L'uomo barocco a cura di Rosario
Villari |
▸ L’apogeo della retorica e le
chiese riformate
▸ Le conseguenze: "magnitudo"
e "praesentia" come criteri principali
▸ La predicazione culterana: Paravicino
▸ Il predicatore specializzato
▸ Primo requisito: conoscere la
teologia
▸ La predicazione nelle campagne
▸ Premessa
▸ Spazi e tempi della clausura
▸ Denunzia di una condizione e
amore delle lettere
▸ "Et tout le reste n’est
rien"
▸ Ribellione e obbedienza tra
gesuiti e giansenisti
▸ "Quel corallo che sotto
l’onde del mare è tenero…": la religiosa tra Controriforma e Illuminismo
▸ L’eguaglianza delle intelligenze
▸ La scienza e i "dottori di
memoria"
▸ Il ritratto dello "scienziato"
▸ Il borghese dall’interno: Samuel Pepys
Nel XVII secolo i tradizionali centri di potere – comunità
locali, gruppi sociali – si impegnarono duramente per affermarsi contro la
crescente autorità della monarchia centrale
L’idea del governo come arte, pur essendo tipica del Rinascimento
ed avendo avuto allora grandissima influenza,
continuò a stare al centro della scena sino alla metà del XVII secolo. La
gestione dello Stato era ritenuta una scienza cui i principi dovevano essere
educati e i ministri istruirsi. La “ragione” nel fare ogni cosa è citata da
Richelieu e Olivares
L’uomo di stato doveva
prendersi cura di un “corpo” o di una “nave”. Olivares si rifaceva a massime
attinte da antichi autori. In realtà l’importanza del “grande uomo” nel
forgiare gli eventi è minima, dovendo agire in un quadro che lo condiziona
quasi completamente.
Il ruolo dello statista presuppone uno stato nazione, ma
nell’europa barocca lo stato moderno esisteva appena. Il contesto entro il
quale si svolse la riflessione di Machiavelli era la città-stato, ed egli
immaginò l’esercizio della politica in un’Italia popolata da principati in cui
la volontà del principe s’imponeva facilmente. Il “governo dello stato”
consisteva essenzialmente nell’esercizio della politica all’interno della
città-stato. Di conseguenza non vi era una scienza nota su come governare
entità più grandi che ancora non esistevano. Se l’Inghilterra aveva un’unità
riconoscibile che le derivava dalla sua natura di porzione di un’isola,
nessun’altra nazione aveva raggiunto l’identità che il nome suggeriva: Francia,
Spagna, Italia, e Germania non erano realtà, ma concetti, definiti da incerti
confini geografici o poco più. Gli ultimi tre paesi erano palesemente solo un
agglomerato di stati autonomi, ma perfino in Francia c’era una evidente
mancanza di unità nelle leggi, nel governo, nelle giurisdizioni, nelle tasse e
nella lingua; i parigini che si recavano a sud dovevano servirsi di un
interprete anche per le più semplici necessità. Gran parte degli scritti
teorici del primo seicento fu dedicata al tentativo di stabilire i lineamenti
di un’identità. Il termine nazione c’era, ma cosa significava? Ronsard aveva
scritto: “L’espagnol l’Espagne chantera / L’italien les Italies fertiles / Mais
moy, françoys, la France aux belles villes". In queste parole
la nazione ci appare allora poco più che oggetto di un sentimento patriottico; il
che, in mancanza di concrete strutture politiche, è forse il massimo che
all’epoca si potesse raggiungere. Ma questo sentimento non significava sempre
fedeltà. Richelieu si lamenta: “Non v’è mai guerra contro la Francia senza un
francese dalla parte del nemico”. Per lo statista dell’epoca barocca, il
sentimento patriottico aveva di fatto minor valore di una ferma lealtà alla
monarchia. Olivares affermava: “Io non sono nacional,
questa è cosa da bambini”, intendendo che l’unità dipendeva dalla corona, non
da un semplice sentimento. Tuttavia anche il sentimento ebbe la sua parte: nel
1635 al tempo in cui il patriottismo divenne necessario per la mobilitazione
contro la Francia che proprio allora aveva dichiarato guerra, Olivares confessò
di “riporre la propria fiducia nella nazione”
La “nazione” rappresentava naturalmente un sentimento verso il
proprio paese al di sopra e contro gli altri paesi, e non rientrava facilmente
nella comune teoria politica. Anche se non permisero mai che il concetto
sfuggisse loro di mano, agli statisti era più congeniale, nell’adoperare l’idea
di Stato, a un’entità chiamata “il popolo”. Olivares affermava che “è sempre
importante prestare attenzione alla voce del popolo”, anche se si dimostrò
sempre ostile alle assemblee rappresentative. Il punto di vista di Richelieu è
ancora più reciso: “Tutti gli studiosi di politica concordano sul fatto che
quando la gente comune gode di troppo benessere diviene impossibile mantenerla
in pace”. Cromwell era contro ogni appello a favore del popolo, e soprattutto
di coloro che non disponevano di beni, “uomini che non hanno altro interesse se
non quello di respirare”.
Caratteristica fondamentale dei maggiori statisti dell’età
barocca era l’assoluta coincidenza dei loro interessi con quelli del principe, che per loro era lo Stato. Il
principe veniva considerato il fondamento dello Stato in base al principio che
in lui soltanto era concentrato il potere; ne conseguiva che lo statista era in
primo luogo un servitore del principe. Secondo la concezione che
originariamente si affermò nel Rinascimento, lo statista non era un demiurgo ma
solo un servo del corpo politico: per Machiavelli “quello che ha lo stato di
uno in mano non debbe mai pensare a sé ma sempre al principe, e non li ricordare mai cosa che non
appartenga a lui”. Ancora nell’epoca barocca il termine “Stato” non aveva per
molti alcun significato se non in riferimento al principe: nel vocabolario di
Olivares esso non appare mai col significato di governo, e persino Richelieu lo
utilizza nel senso di “dominio, ordine stabilito per comandare e obbedire”.
Agli inizi dell’età moderna tutte le funzioni dello Stato appartenevano al
Principe; le sue finanze personali erano quelle dello Stato, ogni sua
dichiarazione di guerra coinvolgeva lo Stato. Tutto il potere era investito in
lui, l’uomo di Stato per eccellenza e coloro che lo aiutavano a governare (i
“ministri”) erano suoi servitori, dipendenti dalla sua sola volontà. Questa
concezione totalmente personale del potere rimase dominante durante tutto il
XVII secolo e si espresse al massimo livello nella dottrina dell’assolutismo.
Il concetto del potere personale del principe comportava, per la verità, alcune
implicite restrizioni, ma anche queste in ultima analisi concorrevano a
rafforzare la sua totale autorità.
Se esisteva un’arte dello stato, una scienza del governare, il
principe era tenuto ad apprenderla, e l’uomo di stato diveniva di conseguenza
suo tutore. Mazzarino procurò a Luigi XIV anche i suoi ministri migliori.
La relazione era di tipo personale, tra servitore e padrone,
non riconosciuta dalla tradizione e fu perciò in Francia oggetto della intensa
ostilità espressa dai libelli della Fronda. In Spagna nel corso del XVII secolo
la carica di primo ministro venne regolarizzata mediante il sistema dei validos: Olivares e Lerma furono
entrambi validos e quindi la loro
autorità dipendeva direttamente dalla volontà regale.
I ministri erano completamente devoti alla persona del re, e
anteponevano questa fedeltà ad ogni altro interesse politico; anche se
ovviamente sostenevano che ogni politica razionale e accettabile non poteva non
coincidere con l’interesse del re. Richelieu
sostenne che “il pubblico interesse deve essere il solo fine del principe e dei
suoi consiglieri” ma in pratica gli interessi delle tre parti venivano fatti
coincidere.
Celebre asserzione di
Richelieu nel suo Testamento a
proposito del triplice compito che aveva di fronte: innalzare il re,
sottomettere i nobili e domare i protestanti.
Perché le cariche
politiche avevano basi personali, teoricamente i ministri non andavano al
potere pensando a programmi di riforme; tuttavia, di fatto, avevano sempre in
mente una precisa scala di priorità anche se le intenzioni formali erano di
preservare il sistema politico esistente. Noti in genere come “primi” ministri,
i servitori dello stato non avevano un titolo corrispondente alle loro
funzioni. Richelieu dal 1629 venne chiamato “ministro principale” ma il titolo
esisteva già in passato;Olivares usava definire se stesso “il fedele ministro
del re”. Jan de Witt era considerato semplicemente pensionario d’Olanda, una
specie di segretario degli “Stati” d’Olanda, ma in pratica controllava gli
affari politici sia dell’Olanda sia delle Province Unite e inoltre aveva una
parte dominante in politica estera. Ognuno di questi uomini di stato ricopriva
un ruolo che formalmente non era riconosciuto dalla costituzione dei rispettivi
paesi. Non fa meraviglia che essi fossero convinti che il loro ruolo fosse
straordinario, in quanto implicava doveri e obblighi verso l’intero stato, e
che ogni ostilità suscitata da loro fosse a causa di questo.
Per Olivares i requisiti di uno statista erano: “mente salda,
giudizio fermo, una ragionevole dimestichezza con la letteratura, la generale
conoscenza della storia e dell’organizzazione degli Stati di tutto il mondo e
specialmente della propria patria”
Il modello teorico degli
uomini di Stato dell’età barocca era l’assolutismo, dottrina che, sotto l’una o
l’altra forma, trionfava in tutta l’Europa condizionando opinioni e
istituzioni. Fondamentalmente l’assolutismo esigeva che il sovrano non
riconoscesse superiore in terra, precetto, questo, nato in risposta
all’instabilità politica e alle crisi sociali del tardo Cinquecento. Il
problema era che la dottrina veniva applicata a diversi tipi di sovranità; e
che era sempre aperta la discussione sul concetto stesso di sovranità. Per
esempio, alcuni pensatori cattolici sostenevano che, pur essendo assoluto, il
potere dei principi derivava dal consenso popolare, creando così un conflitto
tra diritti dei governati e i doveri dei governanti; e anche in Francia, dove
la dottrina dell’assolutismo ebbe maggior successo, i teorici affermavano che
il principe assoluto era limitato dai diritti della religione e della proprietà
oltre che dalle leggi fondamentali.
L’assolutismo era originariamente una teoria del potere
principesco quindi in apparenza non riguardava i ministri dello Stato ma in
pratica erano questi a sostenerla. Nonostante le crisi dello stato nei
precedenti cinquant’anni, agli inizi del XVII secolo venne ristabilita la
fiducia nella monarchia e il potere del re si estese ulteriormente: il completo
successo di Richelieu come ministro significò per la corona la conquista di
un’autorità e un’iniziativa mai possedute prima. La costante ascesa
dell’assolutismo in Francia suscitò violente reazioni da parte di molti sia in
Inghilterra che nelle Province Unite, ma sostanzialmente non vi erano
differenze nella considerazione della natura del governo. Quando il Parlamento
inglese rovesciò quello che considerava il sistema assolutistico degli Stuart,
istituì al suo posto una forma di governo ancora più assoluto pretendendo
(dichiarazione del Rump Parliament
del 1649) poteri illimitati e diritto di fare leggi anche senza consenso del popolo.
Gli uomini di stato repubblicani non erano immuni da simpatie
monarchiche.
Cromwell e de Witt limitavano drasticamente coloro che
potevano prendere parte a discussioni politiche. De Witt escludeva "donne,
servi, invalidi, poveri, chi avesse esercitato commerci o lavorato a giornata
al servizio di chiunque”.
In tale coacervo di concetti, l’unico fermo proposito degli
statisti spesso incuranti delle forme che questa teoria poteva assumere, era di
assicurare che l’autorità dello Stato non subisse scosse. Cromwell, in
particolare affermava di non avere preferenze tra i differenti sistemi
possibili, ed era fermo solo nella sua ostilità verso la democrazia; a parte
ciò, tutte le forme di governo erano per
lui “scorie e letame in paragone a Cristo”. Tuttavia concretamente dimostrava
di propendere per l’assolutismo nella forma
del governo di un solo uomo, e non è casuale che la concezione del Leviatano di Thomas Hobbes sia nata
dall’esperienza dell’Inghilterra della metà del secolo.
L’orientamento generale dell’epoca era senza dubbio ostile ai
parlamenti. In Francia, dopo il 1614 non vennero più convocati gli stati
generali. Cromwell sciolse il Lungo Parlamento del 1653: “Voi non siete un
Parlamento, ripeto voi non siete un Parlamento; io metterò fine alla vostra
attività!” Quel decennio segnò la fine di un’epoca per l’Europa intera: la
Dieta di Brandeburgo perse ogni autorità dopo il 1653, quello stesso anno si
riunì l’ultimo Zemskij Sobor della Russia, il Parlamento danese venne convocato
un’ultima volta nel 1660, la Castiglia degli Asburgo non ebbe più Cortes dopo
il 1665.
La riduzione del ruolo politico degli organi rappresentativi
non costituiva di per sé naturalmente una minaccia per l’élite politica, i cui
privilegi sociali furono confermati. Cromwell ricordò a uno dei suoi Parlamenti
che essi, l’élite, erano la spina dorsale della stabilità: “un nobile, un
gentiluomo, un proprietario terriero: questo è il fondamento della nazione”. Il
suo giuramento di Protettore diceva che suo primo dovere era “garantire la
proprietà”. A parte lui, tutti i maggiori statisti europei provenivano dalla
piccola nobiltà terriera. E’ importante tener presente che per tutti i capi il
rafforzamento dello Stato comportava anche il rafforzamento dell’ordine
sociale, perciò di fatto non esisteva alcuna contraddizione tra assolutismo e
interessi della élite dominante: anzi, l’assolutismo la consolidava. Gli
statisti parlavano a questo proposito di tutelare le “libertà”. Oxenstierna
dichiarava al consiglio reale svedese: “Ci dobbiamo porre come mediatori tra re
e sudditi, e parlare non solo in favore dei diritti della corona, ma della
legge e delle legittime libertà del paese”.
In breve, in quanto conservatori, tutti i nostri statisti
avevano una visione molto ristretta dei diritti e della libertà, e non
guardavano certo di buon occhio quanto oggi viene considerato libertà politica…
Non sempre i sudditi gradivano quelle “libertà”. Cromwell offriva agli
irlandesi di usare “libertà e fortune egualmente con gli inglesi”; nella Catalogna
degli anni ’30 del Seicento, i catalani diffidavano delle nuove libertà offerte
dal conte-duca. Era libertà veder modificati i tradizionali diritti? I catalani
non la pensavano così. Uno dei più ardui problemi per gli statisti era quindi
trovare consenso pubblico alla loro politica, ma nessuno riuscì ad ottenerlo,
nemmeno Richelieu, la cui politica venne aspramente contestata dai libelli
frondisti. Cromwell fallì nel tentativo di allearsi sia con l’elite sia col
popolo.
In teoria lo statista era una creatura del re. In pratica
esistevano complessi meccanismi di potere e di interessi che contribuivano a
creare lo statista e a mantenerlo nella
posizione raggiunta. Il primo e più importante era l’uso del patronato, unico
mezzo disponibile, in un’epoca in cui non esistevano partiti, per sostenere le
forze politiche e ogni uomo di stato era costretto a farne uso per poter
restare al potere. Ministri come Richelieu e Olivares non contavano solo sulla
benevolenza regale ma, in egual misura su quella dell’elite politica, e se
questa fosse venuta a mancare le loro carriere sarebbero state davvero brevi.
Richelieu e Mazzarino costruirono un potente sistema clientelare. In Francia
venne compiuto ogni sforzo per costruire vincoli di interesse che collegavano
il centro alle province, sistema vantaggioso per le élites provinciali che
potevano così contribuire ad influenzare il centro. La parentela era
l’indispensabile base di ogni clientela e i matrimoni il principale cemento; ma
la clientela si basava anche sull’influenza e sul denaro, e il tutto serviva a
costruire reti che soddisfacevano al tempo stesso i bisogni delle élites locali
e quelli dello stato centrale. L’uso del denaro in politica era comune e
normalmente non lo si riteneva immorale. Il ricorso al clientelismo non
significava escludere le istituzioni esistenti; al contrario, esse facevano
parte del sistema. Per esempio, gli intendenti francesi erano una maglia
fondamentale della catena, e nel 1656 l’intendente della Borgogna, Bouchu,
riferisce a Mazzarino: “Sto utilizzando con ogni possibile cura la mia
influenza e quella di amici e parenti in questa assemblea perché i progetti del
re abbiano successo”.
La rete clientelare di Richelieu o di Mazzarino apparteneva
sia allo Stato sia a loro stessi personalmente. A rigor di termini, questa
confusione di interesse pubblico e privato era “corruzione” ma nell’epoca
barocca non si scorgeva contraddizione tra l’uno e l’altro, poiché lo statista
ovviamente serviva lo stato. Solo quando l’interesse privato sembrò entrare in
conflitto con quello dello Stato, come per la sontuosa proprietà di Fouquet a
Vaux-le-Vicomte, il pubblico interesse (ossia la corona) sollevò obiezione.
Gli usi e le forme del patronato erano molti:
riassuntivamente, ricchezza, famiglia e clientela. L’accumulo di beni veniva
condannato dagli oppositori come prova di cupidigia personale. L’ininterrotto
accumulo da parte di Richelieu e Mazzarino può essere spiegato soltanto come
forma di ossessione personale. Al momento della morte erano gli uomini più
ricchi di Francia dopo il Re. E’ stato scritto che per Richelieu il potere
richiedeva magnificenza.
Dall’inizio della sua carriera Richelieu deliberatamente
confuse l’interesse privato con quello pubblico. Dal 1620 circa, in qualità di
primo consigliere della regina madre e direttore della sua amministrazione
politica e privata utilizzò i funzionari del regno per promuovere i propri
interessi e collocò le sue cosiddette “creature” all’interno delle strutture di
potere della regina, cosicché nel 1630 le subentrò senza alcuno sforzo nell’ascendente di cui
lei aveva sin’allora goduto. Quando
assunse una posizione di potere alle dipendenze del re, Richelieu si servì
ugualmente di funzionari di governo per
favorire i suoi interessi privati; il che, insieme alla possibilità di accedere
a tutte le fonti di profitto dello Stato, gli permise di accumulare un’immensa
fortuna. Gran parte di essa era costituita da entrate in denaro e un’altra non
meno importante da proprietà terriere.
Mentre le entrate delle terre possedute dall’alta aristocrazia
dovevano servire ad estinguere debiti urgenti, nel caso di Richelieu le
proprietà erano libere da debiti e quanto producevano era puro guadagno.
La quantità di incarichi che Mazzarino riuscì ad accumulare,
oltre quello di membro alla testa del Consiglio reale e di responsabile
dell’amministrazione domestica della Regina, è incredibile: Governatore di
Fontainebleu, La Rochelle, Le Havre, Alvernia, Breisach e Alsazia, priore di
diciassette abbazie, duca di Nevers e Mayenne e molti altri ancora.
Alla sua morte Mazzarino lasciò il suo enorme patrimonio al Re
in base a un atteggiamento secondo cui quanto gli apparteneva spettava allo
Stato così come quanto apparteneva allo Stato spettava a lui. Sull’esempio di
Richelieu egli consacrò gran parte della sua ricchezza al patrocinio delle
arti.
De Witt e Cromwell acquisirono parimenti una solida situazione
patrimoniale, anche se, a differenza di Mazzarino e Richlieu, conducevano una
vita semplice e senza pretese.
Personaggi come Olivares dovettero la loro ascesa anche alla
ricchezza e al potere di famiglia. Il rapido accumulo di onori di Olivares era
tipico di tutti gli statisti in ascesa: a corte ottenne posti strategici come
quello di maestro di scuderia e gran ciambellano, ma anche un gran numero di
incarichi nominali, come quello di generale di cavalleria.
Al conseguimento del potere seguiva automaticamente la
sistemazione dei familiari. Gli statisti riuscivano a stabilire dinastie di
grado quasi uguale a quelle regali. Tuttavia la natura altamente oligarchica
della politica nei paesi nordici protestanti comportava che matrimoni o
sistemazioni di familiari erano raramente sistemi validi di controllo del
potere. Al contrario, in Francia e nell’Europa del Sud si ammetteva che parenti
venissero sistemati in posizioni chiave.
Dato che la nobiltà era reciprocamente imparentata, i
privilegi ottenuti dalla famiglia dei Guzman, cui apparteneva Olivares, vennero
spartiti anche dalle famiglie
imparentate di Zúñiga, Guzmán e Haro.
Il clientelismo era il mezzo più interessante ma probabilmente
anche il meno sicuro (se persino il sistema delle parentele tradì Olivares). Il
clientelismo non esistette sino a che non venne imposto e alimentato
all’interno dei vigenti modelli di fedeltà politica, cosicché il cliente non
tradiva precedenti lealtà. Il naturale fondamento del clientelismo era
l’interesse personale, molto più raramente l’amicizia: si era indotti a
entrare nella rete solo se da ciò si
traeva vantaggio in denaro o in posizione sociale, e il protettore doveva
quindi a vere a sua disposizione un sostanzioso fondo di regalie e titoli
onorifici, chiamato dai castigliani mercedes.
Il bisogno di clientela sorgeva dalle carenze dello stato
nell’epoca barocca. Nessun governo in Europa possedeva un apparato burocratico
in grado di collegare gli interessi delle province a quelli del centro, e
quindi gli statisti dovevano creare questo legame al di fuori del sistema
sociale esistente, senza urtare i privilegi locali. Pochi statisti riuscirono in
questo. I sistemi sociali del Nordeuropa – Inghilterra, Svezia, Province Unite
– non erano riconducibili a questa forma
di controllo. In Spagna Olivares non riuscì a reclutare clienti alla corte di
Aragona e in Portogallo, e si limitò a creare una ristretta base di potere in
Andalusia. Solo in Francia vi furono statisti con una solida clientela.
Sebbene si ritenga comunemente che Richelieu esercitasse il
potere dal centro, va sottolineato che la solidità della sua posizione
dipendeva necessariamente da una sicura posizione nelle province, come prova il
suo controllo, anche tramite parenti, dei governatorati chiave. Egli riuscì ad
esempio ad ampliare l’influenza del governo centrale in Provenza creando una rete costituita dall’intreccio di
vincoli di parentela, matrimonio, amicizia, clientela e cariche che si
estendeva oltre le province fino a Versailles. Anche gli Asburgo tentano di
creare una simile rete clientelare in Ungheria, ma falliscono
La lotta dei protestanti ebbe la stessa matrice della resistenza
all’assolutismo e la stessa virulenza: corpi intermedi aristocratici molto
coesi che sapevano usare le armi. Il protestantesimo fornì un ulteriore
collante, catalizzando le rivolte. In Ungheria, ad esempio, è difficile
distinguere rivolte anticattoliche e antiassolutiste.
Di fatto tutti i nostri
statisti vennero sconfitti dalle
province. Sebbene gli europei possano aver provato un sentimento per la propria
nazione, essi erano ancor più legati alla loro provincia, e le élites locali
erano riluttanti a seguire la politica della capitale. L’insuccesso di de Witt
nel far sì che le elites perseguissero
un interesse comune affrettò la sua caduta. Cromwell subì la sua peggiore
sconfitta ad opera delle élites delle province inglesi e alla fine il solo
mezzo di persuasione che poté offrire fu
la forza bruta. Olivares osteggiava le élites non castigliane e alla fine anche
quelle castigliane lo abbandonarono. Perfino Richelieu, nonostante la sua
clientela, e Mazzarino caddero per la stessa ragione. La Fronda rappresenta un
adeguato commento all’incapacità degli statisti di elevare gli interessi dello
Stato al di sopra di quelli della provincia. Alla metà del XVII secolo la
provincia autonoma – Olanda, Provenza, Catalogna – continuava ad essere l’unità
politica di base dell’Europa moderna; la nazione stava formandosi ma per il
momento non era all’orizzonte. E ancora nel 1660, Luigi XIV dovette assediare
la ribelle Marsiglia, che invano chiese aiuto alla Spagna.
La politica estera era il campo d’azione che re e ministri in egual misura ritenevano loro suprema
specialità. Tutti gli statisti erano imperialisti consapevoli. La politica implicava l’esercizio del potere,
ma la politica estera era il supremo esercizio del potere. Machiavelli dichiarò
che l’arte della guerra “è la sola arte che si aspetta a chi comanda”. Ne
periodo barocco oltre i tre quarti delle entrate dello Stato venivano normalmente spesi per la
guerra o per la sua preparazione, e inevitabilmente la politica estera attraeva
la primaria attenzione dello statista.
Le intenzioni aggressive
degli statisti si esprimevano in termini di sostegno della dignità del sovrano.
Come i loro signori, gli statisti ritenevano che l’onore
dovesse essere conquistato sul campo di battaglia. Gli statisti avevano o
acquisivano una vasta e diretta esperienza del campo di battaglia.
La politica interna del XVII secolo si riduceva essenzialmente
al mantenimento della legge e dell’ordine, quindi la gran parte delle energie
degli statisti era diretta agli affari esteri. Per definizione il loro ruolo
internazionale era aggressivo.
Poiché gli statisti mettevano in gioco la loro reputazione con
la politica estera, gli storici li hanno poi giudicati da questa; pochi
emergono con una reputazione senza macchie.
La Svezia, verso il 1648 stava tentando di perseguire
all’estero un sogno imperiale che non poteva
in alcun modo essere giustificato dalle limitate risorse di cui il
governo disponeva. Quando nel 1632 Oxenstierna
affermava che l’unica sistemazione immaginabile in Germania era quella
“con i nostri piedi sul loro collo e un coltello alla loro gola” usava il
linguaggio che i successivi statisti
svedesi continuarono ad adottare, ma che finì con il crollo dell’impero
alla fine del secolo.
Richelieu ampliò sostanzialmente i confini francesi: “La
Francia del 1643 è assai più grande della Francia del 1610” (Tapié). E il
guadagno era piccolo a paragone di quel che la Francia avrebbe raggiunto nel
cinquantennio successivo.
L’avventura imperiale richiedeva un prezzo da pagare e gli statisti
erano senza dubbio responsabili del crescente aggravio di tasse e oneri. Con
Richelieu le imposte aumentarono di quasi quattro volte, sotto Olivares in
Castiglia raddoppiarono; le spese di guerra della Svezia portarono il Tesoro
alla bancarotta. L’effettivo risultato dei trionfi in politica estera era la
crescente povertà, che si palesava soprattutto nelle periodiche rivolte
popolari che affliggevano la campagna francese durante gli anni di guerra dei
due cardinali. La miseria del popolo non era comunque un concetto capace di
turbare il vocabolario degli statisti, e la guerra era venerata quale
contributo all’onore dello Stato, senza riguardo alla ripercussioni su coloro
che pagavano con le loro tasse o con la loro vita. Qualche tempo dopo Luigi XIV affermò: “Nulla ha addolorato più
profondamente il mio animo che l’avere reso completamente esausti i miei popoli
con l’immenso fardello delle tasse”. I trionfi di Richelieu avevano già
condotto a questo, ma egli stesso dovette aumentare ulteriormente il carico sul
contribuente francese.
Poiché non facevano parte, come i politici moderni, di una
struttura he rifletteva opinioni o si consultava con i sostenitori, gli
statisti del periodo barocco erano totalmente isolati dalle attività quotidiane
del corpo politico e si affidavano solo a una ridotta cerchia di consiglieri.
Non dovevano giustificarsi presso un elettorato ma solo di fronte alla storia,
e di conseguenza non ricorrevano a una tra le più potenti armi dello Stato
moderno, la propaganda, cui non veniva affidata nessuna funzione ufficiale in
politica. Strumenti di controllo sociale, come il pulpito, erano riconosciuti
come tali e avevano il dovuto ruolo, ma la pressa da stampa non era ancora uno
strumento di Stato.
Tuttavia la propaganda cominciava a venir usata per
giustificare lo stato di guerra e raggiunse il suo apogeo nella voluminosa
letteratura di pamphlet, opuscoli e fogli volanti che videro la luce durante la
guerra dei Trent’anni. Molti stati europei tentarono di organizzare una stampa
propagandistica proprio per il motivo della guerra. La celebre “Gazette de France” di Richelieu
(1631) era diretta non all’opinione interna ma a quella europea.
Nell’Inghilterra di Cromwell la stampa era in larga misura controllata dal
segretario di Stato Thorloe, la cui sfera d’autorità investiva per l’appunto
gli affari esteri: attorno al 1650 sopravvivevano solo due giornali ambedue
portavoce del governo.
Il ruolo ridotto della propaganda ebbe una più vistosa
eccezione: durante le sommosse rivoluzionarie della metà del secolo a Londra,
Parigi e Barcellona, per la prima volta nella storia europea, gruppi di
opposizione usarono la stampa per attaccare la politica dello Stato, fornendoci
così una delle più ricche raccolte di opinioni di cui gli storici possano
disporre.
Nel tardo Seicento si
comincia a riconoscere l’importanza della propaganda. In Olanda, de Witt è
costretto a usare materiali a stampa contro la potente opposizione e l’Interest of Holland di de la Court è
“concepito per far risaltare l’eccellenza del governo degli stati generali
contro la riprovevole natura di quello degli stadhoulders” ossia la casa di Orange.
Il popolo stava dunque cominciando a penetrare i sacri misteri
del poter ma si era in un’epoca predemocratica e in tempo di crisi o di insuccessi
gli statisti si rivolgevano non al popolo, ma soltanto a Dio, e soltanto di
fronte a lui ritenevano di dover giustificare le proprie azioni. La stretta
relazione con Dio degli statisti cattolici era genuina ma sembra in qualche
modo distante se paragonata con l’intimità professata dalla loro controparte
protestante. Dio e la Provvidenza appaiono in tutti i discorsi e scritti di
Cromwell, un tratto tipico della tradizione puritana inglese.
Tutti gli uomini di
stato combatterono contro terribili opposizioni e si può dire che solo
Richelieu e Oxenstierna abbiano portato a compimento i loro programmi.
L’opposizone non era solo aspra e continua, ma anche personale (de Witt subì un
tentativo di assassinio mentre era in
carica e fu poi assassinato, Richelieu sventò almeno otto importanti complotti
contro la sua vita). Sarebbeingenuo immaginare che le loro personali debolezze
di carattere non avessero peso nelprovocare le opposizioni. Cromwel era destato
da molti perché “grossolano simulatore e gran bugiardo”; gran parte della
campagna contro Mazzarino nasceva da un’antipatia personale per lui.
La grande massa di mazarinades (ne sopravvivono oltre
cinquemila) rappresenta unapreziosa fonte di giudizi sui mali attribuiti agli
uomini di Stato.
Gli uomini in politica
dovevano avere spalle larghe per sopportare la critica e per la stessa ragione
essere di natura tollerante. In Francia lo stato stesso doveva tollerare gli
Ugonotti. L’alleanza con stati protestanti accrebbe i motivi per esercitare
tolleranza. Richelieu addirittura incaricò alcuni ugonotti di posizioni di
prestigio come la formazione dell’Accademia di Francia. Olivares era
sorprendentemente tollerante nei confronti degli ebrei. Cromwell, nonostante la
repressione contro i cattolici irlandesi dichiarò ripetutamente la sua ostilità
verso ogni sorta di coercizione religiosa. Criticava la “ristrettezza di
vedute” dei protestanti (leggi: calvinisti) e lamentava che “ognuno desidera
avere libertà ma nessuno vuole concederla”. De Witt si mostrava tollerante nei
confronti di cattolici, mennoniti ed ebrei. La repubblica olandese aveva
imposto il credo calvinista di una minoranza su una popolazione a maggioranza
cattolica, ma de Witt, pur appoggiandole in teoria, non fece mai nessun passo
per rafforzare le intolleranti leggi anticattoliche, per questo era considerato
un ipocrita dai calvinisti fanatici.
Non possiamo non essere
impressionati dalla operosità degli uomini di stato. Senza l’aiuto di una
affidabile burocrazia erano costretti a occuparsi personalmente anche del
minimo affare di governo, e quindi soggetti a soffrire di sovraccarico di
lavoro e depressione. Chistopher Hill non esita a definire Cromwell “maniaco
depressivo” e lo stesso fa Gregorio Marañón per Olivares.
Gli uomini di stato
dovevano fronteggiare l’opposizione e il fallimento
I piani di Olivares si
conclusero in un disastro, il governo di Cromwell si dissolse, il dominio dei
reggenti in Olanda terminò nelo sangue con l’assassinio dei fratelli de Witt,
il tantativo di Ixenstierna di stabilizzare la Svezia finì con l’abdicazione
della regina Cristina, il ministero di Mazzarino portò a una guerra civile. Ma
solo Olivares può essere liquidato con un fallimento, poiché le politiche da
lui adottate erano inattuabili e provocarono a loro volta ulteriori probloemi.
In maggiore o minor misura tutti gli altri diedero contributi positivi e duraturi al loro popolo.
Olivares, allo scopo di
tutelare la sua reputazione “di fronte alla storia” accolse alla corte uno
storico italiano. Richelieu raccolse documenti a suo favore da pubblicare,
anche se ciò avvenne solo dopo la sua morte. Tuttavia persino il potere
assoluto non va oltre la tomba e la reputazione degli uomini di stato ha
oscillato di generazione in generazione a seconda della clemenza dell’opinione pubblica
e della diligenza degli storici. Nel 1660, dopo la restaurazione, il corpo di
Oliver Cromwell venne disseppellito e appeso sulla pubblica forca a Tyburn.
Nessun destino avrebbe potuto essere più umiliante e volgare
I sovrani erano
notoriamente padroni ingrati, come Olivares, Fouquet e molti altri provarono a
loro spese. Tuttavia Gustavo Adolfo scrisse a Oxenstierna definendolo la sua
“luce nell’oscurità”.
“Questo è il secolo del soldato”, scriveva nel 1641 Fulvio
Testi, poeta e diplomatico ferrarese; e aveva ragione. Da un lato, in Europa
non c’erano mai state tante guerre; dall’altro, mai eserciti tanto numerosi
erano stati impegnati nelle operazioni militari. In tutto il Seicento ci furono
solo quattro anni di pace completa. Impero ottomano, Austria e Svezia furono in
guerra due anni su tre, la Spagna tre anni su quattro, Polonia e Russia quattro
anni su cinque. Nel 1600, quando la Spagna combatteva contro l’Inghilterra e
l’Olanda, e la Francia contro la Savoia, gli eserciti operanti in europa
contavano probabilmente in titale meno di 250.000 uomini. Nel 1645 questa cifra
si era certamente raddoppiata: più di 200.000 soldati combattevano in Germania
e nei Paesi Bassi nel quadro della guerra dei Trent’anni, 100.000 erano
impegnati in guerre civili nelle Isole Britanniche, e altri ancora militavano
in conflitti tra Francia e Spagna, tra Danimarca e Svezia, e tra Impero
ottomano e Venezia. Nel 1706, con il divampare della guerra di Successione
spagnola e delle grandi guerre del Nord, i soldati mobilitati erano forse
1.300.000, di cui quasi 400.000 nella sola Francia. Nel corso del Seicento
diventarono soldati, sembra, 10-12 milioni di europei, un totale senza
precedenti. Ma chi erano, di preciso, questi guerrieri: da dove venivano? come
si provvedeva al loromantanimento ed equipaggiamento? qual era la loro sorte?
Quasi tutti i soldati dell’età barocca, come quelli del
Rinascimento, erano volontari che si arruolavano per libera scelta. Il
procedimento era più o meno lo stesso in tutta l’Europa. Il principale
ufficiale addetto al reclutamento era di solito il capitano, e l’unità principale
la compagnia. Ogni capitano scelto dal governo aveva il mandato di reclutare
una compagnia in una determinata zona. Egli nominava anzitutto gli ufficiali
subalterni e faceva fare uno stendardo; poi si recava nelle varie città e
villaggi specificati nel mandato con lo stendardo, un tamburino e i suoi ufficiali.
I magistrati locali gli mettevano a disposizione una locanda o una casa
disabitata, che fungeva da quartier generale; si spiegava lo stendardo e i
rulli di tamburo richiamavano i volontari. Fra quanti si presentavano il
capitano sceglieva uomini robusti e in buona salute, di età fra i 16 e i 40
anni, e preferibilmente “non sposati né
figli unici, in modo da non recare danno ai genitori e al villaggio”. Le
reclute venivano quindi iscritte nel ruolo della compagnia (erano “arruolate”)
e ricevevano una somma in contanti e a volte un abito, più vitto e alloggio
gratis in attesa che la leva fosse completata. A questo punto (di solito due o
tre settimane più tardi) veniva letto alle truppe il codice militare, che
specificava le sanzioni conseguenti a eventuali mancanze; gli uomini dovevano
alzare la mano destra e giurare di accettare queste regole, le principali delle
quali riguardavano il dovere del soldato, pena la morte, di eseguire senza
discutere ogni ordine ricevuto e di rimanere in servizio finché non era
congedato ufficialmente. Così i soldati entravano formalmente al servizio dello Stato che li
aveva reclutati, e in virtù di quel giuramento ricevevano il primo mese di paga
(ma di fatto il denaro era versato al capitano, che deduceva le somme anticipate,
sotto forma di cibo, contanti o vestiario, prima di dare a ognuno ciò che gli
spettava). Dopodiché la compagnia si metteva in marcia direttamente verso il
teatro di operazioni o verso un porto di imbarco.
Anche la normale geografia del reclutamento era molto simile
in tutta Europa. I villaggi pastorali di montagna e in particolare le zone
subalpine della Germania meridionale, dell’Austria e della Svizzera, erano
tradizionalmente il vivaio degli eserciti, e il XVII secolo non fa eccezione;
ma nell’età barocca la maggior parte dei soldati di quasi tutti gli eserciti
venivano apparentemente da due altre aree: le città e la zona stessa di guerra.
Risulta per esempio che alla metà del Seicento il 52% dei soldati francesi
provenivano da centri urbani,mentre meno del 15% della popolazione francese
viveva in città. La ragione è semplice: in primo luogo, nelle città c’era di
solito una numerosa popolazione fluttuante, per la quale, specialmente in
periodi di crisi economica, l’impiego nell’esercito poteva essere una gradita alternativa alla
fame; in secondo luogo la gente di campagna si recava periodicamente in città
per il mercato e se qui c’era un reclutamento in corso ne dava notizia tornando
al villaggio. Per entrambi questi motivi a un capitano conveniva concentrare
gli sforzi nei centri urbani. E gli conveniva altresì reclutare i suoi uomini
il più vicino possibile alla zona di guerra: primo, perché qui la gente,
vivendo in condizioni particolarmente precarie, era più propensa ad arruolarsi,
e, secondo, perché da qui c’era meno strada da fare per arrivare al “fronte”.
Nel XVII secolo gli eserciti tenevano di rado un archivio sistematico dei loro
effettivi, ma i frammentari documenti
disponibili indicano che l’età media dei soldati all’arruolamento era di
circa 24 anni, e che quasi un quarto degli arruolati avevano meno di vent’anni.
Da tutto questo è facile intuire quale fosse il movente
principale di chi si offriva volontario per il servizio militare: la miseria.
Gran parte dei volontari avrebbero fatto eco al ritornello del soldato del Don Chisciotte (Parte II, cap. XXIV):
“Alla guerra mi porta / la mia necessità; / se avessi denari, / non ci andrei
in verità”. Alcuni erano dei “falliti”: gente che già aveva abbandonato il
villaggio tentando vanamente di guadagnarsi da vivere in città; gente che non
poteva (o non voleva) seguire il mestiere paterno; gente, per citare
l’impietoso giudizio del governo irlandese nel 1641, “per lo più inesperta
d’agricoltura e di manifattura, e tanto avvezza a un ozio neghittoso da essere
inetta e restia a ogni utile lavoro; che è una delle cause della povertà e del
bisogno che ora la induce a cercar fortuna altrove”. Ma a costoro si
aggiungevano spesso uomini ridotti senza lavoro da una crisi economica, o
privati del raccolto da cause naturali o umane. Tutti gli ufficiali reclutatori
avvertivano che era molto più facile trovare soldati quando i prezzi salivano o
scarseggiava il lavoro; e la somma pagata come “gratifica d’arruolamento”
variava in proporzione. In Francia la gratifica offerta nell’inverno 1706-1707,
quando i prezzi erano relativamente bassi, si aggirava sulle 50 livres; nel 1707-1708, aumentati i
prezzi, essa scese a 30 livres, e a
20 nel 1708-1709; e nel 1709-1710, dopo l’inverno peggiore da un secolo in qua,
gli uomini si arruolavano senza chiedere gratifiche di sorta: dato l’alto
prezzo del pane, l’arruolamento era per i poveri affamati una delle poche
possibilità di sopravvivenza.
Ma non tutti i volontari erano spinti dalla necessità
economica. C’era un secondo gruppo, più esiguo, di gente che desiderava
“cambiare aria”. Alcuni per sfuggire a problemi familiari (le ire di un padre –
o di un suocero putativo!), o al rischio di comparire in giudizio per qualche
reato penale o morale. Altri semplicemente per vedere il mondo, o per integrare
la propria educazione con una esperienza militare: nel periodo 1620-40, per
esempio, era diffuso fra i gentlemen inglesi impegnati nel Grand Tour l’uso di passare qualche settimana nei Paesi Bassi,
sotto le tende di un esercito accampato in assedio. Altri ancora erano attirati
dalle emozioni e dai pericoli della vita militare, da prospettive di gloria e
dall’eccitante sensazione di far parte di una categoria esclusiva (che in
Germania aveva perfino un proprio linguaggio, il Rotwelsch). Sir Jamer Turner, uno scozzese che nel 1630-40 combatté
per la Danimarca e per la Svezia, confessa di essere andato in guerra a causa
di “un desiderio impellente che mi era entrato nell’animo di essere se non
attore almeno spettatore delle guerre che a quel tempo suscitavano tanto rumore
in tutto il mondo”. Infine Robert Monro (altro scozzese al servizio della
Svezia, autore della prima storia reggimentale in lingua inglese: Monro, his expedition with the worthy Scots
regiment call’d Mackays) ammette di aver agito per desiderio di viaggio e
di avventura e per l’ambizione di militare sotto un condottiero illustre; ma
dice che a combattere sul continente fu indotto, più che da questi motivi,
dalla volontà di difendere la fede protestante e i diritti e l’onore di
Elizabeth Stuart, sorella del suo re e vedova dello sconfitto “Re d’Inverno” di
Boemia.
Ma Monro era un ufficiale, e quindi era libero di scegliere la
causa per cui combattere. La maggior parte dei suoi uomini avevano un altro
motivo: combattevano per ordine del capo del loro clan; quasi tutti i soldati
del reggimento di Mackay si chiamavano infatti Mackay. Analogamente molti dei
soldati scozzesi portati a combattere per Gustavo Adolfo nel 1631 da James,
marchese di Hamilton, avevano lo stesso nome del loro colonnello. Altrettanto
avveniva in Francia. Anche quando gli eserciti di Luigi XIV raggiunsero i
400.000 uomini un buon numero di volontari continuarono a essere reclutati
dagli ufficiali fra i loro parenti e vassalli. L’aggiunta di un vincolo
“famigliare” o “feudale” ai normali obblighi militari aumentava evidentemente
la coesione dei reparti; e così i colonnelli
usavano come ufficiali, quando era possibile, persone di famiglia o
vicini, e reclutavano quanti più vassalli potevano.
Infine, con l’avanzare del secolo acquistò importanza un
ulteriore motivo di arruolamento: sempre più numerosi erano i volontari che
sceglievano la carriera delle armi perché nati, letteralmente, alla vita
militare. I registri matrimoniali delle chiese di guarnigione rivelano che la
sposa o lo sposo erano spesso huius
castri filia (o filius); mentre
molte unità impegnate nelle ultime fasi della guerra dei Trent’anni contavano un
numero crescente di soldati che, come i figli di Madre Coraggio, vivevano da
sempre nell’esercito. E’ ovvio che molto spesso costoro, non conoscendo altro
mestiere, quando finiva una guerra cercavano di trovare impiego in un’altra.
Non fa meraviglia che la Germania, terminata nel 1648 la guerra dei Trent’anni,
diventasse un ottimo terreno di reclutamento per altri Stati.
In ciò, tuttavia, non c’era niente di nuovo, perché agli inizi
dell’età moderna quasi tutti gli eserciti erano composti in buona parte da
stranieri. L’esercito spagnolo di Fiandra, per esempio, il primo grosso
esercito permanente d’Europa comprendeva soldati spagnoli, italiani, borgognoni
e dei Paesi Bassi, tutti sudditi del Re di Spagna; ma forse un terzo delle
truppe venivano dall’Inghilterra, dall’Irlanda e (soprattutto) dalla Germania.
Questo carattere multinazionale degli eserciti aveva le sue buone ragioni. IN
primo luogo nel XVII secolo nessuno Stato era in grado di mettere in piedi
rapidamente un esercito numeroso con i suoi soli sudditi. “Non si può negare”
osserva Blaise de Vigenère, acuto scrittore francese di cose militari, “che gli
spagnoli siano i migliori soldati del mondo; ma sono tanto pochi, che si riesce
a stento a raccoglierne cinque o seimila per volta”. Lo stesso valeva per la
Francia: il cardinale Richelieu, nel suo Testamento
politico (1642) notava: “E’ quasi impossibile condurre con successo guerre
grandi con sole truppe francesi”. Almeno un quinto delle armate di Luigi XIII e
Luigi XIV era reclutato all’estero: si ritiene che fra il 1635 e il 1644
combattessero per la Francia 25.000 soldati irlandesi, accanto a numerosi
reggimenti tedeschi e svizzeri reclutati in paesi cattolici e protestanti.
Una seconda buona ragione per arruolare milizie straniere
anziché indigene era di ridurre al minimo il rischio di diserzioni. Nel 1630 un
comandante dell’esercito spagnolo di Fiandra osservava: “Se ci fosse una guerra
in Italia, sarebbe meglio mandare colà soldati dei Paesi Bassi, e portare qui
soldati italiani, perché le truppe native dei luoghi in cui si svolge la guerra
si sbandano alla prima occasione, e non c’è forza più sicura di quella dei
soldati forestieri”. E poco più avanti egli ribadisce: “Al momento non si può
fare la guerra… se non con truppe forestiere, perché i reparti locali si
disgregano subito”. La Spagna perciò praticava sistematicamente una sorta di
trasferta militare, mandando le truppe a prestare servizio lontano da casa.
Nessun altro Stato si spinse tanto avanti su questa strada, ma nel XVII secolo
gli eserciti olandesi, polacchi, russi, imperiali e svedesi facevano tutti
largo assegnamento su formazioni straniere.
Queste “truppe forestiere”, tuttavia, sebbene anch’esse in
gran parte volontarie, non potevano essere reclutate direttamente, perché erano
suddite di altri stati. Venivano arruolate tramite appaltatori o imprenditori
militari privati. La procedura era semplice: si formava un contratto che
impegnava il governo “cliente” ad anticipare all’imprenditore una certa somma
di denaro e a versargli in seguito regolarmente la paga stabilita, e conferiva
all’imprenditore il diritto di nominare tutti i suoi ufficiali; in cambio
l’imprenditore si impegnava a fornire un determinato numero di soldati entro la
data e nel luogo convenuti. Gli imprenditori, per lo più, erano in grado di
lavorare alla svelta, perché erano dei professionisti: di solito tenevano in
servizio permanente un nucleo di ufficiali e sottufficiali e potevano
raccogliere il resto delle truppe nel giro di pochi giorni.
Questo sistema raggiunse il culmine durante la guerra dei
Trent’anni, con circa 1.500 individui che raccoglievano truppe a contratto in
tutta Europa, dalla Scozia alla Russia, per uno o più committenti. Fra il 1630
e il 1635 c’erano forse 400 imprenditori militari che reclutavano e mantenevano
compagnie, reggimenti e brigate equipaggiate di tutto punto. Interi eserciti
furono raccolti in questo modo, da “appaltatori generali” che si assumevano il
compito di reclutare per uno Stato un corpo di molti reggimenti. L’esempio più
famoso di questa forma estrema di devoluzione militare è Albrecht von
Wallenstein, che per due volte mise in piedi un intero esercito imperiale (nel
1625 e nel 1631-32), ma ci sono altri casi: Ernesto conte di Mansfeld, per gli
olandesi, nel 1623; il marchese di Hamilton per la Svezia, e il duca Bernardo
di Sassonia-Weimar per la Francia, nel decennio 1630-40.
Il pregio fondamentale di un imprenditore militare era la
capacità organizzativa e amministrativa. La vittoria in battaglia non era,
stranamente, un requisito indispensabile: certi condottieri (come Mansfeld e
Dodo von Knyphausen nel decennio 1620-30) passarono a quanto sembra da una
sconfitta all’altra, ma riuscirono a tenere insieme le loro truppe grazie alla
sapiente organizzazione di risorse limitate. Essenziale per il successo era
invece la ricchezza. Wallenstein anticipò all’imperatore, fra il 1621 e il
1628, più di 6 milioni di talleri, finanziando l’esercito che sconfisse la coalizione protestante
anti-imperiale e invase la Germania settentrionale e lo Jutland. Bernando di
Sassonia-Weimar, la cui eredità, in quanto figlio cadetto, era molto modesta,
nel 1637 stimava la propria fortuna personale in 450.000 talleri (all’incirca
un terzo in denaro contante, un terzo in lettere di cambio e un terzo in una
banca parigina), somma che gli permise di tenere insieme le forze che l’anno
seguente presero Breisach, preziosa testa di ponte francese al di là del Reno.
In generale il prestigio di questi comandanti bastava ad
attirare volontari; e quando non bastava, a volte davano una mano le autorità
locali desiderose di sbarazzarsi di “elementi indesiderati”: criminali e
mendicanti. Nel 1626, per esempio, ai membri
del clan dei Mackay arruolatisi nel reggimento omonimo per combattere in
Danimarca si aggiunsero veri carcerati condotti al porto sotto buona scorta, e
costretti a giurare che non sarebbero mai tornati “in questo regno sotto pena
di morte”. E l’anno seguente un altro
colonnello scozzese fu autorizzato ad arruolare nel suo reggimento, per
combattere in Germania, mendicanti, vagabondi e “oziosi senza mestiere e senza
mezzi adeguati di sussistenza”. Il governo giustificò questo modo assai spiccio
di risolvere il problema dei disoccupati con l’argomento che costoro passavano
i tempo nelle birrerie, ed erano pertanto un peso inutile per il paese; mentre
potevano rendersi utili in guerra, invece
di oziare senza profitto in patria.
Questa, dunque, era e voleva essere una forma di coscrizione
che a volte veniva usata anche per le “leve nazionali”. In Spagna, nel 1646, le
autorità militari organizzarono incursioni nei bordelli e nelle osterie di Madrid:
tutti gli uomini validi furono ammanettati, caricati sui carri e portati in
Catalogna a combattere per il re. L’anno seguente gli ufficiali spagnoli
addetti al reclutamento furono informati che se non c’era altro modo di
raccogliere truppe si potevano utilizzare i detenuti di età adatta al servizio
militare, tranne i colpevoli di delictos
atroces. Ma a questi provvedimenti disperati si ricorreva, in quasi tutti i
paesi, solo in caso di grave emergenza militare, e nei confronti di gruppi
sociali comunemente considerati “superflui”. La sola forma permanente di
servizio militare obbligatorio nell’Europa della prima età moderna è l’indelningsverk (Sistema delle
assegnazioni”) introdotto in Finlandia e nella Svezia metropolitana nel primo
quarto del XVII secolo. Un primo progetto di coscrizione fu sperimentato nel
1600-1610, quando furono compilati elenchi di tutti i maschi sopra i 15 anni.
