano sotto forma di renne. Quanto al tàltos ungherese, cfr. lo stesso autore.
Di conseguenza,
gli spiriti guardiani e ausiliari, senza i quali non è possibile alcuna seduta
sciamanica, possono esser considerati come i segni autentici dei viaggi
estatici compiuti dallo sciamano nell'aldilà. Cosi gli animali-spiriti
partecipano della stessa funzione delle anime degli antenati: anche questi
portano lo sciamano nell'aldilà (Cielo, Inferno), gli rivelano i misteri,
l'istruiscono, ecc. La parte dell'animale-spirito nei riti d'iniziazione e
nelle leggende relative al viaggio di un eroe nell'aldilà corrisponde a quella
dell'anima del morto nella «possessione» iniziatica (sciamanica). Ora, appare
ben chiaro che è lo sciamano che diviene il morto (o l'animale-spirito, o il
dio, ecc.) a dimostrare che egli è realmente capace di un'ascensione celeste o
di una discesa infernale. Per tal via s'intravvede la possibilità di un'unica
spiegazione di tutti questi gruppi di fatti: in un certo modo, si tratta della
ripetizione periodica (cioè rinnovata in ogni seduta) della morte e della
resurrezione dello sciamano. L'estasi non è che l'esperienza concreta della
morte rituale - in altri termini: del superamento della condizione umana,
profana. E, come vedremo, lo sciamano è capace di realizzare questa «morte» con
mezzi di ogni specie, che vanno dall'uso dei narcotici e del tamburo fino alla
«possessione» da parte degli spiriti.
"Linguaggio
segreto". "Lingua degli animali"
Nel periodo
dell'iniziazione il futuro sciamano deve imparare la lingua segreta che userà
durante le sedute per comunicare con gli spiriti e gli animali-spiriti. Questa
lingua segreta l'apprende da un maestro, ovvero con mezzi propri, cioè
direttamente dagli «spiriti»: i due metodi coesistono, per
esempio, fra gli Eschimesi. Si è potuto constatare l'esistenza di un linguaggio
segreto specifico fra i Lapponi, gli Ostiachi, i Ciukci, gli Yakuti, i Tungusi.
Si vuole che durante la trance lo
sciamano tunguso comprenda il linguaggio di tutta la Natura. La lingua segreta
sciamanica è molto elaborata presso gli Eschimesi e viene usata come mezzo di
comunicazione fra gli angakut e i loro spiriti. Ogni sciamano ha un suo canto
speciale che egli intona per invocare gli spiriti. Anche quando non s'incontra
senz'altro un linguaggio segreto, se ne possono riconoscere le vestigia nelle
strofe incomprensibili che vengono ripetute durante le sedute, come, per
esempio, ne è il caso presso gli Altaici.
Questo fenomeno
non è esclusivamente nord-asiatico e artico: lo si ritrova un po' dappertutto.
Durante la seduta lo bala dei Pigmei
Semang parla con gli Chenoi (spiriti
celesti) nella loro lingua; ma pretende di aver tutto dimenticato non appena
esce dalla capanna ove si svolgono i riti. Nelle Mentawei il maestro iniziatore
soffia attraverso un bambù nell'orecchio dell'allievo per renderlo capace di
capire le voci degli spiriti. Lo sciamano batak durante le sedute usa la
«lingua degli spiriti» (Loeb) e i canti sciamanici dei Dusun (Borneo
settentrionale) sono composti in un linguaggio segreto. «Secondo la tradizione
dei Caribi il primo piai (sciamano) fu un uomo che, udendo un canto elevarsi da
una corrente, vi si immerse intrepidamente e non ne usci che dopo aver imparato
a memoria il canto delle donne-spiriti e aver ricevuto da esse gli accessori
della sua arte» (Métraux).
Assai spesso
questa lingua segreta è, di fatto, il «linguaggio degli animali» o trae origine
dall'imitazione di grida degli animali. Nell' America del Sud, durante il
periodo di iniziazione il neofita deve imparare ad imitare le voci degli
animali. Si ha lo stesso nell'America del Nord: presso i Pomo e i Menomini, per
non citare che queste tribù, gli sciamani imitano il canto degli uccelli.
Durante le sedute degli Yakuti, degli Yukaghiri, dei Ciukci, dei Goldi, degli
Eschimesi e di altri popoli ancora vengono emesse grida di animali selvaggi e
di uccelli. Castagné ci presenta il baqça
tartaro-kirghiso in atto di correre intorno alla tenda, di far dei salti e di
ruggire saltando: egli «abbaia come un cane, annusa i presenti, muggisce come
un bove, nitrisce, grida, bela come un agnello, grugnisce come un suino, tuba,
imitando con una precisione notevole le grida degli animali, il canto degli
uccelli, il rumore del loro volo, ecc. - cosa che non manca di impressionare i
presenti». La «discesa degli spiriti» spesso si manifesta in tal guisa. Presso
gli Indiani della Guiana «il silenzio è spesso interrotto dallo scoppio di
grida bizzarre e effettivamente paurose; sono dei muggiti, delle urla che
riempiono la capanna fino a farne vibrare le pareti. Questo clamore è come un
muggito ritmico che diviene a poco a poco un grugnito sordo e lontano per poi
di nuovo riprendere».
Tali grida
annunciano la presenza degli spiriti, quella espressa anche dalle imitazioni
animalesche di cui si è detto poco fa. Una quantità di parole usate durante la
seduta traggono la loro origine da grida di uccelli o di altri animali
(Lehtisalo). Come l'ha appunto notato Lehtisalo, lo sciamano per entrare in
estasi usa il tamburo e lo Jodler, e
dei testi magici vengono cantati dappertutto. «Magia» e «canto» - specie un
canto come quello degli uccelli - sono nozioni spesso espresse dallo stesso
termine. Il vocabolo germanico per la formula magica è galdr, derivante dal verbo galan
«cantare»,
termine riferito specialmente alle grida degli uccelli.
Dappertutto nel
mondo imparare il linguaggio degli animali e, per primo, quello degli uccelli,
equivale a conoscere i segreti della Natura e, pertanto, ad esser capaci di
profetizzare. La lingua degli uccelli la si apprende, in genere, mangiando
carne di serpe o di altro animale considerato magico. Questi animali possono
rivelare i segreti dell'avvenire perché vengono concepiti come il ricettacolo
delle anime dei morti o come epifanie di dèi. Impararne la lingua, imitarne le
voci, equivale a poter comunicare con l'aldilà e coi Cieli. Ritroveremo la
stessa identificazione con· un animale, specie con l'uccello, quando tratteremo
del costume degli sciamani e del volo magico. Gli uccelli sono psicopompi. Il
divenire uccello o l'esser accompagnati da un uccello esprime la capacità di
intraprendere già da vivi il viaggio estatico nel Cielo e nell'aldilà.
Imitare la voce
degli uccelli, usare questo linguaggio segreto durante la seduta è un nuovo
segno del fatto, che lo sciamano può circolare liberamente nelle tre zone
cosmiche: Inferno, Terra, Cielo, vale a dire, che egli può penetrare
impunemente là dove soltanto i morti o gli dèi hanno accesso. Come lo si è
visto nel riguardo dei morti, incarnare un animale durante la seduta significa
più un magico trasformarsi dello sciamano in quell'animale che non un suo
esserne posseduto. Una tale trasformazione, del resto, la si può anche
realizzare con altri mezzi: ad esempio, rivestendo il costume sciamanico o
coprendosi il volto con una maschera.
Ma v'è di più.
In parecchie tradizioni, l'amicizia con gli animali e la comprensione della
loro lingua rappresentano delle sindromi paradisiache. Al principio, vale a
dire nei tempi mitici, l'uomo viveva in pace con gli animali e comprendeva la
loro lingua. Solo in seguito ad una catastrofe primordiale, paragonabile alla
«caduta» della tradizione biblica, l'uomo è divenuto quel che attualmente è:
mortale, sessuato, obbligato a lavorare per nutrirsi ed in conflitto con gli
animali. Preparandosi all'estasi, e durante quest'estasi, lo sciamano abolisce
la condizione umana presente e ritrova, provvisoriamente, la situazione
iniziale. L'amicizia con gli animali, la conoscenza della loro lingua, la
trasformazione in animale, sono altrettanti segni che lo sciamano ha
reintegrato la situazione «paradisiaca» perduta all'alba dei tempi.
La ricerca dei poteri
sciamanici nell'America Settentrionale
Abbiamo già
accennato ai diversi modi con cui nell'America del Nord si conseguono i poteri
sciamanici. Secondo le tradizioni locali la scaturigine di tali poteri è
costituita sia dagli Esseri divini, sia dalle anime di antenati-sciamanici, sia
da certi animali mitici, sia, infine, da certi oggetti o da determinate zone
cosmiche. Si giunge ai poteri o spontaneamente, oppure grazie ad una ricerca
deliberata; ma nell'uno come nell'altro caso il futuro sciamano deve passare
attraverso certe prove di carattere iniziatico. Sia nell'America del Nord che
altrove il conseguimento dei poteri sciamanici fa generalmente tutt'uno con
l'acquisto di uno spirito protettore o ausiliario.
Ecco come le
cose si svolgono presso gli Shaushwap, che sono una tribù del ceppo Salish
dell'interno della Columbia britannica: «Lo sciamano viene iniziato da animali
che diverranno i suoi spiriti protettori. I riti di iniziazione, lo scopo dei
quali non è altro che l'acquisto di un aiuto sovrannaturale per quanto egli
desidera, sembrano esser gli stessi per i guerrieri e per gli sciamani. Il
giovane giunto alla pubertà prima ancora di aver toccato una donna deve
andarsene fra le montagne ove compirà determinate azioni. Egli si costruirà una
casa del sudore (sweat-house) ove
egli deve trascorrere le notti; al mattino, gli è permesso di tornare al suo
villaggio. Durante la notte egli si purifica nei vapori, canta e balla. Questa
vita egli talvolta la continua perfino per anni interi fino a che l'animale, di
cui egli desidera fare il suo spirito protettore, gli appare in sogno e gli
promette di aiutarlo. A tale apparizione il novizio cade in deliquio. «Si sente
come ebbro, incapace di rendersi conto di quel che gli succede e se sia giorno
o notte» (Come si sa, questo è segno di una autentica esperienza estatica - si
ricordi lo «spavento inesplicabile» degli aspiranti sciamani eschimesi
all'apparire dei loro spiriti ausiliari). La bestia gli dice di invocarla se
egli abbisogna di aiuto e gli comunica un canto particolare mediante il quale
può chiamarlo. Per questo ogni sciamano ha un canto suo proprio che nessun
altro ha il diritto di cantare, a meno che non si cerchi di scoprire uno
stregone. Talvolta lo spirito discende sul novizio sotto forma di folgore. Si è
visto che presso i Buriati colui che è stato colpito da folgore viene sepolto
come uno sciamano e che i suoi parenti più prossimi hanno il diritto di
divenire sciamani; perché, in un certo modo, egli è stato «scelto» dalla
divinità del Cielo (Mikhailowki). I Soyoti, i Camciadali, e varie altre
popolazioni, credono che si divenga sciamani quando, durante le tempeste, si
scatena la folgore. Uno sciamano-donna eschimese consegui i poteri dopo esser
stato colpito da una "palla di ferro"
Quando un
animale inizia il novizio gli insegna il suo linguaggio. Si racconta che uno
sciamano di Nicola Valley parlava, nei suoi incantamenti, la «lingua del coyote».
«Quando un uomo dispone di uno spirito protettore diviene invulnerabile alle
palle e alle freccie e se una palla o una freccia lo raggiunge, la sua ferita
non sanguina; il sangue cola nel suo stomaco: allora egli lo sputa fuori e si
sente bene come prima... Gli uomini possono assicurarsi diversi spiriti
protettori: gli sciamani più potenti ne hanno sempre più di uno ad aiutarli» (avremo
occasione di tornare sul valore sciamanico della «casa del sudore»).
Nel caso ora
riferito, l'ottenimento dei poteri sciamanici appare dunque essere il risultato
di una ricerca intenzionale. Anche altrove nell'America settentrionale i
candidati si ritirano in caverne montane o in luoghi solitari e si sforzano di
ottenere, mediante una intensa concentrazione, le visioni che, sole, son
decisive per una carriera sciamanica. Di solito si è tenuti a precisare quale
specie di «potere» sia desiderato; dettaglio importante, perché ci dice che si
tratta di una tecnica intesa ad assicurarsi poteri magico-religiosi in genere,
e non soltanto poteri sciamanici.
Ecco la storia
di uno sciamano Paviotso, raccolta e pubblicata da Park: a cinquant'anni, tale
sciamano aveva deciso di divenire «dottore». Egli si reca in una caverna e
prega: «La mia gente è malata, voglio salvarla, ecc.». Cerca di
addormentarsi, ma ne è impedito da strani rumori: sente dei grugniti e delle
grida di animali (orsi, leoni delle montagne, daini, ecc.). Finalmente si
addormenta e, in sogno, assiste ad una seduta di guarigione sciamanica: «essi
erano laggiù, ai piedi della montagna. Potevo udire le loro voci e i loro
canti. Poi ho sentito gemere un malato. Un dottore cantava e lo curava».
Infine, il malato muore e il candidato ode i lamenti della famiglia. La roccia
comincia a scricchiolare. «Un uomo appare da una fessura: grande e esile. Ha
nelle mani una penna d'aquila». Gli ordina di procurarsi penne
siffatte e gli insegna il modo di ottenere una guarigione. Quando, al mattino,
il candidato si desta, non trova più nessuno vicino a lui (Park).
Se un candidato
non segue le istruzioni ricevute nei sogni o i loro schemi tradizionali, è condannato
all'insuccesso (Park). In certi casi lo spirito dello sciamano morto appare nel
primo sogno del suo erede: ma nei sogni successivi sono spiriti superiori a
manifestarsi e a conferirgli il «potere». Se l'erede non
assume questo potere, si ammala. Il lettore ricorderà che abbiamo incontrato la
stessa situazione un po' dappertutto.
Le anime dei
morti vengono considerate come fonte dei poteri sciamanici presso i Paviotso,
gli Shoshoni, i Seed Eaters e, piti a Nord, presso i Lilloet e i Thompson.
Nella California del Nord questo modo di ottenere i poteri è estremamente
ricorrente. Gli sciamani Yurok sognano in genere un morto che però non sempre è
uno sciamano. Presso i Sinkyone il potere talvolta lo si riceve durante sogni
nei quali si manifestano i parenti morti. I Wintu divengono sciamani grazie a
sogni del genere, specie se in essi appaiono i propri figli morti. Presso gli
Shasta il primo segno della presenza di un potere sciamanico lo si ha dopo
sogni nei quali si manifestano la madre, il padre o un antenato morto. La
stessa tradizione la si ritrova fra gli Atsugewi, i Maidu settentrionali, i
Crow, gli Arapaho, i Grandi-Ventre, ecc. In alcune di queste tribù, ed anche
altrove, si ricercano i poteri dormendo vicino a delle tombe; talvolta (ad
esempio, presso i Tlingit) si ricorre ad un mezzo ancor più impressionante:
l'allievo trascorre la notte insieme al corpo dello sciamano morto.
Ma nell'America
del Nord esistono anche altre sorgenti di poteri sciamanici, e così pure altri
istruttori oltre le anime dei morti e gli animali custodi. Nel Gran Bacino si
parla di un «omicino verde», alto non più di due piedi, che ha
arco e freccie. Vive nelle montagne e scaglia tali freccie contro coloro che
parlano male di lui. L'«omicino verde» è lo spirito custode
dei medicine-men, di coloro che son divenuti maghi unicamente grazie ad un
aiuto sovrannaturale (Park). La concezione di un nano che trasmette i poteri o
funge da spirito custode è molto diffusa ad Ovest delle Montagne Rocciose, fra
le tribù dei Plateau Groups (Thompson) e nella California settentrionale
(Shasta, Atsugewi, Maidu settentrionali e Yuki).
Talvolta il
potere sciamanico procede direttamente dall'Essere Supremo o da altre entità
divine. Cosi, ad esempio, presso i Cahuilla della California meridionale
(Desert o Cahuilla) gli sciamani avrebbero avuto la loro potenza da Mukat, il
Creatore, facendo però da intermediari certi spiriti custodi (il gufo, la
volpe, il coyote, l'orso, ecc.) che si comportano come messaggeri del Dio agli
sciamani (Park). Presso i Mohawe e gli Yuma il potere deriva da grandi esseri
mitici che lo hanno trasmesso agli sciamani all'inizio del mondo. La
trasmissione avviene in sogno e comporta una scenografia iniziatica. Lo
sciamano Yuma assiste in sogno alle origini del mondo e rivive i tempi mitici.
L'iniziazione della società segreta sciamanica Mide' wiwin comporta anche un
ritorno ai tempi mitici degli inizi del mondo, quando il Grande Spirito rivelò
i misteri ai primi «grandi medici». Vedremo come, in questi rituali
iniziatici, sia questione d'una comunicazione tra Terra e Cielo, quale fu
stabilita al momento della creazione del mondo. Presso i Manicopa i
sogni iniziatici riflettono uno schema tradizionale: uno spirito prende l'anima
del futuro sciamano e la porta di montagna in montagna, insegnandogli via via
canti e metodi di cura. Presso i Walapai il viaggio sotto la guida di spiriti
costituisce una caratteristica essenziale dei sogni sciamanici (Park).
Come si è già
ripetutamente veduto, l'istruzione degli sciamani spesso ha luogo durante il
sogno. È in sogno che si raggiunge la via sacra per eccellenza e che si
ristabiliscono i rapporti diretti con gli dèi, con gli spiriti e con le anime
degli antenati. È sempre in sogno che si abolisce il tempo storico e si ritrova
il tempo mitico - il che permette al futuro sciamano di assistere agli inizi
del mondo e pertanto di trasformarsi in un contemporaneo sia della cosmogonia,
sia delle rivelazioni mitiche primordiali. Talvolta i sogni iniziatici sono
involontari e si manifestano fin dall'infanzia: cosi, ad esempio, presso le
tribù del Gran Bacino (cfr. Park, p. 110). Pur senza seguire una rigida
scenografia, i sogni presentano un carattere stereotipo: si sogna di spiriti e
di antenati, o se ne ode la voce (canti e istruzione). È sempre in sogno che si
ricevono le regole iniziatiche (circa il regime, i tabù, ecc.) e che si viene a
sapere degli oggetti di cui si avrà bisogno nelle cure sciamaniche. Presso gli
Okanagon del Sud il futuro sciamano non vede gli spiriti custodi, egli ode
soltanto i loro canti e le loro istruzioni. Anche presso i Maidu del Nord-Est
si diviene sciamani sognando degli spiriti. Benché lo sciamanismo sia
ereditario, non si è qualificati ad esso se prima non si son visti, in sogno,
gli spiriti; i quali, del resto, in un certo modo vengono ereditati dall'una
generazione all'altra. Gli spiriti talvolta si mostrano sotto forma di animali
(e in tal caso lo sciamano non deve mangiare carne dell'animale
corrispondente), ma vivono anche, senza avere una forma precisa, nelle roccie,
nei laghi ecc.
La credenza che
gli animali-spiriti o i fenomeni naturali siano sorgenti di poteri sciamanici è
molto diffusa in tutta l'America del Nord. Presso i Salish dell'interno della
Columbia britannica son pochi gli sciamani che ereditano gli spiriti custodi
dei loro genitori. Quasi tutti gli animali e un numero considerevole di oggetti
possono divenire degli spiriti: tutto ciò che ha una relazione qualsiasi con la
morte (per es. le tombe, le ossa, i denti, ecc.) e qualunque fenomeno naturale
(il cielo azzurro, l'Est e l'Ovest, ecc.). Però, come in molti altri casi, qui
abbiamo a che fare con una esperienza magico-religiosa che va oltre la sfera
specifica dello sciamanismo. Difatti anche i guerrieri hanno spiriti guardiani
nelle loro armature e nelle fiere; i cacciatori traggono i loro spiriti
guardiani dall'acqua. dalle montagne e dalla selvaggina, e così via.
Al dire di certi
sciamani Paviotso il potere vien loro dallo «Spirito della Notte».
Questo spirito «si trova dappertutto. È senza nome. Per lui non esiste un nome».
L'Aquila e il Gufo son soltanto messaggeri che trasmettono l'istruzione da
parte dello Spirito della Notte. I water-babies
ed anche altri animali possono egualmente essere suoi messaggeri. «Quando lo
Spirito della Notte dà il potere sciamanico (power for doctoring) egli dice allo sciamano di chieder l'aiuto dei
water-babies, dell'aquila, del gufo,
del daino, dell'antilope, dell'orso o di un altro animale o uccello. Il coyote
per i Paviotso non costituisce mai una sorgente di potere, benché abbia una
parte preminente nei loro racconti come personaggio (Park). Gli spiriti che
conferiscono i poteri sono invisibili: solo gli sciamani possono vederli. Lo
«Spirito della Notte» è probabilmente una designazione
mitologica tardiva per l'Essere supremo, che divenuto, in un certo modo, deus
otiosus, aiuta gli esseri umani per mezzo di "messaggeri".
Occorre
aggiungere che le «pene» (pains)
vengono concepite qui tanto come sorgenti del potere che come causa delle
malattie. Le «pene» sembrano esser animate ed aver talvolta perfino una certa
personalità. Esse non hanno una forma umana, eppure son considerate come realtà
concrete. Presso gli Hupe, ad esempio, ne esistono di tutti i colori: ve ne è
una che rassomiglia ad un pezzo di carne cruda, altre sono simili a granchi di
mare, a piccoli daini, a punte di freccia, ecc. (Park). La credenza nelle
«pene» è generale fra le tribù della California settentrionale, ma è
sconosciuta o rara nelle altre regioni dell'America del Nord.
I damagomi degli Achumawi sono ad un tempo
spiriti custodi e «pene». Una donna sciamano, Old Dixie, ha
raccontato come si manifestò la sua vocazione: essa era già sposata quando un
giorno «il mio primo damagomi venne a cercarmi. L'ho ancora. È una piccola cosa
nera che si riesce appena a vedere. Quando venne la prima volta fece un gran
rumore. Fu di notte. Mi disse che avrei dovuto andare a vederlo nei monti. Vi
sono andata. Ciò mi faceva assai paura. Quasi non osavo. Poi ne ebbi di altri.
Li ho catturati». Erano damagomi già
appartenuti ad altri sciamani che erano stati mandati per avvelenare la gente o
per altre missioni sciamaniche. Old Dixie inviava uno dei suoi damagomi e li catturava. Per tal via era
giunta a possederne più di cinquanta, mentre un giovane sciamano non ne ha che
tre o quattro (J. de Angulo). Gli sciamani li nutrono col sangue che succhiano
nel praticare le cure. Secondo de Angulo questi damagomi sono ad un tempo reali (in carne ed ossa) e fantastici.
Quando lo sciamano vuole avvelenare qualcuno gli invia un damagomi: «Va a trovare il tale. Entra in lui. Fallo ammalare. Non
ucciderlo subito. Fallo morire in un mese».
Come l'abbiamo
già visto a proposito dei Salish, ogni animale od oggetto cosmico può divenire
una sorgente del potere o uno spirito custode. Presso gli Indiani Thompson, ad
esempio, l'acqua vien considerata come lo spirito custode degli sciamani, dei
guerrieri, dei cacciatori e dei pescatori; il sole, la folgore o l'uccello
della folgore, le cime dei monti, l'orso, il lupo, l'aquila e il corvo sono
spiriti custodi degli sciamani e dei guerrieri. Altri spiriti custodi sono
comuni agli sciamani e ai cacciatori, ovvero agli sciamani e ai pescatori.
Esistono anche spiriti custodi riservati esclusivamente agli sciamani: la
notte, la bruma, il cielo azzurro, l'Est, l'Ovest, la donna, la giovinetta
adolescente, il bambino, le mani e i piedi dell'uomo, gli organi sessuali
dell'uomo e della donna, il pipistrello, il paese delle anime, i fantasmi, le
tombe, le ossa, i denti e i capelli dei morti, ecc. Ma con tutto ciò la lista
delle «sorgenti dei poteri sciamanici» è ben lungi dall'esser esaurita (cfr.
Park).
Si vede dunque
che una qualsiasi entità spirituale, animale o fisica può divenire una sorgente
di potere o uno spirito custode sia per lo sciamano che per ogni altro
individuo. Ciò ci sembra assai importante per il problema delle origini dei
poteri sciamanici: in nessun caso la loro peculiare qualità di «poteri
sciamanici» è dovuta alla natura delle corrispondenti sorgenti (che spesso non
son diverse per tutti gli altri poteri magico-religiosi) né al fatto che
siffatti poteri appaiono incarnati da certi animali-custodi. Ogni indiano può ottenere
un suo spirito custode se è pronto a compiere un certo sforzo di volontà e di
concentrazione. D'altronde anche l'iniziazione di tribù si conclude con
l'acquisto di uno spirito custode. Da questo punto di vista la ricerca dei
poteri sciamanici rientra nella ricerca delle potenze magico-religiose in
genere. Come abbiamo già visto in un precedente capitolo, gli sciamani non si
differenziano dagli altri membri della collettività per la loro ricerca del
sacro - tale ricerca corrispondendo ad una tendenza normale e universale di
ogni essere umano - bensì per la loro capacità di esperienza estatica che, per
un buon periodo, si lega ad una elezione.
Possiamo perciò
concludere che gli spiriti custodi e gli animali mitici ausiliari non sono una
caratteristica del solo sciamanismo. Questi spiriti protettori e ausiliari si
trovano un po' dappertutto per il cosmo e sono accessibili ad ogni individuo
che, deciso ad assicurarseli, passa attraverso certe determinate prove. Ciò
vuol dire che l'uomo arcaico sa identificare dappertutto nel cosmo una sorgente
del sacro magico-religioso, che, conformemente alla dialettica del sacro, un
qualsiasi frammento del cosmo può costituirgli una ierofania. Ciò che distingue
uno sciamano da un altro individuo del clan non è il possesso di un potere o di
uno spirito custode, ma è l'esperienza estatica. Ora, si è già visto e avremo
meglio occasione di vedere che gli spiriti custodi o ausiliari non sono gli
autori diretti di questa esperienza estatica. Essi sono soltanto i messaggeri di
un essere divino o gli ausiliari in una esperienza che implica ben altre
presenze che la loro.
D'altra parte
sappiamo che il «potere» spesso vien conferito dalle anime degli antenati
sciamani (i quali, a loro volta, l'hanno ricevuto all'alba dei tempi, nei tempi
mitici), da personaggi divini o semi-divini, talvolta da un Essere supremo.
Anche qui si ha l'impressione che gli spiriti custodi e ausiliari non siano che
strumenti indispensabili all'attività sciamanica, quasi nuovi organi che lo
sciamano riceve in seguito alla sua iniziazione per poter meglio orizzontarsi
nel nuovo universo magico-religioso che ormai gli è dischiuso. Nei capitoli che
seguiranno la parte degli spiriti custodi e ausiliari quali «organi mistici»
verrà ancor più distintamente in luce.
Come in ogni
altro luogo, cosi anche nell' America del Nord ci si trova ad avere questi
spiriti custodi e ausiliari sia per via spontanea, sia volontariamente. Si è
voluto differenziare l'ìniziazione degli sciamani nord-americani da quella
degli sciamani siberiani per il fatto che nei primi si avrebbe sempre una
ricerca voluta, mentre in Asia la vocazione sciamanica verrebbe in un certo
qual modo imposta dagli spiriti. Utilizzando i risultati di Ruth Benedict
Bogoras riassume come segue il modo con cui nell'America del Nord si conseguono
i poteri sciamanici: per entrare in contatto con gli spiriti o per ottenere gli
spiriti custodi, l'aspirante si ritira in solitudine e si sottomette ad un
rigoroso sistema di autotortura. Quando gli spiriti si manifestano sotto forma
animale, l'aspirante è tenuto a dar loro come cibo la propria carne (Bogoras).
Ma l'offerta di se stessi sotto specie di cibo agli animali-spiriti, realizzata
con uno spezzettamento del proprio corpo (come ad esempio presso gli
Assiniboin), non è che una formula parallela al rito estatico dello
smembramento del corpo dell'allievo, rito che abbiamo già analizzato in un
precedente capitolo, e che ricalca uno' schema iniziatico (morte e
resurrezione). Il tema lo si ritrova, del resto, anche in altre regioni - ad
esempio in Australia e nel Tibet (del rito tantrico-bon tchod) - e va considerato come un surrogato o una formula parallela
a quella dello smembramento estatico del candidato da parte di spiriti
demoniaci; là dove l'esperienza estatica spontanea dello smembramento del corpo
e del rinnovamento degli organi non è più conosciuta o si è fatta rara essa
viene talvolta sostituita dall'offerta del proprio corpo agli animali-spiriti
(come presso gli Assiniboin) o agli spiriti demoniaci (Tibet). Presso le tribù
australiane Lunga e Djara colui che vuoI divenire un medicine-man entra in uno stagno che si pensa sia abitato da
serpenti mostruosi. Questi lo «uccidono» e grazie a questa morte iniziatica
l'aspirante consegue i poteri magici.
Se è vero che la
«ricerca» è nota predominante dello sciamanismo nord-americano, essa però anche
qui è lungi dall'essere il metodo esclusivo per ottenere dei poteri. Abbiamo
già riferito diversi esempi di vocazione spontanea (cfr. ad esempio, più sopra,
il caso di Old Dixie), ma ve ne sono molti altri ancora. Ci si ricordi della
trasmissione ereditaria dei poteri sciamanici, ove, in ultima analisi, il tutto
vien deciso dagli spiriti e dalle anime degli antenati. Ci si ricordi anche dei
sogni premonitori dei futuri sciamani, sogni che, secondo Park, provocherebbero
malattie mortali se non vengono compresi e seguiti religiosamente. Ad
interpretarli si chiama un vecchio sciamano che ordina al malato di seguire le
ingiunzioni degli spiriti che hanno provocato tali sogni. «In genere una
persona acconsente malvolentieri a divenire sciamano, e non si decide ad
assumere i poteri e a seguire le ingiunzioni dello spirito che quando gli altri
sciamani lo assicurano che, altrimenti, andrà incontro alla morte». Ma non
diversamente vanno le cose presso gli sciamani siberiani, centroasiatici e di
altre regioni ancora. Cotesta resistenza all'«elezione divina» si
spiega, come dicemmo, con l'attitudine ambivalente che l'uomo ha di fronte al
sacro.
Aggiungiamo che,
benché più di rado, anche in Asia s'incontra la ricerca voluta dei poteri
sciamanici. Nell' America del Nord e specialmente nella California meridionale
il conseguimento dei poteri sciamanici si associa spesso alle cerimonie di
iniziazione. Presso i Kawaiisu, i Luisefio, i juanefio e i Gabrielino, e così
pure presso i Dieguefio, i Cocopa e gli Akwa'ala, si attende la visione dell'
animale protettore che seguirebbe all'intossicazione provocata da una certa
pianta (jimson weed). Qui si tratta
propriamente più di un rito di iniziazione ad una società segreta che non di
una esperienza sciamanica. Le autotorture degli aspiranti cui accenna Bogoras
appartengono più alle prove terribili che un candidato deve superare per poter
far parte di una società segreta che non allo sciamanismo vero e proprio,
benché nell'America del Nord sia sempre difficile tracciare limiti netti fra
queste due forme religiose.
Capitolo 4: L'iniziazione sciamanica
L'iniziazione presso i
Tungusi e i Manciù
L'elezione
estatica è generalmente seguita, tanto nell'Asia settentrionale che altrove, da
un periodo di istruzione durante il quale il neofita è adeguatamente iniziato
da un vecchio maestro. È ora che il futuro sciamano è tenuto ad imparare e a
padroneggiare le tecniche mistiche e ad assimilare la tradizione religiosa e
mitologica della tribù. Spesso, ma non sempre, il periodo di preparazione è
coronato da una serie di cerimonie abitualmente definite iniziazione del nuovo
sciamano. Ma come lo rileva giustamente Shirokogorov a proposito dei Tungusi e
dei Manciù, qui non può trattarsi di iniziazione vera e propria, giacché i
candidati sono effettivamente «iniziati» assai prima di esser formalmente
riconosciuti nella loro qualità dai maestri-sciamani e dalla comunità.
D'altronde, lo stesso si verifica un pc' dappertutto in Siberia e nell'Asia
Centrale: anche quando si tratta di una cerimonia pubblica (come ad esempio
presso i Buriati), questa non fa che confermare e convalidare la vela
iniziazione estatica e segreta, che, come si è visto, avviene ad opera degli
spiriti (malattie, sogni, ecc.) ed è condotta a termine nel periodo di
istruzione trascorso presso un maestro sciamano.
Però esiste
anche un riconoscimento formale da parte dei maestri-sciamani. Presso i Tungusi
della Transbaikalia, un bambino vien prescelto ed educato allo scopo di far di
lui uno sciamano. Dopo una certa preparazione, egli affronta le prime prove:
deve interpretare i sogni, dimostrare le sue facoltà divinatorie, ecc. Il punto
più drammatico è il seguente: il candidato, in estasi, descrive con precisione
perfetta gli animali che gli saranno inviati dagli spiriti a che con la loro
pelle si faccia un costume. Molto tempo dopo, quando tali animali sono stati
cacciati e il costume è già confezionato, ha luogo una nuova riunione: si
sacrifica una renna allo sciamano morto, il candidato riveste il costume e, in
«grande seduta», dà saggio di arte sciamanica (Shirokogorov).
Presso i Tungusi
della Manduria le cose vanno un po' diversamente. Il fanciullo vien sì scelto
ed istruito, ma sono le possibilità estatiche a decidere della sua carriera
(vedi più su). Dopo il periodo di preparazione cui abbiamo già accennato viene
la cerimonia propriamente detta dell'«iniziazione».
Si drizzano due turo (alberi a cui sono stati tagliati i
rami laterali, conservando però quelli della cima) davanti ad una abitazione.
Questi due turo sono collegati da
traverse di circa 50-100 centimetri di lunghezza, in numero dispari, e cioè o
cinque, o sette, o nove. Si drizza un terzo turo
verso il sud ad una distanza di qualche metro dagli altri e lo si collega al turo ad est con una cordicella o una
sottile correggia tsiiim, «corda»)
ornata, ogni trenta centimetri, da nastri e da piume di diversi uccelli. Si può
usare della seta di Cina rossa o dei tendini tinti in rosso. Questo è il
«cammino» lungo il quale si sposteranno gli spiriti. Attraverso la cordicella
si fa passare un anello di legno che può scorrere dall'un turo all'altro. Nel
momento in cui il maestro l'invia, lo spirito si trova nel pieno dell'anello (iuldu). Tre figure antropomorfiche di
legno (an'nakan) abbastanza larghe
(30 cm.) vengono poste vicino ad ogni turo.
«Il candidato si
siede fra i due turo e si mette a suonare il tamburo. Il vecchio sciamano evoca
gli spiriti ad uno ad uno e, mediante l'anello, li invia al candidato. Volta
per volta, prima di spedire un nuovo spirito, il maestro riprende l'anello: se
cosi non facesse, gli spiriti penetrerebbero nel candidato in modo tale, da non
uscirne più ... Nel punto in cui è posseduto dagli spiriti, il candidato viene
interrogato dagli anziani e deve raccontare tutta la storia (la
"biografia") dello spirito, in ogni dettaglio, dicendo soprattutto
quel che egli era in precedenza, dove viveva, che faceva, con quale sciamano si
trovava e quando questi è morto ... ; tutto ciò, onde convincere gli spettatori
che lo spirito visita davvero il candidato... Ogni sera, dopo la dimostrazione,
lo sciamano si arrampica sulla traversa più alta e vi resta un certo tempo. Il
suo costume viene sospeso alle traverse del turo»
(Shirokogorov). La cerimonia può durare tre, cinque, sette o nove giorni. Se il
candidato riesce, si sacrifica agli spiriti del clan.
Pel momento,
prescindiamo dalla parte degli «spiriti» nella consacrazione del futuro
sciamano: in effetti, lo sciamanismo tunguso sembra esser dominato dagli
spiriti-guida. Limitiamoci invece a mettere in rilievo due dettagli: 1) la
corda chiamata «cammino»; 2) il rito della salita. Vedremo
subito quale importanza abbiano questi riti: la corda è simbolo del «cammino»
che collega la Terra al Cielo benché fra i Tungusi attuali il «cammino» serva piuttosto
ad assicurare la comunicazione con gli spiriti; quanto al salire sull'albero,
esso in origine deve aver significato l'ascensione dello sciamano in cielo. Se,
come è probabile, ai Tungusi questi riti iniziatici son venuti dai Buriati, può
darsi che essi li abbiano adattati all'ideologia loro propria svuotandoli del
loro primitivo significato; questa perdita di significato potrebbe esser
avvenuta assai recentemente, per l'influenza esercitata da altre ideologie (ad
esempio, dal lamaismo). Checché ne sia, questo rito sciamanico, anche
supponendo che sia stato preso in prestito da un'altra area, rientrava in un
certo modo nella concezione generale dello sciamanismo tunguso; perché, come si
è già visto e come lo vedremo ancor meglio in seguito, i Tungusi dividono con
tutte le altre popolazioni nordasiatiche e artiche la credenza nell'ascensione
celeste dello sciamano.
Presso i Manciù
la cerimonia dell'iniziazione pubblica comportava, in tempi passati, il passar
del candidato su dei carboni ardenti: se l'allievo disponeva davvero degli
«spiriti» che pretendeva possedere, poteva camminare impunemente sul fuoco.
Oggi tale cerimonia è divenuta abbastanza rara: si afferma che i poteri degli
sciamani si sono indeboliti (Shirokogorov), il che corrisponde alla concezione
generale nord-asiatica dell'attuale decadenza dello sciamanismo.
I Manciù
conoscevano ancora un'altra prova iniziatica: d'inverno, si operavano nove
aperture nel ghiaccio; il candidato era tenuto ad immergersi per una di queste
aperture e ad uscire per la seconda nuotando sotto il ghiaccio, e cosi via,
fino alla nona apertura. I Manciù pretendono che l'eccessivo rigore di questa
prova è dovuto ad un'influenza cinese (Shirokogorov). In effetti, essa
rassomiglia a certe prove yogico-tantriche tibetane, che consistono
nell'asciugare, durante una notte invernale e in piena neve, col corpo nudo, un
certo numero di panni bagnati. L'allievo-yogi in tal modo dà prova del «calore
psichico» che egli è capace di produrre nel suo stesso corpo. Ci si ricorderà
che presso gli Eschimesi una analoga prova di resistenza al freddo vien
considerata come segno certo di elezione sciamanica. In effetti, produrre del
calore a volontà è uno dei prestigi essenziali del mago e del medicine-man primitivi.
L'iniziazione degli
Yakuti, dei Samoiedi e degli Ostiachi
Circa le
cerimonie iniziatiche degli Yakuti, dei Samoiedi e degli Ostiachi disponiamo
soltanto di informazioni precarie e di vecchia data. È assai probabile che le
descrizioni che ci sono state date siano superficiali e approssimative, perché
gli osservatori e gli etnografi del XIX secolo vollero spesso vedere nello
sciamanismo un'opera demoniaca; per essi il futuro sciamano non poteva essere
che un individuo che si metteva a disposizione del «diavolo». Ecco come Pripuzov
ci presenta la cerimonia iniziatica in uso presso gli Yakuti: dopo che
l'elezione da parte degli spiriti è avvenuta (vedi più su), il vecchio sciamano
conduce il discepolo su di una collina o in una pianura, gli consegna il
costume sciamanico, l'investe del tamburo e del bastone e fa mettere alla sua
destra nove giovani casti e alla sua sinistra nove vergini. Poi, indossato il
proprio costume, va dietro il neofita e gli fa ripetere certe formule.
Anzitutto gli domanda di rinunciare a Dio e a tutto ciò che egli ama e gli fa
promettere di consacrare tutta la sua vita al diavolo, che a tal prezzo
esaudirà ogni suo voto. Poi il maestro-sciamano gli indica i luoghi ove risiede
il diavolo, le malattie che questo guarisce e il modo di placarlo. Infine il
candidato uccide l'animale destinato al sacrificio; il sangue deve bagnare il
suo costume mentre la carne sarà consumata dai partecipanti (qui siamo
probabilmente di fronte ad un'iniziazione di «sciamani neri»,
votati esclusivamente agli spiriti ed alle divinità infernali, quali si
incontrano anche preso so le altre popolazioni siberiane).
Secondo le
informazioni raccolte da Ksenofontov presso gli sciamani yakuti, il maestro
prende seco l'anima del novizio in un lungo viaggio estatico. Essi cominciano
con lo scalare una montagna. Di lassù, il maestro mostra al novizio le
biforcazioni del cammino donde altri sentieri salgono verso i crinali: è là che
risiedono le malattie che debilitano gli uomini. Il maestro conduce quindi il
discepolo in una casa. I vi i due indossano i costumi sciamanici e fanno dello
sciamanismo insieme. Il maestro rivela al discepolo come si riconoscono e si
guariscono le malattie che attaccano le diverse parti del corpo. Ogni volta che
nomina una parte del corpo gli sputa nella bocca, ed il discepolo deve
inghiottire lo sputo, affinché possa riconoscere «i cammini dei malanni
dell'Inferno». Finalmente, lo sciamano conduce il suo discepolo nel
mondo superiore, dagli spiriti celesti. Lo sciamano dispone ormai d'un «corpo
consacrato» e può esercitare la sua arte..
Secondo
Tretjakov, i Samoiedi e gli Ostiachi della regione di Turushansk procedono
all'iniziazione dei nuovi sciamani nel modo seguente: il candidato si volge ad
Occidente mentre il maestro prega lo Spirito delle tenebre di aiutare il
novizio e di concedergli una guida. Poi intona un inno a questo stesso Spirito
delle tenebre, inno che il candidato, a sua volta, ripete. Infine hanno luogo
le prove alle quali lo Spirito sottopone il novizio, domandandogli la moglie, i
figli, i beni, ecc.
Presso i Goldi
l'iniziazione, come presso i Tungusi e i Buriati, ha luogo pubblicamente: la
famiglia del candidato e numerosi invitati vi prendono parte. Si canta e si
balla (ci debbono essere almeno nove danzatori) e si sacrificano nove maiali;
gli sciamani bevono il loro sangue, cadono in estasi e si danno a lunghe
esibizioni dell'arte loro. La festa dura diversi giorni e, in un certo modo, si
trasforma in un divertimento pubblico.
È chiaro che un tale
avvenimento finisce con l'interessare l'intera tribù e che le spese relative
non possono esser sempre sostenute dalla sola famiglia dell'iniziando. Da tale
punto di vista, l'iniziazione ha una parte importante nella sociologia dello
sciamanismo.
L'iniziazione presso i Buriati
La cerimonia iniziatica
più complessa meglio conosciuta soprattutto grazie a Changalov e al «Manuale»
pubblicato da Pozdneiev e tradotto da Partanen - è quella dei Buriati. Si
tratta di un manoscritto trovato da Pozdeyev nel 1879 in un villaggio buriate e
da lui pubblicato nella sua Chrestomathie
mongole. Il testo è redatto in mongolo letterario, con traccie di buriate
moderno. L'autore sembra esser stato un Buriate mezzo lamaista.
Disgraziatamente questo documento non riferisce che il lato esteriore del
rituale.
Anche qui la
vera iniziazione precede la consacrazione pubblica del nuovo sciamano. Dopo le
prime esperienze estatiche (sogni, visioni, dialoghi con spiriti, ecc.), per
lunghi anni l'allievo si prepara nella solitudine, istruito da vecchi maestri e
specialmente da chi diverrà il suo iniziatore e che assumerà il nome di «sciamano-padre».
Durante tutto questo periodo egli esercita l'arte sciamanica, invoca gli dèi e
gli spiriti, impara i segreti del mestiere. Anche presso i Buriati 1'«iniziazione»
è più una dimostrazione pubblica delle capacità mistiche già acquisite dal
candidato, seguita dalla consacrazione impartita dal maestro, che non una vera
rivelazione dei misteri.
Fissata che sia
la data della, consacrazione, ha luogo una cerimonia purificatoria, che in via
di principio dovrebbe ripetersi da tre a nove volte, ma che in pratica ci si
accontenta di celebrare due volte soltanto. Lo «sciamano-padre» e nove giovani,
chiamati suoi «figli», vanno a prendere acqua da tre
sorgenti e offrono libagioni di tarasun
agli spiriti di tali sorgenti. Al ritorno, dei giovani alberi di betulla
vengono divelti e trasportati nella casa. Si fa bollire l'acqua e, per
purificarla, si getta nella marmitta timo selvatico, ginepro e scorza di abete
con l'aggiunta di alcuni peli tagliati dall'orecchio di un capro. Poi l'animale
viene ucciso facendo sì che alcune goccie del suo sangue cadano nella marmitta.
La carne è rimessa alle donne, a che la preparino. Dopo aver proceduto alla
divinazione mediante una spalla del montone, lo «sciamano-padre»
invoca gli antenati sciamani del candidato e offre loro vino e tarasun. Bagnata nella marmitta una
scopa fatta con foglie di betulla, con essa egli tocca il dorso dell'allievo. I
«figli dello sciamano» ripetono a loro volta questo gesto rituale, mentre il
«padre» dichiara: «Quando un povero avrà bisogno di te, non chiedergli molto,
prendi quel che ti dà. Pensa ai poveri, aiutali e prega Dio di proteggerli
contro gli spiriti malvagi e i loro poteri.
«Se
un ricco e un povero ti chiamano nello stesso tempo, va prima dal povero e poi
dal ricco». Harva descrive questo rito di purificazione dopo
l'iniziazione propriamente detta. Come subito vedremo, un rito analogo ha
effettivamente luogo subito dopo l'ascesa cerimoniale degli alberi di betulla.
È del resto probabile che la scenografia iniziatica sia molto mutata col tempo;
esistono anche differenze notevoli dall'una tribù all'altra. L'allievo promette
di osservare queste norme e ripete la preghiera pronunciata dal maestro. Dopo
l'abluzione vengono di nuovo offerte libagioni di tarasun agli spiriti custodi, col che la cerimonia preparatoria ha
termine. Questa purificazione a mezzo dell'acqua è obbligatoria per gli
sciamani, che debbono compierla almeno una volta all'anno se non pure ogni
mese, ad ogni luna nuova. Inoltre lo sciamano si purifica in questa stessa
guisa ogni volta che si contamina; se la contaminazione è particolarmente
grave, per la purificazione si usa anche il sangue.
Qualche tempo
dopo la purificazione ha luogo la cerimonia della prima consacrazione, kharagii-khulkhii; alle spese che essa comporta contribuisce tutta la
comunità. Le offerte vengono raccolte dallo sciamano e da nove coadiutori (i
«figli») che se ne vanno in processione, a cavallo, dall'una capanna all'altra.
In genere le offerte consistono in fazzoletti e nastri, di rado in danaro.
Vengono anche comprate tazze di legno, campanelle per i bastoni a testa di
cavallo (horse-sticks), seta, vino,
ecc. Nella regione di Balagansk il candidato, lo «sciamano padre» e i novi
«figli dello sciamano» si ritirano in una tenda e digiunano per nove giorni,
vivendo solo di tè e di farina bollita. Intorno alla tenda vien disposta, in
triplice cerchio, una corda fatta di crine di cavallo alla quale sono attaccate
piccole pelli di animali.
Alla vigilia della
cerimonia dei giovani, sotto la direzione dello sciamano, vanno a tagliare una
quantità sufficiente di alberi di betulla saldi e dritti. Essi sono scelti
nella foresta ove sono sepolti gli abitanti del villaggio, e per placare gli
spiriti della foresta vengono fatte delle offerte di carne di montone e di
tarasun. Nella mattina del giorno destinato alla festa degli alberi vengono
disposti in modo adeguato: anzitutto si fissa nella yurta una robusta betulla,
con le radici nel focolare e con la cima uscente dall'orificio superiore (buco
del fumo). Questa betulla vien chiamata udesbi
burkhan, cioè «il custode della porta» (o «dio portinaio»),
perché apre allo sciamano la soglia del Cielo. Resterà sempre nella tenda,
servendo da contrassegno per ogni dimora da sciamano.
Le altre betulle
vengono piantate lungi dalla yurta, là dove avrà luogo la cerimonia di
iniziazione, in un certo ordine: 1) una betulla, sotto la quale si mettono tarasun ed altre offerte, e ai cui rami
vengono legati nastri rossi e gialli se si tratta di uno «sciamano nero»,
e bianchi e azzurri nel caso di uno «sciamano bianco», di tutti e quattro
i colori se il nuovo sciamano intende servire spiriti di ogni categoria, e
buoni e cattivi; 2) un'altra betulla alla quale si appendono una campana e la
pelle di un cavallo sacrificato; 3) un terzo albero, solido e ben piantato, sul
quale il neofita dovrà arrampicarsi. Queste tre betulle, di solito divelte
insieme alle radici, son chiamate «pilastri» (sarga); 4) nove betulle, a gruppi di tre, legate insieme da una
corda di crine di cavallo bianco alla quale sono attaccati nastri di vari
colori disposti in un certo ordine: bianchi, azzurri, rossi, gialli (questi
colori stanno forse a significare i diversi piani celesti); su queste betulle
saranno esposte le pelli dei nove animali sacrificati, insieme a dei cibi; 5)
nove pali ai quali vengono legati gli animali destinati al sacrificio; 6) sei
grossi alberi di betulla ben ordinati ai quali poi verranno sospese le ossa
degli animali sacrificati, avvolte nella paglia. Il testo tradotto da Partanen
fornisce una quantità di dettagli circa le betulle e i pali rituali. «L'albero
situato a nord si chiama Albero-Madre. Alla sua cima è sospeso, con nastri di
seta o di cotone, un nido d'uccelli nel quale sono poste, su del cotone o della
lana bianca, nove uova ed una luna fatta con un pezzo di velluto bianco
incollato su un tondo di scorza di betulla... Il grande albero del sud si
chiama Albero-Padre. Alla sua cima (è sospeso un pezzo) di scorza ricoperto di
velluto rosso che si chiama Sole». «A nord dell'Albero-Madre, accanto alla
yurta, si piantano sette betulle; su ciascuno dei quattro angoli: della yurta
si mettono quattro alberi ed alla loro base si piazza un gradino per bruciarvi
(a mo' d'incenso) ginepro e timo. Questo si chiama Scala (sta) o Gradino (geskigiir) ». Dalla betulla
principale, che si trova all'interno della yurta, due nastri, rosso l'uno e
turchino l'altro, vanno a tutti gli altri alberi disposti all'esterno: è il
simbolo dell'arcobaleno», della via seguendo la quale
dominio degli spiriti, il Cielo.
Una volta
terminati tutti questi preparativi, il neofita e i «figli dello sciamano»,
tutti vestiti di bianco, procedono alla consacrazione degli istrumenti
sciamanici: si sacrifica un montone in onore al Signore e alla Signora del
bastone a testa di cavallo e si offre del tarasun,
Talvolta s'intride il bastone col sangue dell'animale sacrificato: a partire da
tale momento il bastone a testa di cavallo diviene animato e si trasforma in un
vero cavallo.
Dopo questa
consacrazione degli strumenti sciamanici comincia una lunga cerimonia
consistente in un'offerta di tarasun alle divinità tutelari - i Khan
occidentali e i loro nove figli - e agli antenati dello «sciamano-padre»,
ad alcuni celebri sciamani morti, ai burkhan
e ad altre divinità minori. Il «padre-sciamano» rivolge nuovamente una
preghiera ai diversi dèi e spiriti e il candidato ne ripete le parole; secondo
certe tradizioni, questi impugna una spada e, cosi armato, si arrampica sulla
betulla che si trova all'interno della yurta, ne raggiunge la cima e, uscendo
dall'apertura destinata al fumo, grida per invocare l'aiuto degli dèi. Nel
frattempo le persone e gli oggetti che si trovano nella yurta vengono
continuamente purificati. Dopo di che quattro «figli dello sciamano» portano il
candidato fuori della yurta su di un tappeto di feltro, cantando.
Tutto il gruppo,
con alla testa il «padre-sciamano» seguito dal candidato e dai nove «figli»,
dai genitori e dal pubblico, si dirige verso il posto ove si trova la fila
delle betulle. Il corteo si arresta in un dato punto, vicino ad una betulla; si
sacrifica un capro e il candidato, a dorso nudo, viene unto col sangue della
bestia alla testa, agli occhi, alle orecchie, mentre gli altri sciamani battono
il tamburo. I nove «figli» immergono le loro scope nell'acqua, battono con esse
il dorso nudo del candidato e sciamanizzano.
Vengono anche
sacrificati nove animali, se non di più, e mentre si prepara la loro carne ha
luogo il rituale dell'ascensione in cielo. Il «padre-sciamano» monta su di una
delle betulle e pratica nove incisioni sul tronco, verso la cima. Scende e si
siede su di un tappeto che i suoi «figli» han disposto sotto l'albero. A sua
volta il candidato vi monta, seguito dagli altri sciamani. Mentre si
arrampicano, cadono in estasi. Presso i Buriati di Balagansk il candidato,
seduto su di un tappeto di feltro, vien portato nove volte intorno alle
betulle: sale su ciascuna di esse e fa nove incisioni sui tronchi, verso la
cima. Mentre si trova in alto, sciamanizza: giù, lo «sciamano-padre»
sciamanizza anche lui, facendo il giro degli alberi. Secondo Potanin, le nove
betulle vengono piantate l'una vicino all'altra; il candidato trasportato sul tappeto
salta davanti l'ultima, si arrampica fino alla cima ripetendo lo stesso rito
per ciascuno dei nove alberi: questi, al pari delle nove incisioni,
simbolizzerebbero i nove cieli.
Dopo di che il
cibo vien preparato e, dopo aver fatte delle offerte agli dèi (gettando pezzi
di carne nel fuoco e in aria), il banchetto comincia. Dopo di ciò lo sciamano e
i suoi «figli» si ritirano nella yurta, ma gli invitati restano a lungo a
festeggiare. Le ossa degli animali vengono sospese, avvolte di paglia, alle
nove betulle.
Anticamente ci
sarebbero state diverse iniziazioni: nove secondo Changalov e Sandchejev,
cinque secondo Petri (Harva). Secondo il testo pubblicato da Pozndeiev, dopo
tre anni e dopo altri sei anni dovrebbero aver luogo una seconda e una terza
iniziazione (Partanen). Cerimonie simili sono state accertate presso i Sibo
(gente apparentata coi Tungusi), presso i Tartari dell'Altai e, in una certa
misura, anche presso gli Yakuti e i Goldi (Harva).
Anche là dove
non si trova una iniziazione di questo tipo, incontriamo riti sciamanici di
ascensione che riflettono concezioni analoghe. Ci renderemo conto di questa
unità fondamentale dello sciamanismo centro-asiatico e nord-asiatico studiando
la tecnica delle sedute; allora potremo anche individuare la struttura
cosmologica che sta alla base di tutti questi riti sciamanici. Ad esempio, è
evidente che l'albero di betulla simboleggia l'Albero Cosmico, o Asse del
Mondo, e che, di conseguenza, si ritiene che occupi il Centro del Mondo:
arrampicandovisi, lo sciamano compie questo importante motivo mitico studiando
i sogni iniziatici, ed esso risulterà ancor più distinto nel trattare le sedute
degli sciamani altaici e il simbolismo dei tamburi.
D'altronde
vedremo che l'ascesa su di un albero o su di un palo ha una parte importante
anche in altre iniziazioni di tipo sciamanico: essa va considerata come una
delle varianti del tema mitico-rituale dell'ascensione al Cielo (tema che
comprende altresi il «volo magico», il mito della «catena di freccie»,
della corda, del ponte, ecc.). Lo stesso simbolismo ascensionale è attestato
dalla corda (= ponte) che collega le betulle e alla quale sono appesi nastri di
diversi colori (= i raggi dell'Arcobaleno, le varie regioni celesti). Questi
temi mitici e questi rituali, benché specifici della religione siberiana e
altaica, non sono esclusivamente propri a tali culture, la loro area di
diffusione estendendosi ben oltre il Centro e il Nord-Est dell'Asia. Ci si potrebbe
perfino domandare se un rito complesso come l'iniziazione dello sciamano
buriate possa essere una creazione indipendente dato che, come Uno Harva l'ha
rilevato già un quarto di secolo fa, l'iniziazione buriata ricorda
singolarmente alcune cerimonie dei misteri mithraici. Il candidato, a dorso
nudo, vien purificato col sangue di un becco che talvolta viene sacrificato
sopra la sua testa: in alcuni luoghi, egli deve perfino bere il sangue
dell'animale sacrificato. È, questa, una cerimonia che rassomiglia al
taurobolio, cioè al rito principale dei misteri di Mithra. Nel secondo secolo
della nostra era Prudenzio (Peristeob.,
X, pp. 1011 sgg.) descriveva questo rituale mettendolo in relazione coi misteri
della Magna Mater, ma v'è ragione di
credere che il taurobolio frigio sia stato preso in prestito dai Persiani. E in
questi stessi Misteri veniva usata una scala (climax) a sette gradini, ogni gradino essendo fatto di un diverso
metallo. Secondo Celso (Origene, Contra
Celsum, VI, 22), il primo gradino era di piombo (corrispondente al «cielo»
del pianeta Saturno), il secondo di stagno (Venere), il terzo di bronzo
(Giove), il quarto di ferro (Mercurio), il quinto di una «lega da moneta»
(Marre), il sesto d'argento (la Luna), il settimo d'oro (il Sole). L'ottavo
gradino - ci dice Celso - rappresentava la regione delle stelle fisse. Salendo
su questa scala cerimoniale, l'iniziato percorreva effettivamente i «sette
cieli»,
s'innalzava fino all'Empireo.
Sull'ascensione
al Cielo attraverso gradini, scale, monti, ecc., cfr. A. Dieterich. Ricordiamo
che anche presso gli Altaici e i Samoiedi il numero sette ha una parte
importante. Il "pilastro del mondo" ha sette piani, l'Albero Cosmico
ha sette rami, ecc. I! numero sette, che predomina nel simbolismo mithraico
(sette sfere celesti, sette stelle o sette coltelli o sette alberi o sette
altari ecc. nei monumenti figurati), è dovuto ad influenze babilonesi
esercitatesi già agli inizi sulla misteriosofia iranica.
Se si tiene
conto di altri elementi irànici presenti, in forma più o meno sfigurata, nelle
mitologie centro-asiatiche. Segnaliamone qualcuno: il mito dell'Albero
miracoloso Gaokèrèna che cresce su di un'isola del lago (o del mare) Vourukasha
e presso il quale si trova una mostruosa lucertola, creata da Ahrimane, mito
che si ritrova anche presso i Calmucchi (un drago nell'oceano presso l'Albero
miracoloso Zambu), presso i Buriati (la serpe Abyrga presso l'Albero nel
"lago di latte") e altrove, ma bisogna anche pensare ad una possibile
influenza indù; su ciò, vedi più giù. Se ci si ricorda della parte importante
che, nel primo millennio della nostra èra, i Sogdiani hanno avuto come
intermediari fra la Cina e l'Asia Centrale da un lato, e fra l'Iran e il Vicino
Oriente dall'altro, l'ipotesi dell'erudito finlandese appare verosimile.
Pel momento, ci
basta di aver indicato queste probabili influenze iràniche sul rituale buriate.
L'importanza di tutto ciò apparirà chiara quando tratteremo degli apporti
sud-asiatici e asiatico-occidentali nello sciamanismo siberiano.
Iniziazione dello
sciamano araucano
Non è nostra
intenzione passare in rassegna riti di altre popolazioni che presentano delle
corrispondenze con questo rituale buriate d'iniziazione sciamanica. Ricorderemo
solo quelli nei quali la corrispondenza colpisce di più e che presentano il
simbolo essenziale del salire su di un albero o altro rito più o meno alludente
ad un'ascensione al Cielo.
Cominceremo con
la consacrazione sud-americana: quella della machi, la donna-sciamano araucana. Questa cerimonia di iniziazione
ha per centro l'ascesa rituale di un albero o, meglio, di un tronco denudato,
chiamato rewe; il quale, del resto, è
l'emblema stesso della professione sciamanica ed ogni machi lo conserva indefinitamente davanti alla sua capanna.
Si scorteccia un
albero alto un tre metri, sul cui tronco si fanno degli intacchi a guisa di
scala; questo albero vien poi piantato solidamente davanti all'abitazione della
futura sciamana, «un po' obliquo, per facilitare l'ascesa». Talvolta «dei
lunghi rami vengono confitti per terra intorno alla rewe, tanto da costituire una cinta di 15 metri per 4» (Métraux).
Quando questa scala sacra è a posto, la candidata si sveste e avendo addosso la
sola camicia si distende su di un giaciglio fatto di pelle di montone e di
coperte. Le vecchie sciamane cominciano a fregarle il corpo con foglie di
canelo eseguendo in pari tempo dei passi magici. Intanto le assistenti cantano
in coro e agitano dei sonagli. Questo massaggio rituale vien ripetuto più volte.
Poi «le sue figlie più anziane si curvano su di lei succhiandole il petto, il
ventre e la testa con una tale forza da far uscire del sangue» (Métraux). Dopo
questa prima preparazione, la candidata si alza, si riveste e si siede su di
una sedia. I canti e le danze continuano per tutta la giornata.
L'indomani la
festa raggiunge il suo àpice. Una folla di invitati giunge. Le vecchie machi formano un circolo, battendo il
tamburo e ballando a turno. Infine le machi e la candidata si avvicinano
all'albero-scala e iniziano l'arrampicata, l'una dopo l'altra (secondo
l'informatore di Moesbach, la candidata sale per prima). La cerimonia si chiude
col sacrificio di un montone.
Qui abbiamo
riassunta la descrizione fatta da Robles Rodriguez. Padre Housse fornisce altri
dettagli. I presenti fan cerchio intorno all'altare ove vengono immolati
agnelli offerti dalla famiglia della sciamana. La vecchia machi si rivolge a
Dio: «O Dominatore e Padre degli uomini, io ti aspergo col sangue di questi
animali che hai creati. Siici propizio!» ecc. L'animale viene ucciso e il
cuore di esso vien sospeso ad uno dei rami del canelo. La musica comincia e
tutti si accalcano attorno al rewe.
Segue il banchetto e la danza, che si protraggono per tutta la notte.
All' alba la
candidata riappare e le machi si
mettono di nuovo a danzare al ritmo del tamburo. Molte di esse cadono in
estasi. La vecchia si benda gli occhi e, dopo aver tastato qua e là, pratica
diverse incisioni sulle dita e sulle labbra della candidata con un coltello di
quarzo; poi fa le stesse incisioni su se stessa e mescola il proprio sangue con
quello della candidata. Dopo altri riti la giovane iniziata «sale sul rewe, danzando e battendo il tamburo; le
due madrine la sistemano sulla piattaforma. Le tolgono la collana di foglie e
la pelle sanguinante (n. b. con cui era stata ornata poco prima) che esse
sospendono agli arbusti. Solo il tempo dovrà a poco a poco distruggerle, perché
sono sacre. Poi il collegio delle streghe ridiscende, la giovane per ultima, a
parte dietro e con un certo ritmo. Appena i suoi piedi toccano il suolo un
immenso clamore la saluta; è il trionfo, è un delirio, è un tumulto, ognuno
vuole vederla da vicino, toccarle le mani, abbracciarla» (Housse). Segue il banchetto,
al quale partecipano tutti i presenti. Le ferite guariscono in otto giorni.
Secondo i testi
raccolti da Moesbach la preghiera della machi
sembrerebbe esser rivolta al Dio-Padre («Padre dios rey anciano»,
ecc.). Ella gli chiede il dono della doppia vista (per percepire il male nel
corpo del malato) e dell'arte di battere il tamburo. Inoltre si chiede un
«cavallo»,
un «toro»,
un «coltello» - simboli di certi poteri spirituali - e, infine, una pietra
«striata o a colori» (è, questa, una pietra magica che si può proiettare nel
corpo del paziente per purificarlo: se ne esce insanguinata, è segno che il
malato è in pericolo di vita. Con questa pietra si strofinano i malati). Le machi promettono all'assemblea che la
giovane iniziata non praticherà mai la magia nera. Il testo di Rodriguez non
parla di un «Dio-Padre», ma del vileo, che è il machi del Cielo, vale a dire il Grande Sciamano
celeste (i vileo abitano «il
mezzo del Cielo»),
Come in tutti i
casi nei quali è quistione di una ascensione iniziatica, così anche qui la
stessa ascensione viene ripetuta quando si procede ad una cura sciamanica
(Métraux).
Mettiamo in
rilievo le note dominanti di questa iniziazione: l'ascesa estatica su di un
albero-scala, simboleggiante il viaggio al cielo; la preghiera rivolta sulla
piattaforma al Dio supremo o al Grande Sciamano celeste che dovrebbe accordare
alla machi sia i poteri terapeutici
(chiaroveggenza, ecc.), sia gli oggetti magici necessari per l'arte medica (la
pietra striata, ecc.). L'origine divina o, almeno celeste dei poteri
terapeutici in molte altre popolazioni primordiali è ben chiara: ad esempio,
presso i Pigmei Semang, dove lo baia cura le malattie con l'aiuto dei Cenoi (intermediari fra Ta Pedn il Dio
supremo, e gli esseri umani) o di pietre di quarzo nelle quali spesso si
suppone che questi spiriti celesti abitino - ma anche con l'aiuto di Dio.
Quanto alla «pietra striata o a colori», anch'essa è di origine celeste; è
dello stesso tipo di quella che abbiamo spesso incontrata sia nel Sud-America
che altrove (cfr. sopra) e su di essa avremo da tornare. Bisogna anche rilevare
che presso gli Araucani sono le donne a praticare lo sciamanismo: in altri
tempi, questo era una prerogativa degli invertiti sessuali. S'incontra una
situazione molto simile presso i Ciukci: la maggior parte degli sciamani sono
degli invertiti i quali talvolta prendono anche marito; ma anche nel caso che
siano normali sessualmente, dai loro spiriti-guida sono costretti a vestirsi da
donna. Esiste una relazione genetica fra questi due sciamanismi? Ci sembra
difficile deciderlo.
L'ascesa rituale
di un albero quale rito iniziatico sciamanico la si ritrova anche nell' America
del Nord. Presso i Pomo, la cerimonia di ammissione alle società segrete dura
quattro giorni, dei quali uno è esclusivamente dedicato al salire su di un
albero-palo alto da otto a dieci metri, e di quindici centimetri di diametro.
Ci si ricorderà che i futuri sciamani siberiani si arrampicano su alberi
durante la loro consacrazione o prima di essa. E vedremo che il sacrificatore
vedico sale anche lui su di un palo rituale per raggiungere il Cielo e gli dèi.
L'ascendere a mezzo di un albero, di una liana o di una corda è un motivo
mitico diffusissimo: ne daremo alcuni esempi in uno dei capitoli successivi.
Infine vale
aggiungere che l'iniziazione al terzo e massimo grado sciamanico del manang a Sarawak (cfr. sopra) comporta
parimenti un'ascesa rituale: sulla veranda si porta una grande tinozza ai
margini della quale vengono appoggiate due scalette; dandosi il turno durante
tutta la notte, i maestri iniziatori fanno salire il candidato su di una di
queste scale e lo fanno discendere dall'altra. Uno dei primi osservatori di
siffatta iniziazione, l'arcidiacono L. Perham, il quale ne scrisse verso il
1885, confessò di non aver potuto ottenere nessuna spiegazione del rito. Eppure
il suo senso sembra abbastanza chiaro: non può trattarsi che di un'ascensione
simbolica al cielo seguita da una ridiscesa in terra. Riti consimili si
ritrovano a Malekula: uno dei gradi superiori della cerimonia Maki si chiama
proprio «scala» e il salire su di una piattaforma costituisce l'atto essenziale
di questa cerimonia.
Ma v'è di più:
gli sciamani e i medicine-men,
proprio come - del resto - certi tipi di mistici, son capaci di volar via come
uccelli, e d'appollaiarsi su rami d'albero. Lo sciamano ungherese (tàltos) «poteva balzare su un salice ed
assidersi su un ramo che sarebbe stato troppo fragile per un uccello». Il santo
iraniano Qutb ud-din Haydar era scorto di frequente in cima agli alberi (si
confronti più avanti). San Giuseppe da Copertino se ne volò su un albero e
restò mezz'ora su un ramo «che si vedeva oscillare come se vi
si fosse posato un uccello» (cfr. più giù).
Son pure
interessanti le esperienze dei
medicine-men australiani. Costoro pretendono di disporre d'una specie di
corda magica con cui possono arrampicarsi in cima agli alberi. «Il mago si
distende sul dorso sotto un albero, fa salire la corda e vi si arrampica fino a
raggiungere un nido posto in cima all'albero; quindi passa in altri alberi e,
quando cala il sole, ridiscende lungo il tronco» (A.P. Elkin). Secondo le
informazioni raccolte da Berndt e da Elkin, «un mago wongaibon, distesosi sul
dorso ai piedi di un albero, fece salir su, dritta dritta, la sua corda e vi si
arrampicò, con la testa all'indietro, il corpo rilassato, le gambe divaricate e
le braccia sui fianchi. Arrivato in cima, a quaranta piedi, agitò le braccia
verso quelli che erano sotto e quindi discese alla stessa maniera; e, mentre
stava ancora steso sul dorso, la corda gli rientrò dentro il corpo» (Elkin).
Questa corda magica non può non rammentarci il «giro della corda» rope-trick) indiano, del quale dovremo
studiare più avanti la struttura sciamanica.
Il viaggio celeste dello
sciamano caribe
L'iniziazione
degli sciamani caribi della Guiana olandese, benché s'incentri parimenti sul
viaggio estatico del neofita al Cielo, utilizza però mezzi differenti da quelli
già riferiti. Non si può divenire pujai
prima di giungere a vedere gli spiriti e a stringere con essi relazioni dirette
e durevoli. Si tratta meno di una «possessione» che non di una visione estatica
la quale rende possibile di comunicare e di parlare con gli spiriti. Questa
esperienza estatica non può aver luogo che salendo in cielo. Ma il novizio può
intraprendere tale viaggio solo se è stato istruito nella ideologia
tradizionale e, in secondo luogo, se si è preparato fisicamente e psichicamente
per la trance. Come vedremo, il
metodo di preparazione è di estrema durezza.
Di solito, si
iniziano sei giovani alla volta. Essi debbono vivere in assoluto isolamento in
una capanna costruita a questo preciso scopo, ricoperta di foglie di palma. Da
essi si esige un certo lavoro manuale; essi debbono occuparsi delle
coltivazioni di tabacco del maestro-iniziatore e fare con un tronco di cedro
una panca in forma di caimano che essi mettono davanti la capanna; è su questa
panca che si siedono tutte le sere per ascoltare il maestro o per attendere le
visioni. Inoltre ognuno di essi si fabbrica dei sonagli e un «bastone magico»
lungo due metri ad uso proprio. Sei giovinette, sorvegliate da una vecchia
istitutrice, sono al servizio dei candidati. Esse provvedono giornalmente del succo
di tabacco che i neofiti san tenuti a bere in quantità e, ogni sera, ciascuna
di esse friziona con un liquido rosso tutto il corpo di ogni allievo: ciò, per
farlo bello e degno di presentarsi dinanzi agli spiriti.
Il corso di
iniziazione, che dura ventiquattro giorni e venticinque notti, si divide in
quattro parti: dopo ogni tre giorni e tre notti di istruzione seguono tre
giorni di riposo. L'istruzione ha luogo durante la notte, all'interno della
capanna: si balla in circolo, si canta e poi, seduti sulla panca in forma di
caimano, si ascolta il maestro che parla degli spiriti, buoni e malvagi, e
specialmente del «Grande Padre Avvoltoio», animale che in questa iniziazione
ha una parte essenziale. Esso ha l'aspetto di un Indiano nudo; è lui ad aiutare
gli sciamani a volare in Cielo per mezzo di una scala girevole. Dalla bocca di
questo Spirito parla il «Gran-Padre Indiano», cioè il Creatore, l'Essere
Supremo. Rileviamo che anche fra i Caribi il potere sciamanico deriva in ultima
analisi dal Cielo e dall'Essere Supremo. Ricordiamo anche la parte che ha
I'Aquila nelle mitologie sciamaniche siberiane: padre del primo sciamano,
uccello solare, messaggero del dio celeste, intercessore fra Dio e gli esseri
umani. Le danze imitano i movimenti degli animali di cui il maestro ha parlato
nella sua istruzione. Di giorno i candidati restano stesi sulle amache,
all'interno della capanna. Durante il periodo di riposo essi siedono sulla
panca e, essendosi ben stropicciati gli occhi con succo di pimento, meditano
sugli insegnamenti del maestro e si sforzano di scorgere gli spiriti (Andres).
Per tutta la
durata dell'istruzione il digiuno è quasi assoluto: gli allievi fumano
continuamente delle sigarette, masticano foglie di tabacco e bevono succo di
tabacco. Dopo le danze estenuanti della notte, e aggiungendovisi gli effetti
del digiuno e dell'intossicazione, i discepoli vengono preparati per il viaggio
estatico. Nella prima notte del secondo periodo si insegna loro a trasformarsi
in giaguari e in pipistrelli (Andres). Nella quinta notte, dopo un digiuno
completo (perfino il succo di tabacco viene proibito), il maestro tende varie
corde a diverse altezze e gli allievi danzano a turno su queste corde o si
dondolano in aria tenendosi con le mani (ibid., p. 338). È allora che essi
vivono la loro prima esperienza estatica: incontrano un Indiano che, in realtà,
è uno spirito benigno (Tukajana). «Vieni, discepolo. Tu andrai in Cielo per
mezzo della scala del Gran-Padre Avvoltoio. Non è lontano». Il discepolo «si
arrampica su di una specie di scala girevole e raggiunge il primo piano del
cielo ove attraversa villaggi di Indiani e città abitate da bianchi. Poi il
discepolo incontra uno Spirito delle Acque (Amana),
che è una donna di grande bellezza la quale lo induce ad immergersi insieme a
lei nel fiume. E là essa gli comunica incantesimi e formule magiche. L'allievo
e la sua guida raggiungono l'altra sponda del fiume e il bivio "della Vita
e della Morte". Il futuro sciamano può scegliere di andare nel
"Paese-senza-sera" o nel "Paese-senza-alba". Lo spirito che
lo accompagna gli rivela allora il destino delle anime dopo la morte. Il
candidato vien bruscamente ricondotto in terra da una viva sensazione di
dolore. È che il maestro ha applicato sulla sua pelle il maraqué, una specie di stuoia negli interstizi della quale sono
state messe delle grosse formiche velenose».
Nella seconda
notte del quarto periodo dell'istruzione il maestro ordina che gli allievi, a
turno, montino su di «una piattaforma sospesa al soffitto della capanna
mediante diverse corde attorcigliate che, svolgendosi, fan girare la
piattaforma con velocità crescente» (Métraux). Il novizio canta: «La
piattaforma del putai mi porterà in
Cielo. Vedrò il villaggio di Tukajana». E penetra via via nelle varie
sfere celesti, avendo la visione di spiriti. Andres cita Fuehner a proposito
dell'estasi provocata dall'alloro. Sulla parte che hanno i narcotici nello
sciamanismo siberiano, e cosi pure in altri sciamanismi. Per produrre
l'intossicazione viene anche usata la pianta takini, che dà una forte febbre. L'allievo trema in tutto il corpo
e crede che gli spiriti malvagi siano entrati in lui e stiano lacerandogli il
corpo (qui si può riconoscere il motivo iniziatico ben noto dello smembramento
del corpo ad opera dei demoni). Infine l'allievo si sente trasportato nei cieli
e gode di visioni celesti (Andres).
Il folklore
caribe conserva il ricordo di un tempo in cui gli sciamani erano molto potenti:
si vuole che essi potevano vedere gli spiriti coi loro occhi di carne e che
erano perfino capaci di risuscitare i morti. Una volta un pujai salì in Cielo e minacciò Dio; questi prese una sciabola e
respinse l'insolente; da allora gli sciamani non possono più raggiungere il
Cielo se non in estasi (Andres). Vale mettere in rilievo la convergenza di
queste leggende con le credenze nord-asiatiche relative alla grandezza
originaria degli sciamani e alla loro successiva decadenza, decadenza che ai
nostri giorni è ancor più spinta. Come in filigrana, qui traspare il mito di
un'epoca' primordiale nella quale la comunicazione fra gli sciamani e Dio era
più diretta e avveniva in un modo concreto. In seguito ad un atto d'orgoglio o
di rivolta da parte dei primi sciamani Dio interdisse loro t'accesso diretto
alle realtà spirituali: essi non possono piri vedere con gli occhi carnali gli
spiriti e l'ascesa in Cielo non potrà piri compiersi che in estasi. Come presto
vedremo, questo tema mitico ha ulteriori, ricchi sviluppi.
Métraux ricorda
le documentazioni di antichi viaggiatori circa l'iniziazione dei Caribi delle
Isole Laborde riferisce che i maestri "spalmano anche il corpo
(dell'iniziando) con gomma e lo ricoprono di penne per renderlo capace di
volare e di andare alla ricerca degli zemeen
(spiriti)…". Dettaglio, questo, che non deve sorprenderci, il costume
ornitomorfo e gli altri simboli del volo magico facendo parte integrante dello
sciamanesimo siberiano, nord-americano e indonesiano.
Parecchi
elementi dell'iniziazione caribe li ritroviamo anche in altre religioni
nell'America del Sud: l'intossicazione col tabacco è una nota
caratteristica dello sciamanismo sud-americano: la reclusione rituale in una
capanna e le dure prove fisiche alle quali si assoggettano gli iniziandi è uno
degli aspetti essenziali dell'iniziazione dei Fuegini (Selk'nam e Yamana); l'istruzione
ad opera di un maestro e la «visualizzazione degli spiriti sono parimenti
elementi costitutivi dello sciamanismo sud-americano. Ma la tecnica
preparatoria del viaggio estatico in Cielo sembra esser cosa specifica del pujai caribe. Rileviamo che qui ci
troviamo di fronte ad una scenografia completa dell'iniziazione-tipo:
ascensione, incontro con una Donna-spirito, immersione nelle acque, rivelazione
dei segreti (concernenti anzitutto il destino degli esseri umani nel post-mortem), viaggio nelle regioni
dell'aldilà. Ma il pujai cerca di
avere ad ogni costo una esperienza estatica di questo schema iniziatico: pur di
raggiungere l'estasi, egli non rifugge dall'impiego di mezzi aberranti. Si ha
l'impressione che lo sciamano caribe metta tutto in opera per vivere in
concreto una condizione spirituale che, per la sua stessa natura, non ammette
di essere «sperimentata» come si ha l'esperienza di certe situazioni umane.
Ricordiamoci di ciò: riprenderemo e integreremo l'argomento più giù, quando
considereremo altre tecniche sciamaniche.
L'iniziazione
del medicine-man australiano della
regione di Forrest River comporta sia la morte e la resurrezione simbolica del
candidato, sia una ascesa al cielo. Il metodo abituale è il seguente: il
maestro si presenta sotto forma di scheletro e si provvede di un sacchetto nel
quale introduce il candidato ridotto, grazie alla sua magia, alle proporzioni
di un neonato. Poi monta a cavalcioni del Serpente-Arcobaleno e comincia a
portarsi in alto, aiutandosi con le braccia, come farebbe chi si arrampica su
di una corda. Giunto in cima, egli lancia il candidato in cielo, «uccidendolo».
Qui, nel Cielo, il maestro introduce nel corpo dell'allievo dei
serpentelli-arcobaleno, i brimure
(sono piccole serpi d'acqua) e dei cristalli di quarzo (che hanno lo stesso
nome del mitico Serpente-Arcobaleno). Dopo di che il candidato viene ricondotto
in terra, sempre a cavallo dell'arcobaleno. Di nuovo il maestro introduce in
lui altri oggetti magici attraverso l'ombellico e infine lo sveglia toccandolo
con una pietra magica. Allora il candidato riprende anche la sua grandezza
naturale. L'indomani vien ripetuta l'ascesa sull'arcobaleno, negli stessi
termini.
Diversi motivi
presenti in questa iniziazione australiana ci sono già noti: la morte e la
resurrezione del candidato, l'inserzione di oggetti magici nel suo corpo. È
interessante notare che il maestro-iniziatore, che si è trasformato magicamente
in uno scheletro, riduce la grandezza dell'allievo alle proporzioni di un
neonato: i due elementi simboleggiano l'abolizione del tempo profano e la
restaurazione di un tempo mitico, del «tempo del sogno» australiano.
L'ascensione avviene per mezzo dell'arcobaleno, mitizzato sotto specie di
un'enorme serpe, sul dorso della quale il maestro-istruttore si arrampica come
su per una corda. Abbiamo già accennato alle ascensioni celesti dei medicine-men australiani e presto
avremo occasione di incontrarne ulteriori e più precisi esempi.
Quanto
all'arcobaleno, si sa che un numero rilevante di popoli lo ha considerato come
il ponte che collega la Terra al Cielo, e specialmente come il «ponte degli
dèi». È per questo che il suo apparire dopo una tempesta viene interpretato
come segno de! placarsi del Dio (presso i Pigmei, ad esempio). È sempre per
mezzo dell'arcobaleno che gli eroi mitici raggiungono il cielo. Cosi, ad
esempio, in Polinesia l'eroe maori Tawhaki e la sua famiglia, e l'eroe hawaiano
Aukelenuiaiku visitano regolarmente le regioni superiori scalando l'arcobaleno
o utilizzando un cervo volante, con lo scopo di liberare le anime dei morti o
di ritrovare le loro donne-spiriti. Le tradizioni polinesiane considerano
generalmente dieci cieli sovrapposti; nella Nuova Zelanda essi sono dodici
(l'origine indù di queste cosmologie è più che probabile). L'eroe passa dall'un
cielo all'altro, come abbiamo visto innalzarsi lo sciamano burlate. Egli
incontra delle donne-spiriti (le quali spesso appartengono ai suoi stessi
antenati) che l'aiutano a trovare la via; cfr. la parte delle donne-spiriti
nell'iniziazione del puiai caribico,
la parte della «sposa celeste» presso gli sciamani siberiani, e via dicendo.
Questa stessa funzione mitica l'arcobaleno l'ha in Indonesia, in Melanesia e in
Giappone.
Benché
indirettamente, questi miti accennano ad un tempo nel quale la comunicazione
fra Cielo e Terra era ancora possibile; in seguito ad un certo avvenimento o ad
una colpa rituale, tale comunicazione si è interrotta; ma l'eroe e i medicine-men sanno ristabilirla. Questo
mito di un'èra paradisiaca bruscamente abolita a causa della «caduta»
dell'uomo ci si ripresenterà anccora, ripetutamente, nel corso del presente
libro: in un certo modo, esso è la controparte di certe concezioni sciamaniche.
Come molti altri sciamani e maghi di altre regioni, i medicine-men australiani non fanno che restaurare provvisoriamente
e a loro solo uso quel «ponte» fra Cielo e Terra, che in altri tempi era a
disposizione di tutti gli umani.
Il mito
dell'arcobaleno quale via degli dèi e ponte fra Cielo e Terra lo si ritrova
nelle tradizioni giapponesi e esso faceva indubbiamente parte anche delle
concezioni religiose mesopotamiche. I sette colori dell'arcobaleno sono stati
inoltre riferiti ai sette cieli, secondo un simbolismo presente tanto in India
e in Mesopotamia che nel giudaismo. Negli affreschi di Bàmiyàn il Buddha è
rappresentato seduto su di un arcobaleno a sette raggi: con ciò si vuol dire
che egli trascende il cosmo, proprio come nel mito della Natività egli
trascende i sette cieli facendo sette passi verso Nord e raggiungendo il
«Centro del Mondo», raffigurato come la vetta più alta dell'universo.
Nell'Apocalisse (IV, 3) il trono di Dio è circondato
da un arcobaleno, e questo simbolismo doveva continuarsi nell'arte cristiana
del Rinascimento (Rowland). La ziqqurat babilonese veniva talvolta
rappresentata a mezzo di sette colori, simboleggianti le sette regioni celesti:
salire su per i vari piani della ziqqurat, era come raggiungere la sommità del
mondo cosmico. Idee analoghe le si ritrovano in India (Rowland), e, cosa ancor
più significativa, nella mitologia australiana. Il dio supremo dei Kamilaroi,
dei Wiradjuri e degli Euahlay, risiede nel cielo superiore, seduto su di un
trono di cristallo; Bundjil, l'Essere Supremo dei Kulin, si tiene al disopra
delle nubi. Gli eroi mitici e i
medicine-men salgono verso questi Esseri celesti utilizzando, come uno dei
tanti mezzi, l'arcobaleno.
Ci si ricorderà
che i nastri usati nelle iniziazioni buriate son chiamati «arcobaleno»:
essi simbolizzano in genere l'itinerario del viaggio dello sciamano verso il
cielo. I tamburi sciamanici recano disegni dell'arcobaleno, raffigurato come un
ponte verso il Cielo. Nelle lingue di ceppo turco, del resto, l'arcobaleno ha
anche il significato di ponte (Rasanen). Presso i Samoiedi Yurak, il tamburo
sciamanico vien chiamato «arco»: grazie alla sua
magia lo sciamano vien proiettato come una freccia verso il cielo. Inoltre vi
son ragioni per credere che i Turchi e gli Uiguri considerassero il tamburo
come un «ponte celeste» (arcobaleno), sul quale lo. sciamano compiva la sua
ascesa (Rasanen). Questa idea s'intègra nel complesso simbolismo del tamburo e
del ponte, aventi relazione, in forma diversa, con una stessa esperienza
estatica e cioè con quella dell'ascensione celeste. È grazie alla magia
musicale del tamburo che lo sciamano può raggiungere il più alto dei cieli.
Ci si ricorderà
che parecchi racconti di iniziazione dei
medicine-men australiani, pur avendo per centro l'uccisione simbolica e la
resurrezione del candidato, accennavano ad una ascensione celeste del medesimo
(cfr. sopra). Ma esistono anche altre forme di iniziazione nelle quali
l'ascensione ha la parte essenziale. Presso i Wiradjuri il maestro iniziatore
introduce nel corpo dell'allievo dei cristalli di rocca e gli dà da bere
dell'acqua in cui sono stati messi cristalli del genere; in seguito a ciò
l'allievo riesce a vedere degli spiriti. Poi il maestro lo conduce in una tomba
e i morti, a loro volta, gli danno pietre magiche. Il candidato incontra anche
una serpe che poi diverrà il suo totem e che lo guida verso l'interno della
terra, dove si trovano numerose altre serpi: strofinandosi contro di lui, esse
gli infondono dei poteri magici. Dopo questa simbolica discesa negli Inferni il
maestro si accinge a condurre l'iniziando al campo di Baiame, l'Essere Supremo.
Per giuagervi, i due 'Si arrampica su per ana corda finché incontrano Wombu,
l'uccello di Baiame. Attraversammo le nubi - racconta il discepolo - e
dall'altra parte c'era il cielo. Vi penetrammo attraverso una apertura per la
quale passano i dottori, apertura che si apriva e richiudeva rapidissimamente».
Se si fosse stati toccati dalle porte in movimento, si sarebbe perduto il
potere magico e, una volta tornati in terra, si sarebbe sicuri di dover morire.
Noi qui ci
troviamo dinanzi ad uno schema quasi completo dell'iniziazione: discesa nelle
regioni infere seguita dall'ascensione in Cielo, dove l'Essere Supremo conferisce
il potere sciamanico. L'accesso alle regioni superiori è difficile e
pericoloso: in effetti, bisogna entrarvi in un baleno, prima che le porte si
richiudano (è, questo, un motivo specificamente iniziatico che abbiamo già
incontrato altrove).
In un altro
racconto, raccolto sempre da Howitt, si parla di una corda con la quale il
candidato vien trasportato, ad occhi chiusi, su di una roccia, ove egli trova
la stessa porta magica che s'apre e si richiude rapidissimamente. 11 candidato
e i suoi maestri iniziatori penetrano nella roccia e là al primo vien tolta la
benda dagli occhi. Egli si trova in ambiente tutto luce, sulle pareti del quale
scintillano dei cristalli. Riceve diversi di questi cristalli e viene istruito
circa il modo di servirsene. Poi, sempre sospeso alla corda, egli vien
riportato al campo per via aerea, e deposto sulla cima di un albero.
Questi riti e
questi miti iniziatici rimandano alla credenza più generale riguardante la
capacità dei medicine-men di
raggiungere il cielo per mezzo di una corda, di una sciarpa o semplicemente
volando, o, infine, salendo su per una scala a spirale. Numerosi miti e
leggende parlano dei primi uomini che si erano innalzati fino al Cielo
arrampicandosi su per un albero: gli antenati dei Mara erano appunto usi a
salire su di un albero del genere fino al cielo, per poi ridi scendere. Presso
i Wiradjuri il primo uomo, creato da Baiame, l'Essere Supremo, poteva ascendere
al Cielo percorrendo un sentiero montano arrampicandosi poi su per una scala
fino a Baiame, proprio come lo farebbero ancor oggi i medicine-men fra i Wurundjeri e i Wotjobaluk (Howitt). I medicine-men Yuin salgono fino alla
dimora di Daramulun, che dà loro i rimedi per le malattie (Pettazzoni).
Un mito Euahlayi
ci dice come i medicine-men raggiunsero
Baiame: marciarono per più giorni In direzione Nord-Est finché raggiunsero le
pendici della grande montagna Ubi-Ubi, le cui cime si perdono fra le nubi. Si
misero a scalarla utilizzando una scala di pietra a spirale e al quarto giorno
raggiunsero la vetta. Là incontrarono lo Spirito-messaggero di Baiame; questi
chiamò degli Spiriti-servitori che, attraverso un'apertura, trasportarono i medicine-men in Cielo (van Gennep).
I medicine-men possono dunque ripetere a
volontà ciò che i primi uomini - gli uomini mitici - già fecero all'alba dei
tempi: salire in cielo e ridi scendere in terra. Come la capacità di ascendere
(o di volare magicamente) è essenziale per la carriera dei medicine-men, del pari l'iniziazione sciamanica comporta un rito
ascensionale. Anche quando non si fa allusione diretta ad esso, tale rito, in
qualche modo, è sempre presupposto. I cristalli di rocca che hanno una cosi
importante parte nell'iniziazione del medicine-man
australiano sono di origine celeste o per lo meno hanno una qualche relazione -
sia pure talvolta indiretta - col cielo. Baiame è seduto su di un trono di
cristallo trasparente (Howitt). E presso gli Euahlayi è lo stesso Baiame (=
Boyerb) a gettare sulla terra frammenti di cristallo che debbono essere
certamente del suo trono. Il trono di Baiame è la volta celeste. I cristalli
staccati dal suo trono sono «luce solidificata». I medicine-men immaginano Baiame come un essere in tutto simile agli
altri dottori, «salvo che per la luce che s'irradia dai suoi occhi» (Elkin). In
altri termini, hanno la sensazione che esista un rapporto tra la condizione
d'essere sovrannatura e la sovrabbondanza di luce. Baiame compie altresi
l'iniziazione dei giovani medicine-men aspergendoli
di un'«acqua
sacra e potente» che è considerata essere quarzo liquefatto (ibid.). Tutto ciò
significa che si diviene sciamano quando si è farciti di «luce solidificata»,
cioè di cristalli di quarzo; questa operazione giunge a cambiare il modo
d'essere dell'aspirante medicine-man
facendolo entrare in solidarietà mistica col cielo. Se si ingoia uno di questi
cristalli, si vola in cielo (Howitt).
Credenze
analoghe si ritrovano, come abbiamo già visto, tra i Negritos della Malacca.
Nella sua terapeutica, lo hala
utilizza dei cristalli di quarzo che o ha ottenuto da spiriti aerei (cenai), o ha fabbricato egli stesso con
acqua solidificata magicamente, o - infine - ha staccato dai frammenti che
l'Essere Supremo ha fatto cadere dal cielo (Pettazzoni). È per questo che tali
cristalli possono riflettere ciò che accade sulla terra (vedi più giù). Gli
sciamani dei Daiachi marittimi di Sarawak (Borneo) hanno delle «pietre di luce»
(light stones) che riflettono tutto
quello che avviene all'anima del malato e, pertanto, rivelano dove si trova
smarrita. Un giovane capo della tribù Ehatisaht Nootka (Isola di Vancouver)
s'imbatté un giorno in certi cristalli magici che si muovevano e s'urtavano tra
loro. Gettò il suo abito su qualcuno di essi e ne prese quattro. Gli sciamani
kwakiutl ricevono il loro potere per il tramite di cristalli di quarzo.
Si è visto che i
cristalli di rocca, in stretta relazione con la Serpe-Arcobaleno, conferiscono
il potere di elevarsi al Cielo. Presso altri popoli le stesse pietre
renderebbero capaci di volare: come per es. in un mito americano riferito da
Boas, ove un giovane, scalata una «montagna rilucente», si copre di
cristalli di rocca e subito si mette a volare. La stessa concezione di una
volta celeste solida spiega la virtù dei meteoroliti e delle pietre della
folgore: cadute dal Cielo esse sono impregnate di una forza magico-religiosa
che può essere utilizzata, trasmessa, diffusa: in un certo modo, vanno a costituire
un nuov centro di sacralità uranica sulla terra, Sempre in relazione con questo
simbolismo uranico va altresi ricordato il motivo delle montagne o dei palazzi di
cristallo che gli eroi incontrano nelle loro avventure mitiche. motivo che si è
conservato anche nel folklore europeo. Infine, come creazione tardiva di un non
diverso simbolismo va considerato il motivo della pietra frontale di Lucifero e
degli angeli decaduti (la quale, in certe varianti, si è staccata nel momento
della loro caduta), dei diamanti che si trovano nella testa o nelle fauci di
serpi, ecc. Naturalmente, qui abbiamo a che fare con credenze estremamente
complesse, spesso rielaborate e rivalorizzate ma la cui struttura fondamentale
resta ancora trasparente: si tratta sempre di un cristallo o di una pietra
magica staccata dal cielo che, malgrado il suo esser caduta sulla terra,
continua a dispensare la sacralità uranica, cioè la chiaroveggenza, la
saggezza, il potere divinatorio, la capacità di volare e così via.
I cristalli di
rocca hanno una parte essenziale nella magia e nella religione australiana, né
la loro importanza è minore in tutta l'area oceanica e nelle due Americhe. La
loro origine uranica non è sempre dichiarata nelle corrispondenti credenze, ma
si deve tener presente che l'oblio di un significato originario è un fenomeno
ricorrente nella storia delle religioni. Quel che a noi importa è l'aver
mostrato che sia in Australia che altrove i
medicine-men collegano oscuramente i loro poteri alla presenza, all'interno
del loro stesso corpo, di questi cristalli di rocca. È come dire che si sentono
diversi dagli altri esseri umani per via dell'assimilazione - nel senso più
concreto della parola - di una sostanza sacra di origine uranica.
Altre forme del rito di
ascensione
Per ben
comprendere il complesso delle idee religiose e cosmologiche che stanno alla
base dell'ideologia sciamanica dovremmo passare in rassegna tutta una serie di
miti e di rituali di ascensione. Nei capitoli che seguono studieremo qualcuno
dei più importanti di essi, ma il problema nel suo insieme non può essere
trattato a fondo in questa sede e, se mai, verrà ripreso in un altro libro.
Qui, a completare la morfologia ascensionale delle iniziazioni sciamaniche,
accenneremo a qualche altro aspetto di essa senza aver la pretesa di esaurire
con ciò l'argomento.
Presso i Nias
colui che è destinato a divenire sacerdote-profeta scompare improvvisamente,
rapito dagli spiriti (molto probabilmente, il giovane vien portato in cielo) e
ritorna nel villaggio dopo tre o quattro giorni. Se ciò non accade, ci si dà a
cercarlo e di solito lo si trova in cima ad un albero in conversazione con gli
spiriti. Sembra aver perduto la ragione, e bisogna ricorrere a dei sacrifici
affinché la ritrovi. L'iniziazione comporta anche una marcia rituale presso
tombe, un corso d'acqua e un monte.
Nelle Mentawei
il futuro sciamano vien trasportato in cielo dagli spiriti celesti e là riceve
un corpo meraviglioso simile al loro. In genere si ammala e crede di salire in
cielo. Dopo questi primi sintomi ha luogo la cerimonia di iniziazione a cura di
un maestro. Talvolta, durante o subito dopo l'iniziazione, l'allievo-sciamano
perde la conoscenza e il suo spirito sale in cielo in una barca condotta da
aquile, onde intrattenersi con gli spiriti celesti e domandar loro dei rimedi
(Loeb, Sbaman and Seer).
Come avremo
subito occasione di vedere, con l'ascensione iniziatica il futuro mago acquista
la facoltà di volare. In effetti, in ogni parte del mondo vien riconosciuto
agli sciamani e agli stregoni il potere di volare, di percorrere in un baleno
distanze enormi e di divenire invisibili. È difficile accertare se ogni mago
che crede di potersi trasportare attraverso l'atmosfera abbia vissuta, durante
il periodo di alunnato, una esperienza estatica o seguito un rituale a schema
ascensionale, cioè se abbia conseguito il potere magico di volare in seguito ad
una iniziazione o ad una esperienza estatica che ha reso in atto la vocazione
sciamanica. Si può supporre che almeno una parte di essi ha ottenuto questo
potere magico proprio dopo una iniziazione e grazie ad essa. È vero che
numerose informazioni relative alla capacità di volare degli sciamani e degli
stregoni non precisano il modo con cui si è pervenuti a siffatti poteri; ma può
ben darsi che questo silenzio derivi solo dalla manchevolezza delle nostre
fonti.
Checché ne sia,
in molti casi la vocazione o l'iniziazione sciamanica è direttamente connessa
ad un'ascensione in cielo. Cosi, per citar soltanto qualche esempio, un gran
profeta Basuto conobbe la sua vocazione in seguito ad un'estasi durante la
quale vide il soffitto della capanna aprirsi sulla sua testa e si senti
trasportato in Cielo, ove incontrò una moltitudine di spiriti. Numerosi casi
del genere sono stati registrati in Africa (Chadwick). Presso i Nuba, il futuro
sciamano ha la sensazione che «lo spirito gli afferra la testa da su» o che
«entra nella sua testa» (Nadel). La gran parte di questi spiriti è celeste, e
si può supporre che la «possessione da parte loro si traduca in una trance di natura ascensionale.
Nell'America del
Sud il viaggio iniziatico in cielo o in alta montagna ha una parte essenziale.
Presso gli Araucani, ad esempio, la malattia che decide della carriera di una machi è seguita da una crisi estatica
durante la quale la futura sciamana sale in cielo e vi incontra lo stesso Dio.
Durante questo soggiorno celeste esseri sovrannaturali le indicano i rimedi
atti alle varie cure. La cerimonia sciamanica dei Manasi comprende la discesa
del dio nella capanna, a cui segue una ascensione: il dio trasporta con sé lo
sciamano in cielo. «La sua partenza si accompagnò a scosse che fecero tremare
le pareti del santuario. Poco dopo la divinità ricondusse lo sciamano o lo fece
cadere a testa in gin nel tempio».
Citiamo infine
un esempio di ascensione iniziatica nord-americana. Un medicine-man Winnebago ebbe la sensazione di essere ucciso e, dopo
avventure varie, di esser trasportato in cielo, dove s'intrattenne con l'Essere
Supremo. Gli spiriti celesti lo misero alla prova: egli riuscì ad uccidere un
orso ritenuto invulnerabile e poi a risuscitarlo col suo soffio. Infine
ridiscese in terra ed ebbe una seconda nascita.
Il fondatore della
«Ghost Dance Religion» e, del resto, anche tutti i principali profeti di questo
movimento mistico, ebbero una esperienza estatica, che fu decisiva per la loro
carriera. Ad esempio, il fondatore ascese in stato di trance un monte incontrandovi una bella donna biancovestita che gli
rivelò che il «Signore della Vita» si trovava sulla vetta. Seguendo i consigli
della donna il profeta si sbarazzò delle sue vesti, si immerse in una corrente
e, in questo stato di nudità rituale, si presentò al «Signore della Vita».
Questi gli trasmise ingiunzioni di ogni specie: non tollerare più i bianchi sul
territorio, combattere l'ubriachezza, rinunciare alla guerra e alla poligamia,
ecc. e poi gli dette una preghiera a che la comunicasse agli umani.
Woworka. il
profeta più notevole della «Ghost Dance Religion», ebbe la sua prima
rivelazione a diciotto anni: si addormentò in pieno giorno e si senti
trasportato nell'aldilà. Vide Dio e i morti, felici e eternamente giovani. Dio
gli dette un messaggio per gli uomini, col quale raccomandava loro di essere
onesti, laboriosi, caritatevoli, ecc. (Mooney). Un altro profeta dello stesso
movimento, John Slocum di Pujet Sound, «morì» e vide la sua anima abbandonare
il corpo. «Ho visto una luce abbagliante, una grande luce... ho guardato ed ho
visto che il mio corpo non aveva più l'anima; era morto ... La mia anima
abbandonò il corpo e s'innalzò verso il luogo del giudizio di Dio... Ho visto
una grande luce nella mia anima, luce che veniva da quel buon paese».
Queste
esperienze estatiche originarie dei profeti dovevano servire da modello a tutti
i seguaci della «Ghost Dance Religion». Anche costoro cadono in trance dopo lunghe danze e canti; allora
visitano le regioni dell'aldilà e incontrano le anime dei morti, gli angeli e
talvolta perfino Dio. Le prime rivelazioni del fondatore e dei profeti
divennero così la base di tutte le successive conversioni e estasi.
Le ascensioni in
cielo sono parimenti un tratto specifico della società segreta fortemente
sciamanizzata midéwiwin degli Ojibwa. Si può citare come esempio tipico la
visione di una giovane che udì una voce che la chiamava, la segui, e
arrampicandosi su per uno stretto sentiero raggiunse alla fine il Cielo. Là
incontrò il Dio celeste che l'incaricò di portare un messaggio per gli umani.
Lo scopo della società midéwiwin è di restaurare il cammino fra Cielo e Terra,
quale era stato stabilito nella Creazione (si veda più avanti); è per tale
ragione che i membri di questa società segreta intraprendono periodicamente il
viaggio estatico nel cielo; ciò facendo, aboliscono in un certo modo la
decadenza attuale dell'Universo e dell'umanità e reintegrano la situazione
primordiale, quando il comunicare col Cielo era cosa facilmente accessibile a
tutti gli esseri umani.
Benché qui non
si tratti di sciamanismo in senso proprio - dato che sia la «Ghost Dance
Religion»
che la midéwiwin sono organizzazioni segrete alle quali ad ognuno è dato di
aggregarsi, sempreché superi certe prove o presenti una certa predisposizione
estatica - pure in questi movimenti religiosi nordamericani ritroviamo molti
tratti specifici dello sciamanismo: tecniche dell'estasi, viaggio mistico in
Cielo, discesa agli Inferni, colloquio con Dio, con esseri semi-divini e con le
anime dei morti, eccetera.
Si vede dunque
che parte essenziale abbia l'ascensione ce leste nelle iniziazioni sciamaniche.
Ascese rituali di un albero o di un palo, miti di ascensione o di volo magico,
esperienze estatiche di levitazione, di volo, di viaggi mistici in cielo, ecc.
- tutti questi elementi assolvono una funzione decisiva nelle vocazioni o
consacrazioni sciamaniche. Talvolta questo insieme di pratiche sembra aver
relazione col mito di una epoca antica nella quale le comunicazioni fra il
Cielo e In Terra erano molto più facili. Da tale punto di vista l'esperienza
sciamanica equivale ad un ripristino di quel tempo mitico primordiale e lo
sciamano ci appare come un essere privilegiato che ritrova, per conto suo
personale, la condizione felice dell'umanità all'alba dei tempi. Una quantità
di miti, alcuni dei quali saranno ricordati nei capitoli che seguono,
illustrano questo stato paradisiaco di un illud
tempus beatifico, al quale gli sciamani tornano intermittentemente a
partecipare durante le estasi.
Capitolo 5: Il simbolismo del costume e
del tamburo sciamanico
Il costume
sciamanico costituisce di per sé una ierofania e una cosmografia religiosa:
esso non rivela soltanto una presenza sacra, ma anche simboli cosmici e
itinerari metapsichici. Ove lo si esamini attentamente, il costume ci dà a
conoscere il sistema dello sciamanismo nella stessa trasparenza propria ai miti
e alle tecniche sciamaniche.
In inverno lo
sciamano altaico indossa il costume sopra una camicia, lo indossa direttamente
sul corpo nudo in estate. I Tungusi si tengono invece alla seconda usanza sia
in estate che in inverno. Lo stesso accade presso altre popolazioni artiche
(cfr. Harva), anche se nel Nord-Est della Siberia e presso la maggior parte
delle tribù eschimesi non esiste un costume vero e proprio. Questo si riduce ad
una cintura di cuoio a cui sono attaccate numerose frange di pelle di caribu e
figurine di osso; lo strumento rituale essenziale dello
Sciamano eschimese resta il tamburo. Ad esempio, fra gli Eschimesi lo sciamano
denuda il torso e conserva soltanto una cintura che costituisce tutto il suo
vestito. Questa semi-nudità racchiude assai probabilmente un significato
religioso, anche se il caldo che regna nelle abitazioni artiche sembrerebbe già
spiegare una tale consuetudine. Comunque, sia che si tratti di nudità rituale
(come nel caso degli sciamani eschimesi), sia che si tratti di uno speciale
costume da indossare per l'esperienza sciamanica, l'importante è che una esperienza
del genere non la si realizza mai avendo addosso il costume quotidiano,
profano. Anche quando uno speciale costume non esiste, esso è sostituito da una
berretta, da una cintura, da un tamburello e da altri oggetti magici che fan
parte del guardaroba sacro dello sciamano e fanno le veci di una veste vera e
propria. Cosi Radlov assicura, ad esempio, che i Tartari Neri, gli Schores e i
Teleuti ignorano un costume sciamanico; spesso (come per es. presso i Tartari
Lebed - Harva, op. cit.) si usa però un panno che vien serrato intorno alla
testa, senza di che sarebbe impossibile far dello sciamanismo.
