La debolezza del pensiero Tridentino |
❍ La debolezza del pensiero
tridentino (De
Ruggiero, Storia della filosofia, Rinascimento, Riforma
e Controriforma, Volume II)
Nel
passo che segue, Guido De Ruggiero, prestigioso docente di filosofia ed autore
di una monumentale ed erudita Storia della Filosofia in più volumi, mette in
luce la mediocrità dottrinale e la inconsistenza filosofica delle soluzioni del
Concilio Tridentino, che costituisce uno dei pilastri su cui si regge tanta
parte della spiritualità cattolica moderna.
La riforma cattolica, per la legge
dell’opposizione che la governa, prende un indirizzo antitetico con quello
della Riforma vera e propria : se l’una moveva dalla rivelazione della
coscienza e dal libero esame, l’altra muove dall’autorità, se l’una negava il
valore della tradizione, l’altra lo riafferma e lo ribadisce. Sono valori
spirituali anche questi, e fattori di continuità della vita storica, ma non
possiamo porli sullo stesso piano ideale dei loro contrari. Come pensare una dottrina
, che non abbia un criterio intrinseco di verità, ma si assoggetti ad
un’autorità esterna e trovi in quella già prestabilite le sue conclusioni? e
una interpretazione di un testo, da accettare coattivamente? e un’attività
morale che abbia, non nella coscienza, ma in una graduazione oggettiva di
meriti e di colpe la propria norma? E’ stato giustamente osservato dal Croce
che “il carattere umano e perpetuo che ritroviamo nel Rinascimento e nella
riforma, difetta invece nella Controriforma, che è perciò un concetto che non
può porsi sullo stesso piano dei due precedenti. Con questi due, infatti, si
propugnavano due opposti atteggiamenti ideali; ma con la Controriforma
semplicemente si difendeva un’istituzione, la Chiesa cattolica, la Chiesa di
Roma: una grande istituzione, ma che, in quanto istituzione, non può mai avere
la grandezza, o meglio l’infinità, di un eterno elemento spirituale e morale”1.
Già nel corso del Rinascimento poteva osservarsi
una crescente estraneità fra la cultura ecclesiastica e quella dell’umanesimo:
lo stesso platonismo religioso, che era più affine d’ogni altro indirizzo
all’intuizione cristiana della vita, aveva creduto di seguire una vita molto
diversa dal dommatismo scolastico… Quanto alle altre scuole, i loro rapporti
con la chiesa si limitavano a un’accettazione formale, e in gran parte ipocrita
dei suoi dommi e delle sue tradizioni speculative. Questo distacco si completa
con la Controriforma, la quale non soltanto riconferma il mortifero isolamento
della teologia dal pensiero dell’età moderna, ma l’estende anche alla filosofia ecclesiastica,
fissandola nelle irrigidite forme dalla mentalità medievale, e in particolar
modo del tomismo.
La Controriforma ha il suo punto di partenza
nelle decisioni dottrinali e pratiche del Concilio tridentino (1545-1563). Sono
ben note le fortunose vicende di questo Concilio: richiesto originariamente dai
protestanti in contrasto con Roma; voluto poi da Carlo V con l’eguale
partecipazione delle due parti opposte, nella speranza di dirimere lo scisma e
riunire la cristianità, ma sempre differito e sventato dai papi, col concorso
d’intricate e continuamente mutevoli condizioni della politica europea, esso è
diventato alla fine organo della Controriforma cattolica e dell’egemonia papale
sulla chiesa. Le sue vicende, narrate con drammatica vivacità e acume
dottrinale da Paolo Sarpi, ci rivelano la presenza, in seno alla Controriforma,
di una viva corrente riformatrice, che ha trovato espressione, dal punto di
vista gerarchico, nella resistenza di molti vescovi, in nome del proprio e
originario titolo apostolico, a diventar meri funzionari della curia romana, e,
dal punto di vista dottrinale, nei tentativi di dare qualche limitato
riconoscimento alle esigenze dommatiche poste dai protestanti e molto diffuse
anche nella coscienza religiosa dei paesi cattolici: resistenza e tentativi,
che però sono stati annientati dalle addomesticate maggioranze dei votanti, accortamente
predisposte dalla curia.