Poi, dopo il 1620, ogni distretto fu tenuto a fornire, equipaggiare e nutrire
un soldato ogni dieci abitanti maschi idonei. Ma per alcuni la probabilità di
andare sotto le armi era maggiore che per altri: gli assenti dall’assemblea che
si riuniva per scegliere i soldati erano, prevedibilmente, fra i primi ad
essere arruolati; mentre i nobili, gli ecclesiastici, i minatori, gli operai
delle fabbriche d’armi e i figli unici di madre vedova erano normalmente
esonerati. La maggior parte dei soldati svedesi erano quindi contadini, com’era
inevitabile in una società prevalentemente rurale: nei registri voluminosi (ma
ancora poco studiati) delle forze nazionali che nel XVII secolo crearono
l’impero continentale della Svezia, la qualifica bonde (contadino) è di gran lunga la più frequente nelle liste di arruolamento. Ogni anno il
governo specificava il numero complessivo delle reclute necessarie, e assegnava
una quota a ogni provincia e distretto. I totali possono sembrare molto modesti
– 11.000 nel 1628, 8.000 nel 1629, 9.000 nel 1630, ecc – ma non bisogna
dimenticare che la Svezia era un piccolo paese, con una popolazione maschile
adulta inferiore al mezzo milione.
Una delle ragioni per cui si cercava di reclutare più uomini di quelli
teoricamente necessari era che le nuove reclute non di rado rimpiangevano ben
presto di essersi arruolate. In particolare nella prima metà del secolo le
diserzioni, sebbene comportassero la pena di morte, erano un grave problema per
tutti gli eserciti; specie nei lunghi assedi che costituivano la parte
principale delle operazioni militari dell’età barocca. Nel 1622 l’esercito
spagnolo di Fiandra che assediava Bergen-op-Zoom perse quasi il 40% dei suoi
20.600 soldati, molti dei quali per diserzione. Dalle mura di Bergen le
sentinelle vedevano i nemici lasciare di soppiatto i loro posti, fingendo di
andare alla ricerca di legna o ortaggi, allontanarsi man mano dalle trincee, e
darsi infine alla fuga. Altri, almeno 2.500 uomini (un terzo delle perdite
totali) adottarono il disperato rimedio di disertare alla volta della città che
stavano assediando. “Dall’alba al tramonto si vedevano soldati sbucare come
conigli dalle tane, uscire dalle trincee, dalle siepi, dalle macchie e dai
fossi in cui erano nascosti, e correre a perdifiato verso la città”. Una volta, durante un attacco, un gruppo
di soldati gettarono le armi e passarono dall’altra parte. Alcuni dei disertori
erano italiani, arrivati da poco nei Paesi Bassi; una volta entro le mura di
Bergen chiesero solo “un po’ di pane e qualche soldo” e possibilmente un
salvacondotto per tornare a casa. Uno di loro descrisse in modo molto
espressivo le condizioni degli assedianti. Alla domanda delle sentinelle, “Da
dove vieni?”, rispose: “Dall’inferno”.
Nell’esercito francese, durante la prima metà del secolo, si
dava per scontato che per portare al fronte 1.200 uomini bisognava reclutarne
2.000, perché normalmente il 40% dei soldati andavano perduti nei primi mesi
per diserzioni e malattie. Così nel 1635, primo anno di guerra aperta contro la
Spagna, fu disposto l’arruolamento di 145.000 uomini per avere al fronte una
forza effettiva di soli 69.000. L’esecuzione di qualche disertore non sembra
migliorasse le cose, perché all’origine del problema non c’era la paura ma la
disperazione.
“La maggior parte dei soldati che prestano servizio in queste
province – scriveva nel 1635 il comandante in capo dell’esercito spagnolo di
Fiandra – lo fanno con molto malcontento e afflizione. Su quattro o cinquemila
richieste di congedo pendenti, i più dichiarano di accontentarsi del permesso
di andarsene in pagamento di tutti i loro servigi. Ciò deriva dal fatto che qui
i combattimenti sono molto aspri, prolungati e si svolgono in condizioni
durissime, mentre la mancanza di paga causa grande miseria;per cui quelli che arrivano qui… rimpiangono ben
presto di essere venuti”.
Per ridurre il numero dei disertori il rimedio più plausibile
era perciò un miglioramento delle condizioni di servizio: paghe regolari,
vettovagliamento costante, introduzione di un qualche sistema di licenze.
L’impresa riuscì dapprima in Francia, dove i potente ministro della guerra di
Luigi XIV, il marchese di Louvois, fece molto per migliorare la sorte del
soldato francese. Grazie a ciò, e alle pene draconiane non solo contro i
disertori ma anche contro chi dava loro aiuto e riparo, il fenomeno delle
diserzioni cominciò a essere sotto controllo. Nondimeno, fra il 1684 e il 1714,
circa 16.000 fuggiaschi dall’esercito furono portati in catene a Marsiglia come
forzati per le galere.
Tuttavia la maggior parte dei soldati militanti in Europa
durante l’età barocca, comunque reclutati, non disertavano. Accettavano la
disciplina militare e le condizioni fissate dai codici militari, aspettandosi
si ricevere in cambio dei loro servigi paga, mantenimento e (in determinate
circostanze) i frutti del saccheggio. Ma le promesse erano una cosa e la realtà
un’altra. Durante tutta la prima metà del secolo, e in alcuni paesi assai più a
lungo, nessun governo ebbe risorse finanziarie sufficienti a mantenere tutte le
sue forze armate. Nonostante le tasse, i prestiti e l’alienazione di beni, il
costo di una guerra superava regolarmente
i fondi disponibili. Così, invece di dare a ciascuno la paga che gli spettava in
contanti, gli eserciti per lo più venivano mantenuti con un complicato sistema
di “finanza alternativa”. Il sistema della devoluzione fu amaramente satireggiato da un romanzo
contemporaneo sulla guerra dei Trent’anni, Der
abenteuerliche Simplicissimus (L’avventuroso
Simplicissimus, 1669). L’autore, Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen,
dedica all’argomento una elaborata
similitudine, che paragona la gerarchia militare nei giorni di paga a uno
stormo di uccelli su un albero. Gli uccelli appollaiati sui rami più alti, egli
dice, “facevano gran festa quando un uccello-commissario volava sopra l’albero
e rovesciava giù una pentolata d’oro… ne arraffavano il più possibile, e
lasciavano cadere poco o niente sui rami di sotto; sicché gli uccelli situati
su questi rami morivano più spesso di fame che per gli attacchi nemici”.
In realtà la visione di Grimmelshausen era alquanto capziosa,
perché gli uccelli dei rami bassi – i soldati semplici – avevano di fatto altri
mezzi di sostentamento. Anzitutto il saccheggio. Ogni soldato sognava di
partecipare all’assalto vittorioso contro una città che aveva rifiutato di
arrendersi, perché in tal caso, secondo il diritto di guerra del tempo, la
città poteva essere messa a sacco e i
suoi abitanti privati legittimamente della libertà, degli averi e anche della
vita. I riscatti e i beni ottenuti con i saccheggio di una città ricca potevano
mutare ogni soldato vittorioso in un principe. Le truppe imperiali che
saccheggiarono Mantova nel 1630 e l’esercito francese che devastò il Palatinato
nel 1688-89, per esempio, tornarono a casa con tonnellate di bottino; e le
prede accumulate dagli Ironsides di
Cromwell nella vittoriosa campagna di Scozia, dalla battaglia di Dunbar nel
1650 al sacco di Dundee l’anno successivo, riempirono quaranta navi. Ma anche
bersagli minori potevano essere fonte di notevole arricchimento. Si potevano assalire
convogli mercanti e ricavarne bottino o riscatti; si potevano saccheggiare e incendiare impunemente villaggi non
fortificati e fattorie isolate. E le violenze non erano dirette solo contro gli
averi: uomini, donne e bambini venivano torturati se i soldati sospettavano che
fossero a conoscenza di altri beni nascosti; le donne erano violentate, spesso ripetutamente.
Durante la guerra dei Trent’anni correva un detto: “A ogni soldato occorrono
tre contadini: uno che gli dia alloggio, uno che gli dia sua moglie, e uno che
prende il suo posto all’inferno”.
Questa condotta, tuttavia, non era solo crudele, ma anche
“inefficiente”: sia perché alienava, distruggeva o eliminava risorse e
lavoratori che potevano essere utili ad altri reparti militari, sia perché
c’era sempre il rischio di deleteri contrattacchi civili. Racconta Robert
Monro, uno dei colonnelli dell’esercito di Gustavo Adolfo entrato in Baviera
nell’estate 1632: “Lungo la marcia i contadini trattavano crudelmente i nostri
soldati (che si disperdevano per saccheggiare) tagliando loro il naso e le
orecchie, mani e piedi, strappandogli gli occhi, e usando molte altre crudeltà;
ed erano giustamente ripagati dai soldati, che lungo la marcia bruciarono molti
villaggi, lasciando i contadini morti là dove si trovavano”
Per evitare queste gratuite devastazioni i soldati che
abusavano dei civili venivano severamente puniti. Almeno cinque uomini del
reggimento di Monro furono fucilati dal plotone di esecuzione e parecchi altri
furono condannati a morte dalla polizia militare perché colpevoli di reati contro la popolazione
civile.
Col protrarsi delle
guerre diventa indispensabile istituire metodi più razionali per utilizzare le
risorse locali, anzitutto riguardo all’alloggiamento delle truppe. L’alloggio
presso privati era prassi normale negli Stati con esercito permanente, per
esempio la Milano spagnola, e gli archivi di città di guarnigione come
Alessandria sono pieni di documenti (lettere, ordinanze, fatture,
dichiarazioni) relativi al costo dell’acquartieramento della guarnigione in
case private e della fornitura di letti, lenzuola e coperte, candele, legna da
ardere, stoviglie, domestici per le pulizie e finanche di prostitute. Sebbene
stipati in quattro o cinque per letto, si riteneva che i soldati sopravvivessero
meglio se alloggiati presso privati anziché acquartierati in caserme,
nonostante l’inevitabile scapito della disciplina. Scriveva nel 1642 Michel Le
Tellier, allora ispettore dell’esercito francese in Italia: “due mesi di paga
con alloggio presso contadini valgono molto di più di tre mesi di paga in
caserma a Torino”
Ma questa soluzione confortevolmente famigliare (e per lo
stato economica) poteva funzionare solo con guarnigioni di dimensioni modeste.
Poche città europee del XVII secolo superavano i diecimila abitanti; per esse,e
tanto più per un distretto rurale, era semplicemente impossibile nutrire e
alloggiare a lungo venti o trentamila soldati, o addirittura (verso lla fine
del secolo) centomila. La crescita numerica e la prolungata permanenza in
servizio degli eserciti portarono perciò ad adottare altre soluzioni. Sempre
più spesso le truppe furono acquartierate in caserme costruite appositamente o
in tende quando erano in marcia. Per le altre cose esenziali – soprattutto
viveri, vestiario e mezzi di trasporto – si ricorse alle “contribuzioni”: tasse
prelevate direttamente dalle singole comunità situate nelle vicinanze
dell’esercito, e pagate in denaro o in natura. Nella forma più cruda, le
“contribuzioni” venivano estorte con una minaccia molto semplice: di dare alle
fiamme il villaggio se non forniva l’occorrente alle truppe. Ma questo era un metodo
poco opportuno se l’esercito prevedeva di rimanere a lungo nella zona, perché
un villaggio si poteva bruciare una volta sola. Si sviluppò quindi un nuovo
sistema inaugurato nei primi anni del secolo nei Paesi Bassi dal genovese
Ambrogio Spinola, comandante dell’esercito di Fiandra dal 1603 al 1628. Fu
consigliato allo Spinola, se voleva avere la meglio sui nemici, di “aver più
cura della gente del posto” che dei suoi soldati; perché “i vostri soldati,
mentre si estrae la loro paga in Perù, in Fiandra possono morire di fame; ma se
trattate la popolazione con riguardo, vi darà pane e benedizioni”.
Così, col tempo, tabelle di contribuzione furono redatte dai
funzionari di reggimento o di compagnia da un lato e dai magistrati locali
dall’altro. Per tute le cose fornite alle truppe si dava una ricevuta, e il
totale veniva dedotto sia dalla paga futura dei soldati sia dalle tasse dovute
al governo dalla comunità. Inoltre i comandanti rilasciavano lettere di
protezione, che (almeno in teoria) garantivano a un villaggio di non dover dare
contribuzioni ad altre unità militari della zona. Fu istituito un sistema di
preavvisi per cui le comunità situate lungo la linea di marcia dell’esercito
potevano preparare in anticipo il necessario per le truppe; detraendone come si
è detto, i costo dalle tasse.
Occorreva pur sempre un certo esborso di denaro da parte dello
Stato, ma il suo ammontare era solo una frazione del costo effettivo
dell’esercito. In una lettera del gennaio 1626, scritta all’inizio del suo primo generalato, Wallenstein informò
il ministro delle finanze imperiali che
gli occorrevano “un paio di milioni di talleri all’anno per mandare avanti
questa lunga guerra”. Ma a quella data l’armata di Wallenstein contava 110.000
uomini e costava almeno cinque volte tanto. Inoltre, il denaro imperiale non
era versato direttamente alle truppe: era usato invece da Wallenstein per
mantenere il proprio credito personale e per provvedere i suoi ufficiali e
soldati dei beni e servizi indispensabili per la loro sopravvivenza come valida
fora combattente. Grazie a questo e alle contribuzioni, le paghe potevano
aspettare fino alla fine della guerra.
Nel periodo 1640-50 la maggior parte degli amministratori
militari calcolavano di fornire in natura tra la metà e i due terzi della paga
delle truppe, con vantaggio dei soldati oltre che del governo. Infatti, come
dice Cervantes, la guerra rendeva generoso l’avaro, e prodigo il generoso: i
soldati tendevano a spendere il loro denaro non appena lo ricevevano. Michel Le
Tellier, ministro francese della guerra, era dello stesso parere: “Lungi
dall’economizzare le loro risorse” egli scriveva qualche tempo dopo, “i soldati
spendono spesso in un giorno la paga di dieci, per cui non hanno mai di che
comprare indumenti e scarpe”. Fornire direttamente questi generi essenziali era
dunque economicamente un buon affare per i soldati come per l’erario. E’ dubbio
tuttavia che molti civili trovassero vantaggioso questo sistema alternativo. Il
“costo” esatto delle contribuzioni non lo sapremo mai, perché non tutti i
relativi documenti si sono conservati;ma è certo che esse costituivano un onere
grave e a volte disastroso per le popolazioni civili interessate, specialmente
durante la guerra dei Trent’anni. Si è calcolato, per esempio, che fra il 1631
e il 1648 gli eserciti svedesi raccolsero con le contribuzioni dieci-dodici
volte quanto arrivava dal tesoro di Stoccolma. Villaggi, cittadine e anche
città grandi potevano essere completamente rovinate dall’arrivo di truppe nelle
vicinanze.
Nella seconda metà del secolo, tuttavia, le contribuzioni
cessarono di essere il principale puntello della finanza militare. In Francia,
per esempio, nell’ultimo decennio del Seicento esse costituivano probabilmente
non più del 20% delle entrate dell’esercito; e la loro riscossione era regolata
assai meglio. A città e villaggi le contribuzioni richieste venivano notificate
con moduli a stampa riempiti caso per caso e spediti anticipatamente per posta.
Ma per le comunità pagare direttamente anche solo un quinto del costo degli
eserciti di Luigi XIV era un onere molto
gravoso, e spesso si riusciva a estorcere le contribuzioni solo con la minaccia
di dare alle fiamme i villaggi recalcitranti. Nel 1691 il re in persona
osservava: “E’ terribile essere costretti a bruciare villaggi per
costringere la gente a pagare le
contribuzioni, ma poiché non si riesce a farle pagare né con le buone né con le
cattive è necessario continuare a usare mezzi estremi” (Luigi XIV al
maresciallo Catinat, 21 luglio 1690).
Una delle ragioni per cui diminuì la fiducia nelle
contribuzioni per l’approvvigionamento militare fu il desiderio di migliorare
la qualità e soprattutto l’uniformità dell’equipaggiamento. Nei primi decenni
del secolo, a giudicare dalle pitture dell’epoca e dagli abiti dei militari
conservati nei musei, sembra che ai soldati fosse normalmente consentito di
vestirsi come volevano. C’erano peraltro qua e là tentativi di standardizzare
l’abbigliamento e di creare “uniformi”. Tutti gli uomini della milizia formata
nel 1605 dal duca di Neuburg nella Germania meridionale dovevano portare la
stessa “livrea militare”; la guardia della città di Norimberga, costituita nel
1619, ebbe anch’essa una divisa comune; e i due nuovi reggimenti raccolti nello
stesso anno dal duca di Brunswick-Wolfenbüttel furono vestiti uniformemente di panno azzurro. Ma
queste erano eccezioni. Gustavo Adolfo di Svezia aveva reggimenti che
venivano designati con un colore (“i
rossi”, “gli azzurri” ecc.); ma sembra che il colore si riferisse solo agli
stendardi.
Nel Manuale di guerra
pubblicato nel 1651 dallo zurighese Hans Conrad Lavater, alcune pagine erano
dedicate all’abbigliamento militare; ma parlavano solo di foggia e qualità, non
del colore. Soprattutto l’autore consigliava all’aspirante soldato di vestirsi
“con giudizio: scarpe grosse, brache robuste e calze spesse; due camicie
pesanti; giubba di pelle con un mantello per ripararsi dalla pioggia; cappello
largo di feltro per proteggersi dal sole e dall’acqua. Gli indumenti dovevano
essere di taglio abbondante per dare più calore; ma senza pelliccia e con poche
cuciture, che erano un vivaio di parassiti. E’ evidente che il manuale non
contemplava “uniformi” di sorta: ed è facile capire perché. Intanto non tutte
le truppe di un esercito del primo Seicento appartenevano allo stesso signore
della guerra. Fra gli imperiali, nel 1640-50, c’erano reparti sassoni,
bavaresi, vestfalici e spagnoli, oltre a reggimenti austriaci. Inoltre una
stessa formazione comprendeva a volte uomini reclutati in tempi e luoghi
diversissimi. Nel 1644 un reggimento bavarese sul quale abbiamo una
documentazione particolareggiata poteva vantare soldati di ben 16 nazionalità:
oltre ai tedeschi (534) e agli italiani (217), i due gruppi più numerosi,
c’erano polacchi, sloveni, croati, ungheresi, greci, dalmati, lorenesi,
borgognoni, francesi, boemi, spagnoli, scozzesi e irlandesi; e perfino 14
turchi. Anche se tutti costoro, all’atto di arruolarsi nel reggimento, avessero
ricevuto uniformi uguali, l’uguaglianza sarebbe durata poco; i vestiti si
consumavano presto, e venivano rimpiazzati con indumenti depredati alla
popolazione civile, tolti ai morti o acquistati nei rari momenti di opulenza.
Se dunque nel guardaroba di un reggimento poteva predominare per un periodo un
abbigliamento di una determinata tinta, entro breve tempo gli uomini
diventavano o veterani laceri e impolverati o le figure arlecchinesche vestite
con i colori dell’arcobaleno ritratte dai pittori militari dell’epoca.
Non essendoci uniformi, per gran parte del XVII secolo i
soldati che militavano dallo stesso lato dovettero quindi avere un segno
distintivo: di solito una fascia, un nastro o una piuma di un determinato
colore. Per esempio le truppe asburgiche, fossero austriache o spagnole,
portavano sempre un contrassegno rosso; le truppe svedesi, giallo (o giallo e
azzurro); quelle francesi, azzurro; e le olandesi arancione. Se due diversi
eserciti si coalizzavano, occorreva un ulteriore contrassegno: quando, per
esempio, le varie unità che sostenevano Guglielmo III d’Orange (molte delle
quali avevano proprie uniformi reggimentali) si unirono nell’Irlanda
nordorientale alla vigilia della battaglia del Boyne (luglio 1690), tutti i
soldati si misero sul cappello qualcosa di verde (spesso un rametto fronzuto o
una felce raccolti lungo la marcia).
In quel tempo una simile precauzione era insolita. Nel
decennio 1640-50 il ministero francese
della guerra ordinava ancora abiti per i soldati in tre taglia – la metà
“normale”, un quarto “grande” e un quarto “piccola” – ma senza dir nulla della
qualità e del colore. Ma nel 1645 il conte Gallas (all’italiana Galasso),
comandante in capo delle truppe imperiali, ordinando ai pannaioli austriaci la
fornitura di 600 uniformi per il suo reggimento, accluse un campione della
stoffa e del colore (grigio chiaro) da usare. Inviò anche ai produttori locali
modelli delle fiaschette per la polvere da sparo e delle cartucciere da
fabbricare in grandi quantitativi. Alla fine del secolo, grazie a molte
iniziative del genere, si era raggiunta la stessa uniformità su scala nazionale:
tutte le truppe di un determinato esercito avevano giubbe e brache dello stesso
colore, ed erano dotate di armi e equipaggiamenti sostanzialmente dello stesso
modello.
Le difficoltà che si frapponevano al raggiungimento di questo
risultato non vanno sottovalutate; a cominciare dalle armi. All’inizio del
Seicento la metà, grosso modo, dei fanti dovevano essere provvisti di picche di
tredici piedi (circa quattro metri) e di corazza; gli altri di moschetti a
miccia (lunghi cinque piedi, un metro e mezzo) con le rispettive forcelle
d’appoggio (oppure di archibugi, più corti e leggeri), e inoltre di fiaschette
per la polvere, di pallottole e di micce a lenta combustione; le truppe di
cavalleria di una mezza armatura, di pistole e di lance; e tutte le truppe di
elmi e di spade. Con l’avanzare del secolo la proporzione delle armi da fuoco,
e quindi del numero di soldati da equipaggiare in modo conforme, aumentò a
circa due terzi. Non era indispensabile che queste armi fossero assolutamente
identiche (ancora nell’ultimo decennio del Seicento ogni soldato usava
pallottole che si fabbricava col piombo in dotazione); ma una buona dose di standardizzazione
era necessaria, ed era di fatto realizzata nella produzione su larga scala,
come si può constatare visitando la raccolta di armi e armature secentesche
dell’Arsenale di Graz, in Austria: migliaia di armi e relativi accessori
altamente standardizzati, sebbene prodotti da botteghe diverse, e pronti
all’uso, con cui si potevano equipaggiare in un giorno, all’occorrenza,
ottomila uomini.
Meno facile era accumulare cavalli. E’ vero che nei primi
decenni del secolo la cavalleria costituiva meno del 10% della maggior parte
degli eserciti dell’Europa occidentale: la Francia, quando nel 1635 mosse
guerra alla Spagna ordinò il reclutamento di 132.000 fanti ma solo di 12.400
cavalieri. Anche questa cifra relativamente esigua, tuttavia, poneva problemi di
approvvigionamento: infatti per ogni soldato di cavalleria occorrevano nel
corso di una campagna almeno tre cavalcature (e a volte più: nella battaglia di
Breitenfeld del 1631 Ottavio Piccolomini ebbe uccisi sotto di sé, nel corso
della giornata, sette cavalli); senza contare i cavalli occorrenti per lo stato
maggiore, gli ufficiali, l’artiglieria e i carriaggi. Col crescere di
dimensioni degli eserciti europei, in cui nella seconda metà del secolo la
quota della cavalleria raggiunse circa il 20% gli allevatori di cavalli
disposero di un florido mercato. Naturalmente c’erano a volte difficoltà di
rifornimento (dopo una grande battaglia o in caso di mobilitazione improvvisa);
ma nel complesso, proprio grazie alla costanza della domanda militare nell’età
barocca, dopo il 1650 gli eserciti trovavano per lo più tutti i cavalli di cui
avevano bisogno.
Diverso il caso dei viveri. Anzitutto, agli inizi dell’età
moderna nessun esercito consisteva soltanto di combattenti. Molti soldati erano
accompagnati da mogli o amanti; altri, anche più numerosi, avevano servitori e
lacché. Nel 1622, quando l’esercito spagnolo di Fiandra mise l’assedio a
Bergen-op-Zoom, tre pastori calvinisti della città assediata osservarono con
virtuoso sarcasmo che “una coda tanto lunga in un corpo tanto piccolo non si
era mai veduta… un esercito così piccolo con tanti carri, cavalli da soma,
ronzini, vivandieri, lacché, donne, bambini e una marmaglia molto più numerosa
dei soldati”. Può darsi che così fosse, anche se dagli archivi dell’esercito di
Fiandra risulta che nelle guerre dei Paesi Bassi la gente al seguito superava
di rado il 50% delle truppe; comunque, nel 1646 due reggimenti bavaresi
combattenti in Germania consistevano di 480 fanti accompagnati da 74 servitori,
314 donne e bambini, 3 vivandieri e 160 cavalli, e di 481 soldati di cavalleria
con 236 servitori, 9 vivandieri, 102 donne e bambini e 912 cavalli.
Tutti costoro avevano bisogno di mangiare e di bere. L’assegnazione
quotidiana di 750 grammi di pane, mezzo chilo di carne o formaggio e due litri
di birra (che era la razione
teoricamente spettante a ciascun soldato) sembrava abbastanza ragionevole, ma
moltiplicata per il totale delle bocche da nutrire in un esercito creava
problemi cui normalmente dovevano far fronte solo le grandi città, con solide e
stagionate infrastrutture alimentari. In un esercito di 30.000 uomini c’erano
forse 45.000 bocche da nutrire: quindi per produrre la razione di pane regolare
per tutti bisognava macinare e cuocere quotidianamente 80.000 kg di farina; i
22.500 kg di carne richiedevano la macellazione e preparazione quotidiana di
2.500 pecore o 250 manzi (una cifra altissima, date le scorte di bestiame
relativamente piccole del tempo); mentre per la razione di birra occorreva
fabbricarne e distribuirne, ogni giorno,
90.000 litri. Inoltre per cuocere il pane ci volevano forni (ognuno di 500 mattoni), legna da
ardere, carri per trasportare la farina, i forni e la legna… Infine i cavalli
necessari per tutto questo, e per la
cavalleria, l’artiglieria, gli ufficiali, le salmerie – forse 20.000 animali,
in un grande esercito in campo – consumavano circa 90 quintali di foraggio,
ossia 160 ettari di pascolo ogni giorno.
Nella seconda metà del Seicento, crescendo gli eserciti, il
problema di organizzare questa mole di approvvigionamenti per operazioni
prolungate indusse gli Stati, uno dopo l’altro, a riassumere i compiti prima
delegati agli imprenditori militari. Il primo a battere questa strada fu, forse
non a caso, il solo paese d’Europa governato da un soldato di mestiere: la
repubblica britannica. All’indomani dell’esecuzione di Carlo I, nel gennaio
1649, il nuovo governo repubblicano di Londra decise di invadere e conquistare
l’Irlanda. Si sapeva fin dall’inizio che la forza di spedizione non avrebbe trovato
mezzi di sussistenza su quell’isola, povera e arretrata; doveva portare tutte
le sue provviste con sé. Ma dato che l’Inghilterra era in guerra dal 1642, le
industrie chiave erano già organizzate in modo da poter soddisfare rapidamente
nuove ordinazioni. Fra il giugno 1649 e il febbraio 1650 furono spedite a
Dublino circa 6.000 tonnellate di grano e di segale 250 tonnellate di
formaggio, 150 di gallette e 5.000 ettolitri di birra (oltre a quantità minori
di sale, salmone, lardo, riso e uva passa). La Repubblica, sembra, fornì ai
circa 16.000 soldati del corpo di spedizione il 90% del pane, il 50% del
formaggio e il 40% della birra quotidiani (deducendone il costo dalla loro
paga). Ma non basta. L’esercito, comandato da Oliver Cromwell, portò anche con
sé una scorta considerevole di denaro liquido, in parte per le paghe dei
soldati, ma anche per l’acquisto di vettovaglie supplementari. Un proclama
garantì che chiunque poteva portare e vendere liberamente provviste
all’esercito, ricevendone pagamento in contanti. I soldati sorpresi a
saccheggiare venivano impiccati. Inoltre nell’inverno del 1649-50, quando
l’esercito di Cromwell era acquartierato per la sosta invernale, il governo di
Londra organizzò l’invio di 17.950 serie di indumenti (scarpe, calze, brache e
camicie), insieme a 17.000 metri di panno per soprabiti e a 19.000 metri di
tela per fare tende per la nuova campagna. Questa impresa logistica agevolò la
conquista inglese dell’Irlanda in tempi notevolmente brevi, e fu ripetuta in
Scozia nel 1650-51.
In tre anni l’esercito di Cromwell riuscì così a unificare per
la prima volta tutte le Isole Britanniche: gli ordini del governo di Londra
giungevano ed erano obbediti in ogni angolo dell’arcipelago, senza eccezione.
Certo, l’efficienza combattiva dell’esercito di Cromwell, forgiato nelle guerre
civili d’Inghilterra, fu essenziale per ottenere questo risultato; ma le truppe
furono in grado di battersi vittoriosamente, spesso in zone remote dove nessun
esercito aveva mai guerreggiato, soltanto grazie al loro ottimo sistema di
rifornimenti. “Una cosa è certa”, ricordava in seguito uno dei partecipanti
all’impresa: “nelle ultime guerre, Scozia e Irlanda sono state conquistate
grazie ai tempestivi rifornimenti di formaggio del Cheshire e di gallette”.
L’esempio inglese fu studiato all’estero, specie in Francia
(con la quale Cromwell strinse una breve alleanza che portò i due eserciti a
combattere insieme sul continente per alcuni anni). Il giovane Luigi XIV vide
ben presto i vantaggi di un esercito permanente, e si convinse che per il suo
mantenimento era necessaria una rete di fornitori regolari e di magazzini
militari. Con un esercito di 150.000 uomini in tempo di pace, esisteva una
domanda costante e calcolabile, che presto creò come nell’Inghilterra repubblicana,
una infrastruttura permanente e specializzata in grado di fornire alle nuove
leve, in caso di improvvise emergenze belliche, viveri, vestiario e armamento.
Da questa centralizzazione all’uniformità il passo era breve; e nel decennio
1680-90 tutto l’esercito francese era vestito ormai con il “blu nazionale” e
provvisto di armi di modello standard. Il costo, naturalmente, era enorme:
Luigi XIV spese per la guerra, nell’ultimo decennio del secolo, il 75% delle entrate statali
(Cromwell nel 1650-60 aveva speso il 90%!); ma i risultati furono imponenti. I
confini della Francia si spostarono in avanti in tutte le direzioni, e si
accrebbe il potere dello Stato sui sudditi. Gli “eserciti di nuovo modello”
avevano dimostrato i loro pregi, e i metodi inaugurati da Cromwell e Luigi XIV
furono presto imitati in tutta Europa.
Nel 1601 l’inglese Lord Mountjoy, vittorioso comandante della
regina Elisabetta in Irlanda, permise ai nemici sconfitti di arruolarsi in
eserciti stranieri: perché, a suo dire, “si è sempre visto che di costoro, una volta partiti per
questo viaggio, più di tre su quattro non sono mai più tornati”. Studi recenti
hanno confermato questa sinistra statistica. Per esempio il distretto di
Bygdea, nella Svezia settentrionale, fra il 1621 e il 1639 mandò a combattere
in Polonia e in Germania 230 giovani, di cui 215 morirono colà e 5 tornarono a
casa invalidi. Gli altri, dieci in tutto, erano ancora in servizio nel 1639, ma
è improbabile che qualcuno di loro sia vissuto tanto da vedere la fine della
guerra, nove anni dopo; dato che il 27 coscritti di Bygdea del 1638 morirono
tutti tranne uno, entro un anno dalla loro partenza per la Germania.
L’arruolamento, in eFfetti, era diventato una condanna a morte. Non fa
meraviglia che i maschi adulti di Bygdea diminuissero del 40%, da 468 nel 1621
a 288 nel 1639; mentre l’età dei coscritti si abbassava man mano, con
l’arruolamento di un numero crescente di adolescenti che partivano per non fare
più ritorno. Dei soldati mandati all’estero nel 1639 la metà avevano solo
quindici anni, e tutti tranne due ne avevano meno di diciotto. Nel 1640 il
numero delle famiglie del distretto con a capo una donna era aumentato di sette
volte. Le perdite totali dell’esercito svedese fra il 1621 e il 1632 sono state
stimate in 50.000-55.000 uomini; quelle fra il 1633 e la fine della guerra
(1648) furono probabilmente almeno il doppio.
Questa alta mortalità militare non era un’esclusiva della
Svezia. Si stima che in generale un soldato su quattro o cinque arruolati negli
eserciti dell’Europa barocca moriva ogni anno in servizio attivo, e la
percentuale andò aumentando con l’avanzare del secolo. Probabilmente 600.000
soldati morirono durante la guerra dei Trent’anni (1618-48): una media di
20.000 all’anno) e 700.000 durante la guerra di successione spagnola (1702-13:
una media di 64.000 l’anno).
Come spiegare cifre tanto alte? Una innovazione tattica
importante del XVII secolo, che accrebbe il rischio di morte in combattimento,
fu lo sviluppo incessante di armi da fuoco più efficaci. Già prima,
naturalmente, esistevano cannoni, moschetti e pistole, ma di rado erano stati
usati con effetti così micidiali. Dopo il 1600 i progressi della siderurgia
permisero di ridurre il peso della maggior parte delle armi da fuoco,
rendendone più agevole il trasporto e più preciso il tiro; il miglioramento dei
congegni di sparo – soprattutto l’acciarino a pietra focaia, dal decennio
1630-40 – le rese più sicure; e l’invenzione della baionetta a incastro nel
periodo 1670-80 permise di usare il moschetto come arma da punta e da taglio
oltre che da sparo.
Ma l’innovazione principale nell’uso delle armi da fuoco
avvenne in campo tattico. Punto di partenza fu la riforma dell’esercito
olandese attuata da Maurizio di Nassau.
Ispirandosi ai metodi di Roma imperiale e di Bisanzio descritti da Eliano e da
Leone VI, Maurizio mutò l’ordinamento di battaglia delle truppe. Invece delle
falangi di 40 e 50 file frontali di picchieri usate nelle guerre del XVI
secolo, schierò i suoi uomini su 10 sole file. La forza d’urto delle sue
formazioni, più piccole, derivava più dalla potenza di fuoco che dalle cariche
dei picchieri. Non meno di metà dei soldati dell’esercito di Maurizio erano
moschettieri. Questi cambiamenti apparentemente semplici, resero nondimeno
necessarie profonde modifiche dell’organizzazione militare. Da un lato la ridotta profondità
dello schieramento comportava la sua estensione in larghezza, esponendo un
maggior numero di soldati alla prova del
combattimento corpo a corpo e al fuoco nemico; dall’altro, lo schieramento più
esile esigeva da ciascuno una disciplina e un coordinamento maggiori.
Soprattutto, l’esercito olandese perfezionò la tecnica del fuoco di fila: la
prima linea scaricava simultaneamente i moschetti sul nemico, poi arretrava per
ricaricare le armi mentre le altre nove linee prendevano man mano il suo posto
creando una grandine continua di fuoco. Ma compiere questa manovra di fronte al
nemico richiedeva molto sangue freddo, un coordinamento perfetto e una grande
padronanza di tutti i movimenti necessari. Perciò Maurizio reintrodusse le
esercitazioni in uso nell’esercito romano.
L’insistenza di Maurizio sulla precisione e l’armonia in
guerra rispecchiava la generale predilezione dell’età barocca per le forme
geometriche – in architettura, nell’equitazione, nella danza, nella pittura,
nella scherma, in battaglia; e le sue idee furono largamente ammirate e
imitate. Già nel 1603 un testo militare francese dedicò un intero capitolo agli
Esercizi in uso nell’esercito olandese e
nel 1608 il primo manuale militare figurato dell’Europa occidentale, composto
da Giovanni di Nassau, cugino di Maurizio fu pubblicato ad Amsterdam col titolo
L’esercizio delle armi, sotto il nome
di Jacob de Gheyne, noto incisore. Molte altre opere imitarono la tecnica usata
dal de Gheyne, di una sequenza numerata di figure illustranti passo passo il maneggio
delle armi e l’ordinamento delle truppe in guerra. Poi nel 1616 il conte
Giovanni aprì nella capitale del suo principato di Nassau, Siegen, un’accademia
militare (la prima d’Europa) espressamente destinata all’educazione di un corpo
professionale di ufficiali. Il primo direttore di questa “Schola militaris”,
Johann Jacob von Wallhausen, pubblicò vari manuali di tecnica guerresca
modellati sull’esempio olandese, base di tutto l’insegnamento impartito a
Siegen (dove l’istruzione durava 6 mesi; armi, armature, mappe e modelli erano
forniti dalla scuola).
La diffusione della nuova tattica non avvenne solo tramite i
libri e la scuola: a Maurizio fu chiesto di fornire istruttori militari ad
altri stati. Nel 1610 il Brandeburgo ne chiese e ne ottenne due, e nel decennio
successivo altri andarono nel Palatinato, Baden, Württemberg,
Assia, Brunswick, Sassonia e Holstein. Anche gli svizzeri, che per primi
avevano dimostrato l’efficacia dei picchieri nella lotta contro la Borgogna
quattrocentesca, furono costretti nonostante il loro tradizionalismo ad
adeguarsi: nel 1628 la milizia di Berna fu riorganizzata all’olandese, con
compagnie più piccole e una maggiore potenza di fuoco. Ma l’allievo più
eminente di Maurizio fu Gustavo Adolfo di Svezia. In un giro in Germania nel
1620 egli vide molte forme diverse di organizzazione militare e di
fortificazioni e lesse tutti i testi principali in materia. Al suo ritorno
portò avanti le riforme di Maurizio, riducendo la profondità dello schieramento
dei moschettieri nell’esercito svedese da dieci file a sei, e accrescendo la
potenza di fuoco con l’aggiunta di quattro cannoni leggeri per reggimento.
Tutti i soldati venivano addestrati rigorosamente dai numerosi ufficiali e
sottufficiali; e si cercava di tenerli costantemente occupati fra scavo di
terrapieni, perlustrazioni e esercitazioni. Il re a volte istruiva
personalmente le truppe, mostrando alle nuove reclute come sparare col
moschetto stando in piedi, in ginocchio o stesi a terra. Le unità reclutate
all’estero assistevano a dimostrazioni dell’”ordine svedese” fatte dai
veterani, compresa la “scarica doppia”: in questo caso i moschettieri che prima
stavano su sei file, erano disposti su tre linee soltanto, la prima in
ginocchio, la seconda chinata e la terza in piedi in modo da poter fare fuoco
simultaneamente e “scaricare sui nemici in una volta sola quanto più piombo
possibile” (come osserva l’inglese James Turner, che vide questa tattica
micidiale in azione): “e in tal modo si fa loro più danno… perché uno scoppio
di tuono lungo e continuo è più terribile e pauroso per i mortali di dieci
tuoni separati”.
La differenza principale fra le “rivoluzioni militari” svedese
e olandese non era di tecnica ma di applicazione e di scala. Maurizio di Nassau
combatteva di rado battaglie campali (e in tal caso il suo esercito raggiungeva
a malapena i 10.000 uomini), perché il territorio in cui operava era dominato
da una rete di città fortificate che rendevano le battaglie non risolutive:
bisognava pur sempre porre l’assedio alle città. Gustavo, invece, operava in
zone che per settant’anni o più erano stata risparmiate dalla guerra e anche da
minacce di guerra; dove,perciò, le città fortificate erano molto meno numerose
(anche se, quando c’erano, bisognava assediarle), e l’esito di una battaglia
poteva dare il controllo di un vasto territorio. La migliore pubblicità per il
nuovo sistema militare fu la vittoria di Gustavo a Breitenfeld nel 1631,
classico confronto fra l’ordine di battaglia tradizionale, in uso dal tempo
delle guerre d’Italia del Rinascimento, e l’ordine nuovo. Gli imperiali,
composti prevalentemente di picchieri informazioni di trenta file di cinquanta
uomini ciascuna, affrontarono un esercito svedese disposto in formazioni di tre
file di moschettieri e cinque di picchieri, con un numero doppio di cannoni.
L’artiglieria svedese poteva lanciare ogni sei minuti una palla di ferro di 9 kg alla distanza di 1.700 metri; i
moschettieri, che costituivano un po’ più della metà delle truppe di Gustavo,
erano in grado di sparare salve ripetute di pallottole di piombo di circa 20 mm
di diametro con notevole precisione fino a 50 metri, e con una precisione del
50% circa fino a 75 metri.
Il risultato di questi vari sviluppi era la morte di un gran
numero di soldati. I medici dell’epoca erano in grado di curare molte ferite
d’arma bianca, ma non le fratture ossee provocate dalle palle di moschetto o di
cannone. A Breitenfeld i morti furono 7.600, più di un quinto degli imperiali
sconfitti; conl’avanzare del secolo, all’aumento percentuale di moschettieri e
cannoni corrispose l’aumento delle perdite. Nella battaglia di Malplaquet
(1709) le due parti persero circa un quarto degli uomini; complessivamente,
forse 50.000 morti in una sola giornata. Le perdite erano di solito molto
gravi, sembra, indipendentemente dalla durata del combattimento. Se le due
parti erano di forza pari, come a Malplaquet, il massacro era spaventoso. Se
erano disuguali, alla sconfitta della forza inferiore poteva tener dietro un
accanito inseguimento e un’altra strage, perché molti soldati fuggiaschi e
interi reparti venivano uccisi a sangue freddo dagli avversari (con l’aiuto
talvolta dei contadini del luogo). Anche una ritirata in buon ordine poteva
costare gravi perdite umane. Nel novembre 1643 l’esercito francese al comando
di Turenne, sconfitto nella battaglia di Tuttlingen (in Baviera) fu costretto
ad abbandonare le salmerie e ad arretrare sino al Reno nel cuore dell’inverno:
dei 16.000 superstiti della battaglia, appena un terzo sopravvisse alla
ritirata. L’anno seguente un esercito imperiale che aveva invaso lo Holstein fu
costretto dal nemico a ritirarsi
attraverso territori devastati a tal punto che la maggior parte dei
soldati morirono di fame. Secondo un cronista contemporaneo, dei 18.000 uomini
che avevano cominciato la ritirata soltanto un migliaio tornarono a casa:
sicché “sarebbe difficile trovare altro esempio di un esercito distrutto in
così breve tempo senza una grande battaglia”. Alla stessa data il cardinale
Richelieu osservava nel suo Testamento
politico: “Vediamo nelle storie che gli eserciti sono periti molto più
spesso per mancanza di cibo e di ordine che per mano nemica”.
Causa di perdite umane altrettanto gravi erano gli assedi,
assai più frequenti delle battaglie
nella maggior parte delle guerre. Nel 1628, dei 7.833 inglesi imbarcati
a Portsmouth per portare soccorso a La Rochelle in Francia, 409 perirono quasi
subito nello sbarco sull’isola di Ré, 100 nelle trincee e 120 per dissenteria;
3.895 caddero in assalti sfortunati alle
ridotte francesi o nella ritirata finale; e altri 320 andarono dispersi. I superstiti della
campagna che tornarono a Portsmouth in ottobre furono soltanto 2.989: una
perdita del 62% in tre mesi. Lo stesso anno, durante il blocco di Stralsunda,
il reggimento scozzese di Mackay (900 uomini) fu in servizio fra i difensori
per sei settimane consecutive. Secondo
il suo colonnello, anche il cibo veniva portato agli uomini al posto di
combattimento: “da cui non potevamo allontanarci per l’ordinaria ricreazione e
nemmeno per dormire… né ci toglievamo mai i panni di dosso, salvo per cambiare
vestito o camicia”. In quaranta giorni i morti del reggimento furono 500, i
feriti 300 (fra cui il colonnello). E tuttavia gli scozzesi si consideravano
fortunati perché se Stralsunda fosse stata presa d’assalto avrebbero potuto
morire tutti – come la guarnigione di Francoforte sull’Oder nel 1631, sconfitta
e massacrata sul posto. In quel caso ci vollero sei giorni per seppellire i
3.000 difensori imperiali, insieme agli 800 soldati morti nell’assalto: tanto
the “alla fine i morti venivano gettati
a mucchi in grandi fosse, più di cento in ognuna”.
Molti soldati, inutile dirlo, morivano non di ferite ma per
altre cause. Come osserva il già citato James Turner la vita militare era dura,
anche senza i rischi del combattimento; specialmente per le nuove reclute, “che
prima non sapevano cosa volesse dire non fare due o tre pasti al giorno e non
andare a letto la notte a un’ora opportuna”, e che adesso dovevano “trascorrere
la notte nei campi con poco o nessun
riparo, marciare sempre a piedi e bere acqua”. Nel 1620 un’armata di italiani
proveniente dalla Lombardia attraversò il Piemonte diretta alla guerra nei
Paesi Bassi; un osservatore giudicò che su di essa c’era da fare poco
assegnamento: “i soldati delle prime due file avevano buon aspetto e un’aria
marziale, ma gli altri erano poveri ragazzi fra i 16 e i 20 anni, deboli e
malvestiti, i più senza cappello o senza scarpe. I loro carri sono giù pieni di
ammalati, sebbene siano in marcia da cinque giorni soltanto, e il sono convinto
che… metà di loro cadranno lungo la strada”. Il viaggio da Milano a Bruxelles
era una marcia di 1.000 chilometri, e bisognava attraversare le Alpi (di solito
per il valico del Moncenisio); ma almeno era un viaggio in territorio amico.
Altri eserciti erano meno fortunati. Fra il 1630 e il 1633 le truppe svedesi
marciarono in Germania per 5.000 chilometri, da Peenemunde sul Baltico a
Magonza sul Reno, a Monaco di Baviera e al Brandeburgo, combattendo quasi di
continuo. Nel 1654, in tre mesi di campagna nelle valli inospitali e sui passi
dei monti scozzesi, l’esercito inglese di conquista percorse circa 1.600
chilometri; e morirono più uomini per le fatiche sopportate che per opera del
nemico.
Infine, oltre alle ferite, alla fatica e alla fame, mietevano
vittime le malattie. Nella brigata scozzese che combatté in Germania fra il 1626
e il 1633, sembra che gli ammalati fossero normalmente il 10%, con punte molto
più alte nelle periodiche epidemie. Le truppe imperiali entrate in Italia nel
1630-31 per partecipare alla guerra di Mantova portarono con sé la peste
bubbonica, che non solo decimò le loro forze ma fece strage nella popolazione
della Lombardia (e fornì ad Alessandro Manzoni lo sfondo indimenticabile dei Promessi Sposi).
E i soldati che non morivano in servizio? Alcuni si salvavano
almeno temporaneamente, perché cadevano prigionieri. In questo caso, nella
prima metà del secolo i soldati semplici venivano di solito liberati previo
giuramento di non riprendere le armi per un certo periodo contro il vincitore;
oppure indotti a unirsi all’esercito a cui si erano arresi. Nel 1631 anche gli
italiani catturati da Gustavo Adolfo durante la campagna renana furono accolti
nell’esercito svedese (ma disertarono non appena raggiunti, l’estate seguente,
i colli prealpini). In Inghilterra, nel 1645, dopo la grande vittoria dei
Parlamentari a Naseby, molti soldati
realisti (catturati in battaglia o con la resa successiva delle
guarnigioni) furono convinti ad aderire all’esercito di Cromwell. Ma quest’uso
di mutare i nemici di ieri in guardie del corpo era potenzialmente pericoloso;
e col progredire del secolo si adottarono una serie di alternative. Diventò
norma il riscatto dei prigionieri di guerra. Per esempio dopo la battaglia di
Jankow (1645) i vincitori offrirono in
riscatto, a 120.000 talleri, l’inero
stato maggiore degli imperiali sconfitti. Ma questo è un caso eccezionale.
Normalmente si conveniva e pubblicava in anticipo prima di una campagna un
tariffario dei riscatti: tanto per un generale, tanto per un colonnello, e così
via; e al termine delle operazioni i prigionieri venivano scambiati in base al
loro “valore”. Nel frattempo ai soldati prigionieri spettava la paga intera, e
le loro mogli ricevevano razioni gratuite di pane.
Cure maggiori furono inoltre dedicate ai feriti e ai malati, e nel corso del XVII secolo
quasi tutti i governi istituirono appositi ospedali militari. Qui fu l’esercito
spagnolo di Fiandra a fare da battistrada con l’ospedale di Malines (fondato
nel 1585, fornito man mano di 330 letti e servito da 49 medici e infermieri),
dove i soldati erano curati, con notevole successo da ogni sorga di infermità:
da malattie quali la sifilide e la malaria alle ferite, allo stress psicologico
e ai traumi da combattimento (definiti nei documenti “mal de corazòn”). Le
truppe contribuivano a finanziare questo servizi con la trattenuta di un real sullo stipendio mensile e con i
proventi delle multe inflitte a ufficiali e soldati per linguaggio blasfemo.
L’esercito di Fiandra istituì anche un asilo per i veterani invalidi (la
Guarnigione di Nostra Signora di Hal”), che nel 1640 aveva 346 ospiti: in compenso
di un servizio nominale di guardia, questi soldati avevano vitto, paga e
alloggio gratuiti. Fino al decennio 1650-60, tuttavia, queste iniziative
umanitarie adottate nei Paesi Bassi meridionali rimasero apparentemente un caso
unico. La maggior parte dei comandanti, a quanto sembra, non si occupavano
granché dei feriti, tranne in circostanze particolari: come al culmine
dell’attacco svedese nella battaglia di Veste presso Norimberga nel 1632,
quando Wallenstein girò fra le sue truppe schierate a difesa gettando manciate
di monete in grembo ai feriti, per incoraggiare gli altri. Ma in seguito altri
stati seguirono l’esempio spagnolo: la Francia con l’Hotel des Invalides (per i
feriti e i soldati anziani), fondato nel 1670; l’Inghilterra con gli ospedali
militari di Kilmainham (Dublino) nel 1681 e di Chelsea (Londra) nel 1684; e
così via.