Il costume
rappresenta in se stesso un microcosmo spirituale, qualitativamente diverso
dallo spazio profano dell'ambiente. Per un lato esso costituisce un sistema
simbolico quasi completo, per un altro esso è impregnato, per consacrazione, di
forze spirituali multiple e in primo luogo di «spiriti». Pel semplice fatto
di indossarlo - o di maneggiare gli istrumenti che ne tengono il luogo - lo
sciamano trascende lo spazio profano e si prepara ad entrare in contatto col
mondo spirituale. In genere, questa preparazione costituisce già una
introduzione concreta in tale mondo: infatti il costume lo si indossa dopo vari
preparativi e proprio alla vigilia della trance
sciamanica.
Il candidato nei
suoi sogni deve riuscire a vedere il luogo esatto ove si trova il suo futuro
costume e deve poi andare lui stesso a cercarlo (Si può constatare, del resto,
una progressiva degradazione della confezione rituale del costume; una volta lo
sciamano dello jenissei uccideva lui stesso la renna con la pelle della quale
intendeva confezionare il suo costume, ai nostri giorni egli compra
direttamente la pelle dai Russi). Il costume sarà poi acquistato dai genitori
dello sciamano morto pagando come prezzo un cavallo (per es. presso i
Birarcen). Ma il costume non può lasciare il clan (Shìrokogorov). Infatti, in
un certo senso, esso interessa tutto il clan, non solo perché, di fatto, è
stato confezionato o acquistato grazie ad un contributo di tutta la comunità,
ma soprattutto perché, essendo impregnato dagli «spiriti», non deve esser
indossato da qualcuno che non sappia dominarli; gli spiriti allora andrebbero a
turbare tutta la tribù (Shirokogorov).
Il costume è
oggetto degli stessi sentimenti di timore e di apprensione che suscita ogni
altro «supporto degli spiriti». Quando è consunto, lo si lascia appeso ad un
albero nella foresta; allora gli «spiriti» lo abbandonano e vanno a legarsi ad
un nuovo costume.
Presso i Tungusi
sedentari, dopo la morte dello sciamano il suo costume viene conservato nella
sua abitazione: gli «spiriti» che l'impregnano danno
segno della loro presenza facendolo vibrare, muovere, ecc. I Tungusi nomadi, e
con essi la gran parte delle tribù siberiane, depongono il costume presso la
tomba dello sciamano (Shirokogorov; Harva). In vari luoghi si pensa che il
costume diviene impuro se, dopo esser servito nella cura di un malato, accade
che questi tuttavia muoia. Lo stesso vale per i tamburi che si siano dimostrati
incapaci di produrre la guarigione (Kai Donner).
Secondo Shashkov
- che ne scrisse circa un secolo fa - ogni sciamano siberiano dovrebbe
possedere: 1) un caftano al quale sono sospesi dei dischi di ferro e certe
figure raffiguranti animali mitici; 2) una maschera (presso i Samoiedi Tadìbei
un fazzoletto per bendare gli occhi, affinché lo sciamano penetri nel mondo
degli spiriti grazie alla sua sola vista interiore); 3) un pettorale di ferro o
di rame; 4) un berretto, che l'autore ritenne essere uno dei principali
attributi dello sciamano. Presso gli Yakuti il dietro del caftano ha al centro,
fra dischi sospesi di significato solare, un altro disco forato; secondo
Sieroszewski esso vien chiamato 1'«orifizio del sole»
(o"ibonkungiitii); però, più in generale, si ritiene che esso rappresenti
la Terra con l'apertura centrale attraverso la quale lo sciamano penetra negli
Inferi (vedi Nioradze, Harva). Il retro del costume reca altresi una falce
lunare e una catena di ferro, simbolo della potenza e della resistenza dello
sciamano (Mikhailowski). Le placche di ferro, a sentire gli sciamani,
servirebbero per proteggersi dai colpi degli spiriti malvagi. I fiocchi cuciti
sulla pelliccia stanno a significare le piume (Mikhailowski, seguendo Pripuzov).
Un bel costume
da sciamano yakuta - afferma Sieroszewski deve avere da trenta a quaranta
libbre di ornamenti metallici. È soprattutto il rumore di questi ornamenti che
trasforma la danza dello sciamano in una sarabanda infernale. Siffatti oggetti
metallici hanno un'«anima» e non si arrugginiscono mai.
«Lungo le maniche son disposte delle sbarre che rappresentano le ossa delle
braccia (tabytala). Ai due lati del petto sono cucite piccole foglie che
rappresentano le costole (digos timir);
un po' più su delle grandi placche tonde figurano i seni della donna, altre
ancora il fegato, il cuore e gli altri organi interni. Spesso sono anche cucite
figurazioni di animali e di uccelli sacri. Inoltre, al costume viene appeso un
piccolo iimagiit (lo «spirito deMa follia») metallico, nella forma di una
piccola piroga con una imagine umana».
Presso i Tungusi
del Nord e della Transbaikalia predominano costumi di due specie: in forma di
anitra gli uni e gli altri in forma di renna. I bastoni hanno una estremità
scolpita a guisa di testa di cavallo. Sul di dietro del caftano sono appesi dei
nastri larghi un dieci centimetri e lunghi un metro, detti kulin («serpi»). Sia i «cavalli»
che le «serpi» servono pei viaggi shamanici agli Inferni. Secondo Shirokogorov
gli oggetti di ferro dei Tungusi - la «luna», il «sole», le «stelle»,
ecc. - son stati ripresi, come motivo, dagli Yakuti. Le «serpi»
derivano dai Buriati e dai Turchi, i «cavalli» dai Buriati (sarà bene ricordarsi
di questi riferimenti per il problema delle influenze meridionali di cui
risente lo sciamanismo nordasiatico e siberiano).
Pallas, che
scrisse verso la metà del XVIII secolo, ci descrive nei seguenti termini
l'aspetto di una donna-sciamano buriate: essa' porta due bastoni dalla testa
equina ai quali sono appesi dei campanelli; dalle sue spalle ricadono, fino al
suolo, trenta «serpi» fatte di pelliccie nere e bianche; per copricapo
ha un casco di ferro con tre sporgenze simili alle corna di un cervo. Ma è a
Agapitov e a Changalov che noi dobbiamo la descrizione più completa dello
sciamano buriate. Questi deve possedere: 1) una pelliccia (orgo'i) che sarà bianca per lo «sciamano bianco» (aiutato dagli
spiriti buoni), nera per lo «sciamano nero» (che ha per ausiliari gli spiriti
malvagi); sulla pelliccia sono cucite numerose figure metalliche che
rappresentano cavalli, uccelli, ecc.; 2) un berretto in forma di lince; dopo la
quinta abluzione (che si pratica un certo tempo dopo l'iniziazione) lo sciamano
riceve un casco di ferro (vedi Agapitov e Changalov, fig. 3, tavola II)) con
una doppia punta ricurva tale da raffigurare due corna; 3) due «bastoni-cavallo»,
uno di legno e uno di ferro; il primo viene confezionato alla vigilia della
prima iniziazione e si deve badare che l'albero di betulla da cui è stato
ricavato non muoia; l'altro, di ferro, lo si riceve solo dopo la quinta
iniziazione; la sua estremità è forgiata in forma in testa di cavallo e ornata
da vari campanelli.
Ecco ora la
descrizione data dal «Manuale» dello sciamano buriate tradotto dai mongolo da
Partanen: «Un casco di ferro la cui sommità è formata da più cerchi di ferro ed
ornata di due corna; dietro v'è una catena di ferro di nove anelli e, nella
parte inferiore, un pezzo di ferro a forma di lancia chiamato spina dorsale (nigurasun; cfr. in tunguso nikima, nikama, vertebra). Sulle tempie, ai due lati del casco, v'è un
anello e tre asticelle di ferro d'un vershok
(cm. 4,445) di lunghezza, torte a martello e chiamate qolbuga (unione, andare in coppia, paio _ dunque, attaccatura,
legame). Ai due lati del casco e dietro sono appesi dei nastri di seta, di
cotone, di panno fine e di pelliccia di vari animali selvatici e domestici,
ritorti a guisa di serpenti; vi si attaccano poi delle frange di cotone del
colore della pelle del korune, dello
scoiattolo e della donnola fulva. Questa acconciatura ha il nome di maiqabci («copricapo»).
«Ad un pezzo di
cotone di circa trenta centimetri di larghezza, formante una benda attaccata al
collo della veste, son fissate varie imagini di serpenti e di animali
selvatici. Questo si chiama dalabci («ila»)
o ziber («pinna» o «ala»).
«Due bastoni a
forma di stampella di circa due aune di lunghezza (grossolanamente scolpiti) e
rappresentanti, alla loro estremità, una testa di cavallo al cui collo è
attaccato un anello con tre qolbuga e
che si chiama Criniera del Cavallo; alla loro estremità inferiore sono
attaccati dei qolbuga analogamente chiamati
Coda del Cavallo. Sul davanti di questi bastoni son fissati, allo stesso modo,
un anello qolbuga e (in miniatura)
una staffa, una lancia e una spada, un'ascia, un martello, una nave, un remo,
la punta d'un arpione, tutto di ferro; sopra di essi, come più in alto, sono
attaccati tre qolbuga. Questi quattro
(anelli qolbuga) son detti Piedi, ed
i due bastoni son designati col nome di sorbi.
«Una frusta
formata da un'asticella suqai coperta
da una pelle di topo muschiato arrotolata otto volte intorno ad essa, con un
anello di ferro e tre qolbuga, un
martello, una spada, una lancia, una mazza a punta (tutto in miniatura);
inoltre, vi si attaccano bende di cotone e di seta colorata. L'insieme porta il
nome di Frusta delle «cose viventi». Quando pratica lo sciamanismo,
(il boge) lo tiene in mano
contemporaneamente a un sorbi; può fare a meno di quest'ultimo quando pratica
lo sciamanismo entro yurte».
Alcuni di questi
dettagli li ritroveremo più oltre. Pel momento rileviamo l'importanza che si dà
al «cavallo» dello sciamano buriate. Il motivo del cavallo, quale mezzo
utilizzato dallo sciamano per compiere il suo viaggio è proprio dell'Asia
centrale e settentrionale; avremo occasione d'incontrarlo altrove. Gli sciamani
dei Buriati di Olkhonsk posseggono inoltre un cofano ove conservano i loro
oggetti magici (tamburelli, bastone-cavallo, pelliccie, campanelle, ecc.),
cofano che generalmente reca le imagini del Sole e della Luna. Nil, arcivescovo
di Jaroslav, menziona altri due oggetti dell'equipaggiamento dello sciamano
buriate: l'abagaldei, maschera
mostruosa di pelle, di legno o metallo su cui è dipinta una enorme barba, e il toli, specchio metallico con le figure
di dodici animali, che si porta appeso sul petto o sul dorso, quando non è cucito
direttamente sul caftano. Secondo Agapitov e Changalov, in pratica questi due
oggetti son quasi scomparsi. Fra breve vedremo che essi si ritrovano però
altrove e diremo del loro complesso significato religioso.
La descrizione
che Potanin fornisce dello sciamano altaico ci dà il senso che il suo costume
sia più completo e si sia meglio conservato di quello degli sciamani siberiani.
Il suo caftano è fatto di pelle di becco o di renna. Una quantità di nastri e
di fazzoletti cuciti al cappuccio, rappresentano delle serpi, alcuni di essi
formando una testa di serpe con due occhi e con le fauci aperte. La coda delle
serpi più grandi è forcuta e talvolta si hanno tre serpi con una sola testa. Si
dice che uno sciamano ricco deve avere sul costume 1.070 serpi. Più a nord, l'originario significato ofidico di
questi nastri si sta perdendo, a vantaggio di una nuova valorizzazione
magico-religiosa. Cosi, per esempio, certi sciamani ostiachi hanno dichiarato a
Kai Donner che i nastri hanno la stessa proprietà dei capelli. Gli sciamani
yakuti chiamano e capelli» i nastri. Assistiamo perciò ad un
trasferimento di significato, processo che la storia delle religioni constata
di frequente: il valore magìco-religioso delle serpi - valore ignoto a parecchi
popoli siberiani - vien sostituito, nello stesso oggetto che già rappresentava
le serpi, dal valore magico-religioso dei «capelli», Infatti anche i
capelli lunghi stanno a significare una forte potenza magico-religiosa che si
troverebbe concentrata negli stregoni (ad esempio, nei muni del Rig-Veda, X, 136, 7), nei re (ad
esempio, i re babilonesi), negli eroi (Sansone) ecc. Ma la spiegazione data
dallo sciamano interrogato da Kai Donner resta piuttosto isolata.
Vi figura anche
un buon numero di oggetti metallici, fra i quali un piccolo arco con le
relative freccie, per spaventare gli spiriti. Sul dietro del cappuccio sono
cucite pelli di animali e due tondi di rame. Il collare è ornato da una frangia
di più ma di gufi neri e di gufi bianchi. Uno sciamano aveva inoltre cucite sul
suo collare sette pupattole, ognuna con una penna di gufo bruno per testa. Egli
diceva che erano le sette vergini celesti e che le sette campanelle
corrispondevano alle loro voci, che chiamavano e attiravano gli spiriti. In
altri luoghi tali imagini sono nove e starebbero a rappresentare le figlie di
Ulgan (tra gli altri Harva).
Fra gh altri
oggetti sospesi al costume sciamanico, aventi un loro significato religioso,
ricorderemo: presso gli Altaici, due piccoli mostri, abitanti del regno di
Erlik, jupta e arba, fatti di stoffa nera e bruna l'uno, e verde l'altro, con
due paia di piedi, una coda e le fauci semiaperte (Harva); presso i popoli
dell'estremo settentrionale siberiano certe imagini di uccelli acquatici, come
il gabbiano e il cigno, che simboleggiano il potere dello sciamano di scendere
nell'inferno sottomarino - concezione, questa, sulla quale avremo da tornare
quando studieremo le credenze eschimesi -; un buon numero di animali mitici
(l'orso, il cane, l'aquila con un anello intorno al collo, che, secondo le
popolazioni dello Jenissei, simboleggerebbe il fatto che l'uccello imperiale
sta al servizio dello sciamano (cfr. Nioradze); perfino disegni degli organi
sessuali umani che contribuiscono anch'essi a sacralizzare il costume.
Gli specchi e i berretti
sciamanici
Presso i vari
gruppi tungusi della Manciuria settentrionale (Tungusi Khingan, Birarcen, ecc.)
gli specchi di rame hanno una parte importante (cfr. Shirokogorov). La loro
origine è senz'altro cino-manciuriana, ma il loro significato magico varia
dall'una tribù all'altra: si dice che lo specchio aiuta lo sciamano a «vedere
il mondo» (cioè a concentrarsi), o a «porre gli spiriti», o che egli lo usa
affinché i bisogni dell'uomo vi si riflettano, ecc. V. Diòszegi ha dimostrato
che il termine manciù-tunguso designante lo specchio, panaptu, deriva da pana, «anima, spirito», più precisamente 1'«anima-ombra».
Guardando nello specchio, lo sciamano può vedere l'anima del defunto. Certi
sciamani mongoli vedono nello specchio il «cavallo bianco degli sciamani».
H destriero è l'animale sciamanico per eccellenza: il galoppo, la velocità
vertiginosa, sono espressioni tradizionali del «volo», vale a dire
dell'estasi (vedi più giù).
Quanto al
berretto, in certe tribù (per es. presso i Samoiedi Yurak) esso è considerato
come la parte più importante del paludamento sciamanico: «A udire questi
sciamani, gran parte del loro potere è dunque nascosta in tali berretti» (Kai Donner).
«È cosi che quando gli sciamani si esibiscono essendone richiesti da Russi,
essi non usano portare il berretto» (Donner). «Da me interrogati a tale
riguardo, essi hanno risposto che facendo dello sciamanismo senza berretto essi
erano privi di ogni vero potere, tanto che tutta la cerimonia si riduceva ad
una parodia destinata soprattutto a divertire i presenti» (Donner).
«L'importanza attribuita al berretto risulta anche da antichi disegni rupestri
dell'età del bronzo nei quali lo sciamano porta un berretto ben riconoscibile,
senza che siano sempre presenti tutti gli altri attributi indicativi della sua
dignità».
Nella Siberia occidentale il berretto consiste in una larga fascia che vien
passata intorno alla testa alla quale sono appese lucertole o altri animali
tutelari, oltre ad una quantità di nastri. Ad oriente di Ket i berretti
«rassomigliano talvolta a corone di ferro munite di corna di renna; talvolta
sono ricavati da una testa d'orso a cui son state lasciate attaccate le parti
principali della pelle del cranio» (Kai Donner; vedi anche Harva). Il tipo più
comune è quello che rappresenta le corna di una renna (Harva), benché fra i
Tungusi orientali certi sciamani pretendano che le corna di ferro che adornano
il loro copricapo riproducano quelle di un cervo. Altrove, sia nel Nord, come
fra i Samoiedi, sia nel Sud, come fra gli Altaici, il berretto sciamanico è
ornato da piume di uccelli, di cigno, d'aquila, di gufo: per es. di piume di
aquila dorata o di gufo bruno fra gli Altaici (Potanin), 5 di piume di gufo fra
i Soioti e i Karagassi, ecc. (Harva). Certi sciamani teleuti portano un
berretto di pelle di gufo nero, con le ali e talvolta anche con la testa
dell'animale come ornamenti (Mikhailowski) (Del resto, in certe regioni il
berretto di gufo bruno non può esser portato dallo sciamano subito dopo la sua
consacrazione. Nel corso della kamlanie
gli 'spiriti fanno conoscere in che momento il berretto e altre insegne d'alto
grado potranno essere assunte senza che vi sia pericolo per il nuovo sciamano).
È chiaro che
grazie a tutti questi ornamenti il costume sciamanico tende a fornire allo
sciamano un nuovo corpo, un corpo magico in forma di animale. Tre sono i tipi
principali: in forma di uccello, di renna (o cervo) e d'orso - ma specialmente
d'uccello. Torneremo subito sul significato dei corpi in forma di renna o
d'orso. Pel momento, occupiamoci del solo costume ornitomorfo. Abbiamo
incontrate le piume di uccelli un po' dappertutto, nelle descrizioni dei
costumi sciamanici; non solo: la stessa struttura dei costumi cerca di
riprodurre il più fedelmente possibile la forma di un uccello. Cosi gli
sciamani altaici, quelli dei Tartari di Minnusinsk, dei Teleuti, dei Soioti e
dei Karagassi s'ingegnano a far si che il loro costume rassomigli ad un gufo
(Harva). Il costume soiota può essere perfino considerato come una perfetta
ornitofania. Si cerca soprattutto di rappresentare l'aquila. Anche presso i
Goldi è il costume a forma di uccello che predomina (Shirokogorov). Lo stesso
vale pei popoli siberiani abitanti più a Nord, pei Dolgani, gli Yakuti e i
Tungusi. Le calzature dello sciamano tunguso imitano le zampe di un uccello
(Harva). La forma più complicata di costume sciamanico la si incontra presso
gli sciamani yakuti; il loro costume rappresenta uno scheletro completo di
uccello, in ferro (Shirokogorov). Del resto, secondo lo stesso autore, il
centro di diffusione del costume in forma d'uccello sembra essere proprio la
regione attualmente occupata dagli Yakuti.
Anche quando il
costume non presenta una struttura visibilmente ornitomorfa - come per es.
presso i Manciù, fortemente influenzati da ondate successive di cultura
cino-buddhista (Shirokogorov) - s'incontra un'acconciatura della testa con piume
tale da far pensare ad un uccello. Lo sciamano mongolo ha delle «ali» alle
spalle e si sente trasformato in uccello quando indossa il costume (Ohlmarks).
È probabile che in altri tempi gli elementi ornitomorfi presso gli Altaici in
genere fossero ancor più accentuati (Harva). Oggi le piume di gufo non ornano
più che il bastone del baqça kazak kirghiso
(Castagné).
Rifacendosi ai
suoi informatori tungusi Shirokogorov ci dice che il costume da uccello sarebbe
indispensabile per volare verso l'altro mondo: «Essi affermano che è più facile
recarvisi quando il costume è leggero». È così che in una leggenda, una
donna-sciamano spicca il volo dopo che essa ha ottenuto la più ma magica. Il
tema folkloristico di un volo propiziato da penne di uccelli è abbastanza
diffuso, specie nell' America del Nord.. Ancor più frequente è il tema di una fata-uccello
sposa di un uomo, la quale prende il volo non appena riesce a impadronirsi di
una penna da tempo custodita dal marito. Cfr. anche la leggenda della sciamana
buriate che s'innalza sul suo cavallo magico ad otto gambe.
Ohlmarks crede
che questo complesso sia di origine artica e abbia una relazione diretta con le
credenze circa gli «spiriti ausiliari» che aiutano lo sciamano a compiere il
suo viaggio aereo. Ma, come abbiamo già visto e come avremo ancora occasione di
vedere, lo stesso simbolismo aereo lo si ritrova un po' dappertutto nel mondo,
riferito proprio agli sciamani, agli stregoni e agli esseri mitici che questi
talvolta vanno a personificare.
D'altronde
bisogna tener conto delle relazioni mitiche esistenti fra l'aquila e lo
sciamano. Ricordiamoci che l'aquila sarebbe stata la genitrice del primo
sciamano, che essa ha una parte considerevole nella stessa iniziazione dello
sciamano e, infine, che essa costituisce il centro di un complesso mitico il
quale riprende anche il motivo dell'Albero del Mondo e del viaggio estatico
dello sciamano. Nemmeno si deve trascurare il fatto che l'Aquila rappresenta,
in un certo modo, l'Essere Supremo, anche se in una sua forma fortemente
solarizzata. A noi sembra che tutti questi elementi concorrano a precisare
abbastanza nettamente il significato religioso del costume sciamanico: quando
lo si indossa, ci si sforza di ritrovare lo stato mistico rivelato e fissato
durante le lunghe esperienze e cerimonie dell'iniziazione.
Ciò viene
confermato dalla presenza, nel costume sciamanico, di certi oggetti di ferro
che riproducono la conformazione delle ossa e che tendono a dargli, sia pure
parzialmente, l'aspetto di uno scheletro (vedi per es. Findeisen, seguendo
Anutschin), Alcuni autori, e fra essi Harva, hanno pensato trattarsi di uno
scheletro d'uccello. Ma già nel 1902 Troschtschanskij aveva dimostrato che,
almeno nello sciamanismo yakuta, queste «ossa» di ferro cercano di imitare lo
scheletro umano. Uno Jenisseiano disse a Kai Donner che le ossa erano lo
scheletro dello stesso sciamano. E anche Harva ha finito col condividere l'idea
che si tratti di uno scheletro umano, malgrado che nel frattempo (1910) N.
Pekarskij avesse proposta un'altra ipotesi: secondo lui si avrebbe piuttosto a
che fare con una combinazione dello scheletro dell'uomo con quello di un uccello.
Presso i Manciù le «ossa» son fatte di ferro e di
bronzo e gli sciamani affermano (almeno al giorno d'oggi) che essi
rappresentano delle ali (Shirokogorov, p. 294). Tuttavia non v'è dubbio che in
molti casi si è mirato alla rappresentazione di uno scheletro umano. Findeisen
riproduce (Der Mensch und seine Teile, fig. 39) un oggetto di ferro che imita
mirabilmente la tibia umana (Berliner Museum fiir Volkerkunde).
Come pur stiano
le cose, le due ipotesi, in fondo, rimandano ad una stessa idea fondamentale:
sforzandosi di imitare lo scheletro - scheletro di uomo o di uccello - il
costume sciamanico testimonia dello stato speciale di colui che lo indossa,
dello stato di un essere che è morto ed è risuscitato. Si è visto che presso
gli Yakuti, i Buriati e altri popoli siberiani si ritiene che gli sciamani
sarebbero stati uccisi dagli spiriti dei loro antenati i quali, dopo aver
«cotto» il loro corpo, hanno contate le ossa che poi hanno rimesso a posto,
legandole con dei ferri e ricoprendole infine di una carne nuova (sulla
concezione dell'osso come sede dell'anima presso i popoli del nord
dell'Eurasia. cfr. Paulson). Ora, presso i popoli cacciatori le ossa stanno a
rappresentare la sorgente prima della vita - della vita tanto dell'uomo che
degli animali - sorgente, partendo dalla quale la specie si ricostituisce a
piacimento. È per tale ragione che le ossa della selvaggina uccisa non vengono
spezzate, ma raccolte con cura e trattate come vuole il costume, cioè o
sotterrate, o deposte su piattaforme, o su alberi, o gettate in mare e così
via. A tale riguardo, gli animali sono sotterrati nella stessa, esatta maniera
con cui si inumano gli esseri umani (Harva). Infatti, sia negli uni che negli
altri 1'«anima»
risiederebbe nelle ossa e si può sperare in una resurrezione degli individui
partendo dalle loro ossa.
Ora, lo
scheletro presente nel costume sciamanico riassume e attualizza il dramma
dell'iniziazione, cioè il dramma della morte e della resurrezione. Che si
ritenga che esso rappresenti uno scheletro d'uomo, oppure d'animale, ciò poco
importa. Nell'un caso come nell'altro si tratta sempre della sostanza-vita,
della materia prima connessa agli antenati mitici. Lo scheletro umano
corrisponde in un certo modo all'archetipo dello sciamano, perché si vuole che
esso rappresenti il ceppo dal quale la serie degli antenati-sciamani è sorta
(del resto, il ceppo familiare vien designato come 1'«osso»;
si dice «delle ossa di X» nel senso di «discendente di X»). Lo scheletro di
uccello è una variante della stessa concezione: da un lato, il primo sciamano è
nato dall'unione di un'aquila con una donna; dall'altro, lo sciamano cerca di
trasformarsi lui stesso in uccello e di volare e, in realtà, egli è un uccello
nella misura in cui, come gli uccelli, ha accesso alle regioni superiori. Nel
caso in cui questo scheletro - o la maschera - trasforma lo sciamano in un
altro animale (cervo, ecc.), incontriamo una teoria consimile. Ad esempio, il
costume dello sciamano tunguso rappresenta un cervo, io scheletro del quale è
indicato da pezzi di ferro. Anche le corna sono di ferro. Secondo le leggende
yakute gli sciamani, quando combattono fra loro, assumono la forma di toro,
ecc. Infatti l'animale-antenato mitico vien concepito come la matrice inesauribile
della vita della specie, matrice riconosciuta nelle ossa di tali animali. Qui
non si può parlar senz'altro di totemismo. Si tratta piuttosto delle relazioni
mistiche che intercorrono fra l'uomo e la selvaggina che egli caccia, relazioni
fondamentali per le società dei popoli cacciatori, che da Friedrich e Meuli
sono state recentemente messe assai bene in risalto.
Che l'animale
cacciato e lo stesso animale domestico possano rinascere dalle proprie ossa, è
credenza che non s'incontra soltanto in Siberia. Ad esempio, già Frazer aveva
registrato diversi esempi americani. Numerosi indiani Minnetaris «credono che
le ossa dei bisonti da essi uccisi e squartati rinascano con una nuova carne e
una nuova vita in animali che crescono e che possono essere uccisi di nuovo
partendo dal giugno successivo alla loro morte. Secondo Frobenius questo motivo
mitico-rituale si conserva ancora ben vivo presso gli Aranda, presso le tribù
dell'interno dell'America del Sud, presso i Boscimani e i Camiti africani.
Friedrich ha completato e integrato la documentazione relativa all'area
africana considerando giustamente in quella credenza un'espressione della
spiritualità pastorale. Sìfiatto complesso rnitico-rituale si è mantenuto anche
altrove in civiltà più evolute, al centro stesso delle corrispondenti
tradizioni religiose, oppure sotto forma di racconti. Liungman rammenta
che!'interdizione di spezzare le ossa degli animali si trova nei racconti degli
Ebrei e degli antichi Germani, nel Caucaso, in Transilvania, in Austria, nei
paesi alpini, in Francia, in Belgio, in Inghilterra e in Svezia. Ma, schiavo
delle sue teorie oriental-diffusioniste, lo studioso svedese considera tutte
queste credenze piuttosto recenti e d'origine orientale. Secondo una leggenda
dei Gagautz, Adamo, per procurare delle donne ai suoi figli, avrebbe raccolte
le ossa di diversi animali pregando Dio di animarle. In un racconto armeno un
cacciatore assiste ad uno sposalizio degli spiriti dei boschi. Invitato al
festino, egli si astiene dal mangiare ma trattiene una costola di bove che gli
era stata offerta. Gli spiriti che in seguito raccolsero tutte le ossa
dell'animale per farlo rivivere, furono costretti a sostituire la costola
mancante con un ramo di noce. Lehtisalo racconta un'avventura consimile
riferentesi all'eroe Bodga Gessen Khan: un vitello ucciso e divorato rinasce
dalle sue ossa, ma ad esse ne manca una.
A tale riguardo
si potrebbe anche ricordare un episodio dell'Edda in prosa: l'accidente del
becco di Thòrr. Essendo in viaggio col suo carro e i suoi becchi Thòrr prende
alloggio presso un contadino. «Quella sera Thòrr prese i becchi e li uccise.
Poi essi furono scorticati e messi in un calderone. Una volta bolliti, Thòrr e
i suoi compagni si misero a sedere per cenare. «Thòrr invitò anche il
contadino, sua moglie e i loro bambini... Alla fine Thòrr mise le pelli di
becco presso il camino dicendo al contadino e ai suoi di gettarvi sopra le
ossa. Thjalfi, figlio del contadino, aveva avuto l'osso della coscia di uno dei
becchi e l'aveva spaccato col coltello _per estrarre il midollo. Thòrr
trascorse la notte in quel luogo. L'indomani si svegliò prima del levarsi del
sole, si vesti, prese il martello Mjòllnir e benedisse i resti dei becchi. I
becchi tornarono in vita, ma uno di essi zoppicava in una delle zampe posteriori».
Questo episodio
attesta la sopravvivenza della concezione primordiale dei popoli cacciatori e
nomadi. Essa non fa necessariamente parte della spiritualità sciamanica.
Abbiamo tuttavia voluto segnalarla, e ci riserviamo di esaminare i resti dello
sciamanismo indo-ario più oltre, dopo che saremo giunti ad una veduta d'insieme
delle teorie e delle pratiche sciamaniche.
Sempre a
proposito di un risorgere dalle ossa, si potrebbe ricordare la celebre visione
di Ezechiele, benché essa vada integrata in un orizzonte religioso del tutto
diverso da quello degli esempi su citati: «La mano dell'Eterno si posò su di
me; l'Eterno mi rapi in spirito trasportandomi in una valle piena d'ossa ...
Egli mi disse: "Figlio di uomo, queste ossa possono rivivere? ".
Risposi: "Signore Eterno, sei tu a saperlo!". Allora mi disse:
"Profetizza su queste ossa e di' loro: Ossa disseccate, ascoltate la
parola dell'Eterno! Cosi parla il Signore, l'Eterno, a queste ossa: io farò
entrare in voi lo spirito e voi rivivrete; e saprete che sono l'Eterno". Io
dunque profetizzai, come mi era stato comandato; e mentre profetizzavo, vi fu
un fremito, poi un frastuono e le ossa si avvicinarono le une alle altre.
Guardai, ed ecco che intorno ad esse si formavano muscoli e carne»,
ecc. (Ezechiele, XXXVII, 1-8, sgg.).
Anche in Egitto le ossa dovevano venir conservate per la resurrezione: cfr. Il Libro dei Morti, c. CXXV. Cfr.
Corano, II, 259. In una leggenda azteca l'umanità nasce da ossa portate dalla
regione sotterranea
A. Friedrich
ricorda anche una pittura scoperta da Griinwedel fra le rovine di un tempio a
Sangimiìghiz, che rappresenta la resurrezione di un uomo dalle sue ossa,
resurrezione avvenuta grazie alla benedizione di un monaco buddhista. Questo
non è il luogo per entrare in dettagli circa le influenze iràniche esercitatesi
sull'India buddhista né per affrontare il problema, finora mal studiato, delle
simmetrie esistenti fra la tradizione tibetana e quella irànica. Come J.J. Modi
l'ha notato già qualche tempo fa, vi è una rassomiglianza che colpisce fra
l'uso tibetano di esporre i cadaveri e il corrispondente uso iranico. Gli uni
come gli altri lasciano che cani ed avvoltoi divorino i corpi; per i Tibetani è
assai importante che i corpi si trasformino in scheletri il più presto
possibile. Gli Irani depongono le ossa nell'astodan,
il «luogo delle ossa», ove esse aspetteranno la
resurrezione. Questa usanza può essere considerata come una sopravvivenza della
spiritualità pastorale.
Nel folklore
magico dell'India, certi santi e certi yogi si ritiene che abbiano il potere di
risuscitare i morti dalle loro ossa o dalle loro ceneri; è quel che, per es.,
fa Gorakhnàth, e non è privo d'interesse rilevare fin d'ora che questo mago
famoso viene considerato come il fondatore di una setta yogico-tantrica, quella
degli Yogi Kànphata, nella quale si potrebbero ritrovare altre sopravvivenze
sciamaniche. Infine vale ricordare certe meditazioni buddhiste il cui oggetto è
la visione del corpo che si trasforma in scheletro; la parte importante che
hanno i crani e le ossa umane nel lamaismo e nel tantrismo; la danza dello
scheletro nel Tibet e in Mongolia; la funzione della Brdhmarandbra (= sutura frontalis) nelle tecniche
indo-tibetane dell'estasi e nel lamaismo, ecc. Tutti questi nn e tutte queste
concezioni ci sembra che, malgrado il loro appartenere a sistemi assai vari,
mostrino come le tradizioni primordiali circa la relazione del principio vitale
con le ossa non siano completamente scomparse dall'orizzonte della spiritualità
asiatica.
Ma nei miti e
nei riti sciamanici le ossa hanno anche altre funzioni. Ad esempio, quando lo
sciamano ostiaco-vasiugano va in cerca dell'anima del malato, usa per il suo
viaggio estatico una barca fatta come un cofano e come remo si serve di una
scapola (Karjalainen). A tale riguardo bisognerebbe citare anche la divinazione
a mezzo di una scapola di ariete o di pecora, molto diffusa fra i Calmucchi, i
Kirghisi e i Mongoli; e a mezzo di una scapola di foca fra i Coriacchi. In se
stessa, la divinazione è una tecnica intesa a attualizzare le realtà spirituali
che costituiscono la base dello sciamanismo, o a facilitare un contatto con
esse. L'osso dell'animale qui simbolizza di nuovo la «Vita totale» perennemente
rigenerantesi, e pertanto include in sé - sia pure virtualmente - tutto quanto
appartiene al passato e al futuro di questa «Vita».
Non crediamo di
esserci allontanati troppo dal nostro argomento - lo scheletro raffigurati) sul
costume sciamanico - ricordando tutte queste pratiche e queste concezioni. Esse
appartengono quasi per intero a dei livelli di cultura simili o fra loro
omologabili e, col farne menzione, abbiamo indicato certi punti di riferimento
nella vasta area della spiritualità pastorale. Precisiamo tuttavia che tutte
queste vestigia non rimandano in egual misura ad una struttura «sciamanica»,
Infine, vale aggiungere che, per quel che riguarda le corrispondenze segnalate
fra certi costumi tibetani, mongoli e nord-asiatici, o artici, si deve tener
conto delle influenze provenienti dall' Asia meridionale e particolarmente
dall'India, influenze sulle quali avremo da tornare.
Ci si ricorderà
che Nil, arcivescovo di Iaroslav, fra gli oggetti dello sciamano buriate ha
anche menzionato una maschera mostruosa (vedi sopra). Ai nostri giorni, l'uso
di essa fra i Buriati è scomparso. Del resto, maschere sciamaniche s'incontrano
abbastanza di rado in Siberia e nell'Asia settentrionale. Shirokogorov
riferisce un unico caso di sciamano tunguso che aveva confezionata una maschera
«per mostrare che lo spirito malu era
in lui». Presso i Ciukci, i Coriacchi, i Camciadali, gli Yukaghiri e gli Yakuti
la maschera non ha nessuna parte nello sciamanismo: essa viene usata, e solo
sporadicamente, per spaventare i bambini (come presso i Ciukci) oppure durante
i funerali, per non farsi riconoscere dalle anime dei morti (Yukaghiri). Quanto
alle popolazioni artiche, è soprattutto fra gli Eschimesi dell'Alaska,
fortemente influenzati dalle culture americane, che lo sciamano usa una
maschera.
In Asia i rari
casi accertati si riferiscono quasi esclusivamente a tribù meridionali. Presso
i Tartari Neri gli sciamani fanno uso talvolta di una maschera di scorza di
betulla coro baffi e sopracciglia fatti di coda di scoiattolo. Uguale usanza
presso i Tartari di Tomsk. Nell'Altai e presso i Goldi lo sciamano quando
conduce l'anima del defunto nel regno delle ombre s'impiastriccia il viso di
grasso per non esser riconosciuto dagli spiriti. La stessa usanza la si ritrova
altrove, e con lo stesso scopo, nel sacrificio dell'orso. Qui occorre però
ricordare che il costume di ungersi la faccia di grasso è, in genere,
abbastanza diffuso fra i «primitivi» e che il suo significato non è sempre cosi
semplice come sembrerebbe. Non si tratta sempre di camuffarsi di fronte agli
spiriti o di un mezzo per difendersi da essi, ma anche di una tecnica
elementare che mira ad un'integrazione magica nel mondo degli spiriti. Infatti
in molte regioni del globo le maschere rappresentano gli antenati e si ritiene
che chi le porta vada ad incarnare questi stessi antenati. Quanto
all'impiastricciarsi il volto con del grasso, esso costituisce uno dei modi più
semplici per assumere una maschera, epperò per incorporare le anime dei
defunti. Del resto, esiste una relazione fra le maschere, le società segrete di
uomini e il culto degli antenati. In genere, gli etnologi concordano nel
ritenere che il complesso maschere-culto-degli-antenati-società-segrete-iniziatiche
appartenga al ciclo culturale del matriarcato, le società segrete avendo
effettivamente costituito una reazione contro il dominio della donna.
La rarità delle
maschere sciamaniche non deve sorprenderci. In effetti, come l'ha giustamente
rilevato Harva, il costume sciamanico costituisce da per se stesso una maschera
e può considerarsi derivato da una maschera originaria. Si è cercato di
dimostrare l'origine orientale, epperò recente, dello sciamanismo siberiano
adducendo, fra l'altro, proprio il fatto che le maschere, più frequenti nelle
regioni meridionali dell'Asia, divengono sempre più rare e poi scompaiono verso
l'estremo settentrione. Qui non possiamo affrontare il problema dell'«origine»
dello sciamanismo siberiano. Dobbiamo tuttavia rilevare che nello sciamanismo
nord-asiatico e artico il costume e la maschera vengono valorizzati in modo
differente. In certi luoghi (per es. presso i Samoiedi) si vuole che la
maschera faciliti la concentrazione. Abbiamo visto che il panno che copre gli
occhi od anche tutto il viso dello sciamano ha una funzione analoga. D'altra
parte, anche se talvolta non si parla di una maschera vera e propria, non si
tratta di cosa molto diversa: per es. le pelliccie e le pezze che, presso i
Goldi e i Soioti, coprono quasi interamente la testa dello sciamano (Harva).
Pur tenendo
conto del valore vario ad essa attribuito nei rituali e nelle tecniche
dell'estasi, per queste ragioni si può concludere che la maschera ha la stessa
funzione del costume sciamanico e che i due elementi possono considerarsi come
mutuabili. Infatti in tutte le regioni in cui la si usa (al di fuori
dell'ideologia sciamanica propriamente detta) la maschera attesta
manifestamente l'incarnazione di un personaggio mitico (antenato, animale
mitico, divinità). Da parte sua, il costume transustanzializza lo sciamano
trasformandolo, agli occhi di tutti, in un essere sovrumano, quale pur sia
l'attributo predominante che viene al primo piano: il prestigio di un morto che
è risuscitato (scheletro), la capacità di volare (uccello), la condizione di
marito di una «sposa celeste» (costume di donna, attributi femminili), ecc.
Il tamburo ha
una parte di primo piano nelle cerimonie sciamaniche. Il suo simbolismo è
complesso e le sue virtù magiche sono multiple. Esso è indispensabile per lo
svolgimento della seduta, sia che conduca lo sciamano al «Centro del Mondo»,
sia che gli permetta di volare, sia che chiami e «imprigioni» gli spiriti, sia,
infine, che il suono da esso prodotto aiuti lo sciamano a concentrarsi e a riprender
contatto col mondo spirituale che egli si prepara ad attraversare.
Ci si ricorderà
che in molti sogni iniziatici dei futuri sciamani figura un viaggio mistico al
«Centro del Mondo», alla sede dell'Albero Cosmico e del Signore
Universale. È da uno dei rami di quest'albero, lasciato cadere dal Signore a
tal fine, che lo sciamano, come già detto, forma la cassa del suo tamburo. Ci
sembra che il significato di un tale simbolismo risulti abbastanza chiaramente
dal complesso di cui fa parte: quello di un comunicare di Cielo e Terra grazie
all'Albero del Mondo, cioè all'Asse che sta al «Centro del Mondo».
Per essere, la cassa del suo tamburo, fatta del legno stesso dell'Albero
Cosmico, lo sciamano, battendo il tamburo, vien proiettato magicamente presso tale
Albero: vien proiettato nel «Centro del Mondo» e per ciò stesso può anche
ascendere nei Cieli.
Da tale punto di
vista il tamburo può essere assimilato all'albero sciamanico a pioli multipli,
l'arrampicarsi sul quale è per lo sciamano simbolo del salire in Cielo.
Scalando la betulla o suonando il tamburo lo sciamano si avvicina all' Albero
del Mondo e poi sale effettivamente su di esso. Gli sciamani siberiani
posseggono anche loro alberi personali che non hanno altra funzione se non di
rappresentare l'Albero Cosmico: alcuni utilizzano altresì degli «alberi
rovesciati», cioè attaccati con le radici in aria, alberi che, come è noto,
sono fra i simboli primordiali dell'Albero del Mondo. Tutto ciò, insieme ai
rapporti già rilevati fra lo sciamano e gli alberi di betulla cerimoniali,
mostra la solidarietà esistente fra l'Albero Cosmico, il tamburo sciamanico e
l'ascensione celeste.
La stessa scelta
del legno di cui sarà fatta la cassa del tamburo dipende unicamente dagli
«spiriti» o da una volontà transumana. Lo sciamano ostiaco-samoiedo prende
l'ascia e, ad occhi chiusi, va in una foresta e tocca a caso un albero; è da
tale albero che, l'indomani, i suoi compagni prenderanno il legno per la cassa.
All'altra estremità della Siberia, presso gli Altaici, lo sciamano ha
direttamente dagli spiriti la precisa indicazione del bosco e del posto ove
cresce l'albero, e manda i suoi coadiutori a individuarlo e a procurarsi il
legno con cui sarà fatta la cassa del tamburo. In altre regioni, lo sciamano
stesso raccoglie nel bosco tutte le scaglie di legno. Altrove si offrono
sacrifici all'albero, che si bagna di sangue e di vodka. Si procede anche all'«animazione
del tamburo», ottenuta versando dell'alcool sulla cassa. Presso gli
Yakuti si raccomanda di scegliere un albero che sia stato colpito dalla folgore
(Sieroszewski). Tutte queste usanze e queste precauzioni rituali mostrano
chiaramente che l'albero concreto è stato trasfigurato dalla rivelazione
superumana, che in realtà esso ha cessato di essere un albero profano e va a
rappresentare lo stesso Albero del Mondo.
La cerimonia
dell'«animazione
del tamburo» è estremamente interessante. Quando lo sciamano altaico l'irrora
di birra, il cerchio si «anima» e, per il tramite dello sciamano, racconta come
l'albero di cui faceva parte sia cresciuto nella foresta, come sia stato
tagliato, portato nel villaggio, ecc. Lo sciamano irrora poi la pelle del
tamburo che, animandosi, racconta anch'essa il suo passato. Attraverso la voce
dello sciamano, l'animale parla della sua nascita, dei suoi genitori, della sua
infanzia e di tutta la sua vita fino al momento in cui è stato abbattuto dal
cacciatore. Finisce assicurando allo sciamano che gli renderà numerosi servigi.
In un'altra tribù altaica, i Tubalari, lo sciamano imita la voce e l'andatura
dell'animale cosi rianimato.
Come hanno
dimostrato L.P. Potapov e G. Buddruss, l'animale che lo sciamano rianima è il
suo alter ego, il suo più potente
spirito coadiutore; quando penetra nello sciamano, costui si trasforma
nell'antenato mitico teriomorfo. Si comprende dunque perché, durante il rito
del- 1'«animazione»,
lo sciamano deve raccontare la vita dell'animale-tamburo: egli canta il suo
modello esemplare, l'animale primordiale che è all'origine della sua tribù, Nei
tempi mitici, ciascun membro della tribù poteva trasformarsi in animale, e cioè
ciascuno era capace di partecipare della condizione dell'antenato. Ai nostri
giorni, così intimi rapporti con gli antenati mitici son riservati
esclusivamente agli sciamani.
Sottolineiamo
questo fatto: durante la seduta, lo sciamano ristabilisce, per sé solo, una
situazione che all'origine era quella di tutti. Il significato profondo d'un
tal ritrovare la condizione umana originaria ci apparirà più chiaro quando
avremo esaminato altri esempi simili. Per ora ci basta aver evidenziato che
tanto la cassa quanto la pelle del tamburo rappresentano strumenti
magico-religiosi grazie ai quali lo sciamano è capace d'intraprendere il
viaggio estatico al «Centro del Mondo». In parecchie tradizioni,
l'antenato mitico teriomorfo vive nel mondo sotterraneo, vicino alla radice
dell'Albero Cosmico la cui cima tocca il cielo (Friedrich). Siamo qui di fronte
ad idee distinte, ma solidali. Da un lato, lo sciamano, suonando il tamburo,
vola verso l'Albero Cosmico; vedremo tra poco che il tamburo comporta un gran
numero di simboli ascensionali. Dall'altro, grazie ai suoi rapporti mistici con
la pelle «rianimata» del tamburo, lo sciamano giunge a partecipare della natura
dell'antenato teriomorfo; in altri termini, egli può abolire il tempo e
recuperare la condizione originaria di cui parlano i miti. In un caso come
nell'altro, siamo di fronte ad un'esperienza mistica che permette allo sciamano
di trascendere il tempo e lo spazio. La metamorfosi nell'animale-antenato, cosi
come l'estasi ascensionale, sono espressioni differenti, ma omologabili, d'una
stessa esperienza: il trascendimento della condizione profana, il recupero
d'una esistenza «paradisiaca» perduta alla fine del tempo mitico.
In genere, il tamburo
è ovale; è fatto di pelle di renna, di pescecane o di cavallo. Presso gli
Ostiachi e i Samoiedi della Siberia occidentale la superficie esterna non ha
disegni. Secondo Georgi, sulla pelle dei tamburi tungusi sono invece
raffigurati uccelli, serpi ed altri animali. Shirokogorov descrive come segue i
disegni da lui visti sui tamburi dei Tungusi della Transbaikalia: il simbolo
della Terra ferma (perché lo sciamano utilizza il tamburo come imbarcazione per
attraversare il mare - per tale ragione indica le parti continentali); vari
gruppi di figure antropomorfe, a destra e a sinistra, e numerosi animali. In
mezzo al tamburo non è dipinta nessuna imagine; le otto linee doppie che vi
sono segnate simboleggiano gli otto piedi che sostengono la Terra al disopra
del Mare. Presso gli Yakuti si possono osservare, sempre sulla pelle del
tamburo, dei segni misteriosi in rosso e nero, che raffigurano uomini e animali
(Sieroszewski). Imagini varie sono state accertate sui tamburi degli Ostiachi
dello Ienissei (Kai Donner).
«Sul dietro del
tamburo vi è un manico verticale di legno e di ferro che lo sciamano impugna
con la sinistra. A dei fili di metallo o a delle stecche orizzontali di legno
sono assicurati, in quantità, dei pezzetti di ferro tintinnanti, dei sonagli e
insieme ad essi delle imagini di ferro rappresentanti spiriti, animali vari,
ecc., spesso anche armi, come una freccia, un arco o un coltello». Ognuno di
questi oggetti magici ha un suo particolare valore simbolico ed una sua parte
nella preparazione o nell'attuazione del viaggio estatico, come pure in altre
esperienze mistiche dello sciamano.
I disegni che
adornano la pelle del tamburo sono una caratteristica di tutte le tribù tartare
e dei Lapponi. Presso i Tartari le due faccie della pelle sono ricoperte di
imagini, che presentano una grande varietà malgrado il ricorrere di certi
simboli predominanti, come per es. l'Albero del Mondo, il Sole e la Luna,
l'Arcobaleno, ecc. In effetti, i tamburi costituiscono un microcosmo: in essi
una linea di demarcazione separa il Cielo dalla Terra e, in alcuni casi, la
Terra dall'Inferno. L'Albero del Mondo, cioè la betulla sacrificale scalata
dallo sciamano, il cavallo, l'animale sacrificato, gli spiriti ausiliari dello
sciamano, il Sole e la Luna che egli raggiunge nel corso del suo viaggio
celeste, l'Inferno di Erlik Khan (coi Sette Figli e le Sette Figlie del Signore
dei Morti, ecc.) nel quale egli penetra quando discende nel regno dei morti -
tutti questi elementi che riassumono in un certo modo l'itinerario e le avventure
dello sciamano, si ritrovano raffigurati sul suo tamburo. Ci manca lo spazio
per elencare tutti i 'legni e le imagini e spiegarne il simbolismo. Rileveremo
soltanto che il tamburo raffigura un microcosmo nelle sue tre zone - Cielo,
Terra, Inferno - e in pari tempo indica i mezzi coi quali lo sciamano attua le
varie rotture di livello e stabilisce la comunicazione del mondo d'in alto con
quello d'in basso. Infatti, come si è visto, non è che s'incontri la sola
imagine della betulla sacrificale (l'Albero del Mondo); noi troviamo anche
l'Arcobaleno: lo sciamano s'innalza nelle sfere superiori montando
sull'Arcobaleno. Abbiamo inoltre l'imagine del Ponte, che serve allo scia mano
per passare da una regione cosmica all'altra.
L'iconografia
dei tamburi è dominata dal simbolismo del viaggio estatico, cioè di esperienze
che implicano una rottura di livello e che per punto di partenza hanno un
«Centro del Mondo». L'operazione di suonare il tamburo all'inizio della
seduta, per evocare gli spiriti e «chiuderli» in esso, costituisce i
preliminari del viaggio estatico. Per tale ragione il tamburo vien chiamato il
«cavallo dello sciamano» (Yakuti, Buriati). L'imagine di un cavallo è disegnata
sul tamburo altaico; quando lo sciamano suona il tamburo, si pensa che vada in
cielo sul suo cavallo (Radlov). Del pari, presso i Buriati, il tamburo fatto
con una pelle di cavallo rappresenta il medesimo animale (Mikhailowski).
Secondo O. Manchen-Helfen, il tamburo dello sciamano soiote è ritenuto essere
un cavallo ed è chiamato khamu-at, cioè, letteralmente, «sciamano-cavallo», e
«il capriolo dello sciamano» quando la sua pelle è appunto di
capriolo (Karagassi, Soioti). Nelle leggende yakute si trovano lunghi racconti
circa sciamani che volano col loro tamburo attraverso i sette cieli. «lo
viaggio con un capriolo selvaggio!» - cantano gli sciamani Karagassi e Soioti,
In certe tribù mongole, il tamburo sciamanico è chiamato «cervo nero»
(Heissig). La bacchetta con cui si batte il tamburo ha il nome di «frusta»
presso gli Altaici (Harva). La velocità miracolosa è una delle caratteristiche
del tàltos, lo scìamano ungherese (Ròheim). Un giorno, un tàltos «inforcò una canna e parti al galoppo ed arrivò alla meta
prima del cavaliere». Tutte queste credenze, queste imagini e questi simboli
aventi relazione col «volo», la «cavalcata» o la
«velocità» degli sciamani sono espressioni figurate dell'estasi, vale a dire di
viaggi mistici intrapresi con mezzi sovrumani ed in regioni inaccessibili agli
uomini.
L'idea del
viaggio estatico la si ritrova anche nel nome che fra gli Yurak della tundra
gli sciamani danno al loro tamburo: arco o arco che canta. Secondo Lehtisalo e
Harva il tamburo sciamanico serviva originariamente a scacciare gli spiriti
malvagi, effetto che si poteva egualmente conseguire servendosi di un arco. È
senz'altro esatto che il tamburo vien talvolta usato per scacciare gli spiriti
malvagi, effetto che si poteva egualmente conseguire servendosi di un arco. È
senz'altro esatto che il tamburo vien talvolta usato per scacciare gli spiriti
cattivi (Harva), ma in tali casi il suo uso specifico appare dimenticato e si
ha a che fare con la «magia del rumore», con la quale si esorcizzano i
demoni. Esempi consimili di modificazioni di funzione sono assai frequenti
nella storia delle religioni. Pertanto, non crediamo che la funzione originaria
del tamburo sia stata quella di scacciare gli spiriti. Il tamburo sciamanico si
distingue da tutti gli altri strumenti usati per la «magia del rumore» proprio
perché rende possibile una esperienza estatica. Che questa in origine sia stata
propiziata dall'incantesimo del suono del tamburo, incantesimo valorizzato in
termini di «voce degli spiriti», oppure che si giunga ad una
esperienza estatica in seguito all'estrema concentrazione provocata da un prolungato
tambureggiamento - questo è un problema che per ora non abbiamo da considerare.
Un fatto è però certo: è la magia musicale a definire la funzione sciamanica
del tamburo - e non la magia antidemoniaca del rumore. Le freccie hanno pure la
loro parte in certe sedute sciamaniche. La freccia possiede un duplice
prestigio magico-religioso: da un lato, è un'imagine esemplare della velocità,
del «volo»,
e, d'altro canto, è l'arma magica per eccellenza (la freccia uccide da
lontano). Impiegata nelle cerimonie di purificazione o d'espulsione dei demoni,
la freccia «uccide» cosi come «allontana» e «espelle» gli spiriti
maligni. Per la freccia come simbolo sia del «volo» sia della «purificazione»
cfr. avanti.
Prova di ciò ne
è che quando il tamburo è sostituito da un arco - come presso i Tartari Lebed e
certi Altaici - noi ci troviamo sempre a che fare con un istrumento di musica
magica e non con un'arma antidemoniaca: non ci sono freccie e l'arco viene
utilizzato come un istrumento musicale monocorde. Neanche i baqça kirghisi usano il tamburo per
preparare la trance, ma usano il kobuz, che è uno strumento a corda. E
qui la trance, come negli sciamani
siberiani, interviene mentre si danza sulla melodia magica del kobuz. Come vedremo meglio in seguito,
la danza riproduce il viaggio estatico dello sciamano in cielo. Ciò vuoi dire
che la musica magica, come il simbolismo del tamburo e del costume sciamanico,
come la stessa danza dello sciamano, sono altrettanti mezzi per intraprendere
il viaggio estatico o per assicurarsi della buona riuscita di esso. I bastoni a
testa equina che, del resto, i Buriati chiamano «cavalli», riconducono allo
stesso simbolismo.
Le popolazioni
ugre ignorano i tamburi sciamanici disegnati.
Per contro, gli
sciamani lapponi ornano i loro tamburi in modo ancor più ricco dei Tartari.
Nella grossa opera di Manker sul tamburo magico lappone si possono trovare le
riproduzioni e l'analisi completa di un gran numero di disegni. Non è sempre
agevole identificare i personaggi mitici e il significato di tutte le imagini,
che spesso sono assai misteriose. In genere, i tamburi lapponi recano le tre
zone cosmiche, separate da linee di demarcazione. Nel Cielo si possono
riconoscere la luna e il sole, dèi e dee (probabilmente per influenza della
mitologia scandinava), uccelli (cigno, cuculo, ecc.), il tamburo, animali
sacrificali, ecc.; nello spazio mediano (la Terra) figurano l'albero cosmico,
una quantità di personaggi mitici, barche, sciamani, il dio della caccia, dei
cavalieri, ecc.; infine nella zona inferiore s'incontrano gli dèi dell'inferno,
gli sciamani coi morti, serpi ed uccelli e varie altre imagini.
Gli sciamani
lapponi usano il tamburo anche per scopi divinatori. Questa usanza è ignota ai
Turchi. I Tungusi praticano una forma semplificata di divinazione che consiste
nel gettare in aria la bacchetta del tamburo: caduta che sia, dalla posizione
della bacchetta si desume la risposta alla domanda che si era fatta (Harva).
Il problema
dell'origine e della diffusione del tamburo sciamanico nell' Asia
settentrionale è estremamente complesso e lungi dall'esser risolto. Vari
elementi fan pensare che il centro probabile di diffusione cada nell'Asia
meridionale. Non c'è dubbio che il tamburo lamaico ha esercitato un'influenza
quanto alla forma del tamburo dei Ciukci e degli Eschimesi, oltre che a quella
del tamburo siberiano (Shirokagorov). Tale constatazione non è senza
conseguenze per quel che riguarda il problema della formazione dello
sciamanismo attuale dell'Asia centrale e della Siberia, e noi avremo a tornare
su ciò quando cercheremo di tracciare, nelle sue grandi linee, l'evoluzione
dello sciamanismo asiatico.
Costumi rituali e
tamburi magici attraverso il mondo
Qui non pensiamo
a compilare una tabella comparativa dei costumi, dei tamburi o di altri
strumenti rituali usati dagli stregoni, dai
medicine-men e dai sacerdoti di tutto il mondo. La cosa sarebbe piuttosto
di pertinenza dell'etnologia, essa interessa solo accessoriamente la storia
delle religioni. Comunque noteremo che lo stesso simbolismo da noi accertato
nel costume dello sciamano siberiano lo si ritrova altrove. Anche altrove si incontrano
le maschere - dalle più semplici alle più elaborate - le pelli e le pelliccie
di animali e specialmente le piume di uccello, la relazione delle quali col
simbolismo ascensionale non ha bisogno di essere ancora sottolineato.
S'incontrano anche i bastoni magici, i campanelli e i tamburi, di varie forme.
Hoffmann ha opportunamente studiato le somiglianze tra il costume e il tamburo
dei sacerdoti bon da un lato e, dall'
altro, quelli degli sciamani siberiani. Il costume di questi sacerdoti tibetani
comprende, in particolare, delle piume di aquila, un casco con larghi nastri di
seta, uno scudo e una lancia. Goloubew già aveva accostato i tamburi di bronzo
scavati a Dongson ai tamburi degli sciamani mongoli. Recentemente, Quaritch
Wales ha più dettagliatamente precisato la struttura sciamanica dei tamburi di
Dongson; egli paragona i personaggi, che vanno in processione con
un'acconciatura di piume, della scena rituale rappresentata sul timpano, agli
sciamani dei Daiachi marittimi che, adorni di piume, pretendono d'essere uccelli. Quantunque, ai
nostri giorni, l'impiego del tamburo da parte dello sciamano indonesiano sia
suscettibile di molteplici valorizzazioni, accade talvolta che significhi il
viaggio celeste, o che sia considerato come una preparazione dell'ascensione
estatica dello sciamano (cfr. qualche esempio in Wales).
Lo stregone
dusun indossa qualche ornamento e delle piume sacre quando inizia una cura
(Evans); lo sciamano delle Mentawei utilizza un costume cerimoniale
comprendente piume d'uccello e campanelli (Loeb); gli stregoni e i guaritori
africani si coprono di pelli di bestie selvatiche, di denti e d'ossa d'animali,
ecc. (Webster). Benché nell'America del Sud tropicale il costume rituale sia piuttosto
raro, ne tengono il posto certi accessori dello sciamano come, ad esempio, la
maraca o sonaglio «fatto con una zucca contenente dei granelli o delle pietre e
provvista d'un manico». Questo strumento è considerato
sacro, ed i Tupinamba gli recano pure offerte di nutrimento. Gli sciamani
Yaruro eseguono sui loro sonagli «raffigurazioni molto stilizzate delle
principali divinità che visitano durante la trance»
(Métraux).
Gli sciamani
nord-americani hanno un costume cerimoniale notevolmente simbolico: piume d'aquila
o d'altri uccelli, una sorta di sonaglio o un tamburello, sacchetti contenenti
cristalli di rocca, pietre ed altri oggetti magici, ecc. L'aquila cui si
prendono le piume è considerata sacra e, per questa ragione, lasciata in
libertà (Park). Il sacchetto con gli accessori non lascia mai lo sciamano; di
notte, questi se lo mette sotto il cuscino o sotto il letto. Presso i Tlingit e
gli Haida si può anche parlare di un vero costume cerimoniale (una veste, una
coperta, un cappello, ecc.) che lo sciamano si confeziona secondo le indicazioni
del suo spirito protettore (Swanton). Presso gli Apache, oltre le piume d'aquila,
lo sciamano possiede un rombo, una corda magica (che lo' rende invulnerabile e
gli permette anche di prevedere gli avvenimenti futuri, ecc.) ed un cappello
rituale. Altrove, come presso i Sanpoil e i Nespelem, la potenza magica del
costume si riduce in una pezza rossa che si lega intorno al braccio (Park). Le piume
d'aquila si ritrovano presso tutte le tribù nord-americane (Park). Del resto,
attaccate a dei bastoni, sono impiegate nelle cerimonie d'iniziazione (per es.,
presso i Maidu nord-orientali), e questi bastoni si pongono sulle tombe degli
sciamani (Park). È un segno che indica la direzione che prende l'anima del
trapassato.
In America del
Nord, come nella maggior parte delle altre aree, lo sciamano impiega un
tamburello o un sonaglio. Là dove il tamburo cerimoniale manca, è rimpiazzato
dal gong o dalla conchiglia (specialmente a Ceylon, nell'Asia meridionale, in
Cina, ecc.) Ma si è sempre di fronte a uno strumento capace di stabilire, in un
modo o nell'altro, il contatto col «mondo degli spiriti». Questa espressione
va intesa nel suo senso più ampio, che include non solo gli dei, gli spiriti ed
i demoni, ma anche le anime degli antenati, i morti, gli animali mitici. Questo
contatto col mondo sovrasensibile implica necessariamente una concentrazione
preliminare facilitata dall'inserimento dello sciamano o del mago nel suo
costume cerimoniale, ed accelerata dalla musica rituale.
Lo stesso
simbolismo del costume sacro è sopravvissuto in seno alle religioni più
evolute: si possono ricordare le pelliccie di lupo o di orso in Cina, le piume di
uccello dei profeti irlandesi, ecc. Il simbolismo macrocosmico lo si ritrova
nelle vestimenta dei sacerdoti e dei sovrani dell'antico Oriente. Questo
insieme di fatti s'inquadra in una legge ben nota nella storia delle religioni:
si diviene ciò che si mostra. Coloro che portano le maschere sono realmente gli
antenati mitici figurati da queste maschere. Ma lo stesso effetto - cioè il
totale trasformarsi dell'individuo in qualcosa di altro - bisogna attenderselo
anche dai vari segni e dai vari simboli che talvolta sono appena accennati sul
costume o direttamente sul corpo: si fa proprio il potere del volo magico
portando una più ma d'aquila e perfino un disegno fortemente stilizzato di tale
più ma, e così di seguito. L'uso dei tamburi e di altri strumenti di musica
magica non è però limitato esclusivamente alle sedute. Molti sciamani battono
il tamburo e cantano anche per il solo loro piacere, senza che tuttavia vi sia
differenza quanto a ciò che a tali azioni si lega: salire in Cielo o discendere
agli Inferni per visitarvi i morti. Questa «autonomia» che finisce con
l'investire gli strumenti della musica magico-religiosa conduce alla formazione
di una musica che, pur non essendo ancora «profana», è però più libera e
più imaginata. Lo stesso fenomeno si verifica nei riguardi dei canti sciamanici
che descrivono i viaggi estatici in Cielo e le perigliose discese agli Inferni.
Dopo un certo tempo questo genere di avventure passa nel folklore dei
corrispondenti popoli e va ad arricchire la letteratura orale popolare di nuovi
temi e di nuovi personaggi.
Capitolo 6: Lo sciamanismo nell'Asia
centrale e settentrionale
Le ascensioni celesti -
discese agli inferni
La parte dello
sciamano nella vita religiosa dell'Asia centrale e settentrionale, per
importante che sia, è limitata. Nondimeno, la posizione sociale degli sciamani
siberiani è di primissimo ordine; eccetto che fra i Ciukci, dai quali gli
sciamani non sembrano esser troppo considerati. Presso i Buriati gli sciamani
sarebbero stati originariamente capi politici. Lo sciamano non è il
sacrificatore: «non rientra nelle sue attribuzioni badare ai sacrifici che, in
certe date, si debbono offrire agli dèi dell'acqua, delle foreste e della
famiglia» (Donner). Come l'ha già notato Radlov, nell'Altai lo sciamano non ha
nulla a che vedere con le cerimonie relative a nascita, sponsali e sepoltura -
a meno che non si verifichi qualcosa d'insolito: ad esempio, allo sciamano ci
si rivolgerà in casi di sterilità o di parto difficile (Radlov). Più a settentrione
lo sciamano vien talvolta invitato ai seppellimenti, a che impedisca all'anima
del morto di ritornare, e presenzia anche agli sposalizi, per proteggere gli
sposi nuovi dai cattivi spiriti. Secondo Sieroszewski lo sciamano yakuta
assisterebbe a ogni più importante avvenimento; ma ciò non equivale a dire che
egli domini la vita religiosa «normale», il essenzialmente in caso di
malattia che egli diviene indispensabile. Presso i Buriati i bambini fino
all'età di quindici anni sono protetti contro gli spiriti malvagi dagli
sciamani. Come si vede, in tali casi la sua funzione si limita a quella di una
difesa magica.
Invece lo
sciamano appare insostituibile in ogni cerimonia che interessi le esperienze
dell'anima umana come tale, come unità psichica precaria, come entità incline
ad abbandonare il corpo e facile preda dei demoni e degli stregoni. È per
questo che in tutta l'Asia e l'America del Nord, ed anche altrove (Indonesia,
ecc.), lo sciamano ha funzioni di medico e di guaritore; egli formula le
diagnosi, va alla ricerca dell'anima fuggitiva del malato, la cattura e la
reintegra nel corpo da essa abbandonato. È sempre lui che conduce l'anima del
morto agli inferni, perché egli è per eccellenza psicopompo.
E tale
qualifìcazione di terapeuta e di psicopompo, lo sciamano la possiede perché
conosce le tecniche dell'estasi, ossia perché la sua anima può abbandonare
impunemente il corpo e portarsi lontano, perché può penetrare negli Inferni e
salire in Cielo. Egli conosce per propria esperienza estatica gli itinerari
delle regioni extraterrestri. Può discendere agli Inferni e elevarsi nei Cieli
perché vi è già stato. Certo, il rischio di smarrirsi in queste regioni
interdette è sempre grande, ma lo sciamano, consacrato dall'iniziazione e
munito dei suoi spiriti custodi, resta pur sempre il solo essere umano che
possa affrontare questo rischio e avventurarsi in una geografia mistica.
Del pari, è
questa facoltà estatica che - come presto vedremo - rende atto lo sciamano ad
accompagnare l'anima del cavallo offerto al Dio nei sacrifici periodici
praticati dagli Altaici. In tal caso è lo sciamano stesso a sacrificare il
cavallo: ma ciò, appunto perché egli dovrà condurre l'animale nel suo viaggio
celeste fino al trono di Bai Ulgan, non perché la sua funzione sia quella del
sacerdote sacrificatore. Sembra anzi che presso i Tartari dell'Altai lo
sciamano si sia sostituito solo a partire da un dato periodo al sacerdote
sacrificatore, perché nei sacrifici di cavalli al dio celeste supremo dei
Prototurchi (Hiungno, Tukiìe), dei Katshina e dei Beltiri gli sciamani non
hanno parte alcuna, mentre intervengono attivamente in altri sacrifici.
Lo stesso si
verifica fra i popoli ugri. Presso i Voguli e gli Ostiachi dell'Irtish gli sciamani
sacrificano in occasione di una malattia, prima di iniziare le cure; ma questo
sacrificio sembra una innovazione tardiva, non è originario e importante quanto
la ricerca dell'anima smarrita del malato (Karjalainen). In questi stessi
popoli gli sciamani assistono ai sacrifici di espiazione - nelle regioni
dell'Irtish, ad esempio, possono perfino celebrare i sacrifici: ma non si può
dedurre nulla da tale fatto, perché qui si ritiene che qualsiasi persona possa
sacrificare agli dèi. Anche quando prende parte ai sacrifici, lo sciamano ugro
non uccide l'animale, ma si riserva, per cosi dire, la parte «spirituale» del
rito: compie i suffumigi, pronuncia le preghiere, ecc. Nel sacrificio dei
Tremyugan lo sciamano vien detto «l'uomo che prega», ma non è indispensabile.
Presso i Vasiugani, dopo che lo sciamano vien consultato circa una data
malattia, si fanno dei sacrifici secondo le sue ingiunzioni, ma la vittima
viene uccisa dal capo di casa. Nei sacrifici collettivi dei popoli ugri lo
sciamano si limita a dire le preghiere e a condurre le anime delle vittime alle
corrispondenti divinità. Concludendo, anche quando prende parte ai sacrifici lo
sciamano assolve un compito «spirituale» (Si noti l'analogia con la funzione
che ha il brahman nei riti vedici):
si occupa soltanto dell'itinerario mistico dell'anima dell'animale sacrificato.
E se ne capisce facilmente il perché lo sciamano conosce questo itinerario e,
per giunta, è capace di dominare e di scortare un'«anima»,
sia l'anima di un uomo oppure quella di una vittima.
Più a
Settentrione l'importanza e la complessità della funzione religiosa dello
sciamano sembrano essere maggiori. Nell'estremo Nord dell'Asia, quando la
selvaggina scarseggia, accade che si ricorra all'intervento dello sciamano
(Harva). Lo stesso avviene presso gli Eschimesi e presso certe tribù
nord-americane, ma tali riti di caccia non possono esser considerati come
propriamente sciamanici. Se lo sciamano sembra avere una certa parte in simili
circostanze, ciò deriva sempre dalle sue facoltà estatiche: egli prevede i
mutamenti atmosferici, dispone di chiaroveggenza e di vista a distanza (per cui
può scoprire la selvaggina); inoltre ha rapporti più intimi, d'ordine
magico-religioso, con gli animali.
La divinazione e
la chiaroveggenza fan parte delle tecniche mistiche dello sciamano. Cosi si va
a consultare uno sciamano per poter ritrovare uomini o animali smarriti si
nella tundra o fra le nevi, per rintracciare un oggetto perduto, e cosi via.
Però queste piccole imprese sono piuttosto di pertinenza delle donne-sciamani e
di altre categorie di maghi e di maghe. Del pari, non è una «specialità» degli
sciamani il nuocere agli avversari dei loro clienti, anche se a tanto essi
talvolta si prestino. Lo sciamanismo nord-asiatico è un fenomeno estremamente complesso,
avente dietro di sé una lunga storia; soprattutto' grazie al prestigio via via
acquistato dagli sciamani nel corso dei tempi, esso ha finito per assorbire in
sé una molteplicità di tecniche magiche.
"Sciamani
bianchi" e "sciamani neri". Mitologie "dualiste"
Almeno in certe
popolazioni, la specializzazione più netta è quella onde gli sciamani «bianchi»
si distinguono dagli sciamani «neri», benché non sia sempre facile
definire questa contrapposizione. Per gli Yakuti, Czaplicka menziona gli ajy ojuna, che sacrificano agli dèi, e
gli abasy ojuna, che hanno invece
rapporti con gli «spiriti malvagi». Ma, come lo nota Harva, lo ajy ojuna non è necessariamente uno
sciamano: può anche essere un sacerdote sacrificatore. Secondo Pripuzov, fra
gli Yakuti uno stesso sciamano può evocare indifferentemente gli spiriti
superiori (celesti) e quelli delle regioni infere. Sieroszewski classifica gli
sciamani yakuti secondo la loro potenza e distingue: a) gli «ultimi» (kennikt ouna) che sono piuttosto degli
indovini, degli interpreti di sogni e tali che curano solo malattie leggere; h)
gli sciamani «comuni» (orto ouna),
che sono i guaritori abituali; c) i «grandi» sciamani, i maghi possenti, ai
quali lo stesso Ulu-Toion ha inviato uno spirito protettore. Come subito
vedremo, il pantheon degli Yakuti è caratterizzato da una bipartizione, ma non
sembra che essa abbia riscontro in una corrispondente differenziazione della
classe degli sciamani. Una opposizione esiste, piuttosto, fra sacerdoti
sacrificatori e sciamani. Si parla, nondimeno, degli «sciamani bianchi»
o «sciamani d'estate», specializzati nelle cerimonie
della dea Aisyt.
Presso i Tungusi
di Turushansk la classe degli sciamani non presenta differenziazioni; al dio
celeste può sacrificare qualsiasi sacerdote sacrificatore, non però lo
sciamano, e tali riti han sempre luogo di giorno, mentre i riti sciamanici
vengono praticati di notte (Harva).
La distinzione
appare invece chiaramente presso i Buriati, che parlano di «sciamani bianchi» (sagani bo) e di «sciamani neri» (karain bo), gli uni aventi rapporti con
gli dèi, gli altri con gli spiriti. I costumi sono diversi, bianchi per i
primi, azzurri per i secondi. La stessa mitologia buriate presenta un dualismo
marcatissimo: la classe innumerevole dei semidèi si suddivide in Khan neri e
Khan bianchi, e fra gli uni e gli altri regna un'aspra inimicizia. I Khan neri
son serviti dagli «sciamani neri»; questi non sono amati, per quanto
siano spesso di utilità agli esseri umani, perché essi soli possono fare da
intermediari presso i Khan neri (Sandschejew). L'accennata situazione non è
però quella delle origini: secondo il mito, il primo sciamano era «bianco»;
il nero è apparso solo in seguito. Ci si ricorderà anche che fu il dio celeste
ad inviare l'Aquila per investire dei poteri sciamanici il primo essere umano
che essa avesse incontrato sulla terra. La suddivisione degli sciamani potrebbe
anche essere un fenomeno secondario abbastanza tardivo, dovuto sia ad influenze
iraniche, sia ad una valorizzazione negativa delle ierofanie ctoniche e
«infernali», le quali con l'andar del tempo han finito col dar
persona a delle potenze «demoniache» (Sui rapporti tra l'organizzazione
dualista del mondo spirituale ed una possibile organizzazione sociale dualista,
cfr. Krader).
Non ci si deve
infatti dimenticare che una gran parte delle divinità e delle potenze della
Terra e degli Inferni per i popoli primordiali non sono necessariamente
«cattive» o «demoniache». In genere, esse rappresentano
delle ierofanie autoctone, cioè topiche, decadute dal loro rango a causa di
modificazioni intervenute all'interno del pantheon complessivo. Talvolta la
bipartizione degli dèi in celesti e cronico-infernali non è che una
classificazione che obbedisce a criteri di comodità e che non implica nulla di
negativo nel riguardo dei secondi. I Buriati concepiscono dunque una
opposizione assai netta fra i Khan bianchi e quelli neri. Anche gli Yakuti
conoscono due grandi categorie (bis)
di dèi: quelli «d'in alto» e quelli «d'in basso», i tangara («celesti»)
e i «sotterranei» («alto» e «basso» sono termini abbastanza vaghi; possono
anche designare regioni situate a monte o a valle di un corso d'acqua), senza
che tuttavia fra di essi si possa stabilire una netta opposizione
(Sieroszewski): si tratta piuttosto di una classificazione e di una
specializzazione di diverse forme e' potenze religiose.
Gli dèi e gli
spiriti «d'in alto» sono benevoli, ma impassibili, onde son di ben poco aiuto
pel dramma dell'esistenza umana. Essi abitano «le sfere superiori del cielo,
non si mescolano nelle faccende umane e, relativamente, hanno meno influenza
sul corso della vita che non gli spiriti del "bis d'in basso ", spiriti vendicativi, più vicini alla terra,
alleati degli uomini per via di vincoli di sangue e di una organizzazione in
clans assai più rigorosa» (Sieroszewski). Il capo degli dèi e degli spiriti
celesti è Art-Toion-Aga, il «Signore Padre Capo del Mondo», che risiede «nelle
nove sfere del cielo. È possente ma non agisce; risplende come il sole, che è
il suo emblema, parla attraverso la voce del tuono, ma poco si mescola nelle
faccende umane. Invano si indirizzerebbero a lui le preghiere pei nostri
bisogni quotidiani: solo in casi straordinari si può turbare il suo riposo, ed
anche allora è malvolentieri che egli si interessa alle cose umane».
Oltre
Arr-Toion-Aga, esistono altri sette grandi dèi «d'in alto» ed una moltitudine
di dèi minori. Ma la loro dimora celeste non implica necessariamente una
struttura uranica. Accanto al «Signore Creatore Bianco» (Urung Ai-Toion), che
abita il quarto cielo, troviamo, ad esempio, la «Dolce Madre Creatrice»,
la «Dolce Signora della Natività» e la «Signora della Terra» (An-Alai-Ciotun).
Il dio della caccia, Bai Bainai, abita tanto nella parte orientale del cielo
quanto nei campi e nelle foreste. Ma gli si sacrificano bufali neri, indizio
della sua origine tellurica: «Quando i cacciatori non sono fortunati a caccia o
quando uno di loro si ammala, si sacrifica un bufalo nero del quale lo sciamano
brucia le carni, le interiora ed il grasso. Durante la cerimonia si lava nel
sangue della bestia sacrificata un'imagine in legno di Bainai, coperta d'una
pelle di lepre. Quando il disgelo libera le acque, si piantano sul bordo
dell'acqua dei pali congiunti tra loro con una corda di capelli (set'y) cui sono appesi panni variopinti
e capigliature; inoltre, si getta in acqua burro, dolci, zucchero, denaro li. È
il prototipo d'un sacrificio attenuato
Il «bis d'in basso» comprende otto grandi
dèi con alla testa «L'onnipotente Signore dell'Infinito» (Ulutuier Ulu Toion)
oltre ad una quantità illimitata di «spiriti malvagi». Ma Ulu-Toion non è
cattivo: «è solo assai vicino alla terra, e alle cose della terra, si interessa...
Ulu-Toion personifica l'esistenza attiva, piena di sofferenze, di desideri, di
lotte... Bisogna cercarlo dalle parti dell'Occidente, nel terzo cielo. Ma non
si deve invocare il suo nome per motivi futili: la terra trema e si agita
quando egli vi posa il piede: il cuore del mortale scoppia dallo spavento se
osa contemplare il suo viso. Nessuno l'ha dunque visto. Tuttavia fra gli dèi
potenti abitanti del cielo egli è il solo a discendere in questa valle umana
piena di lacrime ... È lui che ha dato agli uomini il fuoco, è lui che ha
creato lo sciamano e che gli ha insegnato come si combatte la sventura... È il
creatore degli uccelli, degli animali della foresta, delle stesse foreste»
(Sieroszewski). UluToion non obbedisce a Art-Toion-Aga e lo tratta da pari a
pari. Considerando questa descrizione, ci si rende conto di quanto poco sia
acconcio l'includere Ulu-Toion fra le divinità «infere» e «d'in basso».
In realtà, egli assomma in sé gli attributi di un Signore degli Animali, di un
demiurgo e perfino di un dio della fertilità.
È significativo
che a diverse di queste divinità «d'in basso» si offrano in sacrificio degli
animali dal manto bianco o bianco-rossiccio; a Kahtyr-Kaghtan Burai-Toion, dio
possente che non la cede a Ulu-Toion, si sacrifica un cavallo grigio dalla
fronte bianca; alla «Signora dal puledro bianco» si offre questo stesso
animale; ai rimanenti dèi e spiriti «d'in basso» si sacrificano giumente dal
manto bianco-rossiccio, dai garretti bianchi o dalla testa bianca, o giumente
grigie pomellate, ecc. (Sieroszewski). Naturalmente, fra gli spiriti «d'in
basso» si trova anche qualche illustre sciamano.
Il più celebre è
il «principe degli sciamani» degli Yakuti; risiede nella parte occidentale del
cielo ed appartiene alla famiglia di Ulu-Toion. «Era prima uno sciamano
dell'ulus di Nam, del nosleg di Botiiìgné, della stirpe Ciaky... Gli si offre
in sacrificio un cane da caccia color acciaio pezzato di bianco, dalla testa
bianca tra gli occhi e il muso».
Da questi pochi
esempi si vede quanto sia difficile tracciare una frontiera precisa fra gli dèi
«uranici» e gli dèi «tellurici», fra le potenze religiose
considerate «buone» e le altre, «malvagie». Quel che risulta in
modo certo è che il dio supremo celeste è un deus otiosus e che nel pantheon yakuta le situazioni e le gerarchie
si sono spesso modificate, quand'anche non siano intervenute addirittura delle
usurpazioni. Dato questo «dualismo» complesso e, ad un tempo, vago, si capisce
come lo sciamano yakuta possa «servire» sia gli dèi «d'in alto» che quelli
«d'in basso», giacché il «bis d'in basso» non è sempre sinonimo di
«spiriti malvagi». La differenza fra gli sciamani e gli altri sacerdoti
(i «sacrificatori») è d'ordine non rituale, bensì statico: a definire e
specificare la particolare situazione dello sciamano in seno alla comunità
religiosa (che riprende sia i preti che i laici) non è il fatto del suo poter
celebrare, o meno, l'uno o l'altro sacrificio, ma è la natura particolare dei
suoi rapporti con le divinità, siano esse «d'in alto» o «d'in basso».
Tali rapporti, come meglio vedremo in seguito, sono più «familiari»,
più «concreti» di quelli degli altri membri del clan, sacerdoti sacrificatori o
laici; ciò, perché nello sciamano le esperienze religiose hanno sempre una
struttura estatica, quale pur sia la divinità cui si lega questa esperienza.
Anche se non così
differenziata come fra i Buriati, la stessa bipartizione la s'incontra fra gli
sciamani altaici. Anochin parla degli «sciamani bianchi» (ak kam) e degli «sciamani neri» (kara kam). Radlov e Potapov non riferiscono una differenza del
genere: secondo le loro informazioni, uno stesso sciamano può intraprendere sia
il viaggio al Cielo che la discesa agli Inferni. Ma in ciò non vi è
contraddizione: Anochin riferisce che esistono anche sciamani «nero-bianchi»
che possono compiere entrambi i viaggi; l'etnologo russo ebbe ad incontrare sei
sciamani «bianchi», tre «neri» e cinque «bianco-neri»,
Con grande probabilità Radlov e Potapov hanno avuto a che fare unicamente con sciamani
di quest'ultima categoria.
Il costume degli
«sciamani
bianchi» è più sommario: il caftano (menyak)
non sembra essere indispensabile. Ma essi hanno un berretto di pelliccia di
agnello bianco ed altre insegne. Le donne-sciamano sono sempre «nere»,
perché esse non intraprendono viaggi in Cielo. Riassumendo, gli Altaici
sembrano conoscere tre gruppi di sciamani: quelli che si occupano
esclusivamente degli dèi e delle potenze celesti, quelli specializzati nel
culto (estatico) degli dèi dell'Inferno e, infine, quelli che hanno rapporti
mistici con dèi delle due classi. Gli ultimi, come numero, sembrano esser
abbastanza importanti.
Sacrificio del cavallo e
ascensione dello sciamano in cielo (Altai)
Tutto ciò ci si
renderà più chiaro quando avremo descritto qualche seduta sciamanica
organizzata per fini diversi: sacrificio del cavallo e ascesa al cielo, ricerca
delle cause di una malattia e cura del malato, accompagnamento dell'anima del
defunto agli Inferni e purificazione dell'abitazione, ecc. Pel momento ci limiteremo
alla descrizione delle sedute, senza studiare la trance propriamente detta dello sciamano, facendo soltanto cenno
alle concezioni religiose e mitologiche che valorizzano questi viaggi estatici.
Il problema delle basi mitiche e teologali dell'estasi sciamanica sarà ripreso
più oltre. Vale aggiungere che la fenomenologia delle sedute varia dall'una
tribù all'altra, benché la struttura resti sempre la stessa. Non abbiamo
creduto necessario precisare tutte queste differenze, che riguardano
soprattutto i dettagli. In questo capitolo daremo anzitutto una descrizione,
accurata il più possibile, dei tipi più importanti di sedute sciamaniche.
Cominceremo con la descrizione classica che Radlov ci ha fornito del rituale
altaico, descrizione che non si basa soltanto sulle osservazioni dirette di
questo autore ma anche sui testi dei canti e delle invocazioni registrati
all'inizio del XIX secolo dai missionari dell'Altai e successivamente redatte
dal prete Verbitskù. Questo sacrificio vien celebrato di tempo in tempo da ogni
famiglia e la cerimonia dura una o tre sere consecutive.
La prima sera è
consacrata ai preparativi del rito. Il kam,
scelto un luogo in un prato, vi innalza una yurta nuova all'interno della quale
pianta un giovane albero di betulla dispogliato dei rami più bassi, sul tronco
del quale si segnano nove gradi (tapty).
Il fogliame della cima della betulla, che reca una bandiera, esce dall'apertura
superiore della yurta. S'innalza una piccola palizzata di rami di betulla
intorno alla yurta e all'entrata si pianta un bastone di legno dello stesso
albero con un nodo fatto di crine di cavallo. Poi si sceglie un cavallo dal
manto chiaro e, dopo aver accertato se è accetto alla divinità, lo sciamano lo
affida ad una delle persone presenti, che per tale ragione vien chiamata
bash-tut-kan-kishi, ossia «la persona che tiene la testa». Lo sciamano agita
un ramo di betulla sul dorso del cavallo per costringere l'anima della bestia
ad uscire e per prepararne il volo verso Bai Ulgan. Ripete lo stesso gesto
sulla «persona che tiene la testa», perché 1'«anima» di questa
persona dovrà accompagnare quella del cavallo durante tutto il suo viaggio
celeste e per tal motivo dovrà essere a disposizione del kam.
Lo sciamano
torna nella yurta, getta dei rami sul fuoco e suffumiga il suo tamburo. Poi comincia
ad invocare gli spiriti e ordina loro di entrare nel tamburo, perché avrà
bisogno di essi tutti nella sua ascesa. È un appello nominale, ogni spirito
risponde: «Eccomi, kam!» e lo
sciamano muove il tamburo facendo un gesto, come per afferrare lo spirito e
chiudervelo dentro. Dopo aver raccolto i suoi spiriti ausiliari, che son tutti
spiriti celesti, lo sciamano esce dalla yurta. A qualche passo di distanza si
trova uno spauracchio a forma di oca; l'inforca agitando rapidamente le mani,
come per volare, e canta:
Al di sopra del bianco cielo, Al di là delle bianche
nubi, Al di sopra del cielo azzurro, Al di là delle nubi azzurre, Sali al
cielo, o uccello!
A questa
invocazione l'oca risponde, gracidando: «Ungaigakgak ungaigak, kaigaigakgak,
kaigaigak».
Naturalmente è lo stesso sciamano, che imita il grido dell'uccello. Seduto
sull'oca, il kam insegue l'anima del
cavallo (pura - che si presume fuggita nel frattempo - e nitrisce come un
corsiero. Aiutato dai presenti, egli costringe l'anima della bestia ad entrare
nella palizzata mimandone laboriosamente la cattura: lo sciamano nitrisce,
scalcia, fa come se il laccio lanciato per prendere l'animale gli serrasse il
collo. Talvolta lascia cadere il tamburo, per significare che l'anima della
bestia è fuggita. Infine essa è di nuovo catturata, lo sciamano pratica dei
suffumigi con legno di ginepro e rinvia l'oca. Poi benedice il cavallo e con
l'aiuto di alcuni presenti l'uccide in modo crudele, rompendogli la colonna
vertebrale cosi che nessuna goccia di sangue cada per terra o spruzzi i
sacrificatori. Secondo Potanin, presso la tavola sacrificale vengono fissate
due pertiche che portano, in cima, uccelli di legno; una corda, alla quale
vengono sospesi rami verdi e una pelle di lepre collega le due pertiche. Presso
i Dolgani, delle pertiche con uccelli di legno in cima stanno a rappresentate
le colonne cosmiche. Quanto all'uccello, esso, naturalmente, simbolizza il
potere magico di volare posseduto dallo sciamano. La pelle e le ossa vengono
esposte, sospese ad una lunga pertica (Stesso modo di sacrificare il cavallo e
le capre in altre tribù altaiche e presso i Teleuti, il sacrificio specifico
della testa e delle ossa lunghe, le forme più pure del quale noi le incontriamo
fra le popolazioni artiche). Dopo aver proceduto a offerte agli antenati e agli
spiriti protettori della yurta, si prepara la carne e la si mangia ritualmente,
i migliori bocconi essendo riservati allo sciamano.
La seconda parte
della cerimonia, che è la più importante, ha luogo la sera successiva. È allora
che lo sciamano darà saggio delle sue capacità magiche in un viaggio estatico
fino al soggiorno celeste di Bai Ulgan. Il fuoco arde nella yurta. Lo sciamano
offre carne di cavallo ai Signori del tamburo, cioè agli spiriti personificanti
le potenze sciamaniche della sua famiglia, e canta:
Accetta questo boccone, o Kaira Khan! Signore del
tamburo a sei rilievi Vieni verso di me rintoccando!
Se grido ciok!, inchìnati!
Se grido mal, accetta questo!
Egli si rivolge
in egual modo al Signore del Fuoco, che simboleggia la sacra potenza del
proprietario della yurta, organizzatore della festa. Alzando una coppa, lo
sciamano imita con le labbra il rumore di un'assemblea di invitati invisibili
che bevono; poi taglia pezzi del cavallo per distribuirli ai presenti (che
stanno a rappresentare gli spiriti), i quali li divorano rumorosamente. Infine
lo sciamano suffumiga nove vesti sospese ad una corda come offerta del padrone
di casa a Bai Ulgan, e canta:
Doni che nessun caualto può portare, Alàs! Alès! Alàs!
Che nessuno può sollevare,
Alàs! Alàs! Alàs!
Vesti a triplo bavero. rivoltale tre volte e guardale,
che siano una gualdrappa per il destriero Alàs! Alàs!
Alàs!
Principe Ulgan, tu, tesoro di gioia! ...
Indossato il
costume sciamanico, il kam si siede
su di una panca e mentre suffumiga il suo tamburo comincia ad invocare una
moltitudine di spiriti, grandi e piccoli, i quali rispondono a turno: «Eccomi, kam!». Cosi egli invoca Yayyk Khan, lo
Spirito del Mare, Kaira Khan, Paisyn Khan, poi la famiglia di Bai Ulgan (la
Madre Tasygan con nove figlie alla destra e sette figlie alla sinistra), infine
i Signori e gli Eroi di Abakan e d'Altai (Mordo Khan, Altai Khan, Oktu Khan,
ecc.). Terminata questa lunga invocazione egli si rivolge a Markiìt, l'Uccello-del-Cielo:
Uccello celeste, i cinque Markiit
Voi, coi vostri potenti artigli di bronzo, Gli artigli
della luna son di rame
E il rostro della luna è di ghiaccio; Possente è il
battito delle tue lunghe ali, La tua lunga coda è simile a un ventaglio. La tua
ala sinistra nasconde la luna,
La tua ala destra nasconde il soie,
Tu, madre delle nove aquile.
Senza smarrirti voli su Yaik,
Tu non sei stanca al disopra di Edil! Vieni da me
cantando!
Giocando, avvicìnati al mio occhio destro, Pòsati
sulla mia spalla destra!
Lo sciamano
imita il grido di questo uccello per annunciarne la presenza: Kazak, kak, kak! Eccomi, kam! - e ciò
facendo piega una spalla, quasi cedesse al peso di un enorme uccello.
La chiamata
degli spiriti continua e il tamburo si fa pesante. Munito di questi protettori
numerosi e potenti, lo sciamano compie più volte il giro della betulla piantata
all'interno della yurta. Essa simbolizza l'Albero del Mondo che si trova in
mezzo all'Universo, l'Asse cosmico che collega il Cielo, la Terra e l'Inferno;
le sette, nove o dodici tacche (tapty)
stanno a rappresentare i «Cieli», i piani celesti. Si noti che il
viaggio estatico dello sciamano si compie sempre presso al «Centro del Mondo».
Ricordiamo che presso i Buriati la betulla sciamanica è chiamata udesbi-burkben, «il guardiano della
porta»,
perché dischiude allo sciamano l'ingresso del Cielo. Lo sciamano poi s'inginocchia
davanti alla porta per pregare lo Spirito-Portiere di dargli una guida. Avuta
una risposta favorevole, ritorna al centro della yurta battendo il tamburo e
tacendo mosse convulsive col corpo, mormorando nel contempo parole
inintelligibili. Poi col tamburo purifica tutti, a cominciare dal padrone della
casa. È una cerimonia lunga e complessa che si chiude con l'esaltazione dello
sciamano. Questo è anche il segnale dell'ascensione propriamente detta, perché
poco dopo lo sciamano si pone d'un tratto sulla prima tacca (tapty) della
betulla continuando a battere con forza il tamburo e gridando: ciok! ciok! Fa anche dei movimenti per
indicare che egli sta innalzandosi verso il cielo. In «estasi» fa il giro della
betulla e del fuoco, imitando il rumore del tuono, poi raggiunge rapidamente
una panca su cui è stata distesa una gualdrappa di cavallo. Questa rappresenta
l'anima del pura, cioè del cavallo sacrificato. 10 sciamano vi monta sopra ed
esclama:
Son montato su di un gradino! Aikhai! Aikhai!
Ho raggiunta una regione (celeste) ! ... Shagarbata!
Mi sono arrampicato sino alla cima dei tapty! ...
Shagarbata!
Mi sono innalzato fino alla luna piena! ...
Shagarbata!.
Evidentemente,
tutto ciò è una esagerazione dovuta all'ebbrezza che si lega alla prima rottura
di livello cosmico: giacché lo sciamano, di fatto, ha raggiunto solo il primo
cielo, non si è arrampicato fino all'ultimo dei tapty, anzi non ha nemmeno raggiunto la luna piena, il cui luogo è
il sesto cielo.
Mentre continua
a battere il tamburo lo sciamano si eccita sempre più e ordina a
Bash-tut-kan-kishi di affrettarsi. E infatti l'anima della «persona che tiene
la testa» abbandona il corpo, come lo fa, nello stesso punto, l'anima del
cavallo sacrificato. Il Bash-tut-kan-kishi si lamenta a causa della difficoltà
del cammino, e lo sciamano l'incoraggia. Poi, col salire sul secondo tapty, penetra simbolicamente nel
secondo cielo ed esclama:
Ho attraversato il secondo soffitto, Son salito sul
secondo gradino, Guarda! il soffitto è caduto in pezzi! ...
E, imitando nuovamente la folgore e il tuono,
proclama:
Shagarbata! Shagarbata!
San salito sul secondo gradino! ecc.
Nel terzo cielo
il pura appare assai stanco e, per assisterlo, lo sciamano chiama l'oca.
L'uccello si presenta: «Kagak, kagak! Eccomi qui, kam!».
Lo sciamano l'inforca e continua il suo viaggio celeste. Descrive l'ascensione
e imita le grida dell'oca, la quale, a sua volta, si lamenta per le difficoltà
del viaggio. Nel terzo cielo si fa una sosta. Ciò dà occasione allo sciamano di
parlare della stanchezza sua e della sua cavalcatura. Dà anche ragguagli sul
tempo che farà, sulle epidemie e sulle disgrazie che minacciano la collettività
e sui sacrifici che questa dovrà compiere.
Dopo che il
Bash-tut-kan-kishi si è ben riposato, il viaggio prosegue. Lo sciamano si arrampica
su ciascuna delle tacche della betulla, penetrando così successivamente nelle
altre regioni celesti. Per dare al tutto una certa animazione, vengono inseriti
episodi vari, alcuni alquanto grotteschi: egli offre tabacco a Karakush,
l'Uccello Nero al servigio dello sciamano, e Karakush caccia il cuculo; dà da
bere al pura imitando il rumore di un cavallo che si abbevera. Infine il sesto
cielo è teatro di un ultimo, comico episodio: la caccia ad una lepre (La lepre
essendo un animale lunare, è naturale che la caccia ad essa avvenga nel sesto
cielo, che è il cielo della Luna.). Nel quinto cielo aveva avuto luogo una
lunga conversazione dello sciamano col potente Yayutshi (il «Creatore Supremo»)
che gli aveva rivelato vari segreti concernenti l'avvenire: alcuni trasmessi ad
alta voce, altri mormorati.
Nel sesto cielo
lo sciamano s'inchina dinanzi alla luna - e dinanzi al sole nel settimo.
Attraversa l'un cielo dopo l'altro finché arriva al nono e, se egli è davvero
potente, giunge fino al dodicesimo cielo e più oltre ancora; l'ascesa dipende
esclusivamente dalla forza dello sciamano. Quando ha raggiunto ciò che per la
sua potenza rappresenta il punto apicale, lo sciamano si arresta, lascia cadere
il tamburo e invoca umilmente Bai Ulgan nei seguenti termini:
Dio, a cui conducono tre scale,
Bai Ulgan, signore di tre greggi, L'azzurro declivio
che sta comparendo, L'azzurro cielo che si mostra,
L'azzurra nube che rapidamente si volge, Inaccessibile
cielo azzurro!
Inaccessibile cielo bianco!
Luogo a un anno di distanza dall'acqua! Padre Ulgiin
tre volte esaltato!
Per cui splendono i cigli della luna, Che impiega lo
zoccolo del cavallo
Tu, Ulgan, che hai creato tutti gli umani Che si
muovono a noi d'intorno.
Tu, Ulgan, hai dotato noi tutti di greggi! Non
lasciarci in preda della sofferenza!
Fa' che possiamo resistere al Malvagio, Non mostrarci
Kormos (lo spirito cattivo) Non darci nelle sue mani
Tu che hai fatto girare il cielo stellato Mille e
mille volte!
Non condannare i miei peccati!
Lo sciamano
apprende da Bai Ulgan se il sacrificio è stato gradito e riceve delle
predizioni sul tempo e il nuovo raccolto; viene anche a sapere quale altro
sacrificio sia atteso dalla divinità. Quest'episodio segna il punto culminante
del1'«estasi»:
dopo di che lo sciamano s'abbatte al suolo, esausto. Il Bash-tut-kan-kishi gli
si avvicina e raccoglie il tamburo e il bastone. Lo sciamano resta immobile e
muto. Dopo un certo tempo si strofina gli occhi, sembra destarsi da un sonno profondo
e saluta i presenti come se tornasse dopo una lunga assenza.
Talvolta la
festa si conchiude cosi; ma più spesso, specie quando essa è celebrata presso
famiglie ricche, essa dura ancora un giorno, che viene passato fra libagioni
agli dèi e banchetti nei quali vengono consumate quantità enormi di bevande
alcooliche. Harva riproduce il disegno di uno sciamano altaico raffigurante
l'ascensione celeste in occasione del sacrificio del cavallo. Anochin pubblica
testi di poemi e preghiere recitati durante l'ascensione dello sciamano al
cielo, nel quadro del sacrificio a Karshiit, che è il figlio più popolare di
Bai Olgiin. Amschler presenta le osservazioni di Verbitsky sul sacrificio del
cavallo presso i Telengiti dell'Altai. Zelenin descrive il sacrificio del
cavallo presso i Cumandini dell'Altai, rito che segue da presso quello
descritto da Radlov, benché non vi figuri il viaggio celeste dello sciamano che
va a presentare l'anima del cavallo a Sulta-Khan (= Bai Ulgan). Presso i
Tartari Lebed il cavallo vien sacrificato alla prima luna piena dopo il
solstizio d'estate: lo scopo è d'ordine «agrario» («affinché il grano
cresca») ma è possibile che qui si abbia a che fare con una sostituzione
tardiva. La stessa «agrarizzazione» del sacrificio del cavallo la si ritrova
fra i Teleuti (sacrificio del 20 luglio, «nei campi»). I Buriati praticano
egualmente il sacrificio del cavallo, ma lo sciamano non v'ha parte alcuna; si
tratta d'una cerimonia caratteristica dei popoli allevatori di cavalli.
Bai Ulgan e lo sciamano
altaico
Intorno al
rituale ora analizzato faremo solo qualche osservazione. È chiaro che esso si
compone di due parti, che non sono affatto inseparabili: a) il sacrificio
all'Essere celeste; b) l'ascesa simbolica dello sciamano e il suo comparire,
insieme all'anima della bestia sacrificata, dinanzi a Bai Ulgan. Nelle forme
che hanno ancora potuto essere constatate nel XIX secolo il sacrificio altaico
del cavallo rassomigliava ai sacrifici offerti agli Esseri supremi celesti
nell'estremo Nord dell'Asia e non appariva dissimile da riti noti anche altrove
nelle religioni più antiche e non richiedenti affatto la presenza di uno
sciamano-sacrificatore. E si è già detto che diversi popoli turchi conoscono
questo stesso sacrificio del cavallo offerto all'Essere celeste, senza che per
questo ricorrano a degli sciamani. Il sacrificio del cavallo era anche
praticato dalla maggior parte dei popoli indoeuropei, sempre con riferimento ad
un dio celeste o ad un dio delle tempeste. È dunque legittimo supporre che la
parte che lo sciamano ha nel rito altaico sia recente e miri a scopi diversi
che non la semplice offerta dell'animale all'Essere supremo.
La seconda
osservazione riguarda lo stesso Bai Ulgan. Benché egli abbia attributi celesti,
pure v'è ragione di credere che egli non sia un dio supremo nettamente uranico,
o che lo sia stato sempre. Egli presenta piuttosto i tratti di un dio dell'«atmosfera»
e della fertilità, perché ha una paredra e numerosa prole, e sta in relazione
con la fecondità delle greggi e con la ricchezza dei raccolti. Il vero dio
celeste supremo degli Altaici sembra essere Tengere Kaira Khan («il
misericordioso Signore Cielo») a giudicare dalla sua struttura affine al Num
samoiedo e al Tengri - «Cielo» - turco-mongolo. È Tengere Kaira Khan che, nei
miti concernenti la cosmogonia e la fine del mondo, ha la parte principale -
mentre Bai Ulgan vi è del tutto assente. È notevole che per lui non sia
previsto alcun sacrificio, mentre se ne offrono in gran copia a Bai Ulgan e a
Erlik Khan. Ma questa esclusione di Tengere Kaira Khan dal culto è il destino
di quasi tutti gli dèi uranici. È probabile che in origine il sacrificio del
cavallo fosse offerto a Tengere Kaira Khan; infatti abbiamo visto che il rito
altaico rientra nella categoria dei sacrifici della testa e delle ossa lunghe,
sacrifici che sono specifici per le divinità celesti artiche e nordasiatiche. A
tale riguardo vogliamo anche ricordare che nell'India vèdica il sacrificio del
cavallo (açvamedha), originariamente
offerto a Varuna e, verosimilmente, a Dyaus, ha finito con l'esser dedicato a
Prajàpati e perfino a Indra. Questo fenomeno di sostituzione progressiva di un
dio dell'atmosfera (e, nelle religioni agricole, di un dio fecondatore) a un
dio celeste è frequentissimo nella storia delle religioni.
Come tutti gli
dèi dell'atmosfera e della fecondità in genere, Bai Ulgàn è meno lontano, meno
distaccato dalle divinità uraniche pure; egli si interessa alla sorte degli
umani e li aiuta nelle loro bisogna quotidiane. La «presenza» di questo dio è
più concreta, il «dialogo» con lui è più «umano» e più
«drammatico». È lecito supporre che è stato grazie ad una
esperienza religiosa più concreta e morfologicamente più ricca che lo sciamano
è riuscito a soppiantare, nel sacrificio del cavallo, l'antico sacrificatore,
proprio come Bai Ulgan aveva sopraffatto l'antico dio celeste. Il sacrificio
diviene ora una specie di «psicoforia» che si conclude con un incontro
drammatico fra il dio e lo sciamano e con un loro dialogo concreto (perché lo
sciamano giunge talvolta fino ad imitare la voce del dio).