Nelle quistioni dottrinali più controverse, il
Concilio ha proceduto di preferenza per “anatematismi”, cioè polemicamente,
anziché per definizioni dommatiche della propria dottrina, e dove non ha usato
cautela, ha lasciato ai teologi nuovi intrighi mentali da dipanare. Attingiamo
dal Sarpi alcune delle conclusioni che più ci interessano per il loro contrasto
con quelle della Riforma. Sul tema della predestinazione, il Concilio si è
diviso in due parti, sostenendo alcuni “che Dio, innanzi la fabbrica del mondo,
da tutta la massa del genere umano, per sola e mera sua misericordia, ha eletto
solo alcuni alla gloria, a’ quali ha preparato efficacemente i mezzi per
ottenerla, che si chiama predestinare; che il numero di questi è certo e
determinato, né si può aggiungervi alcun: gli altri che non ha predestinato non
possono dolersi, poiché a quelli ancora Dio ha preparato un aiuto sufficiente
per questo, se ben infatti altri che gli eletti non verranno all’effetto della
salute”. “Ma alcuni altri a questa opinione s’opponevano, intitolandola dura,
crudele, inumana, orribile ed empia, come quella che mostrasse parzialità in
Dio, se senza alcuna causa motiva eleggesse l’uno ripudiando l’altro: e
ingiusta, se destinasse alla dannazione gli uomini per propria volontà, non per
loro colpe, e avesse creato una tanta moltitudine per dannarla. Dicevano, che
distrugge il libero arbitrio, poiché gli eletti non potrebbero finalmente far
male, né i reprobi bene; che mette gli uomini nell’abisso della disperazione,
col dubbio che possono essere reprobati”, ecc. E giustamente osserva il Sarpi
che, come “la prima opinione ha del misterio e arcano, tenendo la mente umile e
rassegnata in Dio senz’altra confidenza in se stessa, conoscente la deformità del
peccato e l’eccellenza della grazia divina; così questa seconda era plausibile
e popolare a fomento della presonzione umana e accomodata all’apparenza. I
defensori di questa usando le ragioni umane prevalevano (su) gli altri, ma
venendo a’ testimoni della Scritura soccombevano manifestamente”. E la seconda
opinione ha finito col prevalere, con più accomodante e plausibile sentimento
umano, ma anche con un più disperato assunto di conciliare insieme la libertà
dell’uomo con la prescienza e la predestinazione divina, il merito con la
grazia, le opere con la fede. Al rigorismo logico e morale della Riforma, il
Concilio si è sforzato di opporre dovunque una formula di transazione, che
evitasse i due scogli, dell’agostinismo estremo e del pelagianesimo. Così, sul
tema della giustificazione, ha distinto due specie di fedi, una che si ritrova
nei peccatori ed è chiamata “fede informe, solitaria, oziosa”, un’altra che è
nei singoli buoni, operante per carità, e perciò detta formata efficace e viva.
“Non però, soggiunge il Sarpi, fu toccato il
punto dove versa il cardine della difficoltà: cioè se l’uomo prima è giusto e
poi opera le cose giuste, o vero operandole diviene giusto. In un parere erano
tutti concordi: cioè il dire la “fede giustifica’ essere proposizione di molti
sensi, tutti assurdi: perché anche Dio giustifica e i sacramenti giustificano”,
ecc. Non meno anfibologico diviene il concetto della grazia, che dovendo
conciliarsi con la libertà dell’uomo e con la sua capacità di resistenza, non è
più un’azione spontanea e irresistibile di Dio; o meglio, poiché dev’essere
anche questo, si divide in una grazia preveniente che “invita l’uomo a disporsi
con acconsentirgli liberamente o cooperargli, il che fa di sua volontà
spontanea, potendola anche rifiutare”, e in una grazia susseguente ed efficace
data agli eletti. Il peccato originale a sua volta, da una parte è cancellato
dal battesimo, per una mistica azione soprannaturale di questo sacramento, che
si comunica anche ai fanciulli inconsapevoli, dall’altra lascia sussistere una
concupiscenza naturale, che non può nuocere a chi non vi consente.