Ma non tutti i soldati dell’età barocca morivano,
invecchiavano o erano feriti in servizio. Molti si arricchivano, e si
ritiravano con i loro guadagni. I comandante imperiale Henrik Holck, un tempo
povero, tornò nel 1627 nella natìa Danimarca
e comprò una tenuta per 50.000 talleri; il generale svedese Königsmarck, che
aveva cominciato la sua carriera come soldato semplice, morì nel 1663 con un
patrimonio di quasi 2 milioni di talleri (183.000 in denaro liquido, 1.140.000
in lettere di credito, 406.000 in terreni); e John Churchill, forse il generale
inglese di maggior successo dell’età barocca, si ritirò col titolo di duca di
Marlborough e una sostanziosa “gratifica” da parte della nazione, che gli
permise di edificare la sontuosa residenza di Blenheim Palace alla porte di
Oxford. Nel Seicento titoli e terre erano forse la forma più comune di
ricompensa per i comandanti militari, specialmente per quelli che avevano avuto
la funzione di appaltatori di uno o più reggimenti. Se essi non sempre
riscuotevano per intero gli arretrati di
paga, certo venivano ampiamente risarciti in altro modo. In Pomerania, nella
regione intorno a Stralsunda, annessa
dalla Svezia con la pace di Vestfalia del 1648 il 40% delle fattorie passò
nelle mani di ex ufficiali (con una media di 14 fattorie a testa); e in Irlanda
dopo la conquista cromwelliana del 1649-50 gli arretrati di ufficiali e truppa
furono saldati con terre confiscate ai vinti (assegnando in media 15 acri a
testa). Gli ufficiali potevano inoltre arricchirsi con l’acquisto di case nelle
città occupate, che vendevano in seguito proficuamente; intascando “bustarelle”
dai privati, in cambio dell’esenzione dall’obbligo di alloggiare le truppe; e
gonfiando fraudolentemente gli effettivi dei loro reparti per ottenere razioni
di viveri e paghe maggiori di quelle spettanti. E,come i soldati, potevano
ricavare benefici dal saccheggio.
Il vero problema, tuttavia, non era arricchirsi ma conservare
la ricchezza acquistata. Sydnam Poyntz, ufficiale inglese di umili origini che
combatté nella guerra dei Trent’anni, non fu il solo ad accumulare fortune poi
perdute per malasorte o insipienza. Nel 1623 un moralista francese osservava
che per un soldato arricchitosi con la guerra “ne vedi cinquanta che guadagnano
solo malanni e malattie incurabili”. Ma forse questo giudizio era un po’
tendenzioso. Malanni e malattie incurabili non erano certo appannaggio
esclusivo dei soldati. Nel XVII secolo la vita di tutti, uomini e donne, era
adatta di Thomas Hobbes, “brutta, incerta, bestiale e breve”. In un’Europa in
cui morta, malattia e miseria erano abituali compagne della guerra, i militari
tuttavia correvano non di rado meno rischi dei civili. Chi andava a far la
guerra spinto dalla necessità, come il soldato del Don Chisciotte, non sempre, forse, faceva una scelta sbagliata. In
fin dei conti il Seicento fu davvero, come dice Fulvio Testi, “il secolo del
soldato”.
La Controriforma trionfante fa sentire i suoi effetti su tutto
il continente perché porta con sé una serie di politiche volontaristiche
cattoliche che attraverso l’attività pastorale, la riforma e le missioni
cercano di riconquistare le posizioni temporaneamente abbandonate di fronte ai protestantesimi.
L’imperialismo asburgico
ha come suo corollario la reazione nazionale in Francia, Inghilterra e Paesi
Bassi, lo stimolo all’emergere delle monarchie nazionali unificatrici.
Il trionfo del potere monarchico sulla società feudale in Francia, Inghilterra e Spagna, fa nascere
un’amministrazione centralizzatrice, giudiziaria e fiscale, che permette alle
monarchie europee di estendere la loro autorità ai confini del proprio
territorio. Parallelamente si impone la necessità di mantenere forze armate
permanenti e sempre più numerose.
Il XVII secolo è il secolo di Marte. Le ostilità si susseguono
senza tregua. La guerra imperversa in tutto il continente, guerra civile e
religiosa in Francia e Inghilterra, guerra nazionale con la sollevazione delle
Province Unite.La formazione di eserciti regolari con truppe di oltre centomila
uomini costantemente in armi non tarda a porre gravi problemi finanziari,
sconosciuti al tempo delle bande medievali, caratterizzate da qualche migliaio
di uomini mobilitati per periodi limitati. Lo stesso discorso vale per le forze
navali, che hanno una funzione sempre più grande nel destino delle nazioni,
come è dimostrato dalla sorte dell’Invincible Armada e dall’avvento, seguito
dal consolidamento, delle Province Unite: senza marina militare, la loro
indipendenza si sarebbe potuta imporre ai potenti vicini e all’ex tutore?
In un celebre aforisma Montecuccoli riassume tutta la
difficoltà: “Per la guerra sono necessarie tre cose: primo, il denaro; secondo,
il denaro; terzo, il denaro”.
Questa fame di denaro
viene ad aggiungersi a quella provocata dalle necessità di uno Stato
centralizzato per la sua amministrazione e la sua diplomazia. Non c’è perciò da
sorprendersi se la questione finanziaria assume in epoca barocca un’importanza
tale da diventare l’ossessione di tutti i governi.
Nell’Europa di allora non si conosce che un solo mezzo di
pagamento universale: la moneta metallica, l’oro, naturalmente, l’argento,
soprattutto, per non parlare per la vita quotidiana del vile biglione di rame.
A partire dalla fine del XV secolo l’Europa approfitta dell’afflusso dei
metalli dal Nuovo Mondo. Ma ben presto la massa metallica in circolazione non
basta più a soddisfare tutte le necessità, quelle dell’economia quotidiana e
quelle, inesauribili, della guerra. Questo squilibrio tra domanda e offerta
rappresenta la sfida principale di tutti gli stati.
A mano a mano che si moltiplicano le guerre, si spalanca per
ogni stato l’abisso in cui rischia di far precipitare le proprie ambizioni, se
non è in grado di colmarlo. Così la lotta tra Spagna e Francia si concretizza,
sia per le popolazioni sia per i politici, in un’impietosa guerra di denaro. Su
questo sfondo si delinea la figura del finanziere, personaggio centrale nella
società dell’età barocca. Grazie alla borsa personale e al credito di terzi
dispone di ingenti somme di denaro mentre tutti gli altri ne sono sprovvisti, a
cominciar dagli Stati. Questo ne fa un individuo a parte, molto corteggiato ma
anche molto invidiato e di conseguenza denigrato.
Il termine “finanziere”
indica realtà eterogenee. Per gli uni indica i banchieri che prestano denaro al
sovrano e garantiscono il pagamento delle paghe alle truppe, servendosi della
loro rete di corrispondenti in tutta Europa. Per gli altri indica dei privati
che dispongono di denaro liquido dalla provenienza incerta, denaro che prestano
ai principi in difficoltà, chiedendo interessi tra i più elevati.
Il mondo del commercio e
le sue imprese generatrici di reddito permettono allora di spiegare la
preponderanza che nello stato moderno esercitano banchieri italiani o tedeschi.
L’autore presenta una sua definizione di finanziere, incongrua
rispetto a quelle presentate, che si differenzierebbe da quella di banchiere e
mercante: “per finanziare si intende comunemente colui che maneggia il denaro
del principe, che a qualsiasi titolo procura al principe i capitali che gli
permettono di far fronte ai suoi impegni.
La Francia, con i suoi 18-20 milioni di abitanti, con i più
vari e fertili territori e la varietà delle sue produzioni, si afferma come la
più ricca monarchia d’Occidente. L’incremento dell’autorità del sovrano si
accompagna allo sviluppo di un’infrastruttura giudiziaria ed amministrativa che
penetra tutto il regno, superando resistenze e opposizioni. Le funzioni che gli
amministratori svolgono nella società sono pertanto considerevoli, e vengono
accresciute dalla possibilità di esercitarle a titolo ereditario, grazie al
principio della venalità degli uffici. Queste funzioni non intaccano
minimamente la potenza dell’aristocrazia. Quest'ultima, padrona della rendita
fondiaria, rimane la prima forza economica e sociale, legata nella sua parte
più antica alla propria egemonia guerriera. In questo modo il re di Francia
dominando uomini e beni, può condurre una politica aggressiva, che mira ad
imporre il suo primato su tutta l’Europa. La monarchia dei Borboni, seguendo
una tradizione plurisecolare vuol essere uno stato militare. E solo la Francia
in realtà è in grado di portare l’effettivo delle sue truppe in meno di
cinquant’anni da alcune decine di
migliaia a quasi quattrocentomila uomini, cifra a quell’epoca inaudita. Questo
non le impedisce, sotto l’impulso di Richelieu e di Colbert, di dotarsi di una
flotta e di una serie di infrastrutture marittime che le permettono di battere
la Spagna e di rivaleggiare, ad un certo punto, con le Province Unite e
l’Inghilterra. Tra il 1610 e il 1715 la Francia combatte un anno su due, e
quando non lo fa si prepara a farlo.
Ecco perché gli imperativi finanziari sono i più pressanti. Il
re di Francia sembra cronicamente messo alle corde: le casse dello stato
risuonano vuote. Ogni volta il sovrano sfugge al disastro grazie all’appoggio
mai negato, malgrado i rischi, dei finanzieri.
La scelta del finanziere, “mettersi nelle finanze”, fa di lui
un emarginato, bersaglio di tutte le ostilità. In un certo senso, questa scelta
ricorda la vocazione religiosa; in entrambi i casi si rompe con il mondo: nell’uno,
per porsi al servizio,riverito, di Dio;nell’altro, per la spregevole adorazione
del Vitello D’Oro. Con la sua ineluttabile conseguenza e la sua finalità ultima
– il profitto – il traffico dl denaro colloca il candidato nel crocevia di
tutti gli antagonismi che esso suscita nella società. In un universo
profondamente cristiano, rivivificato dal soffio infuocato della Controriforma,
in una società in cui le élites, per ragioni etiche, disprezzano o ostentano di
disprezzare tutto ciò che ha a che fare con le arti meccaniche, il commercio e
perciò anche le attività finanziarie, perché ritenuto indegno; in una società
composta in gran parte da contadini stritolati dal fisco, come potrebbe il
finanziere non essere considerato il nemico pubblico, il rappresentante di una
categoria maledetta da denunciare e perseguitare con accanimento? Tanto più che
l’apparente successo sociale e materiale rafforza l’odio, alimentato da invidie
e dispetti.
Il finanziere si fa beffe dell’insegnamento della Chiesa, la
quale ha sempre vietato il prestito ad interesse, di fatto assimilato
all’usura. La Controriforma non ha minimamente attenuato la portata del
messaggio evangelico, anzi. Il beato Alain de Solminihac, vescovo di Cahors,
esempio perfetto di prelato riformatore nel regno di Francia, afferma che
“l’usura è uno dei peccati che si oppongono maggiormente alla salvezza delle
anime”, è cattiva perché contraria al diritto naturale divino e canonico. Il
suo collega e amico Etienne Pavillon, l’austero vescovo di Alet, giansenista
estremo, assume nel suo Rituale
questa stessa intransigenza. Il finanziere è destinato alle fiamme
dell’inferno. In un mondo religioso come quello del XVII secolo, è difficile
capire perché mai un individuo scelga di esporsi ad essere messo all’indice.
Non c’è suddito del re di Francia che non disprezzi
pubblicamente il finanziere. In effetti, come responsabile delle entrate dello
Stato e della loro riscossione, egli fa sentire la sua presenza al popolo
tramite una serie di intermediari che sono considerati altrettanti persecutori.
Nello stato di guerra, il sistema fiscale si appesantisce sempre più per i
contadini sui quali gravano l’imposta diretta, la taglia, ma anche le imposte
indirette, applicate sulla circolazione e il consumo delle derrate agricole e
delle bevande, sul sale e sui manufatti. Questo carico fiscale, nel solo
decennio 1630-40, triplica. La politica
di Richelieu, mirante alla sconfitta della casa d’Austria, implica per la
Francia il saper condurre una guerra finanziaria che opponga il più ricco stato
della cristianità alla corona detentrice delle ricchezze del Nuovo mondo. SI
tratta davvero di una partita a braccio di ferro, e per vincerla ognuno investe
nella battaglia tutte le sue risorse. I sudditi verranno spremuti, e se
necessario schiacciati, per ottenere la vittoria finale.
Un simile programma richiede un’accorta manipolazione del
corpo sociale: malgrado le pretese assolutistiche del monarca, la nozione
dell’imposta liberamente accettata resta ancora da scoprire. La taglia, imposta
di ripartizione, e soprattutto le imposte indirette, appaltate come l’impopolarissima
gabella del sale,sono riscosse da tutta un’amministrazione in parte statale per
la taglia, e privata per le imposte date in appalto. Così, i rapporti tra le
popolazioni ed i finanzieri diventano ben presto conflittuali perché si
esprimono in un clima di coercizione. La lotta tra amministrati ed esattori
delegati dai finanzieri prend una piega drammatica; a mano a mano che la guerra
si protrae, i popoli diventano più insofferenti verso i molteplici prelievi
fiscali. Il sentimento di spoliazione che accompagna il pagamento obbligatorio
sfocia immancabilmente nella collera quando i cattivi raccolti rendono ancora
più precaria la condizione rurale.
In tutto il regno, finanziere diventa sinonimo di essere
cupido, insensibile alle sofferenze della povera gente, che esercita la sua
triste professione tramite i suoi factotum, indissociabile da un’intollerabile
oppressione. Il furore che suscitano i gabellieri può dare un’idea di quel che
scatenerebbe il loro padrone se fosse lì presente. Sono numerosi gli attentati
perpetrati nei villaggi contro gli
agenti del fisco. Quanti maltrattamenti, quanto omicidi? La complicità più o
meno dichiarata che i contadini ottengono dai nobili di campagna, se non
addirittura dai grandi signori, li incoraggia sulla via della sedizione. La
nobiltà approfitta di questa agitazione endemica per difendere la sua posizione nelle province, per
accrescere a buon mercato la sua popolarità e, soprattutto, per
controbilanciare la volontà centralizzatrice del monarca, che vorrebbe fondare
la sua preminenza sulle rovine degli antichi splendori del secondo ordine.
Questo insieme di obblighi legati alla guerra spiega perché
tra il 1635 e il 1675 scoppiano in tutto il regno numerose “alterazioni”,
sommosse in cui è sempre presente la componente antifiscale. E’ il caso dei
Croquants dell’Angoumois e del Poitou (1636), dei Nu-Pieds di Normandia nel
1639, e della rivolta della carta bollata in Alvernia nell’estate del 1675. Il
grido, ripetuto da provincia a provincia “viva il re senza gabelle”, riassume
sia il confitto col fisco sia la repulsione verso il finanziere.
Continuando la guerra, e
restando le entrate ordinarie allo
stesso livello, la monarchia deve senza tregua inventare nuovi espedienti
raggruppati sotto l’etichetta di “affari straordinari”. Operazioni finanziarie
che vanno dall’emissione di rendite alla
richiesta di prestiti tramite ipoteche ed alienazioni di proprietà demaniali,
passando per la vendita degli uffici. Questa registra un grande incremento nel
corso del XVII secolo, facilmente comprensibile poiché le cariche giudiziarie
ed amministrative sono venali. Rendite, prestiti, vendite di uffici e cessioni
di diritti alimentano un commercio controllato dallo stato, il quale stringe
accordi con dei privati incaricati di rivendere questi titoli di rendita. Tali
accordi vengono chiamati “contratti” o “partiti”; i “partitari” entrano a far
parte del piccolo mondo della finanza, e il loro appellativo simboleggia tutto
ciò che la rende odiosa. Questi trafficanti di denaro, stimolati dalle
richieste pressanti della monarchia la trascinano, col suo consenso, in una
spirale senza fine. La facilità del processo ne nasconde i suoi aspetti
perniciosi. I pubblicani non smettono di proporre al potere nuovi affari, ansiosi di placare il suo appetito di
metallo prezioso e di procurarsi ingenti profitti.
Nella Francia del XVII secolo, per le frange benestanti del
mondo rurale e della borghesia commerciante, non esiste migliore strumento di
promozione sociale del pubblico ufficio. Tanto più che al termine di un cursus
ben collaudato c’è la possibilità di inserirsi nei gruppi dirigenti.
L’esercizio di un pubblico ufficio come le cariche presso le corti supreme, che
nobilita al secondo grado, o quella di segretario del re, che conferisce la
nobiltà di primo grado (ereditaria), costituisce una non piccola attrattiva per
delle persone la cui massima ambizione è appartenere al secondo ordine.
La rendita di stato è una comoda fonte di finanziamento,
camuffata volentieri dietro la finzione del Municipio di Parigi come garante
delle emissioni. Essa partecipa anche, assieme alla rendita fondiaria, alla
costituzione ed al consolidamento del patrimonio dei benestanti francesi. La
gestione degli affari straordinari è seguita con passione, la minima azione dei
finanzieri, pronti a speculare, suscita inquietudine.
Gli imperativi della guerra spingono lo Stato a moltiplicare
le rendite, i pubblici uffici, speculando sull’alienazione dei beni demaniali e
sull’imposizione di un vantaggioso riacquisto prima che intervenga un’ennesima
alienazione. Il fiorire di queste operazioni straordinarie mira essenzialmente
a salassare gli strati più agiati della borghesia ed anche della nobiltà, che
si preoccupano dell’eccesso di simili espedienti. Il problema è che creando
troppi uffici si causa anche la loro svalutazione. Allo stesso modo,
appesantendo il debito si gonfiano le rendite e improvvisamente diventa
problematico il pagamento.
Davanti alla gravità del male, che impera grazie alla
diabolica invenzione dei pubblicani, i pubblici funzionari si dichiarano nemici
della gabella. Il movimento parte dai molto influenti parlamentari e raggiunge
tutte le catgorie. Oltre al simore del danno materiale, questi signori vedono
nel finanziere il simbolo dello stato assolutistico. Il contenzioso economico
tra loro e la corona si accompagna all’opposizione politica: l’intensità dello
scontro si raddoppia.
Davanti al rafforzamento del potere monarchico e alla sua
volontà di ridurre i compiti della loro istituzione alla semplice registrazione
dei decreti regi, i membri dei
Parlamenti (i Parlamenti erano le Corti
di Giustizia alle quali spettava la verifica della costituzionalità delle
leggi) scelgono di calarsi nel confortevole ruolo di padri dei popoli oppressi:
proteggono la corporazione e se la prendono con una delle componenti del potere
pubblico, potere che intende restringere le loro pretese ed aspirazioni.
La Fronda parlamentare trae la sua forza dal sentimento di
ostilità ai finanzieri e al fisco che anima i popoli, e la vecchia aristocrazia
non è da meno. Per ragioni simili a quelle dei parlamentari, entra anch’essa
nel concerto delle lamentazioni. Dichiara di voler difendere la propria
integrità sociale dall’invasione di questi ricchissimi “parvenus” che macchiano
la virtù di un gruppo anch’esso minacciato dal rafforzamento e dall’ambizione
del potere monarchico.
Richelieu afferma: “i finanzieri sono un male, ma un male
necessario”. In effetti si rivelano gli ausiliari più indispensabili dello
Stato, poiché senza la loro opera lo Stato non esisterebbe e non potrebbe
agire; anzi, la loro crescente importanza suscita qualche inquietudine
nell’ambito del potere. Richelieu sa fino a che punto le sue decisioni e
iniziative dipendono dagli uomini d’affari e questa subordinazione gli è
insopportabile.
La monarchia, impegolata in una guerra la cui conclusione non
è imminente si rende conto di essere imprigionata nell’edificio aberrante dei
prestiti sottoscritti e che non può rimborsare. Siccome il denaro scarseggia, i
pubblicani devono pagarlo più caro, e il loro compito diventa più oneroso.
L’interesse aumenta continuamente: lo sconto che lo Stato è obbligato a
concedere arriva al 25%, poi al 30%, fino a raggiungere in certi casi il 50%.
Come potrebbero non essere considerati dei veri e propri predatori che si
dividono le spoglie dello Stato?
Sorge naturalmente l’idea di estinguere i debiti sulle spalle
dei finanzieri, principali creditori della monarchia. Questa iniziativa le
permette anche di riconquistare una popolarità offuscata e di rafforzare
un’autorità vacillante. Eccola dunque denunciare e in seguito attaccare la
categoria meno amata del paese; in Francia i tribunali colpiscono per tutto il
secolo – cominciando nel 1601 e proseguendo nel 1605, 1607, 1624, 1648, 1662 –
e realizzano a vantaggio dello Stato un duplice obiettivo: arrestare
l’indebitamento e riconquistare gli animi. Una tattica eccellente per disarmare
la coalizione degli oppositori, borghesi, funzionari e nobili. Alla fine, il
finanziere è bandito dalla società da tutti i punti di vista; donde la visione
negativa che gli uomini del XVII secolo hanno di questo individuo.
La monarchia intraprende periodiche persecuzioni contro i suoi
factotum finanziari, facendo sequestrare i loro beni.
Nella letteratura e nei pamphlet, fino ai Caratteri di La Bruyère,
circola lo stesso ritratto caricaturale che, riprodotto all’infinito, sconfina
nel banale. Tutti disprezzano l’origine oscura se non addirittura ignobile dei
finanzieri che l’esazione delle imposte ha fatto uscire dai bassifondi e che la
ricchezza ha posto nell’aristocrazia tramite l’acquisto di pubblici uffici
nobilitanti, in special modo quello di segretario del re, la “saponetta da plebeo”,
grazie anche a scandalosi matrimoni in cui i loro figli sposano i rampolli dei
nobili di toga o di spada. Il finanziere è tarato mentalmente e fisicamente,
l’anima “colma di pattume e di fango”. Si stigmatizzano la sua asprezza, la sua
vigliaccheria, i suoi eccessi, i suoi costumi e al tempo stesso, la sua
leggerezza e ingenuità testimoniate dal lusso insolente, dallo scimmiottare la
nobiltà. Egli è il contrario dei valori riveriti dall’aristocrazia: onore,
lealtà, disinteresse, nascita. Le élites
sono vittime di questo reietto al pari dei popolani. C’è qui una critica appena
velata contro il potere monarchico
centralizzatore il quale ammette simili ascese,contrarie agli stessi fondamenti
della società dell’ancien regime.
In una gerarchia rigida come quella in cui è strutturata la
società del XVII secolo, come si può pensare che un individuo partito dal nulla
arrivi così in alto, e che questo avvenga non una, ma centinaia di volte? In
realtà uno studio sociologico rivela che i finanzieri non provengono dal fango
né sono stranieri. La maggioranza (75%) sono francesi da famiglie della metà settentrionale
della Francia. Parigi, capitale della monarchia, l’Ile de France, sua culla, i paesi della Loira, suo centro di
gravità dalla fine del XV alla fine del XVI secolo, spiegano il fatto che le
famiglie vicine al trono hanno avuto condizioni più favorevoli per
assisterlo nella gestione delle finanze.
La presenza degli abitanti della Champagne e dei borgognoni è dovuta al fatto
che queste due province servono da base ad operazioni militari. Dalla consegna
delle munizioni per la guerra al suo finanziamento non c’è che da compiere un
passo da parte dei più audaci. Per la stessa ragione Lione, grande piazza
bancaria del regno, genera tanti esattori a fianco delle famiglie d’oltralpe da
tempo attive nella metropoli del Rodano.
La seconda caratteristica fondamentale è che il finanziere è
cattolico. Se la finanza è cattolica e francese, la banca è cosmopolita e
dominata dai protestanti.
Il finanziere è
normalmente titolare di almeno un ufficio. Usualmente quelli di contabilità
finanziaria. In particolare gli uffici dell’amministrazione centrale
finanziaria, intendenti di finanza e segretari del Consiglio delle Finanze,
appartengono molto spesso ad appaltatori, così come le cariche di cancelliere
dl Consiglio privato.
Lo studio della condizione sociale dei padri e degli avi
paterni presenta l’uomo d’affari come il frutto di un ambiente omogeneo: il 75%
dei padri di finanzieri ed il 65% degli avi paterni appartengono anch’essi al
mondo dei pubblici uffici. Spesso di tratta di funzionari delle finanze o
dell’amministrazione giudiziaria. L’ambiente sociale dei suoceri non differisce
da quello dei padri. Gli uomini di affari praticano un’endogamia molto stretta,
che contribuisce a farli rimanere nei posti in cui si prendono le decisioni e
li aiuta in modo efficace nel loro lavoro. La maggioranza di quelli che
compaiono come semplici privati proviene dall’ordine degli avvocati e dal
personale delle grandi amministrazioni finanziarie pubbliche o private:
commessi di grossi contabili, impiegati nell’amministrazione delle imposte
dirette o degli affari straordinari. Solo il 10% proviene dalla banca e dal
mondo del commercio.
Quanto detto da ultimo mostra che la finanza non trova il suo
fondamento nel commercio inteso nella sua accezione più vasta. Banchieri che si
sono dati alla finanza sono eccezioni. La finanza si pone al di fuori dei
circuiti economici mercantili.
L’ultima caratteristica del finanziere, è il suo essere nobile.
Uno su due è nobilitato dalla carica esercitata oppure con lettere di
“riabilitazione di nobiltà”. Un numero considerevole di finanzieri appartengono
al secondo ordine da due o tre generazioni. Le “savonettes à vilain” sono gli
uffici più ricercati perché offrono la nobilitazione di primo grado dopo
vent’anni di esercizio o alla morte sopraggiunta quando si riveste la carica.
Tuttavia la caccia a questi uffici non cessa neanche da parte di finanzieri già
nobilitati, probabilmente perché assicurano altri vantaggi di tipo economico o
relazionale.
Il 60% dei finanzieri non è milionario, a dispetto delle
apparenze, che servono ad affermare il loro credito. Il patrimonio dei
finanzieri, paragonato a quello di altri gruppi social equivale al patrimonio
dei più importanti magistrati, della media nobiltà o dei grossi banchieri e
commercianti. Soltanto alcuni giungono a rivaleggiare con l’alta nobiltà e i
ministri.
I patrimoni sono formati, per meno del 40% dei guadagni, da
beni tradizionali (case, terre, uffici), destinati a fornire la garanzia per i
finanziamenti richiesti; per il resto da un portafoglio di titoli di credito
che coinvolge più della metà delle loro sostanze. Si tratta di una mole di
documenti, biglietti del Tesoro reale, mandati di riscossione, assegnazioni,
obbligazioni solidali di società, effetti o pagherò al portatore e rendite, il
cui volume riflette l’inflazione delle finanze reali in crisi, messe a dura
prova da una lunga guerra. Evidentemente, buona parte di questi titoli hanno un
valore irrisorio: quelli privati perché chi li ha emessi si trova spesso in
fallimento, quelli pubblici, perché sono screditati a causa della cronica
incapacità dello Stato a far fronte ai suoi impegni. Con un regime cattivo
pagatore i finanzieri rasentano spesso la bancarotta. Circa un quinto o un
quarto diventano insolvibili. Gioielli, mobilia, argenteria, oggetti d’arte e
altri elementi di prestigio rappresentano solo il 5%.
Quando i loro beni vengono sequestrati non viene trovato
denaro liquido. Ciò potrebbe essere dovuto a occultamento, a familiari che
dichiarano meno di ciò che hanno. Ma grosse somme di monete non sono facilmente
occultabili fisicamente; le perquisizioni non trovano nulla; bisogna ammettere
che i finanzieri siano molto meno ricchi di quanto dicono o di quanto sembrano,
e soprattutto di quanto creda la gente.
Il finanziere non è mai un parvenu,
ma il prodotto di un ambiente, il risultato di un processo durato diverse
generazioni. Oggettivamente, troppi ostacoli impediscono la metamorfosi: la capacità
di maneggiare il denaro non si improvvisa. Il mestiere, molto complesso e
delicato, richiede una formazione assai approfondita. Come potrebbe un oscuro
servitore, un povero contadino, che ha sempre vissuto inun ambiente
intellettuale carente o mediocre, padroneggiare la conoscenza e la pratica di
una delle professioni più ardue. Si può ammettere che alcuni possano compiere
questo prodigio, ma è chiaro che sono casi isolati, tenuto conto anche degli
ostacoli sociali. Ci vuole molto tempo per penetrare negli arcani delle finanze
reali, per capire i misteri del credito e del cambio. E’ necessario anche
assimilare le conoscenze giuridiche indispensabili per orientarsi nell’intrico
della legislazione che riguarda gli affari finanziari, per regolare al meglio i
numerosi e inestricabili contenziosi che li accompagnano. Il mestiere implica
per questo un’educazione lunga e diversificata. Coloro che vi si preparano
stanno a contatto col commercio e le sue regole, si familiarizzano con le
regole del cambio, fanno tirocinio
nell’amministrazione degli appalti e degli affari straordinari,
conoscono le leggi. Tutto ciò esige che il finanziere benefici sin dalla
giovane età dell’apporto culturale delle persone del suo ambiente. Un “lacché”,
per quanto pieno di talento, non potrebbe essere che un isolato, un trapiantato
in un terreno che per natura gli è estraneo, se non ostile. A questa difficoltà
di tipo culturale si aggiunge infatti quella che riguarda il contesto sociale.
Nell’ancien régime il self-made man è un controsenso; ogni
successo al più alto livello deriva dall’incessante lavorio di molte
generazioni e non si distingue da quello ottenuto grazie al lignaggio. Il
finanziere, che è, come si è visto, un importante funzionario, è stato dunque
modellato dalla famiglia. Tutta la sua parentela appartiene allo stesso ceto
sociale e la sua riuscita deriva più dalla distinzione della famiglia che
dall’exploit di una personalità, anche se notevole. E’ il caso di Jean Baptiste
Colbert, un figlio della gabella, la cui carriera è stata preparata e favorita
da una rete familiare potente e ramificata. Ogni finanziere del XVII secolo è
inseparabile da quel capitale ereditato che è la famiglia, coniugando
l’influenza degli alleati all’esperienza dei predecessori. Tutte le cariche e
gli uffici che lasciano intravedere successi lusinghieri si trasmettono per
eredità. Gli uffici di esattori generali delle finanze ed i posti di
appaltatori generali passano da un titolare all’altro tramite queste reti. E’
grazie a tale solidarietà interna che l’agglomerato Bonneau-Pallu-Milon, al
quale si aggiungono i La Porte, conserva l’appalto delle imposte generali per
oltre cento anni, a partire dal 1632. Questi legami non sempre evidenti, e che
soltanto una precisa ricerca genealogica permette di chiarire, si realizzano
attraverso le mogli. In questo universo molto chiuso, un povero lacché che
comincia senza aiuti, senza parenti, non possiede nessuno degli atout necessari
per essere ammesso al gioco: né educazione, né alleanze. Di conseguenza nessun
mezzo per ottenere credito; si scontra così con l’ultimo ostacolo che incontra ogni candidato alla carriera,
cioè il muro del denaro. Nessuna possibilità di diventare finanziere se non
dispone di risorse monetarie sostanziose. E’ presso le famiglie di grossi
commercianti e di ricchi possessori di uffici che il giovane può attingere
queste ingenti somme; è frequentando l’ambiente aristocratico, dei togati e
dell’alta amministrazione, che troverò di che supplire alle insufficienze della
sua borsa. E si presta denaro solo alle persone sicure, cioè solvibili. I
trafficanti di denaro non possono essere reclutati che fra i funzionari della
giustizia, della finanza e dell’amministrazione, i quali formano assieme un
microcosmo potente, vicino al potere e ai Consigli in cui viene elaborata la
politica finanziaria dello stato. Un self-made
man essendo privo di garanzie e sprovvisto di relazioni, è scartato in
partenza da quest’universo.
Il mito del finanziere-lacché è un parafulmine sociale, che
maschera l’identità sociologica di coloro che gravitano dentro e attorno alla
finanza.
Il finanziere sembra essere il meccanismo più importante dello Stato e al tempo stesso il principale
responsabile delle sue disfunzioni, e dunque dei mali che affliggono le
popolazioni. Il finanziere non è per sua natura avversario dello Stato, né
delle élites, ma svolge nel loro ambito una funzione indispensabile. Per quanto
riguarda il primo, il finanziere anima la noria delle finanze che il funzionamento
del sistema fiscale-finanziario della monarchia presuppone. Che si tratti della
taglia, delle imposte indirette date in appalto o delle entrate straordinarie,
tutte queste risorse entrano nelle casse pubbliche mediante un gigantesco e ben
congegnato sistema di prestiti consentiti proprio da coloro che li sfruttano.
Il finanziere è il partner della Corona. E’ lui che mette in azione la pompa
finanziaria di drenaggio dei capitali mediante un’iniziale offerta di fondi.
Il finanziere non possiede
una sufficiente riserva monetaria; è necessario perciò che la reperisca
dove essa è disponibile, cioè presso ricchi e potenti finanziatori – l’élite,
più precisamente – preoccupati di veder fruttare i loro capitali ma molto
attaccati ad un anonimato garante di buona reputazione. Il finanziere è un
intermediario tra la monarchia e i suoi potenziali finanziatori; spalleggia la
monarchia e dà ai potenti la certezza di investire il proprio denaro in tutta
sicurezza. Una gran parte dei prestiti concessi deriva non tanto dalle sue
risorse quanto da quelle di terzi, e la partecipazione agli utili avviene in
due modi distinti. Il primo consiste nella cessione di quote di una società
finanziaria il cui socio,diventato croupier, partecipa a tutti i benefici (o a
tutte le perdite!) in proporzione alla sua quota senza intervenire attivamente
nella gestione della società; il secondo in un semplice prestito ad interesse prefissato, il più delle volte
al 5%, e senza altra forma di partecipazione all’affare. Nel primo caso il
finanziere serve da prestanome, nel secondo da strumento di credito. E’ in
questa situazione che per lanciare i suoi prestiti effettua un’emissione di
effetti o pagherò al portatore, il quale si nasconde dietro un prestanome,
quando gli effetti stessi non sono nominativi, o dietro costituzioni di rendita
d’aspetto anodino. Questi effetti non sono garantiti dalle entrate dello Stato,
il cui credito è debole, ma dai beni privati del finanziere o dei finanzieri
contraenti. Si tratta dei loro beni fondiari. Mentre le rendite rispettano il
tasso abituale, effetti ed obbligazioni non menzionano alcun interesse; essi
comprendono in realtà il capitale più gli interessi e la somma effettivamente
versata dal finanziatore è inferiore a quella menzionata.
A dispetto delle precauzioni prese, è possibile far luce su
questo lato oscuro della finanza, cioè sull’identità dei finanziatori che a
modo loro, discretamente e golosamente partecipano discretamente e golosamente
al gioco ufficiale della finanza. Il finanziere somiglia alle bambole russe:
porta in sé una valanga di profittatori.
Consideriamo ad esempio il gruppo costituito da Thomas Bonneau
e dagli accoliti Pierre Aubert, Claude Chatelain, Germain Rolland e
Marc-Antoine Scarron, che dominano gli appalti della riscossione delleimposte
tra il 1632 e il 1661. Bonneau lancia dei prestiti secondo le modalità appena
descritte. Il finanziatore è un nobile – i 75% appartiene al secondo ordine – e
di un funzionario: il 65% è investito di una carica pubblica. Si va dal
possessore di cariche giudiziarie al funzionario contabile, passando per i
segretari del re ed i membri dei Parlamenti, che da soli forniscono il 40% dei
diretti interessati. Se questi finanziatori costituiscono una fascia di nobili
abbastanza consistente non tutti lo sono: c’è anche una discreta percentuale
(16%) di membri provenienti dalla vecchia e potente aristocrazia di spada. Da
notare infine il ruolo attivo delle donne, un terzo circa dei prestatori, per
lo più vedove ben avvedute. Tutto ciò testimonia la falsità dei luoghi comuni
quando si descrive l’emarginazione femminile durante l’ancien régime. Grazie alle convenzioni matrimoniali,
scrupolosamente definite dal contratto di matrimonio, le donne si affermano
come un fattore di mobilità e di conservazione del patrimonio per le famiglie
della vecchia Francia. Spesso molto esperte in materia di affari, conducono
un’intensa attività finanziaria.
Alla fine, in questo universo, tutte le famiglie si ritrovano
in qualche modo imparentate. Tramite la condizione nobiliare, lo statuto di
funzionari pubblici e la rete di alleanze, sono tutti appartenenti allo stesso
ambiente dalle molteplici sfaccettature che riflette una sola immagine, quella dei capitalisti del
regno.
L’esame del volume e dell’ampiezza delle partecipazioni rivela
che molto rari sono coloro che investono regolarmente negli appalti, circa il
5%, ma in questo caso la somma investita è molto elevata, diverse centinaia di
migliaia di livres. Gli altri
trattano cifre dell’ordine di qualche decina di migliaia di livres, sotto forma di investimento
congiunturale. Tutto questo mostra come la finanza è un feudo dell’élite, in
particolar modo della nobiltà di toga e di spada, al servizio dello Stato ai
livelli più alti. I nomi più illustri dell’ambiente togato, quelli che hanno
fornito alla Monarchia i suoi più grandi commessi, sono a fianco delle famiglie
più antiche. D’altro canto si tratta di un’attività finanziaria come un’altra,
e bisogna pur diversificare i propri investimenti. Per portare a termine questa
forma di investimento costoro non esitano ad entrare in un gioco che a lungo
andare tende ad impoverire dei colleghi, anzi – nel caso dei funzionari
pubblici – a rivolgersi contro di loro. Leggerezza? Illogicità? Non tanto.
Certamente colpisce incontrare tra i più grossi investitori dei parlamentari
come i d’Aligre, i Turquant, il presidente Tambonneau o il presidente Violle,
quest’ultimo al tempo stesso frondista e perciò avversario, in teoria dei
finanzieri. Ma quando il beneficio è sicuro e garantito la sete di guadagno
spazza via tutte le altre convenzioni, tutti gli interessi di gruppo, tutti gli
ideali. Se il sistema finanziario s’inceppa e travolge le speranze di coloro
che vi si appoggiavano si assiste ad un capovolgimento generale. Di fronte al
pericolo crescente, questi attori indiretti della “piéce” finanziaria vanno a
mettersi a fianco dei nemici della gabella, si uniscono alle loro voci per
criticarla vigorosamente. I lamenti delle vittime del sistema si confondono di
colpo con i suoi artefici occulti che piangono il profitto perduto.
Lo Stato, messo alle strette, lascia proliferare gli
espedienti fino al momento in cui questi perdono la loro efficacia perché il
credito si è esaurito: il denaro si rintana in attesa di tempi migliori. Il
potere constata allora la sua bancarotta e i finanzieri, che intravedono lo spettro del risanamento cercano di
proteggersi. Sanno che prima o poi ne faranno le spese. Prendono dunque le
classiche precauzioni: separazioni di beni fra congiunti, messa al sicuro degli
effetti e, naturalmente, della liquidità presso istituzioni religiose, reclutamento
di prestanomi ecc.
La Chambre de Justice può allora riunirsi, più per dichiarare
la bancarotta e fare opera di propaganda che per purgare una buona volta il
sistema. Il finanziere si vede condotto davanti a un tribunale straordinario,
con giudici nominati per commissione, dunque agli ordini del re, incaricati di
istruire un processo penale, caso per caso, e senza appello. Il finanziere deve
rendere conto di ogni soldo e restituire le somme che i commissari fingono di
credere indebitamente trattenute dall’accusato. Cosa più grave, si indaga su
tutte le frodi che egli ha potuto commettere nell’esercizio delle sue funzioni,
frodi che possono essere assimilate ad una sottrazione di denaro pubblico.
Essere riconosciuto colpevole di furto ai danni del re è un’accusa gravissima;
il reato di peculato, se provato, comporta una sentenza di morte. E le
informazioni sull’inquisito rischiano di affluire numerose, dal momento chela
popolazione è invitata a mobilitarsi contro l’infame e la delazione viene
generosamente retribuita.
Il finanziere non resta inattivo nell’avversità. Si difende
sfruttando gli arcani del diritto. L’epoca possiede a fondo l’arte del
cavillare; il finanziere si avvale delle condizioni permesse dalla stessa
monarchia per dimostrare la veridicità dei crediti che vanta sullo Stato. Tutto
questo genera una massa di procedure che rallentano i dibattimenti e che
tolgono gran parte dell’efficacia al lavoro del tribunale. Lo Stato si dichiara
creditore privilegiato e può, a mano a mano che si abbattono le condanne,
impossessarsi dei beni del finanziere e metterli all’asta. Gli uffici, le
terre, gli immobili, difficili da nascondere, finiscono così nelle mani del re.
Tocca a lui, adesso, arricchirsi a spese del suo ex finanziatore.
Questo recupero da parte dello stato non lascia indifferenti
gli investitori occulti che prestavano il loro denaro al finanziere. Le
reazioni, dapprima moderate, lo sono molto di meno quando ogni soluzione positiva
sembra essere esclusa. Quando si rendono conto che i beni che costituivano la
loro garanzia sono stati fagocitati tornano alla carica reclamando i loro
diritti. La monarchia, prendendosela col loro intermediario, commette nei loro
confronti un torto considerevole. Siccome essi rappresentano i gruppi dirigenti
e i più solidi sostegni del regime lo Stato non può attaccarli senza scatenare
un conflitto politico-sociale. Ogni crisi finanziaria, durante l’ancien régime, minaccia di degenerare
rimettendo in questione il fondamento stesso della monarchia.
Lo Stato, tuttavia, sa fin dove può arrivare; vuole cancellare
i suoi debiti ma non vuole aprire una crisi le cui conseguenze potrebbero
diventare incontrollabili. Sceglie perciò la via del compromesso; la
transazione segue sempre l’apertura della Chambre de Justice e si effettua
secondo una procedura immutabile. Si sospende l’esecuzione delle sentenze e si
offre l’amnistia ai condannati in cambio del pagamento delle ammende. Spetta al
Ministero delle Finanze fissare l’importo e le modalità di pagamento. Il più
delle volte si tratta di diversi titoli che corrispondono ai crediti che i
finanzieri vantavano sullo Stato. Così, quest’ultimo fa bancarotta senza
doverlo dichiarare e conserva il capitale in terre, case, uffici, che garantiscono
prestiti fatti dai trafficanti di denaro. Questa misura autorizza i
finanziatori a recuperare buona parte del loro investimento: non rimarranno
spogliati di ogni avere. Un nuovo equilibrio si instaura e il denaro, che era
stato nascosto, torna a circolare, approfittando della pace e del salasso praticato: il
mercato è finalmente libero da tutta quella carta che lo aveva ingolfato.
I finanziatori in realtà non escono troppo malconci dalla
prova. Anche se il cielo sopra di loro era molto scuro soprattutto durante la
Fronda quando molti hanno conosciuto la galera e qualcuno ci ha rimesso la
testa. Finisce uno psicodramma, opportunamente messo in scena per il popolo.
Una volta proferite queste rodomontate, non succede niente. I magistrati si
addolciscono quando si tratta di passare ai fatti, e le transazioni
mascherano i veri e propri compromessi
imposti dal sistema fiscale-finanziario della monarchia.
Il finanziere è anche un uomo di fazione. Per entrare negli
affari del re gli sono necessari appoggi presso il ministro delle Finanze, i
suoi collaboratori e gli altri ministri. I suoi ricchi e potenti finanziatori
si inseriscono anch’essi in questa parte superiore della buona società che
sostiene lo Stato e che al limite è lo Stato. Nel momento del pagamento delle
tasse è facile per una fazione politico-finanziaria eliminare le lobby
avversarie appesantendo i contributi di alcuni. Questo fenomeno ha luogo in
modo spettacolare nel 1665. Nella sua lotta contro il sovrintendente delle
finanze Fouquet, Colbert afferma che questi si trova a capo di una squadra di
finanzieri che, con la sua complicità, hanno saccheggiato le casse pubbliche in
tutta impunità. Il giovane Luigi XIV, preoccupato di restaurare l’autorità
monarchica, accetta la tesi senza fiatare. Colbert ne approfitta per
rimodellare a suo piacimento il personale finanziario del regno. L’ex domestico
del cardinale Mazzarino, grazie alla Chambre del 1661, si rifà una verginità.
Eccolo avvolto nella sua toga di gestore scrupoloso e che tartassa alcuni degli
antichi commensali del primo ministro scomparso. Tutti avevano tuttavia, al suo fianco,
contribuito a far accumulare un patrimonio cospicuo e d’incerta provenienza.
Aumentando le ammende, Colbert schiaccia i finanzieri che vuole eliminare,
dicendo che erano d’accordo col sovrintendente. Per loro ammende colossali; non
è sufficiente liquidare tutto il portafoglio di valori, ma è necessario
abbandonare capitale fondiario e uffici prestigiosi. La disfatta sarà totale.
Colbert con questo stratagemma ormai anima una lobby di finanzieri fedeli, tra
cui numerosi parenti ed amici, che monopolizzano l’amministrazione finanziaria
e gestiscono le grandi entrate dirette e indirette. La nuova fazione si
impadronisce dello Stato e ben presto dell’insieme dell’economia del regno,con
la benedizione del ministro. Il sistema cosiddetto colbertista si è messo in
moto; sono questi stessi trafficanti di denaro che gestiscono le compagnie di
commercio marittimo, come quelle del Nord, delle Indie orientali, della Indie
Occidentali o del Mediterraneo, che ispirano il movimento manifatturiero della
Linguadoca e sfruttano tutte le industrie che fioriscono attorno alla giovane marina reale. Lungi
dall’essere un emarginato, il finanziere dell’età barocca appare totalmente
integrato nella vita sociale e politica, ingranaggio essenziale nella macchina
statale e parte in causa in tutti i
regolamenti di conti: dietro alla apparenze sontuose che lo espongono alla
denigrazione, si scoprono altre realtà completamente diverse, più serie, più
dolorose, e talvolta amare.
Nel 1561 Giovan Battista Nicolucci, detto il Pigna, segretario
del duca Alfonso d’Este, pubblica Il
Principe a Venezia. Con questo libro si passa dall’istruzione del
cortigiano (il Libro del Castiglione
è del 1528) all’istruzione, specialistica e settoriale, delle competenze
operative di ideali funzionari di “segretaria”
Nel gergo del Pigna
principe “eroico” è quello “amorevole” e “totalmente opposto al tirannico”.
Si trattava di aristocrazia delle lettere, contrapposta alla
nobiltà di casta. Il Pigna aveva fatto del segretario un consigliere del
principe: un “filosofo” capace di coniugare “la vita attiva con la
contemplativa”, le “onorate operazioni civili” con i “degni negoci”. Il
segretario era proposto (e si proponeva) come intelligenza assistente in una
società il cui ordine sociale si basava sulla relazione lineare tra l'alto e il
basso: a partire da un Principe che doveva reggere il mondo “più per dargli perfezzione
che per riceverne”, avendo egli “del divino nel diffondersi con amore né suoi
cittadini” e “nel tirargli a sé assomigliandosi a Dio che penetra per entro a
gli angeli”. Con questo modulo teologico e angelico veniva a misurarsi il
servizio di collaborazione del segretario: che con il suo consiglio di
istitutore non sulla “scienza” del governo poteva agire ma solo sulle “cose
fortuite” ove bisognavano competenze d’ufficio e d’esperienza. Il segretario
era un raggio della grandezza del Principe, al cui servizio metteva saperi
particolari.
Il segretario mette al servizio del principe saperi
particolari: “bisogna intendersi di ogni sorta di maneggio”. Importanti erano
le regole della corrispondenza epistolare.
La trattatistica sul segretario si sviluppa parallelamente a
quella sul perfetto ambasciatore, dal quattrocentesco De officio legati di Emolao Barbaro al dialogo Il Messaggiero del Tasso.
Furono stampati importanti trattati a Roma nel 1589, Napoli
nel 1594, Venezia dal 1597 al 1607, Venezia nel 1625, nel 1640 (Diego de
Saavedra Fajardo, Idea de un principe
politico-cristiano, representada en cien empresas, contiene anche una
descrizione del segretario), 1655 (Georg Phiipp Harsdörfer, Secretarius), 1634 (Peregrini, Difesa del savio di corte)
Il segretario del Pigna era un filosofo versato anche nelle
lettere. Era consigliere “verace” e “secreto” che accordava il suo insegnamento con l’esercizio del potere
“eroico”, partecipandovi in qualità di educatore, perché “l’eroe ch’ha il
concorso di tutti i beni esteriori con la perfezzione di tutte le virtù,
vedendosi avere in mano il governo de’ popoli col quale si confà con Dio
medesimo, non vuole che ‘l suo mestiero sia l’attendere alli studii delle
lettere e della filosofia, ma il reggere le città amministrando la giustizia e
le armi per premio de’ buoni e per supplicio de’ rei”. Il segretario era un
“formatore” del Principe.
Il Pigna passò ai trattatisti secenteschi la similitudine
angelica. Il segretario era un “formatore” del Principe. E del potere politico
era parte angelica, “forma” di una forza.
“Il secretario dee
ricordare d’esser il cuore e la mente della corte, conciosiaché vedendo nascer
dalla prima radice le materie appartenenti allo stato nel Principe, se le vede
anco riporre nel petto proprio come in una fortissima rocca, o per dir meglio
come in una santissima e sicurissima sacrestia dalla qual forse è proceduto il
suo nome, per il cui rispetto ha da esser tanto maggiore la sua fede, quanto
che i negozii che gli son revelati e raccomandati sono importanti”.
L’ufficio poggiava sul segreto e sulla segretezza. Addetto
alle missive e ai codici cifrati delle cancellerie, il segretario aveva la
consegna del silenzio. E aveva la necessità di conquistarsi la fiducia del
signore, nel lavoro e con la pratica della scrittura.
Il silenzio è altra virtù: “Avvegna che tutta la servitù e
tuta la vita del secretario sia una tacita persuasione”
La “spiegatura in lettere” dei concetti del signore era il suo
primo compito, “angelico”.
Non aspirava a mettersi in mostra, alla fama e alla gloria,
anzi, “è spesso prudenza il dissimular d’intendere e di sapere, esser parco di
se stesso e coperto”. Gesti, abbigliamento, pronuncia venivano progettati per
lui in modo da sospingerlo nell’ombra: nell’inevidenza, nel conformismo,
nell’anonimato; e in una scelta di solitudine. Stoffa severa e di color nero o
al massimo bigio, senza spada o pennacchio. Solitudine e quiete in una camera
appartata, negarsi alla civil conversazione e ai conviti. Gravità, onestà e
modestia in ogni azione… per questo non c’è il meglio che sfuggir quanto si può
di conversare, e mi piacerebbe sommamente che ‘l tuo mangiare fusse in camera
tua da te solo, perché a tavola per ordinario si fan tra’ cortigiani diversi
cicalamenti e rare volte onesti”.
Scriveva lettere
suasorie, dimostrative, giudiziali e di complimento: “famegliari, ufficiose e
negoziose”. Era provvisto di sigilli, temperini e simile armamentario.
Doveva aver cognizione
delle “istorie antiche e moderne” e della “notizia quotidiana” che è “istoria
presente e viva”. Poteva essere poeta, ma scrivere come uomo pratico.
Per la copiatura delle minute, suggellature, pieghi,
spedizioni disponeva di copiatori, corrieri e maestri delle poste. Aveva degli
aiutanti. Doveva però essere solo e segreto nell’ordinamento e nella custodia
dell’archivio. E nella “astuzia delle cifre” o messaggi criptici e a chiave.
Doveva stare attento che altri non contraffacessero la sua scrittura.
Occorreva talvolta blandire, talvolta minacciare; dare i
titoli opportuni e non cambiare il titolo usato.
L’impiego era spesso minacciato dal capriccio del padrone e
dalle denunce dei concorrenti, che tenevano sotto tiro la corrispondenza
ufficiale e anche privata, pronti a cogliere la minima manchevolezza e ad
enfatizzare lo scorso, fosse pure di grammatica spicciola. Ne nascevano scontri
epistolari.