È facile capire
la ragione per cui lo sciamano che, fra tutte le varietà dell'esperienza
religiosa, è attratto dalle forme «estatiche» per eccellenza, è
riuscito a far sua la funzione principale nel sacrificio altaico del cavallo:
la sua tecnica dell'estasi gli permette di abbandonare il corpo e di
intraprendere il viaggio celeste. Gli è dunque facile ripetere un tale viaggio
conducendo seco l'anima dell'animale sacrificato per presentarla direttamente e
in modo concreto a Bai Ulgàn, Che in ciò si tratti di una sostituzione,
probabilmente abbastanza tardiva, lo prova anche il fatto della mediocre
intensità della trance. Nel
sacrificio descritto da RadIov l'estasi è nettamente imitata. In effetti, lo
sciamano mima laboriosamente un'ascensione - secondo il canone tradizionale:
volo d'uccello, cavalcata, ecc. - e il rito è d'interesse più drammatico che
non estatico. Con ciò non è affatto detto che gli sciamani altaici siano
incapaci di trance: solo che queste
si realizzano in sedute sciamaniche diverse da quelle del sacrificio del
cavallo.
La discesa agli inferni
(Altai)
L'ascensione
celeste dello sciamano altaico ha per controparte la sua discesa agli Inferni.
Questa cerimonia è assai più difficile e benché essa possa esser celebrata da
sciamani che sono «bianchi» e «neri» ad un tempo, è
naturalmente una specialità dei secondi. Radlov non è riuscito ad assistere a
nessuna seduta sciamanica di discesa agli Inferni. Anochin, che ha raccolti i
testi di cinque cerimonie di ascensione, ha trovato un solo sciamano (Mampiìi)
che ha acconsentito a ripetergli le formule di una seduta di discesa agli
Inferni. Mampiii, suo informatore era uno sciamano «bianco e nero»; forse è per
tale ragione che nella sua invocazione a Erlik (= Arlik) Khan egli fa anche
cenno a Bai Ulgan Anochin, dà soltanto i testi della cerimonia, senza
informazioni circa il rituale propriamente detto.
Secondo questi
testi sembra che lo sciamano discenda verticalmente per le sette «scale» o
regioni sotterranee, chiamate pudak («ostacoli»),
percorrendole l'una dopo l'altra, accompagnato dagli antenati e dagli spiriti
ausiliari. Nel punto di superare ognuno di questi «ostacoli», egli descrive una
corrispondente, nuova epifania sotterranea: la parola «nero» ricorre quasi in
ogni verso. Al secondo «ostacolo» sembra che egli accenni a certi rumori
metallici; al quinto ode un rumore di onde e il sibilo del vento; infine, al
settimo, dove sboccano anche i nove fiumi sotterranei, scorge il palazzo di
Erlik Khan, fatto di pietra e di argilla nera e difeso da ogni parte. Giunto
dinanzi a Erlik lo sciamano pronuncia una lunga preghiera (nella quale menziona
anche Bai Ulgan, «quello d'in alto»), poi ritorna nella yurta e
comunica agli spettatori i risultati del suo viaggio.
Potanin ci ha
dato un'ottima descrizione del rituale della discesa - però senza i testi -
basata sulle informazioni di un prete ortodosso, Civalkov, che in gioventù
aveva assistito a varie cerimonie, partecipando perfino al coro. Fra il rituale
descritto da Potanin e i testi raccolti da Anochin si possono riscontrare
alcune differenze, dovute senza dubbio al fatto che si tratta di tribù diverse,
oltreché al fatto che Anochin ha dato i soli testi delle invocazioni e delle
preghiere, senza alcuna spiegazione circa il rituale. La differenza più
sensibile è quella della direzione: verticale in Anochin, orizzontale e, poi,
doppiamente verticale (ascesa seguita da discesa) in Potanin.
Lo sciamano
comincia il suo viaggio nella sua stessa yurta. Prende la via del Sud,
attraversa le regioni circostanti, sale sui monti Altai e, passando, descrive
il deserto cinese di sabbia rossa. Poi attraversa a cavallo una steppa gialla
che un avvoltoio non saprebbe sorvolare. «Per la forza dei canti
l'attraverseremo!» grida lo sciamano rivolgendosi ai presenti e intonando
un canto che essi riprendono in coro. Un'altra steppa, di color lino, che un
corvo non riuscirebbe a sorvolare, gli si stende dinanzi. Lo sciamano usa di
nuovo il potere magico del canto ed i presenti l'accompagnano in coro. Infine
raggiunge la Montagna di Ferro, Temur taiksha, le cui vette toccano il Cielo.
La scalata è perigliosa, lo sciamano mima la difficile ascensione, respirando
profondamente esausto, quando raggiunge la cima.
Le ossa
imbiancate di altri sciamani che non sono riusciti a raggiungere la cima per
mancanza di forza, e quelle dei loro cavalli, sono disseminate per la montagna.
Superato il monte, una nuova cavalcata conduce lo sciamano davanti ad un foro
che è l'ingresso dell'altro mondo, yer
mesi («le mascelle della Terra») o yer
tunigi («il buco pel fumo della Terra»). Lo sciamano vi si
avventura, raggiungendo dapprima un altopiano, poi un mare che egli attraversa
passando su di un ponte della larghezza di un capello; per dare un'imagine viva
del suo passaggio su tale ponte pericoloso barcolla e fa come se stesse per
cadere. In fondo al mare scorge le ossa di innumerevoli sciamani che vi sono
caduti, inquantoché i peccatori sono incapaci di attraversare il ponte. Lo
sciamano passa per il luogo ove i peccatori vengono tormentati e fa in tempo a
scorgere un uomo che, in vita, era uso origliare alle porte, inchiodato per un
orecchio ad un pilastro; un altro, che era stato un calunniatore, è appeso per
la lingua, un ghiottone è circondato da cibi squisiti che egli però non può toccare,
e via dicendo.
Passato il
ponte, lo sciamano sale di nuovo a cavallo dirigendosi verso la residenza di
Erlik Khan. Riesce a entrarvi malgrado i cani che la custodiscono e il portiere
che, alla fine, si lascia convincere grazie a dei regali (birra, manzo bollito
e pelli di mofola erano stati preparati a tal fine prima della partenza dello
sciamano). Ricevuti i regali, il portiere lascia entrare lo sciamano nella
yurta di Erlik. Qui ha inizio la scena più movimentata. Lo sciamano si dirige
verso l'ingresso della tenda nella quale si svolge la seduta e fa le mosse di
avvicinarsi a Erlik. D'improvviso lo sciamano si mette a gridare, per
significare che il dio lo ha visto e che è molto adirato. Lo sciamano si
rifugia presso l'entrata della tenda e la scena si ripete tre volte. Infine
Erlik Khan gli rivolge la parola: «Coloro che hanno piume non possono volare
fin qui, coloro che hanno artigli non possono giungere fin qui; tu, scarafaggio
nero e disgustoso, donde sei venuto?».
Lo sciamano dice
il nome suo e quello degli antenati, invitando Erlik a bere; fa le mosse di
versar del vino nel suo tamburo e l'offre al Re dell'Inferno. Erlik l'accetta,
comincia a bere e lo sciamano lo imita, fino a riprodurre i suoi singulti. Poi
offre a Erlik un bove che era stato ucciso in precedenza oltre a varie vesti e
pelliccie, che erano state appese ad una corda. Lo sciamano nell'offrire tocca
con la mano ciascuno di questi oggetti. Ma le pelliccie e le vesti restano in
possesso del proprietario.
Nel frattempo
Erlik si ubriaca completamente e lo sciamano mima laboriosamente le fasi della
sua ebbrezza. Il dio diviene benevolo, lo benedice, promette il moltiplicarsi
del bestiame, ecc. Lo sciamano se ne torna allora allegro sulla terra, a
cavallo non di un destriero, ma di un'oca; nella yurta cammina in punta di
piedi, come se volasse, imitando il grido dell'uccello: Naingak, naingak! La seduta ha fine, lo sciamano si siede, qualcuno
gli prende il tamburo di mano e lo batte tre volte. L() sciamano si stropiccia
gli occhi, come se si svegliasse. Gli si domanda: «La cavalcata è andata bene?
Siete riuscito?». E lui risponde: «Ho fatto un viaggio magnifico. Sono
stato ricevuto molto bene!».
Queste discese
agli Inferni vengono specialmente intraprese per cercare e ricondurre l'anima
di un malato. Più oltre riferiremo diversi racconti siberiani aventi per
oggetto questo viaggio. Naturalmente, la discesa dello sciamano può avvenire
anche per uno scopo opposto, e cioè per accompagnare l'anima di un defunto fino
al regno di Erlik.
Avremo occasione
di confrontare i due tipi di viaggio estatico - in Cielo e negli Inferni - e di
indicare gli schemi cosmografici che essi implicano. Pel momento, esaminiamo un
po' più da presso questo rituale di discesa descritto da Potanin. Alcuni
dettagli sono specifici delle discese infernali: ad esempio, il cane e il
custode che impediscono l'accesso al regno dei morti.
È, questo, un
motivo ben noto delle mitologie infernali, che avremo occasione di incontrare
più d'una volta in seguito. Meno specificamente infernale è il motivo del ponte
stretto come un capello: il ponte simbolizza il passaggio che conduce
nell'aldilà, ma non necessariamente agli Inferni; solo i colpevoli non riescono
ad attraversarlo e precipitano nell'abisso. Il passare per un ponte estremamente
stretto che collega due regioni cosmiche significa anche il passare da un modo
di essere ad un altro: dallo stato del non-iniziato a quello dell'iniziato,
oppure dallo stato di «vivente» a quello di «morto»,
Il racconto di
Potanin presenta diversi elementi incongrui: lo sciamano, cavalcando, si dirige
verso il Sud, scala una montagna discendendo poi attraverso un foro
nell'Inferno, da dove ritorna non più sul suo cavallo, bensì inforcando un'oca.
Quest'ultimo dettaglio ha qualcosa di sospetto: non perché sia difficile
imaginarsi un volo attraverso un foro che conduce agli Inferni, ma perché il
volo a cavalcioni di un'oca ricorda l'ascesa dello sciamano in cielo. Molto
probabilmente qui abbiamo a che fare con una contaminazione del tema della
discesa con quello dell'ascesa. Nel folklore siberiano l'eroe viene spesso
portato da un'aquila o da un altro uccello dalle profondità dell'Inferno alla
superficie della terra. Presso i Goldi lo sciamano non può intraprendere il
viaggio estatico agli Inferni senza l'aiuto di un uccello-spirito (koori) che gli assicura la possibilità
di ritorno alla superficie terrestre: il tratto più difficile di questo viaggio
di ritorno lo sciamano lo compie a cavallo del suo koori.
Quanto al fatto
che lo sciamano vada dapprima a cavallo verso il Sud, salga su di un monte è
solo dopo discende nella bocca dell'Inferno, si è voluto vedere in questo
itinerario il vago ricordo di un viaggio verso l'India e si è perfino tentato
di riferire le visioni infernali alle imagini che si potrebbero trovare nei
templi-caverna del Turkestan o del Tibet. Influenze meridionali, in ultima
istanza indiane, si sono indubbiamente esercitate sulle mitologie e sulle
varietà del folklore centro-asiatico. Solo che queste influenze hanno
convogliato una geografia mitica, e non vaghi ricordi di una geografia reale
(orografia, itinerari, templi, caverne, ecc.). È probabile che l'Inferno di
Erlik sia stato ricalcato su modelli irano-indiani, ma la discussione di questo
problema ci condurrebbe troppo lontano e noi vogliamo riservarla per qualche
altro nostro studio.
Lo sciamano psicopompo
(Altaici, Goldi, Yuraki)
I popoli
dell'Asia settentrionale concepiscono l'altro mondo come una imagine invertita
del nostro. In esso tutto accade come qui, ma a rovescio: quando è giorno sulla
terra, là è notte (per questa ragione le feste dei morti hanno luogo verso il
tramonto: è allora che essi si destano e cominciano la loro giornata);
all'estate dei vivi corrisponde nell'aldilà l'inverno; se la cacciagione o il
pesce è raro sulla terra, è segno che esso abbonda nell'altro mondo, e via
dicendo. I Beltiri mettono le redini e la bottiglia del vino nella sinistra del
morto: perché questa corrisponde alla mano destra sulla terra. E tutto. ciò che
è invertito sulla terra, è in posizione normale presso i morti: è per tale
motivo che gli oggetti che si pongono sulla tomba ad uso del morto, vengono
rovesciati, se non addirittura spezzati, perché ciò che è spezzato quaggiù è
intatto nell'altro mondo, e viceversa.
L'imagine
invertita appare egualmente nella concezione degli stadi inferiori (gli
«ostacoli»,
pudak, che lo sciamano oltrepassa
nella sua discesa). I Tartari siberiani conoscono sette o nove regioni
sotterranee; i Samoiedi parlano di nove strati sottomarini. Ma poiché i Tungusi
e gli Yakuti ignorano questi piani infernali, è verosimile che la concezione
tartara abbia una origine esotica (Harva).
La geografia
funeraria dei popoli del centro e del settentrione dell'Asia è alquanto
complessa, perché è stata continuamente contaminata dall'invasione di idee religiose
di origine meridionale. I morti si dirigono sia verso il Nord, sia verso
l'Ovest (Harva). Ma si incontra anche l'idea che i buoni s'innalzano verso il
Cielo, mentre i peccatori scendono al disotto della terra (ad esempio, presso i
Tartari dell'Altai; cfr. Radlov); comunque, questa valutazione morale degli
itinerari dell'oltretomba sembra essere una innovazione alquanto tardiva
(Harva), Gli Yakuti credono che, dopo morti, sia i buoni che i cattivi salgano
al Cielo, dove le loro anime (kut)
assumono forma di uccello (Harva). È verosimile che queste anime vadano a
posarsi sui rami dell'Albero del Mondo, imagine mitica che incontreremo anche
altrove. D'altra parte secondo gli Yakuti gli spiriti malvagi (abasy) che sono essi stessi anime di morti,
abitano sotto terra: per cui è evidente che noi qui abbiamo a che fare con una
doppia tradizione religiosa. Secondo Sieroszewski certi Yakuti situano il regno
dei morti «al di là del settimo cielo, a settentrione, in una contrada ove
regna la notte eterna, ove un vento glaciale soffia incessantemente, ove riluce
il pallido sole del Nord, ove la luna si mostra solo rovesciata e i giovani e
le giovani restano eternamente vergini» ... ; mentre secondo altri sotto
la terra esisterebbe un altro mondo del tutto simile al nostro, che si può
raggiungere grazie all'apertura lasciata dagli abitanti di tali regioni
sotterranee per la loro aereazione.
E s'incontra
anche la concezione secondo la quale certi privilegiati, il cui corpo viene
arso, salgono insieme al fumo in Cielo, dove trascorreranno una esistenza del
tutto simile alla nostra. È quel che i Buriati pensano nel riguardo dei loro
sciamani, e la stessa credenza la si ritrova fra i Ciukci e i Coriachi (vedi
più giù). L'idea che il fuoco assicuri un destino celeste post-mortem viene anche confermata dalla credenza, che coloro che
sono colpiti dalla folgore volano in cielo. Il «fuoco»,
quale pur sia la sua natura, trasforma l'uomo in «spirito»; per tale ragione
gli sciamani son considerati come dei «signori del fuoco» e non risentono del
contatto di carboni ardenti. Il «dominio del fuoco» o l'incinerazione
equivalgono in un certo modo ad una inizi azione. Una idea del genere fa da
substrato alla concezione, secondo cui gli eroi e tutti i morti di morte violenta
salgono al Cielo (Harva): la loro morte viene considerata come una iniziazione.
Invece la morte dovuta ad una malattia può condurre il defunto soltanto agli
Inferni, inquantoché la malattia è causata dagli spiriti malvagi o dai morti.
Quando qualcuno si ammala gli Altaici e i Telengiti dicono che «sta per esser
mangiato dai kormos (dai morti)».
E di qualcuno che è morto si usa dire: «È stato mangiato dai kormos» (Harva).
È per tal motivo
che i Goldi, quando seppelliscono un morto e prendono congedo da lui, lo
pregano di non prender seco la vedova e i figli. Gli Uiguri gialli gli
rivolgono queste parole: «Non prender con te tuo figlio, non prender con te il
tuo bestiame, né i tuoi beni!». E se accade che la vedova, o i
figli, o gli amici decedano poco dopo la morte di qualcuno, i Teleuti pensano
che questi ne ha portato con sé le anime (Harva). I sentimenti che qui si
nutrono nel riguardo dei morti sono ambivalenti: per un lato, essi sono
venerati, sono invitati ai banchetti funebri, a poco a poco sono considerati
come spiriti protettori della famiglia - ma in pari tempo si ha paura di essi e
si prendono precauzioni d'ogni specie per impedire che essi ritornino fra i
viventi. Di fatto, questa ambivalenza può essere ricondotta a due attitudini
opposte e successive: si temono i morti recenti, mentre si venerano coloro che
sono morti da un certo tempo e da essi ci si attende anzi una protezione. La
paura per i morti è dovuta al fatto che, sul principio, nessun trapassato
accetta il suo nuovo modo d'essere: egli non vuol rinunciare a vivere e cerca
di tornare presso i suoi. È questa tendenza che disturba l'equilibrio
spirituale della società: non essendo ancora aggregato al mondo dei trapassati,
il morto recente cerca di condurre seco la famiglia e gli amici, se non pure il
suo stesso bestiame; egli vuol continuare la sua esistenza bruscamente
interrotta, vuole cioè «vivere» fra i suoi. Per cui, si teme meno la cattiveria
del morto che non la sua ignoranza della sua nuova condizione, il suo rifiuto a
lasciare definitivamente «il suo mondo».
Da qui tutte le
precauzioni prese per impedire il ritorno del morto al villaggio: si va per
un'altra via al ritorno dal cimitero onde disorientare l'anima del morto, si
lascia in fretta la tomba e ci si purifica non appena tornati a casa, nel
cimitero si distruggono tutti i mezzi di trasporto (traini, carretta, ecc.,
tutte cose che serviranno ai morti nel loro nuovo mondo), infine per qualche
notte di seguito si fa la guardia sui sentieri che conducono al villaggio e si
accendono dei fuochi (Harva). Però tutte queste precauzioni non impediscono che
le anime dei morti vaghino intorno alle loro case per tre o sette giorni.
Un'altra idea si precisa, in relazione a questa stessa credenza, e cioè che i
morti non prendono definitivamente la via verso l'aldilà che dopo il banchetto
funebre che si tiene in loro onore tre, sette o quaranta giorni dopo il
decesso. Molto probabilmente queste credenze dei popoli altaici risentono dell'influenza
del cristianesimo e dell'islamismo. I Teleuti chiamano uzut pairamy il banchetto funerario che ha luogo o sette, o
quaranta giorni o un anno dopo la morte; lo stesso nome di pairam tradisce una origine meridionale (persiano: bairam, «festa»). V'è anche l'usanza di
onorare il morto quarantanove giorni dopo il decesso, usanza che attesta una
influenza lamaica. Ma v'è da supporre che coteste influenze meridionali si
siano innestate su di un'antica festa dei morti, mutandone alquanto il
significato. Infatti la «veglia del morto» è una usanza largamente diffusa che
per scopo primo ha un simbolico accompagnare il morto nell'aldilà, o la
recitazione dell'itinerario infernale che questi deve seguire per non
smarrirsi. A tale riguardo il Libro dei morti tibetano rimanda ad elementi ben
anteriori al lamaismo: invece di accompagnare il morto nel suo viaggio
d'oltretomba (come fa lo sciamano siberiano o indonesiano) il lama gli ricorda
tutti gli itinerari possibili per un trapassato (come le prefiche indonesiane,
ecc.. Importante è il numero mistico 49 (7 x 7) in Cina, in Tibet, presso i
Mongoli.
In questa
occasione vengono loro offerti dei cibi, che si gettano nel fuoco; si visita il
cimitero; si sacrifica il cavallo preferito del trapassato, lo si mangia vicino
alla tomba e si appende la testa della bestia ad un palo che poi si conficca
sulla tomba (Tartari Abakan, Beltiri, Sagai, Karghinzi, ecc.). In tale
occasione si procede anche ad una «purificazione» della dimora del morto,
operazione eseguita da uno sciamano, che implica la ricerca drammatica
dell'anima del trapassato e la sua espulsione definitiva ad opera dello
sciamano (Teleuti). Alcuni sciamani altaici per sicurezza accompagnano perfino
l'anima del morto agli Inferni e per non esser riconosciuti dagli abitanti
delle regioni infere s'impiastricciano il viso con del grasso (Radlov). Presso
i Tungusi di Turushansk si ricorre allo sciamano nel solo caso in cui il morto
continui ad infestare i luoghi familiari molto tempo dopo i suoi funerali
(Harva).
La parte dello
sciamano nel complesso funerario altaico e siberiano risulta ben chiara in base
alle usanze or ora indicate. Lo sciamano diviene indispensabile quando il morto
indugia a lasciare il mondo dei vivi. Soltanto in tal caso lo sciamano può fare
da psicopompo: per un lato, egli conosce perfettamente la via degli Inferni,
avendola lui stesso percorsa ripetutamente; dall'altro, lui solo può catturare
l'anima inafferrabile del trapassato e condurla nella sua nuova residenza. Il
fatto che il viaggio psicopompo non abbia luogo subito dopo il decesso ma in
occasione del banchetto funebre e della cerimonia di «purificazione»,
sembrerebbe indicare che per un certo tempo - tre, sette o quaranta giorni -
l'anima del morto risiede ancora nel cimitero e che è solo dopo questo periodo
che essa si dirigerebbe definitivamente verso gli Inferni (Devesi tuttavia
tener conto che per la maggior parte dei popoli turco-tartari e siberiani
l'uomo ha tre anime delle quali almeno una resta sempre nella tomba). In ogni
caso, presso certi popoli (come gli Altaici, i Goldi, gli Yuraki) lo sciamano
conduce i morti nell'aldilà alla fine del banchetto funebre, mentre presso
altre popolazioni (Tungusi) egli è chiamato ad assolvere la funzione di
psicopompo solo se il morto, una volta trascorso il termine normale, continua
ad infestare i luoghi dei vivi. Se si tien conto che presso altre genti
praticanti una specie di sciamanismo (come per es. i Lolo) lo sciamano è tenuto
ad avviare tutti i morti indistintamente verso la loro definitiva dimora, v'è
ragione di pensare che in origine cotesta situazione era generale nell'Asia
settentrionale e che certe innovazioni (come quella dei Tungusi) sono tardive.
Ecco come Radlov
descrive la seduta organizzata per condurre l'anima di una donna morta da
quaranta giorni. La cerimonia ha luogo di sera. Lo sciamano fa anzitutto il
giro della yurta suonando il tamburo; poi entra nella tenda e, avvicinatosi al
fuoco, invoca la morta. Ad un tratto la sua voce cambia: egli comincia a
parlare con un tono acuto di testa, perché, in realtà, è la morta che parla
attraverso lui. Essa si duole per il fatto di non conoscere la via, non vuole
allontanarsi dai suoi, e via dicendo, ma alla fine acconsente ad essere guidata
dallo sciamano, e i due partono alla volta del regno sotterraneo. Giuntivi, lo
sciamano si vede rifiutare dalle anime dei morti l'ingresso della nuova venuta.
Le preghiere non hanno effetto; allora si offre loro dell'acquavite. A poco a
poco la seduta si anima, fino a farsi grottesca, inquantoché le anime dei
morti, attraverso la voce dello sciamano, cominciano a litigare e a cantare
tutte insieme. Infine essi si decidono ad accogliere la defunta. La seconda
parte del rituale comprende il viaggio di ritorno; lo sciamano danza e grida
finché cade a terra, privo di sensi (Radlov).
I Goldi
conoscono due cerimonie funebri: il nimgan,
che ha luogo sette giorni dopo il decesso, quand'anche non ancor più oltre
(fino a due mesi), e il kazatauri,
grande cerimonia che si celebra poco dopo la prima e che si conclude con
l'avviamento dell'anima agli Inferni. Durante il nimgan, lo sciamano entra nella casa del morto con il suo tamburo,
cerca l'anima, la cattura e la fa entrare in una specie di cuscino (fania) (In origine il termine fania (fan'a) significava «ombra» «anima-ombra» (Schattenseele), ma ha
finito per designare pure il ricettacolo materiale dell'anima;). Segue il
banchetto cui prendono parte tutti i parenti e gli amici del defunto presente
nel lania; lo sciamano offre a costui dell'acquavite. Il kazatauri comincia allo stesso modo. Lo sciamano indossa il
costume, e parte col tamburo alla ricerca dell'anima nelle adiacenze della
yurta. In pari tempo danza e narra delle difficoltà del cammino che conduce
agli Inferni. Finalmente cattura l'anima e la riporta nella casa, ove la fa
entrare nel cuscino (fania). Il
banchetto si prolunga fino a notte alta e i cibi che restano vengono gettati
nel fuoco dallo sciamano. Le donne portano un letto nella yurta, lo sciamano
mette il fania nel letto, vi stende sopra
una coperta e dice al morto di dormire. Lui stesso si stende a terra nella
yurta e s'addormenta.
L'indomani
indossa di nuovo il suo costume e ridesta il morto a suono di tamburo. Segue un
nuovo banchetto e, venuta la notte - dato che la cerimonia può durare più giorni
- lo sciamano rimette il fania a
letto e lo copre d'una coperta. Infine una mattina lo sciamano comincia il suo
canto e, rivolgendosi al morto, gli consiglia di mangiare molto ma di bere poco
perché il viaggio all'Inferno si fa assai difficile per chi sia in stato
d'ebbrezza. Al tramonto si fanno i preparativi per la partenza. Lo sciamano
canta, balla, s'impiastriccia il volto di grasso. Invoca gli spiriti ausiliari
e li prega di guidarli nell'aldilà, lui e il defunto. Lascia la yurta per
qualche istante e sale su un albero con delle tacche, che era stato piantato in
precedenza: di li vede il cammino degli Inferni (in realtà, egli' scala
l'Albero del Mondo e si trova al vertice del mondo). In questa circostanza vede
pure molte altre cose: neve abbondante, caccia copiosa, pesca fortunata, ecc.
Rientrando nella
yurta, egli chiama in aiuto due potenti spiriti protettori: buciu, una specie
di mostro piumato con un sol piede e con sembiante umano, e koori, un uccello
dal collo lungo (esistono figurine di legno di questi esseri mitici, che lo
sciamano porta seco nella discesa agli Inferni). Senza l'aiuto di questi due
spiriti lo sciamano non potrebbe più ritornare dall'Inferno; la parte più
difficile del cammino egli la fa a cavallo della koori.
Dopo aver
«sciamanizzato» fino allo spossamento, egli si siede, rivolto ad Occidente, su
di una panca che rappresenta un traino siberiano. Vicino, gli si mette il
cuscino (fenja) nel quale è stata
incorporata l'anima del morto, e una cesta con del cibo. Lo sciamano prega gli
spiriti di attaccare i cani al suo traino chiedendo anche un «valletto» che gli
tenga compagnia nel viaggio. Qualche minuto dopo è già «partito» alla volta del
paese dei morti.
I canti che egli
intona, le parole che scambia col «valletto» permettono di seguire il suo
itinerario. Sulle prime il cammino è facile, ma via via che ci si avvicina al
regno dei morti le difficoltà si moltiplicano. Un gran fiume sbarra il cammino
ed occorre essere un buono sciamano per poterlo oltrepassare e raggiungere
l'altra riva. Più oltre s'incominciano a scorgere segni di umana attività:
traccie di passi, ceneri, pezzi di legno: il villaggio dei morti non è più
lontano. Difatti si sentono, vicini, cani che abbaiano, si scorge il fumo delle
yurte, si incontrano le prime renne. Si è arrivati agli Inferni. Subito i morti
si radunano e chiedono allo sciamano il suo nome e quello del nuovo venuto. Lo
sciamano si guarda dal dire come davvero si chiama; fra la folla degli spiriti
cerca i parenti più prossimi dell'anima che ha guidato, per affidarla ad essi.
Poi si affretta a tornare in terra e, una volta tornato, racconta estesamente
quel che ha visto nel paese dei morti e le impressioni del trapassato che ha
accompagnato là. A ciascuno dei presenti egli porta i saluti dei loro parenti
morti e distribuisce perfino dei piccoli regali da parte loro. Finita la
cerimonia, lo sciamano getta il cuscino (fanja)
nel fuoco. Col che sono assolti gli obblighi propriamente detti che i vivi
hanno nei confronti del trapassato. Cerimonia analoga presso i Tungusi. Sulla
cerimonia tibetana della «proiezione» dell'anima del morto in un'effigie allo
scopo di evitarle una reincarnazione nei mondi inferiori.
Una cerimonia
analoga vien celebrata presso gli Yuraki della foresta, nella Siberia centrale,
a grande distanza dai Goldi. Lo sciamano cerca l'anima del morto e la conduce
seco agli Inferni. Il rituale si svolge in due tempi: nel primo giorno si
compie la discesa al paese dei morti, nel secondo lo sciamano ritorna solo
sulla terra. I canti che egli intona permettono anche qui di seguire le sue
avventure. Egli incontra un fiume ingombro di pezzi di legno; il suo
spirito-uccello, jorra, gli apre una via attraverso questi ostacoli
(verosimilmente si tratta di vecchi sci fuori uso degli spiriti). Un secondo
fiume è pieno dei resti di vecchi tamburi sciamanici, un terzo è reso
impraticabile da vertebre cervicali degli sciamani morti. Jorra riesce a
sgombrare la via e lo sciamano giunge alle Grandi Acque oltre le quali si
estende il paese delle ombre. In esso i morti continuano la stessa vita che
avevano in terra: il ricco continua ad esser ricco. il povero resta povero. Ma
essi ringiovaniscono e si preparano a rinascere sulla terra. Lo sciamano
conduce l'anima verso il gruppo dei suoi parenti. Quando incontra il padre del
morto questi esclama: «To', ecco mio figlio!», Per il ritorno, lo
sciamano prende una via diversa, e nuove avventure si succedono. Il racconto
del viaggio di ritorno occupa un'intera giornata. Lo sciamano incontra un
luccio, poi una renna, poi una lepre, ecc., fa ad essi la caccia, il che
propizierà la stessa caccia sulla terra.
Gli Yuraki
pensano che, degli umani, alcuni dopo la morte ascendono in cielo, ma il loro
numero è assai esiguo e si riduce a coloro che sono stati pii e puri durante la
loro vita terrena. L'ascensione celeste post-mortem
riappare anche nei racconti: un vecchio, Vvriirie Seerradeetta, annuncia alle
sue due giovani spose che il dio (Num) lo chiama presso di lui e che l'indomani
un fil di ferro scenderà dal cielo; egli si arrampicherà su per questo filo
fino alla dimora del Dio. Cfr. il motivo dell'ascensione a mezzo di una liana,
di un albero, di una sciarpa, ecc.
Di questi tempi
di discese sciamaniche agli Inferni alcuni sono passati nella letteratura orale
dei popoli siberiani. Così si racconta delle avventure dell'eroe buriate
Mu-monto che discende agli Inferni invece di suo padre e, tornato in terra,
descrive i tormenti dei peccatori (Harva). Castrén ha raccolto presso i Tartari
della steppa Sajan la storia di Kubaiko, giovane ardita che scende agli Inferni
per riportarne la testa del fratello, decapitato da un mostro. Dopo diverse
avventure e dopo aver assistito a vari tormenti che sono il castigo dei vari
peccati, Kubaiko si trova al cospetto dello stesso Re dell'Inferno, Irle-Khan,
Questi le dice che le permetterà di prendere la testa del fratello se supererà
vittoriosamente una prova: dovrà liberare un ariete a sette corna, così
profondamente interrato che se ne distinguono solo le corna. Kubaiko compie la
prodezza e torna sulla terra con la testa del fratello e con un'acqua
meravigliosa dàtagli dal dio per risuscitarlo.
I Tartari hanno
una letteratura considerevole su questo soggetto; ma si tratta soprattutto di
cicli eroici nei quali la discesa agli Inferni è una delle molte prove che il
personaggio principale deve affrontare. Coteste discese non son tutte di
struttura sciamanica - cioè basate sul potere, proprio allo sciamano, di
confondersi impunemente fra le anime dei morti, di cercar negli Inferni l'anima
di un ammalato o di accompagnarvi un trapassato. Gli eroi tartari sono tenuti a
vincere certe prove che, come si è visto or ora nei riguardi della giovane Kubaiko,
corrispondono ad uno schema di iniziazione eroica e debbono attestare
l'audacia, il coraggio e la forza del personaggio in questione. Però nella
leggenda di Kubaiko, certi elementi sono sciamanici: la giovane discende agli
Inferni per prendervi la testa del fratello (lo stesso «motivo d'Orfeo» presso i
Manciù, Polinesiani e Nord-Americani), cioè la sua «anima»,
proprio come lo sciamano riporta dagli Inferni l'anima del malato; ella assiste
ai tormenti infernali, che descrive e che, per quanto influenzati da concezioni
dell' Asia meridionale o del vicino Oriente antico, riflettono certe
descrizioni della topografia infernale che, dappertutto pel mondo, gli sciamani
furono i primi a comunicare ai vivi. Come si avrà occasione di veder meglio in
seguito, molti dei più famosi viaggi agli Inferni intrapresi con lo scopo di
conoscere la sorte degli umani dopo la morte, sono di struttura «sciamanica»,
nel senso che essi utilizzano la tecnica estatica degli sciamani. Tutto ciò non
è senza importanza per la comprensione delle «origini» della letteratura epica.
Quando tenteremo di valutare l'apporto culturale dello sciamanismo, avremo
occasione di mostrare come le esperienze sciamaniche abbiano contribuito a
cristallizzare i primi grandi temi epici.
Capitolo 7: Lo sciamanesimo nell'Asia
centrale e settentrionale
Guarigioni magiche
- Lo sciamano psicopompo
La funzione
principale degli sciamanj dell'Asia centrale e settentrionale è la guarigione
magica. Quest'area, nel suo insieme, presenta diverse conceZioni circa le cause
della malattia, ma quella del «ratto dell'anima. predomina nettamente su tutte
le altre. Pertanto, la malattia vien riferita ad uno smarrirsi dell'anima
ovvero ad un furto dell'anima - e la cura, nel complesso, consiste nel cercare
quest'anima, nel catturarla e nel reintegrarla nel corpo del malato. In certe
regioni dell'Asia la causa del male può anche essere un oggetto magico
introdottosi nel corpo del malato oppure una «possessione» da parte degli
spiriti malvagi; in tal caso la guarigione si ottiene estraendo l'oggetto nocivo
oppure espellendo i demoni. Talvolta la malattia ha una doppia causa, è un
furto dell'anima aggravato dalla «possessione» da parte degli
spiriti malvagi, e allora la cura sciamanica implica sia la ricerca dell'anima
che l'espulsione dei demoni.
Tutte queste
idee risultano poi ulteriormente complicate per via della teoria della
molteplicità delle anime. Come tanti altri popoli «primitivi» e specialmente
gli Indonesiani - le genti nord-asiatiche ritengono che l'uomo abbia tre e
perfino sette anime (su tutto ciò, cfr. Paulson). Alla morte, una di esse resta
nella tomba, un'altra scende nel Regno delle ombre e una terza sale in Cielo.
Ma siffatta concezione, che per esempio s'incontra fra i Ciukci e gli
Yukaghiri, non è che una delle tante concernenti il destino delle tre anime
dopo la morte. Per altri popoli, almeno una delle anime scompare con la morte,
o viene divorata dai demoni, ecc.
Sulle tre anime
dei Burlati vedi Sandschejew; una di queste anime risiede nelle ossa, la
seconda risiede probabilmente nel sangue e può lasciare il corpo e circolare in
forma di vespa o di ape, la terza rassomiglia in tutto e per tutto alla forma
umana, è una specie di doppio. Alla morte la prima anima resta nello scheletro,
la seconda vien divorata dagli spiriti e la terza si mostra agli umani sotto
specie di fantasma.
Nel quadro di
queste ultime concezioni, l'anima che durante l'esistenza terrestre, col
fuggire, provoca le malattie, è proprio quella che dopo la morte viene divorata
dagli spiriti malvagi.
In tali casi
soltanto lo sciamano può operare la guarigione.
Infatti soltanto
lui «vede»
gli spiriti e sa come esorcizzarli; soltanto lui sa riconoscere quando si
tratta di una fuga dell'anima ed è capace, in estasi, di raggiungerla e di
riportarla nel corpo. Molte volte la guarigione implica certi sacrifici, ed è
sempre lo sciamano a decidere se essi sono necessari e la forma che essi
debbono avere; il riacquisto della salute fisica è in stretta dipendenza col
ripristino dell'equilibrio delle forze spirituali. Infatti spesso accade che la
malattia sia dovuta ad una negligenza o ad una omissione nei riguardi delle
potenze infernali che rientrano anch'esse nella sfera del sacro. Tutto quanto
concerne l'anima e le sue vicissitudini, sia quaggiù che nell'aldilà, è di competenza
esclusiva dello sciamano. Grazie alle sue stesse esperienze pre-iniziatiche e
iniziatiche egli conosce il dramma dell'anima umana, la sua instabilità, la sua
precarietà; inoltre egli conosce le forze che la minacciano e le regioni nelle
quali essa può esser trasportata. Se la cura sciamanica implica l'estasi, ciò è
proprio perché la malattia vien concepita come una alterazione o un alienazione
dell'anima.
In quel che
seguirà riferiremo un certo gruppo di sedute terapeutiche, senza aver affatto
la pretesa di esaurire la ricca documentazione che finora è stata raccolta e
pubblicata su tale soggetto. Per non riuscire troppo monotoni (perché, in
fondo, la maggior parte delle descrizioni si rassomigliano) ci siamo presi la
libertà di raggruppare la materia senza tener sempre conto della continuità
geografica o culturale.
Ricerca e richiamo
dell'anima (Tartari, Buriati, Kirghisi)
Ecco come lo
sciamano teleuta chiama l'anima del bambino ammalato: «Torna nella tua patria!
nella yurta, presso il fuoco splendente! torna presso tuo padre ... presso tua
madre!»
(Harve). Presso certi popoli il richiamo dell'anima costituisce una tappa della
guarigione sciamanica. Solo nel caso in cui l'anima del malato si rifiuta di
tornare nel suo corpo o ne è incapace lo sciamano si mette alla sua ricerca e
finisce col discendere nel Regno dei Morti per ricondurla indietro. Ad esempio,
i Buriati conoscono tanto l'invocazione dell'anima che la sua ricerca da parte
dello sciamano.
Presso i Buriati
della regioni di Alarsk lo sciamano si siede su di una stuoia vicino al malato,
circondato da diversi oggetti, fra i quali c'è anche una freccia: un filo rosso
parte dalla sua punta e va fino alla betulla drizzata fuori della yurta, nel
cortile. È seguendo questo filo che l'anima del malato dovrebbe rientrare nel
corpo e per tale ragione l'ingresso della yurta vien lasciato aperto. Vicino
all'albero qualcuno tiene un cavallo: i Buriati credono che il cavallo scorgerà
per primo l'anima che ritorna, manifestandolo con un tremito. Sul tavolo della
yurta si dispongono dei dolci, del tarasun,
dell'acquavite e del tabacco. Se il malato è vecchio, s'invitano di preferenza
dei vecchi ad assistere alla seduta; se è adulto, si invitano degli uomini
fatti, e dei bambini, se si tratta di un bambino, lo sciamano comincia con
l'invocare l'anima: «Tuo padre è A, tua madre è B, il tuo nome è C. Dove sei?
dove sei andata? Triste è la yurta, ecc.». Gli assistenti si mettono a
piangere. Lo sciamano parla a lungo del dolore della famiglia e della tristezza
che regna nella casa. «I tuoi figli si chiedono: Dove sei, padre nostro?
Ascòltali ed abbi pietà di loro; ritorna! I tuoi cavalli si chiedono: Dove sei,
padrone nostro? Torna presso di noi, eccetera.
In genere, tutto
ciò costituisce soltanto la prima cerimonia. Se essa non ha effetto, lo
sciamano concentra i suoi sforzi in un" altro senso. Secondo le
informazioni raccolte da Potanin, lo sciamano buriate procede ad una seduta
preliminare per accertare se il malato ha smarrito la sua anima o se essa gli è
stata invece rapita e si trova prigioniera di Erlik. lo sciamano comincia col
cercare l'anima nei dintorni dci villaggio e se l'incontra qui la
reintegrazione è facile. In caso contrario, egli va a cercarla nelle foreste,
nelle steppe e perfino in fondo al mare. Se ciò malgrado non la trova ancora, è
segno che l'anima è prigioniera di Erlik e non c'è che da ricorrere a sacrifici
dispendiosi. Talvolta Erlik esige un'altra anima in sostituzione di quella che
tiene prigioniera; si tratta allora di trovarne una disponibile. Col consenso
del malato, lo sciamano decide quale sarà la vittima. Mentre questa dorme,
egli, trasformatosi in aquila, le si avvicina, le strappa l'anima e discende
con essa nel Regno dei Morti, offrendola a Erlik, che gli permette di prendere
quella del malato. La vittima muore poco dopo il ristabilirsi del malato. Ma
questo non è che un ripiego, perché anche il malato morirà, tre, sette o nove
anni dopo ....
Presso i Tartari
di Abakan la seduta dura fino a cinque o sei ore e, fra l'altro, comprende il
viaggio estatico dello sciamano in lontane regioni. Ma questo viaggio è piuttosto
figurativo: dopo aver sciamanizzato a lungo e pregato per la guarigione del
paziente, il kam abbandona la yurta.
Poi ritorna, accende la pipa e racconta di esser andato fino in Cina, di aver
attraversato monti e mari per cercare il rimedio necessario per la guarigione.
Qui ci si trova di fronte ad un tipo ibrido di seduta sciamanica, nella quale la
ricerca dell'anima smarrita dal malato si trasforma in uno pseudo-viaggio
estatico avente per scopo la ricerca dei farmaci. Lo stesso procedimento lo si
ritrova nell'estremità nord-orientale della Siberia, presso i Ciukci, dove lo
sciamano simula una trance di un
quarto d'ora, durante la quale viaggerebbe estaticamente per andare a domandar
consiglio agli spiriti (Bogoras). Il ricorso al sonno rituale per entrare in
rapporto con gli spiriti e guarire una malattia è anche proprio ai popoli ugri
(vedi più oltre). Ma presso i Ciukci si tratta piuttosto di una decadenza
recente della tecnica sciamanica. Come subito vedremo, i «vecchi sciamani»
intraprendevano dei veri viaggi estatici con lo scopo di cercare l'anima.
Un metodo ibrido
nel quale la cura sciamanica appare già trasformata in cerimonia esorcistica è
quello del baqça kasak kirghiso. La
seduta ha inizio con una invocazione ad Allah e ai santi musulmani, e continua
con un appello al jin e delle
minaccie agli spiriti malvagi. Il baqça
canta in continuazione. Ad un dato momento gli spiriti prendono possesso di lui
e durante questa trance egli «si
mette a camminare a piedi nudi su pezzi di ferro arroventati» e introduce più
volte uno stoppino acceso nella bocca. Tocca con la lingua il ferro rovente e
«col suo coltello, affilato come un rasoio, si colpisce il viso senza che
rimanga alcuna traccia visibile». Dopo queste prodezze sciamaniche
egli invoca nuovamente Allah: «Dio! concedi la felicità! Oh, dègnati di
guardare le mie lacrime! lo sollecito il tuo soccorso! ecc.». L'invocazione al
Dio supremo non è incompatibile con la guarigione sciamanica, e noi infatti la
ritroviamo in certi popoli dell'estremo nord-est della Siberia. Presso i
Kasak-kirghisi l'espulsione degli spiriti malvagi che si sono impossessati del
malato viene però in prima linea; per giungere a tanto il baqça entra nello stato sciamanico, che comporta l'insensibilità al
fuoco e ai colpi del coltello - in altri termini, egli fa propria la condizione
di uno «spirito», assunta la quale gli è dato di spaventare i demoni
delle malattie e di scacciarli.
La seduta sciamanica
presso gli Ugri e i Lapponi
Quando è
chiamato per una cura, lo sciamano tremyugan si mette a battere il tamburo e a
suonare una chitarra finché non cade in estasi. Abbandonato il corpo, la sua
anima penetra negli Inferni e va alla ricerca dell'anima del malato. Dai morti
ottiene il permesso di ricondurla in terra, dietro promessa di regalar loro una
camicia o altri oggetti; però può anche accadere che sia costretto a ricorrere
a mezzi più energici. Quando si ridesta dall'estasi, lo sciamano tiene chiusa
nel pugno l'anima del malato e la reintegra nel corpo facendola passare
attraverso l'orecchio destro. Si ricorre a questi stessi mezzi per raggiungere
l'estati (tamburo, chitarra) quando si fa dello sciamanismo per fini di caccia
o per conoscere quali sacrifici siano graditi agli dèi.
Presso gli
sciamanj ostiachi dell'Irtish la tecnica è sensibilmente diversa. Chiamato in
una casa, lo sciamano procede a dei suffumigi e dedica una stoffa a Sanke,
l'Essere celeste supremo (il senso originario di sanke è «luminoso, lucente, luce»; cfr. Karjalainen). Dopo aver
digiunato tutto il giorno, la sera fa un bagno, mangia due o tre funghi e si
addormenta. Si sveglia bruscamente qualche ora dopo e, tremando per tutto il
corpo, comunica ciò che gli spiriti gli hanno rivelato per mezzo del loro
«messaggero»: lo spirito a cui bisogna sacrificare, colui che ha
pregiudicato il successo della caccia, ecc. Dopo di che lo sciamano ricade in
un sonno profondo: il mattino seguente si procede ai sacrifici richiesti. Una usanza
analoga la si è incontrata presso i Zingala (Ostiachi): si offrono dei
sacrifici a Sanke, lo sciamano mangia tre funghi speciali e cade in trance. Le donne-sciamano usano mezzi
analoghi: grazie ad una intossicazione provocata da funghi esse entrano in
estasi, fanno visita a Sanke e quindi rivelano, in canzoni, ciò che esse hanno
appreso dallo stesso Essere Supremo.
L'estasi per
intossicazione da funghi è nota in tutta la Siberia. In altre regioni della
terra essa trova riscontro nell'estasi provocata dai narcotici o dal tabacco, e
sul problema delle vacanze mistiche dei tossici avremo da tornare. Rileviamo
intanto alcune anomalie nel rito ora descritto: si offre una stoffa all'Essere
Supremo, ma ci si mette in rapporto con degli Spiriti ed è ad essi che vengono
offerti dei sacrifici; l'estasi propriamente sciamanica è ottenuta per
intossicazione di funghi, mezzo al quale anche le donne ricorrono per entrare
in trance analoghe, però con la
differenza che esse si rivolgono direttamente al dio celeste Sanke.
Incongruenze del genere tradiscono un certo ibridismo nell'ideologia che fa da
substrato alle tecniche di queste estasi. Come l'ha già notato Karjalainen,
questo tipo di sciamanismo ugro sembra essere abbastanza recente e importato da
altre aree.
Presso gli
Ostiachi Vasiugani la tecnica sciamanica è assai più complessa. Se l'anima del
malato è stata rapita da un morto, lo sciamano manda uno dei suoi spiriti
ausiliari a cercarla. Questi assume le sembianze di un trapassato, discende
agli Inferni e, una volta incontrato il rapitore, fa uscire improvvisamente dal
suo petto un altro spirito avente la forma di un orso. Il morto s'impaurisce e
lascia sfuggire l'anima del malato dalla sua gola o dal suo pugno. Lo spirito
ausiliario l'afferra e la porta al suo padrone, sulla terra. Durante tutto ciò
lo sciamano suona la chitarra e racconta le avventure del suo messaggero. Se
l'anima del malato è stata rapita da uno spirito malvagio, è lo stesso sciamano
che deve compiere il viaggio di liberazione, e l'impresa è assai più difficile
(Karjalainen).
Sempre presso i
Vasiugani, lo sciamanismo lo si pratica anche nel modo seguente: lo sciamano si
siede nell'angolo più oscuro dell'abitazione e comincia a suonare la chitarra.
Nella sinistra stringe una specie di cucchiaio, di cui del resto egli si serve
anche per scopi di divinazione. Poi invoca i suoi spiriti ausiliari, che sono
sette. Egli dispone d'un messaggero potente, la «Donna-severa-col-bastone»,
che invia in volo a convocare i suoi coadiutori. L'uno dopo l'altro costoro si
presentano, e lo sciamano si mette a raccontare i loro viaggi sotto forma di
canti. «Dalle regioni celesti di May-junk-kàn, mi si concedano le fanciulline
di May-junk-kàn; sento il loro arrivo dalle sei regioni della Terra, sento come
la Bestia-pelosa-della-GranTerra (= l'Orso) viene dalla prima regione
sotterranea e raggiunge l'acqua della seconda regione» (a questo punto si
mette ad agitare il cucchiaio). Allo stesso modo descrive l'arrivo degli
spiriti della seconda regione sotterranea, della terza, e cosi di seguito fino
alla sesta, e ciascun nuovo arrivo è annunciato col cucchiaio. Poi si
presentano gli spiriti delle diverse regioni celesti. Sono evocati, uno per
uno, da tutte le direzioni: «Dalla regione celeste delle Renne-Samoiede, dalla
regione celeste dei Popoli del Nord, dalla città dei principi degli spiriti dei
Samoiedi con le loro spose, ecc. ecc.». Segue un dialogo tra tutti questi
spiriti, che parlano per bocca dello sciamano. e lo sciamano. Quest'operazione
si protrae per tutta una serata.
La seconda sera
ha luogo il viaggio estatico dello sciamano, nel quale egli è accompagnato dai
suoi spiriti coadiutori. I presenti vengono ampiamente informati circa le peripezie
di questa difficile e pericolosa spedizione, che rassomiglia in tutto e per
tutto al viaggio che lo sciamano intraprende per condurre in cielo l'anima del
cavallo sacrificato (Karjalainen). Non si tratta di «possessione»
dello sciamano da parte dei suoi spiriti ausiliari; come lo nota Karjalainen
questi si limitano a sussurrare direttive all'orecchio dello sciamano, proprio
come gli «uccelli» che inspirano i bardi epici. «Il soffio degli spiriti entra
nel mago» - dicono gli Ostiachi del settentrione; il loro soffio «tocca» lo
sciamano - affermano i Voguli.
Presso gli Ugri,
l'estasi sciamanica ci si presenta meno come una trance che non come uno «stato d'ispirazione»; lo sciamano vede e
ode gli spiriti; egli è «fuori di sé» perché sta viaggiando in estasi in
lontane regioni, ma non è incosciente. È un visionario e un inspirato.
L'esperienza fondamentale è, comunque, una esperienza estatica e qui, come in
molte altre regioni, il mezzo principale usato per realizzarla è la musica
magico-religiosa. L'intossicazione a mezzo di funghi speciali propizia
anch'essa un contatto con gli spiriti, benché in forma passiva e brutale. Ma
noi abbiamo già rilevato che questa tecnica sciamanica sembra essere tardiva e
importata. L'intossicazione produce in modo meccanico e sovvertitore 1'«estasi»,
1'«uscita
da se stessi»: essa cerca di realizzare un modello di esperienza
preesistente che però aveva avuto punti di riferimento diversi.
Presso gli
Ostiachi dello Jenissei la guarigione richiede due viaggi estatici: il primo ha
essenzialmente il carattere di una rapida ricognizione - solo nel secondo, che
sbocca in una trance, lo sciamano si
addentra nell'aldilà. Come al solito, la seduta comincia con l'invocazione
degli spiriti che vengono rinchiusi l'uno dopo l'altro nel tamburo. Lo sciamano
canta e danza e. una volta che gli spiriti son giunti comincia a far dei salti:
il che sta a significare che egli ha lasciato la terra e sta innalzandosi verso
le nuvole. Ad un dato momento egli grida: «Mi trovo molto in alto, vedo lo
Jenissei ad una distanza di cento verste!». Cammin facendo egli incontra
altri spiriti e racconta ai presenti tutto ciò che vede. Poi, rivolgendosi allo
spirito ausiliario che lo trasporta attraverso l'atmosfera, esclama: «O mia
piccola mosca, pòrtami piti alto ancora, perché voglio veder più lontano!».
Poco dopo lo sciamano, con gli spiriti al suo seguito, ritorna nella yurta.
Probabilmente non ha trovato l'anima del malato o l'ha vista assai lontano,
nella regione dei morti. Per raggiungerla, lo sciamano ricomincia a danzare
fino a che la trance ne segua; sempre
portato dagli spiriti abbandona il corpo e penetra nell'aldilà, donde torna
portando finalmente seco l'anima del malato.
Per quel che
concerne lo sciamanismo lappone, ci limiteremo ad un accenno, perché esso è
scomparso fin dal XVIII secolo e perché le influenze della mitologia scandinava
e del cristianesimo visibili nelle tradizioni religiose lapponi ci imporrebbero
un esame di esso nel quadro della storia delle religioni d'Europa. Secondo gli
autori del XVIIsecolo, le cui informazioni sono convalidate dal folklore, gli
sciamani della Lapponia, come quelli di molte altre popolazioni artiche,
facevano le loro sedute completamente nudi e cadevano in vere trance catalettiche durante le quali si
riteneva che la loro anima scendesse agli Inferni per accompagnare i trapassati
o cercare le anime dei malati. Questa discesa nel Paese delle Ombre cominciava
con un viaggio estatico verso un Monte, come tra gli Altaici: il Monte, come si
sa, simboleggia l'Asse cosmico e si trova quindi nel «Centro del Mondo».
I maghi lapponi d'oggi ricordano ancora i miracoli dei loro antenati, che
potevano volare per l'aria ecc. La seduta comprendeva dei canti e delle
invocazioni agli spiriti; il tamburo - che, come abbiamo già notato, qui recava
dei disegni del tutto simili a quelli dei tamburi altaici - aveva una parte
importante nella produzione della trance.
Si è cercato di spiegare la seidhr
scandinava come una derivazione dello sciamanismo lappone.
Lo sciamanismo
ungherese aveva sollevato l'interesse dello psicanalista ed etnologo Géza
Roheim che, due anni prima di morire, pubblicò il suo Hungarian Shamanism; lo stesso problema è anche affrontato nella
sua opera postuma, Hungarian and Vogul
Mytbology, Roheim considera evidente l'origine asiatica dello sciamanismo
magiaro, «Piuttosto stranamente, se ne trovano i paralleli più convincenti presso i Samoiedi, i Mongoloidi
(Buriati), le tribù turche orientali ed i Lapponi, e non presso gli Ugri
(Voguli e Ostiachi), cugini germani dei Magiari». Da buono
psicanalista, Ròheim non poteva resistere alla tentazione di spiegare il volo e
l'ascensione sciamanica in maniera freudiana: «... un sogno di volo
è un sogno d'erezione, (e cioè), in questi sogni il corpo rappresenta il pene.
La nostra conclusione ipotetica sarebbe che il sogno del volo è l'elemento
centrale dello sciamanismo (sottolineatura di Roheim). Roheim sostiene che «non
v'è alcuna prova diretta che il téltos
(cioè, lo sciamano ungherese) cada in trances.
Questa affermazione è direttamente contraddetta da Dioszegi, che dimostra a
qual punto il téltos ungherese
differisce dalle figure apparentemente simili che troviamo nei paesi vicini
all'Ungheria, vale a dire dal solomonar
romeno, dal planetnik polacco e dal garabancias dei Serbi e dei Croati. Solo
il taltas fa l'esperienza d'una sotta
di «malattia sciamanica», di: un «lungo sonno» (cioè, d'una morte rituale) o
dello «smembramento iniziatico»; solo il téltos
subisce un'iniziazione, possiede un costume particolare ed un tamburo, ed entra
in estasi. Dato che tutti questi elementi si ritrovano anche presso i popoli
turchi, ugro-finni e siberiani, l'Autore conclude che lo sciamanismo
rappresenta un elemento magico-religioso che appartiene alla cultura originaria
dei Magiari. Gli Ungheresi hanno recato seco lo sciamanismo quando vennero
dall'Asia nel territorio che attualmente occupano. In uno studio sull'estasi
dello sciamano ungherese, Balazs insiste sull'esperienza del «calore magico».
Ma, come avremo occasione di vedere, la religione degli antichi Germani
comprendeva abbastanza elementi da considerarsi come «sciamanici» perché vi sia
bisogno di pensare, a tale riguardo, ad influenze della magia lappone.
Sedute presso gli
Ostiachi, gli Yuraki e i Samoiedi
Nei canti
rituali degli sciamani ostiachi e samoiedi yuraki registrati da Tretjakov
durante sedute terapeutiche, ci si sofferma lungamente a descrivere il viaggio
estatico intrapreso per il bene del paziente. Ma questi canti, in una certa
misura, si sono resi già autonomi, si sono dissociati dalla cura propriamente detta:
lo sciamano glorifica le avventure da lui vissute nelle più alte regioni dei
cieli e nell'aldilà, e si ha l'impressione che; la ricerca dell'anima del
malato - motivo originario di tale viaggio estatico - passi in secondo ordine
se non è stata perfino dimenticata. Infatti l'argomento del canto riguarda
soprattutto le proprie esperienze estatiche e non è difficile riconoscere nelle
gesta raccontate la riproduzione di uno schema stereotipo, e cioè del viaggio
iniziatico dello sciamano agli Inferni e della sua ascensione in Cielo.
Cosi, lo
sciamano racconta come egli s'innalza verso il Cielo con l'aiuto di una corda
scesa appositamente per lui e come egli metta in scompiglio le stelle che
ostacolano il suo cammino. In cielo lo sciamano passeggia in barca, poi scende
in terra seguendo una corrente, con una velocità tale che il vento gli passa
attraverso il corpo. Aiutato da demoni alati egli penetra sotto la superficie
della terra. Vi fa cosi freddo che egli chiede un mantello allo spirito delle
tenebre, Ama, o allo spirito di sua madre - e a questo punto della narrazione
qualcuno dei presenti gli getta un mantello sulle spalle. Infine lo sciamano
risale sulla terra, si mette a parlare con ciascuno dei presenti del suo futuro
annunciando anche al malato che il demone che aveva causato il suo male è stato
allontanato.
Si vede che qui
non si tratta più di un'estasi sciamanica che implichi l'ascesa e la discesa
concreta, bensì di un racconto ricco di reminiscenze mitologiche, il quale ha
per punto di partenza un'esperienza che precede sensibilmente la fase della
cura. Gli sciamani ostiachi tazowsky e yuraki parlano del loro volo
meraviglioso attraverso rose e fiori; essi si portano cosi lontano nel Cielo da
poter vedere la tundra ad una distanza di sette verste: lontano, scorgono il
luogo ove, un tempo, i loro maestri si erano fabbricati i loro tamburi (infatti
scorgono il «Centro del Mondo»). Infine arrivano in Cielo e, dopo diverse
avventure, penetrano in una capanna di ferro dove si addormentano circondati da
nuvole purpuree. Per discendere in terra, utilizzano un fiume. E il canto
finisce con un inno di adorazione a tutte le divinità, a partire dal Dio del
Cielo (Mikhailowski).
Non di rado il
viaggio estatico si realizza in una visione: lo sciamano vede i suoi spiriti
ausiliari che, in forma di renna, penetrano in altri mondi e canta le loro
avventure. Presso gli sciamani samoiedi gli spiriti ausiliari assolvono una
funzione più «religiosa» che non fra le altre popolazioni siberiane. Prima di
intraprendere una 'guarigione, 10 sciamano si mette in contatto coi suoi
spiriti per informarsi circa la causa della malattia: se essa è stata mandata
da Num, il Dio supremo, lo sciamano si rifiuta di curarla. E allora sono i suoi
spiriti che salgono in Cielo per intercedere presso Num. Ciò non vuol dire che
tutti gli sciamani samoiedi siano «buoni»; benché qui non esista
l'opposizione fra sciamani «bianchi» e sciamani «neri», pure si sa che diversi
sciamani praticano anche la magia nera e possono fare del male (Mikhailowski).
Le descrizioni
delle sedute samoiede di cui disponiamo lasciano l'impressione che n viaggio
estatico sia soltanto «cantato» e, per il resto, compiuto dagli spiriti ausiliari
in nome dello sciamano. Talvolta il dialogo con gli spiriti basta a che lo
sciamano venga a conoscere la «volontà degli dèi». Lo testimonia la
seduta cui Castrén ebbe ad assistere e che egli ha descritto come segue: i
presenti si raggruppano intorno allo sciamano, avendo cura di lasciar libero
l'ingresso che questi guarda fissamente. Nella sinistra tiene un bastone con
segni e figurine misteriose ad una delle estremità. Nella destra tiene due
freccie, con la punta rivolta in alto e con un campanaccio assicurato alla
punta di ciascuna. La seduta ha inizio con un canto intonato dal solo sciamano
che si accompagna con le freccie dalle campanelle battute ritmicamente col
bastone. È l'evocazione degli spiriti. Non appena questi giungono lo sciamano
si alza e si mette a ballare, con movimenti difficili quanto ingegnosi, non
cessando però di cantare e di battere col bastone. Cantando, riproduce il
dialogo avuto con gli spiriti e l'intensità del canto segue l'interesse
drammatico del colloquio. Quando il canto giunge al parossismo, i presenti
cominciano a far coro. Dopo aver ottenuto dagli spiriti la risposta a tutte le
domande, lo sciamano si arresta e comunica a tutti la volontà degli dèi.
Naturalmente, vi
sono grandi sciamani che intraprendono, in trance,
il viaggio estatico di ricerca dell'anima del malato: come nel caso dello
sciamano samoiedo yurak o ganjkka osservato da Lehtisalo. Ma a parte questi
maestri si trova una quantità non indifferente di «visionari»
che ricevono in sogno le istruzioni degli dèi e degli spiriti o che ricorrono
all'intossicazione per mezzo di funghi per conoscere, ad esempio, le modalità
di una guarigione. In ogni caso si ha l'impressione netta che qui le vere trance sciamaniche sono piuttosto rare e
che nella maggior parte delle sedute si tratta solo di un viaggio estatico
intrapreso dagli spiriti o del racconto favoloso di avventure di cui è già noto
il prototipo mitologico.
Gli sciamani
samoiedi praticano anche la divinazione a mezzo di un bastone recante certi
segni, che si lancia in aria: si legge l'avvenire in base alla posizione che ha
il bastone una volta ricaduto per terra. Essi fanno altresì mostra di prodezze
specificamente sciamaniche: si fanno legare, poi invocano gli spiriti (le cui
voci animalesche si fanno presto udire nella yurta) e alla fine della seduta
vengono trovati slegati. Oppure si tagliuzzano il corpo con dei coltelli, si
danno colpi violenti alla testa e così via (Mikhailowski). Fra gli sciamani di
altre genti siberiane e anche di popolazioni non asiatiche s'incontrano di
continuo fenomeni del genere che, in un certo modo, partecipano del fachirismo.
Ma tutto ciò nello sciamano non è mero esibizionismo o ricerca di prestigio. I
«miracoli» hanno una affinità organica con la seduta sciamanica: si tratta
infatti di realizzare uno «stato secondo» definito dall'abolizione della
condizione profana. Lo sciamano autentica la sua esperienza coi «miracoli» che
essa rende possibili.
Lo sciamanismo fra gli
Yakuti e i Dolgani
Presso gli
Yakuti e i Dolgani la seduta sciamanica ha, in genere, quattro fasi: 1)
evocazione degli spiriti ausiliari; 2) scoperta della causa del male,
consistente quasi sempre in uno spirito malvagio che ha rubato l'anima del
malato o si è introdotto nel suo corpo; 3) espulsione dello spirito malvagio
mediante minaccie, rumori, ecc. - e infine: 4) ascesa dello sciamano in Cielo.
«Il problema più difficile è quello di scoprire le cause della malattia, di
conoscere lo spirito che tormenta il paziente e di individuarne l'origine, il
luogo gerarchico, la potenza. Perciò, la cerimonia si divide sempre in due
parti: anzitutto si chiamano dal cielo gli spiriti protettori, si invoca il
loro aiuto per conoscere le cause della disgrazia; poi si passa a lottare
contro lo spirito nemico o contro l'fior. Come finale obbligato, il viaggio in
Cielo.
La lotta contro
gli spiriti malvagi è pericolosa e alla fine lo sciamano è spossato. «Siamo
tutti destinati a cadere sotto il potere degli spiriti - diceva lo sciamano
Tiìspiìt a Sieroszewski - gli spiriti ci detestano perché difendiamo gli
uomini». Infatti lo sciamano per estrarre gli spiriti cattivi dal malato è
costretto a incorporarseli: egli si dibatte e soffre, facendo ciò, più dello
stesso paziente (Harva).
Ecco la classica
descrizione, data da Sieroszewski, di una seduta presso gli Yakuti. Essa ha
luogo di sera, nella yurta, e i vicini sono invitati a parteciparvi. «Talvolta
il capo di casa confeziona due nodi scorsoi con solide corregge: lo sciamano se
li infila alle spalle e le altre persone ne tengono i capi per trattenerlo nel
caso che gli spiriti tentassero di rapirlo». Questa usanza la si trova presso
diverse popolazioni siberiane ed artiche, anche se con significati distinti;
talvolta si lega lo sciamano affinché non se ne voli; presso i Samoiedi e gli
Eschimesi lo sciamano si lascia legare per mostrare invece i suoi poteri
magici, inquantoché durante la seduta, «con l'aiuto degli spiriti»,
finisce sempre con lo sciogliersi.
Lo sciamano
guarda fisso il fuoco del camino: sbadiglia, ha dei singulti spasmodici, è
scosso ad intervalli da tremiti nervosi. Riveste il costume e si mette a
fumare. Batte pian piano il tamburo. Poco dopo, il viso gli si sbianca, la
testa gli ricade sul petto, gli occhi restano semichiusi. Allora in mezzo alla
yurta viene distesa una pelle di giumenta bianca. Lo sciamano beve dell'acqua
fresca e fa delle genuflessioni nella direzione dei quattro punti cardinali
sputando I'acqua a destra e a sinistra. Nella yurta regna il silenzio. L'aiutante
dello sciamano getta qualche crine di cavallo nel fuoco, che poi copre
interamente con la cenere. L'oscurità allora è completa. Lo sciamano si siede
sulla pelle di giumenta e sogna, rivolto verso Sud. Tutti trattengono il
respiro.
«D'un tratto risuona,
non si sa bene da dove, un grido acuto, penetrante, come uno stridore di
acciaio; poi, silenzio. Di nuovo, un grido: ora dall'alto, ora dal basso, ora
dinanzi allo sciamano ed ora dietro di lui si odono rumori misteriosi: come
sbadigli nervosi paurosi, come singulti isterici; si crederebbe di udire il
grido lamentoso del vannello mescolato al gracchiare di un falco interrotto dal
sibilo della serpe: è lo sciamano a emettere tutti questi suoni, variando
l'intonazione della voce».
D'un tratto egli
si arresta; il silenzio regna di nuovo, a parte un debole ronzio, come di
zanzara. Lo sciamano comincia a battere il tamburo. Mormora un canto. Il canto
e il suono del tamburo s'intensificano, in crescendo. Presto lo sciamano
muggisce. «Si ode un gracidare di aquile cui si mescolano i lamenti dei
vannelli, le grida acute delle beccaccie e il ritornello dei cuculi».
La musica giunge al parossismo, poi s'interrompe bruscamente per non lasciar
più udire che il ronzio di zanzare. Il succedersi delle grida di uccelli, con
intervalli di silenzio, dura per un certo tempo. Infine lo sciamano muta il
ritmo del tamburo ed intona un inno:
Il toro possente della terra, il cavallo della steppa,
Il toro possente ha muggìto!
Il cavallo della steppa ha nitrito!
Sono al disopra di voi tutti, io sono uomo! Sono
l'uomo dotato di tutto!
Sono l'uomo crealo dal Signore dell'Infinito!
Giungi dunque. o cavallo della steppa, e ragguaglia!
Lèvati dunque, toro mirabile dell'Universo, e rispondi! O Possente Signore,
ordinate! ...
O Signora, Madre mia, mostrami i miei errori e le vie
che Ho seguito! Volami innanzi, seguendo una via larga; Preparami il cammino!
O Spiriti del Sole che dimorate nel Mezzogiorno sulle
nove colline boscose, o Madri di Luce, voi che conoscete la gelosia, vi
imploro: che le vostre tre ombre restino in alto, molto, molto, in alto!
E tu, ad Occidente, sulla tua montagna, o Signore mio
Avo dalla forza formidabile, dal collo possente, su con me! ...
La musica
ricomincia e raggiunge di nuovo il parossismo.
Dopo di che lo
sciamano invoca l'aiuto dell'amagat e
dei suoi spiriti familiari. Il loro consenso non è immediato; lo sciamano li
supplica, essi tergiversano. Ma talvolta essi arrivano in modo COSI brusco e
violento che lo sciamano vien gettato a terra. Allora i presenti producono un
rumor di ferraglia su di lui mormorando: «Il solido ferro tintinna - turbinano
le nuvole capricciose, copiosi nembi si son levati!». Dopo che l'amagat è giunto, lo sciamano si mette a
saltare e a fare gesti rapidi e violenti. Si mette nel mezzo della yurta, il
fuoco viene riacceso ed egli comincia daccapo a suonare il tamburo e a ballare.
Si lancia in aria talvolta fino ad un'altezza di quattro piedi. Si tratta evidentemente
di un'ascensione estatica al Cielo. Gli sciamani eschimesi Habakuk cercano
anch'essi di raggiungere il cielo facendo salti rituali in aria. Presso l Menri
di Kelantan i medicine-men fanno dei
salti in aria cantando e lanciando uno specchio o una collana verso Karei, il
dio supremo. Grida in delirio. «Poi, di nuovo, una pausa: allora, con voce
grave e bassa, intona un inno solenne». Segue una danza leggera durante
la quale egli o canta in tono ironico, o scaglia delle maledizioni: a seconda
degli esseri di cui egli imita la voce. Infine si avvicina al malato e ingiunge
alla causa della malattia di ritirarsi: (oppure porta via il male, lo porta in
mezzo alla stanza e senza cessare di imprecare lo scaccia, lo sputa dalla
bocca, lo manda via a pedate e a schiaffi».
È allora che ha
inizio il viaggio estatico dello sciamano, il quale deve condurre in cielo
l'anima della bestia sacrificata. Fuori della yurta vengon piantati tre alberi
dai rami tagliati; quello di mezzo è un albero di betulla e alla sua estremità
vien fissato un alcione morto. Ad Oriente della betulla vien confitto un palo
con un cranio di cavallo in cima. I tre alberi sono fra loro congiunti da una
corda di crine di cavallo. Fra gli alberi e la yurta si mette una piccola
tavola e su di essa si posa una brocca contenente dell'acquavite. Lo sciamano
si mette a fare dei movimenti che dovrebbero imitare il volo di un uccello. A
poco a poco sale in cielo. Il cammino ha nove stazioni e in ognuna di esse lo
sciamano fa delle offerte allo spirito locale. Una volta di ritorno dal suo
viaggio estatico lo sciamano chiede di essere «purificato» col fuoco (carboni
ardenti) in una data parte del corpo (piede, coscia, ecc.). Donner afferma che
anche i Samoiedi purificano i loro sciamani con dei carboni ardenti al termine
della seduta. Probabilmente vien purificata la parte del corpo nella quale sono
stati «assorbiti» gli spiriti malvagi che tormentavano il malato; ma allora
quale è la ragione della purificazione dello sciamano al suo ritorno dal
viaggio celeste? Non si tratterebbe piuttosto dell'antico rito sciamanico di
"giuocare col fuoco"?
Beninteso, la
seduta sciamanica yakuta presenta parecchie varianti. Ecco come descrive il
viaggio celeste Sieroszewski: «Allora si allineano con cura dei piccoli abeti
scelti in precedenza ai quali si attaccano ghirlande di crini di cavallo bianco
(gli sciamani non ne impiegano altri); poi si piantano tre pali, allineati con
ordine, recanti in cima raffigurazioni d'uccelli: sul primo si trova l'oksokju a due teste; sul secondo, il grana nur (kugos), oppure un corvo; sul terzo un cuculo (kogo). All'ultimo palo si attacca la bestia offerta in sacrificio.
Una corda fissata in alto rappresenta la via verso il cielo «per la quale
voleranno via gli uccelli e che seguirà la bestia» (Sieroszewski).
Ad ogni stazione
(oloh) lo sciamano si siede e si
riposa; quando si alza daccapo, è segno che riprende il viaggio. Egli
rappresenta cotesto viaggio con movimenti di danza e con gesti che imitano il
volo dell'uccello. «La danza raffigura sempre un viaggio nell'atmosfera in
compagnia di spiriti; quando si conduce la bestia espiatoria, bisogna di nuovo
danzare. Secondo la leggenda, una volta esistevano sciamani che volavano davvero
verso il cielo: i presenti vedevano un animale navigare fra le nubi, seguito
dal tamburo sciamanico, e lo stesso sciamano, vestito tutto di ferro, chiudeva
il corteo».
«Il tamburo è il nostro cavallo - dicono gli sciamani» (Sieroszewski).
La pelle, le
corna e gli zoccoli della bestia sacrificata vengono esposti su di un albero
disseccato. Sieroszewski ha trovato assai spesso le vestigia di tali sacrifici
in luoghi desertici. Li vicino, talora sull'albero stesso, «capita di scoprire
un kociai, lunga freccia di legno
piantata nel tronco disseccato. Essa ha la stessa parte della corda con i
ciuffi di capelli della cerimonia precedente. Indica la parte del cielo in cui
si deve recare la vittima». Sempre secondo lo stesso autore, lo sciamano
strappava con la sua stessa mano il cuore dal corpo della bestia sacrificata e
l'alzava verso il cielo. Poi s'impiastricciava di sangue il viso e il costume,
facendo lo stesso con l'imagine del suo amagat
e con le figurine di legno degli spiriti (in questo caso si tratta di un
sacrificio assai ibrido: offerta simbolica del cuore all'Essere celeste e
libazione del sangue in onore delle potenze «infere», sjaadai ecc.; si ritrova lo stesso rituale crudele fra gli sciamani
Araucani).
Altrove vengono
piantati nove alberi e vicino ad essi si fissa un palo che ha alla sua
estremità un uccello. Gli alberi e il palo sono collegati da una corda disposta
in senso ascendente: segno dell'ascensione in Cielo (Harva). Anche presso i
Dolgani troviamo i nove alberi, con un uccello di legno in cima a ciascuno e
con lo stesso significato: il cammino verso il Cielo dello sciamano e
dell'anima della bestia sacrificata. Di fatto, anche tra i Dolgani gli sciamani
scalano i nove cieli quando intraprendono una cura; a quanto riferiscono,
davanti ad ogni cielo nuovo si trovano degli spiriti guardiani la cui funzione
è di sorvegliare il viaggio degli sciamani e, in pari tempo, di impedire ogni
scalata da parte degli spiriti malvagi.
In una seduta
sciamanica del genere, lunga e movimentata, un solo punto resta oscuro: se
l'anima del malato è stata rapita dagli spiriti malvagi, perché è
indispensabile che lo sciamano yakuta faccia un viaggio in cielo? Wasiljev ha
proposto la seguente spiegazione: lo sciamano conduce in cielo l'anima del
malato per purificarla dalla contaminazione provocata dagli spiriti malvagi. Da
parte sua, Trotchshanskij ha affermato che fra gli sciamani di sua conoscenza
non ve ne è nessuno che intraprenda un viaggio agli Inferni; quando curano,
essi tutti usano la sola ascensione in Cielo (Harva). Ciò ci dice sia della
varietà delle tecniche sciamaniche che della precarietà delle nostre
informazioni: è assai probabile che le discese agli Inferni, più pericolose e
più segrete, siano state meno accessibili agli osservatori europei. Ma non v'è
dubbio che i viaggi agli Inferni siano parimenti noti agli sciamani yakuti, se
non altro ad alcuni di essi. Infatti il loro costume reca, tra l'altro, un
simbolo del «Buco della Terra», chiamato proprio «Buco degli
Spiriti» (abasy-oibono), apertura attraverso la quale gli sciamani possono
raggiungere le regioni infere. Inoltre lo sciamano yakuta nei suoi viaggi
estatici è accompagnato da un uccello acquatico (gabbiano, colombo) che
simboleggia l'immersione nel mare, cioè una discesa agli Inferni (Harva).
Infine, il lessico tecnico degli sciamani yakuti usa due termini diversi per
designare le direzioni possibili del viaggio mistico: allara kyrar (verso gli «spiriti d'in basso») e usa kyrar (verso gli «spiriti
d'in alto»). Del resto Wasiljev aveva anche notato che fra gli Yakuti e i
Dolgani lo sciamano in cerca dell'anima del malato rubata dai demoni si
comporta come se si tuffasse, e i Tungusi, i Ciukci e i Lapponi parlano della trance sciamanica come di una
«immersione» (Harva). Ritroveremo lo stesso comportamento e la stessa tecnica
estatica fra gli sciamani eschimesi, dato che un gran numero di popolazioni,
specie quelle marittime, situano l'aldilà nelle profondità del mare (Però, come
si vedrà in seguito, mai esclusivamente: certi «eletti» e certi «privilegiati»
salgono in Cielo dopo la loro morte.).
Per comprendere
la necessità del viaggio celeste degli sciamani yakuti quando curano, bisogna
tener conto di due cose: da un lato, lo stato complesso e perfino confuso delle
loro concezioni religiose e mitologiche; dall'altro, il prestigio delle
ascensioni celesti in tutta la Siberia e l'Asia centrale. Come si è visto,
questo prestigio spiega perché lo sciamano altaico finisce col prendere in
prestito alcuni elementi caratteristici della tecnica ascensionale anche quando
si tratta di una discesa estatica agli Inferni (fatta sempre per sottrarre
l'anima del malato al potere di Erlik Khan).
Per quel che
riguarda gli Yakuti, ci si potrebbe dunque imaginare il tutto pressappoco nel modo
seguente: per il fatto che si sacrificavano animali agli Esseri celesti e che,
mediante simboli sensibili (freccie, uccelli di legno, corda attaccata in
alto), si indicava la direzione che avrebbe presa l'anima della vittima, si è
finito con l'utilizzare lo sciamano come guida per questa stessa anima nel suo
viaggio celeste; e poiché egli accompagnava l'anima della bestia sacrificata in
occasione di una cura, si è potuto credere che questa ascensione avesse per
oggetto principale la «purificazione» dell'anima dell'ammalato. In ogni caso il
rituale sciamanico di cura nella sua forma attuale è ibrido; ci si accorge che
si è formato sotto l'influenza di due tecniche distinte: 1) la ricerca
dell'anima smarrita dall'ammalato o l'espulsione dei cattivi spiriti e 2)
l'ascensione in cielo.
Però bisogna
anche tener conto di un altro fatto: a parte rari casi di «specializzazione
infernale» (discese esclusivamente agli Inferni), gli sciamani siberiani sono
capaci sia di ascensioni celesti che di discese nelle regioni infere. Abbiamo
visto che questa doppia tecnica, in un certo modo, ha relazioni con la loro
stessa iniziazione: infatti i sogni iniziatici dei futuri sciamani comprendono
ad un tempo discese (= sofferenze e morti rituali) e ascensioni (= resurrezione).
In questo contesto si concepisce facilmente la necessità in cui si trova lo
sciamano yakuta, di ristabilire il proprio equilibrio spirituale ripetendo
l'ascesa celeste dopo aver lottato contro gli spiriti malvagi o esser disceso
agli Inferni per recuperare l'anima del malato.
Qui vale
sottolineare di nuovo che il prestigio e la potenza dello sciamano procedono
esclusivamente dalla sua capacità estatica. Egli ha preso il posto del
sacerdote nei sacrifici offerti all'Essere supremo, ma, proprio come nel caso
dello sciamano altaico, questa sostituzione ha dato luogo ad un cambiamento
della struttura stessa del rito: l'offerta si è trasformata in una psicoforia,
cioè in una cerimonia drammatizzata avente per base l'esperienza estatica. È
sempre grazie alle sue capacità mistiche malvagi impadronitisi dell'anima del
malato: egli non si limita che lo sciamano è in grado di scoprire e combattere
gli spiriti ad esorcizzarli, ma li attrae nel proprio corpo, li «possiede»,
li tormenta e infine li espelle: ciò, perché ne ha fatto sua la natura, vale a
dire perché è libero di lasciare il corpo, di spostarsi a considerevoli
distanze, di discendere agli Inferni, di salire in Cielo, ecc. Questa mobilità
e questa libertà «spirituali» che sono la sostanza delle esperienze estatiche
dello sciamano, lo rendono nel contempo vulnerabile, e molte volte, a forza di
lottare contro gli spiriti malvagi, egli finisce col subirne il potere, vale a
dire finisce con l'esserne davvero «posseduto»,
Sedute sciamaniche
presso i Tungusi e gli Orocci
Lo sciamanismo
occupa un posto considerevole nella vita religiosa dei Tungusi. Si ricorderà
che lo stesso termine «sciamano» (shaman), quale ne possa essere l'origine, è tunguso. Come
Shirokogorov l'ha mostrato, e come avremo occasione di constatarlo di nuovo noi
stessi, è probabilissimo che lo sciamanismo tunguso, almeno nella sua forma
attuale, sia stato fortemente influenzato da idee e tecniche sino-lamaiste. Che
nell'insieme dello sciamanismo centro asiatico e siberiano siano constatabili
influenze d'origine meridionale, l'abbiamo già detto. Vedremo a suo luogo come
ci si deve rappresentare l'espansione verso il Nord e il Nord-Est dell'Asia dei
complessi culturali meridionali. In ogni modo, lo sciamanismo tunguso presenta
oggidi una fisionomia complessa: vi si possono rintracciare tradizioni diverse
la cui coalescenza ha talvolta prodotto forme affatto ibride. Anche qui può
constatarsi una certa «decadenza» dello sciamanismo, decadenza attestata un po'
dappertutto nell'Asia settentrionale: soprattutto i Tungusi contrappongono il
coraggio e la forza degli «sciamani antichi» alla
pusillanimità degli sciamani attuali, che in certe regioni non osano più
intraprendere la pericolosa discesa agli Inferni.
Lo sciamano
tunguso è chiamato ad esercitare il suo potere in occasioni multiple;
indispensabile per la guarigione - sia che si tratti di cercare l'anima del
malato o di esorcizzare i demoni - egli è, peraltro, psicopompo; egli porta i
sacrifici al Cielo o agli Inferni e, in particolare, spetta a lui garantire
l'equilibrio spirituale dell'intera comunità. Se le malattie, la sfortuna o la
sterilità minacciano il clan, toccherà allo sciamano diagnosticarne la causa e
ristabilire la situazione. I Tungusi sono inclini ad accordare agli spiriti una
importanza assai maggiore di quel che non facciano i loro vicini: e non solo
agli spiriti del mondo infero, ma altresì agli spiriti di questo mondo, autori
virtuali di disordini d'ogni specie. È per questo che, a parte le occasioni
classiche delle sedute sciamaniche - malattia, morte, sacrificio agli dèi - gli
sciamani tungusi fanno sedute, specialmente «piccole sedute», per una quantità di
altre ragioni, però sempre che esse implichino la necessità di conoscere e di
dominare degli «spiriti».
Gli sciamani
prendono anche parte a un certo numero di sacrifici. Il sacrificio annuale che
si offre agli spiriti di uno sciamano costituisce poi un grande avvenimento
religioso per l'intera tribù (Shirokogorov). Naturalmente, gli sciamani sono
anche indispensabili nei riti di caccia e di pesca.
Le sedute che
comportano una discesa agli Inferni possono esser tenute per i seguenti motivi:
1) sacrifici da portare agli antenati e ai morti delle regioni infere; 2)
ricerca e restituzione dell'anima di un malato; 3) accompagnamento dei
trapassati che non vorrebbero abbandonare questo mondo e loro inserimento nel
paese delle ombre. Malgrado che occasioni non ne manchino, la cerimonia viene
organizzata assai di rado perché è considerata pericolosa: pochi sciamani osano
affrontarla. Il suo nome tecnico è orgiski,
letteralmente: «nella direzione dell'òrgi»
(regione infera, «occidentale»). Ci si decide ad intraprendere l'orgiski solo dopo una seduta preliminare
di «piccolo sciamanismo». Ad esempio, nella tribù si è avuta una serie di
disordini, di malattie o di sciagure; pregato di scoprirne la causa, lo
sciamano fa si che uno spirito s'incorpori in lui e viene a conoscere il motivo
per cui gli spiriti delle regioni infere o i morti e le anime degli antenati
stanno producendo tali squilibri e gli viene anche rivelato il sacrificio che
potrebbe placarli. Allora ci si decide a procedere al sacrificio richiesto e
alla discesa infernale dello sciamano.
Il giorno
precedente quello dell'orgiski si
riuniscono gli oggetti di cui lo sciamano farà uso nel suo viaggio estatico;
fra di essi figura una piccola zattera sulla quale lo sciamano attraverserà il
mare (il lago Baikal), una specie di lancia per spezzare le roccie, dei piccoli
oggetti rappresentanti due orsi e due cinghiali i quali sosterranno la nave ove
corresse pericolo di naufragare e che apriranno un sentiero attraverso la fitta
selva dell'aldilà, quattro pesciolini che nuoteranno davanti alla barca, un
«idolo» che raffigura lo spirito ausiliario dello sciamano, dal quale questi
sarà aiutato a portare il sacrificio, diversi strumenti di purificazione ecc.
La sera della seduta lo sciamano indossa il costume, suona il tamburo, canta ed
invoca il «Fuoco», la «Terra Madre», e gli «antenati»,
ai quali si offre il sacrificio. Dopo i suffumigi, lo sciamano getta in aria la
bacchetta del suo tamburo; se essa ricade all'inverso, è buon segno.
La seconda parte
della cerimonia ha per inizio il sacrificio dell'animale, che in genere è una
renna. Col suo sangue si impiastricciano gli oggetti esposti; la carne sarà
preparata in seguito per essere mangiata. S'introducono dei pali nella wigwan in modo che una loro estremità
esca dal buco per il fumo. Un lungo filo collega i pali agli oggetti che sono
stati esposti fuori, su di una piattaforma: è il «cammino» che dovranno seguire
gli spiriti. Ci si rende facilmente conto che qui si ha a che fare con una
contaminazione del motivo del viaggio sciamanico in Cielo, di cui daremo più
giu degli esempi: infatti i pali che escono dall'apertura per il fumo
simboleggiano, come si sa, l'axis mundi
lungo il quale vengono inoltrati sacrifici, fino al più alto cielo. Dopo di che
tutti si radunano nella wigwan. Lo
sciamano comincia a suonare il tamburo, a cantare e a ballare. Fa dei salti,
salti sempre più alti (Ancora un indizio della confusione con l'ascensione
celeste: i salti in aria significano il «volo magico"). I suoi assistenti,
insieme agli spettatori, riprendono in coro il ritornello del canto. Ad un
tratto lo sciamano si ferma, beve un bicchiere di vodka, fuma qualche pipa
piena, poi riprende la danza. A poco a poco egli si esalta finché cade al
suolo, disanimato, in estasi. Se non riprende conoscenza, lo si bagna di
sangue, tre volte. Quando è di nuovo in piedi, comincia a parlare con una voce
acuta, rispondendo in forma cantata alle domande che gli rivolgono due o tre
persone. Ora il corpo dello sciamano è abitato da uno spirito, ed è questo
spirito a rispondere per bocca sua. Quanto allo sciamano, egli ora si trova
negli inferi. Quando ne risale, tutti salutano con grida di gioia il suo
ritorno dal mondo dei morti.
Questa seconda
parte della cerimonia dura circa due ore.
Dopo una pausa
di altre due o tre ore, e cioè all'alba, si procede all'ultima fase, che non
differisce dalla precedente, durante la quale lo sciammo ringrazia gli spiriti
(Shirokogorov). Presso i Tungusi della Manciuria si può sacrificare senza
l'assistenza degli sciamani. Ma solo lo sciamano può discendere nelle regioni
infere e riportarne l'anima del malato. Anche questa cerimonia comprende tre
momenti. Quando in una seduta preliminare di «piccolo sciamanismo» si è
scoperto che l'anima del malato è davvero prigioniera negli Inferni, si fanno
sacrifici agli spiriti (séven) affinché
aiutino lo sciamano a discendere nelle regioni infere. Lo sciamano beve il
sangue e mangia la carne dell'animale sacrificato e, essendosi incorporato per
tal via un dato spirito, perviene all'estasi. Esaurita questa prima fase,
comincia la seconda, e cioè il viaggio mistico dello sciamano. Costui raggiunge
una montagna dal lato nord-ovest, e la discende verso l'altro mondo. Via via
che egli si avvicina agli Inferni, i pericoli si moltiplicano. Incontra degli
spiriti e altri sciamani, e si difende dalle loro freccie col suo tamburo. 10
sciamano descrive, cantando, tutte le peripezie del viaggio, per cui i presenti
possono seguire passo per passo le sue esperienze. Egli si cala per un'angusta
apertura e attraversa tre corsi d'acqua prima di incontrare gli spiriti degli
Inferni. Infine raggiunge H mondo delle tenebre, nel qual punto i presenti
provocano delle scintille mediante pietre focaie: sono «lampi» grazie ai
quali lo sciamano potrà riconoscere la via. Egli ritrova l'anima e dopo lotte o
negoziati prolungati con gli spiriti la riconduce sulla terra fra mille
difficoltà, restituendola al corpo del malato. L'ultima parte della cerimonia
ha luogo il giorno successivo o qualche giorno dopo, e il suo significato è un
ringraziamento agli spiriti dello sciamano (Shirokogorov).
Presso i
Tungusi-Renna manciuriani sussiste il ricordo di un tempo lontano nel quale si
«sciamanizzava verso la terra», ma ai nostri giorni nessuno
sciamano oserebbe più farlo. Presso i Tungusi nomadi di Mankova, la cerimonia è
diversa: di notte si sacrifica un becco nero, la cui carne non viene però
mangiata; nel punto in cui raggiunge le regioni infere lo sciamano cade a terra
e vi resta immobile per una mezz'ora, durante il qual tempo i presenti saltano
tre volte sul fuoco (ibid., p. 308). Anche fra i Manchi la cerimonia della
«discesa nel mondo dei morti» è abbastanza rara. Durante tutto il suo lungo
soggiorno fra tali genti Shirokogorov poté assistere solo a tre sedute. Lo
sciamano in esse invoca tutti gli spiriti - cinesi, manchi e tungusi -, spiega
loro il motivo della seduta (nel caso analizzato da Shirokogorov, la malattia
di un bambino di otto anni), e chiede il loro aiuto. Poi si mette a suonare il
tamburo e, una volta incorporato il suo spirito particolare, cade sul tappeto.
I suoi assistenti gli fanno delle domande e, in base alle risposte che
ottengono, capiscono che egli si trova già nelle regioni infere. Poiché lo
spirito che lo «possiede» è un lupo, lo sciamano si comporta di conseguenza. Il
suo linguaggio lo si intende con difficoltà. Comunque, si giunge a scoprire che
la causa della malattia non era imputabile all'anima di un morto, come s'era
pensato prima della seduta, ma ad un certo spirito che chiede, in cambio della
guarigione, che gli si faccia un piccolo tempio (m'ao) e che gli si offrano regolarmente sacrifici.
Una discesa
analoga nel «mondo dei morti» viene raccontata nel poema manchi
Nishan shaman che Shirokogorov considera come il solo documento scritto
esistente in fatto di sciamanismo manchi, Ecco la storia: Ai tempi della
dinastia Ming, un giovane, figlio di genitori facoltosi, va a caccia nelle montagne
e vi perisce in un incidente. Una donna-sciamano, Nishan, decide di ricondurre
nel nostro mondo la sua anima e discende nel «mondo dei morti».
Incontra numerosi spiriti, fra gli altri quello del suo marito defunto, e, dopo
diverse peripezie, riesce a tornare sulla terra con l'anima del giovane, che
risuscita. Il poema, noto a tutti gli sciamani manchi, fornisce purtroppo ben
pochi dettagli circa il lato rituale della seduta (Shirokogorov). Esso ha
finito col divenire un testo «letterario» che si distingue da poemi tartari
consimili per il fatto di esser stato fissato e diffuso in forma scritta già da
molto tempo. Esso ha tuttavia una importanza considerevole, perché ci mostra
fino a qual punto il tema «discesa di Orfeo» sia simile alle discese sciamaniche
agli Inferni.
Sempre per fini
di guarigione, si trovano viaggi estatici in senso inverso, cioè tali da
comportare un'ascesa celeste. In tal caso, lo sciamano piazza convenientemente
ventisette arboscelli (9 X 3) e una scala simbolica sulla quale avrà inizio la
sua ascensione, Fra gli oggetti rituali presenti figurano numerose statuette di
uccelli, le quali rimandano al ben noto simbolismo ascensionale. Il viaggio
celeste può esser però intrapreso per molte ragioni; la seduta descritta da
Shirokogorov aveva per oggetto la guarigione di un fanciullo. In essa, la prima
parte rassomiglia alla preparazione di una seduta di discesa alle regioni
inferiori. Per mezzo del «piccolo sciamanismo» si viene a conoscere il momento
preciso in cui il dayacian, al quale
si chiede la restituzione dell'anima del fanciullo malato, è disposto ad
accettare il sacrificio. L'animale - che in questo caso è un agnello - viene
ucciso ritualmente: gli si strappa il cuore e se ne raccoglie il sangue in vasi
speciali, avendo cura che nessuna goccia tocchi il suolo. Poi la pelle viene
esposta. La seconda parte della seduta è consacrata tutta alla realizzazione
dell'estasi. Lo sciamano canta, suona il tamburo, balla e fa salti in aria,
avvicinandosi di tempo in tempo al fanciullo malato. Poi passa il tamburo al
suo assistente, beve vodka, fuma e si mette di nuovo a ballare finché cade a
terra esausto. È segno che ha lasciato il corpo e che sta volando verso il
Cielo. Tutti gli fanno ressa intorno e, come nelle discese alle regioni infere,
il suo assistente produce delle scintille con una pietra focaia. Sedute del
genere possono aver luogo sia di giorno che di notte. Lo sciamano usa un
costume molto sommario e Shirokogorov ritiene che questo tipo di seduta
comportante l'ascesa al Cielo i Tungusi lo abbiano tratto in prestito dai
Buriati.
Il carattere
ibrido di siffatte sedute è evidente: benché il simbolismo celeste in essa sia
sufficientemente attestato dagli alberi, dalla scala e dalle figurine di
uccelli, pure il viaggio dello sciamano appare svolgersi nella direzione
opposta (le «tenebre» che debbono esser rischiarate dalle scintille). Del
resto, qui lo sciamano non porta l'animale sacrificato a Buga, l'Essere
supremo, bensì soltanto agli spiriti delle regioni superiori. Sedute di tal tipo
sono state osservate presso i Tungusi-Renna della Transbaikalia e della
Manciuria, ma sono ignote ai gruppi tungusi della Manciuria settentrionale; il
che potrebbe convalidare l'ipotesi di una influenza buriata.
Oltre a questi
due grandi tipi di sedute sciamaniche i Tungusi conoscono diverse altre forme
che non hanno relazioni precise col mondo d'in alto o con quello d'in basso, ma
che riguardano gli spiriti di questo stesso mondo. Qui lo scopo è dominare tali
spiriti, allontanare quelli malvagi, sacrificare a quelli che potrebbero
divenire ostili, e via dicendo. Naturalmente, numerose sedute sono motivate da
malattie, perché si suppone che certi spiriti le provochino. Per identificare
l'autore dei disturbi lo sciamano s'incorpora il suo spirito familiare e fa
finta di dormire (mediocre imitazione della trance
sciamanica), oppure si sforza di evocare e di incorporare lo spirito autore del
male nel corpo stesso del malato. Infatti la molteplicità delle anime (qui se
ne contano tre) e la loro instabilità rende talvolta difficile il compito dello
sciamano. Si tratta di identificare quale di queste anime abbia lasciato il
corpo e di cercarla: lo sciamano richiama l'anima usando o frasi convenute o
certi canti, e si sforza di farla rientrare nel corpo abbozzando dei movimenti
ritmici. Però talvolta accade che degli spiriti si siano installati nel malato;
allora lo sciamano li espelle con l'aiuto dei suoi spiriti familiari.
L'estasi ha una
parte notevole nello sciamanismo tunguso propriamente detto; la danza e il
canto sono i mezzi più usati per realizzarla. La fenomenologia delle sedute
tunguse ricorda in tutto quella delle sedute degli altri popoli siberiani: si
odono le voci degli spiriti; lo sciamano diviene molto «leggero»,
può far dei salti in aria vestito del costume che talvolta pesa fino a trenta
chili, e il paziente avverte appena il peso di lui quando gli cammina sopra il
che va spiegato col potere magico di levitazione e di «volo»; durante la trance egli sente un gran calore, per
cui può giuocare con brace e ferro arroventato; raggiunge una completa
insensibilità (ad esempio, si ferisce profondamente senza che scorra sangue), e
via dicendo. Tutto ciò, come si vedrà meglio in seguito, fa parte di un antico
retaggio magico che sopravvive ancora negli angoli più lontani del mondo e che
è dunque anteriore alle influenze meridionali che han tanto contribuito a
conferire allo sciamanismo tunguso il suo aspetto attuale. Pel momento, basterà
l'aver indicato brevemente le due tradizioni magiche individuabili nello
sciamanismo tunguso: il suo fondo, che si potrebbe chiamare «arcaico»,
e l'apporto meridionale sino-buddhista. La loro importanza ci si rivelerà
quando cercheremo di tracciare, nelle sue grandi linee, la storia dello
sciamanismo nell'Asia centrale e settentrionale.
Si incontra una
forma simile di sciamanismo presso le tribù degli Orocci e degli Udehe. Lopatin
fornisce una lunga descrizione della seduta terapeutica degli Orocci di Ulka
(sul fiume Tumnin). Lo sciamano comincia con una preghiera al suo spirito
custode, perché lui - lo sciamano - è debole, ma il suo spirito è onnipotente e
nulla può resistergli. Danza a nove riprese intorno al fuoco, poi intona un
canto indirizzato al suo spirito. «Tu verrai! - gli dice -. Oh, tu verrai qui!
Avrai pietà di questa povera gente, ecc.». Promette sangue fresco al suo
spirito che, secondo certe allusioni che fa, sembra essere il Grande Uccello
del Tuono. «Le tue ali di ferro! ... Le tue piume di ferro risuonano quando
voli! Il tuo rostro possente è pronto ad afferrare i tuoi nemici! ...».
Questa invocazione si prolunga per una trentina di minuti e lo sciamano la
termina esausto.
Tutto ad un tratto,
grida con voce diversa: «Son qui! ... Sono arrivato per aiutare questa povera
gente!».
Lo sciamano giunge all'estasi; danza intorno al fuoco, stende le braccia pur
serbando il suo tamburo e il suo bastone, e grida nuovamente: «Volo! Volo! Sto
per raggiungerti! Sto per afferrarti! Tu non potrai sfuggirmi!».
Come più tardi se lo spiegò Lopatin, questa danza rappresentava il volo dello
sciamano nel regno degli spiriti ove dava la caccia allo spirito maligno che
s'era portato via l'anima del ragazzo ammalato. Segue un dialogo a più voci
cosparso di parole incomprensibili. Infine lo sciamano esclama: «Ce l'ho! Ce
l'ho» e, chiudendo le mani come se avesse preso qualcosa, s'avvicina al letto
in cui giace il fanciullo ammalato e gli restituisce l'anima: infatti, come
l'indomani lo sciamano spiegò a Lopatin, aveva catturato l'anima del fanciullo
sotto forma di passero.
L'interesse di
questa seduta consiste nel fatto che l'estasi dello sciamano non si traduce in trance, ma è raggiunta e mantenuta
durante la danza che simboleggia il volo magico. Lo spirito protettore sembra
essere l'Uccello del Tuono o l'Aquila, che ha SI gran parte nelle mitologie e
nelle religioni dell'Asia settentrionale. Sicché, quantunque l'anima del malato
sia stata rapita da uno spirito maligno, a questo non si dà la caccia - come ci
saremmo attesi - nelle regioni inferiori, ma assai in alto nel Cielo.
Gli Yukaghiri
hanno due termini per designare lo sciamano: alma (dal verbo «fare») e irkeye - letteralmente «colui che trema». L'alma cura i malati, offre i sacrifici,
prega gli dèi per ottenere una ricca selvaggina ed ha rapporti sia col mondo
sovrannaturale che col Regno delle Ombre. Nei tempi antichi le sue funzioni
erano sicuramente più importanti, perché tutte le tribù yukaghire fanno
risalire ad uno sciamano la loro origine. Fino al secolo scorso si veneravano
ancora i crani degli sciamani morti: si incastonavano in una figura di legno
che si conservava in un cofano. Nulla si intraprendeva senza aver proceduto
alla divinazione mediante questi crani, usando, per ciò, il metodo più
ricorrente nell'Asia artica: la pesantezza o la leggerezza del cranio
equivalgono rispettivamente ad un «no» o ad un «SI».
E ci si atteneva scrupolosamente al responso dell'oracolo. Il resto delle ossa veniva
ripartito fra i parenti e la carne del cadavere veniva disseccata a che si
conservasse meglio. Venivano anche innalzati degli «uomini-di-legno» alla
memoria degli antenati sciamani (Jochelson).
Quando un uomo
muore, le sue tre anime si separano: l'una resta presso il cadavere, la seconda
si dirige verso il Paese delle Ombre, la terza sale in Cielo. Sembra che
quest'ultima raggiunga il Dio supremo, il cui nome è Pon - letteralmente:
«Qualche cosa». In ogni caso, l'anima che si trasforma in ombra sembra essere
la più importante di tutte. Sul cammino, essa incontra una vecchia, guardiana
della soglia dell'aldilà, poi giunge davanti a una fiumana che traversa in
barca. Nel Regno delle Ombre il trapassato continua a condurre la stessa esistenza
che aveva condotto sulla terra, accanto ai suoi parenti, occupato a cacciare
animali-ombra. È nel Regno delle Ombre che lo sciamano discende per cercare
l'anima del malato.
Ma in esso si
reca anche in altra occasione: quando va a «rubarvi» un'anima per farla nascere
quaggiù, introducendola in un grembo femminile. Infatti i morti ritornano in
terra iniziandovi una nuova esistenza. Però qualche volta, quando i viventi
dimenticano i loro doveri verso i trapassati, questi si rifiutano di inviar
loro delle anime e le donne non generano più, Allora lo sciamano discende nel
Regno delle Ombre e se non riesce a convincere i morti ruba un'anima e
l'introduce a forza nel corpo della donna. Però in casi siffatti i bambini che
nascono hanno la vita breve. Le loro anime hanno fretta di tornare nel Paese
delle Ombre.
Qui s'incontrano
alcuni vaghi accenni ad un'antica suddivisione degli sciamani in «buoni» e
«cattivi» e così pure allusioni a donne-sciamano, oggi scomparse. Presso gli
Yukaghiri non v'è traccia di partecipazione delle donne a ciò che è stato
chiamato lo «sciamanismo di famiglia», o «domestico», sciamanismo che
sopravvive presso i Coriachi e i Ciukci, e che consente alle donne di serbare i
tamburi familiari. Però nei tempi antichi ogni famiglia yukaghira possedeva un
proprio tamburo, il che prova che almeno certe cerimonie «sciamaniche» venivano
celebrate periodicamente dai membri della casa.
Stessa
concezione di un «eterno ritorno» delle anime dei morti in Indonesia e
altrove). Per scoprire quale antenato si incarni gli Yukaghiri in altri tempi
praticavano la divinazione a mezzo di ossa di sciamani: si pronunciavano i nomi
dei morti, e l'osso diveniva leggero quando il nome era quello di colui che si
era reincarnato. Ancor oggi si recitano i nomi davanti al neonato, e questi
sorride non appena ode il nome giusto.
Fra le diverse
sedute descritte da Jochelson, sedute non tutte interessanti, ci limiteremo a
riassumere quella che ci sembra essere la più importante e che ha per scopo una
guarigione. Lo sciamano si siede per terra e dopo aver suonato a lungo il
tamburo invoca i suoi spiriti protettori imitando la voce di animali: «O miei
antenati! - egli grida - venitemi vicino! Per aiutarmi, portatemi vicino le mie
giovani-spirito! Venite qui!». Ricomincia a suonare il tamburo e
vestito si con l'aiuto del suo assistente, si avvicina alla porta e aspira
profondamente l'aria onde far entrare in sé le anime degli antenati e gli altri
spiriti che ha evocato. «Sembra che l'anima del malato si sia diretta verso il Regno
delle Ombre!» annunciano, per mezzo della sua voce, gli spiriti degli antenati.
I genitori del paziente l'incoraggiano: «Sù forte! sù forte!».
Lo sciamano posa il tamburo, si stende bocconi sulla pelle di renna e diviene
immobile: è, questo, il segno che egli ha lasciato il corpo e che sta
viaggiando nell'aldilà. È disceso nel Regno delle Ombre «mediante il suo
tamburo, come se si fosse immerso in un lago» (Del resto, il tamburo si chiama yàlgil, «mare»).
Resta cosi a lungo, senza muoversi, e tutti i presenti attendono pazientemente
il suo risveglio.
Lo sciamano
raccontò poi a Jochelson il suo viaggio estatico. Accompagnato dai suoi spiriti
ausiliari egli aveva preso il cammino che conduce al Regno delle Ombre. Era
giunto ad una casetta incontrando un cane che si mise ad abbaiare. Una vecchia,
che era la guardiana del cammino, usci dalla casa e gli domandò se fosse venuto
per sempre oppure solo per un certo tempo. Lo sciamano non le aveva risposto e,
rivolto si ai suoi spiriti, aveva detto: «Non ascoltate le parole della
vecchia! Continuate il vostro cammìno!». Poco dopo essi raggiungevano un
fiume. Vi era una barca e sull'altra riva lo sciamano scorse tende e uomini.