Non è il caso per noi d’inoltrarci nel pelago
del pensiero tridentino – vero Mar Morto intellettuale – , ma solo d’istituire
un rapido raffronto tra le due dommatiche, la riformata e la cattolica, in
considerazione degli stimoli e degl’impedimenti che esse hanno offerto al
movimento delle dottrine filosofiche. Le soluzioni tridentine sono a prima
vista più semplici, piane, plausibili: esse fanno parte egualmente, o meglio
proporzionalmente, alla potenza divina e all’arbitrio umano, alla grazia e al
concorso della volontà, alla solidarietà della colpa originaria e alla libertà
individuale. Quelle riformate al contrario ci urtano come qualcosa di ostile o
di ripugnante alla ragione e alla coscienza morale. Pure, non tardiamo ad
accorgerci che questo urto è salutare e vivificante. Per il credente, esso
segna, come sappiamo, il momento della crisi rinnovatrice e prelude al ripudio
della propria umanità schiava e peccaminosa e all’assunzione di una forma di
vita più alta, di una vera libertà cristiana e divina. Ma anche per il pensiero
critico che sorpassa lo stato del mistico fideismo, c’è nel rigore delle
formule e delle negazioni protestanti un valore universale. Ivi il determinismo
delle azioni umane è l’espressione, mitica e invecchiata quanto si voglia, di
un concatenamento causale che non comporta eccezioni, e non lascia margine per
una fantastica libertà d’arbitrio, che renderebbe del tutto inconsistente la
trama degli atti volontari. Chiunque conosca la storia dei problemi della
volontà nella filosofia moderna non può negare che essa tragga alimento molto
maggiore dal determinismo protestante che non dall’indifferentismo gesuitico. E
similmente l’incommensurabilità che la Riforma pone tra la potenza divina e il
volere umano, tra la grazia e i meriti, ecc., appare anch’essa come
l’espressione oscura del bisogno logico di attribuire un contenuto univoco e
omogeneo a ciascun concetto, senza mescolare tra loro elementi eterogenei. Così,
posta la predestinazione, come potrà coesistere con essa una, se pur diminuita,
libertà? e una cooperazione della grazia col merito? O bisogna mutare
totalmente i termini e la posizione del problema, o, se si accettano le
premesse, non si può sfuggire alla necessità delle conseguenze. Il pensiero
della Controriforma invece, dal Concilio di Trento in poi, ha preteso
conciliare ecletticamente due punti di vista che si escludevano a vicenda e
portare una mera distinzione di gradi dove mancava ogni omogeneità qualitativa.
Le sue conclusioni, all’apparenza più plausibili, sono in realtà più assurde;
e, come tutte le transazioni, denotano processi mentali chiusi ed esauriti, da
cui non può scaturire nessuna nuova luce di pensiero. La dommatica tridentina
ha prodotto delle interminabili logomachie teologiche e pseudo-filosofiche, ma
non un sol concetto vitale. Nell’impossibilità di conquistare un punto di vista
sintetico, il solo lavoro che l’eterogeneità dei termini da comporre insieme
rendeva possibile, era di moltiplicare i passaggi intermedi, nell’illusione di
abbreviar le distanze. E’ quel che coscienziosamente ogni dottore della
Controriforma s’è sforzato di fare, escogitando sempre nuovi e più numerosi
tipi di “grazie”, di “fedi”, di “meriti”, e perfino di scienze e prescienze
divine. Donde è risultata una casistica mentale farraginosa, prolissa,
disorientatrice, che rende la letteratura di quel tempo veramente detestabile.
La casistica mentale si accompagna con una
casistica morale non meno estrinseca e dispersa. Come la prima muove da un
pensiero divino privo di un proprio centro logico, così la seconda muove da una
coscienza che non ha un proprio criterio di valutazione dei suoi atti, ed
accetta, dal di fuori e dall’alto, una tabella di valori e di disvalori, di
peccati mortali e veniali, di opera
operata più o meno meritori. Così la moralità diviene affare di meccanica
sussunzione del singolo caso nella classe appropriata, e il dubbio sulla più o
meno esatta convenienza dell’uno e dell’altra prende il nome di scrupolo e
forma una specie di fittizio alone morale intorno all’azione meramente
periferica e destituita di ogni intimità. La grande complicazione di questi
così detti casi di coscienza, unita al fondamentale carattere eteronomico di
siffatta morale, ha reso indispensabile la creazione di guide specializzate, di
direttori e confessori, capaci di orientare l’individuo nel fantastico
labirinto. E, come nell’attività teoretica della Controriforma l’estremo
groviglio della casistica mentale dissimula una grande povertà di pensiero,
così il tortuoso meccanismo pratico ricopre un lassismo morale, aggravato da un
eccezionale sviluppo di abilità legalistica, per adattare il caso alla legge e
magari, talvolta, per eluderla. Anche qui si rivela un più basso tono di vita
etica in confronto della Riforma, che nega ogni estrinseco direttorio, si
sforza di cogliere l’azione nell’intimità della coscienza, e concepisce la
penitenza come un rinnovamento totale della vita. Invece la mentalità casistica
della Controriforma, non solo ribadisce il carattere sacramentale, quindi di opus operatum, della confessione, ma
distingue anche da una contrizione un’attrizione, che non implica completo
abbandono della volontà peccaminosa, ma quel tanto di devota compunzione che
basta per rendere possibile il periodico rinnovamento della prassi
sacramentale.