Prendeva il nome dal “segreto”. Oppure dal secretum: studiolo e archivio, luogo
delle scritture segrete e della loro custodia. Veniva considerato uno
“scrigno”, uno “stomaco”, maestro di discrezione e campione del silenzio e
della segretezza. Faccia inespressiva e dissimulatrice.
L’imagine del segretario era quella del dio del silenzio
Arpocrate, con un dito sulla bocca. Ma anche quella delle statue di Memnone,
automi che si animavano quando toccati da un raggio di sole: il segretario è
azionato da raggi celesti. Con Memnone siamo alla macchina servile, allo
“stromento animato”, al segretario-servo definito per via neoplatonica.
Per il Guarini, più che abito “attivo”, di pertinenza
politica, era “abito fattivo”, di pertinenza retorica. “la retorica è la vara
filosofia dalla quale il segretario prende i principi e la forza della sua penna
e que’ concetti politici che maneggia dalla sola retorica gli riceve ma non gli
intende; né è tenuto ad intenderli con quella ragion teorica con cui gli
intende il politico, ma con quella pratica che gli esercita l’oratore”.
Il segretario aveva affetto per il suo principe, e giovava
l’instaurarsi di un rapporto di amicizia, “confidandosi da’ signori a tali
ministri i loro più segreti interessi e pensieri”
In quanto tecnico con competenza nella retorica e nella
persuasione, il segretario letterato era l’artigiano del potere e della sua
legittimazione: un elemento importante e imprescindibile nella nascente società
delle comunicazioni di massa. Sicché fu possibile a Matteo Peregrini rovesciare
i termini della situazione e pensare che in fondo fosse il segretario a
nobilmente comandare per il tramite del principe con il quale era impegnato a
“menar vita”: “Serva pur dunque volentieri il savio al prencipe col mostrargli
le vie del buon consiglio, già che questo suo consiglio è una spezie di
commandare”.
C’è tutta una letteratura sulla “dissimulazione onesta”. “Esser
favorito e segretario mal si convengono:sol per essersi di te fidato prende a
diffidare il principe di te: ti odia come suo tiranno, perché pargli che abbi
in mano la sua libertà, mentr’ei vi ha posta la sua coscienza”. Secondo Anton
Giulio Brignole Sale naufraga così ogni ipotesi di amicizia.
Antonio Querenghi era segretario di cardinalizie segreterie.
Si occupava della casa e della familia
delpadrone. Degli affari e delle incombenze minute. Un ruolo talvolta al
disotto della sua cultura, costretta in tali casi a farsi “mutola”: “debbo acquetarmi
alla volontà di V.S. Ill.ma obnegando come fo in tante altre cose di suo
servizio il proprio mio senso”. Il difetto era nel Querenghi, nella sua cultura
di filosofo sproprrozionata al bisogno. Diceva il Costo a tal proposito: “alle
scienze specolative non mi curo che tu ti ci dia, imperocché l’altezza loro
sdegnando ogni altra professione, come manco degna, ti travolgerebbe l’animo
dal tuo officio; di modo che tu, poro o niente curandotene, verresti ad
abbandonarlo et a mal servire il tuo padrone”. Purtuttavia lo scrivere lettere
non con gente meccanica metteva in contatto, ma di valore e “principesca”. Il
Costo sprezzava infatti i maggiordomi, che si occupavano del basso della casa:
cuochi, dispensieri, scalchi, credenzieri, speditori, mozzi, canovai o
cantinieri. Eppure sapeva come fosse labile e precaria e facilmente
stracciabile la nobiltà dei segretari se non mancava di denunciare
l’indelicatezza di certi padroni che dei propri servitori di penna usavano come
fossero coppieri, assaggiatori, moscerini da vino. Il moscerino poteva
dimettersi: “se mai t’accadesse per tua disgrazia di trovarti a simil termine,
chiedi piuttosto licenza, e fa come puoi, che di ridurti a far cosa non
conveniente al tuo officio”.
Il segretario maneggiava il teatro della scrittura barocca,
padroneggiava l’arte dell’ambasciatore capace di “far cangiar faccia alle cose”
a seconda della loro diversa disposizione. “Bisogna aver un ingegno et uno
stile molto versatile e manieroso, ricco di termini et abbondante di forme, e
quello sappia fare della sua penna che della sua persona faceva Proteo: in
tutte le forme possibili tramutandola e variandola secondo che ricerca il
bisogno”. Maestro di anamorfosi verbali che permettessero di dire e non dire,
di mostrarsi e nascondersi insieme, di fingre di portarsi in una certa
direzione per spostarsi di fatto in un’altra
La condanna e il discredito della ribellione penetrarono così
profondamente nella cultura e nella coscienza collettiva dell’età barocca da
oscurare per lungo tempo il valore ideale della resistenza all’oppressione e
alla tirannide, che in altri periodi storici era stato accettato ed esaltato.
Una vastissima letteratura, che va dalle Vindiciae
contra tyrannos (1579) di Junius Stephanus Brutus (prob. l’ugonottto
Philippe Du Plessis-Mornay) al Behemot
(1679) di Thomas Hobbes fu prodotta sul tema della ribellione, per sostenere o
negare la sua legittimità, propugnarla o combatterla, analizzarne cause e
aspetti, fare il resoconto o la storia di singoi avvenimenti. Si può
individuare un cinquantennio (1590-1640) in cui la negazione e l rifiuto furono
nettamente dominanti rispetto alla giustificazione ed al confronto delle idee e
dei punti di vista.
Prevalente nello spirito dell’epoca oltre che nella dottrina e
nella pratica di governo, questo orientamento fu particolarmente rigido, ma non
senza incoerenze e ambiguità. Possono sembrare contraddittori i tentativi,
fatti da tutti i governi, di suscitare la ribellione (movimenti insurrezionali,
congiure e imprese terroristiche) in casa del nemico. Può sembrare
contraddittorio che Inghilterra e Francia abbiano aiutato la Repubblica delle
Province Unite o che il papa Urbano VIII all’indomani della rivoluzione portoghese
del 1640 non abbia respinto con la prontezza e la decisione che il governo
spagnolo avrebbe desiderato il vescovo di Lamego, inviato e messaggero del ribelle Braganza.
Suscita più interrogativi il fatto che in una fase
ideologicamente così conservatrice, nella quale sembrava che lo spazio per la
preparazione ideale del mutamento e per la lotta contro il potere formalmente
legittimo fosse inesistente, si sia conclusa, nel decennio 1640-50, con una
crisi rivoluzionaria quasi generale. Il periodo barocco è racchiuso tra la
sollevazione dei paesi bassi e l’indipendenza del Portogallo. Per molti anni
Guglielmo d’Orange e il duca di Braganza, i capi dei due nuovi stati
indipendenti, furono regolarmente qualificati ribelli, insieme alle rispettive
nazioni, negli atti della diplomazia e del governo spagnoli; ma al di fuori dei
domini asburgici i due episodi apparvero tutt’altro che negativi ai
contemporanei. Ad alcuni non sfuggiva che definire ribelli intere comunità
nazionali equivaleva a riconoscere la legittimità della loro ribellione,
sostenuta dal consenso generale.
Eppure è vero che alla fine del Cinquecento e nei primi
decenni del Seicento, la condanna della ribellione fu un tratto dominante della
cultura e della mentalità. José Antonio Maravall ha sostenuto che la cultura
del Barocco nel suo insieme fu una risposta, promossa dalle classi dirigenti e
dai governi, alla minaccia della ribellione e della protesta sociale. Il grande
incremento delle manifestazioni culturali indirizzate ai ceti popolari si
spiegherebbe con la necessità di svolgere un’azione preventiva a largo raggio e
di condizionare la mentalità comune. Cultura barocca come cultura di governo,
funzionale alla stabilità politica ed alla quieta pubblica e capace di imporsi
e di diventare senso comune, relegando drasticamente ai margini, più di quanto
era accaduto in epoche precedenti, le idee di opposizione e di protesta e i
propositi eversivi più o meno mascherati. Una tesi così radicale, riferita ad
un grande movimento culturale unitario ma non univoco, non può non suscitare
dubbi e riserve, anche se è sostenuta da una tradizionale interpretazione
dell’età barocca come periodo di generale conformismo e riflusso autoritario.
La forte pressione dall’alto, e la diffusa convinzione di vivere in un periodo
eccezionale di inquietudine e di turbolenza, provocate dall’espansione della
popolazione urbana, dalla crisi economica, dalla conflittualità sociale e da un
senso generale di instabilità, possono spiegare soltanto in parte o in modo
molto generico la tendenza ad una rigida uniformità culturale e l’accettazione
quasi universale di principi che escludevano l’ipotesi o l’idea della
resistenza al potere. Evidente, tipica del periodo e fortemente sentita fu
l’esigenza di escogitare "le maniere di trattenere il Popolo" col
fine specifico di "ovviare a’ romori e a’ sollevamenti". Giovanni
Botero, punto di riferimento obbligatorio della cultura politica barocca, l’ha
affermata esplicitamente nel 1589: "Poiché il popolo è di natura sua
instabile, e desideroso di novità, ne avviene che s’egli no è trattenuto con
varj mezzi dal suo Prencipe, la cerca da se stesso anco con la mutatione di
Stato e di governo; perciò tutti i prencipi savij hanno introdotto alcuni
trattenimenti popolari, né quali, quanto più si ecciterà la virtù dell’animo e
del corpo, tanto saranno più a proposito"
Botero ricordava le cerimonie, feste e celebrazioni con le
quali il cardinale Borromeo aveva intrattenuto Milano, con le chiese piene
dalla mattina alla sera. Oltre che alle manifestazioni religiose le preferenze
di Botero andavano al teatro, e alla gravità della tragedia piuttosto che alla
frivolezza della commedia.
Un certo potere di convinzione fu affidato, oltre che alla
ripetizione ossessiva di giudizi, immagini e formule che miravano a creare una
visione funesta della ribellione, soprattutto
all’atrocità ed alla spettacolare pubblicità del castigo e della
repressione.
La volontà di conservazione di governi e classi dirigenti, e
la loro generica azione culturale e di propaganda non bastano tuttavia a
spiegare un orrore del cambiamento e della novità che ha dato una impronta così
forte a tutta l’epoca, condizionando il pensiero di persone la cui indipendenza
di giudizio è fuori discussione e le idee o la psicologia degli stessi
oppositori. Il diritto di difendere armata
manu posizioni, interessi, libertà e privilegi di gruppi sociali o di
comunità fu rivendicato talvolta anche nell’età barocca: ma, anziché sul
richiamo alle dottrine della resistenza al tiranno, come frequentemente
avveniva prima, esso si basò sulla proclamazione dell’obbedienza e della
fedeltà al sovrano. Fu una delle conseguenze paradossali del nuovo corso
politico barocco. Coloro che non seguirono questa procedura e continuarono a
opporsi frontalmente alla maestà e all’autorità del re apparvero, e in parte
furono realmente, ombre e fantasmi del passato.
Il termine "ribelle" ha una certa ambiguità: pur
indicando specificamente, nel XVI e XVII secolo, il fautore del cambiamento
politico (e per immediata assimilazione l’eretico), fu attribuito ad ogni forma
di protesta e di insubordinazione ed anche a criminali,banditi, devianti di
ogni sorta che con la sovversione politica e con l’eresia avevano poco o niente
a che fare. L’ossessione della presenza del ribelle, considerato nell’accezione
più ampia e generica, tra le pieghe della società non giustificherebbe la
collocazione del suo ritratto nella galleria del Barocco. Il millenarismo, le
utopie egualitarie fino al banditismo "sociale" e al tumulto della
fame ebbero grande intensità e frequenza nell’età barocca ma non ebbero
caratteri distinti rispetto ad altri periodi precedenti e seguenti. La scelta
di inserire anche il ribelle tra le figure tipiche dell’età barocca presuppone,
se non un rovesciamento, almeno una presa di distanza dalla considerazione
generica e totalizzante (o confusionaria) della sua fisionomia. Pur con la sua
contraddittoria molteplicità di aspetti, propositi tendenze e risultati la
ribellione riuscì allora, in qualche caso, a varcare la difficile soglia della
politica e quindi ad influire sulla dinamica della società e delle sue
istituzioni; in circostanze eccezionali contribuì anche al loro rinnovamento e
sviluppo. E’ possibile, dunque, e necessario distinguere nel mare magnum del ribellismo della prima
età moderna le manifestazioni che, almeno tendenzialmente, ebbero un contenuto
politico. Malgrado la deliberata volontà dei più diretti rappresentanti del
potere di confondere le acque su un tema così importante, per fini immediatamente
politici e di "reputazione" di governi e gruppi dirigenti, la cultura
barocca operò le opportune distinzioni e tenne presenti le differenze nella
ricca casistica della ribellione. La protesta puramente sociale, dal tumulto
urbano alla jacquerie contadina ed al
brigantaggio più o meno colorato di motivi sociali, ebbe un posto
rilevantissimo, dal punto di vista quantitativo, nella storia europea alla fine
del Cinquecento d durante la prima metà del Seicento, ma non comportò di per se
stessa per giudizio comune, il rischio del "mutamento di stato". Malgrado
l’interesse e l’attenzione per le forme più elementari di protesta, di
anticonformismo e di eversione e l’endemica frequenza delle loro
manifestazioni, la figura centrale negata e temuta nello stesso tempo, fu anche
allora quella dle ribelle politico: ad essa si riferisce il diffuso timore del
cambiamento e della novità che appartenne nell’età barocca alla cultura ed alla
mentalità comune.
Nel lungo periodo la monarchia spagnola fu la compagine
statale più colpita dalle inquietudini e lacerazioni interne. Ma non fu la
cultura spagnola a promuovere la nuova fase di demonizzazione del ribelle.
L’epicentro fu invece la Francia, alla fine del Cinquecento. E con buona
ragione, perché la Francia aveva fatto un’esperienza catastrofica del tutto
singolare rispetto alle altre monarchie europee: trent’anni di rivolte e di
guerre civili avevano colpito il cuore della nazione, spingendola sull’orlo
della rovina e del disfacimento e creando profonde lacerazioni nel suo tessuto
politico. "I segni delle nostre disgrazie resteranno per sempre in
Francia", scrisse nel 1595 il precettore di Luigi XIII, David Rivault. Nel
rinnovamento di idee politiche e religiose che seguirono l’assassinio di Enrico
III (1589) e accompagnarono i primi tempi del regno di Enrico IV, la condanna
della ribellione ebbe un posto centrale. La sua irradiazione nel resto
dell’Europa è stata poco studiata; ma non è difficile rendersi conto che,
quando il problema venne affrontato in quegli anni nella letteratura politica
degli altri paesi europei (a cominciare da Giusto Lipsio e da Botero, fu
costante il riferimento esplicito o implicito all’esperienza rivoluzionaria
della Francia ed alla interpretazione che ne diedero allora i sostenitori della
ripresa e del rinnovamento della monarchia francese. Chiudere il periodo delle
guerre di religione, aprire la via alla ricostruzione politica e morale della
nazione, proporre nuove forme di convivenza tra Chiese diverse e nuovi rapporti
tra sovrano e sudditi: il grande impegno ideale e politico verso questi
obiettivi presupponeva la critica radicale e possibilmente la liquidazione
delle dottrine che avevano dato una copertura ideale alla violenza ed ai movimenti rivoluzionari
che nel corso di un trentennio avevano
scardinato il potere e l’autorità del sovrano.
La teoria della legittimità della ribellione contro il
tiranno, elaborata nel corso del Cinquecento sulla scia di un’ampia tradizione
medievale e umanistica, ebbe, nelle sue varie versioni, una ispirazione
teocratica. In Francia fu largamente accolta dagli ugonotti dopo la strage di
San Bartolomeo e portata al punto di massima intensità e vigore dalle Vindiciae. Ma la sua ispirazione era in
sintonia anche con l’estremismo cattolico. Jean Boucher, Guillaume Rose ed
altri teologi-politici cattolici non incontrarono difficoltà, infatti, a
trasferirla nel campo dei leghisti e degli avversari a oltranza di Enrico IV.
Opportunamente rielaborata, essa divenne poi la dottrina quasi ufficiale dei
gesuiti con la pubblicazione del De Rege
et Regis Institutione di Juan de Mariana (1599).
Dopo che Enrico di Navarra divenne erede al trono, i più
autorevoli monarcomachi ugonotti si fecero sostenitori del diritto ereditario e
si convertirono alla concezione assolutistica della sovranità. Ma le loro
dottrine avevano scavato un solco che non era facile colmare. Sia l’autore
delle Vindiciae che François Hotman nel Franco-Gallia avevano cercato di
accostare alla giustificazione religiosa un autonomo fondamento giuridico e
politico della ribellione, con la tesi dell’origine elettiva della monarchia e
della preminenza degli Stati Generali sul sovrano. A loro volta i teorici
cattolici avevano attenuato l’impostazione rigidamente nobiliare che aveva
avuto la teoria nella sua formulazione originaria. Il campo della sua
potenziale influenza si era allargato così anche al di fuori del terreno sul
quale e per il quale essa era nata.
La grande campagna antirivoluzionaria che si sviluppò in
Francia come reazione al disastro provocato dalle guerre di religione fu
condotta soprattutto dal movimento dei cosiddetti "politici". Fu un
caso interessante di collaborazione tra potere politico e cultura e di
convergenza di esperienze e posizioni ideali diverse intorno ad un obiettivo
comune. L’elenco dei protagonisti comprende tra gli altri Pierre Charron,
l’amico di Montaigne e autore del celebre trattato sulla saggezza; Daniel
Drouin, il cui Miroir des Rebelles
può essere forse considerato il primo testo specifico e sistematico della
letteratura barocca sulla rivoluzione; il gruppo di "politici"
parigini che, in occasione degli Stati Generali convocati nel 1593 dai capi
della Lega cattolica, scrissero la famosa Satyre
Ménippée; il già ricordato Rivault; Gabriel Chappuys, segretario e
interprete di Enrico IV per la lingua spagnola, traduttore di Boccaccio e di
Ariosto, di Castiglione e di Niccolò Franco; il dottore in teologia e canonico
della Chiesa metropolitana di Tolosa Jean de Caricave, che pubblicò un trattato
di mille pagine. Michel Roussel, portavoce della Sorbona, e lo scozzese William
Barclay, emigrato in Francia, professore di diritto nell’Università di Angers e inventore del
termine "monarcomachi" diedero alla campagna una dimensione più ampia
allargando il discorso, oltre i confini della cultura politica francese, a
George Buchanan e Juan de Mariana.
La dimostrazione che i testi dei monarcomachi si basavano su
una interpretazione errata e arbitraria delle Sacre Scritture ebbe ovviamente
una parte importante nella campagna. Ma il vero punto di forza fu l’evidenza ei
guasti chela ribellione aveva provocato in Francia e la corrispondenza a
diversi livelli di intensità tra l’esperienza francese e i fenomeni di
ribellismo che anche gli altri paesi europei avevano sperimentato nel corso del
secolo XVI.
L’assassinio di Enrico III nel 1589 e quello di Enrico IV nel
1610 segnarono due momenti di particolare intensità nella polemica. I motivi
principali dell’offensiva controrivoluzionaria furono elaborati e si
affermarono già intorno al 1590. A differenza di quello del suo successore,
l’assassinio di Enrico III non fu un episodio isolato; avvenne invece nel
momento culminante dell’agitazione rivoluzionaria, subito dopo l’insurrezione e
le barricate di Parigi, promosse dalla Lega cattolica nel maggio del 1588, e
dopo che il prestigio e l’autorità del sovrano, costretto a fuggire dalla
capitale, erano caduti al punto più basso. Un campionario dei più autorevoli
ribelli, esponenti della nobiltà e della gerarchia ecclesiastica e protagonisti
della fase finale delle guerre civili, fu presentato dalla Satyre Menippee nel 1594. Il duca di Mayenne, l’arcivescovo di
Lione, il rettore della Sorbona, il famigerato governatore Pierrefront, mezzo
nobile e mezzo brigante, il legato pontificio formano, nella galleria della Satyre, una serie impressionante di
ritratti di brutale egoismo spirito di sopraffazione, ingiustizia, demagogia,
slealtà nei confronti della nazione. Il quadro ebbe un grande successo non solo
per l’abilità letteraria degli autori di quel "roi des pamphlets"
(come fu definito nell’Ottocento), ma per la credibilità e la forza che gli
davano le condizioni in cui versava il paese e gli esiti della ribellione,
l’evidente offuscamento dei valori ideali e religiosi, l’anarchia, il terrore,
la presenza delle milizie spagnole nella capitale: "O Parigi che non sei
più Parigi, ma una spelonca di bestie feroci, una cittadella di Spagnoli,
Valloni e Napoletani, u nrifigio e asilo sicuro di ladri, omicidi e assassini,
non vorrai mai riprendere la tua dignità e ricordarti di quello che sei stata?"
Lo sdegno patriottico e la passione civile che hanno fatto
della Satyre un classico della
letteratura politica e un punto di riferimento della coscienza nazionale francese sono rivolti, più che a
condannare il principio della ribellione, a smascherare i singoli ribelli, a
denunciare l’antitesi tra i princìpi che essi proclamano ed i loro
comportamenti reali, tra i fini dichiarati
e i risultati della loro azione. Diversa è l’impostazione del Moroir des Rebelles di Daniel Drouin, la
cui forza di convinzione si basa sul proposito di trarre conclusioni generali
dall’esperienza particolare della Francia; o meglio, di stabilire una stretta
connessione tra il giudizio sull’esperienza francese e la condanna generale e
teorica della ribellione. Il fenomeno è considerato in un panorama che va dalla
storia ebraica all’Europa cristiana medievale e moderna, attraversando il mondo
greco e gli imperi persiano, romano, turco; è in questa dimensione di storia
universale che si può cogliere pienamente il significato delle vicende
trentennali della Francia, con le quali il panorama si conclude.
"E’ a voi, mia nazione francese, che ho voluto parlare in
questo libro… perché non c’è oggi al mondo un popolo più di voi dedito alla
sedizione… Ascoltatemi, miserabili ribelli e persecutori della vostra
propria nazione… Con quale argomento,
con quale pretesto continuate a resistere a mano armata contro la Corona? In
verità non ne avete alcuno e non ci fu mai al mondo una ribellione più immotivata
della vostra"
Il giudizio che domina il panorama storico generale e la
ricostruzione delle vicende più recenti e vicine è il destino fallimentare
della ribellione e la ineluttabilità del castigo. Secondo Drouin è qui, in
questa inevitabile e costante conclusione, il segno della volontà divina di
sostenere il potere legittimo, anche quando appartiene a re pagani e idolatri:
"Se i ribelli infedeli che ignoravano la via della salvezza non sono stati
risparmiati dalla mano vendicatrice dell’Onnipotente che ha voluto mantenere
nei loro regni sovrani pagani e idolatri, che sarà dei cristiani che
sfrontatamente si sollevano contro i loro signori?". "Dio sta sempre
dalla parte della legittimità": il libro vuole dare, attraverso il tema
del fallimento, un supporto storico alla teoria sull’origine divina del potere
regio, che è il punto di riferimento comune e il fondamento teorico positivo di
tutta la campagna controrivoluzionaria. L’argomento appariva agli uomini del
XVI secolo meno astratto e aprioristico di quanto potrebbe sembrare a noi: quel
che di tragico ha la figura del ribelle barocco, la sua volontà di respingere
dalla propria persona quel marchio, anche in contrasto con i propri gesti ed i
propri fini, lo sforzo di collegarsi ad ogni costo ad una legalità
costituzionale e ad una tradizione consolidata, dipendono in buona parte dalla
convinzione che difficilmente la ribellione potrà sfuggire alla sorte del
fallimento. Se la Riforma protestante poteva suggerire l’idea di una
rivoluzione vittoriosa, sul piano più strettamente politico e sociale l’insuccesso
era la regola.
Drouin attribuiva il destino fallimentare alla volontà divina,
ma non mancava di indicare i dati di fatto che davano all’esito fallimentare ed
al castigo un’altissima probabilità e quasi una meccanica necessità. Nella
complessa tipologia delineata da Drouin, che non trascura né i grandi movimenti
contadini "senza altri capi che ladri e briganti", né le sollevazioni
popolari della città e particolarmente di Parigi, emerge con grande evidenza
che il vero pericolo viene dai Grandi. Le sollevazioni popolari, rurali e
urbane, proteste puramente sociali o rivolte della fame, sono destinata a non
avere in quanto tali nessuna influenza sulla stabilità dello Stato. Esse
diventano pericolose soltanto se i Grandi se ne servono strumentalmente ai loro
fini. E’ quello che è avvenuto, infatti, nel orso delle guerre di religione:
"I più Grandi hanno la colpa più grande". E’ necessario dunque che i
popolari siano puniti nel modo più severo, per evitare che si lascino
trascinare a diventare strumento e massa di manovra di disegni politici che
appartengono alle alte sfere ("se si facesse oggi una punizione così
esemplare dei ribelli – suggerisce Drouin dopo avere rievocato una serie di
atroci supplizi seguiti a tentativi di ribellione – indubbiamente non ce ne
sarebbe un numero così grande: perché il timore di tali supplizi li spingerebbe
ad abbandonare il partito dei sediziosi"); ma la vera e giusta
indignazione del principe "deve cadere sui Grandi, che comunemente sono la
causa di tanti tumulti e sedizioni… considerando anche il fatto chela punizione
dei grandi personaggi fatta pubblicamente incute maggiore paura ai piccoli e
serve, come esempio, più che si facessero impiccare mille del popolo minuto. Il
supplizio di un Grande spaventa una infinita moltitudine di piccoli".
In quanto azione promossa e ispirata dalla nobiltà e
soprattutto dai grandi signori (il cui disprezzo per il resto del mondo e per
il suddito "ignobile" irritava fortemente la sensibilità del
borghese, intellettuale, magistrato o uomo d’affari, come risulta anche dal discorso
attribuito nella Satyre Menippee al
rappresentante del Terzo Stato), la ribellione appariva dunque come violenza
particolaristica, ingiusta difesa di arcaici privilegi contro l’interesse
generale della nazione e contro l’equilibrio politico e sociale garantito dalla monarchia. Era qui,
nel suo contenuto retrogrado, il
fondamento principale della sua debolezza. Qualunque azione rivoluzionaria,
inoltre, poteva raggiungere una certa efficacia soltanto a condizione di
basarsi sul sostegno popolare, che in effetti i Grandi ribelli avevano
sfrenatamente sollecitato e organizzato nel corso delle guerre civili. Questa
operazione demagogica era considerata il più nefando attentato contro il vivere
civile e contro la società, perché significava dare spazio allo scatenamento di
istinti brutali ed alla barbarie, e, nello stesso tempo, era segno di
velleitarismo e insensatezza perché nulla poteva essere più fragile e illusorio
del sostegno popolare, inevitabilmente destinato a venir meno nel breve
periodo.
Ci sono qui tutti gli elementi del modello di interpretazione
che la cultura barocca avrebbe fatto proprio. Nel complesso rapporto tra
movimenti religiosi, opposizione aristocratica e agitazione popolare,
l’isolamento delle tendenze eversive
della nobiltà e la denuncia dell’uso strumentale della religione non erano
certamente una novità. Questa chiave di interpretazione era, anzi, usata
frequentemente. Se ne era servito per esempio anche l’ambasciatore della
Repubblica di Venezia a Parigi, quando aveva affermato che le guerre civili
erano nate dalla volontà del Cardinale di Lorena di non avere eguali di
dell’ammiraglio Coligny e della casa di Montmorecy di non riconoscere
superiore. La campagna dei "politici" inserì i diversi dati
dell’esperienza rivoluzionaria in una analisi sistematica che suggeriva anche
un giudizio generale sul fenomeno della ribellione nella società contemporanea,
la possibilità di cogliere analogie e trovare conferme in altri casi storici.
La considerazione delle cose idi Francia influì certamente come si è accennato,
sulla riflessione teorico-politica di Botero e di Giusto Lipsio. Il richiamo
del primo alla Francia è frequente: "i gran rumori ch’habbiamo fin di qua
sentito"; il "Regno, altre volte floridissimo, ridotto in estrema miseria";
"il paese si deserta e si rovina". Non è da escludere che i suoi
giudizi sulle tendenze eversive della nobiltà e sulle esperienze italiana di
ribellismo nobiliare abbiano una diretta connessione anche con le posizioni che
i "politici" francesi venivano delineando: "Ne’ signori particolari
di un Regno vi è del bene e vi è del male; il male è l’autorità, e la potenza,
in quanto ella è sospetta al prencipe soprano: perché è quasi un appoggio, e un
rifugio apparecchiato a chi volesse ammutinarsi e sollevarsi; o a chi tentasse
di muover guerra e di assaltare lo
Stato; come sono stati i Principi di Taranto, e di Salerno, et i Duchi di Sessa
e di Rossano nel Regno di Napoli"
Anche Lipsio considera
"le fattioni de’ nobili", "le discordie tra gli uomini chiari e
potenti" e la loro inclinazione a "mettere sotto sopra il mondo, e
sanare le proprie piaghe co’l male della Repubblica come l’origine della
"ruina universale" e dei peggiori mali dello Stato. Il suo traduttore
italiano, il gentiluomo ferrarese Ercole Cati commenta nel 1618: "Senza
ricercare altri esempi della natura e
degli effetti delle fattioni basta assai il considerare in questo luogo gli
strani avvenimenti succeduti in Francia e in Fiandra per la cospirazione insieme
e per l’avversione degli animi di que’ popoli da’ loro veri e legittimi
Prencipi sotto pretesto di libertà di coscientia e di religione, ma in effetti
nelli più, maggiori e più potenti signori per astio, odio e invidia particolare
l’una casa per iscacciare l’altra dell’autorità e della possanza… e finalmente
quando s’è creduto esservi interregno gli uni per occupare uno squarcio per sé
del regno… gli altri un altro, e alcuni ancora per impodestarsi della corona
intieramente"
La posizione di Lipsio
sulla questione della tirannide era perfettamente in linea con la campagna dei
"politici" francesi: pur riconoscendo che insorgere contro la
tirannide e levarla dal mondo "è da huomo di più alto cuore" e che
"i Greci hanno attribuito divini honori a quelli che hanno uccisi i
tiranni", sosteneva che la risoluzione migliore e più conforme alla
prudenza è tollerarla. Il potere viene da Dio, la guerra civile è peggiore
della tirannide, la sottomissione mitiga la natura di chi comanda, il
cambiamento può produrre anche inconvenienti peggiori: "conchiudo adunque
doversi sopportare la natura de’ Prencipi".
La ripresa della
campagna controrivoluzionaria nel 1610 fu prevalentemente dottrinaria e
aggiunse poco di nuovo al patrimonio di idee già acquisite. Nel clima di grande
emozione collettiva creato dall’uccisione di Enrico IV, l’associazione tra
parricidio e ribellione servì a suggellare una condanna che aveva già trovato
un largo consenso nell'opinione pubblica
e nella coscienza nazionale e che era diventata ormai un paradigma della
cultura politica europea. Il De Rege et
Regis Institutione di Juan de Mariana fu condannato e bruciato
pubblicamente per iniziativa del Parlamento di Parigi e della
Sorbona;nell’occasione anche le Vindiciae
furono di nuovo tirate in ballo a conferma della pluralità di voci e di
orientamenti convergenti nelle tesi del tirannicidio. De Baricave era convinto
che i buoni francesi non avevano fatto
ancora tutto quello che era necessario per strappare le radici della pianta
velenosa. Egli intendeva dire che soltanto la radicale confutazione dei
princìpi sui quali si fondava la teoria poteva essere efficace. Le mille pagine
del suo trattato sono perciò un puntuale ed estenuante confronto tra tutte el
affermazioni contenute nelle Vindiciae
e i testi sacri, con qualche incursione nella letteratura classica. In dffetti
de Baricave esagerava, oltre che nella prolissità delle sue argomentazioni,
anche nelle rivendicazioni della novità della sua opera. Era vero, però, che
nella polemica degli anni precedenti la discussione dei principi e il richiamo
ai fatti si erano intrecciati più strettamente che nei decreti e nei
pronunciamenti emanati dal Parlamento di Parigi e dalla Sorbona all’indomani
del regicidio di Ravaillac. Nelle sue brevi considerazioni, scritte nel 1589 e
pubblicate nel 1606 lo stesso Charron aveva fatto riferimento a concrete esperienze di partecipazione alle
vicende politiche. Aveva ricordato infatti di essere stato tentato dalla Lega e
di avervi messo un piede dentro (come aveva fatto del resto anche il grande
teorico dell’assolutismo, Jean Bodin) e aveva rievocato il suo stato d’animo di
ribelle, contrapponendolo alla disposizione della mente necessaria alla
comprensione della realtà ed alla saggezza: "Ero sempre come in collera –
aveva scritto – in uno stato febbrile e di emozione continua, e così ho appreso
a mie spese che è impossibile essere nello stesso tempo agitato e saggio".
Anche nella difesa della monarchia fatta da Gabriel Chappuys nel 1602 – quando
Enrico IV aveva ormai consolidato il suo potere ed i due partiti della
ribellione erano stati sconfitti – il riflesso dell’esperienza concreta appare
evidente. La sua analisi suggeriva un criterio di interpretazione, mutuato
dalla cultura umanistica e ripreso ampiamente dalla Satyre Menippee, che avrebbe avuto grande fortuna nell’età barocca
e che mirava a svalutare si ai motivi religiosi che quelli politici della
rivolta. La divinità malefica della rivolta è l’Ambizione, il cui strumento
naturale sono gli istinti della plebe e la sua disposizione al tumulto ed alla
violenza. La stessa teoria della sovranità popolare è strumentale, perché è
l’ambizione che spinge "ad adulare il popolo ed a persuaderlo, contro ogni
ragione, che spetta a lui reprimere i re, metterli in riga e far loro la legge".
Proprio sul punto della sovranità popolare Chappuys coglieva contraddizioni e
incertezze delle Vindiciae. chi, secondo il famoso trattato, spetta il compito
– si domandava – di liberare lo Stato dalla tirannide, al popolo o ai Grandi?
"Al principio, nelle pagine 103 e 106 del suo libro, Brutus dà al popolo
tutto il poter tanto sui re che sui Grandi; ma poi nelle pagine 210, 212, 213
glielo toglie e lo trasferisce ai Grandi, sostenendo che il popolo non deve
prendere nessuna iniziativa anche in caso di manifesta tirannide se i Grandi
non sono d’accordo col Re". La questione era scottante, perché la
rielaborazione cattolica della teoria prestava particolare attenzione a questo
punto e tendeva a superare l’ambiguità in senso
favorevole all’iniziativa della comunità politico-religiosa e
addirittura del singolo suddito. Uno dei
testi più noti del ribellismo cattolico era infatti l’Apologie pour Jean Chastel, lo studente che nel 1594 aveva fatto il
tentativo di uccidere Enrico IV. u un
altro punto Chappuys introdusse con molta circospezione una formula che si
richiamava al dirittonaturale e che era già presente nel Discours di Charron. Il popolo non può offendere ilsovrano, ma può
difendersi da un suo atto iniquo; non può "sottrarsi alla soggezione e
riverenza che deve al re", ma può resistere all’offesa. E’ "contro
natura" che l’inferiore si vendichi del superiore e lo faccia punire, ma
difendersi appartiene all’ordine naturale. Parecchi decenni dopo, Thomas Hobbes
avrebbe dimostrato con grande efficacia l’inconsistenza della tesi della
resistenza passiva, sostenendo che simili ambiguità e concessioni, accolte
nella cultura "ufficiale" e nelle opere degli stessi fautori
dell’assolutismo, avevano contribuito a riaprire in Inghilterra il varco alla
ribellione.
Chappuys non aveva certamente questa intenzione e non riteneva
di fare concessioni teoriche agli avversari. Le sue distinzioni riflettevano
piuttosto le difficoltà che incontrava il tentativo di dare alla condanna la
dimensione universale necessaria a garantirne la validità. Per quanto fossero
numerosi i punti di contatto con le guerre di religione in Francia, e
particolarmente con il ruolo che svolse qui l’estremismo religioso e politico e
con le spinte centrifughe e particolaristiche che operavano all’interno del
paese, il caso della contemporanea rivoluzione dei Paesi Bassi era diverso. I
"politici" francesi potevano negare in ogni caso l’opportunità di
servirsi di mezzi rivoluzionari, non cogliere l’affinità tra le loro posizioni
ideali e quelle di Guglielmo d’Orange, ma non potevano mettere completamente
sullo stesso piano le due esperienze. Drouin giudica la rivoluzione delle
Fiandre come una guerra di religione, descrive le sciagure ed i massacri che ne
sono seguiti e, scrivendo nel 1592, avanza l’ipotesi dell’inevitabile
fallimento che avrebbe colpito anche questo tentativo. Secondo lui, i Paesi
Bassi avevano subito "a buon diritto" con la terribile repressione
del duca d’Alba, la punizione più grave, perché avrebbero dovuto trarre
insegnamento dai loro vicini e "principalmente dalla nostra sventurata
Francia". Ma intanto l’anti-spagnolismo incrina la coerenza del suo
discorso. Drouin riconosce infatti che iil malcontento è stato provocato
dall’orgoglio e dalla tirannide degli spagnoli "che per la verità – scrive
– sono molto rudi e insolenti nei confronti di coloro che hanno
assoggettato". In secondo luogo la descrizione delle sciagure mette anche
in risalto l’inumanità della repressione del duca d’Alba; e l’autore arriva
infine a concedere che "anche Dio si è corrucciato con gli Spagnoli"
permettendo ai confederati di ottenere alcune importanti vittorie. Da parte sua
Chappuys, dopo il trattato del 1602 scrive una Histoire generale de la guerre de Flandres in due volumi (Robert
Fouët,
Paris, 1611) che testimonia un particolare interesse per la questione e,
soprattutto, prende atto del successo ottenuto dai "ribelli" con la
tregua di Anversa e del contributo che alla sua conclusione aveva dato il
compianto ed amatissimo Enrico IV.
I "politici"
francesi si limitarono a manifestare incertezze ed esitazioni nel giudizio
sulla rivoluzione fiamminga; una piena comprensione dei suoi aspetti più nuovi
(che del resto non ci fu inizialmente neppure in altri settori della cultura
europea) avrebbe comportato un indebolimento della loro campagna
controrivoluzionaria. Anche più tardi, del resto, ancora alla vigilia delle
rivoluzioni dell’Inghilterra e del Portogallo, il caso di Guglielmo d’Orange
doveva apparire come l’eccezione che conferma la regola. Nel suo panorama
politico europeo del 1638, Henri de Rohan avrebbe notato, in modo
significativo, che Guglielmo era stato "il solo in un secolo ad avere
avuto l’onore di fondare uno Stato"
Guglielmo d’Orange pubblcò la sua Apologia in risposta al bando con cui Filippo II lo dichiarava
ribelle, "perturbatore della quiete della Cristianità e specialmente dei
Paesi Bassi" e prometteva un premio cospicuo e addirittura un titolo di
nobiltà a chi lo avesse, come "peste publica" levato dal mondo. Anche
Guglielmo, nel respingere l’accusa, faceva appello alle tradizioni
costituzionali (all’originario contratto tra sovrano e sudditi) dei territori
che formavano i Paesi Bassi, senza giungere quindi all’affermazione di un concetto universale di indipendenza e
di nazionalità. Ma mentre negli altri testi rivoluzionari cinquecenteschi le
tradizioni costituzionali si identificavano con privilegi e poteri della
nobiltà, considerata come interprete e rappresentante esclusiva della nazione
politica, egli le concepiva in modo più ampio, come diritti e libertà di tutto
l’insieme della comunità. Anche nel campo religioso, la sua rivendicazione di
libertà non significava il sostegno
della esclusiva pratica confessionale dei suoi correligionari. In nome di
questo patriottismo Guglielmo rifiutava la "servitù assoluta" che la
Spagna voleva imporre ai Paesi Bassi; sulla stessa base respingeva il
tentativo, fatto nel bando di Filippo II di attribuire la sua ascesa politica
all’uso demagogico e strumentale del tumulto popolare e di collocare la sua azione
nel quadro della tradizione anarchica e particolaristica del ribellismo
nobiliare.
"La Spagna – diceva Guglielmo agli Stati Generali della
Province Unite – vuole privarvi intieramente dei vostri antichi privilegi e
delle vostre libertà, per disporre di voi, delle vostre donne e dei vostri
figli, come fanno i suoi ministri dei poveri indiani o per lo meno dei
calabresi, siciliani, napoletani e milanesi, senza ricordare che i nostri paesi
non sono paesi di conquista ma per la maggior parte sono patrimoniali o si sono
dati volontariamente e sotto buona condizioni, ai predecessori di Filippo
II".
Ribelli, infedeli e spergiuri – continuava Guglielmo,
attaccando una parte della nobiltà dei Paesi Bassi – sono quindi quei signori
che avendo la preminenza politica e la funzione di comando militare non si
oppongono a chi calpesta i diritti e le costituzioni del loro paese.
"Mi si rimprovera il grande credito che ho tra il popolo…
Confesso che sono e sarò per tutta la vita popolare, cioè a dire che sosterrò e
difenderò le vostre libertà e i vostri diritti… E’ vero che ci sono cinque o
sei teste malaccorte, nemici della libertà… la cui tirannide sarebbe ancora
peggiore di quella degli Spagnoli… Ma che altro è il bene pubblico se non il
bene del popolo?"
La concezione della comunità politica nazionale sostenuta da
Guglielmo era dunque diversa e più ampia
di quella che apparteneva alla tradizione cinquecentesca, sia nella versione
umanistico-patriottica che in quella politico-religiosa. Il suo progetto di coinvolgimento politico popolare
anticipava una linea che sarebbe emersa, non senza difficoltà e contraddizioni,
nella crisi rivoluzionaria della metà del XVII secolo. La novità risulta più
evidene dal confronto con un’altra e ben nota Apologia,inserita nel filone laico-umanistico del tirannicidio:
quella scritta da Lorenzino dei Medici, uccisore del duca di Firenza nel 1537.
Giacomo Leopardi che l’ha parzialmente inserita nella Crestomazia della prosa italiana come rilevante testimonianza
dell’eloquenza politica del XVI secolo, ha accomunato Lorenzino e Guglielmo
nella vocazione alla lotta per liberare i popoli dalla tirannide:
"Meraviglia è colà che s’appresenti / Maurizio di Sassonia alla tua vista,
/ Che con mille vergogne e tradimenti / Gran parte a’ suoi di libertade acquista,
/ Egmont, Orange a lor grandezza intenti / Lor patria liberando oppressa e
trista, / E quel miglior che invia con braccio forte / Il primo duca di Firenze
a morte" (Paralipomeni della
Batracomiomachia, Canto III, st. 27)
In realtà la convergenza tra i due è solo esteriore.
L’esasperato individualismo, la concezione letteraria e intellettualistica
della patria, l’esclusivismo aristocratico e lo spirito di congiura danno allo
scritto di Lorenzino una impronta ideale e politica più vicina al ribellismo
feudale (in versione aristocratico-cittadina) che alla concezione di Guglielmo.
Per Lorenzino conta essenzialmente la nobiltà
del gesto individuale. Egli non esita ad attribuire all’ignavia del
popolo di Firenze la mancanza di risultati e di sviluppi politici della sua
impresa: in una circostanza così straordinaria, afferma, quale fu l’uccisine
del duca Alessandro, non vi fu a Firenze "chi si portasse, non dico da
buon cittadino, ma da uomo, fuori che due o tre".
Per molte ragioni, tuttavia, il nuovo patriottismo dell'Apologia di Guglielmo non ebbe sul
momento una grande diffusione. Esso fu accolto piuttosto nel senso della
polemica contro l’"imperialismo" spagnolo che non in quello di un
tendenziale ampliamento dell’idea di patria,
che non riguardava soltanto i paesi soggetti al dominio straniero. Il disegno
ideale della sua Apologia aveva una
corrispondenza piuttosto incerta con la concreta esperienza della rivoluzione
fiamminga, con l’estremismo religioso ed il particolarismo politico che ebbero
tanta parte nell’azione rivoluzionaria. Inoltre, la molteplicità dei territori
che facevano parte dei Paesi Bassi, le tradizioni particolari e lo spirito
autonomistico delle varie città e province difficilmente potevano conciliarsi,
nella seconda metà del Cinquecento, con l’idea di una vera e solida comunità
nazionale. Il formalismo giuridico-politico impediva infine, come si è detto,
all’indipendentismo di Guglielmo di raggiungere un valore universale: ciò che
valeva per le Fiandre, in virtù di un patto originario, poteva non essere o
semplicemente non era valido per Napoli, per il Portogallo, per le Indie
occidentali. Il "mito" della rivoluzione fiamminga si sarebbe formato
più tardi, con il consolidamento della fisionomia economica e politica e del ruolo
internazionale dell’Olanda. Il momento della sua affermazione coincide forse
con l’inizio della guerra dei Trent’anni e con la ripresa della guerra tra
Spagna e Olanda: analogie con le idee di Guglielmo si possono trovare infatti
nella nuova Apologia (non a caso
dedicata a Maurizio di Nassau, figlio e successore di Guglielmo) che i ribelli
boemi pubblicarono all’indomani della defenestrazione di Praga.
Il "modello" francese di ribellione aveva invece,
alla fine del Cinquecento, una più larga corrispondenza con le esperienze degli
altri paesi dell’Europa occidentale, sia pure a diversi livelli di intensità.
L’Inghilterra e la Scozia, la Spagna e i suoi domini italiani avevano
attraversato momenti di tensione politica in cui lo spirito anarchico e medievaleggiante
dei grandi signori, con o senza contorno di proteste popolari, aveva avuto una
parte di primo piano nelle difficoltà di
affermazione del potere monarchico. L’offensiva ideologica controrivoluzionaria
raggiunse perciò largamente lo scopo, diventando un punto di riferimento
essenziale per la cultura europea dell’età barocca. La figura di Bruto perdette
la suggestione che aveva acquistato, quasi senza contrasto, nella cultura
umanistica. Anziché espressione di libertà, l’esaltazione del tirannicidio fu
intesa come un attentato ai valori fondamentali della comunità politica e
civile. Orgoglio, torbida ambizione, disprezzo della collettività,
inaffidabilità e negazione delle regole dell’onore anche nei rapporti
personali: era quello che concretamente, sulla base dell’esperienza, la figura
del ribelle suggeriva e che la propaganda ostile tendeva ad amplificare oltre i
dati reali e ad estendere anche ai casi che non si prestavano a questi giudizi
ed a queste definizioni. A volte l’immoralità e la sfrenatezza sessuale, così
come allora erano concepite (libertinaggio, omosessualità), e l’indifferenza
religiosa servirono a completare il quadro. Ogni volta che se ne presentava
l’occasione, l’opinione pubblica era sollecitata ad attribuire al ribelle il
massimo possibile di un ventaglio di accuse spesso estranee alla politica.
L’obiettivo era soverchiare o fare scomparire le motivazioni politiche
dell’opposizione e del contrasto, e assimilare l’immagine del ribelle a quella
del bandito comune, degli emarginati per motivi del tutto individuali, dei
devianti dalle norme di comportamento universalmente riconosciute ed accettate.
Questi elementi, già contenuti in nuce
nel bando di proscrizione emanato da Filippo II contro Guglielmo, si ritrovano
in varie combinazioni e in modo più aperto e dispiegato nelle accuse e nei
sospetti di ribellione del secolo successivo. Una sfumatura di comprensione
(quasi senza conseguenze sul piano dell’applicazione dei metodi
"rigorosi" di repressione) è riservata soltanto alla protesta dei miserabili e degli
affamati, quando c’è la certezza della manza di intenzioni nascoste e di
possibilità di sfruttamento politico. "E’ un povero affamato": il
cronista napoletano Scipione Guerra racconta che con questa frase un cortigiano
liberò dalle mani degli sbirri un uomo che aveva insolentemente insultato il
viceré. Non c’è manuale di buon governo del Seicento in cui non sia considerato
un obbligo morale dei governanti provvedere alla "grassa", al
rifornimento dei generi alimentari essenziali ed alla lotta contro la
speculazione ei l carovita, per prevenire il "risentimento" e la
"disperazione" delle plebi.
"Il nome di fellonia e di ribellione porta seco infamia e
odio": fu Tommaso Campanella a far questa constatazione, che proveniva
evidentemente anche dalla sua diretta esperienza. Nella sua opera non c’è
nessuna affermazione di principio che possa far pensare ad una giustificazione
del tirannicidio, anche se egli considerava strumentale l’affermazione
dell’origine divina del potere regio ("dicendo loro che l’ubbidire al re è
volontà di Dio e lo patire affanni aspetta premi da Dio, e predicando l’umiltà,
minacciando con la giustizia divina e
umana male agli omicidi e ladri, e fornicatori e sediziosi e ribelli e bene a’
contrarj, sempre trovano credito nelli più"). Abbondano invece le
riflessioni sui modi per prevenire o reprimere la ribellione, incitamenti alla repressione dell’eresia, consigli al re
di Spagna sul modo di recuperare le Fiandre. Il suo giudizio su Guglielmo
d’Orange, tolto letteralmente dalla Ragion di Stato di Botero non sembra positivo, anche se può
implicare un contorto riconoscimento di capacità politiche: "uomo timido
più di una pecora, ma fraudolente più di una volpe". Tuttavia le sue
contraddizioni sulla questione delle Fiandre sono più evidenti di quelle dei
"politici" francesi. I consigli e le esortazioni al re di Spagna si
accompagnano a constatazioni che equivalgono ad aspri giudizi: "Li
Spagnuoli da tutte le nazioni sono odiati… I Fiandresi più odiano la servitù
spagnola che amino la propria vita… Capitani spagnoli inimicissimi, i quali
usano il bastone e non la lingua benigna nel comandare". Infine, nel
capitolo sulla "Fiandra e Germania Bassa" della Monarchia di Spagna una dichiarazione che riecheggia l’Apologia di Guglielmo e che va oltre la
pura e semplice ispanofobia: "Onde io ho considerato… che chi combatte nel
suo paese per la Religione, per la Patria e figlioli e moglie, sempre è più
forte di colui che combatta per il dominio
in casa strana".
Sostenendo nella Camera dei Comuni l’opportunità di concedere
la naturalizzazione (l’eguaglianza dei diritti politici e civili) agli scozzesi
e la necessità di rispettare le loro leggi e le loro tradizioni dopo l’unione dinastica dei regni di Scozia e
d’Inghilterra, anche Bacone dimostrò di essere particolarmente sensibile al
tema dei diritti e delle tradizioni delle comunità locali o nazionali. Egli
ricordò, per sottolineare la facilità con cui il popolo si poteva aggregare
attorno a rivendicazioni autonomistiche, l’episodio della rivolta aragonese di
Antonio Pérez: "… E’ bastata la voce di un condannato che attraverso la
grata della prigione gridava verso la strada Fueros (equivalente a libertà o privilegi) per fare scoppiare una
pericolosa ribellione, che fu repressa con difficoltà dall’esercito del
re…". Né Campanella né Bacone (che con Antonio Pérez ebbe rapporti di
amicizia e collaborazione) contribuirono a ricostruire su nuove basi teoriche
un principio di legittimità della ribellione; entrambi mostrano tuttavia agli
inizi del secolo, particolare attenzione per la forza aggregante di un
patriottismo che oscilla fra spirito particolaristico e mdoerna difesa
dell’identità e difesa degli interessi nazionali ma che tende già a non
identificarsi rigidamente con il
costituzionalismo conservatore ed esclusivo della nobiltà.