Sempre accompagnato dagli spiriti lo sciamano sali sull'imbarcazione e
attraversò il fiume. Incontrò le anime di parenti morti del malato e, essendo
entrato nella loro tenda, vi scopri anche l'anima del malato. Poiché i parenti
si rifiutavano di consegnargliela, lo sciamano fu costretto a prenderla con la
forza. Per poterla ricondurre senza rischio in terra, lo sciamano aspirò
l'anima del malato chiudendosi anche le orecchie per impedire che fuggisse da
là. Il ritorno dello sciamano si manifestò con alcuni suoi movimenti. Due
ragazze gli fecero dei massaggi alle gambe e lo sciamano, ritornato definitivamente
in terra, restituì l'anima al corpo dell'ammalato. Poi si diresse verso la
porta e congedò i suoi spiriti ausiliari. Si riconosce la scenografia classica
delle discese' agli Inferni: la guardiana del soglio, il cane, l'attraversare
il fiume. Inutile, qui, ricordare tutte le corrispondenze di tali motivi, nello
sciamanismo e altrove; su alcune di esse torneremo più giu.
Per ottenere la
guarigione non è sempre necessario che lo sciamano yukaghiro vada a rubare
l'anima negli Inferni. La seduta può esser da lui portata a compimento senza
che intervengano le anime degli sciamani morti, e, pur invocando i suoi spiriti
ausiliari e imitandone le voci, è al Creatore e ad altre potenze celesti che
egli si rivolge. Questa particolarità mostra la polivalenza delle sue capacità
estatiche. Di fatto, egli funge anche da intermediario fra gli uomini e gli
dèi, motivo per la quale egli ha una parte di prim'ordine nella caccia: è
sempre lui che può intercedere presso le divinità che, in un modo o nell'altro,
governano il mondo animale. Cosi quando la carestia minaccia il clan lo
sciamano procede ad una seduta simile in tutto e per tutto a quelle
terapeutiche. Solo che invece di rivolgersi al Creatore-della-Luce o di
discendere agli Inferni per cercarvi l'anima del malato, egli vola verso il
Signore-della-Terra. Giunto al suo cospetto lo supplica cosi: «I tuoi figli mi
hanno mandato affinché tu dia loro del cibo!». n Signore-della-Terra
gli dà 1'«anima»
di una renna e all'indomani lo sciamano si reca in un certo luogo situato
presso un fiume ed attende: una renna passa e lo sciamano l'uccide con un colpo
di freccia. Questo è il segno che la selvaggina non mancherà più.
Oltre che per
tutti questi riti, lo sciamano è anche utilizzato come maestro di divinazione,
che si pratica sia mediante ossa divinatorie, sia attraverso una seduta
sciamanica. Questa qualità gli viene dai suoi rapporti con gli spiriti. Si può
però supporre che l'importanza che hanno gli spiriti nelle credenze degli
Yukaghiri risenta fortemente delle influenze yakute e tunguse. Due fatti ci
sembrano significativi, a tale riguardo: da un lato, la coscienza, che gli
Yukaghiri hanno, della decadenza attuale del loro sciamanismo ancestrale;
dall'altro, le forti influenze yakute e tunguse riscontrabili nelle pratiche
attuali degli sciamani yukaghiri.
Religione e sciamanismo
presso i coriachi
I Coriachi
conoscono un Essere supremo celeste: «Quello d'in alto», al quale sacrificano
cani. Ma qui come altrove questo Essere supremo è piuttosto passivo: gli uomini
sono esposti agli attacchi dello spirito malvagio Kalau, e «Quello d'in alto»
di rado viene in loro aiuto. Però, mentre presso gli Yakuti e i Buriati
l'importanza degli spiriti malvagi è divenuta considerevole, la religione dei
Coriachi continua ad accordare uno spazio abbastanza grande all'Essere supremo
e agli spiriti benigni. Kalau cerca sempre di intercettare i sacrifici offerti
a «Quello d'in alto» e spesso vi riesce. Quando lo
sciamano durante la cura sacrifica un cane all'Essere supremo, Kalau può dunque
impadronirsi lui dell'offerta, nel qual caso il malato soccombe; se invece il
sacrificio arriva fino in cielo, la guarigione è certa. I disegni ingenui di un
Coriaco rappresentanti due sacrifici sciamanici: nel primo, Kalau intercetta
l'offerta, con le note conseguenze; nel secondo, il cane sacrificato giunge
fino a «Quello-d'in-alto», e il malato si salva. Si
sacrifica a Dio rivolti verso Est, mentre ci si rivolge verso Ovest quando si
sacrifica a Kalau. La stessa orientazione nei sacrifici presso gli Yakuti, i
Samoiedi e gli Altaici. Presso i Buriati si ha una inversione: l'Est vien
riferito al malvagio Tengri, l'Ovest al buon Tengri.
Kalau è il Mago
Malvagio, la Morte e probabilmente anche il Primo Morto. In ogni caso, è lui a
causare la morte degli umani divorando le loro carni e specialmente il fegato.
Ora, si sa che in Australia ed anche altrove si crede che gli stregoni uccidano
le loro vittime proprio mangiandone, durante il sonno, il fegato e gli organi
interni.
Lo sciamanismo
conserva ancora una parte abbastanza notevole nella religione dei Coriachi. Ma
anche qui incontriamo il motivo della «decadenza dello sciamano». È importante
che per questo popolo la decadenza dello sciamano avrebbe fatto seguito alla
decadenza della umanità in genere, una tragedia spirituale sopravvenuta già da
molto tempo. Nell'èra mitica dell'eroe Gran-Corvo gli uomini potevano ascendere
senza fatica al Cielo e discendere in modo altrettanto facile agli Inferni; del
che, oggi solo gli sciamani sono ancora capaci. In questi miti, al cielo si
saliva attraverso l'apertura centrale della volta, che serve al
Creatore-della-Terra per guardare quaggiù; oppure vi si saliva seguendo la via
tracciata da una freccia lanciata verso il cielo (su questo motivo mitico, vedi
più oltre). Ma, come lo abbiamo già visto nell'esporre altre tradizioni
religiose, tali comunicazioni col Cielo e con gli Inferni sono state
bruscamente interrotte (i Coriachi non precisano in seguito a quale
avvenimento) e da allora solo gli sciamani sono ancora in grado di
ristabilirle.
Senonché ai
nostri giorni perfino gli sciamani hanno perduto i loro poteri miracolosi. Or
non è molto gli sciamani potenti avevano ancora la capacità di restituire
l'anima ad una persona morta da poco, tanto da farla tornare in vita; Jochelson
ha sentito ancora raccontare prodezze del genere, di cui erano stati capaci gli
«antichi sciamani», ma questi, si aggiungeva, già da tempo sono morti. In
genere, la professione di sciamano appariva in regresso. Jochelson ha potuto
incontrare soltanto due giovani sciamani, piuttosto poveri e senza prestigio.
Le sedute alle quali ha assistito non presentavano un grande interesse. Si
udivano suoni e voci strane che partivano da tutti gli angoli e che venivano
attribuite agli spiriti ausiliari. D'un tratto tali voci cessavano e quando si
faceva di nuovo luce, si trovava lo sciamano steso per terra, esausto, ed
annunciava, in modo abbastanza maldestro, che gli spiriti gli avevano
assicurato che la «malattia» avrebbe abbandonato il villaggio. In un'altra
seduta che era cominciata, come d'abitudine, con canti, rulli di tamburo ed evocazioni
di spiriti, lo sciamano chiese a Jochelson il coltello, dicendo che gli spiriti
gli avevano ordinato di tagliuzzarsi. Ma non ne fece di nulla. È vero che gli
narrò di altri sciamani che aprivano il corpo del paziente, cercavano la causa
della malattie e mangiavano la parte della carne che la rappresentava, la
ferita richiudendosi immediatamente.
Fra i Coriachi
lo sciamano viene chiamato enenalan,
cioè «uomo ispirato dagli spiriti». Infatti sono gli spiriti a decidere della
carriera di uno sciamano; nessuno può divenire di propria volontà un enenalan.
Gli spiriti si manifestano assumendo la forma di uccelli e di altri animali. Vi
è ragione di supporre che gli «antichi sciamani» utilizzassero questi spiriti
per poter discendere impunemente agli Inferni, come abbiamo visto fare agli
sciamani yukaghiri e ad altri sciamani. Probabilmente essi dovevano guadagnarsi
la benevolenza di Kalau e di altri personaggi infernali. Infatti alla morte
l'anima sale in Cielo, verso l'Essere supremo, ma l'ombra e lo stesso
trapassato discendono nelle regioni infere. L'ingresso agli Inferni è custodito
da cani. L'Inferno propriamente detto è composto di villaggi simili a quelli
terrestri, ogni famiglia avendo la propria casa. La via dell'Inferno comincia
direttamente sotto la pira funeraria e resta aperta solo per il tempo
necessario a che il morto vi passi. All'«apertura» del Cielo corrisponde
quella della Terra che costituisce l'ingresso agli Inferni, secondo uno schema
cosmologico caratteristico dell'Asia settentrionale - vedi: più oltre. Il
cammino che si apre per subito richiudersi è un simbolo frequentissimo delle
«rotture di livello», per cui ricorre nei racconti
iniziatici. Cfr. il racconto coriaco di una giovinetta che si lascia divorare
da un mostro cannibale per poter discendere rapidamente agli Inferni e
ritornare in terra prima che il «cammino dei morti» si richiuda, insieme
a tutte le altre vittime del cannibale. Questo racconto presenta, in una
sorprendente coesione, vari motivi iniziatici: passaggio agli Inferni
attraverso lo stomaco di un mostro; ricerca e salvataggio di vittime innocenti;
cammino dell'aldilà che si apre e subito si richiude.
La decadenza
dello sciamanismo coriaco si esprime anche nel fatto che lo sciamano non usa
più un costume speciale; non possiede nemmeno un tamburo suo proprio. Ogni
famiglia dispone di un tamburo che serve a ciò che Jochelson e Bogoras, e dopo
di loro vari altri autori, han chiamato lo «sciamanismo domestico».
Effettivamente, ogni famiglia pratica una sorta di sciamanismo in occasione dei
suoi rituali domestici: i sacrifici e le cerimonie, periodiche o meno, che
rappresentano i doveri religiosi della comunità. Secondo Jochelson e Bogoras lo
«sciamanismo di famiglia» avrebbe preceduto lo sciamanismo professionale. Molti
fatti, che avremo da segnalare, contraddicono questa idea. Lo sciamanismo
siberiano conferma piuttosto ciò che s'incontra dappertutto nella storia delle
religioni, vale a dire che sono i profani a sforzarsi di imitare le esperienze
estatiche di certi esseri privilegiati, e non viceversa.
Lo «sciamanismo
domestico»,
lo si ritrova anche fra i Ciukci inquantoché durante le cerimonie celebrate dal
capo della famiglia tutti, compresi i bambini, si provano a suonare il tamburo.
È quel che avviene, per esempio, in occasione delle «uccisioni d'autunno»,
quando si immolano degli animali col fine di assicurarsi la caccia per l'anno:
si suona il tamburo - perché ogni famiglia possiede un suo tamburo - e ci si
sforza di incorporarsi gli «spiriti» e di sciamanizzare. Ma secondo il parere
dello stesso Bogoras è chiaro che qui si tratta solo di una mediocre imitazione
delle sedute sciamaniche: la cerimonia ha luogo nella tenda esterna e di
giorno, mentre le sedute sciamaniche si svolgono nella camera da letto, di
notte e in una completa oscurità: i membri della famiglia imitano a turno un
«esser posseduti dagli spiriti» alla sciamanica, contorcendosi, facendo salti
in aria e cercando di emettere dei suoni inarticolati che dovrebbero essere la
voce e il linguaggio degli «spiriti». Talvolta si tentano perfino delle
guarigioni sciamaniche e vengono pronunciate delle profezie alle quali,
peraltro, nessuno fa attenzione. Tutto ciò prova che qui i profani, in base ad
un'esaltazione religiosa passeggera, si sforzano di raggiungere lo stato
sciamanico con la riproduzione mimetica di tutti i gesti degli sciamani. Certo,
il modello a cui ci si inspira è la trance
del vero sciamano, ma l'imitazione si limita essenzialmente agli aspetti esterni
di essa: le «voci degli spiriti» e il «linguaggio segreto», la pseudo-profezia
e via dicendo. Almeno nella sua forma attuale, lo «sciamanismo
domestico» non è che una imitazione scimmiesca della tecnica estatica dello
sciamanismo professionale.
Del resto le
sedute sciamaniche propriamente dette hanno Ìuogo di sera, dopo che le
cerimonie religiose ora accennate son terminate; esse sono eseguite da sciamani
professionisti. Lo «sciamanismo di famiglia» sembra esser proprio un fenomeno
ibrido, dovuto verosimilmente ad una doppia causa: da un lato, vi sono una
quantità di Ciukci che pretendono di essere sciamani e siccome ogni casa
possiede il suo tamburo, sono molti coloro che nelle sere d'inverno si mettono
appunto a cantare e a suonare il tamburo, giungendo talvolta perfino ad
un'estasi para-sciamanica; d'altro lato, la tensione religiosa delle feste
periodiche rende in atto forme latenti di esaltazione e facilita un certo
contagio. Ma, ripetiamolo, nell'un caso come nell'altro ci si sforza di imitare
un modello, e cioè la tecnica estatica dello sciamano professionista.
Come dappertutto
in Asia, presso i Ciukci la vocazione sciamanica si manifesta generalmente con
una crisi spirituale provocata sia da una «malattia iniziatica»,
sia da un'apparizione sovrannaturale (un lupo, un tricheco o altri animali che
appaiono in un momento di estremo pericolo e salvano il futuro sciamano). In
ogni caso, la crisi causata dal «segno» (malattia, apparizione, ecc.) ha una
soluzione integrale nella stessa esperienza sciamanica: il periodo di
preparazione viene assimilato, dai Ciukci, ad una grave malattia, e 1'«inspirazione»
(cioè il compimento dell'iniziazione) è omologata ad una guarigione (Bogoras).
La maggior parte degli sciamani incontrati da Bogoras pretendeva di non aver
avuto maestri (p. 425), il che non vuole però dire che essi non abbiano avuto
degli istruttori sovrumani. L'incontro degli «animali sciamanici» sta già ad
indicarci il genere di istruzione che può aver ricevuta un apprendista. Uno
sciamano raccontò a Bogoras che già da adolescente udi una voce che gli
comandava: «Va' nella solitudine: troverai un tamburo. Mettiti a suonarlo e
vedrai il mondo intero!». Egli obbedì e riusci
effettivamente a salire in cielo e perfino a piantare la sua tenda sulle nubi
(La tradizione delle ascese celesti è parimenti assai viva nei miti ciukci -
vedi p. es. la storia del giovane che, sposando una fata celeste («skygiri»)
ascende in Cielo scalando una montagna a picco:). Infatti, quale pur sia la
tendenza generale dello sciamanismo ciukce nella sua fase attuale (cioè in
quella osservata dagli etnografi agli inizi del nostro secolo), anche lo
sciamano ciukce è capace di innalzarsi nell'aria e di attraversare l'un cielo
dopo l'altro, passando per l'apertura della Stella Polare.
Ma fra i Ciukci
si ritrova anche ciò che abbiamo già constatato presso altre popolazioni
siberiane, ossia la coscienza di una decadenza dei loro sciamani: i quali, ad
esempio, ricorrono al tabacco come stimolante, costume venuto ai Ciukci dai
Tungusi (Bogoras). E mentre il loro folklore è fin troppo ricco di racconti di trance e di viaggi estatici degli
antichi sciamani alla ricerca delle anime dei malati, lo sciamano ciukce
attuale si accontenta di una pseudo-trance.
Si ha l'impressione che la tecnica estatica sia in decadenza, per cui le sedute
sciamaniche si riducono il più spesso alla evocazione degli spiriti e a delle
prodezze fachiriche.
Purtuttavia
dallo stesso lessico sciamanico risulta il valore estatico che in questi popoli
fu già attribuito alla trance. Il
tamburo vien chiamato «barca» e di uno sciamano in trance si dice che egli «s'immerge» (Bogoras). Ciò prova che la
seduta sciamanica veniva considerata come un viaggio nell'aldilà sottomarino
(come presso gli Eschimesi), cosa che peraltro non impediva che lo sciamano, se
lo desiderava, potesse anche salire al più alto dei Cieli. Ma la ricerca
dell'anima perduta del malato implicava una discesa agli Inferni, come lo
stesso folklore attesta. Oggi le sedute terapeutiche si svolgono nel modo
seguente: lo sciamano si toglie la camicia e, a torso nudo, fuma la pipa e
comincia a suonare il tamburo e a cantare. È una melodia semplice, senza
parole; ogni sciamano ha canti suoi propri, che talvolta improvvisa. Ad un
tratto si sente la voce degli «spiriti», da tutti gli angoli, voci che
sembrano venire da sottoterra o da una grande distanza. Il ke'let entra nel corpo dello sciamano e questi, agitando il capo,
comincia a gridare ed a parlare con una voce di testa, che sarebbe la voce
stessa dello spirito. Bogoras crede di potere spiegare le «voci separate»
degli sciamani ciukci con la ventriloquia. Ma il suo fonografo ha registrato
tutte queste «voci» proprio come risuonanti
nell'ambiente, cioè venute da porte o sorte da angoli della camera e non come
emesse dallo sciamano. Le registrazioni «mostrano una differenza nettissima fra
la voce dello sciamano, che risuonava da lontano, e le voci degli
"spiriti", che sembravano parlar direttamente nel corno
dell'apparecchio". Più giù riferiremo qualche altra dimostrazione dei
poteri magici degli sciamani ciukci. Come abbiamo già detto, il problema dell'«autenticità»
di tutti questi fenomeni sciamanici cade fuori del quadro del presente lavoro.
Vedi l'analisi e l'interpretazione ardita di tali fenomeni in De Martino, Il
mondo magico.
Nel frattempo
nell'oscurità della tenda si verificano fenomeni strani d'ogni specie:
levitazione di oggetti, un tremare della stessa tenda, pioggia di pietre e di
pezzi di legno, ecc. Usando la voce dello sciamano gli spiriti dei morti
s'intrattengono coi presenti.
Se qui le sedute
sono ricche di fenomeni parapsicologici, la trance
propriamente sciamanica vi appare sempre più di rado. Talvolta lo sciamano cade
a terra privo di sensi e allora la sua anima lascerebbe il corpo e andrebbe a
chieder consiglio agli spiriti. Ma si affronta questa estasi solo se il
paziente è ricco abbastanza per rimunerarla adeguatamente. E perfino in tali
casi, secondo Bogoras, si tratta di una simulazione: lo sciamano smette di
suonare il tamburo e si stende a terra, immobile; sua moglie gli copre il volto
con una stoffa, fa di nuovo luce e si mette lei a suonare il tamburo. Dopo un
quarto d'ora lo sciamano fa come se si svegliasse e dà «consigli» all'ammalato.
Un tempo, la vera ricerca dell'anima del malato si compiva nella trance; oggidi essa è sostituita da una
pseudo-trance oppure dal sonno,
giacché i Ciukci considerano i sogni come una presa di contatto con gli
spiriti; dopo una notte di sonno profondo lo sciamano si desta con l'anima del
malato nel pugno e procede immediatamente a reintegrarla nel corpo. Lo sciamano
aprirebbe il cranio del malato per rintrodurvi l'anima che ha catturata in
forma di mosca; ma può introdurvela anche attraverso la bocca, le dita della
mano o del piede (cfr. Bogoras). L'anima umana si manifesta in genere sotto
forma di mosca o di ape. Ma i Ciukci, come gli altri popoli siberiani,
conoscono più di un'anima: dopo la morte una di esse sale al Cielo col fumo
della pira funeraria, un'altra scende negli Inferni ove la sua esistenza
continua esattamente come sulla terra.
Da questi pochi
esempi si può valutare la decadenza attuale dello sciamanismo ciukce. Benché
gli schemi dello sciamanismo classico sopravvivano ancora nelle tradizioni del
folklore e anche nelle tecniche terapeutiche (ascese, discesa agli Inferni,
ricerca dell'anima, ecc.), pure qui l'esperienza sciamanica propriamente detta
si riduce ad una specie di incorporazione «spiritistica» e ad una
fenomenologia di tipo fachirico. Gli sciamani ciukci conoscono parimenti un
altro metodo classico di guarigione: la suzione. Essi mostrano poi la causa
della malattia: un insetto, una pietruzza, una spina, ecc. Spesso procedono
perfino ad una «operazione» conservante ancora tutto il suo carattere
sciamanico: mediante un coltello rituale reso ben «caldo» da certi
esercizi magici, lo sciamano pretende di aprire il corpo del malato onde
esaminare gli organi interni ed estrarre la causa del male. Bogoras ha perfino
assistito ad una «operazione» del genere: un ragazzo sui quattordici anni si
distese completamente nudo per terra e la madre, una sciamana di grande fama,
gli apri l'addome: si poteva vedere il sangue e la ferita, nella quale la
sciamana affondò la mano. Nel frattempo la sciamana sentiva in sé come un fuoco
e beveva acqua ininterrottamente. Poco dopo la ferita era scomparsa, e Bogoras
non poté rinvenirne la minima traccia. Un altro sciamano, dopo aver suonato
lungamente il tamburo onde «scaldare» il proprio corpo e il suo coltello a tal
segno che, secondo lui, il colpo di coltello non lo avrebbe nemmeno sentito, si
aprì l'addome. Simili prodezze sono frequenti in tutta l'Asia settentrionale ed
hanno relazione col «dominio sul fuoco», perché gli stessi sciamani che si
tagliano il corpo sono anche capaci di inghiottire carboni ardenti e di toccare
impunemente del ferro arroventato a bianco. La gran parte di questi tricks viene eseguita in pieno giorno.
Bogoras ha assistito, fra l'altro, al seguente fenomeno: una sciamana si mise a
strofinare una piccola pietra e una quantità di ciottoli cadde dalle sue dita,
andandosi a ammassare nel tamburo. Alla fine dell'esperimento tali ciottoli avevano
formato un mucchio di notevoli dimensioni, mentre la pietra che la sciamana
aveva stropicciata tra le dita, era rimasta intatta. Cose del genere avvengono
durante le gare di esperimenti magici ai quali, con grande spirito di
emulazione, si danno gli sciamani in occasione di cerimonie religiose
periodiche. Nel folklore si trovano frequenti allusioni ad operazioni analoghe,
il che fa pensare che gli «antichi sciamani» disponessero di poteri magici
ancor più stupefacenti. Quanto alla divinazione, essa è praticata tanto dagli
sciamani che dai profani. Il metodo più frequente consiste nell'appendere un
oggetto all'estremità di un filo, come fanno gli Eschimesi. Si pratica la
divinazione usando anche la testa o il piede dell'uomo e un tale sistema è
usato specialmente dalle donne, ad esempio fra i Camciadali e gli Eschimesi
americani. Sulla divinazione con scapole di renna, cfr. Bogoras; questo mezzo
di divinazione è diffuso in tutta l'Asia centrale ed è stato anche accertato
nella protostoria della Cina. Non abbiamo creduto necessario indicare gli
specifici metodi divinatori relativi ad ogni popolazione di cui abbiamo
esaminato le tradizioni e le tecniche sciamaniche. Nell'insieme, essi si
rassomigliano. Ma è bene ricordare che in tutta l'Asia settentrionale le basi
ideologiche della divinazione vanno cercate nella credenza di un «Incorpo
rarsi»
degli spiriti, e ciò vale anche per gran parte dell'Oceania.
Lo sciamanismo
ciukce è interessante ancora per un lato: esiste una classe speciale di
sciamani «trasformati in donne». Sono gli «uomini molli» o «simili
alle donne» che, per ordine del ke'let,
hanno fatti propri gli abiti e i costumi delle donne, sposando perfino altri
uomini. In genere, l'ordine del ke'let
non viene eseguito che a metà: lo sciamano si traveste, ma continua a coabitare
con sua moglie e ad aver dei figli. Alcuni hanno preferito suicidarsi, anziché
eseguire l'ordine, per quanto l'omosessualità non sia ignota fra i Ciukci. La
trasformazione rituale in donna la s'incontra anche fra i Camciadali, gli
Eschimesi asiatici e i Coriachi; però fra questi ultimi Jochelson non ne ha più
trovato che il ricordo. Il fenomeno, benché raro, non è limitato all'Asia
nord-orientale; il travestimento e il mutamento rituale di sesso lo si
incontra, ad esempio, anche in Indonesia (i manang bali dei Daiachi marittimi),
nell'America del Sud (popoli della Patagonia e Araucani) e presso certe tribù
nord-americane (Arapaho, Cheynee, Ute, ecc.). La trasformazione simbolica e
rituale in donna si spiega verosimilmente con una ideologia derivata dal
matriarcato primordiale; ma, come a suo luogo avremo occasione di vedere, essa
non sembra dirci di una preminenza della donna nel più antico sciamanismo. In
ogni caso, l'esistenza di questa speciale classe di «uomini simili alle donne»
- che, del resto, ha una parte secondaria nello sciamanismo ciukce - non è
riconducibile alla «decadenza dello sciamano», questo essendo un
fenomeno diffuso anche di là dall'area dell'Asia settentrionale.
CAPITOLO 8: Sciamanismo e cosmologia
Le tre zone cosmiche e
il pilastro del mondo
La tecnica
sciamanica per eccellenza consiste nel passaggio da una regione cosmica
all'altra: dalla Terra al Cielo o dalla Terra agli Inferni. Lo sciamano conosce
il mistero delle rotture di livello. Questa comunicazione fra le zone cosmiche
è resa possibile dalla struttura stessa dell'Universo che, come subito vedremo,
viene concepito, nel suo insieme, come ripartito in tre piani - Cielo, Terra e
Inferni - collegati fra loro da un asse centrale. Il simbolismo col quale viene
espressa la solidarietà e la comunicazione fra le tre zone cosmiche è
abbastanza complesso e non sempre esente da contraddizioni: si è che questo
simbolismo ha avuto una «storia» ed è stato più volte modificato e contaminato
nel corso dei tempi da altri simbolismi cosmologici più recenti. Ma lo schema
essenziale resta sempre visibile, anche nelle forme terminali che risentono di
numerose influenze: esistono tre grandi regioni cosmiche che possono esser
attraversate successivamente perché sono collegate da un asse centrale. Naturalmente,
questo asse passa per una «apertura», per un «foro»;
usando questo foro gli dèi scendono sulla terra e i morti nelle regioni
sotterranee; ed è del pari grazie ad esso che l'anima dello sciamano in estasi
può innalzarsi in volo o discendere nei suoi viaggi celesti o infernali.
Prima di dare
qualche esempio di questa topografia cosmica occorre fare una osservazione
preliminare. Il simbolismo del «Centro» non è necessariamente una
idea cosmologica. Originariamente ha avuto carattere di «centro»,
luogo possibile di una rottura di livello, ogni spazio sacro, cioè ogni spazio
cui si leghi una ierofania e che manifesti delle realtà (forze, figure, ecc.)
che non sono del nostro mondo, che vengono da un'altra parte, e in primo luogo
dal Cielo. Si è giunti all'idea di un «Centro» perché si aveva l'esperienza di
uno spazio sacro, impregnato da una presenza trans-umana: in quel luogo preciso
qualcosa di proveniente dall'alto o dal basso si era manifestato. In seguito,
si è imaginato che la manifestazione del sacro implicasse, di per se stessa,
una rottura di livello.
Come molti altri
popoli, i Turco-Tartari concepiscono il cielo come una tenda; la Via Lattea ne
è la «cucitura»,
le stelle sono i «buchi» per far passare la luce. Secondo gli Y akuti, le
stelle sono le «finestre del mondo», sono aperture create per
l'aereazione delle varie sfere del Cielo (che generalmente sono nove, ma che
possono anche essere dodici, cinque o sette). Di tempo in tempo gli dèi aprono
la tenda per guardare sulla terra, ed è allora che appaiono le meteore. Il
Cielo vien parimenti concepito come un coperchio; può accadere che esso non sia
perfettamente fissato agli orli della terra, ed allora si hanno le tempeste di
vento che passano per l'interstizio. Attraverso queste stesse fessure gli eroi
ed altri esseri privilegiati possono scivolare e penetrare nel Cielo.
Ehrenreich rileva che questa idea mitico-religiosa domina tutto l'emisfero
settentrionale. E ancora un'espressione del simbolismo, diffusìsslmo,
dell'accesso al cielo per mezzo di una «porta stretta lO; l'interstizio fra i
due livelli cosmici si spalanca per un solo istante e l'eroe (o l'iniziato, lo
sciamano, ecc.) deve saper approfittare di tale istante paradossale per
penerrare nell'«aldilà».
In mezzo al
Cielo brilla la Stella Polare, che sostiene la tenda celeste come il suo palo
centrale. I Samoiedi la chiamano «il Chiodo del Cielo», i Ciukci e i
Coriachi «la stella-Chiodo»: la stessa imagine e la stessa
terminologia ricorrono fra i Lapponi, i Finni, gli Estoni. I Turco-Altaici
concepiscono la Stella Polare come un Pilastro: essa è «il Pilastro d'Oro» dei
Mongoli, dei Calmucchi, dei Buriati, «il Pilastro di Ferro» dei Kirghisi, dei
Bashkiri e dei Tartari siberiani, «il Pilastro solare» dei Teleuti. L'irminsul dei Sassoni da Rudolf von Fulda
(Translatio S. Alexandri) fu chiamato
universalis columna quasi sustinens omnia.
I Lapponi scandinavi hanno ripreso questa idea dagli antichi Germani: essi
chiamano la Stella Polare e il Pilastro del Cielo» o «del Mondo».
Si può fare un raffronto tra l'irminstil
e le colonne di Giove. Idee analoghe continuano a sopravvivere nel folklore
dell'Europa sud-orientale - cfr. ad esempio la Coloana Ceriului (la Colonna del Cielo) dei Romeni.
Una imagine
mitica complementare è quella degli astri collegati alla Stella Polare in modo
invisibile. I Buriati si figurano le stelle come una mandria di cavalli e la
Stella Polare («il Pilastro del Mondo») è il palo al quale
esse vengono attaccate.
Come è da
aspettarsi, questa cosmologia ha avuto una replica perfetta nel microcosmo
abitato dagli umani. L'asse del Mondo vi è stato raffigurato in un modo
concreto, sia coi pilastri che sostengono l'abitazione, sia sotto specie di
pali isolati chiamati «Pilastri del Mondo». Ad esempio, per gli Eschimesi il
Pilastro del Cielo è identico in tutto e per tutto al palo che si trova nel
mezzo delle loro abitazioni. Il palo della tenda, dai Tartari dell'Altai, dai
Buriati e dai Soioti viene assimilato al Pilastro del Cielo. Presso i Soioti
esso si innalza oltre la sommità della yurta ed è ornato da stracci azzurri,
bianchi e gialli, rappresentanti i colori delle regioni celesti. Questo palo è
sacro; vien quasi considerato come un essere divino. Alla sua base v'è un
piccolo altare di pietra sul quale vengono deposte le offerte.
Il pilastro
centrale è un elemento caratteristico dell'abitazione delle popolazioni
primitive (dell'«Urkultur» della scuola Graebener-Schmidt) artiche e
nord-americane; lo si incontra fra i Samoiedi e gli Ainu, fra le tribù californiane
del Nord e del Centro (Maidu, Pomo orientali, Patwin) e fra gli Algonchini. Ai
piedi del pilastro si fanno i sacrifici e si pronunciano le preghiere, perché è
lui che apre il cammino verso l'Essere supremo celeste. Lo stesso simbolismo
microcosmico si è parimenti conservato fra i pastori allevatori di bestiame
dell'Asia centrale, ma la forma dell'abitazione essendosi modificata (la «casa»
a tetto conico con palo centrale ha dato luogo alla yurta), la funzione
mitico-religiosa del pilastro è passata all'apertura superiore da dove esce il
fumo. Presso gli Ostiachi questa apertura corrisponde all'analogo orificio che
ha la «Casa del Cielo» e i Ciukci l'hanno assimilata al «buco» che, nella volta
celeste, è costituito dalla stella polare. Gli Ostiachi parlano anche dei «tubi
d'oro della Casa del Cielo» o dei «Sette tubi del Dio-Cielo». Gli
Altaici credono parimenti che grazie a tali «tubi» lo sciamano può
passare dall'una zona cosmica all'altra. Anche la tenda innalzata per la già
descritta cerimonia dell'ascensione dello sciamano altaico è assimilata alla
volta celeste e, come questa, ha un'apertura per il fumo (Harva). I Ciukci
sanno che «il foro del Cielo» è la Stella Polare, che i tre mondi sono
collegati fra di loro da fori dello stesso genere e che è grazie ad essi che lo
sciamano e gli eroi nuncr comunicano col Cielo. E presso gli Altaici - come
presso i Ciukci - il cammino del Cielo passa per la Stella Polare. Gli udesbi burkhan dei Buriati aprono il
cammino allo sciamano nella stessa guisa in cui si aprono delle porte.
Naturalmente,
questo simbolismo non è proprio alle sole regioni artiche e nord-asiatiche. Il
sacro pilastro innalzantesi nel mezzo della casa lo si ritrova anche fra i
pastori camiti Galla e Hadiya, fra i camitoidi Nandi e fra i Khasi. Presso
tutti questi popoli delle offerte sacrificali vengono deposte ai piedi di tale
pilastro; talvolta, si tratta di oblazioni di latte al Dio celeste (come fra le
tribù africane ora citate); in dati casi si offrono anche sacrifici cruenti
(per esempio fra i Galla).
Il problema
dell'origine empirica di tali concezioni (la struttura del Cosmo, ad esempio,
concepita in base a certi elementi materiali delle abitazioni, a loro volta da
spiegare in funzione delle necessità di adattamento all'ambiente, ecc.) è un
problema mai posto, epperò sterile. Infatti per i «primitivi» in genere non
esiste una differenza netta fra «naturale» e «sovrannaturale»,
fra oggetto empirico e simbolo. Un oggetto diviene «se stesso» (cioè incorpora
un valore) nella misura in cui riproduce un archetipo, ecc. In ogni caso,
questo problema delle «origini» dei valori è di competenza più della filosofia
che non della storia. Infatti, per fare un solo esempio, non si vede in che
cosa il fatto, che la scoperta delle prime leggi geometriche fu dovuta alle
necessità empiriche dell'irrigazione del delta del Nilo, possa avere una
qualunque importanza quanto al valore o meno di quelle leggi.
Talvolta il
«Pilastro del Mondo» è stato rappresentato indipendentemente dall'abitazione:
cosi fra gli antichi Germani (irminsul,
di cui nel 772 Carlomagno fece distruggere una imagine), fra i Lapponi e le
popolazioni ugre. Gli Ostiachi chiamano questi pali rituali «i pali possenti
del Centro della Città»; gli Ostiachi di Zingala li
conoscono sotto il nome di «Uomo-Pilastro di ferro», li invocano nelle
loro preghiere come «Uomo» e «Padre» offrendo loro sacrifici cruenti.
Karjalainen
ritiene, a torto, che questi pali sarebbero destinati a fissare la vittima
sacrificale. Ma in realtà, come l'ha mostrato Harva, questo Pilastro vien
chiamato «Uomo-Padre sette volte diviso», proprio come Sanke, il dio
celeste, viene invocato come «Grande Uomo sette volte diviso, Sanke, mio Padre,
mio Uomo-Padre che guarda nelle tre direzioni, ecc.». Il pilastro era talvolta
segnato con sette incisioni: gli Ostiachi di Salym, quando offrono sacrifici
cruenti, fanno sette incisioni su di un palo. Questo palo rituale corrisponde
al «Santo Palo d'Argento puro diviso in sette parti» dei racconti voguli, ai
quali i figli di Dio attaccano i loro cavalli quando vanno a far visita al loro
Padre. Anche gli Yuraki offrono sacrifici cruenti agli idoli di legno (s;aadai) a sette faccie o con sette
tacche; secondo Lahtisalo questi idoli stanno in relazione con gli «alberi
sacri» (cioè con una degradazione dell' Albero Cosmico a sette rami). Qui
assistiamo ad un processo di sostituzione ben noto nella storia delle
religioni, che ha avuto luogo anche in altri casi nell'insieme religioso
siberiano. Così, ad esempio, il pilastro che originariamente serviva come luogo
per l'offerta al dio celeste Num diviene, presso i Samoiedi Yuraki, un oggetto
sacro al quale si offrono sacrifici cruenti. Sul significato cosmologico del
numero sette e sulla sua parte nei rituali sciamanici, vedi più oltre.
Il simbolismo
del Pilastro del Mondo è anche stato familiare alle civiltà più evolute:
Egitto, India (per es. Rig-Veda, X,
89, 4; ecc.), Cina Grecia, Mesopotamia. Ad esempio, presso i Babilonesi il
legame fra Cielo e Terra - legame simbolizzato da una Montagna Cosmica o dai
suoi equivalenti; la ziqqurat, il tempio, la città reale, il palazzo - era
talvolta concepito come una Colonna celeste. Vedremo subito che la stessa idea
è anche espressa da altre imagini: l'Albero, il Ponte, la Scala, ecc. Tutte
queste figurazioni fan parte di ciò che noi abbiam chiamato il simbolismo del
«Centro»,
simbolismo che sembra risalire ad un'epoca abbastanza arcaica, dato che lo si
ritrova fra le culture più «primitive».
Qui vale metter
subito in risalto il seguente fatto: benché l'esperienza sciamanica
propriamente detta abbia potuto essere valorizzata in termini di esperienza
mistica grazie alla concezione cosmologica delle tre zone comunicanti, pure
questa concezione cosmologica non appartiene esclusivamente all'ideologia dello
sciamanismo siberiano e centro-asiatico, né a quella di un qualsiasi altro
sciamanismo. Essa è una idea universalmente diffusa, connessa alla credenza
stessa nella possibilità di una comunicazione diretta col Cielo. Sul piano
macrocosmico questa comunicazione ha la sua raffigurazione in un'Asse (Albero,
Monte, Pilastro, ecc.); sul piano microcosmico essa è significata dal pilastro
centrale dell'abitazione o dall'apertura superiore della tenda; il che equivale
a dire che ogni abitazione umana vien proiettata nel «Centro del Mondo», epperò
che ogni altare, ogni tenda o casa rende possibile la rottura di livello e,
pertanto l'ascesa al Cielo.
Nelle culture
primordiali la comunicazione fra Cielo e Terra viene utilizzata per inviare le
offerte agli dèi celesti, e non per intraprendere un'ascensione concreta e
personale, quest'ultima restando di sola pertinenza dello sciamano. Solo gli
sciamani sanno compiere l'ascensione attraversando l'«apertura centrale»;
essi soli trasformano una concezione cosmo-teologica in una esperienza mistica
concreta. Questo è un punto importante: esso, fra l'altro, mette in risalto la
differenza esistente fra la vita religiosa di un popolo nord-asiatico e
l'esperienza religiosa dei suoi sciamani, la quale è una esperienza personale
ed estatica. In altri termini, ciò che per il resto della comunità resta un
ideogramma cosmologico, per gli sciamani (come pure per gli eroi, ecc.) diviene
un itinerario mistico. Ai primi il «Centro del Mondo» permette di inoltrare le
loro preghiere e le loro offerte agli dèi celesti, mentre per i secondi esso è
il luogo per «involarsi» in senso proprio. Una comunicazione reale fra le tre
zone cosmiche non esiste che per questi ultimi.
A tale riguardo
ci si ricorderà del mito, da noi già ripetutamente incontrato, di un'èra
paradisiaca nella quale gli umani potevano ascendere facilmente in Cielo ed
avevano rapporti familiari con gli dèi, Il simbolismo cosmologico
dell'abitazione e l'esperienza dell'ascensione sciamanica confermano, per un
altro riguardo, tale mito arcaico, ed ecco come: dopo il venir meno delle
comunicazioni facili che all'alba dei tempi esistevano fra Cielo e Terra, fra
gli umani e gli dèi, certi esseri privilegiati (e in primo luogo gli sciamani)
hanno conservato il potere di realizzare, per conto proprio personale, il
collegamento con le regioni superiori; del pari, lo sciamano è capace di volare
e di accedere al Cielo per 1'«apertura centrale» mentre per il
resto degli umani cotesta apertura serve unicamente per trasmettere le offerte.
Nell'uno come nell'altro caso il regime privilegiato dello sciamano è dovuto
alla sua facoltà di avere delle esperienze estatiche.
È stato
necessario tornare più di una volta su questo punto, secondo noi fondamentale,
per mettere in luce il carattere universale dell'ideologia implicita dello
sciamanismo. Non sono gli sciamani che, da soli, han creato la mitologia e la
teologia delle loro tribù; essi l'hanno solo interiorizzata, «sperimentata» e
utilizzata per l'itinerario dei loro viaggi estatici.
Un'altra imagine
mitica di questo «Centro del Mondo» che rende possibile il collegamento fra
Terra e Cielo è la Montagna Cosmica. I Tartari dell'Altai si imaginano che Bai
Ulgan stia nel mezzo del Cielo, seduto su di una montagna d'oro (Radlov). I
Tartari Abakan chiamano invece questo monte «la Montagna di Ferro»;
i Mongoli, i Buriati, i Calmucchi la conoscono sotto i nomi di Sambur, Sumur o
Sumer, nomi che tradiscono chiaramente l'influenza indù (= Meru). I Mongoli e i
Calmucchi se la rappresentano poi a tre o quattro piani, mentre per i Tartari
siberiani la Montagna Cosmica avrebbe sette piani. Nel suo viaggio mistico lo
sciamano yakuta scala anche lui un monte a sette piani. La sua vetta si trova
nella Stella Polare, «ombellico del Cielo». I Buriati dicono che la Stella
Polare è attaccata alla sua cima.
L'idea di una
Montagna Cosmica con valore di Centro del Mondo non è necessariamente di
origine orientale, dato che, come si è accennato, il simbolismo del «Centro»
sembra esser anteriore allo sviluppo delle civiltà paleo-orientali. Ma le
antiche tradizioni dei popoli dell'Asia centrale e settentrionale - i quali
conoscevano indubbiamente l'imagine di un «Centro del Mondo» e dell'Asse
cosmico - sono state modificate dal continuo afflusso delle idee religiose
orientali, di origine sia mesopotamica (diffusesi attraverso l'Iran), sia
indiana (attraverso il lamaismo). Nella cosmologia indiana il monte Meru
s'innalza nel centro del mondo e su di esso splende la Stella Polare. Allo
stesso modo che gli dèi indù hanno afferrata questa Montagna cosmica (= Asse
del Mondo) e con essa hanno agitato l'Oceano primordiale facendo
cosi nascere l'Universo, del pari, secondo un mito calmucco, gli dèi hanno
usato Sumer come un bastone per muovere l'Oceano, creando cosi il sole, la luna
e le stelle (Harva). Un altro mito centro-asiatico attesta la penetrazione di
elementi indiani: il dio Ocirvani (= Indra), assunta la forma dell'aquila
Garide (= Garuda), assali la serpe Losun nell'Oceano primordiale, l'avvolse tre
volte intorno al monte Sumeru e infine le schiacciò la testa.
Inutile
ricordare tutte le altre montagne cosmiche conosciute dalle mitologie orientali
e europee: l'Haraberezaiti degli
Irani, ad esempio, l'Himingbjorg
degli antichi Germani e via dicendo. Secondo le credenze mesopotamiche una
montagna centrale collega il Cielo e la Terra: è il «Monte dei Paesi» che
unisce le varie regioni. Ma lo stesso nome dei templi e delle torri sacre
babilonesi testimonia la loro assimilazione alla Montagna cosmica: «Monte della
Casa»,
«Casa del Monte di tutte le terre», «Monte delle tempeste»,
«Legame fra Cielo 'e Terra» ecc. La ziqqurat
era, invero, una Montagna cosmica, una imagine simbolica del Cosmo; i suoi
sette piani rappresentavano i sette cieli planetari (come a Borsippa) o avevano
i colori del mondo (come a Ur). Il tempio Barabudur, vera imago mundi, era
costruito in forma di monte. Di montagne artificiali si sa in India e cosi pure
fra i Mongoli e nell'Asia sud-orientale. È verosimile che influenze
mesopotamiche abbiano raggiunto l'India e l'Oceano Indiano, benché il
simbolismo del «Centro» (Monte, Pilastro, Albero, Gigante) appartenga
organicamente alla più antica spiritualità indiana.
Il monte Thabor,
in Palestina, potrebbe significare tabbàr, cioè «ombellico», omphalos. Il monte
Gerizim, nel centro della Palestina, godeva indubbiamente del prestigio di
«centro»,
perché fu chiamato «ombellico della terra» (tabbur
eres - cfr. Giudici, IX, 37: «È
l'esercito che scende dall'ombellico del mondo»). Secondo una
tradizione raccolta da Petrus Comestor, nel solstizio d'estate il sole non
produrrebbe ombra alcuna alla «Fontana di Giacobbe» (presso Gerizim). Infatti -
precisa Comestot - sunt qui dicunt illum esse umbelicum terrae nostrae
habitabilis. Poiché la Palestina era il paese più elevato - giacché vicino alla
Montagna cosmica - essa non fu sommersa dal diluvio. Un testo rabbinico dice:
«La terra d'Israele non è stata ricoperta dalle acque del diluvio». Per i
cristiani il Golgota si trovava nel centro del mondo, esso corrispondeva alla
cima della Montagna cosmica essendo in pari tempo il luogo ove Adamo era stato
creato e sepolto. È cosi che il sangue del Salvatore cadde sul teschio di
Adamo, sepolto ai piedi stessi della Croce, e lo riscattò.
Altrove abbiamo
già mostrato che questo simbolismo del «Centro» è frequente ed essenziale
nelle civiltà (arcaiche, «primitive») non meno che in
tutte le grandi civiltà orientali. Infatti, per [imitarci ad un cenno, si
supponeva che i palazzi, le città regali e perfino le semplici abitazioni si
trovassero nel Centro del Mondo, sulla vetta della Montagna cosmica. Abbiamo
visto poco fa il senso profondo di questo simbolismo: nel «Centro» si rende
possibile la rottura di livello, cioè la comunicazione col Cielo.
È una tale
Montagna cosmica che il futuro sciamano scala in sogno durante la sua malattia
iniziatica e che poi visita nei suoi viaggi estatici. L'ascensione di un monte
significa sempre un viaggio al «Centro del Mondo». Come abbiamo visto,
questo «Centro» vien reso presente in modi multipli, perfino attraverso la
struttura delle abitazioni umane - però soltanto gli sciamani e gli eroi
scalano effettivamente la Montagna cosmica, proprio come è lo sciamano che,
nell'arrampicarsi sul suo albero rituale, sale di fatto sull'Albero del Mondo e
cosi raggiunge il vertice dell'Universo, nel Cielo supremo.
Infatti il
simbolismo dell'Albero del Mondo è complemento di quello della Montagna
centrale. Talvolta i due simbolismi interferiscono; in genere, l'uno integra
l'altro. Ma l'uno come l'altro non sono che formule mitiche più elaborate del
tema dell'Asse Cosmico (Pilastro del Mondo, ecc.).
Qui non è certo
il caso di passare in rassegna tutto il considerevole materiale delle
tradizioni nelle quali ricorre il motivo dell'Albero del Mondo. Ci basterà
ricordare i temi più frequenti nell'Asia centrale e settentrionale e indicare
la parte che essi hanno nell'ideologia e nell'esperienza sciamanica.
L'Albero Cosmico è cosa essenziale per lo sciamano. Col legno di esso si
costruisce il suo tamburo (vedi più su); scalando la betulla rituale egli
raggiunge effettivamente la cima dell'Albero Cosmico; dinanzi alla sua yurta e
all'interno di essa si trovano delle repliche di tale Albero, che egli disegna
anche sul suo tamburo. Cosmologicamente, l'Albero del Mondo si erge nel centro
della Terra, dove è il suo «ombellico», e i suoi rami superiori toccano
il palazzo di Bai Ulgàn (Radlov). Nelle leggende dei Tartari Abakan una betulla
bianca a sette rami cresce sulla cima di una Montagna di Ferro. I Mongoli si
raffigurano la Montagna cosmica come una piramide a quattro faccie, con in
mezzo un Albero: gli dèi se ne servono come palo per attaccarvi i cavalli,
funzione che abbiamo vista attribuire allo stesso Pilastro del Mondo.
L'Albero collega
le tre regioni cosmiche. Gli Ostiachi Vasiugani credono che i suoi rami
tocchino il Cielo e che le sue radici raggiungano l'Inferno. Secondo i Tartari
siberiani, una replica dell'Albero celeste si trova nell'Inferno: un abete a
nove radici (o, secondo altre varianti, nove abeti) si erge dinanzi al palazzo
di Irle Khan; il re dei morti e i suoi figli attaccano i loro cavalli al suo
tronco. I Goldi conoscono tre Alberi cosmici: il primo SI trova nel Cielo (e le
anime degli umani son posate sui suoi rami a guisa di uccelli, in attesa di
esser fatte discendere sulla terra per dar nascita ai bambini), un altro Albero
sta sulla Terra e il terzo nell'Inferno. I Mongoli parlano dell'Albero zambu le cui radici si sprofondano fino
alla base del monte Sumer e la cui corona si estolle sulla sua vetta; gli dèi (Tengeri) si nutrono dei frutti
dell'Albero e i demoni (asura)
nascosti nei crepacci della Montagna li guardano pieni d'invidia. Un mito
analogo lo si ritrova anche fra i Calmucchi e i Buriati.
Varie idee
religiose sono implicate nel simbolismo dell'Albero del Mondo. Da un lato, esso
rappresenta l'Universo in continuo processo di rigenerazione, la sorgente
inesauribile della vita cosmica, il ricettacolo per eccellenza del sacro
(perché è nel «Centro» che si raccoglie il sacro celeste, ecc.); dall'altro,
l'Albero simboleggia il Cielo o l'insieme dei Cieli planetari. Torneremo fra un
momento sull'Albero quale simbolo dei cieli planetari, questo simbolismo avendo
una parte essenziale nello sciamanismo centro-asiatico e siberiano. Importa
però ricordare fin d'ora che in numerose tradizioni primordiali l'Albero
Cosmico, esprimente la sacralità stessa del mondo, la sua fecondità e la sua
perennità, ha relazione con le idee di creazione, di fertilità e di iniziazione
epperò, in ultima istanza, con lo stesso concetto della realtà assoluta e
dell'immortalità. Cosi l'Albero del Mondo diviene anche un Albero della Vita e
dell'Immortalità. Arricchito da innumerevoli equivalenti mitici e da simboli
complementari (la Donna, la Fonte, il Latte, gli Animali, i Frutti, ecc.),
l'Albero Cosmico ci si presenta sempre come lo stesso ricettacolo della vita e
come il signore dei destini. Abbiamo già accennato ad un possibile
modello iranico: l'Albero Gaokèrèna che cresce in un'isola del lago Vurukasha e
vicino al quale si trova lo scorpione mostruoso creato da Arimane. Quanto al
mito mongolo, esso è naturalmente d'origine indu: Zambu =Jambu. Cfr. anche
l'Albero di Vita (= Albero cosmico) della tradizione cinese, albero che cresce
su di un monte e le cui radici si sprofondano nell'Inferno
Sono, queste,
idee antichissime, perché le si ritrovano fra numerosi popoli «primitivi»,
nel quadro di un simbolismo lunare ed iniziatico. Ma esse sono state
frequentemente modificate e sviluppate, il simbolismo dell'Albero Cosmico
essendo, nei suoi vari aspetti, quasi inesauribile. Non v'è dubbio che
influenze sud-orientali abbiano notevolmente contribuito a dare alle mitologie
delle popolazioni dell'Asia centrale e settentrionale il loro aspetto attuale.
Soprattutto l'idea dell'Albero Cosmico quale serbatoio delle anime e «Libro dei
destini» sembra essere stata importata da civiltà più evolute. In effetti
l'Albero del Mondo vien concepito come un Albero che è vivente e che fa vivere.
Per gli Yakuti nell'«ombellico d'oro della Terra» cresce
un albero ad otto rami: è una specie di Paradiso primordiale, perché fu là che
nacque il primo uomo il quale fu nutrito col Latte di una Donna uscita a metà
dal tronco dell'Albero stesso. Come lo nota Harva, è difficile credere che una
simile imagine possa essere stata inventata dagli Yakuti, dato l'aspro clima
della Siberia settentrionale. I prototipi che vi corrispondono si trovano
invece nell'Oriente antico, in India (ove Yama, il primo uomo, beve insieme
agli dèi presso ad un albero miracoloso - Rig-Veda,
X, 135, 1) e nell'Iran (Yima sulla Montagna cosmica dispensa l'immortalità agli
uomini e agli animali - Y'asna, 9, 4;
Yidéodar, 2, 5).
I Goldi, i Dolgani
e i Tungusi dicono che le anime dei bambini, prima della nascita, stanno posate
come uccellini sui rami dell'Albero Cosmico e che è là che gli sciamani vanno a
cercarle (Harva). Questo tema mitico, che abbiamo già veduto figurare nei sogni
iniziatici dei futuri sciamani, non è proprio alla sola Asia centrale e
settentrionale; ad esempio, lo si ritrova anche in Africa e in Indonesia. Lo
schema cosmologico Albero-Uccello (= Aquila), o quello dell'Albero con
l'Uccello sulla cima e la Serpe alle sue radici, benché sia specifico dei
popoli dell'Asia centrale e dei Germani, è probabilmente di origine orientale:
ma, di fatto, un tale simbolismo appare già in vestigia preistoriche.
Un altro tema -
la cui origine, questa volta, è nettamente esogena - è quello dell'Albero-Libro-dei-destini.
Presso i Turchi Osmani l'Albero della Vita ha un milione di foglie e su
ciascuna di esse sta scritto il destino di un dato essere umano; ogni volta che
un uomo muore, una di queste foglie cade (Harva). Gli Ostiachi credono che una
Dea, seduta su di una Montagna celeste a sette gradini, alla nascita di ogni
uomo ne inseriva la sorte su di un albero a sette rami. La stessa credenza la
si ritrova fra i Batachi, ma siccome tanto fra i Turchi che fra i Batachi l'uso
della scrittura è abbastanza recente, l'origine orientale di quel mito è
evidente. Gli Ostiachi pensano anch'essi che gli dèi cerchino l'avvenire di
ogni nascituro in un libro del Destino; secondo le leggende dei Tartari
siberiani, sette dèi scrivono in un «Libro della Vita» il destino del neonato.
Ma tutte queste imagini derivano dalla concezione mesopotamica dei sette cieli
planetari considerati come un Libro del Destino. Ne abbiamo qui ricordato il
contesto perché lo sciamano, quando raggiunge la sommità dell'Albero Cosmico
nell'ultimo dei Cieli, in un certo modo anche lui la delle domande circa
«l'avvenire» della comunità e il «destino» del- 1'«anima».
Secondo certe tribù africane, nel Cielo v'è un albero su cui si trovano i
bambini: Dio li coglie e li getta sulla terra (Baumann); sul mito africano
dell'origine dell'uomo dagli alberi. La prima coppia d'Antenati è nata, secondo
le credenze dei Daiachi, dall'Albero della Vita (Scharer); vedi anche oltre. Ma
bisogna sottolineare che l'imagine dell'anima (bambino)-uccello-Albero del
Mondo è specifica dell'Asia centrale e settentrionale.
L'identificazione
dell'Albero Cosmico a sette rami con sette cieli planetari è certamente dovuta
a influenze di origine mesopotamica. Ma, ripetiamolo, ciò non vuol dire che la
nozione dell'Albero Cosmico = Asse del Mondo sia i Turco-Tartari che le altre
popolazioni siberiane la abbiano conosciuta solo in base ad influenze
orientali. L'ascesa al Cielo lungo l'Asse del Mondo è una idea universale e
arcaica, anteriore all'idea della traversata delle sette regioni celesti (= dei
sette cieli planetari), idea che ha potuto diffondersi nell'Asia centrale solo
in un periodo di molto posteriore alle speculazioni mesopotamiche sui sette
pianeti. È un fatto noto che il valore religioso del numero 3 - simboleggiante
le tre regioni cosmiche - ha preceduto quello attribuito al numero 7. Si parla
anche di 9 cieli (e di nove dèi, di nove rami dell'Albero Cosmico e cosi via),
numero mistico che va verosimilmente spiegato con 3 X 3 e che è quindi da considerare
come parte di un simbolismo più arcaico di quello cui rimanda il numero 7, di
origine mesopotamica.
Lo sciamano
monta su di un albero o su di un palo nel quale sono stati intagliati sette o
nove tapty, rappresentanti
altrettanti livelli celesti. Come l'ha notato Anochin, gli «ostacoli» (pudak) da vincere sono, in realtà, i
cieli nei quali lo sciamano deve penetrare. Quando gli Yakuti fanno dei
sacrifici cruenti, i loro sciamani drizzano allo scoperto un albero con nove
gradini (tapty), su cui poi salgono,
per portare l'offerta fino a Ai-tojon. L'iniziazione degli sciamani Sibo
(affini ai Tungusi) richiede, come si è visto, la presenza di un albero con
varie biforcazioni; un altro, più piccolo, con nove tapty intagliati sul suo
tronco, vien conservato dallo sciamano nella sua yurta (Harva). È, questo,
ancora un simbolo per la sua capacità di viaggiare estaticamente nelle regioni
celesti.
Abbiamo visto
che i Pilastri Cosmici degli Ostiachi hanno sette incisioni. I Voguli pensano
che il Cielo lo si raggiunge salendo su per una scala a sette gradini. In tutta
la Siberia sudorientale la concezione dei sette cieli è generale. Ma non è la
sola attestata: l'imagine dei nove livelli celesti od anche di sedici,
diciassette e perfino trentatré cieli non è meno diffusa in tale area. Come lo
vedremo fra poco, il numero dei cieli non sta necessariamente in rapporto con
quello degli dèi; le correlazioni fra il pantheon e il numero dei cieli appaiono
anzi spesso alquanto forzate.
Gli Altaici
parlano tanto di sette che di dodici, sedici o diciassette cieli (Radlov);
presso i Teleuti l'albero sciamanico reca sedici incisioni, che rappresentano
altrettanti livelli celesti (Harva). Nel cielo più alto abita Tengere Kaira
Khan, «l'Imperatore misericordioso Cielo», e nei tre piani inferiori si
trovano i tre principali dèi da lui prodotti con una specie di emanazione:
Bai Ulgan ha la
sua sede nel sedicesimo, su di un trono d'oro posto alla sommità di un monte
parimenti d'oro; Ksyùgan Tengere, «il Fortissimo», nel nono (non vien
fornito nessun ragguaglio circa gli abitanti dei cieli dal quindicesimo al
decimo); Mergen Tengere, «l'Onnisciente», sta nel settimo cielo, dove si
trova anche il Sole. Negli altri piani ancor più bassi abita il resto degli dèi insieme a
numerose figure semi-divine (Radlov).
Fra questi
stessi Tartari dell'Altai, Anochin ha anche accertato una tradizione affatto
diversa: Bai Ulgan, il Dio supremo, abita il più alto cielo - qui, il settimo;
Tengere Kaira Khan in questo pantbeon non ha più parte alcuna (abbiamo già
rilevato come egli stia per scomparire dal l'attualità religiosa); i sette
figli e le nove figlie di Ulgììn abitano nei Cieli, ma non vien precisato in
quali.
Un gruppo di sette
o nove figli (o «servitori») del dio celeste ricorre spesso nell' Asia centrale
e settentrionale, fra gli Ugri non meno che fra i Turco-Tartari. I Voguli
conoscono sette figli del Dio, gli Ostiachi Vasiugani parlano di sette dèi
distribuiti nei sette Cieli: nel più alto di essi sta Num-tòrem, gli altri
sette dèi son chiamati «i Guardiani del Cielo» (Tòremkarevel) o «gli interpreti del Cielo»». Un gruppo di sette
dèi supremi lo si incontra anche fra gli Yakuti. Nella mitologia mongola si
parla invece di «nove figli di Dio» o «Servi tori di Dio», che sono, ad un
tempo, dèi protettori (sulde tengri)
e dèi guerrieri. I Buriati conoscono anche i nomi di questi nove figli del Dio
supremo, nomi che però variano da una regione all'altra. Il numero nove ricorre
spesso nei rituali dei Ciuvasci del Volga e dei Ceremissi (Harva).
Oltre a questi
gruppi di sette o nove dèi e alle corrispondenti imagini di sette o nove cieli,
nell'Asia centrale s'incontrano gruppi divini ancor più numerosi: come i
trentatré dèi (tengeri) che abitano Sumeru e il numero dei quali sembra essere
di origine indiana (Harva). Verbitzki ha ritrovato fra gli Altaici l'idea dei
trentatré cieli, idea accertata da Katanov anche fra i Soioti (Harva); tuttavia
questo numero è poco frequente e si può supporre che esso sia di recente
importazione, verosimilmente di origine indiana. Presso i Buriati il numero
degli dèi è addirittura triplicato: si hanno novantanove dèi, divisi in buoni e
malvagi e distribuiti per regioni: cinquantacinque dèi buoni nelle regioni a
sud-ovest e quarantaquattro malvagi nel Nord-Est. Questi due gruppi di dèi si
fanno guerra già da molto tempo. In altri tempi anche i Mongoli conoscevano
novantanove tengri (Harva). Ma né i
Buriati, né i Mongoli sanno dirci qualcosa di preciso su questi dèi, i cui nomi
sono oscuri e artificiali.
Va tuttavia
ricordato che la credenza in un Dio celeste supremo è molto antica e originaria
nell' Asia centrale e nelle regioni artiche; altrettanto antica è la credenza
nei «figli di Dio», benché il numero sette tradisca una influenza orientale e
quindi recente. È probabile che l'ideologia sciamanica abbia avuto una sua
parte nella diffusione del numero sette. Gahs pensa che il complesso mitico-culturale
dell'Antenato lunare stia in relazione con gli idoli a sette incisioni e con
l'Albero-Umanità a sette rami, epperò anche con i sacrifici cruenti periodici e
«sciamanistici», di origine meridionale, che sono subentrati a
anteriori sacrifici incruenti (offerta della testa e delle ossa agli dèi
celesti supremi). Come pur stiano le cose a tale proposito, presso i Samoiedi
Yuraki lo Spirito della Terra ha sette figli e gli idoli (sjaadai) hanno sette volti, o un volto con sette incisioni, o
semplicemente sette incisioni; e questi sjaadai
hanno relazione con gli alberi sacri. Si è visto che lo sciamano ha un costume
ave sono attaccati sette campanelli, che rappresentano le voci delle Sette
Figlie celesti (cfr. Mikhailovski). Presso gli Ostiachi dello Jenissei il
futuro sciamano si ritira nella solitudine, si cuoce uno scoiattolo volante, ne
fa otto parti, ne mangia sette e getta via l'ottava. Sette giorni dopo torna
nello stesso posto e ottiene un segno decisivo per la sua vocazione. Il numero
mistico 7 ha verosimilmente una parte importante nella tecnica e nell'estasi
dello sciamano, inquantoché presso i Samoiedi Yuraki il futuro sciamano resta
disteso sette giorni e sette notti in uno stato d'incoscienza, mentre gli
spiriti lo fanno a pezzi e procedono all'iniziazione (Lehtisalo); gli sciamani
ostiachi e lapponi mangiano dei funghi con sette macchie per entrare in trance; lo sciamano lappone riceve dal
suo maestro un fungo a sette tacche (Itkonen); lo sciamano samoiedo yurako
possiede un guanto a sette dita (Lehtisalo); lo sciamano ugro ha sette spiriti
ausiliari (Karjalainen) e via dicendo. Si è potuto dimostrare che presso gli
Ostiachi e i Voguli l'importanza del numero sette è dovuta a precise influenze
dell'Oriente antico - e non v'è dubbio che per il resto dell'Asia centrale e
settentrionale può dirsi la stessa cosa.
Quel che importa
per la nostra ricerca è che lo sciamano sembra avere una conoscenza più diretta
di tutti questi cieli epperò di tutti gli dèi e semi-dèi che vi abitano.
Infatti, se egli può penetrare nelle varie regioni celesti è anche perché viene
aiutato dai loro abitanti: prima di poter parlare a Bai Ulgan egli conversa con
le altre entità celesti e chiede il loro appoggio e la loro protezione. Lo
sciamano dà prova di una ugual conoscenza sperimentale anche per quel che
concerne le regioni del mondo sotterraneo. L'ingresso dell'inferno dagli
Altaici vien concepito come un'«apertura per il fumo» della terra
e, naturalmente, esso si trova nel «Centro» (verso il Nord, secondo i miti
dell'Asia centrale, che equivale al Centro del Cielo (Harva): infatti, come è
noto, il «Nord» viene assimilato al «Centro» in tutta l'area asiatica,
dall'India alla Siberia). Per una specie di simmetria, per l'Inferno sono stati
concepiti tanti piani quanti ne ha il Cielo: tre secondo i Caragassi e i Soioti
che conoscono tre cieli; sette o nove per la maggior parte dei popoli dell'Asia
centrale e settentrionale. Abbiamo visto che lo sciamano altaico oltrepassa
successivamente i sette «ostacoli» (pudak)
dell'Inferno. Infatti è sempre lui, e lui soltanto, a possedere una conoscenza
sperimentale degli Inferni, ave ha il potere di penetrare ancor da vivo, allo
stesso modo che sa salire e scendere nei sette o nove cieli.
Sciamanismo e cosmologia
nell'area oceanica
Senza aver la
pretesa di confrontare due fenomeni così complessi, come lo sono da una parte
lo sciamanismo del Nord e del Centro dell'Asia, e dall'altro lo sciamanismo
dell'Indonesia e dell'Oceania, passeremo rapidamente in rassegna alcune
tradizioni dell'area sud-orientale asiatica allo scopo di mettere in rilievo
due punti: 1) il ricorrere, anche in queste regioni, del simbolismo arcaico
delle tre zone cosmiche e dell'Asse del Mondo; 2) le influenze indiane
(individuabili soprattutto in base al significato cosmologico e alla funzione
religiosa che vi ha il numero 7) innestatesi sul fondo della religione
autoctona. Ci sembra infatti che i due blocchi culturali, quello dell'Asia
centrale e settentrionale da una parte, quello dell'Indonesia e dell'Oceania
dall'altra, presentino, a tale riguardo, tratti comuni dovuti al fatto che
l'uno come l'altro han visto le loro più antiche tradizioni religiose
modificarsi sensibilmente in seguito all'irradiarsi di civiltà superiori. Qui
non si tratta di fare un'analisi storico-culturale dell'area indonesiana e
oceanica, un tale assunto andando troppo di là dal nostro argomento. C'importa
soltanto fissare qualche punto atto a mostrarci da quali ideologie si sia
partiti e con l'aiuto di quali tecniche abbia potuto svilupparsi il locale
sciamanismo.
Fra le
popolazioni più arcaiche della penisola di Malacca, e cioè fra i Pigmei Semang,
ritroviamo il simbolo dell'Asse del Mondo: una roccia enorme, Batu-Ribn si erge
sul centro del mondo; sotto ad essa sta l'Inferno. Una volta su Batu-Ribn
s'innalzava verso il Cielo un tronco d'albero. Secondo informazioni raccolte da
Evans, si vuole che una colonna di pietre, Batu Herem, faccia da sostegno al
Cielo: la sua parte superiore attraversa la volta celeste e, uscendo di là dal
cielo di Taperu, raggiunge una regione chiamata Ligoi, dove gli Shinoi
risiedono e si divertono. L'Inferno, il centro della Terra e la «porta» del
Cielo si trovano sullo stesso asse, ed è lungo questo asse che una volta si
poteva passare da una regione cosmica all'altra. Si stenterebbe a credere
nell'autenticità dì questo schema cosmologico fra i Pigmei Semeng se non si
avesse ragione di credere che una teoria del genere era stata già abbozzata fin
da tempi preistorici.
Quando
esamineremo le credenze relative ai guaritori semang e alle loro tecniche
magiche avremo occasione di riscontrarvi alcune influenze malesi (ad esempio,
il potere di trasformarsi in tigre). Traccie dello stesso genere si possono
altresì rinvenire nelle loro idee
intorno al destino dell'anima nell'aldilà. Alla morte l'anima lascia il corpo
per il tallone e si dirige verso Oriente, fino a raggiungere il mare. Per sette
giorni i trapassati possono ritornare ancora nel loro villaggio; dopo tale
termine quelli fra loro che han condotto una vita onesta vengono accompagnati
da Mampes in un'isola miracolosa, Belet; per giungervi, attraversano un ponte,
a forma di montagne-russe, gettato al disopra del mare. Il ponte si chiama
Balan Basham; Basham è una specie di felce che cresce all'altra estremità del
ponte; là s'incontra una donna shinoi,
Shinoi-Sagar, che si orna la testa con delle felci Basham e i morti debbon fare
lo stesso prima di metter piede sull'isola Belet. Mampes è il guardiano del
ponte e viene concepito come un Negrito gigantesco; è lui che mangia le offerte
fatte in memoria dei morti. Arrivati all'isola, i trapassati si dirigono verso
l'Albero Mapik (l'albero si trova verosimilmente nel centro dell'isola) ove
sono radunati tutti gli altri defunti. Ma i nuovi venuti non possono ornarsi
coi fiori dell'albero né gustarne i frutti prima che i morti che li hanno
preceduti abbiano loro spezzate le ossa e abbiano loro voltati gli occhi nelle
orbite, in modo che essi guardino verso l'interno. Una volta realizzate queste
condizioni, essi diventano dei veri spiriti (kemoit) e possono mangiare i frutti dell'albero. Naturalmente,
questo è un albero miracoloso e la Sorgente della Vita; infatti fra le sue
radici si trovano dei semi gonfi di latte e si nascondono anche gli spiriti dei
bambini _ probabilmente si tratta delle anime di coloro che debbono ancora
nascere. Benché il mito raccolto da Evans taccia su questo punto, v'è da
pensare che i trapassati ridivengano dei bambini, preparandosi dunque ad una
nuova esistenza in terra.
Noi dunque
ritroviamo il motivo dell'Albero della Vita, fra i rami dei quali si trovano le
anime dei fanciulli, motivo che sembra essere assai antico benché
appartenga ad un complesso religioso diverso da quello avente per centro il dio
Ta Pedn e il simbolismo dell'Asse del Mondo. Di fatto, in questo mito traspare'
da un lato la solidarietà mistica uomo-pianta, dall'altra si scorgono traccie di
una ideologia matriarcale, estranea al complesso arcaico cui si lega il tema di
un Dio supremo del Cielo, il simbolismo delle tre zone cosmiche, il mito di un
tempo delle origini in cui le comunicazioni fra la Terra e il Cielo erano
dirette e facili (mito del «Paradiso Perduto»). Inoltre il dettaglio, che i
trapassati per sette giorni ancora possono tornare al loro villaggio, dimostra
influenze ancor più recenti, indo-malesi.
Presso i Sakai
tali influenze sono più accentuate; questo popolo crede che l'anima lasci il
corpo dalla parte posteriore della testa e si diriga verso Occidente. Il morto
cerca di penetrare in Cielo per la stessa porta attraverso la quale vi entrano
le anime dei Malesi, ma, non riuscendovi, si avventura su di un ponte, Menteg,
gettato sopra una gigantesca caldaia d'acqua bollente (questo è un motivo
d'origine malese). Il ponte è costituito da un tronco d'albero senza scorza. Le
anime dei malvagi cadono nella caldaia. Yenang s'impadronisce di esse e le
brucia finché non ne resti che cenere; allora le pesa. Se le anime sono
divenute leggere le invia in Cielo, altrimenti continua a bruciarle a che il
fuoco le purifichi.
I Besisi del
distretto Kuala Langat di Selangan parlano, come quelli di Bebrang, di un'Isola
dei Frutti alla volta della quale partono le anime dei morti. Quest'isola ha lo
stesso valore dell'Albero Mapik dei Semang. In essa gli uomini che invecchiano
possono ridivenire fanciulli e ricominciare a crescere. È il mito
diffusissimo del «paradiso» ove la vita si continua indefinitamente,
perché ricomincia sempre di nuovo. Cfr. Tuma, l'isola degli spiriti (= morti)
dei Melanesiani di Trobriand: «Quando essi (gli spiriti) si accorgono di
invecchiare, abbandonano la loro pelle floscia, aggrinzita, e vengon fuori con
un corpo coperto da una pelle tenera, con ricci neri, denti sani, pieni di
vigore. È così che la loro vita è un perpetuo ricominciare e ringiovanire.
Secondo i Besisi
l'Universo si compone di sei regioni superiori, della Terra e di sei regioni
sotterranee (Evans) - sono vedute che tradiscono una mescolanza dell'antica
concezione tripartita e delle idee cosmologiche indo-malesi.
Presso i Jakun
si usa deporre sulle tombe un palo lungo cinque piedi, che ha quattordici
incisioni: sette sull'una faccia, in senso ascendente, e sette sull'altra, in
senso discendente; il palo vien chiamato «scala dell'anima». Avremo occasione
di tornare sul simbolismo della scala; per ora, limitiamoci a rilevare la
presenza delle sette incisioni le quali, a prescindere che i Jakun se ne
rendano conto o no, rappresentano i sette livelli celesti attraverso cui
l'anima deve passare: e ciò prova la pene trazione di idee di origine orientale
anche fra popolazioni cosi «primitive» come i Jakun.
I Dusun del
Borneo settentrionale pensano che il cammino dei morti vada su per una montagna
ed attraversi un fiume. La parte che ha la montagna nelle mitologie funerarie è
sempre da spiegarsi in base al simbolismo dell'ascensione ed implica la
credenza in una dimora celeste dei trapassati. In un altro caso vedremo che si
crede che i morti «si aggrappino ai monti» proprio come fanno gli sciamani o
gli eroi nelle loro ascensioni iniziatiche. Quel che già qui è importante
rilevare è che presso tutte le popolazioni passate ora in rassegna lo
sciamanismo appare avere un'intima connessione con le credenze funerarie
(Montagna, Isola paradisiaca, Albero di Vita) e con le concezioni cosmologiche
(Asse del Mondo = Albero cosmico, le tre regioni cosmiche, i sette cieli,
ecc.). Esercitando la sua professione di guaritore o di psicopompo lo sciamano fa
uso delle conoscenze tradizionali relative alla topografia infernale (sia,
questa, celeste, marina o sotterranea), conoscenze che in ultima analisi
procedono da una cosmologia arcaica, sia pure spesso arricchita o alterata da
influenze esotiche.
I Daiachi Ngadju
del Borneo meridionale hanno una concezione più particolare dell'Universo;
infatti essi, pur ammettendo l'esistenza di un mondo superiore e di un mondo
inferiore, non considerano il nostro mondo come un terzo termine, bensì come la
totalità che riflette e rappresenta anche gli altri due. Peraltro, una tale
concezione rientra nell'ideologia primordiale secondo la quale le cose della
Terra non sono che una replica di modelli o esemplari esistenti nel Cielo o
nell'aldilà. Vale aggiungere che la teoria delle tre zone cosmiche non va a
contraddire l'idea dell'unità del mondo. I numerosi simbolismi che esprimono la
similitudine esistente fra i due mondi e le vie di comunicazione fra l'uno e
l'altro di essi esprimono in pari tempo la loro unità, il loro far parte di un
solo Cosmos. La tripartizione delle
zone cosmiche - motivo che, per le ragioni suddette, abbiamo tenuto a mettere in
rilievo - non esclude affatto né l'Unità profonda dell'Universo, né il suo
apparente «dualismo».
La mitologia dei
Daiachi Ngadju è alquanto complicata; pure vi si può sceverare una dominante,
che è proprio quella di un «dualismo cosmologico». L'Albero del Mondo
è anteriore a tale dualismo, perché esso sta a rappresentare il Cosmos nella
sua totalità (Scharer); esso simbolizza anche l'unificazione delle due divinità
supreme. La creazione del mondo sarebbe il risultato del conflitto fra i due dèi
rappresentanti i due principi i polari: del principio maschile (la regione
superiore, l'Uccello) e di quello femminile (cosmologicamente inferiore,
rappresentato dalle Acque e dalla Serpe). Se nella lotta fra queste divinità
antagoniste l'Albero del Mondo (cioè la totalità primordiale) va distrutto;
tale distruzione non è definitiva: archetipo di ogni attività umana creatrice,
l'Albero del Mondo non è distrutto che per poter rinascere. In questi miti noi
inclineremmo a riconoscere sia l'antico tema cosmologico della
ierogamia Ciel-oTerra, tema che, su di un altro piano, è parimenti espresso dal
simbolismo degli opposti complementari Uccello-Serpe, sia la struttura
«dualista» delle antiche mitologie lunari (l'opposizione dei contrari,
l'alternanza di distruzione e di creazione, l'eterno ritorno). Del resto, non
v'è dubbio che influenze ìndù si siano aggiunte posteriormente all'antico fondo
autoctono, benché spesso tali influenze si siano limitate alla nomenclatura
degli dèi.
Quel che a noi
importa soprattutto rilevare è che l'Albero del Mondo è presente in ogni
villaggio, anzi in ogni casa daiaca (cfr. Schlirer); e quest'albero vien
raffigurato a sette rami. Che esso simbolizzi l'Asse del Mondo epperò la via
verso il Cielo, ciò lo prova il fatto che un analogo «Albero del Mondo» lo si
trova nei «battelli dei trapassati» indonesiani, i quali trasporterebbero i
morti nell'aldilà celeste. Quest'albero, disegnato a sei rami (sette con la
cima) e con la luna e il sole ai suoi lati, ha talvolta la forma di una lancia
ornata dagli stessi simboli usati per la «scala» sulla quale lo sciamano sale
verso i Cieli per riportarne l'anima fuggitiva del malato.
L'Albero-Lancia-Scala raffigurato sulle «barche dei trapassati» non è che una
replica dell'Albero miracoloso che cresce nell'aldilà e che le anime incontrano
nel loro viaggio verso la residenza del dio Devata Sangiang. Gli sciamani
indonesiani (ad esempio, presso i Sakai, i Kubu e i Daiachi) posseggono
parimenti un albero di cui si servono come d'una scala per raggiungere il mondo
degli spiriti e cercare le anime dei malati. Ci potremo rendere conto della
parte che ha l'Albero-Lancia quando esamineremo le tecniche dello sciamanismo
indonesiano. Di passata, rileviamo che l'albero sciamanico dei Daiachi Dusun,
che serve per le cerimonie di guarigione, ha sette rami (Steinmann).
I Batachi, le
cui idee religiose son derivate in gran parte dall'India, pensano che
l'universo sia diviso in tre regioni: il Cielo a sette piani dove risiedono gli
dèi, la Terra abitata dagli uomini e l'Inferno, sede dei demoni e dei
trapassati. Anche qui s'incontra il mito di un'èra paradisiaca, nella quale il
Cielo era il più vicino alla Terra ed esistevano comunicazioni continue fra gli
dèi e gli umani: ma, causa l'orgoglio dell'uomo, il cammino che conduce al
mondo celeste è stato interrotto. Il dio supremo, Mula djadi na bolon («Colui che ha in se stesso il proprio
inizio»), creatore dell'universo e degli altri dèi, abita nel più alto dei
cieli e, come tutti gli dèi supremi dei «primitivi», sembra esser
divenuto un deus otiosus: a lui non
vengono offerti sacrifici. Una Serpe cosmica vive nelle regioni sotterranee e
alla fine distruggerà il mondo.
I Minangkabau di
Sumatra hanno una religione ibrida, a base animistica, ma fortemente
influenzata dall'induismo e dall'islamismo. L'Universo, per essi, avrebbe sette
piani. Dopo la morte, l'anima deve passare su di un fil di rasoio teso sopra un
inferno di fuoco: i peccatori cadono fra le fiamme, mentre i buoni salgono in
Cielo, ove v'è un grande Albero. E restano là, fino alla resurrezione finale.
Qui si può riconoscere facilmente la mescolanza di temi primordiali (il ponte,
l'Albero di Vita ricettacolo e nutrimento delle anime) e di influenze esotiche
(il fuoco dell'Inferno, l'idea della resurrezione finale).
I Nias conoscono
un albero cosmico da cui si origina ogni cosa. I morti, per salire in Cielo,
passano per un ponte: sotto il ponte sta spalancato l'abisso dell'Inferno.
All'ingresso del Cielo si trova un guardiano, con scudo e lancia: un gatto l'aiuta
per far precipitare le anime colpevoli nelle acque infernali.
Quanto
all'Indonesia, gli esempi che abbiamo riferito potranno bastare. Su tutti
questi temi mitici (ponte dei morti, ascensione, ecc.) e sulle tecniche
sciamaniche che, in un certo modo, vi si connettono, avremo da tornare. Per ora
ci basta l'aver accertato, in almeno una parte dell'area oceanica, la presenza
di un complesso cosmologico e religioso di una assai remota antichità,
complesso che è stato poi variamente modificato per influenza delle idee
indiane e, in genere, asiatiche.
Capitolo 9: Lo sciamanismo nell'America
del Nord e del Sud
Lo sciamanismo tra gli
eschimesi
Quali pur siano
le relazioni storiche che possano essere esistite fra l'Asia settentrionale e
l'America del Nord, non v'è ombra di dubbio quanto alla continuità culturale
degli Eschimesi e dei popoli artici attuali, asiatici ed anche europei (i
Ciukci, gli Yakuti, i Samoiedi e i Lapponi). Uno dei principali elementi di
questa continuità culturale è proprio costituito dallo sciamanismo: gli
sciamani nella vita religiosa e sociale degli Eschimesi hanno la stessa parte
capitale che si trovano ad avere fra i vicini asiatici di queste popolazioni.
Si è già visto che le loro iniziazioni riproducono dappertutto, nelle grandi
linee, l'iniziazione ad ogni vita mistica: vocazione, ritiro nella solitudine,
alunnato presso un maestro, acquisto di uno o più spiriti familiari, rituale
simbolico di morte e resurrezione, linguaggio 'segreto. Come subito vedremo, le
esperienze estatiche dell'angakok
eschimese comprendono il volo mistico e il viaggio nelle profondità marine,
cioè le stesse imprese che caratterizzano lo sciamanismo nord-asiatico. Si
notano anche i rapporti pìu intimi fra lo sciamano
eschimese e la divinità celeste o il dio cosmocrate che a quella fu sostituito
in seguito. Esistono tuttavia certe differenze minori rispetto all' Asia di
nordest, come l'assenza, nello sciamanismo eschimese, di un costume rituale
propriamente detto e del tamburo.
Le principali
prerogative dello sciamano eschimese sono la guarigione, il viaggio sottomarino
alla sede della Madre degli Animali per ottenere abbondante selvaggina e il bel
tempo grazie ai suoi contatti con Sila, oltre ad azioni intese a rimuovere la
sterilità delle donne. Fra gli Eschimesi si ritiene che le malattie siano
causate o dalla violazione dei tabù - eroe da un disordine nel dominio del
sacro - oppure dal ratto di un'anima da parte di un morto. Nel primo caso lo
sciamano cerca di eliminare la contaminazione per mezzo di confessioni
collettive; nel secondo, egli intraprende il viaggio estatico in Cielo o nelle
profondità marine per cercare l'anima del malato e ricondurla al suo corpo. E
sempre nei suoi viaggi estatici che l'angakok avvicina Takànakapsàluk in fondo
all'oceano o Sila nei Cieli. Del resto, egli è in genere uno specialista del
volo magico. Alcuni sciamani hanno visitato la Luna ed altri han fatto il giro
della Terra volando. Le tradizioni dicono che gli sciamani volano come gli
uccelli, distendendo le braccia come gli uccelli fanno con le ali. Gli angàkut
conoscono inoltre l'avvenire, formulano profezie, annunciano i cambiamenti
atmosferici, eccellono in prodezze magiche.
Tuttavia anche
gli Eschimesi ricordano tempi in cui gli angàkut
erano assai più potenti di oggi (Rasmussen). «Io stesso sono uno sciamano -
disse qualcuno a Rasmussen - ma non sono nulla in confronto a mio nonno,
Titqatsaq. Egli viveva nei tempi in cui uno sciamano poteva discendere fino
alla Madre degli Animali del mare, volare fino alla Luna o far viaggi
attraverso l'atmosfera». È significativo incontrare anche qui questa concezione
dell'attuale decadenza degli sciamani, da noi già ritrovata in tante altre
culture.
Lo sciamano
eschimese non solo sa pregare Sila per ottenere il bel tempo (cfr. Rasmussen),
ma è anche capace di arrestare le tempeste mediante un rituale alquanto
complicato, che implica sia l'assistenza degli spiriti ausiliari e l'evocazione
dei morti, sia un duello con un altro sciamano durante il quale questi vien
ripetutamente «ucciso» e «risuscitato». Quale pur sia il suo fine, la seduta
sciamanica ha sempre luogo di sera, alla presenza di tutto il villaggio. Gli
spettatori incitano di tempo in tempo l'angakok
con canzoni stridenti e con grida. Lo sciamano, per evocare gli spiriti, canta
a lungo canti composti nel «linguaggio segreto», Caduto in trance, egli parla con una voce alta e
strana che non sembra più esser la sua. I canti improvvisati durante la trance lasciano talvolta trasparire
alcune delle esperienze mistiche dello sciamano:
Tutto il mio corpo è fatto solo di occhi! Guardatelo!
Non temete!
lo vedo da tutte le parti!
canta uno sciamano
Ma oltre a
queste sedute rese necessarie da problemi collettivi (tempeste, mancanza di
selvaggina, informazioni sul tempo, ecc.) o da malattie (le malattie, in un
modo o nell'altro, minacciano anch'esse l'equilibrio della comunità), lo
sciamano eschimese intraprende viaggi estatici in Cielo, nel Paese dei Morti,
per puro piacere (for joy alone).
Come è d'uso quando si prepara per un'ascensione, egli si fa legare e poi in
spirito se ne vola nell'atmosfera: qui s'intrattiene a lungo coi morti e, una
volta tornato in terra, riferisce circa la vita dei trapassati nel cielo
(Rasmussen). Ciò dimostra il bisogno che lo sciamano eschimese sente
dell'esperienza estatica in se stessa e spiega in pari tempo la sua
inclinazione per la solitudine e la meditazione, le sue lunghe conversazioni
con gli spiriti e il suo bisogno di quiete.
Generalmente, si
distinguono tre regioni per il soggiorno dei morti: il Cielo, un Inferno
situato immediatamente sotto la scorza terrestre ed un secondo Inferno situato
sotterra a grande profondità. Nel Cielo, come nel vero e profondo Inferno, i
morti conducono un'esistenza felice, godendo d'una vita di gioia e di
prosperità. La sola grande differenza con la vita terrestre è che laggiù le
stagioni son sempre il contrario della stagione della terra: quando qui è
inverno, nel Cielo e negli Inferni è estate, e viceversa. Solo nell'Inferno
sotterraneo situato immediatamente sotto la scorza terrestre, e riservato a
coloro che si son resi colpevoli di varie violazioni di tabù ed altresi ai
cacciatori mediocri, regnano carestia e disperazione (Rasmussen). Gli sciamani
conoscono perfettamente tutte queste regioni e quando un morto, temendo
d'affrontare da solo il cammino dell'aldilà, s'impossessa dell'anima d'un
vivente, l'angakok sa dove cercarla.
Talvolta il
viaggio dello sciamano nell'oltretomba ha luogo durante una trance catalettica avente tutti i
caratteri di una morte apparente. Uno sciamano dell'Alaska ebbe a dichiarare di
esser stato morto e di aver seguita per due giorni la via dei trapassati: era
una via ben battuta da tutti coloro che l'avevano preceduto. Camminando, udiva
continuamente pianti e lamenti e venne a sapere che erano i vivi che stavano
piangendo i loro morti. Giunse in un grande villaggio, simile in tutto a quelli
dei viventi. Là due ombre lo accompagnarono in una casa. Un fuoco ardeva in
mezzo all'ambiente e qualche pezzo di carne era stato messo ad arrostire sulla
brace - ma esse avevano occhi vivi che seguivano ogni movimento dello sciamano.
I suoi compagni gli ingiunsero di non toccare la carne (lo sciamano che
gustasse una volta i cibi del paese dei morti incontrerebbe gravi difficoltà
per ritornare in terra). Dopo essersi soffermato un certo tempo nel villaggio,
egli proseguì il suo cammino, raggiunse la Via Lattea, la percorse per un lungo
tratto e infine ridiscese nella sua tomba. Non appena raggiunta la tomba il suo
corpo ritornò in vita e lo sciamano, abbandonato il cimitero, rientrò nel
villaggio a raccontare le sue avventure. Si tratta, qui, di una esperienza
estatica il cui contenuto trascende la sfera dello sciamanismo propriamente
detto ma che, pur restando accessibile ad altri esseri umani privilegiati, è
molto frequente negli ambienti sciamanici.
Le discese agli
Inferni e le ascensioni al Paradiso celeste di cui è questione nelle gesta
degli eroi polinesiani, turco-tartari, nordamericani e d'altre aree, si integrano
in questa classe di viaggi estatici nelle zone interdette, e le mitologie
funerarie rispettive sono alimentate da prodezze del genere.
Tornando ora
agli sciamani eschimesi, le loro capacità estatiche permettono loro
d'intraprendere viaggi «in spirito» in qualsiasi regione cosmica. Essi, per
precauzione, si fanno sempre legare con corde, in modo di viaggiare soltanto
«in ispirito», di non essere trasportati in aria e sparire per
sempre. Adeguatamente legati, e talvolta separati dai presenti da una tenda,
essi cominciano con l'invocare i loro spiriti familiari, con l'aiuto dei quali
lasciano la terra e raggiungono la Luna, oppure penetrano nelle viscere della
terra e. nelle profondità dell'oceano. COSI uno sciamano degli Eschimesi Baffin
dal suo spirito familiare (in questo caso, un orso) fu portato nella Luna; là
si trovò dinanzi ad una casa la cui porta, formata dalle fauci di un tricheco,
minacciò di lacerare l'intruso (è il ben noto motivo dell'«entrata difficile»,
sul quale torneremo l. Essendo tuttavia riuscito a penetrare nella casa, vi
incontrò l'Vomo-della-Luna e sua moglie, il Sole. Dopo varie avventure ritornò
sulla terra e il suo corpo, che durante l'estasi era rimasto disanimato, dette
di nuovo segni di vita. Infine lo sciamano si sciolse dalle corde che lo
tenevano fermo e raccontò al pubblico le peripezie del suo viaggio. Il
liberarsi dello sciamano dalle corde con cui è strettamente legato costituisce,
come tanti altri fenomeni del genere, un problema di parapsicologia che qui non
possiamo trattare. Dal punto di vista da noi assunto - che è quello della
storia delle religioni - il liberarsi dalle corde è, al pari di tanti altri
«miracoli» sciamanici, espressione della condizione di «spirito» che lo
sciamano avrebbe conseguita grazie alla sua iniziazione.
Tali imprese,
compiute senza un motivo apparente, ripetono in una certa misura il viaggio
iniziatico disseminato di pericoli e comprendente, in particolare, il passaggio
per una «porta stretta» che resta aperta per un solo istante. Lo sciamano
eschimese prova il bisogno di tali viaggi estatici perché è soprattutto durante
la trance che si sente davvero se
stesso: l'esperienza mistica gli è necessaria perché è costitutiva della sua
stessa personalità.
Ma non sono solo
i viaggi «in ispirito» che lo conducono ad affrontare
tali prove iniziatiche. Gli Eschimesi essendo periodicamente terrorizzati dagli
spiriti malvagi, si ricorre agli sciamani per allontanarli. In casi del genere,
la seduta implica un'aspra lotta fra gli spiriti familiari dello sciamano e gli
spiriti malvagi (i quali possono essere sia spiriti della natura esasperati
dalla violazione dei tabù, sia le anime di certi morti). Talvolta lo sci amano
lascia la capanna e tornando ha le mani insanguinate (Rasmussen).
Quando sta per
entrare in trance lo sciamano fa i
movimenti di chi si immerge. Anche quando si ritiene che egli penetri nelle
regioni sotterranee, è come se egli s'immergesse e poi tornasse alla superficie
delle acque. Ad un ricercatore è stato raccontato che uno sciamano «riappare
tre volte prima di immergersi definitivamente». L'espressione usata più
comunemente per designare uno sciamano è «colui che scende in fondo al mare»
(Rasmussen). Come si è qui visto, le discese sottomarine sono figurate
simbolicamente sul costume di numerosi sciamani siberiani (piedi di anitra,
disegni di uccelli usi a tuffarsi nelle acque, ecc.). Infatti in fondo
all'oceano si trova la Madre degli animali marini, formula mitica della Grande
Dea delle Belve, sorgente e matrice della vita universale, dalla cui volontà
dipende l'esistenza della tribù. Per questo lo sciamano deve discendere
periodicamente nelle acque - per ristabilire il contatto spirituale con la
Madre degli Animali. Però - e lo abbiamo già accennato - la grande importanza
che questa ha nella vita religiosa della comunità e nell'esperienza mistica
dello sciamano non esclude affatto la venerazione di Sila, l'Essere supremo di
tipo celeste che anche lui regna sul tempo e scatena gli uragani e le tormente.
Per cui gli sciamani eschimesi non sembrano essere specializzati in discese
sottomarine o in ascensioni celesti: la loro professione implica l'esser capaci
sia delle une che delle altre.
La discesa da
Takànakapsàluk, «la Madre della Foca», viene intrapresa dietro richiesta
di un dato individuo in relazione sia a malattia che a sfortuna nella caccia,
nel qual caso lo sciamano viene retribuito. Ma talvolta accade che la
selvaggina manchi completamente e che l'intero villaggio sia minacciato dalla
carestia: allora tutti gli abitanti si riuniscono nell'abitazione ove ha luogo
la seduta e il viaggio estatico dello sciamano viene intrapreso in nome
dell'intera comunità. I presenti debbono slegarsi le cinture e i lacci e star
zitti, ad occhi chiusi. Per un certo tempo lo sciamano, che sta anche lui in
silenzio, respira profondamente; poi evoca gli spiriti ausiliari. Dopo che
questi sono arrivati lo sciamano si mette a mormorare: «Il cammino è aperto
dinanzi a me! Il cammino è aperto!». Infatti la terra si apre, ma
subito si richiude e lo sciamano deve ancora lungamente combattere contro forze
sconosciute. Alla fine esclama: «Ora SI che il cammino è aperto!».
Allora gli spettatori esclamano in coro: «Che il cammino resti aperto dinanzi a
lui, che vi sia un cammino dinanzi a lui!». Si sente, dapprima sotto il
letto, poi più lontano, sul passaggio, un grido di: halala-he-he-he,
halala-he-he-he! È il segno che lo sciamano è già partito. Il grido si fa
sempre più lontano, fino a svanire del tutto.
Nel frattempo
gli invitati cantano in coro, ad occhi chiusi, e talvolta accade che le vesti
dello sciamano, da lui deposte prima della seduta, si animino e si mettano a
volare per la casa, al disopra dei presenti. Si odono anche dei sospiri e la
respirazione profonda di persone morte da tempo; sono gli sciamani defunti,
venuti per aiutare il loro collega nel suo pericoloso viaggio. E i sospiri e i
respiri sembrano venire da molto lontano, da sotto le acque, come se fossero di
animali marini.
Giunto in fondo
all'oceano, lo sciamano si trova dinanzi a tre grandi pietre in continuo
movimento che gli sbarrano la via: egli deve passare fra di esse, a rischio di
restare schiacciato (ancora una imagine del «passaggio stretto» che interdice
l'accesso al piano superiore dell'essere a chiunque non sia «iniziato»,
cioè capace di comportarsi da «spirito»). Oltrepassato
questo ostacolo, lo sciamano segue un sentiero che lo conduce ad una specie di
baia; su di una collina si erge la casa di Takànakapsàluk, fatta di pietra e
con l'entrata assai stretta. Egli ode soffiare gli animali marini, senza però
vederli. Un cane che digrigna i denti custodisce l'entrata; per tutti coloro
che se ne spaventano esso è pericoloso, ma lo sciamano gli passa sopra e il
cane capisce subito di avere a che fare con un potente mago (è agli sciamani ordinari
che si presentano tutti questi ostacoli; quelli che sono davvero forti giungono
in fondo al mare, presso Takànakapsàluk, direttamente, immergendosi al disotto
della loro tenda o capanna di neve, come scivolando in un tubo).
Se la dea è in
collera con gli umani, si trova un gran muro dinanzi alla sua dimora, che lo
sciamano deve abbattere a spallate. Altri dicono che la casa di Takànakapsàluk
non ha tetti affinché la dea possa vedere meglio - da dove si trova, vicino al
fuoco - le azioni degli uomini. Bestie marine d'ogni specie sono riunite in uno
stagno a destra del camino, e si sentono le loro grida e il loro soffiare. Il
viso della dea è celato dai capelli ed essa appare sporca e trascurata: ciò,
per i peccati degli uomini, che quasi la fanno ammalare. Lo sciamano dovrà
andarle vicino, prenderla per la spalla e pettinarla (perché la dea non ha dita
per pettinarsi da sé). Ma, prima, vi è ancora un ostacolo da superare: il padre
di Takànakapsàluk, scambiando il nuovo venuto per un morto diretto al Paese
delle Ombre, vuol mettergli le mani addosso. Ma lo sciamano grida: «Sono di
carne e di sangue!» e riesce a passare.
Mentre lo
sciamano pettina Takànakapsàluk le dice: «Gli uomini non hanno più foche!».
La dea risponde, nella lingua degli spiriti: «Gli aborti segreti delle donne e
le violazioni dei tabù di coloro che mangiano carne bollita hanno chiuso la via
agli animali!». Lo sciamano usa ogni mezzo per placare la dea, la
quale finisce con l'aprire lo stagno e col lasciar liberi gli animali. Si
possono vedere i loro movimenti in fondo al mare e poco dopo si sente la
respirazione affannosa dello sciamano, come di chi tornasse da sotto la
superficie delle acque. Segue un lungo silenzio. Infine lo sciamano annuncia:
«Devo dire qualcosa!», e tutti rispondono: «Dillo!
dillo!».
Lo sciamano, nella lingua degli spiriti, esige la confessione dei peccati.
L'una dopo l'altra le donne confessano i loro aborti o le violazioni dei tabù,
e si pentono.
Come si vede,
questa discesa estatica in fondo al mare comporta una serie ininterrotta di
ostacoli che rassomigliano quanto mai alle prove di una iniziazione. Il
passaggio attraverso uno spazio che è continuamente in procinto di chiudersi,
l'andare su di un ponte sottile come un capello, il cane infernale, la divinità
irritata da placare, tornano come temi obbligati tanto nei racconti iniziatici
che in quelli dei viaggi mistici nell'aldilà. Nell'uno come nell'altro caso
avviene una rottura ontologica di livello: sono prove intese a confermare che
colui che compie imprese siffatte ha superato la condizione umana, cioè che si
è reso simile agli «spiriti» (l'imagine che
sensibilizza il mutamento ontologico è: aver accesso al mondo degli «spiriti»);
perché, se non fosse uno «spirito», lo sciamano non potrebbe mai
passare per uno spazio cosi stretto.
A parte gli
sciamani, ogni Eschimese può consultare gli spiriti con un metodo chiamato qilaneq. Basta far sedere il malato per
terra e tenergli su la testa con la cintura. Invocati gli spiriti, se la testa
diviene pesante è segno che essi sono presenti. Se la testa continua ad
appesantirsi, la risposta è positiva; se invece si fa leggera, la risposta è
negativa. Le donne usano spesso questo comodo metodo di divinazione per mezzo
degli spiriti. Gli sciamani vi ricorrono talvolta servendosi del loro stesso
piede (Rasmussen).
Il tutto si basa
dunque sulla credenza generale negli spiriti e, in particolare, su di una
comunicazione sentita con le anime dei morti. Una specie di rudimentale
spiritismo fa parte, in un certo modo, dell'esperienza mistica degli Eschimesi.
Sono temuti solo quei morti che, per via di violazioni varie di tabù, son
divenuti crudeli e malvagi. Con gli altri morti gli Eschimesi prendono
volentieri contatto. E ai morti si aggiunge il numero infinito degli spiriti
della natura che, ognuno a suo modo, rendono loro dei servizi. Ogni Eschimese
può ottenere l'aiuto o la protezione di uno spirito o di un morto: però tali
rapporti non bastano per avere i poteri sciamanici. Come in tante altre
culture, anche qui è sciamano soltanto colui che, per un richiamo mistico o di
propria volontà, si sottomette all'insegnamento di un maestro, supera
felicemente le prove dell'iniziazione e si rende capace di esperienze estatiche
precluse al resto dei mortali.
In molte tribù
nord-americane lo sciamano domina la vita religiosa o, almeno, ne costituisce
l'aspetto più importante. Ma in nessun luogo lo sciamano monopolizza
completamente l'esperienza religiosa. Oltre a lui, vi sono altri tecnici del
sacro: il sacerdote, lo stregone (il mago nero). D'altra parte abbiamo già
accennato che in tali popoli ogni individuo cerca di acquistare, per i suoi usi
personali, un certo numero di «poteri» magico-religiosi, generalmente connessi
a certi «spiriti» protettori o ausiliari. Però lo sciamano si distingue dagli
uni e dagli altri - dai suoi colleghi e dai profani - per l'intensità delle sue
esperienze magico-religiose. Se ogni Indiano può assicurarsi uno «spirito
protettore» o un qualche potere che gli renda possibile delle «visioni» e che
accresca le sue riserve del sacro, soltanto lo sciamano, grazie alle speciali
relazioni che ha con gli spiriti, è in grado di penetrare profondamente nel
mondo sovrannaturale: in altri termini, lui solo sa mettere in atto una tecnica
che gli permette di compiete a volontà dei viaggi estatici.
Quanto alle
differenze fra lo sciamano e gli altri specialisti del sacro (i sacerdoti e i
maghi neri), esse sono meno nette. Swanton ha proposto il seguente
inquadramento: i sacerdoti agirebbero per la tribù o per l'intero popolo, cioè
per una data comunità, mentre l'autorità degli sciamani dipenderebbe unicamente
dalla loro abilità personale. Ma Park ha osservato che in varie culture (ad
esempio, in quelle della costa Nord-Ovest) gli stessi sciamani assolvono a
certe funzioni sacerdotali. Wissler opta per la distinzione tradizionale fra la
conoscenza e la pratica dei rituali, che definirebbero il sacerdozio, e
l'esperienza diretta delle forze sovrannaturali, che sarebbero caratteristiche
per la funzione sciamanica. Se, nel complesso, questa distinzione è accettabile,
pure bisogna ricordarsi che anche lo sciamano è tenuto ad assimilare un corpus
di dottrine e di tradizioni e che egli talvolta deve passare un periodo di
alunnato presso un vecchio maestro, periodo durante il quale egli subisce una
iniziazione ad opera di uno «spirito» che gli comunica la tradizione sciamanica
della tribù.
Quanto a Park,
per lui lo sciamanismo nord-americano è definito dal potere sovrannaturale
acquisito dallo sciamano grazie ad una esperienza personale diretta. «Questo
potere vien generalmente usato così che esso interessi l'intera comunità. Per
cui la pratica della stregoneria, nello sciamanismo, può esser parte importante
quanto la cura di una malattia o l'incantesimo per assicurare la cacciagione
alla tribù. Designeremo col termine sciamanismo tutte le pratiche per mezzo
delle quali un potere sovrannaturale può essere acquisito dai mortali, l'uso di
questo potere a fine di bene o di male e altresì l'insieme delle idee e delle
credenze che a tale potere si associano». Questa definizione è comoda e
permette di raccogliere in un tutto fenomeni abbastanza disparati. Da parte
nostra, vorremmo però mettere in risalto la capacità estatica che ha lo
sciamano nei confronti del sacerdote, e la sua funzione positiva, opposta alle
attività antisociali dello stregone, del mago nero (anche se in molti casi lo
sciamano nord-americano, come del resto i suoi colleghi d'ogni parte del mondo,
cumulino le attitudini.
La funzione
principale dello sciamano è la guarigione, ma egli ha una parte importante
anche in altri riti magico-religiosi, come ad esempio in quelli per assicurare
alla comunità la caccia, e, deve esse esistono, nelle società segrete (tipo
«Mide' wiwin») o nelle sette mistiche (tipo «Ghost Dance Religion»).
Come tutti gli altri, gli sciamani nord-americani pretendono di aver potere sui
fenomeni atmosferici (provocano o arrestano la pioggia, ecc.), conoscono gli
avvenimenti futuri, scoprono gli autori di furti, e via dicendo. Essi difendono
gli uomini dalle fatture degli stregoni e, una volta, bastava che uno sciamano
Paviotso accusasse uno stregone come autore di un delitto a che questi venisse
subito ucciso e la sua casa venisse bruciata (Park). Almeno in certe tribù,
sembra che in passato la forza magica degli sciamani fosse più grande e più spettacolare.