A questo lassismo teoretico e morale fa
riscontro una concezione rigidamente autoritaria delle gerarchie religiose. Il
contrasto dei due aspetti non è che apparente; in realtà essi si richiamano e
si completano l’un l’altro. L’autoritarismo, esigendo stretta conformità di
atti esteriori, è costretto a disinteressarsi del loro intimo valore e non può
imporre, da questo punto di vista, che un ipocrita rispetto alle sue leggi. Al
costume morale che regge la vita della società, esso sostituisce a poco a poco
un costume legale, che finisce col degradarne il carattere. Certo, anch’esso,
in momenti eccezionali, ha la sua utilità: dove ogni altro legame è rotto, lo
stesso legalismo farisaico val meglio dell’anarchia. E se si pensa che
l’avvento della Riforma aveva dovunque scatenato furiose guerre civili, non si
può negare alla reazione autoritaria il merito di aver salvato in molti paesi
la compromessa unità della compagine sociale e politica. E’ un vantaggio che
però i paesi della Controriforma, cioè, per la maggior parte, i paesi latini,
hanno pagato a prezzo dell’autonomia e della saldezza del proprio carattere,
perché, come suole accadere, l’abito è sopravvissuto a lungo all’utilità
transitoria della sua funzione.
L’autoritarismo della Controriforma ha avuto
varie e connesse espressioni nel Concilio di Trento. Questo ha innanzi tutto
riconfermato il valore sacramentale, cioè oggettivo e indipendente
dall’intenzionalità del fedele e del ministrante, di quegli atti di mediazione
ecclesiastica, come il battesimo, l’eucarestia, ecc. che la Riforma tendeva a
ridurre a un significato meramente commemorativo e simbolico. Nei riguardi
della Scrittura, ha dato autorità canonica alla Volgata e ha fatto della Chiesa
l’organo permanente dell’interpretazione autentica dei testi; e di fatto, poi,
la prassi post-tridentina ha reso lo studio di essi un privilegio clericale,
impedendo in tutti i modi ai laici ogni diretto contatto con la Bibbia. Inoltre
esso ha fortemente accentrato i poteri della chiesa nel papa: dal punto di
vista gerarchico, risolvendo a favore della monarchia papale le secolari
quistioni del conciliarismo e della autonomia dell’episcopato; dal punto di
vista dommatico, riconoscendo in sostanza, se pur non ancora a titolo di domma,
l’infallibilità del papa. Questo rinsaldato assolutismo cattolico ha trovato
naturale alleanza, per evidenti affinità di programmi conservatori e
reazionari, nelle monarchie temporali, che nella lotta della chiesa contro le
eresie non hanno tardato a riconoscere il proprio interesse politico, e sono
state prodighe di appoggi e di favori in cambio di un’ambigua opera educativa
del carattere dei sudditi. Per buona sorte, la logica dell’assolutismo non
comporta nessuna permanente dualità; quindi ricominciano di buon’ora, se pure
sono mai state interemesse, le sorde lotte interne tra le due potenze alleate,
sforzandosi le monarchie temporali di assoggettare a sé le chiese della propria
giurisdizione (donde il così detto giurisdizionalismo), e la teocrazia
cattolica di scalzare il potere assoluto dei re e di contemperarlo con quello
del popolo.
Organo principale della Chiesa della
Controriforma e valido esecutore del suo complesso programma è stato l’ordine
dei gesuiti, fondato da Ignazio di Loyola pochi anni prima che si aprisse il
Concilio di Trento, e in breve tempo, anche per la parte eminente avuta nei
lavori conciliari, diventato un’organizzazione potentissima, con diramazioni in
tutta l’Europa e nel mondo coloniale che appena si schiudeva. Concepito come
una milizia papale, indipendente dalle comuni gerarchie ecclesiastiche,
saldamente disciplinato e reso mobile e attivo dall’abolizione di tutti gli
impedimenti che attardavano il clero territoriale, dotato di quella formale
cultura teologica e umanistica che poteva dargli egualmente presa tra i
chierici e tra i laici, esso ha costituito il nucleo principale delle forze
della reazione cattolica. La sua psicologia risente di quella duplicità di
carattere che abbiamo osservata nella Controriforma in genere: rigidamente
autoritaria negli abiti disciplinari, fino al punto di annullare ogni senso di
spontaneità volontaria e d’iniziativa, essa è poi d’altra parte insinuante e
accomodante per tutto ciò che concerne le disposizioni interiori e i casi
sottili di coscienza. Inflessibile e duttile, chiusa ma con apparenze
socievoli, arida ma con unzione, egoistica e cinica ma prodiga di attività e di
cure, essa ha ricoperto di una sottile patina di moralismo la lenta
degradazione morale della Controriforma.
Le mediocri manifestazioni intellettuali di cui
dobbiamo in questo capitolo occuparci, per giustificare, sulle fonti, la
sommaria veduta d’insieme che abbiamo tracciata, sono tutte d’origine
gesuitica. Esse concernono la particolare ascesi della Controriforma, le
polemiche coi protestanti (che danno luogo alla così detta letteratura
controversistica), il riordinamento del patrimonio culturale scolastico, il
problema del libero arbitrio secondo il molinismo e l’orientamento del pensiero
politico.
(1) Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Bari, 1929, pag. 9