Nell’istruzione segreta data al re nel 1624, il conte duca di
Olivares parlava del ribellismo dei Grandi come di un fenomeno che aveva
perduto gran parte della sua attualità. I predecessori di Filippo IV avevano
provveduto ad abbassare i Grandi ed a metterli in condizione di non potere pià
"alzare la testa". Dei gravi inconvenienti sperimentati nel passato
restava qualche segno in quelle province in cui i grandi signori erano ancora poderosos. Il problema non si poneva più
nei termini tradizionali. Olivares temeva soprattutto che esponenti della
nobiltà o del ceto medio "si facessero popolari", dando una direzione
politica e organizzativa alla resistenza di città e province contro le
direttive del governo centrale e promuovendo la convergenza di forze sociali
diverse intorno ad interessi e obiettivi comuni. I danni che potrebbero
causare, diceva, sarebbero irreparabili. Perciò "sarebbe sommamente
conveniente nelle città castigare severamente quelli che lo tentano con grave
danno del servizio di Vostra Maestà… Non saprei dire come costoro hanno
dissimulato e dissimulano oggi i loro procedimenti; quel che è certo è che
danno pubblicamente ad intendere di essere difensori del popolo di Vostra
Maestà". Il conte duce aveva in mente episodi e figure reali di una opposizione con la quale doveva fare i conti nella sua
azione di governo. Pensava probabilmente tra gli altri, ad un personaggio che
era stato un attivo ispiratore dell’opposizione delle Cortes del 1621 e del
1623 e che continuò a dargli filo da torcere anche negli anni seguenti: il
procuratore della città di Granata Mateo del Lisón y Viedma. Uno studioso del pensiero politico spagnolo
del Seicento, Jean Vilar, ha pubblicato qualche anno fa il resoconto, redatto
dallo stesso Lisón, di un colloquio che egli ebbe nel 1627 con Olivares. Nel
brano che riportiamo si può riconoscere, al di là del caso particolare, la via
lungo la quale si svolgeva, in piena età barocca, il tentativo di ricostruire
la dignità della resistenza e dell’opposizione:
"… E
così si rivolse a me e mi disse:
"Vostra Grazia deve credere di sapere tutto e di avere grande
intendimento. Invece non sa nulla e non capisce nulla. Un uomo che si mette
contro le risoluzioni prese da Sua Maestà col parere di consiglieri e ministri
tanto prudenti, deve essere di umili origini". Io gli dissi:
"Supplico Vostra eccellenza di trattarmi bene. Nessun’altra persona al
mondo oserebbe dirmi questo. Traggo le mie origini da progenitori che hanno
conquistato città e terre per i nostri Re, che hanno difeso i loro regni, hanno
versato il sangue e sacrificato la vita al loro servizio. E in quello che
faccio, penso di servire soltanto Sua Maestà". Riprese a parlare dicendo
che non era servizio del Re quello che io facevo né difesa di nulla, ma
distruzione di tutto, e che i nemici della monarchia non avrebbero potuto fare
tanto danno invadendo con un esercito questi regni quanto ne facevo io
perturbando e ostacolando il servizio del Re, e che per questo andavo molto oltre
i limiti delle mie funzioni scrivendo e parlando licenziosamente delle cose del
governo e di Ministri così grandi come quelli di Sua Maestà, che avrei avuto la
punizione che meritavo e che Sua Maestà aveva già ordinato di raccogliere il
materiale contro di me e le consulte che il Consiglio di Stato e il presidente
Francisco de Contreras avevano fatto per cacciarmi dalla Corte. Gli risposi che
per una formica come me non era il caso di preoccuparsi tanto, né di
raccogliere tante carte, perché per
castigarmi bastava l’ultimo portiere
della Corte. Mi disse che non ero nemmeno
una formica o una mezza formica, ma potevo capire che mi si doveva
castigare perché il mio castigo fosse di
esempio e timore per molti. Gli dissi che qualunque castigo mi si infliggesse,
sarebbe stato un gran premio per me perché mi si dava per aver difeso la mia
patria e fatto il mio dovere. Disse che era mio dovere essere un uomo dabbene.
Replicai che conoscevo i miei doveri da quando avevo uso di ragione e li
assolvevo come era necessario. Sua Eccellenza poteva dire quello che voleva, ma
non era giusto trattare in questo modo coloro che difendevano i regni e le
città e che questo significava impedire loro di difendersi, perché nessuno,
trattato in questo modo, avrebbe osato parlare.
Formule e linguaggio di Lisón y Viedma furono comuni a tutti i gruppi e movimenti di
opposizione, dalla Spagna alla Boemia, dalla Catalogna al Portogallo,
all’Italia, alla Francia, all’Inghilterra. Egli difendeva i diritti
"costituzionali", denunciava la violazione del rapporto contrattuale
tra sudditi e corona, sosteneva che il
governo non aveva il diritto di imporre
tasse senza il consenso dei sudditi e l’approvazione delle istituzioni che li
rappresentavano; difendeva la dignità e l’utilità generale di una opposizione
ispirata all’interesse collettivo. Apparentemente il cambiamento, rispetto al
secolo precedente, riguardava soltanto il fatto che – con la vistosa eccezione
dell’Inghilterra – la giustificazione religiosa dell’opposizione aveva perduto
mordente e diffusione e la tendenza ad enfatizzare l’ossequio alla legge, il
rispetto dei principi di giustizia e di "eguaglianza" la cui
attuazione spettava alla monarchia. In realtà l’inclinazione di Lisón y Viedma
e di molti altri oppositori a "farsi popolari", ad avere una
concezione più unitaria e "democratica" delle comunità alle quali
appartenevano segnava una sostanziale diversità rispetto alla tradizionale opposizione aristocratica.
Il loro limite fu, in molti casi, l’incapacità
di uscire dall’orizzonte del localismo e di confrontarsi a fondo con le
grandi scelte e i disegni del sovrano; ma il loro richiamo all’utilità pubblica
e all’interesse generale, pur discutibile da questo punto di vista, non era
strumentale, e perciò costituì la base di una reale e nuova aggregazione
politica nella crisi rivoluzionaria degli anni ’40.
Il vecchio e anacronistico ribellismo nobiliare non scomparve
dalla scena politica durante l’età barocca: in Francia fu una delle
"disgrazie" che, come Rivault aveva previsto, le guerre civili del
Cinquecento lasciarono in eredità al secolo successivo e che riemersero con
particolare virulenza nella Fronda. E così anche l’estremismo religioso, che
tanta importanza aveva avuto in Francia e nelle Fiandre, e l’egualitarismo sociale,
con le sue profonde e potenti radici medievali, furono presenti e attivi, anche
se in modo relativamente marginale nell’aria continentale. A restituire dignità
alla ribellione, trasferendola dalla logica preassolutistica alla dialettica
interna dell’assolutismo, fu però una nuova figura. Lisón y Viedma ne
rappresenta, in piccolo formato e in versione locale e localistica, un
prototipo. Nella nuova categoria si collocano personaggi come il catalano Pau
Claris, lo scozzese Argyll, il boemo Matthias Thurn, lo stesso duca di
Braganza. Rievocando un ventennio di "civil wars" in Inghilterra,
Thomas Hobbes trovò per questa figura una definizione appropriata (anche se,
nelle sue intenzioni, negativa) e, con le dovute differenze, valida anche per
altri paesi: "democratic gentleman".
Hobbes era convinto che la ribellione era stata provocata in Inghilterra
dalla ripresa delle dottrine dei monarcomachi e che il centro di irradiazione
erano state le università. Egli non trascurava l’influenza della letteratura
greca e romana, nella quale era assai diffusa "l’esaltazione del governo
popolare e il disprezzo della monarchia col nome di tirannide", né la
diffusione di correnti di pensiero favorevoli alla libertà religiosa, né
l’ammirazione per la prosperità che aveva raggiunto, dopo la rivolta contro la
Spagna, la repubblica olandese. Secondo un canone classico, considerava che
l’ambizione era stata la forza motrice di tutto il processo: "certamente i
capi principali erano ambiziosi ministri del culto e ambiziosi gentiluomini; i
ministri per invidia nei confronti
dell’autorità dei vescovi che ritenevano
meno istruiti di loro; ed i gentiluomini per invidia del consiglio
privato della Corona e dei principali cortigiani, che ritenevano meno saggi di
loro stessi". Anche sotto l’aspetto psicologico, le università erano
responsabili della crisi, "perché è difficile per uomini che hanno un’alta
opinioni di sé e che hanno studiato all’Università convincersi di non avere i
requisiti necessari per il governo dello Stato, specialmente dopo aver letto le
gloriose storie e e sentenziose imprese politiche degli antichi governi popolari dei greci e
dei Romani". Le università, "core of rebellion", erano state per
l’Inghilterra "quel che il cavallo di legno era stato per i Troiani".
Non potendo sopprimerle, bisognava riformarle profondamente e per riforma
Hobbes intendeva essenzialmente l’insegnamento che è dovere degli uomini obbedirre
alle leggi emanate dal re e che "le leggi civili sono leggi di Dio, perché
coloro che le fanno sono chiamati da Dio a farle".
La connessione tra cultura e ribellione, che Hobbes indicava,
era un aspetto importante della crisi politica e ideale delal metà del
Seicento; ma non si poneva negli stessi
termini rigidamente dottrinari e religiosi, in cui si era posta nel secolo
precedente. Il "democratic gentleman", con lla sua fervida
religiosità ed il suo richiamo al contrattualismo tradizionale, non aspirava a
realizzare una teocrazia o un regime aristocratico di tipo preassolutistico;
era diverso dai grandi capi delle guerre di religione in Francia e dai signori
delle congiure antimonarchiche del resto d’Europa. La convergenza politica e
ideale sulla quale si era basata la ribellione non trova una spiegazione
adeguata nell’analisi e nel ragionamento di Hobbes. Egli tocca comunque un
punto fondamentale, il rapporto tra monarchia e
coscienza nazionale e lo squilibrio che su questo terreno si era creato:
"Il popolo – afferma – era generalmente corrotto e i ribelli si ritenevano
i migliori patrioti". Il filosofo si meravigliava che la Camera dei Comuni
e poi, sotto la pressione del tumulto popolare, anche la Camera dei Lords,
potessero avere accusato di alto tradimento
e condannato il onte di Strafford. Come poteva esserci tradimento contro
il re, quando lo stesso re, in grado di intendere e di volere, non pensava che
ci fosse tradimento? "Questo non era che un tratto di quell’artificio del
Parlamento, che consisteva nel mettere la parola traditore nell’atto di accusa
contro ogni persona che si voleva eliminare". In realtà ancora prima che
il ribelle rivendicasse a ste stesso il titolo di "difensore della
patria" (ed ogni paese ebbe allora
il suo eroe sotto questa denominazione: segno dei tempi spesso
sottovalutato), la polemica politica fu occupata dal suo opposto, il traditore
della patria. Quando l’accusa cominciò a risuonare con insistenza in questo o
in quel paese, la rivoluzione era ormai alle porte.
Alla vigilia della crisi rivoluzionaria, la più ampia e nuova
dimensione del rapporto tra cultura e rivoluzione fu colta da Gabriel Naudé,
collaboratore di Mazzarino e ammiratore di Campanella. I motivi di tensione che
si erano accumulati nella società gli facevano prevedere la catastrofe.
"Certo – egli scrisse nel 1639 – se si considera bene lo
stato attuale dell’Europa, non sarà difficile prevedere che a breve scadenza
essa sarà teatro di simili tragedie Non c’è dubbio, infine, "che si sono
creati più sistemi nuovi nell’Astronomia, più novità si sono introdotte nella
filosofia, nella medicina e nella teologia, un più gran numero di atei è venuto
allo scoperto… di quanto non sia avvenuto nei mille anni precedenti".
Naudé concepiva la rivoluzione come un movimento naturale della storia e della
società: "Il rovesciamento dei più grandi imperi sopraggiunge molto spesso
senza che ci si pensi o almeno senza che si facciano grandi preparativi…".
Egli riteneva però di dover lanciare un avvertimento, riprendendo ed
esasperando uno dei grandi motivi che la cultura barocca aveva elaborato sulla
base del ripensamento delle esperienze cinquecentesche. Le pagine più vibranti
delle Considerazioni politiche sui colpi
di Stato sono dedicate, infatti, ad
una violenta invettiva contro la plebe. Coloro che si preparavano a calcare la
scena del teatro politico europeo come protagonisti e artefici della ribellione
erano avvertiti: poiché, per assumere davvero questo ruolo, era indispensabile
sollevare il popolo, volgendolo e disponendolo ai propri disegni, bisognava
sapere quali erano i rischi che ciò comportava. La qualità della plebe che
Naudé, sulle orme di Charron, mette non a caso in evidenza sono soprattutto,
insieme alla violenza ed alla credulità, la volubilità e l’incostanza:
"approvare e disapprovare nello steso tempo, correre da un estremo
all’altro, credere con leggerezza, ribellarsi subitamente, ringhiare e
mormorare sempre: in breve tutto ciò che pensa non è che vanità, tutto quello
che dice è falso e assurdo, quel che condanna è buono, quel che approva
cattivo, quel che loda infame e tutto quello che fa e intraprende non è che
pura follia".
Senza giungere agli eccessi ed alla violenza polemica di
Naudé, i "democratic gentlemen" erano anch’essi ben convinti dei
pericoli che comportava la sollevazione popolare e degli sbocchi nefasti di
anarchia e di barbarie che poteva avere. Conoscevano i fenomeni di suggestione
collettiva, la facilità con cui impostori e demagoghi potevano suscitare
emozioni collettive, l’incostanza e provvisorietà degli entusiasmi plebei. Ne
traevano tuttavia a differenza di quel che suggeriva Naudé, la conclusione che
il cittadino politicamente consapevole e interessato al bene pubblico ha
l’obbligo civile e morale di non restare in disparte di fronte al sommovimento
popolare. Nelle istruzioni al figlio, scritte dopo la restaurazione, uno dei
capi della ribellione scozzese del 1638, il conte di Argyll, riconosceva che le
"popular furies" non avrebbero mai fine senza l’intervanto die
"superiori"; il popolo apprenderebbe ben presto a valutare la sua
forza e ne dedurrebbe – con tutte le inevitabili conseguenze di sconvolgimento
dell’ordine sociale – che è maggiore di quella della nobiltà. Da qui la necessità di non rimanere
neutrali in una "general
commotion" e il giudizio di infamia per chi si sottrae ad essa (Argyll
ricorda solennemente a questo proposito un decreto di Solone). Poteva essere un
invito ad usarela propria autorità, secondo una consolidata tradizione, per
sedare e reprimere, ma anche un modo contorto e dissimulato per sostenere la
necessità dell’impegno di guida e direzione politica della giusta protesta
popolare. Nel caso di Argyll non possono esserci dubbi, per il ruolo che egli
svolse nelle vicende della Scozia e per la riconferma delle sue posizioni alla
vigilia dell’esecuzione capitale: "I Principi cominciano a perdere i loro
domini quando cominciano a infrangere le
antiche leggi, le tradizioni e i costumi sotto i quali i loro soggetti sono
vissuti per lungo tempo… Il nostro programma di riforma… era sostenuto dal
consenso universale dell’intiera nazione… Niente è impossibile o inattuabile per
un popolo schiavo contro i tiranni e gli usurpatori"
Con analoghi atteggiamenti e giustificazioni i dirigenti
politici catalani, portoghesi, napoletani si collegarono ai moti popolari
esplosi nei rispettivi paesi, moderandoli e indirizzandoli politicamente, per
raggiungere i loro obiettivi di riforma politica e di indipendenza. La
preoccupazione per la cieca furia e per l’incapacità politica popolare
apparteneva, dunque, anche ai "democracit gentlemen" o ai borghesi
che svolsero analoghe funzioni; tuttavia, rispetto al passato, essi ritenevano
di poter contare sulle aspettative di giustizia ed equilibrio politico e
sociale che le stesse monarchie avevano suscitato e alimentato, sulla maggiore
diffusione della cultura e dell’informazione politica (con la connessa e
crescente insofferenza, che lo stesso Naudé segnalava, verso "gli intrighi
delle Corti, le cabale delle fazioni, le mascherature degli interessi
particolari"), e quindi sulla possibilità di stabilire una più facile
comunicazione dei loro propositi di riforma e le speranze popolari. Gli eventi
del decennio 1640-50 dovevano dare parzialmente ragione a questa esitante e
contrastata fiducia e confermare il
tendenziale mutamento dell’atteggiamento generale verso la ribellione. Anziché
l’odio e l’obbrobrio, crescevano il consenso e la sollecitazione: non più
necessariamente sinonimo di ingiustizia , di sopraffazione, di anarchia, di
sacrilegio, la ribellione poteva essere concepita come un atto liberatorio. I
protagonisti della nuova fase, da Masaniello a Cromwell, pur così diversi nel
ruolo e nella ispirazione politica e ideale, avrebbero trovato comprensione e
perfino suscitato entusiasmo.
Dice il Croce: "chi
può ripensare al Seicento senza rivedere in fantasia la figura del predicatore, nerovestito come
un gesuita, o biancovestito come un domenicano o col rozzo saio cappuccino,
gesticolante in una chiesa barocca, innanzi a un uditorio dai fastosi
abbigliamenti?"
La presenza costante del clero regolare (si noti che non parla neppure del parroco), il
"gesticolare e la decorazione barocca sono infatti notazioni che mettono
in risalto il valore paradigmatico del predicatore nell’età
post-tridentina".
Naturalmente la
predicazione non è di per sé un tratto esclusivo del barocco. Essa è stata per
duemila anni il mezzo di comunicazione abitualmente usato per diffondere il
Vangelo, anche se questo mezzo è stato sicuramente privilegiato nelle età di
confusione dottrinale. Una di esse è il Seicento: nella grande crisi religiosa
del secolo precedente la partecipazione
di vasti strati popolari alle guerre di religione aveva contribuito a
gettare nella desolazione gran parte degli europei più coscientemente cristiani
ed era stata uno dei principali fattori della rottura dell’unità spirituale non
solo tra cattolici e riformati, ma anche in seno a questi ultimi. Dal punto di
vista protestante, risultava chiaro il valore strumentale della predicazione:
se si partiva da idee come la libera interpretazione della Scrittura e la
giustificazione per fede, il ministero della parola veniva esaltato rispetto
alla funzione sacramentale. In ogni caso era importante che la dottrina fosse
trasmessa da coloro che erano più dotti e che venivano considerati più capaci
di interpretare rettamente la Bibbia; per di più, il radicalismo di alcuni
settori (si pensi agli anabattisti) consigliava di seguire proprio questa
strada. Se nei primi tempi della Riforma si era arrivati talvolta a sognare una
Gerusalemme terrena in cui ciascuno avrebbe approfondito l’Antico e il Nuovo
Testamento secondo il suo onesto sapere e intendere, verso il 1600 quelli che
la pensavano così erano alquanto diminuiti di numero. I più ritenevano
pericolosa – anche fisicamente – una libera interpretazione che avrebbe potuto
suscitare considerazioni religiose, sociali e politiche sfocianti in una
rivoluzione, com’era accaduto nel Cinquecento. In effetti, in paesi come la
Germania protestante, l’ideale dell’alfabetismo cominciò ad affermarsi assai
più tardi di quanto non si sia pensato fino a qualche tempo fa; perché la gente
comprendesse direttamente la Bibbia era necessario che la leggesse, e si era
constatato che era meno rischioso spiegargliela.
Da parte sua, la strategia cattolica si trovò, dalla metà del
Cinquecento in poi, di fronte a una duplice esigenza evangelizzatrice:
ricuperare alla fede gli sviati e consolidare
l’adesione spirituale di chi era rimasto fedele a Roma. La profonda
crisi aperta da Lutero aveva dimostrato fra l’altro che la fede era assai
debole, e ciò doveva essere in relazione con le deficienze dell’insegnamento.
Al di là della Manica un’intera isola – Inghilterra, Galles, Scozia – aveva
finito con lo svincolarsi nella sua schiacciante maggioranza dal papato, senza
gravi inconvenienti e per di più la dottrina della Chiesa anglicana cominciava
a somigliare a quella di alcune grandi correnti protestanti. Evidentemente la
Riforma aveva sorpreso i cristiani privi di una conoscenza adeguata dei
fondamenti della fede, e a questa situazione
era necessario porre rimedio. Di conseguenza il concilio di Trento,oltre
a definire la dottrina su alcuni punti di grande importanza come i sacramenti,
elaborò un vero programma di divulgazione della dottrina stessa, fondato
soprattutto sulla formazione dei sacerdoti, sulla predicazione e
sull’insegnamento del catechismo.
La predicazione, in
particolare, fu oggetto di una delle prime sessioni (la quinta, svoltasi già
nel 1546) della grande assemblea tridentina; fu allora emanato l’importante
decreto Super lectione et praedicatione,
datato al 17 giugno, a cui fece seguito fra l’altro, il canone IV del Decretum de reformatione, approvato
nella ventiquattresima sessione (1563). Era indispensabile che i pastori
d’anime insegnassero "ciò che tutti devono sapere per conseguire la salute
eterna", e che esponessero "con brevità e chiarezza i vizi da evitare
e le verità da mettere in pratica per sfuggire alle pene dell’inferno e acquistare
l’eterna felicità".
L'APOGEO DELLA RETORICA E LE CHIESE RIFORMATE
In conseguenza di
quanto si è detto, per più di un secolo la retorica assunse una singolare
rilevanza nella cultura dell’Occidente. In verità, essa era stata importante
già nel Medioevo ed era diventata ancor più oggetto di studio e di attenzione
con l’avvento della Rinascita classica; il maggior impulso lo ricevette però
dalla Riforma. Murphy ha catalogato 193 opere di oratoria ecclesiastica pubblicate
tra l 1500 e il 1700 (ma è probabile che fossero di più) e la Shuger ha
osservato che il ritmo con cui queste opere videro la luce andò crescendo fino
al penultimo decennio del secolo XVII: col passare del tempo, s’intensificava
il desiderio di esprimersi bene.
Non è il caso di esaminare qui, con tutta la profondità che
l’argomento richiederebbe, le tendenze dell’oratoria sacra di quel periodo;
tuttavia alcune nozioni sono indispensabili per capire quali fossero in
sostanza i moventi del predicatore comune. Oggi la nostra attenzione è
richiamata dalla predicazione barocca "gesticolante" e ad effetto, ma lo stesso accadeva già ai
contemporanei: da lungo tempo i teorici discutevano sull’opportunità di predicare nello
"stile piano" o in quello "grande". Non era soltanto una
questione estetica, né una semplice alternativa tra "popolare" e
"colto". Entrambi gli stili erano fondati, almeno in parte, sulla
precettistica classica latina e greca: molte delle migliori espressioni del "grande
stile" derivando da Cicerone, mentre lo "stile piano" trovava la
sua giustificazione soprattutto in Seneca e nella tradizione
"attica", perché la retorica ellenistica, nelle sue principali
manifestazioni, aveva preferito forme più sobrie di quelle romane.
I trattatisti posteriori, dal Settecento ad oggi, hanno
ritenuto che dietro quest’alternativa vi fosse una realtà molto più profonda:
mentre lo "stile piano" ispirato a Seneca si proponeva di ragionare,
di convincere richiamandosi all’intelletto – l’elemento più nobile e più tipico
dell’uomo –, lo stile ciceroniano mirava all’aggettivazione e agli effetti
superficiali. E poiché l’età barocca preferiva il secondo stile, la sua
predicazione non poteva che essere, a parte qualche eccezione, ampollosa,
teatrale e ad effetto.
Ma non è così. In primo luogo, nel Cinquecento e nel Seicento molti precettisti
(fra i tanti, Carlo Borromeo in Italia e Fénelon in Francia) insistettero
sull’opportunità di rivolgersi all’uditorio in modo sobrio e austero. Il genere
di oratoria sacra improntato all’ideale di "illuminare" e spiegare,
anziché di commuovere, continuò a essere utilizzato dai predicatori più
moderati dell’epoca; l’espressione migliore di questa tendenza fu forse
un’opera di san Vincenzo de’ Paoli che ebbe una larga infuenza, la Petite méthode, lontana sia dalla
ricercatezza retorica, sia dalla pastorale
de la peur. "Le fioriture e gli ornamenti della retorica – afferma
Lalmy – non si addicono ad argomenti gravi e solenni", com’erano,
ovviamente, quelli di cui il predicatore doveva occuparsi: Dio e i santi. In
secondo luogo, anche il barocchismo aveva la sua ragion d’essere e le sue
radici colte, strettamente antropologiche. I predicatori devono essere
"voci di Dio, strumenti della bontà divina, trombe di Cristo", scrive
Diego Valdés nella Rhetorica Christiana,
pubblicata nel 1574 e letta in tutta Europa e in America; perfino per i teologi
protestanti la fiducia non è fatta soltanto di consenso
intellettuale, ma anche di gioia, verità e ferma speranza, ossia di
atteggiamenti connessi con la volontà. Tutto ciò doveva essere plasmato nella
predicazione: se lo scopo era di suscitare o ravvivare la fede degli
ascoltatori, occorreva eccitarne la volontà.
E’ essenziale notare che
alla base della retorica dominante (o delle retoriche, essendovene più d’una)
vi era una concezione emotiva, più che intellettuale, della vita dello spirito:
già presente nella Bibbia e nel Medioevo, essa rifletteva in sostanza il
prevaler dell’antropologia di Agostino su quella dell’Aquinate, e dopo la
Riforma rimase viva nelle varie confessioni cristiane.
Non soltanto dunque
nella Chiesa di Roma. Su questa concezione alcuni autori protestanti del secoli
XVI e XVII concordano con la maggior parte di quelli cattolici: si tratta a
volte di studiosi molto autorevoli, come i tedeschi Keckermann e Hyperius –
noto dappertutto grazie alla traduzione latina di Ludham (1577) – o come i
frate spagnolo Luis de Granada, autore di un’Ecclesiastica Rhetorica (1576) chefu tra le più diffuse del suo tempo. Anche i predicatori "metafisici"
anglicani attivi sul finire del Cinquecento e nel Seicento partono, come quelli
già menzionati, dalla tendenza – di origine biblica, ripetiamo – a vincolare
l’anima al cuore più che all’intelligenza, e nelle loro prediche rimangono
fedeli a quest’impostazione: "Marke my heart, o Soule, Where thou dost
dwell", esclama Donne in uno dei suoi sermoni.
LE CONSEGUENZE: "MAGNITUDO" E
"PRAESENTIA" COME CRITERI PRINCIPALI
Pertanto, in armonia con la tradizione ciceroniana (ut probet, ut flectet, ut delectet) non
si voleva che l’oratoria sacra si riducesse a pura dialettica: in altre parole,
essa non doveva solo ammaestrare l’intelletto, ma anche stimolar la volontà e
compiacere il sentimento. In un passo piuttosto rude, se avulso dal contesto,
fra Luis de Granada illustra bene questo concetto: "La moltitudine rozza e
stolta dev’essere conquistata con ampi discorsi: affinché essa, oltre a sapere
e a capire, faccia ciò che noi vogliamo, occorre atterrirla e commuoverla, al
di là dei sillogismi, con gli affetti e con un grande empito di eloquenza: e
ciò richiede un argomentare non breve e ristretto, ma aspro, impetuoso e
abbondante".
A questo scopo la
Riforma cattolica fece un uso intensivo dell’arte del suo tempo: l’esuberanza
decorativa, la tendenza all’iperbole, il moto centrifugo, la rottura
dell’equilibrio formale del Rinascimento e altri elementi del nuovo stile
furono adoperati per suscitare sentimenti di fervore e di meraviglia nel
contemplare le cose celesti. Nell’architettura
e nella musica barocca si manifesta chiaramente la dipendenza dagli orientamenti
funzionali della Riforma cattolica, e in questa chiave diventa facile
interpretare il simbolismo della cupola di San Pietro o la distribuzione
spaziale della chiesa del Gesù. A parte questi edifici di culto di eccezionale
grandiosità, la tendenza ad accrescere le dimensioni delle chiese si affermò
sia nelle città che nei centri minori e non solo per ragioni demografiche. La
religiosità doveva per quanto possibile trovare posto e cornice adatta nel
tempio: per le funzioni solenni, le prediche quaresimali e quelle che
scandivano il ciclo liturgico occorrevano spazi vasti, capaci di accogliere
folle numerose o almeno la totalità dei fedeli del luogo.
Nelle chiese riformate il fenomeno fu meno vistoso. La
Restaurazione anglicana del Seicento fu accompagnata da una notevole reazione
antiretorica a favore del plain style,
che consentiva una comunicazione più naturale, chiara e didattica: tale è ad
esempio l’atteggiamento assunto da uno dei suoi maggiori teorici, James
Arderne, nelle Directions concerning the
matter and stile of sermons (1671). Ma non tutti si adeguarono a questi
criteri: a parte opere come quella ora citata e qualche altra, in Gran Bretagna
la teoria della retorica ebbe minor rigoglio che nell’Europa continentale, e
delle 193 opere sull’argomento pubblicate tra il 1500 e il 1700 solo 16 erano
scritte in inglese. Nelle università britanniche, ancorché anglicane, si
studiava altrettanto spesso su testi come quelli del protestante Keckermann o
del cattolico Caussin, ei riferimenti a questi autori esistenti nella
documentazionje secentesca fanno ritenere che in realtà si seguissero i
precetti del grand style.
Precetti che erano usualmente chiari,per quanto riguarda i
fondamenti teorici dell’esagerazione, sia agli autori protestanti che a quelli
cattolici. Riprendendo forse idee esposte nell’Ecclesiastica Rhetorica di fra Luis de Granada, Keckermann non
esita ad ammonire che occorre commuovere la gente, e che "le emozioni si
ottengono in due modi, con la magnitudo
e con la praesentia, o, per parlare
più chiaramente, con la grandiosità e con l’ipotiposi": vale a dire, con
l’elevatezza dei temi trattati e con la vivacità delle descrizioni.
Certamente alcuni erano propensi al primo modo e lo
identificavano con lo stile concettistico, così definito dal gesuita Gracián: "I
concetti sono la vita dello stile, lo spirito del discorso e tanto hanno di
perfezione quanto di sottigliezza;ma quando al rilievo dello stile è associata
l’elevatezza del concetto, l’opera diventa compiuta. Si deve fare in modo che
le proposizioni abbelliscano lo stile, le obiezioni lo ravvivino, i misteri lo
rendano pregnante, le riflessioni profondo, le esagerazioni rilevato, le allusioni
dissimulato, i fervori pungente, le trasmutazioni sottile; che le ironie gli
diano sale, le crisi fiele, le paronomasie grazia, le sentenze gravità, le
similitudini lo fecondino e le analogie gli diano risalto Ma tutto questo con
un grano di saggezza, perché tutto acquista sapore dal buon senso.
Sta di fatto però che in
questa descrizione si lodava l’uso di quelle
figure retoriche (la metafora, l’iperbato) a cui andavano le preferenze
di molti altri autori.
Se non si tiene conto della supremazia di questa impostazioni
antropologiche e logiche non è possibile comprendere ciò che spesso noi storici
crediamo di spiegare attribuendolo a una sensibilità esagerata: per esempio,
non si capiscono i motivi che impedivano di propagare lo spirito del concilio
tridentino con un’estetica meno ampollosa, più austera e quindi più vicina al
rinnovamento spirituale a cui la Riforma cattolica aspirava.
D’altra parte l’indubbia predilezione per il gesticolare non
derivava solo da princìpi teorici. Il Barocco va considerato come una maniera
d’intendere il mondo, come espressione vitale di un’epoca, oltre che come un
fenomeno riguardante la sfera intellettuale ed estetica o come un’emanazione
della Controriforma: pertanto i predicatori, animati da zelo pastorale e
talvolta artisti, ma pur sempre uomini del loro tempo, non facevano che calare
i vecchi contenuti riaffermati dal Concilio nelle forme dell’ambiente in cui
essi stessi erano immersi.
In effetti, predicando in questo modo avevano successo:
certamente erano in sintonia con la mentalità della maggioranza, o almeno di
molti dei fedeli che accorrevano ad ascoltarli. Non è possibile spiegare
altrimenti le ricche messi spirituali di cui tanti ci parlano, come quelle
raccolte da san Vincenzo de’ Paoli tra i galeotti di Sua Maestà Cristianissima;
o certe iniziative, come quella presa tra i delinquenti delle carceri di
Siviglia, dove fu creata la ben nota congregazione del Nome di Gesù, destinata
a combattere l’usanza di bestemmiare e imprecare mediane multe versate dagli
stessi detenuti. La festa annuale organizzata dai confratelli alla quale
assistevano le autorità e il pubblico, comprendeva la celebrazione della messa
(con molta musica) e una gran predica tenuta da qualche rinomato gesuita
locale.
Lo stile dell’oratoria sacra era tanto efficace da arrivare a
influenzare anche la letteratura profana più diffusa. Ad esempio, il fosco
pìcaro Guzmán de Alfarache non è che un predicatore mancato, e tutto
il celebre romanzo in cui si narra la sua vita è zeppo di sermoni più o meno
camuffati. Da parte loro, gli autori degli altrettanto celebri autos sacramentales, – brevi drammi
allegorici di argomento religioso, popolarissimi in alcune zone d’Europa e
d’America – associavano scenografia e "concetti" per creare la
particolare atmosfera soprannaturale che intendevano comunicare. Non a caso il
più famoso cultore di questo genere, Calderón,
che pure era un cappellano di
corte, definiva gli autos in questi
termini: "Sermones / puestos en verso, en idea / representable, cuestiones
/ de la Sacra Teologìa, / que no alcazan mis razones / a explicar ni
comprender…"
LA PREDICAZIONE CULTERANA: PARAVICINO
Da ciò avevano origine, com’è noto, esagerazioni di vario
genere: possiamo rendercene conto se prendiamo in esame uno dei rappresentanti
più eminenti della predicazione culterana, barocca fino a diventare
incomprensibile. Secondo la leggenda, fra Félix Hortensio Paravicino y Arteaga
sarebbe diventato improvvisamente famoso quando nel 1605, durante una visita di
Filippo III all’università di Salamanca, il predicatore incaricato di
pronunziare il sermone si ammalò improvvisamente e fu sostituito dal giovane
frate trinitario. La sua bravura e le sue belle maniere avrebbero sorpreso piacevolmente il re, e un
personaggio a lui vicino avrebbe consigliato al frate di seguirlo a Valladold.
In realtà questo racconto, di pura fantasia, non è che una versione abbellita
ad uso dei posteri: Filippo III visitò Salamanca solo nel 1600, quando
Paravicino forse non era ancora baccelliere. La verità, più prosaica, è che
quando il suo talento si rivelò (nonostante la debolezza della sua voce
continuamente ricordata dai critici malevoli), i superiori del suo ordine lo
mandarono a far carriera nella capitale. E lì ebbe successo: buon umanista e
ottimo bibliografo, frequentatore dei cenacoli letterari, accolto nella buona
società per i suoi modi distinti e piacevoli, Paravicino divenne un predicatore
indispensabile al pubblico di corte. Era senza dubbio un innovatore e un poeta
di estrema sensibilità, anche se forse un po’ compiaciuto di sé: non esitò a
definirsi "il Colombo di un nuovo mondo letterario" e l’inventore di
un sottogenere oratorio, il "panegirico funebre". Un brano di quello
da lui dedicato a Filippo III illustra bene il tono abituale di questi sermoni,
composti evidentemente in anticipo: "Ti tolse la tua preziosa compagnia,
non solo come splendente architrave della sua miglior porta (giacché san
Giovanni vide che tutte e dodici erano di perle), ma come corona (con aspetto,
se non di forma, di aureola) alla tua fede coniugale". Tradotta nel
linguaggio comune, questa frase ricorda semplicemente che era morta la moglie
del re donna Margherita d’Austria.
Già ai suoi tempi Paravicino ebbe degli avversari: nella
commedia El prìncipe constante
Calderòn lasciò cadere qualche divertente allusione all’emponomio horténsico, provocando le ire del frate, che volle
interpretare la cosa come un’offesa al sovrano e alla religione. Ancora più
esplicito fu l’anonimo autore del sonetto intitolato Al padre Hortensio: "Grazie a quel linguaggio artificioso e
intricato, / oscuro e attentamente oscurato, / nascosto fra le trasposizioni, /
ho goduto un’ora e mezza di silenzio parlato". A lungo andare, col
raffinamento dello stile, l’oratoria culterana cadde in discredito: sia perché
ci si accorse che predicare il Vangelo era qualcosa di più che un esercizio di
abilità, sia perché coloro che praticavano quel tipo di oratoria (ed erano
legione in Italia, Francia, Spagna e Portogallo) non seppero mantenersi al
livello imposto dai suoi iniziatori. "Ditemi – chiede fra Diego de Estella
– quale profitto si può trarre dal passare un’ora a fare di Nostra Signora un
castello, la cui torre principale è la fede – collum tuum sicut turris eburnea – ed è d’avorio. Dopo di che, si
paragona nostra signora alla merlatura, e poi ai barbacani: mentre prima era il
castello. Quale dottrina o riforma dei costumi, quale vantaggio può venire da
tutto ciò?" Come si sa, non vi è che un passo dal sublime al ridicolo.
Non per questo bisognava eliminare le metafore, e tanto meno
imporre una predica di tipo sillogistico, sottoposta all’impiego di periodi
assolutamente regolari La stessa ratio
studiorum dei gesuiti, approvata sul finire del Cinquecento, ammetteva
nell’oratoria sacra i "pii inganni"; tutto sommato, l’importante era
commuovere le anime, e il precettismo poteva essere non meno nocivo delle
immagini ridicole. "Chi può lottare contro i peccati se si lascia guidare
dalla preoccupazione per le regole della circolarità dei periodi?" si
chiede il gesuita Nicolas Caussin nel De
eloquentia sacra et humana (1619).
Culteranismo e concettismo (rappresentati rispettivamente, tra
gli autori già citati, da Paravicino e da Gracián) non costituivano le sole maniere di esprimersi dei
predicatori barocchi. La ricerca di effetti visivi e drammatici – forse più
pertinenti alle arti figurative, ma pure necessari per ricreare il
soprannaturale – sfociò anche nel ricorso al naturalismo descrittivo, come modo
di far appello alla sensibilità elementare del pubblico. Un naturalismo spesso
fondato su artifici di carattere chiaramente teatrale: "Una tristezza
d’espressione, un pallore del volto, una voce nasale, un alito fetido, uno
svellersi dei denti dalle gengive purulente, un dolore in tutte le membra, un
umore che tormenta le giunture, un non poter camminare né sedersi senza un
’ahi’, e infine un aspetto ripugnante di tutta la persona" – così ad
esempio fra Diego de Arce descrive gli effetti della sifilide, naturalmente per
dissuadere l’uditorio dal peccato.
In fondo i temi più tipici del repertorio barocco erano rivolti a far intravedere delle realtà
ottimistiche, come la felicità e la gloria dell’aldilà: cosicché accanto a una
moltitudine di testi che in Francia e in Italia insistevano su le peché et la peur è possibile citarne
molti altri che costituivano una vera e propria "cultura della speranza".
Sta di fatto però, che nella pastorale e nelle prediche si preferiva percorrere
il cammino verso il paradiso associando al pensiero della beatitudine celeste
quello dell’inferno. "Che cos’è questa vita che noi respiriamo quaggiù?"
chiedeva Charles Drelincourt nel 1639 in una predica su La vanité du monde, ponendo una domanda che era già un luogo comune
e avrebbe continuato a esserlo per altri tre secoli. "Non è che un soffio nelle
nostre narici, un calore che appare per un certo tempo e poi svanisce: è la
vanità stessa…". Sul medesimo punto insiste fra Manuel de Guerra y Ribera
nel suo sermone per il mercoledì delle Ceneri del 1679: "Che cosè il
mondo? Nulla più che un evidente inganno, che crea uno spettacolo fallace:
apparenze che abbagliano, più che dilettare". Honorato de Camús soleva
aiutarsi nella predicazione mettendo successivamente su un teschio che teneva a portata di mano
tutta una serie di copricapi – berrette, parrucche, elmi, corone – allo scopo
di dar forza alle varie immagini e situazioni relative all’argomento trattato;
e lo stesso facevano altri oratori sacri con altri oggetti.
Atteggiamenti analoghi assumevano anche quei predicatori che
sarebbero giustamente passati alla storia come epuratori del grand style e riformatori dell’oratoria
sacra dell’epoca. Uno storico del nostro secolo, Emilio Santini, rievoca così
una missione di prediche del gesuita Paolo Segneri, forse il maggior
predicatore italiano del Seicento: Segneri camminava "coperto di lacera
tonaca, scalzo, mendicante Col bordone in mano, il breviario sotto il braccio,
il piccolo crocifisso da gesuita nel petto e la corona del rosario alla cintola
andava incontro al parroco, alle compagnie e alla gente infinita, che
domandando di essere benedetta da lui, gli si prostrava ai piedi. Egli allora
si gittava in ginocchio e poi, intonando le litanie, guidava la moltitudine in
chiesa, dove teneva il suo primo discorso". La missione si svolgeva per
un’intera settimana, dal lunedì alla domenica; oltre alle funzioni della mattina
e del pomeriggio, nei giorni di mercoledì, giovedì e venerdì si svolgevano
processioni penitenziali notturne guidate dal gesuita. Nei sermoni non
mancavano elementi puramente spettacolari: "Verso la fine della predica
spesso si calcava in testa una corona di spine e sulle spalle nude con una
disciplina di ferro cominciava a pestarsi la carne. Non contento, con un
sughero rotondo incassato in una scatola di latta, armato di spille e di aghi,
si batteva forte il petto, facendo uscire il sangue in gran copia davanti a
tutto un popolo che piangeva e implorava misericordia. In molti luoghi poi
anche questo si disciplinava Gli effetti erano strepitosi: confessioni
generali, conversioni innumerevoli, paci tra famiglie e famiglie, tra paesi e
paesi, bando al giuoco e alle canzoni oscene".
La predicazione patetica, si badi bene, era anch’essa
efficace, sebbene un altro gesuita del Seicento, Daniello Bartoli, la
descrivesse come prova delle aberrazioni oratorie: "Un valentissimo
predicatore, salito in pergamo il giovedì della seconda settimana della
Quaresima, con in faccia un sembiante d’uomo spaventato, quasi egli pur allora
uscisse fuor dell’Inferno e con in bocca un tuon di voce, che gli usciva dal
cuore, orribile a sentirsi, non fe’ altra predica che solamente recitare il
tema dell’Evangelio di quel dì: Mortuus
est dives et sepultus est in inferno. Tre volte il ripeté e smontò dal
pulpito Seguirono infinite conversioni".
Non era – ripetiamo – una predicazione annunziatrice di
sventure, aderente ad una "cultura della morte", bensì,fino a un
certo punto l’antidoto a una civiltà al tempo stesso ludica e violenta. Sebbene
il sermone "alla cappuccina", o discours
pathétique, costituisca uno degli aspetti
più rappresentativi della pastorale barocca, non è il caso di sopravvalutarne
la diffusione: in realtà, già ai suoi tempi esso fu biasimato per la mancanza
di dottrina, non meno di quanto fosse
criticato il sermone culterano.
Alcuni italiani ritenevano che il metodo
"patetico",magniloquente e gesticolante, così diffuso nel loro paese,
fosse d’origine straniera: lo credevano giunto dalla Spagna per il duplice
tramite della Compagnia di Gesù e di Napoli, considerata da qualcuno la mecca
del cattivo gusto nella predicazione. Si arrivò a sostenere che non era solo la
maniera spagnola, ma anche la difficoltà
di esprimersi in una lingua straniera a obbligare i predicatori
forestieri a gesticolare di più, ad aiutarsi così quando la parola non era più
sufficiente, e quindi ad accentuare in tutti i modi possibili le immagini retoriche
destinate a commuovere le anime. Senza entrare in discussioni proprie di un
nazionalismo storiografico superato, diremo che in Francia, in Italia, nella
Germania cattolica e perfino tra gli anglicani e i protestanti la predicazone
non era aliena da argomentazioni artificiose e da appelli grotteschi al
sentimento degli ascoltatori, sia quando si parlava della vita, sia quando si
insisteva sull’inesorabilità della morte.
A chi competeva la missione di insegnare il Vangelo? u questo
punto il concilio di Trento si espresse chiaramente, ricordando che i vescovi
avevano il compito di predicare nelle loro chiese la domenica e nei giorni
festivi. In seguito, nel questionario a cui dovevano rispondere le relationes inviate periodicamente a Roma
o da portare con sé nella visita ad
limina fu inclusa un’esplicita menzione alle prediche dei vescovi, se ne
tenevano o no, e come e quando. Questo precetto, destinato ad assicurare la
trasmissione ortodossa della parola divina, era una precauzione ovvia quando,
all’inizio della Controriforma, i buoni predicatori erano rari, anche se non
garantiva di per sé la purezza dottrinale degli stessi vescovi. La Chiesa
continuava a essere l’unica istituzione in cui vi fosse un certo grado di
mobilità sociale, nel senso che un uomo di modesta origine aveva maggiori
probabilità di farsi strada per meriti personali. Ma indubbiamente accadeva
spesso il contrario e, a parte i casi non infrequenti di nepotismo, le differenze
nelle possibilità di studio, nelle relazioni personali e nel prestigio
familiare tendevano ad alimentare l’alto clero con elementi di estrazione
nobiliare, non sempre caratterizzati da zelo pastorale e da profonda cultura
teologica.
Ciò nonostante, si andò affermando il modello di vescovo
predicatore e riformista proposto dal concilio tridentino. Questo modello è ben
rappresentato da Carlo Borromeo e da Juan de Ribera (due esempi felici di
nepotismo), e il suo influsso sull’episcopato del tempo è testimoniato da
uomini come san Francesco di Sales, Cornelio Musso, Pierre de Bérulle,
Francesco Bossio.
La predicazione personale dei vescovi copriva peraltro solo
una piccola parte del programma pastorale della Riforma cattolica. In realtà,
il compito primario ad essi affidato consisteva nella supervisione sul clero
diocesano: dovevano avere cura che si predicasse nei giorni prescritti – in
quelli festivi e almeno tre volte la settimana nei periodi di digiuno,
quaresima e avvento – e soprattutto dovevano vegliare sull’idoneità degli
ecclesiastici al loro ministero. Questo compito si collegava in fondo al
problema pressante della formazione sacerdotale, in particolare quella dei
parroci.
La formazione dei predicatori secolari non differiva da quella
degli altri ecclesiastici, coi quali in ultima analisi formavano un unico
gruppo: anch’essi facevano i loro studi in qualche scuola annessa ad una
cattedrale o ad un convento (o, come Sommaia, in una università), e più spesso
erano istruiti nei rudimenti del latino
liturgico dal proprio parroco o da un insegnante di lettere. In ogni caso
ricevevano una preparazione insufficiente, e questa era senza dubbio la causa
primaria della cattiva fama del basso clero secolare, tacciato d’indisciplina,
d’ignoranza e di comportamento poco esemplare.
Lo strumento più valido raccomandato dal Concilio per porre
rimedio a questi inconvenienti furono i seminari diocesani. La formazione ivi
impartita era specificamente orientata verso una mentalità professionale
nell’adempimento dei compiti pastorali: predicazione, liturgia, amministrazione
dei sacramenti. Era destinato così a scomparire
in gran parte dalla scena il clero legato parassitariamente alla maniera
tradizionale; tuttavia come si è detto, il decreto conciliare fu applicato con
molto ritardo. La Francia, uscita esausta dalle guerre di religione, cominciò
ad istituire la maggior parte dei suoi seminari solo nella seconda metà del
XVII secolo; in Inghilterra, durante il breve regno di Maria Tudor, Reginald
Pole fu troppo occupato a pacificare gli animi per dedicarsi alla fondazione di
seminari; in Spagna vi fu qualche precoce iniziativa in tal senso, ma vi furono
anche notevoli ritardi per cui la faccenda fu rinviata al Settecento; lo stesso
accadde in Italia, dove però le grandi istituzioni di Roma e di Milano
provvidero di sacerdoti le zone pià povere o prive di seminari.
Sta di fatto che nel Seicento, e ancora verso il 1700, la
maggioranza dei parroci non proveniva dai seminari e non tutti i responsabili
comprendevano la necessità di un maggior impegno dottrinale e morale. Il
vescovo di Aversa, ricorda Antonio Fino, giustificava il ritardo
nell’istituzione nella sua diocesi di una prebenda teologica e di una
penitenziale – entrambe fondamentali per la formazione dei sacerdoti – con
argomenti come questi: che era possibile studiare frequentando corsi di
teologia nei conventi, e che Napoli era così vicina che tutto il clero vi
accorreva prompto animo per
istruirsi. E’ inutile dire che le sue spiegazioni non convinsero la Congregazione
del Concilio. Verso la fine del Seicento la situazione si era in parte
modificata, come si può dedurre dalla
qualità delle biblioteche parrocchiali e dall’assiduità nella predicazione;occorre
tuttavia insistere sul carattere graduale di questo processo e sul fatto che i
risultati raggiunti nelle varie diocesi erano molto diversi. Nel secondo
decennio del secolo non erano rari personaggi come il beneficiario di Ferreira,
che pensava di lodare il sermone di un missionario gesuita con questo commento:
"I predicatori fanno il loro mestiere parlandoci dei mali derivanti dai
peccati ed esortandoci ad abbandonarli; e noi facciamo il nostro tenendoci i
nostri peccati".
Per fortuna la stampa aveva messo a disposizione degli
ecclesiastici un buon materiale ausiliario sotto forma di manuali di eloquenza
e di raccolte di prediche, ordinate per lo più
secondo il ciclo liturgico: ciò permetteva a molti di sopperire alle
carenze della propria formazione dottrinale e oratoria. Dopo Trento furono più
volte ristampate e spesso tradotte nelle principali lingue europee moltissime
di queste raccolte, contenenti prediche per la quaresima, l’avvento, le feste
dei santi, le domeniche, i riti funebri e altre circostanze particolari.
Talvolta il loro conformarsi alla
mentalità dominante era già chiaramente espresso nel titolo: nessuno si
meravigliava di veder pubblicate opere come La
Trompette de Sion del protestante Gilbert Primrose (Bergerac 1610), i Discursos predicables sobre los cuatro rios
del Paraìso del cattolico Juan de Mata (Granada, 1637) o la Honda de David con cinco sermones o piedras del portoghese Timoteo Ciaba Pimentel
(Barcelona 1631), oppure opere con titoli puramente descrittivi ma interminabili,
come il Sermòn en que se da aviso, que en
las caydas pùblicas de algunas personas, ni se pierda el crédito de la virtud
de los buenos, ni cesse, y se entibie el buen propòsito de los flacos, di
fra Luis de Granada (Lisboa 1588).