I Paviotso parlano ancora dei vecchi sciamani che si mettevano carboni ardenti
in bocca e potevano toccare impunemente ferro arroventato (Park). Ai nostri
giorni gli sciamani si sono piuttosto trasformati in semplici terapeuti, benché
i loro canti rituali e perfino certe loro dichiarazioni farebbero pensare ad
una onnipotenza quasi divina. «Mio fratello bianco, - disse a Reagan uno
sciamano Apache - probabilmente non mi crederai, ma io sono onnipotente. Non
morirò mai. Se mi scarichi addosso il fucile, la palla non penetrerà nella mia
carne o, se vi penetrerà, non mi farà alcun male... Se mi conficchi un coltello
nella gola, spingendo in su, esso uscirà dalla sommità del capo, senza recarmi
danno... Sono onnipotente. Se voglio uccidere qualcuno, non ho che da stendere
la mano e da toccarlo, ed egli morirà. Il potere mio è come quello di un Dio».
È possibile che
questa coscienza euforica di una onnipotenza abbia rapporto con la morte e la
resurrezione iniziatica. In ogni caso, i poteri magico-religiosi posseduti
dagli sciamani nord-americani non esauriscono né le loro capacità estatiche né
quelle d'ordine magico. V'è ragione di pensare che le società segrete e le
sette mistiche moderne abbiano accaparrato gran parte delle attività estatiche
che avevano già caratterizzato lo sciamanismo. Si ricordino, ad esempio, i
viaggi estatici al Cielo dei fondatori e dei profeti di movimenti mistici
recenti, cui abbiamo già alluso e che, morfologicamente, rientrano nella sfera
dello sciamanismo. Quanto all'ideologia sciamanica, essa ha fortemente
impregnato di sé certi settori della mitologia e del folklore nord-americano,
specialmente quelli aventi relazione con la vita d'oltretomba e coi viaggi agli
Inferni.
Chiamato presso
un malato, lo sciamano cerca anzitutto di scoprire la causa della malattia.
Vengono distinti due principali tipi di malattie: quelle che derivano
dall'introduzione nel corpo di un oggetto patogeno, e quelle che sono effetto
della «perdita dell'anima». La cura è in ciascuno di questi casi essenzialmente
diversa: nel primo si tratta di espellere la causa del male, nel secondo di
ritrovare l'anima fuggitiva del malato e di reintegrarla nel suo corpo. Nel
secondo caso il ricorso allo sciamano s'impone assolutamente, perché soltanto
lui sa vedere e catturare le anime. Nelle società che, oltre agli sciamani,
posseggono dei medicine-men e dei
guaritori, questi ultimi possono ben curare certe malattie, ma la «perdita
dell'anima» costituisce un caso riservato sempre allo sciamano. Quando la
malattia è provocata dalla presenza di un oggetto magico perturbatore, è sempre
grazie alle sue capacità estatiche e non ad un ragionamento basato su di un
sapere profano che lo sciamano riesce a diagnosticare la causa; infatti egli
dispone di numerosi spiriti ausiliari che cercano per conto suo l'origine della
malattia e la seduta, per tale ragione, comprende sempre l'evocazione di tali
spiriti.
Le cause della
perdita dell'anima sono varie: sogni speciali, che han provocato la fuga
dell'anima, morti che' non si rassegnano ancora a partire per il paese delle
ombre e vagabondano intorno ai campi, cercando di prender seco un'altra anima
o, infine, il semplice smarrirsi dell'anima del malato lungi dal proprio corpo.
Un informatore Paviotso diceva a Park: «Quando qualcuno muore di colpo, bisogna
chiamare lo sciamano. Se l'anima non è ancora molto lontana, lo sciamano può
richiamarla. Egli cade in trance per
ricondurre l'anima. Ma se l'anima è già andata molto avanti nella direzione
dell'altro mondo lo sciamano non può far più nulla: v'è troppa distanza fra lui
e l'anima» (Park). L'anima lascia il corpo durante il sonno, per cui si può far
morire qualcuno quando lo si sveglia bruscamente. Non si deve mai far SI che
uno sciamano sia destato di soprassalto.
Gli oggetti
malefici, in genere, sono stati proiettati dentro un corpo dagli stregoni. Si
tratta di pietruzze, di animalucci, di insetti; essi non sono stati introdotti
in concreto dal mago, ma san stati creati dalla potenza del suo pensiero. Essi
possono anche trarre origine da spiriti che talvolta prendono residenza essi
stessi nel corpo del malato (Bouteiller). Una volta individuata la causa della
malattia, gli sciamani estraggono gli oggetti magici succhiando.
Le sedute han
luogo di notte, quasi sempre nell'abitazione del malato. Il carattere rituale
della cura è ben visibile: lo sciamano e il malato son tenuti ad osservare un
certo numero di interdizioni (evitano le donne incinte o in periodo di
mestruazione, ed in generale ogni sorgente d'impurità; non si accostano ad
alimenti salati; lo sciamano procede a purificazioni radicali utilizzando
vomitivi, ecc.). Talvolta la stessa famiglia del paziente deve praticare il
digiuno e la continenza sessuale. Quanto allo sciamano, egli fa un bagno
all'aurora e al crepuscolo e si dà a meditazioni e a preghiere. Poiché le
sedute son pubbliche, esse creano una certa tensione religiosa in tutta la
comunità e, nel caso in cui non esistono altre cerimonie religiose, le
guarigioni sciamaniche vanno a costituire il rituale per eccellenza. L'invito
fatto da un membro della famiglia allo sciamano e la determinazione
dell'onorario hanno essi stessi un carattere rituale (Park). Se lo sciamano
chiede un prezzo troppo elevato, o se non chiede nulla, cade ammalato. Del
resto, non è lui ma il suo «potere» a fissare gli onorari della cura. Solo la
sua famiglia ha diritto ad una cura gratuita.
Nella
letteratura etnologica nord-americana si trova la descrizione di numerose
sedute sciamaniche. Queste, nelle loro grandi linee, si rassomigliano tutte.
Cosf basterà riferire in modo alquanto particolareggiato una o due fra le
meglio osservate.
Cura sciamanica presso i
Paviotso
Dopo aver
accettato di intraprendere la cura lo sciamano s'informa su ciò che il paziente
ha fatto prima della malattia onde indovinarne le cause. Poi dà delle
istruzioni per confezionare un bastone che sarà messo vicino alla testa
dell'ammalato: si tratta di un bastone lungo dai tre ai quattro piedi, di
salice, che all'estremità avrà una penna di aquila fornita dallo stesso
sciamano. La più ma resta presso l'ammalato la prima notte e si ha gran cura a
che il bastone non sia contaminato da contatti impuri (basta che un cane o un
coyote lo tocchi perché lo sciamano si ammali o perda il suo potere). Di
passata, notiamo l'importanza che ha la più ma d'aquila nella terapia
sciamanica nordamericana. Questo simbolo del volo magico ha probabilmente una
relazione con le esperienze estatiche dello sciamano.
Questi giunge
nella casa del paziente verso le nove di sera, accompagnato dal suo interprete,
il «dicitore», la cui funzione è ripetere ad alta voce tutte le
parole mormorate dallo sciamano. Anche l'interprete percepisce degli onorari
che, generalmente, ammontano alla metà di quelli dello sciamano. Talvolta
l'interprete pronuncia una preghiera prima della seduta e si rivolge
direttamente alla malattia per informarla che lo sciamano è arrivato.
Interviene di nuovo a metà della seduta per implorare ritualmente lo sciamano
di guarire il malato. Alcuni sciamani talvolta fanno anche uso di una
danzatrice, che deve esser bella e virtuosa: essa balla o con lo sciamano, o da
sola mentre questi procede al succhiamento. La partecipazione di danzatrici
alle guarigioni magiche sembra però essere una innovazione abbastanza recente,
per lo meno fra i Paviotso (Park).
Lo sciamano si
avvicina col torso e i piedi nudi al malato e comincia a cantare in sordina. I
presenti, disposti lungo i muri, insieme all'interprete, riprendono i vari
canti, l'uno dopo l'altro. Sono canti improvvisati dallo sciamano, che li
dimentica a seduta finita: il loro fine è di evocare gli spiriti ausiliari. Ma
la loro ispirazione ha un carattere puramente estatico: certi sciamani
affermano che è il loro «potere» ad inspirarli durante la concentrazione
preliminare che precede la seduta; altri pretendono che i canti vengano loro
dal bastone e dalla penna d'aquila.
Dopo un certo
tempo lo sciamano si alza e cammina in circolo intorno al fuoco centrale della
casa. Se vi è una danzatrice, lo segue. Poi torna al suo posto, accende la
pipa, ne tira qualche boccata e la passa ai presenti, che seguono la sua
raccomandazione di fumare, a turno, una boccata o due. Nel frattempo i canti
continuano. La forma che assume la fase successiva dipende dalla natura della
malattia. Se il paziente ha perduto la conoscenza, è evidente che soffre di
«perdita dell'anima»: allora lo sciamano deve subito
entrare in trance (yàika). Se la malattia ha un'altra
causa, lo sciamano può parimenti mettersi in trance per diagnosticarla o per discutere coi suoi «poteri» circa
la cura da farsi. Ma in questo secondo tipo di diagnosi si ricorre alla trance solo se lo sciamano è abbastanza
forte.
Quando lo
spirito dello sciamano ritorna vittorioso dal viaggio estatico intrapreso per
cercare l'anima del malato, i presenti vengono messi al corrente dallo sciamano
di tutte le avventure che ha vissuto. Se la trance
ha per scopo la scoperta della causa della malattia, le imagini percepite
durante l'estasi rivelano il segreto: se appare un turbine, è segno che la
malattia è stata provocata da qualcosa che rassomiglia ad un turbine; se si
vede il paziente passeggiare fra fiori, la guarigione è certa; ma se i fiori
sono appassiti, la morte non può essere evitata, e via dicendo. Gli sciamani
riemergono dalla trance cantando fino
a riprendere la loro coscienza ordinaria. Allora si danno a riferire le loro
esperienze estatiche e se hanno accertato che la causa della malattia è un
oggetto introdotto nel corpo del paziente procedono all'estrazione. Succhiano
la parte del corpo che, nella trance,
hanno riconosciuto esser sede della malattia. In genere, lo sciamano succhia
applicando direttamente la bocca sulla pelle; però alcuni succhiano anche
attraverso un osso forato o un tubo di legno di salice. Durante questa
operazione l'interprete e i presenti cantano in coro, finché lo sciamano li fa
smettere agitando vigorosamente un campanaccio. Una volta succhiato il sangue,
lo sciamano lo sputa in un piccolo buco fatto nel pavimento della capanna e
ripete il rito, cioè aspira qualche altra boccata dalla pipa, balla intorno al
fuoco e ricomincia a succhiare finché riesce ad estrarre l'oggetto magico: una
pietruzza, una lucertola, un insetto o un verme. Lo mostra ai presenti, poi lo
getta nel buco ricoprendolo di terra. I canti e la «fumata» rituale della pipa
continuano fino a mezzanotte; dopo, si fa una pausa di una mezz'ora, vengono
serviti dei cibi ai presenti seguendo le istruzioni dello sciamano - cibi che
questi non tocca - avendo cura che nessuna briciola cada per terra. I cibi che
restano vengono sepolti con grande cura.
La cerimonia ha
termine poco prima dell'alba. Proprio verso la fine lo sciamano invita tutti a
ballare insieme a lui intorno al fuoco per un tempo che va dai cinque minuti al
quarto d'ora. Egli dirige la danza cantando. Infine comunica delle istruzioni alla
famiglia quanto alla dieta del paziente e decide quali disegni vadano dipinti
sul suo corpo (Park).
Gli sciamani
Paviotso seguono questo stesso metodo per estrarre proiettili e punte di
freccia. Le cerimonie sciamaniche a fini di chiaroveggenza e di regolazione del
tempo sono assai meno frequenti di quelle terapeutiche. Ma si sa che lo
sciamano può provocare la pioggia, arrestare le nubi, far fondere il ghiaccio
dei fiumi, e ciò col semplice canto o agitando una piuma. Come abbiamo detto,
le sue virtù magiche sembrano però esser state assai più rilevanti in altri
tempi e allora egli si compiaceva di farne sfoggio. Certi sciamani Paviotso
fanno profezie o interpretano i sogni. Ma non hanno parte alcuna nelle imprese
di guerra, ove restano subordinati ai capi militari.
Seduta sciamanica presso
gli Achumawi
Jaime de Angulo
ci ha dato una descrizione completa della cura sciamanica in uso presso gli
Achumawi. Come vedremo, qui la seduta non ha nulla di misterioso o di oscuro.
Lo sciamano si dà talvolta a meditazioni e parla sottovoce; conferisce coi suoi
damagomi, coi suoi «poteri» (sono gli
spiriti ausiliari) per scoprire la causa della malattia. Infatti sono
propriamente i damagomi a stabilire
la diagnosi. Nel complesso, le malattie vengono ripartite in sei categorie: 1)
accidenti visibili; 2) trasgressione di tabù: 3) spavento causato
dall'apparizione di mostri; 4) il «cattivo sangue»; 5) avvelenamento ad
opera di un altro sciamano; 6) perdita dell'anima.
La seduta ha
luogo di sera, nell'abitazione del paziente. Lo sciamano s'inginocchia a lato
del malato, che è steso per terra con la testa rivolta ad Oriente. «Egli si
dondola canticchiando, con gli occhi semichiusi. Dapprima è un borbottio in
tono lamentoso, come se lo sciamano volesse cantare malgrado una sofferenza
interiore. Il borbottio si fa a poco a poco più alto, assume la forma di una
vera melodia, però ancor sempre in sordina. Si comincia a tacere, ad ascoltare,
a fare attenzione. Lo sciamano non ha ancora il suo damagomi. È in un qualche luogo, forse assai lontano nella
montagna, forse nell'aria della notte, assai vicino. La canzone mira ad
incantarlo, a farlo venire, anche a forzarvelo... Come tutte quelle degli
Achumawi, tali canzoni si compongono di una linea o due, che costituiscono due,
tre e al massimo quattro frasi musicali. Vengono ripetute dieci, venti, trenta
volte di seguito senza interruzione, all'ultima nota seguendo immediatamente la
prima, senza alcun intervallo musicale. Si canta all'unisono. Il tempo, lo si
batte con le mani. Essa non ha niente a che vedere col ritmo della melodia. È
su un ritmo differente, un ritmo qualunque - peraltro - ma uniforme e senza
accento. In genere, al principio d'una canzone ciascuno batte un tempo un po'
differente. Ma, dopo qualche ripetizione, i tempi si uniformano. Lo sciamano
stesso non canta, si può dire, che poche battute. Dapprima è solo, poi lo segue
qualche voce, infine tutti. Allora tace, lasciando al pubblico il lavoro
d'attirare il damagomi. Naturalmente,
più si canta forte, più si va all'unisono, e meglio è. Si hanno maggiori
probabilità di risvegliare il damagomi
se esso dorme in qualche posto lontano. Non è solo l'urto fisico a risvegliarlo
ma, altrettanto ed ancor più, l'ardore emotivo. (Questa non è una mia
interpretazione: ripeto quel che mi han detto molti Indiani). Quanto allo
sciamano, egli si raccoglie. Chiude gli occhi, ascolta. Presto sente che il suo
damagomi sta per venire, o che si
avvicina, volteggia nell' aria notturna, nella macchia, sotterra, nel suo
stesso ventre ... Allora, d'un tratto, batte le mani, e a qualunque punto sia
il canto, tutti tacciono. Silenzio profondo (e in mezzo alla macchia, sotto le
stelle, alla luce vacillante del camino, questo silenzio improvviso dopo il
ritmo piuttosto ipnotizzante della canzone riesce assai impressionante). Allora
lo sciamano si rivolge al suo damagomi:
ad alta voce, come se parlasse ad un sordo, in modo rapido, cadenzato,
monotono, ma nella lingua corrente che tutti comprendono. Le frasi sono brevi. E
tutto ciò che gli dice 1'«interprete» lo ripete esattamente,
parola per parola... Lo sciamano è talmente sovreccitato che s'ingarbuglia in
quel che dice. Il suo interprete, se è il suo interprete consueto, conosce da
tempo i garbugli che gli sono abituali... Quanto allo sciamano, egli è entrato
in stato di estasi, in un'estasi sempre più profonda, egli parla al suo damagomi e questi risponde alle sue
domande».
Tanto si unisce al suo damagomi,
tanto si proietta in lui che egli stesso - lo sciamano - ripete esattamente
tutte le parole del damagomi ...».
Il dialogo tra
lo sciamano e i suoi «poteri» è talvolta d'una straordinaria monotonia; il
padrone si lagna che il damagomi si
sia fatto attendere, e questo si giustifica: era addormentato presso un fiume,
e simili. Il padrone lo licenzia e ne chiama un altro. «Lo sciamano si arresta.
Apre gli occhi. Lo si direbbe uno che si risveglia da una meditazione profonda.
Ha l'aria un po' ebete. Chiede la sua pipa. Il suo interprete la carica,
l'accende e gliela passa. Tutti quanti si rilassano, si accendono sigarette, si
fuma, si conversa, si dicono amenità, si attizza il fuoco. Lo sciamano stesso
prende parte alle amenità, ma sempre meno, via via che passa una mezz'ora,
un'ora, due ore: diventa sempre più distratto, più cupo. Ricomincia, e ricomincia
di nuovo ... Ciò dura talvolta ore ed ore. Talvolta lo sciamano abbandona la
terapia, scoraggiato: i suoi damagomi non trovano niente, oppure hanno paura.
Il "veleno" è un damagomi
potentissimo, più forte di loro ... Non è proprio il caso d'attaccarlo».
Dopo aver
scoperto la causa della malattia lo sciamano si dedica alla guarigione. A meno
che non si tratti di un caso di perdita dell'anima, la cura consiste
nell'estrazione del «male» o nella suzione del sangue. Succhiando, lo sciamano
ritira coi denti un piccolo oggetto, «come un capo di filo bianco o nero,
talvolta qualcosa di simile ad un pezzo di unghia» (ibid., p. 563). Un Achumawi
disse all'autore: «Non credo che quelle cose vengano fuori dal corpo
dell'ammalato. Lo sciamano le ha sempre in bocca prima di cominciare la cura.
Solo, vi attira la malattia, gli servono per acciuffare il veleno. Se no, come
farebbe ad acciuffarlo?».
Alcuni sciamani
suggono direttamente il sangue. Uno sciamano spiegò cosi il procedimento: «È
sangue nero, è sangue cattivo. Prima lo sputo sulle mani per vedere se vi è
davvero la malattia. Allora sento i miei damagomi
che disputano. Vogliono tutti che lo dia loro a bere. Hanno ben lavorato per
me. Mi hanno aiutato. Adesso, sono tutti accaldati. Hanno sete. Vogliono bere.
Vogliono bere sangue ...». Se non si dà loro il sangue, i damagomi si agitano come pazzi e
protestano rumorosamente. «Allora bevo il sangue. Lo inghiotto. Lo do loro. Ciò
li quieta. Ciò li calma. Ciò li rinfresca».
Secondo le
osservazioni di Jaime de Angulo il «sangue cattivo» non verrebbe succhiato dal
corpo del malato, esso sarebbe piuttosto «il prodotto di un versamento
emorragico di origine isterica avvenuto nello stomaco dello sciamano». In
effetti, lo sciamano alla fine della seduta appare stanchissimo e dopo aver
bevuto due o tre litri d'acqua «si addormenta di sonno profondo».
Checché ne sia,
il suggimento del sangue sembra essere una forma aberrante di terapia
sciamanica. Ci si ricorderà che certi sciamani siberiani bevono anche il sangue
degli animali sacrificati pretendendo che, in realtà, sono i loro spiriti
ausiliari a richiederlo e a berlo. Questo rito, estremamente complesso, basato
sul valore sacro del sangue caldo, non è «sciamanico» che in via sussidiaria e
per coalescenza con altri riti facenti parte di complessi magico-religiosi
diversi.
Se si tratta di
un caso di avvelenamento per opera di altro sciamano il guaritore, dopo aver
succhiato a lungo la pelle, afferra l'oggetto magico coi denti e Io mostra.
Talvolta l'avvelenatore si trova fra i presenti e allora lo sciamano gli
restituisce 1'«oggetto»: «Prendi! Ecco il tuo damagomi, non voglio tenerlo per me!».
Nel caso della perdita dell'anima lo sciamano, essendone stato informato sempre
dai suoi damagomi, si dà a cercarla e
la trova smarrita in luoghi selvaggi, su di un picco, ecc.
La seduta degli
sciamani Achumawi si distingue per la sua moderazione. Ma questa non è sempre
la regola. La trance che, fra gli
Achumawi, non sembra esser troppo profonda, è accompagnata da movimenti
estatici abbastanza pronunciati. Lo sciamano Shushwap (tribù dell'interno della
Columbia britannica) «agisce come se fosse pazzo» non appena si mette una
parrucca rituale (fatta di una banda lunga due metri e larga un metro). Canta
canti che il suo spirito protettore gli ha insegnati nel momento
dell'iniziazione. Balla fino a sudare copiosamente e fino a che lo spirito
venga e gli parli. Allora si distende a fianco del malato e gli succhia la
parte dolorante. Finisce con l'estrarre una correggia o una più ma, che è la
causa della malattia e che egli fa sparire soffiandovi sopra.
Quanto alla
ricerca dell'anima smarritasi o rapita dagli spiriti, essa assume talvolta
aspetti drammatici. Presso gli Indiani Thompson lo sciamano si mette la sua
maschera e comincia col seguire il sentiero antico, già percorso dagli antenati
per recarsi nel paese dei morti; se non v'incontra l'anima del malato, fruga
nei cimiteri ave san sepolti gli Indiani che sono stati convertiti al
cristianesimo. In ogni caso egli deve però lottare contro i fantasmi per poter
strappar loro l'anima del malato e, tornato in terra, mostra ai presenti la sua
clava insanguinata. Presso gli Indiani Tuanas dello stato di Washington la
discesa agli Inferni ha tratti ancor più realistici: spesso si pratica una
apertura sulla superficie del suolo; si imita il passaggio attraverso un corso
d'acqua; si riproduce con una mimica energica la lotta contro gli spiriti, e
via dicendo (Nell'isola Vea del Pacifico il medicine-man
si reca parimenti al cimitero, in processione. Lo stesso rituale nel
Madagascar). Presso i Nootka, che attribuiscono il «furto dell'anima» agli
spiriti marittimi, lo sciamano s'immerge in estasi in fondo all'oceano e torna
bagnato, «talvolta perdendo in abbondanza sangue dal naso e dalle tempie, e
recando l'anima rubata entro un ciuffetto di piume d'aquila» (Drucker).
Come negli altri
casi, qui la discesa dello sciamano agli Inferni compiuta per riprendere
l'anima del malato segue l'itinerario sotterraneo dei trapassati, per cui si
integra nelle mitologie funerarie delle corrispondenti tribù. Durante una
cerimonia funeraria, una Yuma perse conoscenza. Dopo qualche ora, quando si
rianimò, raccontò ciò che le era accaduto. S'era trovata all'improvviso a seguire
a cavallo un suo parente, morto da anni. Era circondata da un gran numero di
cavalieri. Direttisi verso sud, erano giunti a un villaggio i cui abitanti
erano Yuma. Aveva riconosciuto molta gente che aveva conosciuto in vita. Erano
venuti tutti ad incontrarla manifestando una gran gioia. Tuttavia, di li a
poco, aveva scorto una gran nube di fumo come se l'intero villaggio fosse in
fiamme. Tutti erano fuggiti. Quanto a lei, s'era messa a correre ma, essendo
inciampata in un pezzo di legno, era caduta in terra. A questo punto aveva
ripreso conoscenza e scorto lo sciamano chino su di lei in atto di curarla
(Forde). Più raramente lo sciamano nordamericano vien chiamato per restituire
ad una persona il suo spirito custode, portato via da trapassati nella regione
dei morti. Almeno sette sciamani alla volta compiono questa cerimonia, che
comprende un viaggio estatico agli Inferni in una barca immaginaria.
Ma è soprattutto
nella ricerca dell'anima del malato che egli utilizza le sue conoscenze in
fatto di topografia infernale e le sue capacità di chiaroveggenza estatica. Qui
è inutile riferire tutto ciò che si sa circa la perdita dell'anima e la ricerca
dì essa da parte dello sciamano nord-americano. Basterà rilevare che una tale
credenza è frequente nell'America del Nord, specie nella zona occidentale, e
che il suo essere presente anche nell'America del Sud esclude l'ipotesi che
essa sia stata importata in un periodo abbastanza recente dalla Siberia. Come
avremo occasione di mostrare in seguito, la teoria della perdita dell'anima
quale causa di malattia, benché sia probabilmente più recente delle spiegazioni
in base ad un agente perturbatore, sembra essere assai arcaica e la sua
presenza sul continente americano non può esser spiegata con una influenza
tardiva da parte dello sciamanismo siberiano.
Qui, come in
ogni altro paese, l'ideologia sciamanica (o, meglio, la parte dell'ideologia
tradizionale che è stata assimilata e largamente sviluppata dagli sciamani) la
si incontra anche in miti e leggende ove non figurano degli sciamani
propriamente detti. Questo è il caso, ad esempio, per ciò che è stato chiamato
il «mito nord-americano di Orfeo», mito la cui presenza è stata
accertata nella gran parte delle tribù del continente americano, specie delle
regioni orientali ed occidentali. Il mito è ignoto fra gli Eschimesi, il che
sembra escludere l'ipotesi di una influenza asiatico-siberiana; le eroine qui
sono due donne che seguono un giovane negli Inferni, però fallendo del tutto
nel loro intento. Ecco la forma in cui esso si presenta presso i Telumni
Yakuti: Un uomo ha perduto sua moglie. Decide di seguirla e veglia sulla tomba.
Alla seconda notte la donna esce dalla tomba e, come in stato di sonno, si mette
a camminare alla volta di Tipikinits, il paese dei morti, che si trova ad Ovest
(o Nord-Ovest). Il marito la segue finché essa giunge ad un fiume sul quale si
trova un ponte che vibra e si muove continuamente. La donna si volge e gli
dice: «Che fai qui? Tu sei vivo e non potrai attraversare il ponte. Cadrai in
acqua e diverrai un pesce». In mezzo al ponte un uccello fa
la guardia; coi suoi gridi, terrorizza coloro che si avventurano su di un tale
cammino, tanto che alcuni precipitano nell'abisso. Ma l'Indiano ha un
talismano, una corda magica; grazie ad essa riesce ad attraversare il fiume.
Sull'altra riva incontra sua moglie in mezzo ad una folla di trapassati che
ballano in circolo (la forma classica della «Ghost Dance»). L'uomo si avvicina
e tutti cominciano a lamentarsi del suo cattivo odore. Il messaggero di
Tipikinits, Signore dell'Inferno, l'invita alla sua tavola. È la stessa moglie
del messaggero che serve le vivande, le quali sono senza numero e non
diminuiscono per quanto se ne mangi. Il Signore dell'Inferno chiede il motivo
della visita. Conosciutolo, gli promette che potrà ricondurre la sua donna
sulla terra, a patto che riesca a restar sveglio tutta la notte. La ronda
ricomincia ma l'uomo, per non stancarsi, se ne sta in disparte a guardare.
Tipikinits gli ingiunge di fare un bagno. Poi chiama la donna per verificare
che essa è davvero la sua sposa. La coppia trascorre tutta la notte a letto in
conversari. Prima dell'aurora l'uomo si addormenta e svegliandosi si trova con
un tronco putrido fra le braccia. Tipikinits invia il suo messaggero per
invitarlo a colazione. Gli offre ancora una possibilità, cioè gli propone di
ripetere la prova, e l'uomo dorme tutto il giorno per non trovarsi stanco la
notte seguente. La sera, tutto si ripete come la vigilia. La coppia ride e si
diverte fino all'alba, ma alla fine l'uomo torna ad addormentarsi e si
risveglia col tronco putrido fra le braccia. Allora Tipikinits gli dà certi
granelli che gli permetteranno di attraversare il fiume ingiungendogli di abbandonare
l'Inferno. Tornato fra i suoi, l'uomo racconta le sue avventure ma prega i
parenti di non parlarne; infatti, se non gli riuscirà di starsene nascosto per
sei giorni, morirà. Ma i vicini vengono a sapere della sua scomparsa e del suo
ritorno, per cui l'uomo si decide a rivelare tutto, per raggiungere sua moglie.
Invita l'intero villaggio ad un gran banchetto e racconta ciò che ha visto e
udito nel regno dei morti. L'indomani muore, morso da una serpe.
Questo mito
presenta, nei suoi motivi, una sorprendente corrispondenza con uno schema a noi
ben noto. Il ponte, la corda con l'aiuto della quale l'eroe attraversa le acque
infernali, il personaggio benevolo (una vecchia o un vecchio, Signore degli
Inferni), l'animale che fa la guardia al ponte, ecc., questi temi classici
delle discese agli Inferni sono presenti in quasi tutte le varianti del mito
conosciuto nel Nord-America. In parecchie versioni (Gabriellino, ecc.) all'eroe
si impone anche la prova della castità: deve restar casto vicino alla sua sposa
per tre notti (Gayton). In una versione Alibamu si tratta di due fratelli che
seguono la sorella morta. Camminano verso Occidente fino a raggiungere
l'orizzonte: qui il cielo è instabile, si sposta continuamente. Trasformatisi
in animali, i due penetrano nell'aldilà e, con l'aiuto di un Vecchio o di una
Vecchia, superano vittoriosamente quattro prove. Vien loro mostrata la loro
abitazione terrestre, che sta esattamente sotto ai loro piedi (motivo del
«Centro del Mondo»). Segue una danza dei morti: fra i morti riconoscono la
sorella e toccandola con un oggetto magico la fanno cadere e la trasportano in
una specie di orciolo. Però, mentre se ne tornano sulla terra, sentono la
sorella piangere all'interno dell'orciolo che essi, allora, imprudentemente
aprono. L'anima della giovane se ne fugge via.
Vedremo che un
mito consimile lo si ritrova anche in Polinesia; però il mito nord-americano
conserva più distinto il ricordo di una prova iniziatica che implica la discesa
agli Inferni. Le quattro prove cui allude la variante Alibamu, la prova della
castità e soprattutto la prova della «veglia» hanno un carattere nettamente
iniziatico. Nell'isola dell'antenato mitico Ut-Napishtim anche Gilgamesh deve
ve gliare sei giorni e sei notti di seguito per ottenere l'immortalità e,
proprio come l'Orfeo nord-americano, fallisce. Ciò che in tutti
questi miti è «sciamanico», è la discesa agli Inferni per
riportarne l'anima della donna amata. Infatti si ritiene che gli sciamani
abbiano il potere non solo di reintegrare nei corpi le anime vagabonde dei
malati, ma anche di far rivivere i morti; e questi, una volta tornati dagli
Inferni, raccontano ai vivi quel che hanno veduto, proprio come lo fanno coloro
che son discesi «in ispìrito» nel paese dei morti, coloro che hanno visitato in
estati gli Inferni e i Paradisi e che hanno fornito la materia ad una
letteratura visionaria plurimillenaria del mondo intero. Sarebbe eccessivo
considerare in genere questi miti come creazioni aventi per sola base delle
esperienze sciamaniche; quel che però è certo è che essi hanno utilizzato ed
interpretato tali esperienze. Nella variante Alibamu gli eroi catturano l'anima
della loro sorella nello stesso modo con cui lo sciamano, per riportarla sulla
terra, si impadronisce dell'anima del malato rapita nel paese dei morti.
Le confraternite segrete
e lo sciamanismo
Il problema dei
rapporti che intercorrono fra lo sciamanismo propriamente detto da una parte,
le diverse società segrete e i movimenti mistici nord-americani dall'altro, è
abbastanza complesso ed è ancor lungi dall'aver trovato una soluzione. Si può
però dire che tutte queste organizzazioni a base misterica hanno una struttura
sciamanica, nel senso che la loro ideologia e le loro tecniche risentono della
grande tradizione sciamanica. Daremo subito qualche esempio, con riferimento
alle società segrete (tipo Mide' wiwin) e ai movimenti estatici (tipo «Ghost
Dance Religion»): vi si potrà facilmente riconoscere, nelle grandi
linee, la tradizione sciamanica: iniziazione comprendente morte e resurrezione
del candidato, visite estatiche nel paese dei morti e in Cielo, inserzione di
sostanze magiche nel corpo del candidato, rivelazione della dottrina segreta,
insegnamento della terapia sciamanica e così via. La differenza principale fra
lo sciamanismo tradizionale e le società segrete sta nel fatto che le seconde
sono aperte a chiunque dimostri una certa predisposizione estatica, sia
disposto a pagare un dato contributo richiesto e, soprattutto, accetti di
sottoporsi alle prove iniziatiche e di passare un certo periodo di alunnato.
Non di rado si può constatare una tal quale opposizione fra le confraternite
segrete e i movimenti estatici da un lato, gli sciamani dall'altro. Sia le
confraternite che i movimenti estatici si oppongono allo sciamanismo nella
misura in cui questo sia sinonimo di stregoneria e di magia nera. Un'ulteriore
opposizione deriva dallo spirito esclusivista di certi ambienti sciamanici: le
società segrete e i movimenti estatici dimostrano invece uno spirito di
proselitismo abbastanza accentuato che, in ultima istanza, tende ad abolire la
posizione privilegiata dello sciamano. Tutte queste confraternite e queste
sette mistiche mirano ad una rivoluzione religiosa, alla rigenerazione
spirituale dell'intera comunità, anzi - come nel caso della «Ghost Dance
Religion» - della totalità delle tribù nord-americane. Hanno pertanto la
coscienza di essere all'opposto degli sciamani che, a tale riguardo,
rappresentano sia l'elemento più conservatore della tradizione religiosa, sia
le tendenze meno generose della spiritualità di tribù.
Solo che nella
realtà le cose si presentano in modo assai più complesso. Infatti se tutto ciò
che abbiamo rilevato or ora è esatto, non è men vero che nell'America del Nord
la differenza fra «profani» e «uomini sacri» è d'ordine più quantitativo che
non qualitativo: consiste essenzialmente nella maggior quantità di sacro che i
secondi hanno assimilata. Abbiamo già avuto occasione di dire che ogni indiano
cerca il potere religioso, che ogni indiano dispone di uno spinto custode
acquisito mediante le stesse tecniche usate dallo sciamano per avere i suoi (si
veda il cap. VI). La differenza fra un profano e uno sciamano sta nel segno
della quantità: lo sciamano dispone di un maggior numero di spiriti protettori
o custodi e di un «potere» magico-religioso più forte. A tale riguardo si
potrebbe quasi dire che ogni Indiano «sciamanizza» anche se non
desidera coscientemente di essere uno sciamano.
Se la differenza
fra i profani e gli sciamani è cosi fluida, quella fra gli ambienti sciamanici
e le confraternite segrete o le sette mistiche non è più decisa. Per un verso,
nelle seconde si ritrovano dunque tecniche e ideologie considerate «sciamaniche»;
per l'altro, gli sciamani, in genere, fan parte delle più importanti società
segrete a base misterica, quando non accada perfino che le sostituiscano. Tutto
ciò appare chiaro presso la Mide'wiwin o, come la si è chiamata erroneamente,
la «Società della Grande Medicina», degli Ojibwa. Gli Ojibwa
conoscono due specie di sciamani: i wabeno'
(gli «uomini dell'aurora», gli «uomini orientali»)
e i jes'sakkid', profeti e veggenti
chiamati anche «giocolieri» e «rivelatori delle verità nascoste».
Entrambe le categorie sono egualmente capaci di prodigi sciamanici: i wabeno' vengono anche chiamati
«maneggiatori del fuoco» e manipolano impunemente carboni ardenti; jes'sakkid' operano guarigioni, per
bocca loro parlano dèi e spiriti e sono «prestigiatori» famosi perché sanno
sciogliersi in un attimo da corde e catene con cui siano stati legati). Bisogna
però rilevare che le prodezze magiche degli sciamani nord-americani non si
limitano a tanto. Ad essi si attribuisce anche il potere di far germogliare e
crescere un chicco di grano sotto gli occhi dello spettatore; di far venire in
un attimo rami di abete da montagne lontane, di far apparire conigli e
caprioli, di far volare piume ed altri oggetti, ecc. Essi possono anche
gettarsi da grandi altezze in piccole ceste, far sorgere un coniglio vivo dal
suo scheletro, trasformare in animali vari oggetti. Ma gli sciamani sono
soprattutto «signori del fuoco» ed eseguono «fire tricks»
d'ogni genere: fanno bruciare un uomo fra i carboni ardenti, lo riducono in
cenere, e lo stesso uomo, poco dopo, partecipa ad una danza in un luogo assai
lontano - cfr. Parsons. Presso gli Zufù e i Keresan esistono confraternite
segrete specializzate nei «fire tricks», c i loro membri sono capaci di
inghiottire carboni, di camminare sul fuoco, di toccare senza danno ferro
arroventato, ecc. Stevenson riferisce anche cose osservate da lui personalmente
(uno sciamano che tiene carboni ardenti in bocca dai 30 ai 60 secondi, ecc.).
Gli uni come gli altri, peraltro, si aggregano volentieri alla Mide'wiwin: il wàbeno' quando si è specializzato nella
medicina magica e negli incantesimi, il jes'sakkid'
quando vuole accrescere il prestigio di cui gode nella tribù. Naturalmente,
nella confraternita della «Grande Medicina» essi costituiscono una minoranza,
perché quell'organizzazione è largamente aperta a tutti coloro che
s'interessano di cose spirituali e sono in grado di pagare la quota
d'inscrizione. Presso i Menomini, che ai tempi di Hoffman contavano mille e
cinquecento anime, vi erano cento membri della Mide'wiwin e fra di essi si
trovavano due wàbeno' e cinque ies'sakkid (Hoffman). Né dovevano
esservi molti altri sciamani, non affiliati alla Mide'wiwin.
In questo caso
il più importante sta però nel fatto che la confraternita della «Grande
Medicina» presenta essa stessa una struttura sciamanica. Del resto, i suoi
membri, i mide, son chiamati
«sciamani» da Hoffman, benché altri autori li chiamino ora sciamani, ora medicine-men, ora profeti, veggenti e
perfino sacerdoti. Tutte queste designazioni sono in parte giustificate, perché
i mide hanno funzioni sia di sciamani terapeuti, sia di veggenti e, in una
certa misura, anche di preti. Le origini storiche della Mide'wiwin non sono
note, ma le sue tradizioni mitologiche non sono molto diverse dei miti
siberiani circa il «primo sciamano». Infatti si racconta che
Mi'nabo'zho, messaggero del Dzhe Manido (il Grande Spirito) e intercessore fra
questi e gli umani, vedendo la miseria dell'umanità malata e prostrata, rivelò
i segreti più sublimi alla lontra e introdusse nel corpo di essa delle migi (simbolo dei mide) per renderla immortale e capace di iniziare e, con ciò
stesso, di consacrare gli uomini. Cosi la borsa di pelle di lontra ha una parte
capitale nell'iniziazione dei mide: è
in essa che si custodiscono le migi,
piccole conchiglie, che si crede contengano la forza magico-religiosa
(Hoffman).
L'iniziazione
dei candidati, nelle sue grandi linee, segue lo schema di tutte le inizi azioni
sciamaniche. Essa comprende la rivelazione dei misteri (cioè, anzitutto, del
mito di Mi'nabo'zho e dell'immortalità della lontra), la morte e resurrezione
del candidato e l'introduzione nel suo corpo di una quantità di migi (il che ricorda singolarmente le
«pietre magiche» con le quali, in Australia ed altrove, vien farcito il corpo
dell'allievo mago). I gradi iniziatici sono quattro, ma le tre ultime
iniziazioni sono, all'incirca, una ripetizione della prima cerimonia. Si
costruisce il midewigan - la «Grande
Loggia-Medicina» - che è una specie di recinto di venticinque metri per otto, e
si copre la staccionata che la limita con del fogliame onde prevenire delle
indiscrezioni. Ad una trentina di metri s'installa una wigiwam, il bagno di vapori per il candidato. Il capo designa un
istruttore che gli rivela l'origine e le proprietà del tamburo e dei sonagli,
come pure il modo di servirsene per invocare il Gran Dio (Manidu) e per
esorcizzare i demoni. Gli vengono insegnati i canti magici, gli vengono
indicate le erbe medicinali, lo si istruisce nella terapeutica e, soprattutto,
gli vengono rivelati gli elementi della dottrina segreta. A partir dal sesto o
dal quinto giorno prima del rito di iniziazione il candidato si purifica
quotidianamente col bagno di vapore e poi assiste alla dimostrazione dei poteri
magici fatta dai mide: i quali, all'interno della midewigan fan muovere a distanza varie figurine di legno e
soprattutto le loro borse. Durante l'ultima notte l'iniziando resta solo col
suo istruttore nel bagno di vapore e l'indomani, dopo una nuova purificazione e
se il cielo è chiaro, si procede alla cerimonia dell'iniziazione. Tutti i mide si radunano nella «Grande
Loggia-Medicina». Dopo aver fumato a lungo in silenzio intonano dei
canti rituali che rivelano aspetti segreti della tradizione primordiale (spesso
inintelligibili). Ad un dato momento tutti i mide si alzano e, avvicinatisi al
candidato, 10 «uccidono» toccandolo con delle mig]. Il candidato trema, cade in
ginocchio e quando gli si introduce una migi
nella bocca perde i sensi e resta disanimato al suolo. Poi lo si tocca con la
borsa, ed egli «risuscita». Allora gli vien trasmesso un
canto magico e il capo gli consegna una borsa di pelle di lontra ove il
candidato mette le sue migi. Per
verificare il potere di queste conchiglie egli tocca i confratelli, l'uno dopo
l'altro, ed essi cadono a terra come fulminati per risuscitare grazie allo
stesso procedimento con la borsa. Così egli ha la prova che le conchiglie danno
sia la vita che la morte. Nel banchetto, con cui si termina la cerimonia, il
mide più anziano racconta la tradizione della Mide'wiwin e, per finire, il
nuovo membro intona il suo canto e suona il tamburo.
La seconda iniziazione
ha luogo almeno un anno dopo la prima. La forza magica viene allora accresciuta
per mezzo di un gran numero di migj
con cui si farcisce il corpo dell'iniziato, specie vicino alle articolazioni e
nella regione del cuore. Con la terza iniziazione il mide riceve abbastanza
forza per divenire un jes'sakkid',
cioè per poter eseguire tutte le «prestidigitazioni» sciamaniche, e viene
inoltre promosso maestro delle guarigioni. Con la quarta iniziazione altre migi ancora vengono introdotte nel suo
corpo (Hoffman, pp. 204-276).
In base a questo
esempio ci si può rendere conto delle intime relazioni esistenti fra lo
sciamanismo propriamente detto e le società segrete nord-americane: sia l'uno
che le altre partecipano alla stessa tradizione magico-religiosa arcaica. E in
certe confraternite segrete, soprattutto nella Mide'wiwin, si manifesta proprio
un tentativo di «ritorno alle origini», inquantoché ci si sforza di
riprender contatto con la tradizione primordiale e di eliminare gli stregoni.
La parte degli spiriti protettori e ausiliari sembra essere, in società del
genere, mediocre, mentre si dà maggior importanza al Grande Spirito e ai viaggi
celesti. Ci si sforza di ristabilire le comunicazioni fra Terra e Cielo quali
esistevano all'alba dei tempi. Però la Mide'wiwin, malgrado il suo carattere «riformistico»,
riprende le tecniche dell'iniziazione magico-religiosa più antica (la morte e
la resurrezione (Sul carattere sciamanico della «Società dei Cannibali»
kwakiutl, cfr. Moller), il corpo farcito di «pietre magiche», ecc.). E, come si è
visto, i mide divengono dei medicine-men, inquantoché l'iniziazione fa loro
conoscere le varie tecniche di terapia magica (esorcismo, farmacopea magica,
cura mediante suzione, ecc.).
Alquanto diverso
è il caso del «Medicine Rite» dei Winnebago, il cui cerimoniale iniziatico
completo è stato recentemente pubblicato dal Paul Radin. Anche qui si tratta di
una confraternita segreta alla quale si è ammessi con un rituale assai
complesso d'iniziazione, consistente anzitutto nella «morte» e nella
resurrezione del candidato mediante toccamento con le conchiglie magiche
conservate in tasche di pelle di lontra. Ma la rassomiglianza con la Mide'wiwin degli Ojibwa e dei Menomini
finisce qui. È verosimile che il rito consistente nel proiettare conchiglie nel
corpo sia stato aggiunto piuttosto tardivamente (verso la fine del XVÙ secolo)
ad una cerimonia Winnebago più antica, ricca di elementi sciamanici. E siccome
il «Medicine Rite» presenta vari tratti simili a quelli della cerimonia dei medicine-men dei Pawnee e siccome la
distanza fra le due tribù esclude la possibilità di un'influenza diretta, si
può concludere che l'uno e l'altra hanno conservato resti di un unico rituale
molto antico, appartenente ad un complesso culturale di origine messicana. Del
pari, è probabilissimo che la stessa Mide'wiwin degli Ojibwa non sia che lo
sviluppo di un tale rituale.
In ogni caso il
punto da sottolineare è che il «Medicine Rite» dei Winnebago aveva per suo fine
la rigenerazione perpetua dall'iniziato. Il demiurgo mitico, la lepre, che era
stata mandata sulla terra dal Creatore per assistere gli umani, era rimasta
colpita dal fatto che gli uomini siano soggetti alla morte. Per rimediare al
male, essa fondò la loggia iniziatica, trasformandosi essa stessa in un
bambino. «Se
qualcuno ripete ciò che ho fatto ora - disse - ecco l'aspetto che avrà». Ma il
Creatore interpreta altrimenti la rigenerazione che ha concessa agli uomini:
gli uomini potranno rincarnarsi quante volte vorranno. E il «Medicine
Rite»
rivela, in fondo, il segreto di un ritorno ad
infinitum sulla terra, facendo conoscere il vero itinerario nel post-mortem
e le parole che il trapassato deve rivolgere alla Donna custode dell'aldilà e allo
stesso Creatore. Ciò, evidentemente, dà anche ragguaglio circa la cosmogonia e
l'origine del «Medicine Rite», perché si tratta pur sempre di
ritornare alle origini mitiche, di abolire il tempo epperò di riportarsi
all'istante miracoloso della Creazione.
Numerosi
elementi sciamanici sopravvissero anche nel grande movimento mistico noto sotto
il nome di «Ghost Dance Religion» il quale, pur avendo avuto un carattere
endemico già all'inizio del XIX secolo, non sconvolse le tribù nord-americane
che verso la fine del secolo. È assai probabile che il cristianesimo abbia
esercitato la sua influenza almeno su qualcuno dei «profeti» di esso (cfr.
Mooney). La tensione messianica e l'attesa di una imminente «fine
dei tempi» proclamata dai profeti e dai maestri della «Ghost Dance Religion»
erano facilmente associabili ad una esperienza cristiana frusta e elementare.
Ciò però non impedisce che questo importante movimento mistico popolare
presenti nella sua stessa struttura caratteri autoctoni. Infatti i suoi profeti
ebbero le loro visioni nel modo arcaico più puro: essi son «morti» e son saliti
nei Cieli ove una Donna celeste li ha istruiti circa il modo di presentarsi
dinanzi al «Signore della Vita» (Mooney); essi hanno avuto le loro
grandi rivelazioni durante delle trance,
nelle quali han viaggiato nelle regioni dell'aldilà e, tornati in se stessi,
han raccontato quel che avevano veduto; durante le loro trance volontarie essi potevano esser feriti con dei coltelli o
abbruciacchiati senza che nulla sentissero, e così via.
La «Ghost Dance
Religion» annunciava l'imminenza della rigenerazione universale: in essa tutti
gli Indiani, quelli morti così come quelli vivi, sarebbero stati chiamati a
vivere su di una «terra rigenerata» che avrebbero raggiunta volando attraverso
l'atmosfera con l'aiuto di piume magiche. Alcuni profeti - come John Slocum, il
creatore dei movimenti dei «tremanti» - avevan preso posizione contro l'antica
religione indiana e specialmente contro i medicine-men. Ciò però non impedì
agli sciamani di aderire al movimento: si è che essi avevano ritrovato l'antica
tradizione delle ascensioni celesti e delle esperienze della luce mistica, e,
come gli sciamani, gli shakers
giungevano a risuscitare i morti (vedi per es. il caso di quattro persone
risuscitate). Il rituale essenziale di questa setta consisteva nella
contemplazione prolungata del cielo e nel tremito continuo delle braccia,
tecniche sommarie che, in aspetti ancor più aberranti, si ritrovano anche nel
Vicino Oriente antico e moderno, sempre in relazione con ambienti «sciamanici».
Altri profeti denunciarono anche le pratiche di stregoneria e i medicine-men della tribù, ma
soprattutto per riformarli e per rigenerarli. Si può ricordare l'esempio di un
profeta Shawano che, verso i trent'anni, fu rapito nei cieli e ricevette una
nuova rivelazione dal Signore della Vita, la quale gli permise di conoscere gli
avvenimenti passati e futuri; questi, pur condannando lo sciamanismo, dichiarò
di aver ricevuto il potere di guarire tutte le malattie e di prevenire la morte
perfino sui campi di battaglia. Peraltro, questo profeta si considerava come
l'incarnazione di Manabozho, il primo «Grande Demiurgo» degli Algonkini, e
voleva riformare la Mide'wiwin.
Il suo
sorprendente successo popolare la «Ghost Dance Religion» lo dovette però alla
semplicità della sua tecnica mistica. Per preparare la venuta del Salvatore
della razza i membri della confraternita ballavano di seguito per cinque o sei
giorni, cadendo per tal via in trance
nelle quali vedevano i morti e conversavano con essi. Si danzava in circolo
presso il fuoco, si cantava, ma senza accompagnamento di tamburo. L'apostolo
confermava i nuovi sacerdoti dando loro una più ma d'aquila durante la danza. E
bastava che egli toccasse con tale più ma un danzatore a che questi cadesse a
terra privo di sensi: restava lungamente in tale stato, mentre la sua anima
incontrava i morti e parlava con essi. Non mancava nessuno degli elementi
sciamanici essenziali: i danzatori divenivano dei guaritori, indossavano le «camicie
dei fantasmi» (ghost shirts), cioè
costumi rituali con raffigurazioni di astri, di entità mitologiche e perfino di
visioni avute durante le trance,
usavano il bagno di vapore e via dicendo. Il fatto del danzare va messo in
rilievo: è una tecnica mistica che, pur non essendo esclusivamente sciamanica,
ha, come si è già avuto occasione di vedere, una parte decisiva nella
preparazione estatica degli sciamani.
Naturalmente, la
«Ghost
Dance Religion» va sotto ogni riguardo di là dallo sciamanismo stricto sensu. Ad esempio, l'assenza
dell'iniziazione e di una istruzione tradizionale segreta basta già a
distinguerla dallo sciamanismo. Ma qui si tratta di una esperienza religiosa
collettiva cristallizzatasi intorno al tema dell'imminenza di una «fine
del mondo».
L'origine stessa di questa esperienza - la comunicazione coi morti - implica,
in chi la vive, l'abolizione del mondo presente e l'instaurazione, sia pure
provvisoria, di una «confusione» che costituisce sia il termine del ciclo
cosmico attuale che il germe della restaurazione gloriosa di un nuovo ciclo
paradisiaco. Poiché le visioni mitiche dell'«inizio» e della
«fine» dei tempi sono omologabili l'escatologia riproducendo, in certi suoi
aspetti, la cosmogonia, l'eschaton
della «Ghost Dance Religion» riattualizzava l'illud tempus mitico, quello in cui le comunicazioni col Cielo, col
Gran Dio e i morti erano accessibili a ogni essere umano. Siffatti movimenti
mistici si differenziavano dallo sciamanismo tradizionale per il fatto che, pur
conservando elementi essenziali dell'ideologia e delle tecniche sciamaniche,
credevano che per tutto il popolo indiano fossero venuti i tempi in cui esso
avrebbe potuto conseguire lo stato privilegiato dello sciamano, ossia avrebbe
potuto veder ristabilite le «comunicazioni facili» col Cielo, proprio come esse
erano all'alba dei tempi.
Lo sciamanismo
sud-americano: rituali vari.
Nelle tribù
dell' America del Sud la parte dello sciamano sembra esser abbastanza
importante. Non solo egli è il guaritore per eccellenza e, in alcune regioni,
la guida dell'anima del trapassato verso la sua nuova dimora, ma è anche
l'intermediario fra gli uomini e gli dèi o gli spiriti e, sostituendosi
talvolta ai sacerdoti (come ad esempio fra i Mojo e i Manasi della Bolivia
orientale, fra i Taino delle Grandi Antille, ecc.), egli cura l'osservanza
delle interdizioni rituali, difende la tribù contro gli spiriti malvagi, indica
i luoghi ove caccia e pesca possono esser fruttuose. moltiplica la selvaggina,
ha potere sui fenomeni atmosferici (gli sciamani arrestano piogge torrenziali; «gli
sciamani Ipurina mandano il loro doppio in cielo per spegnere le meteore che
minacciano di bruciare l'universo»), facilita le nascite (secondo i Tapirapé e
altre tribù ancora le donne non possono generare e dare alla luce un bambino se
lo sciamano non fa scendere nel loro grembo un bambino-spirito. In certe tribù
lo sciamano viene chiamato per identificare lo spirito incarnatosi nel
fanciullo), rivela il futuro (per conoscere l'avvenire gli sciamani Tupinamba
«si ritiravano in piccole capanne dopo aver osservato vari tabù, fra cui otto
giorni di continenza»; gli spiriti scendevano e rivelavano gli eventi futuri
nella lingua degli spiriti), ecc. Cosi in tutte le comunità sud-americane egli
gode di un prestigio e di una autorità considerevoli. Soltanto gli sciamani
possono arricchirsi, cioè accumulare coltelli, pettini, asce, ecc. Essi han
fama di compiere miracoli (spesso di tipo strettamente sciamanico: volo magico,
ingestione di brace, ecc. (Métraux). Fra i Guarani la venerazione degli
sciamani era tale che si rendeva un culto alle loro ossa; nelle capanne
venivano conservati i resti dei maghi più potenti, che venivano consultati e ai
quali in dati casi si facevano delle offerte.
Naturalmente,
come i suoi colleghi di tutto il mondo, lo sciamano sud-americano può anche
fungere da stregone; ad esempio, può trasformarsi in un animale per bere il
sangue dei suoi nemici. La credenza nei lupi-mannari è diffusissima
nell'America del Sud (Métraux). Però più che al suo prestigio quale mago, è
alle sue capacità estatiche che lo sciamano sud-americano deve la sua posizione
magico-religiosa e la sua autorità sociale. Infatti queste capacità estatiche
non solo gli assicurano la sua prerogativa ordinaria di terapeuta, ma gli
permettono anche viaggi estatici in Cielo per incontrare gli dèi e per
trasmettere loro le preghiere degli umani. Talvolta è il dio a discendere nella
capanna cerimoniale dello sciamano: ne è il caso presso i Manasi, ove il dio
discende in terra, conversa con lo sciamano e infine lo solleva seco in Cielo,
per lasciarlo ricadere dopo qualche istante.
Come esempio di
funzione sacerdotale assunta dallo sciamano ricorderemo la cerimonia collettiva
periodica degli Araucani, detta ngillatun,
avente per scopo il rafforzare le relazioni fra Dio e la tribù. In essa la machi ha la parte principale. È essa che
cade in trance e invia la sua anima
dinanzi al «Padre Celeste» per fargli presente i desideri della comunità. La
cerimonia è pubblica; un tempo la machi
saliva su di una piattaforma portata da arbusti (la rewe) e là, contemplando a lungo il cielo, aveva delle visioni. Due
fra i presenti assolvevano funzioni il cui carattere sciamanico è evidente:
«con la testa avvolta in un panno bianco, col viso impiastricciato di nero, a
cavallo di un cavallo di legno e con una spada di legno e un bastone a sonagli
nelle mani», questi due paggi «fanno caracollare il loro cavallo
di legno ed agitano i loro sonagli in una vera frenesia» non appena la machi entra in trance (Housse). (Si ricordino il «cavallo» dello sciamano buriate
e le danze su un cavallo di legno dei Murias). Lo sciamano yaruro compie il suo
viaggio al paese dei morti, che è anche il paese della Grande Dea Madre, in
groppa ad un «cavallo». Durante la trance
della machi altri cavalieri lottano contro i demoni e si procede all'espulsione
degli spiriti maligni (Del resto, è probabile che la festa ngillatun faccia parte del complesso delle cerimonie periodiche di
rigenerazione del tempo). Una volta ripresi i sensi, la machi racconta il suo viaggio nei cieli e annuncia che il Padre
Celeste ha esaudito tutti i desideri della comunità. Tali parole vengono
accolte da ovazioni prolungate e scatenano un entusiasmo generale. Quando il
tumulto si è un po' calmato, alla machi vien raccontato tutto quanto è accaduto
durante il suo viaggio in Cielo: la lotta coi demoni, la loro espulsione,
eccetera.
Fra questo
rituale araucano e il sacrificio altaico del cavallo seguito dal viaggio
celeste dello sciamano fino al palazzo di Bai Ulgan esiste una rassomiglianza
palese: nell'uno come nell'altro caso si tratta di un rituale collettivo
periodico destinato a far presente al Dio celeste i desideri della tribù;
nell'uno come nell'altro caso è lo sciamano che ha la parte principale, e ciò
unicamente grazie alle sue capacità estatiche che gli permettono il viaggio
mistico in Cielo e un dialogo diretto con Dio. In pochi altri casi la funzione
religiosa dello sciamano - lo sciamano come intermediario fra gli uomini e Dio
- ha un cosi netto risalto come appunto fra gli Araucani e gli Altaici.
Noi abbiamo già
rilevate altre rassomiglianze fra lo sciamanismo sud-americano e quello altaico:
il montare su di una piattaforma vegetale (fra gli Araucani) o su di una
piattaforma sospesa al soffitto della capanna cerimoniale a mezzo di parecchie
corde attorcigliate (presso i Caribi della Guiana olandese), la parte del Dio
celeste, il cavallo di legno, le cavalcate frenetiche dei presenti. Notiamo
infine che, proprio come fra gli Altaici e i Siberiani, certi sciamani
sudamericani sono psicopompi. Presso i Bakairi il viaggio nell'aldilà è troppo
difficile perché un morto possa compierlo da solo; egli abbisogna di qualcuno
che conosca il cammino, per aver compiuto più volte quel viaggio; ora, lo
sciamano raggiunge il Cielo in un batter d'occhio: per lui - dicono i Bakairi -
il Cielo non è più alto di una casa. Presso i Manacica lo sciamano conduce
l'anima del trapassato in Cielo non appena finiti i funerali. Il cammino è
lungo e difficile: si attraversa una foresta vergine, si scala un monte, si
oltrepassano mari, fiumi e paludi finché si raggiunge la sponda di un gran
corso d'acqua: ed allora bisogna passare per un ponte custodito da una
divinità. Senza l'aiuto dello sciamano l'anima non potrebbe venir a capo di
tutto ciò.
Come
dappertutto, nel Sud-America la funzione essenziale e rigorosamente personale
dello sciamano resta la guarigione. Questa non ha sempre un carattere
esclusivamente magico. Lo sciamano sudamericano conosce anche lui le virtù
medicinali delle piante e degli animali, usa il massaggio, ecc. Ma poiché
secondo lui la grande maggioranza delle malattie ha una causa d'ordine
spirituale - dipende cioè o dalla fuga dell'anima, o dall'introduzione di un
oggetto magico nel corpo del malato ad opera di spiriti o di stregoni - cosi
egli è costretto a ricorrere alla guarigione sciamanica.
La concezione
della malattia in funzione di perdita dell'anima, in quanto l'anima o si è
smarrita, o è stata rapita da uno spirito o da uno spettro, è assai diffusa
nella regione del Rio delle Amazzoni e delle Ande, mentre è piuttosto rara
nell'America del Sud tropicale. Tuttavia la si è ritrovata anche in un certo
gruppo di tribù di questa zona e fra gli Yahgan della Terra del Fuoco.
Generalmente insieme a questa concezione coesiste la teoria dell'introduzione
di un oggetto magico nel corpo del malato, la seconda essendo però maggiormente
diffusa.
Quando si tratta
di ritrovare l'anima rapita da spiriti o da morti, si crede che lo sciamano
lasci il corpo e si avventuri negli Inferni o nelle regioni abitate dal
rapinatore. Cosi secondo gli Apinayé egli si reca nel paese dei morti: questi,
presi da panico, fuggono e lo sciamano cattura l'anima del malato e la
riconduce al suo corpo. Un mito taulipang tratta della ricerca dell'anima di un
fanciullo che la luna aveva rapita e nascosta in un vaso; lo sciamano sale
sulla luna e dopo varie peripezie scopre il vaso e libera l'anima del fanciullo.
I canti delle machi araucane trattano talvolta delle disavventure dell'anima:
un cattivo spirito ha condotto il malato per un ponte o un morto lo ha
spaventato. In certi casi, invece di darsi alla ricerca dell'anima, la machi si
limita a supplicarla di tornare e di riconoscere i suoi parenti (Métraux), cosa
che si fa anche altrove (cfr. per es. l'India vèdica). Il viaggio estatico
intrapreso dallo sciamano a fini di guarigione presenta talvolta i tratti
aberranti di una ascensione celeste di cui non si capisce più il senso: cosi
vien riferito che «per i Taulipang il risultato di una cura dipende talvolta
dall'esito del combattimento fra il doppio dello sciamano e lo stregone. Per
raggiungere il paese degli spiriti lo sciamano beve un'infusione fatta di una
liana la cui forma ricorda quella di una scala» (Métraux). Il Simbolismo della
scala indica il significato ascensionale della trance. Però, in genere, gli spiriti rapitori di anime non abitano
regioni celesti. Come in altri casi, anche lo sciamanismo taulipang presenta
una confusione di idee religiose, il senso più profondo delle quali sta per
andar perduto.
Il viaggio
estatico dello sciamano è qui quasi sempre indispensabile, anche se la malattia
non è dovuta al ratto dell'anima ad opera di demoni o di morti. La trance sciamanica fa parte della cura:
quale pur sia l'interpretazione che lo sciamano gli dà, è sempre per mezzo
dell'estasi che egli scopre la causa precisa del male e viene a sapere quale
cura sia più efficace. La trance finisce
talvolta in una «possessione» dello sciamano da parte dei suoi spiriti
familiari (come per es. fra i Taulipang e gli Yekuanà). Ma noi abbiamo già
visto che, per lo sciamano, la «possessione» può talvolta
significare un prender possesso di tutti i suoi «organi mistici» costituenti,
in un certo modo, la sua personalità spirituale vera e completa. Nella maggior
parte dei casi la «possessione» non fa che mettere a disposizione dello
sciamano i suoi spiriti ausiliari, che realizzare la loro presenza effettiva
manifestantesi attraverso segni sensibili d'ogni specie: e questa presenza,
invocata dallo sciamano, non conduce alla trance,
ma al dialogo fra lo sciamano e i suoi spiriti ausiliari. Nella realtà, le cose
si presentano ancor più complesse: poiché lo stesso sciamano può trasformarsi
in un animale, talvolta non si sa in che misura le grida animalesche che si
odono nella seduta siano quelle degli spiriti familiari o rappresentino piuttosto
le tappe del trasformarsi dello sciamano in animale, cioè la rivelazione
manifesta della sua vera personalità mistica.
La morfologia
della terapia sciamanica sud-americana è quasi dovunque identica. Essa implica
dei suffumigi di tabacco, dei canti, dei massaggi della parte malata del corpo,
l'identificazione della causa della malattia con l'aiuto degli spiriti
ausiliari (e qui interviene la trance
dello sciamano, durante la quale i presenti gli fanno talvolta domande prive di
relazioni dirette con la malattia) e, infine, l'estrazione dell'oggetto
patogeno per suzione. Presso gli Araucani, la machi, per esempio, si rivolge anzitutto a «Dio-Padre» il quale,
benché influenze cristiane non siano da escludersi, mantiene ancora la sua
struttura arcaica (per esempio, l'androginia: egli viene invocato come
«Padre-Dio, vecchia che sei in Cielo» (Métraux). Poi la machi si rivolge ad Anchimalen, che è la sposa o 1'«amica»
del Sole, e alle anime delle machi
morte, «quelle, di cui è detto che son nei cieli e che portano lo sguardo verso
le loro colleghe di quaggiù»; si prega che intervengano presso
il Dio.
Va rilevata
l'importanza che i motivi dell'ascensione celeste e della cavalcata aerea hanno
nella tecnica delle machi. Infatti
poco dopo aver invocato l'aiuto e la protezione di Dio e delle machi morte, la sciamana annuncia «che
sta per montare a cavallo con le sue assistenti, le machi invisibili» iibid., p. 334). Durante la trance la sua anima abbandona il corpo e se ne vola per l'atmosfera
(ibid., p. 336). Per raggiungere l'estasi la macbi usa mezzi elementari: danza,
movimenti delle braccia, accompagnamento coi sonagli. Mentre balla, si rivolge
alle machi celesti a che l'aiutino durante l'estasi. «Quando la sciamana è sul
punto di cadere per terra priva di sensi, alza le braccia e si mette a girare
su se stessa, allora un uomo le si avvicina per sostenerla ed impedirle di
cadere. Un altro Indiano accorre ed esegue una danza chiamata Iankan, destinata a rianimarla». Si
giunge alla trance dondolandosi in
cima alla scala sacra (rewe).
Durante tutta la
cerimonia si fa grande uso di tabacco. La machi trae una boccata di fumo e
l'invia verso il cielo, verso Dio. «Ti offro questo fumo!» dice. Ma Métraux
precisa che «in nessuna occasione ci è stato detto specificamente che il
tabacco l'aiuti a raggiungere uno stato estatico».
Secondo quanto
fu riferito dai viaggiatori europei del XVIII secolo, la cura sciamanica allora
implicava anche il sacrificio di un montone, al quale lo sciamano strappava il
cuore ancora palpitante. Ai nostri giorni ci si limita a fare un'incisione all'animale
sacrificale. Ma la maggior parte degli osservatori antichi e moderni riferisce
concordemente che le machi, con un
qualche espediente illusionistico, fanno credere ai presenti che esse aprono il
petto e il ventre del malato mettendo a nudo le visceri e il fegato. Secondo il
Padre Housse la machi «sembra aprire
il corpo dell'infelice, cercarvi dentro, estrarre qualcosa». E mostra poi la
causa del male, una pietruzza, un verme, un insetto, ecc. Si vuole che la
ferita si chiuda subito da sé. Ma siccome la cura abituale non implica
l'apparente apertura del corpo ma solo la suzione (talvolta fino al sangue)
della parte del corpo indicata dallo spirito, è assai probabile che qui si
tratti di una applicazione aberrante di una tecnica iniziatica ben nota: perché
si apre magicamente il corpo del neofita per mettere nuovi organi interni al
posto di quelli antichi e per farlo «rinascere». Nel caso della
guarigione araucana le due tecniche - il cambio degli organi interni di un
candidato e l'estrazione dell'oggetto patogeno - si sono confuse e ciò, senza
dubbio, perché lo schema iniziatico (morte e resurrezione con rinnovamento
degli organi interni) è andato a poco a poco perduto.
Come pur stiano
le cose a tale riguardo, quell'operazione magica nel XVIII secolo era connessa
ad una trance catalettica: lo
sciamano (perché a quel tempo lo sciamanismo era prerogativa degli uomini e
degli invertiti, più che delle donne) cadeva «come morto». Mentre era in trance gli si facevano domande circa il
nome dello stregone che aveva provocato la malattia e il rimedio - ma questa trance non interviene subito dopo 1'«apertura»
del corpo del paziente. In alcuni casi, non v'è traccia di tale operazione
magica, si ha soltanto la suzione che viene eseguita dopo la trance, seguendo le istruzioni degli
spiriti.
La suzione e
l'estrazione dell'oggetto patogeno restano però pur sempre un'operazione di
carattere magico-religioso. Per lo più quell'oggetto è infatti d'ordine
sovrannaturale ed è stato proiettato invisibilmente nel corpo da un demone o da
un morto. L'oggetto non è che la manifestazione sensibile di un «male» che non
è di questo mondo. Come lo si è visto nel caso degli Araucani, lo sciamano vien
certo aiutato nel suo lavoro dai propri spiriti familiari, ma anche dai colleghi
morti e da Dio stesso. Le formule magiche della machi si ritiene che sian state perfino dettate da Dio (Métraux,
ibid., p. 338). Lo sciamano Yamana, che usa anche lui la suzione per estrarre
lo 'yekush (il «male» proiettato
magicamente nel corpo del paziente), non per questo tralascia di pregare. Anche
lui dispone di uno yefatchel, di uno spirito ausiliario, e durante tutto il
tempo in cui questo lo «possiede» è insensibile. È però una insensibilità che
ha specifico carattere sciamanico, perché egli può anche camminare sul fuoco a
piedi nudi e inghiottire carboni ardenti (Gusinde) come i suoi colleghi
dell'Oceania, dell'America settentrionale e della Siberia.
Riassumendo,
nello sciamanismo sud-americano è ancora presente un buon numero di tratti
estremamente arcaici: l'iniziazione mediante la morte e la resurrezione rituale
del candidato, l'inserzione di sostanze magiche nel suo corpo, l'ascensione
celeste per esporre al Dio supremo i desideri dell'intera comunità, la
guarigione sciamanica per suzione o la ricerca dell'anima del malato, il
viaggio estatico dello sciamano in funzione di psicopompo, i «canti segreti»
rivelati da Dio o dagli animali, specie dagli uccelli. Qui è inutile compilare
una tavola comparativa di tutti i casi nei quali si ritrova lo stesso
complesso. Ricorderemo soltanto le rassomiglianze con i medicine-men australiani (quanto all'inserzione di sostanze
magiche nel corpo del candidato, al viaggio iniziatico celeste, alla guarigione
per suzione) per mostrare l'alta antichità di alcune delle tecniche e delle
credenze degli sciamani sud-americani. In questa sede non è il caso di
pronunciarsi sul problema, se rassomiglianze così notevoli siano dovute al
fatto che gli strati sud-americani più antichi rappresentano, al pari degli
Australiani, i resti di una umanità arcaica, respinti ai margini estremi
dell'ecumene - o se si ebbero dei contatti diretti fra Australia e America del
Sud attraverso le regioni antartiche. La seconda ipotesi è stata difesa da studiosi
come Mendes Correa, Koppers e Rivet. Ed è stata anche formulata l'ipotesi di
migrazioni successive dall'area malese-polinesica verso l'America del Sud.
Rivet crede di poter distinguere, dal punto di vista cronologico, tre
migrazioni che hanno popolato il continente americano: asiatica, australiana e
melano-polìnesìana. Quest'ultima sarebbe nettamente più importante di quella
australiana. Benché fino a questo momento non si siano rinvenute stazioni
dell'uomo paleolitico nell' America del Sud, è assai probabile che le
migrazioni e i contatti culturali tra questa e l'Oceania (qualora la loro
realtà non sia piiì messa in dubbio) siano stati molto precoci.
Antichità dello
sciamanismo nel continente americano
Quanto al
problema dell'«origine» dello sciamanismo nelle due Americhe, esso è
ancora ben lungi dall'esser risolto. È probabile che un certo numero di
pratiche magico-religiose si sia a poco a poco aggiunto alle credenze e alle
pratiche dei primi abitanti delle due Americhe. Se consideriamo i Fuegini come
i discendenti di una delle prime ondate degli immigranti penetrati in America,
si è in diritto di supporre che la loro religione, dal punto di vista che qui
ci interessa, rappresenti la sopravvivenza di una ideologia arcaica
comprendente la credenza in un Dio celeste, l'iniziazione sciamanica per
elezione o per ricerca volontaria, i rapporti con le anime degli sciamani morti
e con gli spiriti familiari (rapporti, che talvolta giungono fino alla
«possessione»), la concezione della malattia come effetto della presenza di un
oggetto magico nel corpo o della perdita dell'anima, l'insensibilità dello
sciamano al fuoco, Ora, sembra che la maggior parte di questi elementi si
ritrovino tanto nelle zone ove lo sciamanismo domina effettivamente la vita
religiosa della comunità (America del Nord, Eschimesi, Siberiani) quanto nelle
regioni in cui è solo uno dei fenomeni costitutivi della vita magico-religiosa
(Australia, Oceania, Asia di sud-est). Si può dunque supporre che una certa
forma di sciamanismo si è diffusa nei due continenti americani insieme alle
prime ondate di immigranti, qualunque fosse la «patria originaria» di questi
ultimi.
Certo, i
contatti prolungati che si sono avuti fra l'Asia 'settentrionale e l'America
del Nord hanno rese possibili influenze di molto posteriori alla penetrazione
dei primi occupanti. Heine-Geldem ha messo in luce l'origine asiatica dell'arte
delle tribù americane della Costa Nordoccidentale; egli pensa d'aver
identificato lo stesso principio stilistico presso le tribù costiere della
Columbia Britannica e dell'Alaska meridionale, nel nord della Nuova Irlanda, in
Melanesia, su certi monumenti e oggetti rituali del Borneo, di Sumatra e della
Nuova Guinea e, infine, nell'arte cinese dell'epoca Chang. L'autore suppone che
questo stile artistico, d'origine cinese, si sia propagato, da una parte, verso
l'Indonesia e la Melanesia, e dall'altra, in direzione orientale, verso
l'America, ove non sarebbe arrivato più tardi che nella prima parte del I
millennio a.C.
Dopo Tylor,
Thalbitzer, Hallowell ed altri ancora (Rammentiamo che il parallelismo tra
America e antica Cina, studiato specialmente su documenti artistici, è già
stato messo in luce da Hentze), Lowie ha rilevate numerose rassomiglianze fra i
Lapponi e le tribù americane, specialmente quelle del Nord-Est. Un viaggiatore
della fine del XVII secolo descrive così una usanza finnica: i contadini
riscaldavano delle pietre in mezzo ad un apposito ambiente, versandovi poi
sopra dell'acqua e restando vicini per qualche tempo affinché il vapore caldo
aprisse bene i pori della pelle; subito dopo andavano a gettarsi in un corso d'acqua
freddissimo. La stessa usanza fu riferita nel XVI secolo per gli Scandinavi.
Lowie ricorda che i Tlingit e i Crow si gettano anch'essi in un fiume
semigelato dopo esser restati a lungo in un bagno di vapore. Vedremo più giù
che il bagno di vapore fa parte delle tecniche elementari intese ad accrescere
il «calore mistico», la traspirazione avendo talvolta
un valore creativo per eccellenza; in molte tradizioni mitologiche l'uomo
primordiale vien creato da Dio in seguito ad una forte traspirazione. In particolare,
i disegni del tamburo lappone ricordano in modo sorprendente lo stile
pictografico degli Eschimesi e degli Algokini orientali (Lowie). Questo stesso
studioso ha richiamato l'attenzione sulla somiglianza del canto dello sciamano
lappone, ispirato da un animale, soprattutto da un uccello, col canto degli
sciamani nord-americani, che ha la stessa origine. Devesi tuttavia rilevare che
lo stesso fenomeno lo s'incontra anche nell'America del Sud, il che, secondo
noi, esclude una influenza euroasiatica recente. Lowie nota anche le
somiglianze fra la teoria della perdita dell'anima quale è professata sia dagli
Americani del Nord che dai Siberiani, il giuoco sciamanico col fuoco, comune
all'Asia del Nord e a numerose tribù nord-americane (come i Fox e i Menomini),
lo scuotimento della capanna cerimoniale e la ventriloqui a fra i Ciukci e i
Cree, i Saulteaux e i Cheyenne, infine certi tratti comuni presentati dal bagno
di vapore iniziatico nell'America del Nord e nell'Europa settentrionale: il che
farebbe supporre non solo una solidarietà culturale fra Siberia e America
occidentale, ma anche delle relazioni fra America e Scandinavia.
Notiamo tuttavia
che tutti questi elementi culturali (la ricerca dell'anima, lo scuotimento
della capanna sciamanica, la ventriloquia, il bagno di vapore, l'insensibilità
al fuoco) non si incontrano solo nell'America del Sud, ma, fra di essi, i più specifici (il giocare col fuoco, il bagno di
vapore, la capanna cerimoniale oscillante, la ricerca dell'anima) sono stati
parimenti constatati in molti altri luoghi (Africa, Australia, Oceania, Asia) e
proprio in relazione con le forme più arcaiche della magia in genere e
soprattutto con lo sciamanismo. Ci sembra particolarmente importante la parte
che ha il «fuoco» e il «calore» nello sciamanismo sud-americano. Questo «fuoco»
e questo «calore» mistico sono sempre in rapporto con l'accesso ad un certo
stato estatico - e ciò si ritrova negli strati più arcaici della magia e della
religione universale. Il dominio del fuoco, l'insensibilità al calore e,
pertanto, il «calore mistico» che fa sopportare sia un freddo estremo che la
temperatura dei carboni ardenti, è una virtù magico-mistica che, unita ad altri
poteri non meno meravigliosi (ascensione, volo magico, ecc.), traduce in
termini sensibili il fatto che lo sciamano ha superato la condizione umana e
partecipa di già della condizione degli «spiriti».
Ove ci si renda
conto di ciò, l'ipotesi dell'origine recente dello sciamanismo americano appare
discutibile. Le grandi linee di uno s,tesso complesso sciamanico le ritroviamo
dall'Alaska alla Terra del Fuoco. Gli apporti nord-asiatici od anche asiatico-oceanici
molto probabilmente non sono valsi che a fortificare, modificandone talvolta
solo i dettagli, una ideologia e una tecnica sciamanica gia largamente diffuse
nelle due Americhe e in un qualche modo in esse naturalizzate.
Capitolo 10: Lo sciamanismo nell'Asia
sud-orientale e in Oceania
Credenze e tecniche
sciamaniche fra i Sakai, i Semang e i Jakun
Gli studiosi
convengono nel riconoscere nei Negritos gli abitanti più antichi della penisola
di Malacca. Kari, Karei o Ta Pedn, l'Essere supremo dei Semang, ha tutte le
caratteristiche di un dio celeste (del resto, Kari significa «fulmine»,
«tempesta»),
senza che però sia l'oggetto di un culto vero e proprio: lo si invoca solo in
caso di tempesta, con offerte espiatorie di sangue. Il medicine-man dei Semang si chiama hala o halak, termine
usato anche dai Sakai. Quando qualcuno si ammala il hala e il suo assistente si ritirano in una capanna fatta di
fogliame e cominciano a cantare invocando i cenoi,
i «nipoti di Dio» («Piccoli esseri celesti amabili e luminosi; fanciulli e
servitori della divinità»).
Dopo un certo
tempo si odono, nella capanna, le voci di questi cenoi; il hala e il suo
assistente cantano e parlano in una lingua sconosciuta che, quando lasciano la
capanna, pretendono di aver dimenticata: i cenoi avrebbero appunto cantato per
loro bocca. È, naturalmente, la «lingua degli spiriti», il linguaggio
segreto proprio agli sciamani. Evans fornisce alcune invocazìonì e trascrive
testi di canti di stupefacente semplicità. Secondo lo stesso autore, durante la
seduta il baia è sotto il controllo dei cenoi, ma la descrizione di Evans
lascia piuttosto l'impressione d'un dialogo tra il hala e i suoi spiriti ausiliari. La discesa di tali spiriti si
manifesta con un tremar della capanna (vedi le sedute degli sciamani
nord-americani, più sopra). Sono essi a rivelare la causa della malattia e ad
indicare la cura; ed è in tale occasione che il bala cadrebbe in trance (Evans).
In realtà, qui
la tecnica non è cosi semplice come parrebbe. La presenza concreta dei cenoi implica, in un modo o nell'altro,
una comunicazione fra il hala e il
Cielo, se non perfino fra lui e il Dio celeste. «Se Ta Pedn non gli avesse
detto qual medicina impiegare, quando darla al malato, e le parole che deve
pronunciare, il bala come farebbe a guarire?», chiedeva un pigmeo
Semang. Infatti è lo stesso Ta Pedn che invia le malattie, per punire i peccati
degli uomini (Evans). Che fra il bala e il Dio celeste esistano rapporti più
diretti che non fra questi e gli altri Negritos, ciò lo prova anche il fatto
che i Menri di Kelantan pretendono che i hala
posseggano poteri divini, per cui non fanno oblazioni di sangue durante le
tempeste. Il hala dei Menri durante
la cerimonia fa dei salti, canta e getta uno specchio e una collana verso
Karei; ma si sa ormai che il salto rituale è simbolo dell'ascesa celeste.
Esistono anche
informazioni più precise sui rapporti fra lo sciamano pigmeo e il Cielo.
Durante la seduta il halak dei
Negritos Pahang ha fra le mani dei fili fatti di foglie di palme o, secondo
altre informazioni, certe corde sottili. Questi fili e queste corde vanno fino
a Bonsu, il Dio celeste che risiede al di là dei sette piani del cielo. (Vi
vive con suo fratello Teng; negli altri piani del Cielo non c'è nessuno).
Durante tutta la seduta il halak è
connesso direttamente col Dio celeste per mezzo di questi fili o corde, che la
divinità stessa fa scendere e che essa ritira dopo la cerimonia (Evans),
Infine, un elemento essenziale della guarigione è costituito dai cristalli di
quarzo tsbebusb), la cui relazione
con la volta celeste e gli dèi uranici è stata da noi già rilevata (vedi
sopra). Cristalli di tal genere si possono ricevere direttamente dai cenoi, ma
possono anche esser confezionati: si nnene che all'interno di queste pietre
magiche vivano dei cenoi, che sono
agli ordini del hala. Si vuole che il guaritore veda la malattia nei cristalli
- cioè che i cenoi che vi si trovano
gli indichino la causa del male e la cura adatta. Ma nei cristalli il hala - può anche vedere una tigre che si
avvicina all' accampamento (Evans). Il hala
stesso può trasformarsi in tigre (Evans), proprio come i bomors di Kelantan e gli
sciamani, uomini e donne, della Malacca. In tale concezione si tradiscono
influenze malesi; tuttavia non si deve dimenticare che in tutta la zona
dell'Asia sud-orientale la Tigre quale antenato mitico vien considerata come
«colui che inizia» è essa a condurre i neofiti nella jungla per iniziarli (di
fatto: per «ucciderli» e «risuscitarli». In altri termini,
essa fa parte di un complesso religioso estremamente arcaico. Un bomor belian
(cioè uno specialista in fatto di invocazioni allo spio rito della tigre) della
regione d Kelantan non ricordava, del suo periodo iniziale di follia, che
l'aver errato a lungo per la jungla e l'aver incontrato una tigre: egli l'aveva
cavalcata e la tigre l'aveva condotto a Kadang baluk, il luogo mitico dove gli
uomini-tigre vivono. Tornò dopo tre anni e da allora non ebbe più attacchi
epilettici. Naturalmente Kadang baluk è 1'«inferno nella boscaglia» ove si
compie l'iniziazione, che però non è necessariamente una iniziazione
sciamanica.
Una leggenda dei
Negritos sembra averci conservata un'antica scenografia di iniziazione
sciamanica. Si racconta che una grande serpe, Mat Shinoi, vive sulla strada che
conduce al Palazzo di Tapern (Ta Pedn). È essa che fabbrica i tappeti per
Tapern: son dei bei tappeti, con numerosi ornamenti, che sono stesi su una
traversa; sotto, abita appunto la Serpe. Nel suo ventre si trovano da venti a
trenta donne-Shinoi belle quanto mai,
insieme ad una quantità di ornamenti per il capo, di pettini, ecc. Uno Shinoi chiamato Halak-Gihmal (1'«Arma-Sciamano»)
sta sul dorso della serpe, facendo la guardia ai suoi tesori. Ove uno Shinoi desideri entrare nel ventre della
Serpe, Halak Gihmal gl'impone due prove, la cui struttura e il cui significato
sono nettamente iniziatici. Al disopra del luogo dove la Serpe sta distesa
sette tappeti si muovono, avvicinandosi e allontanandosi continuamente gli uni
dagli altri. Lo Shinoi candidato deve
passarvi attraverso così presto da non cadere sul dorso della Serpe. La seconda
prova consiste nel penetrare in un cofano il cui coperchio si apre e si
richiude rapidissimamente. Se supera queste due prove, il candidato può entrare
nella Serpe e prendersi una sposa fra le donne-Shinoi che vi si trovano (Evans).
Qui noi dunque
ritroviamo il tema iniziatico della porta magica che si apre e si richiude
fulmineamente, tema da noi già incontrato in Australia, nell'America del Nord e
in Asia. Ricordiamo anche che il penetrare all'interno di un mostro ofidico
equivale ad una iniziazione.
Presso i Batachi
di Palawan, altro ramo pigmeo della Malacca, lo sciamano (balian) raggiunge la trance
ballando. Questo è già segno che qui la tecnica ha subito influenze
indo-malesi. Tali influenze sono ancor più visibili nelle credenze funerarie.
L'anima del morto resterebbe per quattro giorni vicino ai suoi; poi
attraverserebbe una pianura in mezzo alla quale si erge un albero. Essa vi
monta sopra e raggiunge il punto ove la Terra tocca il Cielo. Là si trova uno
Spirito-Gigante che decide, in base alle azioni da lei compiute in vita, se
l'anima può procedere o se deve esser gettata nel fuoco. Il paese dei morti ha
sette piani - il che è quanto dire che è il Cielo. Lo spirito li percorre,
l'uno dopo l'altro. Raggiunto l'ultimo, si trasforma in lucciola. Il numero 7 e
la punizione col fuoco, come si disse (pp. 306 sgg.), sono idee di origine
indiana.
Le due altre
popolazioni aborigene premalesi della Malacca, i Sakai e i Jakun, pongono
all'etnologo più di un problema. Dal punto di vista della storia delle
religioni è certo che lo sciamanismo ha presso di esse una parte assai più
importante che non fra i Pigmei Semang, benché la tecnica sia essenzialmente la
stessa. Si ritrova la capanna circolare fatta di fogliame, dove il bala (Sakai) o il poyang (Jakun: variante
del termine malese pawang) entra coi suoi assistenti; si ritrova anche l'uso,
da parte loro, di canti e di invocazioni agli spiriti ausiliari. La maggior
importanza concessa a questi ultimi, che vèr.tgono ereditati e che si ottengono
in seguito ad un sogno, denota influenze malesi: talvolta gli spiriti ausiliari
vengono invocati appunto in malese. Dentro la capanna si trovano due piccole
piramidi a gradinata (Evans), segno di una scalata simbolica al cielo. Lo sciamano
usa, per la seduta, uno speciale copricapo ornato da numerosi nastri, altro
indizio di una influenza malese.
I cadaveri degli
sciamani sakai vengono lasciati nelle case in cui son morti, senza sepoltura. I
puteu dei Kenta Semang vengon
seppelliti in modo che la testa sporga dalla tomba; si crede che l'anima loro
si diriga verso Oriente, invece che verso Occidente, come le anime degli altri
mortali (Evans). Questi particolari ci dicono che si tratta di una classe di
esseri privilegiati che come tale ha un post-mortem
diverso da quello del resto della tribù. I poyang dei Jakun, dopo la loro
morte, vengono deposti su delle piattaforme, perché «le loro anime salgono in
Cielo, mentre quelle dei comuni mortali, il corpo dei quali vien seppellito,
scendono nelle regioni infere».
Sciamanismo nelle isole
Andamene e Nicobare
Secondo le
informazioni raccolte da Radcliffe-Brown, nelle Andamane del Nord il medicine-man (oko-juma, letto «il sognatore» o «colui che parla dei sogni»)
consegue il suo potere per contatto con gli spiriti. Con gli spiriti ci
s'incontra direttamente, nella jungla o nei sogni. Il modo più abituale di
entrare in rapporto con gli spiriti è però la morte: quando qualcuno muore e
poi torna in vita, è ormai divenuto oko-juma.
Così Radcliffe-Brown ha visto un uomo gravemente ammalato che restò senza
coscienza per dodici ore e fu considerato morto. Un altro si vuole che fosse
morto e risuscitato tre volte. In questa tradizione si può facilmente
riconoscere lo schema della morte iniziatica seguita dalla resurrezione del
candidato. Ma si ignorano i particolari relativi alla teoria e alla tecnica
dell'iniziazione: gli ultimi oko-juma
erano morti quando, verso il principio di questo secolo, si pensò di studiarli
oggettivamente.
Gli oko-juma «debbono il loro prestigio
all'efficacia delle loro cure e alla loro magia meteorologica ( essi avrebbero
il potere di prevenire le tempeste). Ma il trattamento propriamente detto
consiste nel raccomandare rimedi già noti e usati da tutti. Talvolta essi
procedono all'espulsione dei demoni che provocano la malattia o promettono di
compiere direttamente la guarigione in sogno. Gli spiriti rivelano loro le virtù
magiche di vari oggetti (sostanze minerali e piante). Però essi ignorano l'uso
dei cristalli di quarzo.
I medicine-men delle Isole Nicobare
conoscono sia la guarigione per «estrazione» dell'oggetto magico che ha
provocato la malattia (un frammento di carbone, o una pietruzza, o una
lucertola, ecc.), sia la ricerca dell'anima rapita da spiriti malvagi.
Nell'isola Car dell'arcipelago delle Nicobare troviamo una interessantissima
cerimonia di iniziazione dei futuri
medicine-men In genere, chi dimostra un temperamento malaticcio è fra i
predestinati a divenire sciamano; gli spiriti dei parenti o degli amici morti
di recente danno a conoscere la loro scelta lasciando di notte nell'abitazione
certi segni (foglie, polli con le zampe legate, ecc.). Se il malato rifiuta di
divenire sciamano muore. Accertata questa elezione, ha luogo una cerimonia
pubblica che segna l'inizio del noviziato: mentre i parenti e gli amici si
radunano dinanzi alla casa, dentro gli sciamani stendono il novizio per terra e
lo coprono di foglie e di rami, mettendogli sulla testa piume di ali di gallina
(questo seppellimento vegetale lo si potrebbe interpretare come una sepoltura
simbolica e si potrebbe veder nelle piume il segno magico del potere mistico
del volo). Quando il novizio si rialza i presenti gli danno collane e gioielli
vari che egli dovrà portare al collo per tutto il periodo del noviziato;
renderà questi oggetti ai proprietari quando finirà il suo tirocinio.
Poi si fabbrica
un trono sul quale l'iniziando vien portato di villaggio in villaggio, e gli si
rimettono una specie di scettro e una lancia per combattere contro i cattivi
spiriti. Dopo qualche giorno vien condotto dai maestri sciamani nel cuore della
jungla, in mezzo all'isola. Taluni amici accompagnano il gruppo fino ad una
certa distanza, arrestandosi prima di penetrare nel «paese degli spiriti».
Infatti, le anime dei morti potrebbero spaventarsi. L'insegnamento segreto
riguarda essenzialmente l'apprendimento di certe danze e il modo di vedere gli
spiriti. Dopo aver trascorso un certo tempo nella jungla (e, cioè, nel paese
dei morti), il novizio e i maestri ritornano al villaggio. Per tutto il periodo
del noviziato il discepolo continua a ballare ogni notte, per lo meno per
un'ora, davanti alla casa. Quando la sua iniziazione ha termine, i maestri gli
rimettono un bastone. Esiste di certo un'altra cerimonia nella quale egli vien
consacrato sciamano: ma non si è riusciti ad avere nessuna informazione precisa
al riguardo.
Questa
interessantissima iniziazione sciamanica la si trova solo nell'isola Car; essa
è conosciuta nel resto dell'Arcipelago delle Nicobare. In essa certi elementi
sono sicuramente arcaici (il seppellimento sotto le foglie, il ritiro nel
«paese degli spiriti»), ma una quantità di altri tradisce una influenza indiana
(il trono dell'iniziando, la lancia, lo scettro, il bastone). Qui abbiamo un
esempio tipico di ibridazione di una tradizione sciamanica in seguito a
contatti culturali con un'alta civiltà che ha elaborato una tecnica magica
estremamente complessa.
Ciò che vien
chiamato lo sciamanismo malese ha per note distintive l'evocazione dello
spirito della tigre e il conseguimento dello stato lupa. Questo è lo stato d'incoscienza in cui cade lo sciamano e
durante il quale gli spiriti si impadroniscono di lui, lo «posseggono» e
rispondono alle domande rivolte dai presenti. Che si tratti di una cura
individuale oppure di una cerimonia di difesa collettiva contro le epidemie
(come ne è il caso, ad esempio, per le danze belian di Kelantan), la seduta
malese implica abitualmente l'evocazione della tigre. Ciò dipende dalla parte
di Antenato mitico, epperò di maestro di inizi azione, devoluta alla Tigre in
tutta quest'area.
I Benua, tribù
protomalese, credono che il poyang si
trasformi in tigre sette giorni dopo la sua morte. Se il figlio desidera
ereditarne i poteri, deve vegliare da solo presso il cadavere, bruciando
profumi. Lo sciamano defunto appare il settimo giorno nella forma di una tigre
in atto di avventarsi contro l'aspirante. Senza dare alcun segno di timore
questi deve continuare a bruciare degli aromi. Allora la tigre sparisce e
appaiono invece due belle donne-spirito; al che, l'aspirante perde i sensi ed è
durante tale trance che ha luogo
l'iniziazione. Le donne si trasformeranno poi in suoi spiriti familiari. Se il
figlio del poyang non compie questo
rito, lo spirito del morto resterà per sempre nel corpo della tigre e la sua
«energia» sciamanica andrà irrimediabilmente perduta per la collettività. Si
riconoscerà, qui, lo scenario della iniziazione tipica: la solitudine nella
boscaglia, la veglia vicino ad un cadavere, la prova dello spavento,
l'apparizione terrifica del Maestro dell'iniziazione (= Antenato mitico), la
protezione di una bella donna-spirito.
Le sedute
propriamente dette si svolgono all'interno di una capanna circolare o di un
cerchio magico, e la gran parte di esse ha per fine delle guarigioni, la
scoperta di oggetti rubati o perduti, la conoscenza dell'avvenire. Durante la
seduta lo sciamano sta, di solito, sotto una coperta. Il bruciamento di
profumi, la danza, la musica e il rullo del tamburo sono elementi preparatori
indispensabili in ogni seduta malese. L'arrivo dello spirito si manifesta col
tremare della fiamma di una candela. Si crede che lo spirito anzitutto penetri
nella candela, per cui lo sciamano tiene a lungo gli occhi fissi sulla fiamma,
cercando di scoprire già per tal mezzo la causa della malattia. La cura
consiste generalmente nella suzione della parte malata, ma il poyang, quando è in trance, può anche scacciare i demoni e rispondere ad ogni domanda
che gli venga rivolta.
Quando si evoca
la Tigre, s'intende chiamare e far incarnare l'Antenato mitico, il primo Grande
Sciamano. Il pawang osservato da
Skeat si trasformava effettivamente in tigre: correva a quattro zampe, ruggiva
e leccava a lungo il corpo del paziente come la tigre fa coi suoi piccoli. Le
danze magiche dei belian bomor di Kelantan, qualunque sia il fine della seduta,
comportano necessariamente l'evocazione della Tigre. La danza produce lo stato lupa, 1'«oblio» o «trance» (dal sanscrito lopa, perdita, scomparsa), stato nel
quale il soggetto perde la coscienza della propria personalità e diviene
l'incarnazione di un qualche spirito. Seguono dei dialoghi interminabili fra il
danzatore in trance e i presenti. Se
la danza era stata organizzata a fini terapeutici il guaritore approfitta della
trance per fare delle domande e per
scoprire la causa della malattia e il modo di curarla.
Non sembra che
queste danze magiche e queste guarigioni possano essere considerate come
fenomeni sciamanici nel senso proprio del termine. L'evocazione della Tigre e
la trance-possessione non sono di
esclusiva pertinenza dei bomor e dei poyiang. Fra le popolazioni in parola
molti altri individui possono vedere, evocare la Tigre, e trasformarsi in essa.
Quanto allo stato lupa, in altre
regioni della Malesia (per es. fra i Besissi) chiunque può raggiungerlo:
durante l'evocazione degli spiriti chiunque può cadere in trance (cioè esser «posseduto») e rispondere alle domande che
allora gli vengono rivolte. È questo, un fenomeno di medianità molto
caratteristico anche fra i Batachi di Sumatra. Ma, secondo tutto ciò che
abbiamo cercato di mostrare nel presente libro, la «possessione» non va
senz'altro confusa con lo sciamanismo.
Sciamani e sacerdoti a
Sumatra
La religione dei
Batachi di Sumatra è fortemente influenzata da idee provenienti dall'India
(vedi sopra) ed è dominata dal concetto di anima (tondi); la quale viene concepita come un ente che penetra nel corpo
e lo abbandona attraverso la sommità del capo. La morte, in realtà, altro non
esprimerebbe che il ratto dell'anima ad opera di uno spirito (begu); se il defunto è un giovane, è un begu-donna che l'ha preso per sposo, e
viceversa. I morti e gli spiriti parlano per mezzo dei medium.
Sciamani (sibaso, «la parola») e sacerdoti (datu), benché diversi quanto a struttura
e vocazione religiosa, fra i Batachi perseguono gli stessi fini: difendono
l'anima (tondi) contro i demoni che
vogliano rapirla, assicurano l'integrità della persona umana. Presso i Batachi
del Nord è sempre una donna che fa da sibaso
e lo sciamanismo è, in genere, ereditario. Non esiste l'istruzione impartita da
un maestro: chi è stato «scelto» dagli spiriti riceve da essi direttamente
l'iniziazione, diviene cioè capace di «vedere» e di profetizzare o di essere
«posseduto» da uno spirito, cioè di fare tutt'uno con lui. La «possessione»,
spontanea o provocata, è fenomeno frequente presso i Batachi. Chiunque può
divenire il ricettacolo di un begu,
vale a dire dello spirito di un defunto; questi parla per bocca del medium e
rivela segreti. La possessione spesso si manifesta in forme sciamaniche: il
medium prende dei carboni ardenti e se li mette in bocca, danza e saltella fino
al parossismo, ecc. A differenza dello sciamano, il medium bataco non può però
controllare il suo begu, è alla mercé
di questi o di ogni altro defunto che desidera "possederlo". Questa
medianità spontanea, che caratterizza la sensibilità religiosa dei Batachi, può
esser considerata come una imitazione scimmiesca di certe tecniche sciamaniche.
Sullo sciamanismo indonesiano in genere. Le sedute dei sibaso han luogo di notte; lo sciamano batte il tamburo e balla
intorno al fuoco per invocare gli spiriti. Ogni spirito ha una melodia sua
particolare e perfino un suo speciale colore _ e il si baso indossa un costume
di vari colori se desidera invocare molti spiriti. La presenza di questi si
manifesta con parole in linguaggio segreto, nella «lingua degli spiriti»,
che il sibaso pronuncia e che vanno
interpretate. Il dialogo ha per oggetto la causa della malattia e la cura: il
begu finisce con l'assicurare che otterrà la guarigione purché il paziente
offra certi sacrifici.
Il sacerdote bataco,
datu, è sempre di sesso maschile e
gode della posizione sociale più elevata subito dopo il capo-tribù, Ma anche
lui è un guaritore ed anche lui invoca gli spiriti in una lingua segreta. Il datu protegge dalle malattie e dai
sortilegi; la seduta terapeutica consiste nella ricerca dell'anima
dell'ammalato. Inoltre egli può esorcizzare i begu penetrati nei malati; e per quanto venga considerato un «mago
bianco»,
egli può anche avvelenare. A differenza dei sibaso,
il datu è iniziato da un maestro: in
particolare, gli vengono rivelati i segreti della magia, contenuti in «libri»
fatti di scorza d'albero. Il maestro ha il nome indiano di guru, e grande importanza ha il suo bastone magico, incrostato di
figure ancestrali e avente un foro nel quale sono introdotte le sostanze
magiche. Con l'aiuto di tale bastone il guru protegge il villaggio e può anche
provocare la pioggia. La sua fabbricazione è estremamente complicata;
nell'occasione si sacrifica perfino un bambino, che viene ucciso con piombo
fuso al fine di togliergli l'anima e di trasformarlo in uno spirito al servigio
del mago (Loeb).
Tutto ciò
tradisce influenze della magia indiana. V'è ragione di supporre che il datu corrisponda al prete-mago, mentre
il sibaso rappresenterebbe soltanto
l'estatico, «l'uomo dagli spiriti». Il datu ignora l'estasi mistica; agisce da mago e da «ritualista»:
esorcizza i demoni. Anche lui va alla ricerca dell'anima del malato, ma questo
viaggio mistico non ha carattere estatico; i suoi rapporti col mondo degli
spiriti son rapporti di ostilità o di superiorità: rapporti da signore a servo.
Il sibaso è invece l'estatico per eccellenza; egli vive in familiarità con gli
spiriti, si lascia «possedere», diviene chiaroveggente e profeta.
Egli è stato «eletto» - e all'elezione divina o semidivina non è possibile
opporsi.
Il dukun dei Minangkabau di Sumatra è ad un
tempo terapeuta e medium. Il suo ufficio - generalmente ereditario _ è
accessibile ai due sessi. Si diviene dukun
dopo aver avuta una inizi azione, cioè dopo aver appreso come ci si rende
invisibili e come si possono vedere gli spiriti di notte. La seduta ha luogo
sotto ad una coperta: dopo una quindicina di minuti il dukun comincia a tremare e questo è segno che la sua anima ha
lasciato il corpo e sta recandosi al «villaggio degli spiriti».
Sotto la coperta, si sentono delle voci. Egli chiede ai suoi spiriti di cercare
l'anima fuggitiva del malato. La trance
è simulata: il dukun non ha il
coraggio di fare la seduta sotto gli occhi dei presenti come il suo collega
bataco (Loeb). A Nias si ritrova il tipo del dukun, insieme ad altre categorie di sacerdoti e di terapeuti.
Durante la cura egli indossa un costume speciale: si para i capelli e si getta
una stoffa sulle spalle. Anche qui si ritiene generalmente che la malattia sia
dovuta al ratto dell'anima ad opera degli dèi, dei demoni o degli spiriti, e la
seduta consiste nella ricerca di essa: di solito, si finisce con lo scoprire
che l'anima è stata rapita dalle «Serpi del Mare» (il Mare essendo un simbolo
dell'aldilà). Per riprenderla, il medicine-man
si rivolge ai tre dèi - Ninwa, Falahi e Upi - che egli evoca fischiando
ininterrottamente finché entra in contatto con essi; allora cade in trance. Ma il dukun procede anche per suzione e, quando è riuscito a cogliere la
causa del male mostra ai presenti delle pietruzze rosse e bianche.
Lo sciamano
Mentawei pratica anche cure a base di massaggi, purificazioni; erbe, ecc. Ma la
vera seduta segue lo schema indonesiano abituale: lo sciamano balla a lungo,
fino a cadere per terra privo di sensi e la sua anima viene allora portata in
Cielo in una barca tirata da aquile. È in Cielo che egli discorre con gli
spiriti intorno alle cause della malattia (fuga dell'anima, avvelenamento per
opera di altri stregoni) e che riceve i farmaci. Lo sciamano delle Mentawei non
dà mai segno di «possessione» e non sa esorcizzare gli spiriti maligni del
corpo del malato. Egli è piuttosto un farmacista che trova le sue sostanze in
seguito a un viaggio celeste. La trance
non è drammatica; non si assiste al dialogo con gli spiriti celesti. Non pare
ch'egli abbia rapporti coi demoni, o «poteri» su di essi.
Una tecnica
simile è impiegata dallo sciamano Kubu (Sumatra meridionale): egli danza fino a
cadere in trance, e allora vede
l'anima del malato prigioniera d'uno spirito o appollaiata su di un albero come
un uccello (Loeb).
Sciamanismo nel Borneo e
a Celebes
Fra i Dusun del
Borneo settentrionale che, di razza protomalese, sono gli abitanti aborigeni
dell'isola, le sacerdotesse hanno una parte capitale. La loro iniziazione dura
tre mesi. Durante le cerimonie esse usano un linguaggio segreto e indossano un
costume speciale. Le loro sedute consistono in danze e canti, mentre gli uomini
si limitano ad accompagnarle con la musica. La loro tecnica specifica ha
carattere divinatorio epperò rientra più nella piccola magia che non nello
sciamanismo propriamente detto: la sacerdotessa tiene In equilibrio su di un
dito una cannuccia di bambù e dice: se il tale è ladro, che il bambù si muova così,
e simili.
Presso i Daiachi
dell'interno vi sono maghi terapeuti di due specie: i daya beruri, generalmente uomini, che si occupano delle cure, e i barish, di solito reclutati fra le
donne, specialisti del «trattamento» dei raccolti di paddy, Le malattie qui le si spiegano o con la presenza di uno
spirito malvagio nel corpo, o con l'allontanamento dell'anima. Gli sciamani
delle due categorie hanno il potere di vedere estaticamente l'anima umana o
l'anima del raccolto, anche se se ne son fuggite molto lontano. Allora le
inseguono, le catturano (sotto forma di un capello) e le reintegrano nel corpo
(o nel raccolto). Se la malattia è provocata da uno spirito malvagio la seduta
si riduce ad una cerimonia di espulsione.
Fra i Daiachi
marittimi lo sciamano vien chiamato manang.
Il suo rango sociale è notevole: viene subito dopo il capo. In genere, la
professione di manang è ereditaria;
ma si distinguono due classi: i manang
che banno ricevuto, una rivelazione in forma di sogni e che per tal via hanno
ottenuta la protezione di uno o pio spiriti, e quelli che sono divenuti tali di
propria iniziativa e che quindi non dispongono di spiriti familiari. In ogni
caso, la qualificazione da manang la
si possiede solo dopo essere stati iniziati da maestri autorizzati (vedi più
su). Fra i manang si trovano
individui dei due sessi ed anche uomini asessuali (impotenti); vedremo fra
breve il significato rituale di questi ultimi.