I testi di retorica dello stesso Granada e di Agostino Valier,
i popolari manuali di Estella e di Panigarola (Modo di comporre una predica) e, a maggior ragione, le raccolte di
Musso, Dijon, Vieira o Avenaño ebbero una straordinaria diffusione fino alla comparsa
del nuovo stile elaborato dalla scuola francese dell’età di Luigi XIV. Per
quanto riguarda l’uso che allora si faceva
di tali strumenti, può essere significativo ciò che si narra di
Jean-Pierre Camus, vescovo di Belley, a cui capitò di ascoltare dalla bocca di
un predicatore forestiero un sermone da lui stesso composto e pubblicato.
Occorre peraltro procedere con cautela nel valutare l’influsso
realmente esercitato da simili testi a stampa sull’attività del clero secolare
specialmente di quello rurale. In effetti, la predicazione dei parroci (quasi
sempre sollecitata dalle esortazioni dei vescovi) si limitata per lo più alle
brevi omelie della messa grande domenicale. Erano prediche alla buona, fondate
sulla tecnica – disdegnata dai grandi oratori – di commentare qualche massima
del Vangelo del giorno. Naturalmente esse non furono quasi mai ritenute degne
di essere tramandate ai posteri, e perciò è difficile stabilire quale fosse la loro efficacia pastorale; è
interessante però il fatto che talvolta provocavano interruzioni da parte di
coloro che si sentivano chiamati personalmente in causa. Ciò risulta dalle
Costituzioni di Salamanca del 1654, in cui si comminavano multe fino a 100 maravedíses per questo
genere di interventi, fatti direttamente in chiesa durante la predica; e alla
luce di tali fatti non ci meraviglia troppo la cautela di Philippe Gorreau,
parroco di Villiers-le-Bel, che considerava dannoso ogni eccesso di familiarità
con i suoi fedeli.
Per questi motivi i parroci utilizzarono largamente la
possibilità offerta dal decreto tridentino di farsi sostituire da chi era in
grado di fornire una predicazione di qualità più elevata; e il effetti era
questa l’usanza corrente nei centri urbani
durante la quaresima e l’avvento, periodi in cui era prevista la predica
giornaliera, o quanto meno trisettimanale. Si noti che se la manifestazione
collettiva del sentimento religioso era connaturata nella vita quotidiana del
Seicento, l’intensità del pathos cresceva di molto in queste fasi salienti del ciclo
liturgico, che costituivano una naturale preparazione alle grandi festività del
Natale e della Resurrezione. In particolare la quaresima offriva l’ambiente più
adatto all’adempimento del precetto annuale di confessarsi e comunicarsi.
Processioni solenni, devozioni popolari e soprattutto la presenza alle prediche
creavano un climax penitenziale che interrompeva per qualche tempo lo svolgersi
di attività più mondane.
Ciò avveniva non solo nelle città, ma anche in molti centri
minori. Non è raro trovare nei registri dei conti (libros de fàbrica) delle parrocchie rurali annotazioni di pagamenti
eseguiti a predicatori quaresimali,
appartenenti quasi sempre al clero regolare e soprattutto a ordini itineranti
come i domenicani e i francescani.
Lo stesso accadeva nelle
Chiese riformate, a parte naturalmente le varianti imposte dalle differenze
liturgiche, originate a loro volta da quelle teologiche. Nella Londra anglicana
la cornice istituzionale della predicazione era simile a quella di qualsiasi
città cattolica d’Europa e d’America. Anche lì, come in Spagna, in Francia o
negli Stati italiani, i sermoni più importanti erano quelli di corte, affidati
agli ecclesiastici più eminenti; subito dopo venivano quelli pronunziati
all’aperto dal pulpito di St. Paul’s Cross, presso la cattedrale, spesso per
giustificare decisioni regie riguardanti la religione, e quelli del St. Mary of
Bethlehem Hospital, che si tenevano nei giorni di lunedì, martedì e mercoledì
santo per indurre i ricchi a essere generosi verso i poveri; notevoli erano
anche i sermoni letti nell’università. Vi erano infine quelli tenuti nella
cattedrale e nelle varie parrocchie, dove di norma era il rettore o il vicario
a predicare ogni domenica,come nelle chiese cattoliche tridentine, mentre nelle
occasioni solenni si usava invitare un oratore di maggior rilevanza, fama e
capacità.
Non mancava neanche qui l’effettismo lessicale. In un sermone
di Donne, uno dei più importanti fra i predicatori cosiddetti metafisici si
legge: "Cristo poté ben dire "Padre, perdona loro", che è la
prima sala di questo glorioso palazzo. E in questa contemplazione, o indegna
anima mia, ti trovi subito alla sua presenza. Non devi oltrepassare guardie né
uscieri; nessuno esaminerà il tuo rango o il tuo abito. Il Signore non sta
dormendo, non è in privato, non è stanco di donare, non ti rimanda ad altri non
ti mette in balia di angeli o arcangeli. Perché nulla possa impedirti di venire
alla sua presenza, la sua presenza viene a te; e perché la sua maestà non ti
abbagli devi solo parlare al tuo Padre.
In questo contesto, il sermone assumeva il carattere di un
grande evento. E’ ovvio che non si poteva affidare un simile spettacolo a un
incompetente: l’incaricato di una funzione così specializzata andava scelto con
cura nelle cattedrali e nelle collegiate importanti, e in qualche raro caso era
perfino rimunerato con una certa liberalità. A Santiago di Compostella una
commissione del capitolo comprendente il priore dei domenicani e il guardiano
dei francescani, si riuniva all’inizio dell’estate per elaborare il programma
(la tabla) dei sermoni dell’anno. A
Toledo i capitolo era convocato in seduta plenaria alcuni mesi prima della
quaresima per scegliere tra i possibili candidati, che non di rado erano
specialisti famosi residenti altrove. Nella cattedrale di Metz l’elezione di un
predicatore per le grandi occasioni era riservata all’assemblea "des trois
Ordres", che designò più volte un famoso canonico locale, Jacques-Bénigne
Bossuet: lo avevano preceduto in quest’incarico diciotto gesuiti,otto
francescani di varie famiglie, quattro minimi, due domenicani, due agostiniani
e qualche membro isolato di altri ordini.
La presenza tra i predicatori di un clero regolare così
numeroso non era una peculiarità locale; lo dimostra la satirica Historia del famoso predicador fray Gerundio
de Campazas, alias Zotes, pubblicata in Spagna quasi un secolo dopo. Il suo
autore, il gesuita Isla, non ha difficoltà a motivare la scelta di un frate
come protagonista: "Non mi negherai che i predicatori che si fregiano del
nobilissimo, santissimo e venerabilissimo nome di "frate" sono molto
più numerosi di quelli identificati col titolo di "padre" o con
l’appellativo "don". Per ognuno di questi ve ne sono almeno venti di
quelli; le famiglie di frati mendicanti non sacerdotali (che usano tutte
predicare) e quelle monastiche (molte delle quali predicano) sono infatti in
numero incomparabilmente maggiore delle famiglie di chierici regolari non
predicanti. E’ chiaro che coloro che esercitano questo ministero nel clero
secolare non possono competere per quantità con quelli che lo esercitano nel
clero regolare".
Ciò obbediva in una certa misura a ragioni giuridiche. In
particolare, gli ordini mendicanti erano sorti anche perché i loro membri
diffondessero la Parola spostandosi da un luogo all’altro, essi avevano uno
status riconosciuto dalla Santa Sede, e si può dire quindi che avevano acquistato
certi diritti. Non è un caso che nel primo decreto tridentino sulla predicazione
(1546) questa fosse considerata come spettante ai parroci, mentre nel canone IV
del Decretum de reformatione (1563)
tale precisazione veniva omessa: vi erano state nel frattempo lamentele e
proteste.
Vi era però un motivo
più profondo per cui tra i predicatori i chierici regolari e soprattutto i
frati erano in prevalenza rispetto ai chierici secolari: uno dei caratteri più
importanti del rinnovamento spirituale cattolico, manifestatosi già prima del
Concilio, consisteva proprio nel fatto che nell’adempiere questa funzione il
clero regolare aveva raggiunto un culmine di qualità. Nel Seicento si ebbe poi
un notevole sviluppo di nuove famiglie e di versioni riformate degli ordini
tradizionali, ansiosi di ricuperare il rigore spirituale originario.
Dappertutto si diffusero, insieme a domenicani, francescani, benedettini,
carmelitani, ecc. i religiosi di nuova istituzione: teatini, barnabiti,
camilliani e soprattutto gesuiti. In particolare tra coloro che furono chiamati
a predicare nel Palazzo apostolico di Roma tra il 1573 e il 1660 vi furono 49
gesuiti,mentre tra i ceti popolari ebbero un ruolo essenziale i predicatori
cappuccini. L’attività pastorale del clero regolare, che all’inizio era stata
solo uno strumento sussidiario finì col diventare indispensabile per i vescovi,
assolvendo alcuni compiti direttamente rivolti alla cura delle anime, e in
specie la predicazione e la catechesi.
PRIMO REQUISITO: CONOSCERE LA TEOLOGIA
A questo fervore apostolico si associava talvolta la
padronanza di un sapere accumulato nel corso di molti secoli. Le scuole
conventuali, con le loro biblioteche specializzate in materie ecclesiastiche,
assicuravano la preparazione intellettuale necessaria al clero regolare
destinato a questa missione evangelica: per chi predica i libri sono infatti,
come afferma Diego de Estella nel suo Modus
concionandi, "gli strumenti e i ferri del mestiere". Ed è
naturale che la Compagnia di Gesù, come istituzione sorta di recente,
dimostrasse una particolare sensibilità nel dotare le sue biblioteche, in cui
non mancava mai una scelta sezione dedicata all’oratoria sacra.
Fedeli ad un preciso
modello pedagogico (la famosa ratio studiorum),
i gesuiti elaborarono un loro metodo di formazione dei predicatori, fondato
sullo studio degli autori classici (soprattutto di Cicerone, insieme ad
Aristotele e a Quintiliano) e, dal 1660 in poi, del manuale di Cipriano Soàrez.
Oggi come oggi è arrischiato parlare di "scuole" di oratoria
corrispondenti ai singoli ordini religiosi. Ovviamente, nel modo in cui
ciascuno di essi affrontava la predicazione si può trovare una certa eco nella
rispettiva vocazione carismatica: possiamo quindi aspettarci d’incontrare i
cappuccini nelle strade di campagna o esortazioni ottimistiche nelle prediche
dei discepoli di san Francesco di Sales o di san Vincenzo de’ Paoli. Ma ciò è
troppo vago per mettere in relazione una data predicazione con un dato ordine,
anche quando quest’ultimo – come spesso accadeva – seguiva un particolare
orientamento teologico. Le riserve dei domenicani sull’Immacolata Concezione
causarono una certa ostilità verso di loro nell’Andalusia, dove il grosso
pubblico professava con particolare ardore la opinión pia, diffusa in
tutta la Spagna già prima che Alessandro VII la confermasse. Un caso del genere
costituiva peraltro un’eccezione, perché di rado l’alta teologia entrava nella
predicazione ordinaria, che in generale si manteneva al livello dell’esperienza
quotidiana: alla base di questo comportamento vi era, più che il desiderio
perverso di escludere il popolo dal dibattito teologico, la necessità di
attenersi al criterio preminente dell’adattamento all’uditorio.
Ciò non impediva che il predicatore potesse conoscere, anche
profondamente, la dottrina. Nessuno si aspettava che egli si comportasse da
teologo speculativo; tuttavia era opportuno che coltivasse questo genere di
studi, e specialmente la teologia morale, poiché la sua funzione era soprattutto
di condannare i vizi, correggere i comportamenti e insegnare la virtù. Lo
stesso Carlo Borromeo, abbastanza competente in utroque iure, si impegnò molto per colmare le sue lacune
filosofiche e teologiche. Forse per eliminare dubbi sull’onestà intellettuale
dei predicatori, furono spesso imposte condizioni come quelle stabilite per i
carmelitani scalzi di Alcalà, che per essere abilitati a predicare dovevano
aver studiato per tre anni logica, fisica, metafisica e teologia o essere
laureati in diritto canonico. Tra i cappuccini l’abilitazione spettava al
definitore provinciale, che non sempre la concedeva: per esempio nel 1595 alla
richiesta fatta da fra Agustín María de Granada fu risposto con la decisione che
"se ne rimanesse in pace nel suo convento del Pardo".
Naturalmente una certa scioltezza nel maneggiare le Sacre
Scritture e la tradizione (ossia il complesso della rivelazione, com’era stato
definito dal Concilio) faceva parte della cultura richiesta a chi era destinato
a divulgare con la predicazione quei contenuti; analogamente era utile una
certa familiarità con i decreti conciliari, le bolle pontificie, gli scritti
dei dottori della Chiesa e altri testi autorevoli.
Il predicatore doveva padroneggiare il latino, il greco,
l’ebraico e l’italiano; ma il suo sapere doveva estendersi a qualsiasi disciplina gli risultasse
necessaria, se no altro per poterne parlare senza destare l’ilarità di chi la
professava. Secondo Diego de Estella "sarà difficile descrivere la
tempesta di mare che travagliò gli apostoli senza sapere che cosa significhi
ammainare, aggottare e governare…"; e Francisco Terrones raccomandava di
coltivare "tutte le arti, tutte le scienze,insomma un’enciclopedia
completa, di cui nulla sarebbe stato superfluo".
Ma soprattutto era necessario conoscere la dottrina. In una
bolla del 1680, provocata dagli abusi denunziati da molte parti, Innocenzo XI
insisteva su questo punto, ammonendo che le prediche dovevano fondarsi sul
Vangelo, assai più che su testi di qualsiasi altro genere; analogamente un
secolo prima fra Luis de Granada, nella sua Ecclesiastica
Rhetorica, così diffusa e apprezzata, aveva riportato numerosi passi di
precettisti latini ma aveva aggiunto come esempi molti testi dei santi padri,
specialmente di san Cipriano. Nel Seicento sarebbe stato questo uno degli
aspetti più importanti della riforma
posta a base della predicazione e degli scritti del gesuita Segneri e (fino a
un certo punto) di Bossuet, il grande rinnovatore dell’oratoria sacra in
Francia.
Nonostante tutto ciò che da lui si richiedeva, il predicatore
tirocinante non doveva perdersi d’animo,
e poteva trovare conforto nella considerazione conclusiva di Terrones, secondo
cui "un predicatore con tutte queste qualità non s’è mai visto". Né
probabilmente s’era mai visto il grottesco oratore descritto da alcuni critici,
che senza dubbio calcavano la mano sui difetti più frequenti per meglio
colpirli. Il gesuita Bartoli ci presenta così un "tipico" predicatore
che si accinge a comporre il suo sermone: "Sederà il valent’uomo a una
tavola, circondato di libri e tutto in silenzio inteso al suo lavoro. Due o tre
descrizioni v’hanno a entrare voglia o no l’Evangelio di quel dì. Se manca
ingegno da lavorarle del suo, elle si rubano da poeti, da romanzi, da discorsi
accademici, de’ quali se ne han su la tavola le cataste. Or l’arte e l’ingegno
starà in trasformare o almen travestire queste descrizioni, talché quella che
nel poeta è una Venere diventi nella predica una Maddalena. Apparecchiate le
descrizioni, seguirà appresso il trovare un paio d’Imprese e d’Emblemi di
peregrina invenzione che spiegandole aprano all’ingegno campo da pompeggiare e
agl’intendenti pongano materia di diletto. Poi bisognerà qualche testo di
Scrittura, ch’ella pur si vuol framezzare, ma più che null’altro le Cantiche di
Salomone, libro d’altissimi misteri e che ragion vorrebbe che come dal monte
Sinai ne stessero lontane le bestie, pena l’essere lapidato. Per riputazione
anco e per mostrarsi uomo che sa, ci vuol un passo di teologia, ma della più sottile
e fina, tratta dalle quistioni della prima parte, colà ove si disputa di Dio
uno e trino. Finalmente v’hanno ad essere tre o quattro paradossi che a prima
giunta paiono eresie, ma poi dichiarandosi a poco a poco si scuoprono essere
misteri. Così lavorato il discorso, rimane a recitarlo e si cerca di farlo con
una tal prestezza di lingua che gli orecchi degli ascoltanti, come i zoppi al
corso, si stanchino in seguirla…"
C’è tuttavia un’età per apprendere (secondo Terrones, "in
pochi anni non si può conoscere molto"), e in quel periodo si stimolava,
oltre che la lettura di precetti a stampa e di istruzioni manoscritte,
l’addestramento per imitazione: la capacità di studiare non bastava se non vi
erano anche abilità e garbo nell’esporre.
In altri termini, le
doti personali costituivano un secondo fattore di notevole importanza. I
teorici distinguevano l’efficacia reale della predicazione dalle qualità
naturali e dall’abilità acquisita dall’oratore sacro: in fondo tutti erano
disposti ad ammettere che la prima fosse un dono dello Spirito Santo.
Interrogato sul modo migliore di
predicare, fra Luis de Granada si rimetteva devotamente al metodo raccomandato
dal suo maestro, il mistico Juan de Àvila: "Amare molto nostro Signore". Ma, a
prescindere dal soprannaturale, senza dubbio l’efficacia di ciascun predicatore
era diversa. Dopo tutto, egli era una causa strumentale: nozione che, in un
contesto teologico dominato dal binomio grazia-libertà, la dottrina cattolica
non poteva trascurare. Perciò, prudentemente, il concilio tridentino aveva
proibito la predicazione dei chierici regolari "che non fossero stati
esaminati e approvati dai loro superiori per quanto riguarda la vita, costumi e
sapere, e che non avessero ottenuto l’apposita licenza"; alla quale
bisognava aggiungere il permesso del vescovo per operare nelle chiese della
diocesi. Il predicatore doveva inoltre essere "bennato" e non
presentare "deformità mostruose o un volto ripugnante", perché ciò
avrebbe diminuito agli occhi di molti il valore della sua dottrina; doveva
infine avere un fisico robusto e una buona voce anche se in proposito vi furono
numerose eccezioni.
Dopo il periodo di
apprendistato, la seconda fase della carriera consisteva appunto nel predicare:
il che potrebbe apparire un’ovvietà se i trattatisti,consigliando di mettere in
pratica le nozioni apprese, non avessero chiarito il senso della
raccomandazione: "In mancanza di esercizio – spiega l’agostiniano
Bartolomé Carranza in Aliquot documenta
ad concionandum – l’ingegno si ottunde, la lingua si intorpidisce, l’animo
si scoraggia e si fa timoroso.
Giungeva infine l’età di
ritirarsi: di solito però i veterani della predicazione venivano chiamati a
disimpegnare compiti di responsabilità nel proprio ordine, e quindi restava
loro pochissimo tempo per altre attività. Per lo più gli anni non perdonavano,
ma vi furono alcune eccezioni notevoli: quando Filippo II si recò a Lisbona per
essere incoronato re di Portogallo,incontrò fra Luis de Granada,
"piuttosto vecchio e sdentato", come si espresse lo stesso sovrano,
ma ancora abbastanza in forma per predicare.
Nel complesso gli interessati concordano nell’affermare che –
a non tener conto del movente soprannaturale – la predicazione era un lavoro
poco gratificante. Senza dubbio un buon professionista godeva di rinomanza e di
prestigio nell’ambiente secolare, e poteva anche essere nominato predicatore
del re: tuttavia nella Spagna e nella Francia del Seicento questo titolo finì
con l’essere concesso con tanta prodigalità che nel 1677 Carlo II dovette
limitarlo drasticamente a tre soli religiosi per ciascun ordine esistenti nel
regno. Per di più quasi tutti costoro erano insigniti del titolo ad honorem e
senza emolumenti.
Le rimunerazioni erano piuttosto scarse: "Al medico che
vi ammazza – scriveva Terrones Aguilar del Caño – date cento reales;
cento ducati all’avvocato che ve ne fa perdere mille di rendita; e al
predicatore, un ’Dio vi assista’". Le cose andavano diversamente in
determinate circostanze, ad esempio durante la quaresima e l’avvento e
soprattutto in occasione dei funerali di personaggi di alto rango, che non
erano però frequenti. Per il sermone pronunziato al funerale di Filippo II e
pubblicato a stampa la municipalità di Madrid spese 1.100 reales: ma si trattò
di ben poca cosa rispetto al costo dei 120 piedi di drappi da lutto, delle
insegne e delle architetture che componevano il catafalco costruito per
l’occasione.
Altri svantaggi
derivavano ai predicatori dall’atteggiamento del pubblico, che nelle grandi
capitali tendeva ad essere esigente. Stando a quanto affermavano in genere gli
interessati, la gente era così abituata a giudicare la qualità e l’esecuzione
dei sermoni che non era mai possibile dormire sugli allori. L’agostiniano
portoghese fra Diego López e Andrade protestava così contro i critici del suo
tempo: "Anche se i predicatori perdono il sonno e il giusto riposto, anche
se studiano tanti libri d’ogni genere, a stento se ne trova uno di cui il
pubblico si dichiari pienamente soddisfatto".
Per di più l’ignoranza
o la malignità di qualche ascoltatore potevano provocare l’intervento
dell’Inquisizione. Secondo Terrones, già censore del Sant’Uffizio a Granata,
"se gli inquisitori dovessero convocare tutti i predicatori denunziati da
ascoltatori malvagi, nessuno più parlerebbe dal pulpito". Nel caso che la
denunzia seguisse il suo corso, i membri del tribunale solevano agire con
clemenza, ben sapendo che quasi tutte le mancanze erano dovute più alla
passione oratoria che a una voluta eterodossia.
Certamente alcuni esageravano in passionalità: un predicatore
ragionevole, sosteneva Diego de Estella, modererà prudentemente il suo linguaggio "anche se parla di
Lutero". Vi erano poi, sebbene di rado, casi come quello di Charles
Hersent, un personaggio davvero pittoresco, espulso dall’Oratorio francese per
le sue feroci diatribe contro monaci e gesuiti. In un’altra situazione
eccezionale, durante la guerra dei Trent’anni, Filippo IV ammonì i superiori
degli ordini contro gli interventi di carattere politico – critiche al Papa e
al Fisco regio – che cominciavano ad essere mosse da alcuni pulpiti spagnoli.
L’ascendente sociale del predicatore derivava in gran parte
dalla sua effettiva capacità di rimproverare gli ascoltatori e di richiamarli
all’adempimento dei loro doveri: compito particolarmente delicato quando si
trattava di principi e di notabili. Già a quel tempo l’opinione comune tendeva
a sopravvalutare l’influsso dei predicatori negli ambienti di palazzo; da parte
loro, gli interessati erano portati piuttosto a negarlo (come Terrones, che si
vedeva obbligato a predicare privatamente a Filippo II), o quanto meno a
sottolineare gli inconvenienti cui si andava incontro redarguendo un simile
uditorio. In questa situazione venne forse a trovarsi Nicolas Caussin,
predicatore di Luigi XIII ma poco gradito al cardinale Richelieu, la cui
carriera si concluse con l’esilio; o il cappuccino Juan de Ocaña, che col suo
solo aspetto ispirava tanta devozione al gesuita Gonzalez Pereira ("gli
occhi rivolti al suolo, il cappuccio calato sulla bocca, col piede sulla
propria barba"), e che nel 1637 fu espulso da Madrid, ma quattro anni dopo
era già di ritorno e diceva al re "cose molto belle"; o un altro
cappuccino, José de Madrid, confinato nel 1678 "per un sermone da lui
pronunziato a palazzo". Da questo punto di vista, la predicazione
rappresentava per chi vi si impegnava un’autentica arma a doppio taglio.
Entro certi limiti, la tecnica del comporre una predica
risulterà stranamente familiare a chi conosca dall’interno il mondo accademico
o abbia partecipato a un concorso scolastico; il fatto è che anche nella
preparazione del sermone l’inventio
la dispositio e la memoria costituiscono in armonia con la
teoria classica in auge nel Seicento, le parti principali del lavoro.
Se il nostro è un predicatore occasionale o principiante,
provvederanno a trarlo d’impaccio strumenti come le Prediche di G. Inchino (Venezia 1607) o il Despertador Christiano del teologo Barcia y Zambrana (Lisboa 1684),
che offrono schemi di sermoni e perfino inizi di passi utili come spunti per
dare subito via libera all’immaginazione. Ma un oratore già esperto utilizzerò
per cominciare il suo stesso materiale: serie di schede classificate per temi,
come usava fare Carlo Borromeo, o appunti più o meno elaborati, tratti
dall’esperienza quotidiana, dalla meditazione e soprattutto dalle letture. Uno
dei vantaggi di possedere una buona biblioteca era di potersi dedicare allo
studio da Pasqua a ottobre (mesi in cui si predica pochissimo), avendo cura di
annotare in margine i passi più adatti per poi trasferirli in repertori
ordinati alfabeticamente. Per evitare la fatica materiale di questo
procedimento un predicatore di corte – ad esempio Terrones – si serviva di
norma di uno scrivano.
Dopo aver raccolto le sue informazioni dalle Sacre Scritture,
dai santi padri, dalla letteratura pia e (con moderazione) da quella profana,
il predicatore dovrà meditare a lungo su questi dati fino ad assimilarli,
mettendosi così in grado di dar forma a quello che sarà il suo sermone.
"Per questa meditazione bisognerà cercare il tempo e il luogo più adatti.
Le ore migliori sono quelle dell’alba e della notte, quando i domestici non
fanno chiasso e nessun frastuono distrae il nostro pensiero. Analogamente, la
solitudine e l’oscurità del sito rendono più limpida la vista dell’ingegno teso
verso l’ideazione: più favorevoli di ogni altro sono i luoghi consacrati, e in
particolare quello dove è custodita la Santa Eucarestia".
In verità quest’affermazione di fra Luis de Granada sembra
essere in contrasto con la prassi (forse più profana), seguita da Terrones, che
ordinava la materia mentre dettava (e anche così soleva impiegare una settimana
per concludere il discorso); per non parlare di Paravicino, che quando si
metteva a comporre scriveva in modo uniforme finché non era rapito
dall’ispiraione. La sua scrittura diventava allora illeggibile, con risultati
disastrosi per le edizioni postume dei suoi sermoni.
Spesso un professionista scriveva le sue prediche in anticipo,
talvolta alcuni mesi prima, o quantomeno predisponeva un canovaccio piuttosto
esteso. Naturalmente nel far ciò si adeguava alla solennità della circostanza e
al tempo disponibile: Timoteo Ciaba, il famoso predicatore portoghese che in
una sola quaresima arrivò a pronunziare sessantotto sermoni, in quei quaranta
giorni non deve aver fatto molto più che un notevole sforzo di memoria.
All’ultimo momento era quasi sempre necessario apportare qualche ritocco, in
relazione all’uditorio prevedibile: "Che senso ha predicare in un convento
di monache sulle qualità richieste per essere un buon vescovo, o nel giorno
della Maddalena tenere in un convento di frati un sermone contro l’uso di
ornamenti e cosmetici? Eppure si son viste cose del genere".
L’esercizio più raccomandato per imparare bene il sermone –
compito che gettava nell’angoscia molti aspiranti predicatori – era di metterlo
per iscritto e soprattutto di prepararne uno schema. Leggere dal pulpito non
era ammissibile, e recitare a memoria era considerata cosa da principianti,
abbastanza fastidiosa per essere evitata da ogni predicatore esperto,
specialmente perché talvolta ea necessario ripetere i concetti in vario modo,
finché anche il più rozzo degli ascoltatori non li avesse afferrati. L’usanza
corrente era perciò di fissare nella mente
lo schema della predica – struttura formale, esempi, idee – e sforzarsi
di padroneggiarlo, lasciando il resto all’improvvisazione.
La condotta da seguire nelle ultime ore prima della predica
era dettata dal temperamento individuale: mentre alcuni, come il domenicano
Trujillo, suggerivano di dare una ripassata al sermone, altri preferivano
attenersi al consiglio di Aristotele ("è bene dormire per un po’") e
non preoccuparsi ulteriormente.
In caso di necessità, la religiosità barocca considerava
adatto all’oratoria sacra qualsiasi luogo: ad esempio durante le missioni
popolari la predicazione nelle strade raggiungeva la gente più recalcitrante e
facilitava anche la partecipazione più o meno camuffata di eretici pentiti. Ma
a parte simili eventi eccezionali, la predicazione era presente in quasi tutte
le situazioni (e le calamità) della vita collettiva. Secondo una relazione del
1559, "l’intera Castiglia si spopolò" per assistere all’autodafé che
precedette il supplizio del teologo Cazalla a Valladolid, dove il domenicano
Melchor Cano parlò per un’ora su un versetto evangelico adatto all’occasione: Attendite a falsis prophetis, qui veniunt ad
vos in vestimenta ovium: intrinsecus autem sunt lupi rapaces (Matt., 7, 15)
Per il condannato a morte
la predica ai piedi del patibolo era ovviamente un’opportunità
irripetibile per mettersi in pace con Dio; ma anche gli spettatori – tra i
quali si trovavano quasi sempre i compagni di malavita del condannato –
traevano una morale dal dramma che si svolgeva sotto i loro occhi. Il gesuita
Pedro León calcolò che circa ventimila persone assistettero al
sermone da lui pronunziato quando sulla strada che porta alla città andalusa di
Carmona furono giustiziati a colpi di frecce quattro famosi masnadieri; e si
potrebbero citare molti esempi analoghi, come le prediche dello stesso padre León
nelle carceri e nel quartiere della prostituzione di Siviglia, o le prediche
dei cappuccini nelle piazze di Bologna durante l’epidemia del 1630.
Félix Amat ricordava con ammirazione dopo un secolo e mezzo il
recolletto Francisco Solano, un predicatore di eccezionale sensibilità barocca
attivo a Lima: "Entrava talvolta nei cortili in cui si rappresentavano
commedie, quando lo spettacolo era già cominciato, e balzando improvvisamente
su una panca, o addirittura sulla scena, tirava fuori un crocifisso e a braccia
spalancate, gridando e piangendo, incitava gli astanti a considerare la
dolorosa tragedia del Calvario. In un’occasione apparentemente così
inopportuna, parlava con tanto entusiasmo e amore di Dio, in modo tanto vivace
e fervido che l’uditorio passava dal divertimento alla devozione, dalla vanità
alla pietà, dalla gaiezza sensuale e mondana alla santa contrizione dello
spirito".
Naturalmente tutto ciò non deve far dimenticare che il luogo
di gran lunga più adatto per ascoltare un sermone era la chiesa; ed è
significativo che proprio dopo il concilio di Trento si sia diffusa una nuova
architettura sacra, che permetteva di udire e vedere il predicatore da
qualsiasi punto dell’interno. Siccome però nelle chiese preesistenti ciò non
era possibile, era opportuno che l’oratore forestiero ispezionasse e provasse
in precedenza l’ambiente e il pulpito, così da poter orientare poi la voce nel modo migliore.
Pur senza aggiungere
niente di nuovo alla teoria del gesto e della dizione, il predicatore barocco
valorizzava molto queste risorse per arrivare ad un genere di persuasione che
andasse al di là dell’adesione formale degli ascoltatori. Con una dose di
conservatorismo forse maggiore di quella adoperata dal pulpito, i manuali
consigliavano naturalezza e moderazione, sia pure rimettendosi sempre alla
discrezione del predicatore. "E’ necessario – scrive Terrones – adeguare
all’uditorio la voce e il modo di rimproverare: con il volgo grida e gesti
violenti, con i nobili soavità di voce ed efficacia di argomentazioni, con i
sovrani una voce quasi in falsetto e un atteggiamento di grande
sottomissione".
Un linguaggio complementare di quello parlato era costituito
da adatti movimenti del capo e delle braccia, anche se la teoria – ripresa in
generale dalla normativa latina – consigliava di astenersi da una
rappresentazione troppo realistica del tema trattato: "Nel parlare di uno
zoppo che si avvicina a Gesù chiedendogli di guarirlo, il predicatore non deve
dimenarsi come se zoppicasse egli stesso; nel fare un paragone con gente che si
accoltella, non deve menare fendenti e traversoni, né rannicchiarsi nel
pulpito".
Queste raccomandazioni possono sembrare oggi assurde,ma da
alcune precettistiche appare evidentemente che a quel tempo esse non erano
inutili. Una buona dose di mimica e un po’ di ostentazione erano fattori sicuri
di success davanti a un pubblico illetterato, ma on di rado i predicatori
esageravano: "Alcuni – scrive fra Luis de Granada – ora si piegano in due,
ora abbassandosi si nascondono nel pulpito, ora sembrano venirne fuori e
levarsi in alto"
Altre abitudini che il predicatore doveva imparare a
correggere erano quelle di tirarsi su continuamente le maniche della cotta, di
aggiustarsi il colletto, di stendere un
fazzoletto sul bordo del pulpito, di strofinarsi spesso le nocche delle dita.
Si riteneva invece tollerabile, entro certi limiti, il soddisfacimento di
bisogni naturali come tossire, asciugarsi il sudore o sputare (Terrones era
orgoglioso della sua continenza in proposito); del resto questi atti erano in
larga misura evitabili con un’alimentazione moderata.
Arrivato il momento di cominciar il sermone, il predicatore
monta sul pulpito mentre la folla è in attesa, e talvolta un assistente seduto
sugli scalini si accinge a prendere nota dei passi più significativi: i suoi
appunti serviranno, in mancanza di un’esauriente minuta, per l’eventuale
pubblicazione della predica. Di solito la struttura di quest’ultima è grosso
modo conforme a quella del discorso classico, composto da un esordio,
un’esposizione, una confermazione o dimostrazione e una perorazione o epilogo.
L’inizio è senza dubbio un momento assai delicato. Per poco
che l’oratore non stia attento, l’esordio – con la divini auxilii imploratio
culminante in un’avemaria (importante in tempi di eretici) e con
l’introduzione al tema – potrebbe già diventare un piccolo sermone. Ma un
predicatore avveduto non dedicherà troppo tempo a questi preliminari, sapendo
di disporre solo di un’ora prima che il pubblico cominci a impazientirsi (in
verità, durante le missioni le prediche solevano essere più lunghe, e in Italia
duravano talvolta un’ora e mezza, sia pure con un intervallo per riprendere
fiato). In ogni caso, l’oratore concentrerà i suoi sforzi nel conciliarsi
l’uditorio, visto che, come afferma Granada, "molti assistono alla predica
più per abitudine che per desiderio di trarne profitto, altri per pura
curiosità, altri sbadigliando e senza nessuna attenzione: e così se n’escono digiuni
e a mani vuote". Vincerà quindi la tentazione di fare dell’ironia sullo
scarso numero degli astanti o di rammaricarsi perché l’incarico di predicare
gli è stato dato con poco anticipo. Per lo stesso motivo, userà in genere
nell’esordio un tono di voce moderato (altrimenti, secondo Terrones, "si
mette in fuga la selvaggina"); il che andrà anche a vantaggio della
condizione fisica del predicatore, essendo ben noto che alzare la voce
all’improvviso danneggia le arterie e che accalorarsi può essere molto nocivo
in chiese di solito così ben ventilate. L’oratore terrà il capo scoperto solo
nel saluto iniziale, a meno che non sia esposto il Santissimo; come
rappresentante di Dio, non si toglierà la berretta neppure predicando dinanzi
al re; né se la toglierà ogni volta che pronunzia il nome di Gesù o Maria, per
evitare che tutti i presenti lo imitino, distraendosi e creando confusione.
Esporre in anticipo l’argomento della predica ed eventualmente
la sua partizione faciliterà la partecipazione degli ascoltatori; in molti casi
quest’accorgimento sarà anzi indispensabile in quanto è probabile che la parte
più lunga della predica, la dimostrazione, contenga concetti o paragoni di
difficile comprensione, nei quali l’uditorio si smarrirà se non gli si indica
un punto di partenza ben chiaro. Ad ogni modo, gli ascoltatori dovranno
arrivare puntuali alla predica e seguirla con attenzione per cogliere la
sostanza delle "prove", se si tratta di argomentazioni del genere di
quelle addotte da fra Manuel de Guerra y Ribera nel commentare il passo
evangelico Erat navis in medio maris, et
ipse solus in terra ("la barca era in mezzo al mare, mentre Gesù era
in terra tutto solo": Mar., 6, 47): "Manca ancora la ragione
principale. L’amore è un dito, ma non la mano: per cui non si deve dare
all’amato la mano, sarà bene dargli un dito. Affinché risulti meglio questa
giusta attribuzione di premi, va osservato che il Figlio è il braccio del Padre
e la mano del suo eterno potere, e lo Spirito Santo è il dito, per cui non si
deve affidare la mano alla volontà ma all’intelletto; all’amore si dà solo un
dito, e all’intelletto si danno la mano e il braccio, perché un dito è il pegno
minore di tutto un corpo, e un piccolo premio si può dare a un amato, ma la
mano si deve dare solo a chi è prudente".
Un predicatore esperto formulerà quindi le "prove"
speculative (evitando di richiamarne troppe e di entrare in questioni
specialistiche) all’inizio della dimostrazione, quando è presumibile che i
presenti siano ancora abbastanza riposati.
E’ preferibile che tra le ragioni addotte vi sia una
successione logica, ma in caso di difficoltà non conviene forzare troppo la mano: il vescovo
filogiansenista José Climent non aveva tutti i torti quando criticava un famoso
oratore "che in una predica in S. Isidoro rimuginò a lungo sul nome latino
del santo, dividendolo in Isis e Dorus e traendo materia per il suo
sermone da ciò che i poeti avevano detto di questi falsi dei". Se poi
qualcuna delle prove non è molto convincente, sarà bene collocarla in minor evidenza
nella parte centrale della dimostrazione.
Finora il nostro predicatore ha conseguito un duplice scopo:
ha esposto alcuni concetti dottrinali (assolvendo così quella funzione
didattica che ogni sermone deve avere), e ha riscaldato psicologicamente l’ambiente,
com’è necessario per introdurre le considerazioni morali destinate a commuovere
i presenti e a far nascere in loro il
proposito di migliorarsi. A questo punto assume un ruolo preminente la magnitudo a cui già abbiamo accennato,
ossia la tecnica di evidenziare l’enormità dei beni e dei mali che si possono
mettere in qualche modo in relazione con l’argomento esposto. Aiutandosi con il
crescendo della voce, il predicatore si varrà del consueto armamentario
retorico – descrizioni, paragoni, allegorie – e perfino di qualche espediente
teatrale per ottenere il risultato voluto. A giudicare dalle testimonianze su
Jean-François Régis o su Baltasar Gracián, era abbastanza usuale
leggere all’uditorio una lettera giunta dal cielo o dall’inferno; ma ancora più
diffusa era l’abitudine di dialogare con un teschio o con un crocifisso. Come s’è visto,
quest’ultima usanza poteva subire varianti individuali: E. Orozco ha ricordato
il caso del gesuita Juan Bautista Escarlo, che predicando a Valenza durante la
quaresima del 1643 "mostrò un teschio come se fosse quello di una famosa
cortigiana vissuta nella città".
La dimostrazione sarà destinata a culminare in qualche
considerazione o in qualche uscita ad effetto, tenute in serbo per il finale a
causa del loro grande potere emotivo. Di rado però potrà essere più
spettacolare di quella, descritta dal portoghese Antonio Vieria, di un sermone
pronunziato nella domenica di sessagesima del 1655: "In una predica sulla
Passione l’oratore, arrivato alla scena di Pilato narra come Cristo fu fatto re
per scherno. Dice che presero un drappo di porpora e glielo gettarono sulle
spalle, e l’uditorio ascolta con grande attenzione; dice che intrecciarono una
corona di spine e gliela misero in testa, e tutti rimangono attenti; dice ancora
che gli legarono le mani e gli diedero per scettro una canna, e gli ascoltatori
sono sempre in silenzio e con l’animo sospeso. A questo punto si apre una tenda
e appare l’immagine dell’ecce homo :
e qui vedi tutti gettarsi a terra e
battersi il petto, piangere, gridare, urlare, schiaffeggiarsi…"
Allora il predicatore, senza lasciare che si estingua questo
climax emotivo, si avvierà all’epilogo, consistente di solito in una ripresa
delle argomentazioni più efficaci, convenientemente ampliate: parlerà "con
espressioni più forti, più significative e perfino iperboliche, più rapidamente
e a voce più alta, con maggior tensione e sentimento, con apostrofi, domande ed
esclamazioni su ciò che avrà detto e dimostrato nella predica, fino a
concludere in gloria e bellezza" (Terrones).
LA PREDICAZIONE NELLE CAMPAGNE
Se la predicazione fosse stata limitata ai centri urbani,
difficilmente la Riforma cattolica avrebbe potuto raggiungere la maggioranza
degli europei del Seicento: nelle città vi erano infatti molte parrocchie e
molti conventi, ma in fondo vi risiedeva solo una piccola parte della
popolazione. Il problema sollevato dallo squilibrio tra la distribuzione degli
abitanti e quella delle risorse pastorali fu affrontato con le missioni
interne: uno strumento che, pur essendo in uso anche in altre epoche, conobbe
uno straordinario sviluppo nell’età barocca. Si trattava d un’evangelizzazione
itinerante in cui un gruppo di predicatori, attivi specialmente nelle zone rurali,
istruiva la gente e ne ravvivava la fede per mezzo di sermoni e di pratiche
devote. Essendo il clero secolare ben poco idoneo a disimpegnare compiti di
questo genere, l’onere delle missioni fu sostenuto soprattutto dagli ordini
monastici e dalle nuove congregazioni.
A seconda che fosse rivolta a convertire i protestanti o ad
elevare le condizioni spirituali dei cattolici, la missione tendeva a insistere
maggiormente sull’attività catechetica o su quella penitenziale; tuttavia i
confini tra i due tipi erano meno nettamente definiti di quanto ci si potrebbe
aspettare. Prevaleva in effetti un’idea unitaria dell’apostolato (vi era in
fondo un unico nemico Satana), che si rispecchiava in una ricerca della
conversione generalizzata di tutte le anime, e che in pratica non faceva troppe
distinzioni tra eretici e semplici ignoranti. Il cappuccino Nicolas de Dijon
esprimeva un’opinione corrente ai suoi tempi quando affermava che l’ignoranza, più che la
superstizione, era la principale tara della vita religiosa negli ambienti
rurali, anche se non mancava in essi, a differenza che nelle città, la buona
volontà di apprendere e di diventare migliori. All’inizio del XVII secolo gran
parte della Francia e dell’Impero era considerata terra di missione, non solo a
causa delle deviazioni dottrinali, ma per la mancanza d’istruzione che vi
regnava. Ciò non significava che la cultura religiosa fosse molto più evoluta
nelle zone dell’Europa meridionale rimaste indenni dal contagio protestante: il
padre León riferiva che in alcuni recessi della regione montuosa delle Alpujarras da
molto tempo non si era ascoltato un sermone, e addirittura non si sapeva che
cosa significasse predicare. "Vi erano donne al disotto dei vent’anni che,
non avendo mai sentito gridare in chiesa prima d’allora, quando nel predicare
alzavamo la voce si nascondevano e si coprivano il volto temendo che volessimo
punirle" (P. Herrera). E l’italiano Paolucci ricordava che in certe
località del regno di Napoli molti, interrogati su chi fosse Dio, avevano risposto
che era il Papa, o il signorotto locale, o gli stessi missionari da cui
venivano catechizzati (C. Russo).
Senza dubbio i cappuccini e i gesuiti, che furono gli
iniziatori del movimento missionario e gli diedero un’impronta con l’intensità
del loro impegno, mettevano l’accento più sulla conversione del cuore che su
quella dell’intelletto; il che in pratica portava ad una certa predilezione per
gli espedienti spettacolari e, se vogliamo, "barocchi" (B. Dompnier).
La Congregazione della Missione – così appunto si chiamava –, fondata da san
Vincenzo de’ Paoli nel 1625, coltivava invece un genere di evangelizzazione più
catechetico, volutamente alieno dall’armamentario emotivo allora in voga; nata
con l’impegno di esercitare l’attività missionaria nei possessi feudali della
famiglia Gondi, la Congregazione si estese rapidamente nel resto della Francia,
in Italia e in Polonia.
Al missionario, quale che fosse l’istituzione da cui
dipendeva, era attribuito di solito uno status funzionale diverso da quello del
semplice chierico regolare. Ciò era evidente nell’ordine dei cappuccini, dove
il titolo di "missionario" era ben distinto anche fuori del convento
da quello di "predicatore", ed entrambi non erano accessibili a
qualsiasi membro dell’ordine: il Capitolo generale del 1698 cercò di evitare
l’abuso, osservato in alcune province per cui "tutti o quasi tutti i
predicatori pretendevano di essere missionari senza avere le necessarie
doti". (B. de Carrocera). Quali esse fossero è facile dedurlo dal loro
particolare modo di vita. Si trattava innanzi tutto di tenere in ogni
circostanza una condotta il più possibile conforme alla vita conventuale o alla
regola dell’ordine: viaggiare sempre a piedi, in silenzio o parlando di cose
soprannaturali, dare sempre il buon esempio, vivere sobriamente, non lasciarsi
prendere da curiosità mondane ed evitare ovviamente di frequentare donne. I
membri della Congregazione dovevano alzarsi alle quattro del mattino per
recitare l’uffizio e fare la meditazione individuale; la mattinata era tutta
presa dal sermone e dalle confessioni; nel pomeriggio vi erano la predicazione
dottrinale ("grande" e "piccolo" catechismo) e infine
alcune ore di confessionale, spesso a crepuscolo inoltrato. Il lavoro non
mancava: nei primi sei anni di vita della Congregazione i missionari di san
Vincenzo – che fino al 1631 furono soltanto sette – predicarono in 140 missioni
di due o tre settimane ciascuna, e nei diciotto anni della sua attività Renault
de Legendre, uno dei padri francesi che istituirono la casa di Roma, partecipò
a 106 missioni. A un simile ritmo di lavoro occorre aggiungere un’alimentazione
precaria, spostamenti assai faticosi e un certo sprezzo dei rigori del clima:
si spiegano così alcuni decessi prematuri, come quello di Cosimo Galilei, nipote
dello scienziato pisano, morto di tisi galoppante a Napoli all’età di 36 anni
(L. Mezzadri). Se poi quest’attività si svolgeva nei paesi protestanti vi era
sempre i rischio di morte violenta per mano di qualche fanatico: fu questa la
sorte toccata a Marc Roy, un cappuccino tedesco che la Congregazione di
Propaganda Fide aveva incaricato di estendere le missioni nei Grigioni. In
definitiva, per assumersi compiti così ardui bisognava andare al di là di una
concezione puramente umana della missione; e ciò giustificava, di riflesso, il
prestigio popolare generalmente goduto da coloro che ad essa si dedicavano.
Possiamo quindi condividere pienamente l’opinione di don Pedro de Lepe, vescovo
di Calahorra, che contrapponeva al sermone preziosista, abituale ai suoi tempi,
la predicazione missionaria: essa "no bada all’apparenza brillante, ma
alla salvezza delle anime" (A. Domínguez Ortiz).
Come si svolgeva una missione? Anzitutto va precisato che si
evitava, saggiamente, di gravare economicamente sui paesi in cui si intendeva
predicare, spesso impoveriti dallo sfruttamento: alle spese si provvedeva
mediante dotazioni, che potevano essere di entità molto diversa. Ad esempio
l’incarico affidato ai gesuiti, di tenere i sermoni del lunedì e del martedì di
Pentecoste a San Martín de Prados era finanziato da un lascito del parroco, che
aveva destinato a tale scopo una rendita di 17 ferrados di grano, 13 di segala e due galline. Ben più cospicua era
la pensione annua di 200 ducati concessa dal conte di Altamira al convento domenicano
di Santiago perché svolgesse la missione nei suoi feudi: inizialmente se ne
occuparono i gesuiti, ma nel 1639, per motivi non precisati, l’incarico fu
revocato (A. Pardo Villar). Nella diocesi di Tarantasia furono invece le
parrocchie a beneficiare, dalla seconda metà del Seicento in poi, di fondi coi
quali era possibile effettuare le missioni a intervalli regolari di pochi anni
(M. Hudry). In molti casi erano i vescovi, interessati a che le loro visite
pastorali fossero precedute da missioni, a sostenerne le spese con singoli
versamenti o con apposite dotazioni. Talvolta i prelati assistevano
personalmente alle prediche, anche se ciò poteva destare preoccupazione nei
fedeli: secondo Luigi Mezzadri, a Fiordini "la gente temeva che i missionari
denunziassero gli scandali al vescovo".
Le missioni potevano svolgersi in qualsiasi periodo dell’anno,
esclusi per ovvie ragioni la quaresima e l’avvento; di rado si tenevano nella
tarda estate, la stagione del raccolto, quando non c’era tempo sufficiente per
queste devozioni. Negli altri periodi, i tre o quattro membri del gruppo
missionario predicavano senza sosta (anche se con scarse varianti nel
repertorio) entro un raggio d’azione tale da potersi spostare a piedi dal loro
convento.
In generale i missionari erano ben accolti, perché il loro
programma implicava un’interruzione della monotona vita contadina e un salutare
mutamento di abitudini mentali. In ciascuno dei quindici o trenta giorni della
missione si succedevano prediche di vario genere: catechismi, sermoni
dottrinali e naturalmente sermoni di carattere morale, in cui si parlava dei
Novissimi e delle conseguenze disastrose di una vita sciagurata, trascorsa
voltando le spalle a Dio. I membri della Congregazione – i lazzaristi –
tendevano a ridurre la drammaticità insita in questi temi con l’esporli di
prima mattina; ma di solito, come s’è visto, si preferiva calcare la mano sugli
aspetti più terrificanti, usando anche qualche espediente non strettamente
retorico per compensare la scarsa ricettività del pubblico verso discorsi di
tono più intellettuale. La semioscurità della chiesa in una sera d’inverno, con
le fiamme delle candele oscillanti alle correnti d’aria, costituiva l’ambiente
più adatto a questo tipo di sermone, a cui si finì col dare il significativo
nome di "predica alla cappuccina".
Il ruolo preminente della predicazione non escludeva altre
attività, più o meno connesse col carisma istituzionale del gruppo missionario.
Quando nell’autunno del 1614 i gesuiti Gaspar de la Peña e Pedro Leòn tennero
una missione nel distretto di Aracena, oltre a predicare e a confessare per
intere giornate si dedicarono alla visita di carceri, scuole, ospedali e
riuscirono anche, stando alla relazione citata di Herrera, a "stringere
amicizie, alcune delle quali di grande importanza". Da parte loro i
cappuccini erano soliti organizzare solenni vie crucis e funzioni eucaristiche
come le quarantore; le loro missioni si concludevano con una processione di
grande effetto, in cui frati e penitenti percorrevano le strade con pesanti
croci sulle spalle.
La prova più evidente del buon esito della missione era il
gran numero di fedeli che si accostavano al sacramento della penitenza:
pertanto i missionari, che avevano ricevuto in anticipo dal vescovo locale la
facoltà di assolvere dai peccati riservati, usavano dedicare un tempo
relativamente più lungo alla confessione auricolare segreta. Per coloro che
abitualmente si astenevano dal confessarsi a causa di risentimenti personali
verso il parroco del luogo, era questa la migliore occasione per regolare i
conti con Dio; e senza dubbio il bisogno impellente di purificarsi nasceva
nella maggior parte dei casi dall’atmosfera di conversione generale tipica di
quei giorni. Si vedevano allora lunghe file in attesa davanti ai confessionali,
o penitenti ansiosi che sopraggiungevano a ore indebite per liberarsi da un
"serpentone" (culebrón, un termine spesso ricorrente nel lessico dei missionari)
che si era improvvisamente ridestato da un letargo di molti anni.
Se la popolazione collaborava
nella misura sperata, negli ultimi giorni della missione si avvertiva
chiaramente un rinnovato clima spirituale. Questo fervore si traduceva (e non è
poco) nel reciproco perdono di offese più o meno gravi, nella composizione di
situazioni irregolari e in una generale riforma dei costumi. Era il momento di
sciogliere concubinati e di riparare vistose ingiustizie, di fronte a un paese
stupito dal pentimento dei suoi peccatori più notori; si chiudeva la locale
casa di tolleranza, le cui ospiti promettevano
di emendarsi radicalmente e forse assistevano addirittura, tra la folla
commossa, al commiato dei religiosi al termine della missione.
Naturalmente – contrasti del Barocco – tutti sapevano che
questi effetti spettacolari sarebbero stati di breve durata e che dopo poco
tempo, magari in capo a qualche settimana, il vecchio ambiente si sarebbe
ricostituito. Consapevoli di ciò, i missionari cercavano di rendere quanto più
possibile durature le loro conquiste spirituali. Sapendo che una soluzione
stabile richiedeva un miglioramento del clero rurale, san Vincenzo de’ Paoli
orientò in questa direzione le sue iniziative; in altri casi si cercò di far
mettere radici a confraternite e a congregazioni penitenziali. (Escuelas de
Cristo, Terz’Ordine Francescano) e a pratiche devote come la via crucis e il
rosario; vi era infine chi, anticipando il futuro, faceva largo uso della
stampa. Il vescovo barcia y Zambrana, promotore di varie missioni, usava
distribuire tra i fedeli della sua diocesi libretti come El jardín florido del
alma o la Práctica del
Santísimo Rosario: come spiegava il cappuccino Manuel de Jaén, "ciò
che si predica si dimentica presto, mentre ciò che si stampa dura a
lungo". Ma la diffusione della cultura religiosa mediante il libro
stampato nell’età barocca fa parte, sotto ogni aspetto, di un’altra storia.
Brano della lettera del 15 gennaio 1622 con cui si
annunciava a tutti i nunzi apostolici la nascita della nuova Congregazione
"de Propaganda Fide", o "di propaganda" – come si disse ben
presto con semplificazione burocratica destinata a gran successo.
La "maniera giudiciale" (inquisizione) era
riservata ai sudditi dei principi che sottostavano all’autorità del papa, i
"fedeli". Ne erano esclusi gli "infedeli": le popolazioni
non cristiane d’America, d’Asia e d’Africa e i sudditi dei principi
protestanti. Ma anche nelle terre dei principi cattolici si trovavano sudditi
che, pur non essendo cattolici, non potevano essere trattati da eretici:
"nelle province cattoliche trovansi degli hebrei, e vi capitan ne’ porti e
nelle piazze o sono ne’ confini degli heretici e scismatici e degli
infedeli". Con essi si doveva rinunciare all’uso dell’Inquisizione e
rassegnarsi alle arti della persuasione.
Questa distinzione che mostrava più lenienza verso gli
"infedeli" era il risultato più importante delle accese polemiche
cinquecentesche sull’uso della violenza in materia di religione, polemiche
diverse nel caso di eretici europei e popolazioni extraeuropee. Per molto tempo
si era evitato di distinguere troppo attentamente, anzi si era stati tentati di
opporre semplicemente al campo cattolico quello degli "altri",
applicando a tutto lo stesso uso violento della coercizione. Alla metà del
Cinquecento il teologo spagnolo Alfonso
de Castro aveva sostenuto la liceità dell’uso della violenza contro gli eretici
come la giustezza della guerra di conquista per cristianizzare le Indie
occidentali. Il giurista Marquardo de Susannis aveva sostenuto la liceità della
conversione violente degli ebrei.
Nell’enciclica del 1622 le due vie – quella della dolcezza e
quella della violenza – venivano giustapposte e mostrate come complementari; ma
l’una apparteneva al passato e l’altra guardava al futuro. Quando, col
Seicento, i compiti missionari apparvero preminenti, l’Inquisizione aveva
sostanzialmente concluso la parte più impegnativa del suo lavoro. L’eresia non
costituiva più un problema urgente all’interno dei paesi cattolici: eretici,
certo, se ne trovavano sempre, ma non erano considerati più un pericolo grave.
Le esecuzioni capitali erano dei casi limite. Normalmente le questioni si
risolvevano con abiure piuttosto sbrigative, per le quali erano pronti moduli
burocratici prestampati. C’era, è vero, il problema della stregoneria: ma anche
in questo caso si direbbe che l’urgenza della battaglia tra la vera religione e
la religione alternativa del diavolo stessa lasciando il campo a una situazione
molto più complicata, che gli inquisitori si sforzavano di decifrare con una buona
dose di freddezza e di scetticismo. Il rapporto che essi mantenevano col popolo
affidato al loro controllo era fatto anche di pazienti accorgimenti e di
persuasione. La verità non sembrava insomma agli inquisitori del Seicento così
evidente come ai loro predecessori all’epoca del duro scontro con la Riforma
protestante.
Le battaglie teologiche erano ormai materia per specialisti
e non suscitavano più gli entusiasmi ingenui, magari confusi, di un tempo. Chi
poi si trovava a dirigere la condotta morale (o semplicemente a riflettere su
di essa) doveva rinunciare alla grande e affascinante semplicità dei modelli
evangelici per sentieri assai più tortuosi. I comportamenti umani apparivano complicati,
difficili da capire e da guidare. La teologia morale si perdeva nella selva
della casistica, la ricerca del bene si smarriva nei meandri
dell’individuazione del male minore. E le cose non apparivano diverse da una
parte all’altra della cristianità europea.
Cronisti delle missioni, come Daniello Bartoli, scrivevano
libri basandosi sulle relazioni originali dei missionari. Da decenni le
stamperie producevano incessantemente nuove raccolte di Lettere e di Avvisi che
mettevano a disposizione di ogni categoria di lettori i resoconti dei viaggi e
delle esperienze dei missionari europei nel mondo.
La Compagnia di Gesù si specializzò nella raccolta,
elaborazione e diffusione delle informazioni provenienti dalle missioni. Banditi
gli empiti di martirio e gli aneliti mistici (il gesuita Giulio Chierici voleva
"reformar la christianità et convertire li infideli et heretici"),
sul terreno missionario si era affrontato un lavoro lento e paziente, di lunga
durata, che puntava sul sapere piuttosto che sull’ardore religioso e
sull’esemplarità evangelica per far breccia in società e culture complesse,
come quelle del Giappone e della Cina. Si trattava dell’esercizio non violento
della conquista attraverso la costruzione di un rapporto didattico, di
insegnamento, di affermazione della superiorità del proprio sapere. La
Compagnia proponeva modelli umani "istruiti" in una fede che era
diventata enciclopedia di vari e complessi saperi: il penitente istruito, il
confessore istruito, il parroco istruito, il cristiano istruito. Paolo Segneri,
il campione delle missioni in terra cristiana ribadiva che non solo gli
"infedeli" andassero istruiti nelle cose della fede ma che tutti i
cristiani ne avessero bisogno – e che più di tutti ne avessero bisogno gli
illetterati, i contadini.
Ma, prima che si affermasse il metodo della dolcezza, anche le
missioni avevano dovuto fare i conti col principio generatore
dell’Inquisizione: la convinzione dell’unicità e dell’evidenza della verità
religiosa, da cui discendeva la necessità di ricorrere alla forza per spingere
i recalcitranti. Era stato intorno al problema capitale del "compelle
intrare" – se cioè si dovessero o meno costringere con la forza i popoli
extraeuropei a convertirsi al cristianesimo – che si era acceso nel Cinquecento
il celebre dibattito di cui era stato campione Bartolomé de las Casas.
Nella conquista
dell’America, l’uso della forza era un dato di fatto: se ne poteva discutere
fra giuristi, teologi e filosofi, ma era chiaro a tutti che anche le missioni
cristiane dipendevano dagli assetti creati dalle armi spagnole. In India,
Giappone, Cina, i missionari potevano contare solo sulle proprie capacità. Ma
come usarle? Questo era il problema di cui si discusse molto: e spesso
aspramente.
Il 10 marzo 1585 un gruppo di nobili giapponesi invitati dai
gesuiti fecero un tour d’Italia,
cominciando da Roma, con grandi feste. I gesuiti ritenevano indispensabile la
loro testimonianza sulla superiorità dell’Occidente.
Alessandro Valignano a
Goa e Francisco Cabral a Macao, le due massime autorità che i gesuiti avessero
in quella parte del mondo, scrissero due lettere contrastanti a Claudio
Acquaviva sul modo di evangelizzare il Giappone. Cabral si lagnava ancora una
volta dei metodi introdotti dall’italiano e aveva perfino chiesto di lasciare
l’incarico per poter pensare in pace alla sua anima. Il contrasto riguardava
tutta la gamma dei problemi missionari in Giappone: struttura e forme di governo delle missioni, finanziamento,
istituzione di collegi, eventuale nomina di un vescovo, nonché le
"cerimonie": nome con cui si indicava la serie delle regole relative
ai rapporti sociali: come vestirsi, come salutare, come ricevere o essere
ricevuti e così via. Proprio su questo punto si scatenò il conflitto. Valignano
aveva scritto un Libro delle regole.
Le Regole degli uffizi che entrarono
in vigore nel 1592 videro trionfare il suo punto di vista, ma non senza una
lunga contrattazione.
In Italia erano stati elaborati codici di comportamento
validi per le corti, che ammantassero di "civiltà" rapporti di potere
in cui i segni del dominio avevano comunque una parte importante. Valignano
scrisse che "Una delle cose principali che nel Giappone sono necessarie
per far ciò che i Padri si propongono circa la conversione e la cristianità, è
di saper trattare coi Giapponesi di tal
maniera, che da una parte godano autorità e dall’altra usino di molta
dimestichezza, unendo quete due cose in tal guisa che l’una non impedisca
l’altra, ma si congiungano in modo che ciascuna abbia il proprio posto".
L’elaborazione di norme di comportamento tra Cinque e
Seicento fu importante anche per la polemica religiosa della Riforma e le
missioni. Bisognava "adattarsi" a chi aveva idee religiose diverse
dalle proprie. La questione fu oggetto ricorrente nelle discussioni dell’età
della Riforma. A livello mondiale poi, il problema se lo dovettero porre
conquistatori e conquistati. Quali simulazioni e dissimulazioni erano
necessarie per salvare la propria verità o per conquistare alla verità chi
ancora non la conosceva o non la voleva accettare? Se i vinti se lo dovettero
porre come problema di sopravvivenza fin dall’indomani della sconfitta, i
vincitori se lo posero con qualche ritardo, appena sperimentarono la differenza
tra vincere e convivere. La contemporaneità è stupefacente. Più o meno nel
periodo in cui gli anabattisti scoprivano in Europa le tecniche della
simulazione e della dissimulazione, un testo nahuatl suggeriva la necessità di
"accomodarsi" ai conquistatori e di costruire santuari per ospitare
gli dèi castigliani.
L’esperienza in materia di adattamento maturata nei
conflitti religiosi europei era pronta a riversarsi nelle tecniche di conquista
culturale delle popolazioni extraeuropee.
Che si dovesse simulare e dissimulare in materia di
religione era quel che si era imparato dalle lotte religiose del Cinquecento;
nel secolo che veniva, quel precetto sarebbe stato adattato alle questioni
dello Stato e della politica.
"Acquistare autorità" era il primo obbiettivo: per
questo, bisognava adeguarsi al modello sociale più autorevole e più consono ai
religiosi europei. Valignano lo individuò nei bonzi del buddismo
"zen". Da quella equiparazione ricavò tutte le conseguenze nel Cerimoniale: la gravità, il rapporto con
gli inferiori, lo stile da seguire nel ricevere e nel recarsi in visita. La
predica cristiana doveva sforzarsi di somigliare ad una meditazione raccolta,
nello stile "zen"; né si dovevano fare in pubblico mortificazioni.
Poiché le regole giapponesi si basavano sul principio di segnalare esattamente
le differenze sociali, bisognava avere servitori ecc. e trattare con disprezzo
i poveri e i vagabondi, anche se era in contrasto con il Vangelo. Occorreva
"approvare quel ch’è degno d’essere approvato e sopportando e dissimulando
alcune cose, se ben non sian né ben dette né fatte".
Cabral era totalmente estraneo ad astuzie e accomodamenti;
era intransigente: offriva la povertà e l’umiltà al disprezzo dei giapponesi
senza curarsi delle conseguenze, confidando proprio nella diversità
inassimilabile dei valori per attirare i "gentili".
Acquaviva, di fronte a suoi uomini diventati perfetti
"bonzi", è perplesso, anche se le obiezioni grossolane di Cabral non
lo toccavano. Concorda con Valignano ma fino a un certo punto.
Dove finiva l’accettazione delle forme e dove cominciava il
cedimento sui contenuti? Si sapeva che non bisognava insistere sul simbolo del
crocifisso. Ma questo significava, si lagnava Acquaviva, "ascondere… la
virtù della croce et la imitatione di Christo che predica per Dio".
Nella lettera di risposta di Acquaviva affiora l’alternativa
illusoria del ritorno ai moduli profetici, della riduzione della conquista
religiosa alla testimonianza eroica del Vangelo, "la croce, stenti et
dispregi". Ma era appunto illusoria: dove la forza delle armi e la
supremazia culturale non stavano dalla parte degli europei, l’unica possibilità
reale di garantire qualche ascolto ai portatori della religione cristiana
restava affidata alle strategie dell’"accomodamento".
Miracoli (il vantato dono delle lingue di Francesco Saverio,
i dati trionfalistici sulle conversioni nei resoconti per il grosso pubblico,
interventi divini a favore dei missionari) non se ne vedevano proprio. E allora
bisognava, prima di predicare il Vangelo e di pensare alle conversioni,
trovarsi un posto in quella società, farsi accettare.
Matteo Ricci prese la decisione di presentarsi come un
letterato. Le perplessità di Acquaviva furono solo la premonizione delle
reazioni negative in Europa. Gli ordini rivali, francescano e domenicano,
ergendosi a tutori dell’ortodossia dottrinale, misero sotto accusa davanti alla
Congregazione di Propaganda Fide nel 1641 le scelte dei gesuiti in Cina,
sollevando la questione dei "riti cinesi". In sostanza si trattava
della liceità per i cristiani di tributare a defunti quelle onoranze e quei
riti voluti dalla tradizione confuciana che, secondo i gesuiti, appartenevano
solo alla sfera "civile" e non "religiosa". Un fiume di
opuscoli e una montagna di documenti furono prodotti dagli ordini in lite. Dopo
molte incertezze e resistenze si arrivò alla fine alle ripetute condanne del
Sant’Uffizio e del Papa nei confronti delle scelte fatte dai gesuiti sulla
questione dei "riti". Il risultato fu la vittoria finale
dell’intransigenza inquisitoriale sull’apertura missionaria, riducendosi
l’Inquisizione a strumento nelle lotte interne fra le forze organizzate a
tutela della cittadella dell’ortodossia.
Addirittura una legazione composta da un legato del papa e
da monsignori (commissione Mezzabarba), nel 1720-21, denunciò all’imperatore
divertito gli errori di Matteo Ricci.
Dall’altro lato non andava meglio: oggi che disponiamo anche
delle fonti cinesi, apprendiamo quali reazioni polemiche e di chiusura si
scatenassero nel mondo intellettuale cinese davanti alle proposte dei
missionari gesuiti.
La storiografia europea
tradizionale ha visto la "questione dei riti" come storia di aspre
contese teologiche e di meschine rivalità nei penetrali della Curia romana e
delle Case generalizie dei grandi ordini (con l’interessata attenzione del
Portogallo che non voleva perdere il controllo sul personale delle missioni).
Intorno alla metà del Cinquecento diventa normale parlare di
"queste indie" o delle "Indie della parte di qua" per
riferirsi al lavoro di predicazione e catechesi che si svolgeva nelle campagne
dei paesi cattolici o nelle aree infestate da eretici. Già intorno al 1630 era
diventato chiaro il legame per analogia tra contadini europei e selvaggi
americani. Il domenicano Francesco de Vitoria si chiedeva se i selvaggi, con la
loro rozzezza e bestialità, non fossero schiavi per natura, come molti contadini.
Ma il vescovo francescano Guevara mostrava un contadino di aspetto mostruoso ma
intelligentissimo, e inaugurava tutta una letteratura cui appartiene anche il Bertoldo. Dietro la rozzezza – questo
era il messaggio – si nascondeva una umanità viva che doveva essere conquistata
a Cristo.
All’inizio la "missio" fu – come nelle Indie –
l’invio di ecclesiastici esperti nella predicazione per restaurare (o
instaurare) il modello ortodosso. La necessità derivava dal fatto che le
critiche al clero sotto la spinta della Riforma, superarono il livello di
sicurezza dal fatto che si temette che le idee della Riforma trovassero stabile
organizzazione in Italia. Il gesuita Cristoforo Landini fece missioni sulle
montagne della Garfagnana andando a caccia di eretici e scontrandosi col clero
locale su questioni come la grazia e il libero arbitrio. In Spagna il problema
fu quello della minoranza maomettana da convertire.
La missio era ordinata dal papa o da vescovi o da vicari
vescovili, richiamati specie in Italia a un più severo controllo dell’andamento
delle diocesi in prossimità del Concilio di Trento. Alla fine del mandato,
veniva redatto un attestato per i superiori, da parte del vescovo.
Assai meno entusiasti furono i preti delle varie diocesi
attraversate dai missionari; in Lunigiana nel 1548 "li preti congregati in
moltitudine… con pugni et con detti nelli occhii et evaginar l’arme et molti
altri improperii" avevano aggredito il Landino mettendogli "li
partesanoni al petto… per sfondarmi sino alli piedi". Le proposte
devozionali del gesuita con la loro insistenza sulla comunione frequente e
sulla conoscenza approfondita del catechismo sovvertivano regole e tradizioni
consolidate. Quei conflitti erano iscritti nello stesso modello istituzionale
della "missio": esso poneva a confronto l’inviato dell’autorità
centrale, dotato di unpotere straordinario, coi titolari del potere
tradizionale all’interno delle comunità locali.
Il Landini trovò nell’isola di Capraia "errori,
superstizioni, idolatrie", ma anche "il paradisso terrestre in tante
delitie di beni spirituali… a primitiva chiesia in tanta frequentatione delle
confessioni et comunioni ogni dì". Ma fu anche commosso dalla miseria
spaventosa della popolazione e raccontò di bambini scalzi anche l’inverno che
dormivano sulla nuda terra e di gente di cinquant’anni "che mai si satiò
di pane".
Pochi anni dopo, altri gesuiti furono chiamati a fornire
assistenza e servigi inquisitoriali nella spietata campagna spagnola contro i
valdesi di Calabria. Anche qui, nonostante l’esplicita funzione antiereticale
loro affidata, e nonostante i reiterati richiami del grande inquisitore Michele
Ghislieri (poi papa Pio V), il tono dominante nelle lettere è quello della
compassione per quella moltitudine di "scannati et squartati… abrusciati
et precipitati da una torre… amazzati nella campagna…". E, a parte
l’eresia, o, come scrivono i gesuiti, "fuor della peste, circa li costumi
erano mirabilmente istrutti"; ben diversi dai cattolici cosentini,
"gente tanto assuefatta al male… senza giustizia et governo come se
fusseno tutti nel bosco".
La "peregninatio" come scorreria occasionale anche
se sorretta dalle armi, non risolveva il problema della conquista spirituale;
"le armi possono forzare i corpi, ma non le opinioni, le dottrine
eterodosse si spiantano dai cuori con la sana dottrina e catholica persuasione…
con molta humiltà, charità ed amorevolezza": questa opinione del padre
Rodriguez, maturata nella campagna contro i valdesi di Calabria, veniva
confermata all’altro capo della penisola dall’insuccesso della spedizione di
Emanuele Filiberto di Savoia contro i valdesi delle valli alpine; ma poteva
valere anche per tutta l’impresa missionaria nel suo complesso.
Questo non significava ripudio della forza; cosa impensabile
in un momento in cui, i Europa, proprio dalle armi si aspettava un diverso
regolamento dei contrasti religiosi. In particolare, se ne attendeva da parte
cattolica un nuovo, potente impulso alle missioni. Così come in Calabria
l’esercito aveva spianato la strada alla dolce persuasione gesuitica, anche
nella Francia delle guerre di religione o nell’Impero la prima parola era alle
armi. In prossimità della guerra dei Trent’anni, c’era chi – come il gesuita
Jakob Rem – aspettava "bellum cruentum, sed sacrum", destinato a
concludersi trionfalmente e a fornire "magnum incrementum" alle cose
cattoliche. Rem rimproverava i confratelli che si agitavano per andare nelle
Indie, perché era convinto che la guerra prossima ventura avrebbe aperto grandi
possibilità di lavoro in Germania. I Vaticiniadi
Jakob Rem sono conservati nelfondo Jesuitica
1081 dello Haupstadtsarchiv di Monaco di Baviera (a p. 2 il paragrafo De bellis quibusdam). Dopo la morte del
Rem, nel 1618, lo scoppio della guerra dei Trent’anni fu interpretato dai suoi
fedeli come una realizzazione della
profezia e ci fu chi ricordò la sua affermazione "Brevi apud nos quoque
Indiae erunt et non sufficiet numerus nostrorum". Il metodo della dolcezza
poteva dunque innestarsi su una brusca rottura iniziale. Ma poi restava
comunque il problema di come radicare in profondità la "santa fede"
una volta che la si era imposta.
I metodi erano gli stessi in Europa e nelle missioni
extraeuropee, perché gli evangelizzatori erano gli stessi. Le linee di
organizzazione di quella esperienza furono due: le arti
dell’"accomodamento" e della simulazione elaborate per le culture
"alte" e per i paesi non dominati militarmente da principi cristiani
– Giappone, Cina – furono riservate alle classi dominanti e, in particolare, ai
sovrani degli stati europei non cattolici. Le tecniche didattiche destinate ai
"rudes" dell’America trovarono impiego nelle missioni interne che
investirono le campagne dei paesi cattolici.
Che i principi dovessero essere conquistati con tutte le
arti possibili era, in quegli anni, un principio ovvio: e l’arte che allora si
offriva era quella della direzione delle coscienze. Dominare la coscienza dei
principi significava governare attraverso di loro: e poiché il fine era buono,
anche i mezzi erano da considerare buoni. Il teatino Andrea Avellino dedicò
molta parte del suo epistolario a consigliare, incoraggiare e guidare principi
e nobildonne del suo tempo e trovava assolutamente ovvio che quelle fatiche
fossero dedicate a quel genere di persone perché "dalla salute dei
Prencipi nasce in gran parte la salute dei populi". Per questa conquista
si offriva un intero catalogo di astuzie. Il gesuita Lorenzo Forero,
registrando il fallimento della guerra dei Trent’anni, suggerì di battere la
strada di una sottile conquista dei cuori: si potevano collocare accanto ai
principi degli uomini accorti, che se conquistassero la fiducia e li facessero avvicinare al cattolicesimo.
Se poi il principe era cattolico, si poteva tentare di rendere il dominio sulla
sua coscienza una vera e propria istituzione: nella Baviera dei Wittelshach,
vera roccaforte tedesca del cattolicesimo, i gesuiti proposero a Guglielmo V
nel 1583 di erigere una "mensa conscientiae" sul modello portoghese e
spagnolo. A quel consiglio si doveva proporre in via preliminare la liceità di ogni
scelta politica importante: se muovere guerra, se imporre nuovi tributi, e così
via.
Quelle arti furono attribuite allora soprattutto ai gesuiti,
anche se non furono un loro possesso esclusivo; nell’età confessionale, la
religione dei principi era materia troppo importante per tutti perché l’arte di
controllare il "principe cristiano" non avesse un’infinità di
cultori. Ma il terreno sul quale i gesuiti si videro riconoscere un
primato senza rivali fu quello della
politica dell’educazione. Nel già ricordato memoriale al duca di Baviera, i
punti fondamentali erano proprio quelli della politica educativa: si suggeriva
di far allevare i figli dei nobili "eretici" a corte, insieme al
giovane principe cattolico, attirandoli coi vantaggi dell’apprendimento delle
lingue e delle arti militari. Si aggiungevano proposte di borse di studio e di
buone sistemazioni professionali per i giovani borghesi delle città e dei
borghi "eretici" ai confini dello Stato bavarese. Il sistema dei
collegi destinati alla formazione dei ceti dominanti coprì allora tutta
l’Europa; e non fu certo a caso che, davanti alle prospettive di conquistare la
Russia di Ivan il Terribile al cattolicesimo, Antonio Possevino suggerì
"il rimedio de’ Seminarii". La scienza che apriva le porte della Cina
a Matteo Ricci era anche il mezzo per controllare la formazione dell’élite e
radicarsi così, nella prospettiva di tempi lunghi, in paesi dove ufficialmente
il cattolicesimo non aveva spazio.
Per quanto riguarda la conquista del mondo popolare nei
paesi cattolici, in termini teologici il confronto fu tra i sostenitori della "fides
implicita" e quelli della "fides esplicita". Data la complessità
del sapere teologico, si conveniva che solo un numero molto esiguo di cristiani
potevano addentrarsi nei misteri della fede: ma qual era il nucleo
indispensabile da conoscere per la salvezza? Acosta dedicò un vigoroso capitolo
del suo trattato De procuranda Indorum
salute a polemizzare contro chi
riteneva che ai cristiani "màs
rudos" bastasse la "fides implicita" e che pertanto non fosse
necessario credere esplicitamente in Cristo. Ora, il problema missionario per
eccellenza fu allora quello dell’ignoranza: dalle campagne europee arrivavano
resoconti drammatici. I contadini ignoravano perfino quanti fossero gli dèi
cristiani; in Baviera si diceva che fossero sette come i sacramenti, a Eboli,
nel regno di Napoli, c’era chi diceva "cento, chi mille, chi altro numero
maggiore". Era una situazione che non poteva essere risolta con iniziative
eccezionali; occorreva un’organizzazione stabile e una strategia efficace.
Sul piano dell’organizzazione si trattò di rendere la
"missio" una vera e propria istituzione. I gesuiti, che avevano
scoperto nell’America spagnola l’importanza delle "reducciones", ne
tradussero il modello nella situazione italiana intorno al 1590. Fu deciso
allora che "in tutte le provincie s’instituiscano alcune Missioni".
Nelle istruzioni elaborate dal generale della Compagnia Claudio Acquaviva per
coloro che si recavano ad missiones,
il mutamento di significato del termine è eloquente: la "missione" è
ormai un luogo prima ancora di essere un dovere o un incarico individuale. Già
si intravede in prospettiva la possibilità di rendere il luogo della missione
una residenza stabile, e il fine dell’istituzione di tali missioni era
precisamente indicato nella lotta contro l’ignoranza. Secondo le istruzioni del
generale il percorso dei missionari doveva svolgersi attraverso una serie di
passaggi obbligati, dalla visita iniziale della chiesa della comunità
all’incontro col parroco (per raccogliere informazioni sui peccati principali
della popolazione), fino all’organizzazione di lezioni di dottrina
(pomeridiane) e di prediche e confessioni (al mattino). Si intrecciavano due
scopi: commuovere il cuore del peccatore e portarlo alla penitenza; educare le
menti ai concetti del catechismo. Per i fini scolastici fu la stampa a fornire
gli strumenti principali: si trattò di immagini e soprattutto di fogli volanti,
dove i precetti della dottrina e della pratica religiosa si mescolavano alle regole del galateo. Ma
l’aspetto più rilevante delle missioni fu certamente quello della predicazione
penitenziale. Qui i missionari furono chiamati a integrare e correggere una
deficienza grave del cattolicesimo tridentino: in un momento di forte
discredito e sospetto nei confronti degli ordini religiosi, la riorganizzazione
della struttura diocesana aveva affidato al clero formato nei seminari la cura
della predicazione al popolo. Ma ben presto apparve evidente che quella predicazione aveva forti limiti e non era in grado di
raggiungere l’efficacia dei grandi cicli di prediche dell’avvento e della
quaresima in cui si erano specializzati gli ordini francescano e
domenicano. Inoltre, non bastava avere
riaffermato rigidamente nei decreti conciliari l’obbligo della confessione
individuale per risolvere tutti i problemi connessi all’assolvimento di questo
fondamentale momento d’incontro e di controllo tra clero e popolo.
La questione della penitenza, dell’organizzazione e del
controllo del senso di colpa, restava al centro del cristianesimo moderno, come
mostrava la vicenda della Riforma luterana; risolverlo nel senso di un piccolo
atto abituale e segreto lasciava
insoddisfatto l’aspetto comunitario, sociale della penitenza e della
conversione. Non è un caso che l’ordine che più di tutti si impegnò nel
garantire la segretezza della confessione individuale, diffondendo e
perfezionando il confessionale elaborato dai vescovi della Riforma cattolica
(Giberti e Borromeo), fu anche quello che riscoprì l’importanza della "confessione generale" come
momento di svolta dell’esistenza cristiana e della riorganizzazione complessiva
delle relazioni sociali del penitente. E questo avvenne su di una superficie planetaria e su di un
corpo di fedeli che andava dagli indios
peruviani ai contadini europei. Lo studio dei casi di coscienza, la capacità di
stimolare e controllare le emozioni per mezzo degli esercizi spirituali
ignaziani, la padronanza delle tecniche oratorie e, non ultimo, l’esercizio nelle
arti visive e teatrali costituirono le condizioni originarie del successo.
La missione offrì il quadro ideale per sperimentare sui
fedeli delle campagne i poteri e gli artifici dell’oratoria sacra così come sapevano usarla degli specialisti.
Sull’unità di tempo misurata dall’arrivo e dalla partenza dei missionari – un
arrivo spesso in sordina, una partenza sempre segnata da entusiasmi e lacrime,
dopo un crescendo di "confessioni generali" che lasciava spossati e felici i religiosi – si montarono
macchine teatrali complesse. La chiesa era uno spazio teatrale; altri spazi dello
stesso genere venivano allestiti e addobbati, e si stabilivano percorsi rituali
– le processioni – che li investivano secondo passaggi obbligati.
Il percorso processionale indicava spesso una direzione: per
esempio, dal borgo o dalla città verso la campagna da benedire e includere
nello spazio sacro; indicava sempre, comunque, un ordine ideale ed eterno in
cui la comunità reale si proiettava. Come nella parabola evangelica, qui i
primi e più importanti membri della comunità gareggiavano nel diventare ultimi,
nell’esibire sentimenti di umiliazione e di penitenza – col risultato, in
genere, di riaffermare il loro primato anche nella penitenza. La penitenza
significava cancellazione delle offese, tra Dio e gli uomini ma anche e
soprattutto all’interno della società umana, grazie alla mediazione dei
religiosi. Le "paci" che siglavano il successo della missione erano
il punto d’arrivo fondamentale di tutta la tensione drammatica costruita ad
arte dai predicatori: questo è un elemento strutturale dell’opera missionaria,
che ritroviamo invariato in tutto l’arco
del loro svolgimento, dalle missioni del Landini sull’Appennino tosco-emiliano
alla metà del Cinquecento fino a quelle celeberrime del Segneri.
Le risorse teatrali erano numerosissime; al loro successo si
legava la fama del missionario. Paolo Segneri fu tra i più famosi, tanto che
venne chiamato in Baviera a replicare tra le popolazioni tedesche le
"performances" per le quali era diventato celebre in Italia (il fatto
che ignorasse la lingua delle popolazioni tra cui si recò e che dovesse essere
accompagnato da interpreti è una riprova, se ce ne fosse bisogno, della
preminenza del gesto sulla parola in questo genere di predicazione).
Nella missione del 1672 sull’Appennino modenese fece
costruire una chiesa "boschereccia" di tronchi e fronde come punto di
riferimento per le processioni, in un’area dove si temeva la permanenza di
culti della vegetazione. Nella processione che si articolava dalla chiesa reale
a quella fittizia, esprimendo così il percorso ideale della
"conversione", fece rappresentare tutta una serie di episodi della
storia sacra: "Nelle sue processioni ogni dì più riguardevoli rappresentò
la circoncisione del Signore, la Presentazione dell’istesso, la Presa
nell’horto, la Flagellazione alla colonna, l’Ecce homo, Christo in croce fra’ li due ladroni, e fra questi santi
misterii con Erode, Caifà e Pilato una turba grande di Farisei e Scribi, e
tutti portavano bene la sua parte, ma singolarmente alcuni in modo
ammirabile".
Regista e prim’attore è il missionario, impegnato a trovare
una dimensione spettacolare ai vari momenti di una sosta all’interno della
comunità che deve lasciare il segno. Come far abbandonare le "cattive
abitudini"? Ecco, il modo in cui Segneri seppe organizzare un momento
fondamentale della strategia gesuitica della sostituzione: a chi era schiavo
della colpevole passione per il gioco delle carte propose "che per regalo
gli diano le carte da giocare e a chi le dà con promessa di non più giuocare a
tal giuoco gli dà in contraccambio una
medaglia con l’indulgenza plenaria in articolo di morte". L’idea non era
nuova: parlando degli indios americani, Acosta aveva suggerito di far uso senza
miseria di rosari, acqua benedetta, immaginette varie e di tutta la santa
paccottiglia che doveva dilagare da allora in poi tra i popoli cattolici di
tutto il mondo.
Ma il momento più emozionante di quell’azione teatrale fu
certamente quello della predica sulla penitenza. La predica fu introdotta dalla
flagellazione in pubblico: "Disciolto ad un tratto il cinto della veste
superiore e quella con destrezza gettata tutta da sé su ’l braccio sinistro…,
con la destra tolto un flagello composto di dupplicate lastre di ferro, che si
fa dare da un altro de confratelli pur assistenti, comincia e siegue a battersi
per qualche spatio fieramente con esso, e viene a ridurne con questo l’udienza
a tanta commotione che, quantunque si predichi insieme, nulla più si ode che
gemiti e che singhiozzi profondi, nulla più si vede che pianti". Ed è a
questo punto che il predicatore dà il colpo di grazia alle resistenze degli
uditori, avviando un dialogo con un teschio che si fa destramente offrire da un
altro assistente: "Quando poi finalmente dall’altro fratello richiede lo
specchio delle proprie miserie, cioè un horrido teschio di morte, e quello
prendendo nella mano sinistra e fissamente guardando prende anco (come se
quell’anima sentisse) a parlar seco, ad interrogarla, a dialogare ed a moralizare
con essa nello stato di dannatione; oh,
qui bisogna bene compungersi d’una vita menata sì malamente, oh, qui rimbomba
il luogo; oh, qui risuonano le voci che gridano misericordia, che promettono
restituzione, che promettono pace, che promettono penitenza".
Era teatro: lo
spettatore ne è così consapevole da commentare sottolineando l’abilità del
trascinatore di folle più che la santità del religioso; e i suo commento tra
parentesi – "come se quell’anima sentisse" – è l’equivalente del
"sembra vero" piuttosto che un dubbio sulla sopravvivenza dei morti.
Questa teatralità intensa non era imposta dall’alto: per
quanto i gesuiti fossero stati tra i più solleciti a ricorrere al teatro come
strumento di acculturazione nella loro attività missionaria extraeuropea, nelle
congregazioni della Compagnia si trova di frequente traccia di diffidenza e
tentativi di arginare manifestazioni piene di sacre rappresentazioni, con
diavoli incatenati, danze macabre e fuochi d’artificio. Il popolo non era un
oggetto passivo; il successo stesso della predicazione con le sue promesse di
perdono e di pacificazione generale della comunità, ridava nuova vita e nuove
forme a espressioni antiche della sua cultura, con le quali i missionari
dovevano trovare degli "accomodamenti".
Il fronte degli "accomodamenti" ai quali furono
chiamati i missionari fu tanto vasto quanto vasto e disperso apparve ai loro
occhi il mondo delle pratiche sociali. Un censimento di tutto quello che fu
raccolto allora sotto le categorie "abusi" e "superstizioni"
è il compito preliminare di chiunque voglia studiare seriamente la cultura
delle classi subalterne dell’epoca. L’atteggiamento dei missionari in
proposito, se non è di aperta riprovazione, è almeno di sufficienza, come in
questa relazione dalla Valsesia: "Quando portano il morto fuori di casa
accendono un poco di paglia e gridano per le strade: "dove va il corpo,
vada anche lo spirito". Fanno un certo trentesimo per l’anima de defonti,
e vanno al luogo del defonto, gionti pigliano la testa in mano e cominciano a
piangere dirottamente con tanti gridi che è cosa da ridere. Tengono tutti i
morti esposti in cataste, e le teste in certe cassette, e ben spesso vanno le
donne, le pigliano, le lavano, e poi si mettono a gridare che paiono
pazze".
Non di sufficienza ma di partecipazione pietosa e commossa è
invece l’atteggiamento consueto dei missionari nei confronti delle miserrime
condizioni di vita: e queste tendono a venire sempre di più in primo piano nel
corso del Seicento. Non è solo un riflesso meccanico delle peggiorate
condizioni di vita; è anche il risultato di un ormai incipiente divorzio tra le
funzioni di assistenza spirituale e le esigenze di conquista culturale da cui
le missioni erano nate. A questo si aggiunge che non è più la città il luogo dal
quale deve partire la luce, ma è la religione delle campagne che deve essere
tutelata e proposta a modello delle città in via di scristianizzazione. A parte
la congregazione dei redentoristi di S. Alfonso Maria de’ Liguori che doveva
"aiutare la gente delle campagne", l’emergere di una solidarietà
umana verso i poveri, i diseredati e i sofferenti come parte sostanziale del
progetto missionario si era già reso evidente anche in altri ordini e
congregazioni nel corso del Seicento.
Era nato, sotto l’antica veste del predicatore apostolico,
un personaggio nuovo, carico di futuro, dalle molte facce – un intellettuale
dalle molte abilità esperto nell’arte della comunicazione (visiva, orale, a
mezzo stampa), profeta, etnologo, cospiratore, spia, sovvertitore dell’ordine
costituito, maestro nell’arte di impadronirsi delle coscienze e di dirigerle ai
suoi fini – che non erano i fini di un egoistico successo personale ma quelli
del trionfo del regno di Dio, dunque capaci di giustificare qualsiasi mezzo. Quest’uomo, che possedeva la
verità e aveva un mandato divino a diffonderla – l’"uomo apostolico",
come fu definito abitualmente – aveva il compito di impadronirsi del cuore e
dei pensieri di un’intera popolazione, portandola davanti al tribunale della
confessione per farvi un lavaggio generale delle proprie colpe e impiantare col
suo aiuto il progetto di una vita nuova. Doveva dunque essere non una presenza
abituale, come quella del parroco, ma un passaggio provvidenziale, drammatico
ed eccezionale, imitazione e preannuncio della venuta di Cristo: il
missionario doveva giungere inavvertito
per andarsene via, alla fine, portandosi dietro tutte le colpe della comunità.
Dovunque in Europa si cercò di far accettare le riforme
rigoristiche del consiglio di Trento e dei decreti papali che ne seguirono,
prima fra tutte la clausura. Sarà una lotta tra monasteri e vescovi; vescovi e
ordini religiosi maschili, spesso poco disposti a rinunciare a vantaggio dei
vescovi a forme tradizionali di
direzione in quei monasteri femminili
legati alla stesa regola, che da essi dipendevano; tra le famiglie di origine
delle religiose, che destinavano al chiostro l’eccedenza femminile, e
l’autorità ecclesiastica; tra il potere politico locale, geloso tutore di
antiche autonomie cittadine, e le direttive tridentine e romane.
Gerarchie sociali che si
riproponevano all’interno dei chiostri
In Spagna il movimento tridentino di più stretta osservanza e
ritorno ad una condizione primitiva più aspra ed austera si palesa anche con la
creazione dei rami "scalzi". Il modello spagnolo agirà anche
all’estero.
In Francia la vena riformista prese non solo e non tanto la
forma spagnola, ma della creazione di ordini impegnati socialmente, come le
orsoline, ecc.
Arriverà poi il
quietismo con la sua pericolosa tendenza ad eliminare le gerarchie per avere un
contatto diretto con Dio.
A metà del secolo la routine si assesta in un modo meno aspro
e di violenta ascesi.
Negli archivi della Congregazione romana dei regolari si
possono leggere i provvedimenti irrogati per assicurare la clausura dei
conventi. Tra di essi anche la proibizione del canto polifonico, una rigida
regolamentazione dei tempi, delle attività
e del linguaggo corporeo: silenzio, parole sommesse, gesti misurati e
discreti, se non l’assoluta immobilità della meditazione, controllo dei
movimenti. Alla base di tutto questo controllo c’era l’idea della debolezza
femminile, con l’ossessione della castità. Ne nascevano delle nevrosi. In
diversi conventi le religiose asserivano di vedere diavoli.
Non erano rare penitenze autoinflitte allucinanti (ricamarsi
sulla pelle gli strumenti della passione, abiti di crine, autoflagellazioni
ecc.)
Viene proposto come lenitivo delle aspre condizioni di vita
del convento la devozione al corpo di Gesù bambino, al corpo della Vergine. La
"devozione sensibile" sente e gusta la presenza dell’essere divino.
La segregazione acuiva, anziché reciderli, i sentimenti per la
famiglia di origine, fossero di denunzia o di tenero affetto. Ci è stato
conservato lo straordinario epistolario di Suor Maria Celeste del monastero di
San Matteo di Arcetri (Virginia Galilei) col suo padre illegittimo, Galileo
Galilei, il fratello, la cognata ecc.
DENUNZIA DI UNA CONDIZIONE E AMORE DELLE LETTERE
2000 donne erano rinchiuse senza vocazione nei conventi della
Venezia di metà Seicento
Angela Tarabotti, nobile rinchiusa in un convento veneziano ha
scritto L’inferno monacale,
infarcendolo di brillanti citazioni, con espressioni eccezionali: parla di
donne rinchiuse nel "ventre d’un chimerico e sozzo animale",
"poco dissimile dagli abbissi infernali", in un "teatro in cui
si recitano funestissime tragedie", dove l’inganno aveva tracciato per
molte "sventurate" la trama oscura di un "perpetuo
laberinto".
Francesca di Gesù Maria, monaca ascetica, ci ha lasciato invece
poesie devote. Sprazzi quetistici affiorano nella produzione di Francesca di
Gesù Maria
Nel caso di Juana inés de la Cruz, reclusa contro la sua
volontà in un convento del Nuovo Mondo e dedita sin da giovanissima agli studi
riservati agli uomini, il sapere rappresentava un mezzo di trasgressione. Altre
monache evadevano dalla quotidianità del convento intrattenendo relazioni
politiche. Suor Maria d’Agreda, mistica spagnola che ebbe corrispondenza con
Filippo IV tra il 1643 e il 1665. Non mancano vicende avventurose, come quelle
di Marie de l'Incarnation, madre, vedova, donna d'affari e infine monaca e
missionaria in Canada tra gli algonchini
La vicenda manzoniana della monaca di Monza, come è noto,
rispecchia quella reale di Suor Virginia Maria de Leyva.
Nel 1622 suor Virginia Maria de Leyva, la monaca di Monza,
vide cadere il muro che ostruiva la porta della cella, larga tre braccia e
lunga cinque, nella quale, nel convento delle convertite di Santa Valeria di
Milano, era vissuta reclusa per tredici anni, ricevendo da una piccola apertura
quel po’ di cibo che le era consentito e un filo di luce per la lettura
dell’uffizio, a espiazione della condanna inflittale per la sua relazione
delittuosa con Gian Paolo Osio.
Se la condanna fu severa, rientrava nella normativa
dell’epoca, di cui v’è traccia non labile nelle decisioni più volte ricordate
della Congregazione dei regolari. E basterà soltanto ricordare come, quasi
negli stessi anni della scarcerazione di Suor Virginia, venisse consentito
dalla Congregazione anche ad una religiosa pistoiese di lasciare la cella dove
"per peccato di fragilità" era stata rinchiusa per ventinove anni; e
come invece, ancora più tardi, nel 1661, si concludesse, dopo ben trentacinque
anni di duro carcere penitenziale, la singolare vicenda esistenziale, posta in
luce da una recente ricerca, di suor Benedetta Carlini, badessa del monastero
della Madre di Dio di Pescia, accusata di trasgressione sessuale, di lesbismo,
ma soprattutto di reiterate trasgressioni allo statuto monastico, con le sue
rivendicazioni di favori miracolosi e di notorietà.
Tra i documenti delle passioni proibite delle religiose ebbero
grande diffusione le Lettere portoghesi (1669),
cinque lettera d’amore di una presunta monaca portoghese (il Portogallo andava
di moda in Francia), presumibilmente scritte da Gabriel-Joseph de Lavergne,
conte di Guilleragues, esponente della nobiltà di toga, destinato ad alte
cariche pubbliche.
Secondo le parole che Gian Battista De Luca, scrittore
ecclesiastico riformatore scrisse intorno al 1679, coloro che sono sotto
clausura sono "persone, le quali volontariamente patiscono quella pena,
ch’è forse la maggiore, doppo la capitale, d’un perpetuo carcere". Egli parla
di "asprezze, penitenze" imposte "da’ Superiori e da’
Confessori".
RIBELLIONE E OBBEDIENZA TRA GESUITI E GIANSENISTI
Epidemie di possessioni diaboliche dilagano nella Francia
della reggenza di Maria de’ Medici e Richelieu, nei centri urbani.
A partire dal 1632
inizia la vicenda di Loudun
La ribellione delle religiose di Port Royal. Ripristinata la
clausura nel 1609 ad opera di Mère Angélique Arnauld, sorella del grande
Arnauld, il monastero cistercense di Port-Royal des Champs, ubicato in una zona
umida e malsana, verrà abbandonato nel 1625 per la più confortevole, ma pur
sempre austera, sede di Parigi sino al 1648, allorché gran parte della comunità
rientrerò a Port-Royal des Champs una volta che nella zona furono compiuti i
necessari lavori di bonifica. Il periodo parigino era stato soprattutto
contrassegnato dai rapporti con Saint-Cyran, divenuto direttore spirituale del
monastero, scomparso nel 1643, e con i "solitari", cioè con quel
gruppo di dotti e studiosi laici ed ecclesiastici che seguiranno la comunità
monastica nel suo ritorno alla dimora originaria, e il cui destino si
intreccerò con quello del monastero, allorché esploderà la crisi giansenistica.
Il coinvolgimento di Port-Royal nelle
vicende connesse al giansenismo esploderà, com’è noto, all’indomani stesso
della condanna da parte di Roma delle cinque proposizioni dottrinali tratte
dall’Augustinus di Giansenio (1653).
La celebre distinzione indicata da Arnauld tra la questione di diritto e quella
di fatto – cioè che le proposizioni, seppure condannabili, non si trovassero
nell’Augustinus – e le polemiche che
ne scaturiranno, accentuate dalla imposizione della sottoscrizione di un
formulario di accettazione della condanna, trasformeranno per le religiose di
Port-Royal quel che era un pur grave problema di disciplina ecclesiastica in un
grandioso problema di coscienza. Simbolo, allora e dopo, della resistenza
dell’intero movimento giansenista, il loro rifiuto di piegarsi alla pura e semplice
sottoscrizione del formulario finirà col trascendere la vicenda stessa, per
trasformarsi nell’appello, più volte rinnovato, alla responsabilità religiosa
individuale di contro ad una Chiesa gerarchica ed autoritaria e ad n potere
politico intollerante e repressivo.
Lo scontro, solo momentaneamente sopito con un compromesso nel
1661, si aprirà nuovamente allorché nel 1664 l’arcivescovo di Parigi, Hardouin
de Péréfixe, intimerà la sottoscrizione pure e semplice del formulario, nel
corso di una drammatica visita personale al monastero, la cui consacrazione
letteraria si è ripetuta più volte nel tempo, dal quasi coevo Abregé de l’histoire de Port–Royal di
Racine alle pagine di Sainte-Beuve nel secolo scorso al noto lavoro teatrale di
Henri de Montherlant nel nostro secolo (1954). Con la ripresa della battaglia
antigiansenista dopo un decennio di relativa tranquillità (1669-79), Port-Royal
appare come condannato ad una lenta estinzione. Disperse le monache
irriducibili e proibite nuove vestizioni nel monastero, escono gradualmente di
scena le religiose che ne avevano rappresentato i momenti più alti, come la
seconda Mère Angélique, nipote della precedente, morta nel 1684, e i
protagonisti degli scontri più intensi, Arnauld e Nicole. Li seguirà nella tomba,
nel 1699, uno dei maggiori estimatori, con Pascal, della grandezza tragica di
Port-Royal, quel Racine che due anni prima, quasi a ultima testimonianza di un
quarantennio di lotte, aveva steso segretamente il suo famoso Abrégé, e che volle essere sepolto nel
recinto dell’amatissima abbazia, disegnatasi sempre quale filigrana indelebile
lungo tutta la sua vita dietro i trionfi letterari e cortigiani.
Doveva passare solo un altro decennio perché, nel clima
"gesuitico" degli ultimi anni del regno di Luigi XIV, contro
Port-Royal si adottasse di nuovo la maniera forte e perché il simbolo di una
pervicace volontà di dissenso, agli occhi del Re Sole, venisse spietatamente
cancellato. Dalle rovine di Port-Royal nascerà il mito di Port-Royal, che l’abbé
Grégoire lancerà con passione non attenuata dopo gli anni rivoluzionari quale
luogo sofferto della memoria e insieme momento di meditazione religiosa.
"QUEL CORALLO
CHE SOTTO L'ONDE DEL MARE E' TENERO…": LA RELIGIOSA TRA CONTRORIFORMA E
ILLUMINISMO
Prese sempre più piede nei monasteri la pratica dell’orazione
mentale, che i gesuiti furono autorizzati ufficialmente tra il 1612 e il 1620
dalla Congregazione romana dei regolari a diffondere nei monasteri femminili di
Milano e di Palermo e certamente anche altrove.
Fu utilizzato anche il Ritiramento
spirituale del padre Camillo Ettori (1685), con gli esercizi spirituali
resi "facilissimi", tanto per le religiose quanto per i secolari, che
tra Sei e Settecento un numero davvero straordinario di edizioni e di
traduzioni.
Tra gli scogli del rigorismo e del quietismo si afferma un
modo più ragionevole di attuare la clausura (vengono lasciati alla discrezione
i colloqui tra novizie e monache ecc.), che ha Gian Battista De Luca come
esponente di punta del riformismo ecclesiastico austero e istituzionale.
Un’opera che si scaglia
contro "la falsa dottrina dell’orazione di quiete" è La religeuse di Diderot
Allarmante aumento di infanticidii e aborti verificatisi
dopo il 1550 in tutta l’Europa parallelamente al deteriorarsi delle condizioni
economiche.
Nel 1728 una levatrice
ungherese di Szegerin fu accusata di aver battezzato 2.000 neonati nel nome del
Diavolo.