Il manang ba una scatola contenente una
quantità di oggetti magici, i pio importanti dei quali sono i cristalli di
quarzo, baia ilau (la «pietra di luce»),
con l'aiuto dei quali lo sciamano scopre l'anima del malato. Anche qui,
infatti, la malattia è una fuga dell'anima, ed il fine della seduta è la
scoperta e la reintegrazione di essa nel corpo del paziente. La seduta ha luogo
di notte. Il corpo del malato viene stropicciato con delle pietre, poi i
presenti intonano canzoni monotone mentre il manang-capo balla fino allo spossamento: egli cerca ed invoca con
tale mezzo l'anima del malato. Se la malattia è grave, l'anima sfugge
ripetutamente dalle mani del manang.
Quando lo sciamano-capo cade per terra, i presenti gettano su di lui una
coperta ed aspettano di sapere il risultato del suo viaggio estatico. Infatti,
una volta in estasi, il manang scende
negli Inferni per cercar l'anima del malato. Finisce col catturarla e allora si
alza di colpo, tenendo in mano l'anima del paziente, che reintegra nel corpo
facendola passare per la testa. La seduta vien chiamata belian, e Perham è giunto a distinguerne di quattordici specie, a
seconda delle varie difficoltà tecniche. La cura si conclude col sacrificio di
un pollo.
Nella sua forma
attuale il belian dei Daiachi
marittimi sembra essere un fenomeno magico-religioso abbastanza complesso e
composito. L'iniziazione del manang
(la frizione con le pietre magiche, il rituale dell'ascensione, ecc.) e certi
elementi della cura (l'importanza dei cristalli di quarzo, la frizione con
pietre) rimandano ad una tecnica sciamanica assai antica. Ma la pseudo-trance (che si ha cura di occultare
sotto la coperta) tradisce influenze recenti, di origine ìndo-malese. Un tempo
tutti i manang, una volta iniziati,
indossavano vesti femminili che conservavano per tutto il resto della vita.
Oggi tale usanza è divenuta assai rara. Tuttavia una classe speciale di manang, i manang bali di certe tribù marittime (sconosciuti fra i Daiachi
delle colline) portano vesti femminili e si dedicano agli stessi lavori delle
donne. Talvolta prendono «marito», malgrado lo scherno di tutto il
villaggio. Il travestimento, con tutti i mutamenti che esso implica, viene
accettato in base ad un ordine sovrannaturale ricevuto per tre volte in sogno:
disobbedire, significherebbe andar incontro alla morte. Un giovane diviene
raramente manang bali. Questi sono,
in genere, vecchi o uomini senza prole, attratti da una situazione materiale
molto allettante. Circa i travestiti e il mutamento di sesso fra i Ciukci, cfr.
Bogoras. Nell'Isola Rambree e sulle coste della Birmania certi stregoni
adottano le vesti muliebri, divengono la «sposa» di un loro collega a cui
conducono poi una donna a titolo di seconda sposa, insieme alla quale i due
convivono (Webster). Qui appare chiaro che si tratta di un travestimento
rituale accettato sia in seguito ad un ordine divino, sia per i prestigi magici
della Donna.
Tutto ciò palesa
tracce precise di una magia femminile e di una mitologia matriarcale, che in
altre epoche debbono aver dominato nello sciamanismo dei Daiachi marittimi: quasi
tutti gli spiriti vengono invocati dai manang
col nome di Ini, «Gran Madre» (Ling
Roth). Tuttavia il fatto che non si conoscano manang bali all'interno dell'isola prova che l'intero complesso
(travestimento, impotenza sessuale, matriarcato) è venuto dall'esterno, sia
pure in tempi lontani.
Presso i Daiachi
Ngadju del Borneo meridionale fanno da intermediari fra gli uomini e gli dèi
(specie i Sangiang) le balian e i basir, cioè sacerdotesse-sciamane e preti-sciamani asessuali (il
termine basir significa: «incapace di
procreare, impotente»). I secondi sono dei veri
ermafroditi, che vestono da donna e che da donna si comportano. Sia le balian che i basir vengono «scelti» da Sangiang e senza un richiamo da parte sua
non possono divenire suoi servi, nemmeno usando le tecniche abituali
dell'estasi, la danza e il tamburo. I Daiachi Ngadju si tengono ben fermi a
questo punto: l'estasi non è possibile ove non ci si senta chiamati dalla
div:rnità. Quanto alla bisessualità e all'importanza che hanno i basir, essa deriva dal fatto che questi
vengono considerati come gli intermediari fra due piani cosmologici - fra Terra
e Cielo - in quanto essi riuniscono nella persona loro sia l'elemento femminile
(Terra) che quello maschile (Cielo). Si tratta di un androginismo rituale,
formula arcaica ben nota della bi-unità divina e della coincidentia oppositorum. Al pari dell'ermafroditismo dei basir, la
prostituzione delle balian si basa sul valore sacro dello «star fra i due»,
sulla necessità di abolire le polarità.
Gli dèi (Sangiang) s'incarnano nelle balian e nei basir e parlano direttamente attraverso di loro. Ma questo fenomeno
d'incorporazione non è una «possessione». Le anime degli antenati o dei
defunti non prendono mai possesso delle balian
o dei basir: questi sono soltanto
strumenti di espressione delle divinità. I morti usano un'altra categoria di
stregoni, i tukang tawur. L'estasi
delle balian e dei basir è provocata da Sangiang, oppure ha
relazione coi viaggi mistici che i suoi servi compiono nei Cieli per visitare
«il villaggio degli dèi».
In tutto ciò va
messo in rilievo più di un punto: la vocazione religiosa determinata unicamente
dagli dèi d'in alto; il carattere sacro dell'habitus sessuale (impotenza,
prostituzione); la parte modesta che ha la tecnica dell'estasi (danze, musica,
ecc.); la trance provocata
dall'incorporazione di Sangiang o dal viaggio mistico in Cielo; l'assenza di
relazioni con le anime degli antenati epperò l'assenza di «possessione».
Tutti questi punti mettono in risalto l'arcaicità di tale fenomeno religioso.
Benché la cosmologia e la religione dei Daiachi Ngadju abbiano probabilmente
risentito di influenze orientali, si è in diritto di supporre che le balian e i basi, rappresentino una forma antica e autoctona di sciamanismo,
Ai basi, dei
Daiachi Ngadju fanno riscontro i bajasa
(gli «ingannatori»)
dei Toradja. In genere, questi sono donne, e la loro particolare tecnica
consiste in viaggi estatici in Cielo o negli Inferni, effettuati sia in
ispirito, sia in concreto. Una cerimonia importante è quella detta mompa ilangka («sedersi nel posto
venerando»),
che dura tre notti consecutive; la bajasa
conduce le anime delle donne e delle fanciulle in Cielo a che si purifichino, e
la terza notte le riconduce in terra e le reintegra nei corpi. Del pari, - è di
pertinenza delle bajasa il cercare le
anime vagabonde di malati; col concorso di uno spirito wurake (appartenente alla classe degli spmti dell'atmosfera) la
bajasa sale sull'arcobaleno fino a raggiungere la casa Pue di Songe e riporta
indietro l'anima del paziente. Essa cero ca e riporta anche 1'«anima
del riso» quando, avendo abbandonato il raccolto, deperisce e minaccia di andar
perduto. Ma le capacità estatiche delle bajasa non si esauriscono nei viaggi
celesti e orizzontali; nella grande festa funebre detta mompemate esse conducono anche le anime dei morti nell'aldilà.
Secondo Downs,
la «litania
descriveva come i morti fossero tratti dal loro torpore, come si abbigliassero
e fossero condotti, attraverso gli Inferni, all'albero dinang che scalavano per raggiungere la terra, sulla quale
sboccavano a Mori (ad est dei Toradja), essendo infine condotti al tempio o
alla capanna cerimoniale. Là erano accolti dai loro parenti, e questi ultimi e
gli altri partecipanti si occupavano di distrarli con canti e danze... Il
giorno dopo gli sciamani conducevano gli angga
(cioè, le anime) al luogo del loro riposo finale».
Già da questi
pochi dati si vede che le bajasa di
Celebes sono delle specialiste del grande dramma dell'anima: purificatrici,
guaritrici o psicopompe, esse intervengono soltanto quando la condizione stessa
dell'anima umana è in giuoco. È notevole il fatto che i rapporti più frequenti
li abbiano col Cielo e con gli spiriti celesti. Il simbolismo del volo magico o
dell'ascensione lungo l'arcobaleno, che domina nello sciamanismo australiano, è
arcaica. Del resto, anche i Toradja
conoscono il mito della liana che un tempo collegava la Terra col Cielo e si
ricordano di un'èra paradisiaca nella quale gli uomini comunicavano facilmente
con gli dèi.
La "barca dei
morti" e la barca sciamanica
La «barca dei
morti» ha una parte di rilievo nella Melanesia e nell'Indonesia, in relazione
sia a pratiche propriamente sciamaniche, sia ai costumi e alle lamentazioni funebri.
Naturalmente, tali tradizioni per un verso stanno in rapporto con l'usanza di
metter i morti in barche o di gettarli in mare, per l'altro, con le mitologie
funerarie locali. Il costume di esporre i morti nelle imbarcazioni potrebbe ben
spiegarsi con dei vaghi ricordi di migrazioni ancestrali: la barca
ricondurrebbe l'anima del morto nella patria d'origine, da dove vennero gli
antenati. Ma questi eventuali ricordi - eccetto, forse, nel caso dei
Polinesiani - hanno perduto il loro significato «storico»:
la «patria originaria» diviene un paese mitico e l'Oceano che la separa dalle
terre abitate dai mortali viene assimilato alle Acque della Morte. Negli
orizzonti delle mentalità primordiali, ove la «storia» è continuamente
trasformata in una categoria mitica, una trasposizione del genere è, del resto,
frequente.
Credenze e
pratiche funerarie analoghe (barca dei morti, ecc.) si ritrovano fra i Germani
e i Giapponesi. Ma per gli uni come per gli altri, e come nella stessa area
oceanica, oltre ad un aldilà marino o sottomarino (complesso «orizzontale»)
esiste un complesso verticale: il monte come regno dei morti e lo stesso Cielo
(va ricordato che il monte è «carico» di un simbolismo uranico). In genere,
solo dei privilegiati (i capi, i sacerdoti e gli sciamani, gli iniziati)
procedono verso il Cielo: il resto dei mortali viaggia «orizzontalmente» o
discende negli Inferni sotterranei. Aggiungiamo che il problema dell'aldilà e
delle sue varie possibilità è assai complesso e non è tale da poter esser
risolto con la sola idea delle «patrie originarie» o delle varie forme di
sepoltura. In ultima istanza, qui si ha a che fare con mitologie e concezioni
religiose che, pur non essendo sempre indipendenti da usanze e pratiche
materiali, sono tuttavia autonome come strutture spirituali.
Oltre al costume
di esporre i morti in imbarcazioni, nell'Indonesia e, in parte, anche nella
Melanesia esistono tre importanti categorie di cerimonie magico-religiose che
implicano l'uso (reale o simbolico) di una barca rituale: 1) la barca per
espellere i demoni e le malattie; 2) quella che serve allo sciamano indonesiano
per «viaggiare nell'aria» alla ricerca dell'anima del malato; 3) la «barca
degli spiriti» che trasporta le anime dei morti nell'aldilà. Nei riti delle due
prime categorie gli sciamani hanno una parte capitale, anche se non sono i soli
officianti; quelli della terza categoria di cerimonie, pur consistendo in una
discesa agli Inferni di tipo sciamanico, vanno oltre le sole funzioni da
sciamano. Come presto vedremo, queste «barche dei trapassati» son più evocate
che non adoperate, e la loro evocazione ha luogo durante le lamentazioni
funebri, recitate da «prefiche» e non da sciamani.
Annualmente, o
in occasione di epidemie, i demoni della malattia vengono banditi come segue:
essi vengono catturati e chiusi in una scatola, o direttamente nella barca; poi
si spinge la barca in mare; oppure si fabbricano diverse statuette di legno che
rappresentano i malati, statuette che vengono fissate in una barca che si
abbandona in mare. Questa pratica, assai diffusa in Malesia e in Indonesia, è
spesso eseguita da sciamani e da stregoni. L'espulsione dei demoni della
malattia durante le epidemie è probabilmente una imitazione del rituale, più
arcaico e più universale, dell'espulsione dei «peccati» in occasione dell'Anno
Nuovo, quando si procede alla restaurazione integrale della forza e della
salute di una comunità.
Inoltre lo
sciamano indonesiano usa una barca durante la sua cura magica. In tutta l'area
indonesiana domina la nota l'idea che la malattia è dovuta ad una fuga
dell'anima. Il più spesso si pensa che l'anima sia stata rapita da demoni o da
spiriti e, per cercarla, lo sciamano usa appunto una barca. Cosi fa, ad
esempio, il balian dei Dusun: se egli
ritiene che l'anima del malato è stata catturata da uno spirito dell'aria, si
fa una barca in miniatura che ad una delle estremità ha un uccello di legno. Su
questa barca lo sciamano viaggia estaticamente nell'aria, guardando a destra e
a sinistra finché ritrova l'anima del malato. Questa tecnica la si pratica sia
fra i Dusun del Nord che fra quelli del Sud e dell'Est del Borneo. Lo sciamano
maangan dispone inoltre di una barca lunga da uno a due metri che egli conserva
nella sua abitazione e nella quale sale quando vuol raggiungere il dio Sahor e
chiedergli aiuto.
L'idea di un
viaggio aereo in barca non è che un'applicazione indonesiana della tecnica
sciamanica dell'ascensione celeste. Per il fatto che la barca aveva una
funzione essenziale nei viaggi estatici nell'aldilà (nel paese dei morti e nel
paese degli spiriti) compiuti per accompagnare il trapassato agli Inferni,
oppure per cercare l'anima dell'ammalato rapita da demoni o da spiriti - si è
passati a utilizzare la barca anche quando si è trattato di trasportarsi nei
Cieli in trance. La fusione o la
coesistenza dei due simbolismi sciamanici - del viaggio orizzontale nell'aldilà
e dell'ascensione verticale in Cielo - si palesa anche per via della presenza
di un Albero cosmico nella stessa barca dello sciamano. Questo Albero è talvolta
rappresentato in mezzo alla barca in forma di lancia o di scala che collega la
Terra col Cielo. l'Albero cosmico indonesiano sarebbe di origine lunare ed è
per questo che esso starebbe in primo piano nelle mitologie della parte
occidentale dell'Indonesia (sia nel Borneo che in Sumatra meridionale e nella
Malacca), mentre esso è assente nelle parti orientali, ove la mitologia lunare
sarebbe stata soppiantata da miti solari. A questa costruzione astro-mitologica
son state però mosse serie critiche. Bisogna anche rilevare che l'Albero
cosmico implica un simbolismo assai più complesso e che solo alcuni dei suoi
aspetti (per esempio, il rinnovamento periodico) sono suscettibili ad esser
interpretati in funzione di una mitologia lunare. Noi qui ritroviamo il simbolismo
del «Centro»
che permette allo sciamano di penetrare nel Cielo.
In Indonesia lo
sciamano conduce il trapassato nell'aldilà e, per questo viaggio estatico,
spesso utilizza una barca. Vedremo presto che le prefìche daiache del Borneo
assolvono alla stessa funzione recitando dei canti rituali nei quali si parla
del viaggio del morto in una barca. Nella Melanesia v'è anche l'usanza di
dormire vicino al cadavere: in sogno, si accompagna e si guida l'anima del
trapassato nell'aldilà e, una volta svegliatisi, si raccontano le peripezie di
tale viaggio. Questa pratica di accompagnamento rituale del morto da parte
dello sciamano o della prefìca (Indonesia) può esser ravvicinata alle orazioni
funebri che, in Polinesia, si recitano sulle tombe. Su piani diversi, tutti
questi riti e questi costumi funerari perseguono uno stesso scopo: guidare il
morto nell'aldilà. Ma soltanto lo sciamano è uno psicopompo in senso proprio,
lui solo accompagna e guida il morto in concreto.
Viaggi d'oltretomba fra
i Daiachi
Le cerimonie
funebri dei Daiachi marittimi, pur non essendo compiute da sciamani, non son
prive di relazione con lo sciamanismo. Una prefica _professionale la cui
vocazione le è stata rivelata grazie all'apparizione di un dio in sogno, recita
a lungo (in un racconto che dura talvolta dodici ore) le peripezie del viaggio
del trapassato nell'aldilà. La cerimonia ha luogo subito dopo il decesso. La
prefica si siede vicino al cadavere e recita con una voce monotona, senza alcun
accompagnamento musicale. Lo scopo del racconto è evitare che l'anima del morto
si smarrisca nel suo viaggio verso l'Inferno. Effettivamente la prefica fa la
parte dello psicopompo anche senza accompagnare di persona il morto, il testo
rituale rappresentando un itinerario abbastanza preciso. La prefica cerca
anzitutto un messaggero per trasmettere in Inferno la notizia del prossimo
arrivo di un nuovo venuto. Ella si rivolge invano agli uccelli, alle bestie
selvatiche, ai pesci: questi non hanno il coraggio di varcare la frontiera che
separa i vivi dai morti. Finalmente, lo Spirito del Vento accetta di portare il
messaggio. Esso si avventura in una pianura sconfinata, sale su di un albero
per cercare la via perché fa buio e da ogni lato vi sono sentieri che conducono
agli Inferni; infatti vi sono 77 x 7 cammini che conducono al regno dei morti.
Dall'alto dell'albero, lo Spirito del Vento scopre il sentiero migliore, lascia
la sua forma umana e sotto forma di uragano si lancia verso l'Inferno. I morti,
spaventati dalla tempesta improvvisa, gliene chiedono il motivo. Un tale è
morto or ora - risponde lo Spirito del Vento - e bisogna andar subito a
prenderne l'anima. Pieni di gioia, gli spiriti saltano in una barca remando con
una tale forza da uccidere tutti i pesci che incontrano. La barca si ferma
dinanzi alla dimora del morto, ed essi corrono a prenderne l'anima, che,
impaurita, grida e si dibatte. Ma ancor prima di raggiungere la riva
dell'Inferno, sembra calmarsi.
Con ciò la
prefica conclude il suo canto. La sua funzione è esaurita: raccontando tutte le
peripezie dei due viaggi estatici ella, in realtà, ha guidato il morto alla sua
nuova dimora. La prefica descrive un analogo viaggio nell'aldilà in occasione
della cerimonia detta pana, nel corso
della quale trasmette agli Inferni i cibi offerti ai morti: solo dopo la
cerimonia pana i trapassati acquistano coscienza della loro nuova condizione di
morti. Infine la prefica invita le anime dei morti alla grande festa funeraria gawei antu che si celebra da uno a
quattro anni dopo il decesso: numerosi Invitati si riuniscono e si ritiene che
i morti siano presenti. Il canto della prefica descrive come essi lascino lieti
l'inferno, s'imbarchino e si precipitino al banchetto.
Tutte queste
cerimonie funerarie non hanno evidentemente un carattere sciamanico: specie nel
pana e nel gawei antu non appaiono relazioni dirette di natura mistica fra il
morto e la prefica che descrive i viaggi nell'aldilà. Nel complesso, qui
abbiamo a che fare con una letteratura rituale che conserva gli schemi delle
discese agli Inferni, siano, queste, sciamaniche o meno. Occorre però
ricordarsi che lo sciamano - lo sciamano altaico come quello di altri popoli -
conduce anche lui le anime dei morti agli Inferni, e che, come si è visto, in
tutta l'area indonesiana la «barca dei trapassati», cui continuamente
si allude nei racconti funerari da noi riassunti, è, eminentemente, un mezzo
sciamanico per compiere il viaggio estatico. La stessa prefica, pur non avendo
alcuna funzione magico-religiosa, non è una figura «profana». È stata scelta da
un dio, ha avuto sogni rivelatori. In un modo o nell'altro, è una «veggente»,
una «ispirata» che vive in visione i viaggi infernali e che pertanto conosce
l'altro mondo, la sua topografia, le sue vie. Morfologicamente, la prefica
daiaca sta sullo stesso piano delle veggenti e delle poetesse del mondo arcaico
indoeuropeo e una certa categoria di creazioni letterarie tradizionali deriva
dalle «visioni» e dall'«ispirazione» di tali donne scelte
dagli dèi, i sogni e i sogni lucidi delle quali sono altrettante rivelazioni
mistiche.
Qui non
intendiamo riassumere le credenze e le mitologie melanesiane che formano la
base ideologica delle pratiche dei
medicine-men di quest'area. Diremo soltanto che, nel complesso, nella
Melanesia si possono distinguere tre tipi di cultura, rispettivamente diffusi
da ciascuno dei tre gruppi etnici che sembrano aver colonizzato (od anche
soltanto attraversato) quella zona: i Papua aborigeni, i conquistatori dalla
pelle bianca che hanno recato l'agricoltura, i megaliti insieme ad altre forme
di civiltà successivamente passate nella Polinesia, e, infine, i Melanesiani
dalla pelle nera, giunti per ultimi nelle isole. Gli immigrati dalla pelle
bianca diffusero una mitologia assai ricca, avente per centro un eroe culturale
(Qat, Ambat, ecc.) in relazione diretta col Cielo, sia che quest'eroe prenda in
sposa una fata celeste alla quale, per precauzione, ruba e nasconde le ali, e
segue poi fino in Cielo scalando un albero, una liana o una «catena di freccie»,
sia - invece - che sia egli stesso originario del Cielo. I miti di Qat
corrispondono a quelli polinesiani di Tagarao e di Maui, figure i cui rapporti
col Cielo e con gli esseri celesti sono noti. È possibile che il tema mitico
del «viaggio celeste» sia stato applicato ai nuovi venuti dalla pelle bianca da
parte dei Papua aborigeni, ma sarebbe vano spiegare 1'«origine» d'un tal
mito (peraltro, universalmente diffuso) con l'evento storico dell'arrivo o
della partenza degli immigrati. Ripetiamo che gli eventi storici, lungi dal
«creare» i miti, finiscono per essere integrati nelle categorie mitiche.
Comunque, in
Melanesia non esiste una tradizione e una iniziazione sciamanica come
controparte delle tecniche di guarigione magica che vi sono conosciute e il cui
carattere arcaico, sembra essere indubbio. Bisogna forse attribuire la
scomparsa delle iniziazioni sciamaniche all'importante funzione che qui hanno
le società segrete a base iniziatica? È possibile. Il problema è troppo
complesso perché lo si possa affrontare qui.
Esiste
incontestabilmente una somiglianza morfologica schiacciante tra tutte le forme
d'iniziazione - iniziazioni d'età, iniziazioni alle società segrete, o
iniziazioni scia maniche. Per dare un solo esempio, il candidato d'una società
segreta di Malekula sale su una piattaforma per sacrificare un porco (Deacon);
orbene, s'è visto che la scalata d'una piattaforma o d'un albero è un rito
specifico delle iniziazioni sciamaniche. In ogni caso nella Melanesia la
funzione essenziale dei medicine-men è
limitata alle guarigioni e alla divinazione. Altri prestigi specificamente
sciamanici (il volo magico, ad esempio) sono quasi esclusivamente di pertinenza
dei maghi neri (del resto, forse in nessun altro paese come nell'Oceania, e
specialmente nella Melanesia, ciò che, in genere, vien chiamato sciamanismo si
sbriciola in una tale moltitudine di gruppi magico-religiosi, che riesce
difficile distinguere chi è sacerdote, chi è medicine-man, chi è indovino, chi è «posseduto», e via dicendo).
Infine - e ciò ci sembra essere importante - numerosi motivi che in un modo o
nell'altro, fan parte dell'ideologia sciamanica sopravvivono soltanto nei miti
o nelle credenze funerarie. Abbiamo poc'anzi fatto allusione al motivo
dell'eroe civilizzatore che comunica col Cielo grazie ad una «catena di freccie»,
a una liana, o simili; avremo occasione di tornar su ciò. Rileviamo anche la
credenza secondo la quale il defunto, arrivando nel paese dei morti, subirebbe
una particolare operazione da parte del Guardiano di tal paese: gli vengono
forate le orecchie. Ora, si è visto che questa operazione è specifica delle
iniziazioni sciamaniche.
A Dobu, che è
un'isola della Nuova Guinea orientale, si ritiene che lo stregone sia «ardente»
e la magia viene associata al calore e al fuoco, idea, questa, che appartiene
allo sciamanismo arcaico e che è sussistita in ideologie e in tecniche più
evolute (vedi più oltre). È per tal motivo che il mago deve mantenere il suo
corpo «secco» e «ardente»; egli cerca di giungere a tanto
bevendo acqua salata e mangiando cibi fortemente pimentati. Gli stregoni e le
streghe di Dobu volano nello spazio e, di notte, si può osservare che esse
lasciano dietro di sé traccie di fuoco. L'origine mitica qui attribuita al
fuoco - esso si sprigionerebbe dalla vagina di una vecchia - sembra attestare
1'anteriorità della magia femminile rispetto alla stregoneria maschile. Ma son
soprattutto le donne a volare perché, a Dobu, le tecniche magiche son ripartite
come segue tra i due sessi: le donne sono le vere maghe operano direttamente
con la loro anima mentre il corpo è immerso nel sonno, e s'abbarbicano
all'anima della vittima, che possono estrarre dal corpo e poi distruggere; gli
stregoni operano unicamente per mezzo di incantesimi magici (Fortune, ibid., p.
150). La differenza di struttura tra i maghi ritualisti e gli estatici assume
qui l'aspetto d'una divisione fondata sul sesso.
Come in altre
regioni della Melanesia, a Dobu, si ritiene che la malattia sia opera di magia
o sia provocata dagli spiriti dei morti. Nell'uno come' nell'altro caso,
l'anima del malato è stata attaccata, anche se non sia stata rapita al corpo ma
semplicemente deteriorata. In entrambe le eventualità si ricorre al medicine-man, che individua la causa del
male fissando a lungo cristalli di quarzo o dell'acqua. Si deduce che l'anima è
stata rapita grazie a certe manifestazioni patologiche del malato, che delira o
parla di battelli in mare, ecc.: è il segno che la sua anima ha lasciato il
corpo. Nel cristallo, il guaritore scorge l'essere che ha causato la malattia,
sia esso un vivente o un morto. Nell'un caso si compra l'autore della fattura
per disarmare la sua inimicizia, nell'altro si fanno offerte al morto se si
capisce che è lui la causa della sofferenza.
A Dobu la
divinazione è praticata da tutti, però senza magia (Fortune); del pari, ognuno
possiede cristalli vulcanici che si crede possano volarsene se non vi si bada e
che servono agli stregoni per «vedere» gli spiriti. Non esiste più, in tale zona,
alcun insegnamento esoterico concernente i cristalli, il che dimostra la
decadenza dello sciamanismo maschile a Dobu, specie se si pensa che, invece,
esiste un insegnamento da maestro a discepolo per quel che concerne la scienza
degli incantamenti malefici.
In tutta la
Melanesia l'inizio della cura di un male consiste in sacrifici e in preghiere
rivolte allo spirito del morto, a che questi si «riprenda la malattia».
Ma se tali passi fatti dai membri stessi della famiglia non hanno successo, si
ricorre ad un mane kisu, ad un
«dottore».
Con mezzi magici questi scopre il morto che ha provocato la malattia e lo prega
di ritirare la causa del male. Se fallisce, si ricorre ad un altro dottore. Oltre
all'azione propriamente magica, il mane
kisu friziona il corpo del malato facendogli massaggi d'ogni genere. A
Ysabel e a Florida il «dottore» sospende un oggetto pesante ad un filo e si
mette a pronunciare i nomi di persone recentemente decedute; quando gli accade
di nominare quella che è l'autrice della malattia, l'oggetto comincia a
muoversi. Il mane kisu chiede allora
al trapassato quale sacrificio desideri: un pesce, un maiale, un uomo, e
ottiene la risposta nello stesso modo. A Santa Cruz si ritiene che gli spiriti
provochino la malattia lanciando freccie magiche che il guaritore estrae
aiutandosi con dei massaggi (Codrington). Nelle isole Bank il male viene
espulso per suzione o con massaggi: poi lo sciamano mostra al paziente una
scheggia di osso o di legno o una foglia e gli dà da bere acqua nella quale ha
messo pietre magiche. Il mane kisu
applica lo stesso metodo divinatorio anche in altre occasioni; per esempio,
prima della partenza dei pescatori, si chiede a un tindalo (spirito) se la pesca sarà fortunata, e il battello dà la
risposta agitandosi (Codrington). A Motlav e in altre isole dell'arcipelago di
Bank, per scoprire l'autore di un furto si impiega un bastone di bambù nel
quale si annida uno spirito: il bastone si dirige da solo verso il ladro.
A parte la
categoria degli indovini e dei guaritori, ogni essere umano può esser posseduto
da uno spirito o da un morto; allora si mette a parlare con una strana voce e
profetizza. Quasi sempre la «possessione» è involontaria: un tale si trova a
trattare di questo o quell'affare coi vicini; ed ecco che comincia a starnutire
e a tremare. «I suoi occhi gettano sguardi feroci, le sue membra si torcono,
tutto il suo corpo è preso da convulsioni, la schiuma gli viene sulle labbra.
Allora gli si sente uscire dalla gola una voce che non è la sua e che approva o
disapprova l'impresa progettata. L'individuo non ha usato alcun mezzo per
evocare lo spirito; questi si crede che sia venuto di propria volontà, col suo
mana lo domina e quando se ne va via lo lascia completamente spossato».
Nell'isola Lepers si crede che lo spirito Tagaro trasmetta il suo potere
spirituale a dati uomini affinché questi possano scoprire e rivelare cose
nascoste. I Melanesiani non confondono la follia - anch'essa concepita come «possessione»
da parte di un tindalo - con la «possessìone» propriamente detta,
la quale persegue t'no scopo, mira alla rivelazione di qualcosa di preciso.
Durante la possessione il soggetto mangia una quantità considerevole di cibi e
dà prova di virtti magiche: inghiotte carboni ardenti, solleva carichi enormi e
profetizza.
In altre regioni
della Melanesia, per esempio in Nuova Guinea, si utilizza volontariamente e in
tutte le circostanze, la possessione da parte di un genitore morto. Quando
qualcuno è malato o si vuole scoprire qualcosa d'ignoto, un membro della
famiglia prende l'imagine del defunto al quale si vuol chiedere consiglio sulle
ginocchia o sulle spalle, e si lascia «possedere» dall' anima di lui. Ma simili
fenomeni di medianità spontanea, assai frequenti in Indonesia e in Polinesia,
han solo rapporti superficiali con lo sciamanismo propriamente detto.
Nondimeno, abbiamo voluto citarli per ricordare il clima spirituale in cui si
sono organizzate le tecniche e le ideologie sciamaniche.
In Polinesia le
cose appaiono ancor più complicate per il fatto che esistono varie categorie di
specialisti del sacro, aventi tutti rapporti più o meno diretti con gli dèi e
con gli spinti. Nel complesso, si possono distinguere tre grandi gruppi di
funzionari religiosi: i capi divini (ariki),
i profeti (taula) e i sacerdoti (tohunga) - ai quali sono da aggiungersi
i guaritori, gli stregoni, i necromanti e i «posseduti» spontanei che, in
ultima analisi, usano tutti pressappoco la stessa tecnica: il mettersi in
rapporto con gli dèi o gli spiriti per farsi ispirare o «possedere» da essi. È
probabile che almeno alcune delle ideologie e delle tecniche religiose
polinesiane siano state influenzate da idee asiatiche, ma il problema delle
relazioni culturali fra la Polinesia e l'Asia meridionale è lungi dall'essere
stato risolto, e qui si può tralasciarlo.
Anzitutto
dobbiamo rilevare che l'essenziale dell'ideologia e della tecnica sciamanica,
cioè la comunicazione fra le tre zone cosmiche lungo un asse trovantesi nel
«Centro» e, con essa, la facoltà di ascensione o di volo magico, è ampiamente attestata
dalla mitologia polinesiana e sopravvive nelle credenze popolari relative agli
stregoni. Limitiamoci a qualche riferimento, dato che sul tema mitico
dell'ascensione avremo ancora da tornare. L'eroe Maui, il cui mito ricorre in
tutta l'area polinesiana e anzi va perfino di là da essa, è noto per le sue
ascensioni al Cielo e le sue discese agli Inferni. Egli vola sotto forma di
colomba e quando vuol scendere negli Inferni toglie il pilastro centrale della
sua abitazione e dall'apertura sente venire il vento delle regioni infere.
Numerosi altri miti e leggende parlano dell'ascensione in Cielo per mezzo di
liane, di alberi e anche di cervi volanti, e il carattere rituale di questo
giuoco sta già a testimoniare, in tutta la Polinesia, della fede nella possibilità
di una ascensione celeste e del desiderio di essa. Infine, come dovunque, in
Polinesia si ritiene che gli stregoni e i profeti possono volare in aria e
percorrere in un batter d'occhio distanze immense.
Bisogna
ricordare anche una categoria di miti che, pur non appartenendo all'ideologia
sciamanica propriamente detta, comprende tuttavia un tema sciamanico
essenziale: quello della discesa di un eroe agli Inferni per ricondurre in
terra l'anima della donna amata. Cosi l'eroe maori Hutu scende agli Inferni
alla ricerca della principessa Pare uccisasi per causa sua. Hutu incontra la
Grande-Signora-della-Notte che regna sul Paese delle Ombre e ne ottiene
l'aiuto; essa lo istruisce sul cammino da seguire e gli dà una cesta di viveri
onde non abbia a mangiare i cibi dell'Inferno. Hutu ritrova Pare fra le ombre e
riesce a riportarla con lui sulla terra. L'eroe reintegra poi l'anima nel corpo
di Pare e la principessa risuscita. Nelle isole Marchesi si racconta la storia
dell'amata dell'eroe Kena che si era anch'essa uccisa perché il suo amante
l'aveva sgridata: Kena discende agli Inferni, cattura l'anima della donna, la
chiude in un cesto e ritorna in terra. Nella versione di Mangaiana, Kura si
uccide accidentalmente ed è riportata dal paese dei morti dal suo sposo. Alle
Hawaii si parla di Hiku e di Kawelu, la cui storia rassomiglia a quella
neo-zelandese di Hutu e Pare. Abbandonata dal suo amante, Kawelu muore di
dolore. Hiku scende negli Inferni lungo un ceppo di vigna, s'impadronisce
dell'anima di Kawelu, la chiude in una noce di cocco e ritorna in terra. La
reintegrazione dell'anima nel corpo disanimato avviene nel modo seguente: Hiku
fa entrare a forza l'anima nel pollice del piede sinistro, poi con dei massaggi
sulla pianta del piede e sulla caviglia finisce per farla salire fino al cuore.
Prima di discendere negli Inferni, Hiku aveva avuto la precauzione di ungersi
il corpo con dell'olio rancido, onde mandare un odor di cadavere; cosa che Kena
non aveva fatta, per cui era stato subito scoperto dalla Signora degli Inferni
(Handy).
Come si vede,
questi miti polinesiani di discesa agli Inferni son più vicini al mito orfeico
che non allo sciamanismo propriamente detto, e si ricorderà che abbiamo già
avuto occasione di incontrare lo stesso motivo nel folklore nord-americano.
Devesi però notare che la reintegrazione dell'anima di Kawelu si compie
seguendo il procedimento sciamanico. E la stessa cattura dell'anima discesa
negli Inferni ricorda il modo usato dagli sciamani per cercare di afferrare le
anime dei malati, sia che esse siano già entrate nel Paese dei Morti, sia che
esse si siano semplicemente smarrite in regioni lontane. Quanto all'«odore
da vivo»,
esso è un temo folkloristico assai diffuso, connesso talvolta ai miti del tipo
orfeico, talaltra alle discese sciamaniche.
La maggior parte
dei fenomeni sciamanici polinesiani ha però un carattere speciale: essi si
riducono quasi sempre ad un esser posseduti da dèi o da spiriti, cosa che in
genere si realizza per un'iniziativa del sacerdote o del profeta, ma che può
anche prodursi spontaneamente. La possessione e l'ispirazione ad opera degli
dèi è una specialità dei taula, dei
profeti, ma essa viene anche praticata dai sacerdoti, e a Samoa e a Tahiti, ad
esempio, è alla portata di ogni capo di famiglia: il dio patrono della famiglia
parla abitualmente per bocca del capo vivente di essa (Handy). Un taula atua pretende di comunicare coi
suoi fratelli defunti. Si dichiara capace di vederli chiaramente e, quando ha
luogo l'apparizione, perde conoscenza (Loeb). Nel suo caso, son gli spiriti dei
suoi fratelli a rivelargli le cause e i rimedi della malattia, o ad indicargli
se il paziente è condannato. Ma si è serbato il ricordo d'un'epoca in cui lo
sciamano era «posseduto dagli dei» soltanto, e non, come oggi, «posseduto dagli
spiriti». Benché essi rappresentino soprattutto la tradizione ritualista della
loro religione, i sacerdoti (tohunga)
non rifuggono affatto da esperienze estatiche; essi sono perfino tenuti ad
imparare le arti magiche e la stregoneria. Fornander parla di dieci «collegi
sacerdotali» nelle Hawaii: tre sono specializzati nella stregoneria, due nella
necromanzia, tre nella divinazione, uno nella medicina e nella chirurgia, uno
nella costruzione di templi (Handy, p. 150). Quel che Fornander chiamava «collegi»
erano piuttosto diverse classi d'esperti, ma quest'informazione mostra che i
sacerdoti ricevevano pure un'istruzione magica e medica che, in altre regioni,
era appannaggio degli sciamani.
Del resto, le
guarigioni magiche sono praticate sia dai taula
che dai tohunga. Quando viene
chiamato per un caso di malattia, il sacerdote maori cerca anzitutto di
scoprire per che via lo spirito maligno è venuto dal mondo infero, e a tale
scopo tuffa la testa nell'acqua. Tale via è generalmente costituita dallo stelo
di una pianta e allora il tohunga la
prende e la posa sulla testa dell'ammalato; poi recita degli incantamenti
affinché lo spirito abbandoni la vittima e se ne torni nelle regioni infere
(Handy). Anche a Mangareva sono i sacerdoti a occuparsi delle guarigioni.
Poiché la malattia è normalmente provocata dalla possessione da parte d'un dio
della famiglia Viriga, i parenti del
malato consultano immediatamente un sacerdote; costui confeziona un piccolo
canotto di legno e lo porta a casa del paziente, pregando il dio-spirito di
lasciare il corpo e d'imbarcarsi. Bisogna tuttavia rilevare che il nome dei
sacerdoti a Mangareva è taura,
vocabolo che corrisponde al taula di
Samoa e Tonga, al kaula delle Hawaii e
al taua delle isole Marchesi, termini
che, come si è visto, designano i «profeti» (Handy). Ma a Mangareva la
dicotomia religiosa non è espressa dalla coppia tohunga (sacerdote) - taula
(profeta) bensl da quella taura
(sacerdote) - akarata (indovino) -
(Laval). Gli uni come gli altri sono posseduti dagli dèì, ma gli akarata ricevono il loro titolo in base
ad una ispirazione improvvisa seguita da una breve cerimonia di consacrazione
(Hiroa), mentre i taura passano un lungo periodo di iniziazione in una marae.
Laval ed altre autorità affermano che per gli akarata non esiste una iniziazione; tuttavia Hiroa ha provato che
il cerimoniale d'installazione (che dura cinque giorni e durante il quale il
sacerdote invita gli dèi a prender residenza nel corpo del neofita) ha la
struttura di una iniziazione. La principale differenza fra i «sacerdotì»
e gli «indovini»
consiste nel fatto che nei secondi la vocazione estatica è estremamente
accentuata.
Come si è detto,
la «possessione» da parte degli dèi o degli spiriti è una peculiarità della
religione estatica polinesiana. Quando sono in stato di «possessione»,
i profeti, i sacerdoti o i semplici medium vengono considerati come
incarnazioni divine e trattati in modo corrispondente. Gli inspirati sono, in
un certo modo, dei «vasi» nei quali entrano gli dèi e gli spiriti. Il termine
maori waka fa chiaramente capire che
l'inspirato porta il dio che è in lui come una barca porta il suo proprietario
(Handy). La fenomenologia dell'incorporazione del dio o dello spirito
rassomiglia, qui, a quella che si osserva dappertutto: dopo una fase
preliminare di calma concentrazione sopravviene uno stato frenetico durante il
quale il medium parla con una voce di testa, sincopata da spasimi; le sue
parole sono oracolari e comunicano ciò che si deve fare: giacché si ricorre
alle consultazioni medianiche non solo per conoscere che sacrifici desideri una
data divinità ma anche prima di iniziare una guerra o di partire per un lungo
viaggio, ecc. Per ugual via si scopre la causa di una malattia e il modo di curarla,
o l'autore di un furto.
È inutile
riportare qui le descrizioni che del fenomeno dell'inspirazione e della
«possessione» in Polinesia han fatto i primi esploratori ed etnologi: se ne
potranno trovare di classiche in Mariner, in Ellis, in Stewart, ecc. Diremo
soltanto che le sedute medianiche aventi uno scopo privato han luogo di notte e
sono meno frenetiche delle grandi sedute pubbliche fatte in pieno giorno per
conoscere la volontà degli dèi. La differenza fra un «posseduto» spontaneo e
temporaneo e un profeta consiste nel fatto che il secondo è sempre «inspirato»
da uno stesso dio o da uno stesso spirito, e può incarnarlo a volontà. Infatti
si procede alla consacrazione di un nuovo profeta in base ad una sua
autentificazione ufficiale da parte dello spirito-dio che lo domina: in seguito
lo si interpella ed egli è tenuto a pronunciare degli oracoli. Egli non viene
riconosciuto taula o akarata finché l'autenticità delle due
esperienze estatiche non è dimostrata. Se egli rappresenta (o meglio:
incorpora) un grande dio, la sua casa e la sua stessa persona divengono tapu ed egli gode di una considerevole
posizione sociale che, come prestigio, eguaglia o addirittura supera quella del
capo politico. Talvolta l'incarnazione di un grande dio è testimoniata
dall'acquisto di poteri magici sovrannaturali; il profeta delle isole Marchesi,
ad esempio, può restar digiuno un mese, può dormire sotto l'acqua, vede cose
che avvengono a grande distanza e via dicendo (Linton).
A queste grandi
classi di personaggi magico-religiosi vanno aggiunti gli stregoni o necromanti
(tahu, kahu), la cui specialità è il possedere uno spirito ausiliario («familiare»)
che essi si procurano estraendolo dal corpo di un amico o di un parente
defunto. Come i profeti e i sacerdoti essi sono dei guaritori; però vengono
anche consultati per scoprire dei furti (per es. nelle Isole della Società) e
spesso essi si prestano ad azioni di magia nera. Alle Hawaii, il kahu può distruggere l'anima della
vittima schiacciandola tra le dita; a Pukapuka, il tangata wotu ha il potere di vedere le anime che vagabondano
durante il sonno, e le uccide perché queste anime potrebbero forse prepararsi a
causare la malattia. La differenza essenziale fra gli stregoni e gli inspirati
sta nel fatto che i primi non sono «posseduti» dagli dèi o dagli spiriti ma
hanno invece a loro disposizione una entità che compie per loro il lavoro
magico propriamente detto. Alle isole Marchesi, per esempio, si fa netta
distinzione tra: 1) i sacerdoti ritualisti, 2) i sacerdoti inspirati, 3) i posseduti
dagli spiriti, e 4) gli stregoni. I «posseduti» hanno anch'essi continue
relazioni con certi spiriti, ma queste relazioni non giungono a conferir loro
dei poteri magici. Questi sono esclusivo monopolio degli stregoni, che possono
essere eletti dagli spiriti o acquistare i poteri con lo studio e con
l'assassinio d'un parente la cui anima diverrà il loro servitore (Linton).
Infine bisogna
ricordare che certi poteri sciamanici sono trasmessi per via ereditaria
all'interno di date famiglie. L'esempio più cospicuo che si può citare è il
potere di camminare su carboni ardenti o su pietre arroventate a bianco, potere
riservato a certe famiglie delle Figi. Circa l'autenticità di tali fenomeni non
v'è dubbio; numerosi osservatori hanno constatato «il miracolo» dopo aver preso
ogni possibile garanzia di oggettività. Non solo: gli sciamani figiani possono
rendere insensibile al fuoco ogni appartenente della loro tribé e perfino degli
stranieri. Lo stesso fenomeno è stato constatato altrove, ad esempio nell'India
meridionale. Se ci si ricorda che gli sciamani siberiani hanno fama di
inghiottire carboni ardenti, che «calore» e «fuoco» sono attributi
magici presenti negli strati più arcaici delle società primitive, che fenomeni
analoghi li si riscontrano in sistemi superiori di magia e nelle tecniche
contemplative asiatiche (nello Yoga, nel tantrisrno, ecc.) si può concludere
che «il potere sul fuoco» di cui danno prova certe famiglie figiane appartiene
di diritto allo sciamanismo autentico. Del resto, questo potere non è stato
constatato nelle sole isole Figi. Anche se non nella stessa misura,
l'insensibilità al fuoco ha potuto essere accertata in numerosi profeti o
inspirati polinesiani.
Nel loro
insieme, queste constatazioni ci fanno concludere che le tecniche sciamaniche
propriamente dette in Polinesia appaiono in modo piuttosto sporadico «Fire
walking ceremony» nelle Figi, volo magico di stregoni e di profeti, ecc.),
mentre l'ideologia sciamanica è presente nella sola mitologia· (ascensione
celeste, discesa agli Inferni, ecc.) e sopravvive, semi-obliata, in cerimonie
che stanno trasformandosi in semplici giuochi (il giuoco dei cervi volanti). La
concezione della malattia qui non è quella dello sciamanismo propriamente detto
(la fuga dell'anima); i Polinesiani attribuiscono la malattia o
all'introduzione di un oggetto nel corpo ad opera di un dio o spirito, o alla «possessione».
E la cura consiste nell'estrazione dell'oggetto magico o nell'espulsione dello
spirito. L'introduzione e, simmetricamente, l'estrazione dell'oggetto magico
fan parte di un complesso che sembra essere arcaico. Ma in Polinesia la
guarigione non è prerogativa del solo medicine-man
come in Australia ed altrove; l'estrema frequenza della possessione da parte di
dèi e spiriti ha reso possibile un pullulare di guaritori. Come si è visto. i
sacerdoti, gli inspirati, i medicine-men, gli stregoni - tutti costoro possono
intraprendere la cura magica. Infatti la «possessione» quasi medianica nella
sua facilità e nella sua frequenza ha finito con l'affermarsi per ogni dove di
là dai quadri e dalle funzioni degli «specialisti del sacro»: e per via di questa
medianità collettiva la stessa istituzione tradizionalista e ritualista del
sacerdozio ha dovuto modificare il proprio comportamento. Soltanto gli stregoni
hanno resistito alla «possessione» e può darsi che le vestigia dell'ideologia
sciamanica arcaica si debbano cercare nelle tradizioni segrete di questi
ultimi. Abbiamo lasciato da parte lo sciamanismo africano: la presentazione
degli elementi sciamanici che si potrebbero identificare nelle diverse
religioni e tecniche magico-religiose africane ci avrebbe condotto troppo
lontano.
Capitolo 11: Ideologie e tecniche
sciamaniche tra gli indoeuropei
Come tutti gli
altri popoli, gli Indoeuropei hanno avuto loro maghi e i loro estatici. Come
dappertutto, questi maghi e questi estatici assolvevano una funzione ben
definita nell'insieme della vita magico-religiosa della comunità. Inoltre sia
il mago che l'estatico disponevano talvolta di un modello mitico: cosi, ad
esempio, in Varuna fu visto un «Grande Mago» e in Odino _ fra l'altro - un
estatico di un tipo particolare: Wodan,
id est furor - scriveva Adamo da Brema, e non è mancato chi in questa
definizione lapidaria ha avvertito un certo pathos sciamanico.
Si può però
parlare di uno sciamanismo indoeuropeo nello stesso senso in cui si parla di
uno sciamanismo altaico o siberiano? La risposta a questa domanda dipende in
parte dal significato che si dà al termine «sciamanismo». Se con questa
parola s'intende un qualsiasi fenomeno estatico e una qualsiasi tecnica magica,
è evidente che fra gli Indoeuropei si troveranno numerosi tratti «sciamanici»,
cosi come, ripetiamolo, li ritroviamo in qualsiasi altro gruppo etnico o
culturale. Per esporre, anche in forma succinta, l'enorme inventario delle
tecniche e delle ideologie magico-estatiche riscontrate in tutti i popoli
indoeuropei occorrerebbe un volume a parte e più di una competenza specifica.
Per fortuna un problema del genere, che per ogni senso va oltre l'argomento
della presente opera, qui non abbiamo da affrontarlo. Qui si tratterà soltanto
di vedere in che misura i vari popoli indoeuropei conservano traccie di una
ideologia e di una tecnica sciamanica nell'accezione più ristretta del termine,
traccie, cioè, nelle quali ricorra qualcuno dei noti temi essenziali: ascesa in
Cielo, discesa agli Inferni per ricondurre l'anima del malato o accompagnare i
morti, evocazione e incorporazione di «spiriti» onde intraprendere il viaggio estatico,
«dominio del fuoco», e via dicendo.
Traccie del
genere sussistono in quasi tutti i popoli indoeuropei e noi le passeremo in
rassegna rapidamente; probabilmente il loro numero è più elevato, e non
pretendiamo affatto d'aver esaurito la materia. Però, a tale riguardo, già in
partenza è bene mettere in rilievo due punti. Anzitutto, secondo ciò che
abbiamo già detto a proposito di altri popoli e di altre religioni, va tenuto
per fermo che la presenza di uno o più elementi sciamanici in una religione indoeuropea
non autorizza a considerare una tale religione come dominata dallo sciamanismo
o come avente una struttura sciamanica. In secondo luogo, bisogna ricordarsi
che, se si ha cura di distinguere lo sciamanismo da altre magie e tecniche
estatiche «primitive», le sopravvivenze sciamaniche che
si possono scoprire nell'uno o nell'altro aspetto di una religione «evoluta»
non implicano per nulla un giudizio negativo nel riguardo di tali sopravvivenze
o dell'insieme della religione nella quale esse sono entrate a far parte. È
bene insistere su questo punto, perché la letteratura etnografica moderna è
incline a trattare lo sciamano come un fenomeno alquanto aberrante, sia perché
lo confonde con la «possessione», sia perché si compiace di
metterne in risalto soprattutto gli aspetti degenerescenti. Come in quest'opera
è mostrato a più riprese, in molti casi lo sciamanismo si presenta si in uno
stato di disintegrazione, ma nulla autorizza a considerare questa sua fase
tarda come quella che rappresenta il fenomeno sciamanico nel suo complesso.
Bisogna anche
richiamare l'attenzione su di un'altra confusione possibile a cui si è esposti
non appena, invece di prender come oggetto di studio una religione «primitiva»,
ci si occupa della religione di un popolo avente una storia assai più ricca in
fatto di scambi culturali, di innovazioni, di creazioni: in casi del genere si
corre il rischio di disconoscere ciò che la «storia» ha potuto
fare di uno schema magico-religioso arcaico, la misura in cui il contenuto
spirituale di questo è stato trasformato e transvalutato, quando di esso si
continua a considerare il solo significato «primitivo». Basterà un esempio
per rendersi conto dei pericoli di una tale confusione. Si sa che varie
iniziazioni sciamaniche implicano dei «sogni» nei quali il futuro sciamano si
vede torturato e fatto a pezzi da demoni e da anime di morti. Ora, cose
analoghe le si ritrovano nell' agiografia cristiana, ad esempio nella leggenda
delle tentazioni di Sant'Antonio: dei demoni torturano, uccidono, fanno a pezzi
i santi, li trasportano in aria a grandi altezze, e via dicendo. In fondo, tali
tentazioni equivalgono ad una «iniziazione», perché è grazie ad
esse che i santi trascendono la condizione umana, cioè si staccano dalla massa
dei profani. Ma basta un po' di perspicacia per sentire tutta la differenza di
contenuto spirituale che separa i due «schemi iniziatici», per affini che essi
possano pur sembrare tipologicamente. Per sfortuna, se è abbastanza facile
distinguere i tormenti demoniaci di un santo cristiano da quelli di uno
sciamano, la distinzione non è altrettanto evidente quando si tratta di santi
non-cristiani. Ora, bisogna tener sempre conto del fatto che uno schema arcaico
è capace di rinnovare perpetuamente il proprio contenuto spirituale. Noi abbiamo
già incontrato un numero abbastanza rilevante di ascensioni celesti sciamaniche
e avremo occasione di citarne altre ancora; si è anche visto che, nel riguardo,
si tratta di una esperienza estatica la quale, in sé, non ha nulla di
«aberrante»; che, anzi, questo schema magico-religioso
antichissimo, attestato presso tutti i «primitivi», è affatto coerente,
«nobile»,
«puro» e, tutto sommato, «bello». Per cui, dato il piano sul quale
abbiamo dunque situato l'ascensione sciamanica in Cielo, non rappresenterà per
nulla qualcosa di negativo il dire, ad esempio, che l'ascensione di Maometto
tradisce un contenuto sciamanico. Malgrado ogni simiglianza tipologica, sarebbe
però impossibile identificare l'ascensione estatica di Maometto all'ascensione
di uno sciamano altaico o buriate. Il contenuto, la significazione e
l'orientamento spirituale dell'esperienza estatica del Profeta presuppongono
certi mutamenti di valori religiosi che la rendono irriducibile al tipo
generale dell'ascensione.
È stato
necessario premettere queste osservazioni essenziali in un capitolo ave
tratteremo di popoli e di civiltà infinitamente più complesse di quelle fin qui
considerate. Noi sappiamo ben poco di certo quanto alla preistoria e alla
protostoria religiosa degli Indoeuropei, cioè quanto alle epoche in cui gli
orizzonti spirituali di questo gruppo etnico erano probabilmente simili a
quelli di molti dei popoli di cui abbiamo parlato. I documenti di cui disponiamo
ci presentano religioni già elaborate, sistematizzate, talvolta perfino
fossilizzate. Si tratta di discernere in questa massa enorme i miti, i riti o
le tecniche dell'estasi che abbiano una struttura sciamanica. Come subito
constateremo, miti, riti e tecniche dell'estasi di tal genere sono attestati,
in forma più o meno «pura», presso tutti i popoli
indoeuropei. Non crediamo però che si possa considerar lo sciamanismo come la
dominante della vita magico-religiosa degli Indoeuropei. Ciò, peraltro, potrà
sembrare perfino strano, dato che, morfologicamente e nelle grandi linee, la
religione indoeuropea rassomiglia a quella dei Turco-Tartari: essa è
caratterizzata dalla supremazia di un Dio uranico, dall'assenza o dalla minor
importanza di divinità femminili, dal culto del fuoco, e via dicendo.
Si potrebbe
spiegare sommariamente la differenza esistente fra le religioni dei due gruppi
quanto al punto specifico della predominanza o, invece, della minore importanza
dello sciamanismo, in essi, in base a due fatti ricchi di conseguenze. Il primo
è la grande innovazione degli Indoeuropei, che le ricerche di Georges Dumézil
han messo brillantemente in luce: la tripartizione divina, corrispondente sia
ad una particolare organizzazione della comunità che ad una concezione
sistematica della vita magico-religiosa, ogni tipo di divinità possedendo una
funzione speciale e una corrispondente mitologia. Una tale riorganizzazione
sistematica dell'insieme della vita magico-religiosa, che nelle sue grandi
linee si realizzò già in un'epoca in cui i Proto-Indoeuropei non si erano
ancora separati nei vari gruppi etnici, implicò certamente una integrazione
dell'ideologia e delle esperienze sciamaniche: ma questa integrazione fu pagata
col prezzo di una specializzazione e, in ultima analisi, con una limitazione
dei poteri sciamanici, che ebbero sì un loro posto a lato di altri poteri e di
altri prestigi magico-religiosi, cessando però di monopolizzare le tecniche
dell'estasi e di dominare ideologicamente l'insieme della spiritualità tribale.
È un po' in questo senso che imaginiamo sia avvenuta la «collocazione» delle
tradizioni sciamaniche nel lavoro di organizzazione delle credenze
magico-religiose, lavoro condotto a termine già nel periodo dell'unità
indoeuropea. Volendo utilizzare gli schemi di Georges Dumézil, le tradizioni
sciamaniche, nella loro grande maggioranza. si sarebbero raccolte intorno alla
figura mitica del Sovrano terribile, il cui archetipo sembra esser stato
Varuna, il Maestro della magia, il grande «Legatore». Con ciò,
naturalmente, non si vuol dire che gli elementi sciamanici si siano unicamente
cristallizzati intorno alla figura del Sovrano terribile, né che questi
elementi sciamanici esauriscano tutte le ideologie e le tecniche magiche o
estatiche presenti all'interno della religione indoeuropea. In essa sono invece
esistite anche magie e tecniche dell'estasi di struttura non-sciamanica, come,
ad esempio, la magia dei guerrieri o la magia e le tecniche dell'estasi aventi
relazione con le Grandi Dee materne e con la mistica agricola, le quali non
erano per nulla sciamaniche.
La seconda
ragione che ci sembra abbia contribuito a differenziare gli Indoeuropei dai
Turco-Tartari, sempre riguardo all'importanza accordata, nei due casi, allo
sciamanismo, è l'influenza esercitata sui primi dalle civiltà orientali e
mediterranee di tipo agrario ed urbano. In modo diretto o indiretto, questa
influenza si è fatta valere nei popoli indoeuropei via via che essi avanzarono
nella direzione del Vicino Oriente. Le trasformazioni subite dal retaggio
religioso delle diverse immigrazioni greche riversatesi dai Balcani verso
l'Egeo sono un indizio del fenomeno molto complesso di assimilazione e di
rivalutazione dovuto ai contatti con una cultura di tipo agrario ed urbano.
Tecniche dell'estasi
presso gli antichi Germani
Nella religione
e nella mitologia degli antichi Germani certi dettagli possono essere
ravvicinati a concezioni e tecniche dello sciamanismo nord-asiatico. La figura
e il mito di Odino - il Sovrano terribile e il Grande Mago - presentano vari
tratti singolarmente «sciamanici». Per appropriarsi della saggezza
segreta delle rune, Odino resta appeso ad un albero per nove giorni e nove
notti (Hàvamàl, vv. 138 sgg.), nel
che alcuni germanisti hanno voluto vedere un rito di iniziazione - Hofler lo
mette perfino in relazione con la scalata iniziatica degli alberi eseguita
dagli sciamani siberiani. L'albero al quale Odino si è «impiccato» da sé non
può essere altro che l'Albero cosmico, Yggdrasil, nome che, del resto, vuoI
dire il «corsiero di Ygg (Odino)». Nella tradizione nordica la
selvaggina vien chiamata il «cavallo dell'impiccato» (Hofler) e certi riti
germanici d'iniziazione comprendevano una «impiccagione» simbolica del
candidato, usanza, questa, che risulta abbondantemente attestata anche altrove
(vedi bibliografia in Hofler). Odino attacca anche il suo cavallo all'albero
Yggdrasil, e si sa quanto un tema mitico del genere sia diffuso nell'Asia
centrale e settentrionale (vedi più su).
Il destriero di
Odino, Sleipnir, ha otto gambe ed è lui che porta il suo padrone, ed anche
altri dèi (per es. Hermodhr), all'Inferno. Ora, il cavallo ad otto gambe è il
cavallo sciamanico per eccellenza: lo si ritrova fra i Siberiani ed anche
altrove (per es. presso i Murias), sempre in relazione con l'esperienza
estatica degli sciamani (vedi più oltre). È verosimile ciò che suppone Hofler,
vale a dire che Sleipnir è l'archetipo mitico di un cavallo polipodo avente una
parte importante nel culto segreto delle «società di uomini» (sui rapporti
fabbro, «cavallo»-socìetà segreta, Hofler; stesso complesso religioso in
Giappone). Questo è però un fenomeno magico-religioso che va oltre il dominio
dello sciamanismo.
Parlando della
facoltà di Odino di mutar di forma a volontà, Snorri scrive: «Il
suo corpo giace come se dormisse o fosse morto, mentre egli diviene un uccello
o una belva, un uccello o un drago e si porta in un attimo in paesi
lontanissimi...». È legittimo ravvicinare questo viaggio estatico di Odino in
forma animale alla trasformazione degli sciamani in animali: e proprio come
questi lottano fra di loro sotto forma di tori o di aquile, cosi anche le
tradizioni nordiche menzionano spesso combattimenti fra maghi che han preso la forma
di trichechi o di altri animali, durante tale lotta i loro corpi restando
disanimati proprio come quello di Odino durante l'estasi. In un altro punto è
narrata la storia di due maghe che, mentre i loro corpi giacevano disanimati
sulla «piattaforma dell'incantesimo» (seidhjallr), furono vedute sul mare, lontano, a cavallo di una
balena; esse inseguivano la nave di un eroe che volevano far naufragare, ma
l'eroe riusci a spezzar loro la spina dorsale, e nello stesso istante le due
streghe ricaddero sulla piattaforma col dorso infranto. La Saga Sturlangs Starfsama (XII) narra di due
maghi che lottarono fra loro in forma di cani e, poi, di aquile. Naturalmente,
credenze del genere noi possiamo trovarle anche fuori dello sciamanismo
propriamente detto, ma qui un ravvicinamento con le pratiche degli sciamani
siberiani s'impone. Del resto, altre tradizioni scandinave parlano di spiriti
ausiliari che prendono forme animali percepibili ai soli sciamani (Ellis), il
che ricorda ancor più da presso idee sciamaniche. Ci si può perfino domandare
se i due corvi di Odino, Huginn («Pensiero»)
e Muninn («Memoria»), non
rappresentino, fortemente mitizzati, due «spiriti ausiliari» in forma di
uccello che il Grande Mago invia, in maniera sciamanica, nelle varie parti del
mondo. Fra gli attributi sciamanici di Odino, Closs fa anche rientrare i due
lupi, il nome di «Padre» che gli si dava (galdrs
fadir = padre della magia, Baldrs
draumar, 3, 3), il «motivo dell'ebbrezza» e le Valchirie. Già da tempo
Chadwick aveva visto nelle Valchirie delle creature mitiche più vicine ai «lupi
mannari» che non delle fate celesti. Ma tutti questi motivi non sono
necessariamente «sciamanici», Le Valchirie sono psìcopompe e
talvolta hanno la stessa parte delle «spose celesti» o delle «donne-spiriti»
degli sciamani siberiani; abbiamo però visto che questo complesso oltrepassa la
sfera dello sciamanismo e rientra sia nella mitologia della Donna che in quella
della Morte.
È anche da Odino
che trae origine la necromanzia. Sul suo cavallo Sleipnir egli penetra nel Hel e ordina ad una profetessa morta da
tempo di sorgere dalla tomba per rispondere alle sue domande (Baldrs Draumar, vv. 4 sgg.). Altri
personaggi, da allora, praticarono una necromanzia di questo genere che, certo,
non è sciamanismo stricto sensu, ma
rientra in un orizzonte spirituale ad esso assai vicino. E si potrebbe anche
citare la divinazione a mezzo della testa mummificata di Mimir (Voluspà, 46; Ynglinga Saga, IV), che ricorda la divinazione mediante crani di
antenati sciamani, praticata dagli Yukaghiri.
Secondo la
tradizione nordica, si può divenire profeti sedendosi su delle tombe, e «poeti»,
cioè inspirati, dormendo sul sepolcro di un poeta. Si ritrova un costume
analogo fra i Celti: il fili mangiava la carne cruda di un toro, ne beveva il
sangue e avvoltatosi nella sua pelle si addormentava; durante il sonno «amici
invisibili» gli comunicavano la risposta alle quistioni che lo assillavano.
Oppure ci si metteva senz'altro a dormire sulla tomba di un parente o di un
antenato, e si diveniva profeta. Tipologicamente, queste usanze si avvicinano
all'iniziazione o all'inspirazione dei futuri sciamani e maghi che passano la
notte vicino a dei cadaveri o nei cimiteri. L'idea che fa da substrato è la
stessa: i morti conoscono l'avvenire, possono rivelare cose nascoste, ecc. Il
sogno ha talvolta una parte consimile: nella G'sla Saga (XXII, sgg.) il poeta indica il destino di certi
privilegiati dopo la morte (Ellis).
Qui non è il
caso di esaminare i miti e le leggende celtiche e germaniche relative ai viaggi
estatici nell'aldilà e, specialmente, alle discese agli Inferni. Ricorderemo
soltanto che le idee concernenti l'esistenza dopo la morte non erano esenti di
contraddizioni né fra i Celti né fra i Germani. Le loro tradizioni parlano di
varie sedi destinate ai trapassati, concordando con le concezioni di altri
popoli circa la pluralità dei destini nel post-mortem.
Hel, l'Inferno propriamente detto,
secondo il Grimnismàl si trova sotto
una delle radici dell'albero Yggdrasil, cioè nel «Centro del Mondo».
Si parla anche di nove piani sotterranei: un gigante pretende di aver
acquistata la sua sapienza col discendere nei «nove mondi inferi» (Ellis). Qui
noi dunque incontriamo lo stesso schema cosmologico centro-asiatico dei sette o
nove Inferni corrispondenti ai sette o nove Cieli. Ma ancor più significativa è
la dichiarazione del gigante: si diviene «sapienti» - cioè chiaroveggenti -
grazie ad una discesa negli Inferni, discesa che, pertanto, si ha il diritto di
considerare come una iniziazione.
Nel Gylfaginning (XLVIII) Snorri ci descrive
la discesa di Hermòdhr nel Hel: egli
vi si reca cavalcando Sleipnir, il destriero di Odino, per riportarne l'anima
di Balder. Questa discesa agli Inferni è di tipo nettamente sciamanico. Come
nelle diverse varianti non-europee del mito di Orfeo, nel caso di Balder la
discesa non dà i risultati sperati. Che una tale impresa sia però possibile, è
confermato dal Chronicon Norvegiae:
uno sciamano che cercava di riprendere l'anima di una donna morta
improvvisamente, cadde lui stesso morto, con una terribile ferita al ventre.
Intervenne un secondo sciamano a risuscitare la donna, che allora riferì di
aver visto lo spirito del primo sciamano attraversare un lago in forma di tricheco:
in quel momento qualcuno l'aveva colpito con un'arma e la ferita si trovava
riprodotta sul cadavere (Ellis).
Lo stesso Odino
discende negli Inferni sul suo cavallo Sleipnir per risuscitare la valva e
conoscere la sorte di Balder. Un terzo esempio di discesa si trova in Saxo
Grammaticus Hist. Dan, I, 31) ed ha
per eroe Hadingus: mentre questi stava mangiando, una donna, gli appare
improvvisamente e lo invita a seguirlo. I due discendono sottoterra,
attraversando una regione umida e tenebrosa, trovano un sentiero battuto sul
quale vanno figure ben vestite, entrano quindi in una zona soleggiata ave
crescono fiori d'ogni specie e giungono dinanzi ad un fiume che essi
attraversano passando per un ponte. Allora vedono due eserciti impegnati in una
battaglia che la donna dice essere eterna: sono i guerrieri caduti sui campi di
battaglia che continuano a combattere. Infine giungono davanti ad una muraglia
che la donna cerca invano di oltrepassare; essa uccide un gallo che aveva con
sé e lo getta di là dal muro; il gallo torna in vita, perché subito dopo si
sente il suo canto di là dalla muraglia. Purtroppo qui Saxo interrompe il
racconto (Ellis, p. 172); ma in quanto egli dice sulla discesa di Hadingus
guidato dalla donna misteriosa si ritrova già il motivo mitico ben noto: il
cammino dei morti, il fiume, il ponte, l'ostacolo iniziatico (la muraglia). Il
gallo che torna in vita di là dal muro sembra indicare la credenza che almeno
alcuni privilegiati (cioè alcuni «iniziati») possono contare sulla possibilità
di un «ritorno alla vita» dopo la morte. Questo dettaglio
riferito da Saxo si potrebbe ravvicinarlo al rituale funerario di un capo
scandinavo («Rus») al quale assistette nel 921 il viaggiatore arabo Ahmed ibn
Fodlan nella regione del Volga: una delle schiave, prima di esser immolata a
che seguisse il suo padrone, compi il seguente rito: per tre volte gli uomini
la sollevarono onde potesse vedere al disopra del quadro di una porta, ed essa
raccontò di aver scorto, la prima volta, suo padre e sua madre, la seconda
tutti i suoi congiunti e la terza il suo signore, «seduto in Paradiso».
Poi le si dette una gallina a cui la schiava tagliò la testa, che gettò nella
barca funeraria (barca, che poco dopo doveva trasformarsi nel suo rogo).
Nella mitologia
e nel folklore germanico vi sono anche altri racconti di discese infernali ove
si possono parimenti ritrovare temi di «prove iniziatiche» (per es. l'attraversare
un «muro di fiamme»), però non necessariamente del tipo della discesa
sciamanica. Come viene attestato dal Chronicon
Norvegiae, è fra i maghi nordici che questa era conosciuta e se si pensa ad
altre loro imprese si può convenire in una rassomiglianza abbastanza
caratterizzata con gli sciamani siberiani.
Ci limiteremo ad
accennare ai «guerrieri belva», ai berserkir che, per via magica, fanno proprio il «furore» felino e
si trasformano in belve. Questa tecnica di estasi guerriera, che si trova
attestata anche presso altri popoli indoeuropei e della quale sono stati anche
trovati dei paralleli in culture extra-europee, con lo sciamanismo stricto sensu ha solo rapporti
superficiali. L'iniziazione di tipo guerriero (eroico) per la sua struttura si
distingue dalle iniziazioni sciamaniche. La trasformazione magica in una belva
appartiene ad una ideologia che va oltre la sfera dello sciamanismo. Le radici
di questa ideologia riportano ai riti di caccia dei popoli paleo-siberiani e
più giù vedremo quali tecniche dell'estasi possono derivare dall'imitazione
mistica del comportamento di un dato animale.
Secondo ciò che
Snorri riferisce, Odino conosceva e praticava la magia detta seidhr: grazie ad essa poteva prevedere
il futuro e causare la morte, la sciagura o la malattia. Però Snorri dice che
questa stregoneria implicava una «turpitudine» tale che gli uomini non
l'usavano mai «senza vergogna»: il seidhr era piuttosto una prerogativa delle gydhjur («sacerdotesse» o «dee»).
E nel Lokasenna si rinfaccia ad Odino
l'uso del seidhr, cosa «indegna di un
uomo». Le fonti parlano di maghi (seidhmenn)
e di maghe (seidhkonur) e si sa che
Odino apprese il seidhr dalla dea
Freia. Pertanto, si può supporre che questa specie di magia sia stata una
specialità femminile: per tale motivo venne considerata «indegna di un uomo».
Di fatto, le
sedute di seidhr descritte dai testi
ci presentano sempre una seidhkona,
una spàkona (una «chiaroveggente»,
una profetessa). La descrizione migliore si trova nella Eiriks saga rautha: la
spàkona possiede un costume cerimoniale tutt'altro che primitivo: manto
azzurro, gioielli, un copricapo di agnello nero con pelli di gatto bianco;
porta anche un bastone e, durante la seduta, si siede su di un cuscino di penne
di gallina su di un piedistallo alquanto elevato. Aggiungiamo che certi tratti «sciamanìci»
nel senso lato del termine traspaiono nella assai complessa figura di Loki; su
questo dio, vedi l'eccellente opera di Dumezil (Loki, Paris, 1948). Trasformatosi in giumenta, Loki generò con lo
stallone Svadhilfari, il cavallo ad otto gambe, Sleipnir. Loki può assumere
varie forme animali, quella di una foca, di un salmone, ecc. Genera il Lupo e
la Serpe del Mondo. Vola anche negli spazi dopo aver indossato il costume di
penne di falco; ma questa veste magica non gli è propria, essa appartiene a
Freia. Ci si ricorderà che Freia ha insegnato a Odino il seidhr; pertanto, questa tradizione la si può raffrontare con le
idee circa l'arte del volo magico insegnato da una dea o da una maga ad un dio
o ad un sovrano, ed analoghe leggende cinesi, Freia, maestra del seidhr, possiede un costume magico di
penne che le permette di volare alla stessa guisa degli sciamani; Loki sembra
aver in proprio una magia più tenebrosa il cui senso è nettamente indicato
dalle sue trasformazioni animali. La seidhkona
(o valva, spàkona) va di fattoria in fattoria per rivelare l'avvenire degli
uomini e predire il tempo, la qualità del raccolto, ecc. Porta con sé quindici
giovinette e altrettanti giovani che cantano in coro. La musica ha una parte
essenziale nella preparazione dell'estasi. Durante la trance l'anima della seidhkona
lascìa il corpo e viaggia nello spazio; per lo più, assume la forma di un
animale, come nell'episodio più su citato.
Per vari aspetti
il seidhr si avvicina alla seduta
sciamanica classica: il costume rituale, l'importanza del coro e della musica,
l'estasi. Non ci sembra però che per questo si debba considerare il seidbr come
sciamanismo stricto sensu: il «volo
mistico»
è un leit-motiv della magia
universale e specialmente della stregoneria europea. I temi specificamente
sciamanici - discesa agli Inferni per riportare l'anima del malato o per
accompagnare il defunto - benché, come si è visto, siano presenti nelle
tradizioni della magia nordica, non rappresentano un elemento essenziale nella
seduta del seidhr. Questa sembra
invece incentrarsi nella divinazione, il che vale quanto dire che ha piuttosto
attinenza con la «piccola magia».
Qui non
affronteremo lo studio delle varie tradizioni estatiche che sono state
attestate nella Grecia antica. Accenneremo solo a quei documenti che,
morfologicamente, possono esser ravvicinati allo sciamanismo in senso stretto.
Non è il caso di rifarsi ai baccanali dionisiaci solo perché gli autori
classici ci parlano della insensibilità dei bakhai;
e nemmeno è il caso di considerare l'enthousiasmòs,
le varie tecniche oracolari, la necromanzia o la concezione degli Inferni. Non
c'è nulla di «sciamanico» nell'oracolo di Delfi e nella mantica apollinea. Si
può forse ravvicinare il famoso tripode delfico alla piattaforma della seidbkona germanica. «È però Apollo che
normalmente si siede sul tripode. La Pitia ne prende il posto solo
eccezionalmente, in qualità di sostituto del suo dio» (Amandry).
Naturalmente, in tutto ciò si troveranno motivi e tecniche analoghi a quelli
dello sciamanismo, ma tali coincidenze vanno spiegate in base al sopravvivere,
nella Grecia antica, di concezioni magiche e di tecniche primordiali
dell'estasi universalmente diffuse. Nemmeno parleremo dei miti e delle leggende
relativi ai Centauri e ai primi guaritori e medici divini, benché tali
tradizioni lascino talvolta trasparire alcuni tratti incerti di un certo
«sciamanismo» primordiale. Tutte queste tradizioni appaiono già interpretate,
elaborate, transvalutate; esse sono parte integrante di mitologie e di teologie
complesse; presuppongono contatti, mescolanze e sintesi col mondo spirituale
egeo e perfino orientale, e il loro studio richiederebbe uno spazio assai
maggiore di quello che possiamo loro dedicarvi in questo capitolo.
Comunque,
rileviamo che i guaritori, gli indovini o gli estatici greci che potrebbero
esser ravvicinati agli sciamani non hanno relazioni con Dioniso. La corrente
mistica dionisiaca sembra aver avuta tutt'un'altra struttura: l'entusiasmo
bacchico non rassomiglia affatto all'estasi sciamanica. Le poche figure leggendarie
greche che si potrebbero paragonare agli sciamani ci riportano invece ad
Apollo. Ed è dal Nord, dal paese degli Iperborei, patria originaria di Apollo,
che esse sarebbero venute in Grecia (Guthrie è propenso a credere che Apollo
sia originario dell'Asia nord-orientale, forse della Siberia). Tale è, ad
esempio, il caso di Abaris. «Tenendo nelle mani la freccia d'oro, segno della
sua natura e della sua missione apollinea, percorreva il mondo, allontanando le
malattie mediante dei sacrifici, predicendo i terremoti ed altre calamità»
(Rohde). Una leggenda più tarda ce lo mostra in volo per gli spazi sulla sua
freccia, come Museo. La freccia, che ha una certa parte nella mitologia e nella
religione degli Sciti, è simbolo del «volo magico»: ci si ricorderà della
presenza della freccia in varie cerimonie sciamaniche siberiane.
È egualmente con
Apollo che ha relazioni Aristeo di Proconeso: questi cadeva in estasi e allora
il dio gli «prendeva» l'anima; gli accadeva di apparire simultaneamente in due
luoghi distanti ed accompagnò Apollo sotto forma di corvo (Erodoto, IV, 15), il
che ricorda le trasformazioni sciamaniche. Ermotimo di Clazomene aveva il
potere di abbandonare il corpo «per molti anni»; durante queste
lunghe estasi viaggiava lontano e «conseguiva una conoscenza profetica del
futuro. Alla fine i suoi nemici gli bruciarono il corpo, che giaceva
disanimato, e la sua anima non torno più» (Rohde). Questa estasi ha tutti i
caratteri di una trance sciamanica.
Ricordiamo anche
la leggenda di Epimenide di Creta. Aveva «dormito» a lungo nella caverna di
Zeus sul monte Ida; là aveva digiunato ed aveva apprese le estasi prolungate.
Lasciò la caverna maestro di «sapienza entusiastica», cioè di tecnica
dell'estasi. Allora «si mise a percorrere il mondo praticando l'arte
terapeutica, predicendo l'avvenire da veggente estatico, spiegando il senso
nascosto del passato ed allontanando, come sacerdote purificatore, i mali
inviati dai demoni per misfatti particolarmente gravi». Dodds pretende che i
frammenti di Empedocle rappresentino «la sola fonte di prima mano attraverso la
quale si possa ancora farci una certa idea di come realmente apparisse uno
sciamano greco; era l'ultimo esempio d'una specie che, alla sua morte, si
estinse nel mondo greco, quantunque ancora fosse fiorente altrove».
Quest'interpretazione è stata respinta da Kahn: «L'anima di Empedocle non
lascia il suo corpo come quelle di Ermotimo e di Epimenide. Non cavalca una
freccia come Abaris, né appare sotto forma di corvo come Aristea. Mai lo si vede
contemporaneamente in due luoghi, neppure discende agli inferi come Orfeo e
Pitagora».
Il ritiro in caverna (= discesa agli Inferni) è una prova iniziatica classica,
però non necessariamente «sciamanica». In Epimenide, sono
le estasi, le guarigioni magiche, i poteri di divinazione e di profezia che piuttosto
lo ravvicinano al tipo dello sciamano.
Prima di parlare
di Orfeo, diamo uno sguardo ai Traci e ai Geti, che, secondo Erodoto (IV, 93),
furono «i più prodi e i più giusti fra i Traci». Benché molti autori
abbiano voluto vedere in Zalmoxis uno «sciamano», una interpretazione
del genere è discutibile. La «deputazione di un messaggero» a Zalmoxis, che
avveniva ogni quattro anni (Erodoto, IV, 94), come pure la «dimora sotterranea»
nella quale egli si occultò e visse per tre anni per poi riapparire e
dimostrare ai Geti l'immortalità dell'anima (ibid., 95), non hanno nulla di
sciamanico. Da un solo dato sembra attestato uno sciamanismo getico: è
l'informazione di Strabone (VII, 3, 3; C. 296) circa i kapnobàtai misi, nome che, per analogia con l'espressione
aristofanea àerobàtes (Le nuvole, vv. 225, 1503), è stato
tradotto con' «coloro che camminano nelle nubi» da alcuni autori,
mentre altri ha proposto di tradurlo con «coloro che camminano nel fumo». Probabilmente
si tratta di fumo di canapa, questo essendo un mezzo rudimentale per provocare
l'estasi noto sia ai Traci che agli Sciti. I kapnobàtai sarebbero stati dei danzatori e degli stregoni getici i
quali usavano il fumo prodotto dalla canapa per le loro trance estatiche.
Altri elementi «sciamanici»
permasero di certo nella religione tracia, ma non è sempre facile individuarli.
Citiamo un esempio che dimostra l'esistenza in Tracia dell'ideologia e del
rituale dell'ascensione celeste mediante una scala. Secondo Polieno (Stratagematon, VII, 22), Kosinga,
sacerdote-re dei Kebrenoi e dei Sykaiboai (trìbù tracie), usava minacciare i
suoi sudditi di recarsi dalla dea Hera salendo su di una scala di legno per
lamentarsi con lei della loro condotta. Ora, come si è ripetutamente visto,
l'ascensione simbolica in Cielo mediante una scala è tipicamente sciamanica.
Più oltre vedremo che il simbolismo della scala si trova parimenti attestato in
altre religioni del Vicino Oriente antico e del Mediterraneo.
Passando ora ad
Orfeo, il suo mito comprende vari elementi ravvicinabili all'ideologia ed alla
tecnica sciamanica. Il più importante è naturalmente la sua discesa agli
Inferni per cercarvi l'anima della sua sposa Euridice. Almeno una versione del
mito non menziona l'insuccesso finale - la possibilità di strappare qualcuno
agli Inferni è confermata, del resto, dalla leggenda di Alceste. Ma Orfeo
presenta anche altri tratti da «Grande Sciamano»: la sua arte di
guaritore, il suo amore per la musica e per gli animali, i suoi «incantamenti»
e la sua fascinosità, il suo potere di divinazione. Persino il suo carattere di
«eroe
civilizzatore» non contraddice la migliore tradizione sciamanica: forse che il
«primo sciamano» non fu il messaggero inviato da Dio per proteggere l'umanità
dalle malattie per civilizzarla? Ancora un episodio del mito di Orfeo è
nettamente sciamanico: la testa di Orfeo, che le Baccanti avevano troncata e
gettata nell'Ebron, galleggiò sulle acque e cantò fino a Lesbo. Poi essa, come
la testa di Mimir, servi da oracolo. Ora i crani degli sciamani siberiani hanno
egualmente una loro parte nella divinazione.
Quanto
all'orfismo propriamente detto, esso non può esser ravvicinato sotto nessun
riguardo allo sciamanismo, ove si prescinda dalle laminette d'oro trovate in
alcune tombe, che da tempo si son volute considerare come orfiche. Macchioro
paragona il clima religioso nel quale si formò l'orfismo a quello della Ghost Dance Religion e di altri
movimenti estatici popolari: ma le relazioni con lo sciamanismo propriamente
detto non sono che accidentali. Esse sembrano esser piuttosto
orfico-pitagoriche. In ogni caso, queste laminette contengono dei testi che
indicano al morto la via da seguire nell'aldilà: in un certo modo, esse
rappresen tano un «libro dei morti» condensato, e possono esser ravvicinate a
testi analoghi usati nel Tibet e presso i Mo-So (vedi più oltre, p. 471), ove
la recitazione di itinerari funebri al capezzale del morto equivale
all'accompagnamento mistico ad opera dello sciamano psicopompo. Senza spinger
troppo oltre il raffronto, nella geografia funeraria delle laminette
orfico-pitagoriche si potrebbe vedere il succedaneo di una psicopompia di
carattere sciamanico.
Ad Ermete
psicopompo accenneremo soltanto: la figura di questo dio è troppo complessa a
che si possa ricondurla ad una semplice guida «sciamanica» agli
Inferni. Quanto alle «ali» di Ermete, simbolo
del volo magico, vaghi indizi fanno pensare che certi stregoni pretendevano di
dare ali alle anime dei trapassati . per permetter loro di volarsene verso i
Cieli. Ma qui abbiamo a che fare con l'antico simbolismo dell'anima-uccello,
complicato e contaminato da interpretazioni numerose e recenti di. origine
orientale, aventi relazione coi culti solari e con l'idea dell'
ascensione-apoteosi.
Del pari, le
discese agli Inferni che si trovano attestate nelle tradizioni greche - dalla
più famosa, che costituisce una delle prove iniziatiche di Eracle, fino alle
discese leggendarie di Pitagora e di «Zoroastro» - non hanno affatto una
struttura sciamanica. Ci si potrebbe piuttosto riferire all'esperienza estatica
di Er il Pamfilo, figlio di Armenio, raccontata da Platone (Repubblica, 614 b sgg.): «ucciso» sul
campo di battaglia, Er ritorna in vita dopo dodici giorni, quando il suo corpo
era stato già portato sulla pira funeraria, e racconta ciò che aveva visto
nell'altro mondo. In questo racconto si è voluta ravvisare l'influenza di idee
e di credenze orientali. Come pur sia, la trance
catalettica di Er rassomiglia a quella degli sciamani e il suo viaggio estatico
nell'aldilà ci ricorda non soltanto l'Arda
Virai, ma anche parecchie esperienze «sciamaniche». Fra l'altro, Er
vede i colori del Cielo e l'Asse centrale, come pure i destini degli uomini,
determinati dagli astri (Repubblica,
617d-618c): si potrebbe ravvicinare questa visione estatica del destino
astrologico ai miti, di origine orientale, circa l'Albero della Vita o del
«Libro celeste», sulle foglie o sulle pagine dei quali sta scritto il
destino degli uomini. Il simbolismo di un «libro celeste» racchiudente il
destino, trasmesso dalla divinità a sovrani e a profeti saliti in Cielo, è
antichissimo e assai diffuso in Oriente. In Mesopotamia era il Re, nella sua
qualità di unto, che, dopo un'ascensione, riceveva dal dio le tavolette o il
libro celeste; in Israele Mosè riceve da Yahveh le Tavole della Legge.
Qui ci possiamo
fare una idea della misura in cui un mito o un simbolo primordiale possono
ricevere nuove interpretazioni: nella visione di Er l'Asse cosmico diviene il
Fuso della Necessità e il destino astrologico si sostituisce al «libro celeste».
Notiamo però che la «situazione dell'uomo» resta invariata: è sempre per mezzo
di un viaggio estatico che, proprio come gli sciamani e i mistici di civiltà
rudimentali, Er il Pamfilo ha la rivelazione delle leggi che governano il cosmos e la vita: è per mezzo di una
visione estatica che egli giunge ad intendere il mistero del destino e
dell'esistenza di dopo la morte. La grande distanza che separa l'estasi di uno
sciamano dalla contemplazione di un Platone, tutta la differenza creata dalla
storia e dalla civiltà, non muta in nulla la struttura di questa presa di
coscienza della realtà ultima: è attraverso l'estasi che l'uomo realizza a
pieno la sua situazione nel mondo e il suo destino finale. Si potrebbe quasi
parlare di un archetipo della «presa di coscienza esistenziale» che si
manifesta sia nell'estasi di uno sciamano o di un mistico primitivo, sia
nell'esperienza di Er il Pamfilo e in tutti gli altri visionari dell'antichità
che già in vita han conosciuto la sorte dell'uomo nel post-mortem. Muster ha cercato di paragonare le
credenze etrusche sull'oltretomba e i relativi viaggi agli Inferni allo
sciamanismo. Non si vede però che interesse può esservi nel chiamare
«sciamaniche» idee e fatti che appartengono alla magia in genere e alle diverse
mitologie della morte.
Erodoto (IV, 71
sg.) ci ha lasciato un'ottima descrizione dei costumi funerari degli Sciti.
Dopo i funerali si procedeva a delle purificazioni: si gettava della canapa su
pietre surriscaldate e se ne aspirava il fumo; «entusiasti di esser cosi
purificati, gli Sciti lanciavano grida» (IV, 75). Rohfr aveva già notato l'uso
estatico della canapa presso gli Sciti e i Massageti. Meuli ha messo assai bene
in luce il carattere sciamanico di questa purificazione funeraria: il culto dei
morti, l'uso della canapa, la permanenza in ambienti surriscaldati e le «grida»
costituiscono effettivamente un complesso religioso specifico, lo scopo del
quale non poteva essere che l'estasi. Meuli ricorda, a tale proposito, la
seduta altaica descritta da Radlov (vedi più su), nella quale uno sciamano
accompagnò agli Inferni l'anima di una donna morta da quaranta giorni. Nella
descrizione di Erodoto lo sciamano-psicopompo non figura: si parla soltanto di
purificazioni dopo i funerali. Ma coteste cerimonie purificatorie in molti
popoli turco-tartari coincidono con l'accompagnamento del trapassato alla sua
nuova dimora, agli Inferni, da parte dello sciamano.
Meuli ha anche
richiamato l'attenzione sulla struttura «sciamanica» delle credenze scite
sull'oltretomba; sul misterioso «mal di donna» che, secondo una leggenda
tramandata da Erodoto (I, 105), aveva trasformato certi Sciti in «Enarei» e che
lo studioso svizzero confronta con l'effeminamento degli sciamani siberiani e nord-americani;
sull'origine sciamanica dell'Arimàspeia
e della stessa poesia epica in genere. Lasciamo a chi è più competente di noi
saggiare tali tesi. Però, per lo meno, un fatto è certo: lo sciamanismo e
l'ebbrezza estatica provocata dal fumo della canapa erano note agli Sciti. Come
vedremo, l'uso della canapa a fini estatici è stato egualmente constatato fra
gli Irani, ed è proprio il nome iranico della canapa che, nell'Asia centrale e
settentrionale, viene usato per designare l'ebbrezza mistica.
Si sa che i
popoli caucasici e specialmente gli Osseti conservano numerose tradizioni
mitologiche e religiose degli Sciti. Ora, le concezioni dell'oltretomba di
certi popoli caucasici sono assai vicine a quelle degli Irani, specie in quel
che concerne il passar del morto su di un ponte stretto come un capello, il
mito di un Albero cosmico la cui cima tocca il Cielo e alla radice del quale
scorre una sorgente miracolosa, ecc. Presso gli Osseti «il morto, dopo essersi
congedato dai suoi, salta a cavallo. Sulla sua via presto incontra delle specie
di sentinelle alle quali deve dare qualche focaccia; quelle stesse che eran
state deposte sulla sua tomba. Poi raggiunge un fiume sul quale, a guisa di
ponte, è gettata una semplice trave... Quando vi passa il giusto o, meglio, il
veridico, la trave si allarga, si fa salda e si trasforma in un magnifico
ponte" (Dumezil). «Non v'è dubbio che il "ponte" dell'aldilà
provenga dal mazdeismo, come il "ponte stretto" degli Armeni, il
"ponte di capello" dei Georgiani. Tutte queste travi, questi capelli,
ecc. hanno la virtù di allargarsi magnificamente davanti all'anima del giusto e
di assottigliarsi per l'anima colpevole fino allo spessore di una lama di
spada». D'altra parte gli indovini, i veggenti e i necromanti-psicopompi hanno
una certa parte presso le tribù georgiane della montagna. Fra questi stregoni e
questi estatici i più importanti sono i messulethe,
quasi sempre reclutati fra le donne e le ragazze. La loro principale funzione è
di accompagnare i trapassati nell'altro mondo, ma esse possono anche
incorporarli ed allora i morti parlano per loro bocca; sia come psicopompa che
come necromante, la messulethe è in
stato di trance che opera. Tutti
questi tratti ricordano singolarmente lo sciamanismo altaico. La misura in cui
tale stato di cose in Georgia riflette credenze e tecniche degli «Irani
d'Europa»,
cioè dei Sarmato-Sciti, costituisce tuttavia un problema di non facile
soluzione.
Abbiamo notato
quanto le concezioni dell'oltretomba dei Caucasici rassomiglino a quelle degli
Irani. Infatti il Ponte Cinvat ha una parte essenziale nella mitologia
funeraria iranica: l'attraversarlo va, in un certo modo, a decidere del destino
dell'anima, questa traversata essendo una prova difficile, equivalente, come
struttura, alle prove iniziatiche: il Ponte Cinvat è «come un trave dalle
molte faccie» (Dataistan-i-Denik,
XXI, 3 sgg.), esso cioè si divide in più passaggi; per i giusti è largo come
nove lancie, per gli empì è stretto come «la lama di un rasoio» (Dinkart, IX, 30, 3). Esso si trova nel «Centro
del Mondo».
In «mezzo
alla Terra», «alto ottocento misure di uomo» (Bundahishn, XII, 7), si erge il Kakàd-i-Dàitlk, la «Vetta del Giudizio» e
il ponte Cinvat sale fino ad Alburz del Kakad-i-Daitik
- il che equivale a dire che tale ponte collega, nel «Centro»,
la Terra al Cielo. Sotto il ponte si spalanca l'Inferno (Videvdat, III, 7): la tradizione lo presenta come una
«continuazione d'Albùrz» (Bundahishn, XII, 8 sgg.).
Qui ci troviamo
di fronte allo schema cosmologico «classico» delle tre regioni cosmiche
collegate da un asse centrale (Pilastro, Albero, Ponte, ecc.). Gli sciamani
circolano liberamente nelle tre zone; i defunti debbono invece attraversare un
ponte nel loro viaggio verso l'aldilà. Abbiamo ripetutamente incontrato questo
motivo funerario e su esso avremo ancora da tornare. Nella tradizione iranica -
almeno nella forma in cui essa ha sussistito dopo la riforma di Zarathustra -
il punto importante è che durante la traversata del ponte si ha una specie di
lotta fra demoni che cercano di far precipitare l'anima nell'Inferno, e spiriti
protettori, invocati anche dai parenti del morto a questo scopo, che ai primi
si oppongono - e questi sono Aristat, «il conduttore degli esseri terrestri e
celesti»,
e il buon Vayu. Sul ponte, Vayu sorregge le anime degli uomini pii, le quali
sono altresì aiutate dalle anime dei morti, a che la traversata abbia felice
esito (Soderblom). Nella funzione di psicopompo svolta dal buon Vayu potrebbe
riflettersi una ideologia «sciamanista».
Nei Gatha si trovano tre accenni a. questo
passaggio per il ponte Cinvat (45, 10-11; 51, 13). Secondo l'interpretazione di
Nyberg, nei primi due passi Zarathustra parla di se stesso come di uno
psicopompo: coloro che si sono uniti a lui in estasi attraverseranno facilmente
il ponte; gli empi, suoi avversari, saranno «per sempre ospiti della casa del
Male». Infatti il ponte non è soltanto la via dei morti, esso è anche il
cammino degli estatici ed è appunto come tale che noi spesso l'abbiamo
incontrato. Peraltro, è in estasi che Ardù Viraf attraversa il ponte Cinvat nel
suo viaggio mistico. Secondo Nyberg, Zarathustra, quanto ad esperienza
religiosa sarebbe stato un estatico di tipo assai vicino ad uno «sciamano».
Lo studioso svedese ha creduto di poter indicare nel termine gathico maga la prova che Zarathustra e i suoi
discepoli pervenivano ad una esperienza estatica per mezzo di canti rituali
intonati in coro in un recinto consacrato. In questo spazio sacro (maga) si rendeva possibile la
comunicazione fra Cielo e Terra - conformemente ad una dialettica
universalmente diffusa, lo spazio sacro diveniva cioè un «Centro».
Nyberg insiste sul fatto che questa comunicazione era di natura estatica e, in
ispecie, ravvicina l'esperienza mistica dei «cantanti» allo sciamanismo
propriamente detto. Una tale interpretazione ha incontrato l'opposizione
concorde della maggior parte degli iranisti. Vi è tuttavia da notare che le
somiglianze fra gli elementi estatici e mitologici individuabili nella
religione zarathustriana da una parte, l'ideologia e le tecniche dello
sciamanismo dall'altra, possono rientrare in un insieme più vasto che non
implica per nulla una struttura «sciamanica» dell'esperienza religiosa di
Zarathustra. Lo spazio sacro, l'importanza del canto, la comunicazione mistica
o simbolica fra Cielo e Terra, il ponte iniziatico o funerario - tutti questi
elementi, pur facendo parte integrante dello sciamanismo asiatico, gli sono
anteriori e lo trascendono.
In ogni caso
l'estasi sciamanica provocata da fumi di canapa era nota nell'antico Iran. Bangha non è menzionato nei Gatha, ma nel Fravashi-yasht si parla di un certo Puru-bangha «possessore di
molta canapa» (Nyberg). Di Ahura Mazdah vien detto che egli è «senza trance e senza canapa» (Yasht, 19, 20) e nel Videvdat la canapa viene demonizzata.
Ciò sembra dirci di una decisa ostilità verso un'ebbrezza sciamanica che
probabilmente era praticata dagli Irani, forse in non diversa misura che dagli
Sciti. Certo è che Arda Viraf ebbe la sua visione dopo aver bevuto una miscela
fatta. di vino e della «droga di Vishtasp», miscela che lo fece dormire per
sette giorni e sette notti. È un sonno che rassomiglia alla trance degli sciamani perché - come ci
dice 1'Arda Virai - «l'anima di Viraf
lasciò il corpo e andò sul ponte Cinvat, sulla Kakàd-i-Dàitìk. Dopo sette giorni tornò e rientrò nel suo corpo».
Come Dante, Viraf visitò tutte le regioni del Paradiso e degli Inferni mazdei,
vide i tormenti degli empi e le ricompense dei giusti. Da questo punto di
vista, il suo viaggio nell'oltretomba lo si può paragonare ai racconti delle
discese sciamaniche, diversi dei quali, come si è visto, contengono anche
riferimenti ai castighi dei peccatori. Il complesso delle imagini infernali
degli scismani dell'Asia centrale ha verosimilmente subito l'influenza delle
idee orientali, soprattutto iraniche. Ciò non vuol però dire che il tema della
discesa sciamanica agli Inferni tragga origine da una influenza esotica:
l'apporto orientale non ha fatto che amplificare e colorare le scenografie
drammatiche dei castighi oltremondani. I racconti dei viaggi estatici agli
Inferni si sono arricchiti in seguito alle influenze orientali; ma il [atto
estasi ha preceduto di molto tali influenze - ed' infatti noi abbiamo
incontrato la tecnica dell'estasi in civiltà arcaiche ove è impossibile
supporre una qualunque influenza da parte dell'Oriente antico.
Cosi, anche
senza volersi pronunciare sull'eventuale carattere «sciamanico» dell'esperienza
dello stesso Zarathustra, non v'è dubbio che la tecnica più elementare
dell'estasi, l'ebbrezza provocata dalla canapa, era nota agli antichi Irani.
Nulla c'impedisce di credere che gli Irani abbiano conosciuto anche altri
elementi costitutivi dello sciamanismo, ad esempio il volo magico (attestato
presso gli Sciti?!), o l'ascensione in Cielo. Arda Vìraf fece «un primo passo»
e raggiunse la sfera della luna, mentre il «terzo passo» lo condusse alla luce
chiamata «alta fra le alte» e il «quarto» alla luce di Garotman. Quale pur sia
la cosmologia presupposta da tale ascensione celeste, resta certo che il
simbolismo dei «passi» - lo stesso che ritroveremo nel mito della Natività del
Buddha - corrisponde esattamente a quello dei «gradini» o delle «tacche»
dell'albero sciamanico. Son tutti simbolismi che hanno un intimo rapporto con
l'ascensione rituale in Cielo. Ora, noi abbiamo già tante volte constatato che
ascensioni siffatte sono costitutive nello sciamanismo.
L'importanza
dell'ebbrezza propiziata dalla canapa risulta, d'altra parte, dall'enorme
diffusione del corrispondente termine iranico in tutta l'Asia centrale. La
parola iranica che designa la canapa, bangha
in molte lingue ugre è andata a designare sia il fungo sciamanico per
eccellenza, l'agaricus muscarius
(usato proprio come tossico prima o durante la seduta), sia l'ebbrezza stessa:
si veda, ad esempio, il vogulo pankh,
«fungo» (agaricus muscarius), il
mordvino panga e pango, il ceremisso pongo,
parole significanti parimenti «fungo». Nel vogulo settentrionale pankh vuole egualmente dire «ebbrezza,
ubriachezza». Negli inni alle divinità si accenna anche all'estasi
provocata da una intossicazione per funghi (Munkàcsi). Tutto ciò prova che il
prestigio magico-religioso dell'intossicazione a fini estatici è di origine
iranica. Unitamente alle altre influenze che l'Iran ha esercitato nell'Asia
centrale, influenze sulle quali torneremo, il bangha ci dice a quale grado, in quell'area, fosse giunto il
prestigio della religione iranica. Fra gli Ugri, può darsi che la tecnica
sciamanica dell'intossicazione sia di origine iranica. Ma ciò che potrebbe
significare nel riguardo dell'esperienza sciamanica originaria? Le droghe non
sono che un surrogato volgare della trance
«pura».
E presso molti popoli siberiani noi abbiamo già avuto occasione di constatare
che le intossicazioni (con alcool, tabacco, ecc.) sono innovazioni recenti le
quali, in un certo modo, accusano una decadenza della tecnica sciamanica. Si è
cercato di imitare con una ebbrezza a base di droghe uno stato spirituale cui
non si era più capaci di giungere in altro modo. Decadenza, oppure - bisogna
aggiungere - volgarizzazione di una tecnica mistica; nell'India antica e
moderna e in tutto l'Oriente s'incontra sempre questa strana mescolanza di «vie
difficili» e di «vie facili» per realizzare l'estasi mistica o qualche altra
esperienza decisiva.
Nelle tradizioni
mistiche dell'Iran islamizzato non è facile distinguere ciò che è un retaggio
nazionale e ciò che è dovuto ad influenze dell'Islam o dell'Oriente. Ma non v'è
dubbio che molte leggende e molti miracoli che figurano nell'agiografia
persiana appartengono al fondo universale della magia e specialmente dello
sciamanismo. Basta sfogliare i due volumi di Saints des derviches tourneurs di Huart per incontrare ad ogni
passo miracoli della tradizione sciamanica più pura: ascensioni, volo magico,
sparizioni, camminar sulle acque, guarigioni, avvenimenti visti a distanza,
luce promanante dal corpo dei santi, levitazione, incombustibilità: «il séyyd, seguendo le istruzioni dello sheikh e scoprendo i misteri, diveniva
talmente infiammato che si metteva in piedi sulla brace prendendo con la mano
pezzi di carbone acceso» (nel che si può riconoscere il
«dominio sul fuoco» sciamanico); dei maghi lanciano un
giovane in aria e lo sheikh ve lo
tiene sospeso; scomparsa istantanea, invisibilità, ubiquità, camminar sulle
acque, sedere a gambe incrociate sulla superficie delle acque, ascensione e
volo, ecc. Fritz Meier mi informa che, secondo l'opera bibliografica ancora
inedita. di Amin Ahmad Razi, redatta
nel 1594, il santo Qutb ud-dìn Havdar (XII secolo) aveva la reputazione
d'essere insensibile al fuoco ed al più gran freddo; inoltre lo si scorgeva di
frequente sui tetti e in cima agli alberi. Orbene, il significato sciamanico
dell'ascesa sugli alberi è noto. D'altra parte bisogna anche ricordare la parte
che l'hashish e altri stupefacenti hanno nella mistica islamica, benché i santi
più puri non siano ricorsi a simili succedanei. A partir dal XII secolo
l'influenza degli stupefacenti (hashish, oppio) si fa sentir in certi ordini
mistici persiani (cfr. Massignon). Il raqs,
«danza» estatica di giubilo, il tamziq
«laceramento delle vesti» durante la trance,
il nazar ila'l mord, o «sguardo
platonico»,
forma assai sospetta di estasi provocata da inibizione erotica, sono alcuni
indici di trance ottenuta con gli
stupefacenti; si potrebbero mettere in relazione queste ricette elementari di
estasi sia con le tecniche mistiche pre- islamiche che con certe tecniche
indi.- aberranti le quali debbono avere esercitato la loro influenza sul
sufismo.
Infine, col
diffondersi dell'Islam fra i Turchi dell'Asia centrale certi elementi
sciamanici furono assimilati dai mistici musulmani. Kopruìluzade ricorda che,
«secondo la leggenda, Ahmed Yesevi e alcuni dei suoi dervisci, trasformandosi
in uccelli, avevano la facoltà di volare». Troviamo leggende analoghe nel
riguardo dei santi Bektàchi. Nel XIII secolo Barak Baba, fondatore di un ordine
il cui contrassegno rituale era «la pettinatura a doppio corno»,
si mostrava in pubblico a cavallo di uno struzzo, e_ la leggenda dice che «lo
struzzo volò per qualche tempo grazie all'influsso del suo cavaliere». Può
darsi che tutto ciò sia effettivamente dovuto a influenze dello sciamanismo
turco-mongolo, come lo crede il dotto turcologo. Però la facoltà di
trasformarsi in uccello appartiene a tutti gli sciamanismi, non solo a quello
turco-mongolo, ma altresi a quello artico, americano, indiano e oceanico.
Quanto allo struzzo della leggenda di Barak Baba, v'è da chiedersi se tale
motivo non indichi piuttosto una origine meridionale.
India antica: riti di
ascensione
Ci si ricorderà
dell'importanza rituale che ha l'albero di betulla nella religione
turco-mongola e specialmente nello sciamanismo: la betulla o il palo a sette o
nove tacche simboleggia l'Albero cosmico epperò si ritiene che esso si trovi
nel «Centro del Mondo». Scalandolo, lo sciamano giunge
fino al cielo più alto, davanti a Bai Ulgan.
Questo stesso
simbolismo noi lo ritroviamo nel rituale brahmanico, il quale comprende
parimenti un salire ritualmente fino al mondo degli dèi. Infatti «il sacrificio
ha un solo saldo punto d'appoggio, una sola sede: il mondo celeste» (Catapatha-Brahmana, VIII, 7, 4, 6). «Il
sacrificio è un sicuro battello da traghetto» (Aitereya-Brahmana, III, 2, 29). «Il sacrificio, nel suo insieme, è
la nave che conduce in cielo» (Catapatha-Brahmana,
2, 5, 10). Il meccanismo del rituale è una durohana,
una «difficile ascesa», giacché implica un salire sullo
stesso Albero del Mondo.
Infatti il palo
sacrificale (yupa) vien ricavato da un albero assimilato all'Albero cosmico. È
lo stesso sacerdote, accompagnato dal boscaiolo, a sceglierlo nella foresta (Catapatha-Brahmana, III, 6, 4, 13, ecc.)
ed egli, mentre lo si abbatte, l'apostrofa cosi: «Con la tua cima non lacerare
il Cielo, col tuo centro non ferire l'atmosfera!» (Catapatha-Brahmana, III, 6, 4, 13; Taittiriya Samhita, I, 3, 5, ecc.). Il
palo sacrificale diviene una specie di pilastro cosmico: «Sorgi, o vanaspati (Signore della foresta), sulla
sommità della Terra!» - cosi l'invoca il Rig-Veda
(III, 8, 3). «Con la tua cima sostieni il Cielo, con la tua parte di mezzo
riempi l'Atmosfera, coi tuoi piedi consolidi la Terra» - proclama il Catapatha-Brabmana, III, 7, 1, 14.
Lungo questo
pilastro cosmico il sacrificatore sale in Cielo, solo o insieme alla sua sposa.
Appoggiata una scala al palo, egli dice a sua moglie: «Vieni, saliamo in Cielo».
La donna risponde: «Saliamo!» e i due ripetono tre volte queste formule rituali
(Catapatha-Brabmana, V, 2, 1, lO ecc.).
Giunti in cima, il sacrificatore tocca il capitello e stendendo le braccia
(come un uccello apre le ali) esclama: «Ho raggiunto il Cielo, gli dèi, son
divenuto immortale!» (Taittiriya-Samhita,
I, 7, 9, 2, ecc.). «In verità, il sacrificante si crea una scala e un ponte per
raggiungere il mondo celeste» (ibid., VI, 6, 4, 2, ecc.).
Il palo
sacrificale è un Axis Mundi, e proprio come i popoli arcaici mandavano le
offerte in Cielo attraverso l'apertura per il fumo o il pilastro centrale della
loro abitazione, cosi lo yupa vedico era un «veicolo per il sacrificio» (Rig-Veda, III, 8, 3). Ad esso venivano
rivolte preghiere, come le seguenti: «O Albero, lascia che il sacrificio vada
agli dèi!»
(Rig-Veda, I,13,11); «O Albero, che
l'offerta si diriga verso gli dèi!» (Rig-Veda).
Ci si ricorderà
anche del simbolismo ornitologico del costume sciamanico e dei numerosi esempi
di volo magico fra gli sciamani siberiani. Ora, idee analoghe le si ritrovano
nell'India antica: «Il sacrificatore, divenuto un uccello, s'innalza fino al
mondo celeste» - afferma il Pahcavimça-Brahmana
(V, 3, 5). Numerosi testi parlano delle ali che bisogna avere per raggiungere
la cima dell'Albero (Jaiminiya-Upanishad-Brahmana,
III, 13, 9), del «cigno la cui sede è nella luce» (Katha Upanishad, V, 2), del cavallo sacrificale che in forma di
uccello trasporta il sacrificatore fino in Cielo (Mahidhara, Catapatha-Brahmana, XIII, 2, 6, 15), e cosi via. E come
subito vedremo, la tradizione del volo magico ricorre a profusione nell'India
antica e medievale, sempre in relazione con santi, con yogi e con maghi.
«Arrampicarsi su
di un albero» nei testi brahmanici divenne una imagine frequente dell'ascesa
spirituale. Lo stesso simbolismo si è conservato nelle tradizioni
folkloristiche, però senza che il significato originario vi sia sempre
trasparente.
L'ascensione
celeste di tipo sciamanico la s'incontra anche nelle leggende della Natività
del Buddha. «Appena nato - dice la Majjimanikaya
(III, 123) - il Bodhisattva si mette
dritto sui piedi e, rivolto verso il Nord, compie sette passi, sotto un
ombrello bianco. Considera tutte le regioni d'intorno e con voce di toro dice:
"Sono il sommo del mondo, sono il migliore del mondo, sono il primogenito
del mondo; questa è la mia ultima nascita, per me non vi sarà più un'altra
esistenza!"». I sette passi conducono il Buddha sulla vetta del
mondo; e come lo sciamano altaico scala le sette o le nove tacche della betulla
cerimoniale per giungere fino all'ultimo cielo, del pari il Buddha attraversa
simbolicamente i sette piani cosmici ai quali corrispondono i sette cieli
planetari. Inutile dire che qui il vecchio schema cosmologico dell'ascensione celeste
sciamanica (e vedica) ci si presenta arricchito dall'apporto millenario della
speculazione metafisica indiana. Buddha nel compiere i «sette passi» non ha più
di mira il «mondo degli dèi» e 1'«immortalità», bensì il
superamento della condizione umana. Infatti l'espressione: «lo sono il sommo
del mondo (aggo'ham asmi lokassa)»
altro non significa che la trascendenza del Buddha rispetto allo spazio, allo
stesso modo che l'espressione: «lo sono il primogenito del mondo (jettho' ham asmi lokassa)» significa la
sua supertemporalità. Infatti il Buddha raggiungendo la vetta cosmica raggiunge
il «Centro del Mondo» e dato che la creazione è proceduta da un «Centro»
(= cima), il Buddha diviene contemporaneo al principio del mondo. Questo non è
il luogo per approfondire ulteriormente un tale dettaglio della Natività del
Buddha; abbiamo però dovuto accennarlo di passata, per mostrare, da una parte,
la plurivalenza del simbolismo arcaico, che lo rende indefinitamente suscettibile
di nuove interpretazioni, e per precisare, dall'altra, che il sopravvivere di
uno schema «sciamanico» in una religione evoluta non implica
affatto che il suo contenuto originario vi si sia conservato. Naturalmente,
queste stesse considerazioni valgono pei vari schemi ascensionali della mistica
cristiana ed islamica.
La concezione
dei sette cieli, cui allude la Majjimanikaya,
risale al brahmanesimo e probabilmente deriva da una influenza della cosmologia
babilonese di cui, sia pure indirettamente, risentono parimenti le concezioni
cosmologiche altaiche e siberiane. Ma il buddhismo conosce anche uno schema
cosmologico con nove cieli, peraltro, profondamente «interiorizzato»,
inquantoché i primi quattro cieli corrispondono ai quattro jhana, gli altri quattro ai quattro sattavasa e il nono ed ultimo cielo simboleggia il nirudna: in ciascuno di questi cieli è
proiettata una divinità del pantheon buddhista che rappresenta, in pari tempi,
un certo grado della meditazione yogica. Ora, noi sappiamo che secondo gli Altaici
i sette o i nove cieli sono abitati da varie figure divine e semi-divine che lo
sciamano incontra nella sua ascesa e con le quali egli s'intrattiene; finché
nel nono cielo egli si trova dinanzi a Bai Ulgan. Come è evidente, nel
buddhismo non si tratta più di una ascesa simbolica nei cieli, bensi di gradi
della meditazione e, simultaneamente di «passi» verso la liberazione finale. E
sembra che il monaco buddhista dopo la morte raggiunga il particolare livello
celeste che ha saputo realizzare da vivo nell'esperienza yogica, mentre un
Buddha raggiunge il nirvana (cfr. anche Ruben).
India antica: il
"volo magico"
Il sacrifìcatore
brahmanico giunge in cielo salendo ritualmente su per una scala; il Buddha
trascende il cosmos attraversando
simbolicamente i sette cieli; con la meditazione lo yogi buddhista realizza una
ascensione d'ordine interamente spirituale. Tipologicamente, tutte queste
azioni hanno la stessa struttura; ciascuna sul piano suo proprio, esse indicano
modi particolari di trascendere il mondo profano e di raggiungere gli dèi, o l'Essere,
o l'Assoluto. Più sopra abbiamo detto in che misura queste azioni possono esser
fatte rientrare nella tradizione sciamanica dell'ascensione in Cielo; la sola,
grande differenza sta nell'intensità dell'esperienza sciamanica che, come ormai
sappiamo, implica l'estasi e la trance.
Ma anche l'India antica, conosce l'estasi che rende possibile l'ascensione e il
volo magico. L'«estatico» (munì)
dai lunghi capelli (keçin) del Rig-Veda (X, 136, 3-5) dichiara
perentoriamente: «Nell'ebbrezza dell'estasi siamo saliti sul carro dei venti.
Voi mortali, non potete scorgere che il nostro corpo... L'estatico è il cavallo
del vento, l'amico del dio della tempesta, spronato dagli dèi». Sul significato
magico-religioso dei capelli lunghi cfr. le «serpi»
dei cosrumi sciamanici siberiani, di cui già dicemmo. Sulle estasi vediche più antiche
cfr. Hauer. Ricordiamo che il tamburo degli sciamani altaici viene chiamato
«cavallo» e che fra i Buriati, ad esempio, il bastone a testa di cavallo, il
quale del resto si chiama esso stesso «cavallo», ha una parte
importante. L'estasi provocata dal suono del tamburo o dalla danza a cavalcioni
di un bastone a testa di cavallo (una specie di hobby horse) viene assimilata ad una cavalcata fantastica nei
cieli. Come vedremo, presso certi popoli non ariidell'India il mago ancor oggi
usa un cavallo di legno o un bastone a testa di cavallo nell'eseguire la sua
danza estatica.
Nello stesso
inno ora citato del Rig-Veda (X, 136)
è detto: «Gli dèi sono entrati in loro»; si tratta di una specie di
«possessione» mistica che anche in ambienti non-estatici ha continuato a
conservare un alto valore spirituale (lo testimonia la Brihadaranyaka-Upanishad, III, 3-7). Il munì «abita i due mari, quello di levante e quello di ponente... Va
lungo le vie delle Apsara, dei Gandharva e delle fiere» (X, 136). L'Atharva-Veda (XI, 5, 6) parla così del
discepolo animato dalla magica forza dell'ascesi (tapas): «In un batter d'occhio si porta dal mare d'Oriente al mare
di Settentrione». Questa esperienza macrantropica, avente le sue basi
nell'estasi sciamanica, persiste nel buddhismo ed ha una parte considerevole
nelle tecniche dello yoga tantrico. In sogno, il Buddha si vede come un gigante
con le braccia nei due oceani: Anguttara
Nikaya, III, 240 - cfr. anche Ruben. Qui è impossibile indicare tutte le
traccie «sciamaniche» presenti nei testi buddhistici più antichi. Numerose siddhi (poteri magici) hanno una
struttura nettamente sciamanica: ad esempio, quella di «sprofondarsi nella
terra e riemergerne come se si trattasse di acqua»
Le omologazioni
fra il corpo umano e il cosmos
oltrepassano naturalmente I'espe-: rienza sciamanica propriamente detta;
ruttavia appare che sia il vratya che il muni conseguono la macrantropia
durante una trance estatica. L'ascensione
e il volo magico hanno un posto di prim'ordine nelle credenze popolari e nelle
tecniche mistiche dell'India. Infatti innalzarsi negli spazi, volare come un
uccello, superare fulmineamente distanze immense, scomparire, sono fra i poteri
magici che il buddhismo e l'induismo riconoscono agli arhat, ai re e ai maghi. Il numero delle leggende su re e maghi
volanti è considerevole. Il lago miracoloso Anavatapta
poteva esser raggiunto soltanto da coloro che posseggono il potere
supernaturale di volare attraverso gli spazi; Buddha e i santi buddhisti
giunsero all'Anavatapta in un batter
d'occhio, allo stesso modo che nelle leggende indù i rshi si lanciano negli spazi verso il divino e misterioso Paese del
Nord chiamato Coeta-dolpa. In tali
casi si tratta naturalmente delle «terre pure», di uno spazio
mistico che ha, ad un tempo, figura di «paradiso» e figura di spazio interiore»
accessibile ai soli iniziati. Il lago Anavatapta,
insieme alla Cvera-dvipa e ad altri
«paradisi» buddhistici, rappresentano modi dell'essere che si realizzano grazie
allo Yoga, all'ascesi o alla contemplazione. Ma è importante riconoscere che
qualcosa di identico si esprime tanto in tali esperienze superumane che nel
simbolismo arcaico dell'ascensione e del volo, cosi ricorrente nello
sciamanismo.
I testi
buddhistici parlano di quattro specie di poteri magici di traslazione (gamana), il primo dei quali è il volare
come un uccello. Patanjali cita, fra le siddhi,
la facoltà, che gli yogi possono acquisire, di volare nello spazio (laghiman). È sempre grazie alla «forza
dello yoga» che, nel Mahabharata
(XII, 335, 2 sgg.), il saggio Nàrada si lancia nei cieli e raggiunge la cima
del Monte Meru (il «Centro del Mondo»); da là egli vide, lontana nell'Oceano di
Latte, la çveta-dvlpa. Infatti «con
un tale corpo (yogico) lo yogi va dove vuole» (ibid., XII, 317, 6). Ma un'altra
tradizione riportata dal Mahabharata
distingue già fra la vera ascensione mistica - che non si può dire sia sempre
«concreta» - e il «volo magico», che è solo un'illusione: «Anche noi possiamo
volare nei cieli e manifestarci sotto molte forme, ma per illusione»
(mayaya - ibid., V, 160, 55 sgg.).
Qui ci si rende
conto del senso nel quale lo yoga e le altre tecniche meditative indiane hanno
elaborato esperienze estatiche e prestigi sciamanici appartenenti ad un
retaggio spirituale antichissimo. Vale aggiungere che il segreto del volo
magico è noto anche all'alchimia indiana, e questo miracolo è talmente corrente
per gli arhat buddhisti, che il
termine arahant ha dato luogo al
verbo singalese rahatve, «scomparire,
passare istantaneamente da un luogo ad un altro»: l'arhat Nandimitra «s'innalzò nello spazio ad un'altezza di sette
alberi tala», ecc.; l'arhat
Pindola, che risiede nell'Anavatapta,
fu punito dal Buddha perché era volato negli spazi, con un monte fra le mani,
mostrando ai profani in modo inacconcio i suoi poteri magici. Come si sa, il
buddhismo interdiceva l'esibizione delle siddhi.
Le daktni, fate-maghe che hanno una parte
importante in certe scuole tantriche in mongolo vengon chiamate «quelle che
camminano attraverso gli spazi» e, in tibetano, «quelle che se ne vanno per il
Cielo». Il volo magico e l'ascensione in Cielo con l'aiuto di una scala o di
una corda sono motivi frequenti anche nel Tibet, che non li ha necessariamente
ricevuti dall'India, tanto più che essi si trovano attestati nelle tradizioni Bon-po o in altre da queste derivate
(cfr. più giù). Del resto, come presto vedremo, gli stessi temi hanno parte
considerevole nelle credenze magiche e nel folklore della Cina e si ritrovano
un po' dappertutto nel mondo arcaico (cfr. oltre).
Tutti questi
fatti che abbiamo passato in rapida rassegna non sono necessariamente «sciamanici»;
nell'insieme dal quale li abbiamo estratti per la comodità dell'esposizione,
ciascuno di essi ha un significato particolare suo proprio. Ma si trattava di
mostrare le equivalenze strutturali di tali fatti magico-religiosi indiani. Al
pari del mago, l'estatico sembra rappresentare un fenomeno speciale nel
complesso della religione indiana soltanto per via dell'intensità della sua
esperienza mistica o dell'eminenza della sua magia, giacché la teoria che qui
fa da substrato - l'ascesa celeste - come si è visto, la si ritrova nello
stesso simbolismo del sacrificio brahmanico.
Infatti ciò che
distingue l'ascensione del muni
dall'ascensione contemplata dal rituale brahmanico è appunto il suo carattere
sperimentale: qui si tratta di una trance
paragonabile a quella delle «grandi sedute» degli sciamani siberiani. Ma
l'importante è che questa esperienza estatica non contraddice la teoria
generale del sacrificio brahmanico, allo stesso modo che la trance degli sciamani s'inquadra
mirabilmente nel sistema cosmo-teologico della religione siberiana e altaica.
La principale differenza fra i due tipi di ascensione è dovuta all'intensità
dell'esperienza, il che equivale a dire che, in ultima analisi, è una
differenza d'ordine psicologico. Ma quale pur sia la sua intensità, questo fatto
estatico si rende suscettibile di essere comunicato mercé un simbolismo
universalmente valido ed esso viene convalidato nella misura in cui riesce ad
integrarsi nel sistema magico-religioso esistente. Il potere di volare si è
visto che lo si può ottenere in molti modi: per trance sciamanica, per estasi mistica, mediante tecniche magiche,
ma anche con una rude disciplina psichico-sperimentale, come lo Yoga di Patanjali,
con l'ascesi severa del buddhismo o con procedimenti alchemici. Questa pluralità
di tecniche corrisponde indubbiamente ad una molteplicità di esperienze ed
anche, sebbene in grado minore, a ideologie distinte (infatti vi è il
«rapimento» ad opera degli spiriti, vi è l'ascensione «magica» o «mistica»,
e via dicendo). Però tutte queste tecniche e queste mitologie hanno una nota
comune: l'importanza riconosciuta al potere di volare attraverso gli spazi.
Questo «potere magico» non è un elemento isolato, valido in se stesso, basato
esclusivamente sull'esperienza personale dei maghi; esso rientra invece in un
insieme teo-cosmologico assai più vasto di ogni ideologia sciamanica.
La stessa
continuità esistente fra il rituale e l'estasi noi la ritroviamo nei riguardi
di un altro concetto che ha parte considerevole nell'ideologia panindiana:
quello di tapas, termine il cui senso
iniziale è quello di «calore estremo» ma che poi è andato a designare lo sforzo
ascetico in genere. Il tapas si trova
nettamente attestato nel Rig-Veda
(vedi per es. VIII, 59, 6; X, 136, 2; 154, 2, 4; 167, 1; 109, 4, ecc.) come
qualcosa che ha una virtù creativa sia sul piano cosmico che su quello
spirituale: grazie al tapas l'asceta
diviene chiaroveggente e va perfino a incorporare gli dèi. Prajapati crea il
mondo «riscaldandosi»
fino ad un grado estremo con l'ascesi (Aitareya-Brahmana,
V, 32, 1); in effetti, egli crea mediante una specie di traspirazione magica,
di cui noi abbiamo già incontrato altrove dei paralleli cosmogonici. Il «calore
interno»,
o «calore mistico», è creatore. Si traduce in una specie di forza magica
che, anche quando non si manifesta direttamente in sede cosmogonica (cfr. il
mito di Prajapati), «crea» su di un piano cosmico più modesto: ad esempio, crea
gli innumerevoli miraggi o miracoli degli asceti e degli yogi (volo magico,
abolizione delle leggi fisiche, scomparsa, ecc.). Ora, ci si ricorderà che il
«calore interno» è parte integrante della tecnica dei maghi e degli sciamani
«primitivi» (cfr. più giù, pp. 447 sgg.); l'acquisto del «calore interno» dà
luogo dappertutto ad un dominio del fuoco» e, in ultima istanza, all'abolizione
delle leggi fisiche - il che è come dire che il mago adeguatamente «riscaldato»
può fare dei «miracoli», può creare nuove condizioni
esistenziali nel cosmos, ripetendo in un certo modo la cosmogonia. Visto
secondo questa prospettiva, Prajàpati diviene uno degli archetipi dei «maghi».
Questo «calore»
estremo lo si consegue sia meditando vicino al fuoco - metodo ascetico che ha
avuto grande fortuna in India - sia trattenendo il respiro (cfr. per es. Baudbhyana-Dharma-Sutra, IV, l, 24,
ecc.). Va ricordato che la tecnica respiratoria e la ritenzione del soffio
hanno avuto un posto considerevole nell'organizzazione di quel complesso di
pratiche ascetiche e di teorie magiche, mistiche e metafisiche che vien
designato col termine generale di Yoga. Il tapas
nel senso di sforzo ascetico, è parte integrante di ogni specie di Yoga e, di
passata, ci è sembrato interessante indicarne le implicazioni «sciamaniche»,
Vedremo subito che il «calore mistico», nel senso proprio del termine, ha
grande importanza nello Yoga tantrico himalayano e tibetano. Aggiungiamo che la
tradizione dello Yoga classico usa il «potere» conferito dal pranayama ai fini di una specie di
«cosmogonia a rovescio», giacché questo potere, invece di
dar luogo alla creazione di nuovi universi (cioè di nuovi «miraggi» e «miracoli»),
serve allo yogi per staccarsi dal mondo e, in un certo modo, per distruggerlo:
la liberazione yogica equivale infatti ad una completa disolidarizzazione col cosmos; per un jivan-mukta - per colui che già da vivo si è «liberato» -
l'universo non esiste più e se si proiettasse sul piano cosmologico il processo
che in lui si è realizzato si avrebbe un totale riassorbimento delle forme
cosmiche nella sostanza prima (prakriti),
il che vale quanto dire un ritorno allo stato non-differenziato di prima della
creazione. Tutto ciò va molto oltre ogni ideologia «sciamanica»;
ci sembra però significativo il fatto che la spiritualità indiana abbia
utilizzato come mezzo per una liberazione metafisica una tecnica della magia
arcaica ritenuta capace di abolire le leggi fisiche e di intervenire nella
costituzione stessa dell'universo.
Ma il tapas non
è una ascesi riservata esclusivamente agli «estatici»: esso fa anche parte
dell'esperienza religiosa dei laici. Infatti il sacrificio del soma esige assolutamente che il
sacrificatore e la sua sposa compiano la diksha,
rito di consacrazione che implica il tapas. La diksha comprende la veglia iniziatica, la meditazione nel silenzio,
il digiuno ed anche il «calore», il tapas - e questo periodo di «consacrazione» può durare un giorno o
due, o perfino un anno. Ora, il sacrificio del soma è uno dei più importanti nell'India vedica e brahmanica, il
che è quanto dire che l'ascesi a fini estatici fa necessariamente parte della
vita religiosa dell'intero popolo indiano. La continuità fra il rituale e
l'estasi, già rilevata a proposito dei riti di ascensione (compiuti da profani)
e del volo mistico (degli estatici), questa continuità si verifica altresì sul
piano del tapas. Resterebbe da sapere
se la vita religiosa indiana nel suo insieme e con tutti i simbolismi che le
sono inerenti è la creazione - in un certo modo «degradata» per renderla
accessibile al mondo profano - di una serie di esperienze estatiche di qualche
privilegiato, ovvero se l'esperienza estatica di questi ultimi non è che il
risultato di uno sforzo di «interiorazione» di certi schemi cosmo-teologici
preesistenti. Problema, questo, gravido di conseguenze, ma che trascende il
piano della storia delle religioni indiane e, del resto, il soggetto stesso del
presente lavoro.
Tecniche e simbolismi
"sciamanici" in India
Per quel che
riguarda la guarigione sciamanica mediante richiamo o ricerca dell'anima
fuggitiva del malato, il Rig-Veda ce
ne offre degli esempi. Il sacerdote parla cosi al moribondo: «Lo spirito tuo
che se ne è andato in Cielo, lo spirito tuo che se ne è andato alle estremità
della terra... lo facciamo tornare a te affinché tu abiti qui, affinché tu viva
qui!»
(X, 58, 2-4). Sempre nel Rig-Veda (X,
57, 4-5) il brahmano scongiura nel modo seguente l'anima del paziente: «Possa
lo spirito tornare a te, per volere, per agire, per vivere a lungo sotto il
sole. O Padri, possa il popolo degli dèi renderci lo spirito; noi vogliamo
restare con la schiera dei viventi!». E nei testi medico-magici dell'Atharva-Veda (VIII, 2, 3; VIII, 1, 3, 1,
ecc.) il mago per riportare il moribondo in vita, ne riprende dal Vento il
soffio, dal Sole l'occhio, e reintegrandoli nel corpo libera il malato dai
vincoli di Nirrti.
Naturalmente,
queste non sono che semplici traccie di guarigione sciamanica e se più tardi la
medicina indiana doveva utilizzare certe idee magiche tradizionali, queste,
tuttavia, non appartengono all'ideologia sciamanica propriamente detta. Già il
riferimento dei vari «organi» a regioni cosmiche, da parte del mago dell'Atharva-Veda (vedi anche: Rig-Veda, X, 16, 3) implica una diversa
concezione: quella dell'uomo quale microcosmo. E per quanto anch'essa sembri
essere abbastanza antica (forse è indoeuropea), pure non è «sciamanica».
Comunque, il richiamo dell'anima fuggitiva del malato si trova attestato in un
libro - il più recente - del Rig-Veda,
e poiché la stessa ideologia e la stessa tecnica sciamanica predominano nelle
altre popolazioni, non arie, dell'India, ci si può chiedere se non si debba
pensare ad una influenza da parte del substrato. Infatti anche il mago degli
Oraoni del Bengala cerca l'anima smarrita del malato attraverso monti e fiumi,
e fin nel paese dei morti, proprio come fa lo sciamano altaico e siberiano.
Non solo:
l'India antica conosce la dottrina dell'instabilità dell'anima che ha tanto
risalto nelle varie culture dominate dallo sciamanismo. Durante il sogno
l'anima va molto lontano dal corpo, onde il Catapatha-Brahmana
(XIV, 7, 1, 12) raccomanda di non svegliare di colpo chi dorme, perché l'anima
rischierebbe di smarrirsi sul cammino del ritorno. Ci si espone a perder
l'anima anche quando si sbadiglia (Taittiriya-Samhita,
II, 5, 2, 4). La leggenda di Subandhu ci dice come si possa perdere e ritrovare
la propria anima (Jaiminzya-Brahmana,
III, 168-170; Pancavimça-Brahmana,
XI, 12, 5).
Sempre in
relazione con l'idea, che il mago può abbandonare il corpo a volontà - idea
strettamente sciamanica, di cui abbiamo ripetutamente constatato la base
estatica - sia nei testi tecnici che nel folklore ìndù s'incontra un altro
potere magico: quello di «entrare in un altro corpo» (parapurakaya-praveça). Ma un tale potere magico reca già l'impronta
di una elaborazione indiana: del resto, esso figura fra le siddhi yogiche e Patanjali lo menziona presso ad altre facoltà
miracolose (Yoga-sutra, III, 37).
Qui non possiamo
passare in rassegna tutti gli aspetti delle tecniche dello Yoga che potrebbero
aver dei punti di contatto con lo sciamanismo. Per il fatto che la grande
sintesi che noi abbiamo chiamato lo Yoga barocco riprende in sé un numero
rilevante di elementi appartenenti alle tradizioni magiche e mistiche
dell'India, tanto arie che aborigene, accade che in tale vasta sintesi si
possono identificare talvolta elementi sciamanici. È però importante accertare,
caso per caso, se si tratta davvero di elementi sciamanici propriamente detti
oppure di tradizioni magiche oltrepassanti la sfera dello sciamanismo. Un tale
lavoro di discriminazione qui ci è impossibile intraprenderlo. Dobbiamo
tuttavia precisare che, nel discutere le «origini» dello Yoga, noi non ci
riferiamo necessariamente allo sciamanismo: tutta una tradizione mistica
popolare, la bhakti, che ad un dato
momento ha invaso lo Yoga, non è sciamanica. La stessa osservazione vale anche
per le pratiche di erotica mistica e per altre pratiche magiche talvolta
aberranti (implicanti il cannibalismo, l'assassinio, ecc.) che, pur avendo una
origine autoctona pre-aria, non sono sciamaniche. Molte confusioni si son rese
qui possibili per via dell'identificazione abusiva dello «sciamanismo» alla
«mistica primitiva».
Ci limiteremo
dunque a rilevare che lo stesso testo classico di Patanjali menziona alcuni
«poteri» familiari allo sciamanismo: volare negli spazi, scomparire, divenire
estremamente grande o estremamente piccolo, ecc. Inoltre un'allusione dello Yoga-sutra (IV, 1) alle piante
medicinali (aushadhi) che proprio
come la samadhi potrebbero conferire
allo yogi i «poteri meravigliosi» attesta l'utilizzazione di droghe negli
ambienti yogici, appunto per avere esperienze estatiche. Ma d'altra parte nello
Voga classico e buddhista i «poteri» non hanno se non una parte secondaria e
molti testi mettono in guardia contro il pericolo che si corre quando ci si fa
tentare dal sentimento magico di potenza da essi destato, sentimento che può
far dimenticare il vero scopo degli sforzi dello yogi: la liberazione finale.
Per cui l'estasi che si può raggiungere usando delle droghe o con altri mezzi
materiali non può esser paragonata all'estasi della vera samadhi. Peraltro noi abbiamo anche visto che nello stesso
sciamanismo le droghe contrassegnano già una fase di decadenza e che si ricorre
ad esse per giungere alla trance solo
in difetto di mezzi propriamente estatici. Come lo Yoga barocco (popolare), così
anche lo sciamanismo conosce varianti aberranti. Ma devesi di nuovo
sottolineare la differenza strutturale esistente fra Voga classico e
sciamanismo: benché anche il secondo conosca tecniche di concentrazione (si
veda per es. l'iniziazione presso gli Eschimesi, ecc.), pure il suo scopo
finale resta sempre l'estasi e il viaggio estatico dell'anima nelle varie
regioni cosmiche, mentre lo Yoga persegue 1'«enstasi» («enstasi»
è un neologismo introdotto dall'Autore, per designare, in opposto ad
"estasi», una esperienza spirituale che, come quella yogica e
iniziatica, non rappresenta un «uscire» ma piuttosto un rientrare in sé, un
raggiungere il proprio centro più profondo, che è anche quello di ogni realtà; nel
testo, l'uso di quel termine sta però in una certa contraddizione con l'«evasione
dal cosmo»),
la concentrazione suprema dello spirito e 1'«evasione» dal cosmos. Considerate le origini
protostoriche dello Yoga classico non è però affatto da escludersi l'esistenza
di forme intermedie di Voga sciamanico il cui scopo può esser stato la semplice
realizzazione di certe esperienze estatiche.
Si potrebbero
ritrovare altri elementi «sciamanici» nelle credenze
indiane riferentisi alla morte e al destino del defunto. Come presso tanti
altri popoli asiatici, anche qui si trovano traccie della teoria della
pluralità delle anime (per es. Taittiriya-Upanishad,
II, 4). Però, in genere, l'India antica credeva che l'anima dopo morte salisse
in Cielo e prendesse sede vicino a Yama (Rig-Veda,
X, 58) e agli antenati (pitaras). Si
raccomandava al morto di non lasciarsi impressionare dai cani a quattro occhi
di Yama e di andare avanti fino a raggiungere gli antenati e il dio Yama (X,
14, 10-12; Atharva-Veda, XVIII, 2,
12; VIII, 1, 9, ecc.). Nel Rig-Veda
non si trovano dati precisi circa un ponte che il morto dovrebbe attraversare
(Keith). Si parla di un fiume (Atharva-Veda, XVIII, 4, 7) e di una barca (Rig-Veda, X, 63, 10), il che fa pensare
ad un itinerario infernale più che celeste. In ogni caso, si possono
riconoscere vestigia di un antico rituale nel quale si ricordava al morto la
via da seguire per raggiungere il regno dì Yama (per es. Rig-Veda, X, 14, 7-12, per i sutra
cfr. Keith). E si sapeva anche che l'anima del defunto non lascia subito la
terra: essa vaga nelle prossimità della sua casa per un certo tempo, che può
andare fino ad un anno, Del resto, è per questa ragione che lo si invocava in
occasione dei sacrifici e delle offerte fatti in suo onore (Keith).
La religione
vedica e brahmanica non conosce però la nozione di un vero e proprio dio
psicopompo. Rudra-Civa assolve si talvolta ad una funzione del genere, però qui
si tratta di una concezione tarda e verosimilmente influenzata dalle credenze
degli aborigeni pre-arii. In ogni caso nell'India vedica non si trova nulla che
ricordi le guide altaiche e nord-siberiane dei defunti; al morto, veniva
semplicemente indicato l'itinerario da seguire, un po' nel senso delle
lamentazioni funerarie indonesiane e polinesiane e del Libro dei Morti
tibetano. La presenza di uno psicopompo nel periodo vedico e brahmanico
probabilmente deve esser apparsa inutile per il fatto che, malgrado tutte le
eccezioni e le contraddizioni dei testi, si pensava che l'itinerario del morto
avesse una direzione celeste e fosse perciò meno pericoloso della via che
conduce agli Inferni.
In ogni caso
l'India conobbe ben poche «discese agli Inferni». Benché l'idea di un
Inferno sotterraneo si trovi già attestata nel Rig-Veda (Keith), pure i viaggi estatici nell'aldilà sono molto
rari. Dal padre suo Naciketas vien dato alla «Morte» e infatti il giovane si
reca nella dimora di Yama (Taittiriya-Brahmana,
III, 11, 8): ma questo viaggio d'oltretomba non dà l'impressione di una
esperienza «sciamanica» esso non implica un'estasi. Il solo
caso nettamente attestato di un viaggio estatico nell'aldilà è quello di Bhrgu, «figlio» di Varuna (Catapatha-Brahmana, XI, 6, 1; Jaiminiya-Brahmana, I, 42-44). Il dio,
dopo aver messo Bhrgu in uno stato
d'incoscienza, manda la sua anima a visitare le varie regioni cosmiche e gli
Inferni. Bhrgu assiste anche ai
castighi riservati a coloro che si son resi colpevoli di certi delitti rituali.
L'incoscienza di Bhrgu, il suo
viaggio estatico attraverso il cosmo, i castighi di cui è testimone e che in
seguito gli vengono spiegati dallo stesso Varuna - tuto ciò ci ricorda l'Arda Virai: naturalmente, con tutta la
differenza esistente fra un viaggio d'oltretomba che dà un'imagine completa
delle sanzioni post-mortem (come ne è
il caso nell'Arda Virai) e un viaggio
estatico che rivela soltanto un numero limitato di situazioni. Però nell'un
caso come nell'altro resta visibile uno schema di viaggio iniziatico
nell'oltretomba ripreso e interpretato da ambienti ritualisti.
Qui sarebbe il
caso di ricordare i motivi «sciamanici» che sono sopravvissuti nelle figure
cosi complesse di Varuna, di Yama e di Nirrti. Sul piano a lui proprio,
ciascuno di questi dèi è un «dio che lega». Numerosi sono gli inni vedici ove
si parla dei «lacci di Varuna». I lacci di Yama (yamasya pdhiça - Atharva-Veda, VI, 96, 2, ecc.) vengono generalmente chiamati i
«lacci della morte» (mrtyupaçah,
ibid., VII, 112, 2 ecc.). Quanto a Nirrti, egli incatena coloro che vuol
perdere (ibid., VI, 63, 1-2; ecc.), per cui si pregano gli dèi di allontanare i
«vincoli di Nirrti» (ibid., I, 31, 2). Infatti le malattie vengono concepite
come dei «lacci» e la morte non è che il «legame supremo». In altra sede
abbiamo studiato il simbolismo complesso nel quale s'inquadra la magia dei
«vincoli».
Qui basterà rilevare che certi aspetti di tale magia sono sciamanici. Se è vero
che i «lacci» e i «nodi» figurano fra gli attributi più specifici del dio della
morte, e non soltanto in India e nell'Iran, ma anche altrove (Cina, Oceania)
pure gli stessi sciamani posseggono dei lacci e dei lassos destinati allo stesso uso: catturare le anime vagabonde che
hanno lasciato il corpo. Gli dèi e i demoni della morte catturano le anime dei
defunti con una rete; lo sciamano tunguso, ad esempio, si serve di un lasso per
riprendere l'anima fuggitiva di un malato (Shirokogorov). Ma il simbolismo
della «legatura» oltrepassa per ogni rispetto lo sciamanismo propriamente
detto: è soltanto nella stregoneria dei «nodi» e dei «legamenti» che si possono
ritrovare alcune analogie con la magia sciamanica.
Infine
ricorderemo l'ascensione estatica di Arjùna sul monte di Civa, con tutte le
epifanie luminose ad essa relative (Mahabharata,
VII, 80, sgg.): pur senza essere «sciamanica», essa rientra nella
categoria delle ascese mistiche alla quale anche l'ascensione sciamanica
appartiene. Quanto alle esperienze luminose, ci si ricorderà del quamaneq dello sciamano eschimese, del «lampo»,
o «illuminazione», che d'un tratto gli fa vibrare tutto il corpo (cfr.
sopra). La «luce interiore» che lampeggia come effetto di lunghi sforzi di
concentrazione e di meditazione è ben nota a tutte le tradizioni religiose e si
trova ampiamente attestata in India, partendo dalle Upanishad fino al tantrismo (cfr. sopra). Abbiamo ricordati questi
pochi esempi per indicare i quadri ai quali si possono ricondurre certe
esperienze sciamaniche: perché - e noi l'abbiamo spesso ripetuto nel corso di
quest'opera - lo sciamanismo nel suo insieme non è sempre e necessariamente una
mistica aberrante e tenebrosa.
Di passata,
segnaliamo anche la presenza del tamburo magico e la parte che esso ha nella
magia indiana. La leggenda riferisce talvolta l'origine divina del tamburo:
secondo una tradizione, un naga
(spirito-serpe) avrebbe rivelato al re Kanishka l'efficacia del ghanta pei riti per la pioggia. Qui si
può sospettare un'influenza del substrato non-ario, tanto più che nella magia
delle popolazioni aborigene dell'India (magia che, senza esser sempre di
struttura sciamanica, confina tuttavia con lo sciamanismo) i tamburi hanno una
parte considerevole. È anche per tale ragione che noi non affronteremo lo
studio del tamburo nell'India non-aria, né quello del culto dei crani, che ha
tanta importanza nel lamaismo e in diverse sette indiane d'indirizzo tantrico.
Alcuni dettagli verranno riferiti più oltre, rinunciando però ad un'esposizione
completa.
Lo sciamanismo presso
alcune tribù aborigene dell'India
Grazie alle
ricerche dello Elwin, conosciamo a sufficienza lo sciamanismo dei Saora,
popolazione aborigena dell'Orissa di grande interesse etnologico. Qui riporteremo
soprattutto le autobiografie degli sciamani, uomini e donne, saora: esse
presentano una straordinaria affinità con i «matrimoni iniziatici»
degli sciamani siberiani che abbiamo studiato sopra. Si sottolineano tuttavia
due divergenze: 1) poiché i Saora hanno tanto degli uomini che delle donne
sciamano, e poiché queste ultime son talvolta anche più numerose dei primi,
entrambi i sessi contraggono questi matrimoni con un essere dell'altro mondo;
2) mentre le «spose celesti» degli sciamani siberiani abitano il cielo o, in
qualche caso, la steppa, gli sposi spirituali dei Saora abitano tutti il mondo
sotterraneo, il regno delle ombre.
Kintara, uno
sciamano di Hatibadi, confidò ad Elwin quanto segue: «Avevo circa dodici anni
quando una donna-spirito tutelare chiamata Jangmai
venne a me in sogno e mi disse: "Io son contenta di te; io ti amo; t'amo
tanto che mi devi sposare". Io però rifiutai, e per un anno intero ella
venne regolarmente a farmi la corte, cercando di piegarmi. Nondimeno, la
respinsi sempre fino al giorno in cui, finalmente, si stizzi ed inviò il suo
cane (una tigre) a mordermi. Ciò mi spaventò ed accettai di sposarla. Ma, quasi
immediatamente, un'altra protettrice venne a pregarmi di sposar lei. Quando la
prima delle due ragazze lo seppe, mi disse: "Ero la prima ad amarti, e ti
considero mio marito. Ed adesso ne ami un'altra: ma non lo permetterò! ".
Di conseguenza, risposi" no" alla seconda ragazza. Ma la prima, nella
sua rabbia e nella sua gelosia, mi rese folle, mi trascinò nella jungla e mi sottrasse
la memoria. Durante un intero anno fece di me quel che volle».
Infine, i genitori del ragazzo fecero ricorso allo sciamano di un vicino
villaggio e la prima ragazza parlò per sua bocca: «Non abbiate paura! Intendo
sposarlo ... Aiuterò il ragazzo in tutte le sue difficoltà». Soddisfatto, il
padre dispose il matrimonio. Cinque anni dopo, Kintara sposò una donna del suo
villaggio. Dopo le nozze Jangmai, la
protettrice, si rivolse a Dasuni, la giovane sposa, per bocca del loro comune
marito e disse: «Ora tu ti accingi a vivere con mio marito. Attingerai la sua
acqua, monderai il suo riso e cuocerai il suo cibo: tu farai tutto, io non
posso far niente. Io devo vivere nel mondo sotterraneo. Tutto ciò che posso
fare è di prestare aiuto quando sopravvengono dei fastidi. Dimmi, mi onorerai o
verrai a contesa con me?». Dasuni rispose: «Perché dovrei
prendermela con te? Tu sei una donna-dio ed io ti darò tutto quello di cui
avrai bisogno». Jangmai fu contenta di questa risposta e disse: «Va
bene. Tu ed io vivremo come sorelle». Poi a Kintara: «Occupati di
questa donna come ti sei occupato di me. Non picchiarla. Non maltrattarla».
Dopo di che, se ne andò. Dalla sua moglie terrestre Kintara ebbe un figlio e
tre figlie, e dalla sua protettrice un figlio e due figlie, che vivevano nel
mondo sotterraneo. Quando il ragazzo venne al mondo, continuò Kintara, la
protettrice «me lo recò e mi disse il suo nome; lo posò sulle mie ginocchia e
mi chiese di fare quanto era necessario per nutrirlo. Quando le ebbi detto che
l'avrei fatto, riparti col bambino per il mondo inferiore lo sacrificai una
capra per il bambino e consacrai un vaso».
Ritroviamo lo
stesso schema - visita da parte d'uno spirito, domanda di matrimonio,
resistenza, periodo di crisi acuta che si risolve quando la proposta è
accettata - presso le ragazze «scelte» per divenir sciamane. «Il
sogno che costringe una ragazza ad accettare la sua professione e la segna del
sigillo del consenso sovrannaturale prende la forma di visite da parte di un
pretendente del mondo sotterraneo che le propone il matrimonio, con tutte le
sue conseguenze estatiche e numinose. Questo "marito" è un indù,
bello e prestante, ricco e osservante molti costumi stranieri ai Saora. Secondo
la tradizione, egli viene nel cuore della notte; quando entra nella camera,
tutti gli abitatori della casa sono presi da un incantesimo e dormono un sonno
di morte. A tutta prima, e quasi in tutti i casi, la ragazza rifiuta perché la
professione di sciamano è al tempo stesso ardua e piena di pericoli. Allora comincia
ad essere tormentata da incubi: il suo amante divino la porta nel mondo
sotterraneo o minaccia di farla cadere da una grande altezza. In genere si
ammala; capita anche che perda la ragione per un certo periodo ed erri,
pateticamente scapigliata, per i campi ed i boschi. A questo punto interviene
la famiglia. Siccome, nella maggior parte dei casi, la ragazza ha già ricevuto
da qualche tempo un'educazione' ed una preparazione, ognuno sa quel che
l'attende, ed anche se non racconta ella stessa ai suoi genitori quello che sta
capitando, costoro ne hanno generalmente un'idea ben precisa. Nondimeno, è
necessario che la ragazza stessa confessi ai genitori d'essere stata "
chiamata", d'aver rifiutato e d'essere ora in pericolo. Ciò le solleva
immediatamente lo spirito dal peso della colpa e dà ai genitori piena libertà
d'azione: senza indugio, essi combinano il matrimonio della figlia col suo
protettore.
«Dopo il
matrimonio, il marito-spirito della sciamana le rende regolarmente visita
restando con lei fino all'alba. Può anche succedere, talvolta, che la conduca
per diversi giorni nella jungla ove la nutre di vino di palma. Quando il
momento è giunto, viene al mondo un bambino e il padre-spirito lo reca ogni
notte alla moglie perché se ne occupi. Ma la loro relazione non è
essenzialmente sessuale; il fatto importante è che il marito protettore ispira
ed istruisce la giovane donna in sogno e che, quando costei si accinge ad
assolvere alle sue sacre funzioni, le si asside vicino e le dice quel che deve
fare» (Elwin).
Una sciamana
rammenta la prima visita che le rese, in sogno, uno spirito protettore «vestito
di eleganti abiti indù». Ella lo rifiutò e per questo,
dice, «egli mi sollevò in un turbine e mi portò fino ad un albero immenso, ove
mi fece sedere su di un fragile ramo. Cominciò allora a cantare e, mentre
cantava, a farmi oscillare a destra e a sinistra. Fui talmente terrorizzata
all'idea che stavo per cadere da una tale altezza che mi affrettai ad accettare
di sposarlo». Si saranno riconosciuti certi motivi tipicamente iniziatici: il
turbine, l'albero, l'oscillazione.
Un'altra
sciamana era già sposata ed aveva un bambino quando ricevette la visita d'un
protettore e cadde malata. «Feci cercare una sciamana e Rasuno (lo spirito
protettore) venne e parlò per sua bocca: "Intendo sposarla; se non
accetta, impazzirà"». Suo marito e lei cercarono, ma
invano, di resistere offrendo sacrifici per il protettore. Infine, fu costretta
ad accettare ed apprese in sogno l'arte sciamanica. Ebbe due figli nel mondo
sotterraneo.
Nella seduta
sciamanica dei Saora, lo sciamano è posseduto dallo spirito del protettore o
del dio invocato che parla a lungo con la sua voce È questo spirito che, dopo
aver preso possesso dello sciamano o della sciamana, rivela la causa della
malattia e dice quale azione va compiuta (generalmente un sacrificio o delle
offerte). Lo «sciamanismo» per possessione è pure conosciuto in altre provincie
dell'India. Cfr. Harper sulle pratiche sciamaniche del Mysore nord-occidentale.
Queste son dei fenomeni di possessione e non implicano necessariamente una
struttura ed un'ideologia sciamanica. Si troveranno altri esempi -
correttamente presentati come casi di possessione da parte di dèi o demoni -
nell'eccellente monografia di Dumond.
Il «matrimonio
con uno spirito» degli sciamani sacra sembra essere un fenomeno unico
nell'India aborigena; comunque, non è d'origine kolariana. Questa è una delle
conclusioni cui è pervenuto lo studio comparativo riccamente documentato di
Rahmann. Citeremo alcune delle conclusioni di quest'importante saggio.
1. L'elezione
«sovrannaturale» del futuro sciamano è indispensabile presso i Saora (Savara),
i Bondo, i Birhor ed i Baiga. Presso i Baiga, i Khond ed i Bondo, l'elezione
«sovrannaturale» è necessaria anche se la funzione di sciamano è ereditaria.
Presso i Juang, i Birhor, gli Oraon ed i Muria, 1'«eletto» generalmente
presenta i caratteri psichici tipici dello sciamanismo.
2. L'istruzione
sistematica dei futuri sciamani è obbligatoria in un considerevole numero di
tribù (Santal, Munda, Saora, Baiga, Oraon, Bhil, ecc.). Si rinvengono prove
indiscutibili dell'esistenza d'una cerimonia d'iniziazione presso i Santal, i
Munda, i Baiga, gli Oraon ed i Bhil, e v'è ragione di credere che questa
cerimonia esista anche presso i Korku e i Maler.
3. Gli sciamani
hanno spiriti protettori personali presso i Santal, i Saora, i Korwa, i Birhor,
i Bhuiya, i Baiga, gli Oraon, i Khond ed i Maler. «Poiché i ragguagli di cui si
dispone sulla maggior parte di queste tribù sono incompleti ed un po' vaghi, si
può supporre, senza timore d'errare, che le caratteristiche di cui abbiamo
parlato compaiano in realtà in maggior numero e più nettamente che non sia
possibile indicarle sulla base dei documenti di cui disponiamo. Ma il materiale
già presentato garantisce l'affermazione generale che nella magia e nello
sciamanismo del Nord e del Centro dell'India si trovano i seguenti elementi:
delle scuole di sciamani o almeno una certa preparazione sistematica dei
candidati; un'iniziazione; uno spirito protettore personale; una chiamata da
parte d'uno spirito o d'un dio».
4. Tra gli
accessori utilizzati dallo sciamano, la cesta da vagliatura riveste il ruolo
più importante. «Il vaglio è un elemento antico della cultura dei popoli
munda». Esattamente come lo sciamano siberiano che provoca la trance battendo il tamburo, i maghi del
nord e del centro dell'India «cercano di ottenere lo stesso risultato scuotendo
il riso nel vaglio». Questo spiega l'assenza quasi totale del tamburo nello
sciamanismo dell'India centrale e settentrionale. «Il vaglio ha pressappoco la
stessa funzione».
5. Delle scale
hanno una loro parte nei rituali sciamanici di alcuni popoli. Il barua baiga «si costruisce un piccolo
altare davanti al quale pianta due alberi. Presso l'altare possono anche
esservi: una scala di legno, un bilanciere, una corda ornata di punte di ferro,
una catena di ferro con punte acuminate, una tavola irta di punte e dei sandali
trapassati da chiodi taglienti. Durante la trance,
egli sale talvolta sulla scala senza toccarla con le mani e si flagella con gli
strumenti menzionati. Risponde alle domande o dall'alto della scala, o dalla
tavola a punte». La scala sciamanica è anche attestata presso i Gond di
Mohaghir (cfr. Koppers). William Crooke riferisce che lo sciamano dei Dusadh e
dei Djangar (tribù della parte orientale dell'antica Provincia del Nord-Ovest
dell'India) costruisce una scala con lame di spada in legno, «sulla quale il
sacerdote è tenuto a salire posando la pianta dei piedi sul filo delle armi.
Quando raggiunge la cima, decapita un gallo bianco che è attaccato sopra la
scala». Presso i Saora, «si fa passare un bambù attraverso il tetto della casa
nella quale si compie il rito, in modo che si drizzi sul suolo della stanza
principale... La sciamana stese una stuoia nuova davanti al bambù e fece
trafiggere un gallo su un ramo che usciva dalla scala» (Rahmann). Elwin
lo chiama " scala celeste".
6.
Correttamente, Rahmann interpreta come una rappresentazione dell'Albero Cosmico
«il monticello di terra con l'arbusto di basilico che l'ojha santal ed il marang
deora munda tengono in casa. ...Lo stesso simbolismo della montagna del
mondo o dell'albero sciamanico si ritrova anche nel pezzo d'argilla connesso
col serpente di ferro ed il tridente nella scuola degli sciamani-serpenti
oraon, nella pietra cilindrica impiegata durante la consacrazione preliminare
(cerimonia pre-iniziatica) degli sciamani santal, come anche nel seggio girevole
dei Munda nonché, per finire, nella pietra che il sokha oraon, in una visione notturna, vede come imagine di Civa».
7. In un gran
numero di tribù, lo sciamano richiama l'anima del trapassato tra il terzo e il
decimo giorno dopo la morte. Ma non si trova alcuna prova dell'esistenza del
rituale altaico e siberiano tipico dello sciamano che accompagna l'anima del
defunto nel paese dei morti.
Concludendo,
Rahmann fa la considerazione che lo «sciamanismo consiste essenzialmente in una
relazione specifica con uno spirito protettore, relazione che si manifesta come
segue: lo spirito s'impossessa dello sciamano che diviene suo medium,
compenetrandolo per investirlo d'una conoscenza e di poteri superiori, massime
nei confronti di (altri) spiriti». Questa definizione rende conto mirabilmente
delle caratteristiche dello sciamanismo dell'India centrale e settentrionale,
ma non sembra potersi applicare ad altre forme di sciamanismo - come, per
esempio, a quello dell'Asia centrale e settentrionale. Gli elementi «ascensionali»
(scale, pilastro, albero sciamanico, axis
mandi, ecc.) - sui quali, come abbiamo visto, l'autore non ha mancato
d'attirare l'attenzione - esigono una definizione più precisa dello
sciamanismo. Dal punto di vista storico, l'autore conclude che «fenomeni
sciamanici si sono certamente prodotti in India prima dell'avvento dello
shaktismo, e (che) non sarebbe corretto supporre che quest'ultimo non abbia
influenzato i popoli munda».
Capitolo 12: Tecniche e simbolismi sciamanici nel Tibet e
nell'Estremo Oriente
Buddhismo, Tantrismo,
Lamaismo
Quando il
Buddha, dopo l'illuminazione, tornò a visitare per la prima volta la sua città
nativa, Kapilavastu, egli fece mostra di alcuni «poteri miracolosi».
Per convincere i suoi delle sue forze spirituali e per propiziare la loro
conversione egli s'innalzò nello spazio, tagliò a pezzi il proprio corpo e fece
ricadere per terra la sua testa e le sue membra, che poi ricompose sotto gli
occhi attoniti degli spettatori. Questo miracolo vien anche ricordato da
Açvagosha (Buddha-carita-kavya, vv.
1551 sgg.), ma è cosi intimamente legato alla tradizione della magia indiana da
divenire il prodigio-tipo del fachirismo. Il famoso rope-trick dei fachiri crea l'illusione di una corda che si drizza
verso il cielo, sulla quale il maestro fa arrampicare un giovane discepolo
finché questi scompare agli sguardi degli spettatori. Allora il fachiro lancia
in aria un coltello - e si vedono le membra del giovane cadere l'una dopo l'altra
al suolo. Inutile ripetere che noi prescindiamo dalla «realtà» di questa
operazione magica. A noi interessa unicamente vedere in che misura tali
fenomeni magici presuppongono una ideologia e una tecnica sciamanica.
In India il rope-trick ha un'antica storia e può
essere ravvicinato a due riti sciamanici: a quello dello smembramento
iniziatico del futuro sciamano ad opera dei «demoni», e a quello
dell'ascensione al Cielo. Ci si ricorderà dei «sogni iniziatici» degli sciamani
siberiani: il candidato assiste allo spezzettamento del proprio corpo da parte
delle anime degli antenati o degli spiriti malvagi. Ma poi le sue ossa vengono
riunite e saldate con del ferro. La carne viene rinnovata e il futuro sciamano,
risuscitando, si trova ad avere un «corpo nuovo» che gli permette di colpirsi
impunemente con dei coltelli, di trafiggersi con delle spade, di toccare ferro
incandescente, ecc. Ora, è degno di nota il fatto che i fachiri indiani godano
la fama di saper compiere gli stessi prodigi. Nel rope-trick essi, in un certo modo, effettuano nella persona dei
loro assistenti lo stesso «smembramento iniziatico» che i loro colleghi
siberiani subiscono in sogno. Del resto il rope-trick,
benché sia divenuto una specialità del fachirismo indiano, lo si incontra anche
in regioni ben distanti l'una dall'altra, in Cina, a Giava, nell'antico
Messico, nell'Europa medievale. Il viaggiatore marocchino Ibn Battuta ebbe ad
osservarlo in Cina nel XIV secolo: «Ora, egli prese una palla di legno che
aveva vari fori, per i quali passavano lunghe correggie. La gettò in aria ed
essa s'innalzò tanto che non la vedemmo più ... Quando in mano non gli restò più
che l'estremità di una correggia, il giocoliere ordinò ad uno dei suoi
apprendisti di attaccarsi ad essa e di salire in aria - cosa che questi fece,
fino a che spari dai nostri sguardi. Il giocoliere lo chiamò tre volte senza
ottenere risposta: allora, come se fosse furibondo, prese un coltello, si
arrampicò sulla corda e scomparve anche lui. Dall'alto caddero per terra una
mano del giovane, poi un piede, poi l'altra mane il corpo e la testa. Egli
discese sbuffando, con le vesti macchiate di sangue… L'Emiro avendogli ordinato
qualcosa, il nostro uomo prese le membra del ragazzo, le attaccò pezzo per
pezzo, ed ecco che il ragazzo sorse in piedi dritto. Ciò mi srupi molto, ne
ebbi una palpitazione di cuore simile a quella di cui soffrii presso il re
d'India quando fui testimone di una scena analoga». Melton lo osservò a
Batavia nel XVII secolo e Sahagiin, in termini quasi identici, nel Messico.
Quanto all'Europa, partendo dal XIII secolo molti testi accennano a prodigi del
tutto simili eseguiti da stregoni e da maghi che, inoltre, possedevano la
facoltà di volare e di rendersi invisibili proprio come gli sciamani e gli
yogi. Vedi i numerosi esempi raccolti da Jacoby e da Eliade (Mefistofele e l'androgine). È tuttora
difficile decidere formalmente se il rope-trick
degli stregoni europei sia dovuto ad una influenza della magia orientale o se
esso derivi da antiche tradizioni sciamaniche autoctone. Il fatto che, per un
lato, il rope-trick appare attestato
nel Messico e che, dall'altro, lo smembramento iniziatico del mago noi lo
incontriamo anche in Australia, in Indonesia e nell' America del Sud ci fa
credere che in Europa potrebbe trattarsi di una sopravvivenza di tecniche
magiche locali, pre-indoeuropee.
Il rope-trick fachirico non è che una
variante spettacolare dell'ascensione celeste dello sciamano: la quale ha sempre
un carattere simbolico, perché il corpo dello sciamano non scompare e il
viaggio celeste ha luogo «in ispirito». Ma il simbolismo della corda,
come quello della scala, implica necessariamente l'idea di una comunicazione
fra Cielo e Terra. Facendo da mezzo una corda o una scala (in altri casi, anche
una liana, un ponte, una catena di freccie, ecc.), gli dèi discendono in terra
e gli umani salgono in cielo. È, questa, una tradizione arcaica largamente
diffusa che noi ritroviamo anche in India e nel Tibet. Il Buddha discende dal
Cielo Trayastrimça per una scala, con
l'intenzione di «battere la via degli umani»: da tale scala si possono vedere,
in alto, tutti i Brahmaloka, e in
basso le profondità degli Inferni, perché essa è un vero Axis mundi posto nel Centro dell'universo. Questa scala miracolosa
si trova raffigurata nei bassorilievi di Bharhut e di Sanci, e nella pittura
buddhista tibetana vien data anche come quella che serve agli umani per salire
in Cielo.
Nel Tibet la
funzione rituale e mitologica della corda appare ancor più nettamente
attestata, specie nelle tradizioni prebuddhiste. Gna-k'ri-bstan-po, primo re
del Tibet, sarebbe disceso dal Cielo per mezzo di una corda detta rmu-t'ag. Questa corda mitica è stata
anche raffigurata sulle tombe reali, ad indicare che i sovrani dopo morte
salgono in Cielo. Del resto, la comunicazione fra Cielo e Terra per i re non si
sarebbe mai interrotta. E i Tibetani credono che nei tempi antichi i principi
non morivano, ma salivano in Cielo, concezione che tradisce il ricordo di un
tal quale «paradiso perduto».
Sempre nelle
tradizioni Bon si parla di un clan dMu, nome che in pari tempo designa una
certa classe di dèi: questi abitano il Cielo e i morti li raggiungono salendo
una scala o arrampicandosi su per una corda. Una volta esisteva, in terra, una
categoria di sacerdoti che pretendevano di esser in grado di guidare i defunti
in Cielo perché erano i padroni della corda o della scala: erano i dMu (Tucci).
Questa corda, che a quei tempi collegava la Terra al Cielo e serviva per
l'ascesa dei morti verso la dimora celeste degli dèi dMu, da altri sacerdoti
Bon fu sostituita con la corda divinatoria. Forse questo stesso simbolo
sopravvive nella striscia di stoffa dei Na-khi, che rappresenta il «ponte
dell'anima per andare nel regno degli dèi» (Tucci). Elementi del genere fan
parte integrante del complesso sciamanico dell'ascensione e della psicopompia.
Sarebbe assurdo
voler esaurire in qualche pagina l'esame di tutti gli altri motivi sciamanici
presenti nei miti e nei rituali Bon-po, e sopravviventi nel lamaismo e nel
tantrismo indo-tibetano. I sacerdoti Bon-po non si distinguono in nulla dai
veri sciamani: son anche distinti in Bon-po «bianchi» e Bonpo «neri»,
benché sia gli uni che gli altri usino il tamburo nei loro riti. Alcuni dicono
di essere «posseduti dagli dèi»; la maggior parte di essi pratica
gli esorcismi (Tucci). Una categoria di Bon-po si dà il titolo di «possessori
della corda celeste». I pawo ed i nyen-jomo sono medium, uomini e donne,
considerati dai buddhisti come tipici rappresentanti del Bon. Non dipendono dai
monasteri Bon del Sikkim e del Bhutan e sembrano esser le vestigia del Bon
nella sua forma più antica, non organizzata, quale esisteva prima che il «Bon bianco»
(Bon dtkar) si fosse sviluppato
secondo l'esempio del buddhismo (Nebesky-Wojkowitz). Sembra ch'essi giungano ad
esser posseduti dagli spiriti dei morti e che, durante la trance, entrino in comunicazione con le loro divinità protettrici.
Quanto ai medium Bon, una delle loro principali funzioni era quella «di far da
portavoce temporaneo degli spiriti dei morti, che dovevano poi esser condotti
nell'altro mondo».
Si crede che gli
sciamani Bon impieghino i loro tamburi come veicoli che permettono loro di
spostarsi nell'atmosfera. Il volo di Narobon-chung in occasione del suo torneo
magico con Milarèpa ne è un esempio classico. «La leggenda secondo la quale
gShen-rab-mi-bo volava su una grande ruota di cui occupava la posizione
centrale mentre i suoi otto discepoli erano seduti sugli otto raggi, può ben
rappresentare una sopravvivenza d'una tradizione consimile». È probabile che in
origine il veicolo fosse il tamburo sciamanico, sostituito più tardi dalla
ruota; simbolo buddhista. La cura dello sciamano Bon comporta la ricerca
dell'anima del malato (cfr. Hoffmann), tecnica specificamente sciamanica. Una
cerimonia analoga ha luogo quando l'esorcista tibetano è chiamato a guarire un
malato: egli intraprende una ricerca dell'anima del paziente. Il richiamo
dell'anima del malato esige talora un rituale estremamente complesso implicante
oggetti (fili di cinque diversi colori, freccie, ecc.) ed effigi.
Nebesky-Wojkowitz ha recentemente messo in evidenza altri elementi sciamanici
nel lamaismo tibetano. Nell'oracolo dello Stato, la trance profetica, indispensabile alla divinazione cerimoniale,
presenta un carattere parasciamanico molto accentuato.
Il lamaismo ha
conservato quasi integralmente la tradizione sciamanica dei Bon. Si vuole che
anche i maestri più famosi del buddhismo tibetano abbiano operato guarigioni e
fatto miracoli della più pura tradizione sciamanica. Certi fattori che han
contribuito all'elaborazione del lamaismo sono verosimilmente di origine
tantrica e, forse, indiana. Ma non è sempre facile distinguere: quando, secondo
una leggenda tibetana, Vairochana, discepolo e collaboratore di Padmasambhava,
scaccia dal corpo della regina Ts'epongs'a lo spirito della malattia sotto
forma di una spilla nera, ci troviamo di fronte ad una tradizione indiana
oppure tibetana? Padmasambhava non soltanto fa mostra della ben nota facoltà di
volo magico propria ai Bodhisattva e
agli Arhat, perché anche lui
attraversa gli spazi, s'innalza al Cielo e diviene Bodhisattva - ma nella leggenda
che lo riguarda si trovano anche tratti puramente sciamanici: sul tetto della
sua casa egli balla una danza mistica vestito soltanto dei «sette ornamenti di
ossa» (Bleichsteiner, p. 67), il che rimanda al costume degli sciamani
siberiani.
Si sa della
parte che i crani e i femori umani hanno nelle cerimonie tantriche e lamaiste.
Vedi Eliade, Le Yoga, sugli Aghod e i
KapaIika («portatori di crani»). È verosimile che queste sette, ascetiche e
orgiastiche ad un tempo, che praticavano i! cannibalismo ancora alla fine del
XIX secolo, abbiano assimilato certe tradizioni aberranti aventi relazione col
culto dei crani. Il quale, del resto, spesso implica la manducazione rituale
dei genitori - cfr. il costume degli Issedoni notato da Erodoto. I Tibetani
usavano i crani dei loro padri proprio come gli Issedoni, ma oggi il culto
domestico è scomparso e secondo Laufer la parte che hanno i crani sembra essere
una innovazione tantrica (çivaita). È però possibile che le influenze indiane
si siano sovrapposte ad un antico fondo di credenze locali; cfr. la funzione
religiosa e divinatoria dei crani degli sciamani presso gli Yukaghiri
(Jochelson). Sulle relazioni protostoriche fra il culto dei crani e l'idea del
rinnovarsi della vita cosmica, in Cina e in Indonesia, cfr. Hentze. La danza
dello scheletro ha un'importanza tutta speciale nelle scenografie drammatiche
dette tcham che, fra l'altro,
intendono familiarizzare gli spettatori con le imagini terribili delle divinità
protettrici che si manifesterebbero nello stato del bardo, cioè nello stato
intermedio fra la morte e una nuova incarnazione. Da tale punto di vista il tcham può esser considerato come una
cerimonia iniziatica, perché implica certe rivelazioni concernenti esperienze
dell'aldilà. Ora, è sorprendente in che misura questi costumi e queste maschere
tibetane in forma di scheletro ricordino i costumi degli sciamani dell'Asia
centrale e settentrionale. In certi casi, la cosa va senz'altro spiegata con
influenze lamaiste, influenze testimoniate, del resto, da altri ornamenti del
costume sciamanico siberiano e perfino da certe forme del tamburo. Però non si
deve subito concludere che la parte che ha lo scheletro nel simbolismo del
costume sciamanico dell'Asia settentrionale sia unicamente dovuta ad una
influenza lamaista. Una tale influenza, quand'anche si sia davvero esercitata,
non ha fatto che consolidare concezioni autoctone antichissime connesse alla
sacralità delle ossa degli animali epperò anche delle ossa umane (vedi più su).
Quanto all'imagine del proprio scheletro, che ha una parte così importante
nelle tecniche di meditazione del buddhismo mongolo, non dobbiamo dimenticarci
che l'iniziazione dello sciamano eschimese implica parimenti la contemplazione
del proprio scheletro: ci si ricorderà che il futuro angakok separa col pensiero dal suo corpo la carne e il sangue
facendo restare le sole ossa. Salvo ulteriori, più ampie informazioni, v'è
pertanto da credere che un tale tipo di meditazione appartenga ad uno strato
arcaico, pre-buddhista di spiritualità che in un qualche modo si legava
all'ideologia dei popoli cacciatori (sacralità delle ossa) e che conosceva una «estrazione»
dell'anima dal proprio corpo in vista del viaggio mistico, cioè dell'estasi.
Nel Tibet esiste
un rito tantrico chiamato tchöd (gtchod), che ha una struttura nettamente
sciamanica: esso consiste nell'offrire la propria carne ai demoni, a che essi
la divorino - il che ricorda singolarmente lo smembramento iniziatico del
futuro sciamano ad opera dei «demoni» e delle anime degli antenati. Ecco il
riassunto che ne dà Bleichsteiner: «Al suono di un tamburo fatto di crani umani
e di una tromba ricavata da un femore, ci si dà alla danza e si invitano gli
spiriti a venire e a festeggiare. La potenza della meditazione fa sorgere una
dea con una spada snudata; essa si slancia su chi offre il sacrificio, lo
decapita e lo fa a pezzi; allora i demoni e le belve si gettano su questi
avanzi palpitanti, divorandone la carne e bevendone il sangue. Le parole da
pronunciare fan cenno a certi Jataka,
ove si narra come il Buddha, in una precedente incarnazione, abbia dato la
propria carne ad animali affamati e a demoni antropofagi. Però, malgrado questa
affabulazione buddhista - conclude Bleichsteiner - qui si tratta di un sinistro
mistero che risale a tempi più primitivi».
Ci si ricorderà
che un rito iniziatico analogo lo abbiamo già incontrato fra certe tribù
nord-americane. Nel caso del tchod ci
troviamo di fronte alla transvalutazione mistica di uno schema di iniziazione
sciamanica, Il lato «sinistro» riguarda soprattutto le apparenze: si tratta, di
fatto, di una esperienza di morte e resurrezione che, come tutte le altre di
questa classe, è «terrifica». Il tantrismo indo-tibetano ha
spiritualizzato ancor più radicalmente lo schema iniziatico della «messa a morte»
per mano dei demoni. Ecco alcune meditazioni tantriche aventi per oggetto lo
spogliamento del corpo dalla sua carne e la contemplazione del proprio
scheletro. Lo yogi deve raffigurarsi il corpo come un cadavere e la propria
intelligenza come una Dea irritata, ad una faccia e con due mani che reggono un
coltello e un cranio. «Pensa che ella tronca la testa al cadavere e ne fa a
pezzi il corpo, gettando questi pezzi nel cranio come una offerta alle divinità».
Un altro esercizio consiste nel veder se stessi come «uno scheletro bianco,
luminoso ed enorme, donde si sprigionano tali fiamme da riempire il Vuoto
dell'universo». Infine una terza meditazione propone allo yogi di
contemplarsi come se egli fosse trasformato in una dakini irata in atto di strapparsi la pelle dal corpo. Il testo
continua: «Stendi questa pelle in modo da ricoprire l'universo... Su di essa
ammucchia tutte le tue ossa e tutta la tua carne. E quando gli spiriti malvagi
godranno tutti dalla testa, imagina che la dakini
irata prende la pelle, l'arrotola ... e la scaglia per terra così violentemente
da ridurla insieme al suo contenuto, ad una poltiglia di carne e di ossa che
orde di belve, prodotte mentalmente, divoreranno».
Anche da questi
pochi riferimenti ci si può render conto delle trasformazioni che può subire
uno schema sciamanico quando va ad integrarsi in un sistema filosofico
complesso, quale è il tantrismo. Per noi, l'importante qui è costituito dal
sopravvivere di certi simboli e di certi metodi sciamanici anche in tecniche di
meditazione assai elaborate e miranti a scopi diversi dall'estasi. Tutto ciò ci
sembra illustrare a sufficienza l'autenticità e il valore spirituale iniziatico
di più di un'esperienza sciamanica.
Accenniamo
brevemente a qualche altro elemento sciamanico dello Yoga e del tantrismo
indo-tibetano. Il «calore mistico», che si è visto esser già
attestato nei testi vedici, ha una parte considerevole nelle tecniche
yogico-tantriche. Cotesto «calore» lo si provoca per ritenzione del respiro
(cfr. Majjhimanikaya, I, 244, ecc.) e
specialmente per «trasmutazione» della forza sessuale (cfr. Yoga tibétain, pp.
168, 201, 205 sgg.), pratica yogico-tantrica piuttosto oscura, basata sul pranayama unito a varie «visualizzazioni».
Certe prove iniziatiche indo-tibetane consistono appunto nel verificare il
grado di preparazione di un discepolo mediante la sua capacità di far
asciugare, in una notte d'inverno e in mezzo alla neve, una certa quantità di
panni bagnati applicati al suo corpo nudo. Questo «calore mistico»
in tibetano si chiama gtum-mö
(pronuncia tumo). «Dei panni vengono
immersi nell'acqua ghiacciata: vi si gelano e vengono estratti rigidi. Ogni
discepolo ne prende uno e deve sgelarlo ed asciugarlo avvolgendolo intorno al
proprio corpo. Quando il panno diviene asciutto, viene immerso daccapo
nell'acqua e il candidato se lo avvolge intorno di nuovo. L'operazione dura
fino allo spuntar del giorno. Allora colui che ha asciugato il maggior numero
di panni è proclamato primo nella gara". Una prova analoga caratterizza
l'iniziazione dello sciamano manciù (vedi più su), il che può esser dovuto ad
una influenza lamaista. Però il «calore mistico» non è una creazione esclusiva
della magia indo-tibetana: abbiamo citato l'esempio di quel giovane eschimese
del Labrador che restò cinque giorni e cinque notti sulla superficie gelata del
mare e che, dimostrando di non essersi nemmeno bagnato, ottenne immediatamente
il titolo di angakok. Il calore
intenso provocato nel proprio corpo è in diretta relazione col «dominio del
fuoco»,
ed è fondato considerare quest'arte come appartenente ad un retaggio affatto
arcaico.
Di struttura
sciamanica è parimenti il testo che è stato chiamato Il libro tibetano del morto. Benché, di rigore, non si tratti di
una guida psicopompa, pure la parte che ha il sacerdote quando legge, ad uso
del morto, i testi rituali concernenti gli itinerari del post-mortem può esser
paragonata alla funzione dello sciamano altaico o goldo che accompagna
simbolicamente il morto nell'aldilà. Questo Bardo
thödol
rappresenta qualcosa di intermedio fra il racconto dello sciamano psicopompo e
le laminette orfiche che indicavano sommariamente al defunto le direzioni
propizie da scegliere nel suo viaggio nell'aldilà: ed esso è anche per più di
un tratto analogo ai canti funerari indonesiani e polinesiani. Un manoscritto
tibetano di Tuen-huang intitolato Esposto
sul cammino del morto, recentemente tradotto, descrive le direzioni da
evitare, come tali figurando anzitutto quella verso il «Grande Inferno» che si
trova ottomila yoiana al di sotto
della terra e il cui centro è fatto di ferro incandescente. «All'interno della
casa di ferro, in inferni d'ogni specie, legioni di demoni (rakshasa) torturano ed affliggono
bruciando, arrostendo e facendo a pezzi». Cfr. il Monte di Ferro incontrato
dallo sciamano altaico nella sua discesa agli Inferni. Le torture inflitte dai rakshasa ricordano in tutto e per tutto
i sogni iniziatici degli sciamani siberiani. L'Inferno, il pretaloka, il mondo (Jambudvipa)
e il Monte Meru si trovano su di uno stesso asse e il defunto è esortato ad
andar direttamente verso il Meru, sulla cima del quale Indra e trentadue
ministri discriminano i «transmigranti». Si riconosce facilmente, sotto la
vernice delle credenze buddhiste, l'antico schema con l'Axis mundi, le comunicazioni fra le tre zone cosmiche e il
Guardiano che sceglie le anime. Gli elementi sciamanici sono ancor più
trasparenti nel rito funerario che comporta l'inserimento dell'anima del
defunto nella sua effigie (cfr. sopra la descrizione di un rituale goldo
analogo). L'effigie (o name-card)
rappresenta il defunto inginocchiato, con le braccia levate in atto di
supplica. Si invoca la sua anima: «Che il morto la cui effigie è fissata a
questa carta venga qui. Che la coscienza di colui che ha lasciato questo mondo
ed è in via di mutar corpo si concentri su quest'effigie simbolica, sia che già
sia nato in una delle sei sfere o che ancora erri nello stato intermedio, o che
si trovi...». Se una delle sue ossa è ancora disponibile, la si mette sulla name-card. Ci si rivolge ancora al
defunto: «Ascolta, o tu che erri tra le illusioni d'un altro mondo! Vieni a
questo luogo, tra i più seducenti del nostro mondo umano! Questo parapioggia
sarà il tuo posto, la tua protezione, il tuo altare consacrato. Quest'effigie è
il simbolo del tuo corpo, quest'osso è il simbolo della tua parola, questo
gioiello è il simbolo del tuo spirito... Oh, fa' di questi simboli la tua
dimora!» (ibid.). Poiché si crede che il defunto sia suscettibile di rinascere in
una qualunque delle sei sfere dell'esistenza, ci si sforza di liberarlo «da
ciascuna di esse, spostandone via via l'effigie intorno ai petali di loto in
modo che progredisca dagli Inferni alla sfera degli spiriti infelici, poi a
quella degli animali, degli uomini, dei titani e degli dèi» (ibid., p. 268). Lo
scopo del rituale è quello d'impedire all'anima di incarnarsi in uno di questi
sei mondi e di costringerla, invece, a raggiungere la regione di
Avalokiteshvara (ibid., p. 274). Ma le tecniche che mirano a far entrare il
defunto in un'effigie ed a guidarlo attraverso gli Inferni e i mondi
extra-umani sono puramente sciamaniche.
Nel Tibet, molte
altre idee e tecniche sciamaniche sono sopravvissute nel lamaismo. Cosi, ad
esempio, i lama-stregoni lottano fra di loro usando mezzi magici proprio al
modo degli sciamani siberiani (Bleichsteiner). I lama, non meno degli sciamani,
esercitano un potere sui fenomeni atmosferici, volano attraverso gli spazi,
eseguono danze estatiche, ecc. Il tantrismo tibetano conosce un linguaggio
segreto, chiamato «lingua delle dakini»,
allo stesso modo che le varie scuole tantriche indiane usano il «linguaggio
crepuscolare» nel quale uno stesso termine può assumere perfino tre o quattro
significati diversi. Tutto ciò si avvicina, fino ad un certo segno, al
«linguaggio degli spiriti», o «linguaggio segreto»,
degli sciamani, sia nord-asiatici, sia malesi e indonesiani. Sarebbe anzi assai
istruttivo vedere in che misura le tecniche dell'estasi conducano a creazioni
linguistiche e accertare il corrispondente meccanismo. Ora, si sa che la
«lingua degli spiriti» degli sciamani non solo cerca di imitare le grida degli
animali ma contiene anche un certo numero di creazioni spontanee che sono
verosimilmente da spiegarsi con l'euforia pre-estatica e con l'estasi.
Questa rapida
rassegna dei materiali tibetani ci ha dunque fatto constatare, da un lato, una
certa rassomiglianza strutturale fra i riti e i miti Bon-po e lo sciamanismo, e
dall'altro, la sopravvivenza di temi e tecniche sciamanici nel buddhismo e nel
lamaismo. Ma forse la parola «sopravvivenza» non esprime adeguatamente il vero
stato di fatto: si dovrebbe piuttosto parlare di una rivalutazione di antichi
motivi sciamanici e della loro integrazione in un sistema di teologia ascetica dove
uno stesso loro contenuto ha subito una modificazione radicale. Ciò, del resto,
appare affatto normale, se si pensa che la stessa nozione di «anima» -
fondamentalmente nell'ideologia sciamanica - doveva assumere un senso
completamente diverso per via della critica buddhista. Quale pur sia la
regressione che il lamaismo rappresenta rispetto alla grande tradizione
metafisica buddhista, non si poteva tornare alla concezione realistica
dell'anima. Basterebbe questo punto per distinguere i contenuti di una tecnica
lamaista da quelli di una tecnica sciamanica.
D'altra parte,
come presto vedremo, l'ideologia e le pratiche lamaiste sono penetrate
profondamente nell'Asia centrale e settentrionale, contribuendo a dare a un
buon numero di sciamanismi siberiani la loro attuale fisionomia.
Pratiche sciamaniche tra
i Lolo
Come i Tai e i
Cinesi, i Lolo credono che i primi uomini circolassero liberamente fra Terra e
Cielo: in seguito ad un «peccato», la via è stata interrotta. Quando
muore l'uomo ritrova però il cammino del Cielo: Questa è, per lo meno, l'idea
che risulta da certi rituali funerari nei quali il pimo, sacerdote sciamano,
legge vicino al morto preghiere che parlano delle beatitudini che lo attendono
in Cielo (Vannicelli). Per raggiungere il Cielo il defunto deve però
attraversare un ponte: e al suono del tamburo, cui si mescolano dei cori,
vengono recitate altre preghiere intese a guidare il morto verso il ponte
celeste. In tale occasione il sacerdote-sciamano toglie tre tavole dal tetto dell'abitazione
a che si possa vedere il cielo: l'operazione si chiama «aprire il ponte del
Cielo». Presso i Lolo dello Yunnan meridionale il rituale funebre è un po'
diverso. Il sacerdote-sciamano accompagna il feretro recitando ciò che vien
chiamato «il rituale del cammino»: il testo, dopo aver descritto i
luoghi per cui il morto passa nel tragitto fra la casa e la tomba, continua e
indica le città, i monti e i fiumi che egli dovrà attraversare prima di
raggiungere i monti Taliang, patria originaria della razza Lolo. Da là, il
morto si dirigerà verso l'Albero del Pensiero e l'Albero della Parola e
penetrerà negli Inferni. Prescindendo dalla differenza delle due tradizioni per
quanto riguarda la regione verso cui si dirige il morto, qui va rilevata la parte
di psicopompo dello sciamano, per cui il rituale Lolo può esser ravvicinato al Bardo thödol
tibetano e alle lamentazioni funebri indonesiane e polinesiane.
Poiché la
malattia viene interpretata come una fuga dell'anima, la guarigione esige il
richiamo di essa. Lo sciamano legge una lunga litania nella quale si prega
l'anima del malato di tornare dai monti, dalle valli, dai fiumi, dalle foreste
e dai campi lontani, da qualunque luogo essa ora si trovi a vagare (Henry,
Vannicelli). In non diverso modo l'anima viene richiamata presso i Kareni della
Birmania, i quali, del resto, curane in modo analogo anche le «malattie» del
riso, pregando l'«anima» di esso di ritornare nel raccolto. Come presto
vedremo, tale cerimonia la si ritrova fra i Cinesi. Lo sciamanismo Lolo
sembra aver risentito dell'influenza della magia cinese. Il coltello e il
tamburo dello sciamano 1010 hanno nomi cinesi, e cinesi sono i nomi degli
«spiriti» (Vannicelli). Non solo la divinazione vien praticata nel modo cinese,
ma uno dei riti loro più importanti, «la scala dei coltelli», lo si ritrova in
Cina. Questo rito viene eseguito in caso di epidemia. Si costruisce una scala
doppia fatta di trentasei coltelli e lo sciamano, a piedi nudi, vi sale
scendendo dalla parte opposta. In tale occasione vengono anche riscaldati a
bianco alcuni erpici di aratro e lo sciamano deve camminarvi sopra. Il padre
Lietard rileva che questo rito è propriamente loro, tanto che i Cinesi, quando
debbono compierlo, ricorrono sempre agli sciamani Lolo (Vannicelli). Si tratta,
probabilmente, di un antico rito sciamanico modificato per effetto della magia
cinese. Infatti le formule pronunciate durante questa cerimonia sono in lingua Lolo
e solo i nomi degli spiriti sono cinesi.
Questo rito
sembra assai importante: l'ascensione simbolica dello sciamano su per una
scala, che ne costituisce l'essenza, rappresenta infatti una variante
dell'ascesa che in altri casi ha per base un albero, un palo, una corda, ecc.
Esso viene praticato in casi di epidemia, cioè di estremo pericolo per la
comunità, e qual pur sia il suo significato attuale, il suo senso originario
era un ascendere in Cielo per incontrarvi il Dio supremo e pregarlo di por fine
al flagello. Come vedremo, questo uso simbolico della scala si trova attestato
anche altrove in Asia. Pel momento, aggiungiamo che lo sciamano chingpo
dell'Alta Birmania sale per una scala fatta di lame quando viene iniziato. Lo
stesso rito iniziatico lo ritroviamo in Cina, è però probabile che nel riguardo
si abbia a che fare con un'eredità protostorica comune a tutti questi popoli -
Lolo, Cinesi, Chingpo, ecc. - perché il simbolismo dell'ascensione sciamanica
lo si incontra in regioni troppo numerose e troppo distanti le une dalle altre
perché si possa fissare per esso un'«origine» storica precisa. Traccie
d'uno sciamanismo sul tipo di quello che troviamo nell'Asia centrale si
incontrano presso gli sciamani dei Meo bianchi dell'lndocina. La seduta
consiste nell'imitazione d'una cavalcata; si ritiene che lo sciamano vada alla
ricerca dell'anima del malato che, del resto, riesce sempre a catturare. In
certi casi particolari, il viaggio mistico comporta un' ascensione celeste. Lo
sciamano esegue una serie di balzi, lo! si dice che sale al cielo.
Concezioni assai
simili a quelle del Libro tibetano dei morti le incontriamo fra i Mo-so o
Na-khi, popoli appartenenti alla famiglia indo-birmana e risiedenti dal
principio dell'era cristiana nella Cina sud-occidentale, specie nella provincia
di Yunnan.
Rock riferisce
del llu-bu, lo stregone autentico dei
Na-khi. Secondo ogni probabilità, la
funzione di llu-bu era assolta da
donne nei tempi antichi. Questa funzione non è ereditaria e la vocazione è
denunciata da una crisi quasi psicopatica; la persona destinata a divenire un llu-bu danza fino al tempio d'una
divinità guardiana. «Si sospende un certo numero di fazzoletti rossi ad una
corda» al di sopra dell'imagine del Dio. Se la divinità «gradisce quell'uomo,
uno dei fazzoletti rossi gli cadrà addosso», Se no, «quell'uomo... vien
considerato solo un epilettico o un pazzo e lo si riporta a casa». Durante la
seduta, gli spiriti parlano per bocca del llu-bu,
che però non li incarna, non ne è «posseduto», Il llu-bu dimostra di possedere poteri tipicamente sciamanici: cammina
nel fuoco e tocca il ferro riscaldato a bianco. Rock riferisce anche del Nda-pa, lo stregone mo-so dello Yunnan,
in Cina, e dello srung-ma tibetano,
il «guardiano della Fede».
Secondo Rock,
che è l'autorità più recente e meglio informata in materia, la religione dei
Na-khi sarebbe un puro sciamanismo Bon. Il che però non esclude affatto un loro
culto di un Essere celeste supremo, Me, assai affine, per struttura, al dio
cinese del Cielo, Ti'en (Bacot). Il sacrificio periodico al Cielo è anzi la
cerimonia più antica dei Na-khi: vi son ragioni per credere che venisse già
praticato nei tempi in cui i Na-khi vagavano come nomadi nelle steppe erbose
del Tibet nord-orientale. In tale occasione alle preghiere al Cielo seguivano
preghiere alla Terra e al ginepro, l'Albero cosmico che sostiene l'universo e
che si erge nel «Centro del Mondo» (Rock). Come si vede, i Na-khi han
conservato gli elementi essenziali della fede dei pastori dell'Asia centrale:
il culto del Cielo, la concezione delle tre zone cosmiche, il mito dell'Albero
del Mondo che, radicato nel Centro dell'universo, lo sostiene coi suoi mille
rami.
Dopo la morte
l'anima umana dovrebbe salire in Cielo. Ma deve fare i conti coi demoni, che
cercano di spingerla verso gli Inferni. Il numero, la potenza e l'importanza
dei demoni hanno conferito alla religione dei Mo-so i suoi tratti così simili
allo sciamanismo Bon. Infatti Dto-mba Shi-lo, fondatore dello sciamanismo
Na-khi, è passato nel mito come un vincitore di demoni. Quale possa pur essere
stata la sua personalità «storica», la sua biografia è del tutto
mitica: egli nasce dal fianco sinistro della madre come tutti gli eroi e i
santi, sale immediatamente in Cielo (come il Buddha) e terrorizza i demoni. Gli
dèi gli trasmettono il potere di esorcizzare i demoni e di «guidare le anime
dei morti nel regno degli dèi» (Rock). Egli è, ad un tempo, uno psicòpompo e un
Salvatore. Come secondo altre tradizioni centro-asiatiche, gli dèi avrebbero
inviato questo Primo Sciamano per difendere gli uomini dai demoni. La parola dto-mba, d'origine tibetana ed
equivalente al tibetano ston-pa,
«maestro, fondatore o promulgatore di una particolare dottrina»,
indica nettamente che si tratta di una innovazione: lo «sciamanismo» è un
fenomeno posteriore all'organizzazione della religione Na-khi. Si è reso
necessarie per il moltiplicarsi terrificante dei demoni e varie ragioni
lasciano credere che questa demonologia si sia sviluppata per influenza delle
idee religiose cinesi.
La biografia
mitica di Dto-mba Shi-lo ripete, sia pure con alterazioni, lo schema
dell'iniziazione sciamanica. Colpiti dalla straordinaria intelligenza del
neonato, i trecentosessanta demoni lo rapiscono e lo portano «nel luogo ove
s'incrociano mille cammini», - cioè nel «Centro del Mondo», - ove lo mettono a
cuocere in un calderone per tre giorni e tre notti. Ma quando i demoni alzano
il coperchio, il bambino Dto-mba Shi-lo appare intatto. Qui vien di pensare ai
«sogni iniziatici» degli sciamani siberiani, ai demoni che cuociono per tre
giorni il corpo del futuro sciamano. Ma poiché in questo caso si tratta di un
Maestro esorcista, uccisore di demoni per eccellenza, la parte che tali demoni
hanno nell'iniziazione appare camuffata e la prova iniziatica prende la figura
di un tentativo di assassinio.
Dto-mba Shi-lo
«apre il cammino all'anima del defunto». La cerimonia funebre si chiama appunto
zhi ma, «cammino-desiderio»,
e i numerosi testi che vengono recitati presso al cadavere ci si presentano
come un pendant del Libro tibetano dei morti. Nel giorno dei funerali gli
officianti svolgono un lungo rotolo o una stoffa sulla quale sono dipinte le
varie regioni infernali che il defunto deve attraversare prima di raggiungere
il regno degli dèi (Rock). È la carta di un itinerario complicato e pericoloso
lungo il quale il morto sarà scortato dallo sciamano (dto-mba). L'inferno è costituito da nove recinti ai quali si accede
dopo esser passati su di un ponte (ibid., p. 49). La discesa è pericolosa,
perché i demoni bloccano il ponte, il dto-mba
ha appunto il compito di «aprire la strada». Non cessando di invocare il primo
sciamano, Dto-mba Shi-lo (Infatti tutti questi rituali funebri ripetono in un
certo modo la creazione del mondo e la biografia di Dto-mba Shi-lo: ogni testo
comincia evocando la cosmogonia e poi racconta la nascita miracolosa e le gesta
eroiche di Shi-lo nella sua lotta contro i demoni. Questa riattualizzazione di
un illud tempus mitico e
dell'avvenimento primordiale che ha rivelato l'efficacia delle gesta del Primo
Sciamano - gesta divenute poi un archetipo e ripetibili ad infinitum - è il comportamento normale dell'uomo arcaico), egli
riesce a condurre il morto di recinto in recinto fino all'ultimo di essi, cioè
al nono. Dopo questa discesa fra i demoni il defunto sale sulle sette Montagne
d'Oro, giunge ai piedi di un Albero la cui cima contiene «il farmaco dell'immortalità»
e penetra infine nel regno degli dèi.
Nella sua
qualità di rappresentante del Primo Sciamano, cioè di Dto-mba Shi-lo, il dto-mba riesce ad «aprire la via» al
morto e a guidarlo fra i recinti dell'Inferno, ove, altrimenti, egli correrebbe
il rischio di esser divorato dai demoni. Il dto-mba
conduce il trapassato simbolicamente, leggendogli i testi rituali: ma resta
sempre vicino a lui «in ispirito». Lo avverte di ogni pericolo: «O
morto, quando passerai il ponte e imboccherai il cammino, lo troverai sbarrato
ad opera di Lä
ch'u. L'anima tua non sarà in grado di giungere fino al regno degli dèi»
(Rock). In pari tempo gli indica i mezzi per superare l'ostacolo: la famiglia
deve sacrificare ai demoni, perché sono i peccati del morto ad ostruire il
cammino e la famiglia deve riscattare tali peccati mediante sacrifici.
Già queste
indicazioni possono dare una idea della funzione dello sciamanismo nella
religione na-khi: lo sciamano è stato mandato dagli dèi per difendere gli
uomini dai demoni; dopo la morte questa difesa si rende ancor più necessaria,
perché gli uomini sono dei grandi peccatori, cosa che, di diritto, farebbe di
essi delle prede dei demoni. Ma gli dèi, mossi da pietà per gli uomini, hanno
inviato il Primo Sciamano per indicare loro la via che conduce alla divina
dimora. Come presso i Tibetani, la comunicazione fra la Terra, l'Inferno e il
Cielo è resa possibile da un Asse verticale, l'Axis mandi. La discesa postuma agli Inferni col passaggio del ponte
e la penetrazione labirintica nei nove recinti conserva ancora lo schema
iniziatico: nessuno può giungere in Cielo senza esser prima sceso agli Inferni.
La parte dello sciamano è tanto quella di uno psicopompo che quella di un
maestro iniziatore nel post mortem.
Tutto fa credere che la posizione dello sciamano all'interno della religione
na-khi rappresenti un antico stadio per il quale son dovute passare anche altre
religioni dell'Asia centrale: nei miti siberiani, a noi già noti, circa il
Primo Sciamano si trovano accenni che non son privi di relazione con la
biografia mitica di Dto-mba Shi-lo.
Tecniche e simbolismi
sciamanici in Cina
In Cina esiste
il seguente costume: quando qualcuno muore, si sale sul tetto della sua casa e
si supplica l'anima di ritornare nel suo corpo, mostrandogli, per esempio, come
esca, un bel vestito nuovo. Questo rituale si trova ampiamente attestato nei
testi classici e si è perpetuato fino ai nostri giorni; esso ha fornito a Sung
Yüh
l'argomento per un lungo poema che s'intitola appunto «Il richiamo dell'anima».
Anche la malattia implica spesso la fuga dell'anima: e lo stregone in estasi
l'insegue e la reintegra nel corpo del paziente. Questo tipo di guarigione
viene praticato ancor oggi (de Groot). Lo stregone ha il potere di richiamare e
di reintegrare nel rispettivo corpo anche l'anima di una bestia morta per la
resurrezione di un cavallo. Il mago thai invia qualcuna delle sue anime alla
ricerca dell'anima smarrita del malato, e non dimentica di raccomandar loro di
prendere il buon cammino quando torneranno in questo mondo.
La Cina antica
conosceva già varie categorie di stregoni e di streghe, di medium, di
esorcisti, di facitori di pioggia e via dicendo. Un certo tipo di mago merita
la nostra attenzione: è l'estatico, colui la cui arte consisteva principalmente
nell'«esteriorizzare»
la propria anima - in altri termini, nel «viaggiare in ispirito».
La storia leggendaria e il folklore della Cina abbondano di esempi di «volo
magico» e noi subito vedremo che già nell'antichità i Cinesi colti
consideravano il «volo» come una imagine plastica per l'estasi. In ogni caso,
lasciando da parte il simbolismo ornitomorfo della Cina protostorica, sul quale
torneremo, va rilevato che il primo uomo che, secondo la tradizione, sarebbe
riuscito a volare fu l'imperatore Chuen (2258-2208, secondo la cronologia
cinese). Le figlie dell'imperatore Yao, Nü Ying e O Huang, rivelarono a Chuen
l'arte di «volare come un uccello». (Di passata, si deve ricordare che fino ad
una certa epoca in Cina si pensò che l'origine del potere magico risiedesse
nelle donne: il che, insieme ad altri elementi, può esser considerato come
indizio di un antico matriarcato cinese). Si noti che un Sovrano perfetto
doveva possedere il prestigio di un «mago». L'«estasi»,
ad un Fondatore di Stati, non era meno necessaria delle virtù politiche, perché
tale prestigio magico equivaleva ad una autorità, ad una giurisdizione sulla
Natura. Granet ha osservato che il «passo» di Yü il
Grande, successore di Chuen, «non si distingue affatto dalle danze che
provocano la trance degli stregoni (t'iao-chen)… La danza estatica è parte
dei procedimenti mediante i quali si acquista un potere di comando sugli uomini
e sulla Natura. Si sa che sia nei testi detti taoisti, sia in quelli detti
confuciani questo Potere regolatore vien chiamato Tao».
In effetti,
numerosi imperatori, saggi, alchimisti e stregoni cinesi «salivano in Cielo».
In Cina come presso i Tai si trova il ricordo della comunicazione che esisteva
tra il cielo e la terra nei tempi mitici. Secondo i miti, questa comunicazione
è stata interrotta perché gli dèi non possano più discendere ad opprimere gli
uomini (versione cinese), o perché gli uomini non importunassero più gli dèi.
Huang-ti, il Sovrano Giallo, fu trasportato in Cielo da un drago barbuto
insieme alle sue donne e ai suoi consiglieri, in tutto settanta persone
(Chavannes). Ma questa è già una apoteosi, non più il «volo magico» di cui
nella tradizione cinese si trovano comunque numerosi esempi (Laufer).
L'ossessione del volo ha trovato espressione in una folla di leggende relative
a carri volanti e ad altri apparecchi del genere. In casi siffatti si tratta
del fenomeno ben noto della degradazione di un simbolismo, fenomeno che, nel
complesso, consiste nel cercare sul piano concreto della realtà immediata, dei
«risultati» che in origine venivano invece intesi in funzione di una realtà
interiore.
In ogni caso,
anche in Cina l'origine sciamanica del volo magico appare nettamente attestata.
«Salire in Cielo volando» è una idea che in cinese viene espressa nel modo
seguente: «per mezzo di piume di uccello egli è stato trasformato ed è asceso
come un immortale» (Laufer). Ora, noi sappiamo che le piume di uccello
costituiscono uno dei simboli più frequenti del «volo sciamanico» e la presenza
di esso nell'iconografia protostorica cinese non è priva d'interesse per
valutare la diffusione e l'antichità di' questo stesso simbolo epperò anche
dell'ideologia cui si connette. Quanto ai taoisti, le cui leggende pullulano di
ascensioni e di miracoli d'ogni genere, è verosimile che essi abbiano elaborato
e sistematizzato l'ideologia e le tecniche sciamaniche della Cina protostorica,
per cui essi possono essere considerati come i successori dello sciamanismo a
maggior diritto degli esorcisti, dei medium, dei «posseduti» di cui
diremo in seguito: questi ultimi, in Cina, come del resto anche altrove,
rappresentano piuttosto la tradizione aberrante dello sciamanismo. Vogliamo
dire che quando non si riesce a signoreggiare gli «spiriti», si finisce con
l'esser «posseduti»
da essi e, in tal caso, la tecnica magica dell'estasi diviene un semplice
automatismo medianico.
A questo
proposito nelle tradizioni cinesi circa il «volo magico» e la danza sciamanica
ciò che colpisce è appunto l'assenza di allusioni a «possessioni».
Più oltre indicheremo qualche esempio in cui la tecnica sciamanica sbocca in
una «possessione»
da parte di dèi o spiriti, ma le leggende dei Sovrani, dei taoisti immortali,
degli alchimisti e perfino degli «stregoni» per quanto in esse sempre figurino
ascese in Cielo ed altri miracoli, mai parlano di possessione. Si può ritenere
a buon diritto che tutti questi fatti appartengano alla tradizione «classica»
della spiritualità cinese, la quale ha in proprio sia un dominio spontaneo di
se stessi che una integrazione perfetta di sé in tutti i ritmi cosmici. In ogni
caso i taoisti e gli alchimisti avevano il potere di innalzarsi nello spazio:
Liu An, noto anche sotto il nome di Huainan Tse (secondo secolo a.C.) saliva in
cielo in pieno giorno e Li Chao-Kün (140-87 a.Ci) si vantava di
sapersi elevare oltre il nono cielo. «Noi saliamo in Cielo e allontaniamo le
comete!» dice una donna-sciamano in una canzone. Un lungo poema di K'iih Yiian
ci parla di numerose ascensioni fino alle «Porte del Cielo», di cavalcate
fantastiche, di ascensioni lungo l'arcobaleno - tutti motivi familiari al
folklore sciamanico. I racconti alludono frequentemente a prodezze di maghi
cinesi rassomiglianti fino all'indistinguibilità alle leggende formatesi
intorno i fachiri: essi volano nella luna, passano attraverso i muri, fanno
germinare e crescere in un attimo una pianta, ecc.
Tutte queste
tradizioni mitologiche e folkloristiche hanno per punto di partenza una
ideologia e una tecnica dell'estasi che implicano il «viaggio in ispirito».
A partire dalla più alta antichità il mezzo classico per giungere all'estasi è
stato la danza. Come dappertutto, l'estasi rendeva possibile sia il «volo
magico» dello sciamano che la discesa di uno «spirito», la seconda non
implicando necessariamente una «possessione», perché lo spirito
poteva limitarsi ad inspirare lo sciamano. Che per i Cinesi il volo magico e i
viaggi fantastici attraverso l'universo fossero semplici imagini per descrivere
le esperienze dell'estasi, lo prova, fra l'altro, il seguente documento. Il Kwoh
yü
racconta che il re Chao (515-488 a.C.) si rivolse un giorno al suo ministro
dicendogli: «Le scritture della dinastia Tcheu affermano che Tchung-li fu
mandato come messaggero nelle regioni inaccessibili del Cielo e della Terra.
Come è stata possibile una cosa simile? Vi son possibilità, per gli uomini, di
salire in Cielo?». Il ministro allora spiega che il vero significato di
questa tradizione è d'ordine spirituale: coloro che sono giusti e che sanno
concentrarsi sono in grado di accedere conoscitivamente «alle alte sfere e
anche di discendere nelle sfere inferiori, per apprendere la condotta da
seguire, le cose da fare... Una volta realizzata quella condizione, degli shen intelligenti scendono in essi;
quando uno shen si è in tal guisa
stabilito in un uomo, questi vien chiamato hih,
e quando si stabilisce in una donna questa è detta wu. Quali funzionari, essi hanno l'incarico di badare all'ordine di
precedenza degli dèi (nei sacrifici), alle loro tavolette e anche alle vittime
sacrìficali, agli strumenti ed altresì ai costumi cerimoniali da indossare a
seconda delle stagioni». Rileviamo che la donna posseduta dagli shen si chiama wu, che è il nome con cui in seguito venne designato lo sciamano in
genere. In ciò si potrebbe esser tentati di vedere la prova dell'anteriorità
delle donne-sciamano. Tuttavia varie ragioni fan credere che la wu, donna posseduta dagli shen, era stata preceduta dallo
·sciamano con maschera e pelle d'orso, dallo «sciamano danzante»
che Hopkins crede di aver identificato in una iscrizione dell'epoca Chang e in
un'altra del principio de1la dinastia Tcheu. Lo «sciamano danzante»
dalla maschera d'orso appartiene ad una ideologia dominata dalla magia di
caccia, nella quale è l'uomo che ha la parte principale. Egli, del resto,
continuò ad assolvere ad una funzione importante nei tempi storici: il capo
esorcista indossava una pelle d'orso con quattro occhi d'oro (Biot). Ma se
tutto ciò sembra confermare l'esistenza di uno sciamanismo «mascolino» nell'epoca
protostorica, non è per questo detto che lo sciamanismo wu - che fomenta in
alto grado la «possessione» - non sia un fenomeno magico-religioso dominato
dalla donna.
Ciò sembra dirci
che l'estasi - provocante le esperienze espresse dalle imagini del «volo magico»,
dell'«ascesa
in Cielo»,
ecc. - era non l'effetto ma la causa dell'incarnarsi degli shen: era perché
qualcuno appariva già capace di «accedere alle alte sfere e di discendere nelle
sfere inferiori» (cioè di salire in Cielo e di discendere agli Inferni), che
«gli shen intelligenti discendevano
in lui».
Una tale situazione sembra essere abbastanza diversa da quella delle
«possessioni», che tratteremo più oltre. Naturalmente, la «discesa
degli shen» ha dato rapidamente
luogo a un gran numero di esperienze parallele che hanno finito col confondersi
nella massa delle «possessioni». Si è che non è sempre facile
distinguere la natura di un'estasi in base alla terminologia usata per
esprimerla. Il termine taoista per l'estasi, kuei-ju», «entrata in uno spirito», secondo Maspéro non
si spiega se non si fa derivare l'esperienza taoista dalla «possessione degli
stregoni».
Di fatto, di una strega in trance si
diceva che essa parlava in nome di uno shen:
«Il corpo è quello della strega, ma lo spirito è quello del dio».
Per incarnarlo, la strega si purificava con acqua profumata, indossava il
costume rituale, faceva delle offerte: «ella mimava il viaggio, con un fiore in
mano, mediante una danza accompagnata da musica e da canti, al suono di tamburi
e di flauti, finché cadeva a terra spossata. In quel momento si manifestava la
presenza del dio, che rispondeva per bocca sua».
Il taoismo ha
assimilato un maggior numero di tecniche arcaiche dell'estasi che non lo Yoga e
il buddhismo, specie se si considera il tardo taoismo, così alterato da
elementi magici. Si è perfino pensato di identificare il taoismo alla religione
sciamanizzante Bon-po (sull'assimilazione di elementi sciamanici da parte del
neo-taoismo, vedi anche Eberhard). Non bisogna nemmeno dimenticare l'influenza
della magia indiana, che è indubbia nel periodo successivo alla penetrazione
dei monaci buddhisti in Cina. Ad esempio Fo-T'u-Tèng, monaco buddhista di
Kutcha, che aveva visitato il Kashmir ed altre regioni dell'India, arriva in
Cina nel 310 e fa mostra di prodezze magiche: profetizzava in base ad un suono
di campana. Tuttavia l'importanza accordata al simbolismo
ascensionale e, in genere, la struttura equilibrata e sana del taoismo, lo
differenziano dall'estasi-possessione così caratteristica delle streghe. Lo
«sciamanismo» cinese (il wou-ism,
come lo chiama De Groot) sembra che abbia dominato la vita religiosa cinese
prima dell'avvento del confucianesimo e della religione di Stato. Nei primi
secoli precedenti la nostra era i sacerdoti wu
erano i veri officianti del sacro della Cina (De Groot). Certo, il wu non era del tutto identico ad uno
sciamano: ma incorporava spiriti e come tale serviva da intermediario fra
l'uomo e la divinità, essendo inoltre un guaritore, sempre grazie all'aiuto
degli spiriti. La percentuale delle donne wu era schiacciante (ibid., p. 1209).
E gli shen e i kuei che i wu di massima incarnavano erano anime di morti. È con
l'incorporazione delle anime dei morti che prende inizio la «possessione»
propriamente detta. Wang-ch'ung scriveva: «Fra
gli uomini, i morti parlano attraverso persone viventi che fanno cadere in trance e i wu, stringendo le loro corde nere, invocano le anime dei morti, i
quali parlano usando la voce dei wu.
Ma tutto quanto cotesta gente può dire è menzogna». Questa è evidentemente
l'opinione di un autore a cui i fenomeni medianici ripugnavano. Del resto la
taumaturgia delle donne-wu non
finisce qui: potevano rendersi invisibili, ferirsi con coltelli e sciabole,
tagliarsi la lingua, inghiottire spade e sputare fuoco, farsi trasportare da
una nube che allora splendeva come accesa da un fulmine. Le donne-wu ballavano in circolo, parlavano il
linguaggio degli spiriti e ridevano come spettri; intorno ad esse degli oggetti
si sollevavano da sé o cozzavano gli uni contro gli altri. Tutti questi
fenomeni fachirici sono tuttora frequentissimi negli ambienti magici e
medianici cinesi. Anzi, non è nemmeno necessario essere wu per veder gli spiriti e formulare profezie: basta esser
posseduti da uno shen. Come
dappertutto, qui la medianità e la «possessione» danno talvolta luogo ad uno
sciamanismo spontaneo e aberrante.
È inutile
moltiplicare esempi di stregoni, di wu
e di «posseduti» cinesi per mostrare quanto questo fenomeno, nel suo insieme,
si avvicini allo sciamanismo manchi, tunguso e siberiano in genere. Qui basterà
rilevare che con l'andar del tempo l'estatico cinese venne sempre più confuso
con un tipo rudimentale di stregone e di «posseduto». Ad un dato momento, e poi
per tutto un lungo periodo, il wu
apparve cosi simile all'esorcista (shih)
che fu comunemente chiamato wu-shi.
Ai nostri giorni lo si chiama sai-kong
e l'ufficio si trasmette di padre in figlio. La preponderanza del sesso
femminile sembra essere venuta meno. Dopo una prima istruzione, impartita dal
padre, l'aspirante segue dei corsi in un «collegio» ed ottiene il titolo di
sacerdote-capo al termine di una iniziazione di tipo nettamente sciamanico. La
cerimonia è pubblica e consiste nell'ascensione del to t'ui, o «scala di sciabole»: a piedi nudi, il discepolo monta su
di una serie di lame fino a raggiungere una piattaforma. In genere, la scala
comprende dodici sciabole; talvolta esiste anche una seconda scala per la quale
il discepolo deve discendere. Un rito iniziatico analogo è stato accertato
presso i Karen della Birmania, ove una classe di sacerdoti si chiama proprio wee, parola che potrebbe essere una
variante del termine cinese wu.
(Assai probabilmente si tratta di una influenza cinese che ha contaminato
antiche tradizioni magiche locali; non è però detto che si debba considerare la
scala iniziatica in se stessa come venuta dalla Cina: di fatto, riti analoghi
di ascensione sciamanica sono stati accertati anche in Indonesia ed altrove).
L'attività
magico-religiosa dei sai-kong rientra
nel quadro del rituale taoista: il sai-kong
si dà il titolo di tao-shih, eroe
«dottore taoista» (De Groot). Egli ha finito con l'identificarsi completamente
al wu soprattutto per via del suo
prestigio quale esorcista. Il suo costume rituale è ricco di simboli
cosmologici: vi si può vedere l'Oceano cosmico col monte T'ai nel mezzo, e via
dicendo. Il sai-kong si serve
abitualmente di un medium, di un «posseduto», che anche lui dà prova di poteri
fachirici: si ferisce con coltelli, ecc.. Qui si ripete un fenomeno da noi già
constatato in Indonesia e in Polinesia, cioè l'imitazione spontanea dello
sciamanismo per effetto di una possessione. Come lo sciamano delle Figi, il sai-kong dirige la traversata sul fuoco.
La cerimonia vien chiamata «passeggiare su di una via di fuoco» ed ha luogo
dinanzi ad un tempio. Il sai-kong
avanza per primo sui carboni ardenti seguito dai suoi colleghi più giovani e
dallo stesso pubblico. Un rito analogo consiste nel camminare su di un «ponte
di sciabole». Si ritiene che una speciale preparazione spirituale
prima della cerimonia basti per passare impunemente sulle lame e sul fuoco.
Come negli innumerevoli casi di medianità e di spiritismo, o di tecniche
oracolari, qui noi abbiamo a che fare con un fenomeno endemico, non facile a classificarsi,
di pseudo-sciamanismo spontaneo la cui caratteristica più importante è la
facilità.
Non abbiamo la
pretesa di aver tracciata una storia delle idee e delle pratiche sciamaniche in
Cina. Anzi non sapremmo dire se un tale assunto sia possibile. Si sa del lavoro
di elaborazione, d'interpretazione e, in ultima analisi, di «filtraggio» che i
letterati cinesi hanno compiuto per duemila anni sulle tradizioni arcaiche. Qui
basterà notare la presenza di molteplici tecniche sciamaniche lungo tutta la
storia cinese. Naturalmente, esse non possono esser considerate come
appartenenti tutte ad una stessa ideologia e allo stesso strato culturale. Si
son viste, ad esempio, le differenze che possono intercorrere fra le estasi dei
Sovrani, degli alchimisti e dei taoisti, e l'estasi-possessione degli stregoni
o del pubblico dei sai-kong. Analoghe
differenze di contenuto e di orientamento spirituale possono essere rilevate
nei riguardi di ogni altra tecnica o di ogni altro simbolismo sciamanico. Si ha
sempre l'impressione che uno schema sciamanico può esser sperimentato,
realizzato, su piani differenti, benché omologabili: fenomeno, questo, che
oltrepassa di molto la sfera dello sciamanismo e che si verifica nel riguardo
di qualsiasi simbolismo o idea religiosa.
Nel complesso in
Cina si constata la presenza di quasi tutti gli elementi costitutivi dello
sciamanismo: ascensione in Cielo, richiamo e ricerca dell'anima, incorporazione
di «spiriti», dominio sul fuoco e altri prestigi fachirici, e cosi
via. Per contro, sembrano essere più rare le discese agli Inferni e
specialmente le discese aventi per scopo il ricondurre l'anima di un malato o
di un morto, benché anche questi motivi si trovino attestati nel folklore
cinese. Cosi si racconta la storia del re Mu di Chu che viaggiò fino alle
estremità della terra, fino al monte Kun-ìun e più lontano ancora, verso la
Regina-Madre dell'Occidente (la Morte), attraversando un fiume grazie ad un
ponte improvvisato fatto di pesci e di tartarughe; e la Regina-Madre
d'Occidente gli insegnò un canto e gli donò un talismano di lunga vita. Vi è
anche la storia dell'erudito Hu Di che discese agli Inferni attraverso il Monte
dei Morti e vide un fiume che le anime dei giusti superavano passando per un
ponte d'oro, mentre i colpevoli erano costretti ad attraversarlo a nuoto,
colpiti da demoni. Infine, si trova anche una variante aberrante del mito di
Orfeo: il santo Mulian viene a sapere per chiaroveggenza mistica che la madre
sua, che in vita aveva trascurato di far l'elemosina, soffriva la fame
nell'Inferno, e vi discende per salvarla: se la prende sulle spalle e sale in
Cielo. Due altri racconti della collezione di Eberhard comportano il motivo di
Orfeo. Nel primo, un uomo discende nell'altro mondo per cercare la sua sposa
deceduta. La scorge presso una sorgente, ma la donna lo supplica di andarsene
perché ora è divenuta uno spirito. Tuttavia il marito resta per qualche tempo
nel regno delle ombre. Infine i due sposi fuggono ma, una volta sulla terra, la
donna entra in una casa e scompare. Contemporaneamente, la padrona di casa dà
alla luce una figlia. Quando questa raggiunge la maturità, il marito riconosce
in lei sua moglie e la sposa per la seconda volta. Nell'altro racconto, è un padre
a discendere agli Inferni per ricondurne il figlio defunto ma, poiché questo
non lo riconosce, l'impresa fallisce. Ma tutti questi racconti appartengono al
folklore asiatico ed alcuni di essi son stati notevolmente influenzati dal
buddhismo: cosi sarebbe imprudente inferi re, da essi, all'esistenza di un
rituale preciso di discesa negli Inferni. (Per esempio, nella storia del santo
buddhista Mulian non v'è cenno alcuno alla cattura sciamanica dell'anima). È
verosimile che il rituale sciamanico delle discese, se esistette anche in Cina
nella forma in cui lo incontriamo nell'Asia centrale e settentrionale, sia
caduto in desuetudine in seguito al cristallizzarsi del culto degli antenati,
il quale ha dato agli «Inferni» un diverso valore religioso.
Occorre fermarsi
ancora un momento su di un punto che oltrepassa il problema dello sciamanismo stricto sensu, ma che pure ha la sua
importanza: si tratta dei rapporti esistenti fra lo sciamano e le bestie e il
contributo che le mitologie animalesche han dato all'elaborazione dello
sciamanismo cinese. Il «passo» di Yu il Grande non si
distingueva dalla danza dei maghi; ma Yu il Grande si vestiva anche da orso e,
in qualche modo, incarnava lo spirito dell'orso. Lo sciamano descritto dal
Tcheu-li indossava anche lui una pelle d'orso, e sarebbe facile moltiplicare
esempi del cerimoniale noto all'etnologia sotto il nome di bear ceremonialism, cerimoniale che si trova attestato sia nell'
Asia settentrionale che nell' America del Nord. È provato che la Cina antica
sentiva una relazione fra la danza sciamanica e un animale saturo di un
simbolismo cosmologico ed iniziatico assai complesso. Gli specialisti si sono
rifiutati di vedere nella mitologia e nel rituale che mettevano in relazione
l'uomo con quell'animale le traccie di un totemismo cinese. I rapporti qui
sarebbero piuttosto d'ordine cosmologico (l'animale rappresentava generalmente
la Notte, la Luna, la Terra, ecc.) e iniziatico (animale = antenato-mitico =
iniziatore).
Come vanno
interpretati questi dati alla luce di quanto abbiamo appreso circa lo
sciamanismo cinese? Guardiamoci dal semplificare troppo e dallo spiegar tutto
con un unico schema. Non v'è dubbio che il bear
ceremonialism ha relazioni con la magia e la mitologia della caccia. Noi
sappiamo che lo sciamano contribuisce in modo decisivo ad assicurare
l'abbondanza della selvaggina e l'esito fortunato della caccia (previsioni
meteorologiche, cambiamenti del tempo, viaggi mistici presso la Grande Madre
delle Belve, ecc.). Non bisogna però dimenticare che i rapporti dello sciamano
(come, del resto, dell'«uomo primitivo» in genere) con gli
animali sono d'ordine spirituale e di una intensità mistica difficilmente
imaginabile per una mentalità moderna, desacralizzata. Indossare la pelle di un
animale cacciato equivaleva, per 1'«uomo primitivo», a divenire
quell'animale, a trasformarsi in animale. Si è visto che gli sciamani hanno
ancor oggi coscienza di potersi trasformare in animali. Non è il fatto del loro
indossare pelli di belve che importa. L'importante è ciò che essi provano, ciò
che essi realizzano travestendosi da animali. Vi son ragioni per credere che
questa trasformazione magica conduceva ad una «uscita da se stessi»
traducentesi assai spesso in una esperienza estatica.
Imitando le
mosse di un animale o rivestendone la pelle si faceva proprio un modo
superumano di essere. Non si trattava di regressione in una pura «vita
animalesca»: l'animale al quale ci si identificava era già
portatore di una mitologia (nella più antica iconografia cinese s'incontrano numerosi
motivi animaleschi e soprattutto ornitologici; molti di questi: motivi
iconografici ricordano i disegni dei costumi sciamanici; il costume dello
sciamano siberiano ha probabilmente subito l'influenza di certe idee
magico-religiose cinesi); esso era, di fatto, un Animale mitico, l'Antenato o
il Demiurgo. Divenendo questo animale mitico l'uomo si trasformava in qualcosa
di ben più grande e possente della sua individualità. È lecito pensare che
questa proiezione in un Essere mitico, centro, ad un tempo, della vita e del
rinnovamento universale, provocava l'esperienza euforica che, prima di portare
all'estasi, dava una sensazione di forza e faceva realizzare una comunione con
la vita cosmica. Basta ricordarsi della parte di modello esemplare che certi animali
hanno nelle tecniche mistiche taoiste per renderei conto della ricchezza
spirituale dell'esperienza «sciamanica» ancora adombrata dal ricordo degli
antichi Cinesi. Dimenticando i limiti e le false misure umane, nell'imitare
congruamente i modi degli animali e i loro passi, il loro respiro, le loro
grida, ecc., si ritrovava una nuova dimensione della vita: si trovava la
spontaneità, la libertà, la «simpatia» con tutti i ritmi cosmici, epperò la
beatitudine e l'immortalità.
Ci sembra che,
considerati secondo questa visuale, gli antichi riti cinesi cosi simili al bear ceremonialism lasciano trasparire
un loro valore mistico e ci permettono di capire come si potesse ottenere
l'estasi sia mediante l'imitazione coreografica di un animale, sia grazie ad
una danza che mimava un'ascensione: nell'un caso come nell'altro l'anima
«usciva da sé» e volava. Esprimere invece questo volo mistico come la «discesa»
di un dio o di uno spirito spesso non era che una pura quistione di parole.
Uno sciamanismo
fortemente commisto al lamaismo caratterizza la religione dei Monguor di
Si-ning, a nord-ovest della Cina, popolo che i Cinesi conoscevano sotto il nome
di T'u-jen, cioè «gente del paese». Presso i Mongoli, il lamaismo, fin
dal XVII secolo, ha tentato d'annientare lo sciamanismo. Ma la vecchia religione
mongola ha finito per assimilare gli apporti lamaisti senza perciò perdere
definitivamente il proprio carattere. Fino a questi ultimi tempi gli sciamani,
uomini e donne, avevano ancora una parte importante nella vita religiosa delle
tribù.
In Corea, ove lo
sciamanismo è attestato dall'epoca degli Han (cfr. Hentze), gli sciamani
indossano abiti femminili e sono meno numerosi delle sciamane. È difficile
precisare 1'«origine» dello sciamanismo coreano; è possibile che
comprenda elementi provenienti dal sud, ma la presenza di corna di cervo sul
berretto sciamanico dell'epoca Han indica l'esistenza di relazioni col culto
del cervo proprio degli antichi Turchi. Inoltre, il culto del cervo
caratterizza le culture di cacciatori e di nomadi in cui la sciamana non sembra
svolgere una parte importante. La prevalenza delle sciamane in Corea può essere
la conseguenza o d'un deteriorarsi dello sciamanismo tradizionale, o di
influenze meridionali.
Non si conosce
molto meglio la storia dello sciamanismo in Giappone, quantunque si disponga di
ampi ragguagli sulle pratiche sciamaniche moderne grazie, soprattutto, ai
lavori di Nakayama Taro e di Hori Ichirò. La conoscenza dei diversi aspetti e
fasi dello sciamanismo giapponese deve ancora attendere la pubblicazione della
grande opera di Masao Oka sulla storia culturale dell'antico Giappone. Quale lo
si conosce attualmente, lo sciamanismo giapponese è abbastanza differente dallo
sciamanismo in senso stretto, di tipo nord-asiatico o siberiano. È anzitutto
una tecnica di possessione da parte degli spiriti dei morti, praticata quasi
esclusivamente da donne. Secondo Eder, le principali funzioni delle sciamane
sono le seguenti: «1. Fan venire l'anima di un morto dall'aldilà. Nel
linguaggio popolare si parla allora di shinikuchi,
che può tradursi con «bocca d'un morto». Quando fan venire di lontano lo
spirito d'una persona vivente si parla di ikikuchi,
che significa «bocca d'un vivo», 2. Ragguagliano chi lo chiede sul
buono e cattivo avvenire; il termine popolare è allora kamikuchi, «bocca del dio». 3. Cacciano le malattie ed altri
mali e s'incaricano della purificazione religiosa. 4. Chiedono al loro dio il
nome del rimedio da utilizzare contro una malattia particolare. 5. Danno
ragguagli circa gli oggetti perduti. I servigi più frequentemente richiesti ad
una sciamana sono la chiamata dello spirito dei morti e dell'anima di persone
viventi lontano, e la predizione della buona e cattiva sorte. Le anime
richiamate dall'aldilà sono per lo più quelle di genitori, amanti e amici».
Un gran numero
di sciamane giapponesi sono cieche dalla nascita. Ai giorni nostri, la loro
«estasi» è fittizia e grossolanamente simulata. Mentre si crede che l'anima del
defunto si esprima attraverso la sua voce, la sciamana maneggia una collana di
perle o un arco. L'istruzione d'una futura sciamana si effettua sotto la
direzione d'una precettrice e dura da tre a sette anni. Termina col matrimonio
della ragazza col suo dio protettore. In certe regioni, l'iniziazione comprende
pure una prova fisica estenuante alla fine della quale la novizia cade a terra,
incosciente. La sua rianimazione è assimilata ad una «nascita» (tanjò) e la ragazza indossa un costume
nuziale. Il matrimonio mistico tra la sciamana e il dio protettore sembra
essere un costume piuttosto arcaico. Gli «dèi donne-spiriti» (mikogami) son già attestati nel Kojiki, nel Nihongi e in altre fonti antiche; sono dèi «nei quali una
donna-spirito (cioè, una sciamana) è ella stessa venerata come divina e, più
tardi, degli dèi nati dal matrimonio d'una donna-spirito con un dio. Queste
donne-spiriti son così chiamate "Madre di Dio" o "Santa
Madre". Nell'Engishiki, la lista
degli dèi venerati nei luoghi santi contiene una lunga lista di tali "dèi
donne-spiriti" (mikogami). Oltre
queste donne-spiriti che servono ufficialmente il loro dio nei luoghi santi,
v'erano delle "spose di una notte" (ichiya-tsuma) che officiavano a titolo privato e il cui compagno
era un dio errante (marebito) che
veniva a render loro visita. Come segno distintivo della loro posizione particolare,
queste ultime fissavano una freccia ornata di piume bianche al comignolo del
tetto della loro casa. Quando un dio vocava una donna a servirlo al suo altare,
costei recava un vaso da riso (meshibitsu,
per conservare caldo il riso dopo la cottura; a tavola, è da questo recipiente
che si serve il riso nelle ciotole) ed una padella, vale a dire utensili simili
a quelli che fanno parte del corredo d'una giovane sposa. Fino ad epoca
recente, un coito tra un sacerdote dell'altare e la donna-spirito faceva parte
del suo programma d'iniziazione: cosi il dio si faceva rappresentare».
Questo
matrimonio con gli dèi ricorda i costumi delle sciamane saora, però con questa
differenza, che in Giappone non si ritrova l'intensità dell'esperienza estatica
personale che tanto colpisce nelle ragazze saora. In Giappone, il matrimonio
col dio protettore sembra essere una conseguenza dell'istituzione piuttosto che
una fatalità personale. Del resto, certi elementi non quadrano con la struttura
della magia femminile, come, ad esempio, l'arco e il cavallo (sulle figurette a
testa di cavallo, cfr. Eder). Tutto ciò ci porta a pensare che ci si trovi in
presenza d'una fase ibrida e tardiva dello sciamanismo. D'altra parte, gli «dèi
donne-spiriti» (mikogami) e alcuni
dei rituali che li concernono possono essere avvicinati a tratti carattenstici
del matriarcato: donne sovrane di stati territoriali, donne capofamiglia,
matrimonio matrilocale, «matrimonio con un visitatore» (Besuchehe), clan matriarcale con esogamia di clan, ecc.
Sembra che Eder
non sia informato dell'importante studio di Haguenauer, Origines de la civilisation Japonaise. Benché nel primo volume
comparso l'autore non discuta particolarmente l'origine dello sciamanismo giapponese,
cita però un certo numero di fatti che, a suo giudizio, evidenziano delle
somiglianze con lo sciamanismo altaico: «Ciò che si sa, ad esempio, del
comportamento e del ruolo della strega nel Giappone antico, pur malgrado la
cura che i redattori degli Annali imperiali hanno posto nel far silenzio a suo
riguardo, parlando unicamente della sua rivale, la sacerdotessa-vestale, la mi-ko, che era invece salita di rango
tra i ritualisti della corte dello Yamato, autorizza infatti ad equipararla
alla sua collega coreana, la muday,
... ed alle donne-sciamano altaiche. La funzione essenziale di tutte queste
streghe consisteva nel far discendere (giapponese oro-su) un'anima nel suo supporto (pilastro sacro o qualcosa che lo
sostituisse) oppure nell'incarnare quest'anima per servire da tramite tra essa
ed i viventi, per poi licenziarla. Che un pilastro sacro sia servito per le
pratiche in questione risulterebbe dal fatto stesso che la parola basita
(colonna) è servita, in giapponese, da elemento specifico per contare gli
esseri sacri. D'altra parte, gli strumenti di lavoro della strega giapponese
erano gli stessi che impiegavano le sue colleghe del continente, e cioè il
tamburo, ... i sonagli, ... lo specchio, ... e la spada katana (altra parola d'origine altaica) le cui virtù
anti-demoniache sono illustrate in più modi nel folklore giapponese».
Bisognerà
attendere il seguito dell'opera di Haguenauer per sapere in quale stadio e per
qual mezzo lo sciamanismo altaico - istituzione quasi esclusivamente maschile -
divenne l'elemento costitutivo d'una tradizione religiosa specificamente
femminile. Né la spada, né il tamburo sono strumenti che appartengono
originariamente alla magia femminile. Il fatto che siano utilizzati da delle
sciamane indica che già facevano parte degli accessori di stregoni e sciamani.
Capitolo XIII: Miti, simboli e riti
paralleli
Le varie
ideologie sciamaniche hanno assimilato un certo numero di temi mitici e di
simbolismi magico-religiosi. Senza presumere di farne un inventario completo ed
ancor meno di intraprenderne uno studio esaustivo, non sarà senza interesse
ricordare qualcuno di questi miti e di questi simboli per mostrare quale sia
stata la loro adattazione e la loro rivalutazione nello sciamanismo.
Ci riferiremo all'opera
di Freda Kretschmar per tutto quel che concerne i miti del cane. A tale
riguardo, lo sciamanismo non ha apportato innovazioni: lo sciamano incontra il
cane funerario durante la sua discesa agli Inferni, come lo incontrano i
defunti o gli eroi che affrontano una prova iniziatica. Son soprattutto le
società segrete aventi per base una iniziazione guerriera - nella misura in cui
è lecito chiamar «sciamaniche» le loro estasi e le loro cerimonie frenetiche -
che hanno sviluppato e ri-interpretato il simbolismo e la magia del cane e del
lupo. Le credenze di certe società segrete cannibali e così pure, in generale,
tutto ciò che è licantropia, implicano la trasformazione magica dell'affiliato
in cane o in lupo. Anche gli sciamani possono trasformarsi in lupi, ma in un
senso diverso di quello proprio alla licantropia: inoltre, come abbiamo visto,
essi possono anche assumere molte altre forme animali.
Ben diversa è la
parte che ha il cavallo nella mitologia nel rituale sciamanico. Animale
funerario e psicopompo per eccellenza, il «cavallo» viene usato dallo sciamano
in vari contesti, come mezzo per pervenire all'estasi, cioè ad un'«uscita
da sé» che rende possibile il viaggio mistico. Questo viaggio mistico -
ripetiamolo - non ha necessariamente un itinerario infernale: il «cavallo» può
anche permettere agli sciamani di volare negli spazi, di raggiungere il Cielo.
Nella mitologia del cavallo non è il carattere infernale ma il carattere
funerario quello predominante: il cavallo è una imagine mitica della Morte e
per questo entra a far parte delle ideologie e delle tecniche dell'estasi. Il
cavallo porta il defunto nell'aldilà: attua la «rottura di livello»,
il passaggio da questo ad altri mondi. Per, tale ragione esso ha anche una
parte di primo piano in certi tipi di iniziazione maschile (nei «Männerbünde» o
«società di uomini»).
Il «cavallo» ossia il bastone a testa di cavallo - lo
abbiamo visto usare dagli sciamani buriati nelle loro danze estatiche. Abbiamo
rilevato che nelle sedute delle machi
araucane si pratica una danza consimile. Ma la diffusione della danza estatica
inforcando un bastone-cavallo è assai più vasta. Limitiamoci a qualche esempio.
Presso i Batachi quattro persone danzano su bastoni scolpiti a foggia di
cavallo quando si sacrifica il cavallo in onore degli antenati. A Giava e a
Bali il cavallo appare parimenti associato alla danza estatica. Presso i Garo
il «cavallo» fa parte del rituale del raccolto. Come corpo del cavallo si usano
tronchi d'albero di banano, e come testa e gambe dei bambù. La testa è montata
su di un bastone che un uomo tiene in modo che essa sia al livello del suo
petto. L'uomo esegue una danza selvaggia mentre il sacerdote, danzandogli di
fronte fa come se si rivolgesse al «cavallo».
Elwin ha
osservato un rito analogo presso i Muria di Bastar. Il gran dio gondo Lingo Pen
ha a sua disposizione parecchi «cavalli» di legno nel suo santuario di
Semurgaon. In occasione della festa del dio cotesti «cavalli» vengono inforcati
da medium e usati sia per provocare la trance
estatica che per scopi di divinazione. «A Metawand osservai per intere ore i
salti grotteschi di un medium che portava sulle spalle un cavallo di legno
rappresentante il dio del suo clan, e a Bandapal, mentre ci aprivamo una via
nella jungla per assistere alla Manka Pandum (rito nel quale vengono mangiati
dei manghi), un altro medium recando sulle spalle un cavallo imaginario, andò
di portante, caracollò, fece la ciambella e si lanciò qua e là per tre
chilometri davanti alla mia vettura che avanzava lentamente.»
Porta dio sulla schiena - mi si disse - e per diversi giorni di seguito non può
smettere di ballare». Ad uno sposalizio a Malakot ho visto un medium cavalcare
un curioso cavallo di legno; ne ho anche visto un altro, nel Sud, nella regione
di Dhurwa, ballare montando un cavallo di legno simile al precedente. In ambo i
casi se un qualcosa andava a turbare lo svolgimento della cerimonia il
cavaliere cadeva in trance e allora
poteva individuare la causa sovrannaturale del disordine».
In un'altra
cerimonia, il Laru Kaj dei Gondi Pardhan, i «cavalli del dio»
eseguono una danza estatica. Ricordiamo anche che diverse popolazioni aborigene
dell'India raffigurano i loro morti a cavallo: i Bhil, ad esempio, o i Korku,
che incidono su tavolette di legno figure di cavalieri e le depongono vicino
alle tombe. Presso i Muria i funerali sono accompagnati da canti rituali nei
quali vien raccontato che il morto giunge nell'aldilà su di un cavallo. Si
parla di un palazzo in mezzo al quale si trova un'altalena d'oro e un trono di
diamanti. Il morto vien portato fin là da un cavallo ad otto gambe. Ora, noi
sappiamo che il cavallo ottipedo è tipicamente sciamanico. Secondo una leggenda
buriate una giovane prende per secondo marito lo spirito ancestrale di uno
sciamano e in seguito a queste nozze mistiche una delle giumente della sua
scuderia partorisce un cavallo ad otto gambe. Il marito terrestre gli taglia
quattro gambe. La donna esclama: «Ahimè! Era il mio cavallino sul quale
cavalcavo come una sciamana!» e dispare, volando, per andare a stabilirsi in un
altro villaggio. In seguito essa divenne uno spirito protettore dei Buriati.
I cavalli
ottipedi o acefali appaiono attestati nei miti e nei riti delle «società
di uomini» sia germaniche che giapponesi. In tutti questi complessi culturali i
cavalli polipedi o i cavalli-fantasma hanno una funzione funeraria ed estatica
ad un tempo. È parimenti con la danza estatica - ma non necessariamente «sciamanica»
- che il cavallo di legno, 1'«hobby
horse»,
ha relazioni.
Ma anche quando il
«cavallo» non risulta formalmente attestato nelle sedute sciamaniche, esso vi è
simbolicamente presente per via dei crini di cavallo bianco che vi vengono
bruciati o della pelle di giumenta bianca sulla quale si siede lo sciamano.
Bruciar crini di cavallo equivale ad evocare l'animale magico che condurrà lo
sciamano nell'aldilà. Le leggende dei Buriati parlano dei cavalli che portano
gli sciamani morti alla loro nuova dimora. In un mito yakuta il «diavolo»
rovescia il suo tamburo, vi fa buchi col suo bastone e il tamburo si trasforma
in una giumenta a tre gambe che lo trasporta verso Oriente.
Basteranno
questi esempi per mostrare in che senso lo sciamanismo ha utilizzato la
mitologia e i nn equini: essere psicopompo e funerario, il cavallo facilita la trance, il volo estatico dell'anima
nelle regioni interdette. La «cavalcata» simbolica esprime l'abbandono del
corpo, la «morte mistica» dello sciamano.
Per importanza,
il mestiere del fabbro viene subito dopo la vocazione da sciamano. «Fabbri e
sciamani sono di uno stesso nido» dice un proverbio yakuta. «La donna di uno
sciamano è rispettabile, la donna di un fabbro è venerabile» è un altro di
questi proverbi. I fabbri hanno il potere di far guarire e perfino di predire
l'avvenire. Secondo i Dolgani gli sciamani non possono «divorare» l'anima dei
fabbri, perché questi la conservano nel fuoco; è invece possibile al fabbro
impadronirsi dell'anima di uno sciamano e farla bruciare nel fuoco. I fabbri, a
loro volta, sono perennemente minacciati dagli spiriti malvagi. Essi si trovano
condannati a lavorare continuamente, a maneggiare il fuoco, a fare un rumore
incessante per allontanare gli spiriti ostili.
Secondo i miti
degli Yakuti il fabbro ha ricevuto la sua arte dalla divinità «cattiva» K'daai
Maqsin, capo-fabbro dell'Inferno, che abita in una casa di ferro circondata da
scheggie metalliche. K'daai Maqsin è un maestro rinomato; è lui che raggiusta
le membra spezzate o amputate degli eroi. Accade che egli partecipi
all'iniziazione degli sciamani famosi dell'altro mondo: ne tempra le anime come
si tempra il ferro Ci si ricorderà della parte degli sciamani-fabbri («diavoli'»)
nei sogni iniziaùci dei futuri sciamani. Quanto alla casa di K' daai Maqsin, si
sa che nella sua discesa estatica agli Inferni di Erlik Khan lo sciamano
altaico ode rumori: metallici. Erlik incatena con ceppi di ferro le anime
catturate dai cattivi spiriti. Secondo le tradizioni dei Tungusi e degli
Oroccr, la testa del futuro sciamano è forgiata contemporaneamente agli ornamenti
del suo costume nella stessa fornace.
Secondo le
credenze buriate i nove figli di Boshintoj, fabbro celeste, scesero in terra
per insegnare agli uomini la metallurgia: i loro primi discepoli furono gli
antenati delle famiglie di fabbri (Sandschejew). Ad udire un'altra leggenda, lo
stesso Tangriblanc avrebbe inviato sulla terra Boshintoj coi suoi nove figli
per rivelare agli umani l'arte di lavorare i metalli. I figli di Boshintoj si
sposarono con fanciulle terrestri e per tal via divennero gli antenati dei
fabbri: nessuno può divenir fabbro se non è discendente di una di queste
famiglie. I Buriati conoscono parimenti dei «fabbri neri» che si
impiastricciano il viso con grasso per certe cerimonie: essi sono
particolarmente temuti dalla popolazione iibid., p. 540). Gli dèi e gli spiriti
protettori dei fabbri non si limitano ad aiutarli nel loro lavoro ma li
difendono anche contro i cattivi spiriti. I fabbri buriati hanno loro riti
speciali: sacrificano un cavallo aprendogli il ventre e strappandogli il cuore;
rito, questo, che è nettamente «sciamanico». L'anima del cavallo
va a raggiungere il fabbro celeste. Nove giovani assumono la parte dei nove
figli di Boshintoj e un uomo, che incarna lo stesso fabbro celeste, cade in
estasi e recita un monologo abbastanza lungo nel quale egli rivela come abbia
inviato, in illo tempore, i suoi
figli sulla terra per aiutare gli umani, ecc. Poi tocca il fuoco con la lingua.
A Sandschejew fu raccontato essere un antico costume che il personaggio
rappresentante Boshintoj prendesse del ferro fuso nella mano (I fabbri dogon
prendono in mano un ferro arroventato per richiamare la pratica dei primi
fabbri). Per conto suo egli, però, poté solo vedere toccare ferro fuso
arroventato col piede. In tali prove si possono riconoscere facilmente le
esibizioni sciamaniche: come i fabbri, gli sciamani sono dei «maestri del fuoco».
Ma i loro poteri magici sono sensibilmente superiori.
Popov ha
descritto la seduta di guarigione di un fabbro organizzata da uno sciamano. La
malattia era stata provocata dagli «spiriti» del fabbro. Dopo aver sacrificato
un toro nero a K'daai Maqsin, vennero intrisi di sangue tutti gli utensili del
fabbro. Sette uomini accesero un gran fuoco ove gettarono la testa del toro.
Nel frattempo lo sciamano dava inizio al suo incantesimo e si preparava al
viaggio estatico da K'daai Maqsin. I sette uomini ripresero la testa del toro,
la misero sull'incudine e la colpirono con dei martelli. Qui non abbiamo forse
un «forgiamento» simbolico della «testa» del fabbro corrispondente a
quello cui si danno i «demoni» nei sogni iniziatici del
futuro sciamano? Lo sciamano scende negli inferni di K'daai Maqsin, riesce ad
incarnare uno spirito che per sua bocca risponde alle domande che gli si fanno
circa la malattia e la cura da seguire.
Il «potere sul
fuoco» e soprattutto la magia dei metalli han dato dappertutto ai fabbri la
reputazione di stregoni temibili. Donde un'attitudine ambivalente nei loro
riguardi: essi sono ad un tempo disprezzati e venerati. Questo comportamento
antitetico si trova attestato soprattutto in Africa, in numerose tribù il
fabbro vien disprezzato e considerato come un paria, sino al punto che lo si
può uccidere impunemente, ma in altre tribù il fabbro è invece rispettato, è
assimilato al medicine-man e può
perfino divenire un capo politico. Tutto ciò si spiega con le reazioni
contraddittorie suscitate dai metalli e dalla metallurgia, oltre che con le
delivellazioni che distinguono le varie società africane: alcune hanno
conosciuto tardi la metallurgia e in contesti storici complessi. Ma quel che
qui ci importa è il fatto che anche in Africa i fabbri costituiscono talvolta
delle società segrete con rituali iniziatici specifici. In certi casi abbiamo
perfino una simbiosi fra i fabbri e gli sciamani o i medicine-men. La presenza
dei fabbri nelle società a base iniziatica («Mànnerbünde»)
risulta attestata presso gli antichi Germani e i Giapponesi. Relazioni analoghe
sono state constatate fra la metallurgia, la magia e i Fondatori di dinastie
nelle tradizioni mitologiche cinesi. Uguali rapporti, ma qui assai più
complessi, si possono presentire fra i Ciclopi, i Dactili, i Cureti, i Telchini
e la lavorazione dei metalli. Il carattere demoniaco, «àsurico s della
lavorazione dei metalli risulta bene in evidenza nei miti delle popolazioni
aborigene dell'India (Birhor, Munda, Oraon), i quali sottolineano l'orgoglio
del fabbro e la sua disfatta finale ad opera dell'Essere supremo il quale fa si
che egli resti bruciato nella sua stessa fucina.
I «segreti della
metallurgia» ci ricordano i segreti dell'arte che gli sciamani si trasmettono
per iniziazione: nell'uno come nell'altro caso ci troviamo di fronte ad una
tecnica magica di carattere esoterico. È per questo che, in genere, la
professione del fabbro è, come quella dello sciamano, ereditaria. Un'analisi
più approfondita dei rapporti storici esistiti fra lo sciamanismo e la
lavorazione dei metalli ci condurrebbe troppo lontano dal nostro tema. Qui,
importa e basta mettere in evidenza che, per via del «potere sul fuoco» che
essa implicava, la magia metallurgica ha assimilato numerosi prestigi
sciamanici. Nella mitologia dei fabbri troviamo una quantità di temi e di motivi
tratti dalle mitologie sia degli sciamani, sia degli stregoni in genere. Questo
stato di cose appare anche nelle tradizioni folkloristiche europee, quale pur
siano le loro origini: il fabbro vi viene spesso assimilato ad un essere
demoniaco e il Diavolo viene raffigurato come un essere che getta fiamme dalla
bocca. In una tale imagine ritroviamo, sia pure valorizzato negativamente, il
tema del potere magico sul fuoco.
Proprio come il
Diavolo nelle credenze dei popoli europei, gli sciamani non sono soltanto
«maestri del fuoco»: essi possono anche incarnare lo
spirito del fuoco fino al punto di emettere fiamme dalla bocca, dal naso e da
tutto il corpo durante le sedute. Un tale tipo di prodezze rientra nella
categoria delle meraviglie sciamaniche aventi relazione con la «signoria del
fuoco»,
meraviglie di cui abbiamo riferito numerosi esempi. Un potere magico del genere
contrassegna la «condizione da spirito ~~ realizzata dagli sciamani.
Noi abbiamo però
visto che la concezione del «calore mistico» non è monopolio dello sciamanismo,
ma appartiene alla magia in genere. Un gran numero di tribù «primitive»
concepisce il potere magico-religioso come qualcosa di «ardente» e lo designa
con termini che voglion dire «calore», «bruciatura», «assai caldo»,
ecc. A Dobù l'idea di calore si trova sempre associata a quella di stregoneria.
Lo stesso si osserva nelle Isole Rossel, dove il «calore» è l'attributo dei
maghi. Nelle Isole Salomone tutti coloro che posseggono un alto grado di mana
son considerati saka, cioè
«brucianti». Altrove, per esempio a Sumatra e nell'arcipelago malese, le parole
che designano il «calore» esprimono anche l'idea del male, mentre le nozioni di
beatitudine, di pace e serenità sono rese tutte da parole che significano la
frescura (Webster). È per questa ragione che numerosi maghi e stregoni bevono
acqua salata e mangiano piante estremamente piccanti: in tal modo vogliono
accrescere il loro «calore» interno. Un motivo analogo fa astenere gli stregoni
e le streghe dell'Australia dal consumare sostanze «brucianti»:
infatti essi posseggono già una quantità sufficiente di «fuoco interiore».
Non diverse
concezioni si sono conservate in religioni pìu complesse. Gli Indù dei nostri
giorni danno ad una divinità particolarmente possente gli epiteti di prakhar («assai calda»),
di jaival («ardente»), di jvalit («che possiede fuoco»). I
maomettani d'India credono che un uomo in comunicazione con Dio divenga
«bruciante» (Abbott). Qualcuno che opera miracoli vien chiamato sahib-josh, ove josh significa «bollente». Per estensione, ogni specie di persona o
di azione cui vien riferito un qualunque «potere» magico-religioso è
considerata come «bruciante».
A questo punto
si possono ricordare i bagni iniziatici di vapore delle confraternite mistiche
nord-americane e, in genere, la parte magica che ha il trasudare in ambienti
speciali surriscaldati durante il periodo di preparazione dei futuri sciamani
in numerose tribù nord-americane. La funzione estatica di simili procedimenti,
insieme all'intossicazione mediante fumo di canapa, l'abbiamo poi ritrovata fra
gli Sciti. Sempre nello stesso contesto, bisogna ricordare il tapas delle
tradizioni cosmogoniche e mistiche dell'India antica: il «calore interno» e il
trasudamento sono «creatori». Si potrebbero altresì citare
certi miti eroici indoeuropei, col loro furor,
la loro wut, il loro ferg: l'eroe irlandese Cuchulainn si
sente cosi «caldo» dopo la sua prima impresa (la quale, del resto, come Georges
Dumézil l'ha mostrato, equivale ad una iniziazione di tipo guerriero), che gli
si portano tre tini di acqua ghiaccia. «Fu messo nel primo tino ed egli infuse
nell'acqua un calore tale che l'acqua spezzò le tavole e i cerchi del tino come
si spezza un guscio di noce. Nel secondo recipiente l'acqua fece bolle grosse
come un pugno. Nel terzo tino il calore fu del grado che alcuni riescono a
sopportare ed altri no. Allora la collera (ferg)
del fanciullo dimìnuì e gli furono messe indosso le vesti». Lo stesso «calore
mistico»
- di tipo «guerriero» - distingue Batradz, l'eroe dei Narti.
Tutti questi
miti e queste credenze - è bene notarlo - sono la controparte dei rituali
iniziatici che implicano una effettiva «signoria sul fuoco». Proprio come lo
yogi himalayano o tantrico, il futuro sciamano eschimese o manchi deve
dimostrare la sua potenza magica con la resistenza ad un freddo terribile e col
far asciugare panni bagnati applicati al suo corpo nudo. D'altra parte tutta
una serie di prove imposte ai futuri maghi completano, in senso inverso, questo
dominio del fuoco. La resistenza al freddo resa possibile dal «calore mistico»
o l'insensibilità al fuoco denotano entrambe uno stato «superumano» raggiunto.
Spesso l'estasi
sciamanica non la si raggiunge che dopo il «riscaldamento». Come abbiamo avuto
occasione di notare, la dimostrazione dei potere fachirici in dati punti della
seduta deriva dalla necessità, in cui si trova lo sciamano, di autenticare lo
«stato secondo» ottenuto· mediante l'estasi. Egli si colpisce con dei coltelli,
tocca ferro arroventato a bianco, inghiotte carboni ardenti, perché non può
fare altrimenti: egli è tenuto a provare la nuova, superumana condizione, a cui
ha trovato accesso.
Vi è ogni
ragione per supporre che l'uso delle droghe sia stato favorito dalla ricerca
del «calore magico». Il fumo di certe erbe, la
«combustione» di certe piante avevano la virtù di accrescere il «potere».
L'intossicato si «riscalda»; l'ebbrezza delle droghe è
«bruciante». Ci si sforzò di ottenere il «calore interiore» che
conduce alla trance con mezzi
meccanici. È opportuno tener anche conto del valore simbolico
dell'intossicazione, inquantoché questa diviene l'equivalente di una «morte»:
l'intossicato abbandona il corpo e fa propria la condizione dei trapassati e
degli spiriti. L'estasi mistica essendo stata assimilata ad una «morte»
provvisoria o all'abbandono del corpo, ogni intossicazione conducente a tanto
fu integrata nell'insieme delle tecniche dell'estasi. Studiando più
accuratamente il problema si ha però l'impressione che l'uso delle droghe
attesti piuttosto la decadenza di una tecnica dell'estasi o la sua estensione a
popolazioni o gruppi sociali «inferiori». Comunque, abbiamo constatato che
l'uso delle droghe, del tabacco, ecc. è abbastanza recente nello sciamanismo
delle regioni dell'estremo Nord-Est.
Gli sciamani
siberiani, eschimesi, nord-americani volano. Dappertutto nel mondo agli
stregoni e ai medicine-men viene
attribuito questo potere magico. A Malekula gli stregoni (bwili) hanno la capacità di trasformarsi in animali, di preferenza
in polli e falchi, perché la facoltà di volare li fa rassomigliare a degli
spiriti. Lo stregone Marindo «va in una specie di capanna da lui costruita
nella foresta con foglie di palma e si orna parte del braccio e l'avambraccio
con le lunghe penne di un airone. Poi dà fuoco alla piccola abitazione, senza
abbandonarla... il fumo e le fiamme debbono sollevarlo in aria e egli, come un
uccello, volerà verso il luogo che vuole ...».
Questi tratti ci
ricordano il simbolismo ornitomorfo del costume degli sciamani siberiani. Lo
sciamano daiaco che scorta le anime dei defunti nell'altro mondo assume anche
lui forma di uccello. Abbiamo visto che il sacrificatore vedico giunto alla
sommità della scala stende le braccia come l'uccello le ali, ed esclama: «Ho
raggiunto il Cielo! ecc.». Lo stesso rito a Malekula: nel
punto culminante del sacrificio il sacrificatore allarga le braccia imitando il
falco e intona un canto in onore delle stelle. Secondo molte tradizioni il
potere di volare era stato proprio a tutti gli uomini dell'età mitica: tutti
potevano raggiungere il Cielo, sulle ali di un uccello favoloso o sulle nubi.
Inutile tornare sui vari dettagli del simbolismo del volo che abbiamo via via
indicati (piume, ali, ecc.). V'è solo da ricordare che una credenza universale
ampiamente attestata anche in Europa attribuisce agli stregoni e alle streghe
la facoltà di librarsi negli spazi. Si è visto che non diversi poteri magici
vengono attribuiti a yogi, a fachiri e ad alchimisti. Tuttavia v'è da precisare
che tali poteri presentano talvolta un carattere puramente spirituale: il
«volo» sta solo ad esprimere l'intelligenza, la comprensione delle cose segrete
o delle verità metafisiche. «L'intelligenza (manas) è più rapida degli uccelli» - dice il Rig-Veda (VI, 9, 5) e la Pamçavimça-Brahmana
(XIV, I, 13) precisa: «Chi capisce possiede ali».
Una analisi
adeguata del simbolismo del volo magico ci condurrebbe troppo lontano.
Rileveremo soltanto che due motivi mitici importanti han contribuito a
conferirgli la sua struttura attuale: la raffigurazione mitica dell'anima sotto
forma di un uccello e la concezione degli animali quali psicopompi. Negelein,
Frazer e Frobenius han raccolto un ricco materiale intorno a questi miti
dell'anima. A tale riguardo, per noi l'importante sta nel fatto che gli
stregoni e gli sciamani realizzano quaggiù e tutte le volte che lo vogliono 1'«uscita
dal corpo»,
cioè la morte che, sola, può trasformare in «uccello» ciò che resta di un
essere umano: gli sciamani e gli stregoni godono della condizione di «anime»,
di «disincarnati», mentre una tale condizione ai profani non si rende
accessibile che al momento della morte. Questo volo magico sta ad esprimere, ad
un tempo, l'autonomia dell'anima e l'estasi, il che spiega come questo mito
abbia potuto esser ripreso in complessi culturali così diversi: stregoneria,
mitologia del sogno, culti solari e apoteosi imperiali, tecniche dell'estasi,
simbolismo funerario, e via dicendo. Del pari, esso è in relazione col
simbolismo dell'ascensione (vedi più oltre). Cotesto mito dell'anima contiene
in germe tutta una metafisica dell'autonomia e della libertà spirituale
dell'uomo: è qui che va cercato il punto di partenza delle prime speculazioni
sull'abbandono volontario del corpo, sull'onnipotenza dell'intelletto, sulla
immortalità dell'anima umana. Una analisi dell'«imaginazione del
movimento» potrà mostrarci quanto la nostalgia del volo sia essenziale alla
psiche umana. Qui il punto fondamentale è che la mitologia e i riti del volo
magico propri agli sciamani e agli stregoni confermano e proclamano la
trascendenza di questi rispetto alla condizione umana: volando negli spazi in
forma di uccello o nella loro forma normale gli sciamani denunciano, in un
certo modo, la decadenza umana. Infatti abbiamo visto che numerosi miti
alludono ad un tempo primordiale nel quale tutti gli esseri umani potevano
salire nei Cieli scalando una montagna, salendo su di un albero o su di una
scala, volando con mezzi propri o, infine, lasciandosi portare da uccelli. La
decadenza dell'umanità impedisce ormai alla gran massa degli uomini di volare
in Cielo: solo la morte restituisce agli uomini - e nemmeno a tutti gli uomini
- la loro condizione primordiale; solo allora essi possono salire in Cielo,
volare come uccelli e via dicendo.
E senza portar
oltre, in questa sede, l'analisi di cotesto simbolismo del volo e della
mitologia dell'anima-uccello, vale ricordare ancora una volta che la concezione
dell'anima-uccello e, pertanto, l'identificazione del morto ad un uccello si
trovano già attestate nelle religioni del Vicino Oriente arcaico. Il Libro dei Morti egizio descrive il morto
come un falco che spicca il volo (c. XXVIII, ecc.) e in Mesopotamia i
trapassati furono raffigurati in forma di uccelli. Il mito corrispondente è
verosimilmente ancor più antico: sui monumenti preistorici d'Europa e d'Asia
l'Albero cosmico vien rappresentato con due uccelli sui suoi rami, uccelli che,
a parte il loro valore cosmogonico, sembrano esser stati anche simboli
dell'Anima-Antenato. Infatti ci si ricorderà che nelle mitologie
centro-asiatiche, siberiane e indonesiane, gli uccelli accovacciati sui rami
dell'Albero del Mondo rappresentano le anime degli uomini. Per il fatto che
possono trasformarsi in «uccelli», cioè grazie alla
loro condizione da «spiriti», gli sciamani sono capaci di
volare fino all'Albero del Mondo per riportarne delle «anime-uccelli».
L'uccello appollaiato su un bastone è un simbolo frequente negli ambienti
sciamanici. Lo si ritrova, ad esempio, sulle tombe degli sciamani yakuti. Un tàltos ungherese «aveva davanti alla
sua capanna un bastone o un piolo, e un uccello era appollaiato su tale
bastone. Egli inviava l'uccello dove doveva andare». Si vede già un uccello
appollaiato su un piolo nel celebre rilievo di Lascaux (uomo a testa d'uccello)
nel quale Horst Kirchner ha visto la rappresentazione di una trance sciamanica. Come che stiano le
cose, certo è che il motivo dell'«uccello appollaiato su un piolo» è
estremamente arcaico.
Da questi esempi
si vede che il simbolismo e le mitologie del «volo magico» oltrepassano lo
sciamanismo in senso stretto e gli sono anteriori: essi appartengono
all'ideologia della magia universale ed hanno una parte essenziale in molti
complessi magico-religiosi. Pertanto ci si spiega il fatto che tale simbolismo
e tutte queste mitologie siano state riprese nello sciamanismo: esse non
mettevano forse in rilievo e non rendevano più evidente la condizione
superumana degli sciamani, epperò, in ultima istanza, la loro libertà di
muoversi impunemente nelle tre zone cosmiche e di passare indefinitamente dalla
«vita» alla «morte» e viceversa, proprio come gli «spiriti»,
di cui essi fan propri i poteri miracolosi? Il «volo magico» dei
Sovrani rivela la stessa autonomia e la stessa vittoria sulla Morte.
A tale riguardo
ricordiamo che la levitazione dei santi e dei maghi si trova parimenti
attestata nelle tradizioni cristiane ed islamiche. L'agiografia cattolica ha
anzi registrato un buon numero di levitazioni e perfino di «voli»;
lo prova la rassegna recente fatta in proposito da Oliver Leroy. L'esempio più
famoso è quello di san Giuseppe da Copertino (1603-1663). Un testimone
descrisse la sua levitazione nel modo seguente: «Egli s'innalzò nello spazio in
mezzo alla chiesa volò come un uccello verso l'altare maggiore, e qui abbracciò
il tabernacolo». «Talvolta lo si vedeva anche volare ... sull'altare di san
Francesco e della Vergine del Grotello». Un'altra volta se ne volò su di
un olivo «restando in ginocchio per una mezz'ora su di un ramo che si vedeva
appena oscillare come se fosse stato un uccello ad esservisi posato sopra». In
un'altra occasione egli volò in estasi a circa due metri e mezzo dal suolo,
fino ad un mandorlo lontano una trentina di metri. Fra gli innumerevoli altri
esempi di levitazione o di volo di santi o di persone pie ricorderemo ancora le
esperienze di suor Maria di Gesù crocifisso, carmelitana araba: ella
s'innalzava assai in alto, fino alla cima degli alberi nel giardino del Carmelo
di Betlemme, «ma cominciava col tirarsi su aiutandosi con qualche ramo senza
restar sospesa del tutto nello spazio».
Il ponte e il
"passaggio difficile"
Come i defunti,
gli sciamani nel loro viaggio agli Inferni debbono attraversare un ponte. Al
pari della morte, l'estasi implica un «mutamento» dato figurativamente dal mito
nella forma di un passaggio pericoloso. Del che, abbiamo incontrato numerosi
esempi. Proponendoci di tornare in uno studio speciale su tale argomento, qui
ci limiteremo ad alcune osservazioni sommarie. Il simbolismo del ponte
funerario è universalmente diffuso e oltrepassa l'ideologia e la mitologia
sciamanica. Questo simbolismo è, da un lato, solidale col mito di un ponte - o
di un albero, di una liana, ecc; - che un tempo collegava la Terra col Cielo,
ponte grazie al quale gli umani comunicavano senza difficoltà con gli dèi;
dall'altro lato, esso è solidale col simbolismo iniziatico della «porta
stretta» o di un «passaggio paradossale», di cui già riferimmo qualche
esempio. Si tratta di un complesso mitologico i principali elementi costitutivi
del quale sarebbero i seguenti: a) in illo
tempore, nell'era paradisiaca dell'umanità, un ponte collegava la Terra e
il Cielo e si passava dall'una regione all'altra senza incontrare ostacoli,
perché non esisteva la morte; b) una volta interrottesi le comunicazioni facili
fra Cielo e Terra, il ponte lo si attraversa solo «in ispirito»,
cioè come morti o essendo in estasi; c) questo passaggio è difficile, in altri
termini: è disseminato di ostacoli e non tutte le anime riescono a superarlo; bisogna
affrontare demoni e mostri che vorrebbero divorare l'anima, oppure il ponte si
fa stretto come la lama di un rasoio al passaggio degli empi, ecc. - solo i
«buoni» e, in particolare, gli iniziati attraversano felicemente il ponte (gli
iniziati, in un certo modo, conoscevano già il cammino essendo passati
attraverso la morte e la resurrezione rituale); d) certi privilegiati riescono
tuttavia ad attraversarlo già da vivi, sia in estasi come gli sciamani, sia
«usando la forza», come certi eroi, sia, infine, «paradossalmente»,
per mezzo della «sapienza» o delI'inìzìazione - sul che torneremo fra un
istante.
Il punto
importante è, a tale riguardo, che si ritiene che numerosi rituali
«costruiscano» simbolicamente un «ponte» o una «scala», per la virtù stessa
del rito. Una tale idea appare attestata, per esempio, nel simbolismo del
sacrificio brahmanico (cfr. Taittiriya-Samhita,
VI, 5, 3, 3; VI, 5, 4 2; VII, 5; 8, 5, ecc.). Abbiamo visto che la corda che
collega le betulle cerimoniali vien chiamata proprio «ponte»
e simboleggia l'ascesa dello sciamano in Cielo. In certe iniziazioni giapponesi
i candidati son tenuti a costruire un «ponte» con sette freccie e
sette tavole. Questo rito ci riporta alle scale di coltelli sulle quali salgono
i candidati durante la loro iniziazione sciamanica e, in genere, ai riti
iniziatici di ascesa. Il senso di tutti questi riti di un «passaggio pericoloso»
è il seguente: si stabilisce una comunicazione fra la T erra e il Cielo
sforzandosi di restaurare la «comunicabilità» che era la legge in illo tempore. Da un certo punto di
vista, tutti i riti inizìatici tendono alla ricostruzione di un «passaggio»
verso l'aldilà e, pertanto, all'abolizione della rottura di livello che
caratterizza la condizione umana dopo la «caduta».
La vitalità del
simbolismo del ponte è parimenti dimostrata dalla parte che esso ha sia nelle
apocalissi cristiane ed islamiche, sia nelle tradizioni iniziatiche del
Medioevo occidentale. La Visione di San Paolo ci parla di un «ponte sottile
come un capella» che collega il nostro mondo col Paradiso. La stessa
figurazione s'incontra fra gli scrittori e i mistici arabi: il ponte è «più
stretto di un capello» e connette la Terra alle sfere astrali e al Paradiso;
proprio come nelle tradizioni cristiane, i peccatori non riescono ad
attraversarlo e precipitano nell'Inferno. La terminologia araba sottolinea
nettamente il carattere di «accesso difficile» proprio al ponte o al
«sentiero». Le leggende medievali riferiscono di un «ponte nascosto sotto le acque»
e di un ponte-sciabola sul quale l'eroe (Lancellotto) deve passare con mani e
piedi nudi. Questo ponte è «tagliente più di una falce» e il passaggio avviene
«con sofferenza ed agonia». Il carattere iniziatico della
traversata del ponte-sciabola è confermato da ancora un punto: prima di
avventurarsi su di esso Lancellotto scorge sull'altra riva due leoni, ma una
volta giunto non trova più che una lucertola: il «pericolo» scompare per il
fatto che la prova iniziatica è stata superata. Nelle tradizioni finniche, Väinämöinen e
gli sciamani che viaggiano in trance verso
l'altro mondo (Tuonela) devono attraversare un ponte fatto di spade e di
coltelli.
Il «passaggio
stretto» o «pericoloso» è un motivo corrente sia delle mitologie funerarie che
delle mitologie iniziatiche - la solidarietà ed anzi la coalescenza spesso
esistente fra le une e le altre essendo nota. Secondo le concezioni della Nuova
Zelanda il morto deve passare attraverso uno spazio angusto fra due demoni che
tentano di afferrarlo: se egli è «leggero» riesce a passare, ma se è «pesante»
cade e diviene preda dei demoni. «Leggerezza» o «rapidità» - come in tutti i
miti ove si tratta di passare «rapidissimamente» attraverso le mascelle di un
mostro - è sempre una figurazione simbolica dell'«intelligenza»,
della «saggezza», della «trascendenza» e, in ultima analisi,
dell'iniziazione. «Non è facile passare sulla lama affilata di un rasoio,
dicono i maestri per esprimere la difficoltà del cammino [che conduce alla
conoscenza suprema]» - si legge nella Katha
Upanishad (III, 14). Questa formula mette in luce il carattere iniziatico
della conoscenza metafisica. «Stretta è la porta e angusto il cammino che
conduce alla vita, pochi sono coloro che lo trovano» (Matteo, VII, 14).
Di fatto, il
simbolismo della «porta stretta» e del «ponte pericoloso» è dunque solidale col
simbolismo di ciò che abbiamo chiamato il «passaggio paradossale» perché esso
talvolta si presenta come una impossibilità o come una situazione senza uscita.
Ci si ricordi che i candidati sciamani o gli eroi di certi miti si trovano
talvolta in situazioni apparentemente disperate: debbono passare per dove
«notte e giorno s'incontrano» o trovare una porta in un muro, o salire in Cielo
attraverso uno spazio che si apre per un attimo, o passare fra due macine in continuo
movimento, fra due roccie che ad ogni istante si rinserrano, fra le mascelle di
un mostro e via dicendo. Come Coomaraswamy ha giustamente notato, tutte queste
imagini mitiche esprimono la necessità di trascendere i contrari, di abolire la
polarità che caratterizza la condizione umana, ove si voglia accedere alla
realtà ultima. «Colui che vuol trasportarsi da questo mondo nell'altro, o
tornare da questo, deve farlo nell'intervallo unidimensionale e atemporale che
separa forze apparentate ma contrarie, attraverso le quali si può passare solo
fulmineamente» (Coomaraswamy, Symplegades, p. 486). Nei miti questo passaggio
«paradossale» va appunto a sottolineare il fatto che chi riesce a realizzarlo
ha superato la condizione umana: è uno sciamano, un eroe o uno «spirito».
Effettivamente non si può realizzare il passaggio «paradossale» se non si è
«spiriti».
Basteranno
questi esempi per chiarire la funzione dei miti,
dei riti e dei simboli di «passaggio» nell'ideologia e nelle tecniche
sciamaniche. Attraversando estaticamente il ponte «pericoloso» che collega i
due mondi e col quale solo i morti possono misurarsi, lo sciamano per un lato
dimostra di essere «spirito» e non più essere umano, dall'altro cerca di
restaurare la «comunicabilità» che esisteva in illo tempore fra questo mondo e il Cielo. Quel che infatti gli
sciamani realizzano ai nostri giorni in estasi, allora, all'alba dei tempi,
tutti gli esseri umani erano capaci di realizzarlo in concreto: salivano al
Cielo e ridiscendevano senza dover ricorrere ad una trance. L'estasi torna ad attualizzare, provvisoriamente e per un
limitato numero di soggetti, lo Stato primordiale dell'intera umanità. A tale
riguardo l'esperienza mistica dei «primitivi» è un ritorno alle origini, una
regressione nel tempo mistico del paradiso perduto. Per lo sciamano in estasi
il Ponte o l'Albero, la Liana, la Corda e cosi via che all'alba dei tempi univa
la Terra al Cielo riacquista, per un istante, la sua realtà e la sua attualità.
La scala - Il cammino
dei morti - L'ascensione
Abbiamo
incontrati innumerevoli esempi di ascese sciamaniche in Cielo sotto specie di
ascesa dei pioli di una scala. Lo stesso mezzo viene usato per facilitare la
discesa degli dèi sulla terra e cosi pure per assicurare l'ascensione
dell'anima dei morti. Cosi nell'arcipelago indiano s'invita il dio del Sole a
discendere sulla terra per una scala a sette gradini. Presso i Daiachi di Dusun
il medicine-man, chiamato a curare un
malato, fissa in mezzo alla stanza una scala che raggiunge il tetto; è per
questa scala che scenderanno gli spiriti invitati dallo stregone a prender
possesso di lui. Certe tribù malesi conficcano nelle tombe dei pali che essi
chiamano «scale delle anime», senza dubbio per invitare i
defunti a lasciare la tomba e a volarsene in Cielo. I Mangari, tribù del Nepal,
usano una scala simbolica praticando nove tacche o gradini in un'asta che
conficcano nella tomba: questa scala serve al morto per salire in Cielo. I Russi
di Voronez fanno cuocere delle piccole scale di pasta in onore dei loro morti e
talora disegnano i sette cieli con sette incisioni. L'uso è passato anche ai
Ceremissi. Stesso costume tra i Russi siberiani.
Nei loro testi
funerari gli Egiziani hanno conservato l'espressione asken pet (asken = gradino) per significare che la scala messa a
loro disposizione da Ra per salire in cielo è una scala reale. «È stata
disposta per me la scala per veder gli dèi» - si legge nel Libro dei Morti egiziano. Gli dèi gli fanno una scala affinché,
servendosi di essa, salga in cielo» (Weitl). In numerose tombe delle dinastie
arcaiche e medievali son stati trovati amuleti raffiguranti una scala (maqet) o una scalinata. Figure analoghe
sono state trovate interrate nelle sepolture della frontiera del Reno.
Una scala (climax) a sette gradini è attestata nei
Misteri mithriaci e noi abbiam visto che il sacerdote-re Kosingas minacciava i
suoi sudditi di andar a trovare Hera per mezzo di una scala. Una ascensione
celeste a mezzo di un rito di salita su per una scala faceva probabilmente
parte dell'iniziazione orfica. In ogni caso il simbolismo dell'ascensione per
mezzo di una scala era conosciuto in Grecia.
W. Bousset già
da tempo ha ravvicinato la scala mithriaca a motivi orientali consimili e ha
indicato il simbolismo comune ad entrambi. Importa però mettere anche in luce
il simbolismo del «Centro del Mondo» implicitamente contenuto in tutte le
ascese celesti. Giacobbe sogna una scala la cui cima raggiunge il cielo e per
la quale «gli angeli del Signore salgono e scendono» (Genesi, XXVIII, 12). La pietra su cui Giacobbe si addormenta è un bethel e si trova «al centro del mondo»
perché è là che si realizzava il collegamento fra tutte le regioni cosmiche (non
dimentichiamo un altro tipo di ascensione celeste, quella del Sovrano o del
Profeta per ricevere dalle mani del Dio supremo il «libro celeste»,
motivo, questo, assai importante). Nella tradizione islamica Maometto vede una
scala che dal tempio di Gerusalemme («Centro» per eccellenza) sale fino
in Cielo, con angeli a destra e a sinistra: per tale scala le anime dei giusti
salivano verso Dio. Secondo altre tradizioni Maometto raggiunge il Cielo a
cavallo di un uccello: così il Libro
della Scala narra che egli fece il suo viaggio sul dorso di «una specie di
anitra più grande di un asino e più piccola di un mulo», guidato
dall'arcangelo Gabriele. Vedi, più su, i racconti analoghi circa santi
musulmani. «Volo magico», scalata, ascensione sono, del
resto, formule omologabili di un simbolismo e di una esperienza mistica che
restano identici. La scala mistica è abbondantemente attestata nella tradizione
cristiana: citiamo il martirio di Santa Perpetua e la leggenda di Sant'Olaf.
San Giovanni
Climaco usa il simbolismo della scala per esprimere le diverse fasi
dell'ascensione spirituale. Un simbolismo notevolmente analogo si trova nella
mistica islamica: l'ascesa dell'anima verso Dio implica l'ascesa obbligatoria
per sette gradi: pentimento, astinenza, rinuncia, povertà, pazienza, confidenza
in Dio, soddisfazione. Il simbolismo dei «gradini», delle «scale» e
delle «ascensioni» non ha cessato di esser sfruttato dalla mistica cristiana.
Dante vede nel cielo di Saturno una scala d'oro che sale vertiginosamente fino
all'ultima sfera celeste, scala sulla quale salgono le anime dei beati (Paradiso, XXI-XXII). San Giovanni della
Croce raffigura le tappe della perfezione mediante una difficile scala: la sua Salita del Monte Carmelo descrive gli
sforzi ascetici e spirituali sotto la forma dell'ascensione lunga e fastidiosa
di una montagna. In certe leggende dell'Europa orientale la Croce del Cristo
vien considerata come un ponte o una scala che serve al Signore per discendere
sulla terra e alle anime per salire verso di Lui. Sull'iconografia bizantina
della Scala del Cielo vedi Coomaraswamy. La scala a sette gradini si è
parimenti conservata nella tradizione alchemica: un codice rappresenta
l'iniziazione alchemica mediante una scala a sette gradini sulla quale salgono
uomini dagli occhi bendati; sul settimo gradino sta un uomo senza benda,
davanti ad una porta chiusa.
Il mito
dell'ascensione in Cielo mediante una scala è noto anche in Africa, in Oceania
e nell'America del Nord. Ma la scala non è che una delle numerose espressioni
simboliche dell'ascensione: si può raggiungere il Cielo grazie al fuoco o al
fumo, salendo su per un albero, scalando una montagna, arrampicandosi su per
una corda o una liana, utilizzando l'arcobaleno e anche un raggio solare, ecc.
Ricordiamo infine un altro gruppo di miti e di leggende aventi relazione col
tema dell'ascesa: la «catena di freccie». Un eroe sale in Cielo conficcando
una prima freccia nella volta celeste, la seconda nella prima e così via fino a
comporre una catena fra Cielo e Terra. Tale motivo lo si incontra in Melanesia,
nell'America del Nord e del Sud; è assente in Africa e in Asia. L'arco essendo
sconosciuto in Australia, la parte che esso ha nel mito qui passa ad una lancia
cui è attaccato un lungo lembo di stoffa; dopo che la lancia è stata conficcata
nella volta celeste, l'eroe giunge fin là grazie a questa striscia.
Occorrerebbe un
intero volume per esporre in modo adeguato questi motivi mitici e tutto ciò che
essi implicano nel dominio del rito. Preciseremo soltanto che stessi itinerari
valgono sia per gli eroi mitici, sia per gli sciamani (gli stregoni, i
medicine-meni) sia per certi morti privilegiati. Qui non dobbiamo studiare il
problema, assai complesso, della varietà degli itinerari nel post-mortem nelle diverse religioni.
Rileviamo solo che per certe tribù, da considerarsi fra le più arcaiche, i
morti vanno in Cielo, ma che la generalità delle popolazioni dette «primitive»
conosce per lo meno due itinerari del post-mortem:
uno celeste per gli esseri privilegiati (i capi, gli sciamani, gli «iniziati»)
e uno orizzontale o infernale per il resto degli umani. Cosi un certo numero di
tribù australiane - i Narrinyeri, i Dieri, i Buandik, i Kurnai e i Kulin -
crede che i morti si slancino verso il Cielo; secondo i Kulin essi
ascenderebbero lungo i raggi del sole che tramonta. le tribù australiane più arcaiche sarebbero quelle del sud-est del
continente, vale a dire precisamente quelle in cui si nota una più salda concezione funerario-celeste (in
relazione, senza dubbio, con le credenze in un Essere supremo di struttura
uranica). Al contrario, le tribù del centro dell'Australia - ove predomina una
concezione funeraria c orizzontale in relazione col culto degli antenati e il
totemismo - sarebbero, dal punto di vista etnologico, le meno «primitive». Ma
nel centro dell'Australia si pensa che i morti infestino i luoghi che già
furono ad essi familiari; altrove, si ritiene che essi si dirigano verso certe
regioni dell'Ovest.
Per i Maori
della Nuova Zelanda l'ascensione delle anime è lunga e difficile, perché vi
sono fino a nove cieli e solo nell'ultimo risiedono gli dèi. Il sacerdote usa
mezzi vari per propiziare questo viaggio: canta e, nel fare ciò, accompagna
magicamente l'anima fino in cielo; nel contempo mediante un rito speciale cerca
di separare l'anima dal cadavere e di proiettarla verso l'alto. Quando è un
capo che muore, il sacerdote e i suoi assistenti fissano delle penne di uccello
all'estremità di un bastone e cantano alzando a poco a poco il bastone
nell'aria. Notiamo che anche in questo caso solo dei privilegiati 'salgono in
cielo; il resto dei mortali se ne va attraverso l'oceano o alla volta di una
regione sotterranea.
Comprendendo in
una veduta d'insieme tutti i miti e i riti che abbiamo succintamente enumerati
si è colpiti nel constatare che essi hanno in comune un'idea dominante e cioè
che la comunicazione fra il Cielo e la Terra è realizzabile - o lo fu in illo tempore - grazie ad un dato mezzo
fisico: ponte, scala, liana, corda, arcobaleno, «catena di freccie»,
montagna, ecc. Tutte queste figurazioni simboliche della connessione fra Cielo
e Terra non sono che varianti dell'Albero del Mondo o dell'Axis Mundi. In un altro capitolo abbiamo visto che il mito è il
simbolismo dell'Albero Cosmico implica l'idea di un «Centro del Mondo»,
di un punto di collegamento fra Terra, Cielo e Inferno. Del pari, abbiamo
constatato che il simbolismo del «Centro», pur avendo una parte essenziale
nell'ideologia e nelle tecniche sciamaniche, è ben più diffuso dello stesso
sciamanismo. Il simbolismo del «Centro del Mondo», a sua volta, è
solidale col mito di un'epoca primordiale nella quale le comunicazioni fra il
Cielo e la Terra erano non solo possibili, ma facili e alla portata di ognuno.
I miti che abbiamo elencato si riferiscono generalmente all'illud tempus primordiale, ma alcuni di
essi alludono ad una ascensione celeste realizzata da un Eroe, da un Sovrano o
da uno Stregone dopo l'interruzione delle comunicazioni; in altri termini, essi
postulano la possibilità, per certi eletti o privilegiati, di risalire
all'origine dei tempi, di ritrovare l'istante mitico e paradisiaco di prima
della «caduta», cioè di prima della rottura delle comunicazioni fra
Cielo e Terra.
È a questa
categoria di eletti o di privilegiati che appartengono gli sciamani: essi però
non sono i soli a poter volare in Cielo o a pervenirvi per mezzo di un albero,
di una scala e simili; altri privilegiati possono rivaleggiare con essi: i
sovrani, gli eroi, gli iniziati. Gli sciamani si distinguono da queste altre
categorie di privilegiati per via della loro tecnica specifica, che è l'estasi.
L'estasi sciamanica, come si è visto, può esser considerata come il ricupero
della condizione umana di prima della «caduta» - in altri termini: essa
riproduce una «situazione» primordiale accessibile al resto degli umani
unicamente mediante la morte (giacché le ascensioni in Cielo mediante dei riti
- si veda il caso del sacrificatore dell'India vedica - sono simboliche, non
concrete come quelle degli sciamani). Benché l'ideologia dell'ascensione
sciamanica sia quanto mai coerente e solidale con le concezioni mitiche ora
passate in rassegna («Centro del Mondo», interruzioni delle comunicazioni,
decadenza dell'umanità, ecc.), pure abbiamo incontrato numerosi casi di
pratiche sciamaniche aberranti: intendiamo riferirei soprattutto ai mezzi
rudimentali e meccanici per ottenere la trance
(droghe, danze fino allo spossamento, «possessione», ecc.) forse a causa
degli aspetti aberranti della trance sciamanica
che Schmidt considerava l'estasi come attributo esclusivo degli sciamani «neri».
Poiché, secondo la sua interpretazione, lo sciamano «bianco» non
raggiungeva l'estasi, Schmidt non lo considerava come «un vero sciamano»
e proponeva di chiamarlo «servitore del cielo». Secondo ogni probabilità,
Schmidt svalutava l'estasi solo perché, da buon razionalista, non poteva far
soverchio credito ad un'esperienza religiosa implicante la «perdita della
coscienza. Ci si può chiedere se, a parte le spiegazioni «storiche» che si
potrebbero trovare per coteste tecniche aberranti (decadenza per via di
influenze culturali esterne, ibridazione, ecc.), esse non possano essere anche
interpretate su di un altro piano. Ad esempio, ci si può domandare se l'aspetto
aberrante della trance sciamanica non
sia dovuto al fatto che lo sciamano si sforza di sperimentare in concreto un
simbolismo e una mitologia che, per la loro stessa natura, non sono
«sperimentabili» sul piano «concreto»; se, in una parola, il desiderio
di compiere ad ogni prezzo e con ogni mezzo un'ascensione in concreto, un
viaggio mistico, e ad un tempo reale, nel Cielo, non abbia condotto alle trance aberranti che abbiamo incontrato;
se, infine, questi comportamenti non siano la conseguenza inevitabile del
desiderio esasperato di «vivere», cioè di «sperimentare» sul
piano carnale, ciò che, nell'attuale condizione umana, non è più accessibile se
non sul piano dello «spirito». Ma noi preferiamo lasciar aperto
questo problema che, del resto, va oltre il quadro della storia delle religioni
e sbocca nel dominio della filosofia e della teologia.
La formazione dello
sciamanismo nord-asiatico
Ci si ricorderà
che la parola «sciamano» deriva, attraverso il russo, dal tunguso šaman.
La spiegazione di questo termine in base al pali samana (sanscrito: çramana)
- servendo da intermediario il cinese cha-men,
semplice trascrizione della parola pali - accettata dalla gran parte degli
Orientalisti del XIX secolo, era stata tuttavia messa in dubbio già di buona
ora (Schott nel 1846, Dordji Banzarov nel 1846) ed ha trovato anche
successivamente degli oppositori in Németh nel 1914 e in Laufer nel 1917. Questi
studiosi hanno creduto di poter dimostrare l'appartenenza del vocabolo tunguso
al gruppo delle lingue turco-mongole in base a certe corrispondenze fonetiche:
il k' iniziale del turco arcaico
sviluppandosi in tartaro in k, in
ciukcio in j, in yakuto in x (spirante sorda, come il tedesco ach), in mongolo in ts, c e nel
manciù-tunguso in s o š, il
tunguso šamen
sarebbe l'equivalente fonetico esatto del turco-mongolo kam (qam) che designa
appunto lo «sciamano» propriamente detto nella gran parte delle lingue turche.
Ramstedt ha però
dimostrato l'insufficienza della legge fonetica cui si è riferito il Németh.
D'altra parte, la scoperta di parole analoghe in tocarico (samane = monaco buddhista) e in sogdiano (šmn
= saman) sembra riproporci l'ipotesi
dell'origine indù di questo termine. Pur senza pronunciarci sull'aspetto
linguistico del problema e pur tenendo conto della difficoltà che s'incontra
nello spiegare la migrazione di questo vocabolo indiano dall'Asia centrale fino
all'Asia estremo-orientale, rileveremo che la quistione delle influenze indiane
sulle popolazioni siberiane va posta nel suo complesso, utilizzando dati sia
etnografici, sia storici.
È quel che ha
fatto Shirokogorov nei riguardi dei Tungusi in una serie di lavori di cui cercheremo
di riassumere i risultati e le conclusioni generali. La parola shaman - nota dunque Shirokogorov -
sembra esser estranea alla lingua tungusa. Il punto piri importante è però che
il fenomeno dello sciamanismo presenta elementi di origine meridionale, in
ispecie buddhistici (lamaisti). In effetti il buddhismo penetrò assai avanti
nell'Asia nord-orientale: nel IV secolo in Corea, nella secondo metà del primo
millennio fra gli Uiguri, nel XIII secolo fra i Mongoli, nel XV secolo nella
regione dell'Amur (presenza di un tempio buddhista all'imboccatura del fiume
Amur). La gran parte dei nomi degli spiriti (burkhan) dei Tungusi è stata presa dai Mongoli e dai Manciù i
quali, a loro volta, li avevano ricevuti dal lamaismo. Nel costume, nel tamburo
e nelle pitture degli sciamani tungusi Shirokogorov ha rinvenuto influenze
moderne. Inoltre i Manchi affermano che lo sciamanismo è apparso fra di loro
verso la metà dell'XI secolo ma che non si è diffuso che sotto la dinastia Ming
(dal XIV al XVII secolo). I Tungusi del Sud, d'altra parte, pretendono che il
loro sciamanismo derivi dai Manchi e dai Dahuri. Infine i Tungusi del Nord
appaiono influenzati dai loro vicini del Sud, cioè dagli Yakuti. Che
l'apparizione dello sciamanismo e la diffusione del buddhismo in queste
contrade dell'Asia settentrionale coincidano, Shirokogorov crede di poterlo
dimostrare col fatto che lo sciamanismo è fiorito in Manciuria fra il XII e il
XVII secolo, in Mongolia prima del XIV secolo, fra i Kirghisi e gli Uiguri
probabilmente fra il VII e l'XI secolo, cioè un po' prima del riconoscimento
ufficiale del buddhismo (come lamaismo) da parte di tali popolazioni.
L'etnologo russo ricorda inoltre la presenza di alcuni elementi etnografici di
origine meridionale: la serpe (in certi casi, il boa constrictor), che figura nell'ideologia e nel costume rituale
dello sciamano, non s'incontra nelle credenze religiose dei Tungusi, dei
Mancìù, dei Dahuri ecc. e presso alcuni di questi popoli lo stesso animale è
sconosciuto. Il tamburo sciamanico - il cui centro di diffusione secondo lo
studioso russo cadrebbe nella regione del lago Baikal - ha una parte di
prim'ordine nella musica religiosa lamaista, come del resto anche lo specchio
di rame, d'origine parimenti lamaista, divenuto così importante nello sciamanismo
che si può si «sciamanizzare» senza il costume e il tamburo, ma non senza lo
specchio. Certi ornamenti della testa deriverebbero anch'essi dal lamaismo.
In conclusione,
Shirokogorov considera lo sciamanismo tunguso come un fenomeno relativamente
recente che sembra essersi diffuso da Occidente ad Oriente e da Sud a Nord.
Esso comprende molti elementi presi direttamente dal buddhismo. «Lo sciamanismo
ha radici profonde nel sistema sociale e nella psicologia della filosofia
animista, caratteristica dei Tungusi e di altri sciamanisti. Ma è parimenti
vero che lo sciamanismo nella sua forma attuale è uno degli effetti della penetrazione
del buddhismo fra i gruppi etnici dell'Asia nord-orientale. Nella sua grande
sintesi The psychomental complex of the
Tungus, Shirokogorov si limita alla formula: «Lo sciamanismo stimolato dal
buddhismo». Questo fenomeno di stimolamento si può osservare ancor oggi in
Mongolia: i lama consigliano agli squilibrati di divenire sciamani e talvolta
un lama si fa sciamano e usa degli «spiriti» degli sciamani. Non
bisogna dunque stupirsi se i complessi culturali tungusi sono saturi di
elementi presi dal buddhismo e dal lamaismo. La coesistenza sciamanismo-lamaismo
si riscontra, del resto, in altri popoli asiatici. Ad esempio, fra i Tuvani, in
molte yurte, perfino in quella dei lama, accade di trovare gli éréni sciamanici, difensori contro lo
spio rito malvagio, accanto alle imagini del Buddha.
Noi siamo
completamente d'accordo circa la formula di Shirokogorov: «lo sciamanismo
stimolato dal buddhismo». In effetti, le influenze
meridionali hanno modificato ed arricchito lo sciamanismo tunguso, che però non
va considerato come una creazione del buddhismo. Come lo nota lo stesso
Shirokogorov, prima della penetrazione del buddhismo la religione dei Tungusi
era dominata dal culto di Buga, Dio del Cielo. Un altro elemento che vi aveva
una certa importanza era il rituale dei morti. Se non esistevano, fra i
Tungusi, «sciamani» nel senso attuale del termine, pure esistevano dei
sacerdoti e dei maghi specializzati nei sacrifici offerti a Buga e nel culto
dei morti. Shirokogorov rileva che oggi in tutte le tribù tunguse gli sciamani non
partecipano ai sacrifici in onore del Dio celeste; quanto al culto dei morti,
noi abbiam visto che gli sciamani vi sono invitati solo in casi eccezionali, ad
esempio, quando il defunto non vuol lasciare la terra e deve esser condotto
fino agli Inferni per mezzo di una seduta sciamanica. Se è vero che gli
sciamani tungusi non intervengono nei sacrifici offerti a Buga, non è men vero
che nelle sedute sciamaniche si può sempre osservare un certo numero di
elementi da considerarsi celesti: del resto, il simbolismo dell'ascensione si
trova ampiamente attestato fra i Tungusi. Può darsi che questo simbolismo,
nella forma attuale, sia stato preso dai Buriati e dagli Yakuti, ma ciò non
prova affatto che i Tungusi non lo conoscessero prima di esser entrati in
contatto con i loro vicini del Sud: l'importanza religiosa del Dio celeste e
l'universalità dei miti e dei riti d'ascensione nell'estremo Nord della Siberia
e nelle regioni artiche ci fanno anzi supporre proprio il contrario. La
conclusione che ci crediamo in diritto di trarre circa la formazione dello
sciamanismo tunguso sarebbe la seguente: le influenze lamaiste si sono
manifestate soprattutto nell'importanza che si è finito per accordare agli
«spiriti» e nella tecnica usata per dominare e incorporare questi «spiriti».
Potremmo dunque dire che nella sua forma attuale lo sciamanismo tunguso appare
fortemente influenzato dal lamaismo: ma si ha il diritto di considerare lo
sciamanismo asiatico e siberiano nel suo complesso come il risultato di tali
influenze sino-buddhiste?
Prima di
rispondere a questa domanda ricordiamo alcuni risultati del presente lavoro.
Abbiamo potuto constatare che l'elemento specifico dello sciamanismo non è
l'incorporazione degli «spiriti» da parte dello sciamano,
ma l'estasi che permette l'ascesa in Cielo o la discesa agli Inferni:
l'incarnarsi degli spiriti e la «possessione» da parte degli spiriti
sono fenomeni universalmente diffusi che non appartengono necessariamente allo
sciamanismo in senso stretto. Da questo punto di vista l'attuale sciamanismo
tunguso non può esser considerato come una forma «classica» di sciamanismo,
proprio per via dell'importanza capitale che vi si accorda all'incorporazione
degli «spiriti» e della modesta parte che vi ha l'ascensione celeste. Ora,
seguendo Shirokogorov, noi abbiamo visto che proprio l'ideologia e la tecnica
messa in opera per dominare e incorporare gli «spiriti» - cioè l'apporto
meridionale, lamaista - hanno dato allo sciamanismo tunguso il suo aspetto
odierno. Di conseguenza, siamo autorizzati a considerare questa forma moderna
di sciamanismo tunguso come una ibridazione dell'antico sciamanismo
nord-asiatico; del resto, come si è visto, i miti ci parlano ampiamente della
decadenza attuale dello sciamanismo e tali miti li incontriamo tanto presso i
Tartari dell'Asia centrale quanto presso le popolazioni dell'estremo Nord-Est
della Siberia.
Quanto alle
influenze del buddhismo (come lamaismo), decisive per quel che concerne lo
sciamanismo tunguso, esse si sono fatte largamente valere anche presso i
Buriati e i Mongoli. Abbiamo ripetutamente indicato i segni di tali influenze
indiane nella mitologia, nella cosmologia e nell'ideologia religiosa dei
Buriati, dei Mongoli e dei Tartari. Soprattutto il buddhismo ha servito di
veicolo per l'apporto religioso dell'India nell'Asia centrale. Ma qui è
necessario fissare un punto: le influenze indiane non sono state né le prime né
le sole influenze meridionali irradiatesi nell'Asia centrale e settentrionale.
A partir dalla più alta preistoria le culture meridionali e più tardi il Vicino
Oriente antico hanno influenzato tutte le culture dell'Asia centrale e della
Siberia. L'età della pietra delle regioni circumpolari dipende dalla preistoria
dell'Europa e del Vicino Oriente. Le civiltà preistoriche e protostoriche della
Russia settentrionale e dell'Asia del Nord sono fortemente influenzate dalle
civiltà paleo-orientali.
Etnologicamente
bisogna considerare tutte le culture dei nomadi come tributarie delle scoperte
fatte dalle civiltà agricole e urbane; indirettamente, l'irradiamento di queste
ultime si è portato molto lontano nel Nord e nel Nord-Est. E questo
irradiamento, iniziatosi dalla preistoria, doveva continuarsi fino ai nostri
giorni. Si è vista l'importanza che le influenze indo-iraniche e mesopotamiche
hanno avuta nella formazione delle mitologie e delle cosmologie dell'Asia
centrale e della Siberia. Termini iranici son stati accertati fra gli Ugri, fra
i Tartari e perfino fra i Mongoli. I contatti spirituali e le influenze
reciproche fra la Cina e l'Oriente ellenistico sono, del resto, ben noti. E, a
sua volta, la Siberia ha approfittato di questo scambio culturale: le cifre
usate dalle varie popolazioni siberiane derivano, indirettamente, tanto da Roma
che dalla Cina. Le influenze della civiltà cinese giungono fino all'Ob e allo
Jenissei.
A tali
prospettive storico-etnologiche vanno riportate le influenze meridionali
esercitatesi sulle religioni e le mitologie dei popoli dell'Asia centrale e
settentrionale. Quanto allo sciamanismo propriamente detto, si è già visto
quali siano stati gli effetti di tali influenze, soprattutto sulle tecniche
magiche. Il costume e il tamburo sciamanico hanno parimenti subito influenze
meridionali. Ma lo sciamanismo, nella sua struttura e nel suo insieme, non lo
si può considerare una creazione di questi apporti meridionali. I documenti
raccolti ed interpretati nella presente opera ci mostrano che l'ideologia e le
tecniche specifiche dello sciamanismo appaiono attestate in culture arcaiche,
nei riguardi delle quali sarebbe ben difficile ammettere l'esistenza di
influenze paleo-orientali.
Basta ricordare,
da un lato, che lo sciamanismo dell'Asia centrale è solidale con la cultura
preistorica dei cacciatori siberiani e, d'altra parte, che troviamo tecniche ed
ideologie sciamaniche nelle popolazioni primitive d'Australia, di Malesia, dell'America
del Sud e del Nord, e in altre regioni ancora.
Le ricerche
recenti han messo in chiara evidenza elementi sciamanici nella religione dei
cacciatori paleolitici. Kirchner ha interpretato il celebre rilievo di Lescaux
come una rappresentazione d'una trance
sciamanica. Lo stesso autore ritiene che i «Kommandostabe» - misteriosi oggetti
trovati in stazioni preistoriche - siano bacchette da tamburo. Se si accetta
questa interpretazione, ciò significa che gli stregoni preistorici usavano
tamburi paragonabili a quelli degli sciamani siberiani. A questo proposito, può
essere interessante rilevare che si son trovate bacchette da tamburo in osso
nell'isola di Oleny, nel Mar di Barents, in una stazione datata al 500 circa
a.C. Finalmente, Narr ha riconsiderato il problema dell'«origine» e della
cronologia dello sciamanismo nel suo importante studio Bärenzeremoniell und Schamanismus in der Alteren
Steinzeit Europas. Egli mette in evidenza
l'influenza delle nozioni di fertilità (statuette femminili o «Veneri») sulle
credenze religiose dei cacciatori dell'Asia settentrionale; ma questa influenza
non ha spezzato la tradizione paleolitica. Le sue conclusioni sono le seguenti:
i crani e gli ossi d'animali che si son trovati nelle stazioni del paleolitico
europeo (da prima di 50.000 a circa 30.000 anni a.C.) possono essere
interpretati come offerte rituali. È probabile che, pressappoco nella stessa
epoca, ed in relazione con gli stessi riti, le concezioni magico-religiose del
ritorno degli animali in vita dal nucleo della loro ossatura si siano
cristallizzate; appunto in questo «Vorstellungswelt» affondano le
radici del culto del'orso d'Asia e d'America settentrionale. Di li a poco,
probabilmente circa 25.000 anni a.C., l'Europa fornisce prove dell'esistenza
delle più antiche forme di sciamanismo (Lascaux) con la rappresentazione
plastica dell'uccello, dello spirito protettore e dell'estasi.
Tocca allo
specialista giudicare della validità della cronologia proposta da Narr. Quel
che sembra certo, è l'antichità del rituale e del simbolismo «sciamanico».
Bisognerà anche determinare se i documenti messi in luce dalle scoperte preistoriche
rappresentano le prime espressioni d'uno sciamanismo in statu nascendi o se sono unicamente i primi documenti di cui
oggi si disponga concernenti un complesso religioso più antico che, tuttavia,
non ebbe manifestazioni «plastiche» (disegni, oggetti rituali) prima del
periodo di Lascaux.
Per rendersi
conto della formazione del complesso sciamanico nell'Asia centrale e
settentrionale non bisogna perder di vista due elementi essenziali del
problema: da un lato, l'esperienza estatica come tale, cioè come fenomeno
originario; dall'altro, l'ambiente storico-religioso nel quale questa
esperienza estatica si inserisce e l'ideologia che, in ultima analisi, va a
convalidarla. Abbiamo parlato dell'esperienza estatica come di un «fenomeno
originario» perché non v'è ragione alcuna per considerarla il prodotto di un
certo momento storico, cioè un fenomeno provocato da una data forma di civiltà:
noi piuttosto incliniamo a considerarla come costitutiva della condizione
umana, epperò conosciuta anche dall'umanità arcaica nella sua totalità. Ciò che
può essersi modificato e mutato con le varie forme di cultura e di religione è
solo l'interpretazione e la valorizzazione dell'esperienza estatica. Ora, quale
era la situazione storico-religiosa dell'Asia centrale e settentrionale,
nell'area ove più tardi lo sciamanismo doveva cristallizzarsi nei termini di un
complesso autonomo e specifico? In tali regioni fin dai tempi più remoti appare
attestata l'esistenza della fede in un Essere supremo di struttura celeste che,
del resto, morfologicamente, corrisponde a tutti gli altri Esseri supremi
uranici delle religioni arcaiche. Il simbolismo dell'ascensione con tutti i
riti e i miti che ne dipendono deve esser messo appunto in relazione col culto
degli Esseri supremi celesti: si sa che 1'«altezza» fu, come tale,
santificata, che numerosi dèi supremi delle popolazioni arcaiche ebbero il nome
di «Colui d'in alto», di «Altissimo», di «Colui del
Cielo» o semplicemente di «Cielo», Questo simbolismo dell'ascensione
e dell'«elevazione»
conserva il suo valore e la sua attualità religiosa anche dopo 1'«allontanarsi»
dell'Essere supremo celeste: perché si sa che gi Esseri supremi perdono a poco
a poco la loro attualità nel culto soppiantati da figure e da forme religiose
più «dinamiche» e più «familiari» (gli dèi della tempesta e della fecondità, i
demiurgi, le anime dei morti, le Grandi Dee, ecc.). Il complesso
magico-religioso che si è presa l'abitudine di chiamare matriarcato accentua
ulteriormente la trasformazione del Dio celeste in un deus otiosus. La
diminuzione o la stessa perdita totale dell'attualità religiosa degli Esseri
supremi uranici trova talvolta espressione in miti che alludono ad un'epoca
primordiale e paradisiaca in cui le comunicazioni fra Cielo e Terra erano
facili e ad ognuno accessibili: in seguito ad un certo avvenimento (soprattutto
ad una colpa rituale) tali comunicazioni si sono interrotte e gli Esseri
supremi si sono ritirati nel più alto dei Cieli. Ripetiamolo: la scomparsa del
culto dell'Essere supremo celeste non ha reso caduco il simbolismo
dell'ascensione con tutto quanto esso implica. Come si è visto, questo
simbolismo si trova attestato dovunque, in ogni complesso storico-religioso.
Ora, il simbolismo dell'ascensione ha parte essenziale nell'ideologia e nelle
tecniche sciamaniche.
Nel precedente
capitolo si è visto in che senso l'estasi sciamanica può esser considerata come
una riattualizzazione di quell'illud
tempus mitico nel quale gli uomini potevano comunicare in concreto col
Cielo. Non v'è dubbio che l'ascensione celeste dello sciamano - o del medicine-man, del mago, ecc. - sia una
sopravvivenza, profondamente modificata e talvolta degradata, di questa
ideologia religiosa arcaica che s'incentrava nella fede in un Essere supremo
celeste e nella credenza nelle comunicazioni concrete fra Cielo e Terra. Ma,
come abbiamo visto, lo sciamano per via della sua esperienza estatica, che gli
permette di rivivere uno stato divenuto inaccessibile al resto dell'umanità,
vien considerato, e lui stesso si considera, come un essere privilegiato. Del
resto, i miti accennano a relazioni più intime esistenti fra gli Esseri supremi
e gli sciamani: ciò, specie nei riguardi del Primo Sci amano inviato
dall'Essere celeste o dal suo sostituto (il demiurgo o il dio solarizzato) sulla
Terra per difendere gli umani contro le malattie e gli spiriti malvagi.
Le modificazioni
storiche delle religioni dell'Asia centrale e settentrionale, cioè, nel
complesso, la parte sempre più importante che ottengono il culto degli antenati
e le figure divine o semidivine sostituitesi all'Essere supremo, alterano a
loro volta il significato dell'esperienza estatica degli sciamani. Le discese
agli Inferni (la storia delle religioni conosce diversi tipi di descensus ad inferos; basta confrontare
la discesa agli Inferni compiuta da Ishtar o da Eracle con la discesa estatica
degli sciamani per constatare la differenza), la lotta contro gli spiriti
malvagi, ma anche i rapporti sempre più familiari con essi che vanno fino ad
una loro «incorporazione»
o alla «possessione» dello sciamano da parte loro, sono innovazioni, di massima
piuttosto recenti, imputabili alla trasformazione generale del complesso
religioso. Occorre aggiungervi le influenze meridionali esercitatesi abbastanza
presto, le quali hanno modificato sia la cosmologia che la mitologia e le
tecniche dell'estasi. Fra tali influenze meridionali, per gli ultimi tempi, va
annoverato l'apporto del buddhismo e del lamaismo, aggiuntosi a precedenti
influenze iraniche e, in ultima analisi, mesopotamiche.
È verosimile che
lo schema iniziatico della morte rituale seguita dalla resurrezione dello
sciamano sia anch'esso una innovazione, ma che risalirebbe a tempi assai più lontani;
in nessun caso essa sarebbe imputabile ad influenze del Vicino Oriente antico,
il simbolismo e il rituale della morte e della resurrezione iniziatìca
apparendo già attestato nelle religioni australiane e sudamericane. Ma è
soprattutto nella struttura di questo schema iniziatico che si sono effettuate
le innovazioni dovute al culto degli antenati. Il concetto stesso della morte
mistica è stato modificato in seguito a molteplici mutazioni magico-religiose
provocate dalle mitologie lunari, dal culto dei morti e dall'elaborazione delle
ideologie magiche.
Cosi bisogna
rappresentarsi lo sciamanismo asiatico come una tecnica arcaica dell'estasi il
cui substrato ideologico originario - la credenza in un Essere supremo celeste
col quale si possono aver rapporti diretti mediante l'ascensione in Cielo - è
stato continuamente trasformato da una lunga serie di apporti esotici,
culminanti nell'irruzione del buddhismo. Il concetto di morte mistica ha del
resto incoraggiato rapporti sempre più stretti con le anime degli antenati e
con gli «spiriti»,
rapporti che han condotto fino a stati di «possessione». Come ha ben dimostrato
Schroder, la «possessione», come esperienza religiosa, non è
priva d'una certa grandezza; si tratta, insomma, d'incorporare gli «spiriti»,
vale a dire di rendere presente, vivente e «concreto» il «mondo spirituale».
Può darsi che la «possessione» sia un fenomeno religioso
estremamente arcaico. Ma la sua struttura è diversa dall'esperienza estatica
caratteristica dello sciamanismo in senso stretto. Inoltre, è concepibile che
la «possessione» abbia potuto svilupparsi dall'esperienza estatica: mentre
l'anima (o l'«anima principale») dello sciamano viaggiava nei
mondi superiori o inferiori, degli spiriti potevano prender possesso del suo
corpo. Ma è difficile immaginare il processo contrario perché, una volta che
gli spiriti hanno preso possesso dello sciamano, l'estasi personale, cioè
l'ascensione celeste o la discesa agli Inferni, è bloccata. Son gli spiriti
che, con la loro «possessione», cristallizzano l'esperienza
religiosa. Del resto, v'è una certa «facilità» nella «possessione»
che contrasta col carattere pericoloso e drammatico dell'iniziazione e della
disciplina scìamaniche. La fenomenologia della trance, come si è visto, ha subito essa stessa vanie alterazioni e
degradazioni, in gran parte dovute a confusioni circa la vera natura
dell'estasi. Peraltro tutte queste innovazioni e tutte queste degradazioni non
sono state capaci di abolire la possibilità stessa della vera estasi sciamanica
e qua e là abbiamo potuto incontrare casi di autentiche esperienze mistiche di
sciamano sotto forma di ascese «spirituali» in Cielo, preparate da metodi di
meditazione paragonabili a quelli dei grandi mistici d'Oriente e d'Occidente.
Non vi sono
soluzioni di continuità nella storia della mistica. A più riprese abbiamo
scoperto nell'estasi sciamanica una «nostalgia del paradiso» che richiama uno
dei tipi più antichi d'esperienza mistica cristiana. Quanto alla «luce
interiore»,
il cui ruolo è capitale nella mistica e nella metafisica indiane non meno che
nella teologia mistica cristiana, essa è già attestata, come abbiamo visto,
nello sciamanismo eschimese. Aggiungiamo che le pietre magiche di cui si
infarcisce il corpo del medicine-man
australiano simboleggiano, in un certo senso, la «luce solidificata».
Ma lo
sciamanismo non è solo importante per il posto che occupa nella storia della
mistica. Gli sciamani hanno svolto una funzione essenziale in difesa
dell'integrità psichica della comunità. Sono i campioni anti-demoniaci per
eccellenza; combattono tanto i demoni, le malattie, quanto i maghi neri. Figura
esemplare dello sciamano-campione è Dto-mba Shi-lo, il mitico fondatore dello
sciamanismo Na-Khi, l'infaticabile uccisore di demoni (vedi sopra). Gli
elementi guerrieri che han grande importanza in certi tipi di sciamanismo asiatico
(lancia, corazza, arco, spada, ecc.) si spiegano con le necessità del
combattimento contro i demoni, i veri nemici dell'umanità. In termini generali,
si può dire che lo sciamano difende la vita, la salute, la fecondità, il mondo
della «luce», contro la morte, le malattie, la sterilità, la
sciagura e il mondo delle «tenebre».
La combattività
dello sciamano diviene talora una mania aggressiva; in certe tradizioni
siberiane, si ritiene che gli sciamani si affrontino continuamente sotto forma
di animali (vedi sopra). Ma una tale aggressività è piuttosto eccezionale:
caratterizza qualche forma di sciamanismo siberiano e il tàltos ungherese. Ciò che è fondamentale e universale, è la lotta
dello sciamano contro ciò che potremmo chiamare «le potenze del Male».
A noi è difficile imaginare quel che può rappresentare un tale campione per una
società arcaica. È, in primo luogo, la certezza che gli esseri umani non sono
soli in un mondo straniero, circondati da demoni e da «forze del Male».
A prescindere dagli dei e dagli esseri sovrannaturali cui si indirizzano
preghiere e si offrono sacrifici, vi sono degli «specialisti del sacro»,
degli uomini capaci di «vedere» gli spiriti, di salire al Cielo e d'incontrare
gli dèi, di discendere agli Inferni e di combattere i demoni, la malattia e la
morte. La funzione essenziale dello sciamano in difesa dell'integrità psichica
della comunità si lega soprattutto a questo fatto: gli uomini son certi che uno
di loro è in grado di aiutarli nelle circostanze critiche provocate dagli abitatori
del mondo invisibile. È consolante e confortante sapere che un membro della
comunità è capace di vedere quel che è nascosto ed invisibile per gli altri, e
di riferire informazioni dirette e precise circa i mondi sovrannaturali.
Grazie, appunto,
alla sua capacità di viaggiare nei mondi sovrannaturali e di vedere gli esseri
sovrumani (dèi, demoni, spiriti dei morti, ecc.) lo sciamano ha potuto
contribuire in maniera decisiva alla conoscenza della morte. È probabile che un
gran numero di caratteri della «geografia funeraria», al pari di un certo
numero di temi della mitologia della morte, siano il risultato delle esperienze
estatiche degli sciamani. I paesaggi che lo sciamano scorge e i personaggi che
incontra nei suoi viaggi estatici nell'aldilà son minuziosamente descritti
dallo sciamano stesso, durante la trance
o dopo. Il mondo sconosciuto e terrificante della morte prende forma, si
organizza conformandosi a tipi specifici, finisce per presentare una struttura
e, col tempo, diviene familiare ed accettabile. A loro volta, i personaggi che
abitano il mondo della morte divengono visibili; presentano una fisionomia,
assumono una personalità, perfino una biografia. A poco a poco, il mondo dei
morti diviene conoscibile e la morte stessa vien valorizzata soprattutto come
rito di passaggio verso un modo d'essere spirituale. In fin dei conti, i
racconti dei viaggi estatici degli sciamani contribuiscono a «spiritualizzare»
il mondo dei morti, pur arricchendolo di forme e figure prestigiose.
Abbiamo già
fatto cenno all'esistenza di somiglianze tra i racconti delle estasi
sciamaniche e certi temi epici della letteratura orale. Le avventure dello
sciamano nell'altro mondo, le prove che 'Subisce nelle sue discese estatiche
agli Inferni e nelle sue ascensioni celesti, ricordano le avventure dei
personaggi dei racconti popolari e degli eroi della letteratura epica. È assai
probabile che un gran numero di «soggetti» o di motivi epici, al pari di molti
personaggi, imagini e modelli della letteratura epica, siano, in ultima
analisi, d'origine estatica, nel senso che son stati tratti dai racconti degli
sciamani narranti i loro viaggi e le loro avventure nei mondi sovrumani.
È 'egualmente
probabile che l'euforia pre-estatica abbia costituito una delle fonti del
lirismo universale. Quando prepara la trance,
lo sciamano batte il tamburo, chiama i suoi spiriti ausiliari, parla un
«linguaggio segreto» o il «linguaggio degli animali», imitando il verso
degli animali e, soprattutto, il canto degli uccelli. Egli finisce per ottenere
un «secondo stato» che mette in moto la creazione linguistica e i ritmi della
poesia lirica. Ancor oggi, la creazione poetica resta un atto di perfetta libertà
spirituale. La poesia rifà ed amplia il linguaggio; ogni linguaggio poetico
comincia con l'essere un linguaggio segreto, cioè la creazione di un universo
personale, di un mondo perfettamente chiuso. L'atto poetico più puro si sforza
di ricreare il linguaggio sulla base di un'esperienza interiore che, in ciò
simile all'estasi o all'ispirazione religiosa dei «primitivi»,
rivela il fondo stesso dalle cose. Sulla base, appunto, di creazioni
linguistiche di quest'ordine, rese possibili dall'«ispirazione» pre-estatica,
i «linguaggi segreti» dei mistici e i linguaggi allegorici tradizionali si sono
successivamente cristallizzati.
Bisogna anche
dire qualcosa del carattere drammatico della seduta sciamanica. Non pensiamo
soltanto alla messa in scena talora assai elaborata della seduta che,
evidentemente, esercita un'influenza benefica sul malato. Ogni seduta veramente
sciamanica finisce per diventare uno spettacolo senza uguali nel mondo
dell'esperienza quotidiana. I giuochi col fuoco, i «miracoli» 'Sul tipo del giuoco
con la corda, l'esibizione di prodezze magiche s'Velano un altro mondo, il
mondo favoloso degli dèi e dei maghi, il mondo in cui tutto sembra possibile,
in cui i morti tornano alla vita e i vivi muoiono per poi resuscitare, in cui
si può istantaneamente sparire e riapparire, in cui le «leggi di natura» sono
abolite e una certa «libertà» sovrumana è illustrata e resa presente in maniera
strepitosa.
È difficile a
noi moderni imaginare la risonanza d'un tale spettacolo in una comunità
«primitiva». Non solo i «miracoli» sciamanici confermano e
rafforzano le strutture della religione tradizionale, ma stimolano e nutrono
anche l'imaginazione, fan sparire le barriere tra il sogno e la realtà
immediata, aprono finestre sul mondo abitato dagli dèi, dai morti, dagli
spiriti.
Fermiamo a
questo punto queste poche osservazioni intorno alle creazioni culturali rese
possibili o stimolate dalle esperienze sciamaniche. Lo studio approfondito di
esse supera i limiti della nostra opera. Qual bel libro si potrebbe scrivere
sulle «fonti» estatiche della poesia epica e del lirismo, sulla preistoria
dello spettacolo drammatico e, in generale, sul mondo favoloso scoperto,
esplorato e descritto dagli antichi sciamani...