Il numero di donne rispetto agli uomini aumentava con le
guerre e le pestilenze. Era aumentato il numero di donne che non si erano mai
sposate: dal 5% alla fine del Medioevo a circa il 10-20% nel XVII secolo,
sviluppo che coincise con l’aumento dell’età matrimoniale. I conventi, con la
Riforma, vennero chiusi, e la percentuale di donne nelle comunità aumentò.
Le accuse di stregoneria divennero una tra le molte armi
usate per combattere l’usanza dei matrimoni combinati, costume che andò
perdendo gradualmente di popolarità
nella prima età moderna per l’insistenza sempre maggiore dei riformatori sulla
fedeltà coniugale e per l’età più avanzata degli sposi.
Droghe erano ampiamente disponibili nell’ambiente rurale del
XVII secolo. Piante del tipo della belladonna contenevano atropina, che,
sfregata sulla pelle, poteva produrre vertigini e delirio, mentre narcotici
come la pianta del giusquiamo causavano a volte violente allucinazioni.
Gli uomini, sia di area cattolica che protestante,
pretendevano chele donne fossero ubbidienti, sottomesse e rinunciatarie. In
altri termini, "buone mogli". Ponendo queste condizioni, gli uomini
presumevano che per natura le donne non fossero inclini a comportarsi in questo
modo, come molta letteratura del XVII secolo sembra suggerire.
Il bisogno d’ordine è ovviamente una costante della natura
umana, e ogni epoca si è indubbiamente impegnata per soddisfarlo. Ma nel XVII
secolo esso era oggetto di particolare preoccupazione, soprattutto a causa
della diffusa consapevolezza che l’antico ordine fosse crollato. Senza dubbio
il tradizionale assetto ecclesiastico era stato sconvolto al tempo della
Riforma, e molte delle tensioni religiose
dei centocinquant’anni che seguirono furono dedicate a restaurarlo o
sostituirlo. In specie tra i protestanti, che avevano rifiutato globalmente la
struttura delle Chiesa cattolica, il bisogno di una nuova disciplina interna e
religiosa era di capitale importanza. Il problema politico non era meno grave.
La prima età moderna era caratterizzata da una serie quasi continua di
ribellioni delle classi inferiori, e la metà del XVII secolo fu testimone di
molte importanti sollevazioni, inclusa la prima grande rivoluzione dei tempi moderni
in Inghilterra. Il crescente disordine all’interno della società era certo una concausa di
queste ribellioni. Il diminuito livello di vita, la crescente disoccupazione,
l’inflazione in continuo aumento e l’incremento della popolazione in molte
città creavano inquietudini sociali senza precedenti e sottoponevano i vecchi
meccanismi di governo a tensioni insopportabili. All’interno della società vi
erano frequenti sfide alle gerarchie tradizionali, e nelle famiglie si era
diffusa una resistenza ad accettare il ruolo del patriarcato. Persino l’ordine
dei cieli sembrava essere sconvolto, perché l’universo medievale
aristotelico-tolemaico crollava sotto l’influenza del modello eliocentrico di
Copernico. Sintomatico di questa multiforme crisi dell’ordine era il profondo
senso dell’incombente distruzione e del caos, che caratterizza tanta parte della
letteratura del tardo Cinquecento e del primo Seicento.
La strega divenne il simbolo del caos e del disordine. La
strega partecipava a quel movimento che tentava di rovesciare il mondo,
simboleggiato dall’insieme dei rituali di inversione celebrati al sabba.
Nel 1661 i realisti scozzesi, al fine di gettare discredito
sui presbiteriani da loro recentemente sconfitti, affermavano che "la
ribellione è madre della stregoneria".
Gran parte di questi
discorsi sulla ribellione erano puramente retorici e rispecchiavano le paure e
le insicurezze di una posizione maschile minacciata più che i timori per le
attività della strega stessa. Come abbiamo visto, la maggioranza delle
imputazioni dirette alle streghe erano senza fondamento. Le streghe non si
riunivano al sabba, non congiuravano contro la Chiesa o lo Stato né copulavano
con i demoni. Pochissime tra loro fecero patti con il Diavolo. In gran parte
non erano per nulla implicate in pratiche di magia malefica. Le streghe furono
i classici capri espiatori, vittime delle nevrosi dell’élite dominante e della
miseria delle classi popolari.
Non di rado, nella storia successiva, sono stati individuati
gruppi di devianti o marginali come origine dei propri problemi; sono stati
accusati di crimini non commessi.
I cosiddetti padri fondatori della scienza moderna (Keplero,
Galilei, Bacon, Descartes, Harvey, ecc.) parlano spesso di scienza, ma non
usano la parola "scienziati" (che è un termine ottocentesco). La condizione
dello "scienziato" nell’età di Copernico e di Cardano era ancora
quella dell’intellettuale medievale: o uomo di chiesa o professore o medico.
Nel corso dei Seicento si verificano una serie di modificazioni importanti:
nascono le prime istituzioni scientifiche e viene proposta una immagine della
scienza la quale contiene alcuni elementi che ci consentono di riconoscerla
come "nostra".
Si è proiettato sul passato l’immagine dello scienziato
dell’800: una specie di positivista paziente sperimentatore ed
antiaristotelico, che non ha quasi nulla a che fare con la realtà storica.
Nel corso di 31 anni, fra il 1626 e il 1657 muoiono Francis
Bacon, Johannes Kepler, Robert Fludd, Roberto Burton, Galileo Galilei, Giovanni
Battista van Helmont, Bonaventura Cavalieri, Marin Mersenne, René Descartes,
Pierre Gassendi, William Harvey. Francis Bacon è un celebrato filosofo che
invece che trattati pubblica aforismi, che detesta le università, che si
impegna in politica fino a diventare ministro, che prima di essere processato
per corruzione vive nel fasto e possiede una muta di più di cento levrieri.
Keplero a ventitré anni va a insegnare matematica e astronomia a Graz; diventa
assistente di Tycho Brahe all’osservatorio di Uraniborg, la prima istituzione
scientifica europea dove si svolge ricerca, si stampano libri e si insegna
astronomia fuori dall’università; nel 1601 viene nominato matematico imperiale
ma vive una vita misera guadagnando con
gli oroscopi e lottando per oltre sei anni per salvare la madre, accusata di
stregoneria, da una condanna al rogo. Galilei è professore di matematica a Pisa
e a Padova ed aspira invano ad una cattedra di filosofia, non disdegna la
fabbricazione di strumenti, diventa "primario matematico e filosofo"
del granduca di Toscana, subisce un processo, una condanna per aver sostenuto
tesi eretiche e pronuncia in ginocchio davanti ai cardinali della Congregazione
una pubblica abiura delle sue convinzioni copernicane. Descartes è un militare,
un critico feroce delle scuole e delle università, scrive il suo testo più
celebre nella forma di un’autobiografia, scopre in sogno i fondamentali di una
nuova scienza meravigliosa, vive di una modesta rendita, rinuncia a rendere pubblica
la sua fisica dopo aver saputo della condanna di Galilei, termina la sua vita
come precettore privato di Cristina di Svezia. Mersenne è un religioso
dell’ordine dei Minimi che dal convento diventa il corrispondente e il punto di
riferimento di tutti gli scienziati e dotti del suo tempo.Van Helmont è un
medico, così come il mago rosacruciano Robert Fludd; medico è anche Harvey, che
studia a Padova, diventa membro del Royal College of Physicians e medico di
Giacomo I e non abbandona mai un aristotelismo di fondo. Cavalieri è un
religioso dell’ordine dei gesuati di San Gerolamo, e insegna matematica
all’università. Gassendi è un prete frequentatore di medici e scienziati,
professore di astronomia nel Collegio Reale di Parigi.
La scienza del Seicento non nasce però solo ad opera dei
grandi personaggi Viene costruita, ed anche propagandata ed energicamente
difesa, da una folla composita e variopinta: professori di matematica ed
astronomia nelle università, insegnanti di queste stesse discipline (in specie la
matematica) fuori dalle università, medici, farmacisti, alchimisti, chirurghi,
viaggiatori, filosofi naturali e cultori di filosofia meccanica, artigiani
colti e "virtuosi". Si trattò di una sorta di "età libera"
fra il magister artium medievale e il
dottorato o il Ph. D. dell’età moderna. Per diventare "scienziati"
non erano necessari in quell’età, né il latino, né la matematica, né un’ampia
conoscenza di libri, né una cattedra universitaria. La pubblicazione sugli atti
delle accademie e l’appartenenza alle società scientifiche erano aperte a
tutti: professori, sperimentatori, artigiani, curiosi, dilettanti. Nonostante
le opportune e recenti correzioni ad una troppo rigida contrapposizione
università-accademie, la tesi relativa al carattere marginale delle università
nella rivoluzione scientifica conserva una sua indubbia verità. E’ vero che
quasi tutti i grandi scienziati del Seicento (e del Settecento) hanno studiato
nelle università, ma è anche vero che sono pochissimi gli scienziati la cui
carriera si sia svolta per intero o prevalentemente all’interno delle
università. Queste ultime, nel Seicento, restano nel più dei casi chiuse alle
scoperte della fisica, astronomia, botanica, zoologia e chimica, continuando a
coltivare ricerche di matematica e medicina, ma restando nella sostanza
estranee alle dottrine della nuova filosofia "meccanica" o
"sperimentale" che si diffonde non attraverso i corsi universitari,
ma attraverso libri, periodici, atti delle accademie e delle società scientifiche,
lettere private.
Nel 1663 circolava a Londra una Ballata del Gresham College, che era un’associazione fondata da un
gruppo di amici: "Il Gresham College sarà d’ora innanzi / l’università
dell’intero mondo / Oxford e Cambridge suscitano il riso, / la loro dottrina è
solo pedanteria"
I bordi di quell’arazzo che fu intessuto da maghi e alchimisti
nell’età del Rinascimento si sovrappongono in più punti al tessuto della
scienza e della tecnica moderna. La tradizione ermetica non è certo scomparsa
nella prima metà del Seicento. Basta pensare, per rendersene conto, alla
violenza polemica delle pagine scritte da Bacon fra il 1603 e il 1620, ai duri
attacchi di Mersenne negli anni’20 del Seicento,alle polemiche tra Mersenne e
Robert Fludd e tra Fludd e Keplero. Le sistemazioni "triadiche" dei
manuali prospettano immaginarie distanze temporali. Ma la Metafisica di Campanella esce a Parigi l’anno successivo alla
pubblicazione del Discorso sul metodo.
L’immagine di derivazione positivista di una marcia trionfale del sapere
scientifico attraverso le superstizioni della magia sembra oggi definitivamente
tramontata. Attraverso una serie di studi importanti (Eugenio Garin, Walter
Pagel, Frances Yates, Allen Debus, D.P. Walker, Paola Zambelli, Charles
Webster) ci si è resi conto, con sempre maggiore chiarezza, del peso rilevante
che la tradizione magico-ermetica ebbe ad esercitare su non pochi esponenti
della rivoluzione scientifica.
Nella sua difesa della centralità del Sole Copernico aveva
invocato l’autorità di Ermete Trismegisto. A Ermete e a Zoroastro si era
richiamato all’inizio del Seicento William Gilbert, che aveva identificato la
sua dottrina del magnetismo terrestre con la tesi "magica" dell’animazione
universale. Di fronte al De Magnete è
davvero difficile (anche volendo ammettere che la domanda abbia un senso)
rispondere al quesito se si tratti dell’ultima opera della magia naturale del
Rinascimento o di una delle prime opere della scienza sperimentale. Anche se
tutti i trattati sul magnetismo si aprono col nome di Gilbert, la scienza di
quest’autore non ha nulla a che fare né con la matematica e i suoi metodi, né
con la meccanica in senso galileiano. Gilbert pensa all’attrazione come ad una
forza spirituale, ritiene che la calamita abbia un’anima (superiore a quella
dell’uomo), concepisce la Terra come la mater
communis nel cui utero si formano i metalli.
Bacon conduce, come si è detto, una polemica violenta contro
la filosofia "fantastica, tumida e superstiziosa" dei maghi e degli
alchimisti, qualifica Paracelso "un fanatico accoppiatore di
fantasmi", ma parla di "percezioni", "desideri",
"avversioni" della materia ed è fortemente condizionato, nella sua
concezione delle forme (che è al
cuore della sua fisica) dal linguaggio e dai modelli presenti nella tradizione
alchimistica. Quando accetta la tesi che il fuoco posa far apparire sostanze
non preesistenti, quando si sofferma sulle difficoltà che derivano dalla
"contemporanea introduzione di più nature in un corpo solo" si muove
entro un ordine di problemi tipicamente alchimistico.
Keplero è un conoscitore profondo del Corpus Hermeticum. Ritiene che esista fra le strutture della
geometria e quelle dell’universo, mette in relazione il numero dei pianeti e le
dimensioni delle loro sfere coni rapporti intercorrenti fra i cinque solidi
regolari o "cosmici" di cui aveva parlato Platone, la sua tesi di una
musica o armonia celeste delle sfere è profondamente imbevuta di misticismo
pitagorico. Per Keplero, che non conosce il principio di inerzia né possiede la
nozione di forza centripeta, una velocità uniforme continua richiede
l’applicazione di una forza motrice continua. L’esistenza di un
"anima" nel Sole è indispensabile al funzionamento del sistema.
Descartes è diventato per i moderni il simbolo del pensiero
razionale. Ma anteponeva, da giovane, i risultati dell’immaginazione a quelli
della ragione; si dilettava, come avevano fatto tanti maghi del Cinquecento,
alla costruzione di automi e di "giardini d’ombre", insisteva, come
avevano fatto tanti seguaci del lullismo magico, sull’unità e armonia del
cosmo. Sono temi che, in chiave diversa, compariranno anche in Leibniz,nella
cui "caratteristica universale" confluiscono temi attinti alla
tradizione del lullismo ermetico e cabalistico. Nella sua nuova logica Leibniz
vedeva una "magia innocente" e una Cabala non chimerica". Era un
lettore appassionato di testi ai quali sarebbe davvero arduo attribuir la
qualifica di "scientifici".
Anche in Harvey, nella sua immagine del cuore come "Sole
del microsomo" riecheggiavano i temi della letteratura solare. Perfino
nella concezione newtoniana dello spazio come sensorium Dei sono state rilevate influenze delle correnti
neoplatoniche e della cabala giudaica. Newton non solo leggeva e riassumeva
testi alchimistici, ma dedicò all’alchimia moltissima ore della sua vita. Dai
suoi manoscritti risulta anche chiara la sua fede in una prisca
theologia (che è uno dei temi centrali dell’ermetismo) la cui verità deve
essere provata mediante la nuova scienza sperimentale.
Questo della verità e del progresso concepito anche come un "ritorno" è
davvero un tema centrale. Francis Bacon aveva presentato la sua grande riforma
del sapere come una instauratio, come
l’adempimento di un’antica promessa. La nuova scienza operativa avrebbe consentito di restaurare
quel potere sulla natura che l’uomo ha perduto dopo il peccato. Egli pensava
che le "favole antiche" fossero non un prodotto della loro età, ma
invece simili a "sacre reliquie e arie lievi spiranti da tempi migliori,
tratte dalle tradizioni di nazioni più antiche e trasmesse ai flauti e alle
trombe dei Greci". L’idea che il sapere vada risuscitato, che esso sia in qualche modo nascosto nei tempi più remoti
della storia umana, che prima della filosofia dei Greci fossero state
intraviste alcune fondamentali verità in seguito cancellate e perdute è certo
un tema "ermetico", che attraversa però una larga parte della cultura
del Seicento e che ricompare anche negli autori nei quali meno ci si aspetteremmo
di trovarlo. Come per esempio nelle Regulae
di Cartesio, deciso sostenitore della superiorità dei moderni.
Nel De mundi systemate,
composto fra il 1684 e il 1686, Newton faceva risalire la tesi copernicana non
solo a Filolao ed Aristarco, ma a Platone, Anassimandro, Numa Pompilio, e
riprendeva la tesi dell’antica sapienza degli Egiziani, "i quali
rappresentavano, con riti sacri e geroglifici misteri che travalicavano la
comprensione popolare". Negli Scolii
classici (di recente pubblicati da Paolo Casini) Newton manipola
accortamente i suoi autori, sceglie con cura le citazioni, intende mostrare che
i filosofi antichi avevano conosciuto i fenomeni e le leggi dell’astronomia
gravitazionale. Anche se in forma simbolica, già nei tempi più remoti della storia
si sapeva che la forma dell’attrazione diminuisce in ragione del quadrato della
distanza.
Si è certo grandemente ecceduto nella presentazione di Bacon e
di Newton come pensatori "ermetici", ma è indubbio che la posizione
di Bacon nei confronti delle "favole antiche" non è facilmente
decifrabile e che Newton fu fermamente convinto di star riscoprendo verità di filosofia naturale che già si erano
affacciate nei tempi remoti dopo il peccato e che gli antichi saggi avevano, a
loro volta, parzialmente riscoperto. Il gran libro della natura era già stato
decifrato. Il progresso
dell’astronomia fu concepito da Copernico, da Keplero, dallo stesso Galilei,
anche come un ritorno.
La metafora di un arazzo nel quale si sovrappongono e si
intrecciano fili non implica affatto che si debba rinunciare (come molti sono
stati tentati di fare) a distinguere tra i fili e il colore dei fili. Dalla grande tradizione della magia naturale
del Rinascimento, i moderni accolsero un’idea di importanza centrale: il sapere
che ha per oggetto la natura non è solo contemplazione e non è solo
"teoria". E’ anche operazione, manipolazione, intervento. Il dominio
e il controllo della natura sono fini costitutivi ed essenziali alla scienza, e
ciò che chiamiamo "realtà" ha a che fare non solo con ciò che pensiamo del mondo, ma anche con ciò che
facciamo nel mondo.
L’espressione letterariamente più efficace è, al solito,
quella del Lord Cancelliere: bisogna leggere con umiltà nel gran libro della
natura, bisogna ripulire lo specchio appannato della mente e "rifarsi
simili a fanciulli", ma bisogna anche imparare a "torcere la coda al
leone".
L’idea che conoscere il mondo abbia a che fare con la sua
trasformazione (o che, addirittura, si dia un’identità tra conoscere e fare)
attraversa la cultura scientifica del Seicento. In ciò che viene comunemente
chiamato meccanicismo opera non solo
l’idea che gli eventi naturali possano essere descritti mediante i concetti e i
metodi di quel ramo della fisica che viene detto meccanica, ma opera anche, e con una forza straordinaria, l'idea
che proprio gli ordigni e le macchine costruiti dall’uomo possano costituire un
"modello privilegiato" per la comprensione della natura.
Gli ordigni, le macchine, le arti meccaniche vengono concepiti
in modi lontani dalla tradizione. Agli occhi di Bacon le "arti
meccaniche" contengono un sapere che si è finora affermato ai margini
della scienza ufficiale, nel mondo dei costruttori di edifici, di navi, di strumenti,
degli ingegneri minerari, dei numerosi artigiani che trattano con abilità i
materiali più vari: le loro attività servono a "rivelare i processi della
natura" e sono una forma di conoscenza. Le tecniche (a differenza di
quanto accade nella filosofia e in tutte le altre forme del sapere) sono capaci
di progresso, crescono cioè su sé medesime, e ad una tale velocità "che i
desideri degli uomini vengono a mancare prima ancora che esse abbiano raggiunto
la perfezione". Inoltre nelle arti meccaniche vige la collaborazione, ed
esse sono una forma di sapere collettivo: "in esse confluiscono gli
ingegni di molti, mentre nelle arti liberali gli ingegni di molti si
sottoposero a quello di una sola persona". I metodi, le procedure, il
linguaggio delle tecniche devono diventare oggetto di riflessione e di studio:
la "experientia erratica" dei meccanici, il disperso sapere di coloro
che si servono delle mani per modificare la natura deve essere sottratto al
caso e alla deleteria influenza dei maghi e degli alchimisti, deve dar luogo ad
un corpus organico e sistematico di
conoscenze. In tutta la tradizione filosofica, da Platone fino a Bernardino
Telesio, è stata introdotta una frattura fra la teoria e la pratica, il sapere
e l’operare, il conoscere il mondo e l’intervenire sul mondo; chiedersi se le
verità della scienza dipendano dai metodi impiegati per determinarle o dalla
loro utilità pratica è, per Bacon, un dilemma privo di senso: le due
"gemelle intenzioni umane, la Scienza e la Potenza" coincidono in
una: se è vero che la capacità di dar luogo ad opere è la garanzia della verità
del metodo è altrettanto vero che solo un metodo vero è in grado di produrre
opere reali: ricerca teorica e attività pratica sono, così intese, la stessa
cosa, e ciò che è più utile nelle operazioni è anche ciò che è più vero nella
teoria (ista duo pronuntiata, activum et
contemplativum, res eadem sunt, et quod in operando utilissimum, id in sciendo
verissimum). In questo senso i risultati pratici non sono solo benefìci per
la vita, ma anche pegni della verità (opera
non tantum beneficia, sed et veritatis pignora sunt).
Keplero nega che l’universo sia "un divino essere
animato" e lo concepisce come simile ad un orologio nel quale tutti i
movimenti "dipendono da una semplice forza materiale". Cos’è il cuore
se non una molla, i nervi se non molte corde? – si domanda Hobbes –. Cartesio
si era fermato sulle macchine che, pur costruite dagli uomini, sono
"semoventi", e aveva paragonato i nervi ai "tubi delle macchine
delle fontane", i muscoli e i tendini a congegni e molle. Per Boyle
l’intero universo è "una grande macchina semovente" e tutti i
fenomeni vanno per questo considerati nei termini "dei due grandi e
universali principi dei corpi: la materia e il movimento. Sulle cose naturali,
afferma Gassendi, indaghiamo allo stesso modo in cui indaghiamo "sulle
cose di cui no i stessi siamo gli autori".
Il mondo dei fenomeni ricostruibili mediante l’analisi e il
mondo dei prodotti artificiali, costruiti con le mani o costruiti come entità
possibili dall’intelletto, sono le uniche realtà di cui si possa avere scienza.
Possiamo conoscere o le macchine o il mondo reale in quanto esso sia
riconducibile al modello di una macchina. Le tradizionali impostazioni relative
al rapporto tra la Natura e l’Arte vengono qui consapevolmente rovesciate.
L’Arte non è (come voleva una diffusa tradizione medievale) "la
scimmia" della natura e non è "in ginocchio" davanti alla
Natura. I prodotti dell’Arte non sono né differenti né inferiori a quelli della
Natura. Su questo punto anche Cartesio insiste con forza: "non si dà
alcuna differenza fra le macchine che costruiscono gli artigiani e i diversi
corpi che la natura compone". Sia Cartesio sia Gassendi accolgono la tesi
di Bacon che nega ogni differenza di essenza fra oggetti naturali e oggetti
artificiali: "E’ stata a lungo prevalente l’opinione che l’arte sia
differente dalla natura e le cose
artificiali differenti dalle naturali Questo dovrebbe invece penetrare in
profondità nelle menti: le cose artificiali non differiscono dalle naturali per
la forma o l’essenza, ma solo per la causa efficiente".
Se il mondo è una macchina, non solo cade l’antica immagine di
una corrispondenza fra l’uomo microcosmo e l’universo macrocosmo, ma cade anche
l’idea che il mondo sia costruito a misura dell’uomo. All’interno della nuova
concezione del rapporto Arte-Natura si fa strada la tesi che la conoscenza
delle essenze e delle cause ultime è preclusa all’uomo, che essa non interessa
la scienza, è riservata a Dio in quanto artefice o costruttore o orologiaio del
mondo. Il criterio del conoscere come
fare e dell’identità fra conoscere e costruire vale per l’uomo come vale
per Dio. L’intelletto umano ha pieno accesso alle verità della matematica e
della geometria in quanto esse sono verità
costruite, ma non potrà mai accedere né alle quidditates rerum intimae né agli arcana naturae: la scienza può essere e intende essere solo
conoscenza fenomenica del mondo. Conosciamo le "vere ragioni – scrive
Mersenne – solo di quelle cose che possiamo costruire con le mani o con
l’intelletto". Hobbes è certo su posizioni molto diverse, ma è del tutto
d’accordo su questo punto: la geometria è dimostrabile perché le linee e le
figure sono tracciate da noi stessi ed anche la filosofia civile è
dimostrabile, "perché noi stessi costruiamo lo Stato". Sui corpi
naturali possiamo solo enunciare ipotesi.
L’idea del conoscere e del fare e costruire avrà un’influenza
decisiva anche sulla considerazione del mondo sociale e politico. Le
affermazioni di Hobbes sono state giustamente avvicinate a quelle di Vico sulla
identità verum-factum. Nella Scienza Nuova il mondo della storia
apparirà a Giambattista Vico conoscibile ed oggetto di scienza, in quanto fatto
e costruito dagli uomini.
L'EGUAGLIANZA DELLE INTELLIGENZE
Per tutti gli esponenti della cultura magica e alchimistica,
per tutti i seguaci della tradizione ermetica, i testi dell’antica sapienza si
configurano come libri sacri nei quali sono racchiusi segreti che solo pochi
eletti o "iniziati" possono decifrare. La verità è nascosta nel passato
e nel profondo. E’ tanto più preziosa quanto più è nascosta. Va ricercata e
decifrata al di là degli accorgimenti che furono impiegati per tenerla nascosta
a coloro che non ne sono degni. E’ sempre necessario andare "oltre la
lettera", alla ricerca di un messaggio di volta in volta più nascosto. Il
confine tra la figura del mago e quella del sacerdote appare difficilmente
determinabile. Anche quando la magia accentua le caratteristiche di
"naturalità" delle operazioni magiche, essa non riuscirà mai a
liberarsi né dalla ambigua concezione del metodo come iniziazione, né
dall’immagine del mago come essere eccezionale, come "eletto".
"L’ardore della gente nell’aprire scuole" sembrava a
Jan Amos Komenský (latinizzato in Comenius), intorno agli anni ’30 del
Seicento, una delle caratteristiche dei tempi nuovi. Da quell’ardore deriva
anche "il grande moltiplicarsi dei libri in tutte le lingue affinché anche
i bambini e le donne possano acquistare familiarità con essi". L’impegno
in favore di un sapere universale, comprensibile a tutti perché a tutti
comunicabile, diventa un tema centrale e dominante. Alcune convinzioni sulla
natura umana, sulle vie di accesso alla verità, sui procedimenti del conoscere
vengono espresse con una radicalità che può apparire sconcertante solo a quegli
studiosi che hanno sottovalutato la presenza della tradizione ermetica e il
peso esercitato sulla cultura (anche quella scientifica) dal naturalismo
magico. Quelle convinzioni nascono all’interno di prospettive diverse, hanno
anche differenti significati, ma, indipendentemente dalle loro origini,
contribuiscono all’affermarsi e al consolidarsi di un’immagine del sapere che è
in grado di contrastare con efficacia la tradizione magico-alchimistica, di
porsi come un’alternativa rispetto ad
essa, di contrapporre all’immagine del sapiente che caratterizza quella
tradizione, un’immagine nuova.
Le tre idee che sono al centro della nuova immagine del sapere
sono: 1) per accedere alla scienza e alla verità non è affatto necessario
disprezzare quella parte della natura umana che è "soltanto umana" e
neppure appartenere al novero degli eletti e degli "illuminati":
basta la pura e semplice appartenenza
alla specie umana; 2) i procedimenti di accesso alla verità o i
"metodi" non sono inaccessibili o segreti o incomunicabili o
complicati: sono viceversa "modesti" o "semplici" o
"umili", possono essere esposti facendo uso di un linguaggio chiaro e proprio per questo sono, in linea di
principio, se non in linea di fatto, accessibili a tutti; 3) tutti gli esseri
umani possono, di conseguenza, accedere al sapere e alla verità, il sapere
scientifico non assomiglia ad una rivelazione o a una incomunicabile esperienza
mistica: è solo l’esplicitazione di potenzialità presenti in tutti, la scienza
(come diranno Arnauld e Nicole negli Eléments
de géometrie) consiste solo "nel portare più avanti quello che
sappiamo naturalmente".
Le verità che sono chiamate nozioni comuni, scrive Descartes nei
Principia philosophiae, sno tali da
essere conosciute da molti con chiarezza e distinzione. In alcune persone tali
verità non risultano abbastanza evidenti, ma ciò non dipende in alcuno modo dal
fatto "che la facoltà di conoscere che è in alcuni uomini si estenda di
più di quella che è comunemente in tutti". Dipende solo dai pregiudizi
acquisiti nell’infanzia e dai quali è molto difficile liberarsi. E’ appena il
caso di richiamare il celebre inizio del Discours
sur la méthode che afferma essere il buonsenso "la cosa al mondo
meglio ripartita". La facoltà di distinguere il vero dal falso è uguale
per natura in tutti gli uomini. La differenza delle opinioni non deriva
"dal fatto che alcuni siano più ragionevoli di altri", ma solo dal fatto
che si seguono vie diverse e non si considerano le stesse cose. Per quanto lo
riguarda, Cartesio "non ha mai presunto che la sua intelligenza fosse in
nulla più perfetta del comune" e afferma che le opinioni presenti nei suoi
scritti sono "semplici e conformi al senso comune". Il nuovo metodo
viene presentato come un insieme di regole "certe e facili" La
dottrina che espone le regole del metodo non va velata e ricoperta "per
tenere lontano il volgo", ma adornata e rivestita in modo "da riuscire
gradita all’umana intelligenza". Dato il legame che sussiste tra le
conoscenze, ove si inizi dalle più semplici e si proceda come di gradino in
gradino, "non occorre avere molta destrezza e capacità per
ritrovarle". L’esposizione del metodo deve procedere per ragioni
"chiare e comuni", e le verità raggiunte "avranno corso nel
mondo allo stesso modo della moneta, la quale non è di minor valore quando
viene fuori dalla borsa di un contadino". Molti uomini non si dedicano
alla ricerca della saggezza: ciò dipende dal fatto che essi "non sperano
di riuscirvi e non sanno quanto ne sono capaci".
Mentre contrappone la sua filosofia a quella "attraverso
la quale si fanno le pietre filosofali", Thomas Hobbes afferma che
"la filosofia, cioè la ragione naturale è innata in ogni uomo" e che
la ragione "non è meno naturale della passione ed è la medesima in tutti
gli uomini". I pochi e primi elementi della filosofia sono i
"semi" dai quali potrà svilupparsi una filosofia vera. Quei semi o
primi fondamenti gli appaiono "umili, aridi, quasi deformi". Rivolgendosi
all’amico lettore, scrive che "la filosofia è figlia della tua mente, è
ancora informe in te stesso". Il metodo che Hobbes ha costruito può
servire a tutti: "se ti piacerà, potrai usarlo anche tu".
Proprio in Mersenne, instancabile "segretario dell’Europa
colta", troviamo espressa in forma singolarmente efficace l’idea,
radicalmente antimagica ed antioccultistica, della eguaglianza delle intelligenze:
"un uomo non può fare nulla che un altro uomo non possa egualmente fare e
ciascun uomo contiene in sé tutto ciò che è necessario per filosofare e
ragionare di tutte le cose".
Anche se gli storici del pensiero politico non se ne sono
sempre resi conto, la tesi della eguaglianza delle intelligenze di fronte alle
verità della scienza aveva forti valenze politiche. In tutti gli esseri umani,
dirà Pufendorf, è presente un principio interiore per governarsi da soli e
tutti gli uomini, in quanto suscettibili di obbligazioni, sono esseri
intelligenti: "Non posso persuadermi che la sola eccellenza di natura sia
sufficiente a dar diritto a un essere di imporre una qualche obbligazione ad
altri esseri i quali hanno, così come lui, un principio interiore per
governarsi da soli". La tesi dell’eguaglianza di fronte alla verità
implicava la rinuncia all’immagine, presente nell’ermetismo e in molte
filosofie di derivazione aristotelico-averroistica, di una separazione netta
tra i "filosofi" e gli uomini del volgo, "simii a bestie",
pe i quali sono opportuni i racconti di miracoli, angeli e diavoli, per i
quali, come aveva scritto Pomponazzi, sono necessarie le favole "per
indurre al bene e ritrarre dal male, come si fa con i bambini con la speranza
del premio e la paura della pena".
Dopo l’età di Bacon e di Cartesio, di Hobbes, di Mersenne e di
Galilei ogni forma di sapere che teorizzi la segretezza in nome della
inaccessibilità, che concepisca come
"sovrumane" le difficoltà che si incontrano sulla via del conoscere,
che affermi il carattere iniziatico dell’accesso alla verità e la possibilità,
per pochissimi, di giungere all’episteme,
apparirà irrimediabilmente e
strutturalmente connessa alla tesi,di natura politica, secondo la quale gli
uomini non sono in grado di governarsi da soli ed hanno bisogno, come i
bambini, di favole che li tengano lontani dalla verità.
L’idea dell’eguaglianza delle intelligenze diventa parte
integrante e costitutiva dell’immagine moderna della scienza. Come accade per
tutte le idee che si associano o si identificano con dei valori, essa ci offre,
ancora oggi, delle linee di orientamento. Quando l’ambiguità e l’enigmaticità
del linguaggio diventano essenziali ad una filosofia e la chiarezza linguistica
viene accuratamente evitata ed esplicitamente condannata come espressione di
semplice buon senso e di superficialità; quando il tema "guardare al
passato",l’affermazione di una Riposta Sapienza delle Origini e l’immagine
di una Verità che è all’Inizio dei Tempi diventano le grandi idee guida e i
motivi centrali di una filosofia; quando infine viene teorizzata una differenza
di essenza fra gli eletti e i pneumatici (che possono attingere a quella
Sapienza, vivere gli "attimi" e intravvedere e indicare il Destino) e
coloro che restano per sempre confinati nella temporalità del quotidiano e sono
capaci solo di intelletto, ma del tutto incapaci di Pensiero; quando tutto
questo avviene contemporaneamente o
in una stessa filosofia, allora la antica Tradizione Ermetica (anche in pieno
XX secolo) rivela la sua non spenta presenza, mostra la sua operante
persistenza, celebra i suoi tardivi trionfi.
LA SCIENZA E I "DOTTORI DI MEMORIA"
Secondo Fleck (1935), quanto più un determinato campo del
sapere si presenta come fortemente strutturato, tanto più i concetti che in
esso sono presenti diventano coerenti con l’insieme e suscettibili di definizioni
reciproche che rinviano di continuo l’una all’altra. Quella rete di concetti dà
luogo, nelle cosiddette scienze "mature", ad una sorta di intreccio
inestricabile, a qualcosa che assomiglia non ad una raccolta di frasi,ma alla
"struttura di un organismo". In quella struttura tutte le singole
parti adempiono ad una specifica funzione. Ad una certa distanza dalla sua nascita
e al termine di un ciclo di sviluppo, quando una scienza si è assestata nella
sua specificità e come tale viene riconosciuta, le fasi iniziali dello sviluppo
non appaiono più facilmente comprensibili: l’inizio viene compreso ed espresso
in modi assai diversi da come era stato compreso ed espresso agli esordi del
processo.
Thomas Kuhn ha ripreso questi temi ed ha sottolineato il fatto
che gli scienziati tendono a collocare la loro attività sotto il segno di una
concezione lineare di progresso. Riscrivono continuamente i loro manuali, ma
riscrivono continuamente "una storia all’indietro". Perché mai dare
valore a ciò che attraverso la costanza e l’intelligenza di generazioni di
ricercatori è stato possibile abbandonare? perché collocare fra le cose degne
di essere ricordate gli innumerevoli "errori" di cui è piena la
storia della scienza? Nella ideologia della professione scientifica – questa la
conclusione di Kuhn – è profondamente radicata una svalutazione della storia.
Le nuove scoperte provocano la rimozione dei libri e delle riviste
"superate" dalla loro posizione attiva in una biblioteca scientifica e il loro spostamento
in un magazzino. Una volta trovata la soluzione di un problema i precedenti
tentativi rivolti a trovarla perdono attinenza con la ricerca, diventano
"un bagaglio eccedente, un peso inutile". Rispetto al loro proprio passato
artisti e scienziati hanno reazioni nettamente divergenti: "Il successo di
Picasso non ha relegato i dipinti di Rembrandt nelle cantine dei musei
d’arte". A differenza dell’arte, "la scienza distrugge il suo
passato".
L’affermazione della necessità di dimenticare il passato e la
contrapposizione della scienza alla
storia sono in realtà più antiche di quanto non pensassero Ludwig Fleck negli
anni ’30 e Thomas Kuhn negli anni ’60 del nostro secolo. E’ possibile
rintracciare entrambi questi atteggiamenti nonché l’affiorare di una vera e
propria polemica contro la storia agli inizi dell’età moderna, negli anni che
videro l’emergere dell’immagine moderna della scienza.
Galilei contrappone i filosofi naturali agli
"istorici" o "dottori di memoria". La mentalità di questi
ultimi è caratterizzata dal continuo bisogno di richiamarsi ad una guida.
L’immagine che Galilei contrappone a questa mentalità è quella di ricercatori
che, a differenza dei ciechi, non hanno bisogno di guida alcuna: "Quando
pure voi vogliate continuare in questo
modo di studiare, deponete il nome di filosofi e chiamatevi o istorici o
dottori di memoria; che non conviene che quelli che non filosofano mai si
usurpino l’onorato titolo di filosofo": Le testimonianze di altri non
hanno alcun valore di fronte al criterio del vero e del falso: "Addurre
tanti testimoni non serve a niente, perché
noi non abbiamo mai negato che molti abbiano scritto o creduto tal cosa, ma sì
bene abbiamo detto tal cosa essere falsa".
Sembra che si debba scegliere: o essere scienziati o essere
storici;o credere nella distinzione vero-falso o addurre testimonianze; o
conoscere la natura o conoscere la storia. Descartes, su questo punto, la pensa
allo stesso modo: "non riusciremo mai ad essere filosofi se avremo letto
tutte le argomentazioni di Platone e Aristotele senza essere in grado di
portare un sicuro giudizio su un problema determinato:in questo caso
dimostreremmo di aver imparato non le scienze, ma la storia". La storia è
ciò che è già stato inventato ed è consegnato nei libri, la scienza è l’abilità
nel risolvere problemi, è "la scoperta di tutto ciò che la mente umana può
scoprire". Conversare con gi uomini di altri secoli – dirà ancora Cartesio
– "è quasi lo stesso che viaggiare, ma quando si impiega troppo tempo a
viaggiare si diventa alla fine stranieri nel proprio paese e così, chi è troppo
curioso delle cose del passato diventa, per lo più molto ignorante di quelle
presenti". Gli storici appaiono anche a Malebranche uomini che tendono
"alle cose rare e lontane" e "ignorano le verità più necessarie
e più belle".
La verità della geometria, il suo rigore appartengono per
Spinoza a un mondo che non dipende dall’approvazione degli ascoltatori o dalle
vicende temporali Quel rigore e quella verità diventano un modello che può
essere esteso a tutto il sapere. La verità implica una assoluta irrilevanza dei
contesti, delle vicende che si svolgono nel tempo. Il come si è giunti alla verità non ha alcuna importanza:
"Euclide, che non scrisse se non cose semplicissime e quantomai intelligibili,
è facilmente compreso da tutti in qualunque lingua; né per intenderne il
pensiero e raggiungere la certezza circa il suo vero significato, è necessario
avere una piena conoscenza della lingua in cui scrisse, ma ne è sufficiente una
conoscenza comune, quasi rudimentale; e non è necessario conoscere la vita, gli
studi, i costumi dell’autore, né la lingua, il destinatario e il tempo in cui
scrisse, la fortuna del libro e le sue varie lezioni, né come e per
deliberazione di chi sia stato approvato. E quel che diciamo qui di Euclide va
detto di tutti coloro che scrissero attorno ad argomenti per loro natura
comprensibili".
Il modello al quale si guarda ha una struttura entro la quale
le teorie non si sostituiscono semplicemente luna all’altra, ma si integrano
sulla base di una sempre maggiore generalità.
Leibniz pensa che anche in filosofia si potrà abbandonare la
contrapposizione fra le scuole, si potrà rinunciare all’esistenza stessa di
scuole. Anche la filosofia diventerà un sapere capace di crescere per
integrazioni successive: "In filosofia scompariranno le scuole, così come
sono scomparse in geometria. Vediamo in effetti che non esistono euclidei,
archimedei e apollonieni e che Archimede e Apollonio non si erano proposti di
rovesciare i principi dei loro predecessori, ma di farli progredire (les augmenter)".
Pascal pensa che ci siano scienze che dipendono dalla memoria
e che si richiamano all’autorità e scienze che si affidano invece al
ragionamento e nelle quali l’autorità non ha alcun valore. La storia, la
geografia, la giurisprudenza, la teologia appartengono al primo gruppo,
"dipendono dalla memoria e sono puramente storiche". Hanno come
principi "o il fatto puro e semplice o l’istituzione divina o quella
umana". Sui loro argomenti "solo
l’autorità può illuminarci" e di esse "si può avere una
conoscenza intera, cui non sia possibile aggiungere nulla". La geometria,
l’aritmetica, la musica, la fisica, la medicina, l’architettura appartengono al
secondo gruppo, "dipendono dal ragionamento" ed hanno per scopo
"la ricerca e la scoperta di verità nascoste". Qui "l’autorità è
inutile" e solo la ragione conosce, qui la mente è libera di dispiegare le
sue capacità, qui "le invenzioni possono essere senza fine e senza interruzioni".
La crescita, il progresso, la novità, l’invenzione caratterizzano solo le
scienze del secondo gruppo: gli antichi le hanno abbozzate, noi le lasceremo ai
posteri in uno stato migliore di come le abbiamo trovate. La natura "è
sempre eguale, ma non è sempre egualmente conosciuta". La verità "non
comincia ad essere quando si è cominciato a conoscerla" ed è "sempre
più antica di tutte le opinioni che se ne sono avute".
Machinae novae,
Nova de universis philosophia, De mondo nostro sublunari philosophia nova,
Novum Organum, Astronomia nova, Novo theatro di machine¸Discorsi intorno a due
nuove scienze, Scienza nuova: il termine novus ricorre quasi ossessivamente in alcune centinaia di libri dedicati alla
filosofia e alle scienze pubblicati fra l’età di Copernico e quella di Newton.
Si scopre un Nuovo Mondo, popolato di uomini sconosciuti, di nuovi animali e
nuove piante; si scopre "un vasto numero di nuove stelle e nuovi movimenti
che erano del tutto sconosciuti agli astronomi antichi"; il microscopio
"produce nuovi mondi e terre incognite per la nostra vista". Fra la
"riscoperta degli antichi" e il "senso del nuovo" che
caratterizzano la cultura del cosiddetto Rinascimento esiste un complicato
rapporto. Il rifiuto del carattere esemplare
della cultura classica (che è il tema sul quale tutti gli umanisti avevano
insistito) assume toni fortemente polemici, si configura, in molti casi, come
un rifiuto: "De Grec et de Latin, mais point de connaissance on nous munit
la test en notre adolescence".
"Vendete le vostre case,il vostro guardaroba, bruciate i
vostri libri" aveva scritto nel 1571 il paracelsiano Pietro Severino. La
polemica contro la cultura libresca giungerà – fino a Robert Boyle ed oltre – a
trasformarsi in un’invettiva contro ogni e qualunque tradizione, darà luogo ad
una forma di "primitivismo scientifico" che contrappone gli
esperimenti delle fornaci e le botteghe degli artigiani alle biblioteche, agli
studi stoici e letterari, alle stesse ricerche teoriche.
Gli antichi hanno seguito una strada sbagliata: "Se
dichiarassi di potervi offrire qualcosa di meglio degli antichi, dopo essere
entrato nella stessa via che essi hanno seguito, non potremmo evitare che si
stabilisca un confronto o una sfida circa l’ingegno, il merito, le capacità…
Uno zoppo che segue la via giusta arriva, come suol dirsi, prima di un
corridore che segue la strada sbagliata. Ricordatevi che la questione concerne
la via da seguire e non le forze e che sosteniamo non la parte dei giudici, ma
quella delle guide".
A Bacon appare necessario "spogliarsi della nostra
caratteristica di uomini dotti e provare a diventare uomini comuni".
Cartesio pensa che coloro che non hanno mai studiato possano giudicare
"con molta maggior solidità e chiarezza" di coloro che hanno
frequentato le scuole ove viene trasmesso il sapere della tradizione. Hobbes
ritiene che la situazione della cultura del suo tempo sia tale da far ritenere
che gli indotti "che respingono la filosofia" siano uomini "di
giudizio più sano" di coloro che disputano al modo degli scolastici.
Bisogna emendare l’intelletto, distruggere le false immagini
che lo assediano e che in esso si sono
come incrostate rendendo opaco ciò che era in origine lucido e terso, ripulire
le menti, rifarsi simili a fanciulli, rendere esplicita una filosofia che è
potenzialmente presente in ogni uomo, affidarsi al buon senso che è "la
cosa del mondo meglio ripartita" e che è "uguale per natura in tutti
gli uomini". Ciò che si è appreso nelle scuole e nelle università va
dimenticato e vanno anche dimenticati molti secoli di storia. Essi verranno
sepolti in quelle "tenebre" che accompagneranno per più di duecento
anni l’immagine di un Medioevo "oscuro", intessuto di barbarie e di
superstizioni. C’è una tradizione e ci sono personaggi, in questa tradizione,
che vanno per sempre consegnati all’oblio: "E’ necessario tener lontani
tutti questi filosofastri più pieni di favole di quanto non lo siano gi stessi
poeti, stupratori degli spiriti e falsificatori delle cose; e, più ancora,
tutti i loro satelliti e parassiti e tutta questa turba venale di professori.
Come potrà essere udita la verità mentre costoro strepitano con i loro insensati e
inarticolati ragionamenti? Chi mi suggerirà la formula mediante la quale io
possa consacrarli all’oblio?".
L’immagine medievale dei nani sulle spalle dei giganti è
carica di ambiguità. Vediamo certo più lontano di Platone e di Aristotele, ma siamo nani, condannati a rimanere tali
nel confronto con quegli inarrivabili giganti. La tesi della
"superiorità" dei moderni assumerà forme e toni diversi. Ma in molti
testi affiora l’idea che i primi abitatori della Terra fossero uomini rozzi,
incapaci di muoversi sul terreno della "ragione spiegata". Una
lapidaria sentenza del Lord Cancelliere dà espressione a tutti i temi che sono
stati fin qui richiamati. Quella sentenza esprime quella dimensione che è
diventata una delle caratteristiche essenziali della scienza e che entra, fino
dagli inizi dell’età moderna, a far parte della sua immagine. La dimenticanza
del passato, il superamento di ciò che è stato detto nel passato si
configurano, per il sapere scientifico, come valori. Davanti a noi c’è la luce
della natura. Dietro a noi c’è l’oscurità del passato. L’interesse è volto al
futuro, non al passato. Non importa ciò che è stato fatto. Si tratta di vedere
che cosa si può fare. "Scientia ex naturae lumine petenda, non ex
antiquitatis obscuritate repetenda est. Nec refert quid factum fuerit. Illum
videndum quid fieri possit".
IL RITRATTO DELLO "SCIENZIATO"
Nel corso dei Seicento si andò formando in Europa non solo
un’immagine della scienza, ma anche un "ritratto" del filosofo
naturale. Questo ritratto era assai diverso da quello dell’antico filosofo o
sapiente, così come da quello del santo, del monaco, del professore universitario,
del gentiluomo di corte, del perfetto principe, dell’artigiano, dell’umanista,
del mago. I fini che furono teorizzati da quei compositi gruppi intellettuali
che contribuirono allo sviluppo del sapere scientifico furono senza dubbio
diversi da quelli della santità individuale, dell’immortalità letteraria, della
eccezionale personalità "demoniaca".
Una casta pazienza, una naturale modestia, le maniere gravi e
composte, una grande capacità di comprendere gli altri, una sorridente pietà
verso di loro: questi gli elementi costitutivi del ritratto, tracciato da
Bacon, dell’uomo di scienza. Troviamo scritto nella Confutazione delle filosofie: "L’assemblea si componeva di
circa cinquanta membri fra i quali non era nessun adolescente; tutti erano di
età matura e ciascuno recava sul volto i segni della probità e della dignità.
Al suo ingresso egli li trovò occupati a discorrere amichevolmente fra loro, e
tuttavia essi sedevano su sedie disposte ordinatamente e sembravano attendere
l’arrivo di qualcuno. Poco dopo entrò un uomo dall’aspetto oltremodo tranquillo
e sereno, ma il cui volto esprimeva compassione Egli sedette non su una tribuna
o in una cattedra, ma insieme agli altri e cominciò in questo modo ad
intrattenersi con l’assemblea".
Il ritratto del "nuovo sapiente" proposto da Bacon
assomiglia senza dubbio di più a quello di Galilei o di Einstein che a quello
del turbolento Paracelso o dell’irrequieto e avventuroso Cornelio Agrippa. Al
piglio titanico del mago del Rinascimento sembra ora subentrata una classica
pacatezza ed una atmosfera simile a quella delle "conversazioni" dei
primi umanisti.
Anche lo stile della discussione che si svolge tra i
protagonisti della cartesiana Recerche de
la vérité non ha nulla di
iniziatico. E’ "lo stile delle oneste conversazioni, dove ognuno manifesta
familiarmente agli amici ciò che ha di meglio nel suo pensiero". A questo
stesso tono "familiare" si richiamano Salviati e Sagredo che
combattono per la nuova scienza nel Dialogo
galileiano. Negli scritti di Bacon
c’è, in più, rispetto a quella civile e garbata atmosfera umanistica, una
duplice consapevolezza: che gli esseri umani potranno disporre, servendosi
della tecnica e della collaborazione tra ricercatori, di uno smisurato potere;
che il teatro delle imprese umane non è più una città o una singola nazione ma
l’intero mondo.
Galilei invitò invano i teologi del suo tempo a
"considerare la differenza che è tra le dottrine opinabili e le
dimostrative". Coloro che professano scienze dimostrative non hanno la
possibilità di "mutar opinioni a voglia loro" e c’è gran differenza
"tra il comandare a un matematico o a un filosofo e ’l disporre un
mercante o legista, e non con l’istessa facilità si possono mutare le
conclusioni dimostrative circa le cose della natura e del Cielo, che le
opinioni circa quello che sia lecito o no in un contratto, in un censo o in un
cambio".
La pressione esercitata dal potere politico sulla scienza
(quando, come scriveva ancora Galilei, "persone ignorantissime d’una
scienza o arte abbiano ad essere giudici sopra gl’intelligenti") ha su di
essa effetti devastanti. Soprattutto quando, come avvenne nel Seicento e come è
avvenuto anche nel nostro secolo, religioni o ideologie o filosofie vengano
concepite come visioni totalizzanti o pietre di paragone per giudicare della
verità o della falsità di ogni specie di teoria.
La cosmologia infinitista di derivazione copernicana
propagandata da Giordano Bruno da un lato e la "filosofia meccanica"
dall’altro lato sembravano mettere in discussione nuclei importanti della tradizione
cristiana: la centralità dell’uomo nell’universo nel primo caso, la presenza di
fini o scopi nell’universo nel secondo caso.
Quando la conflittualità fra il potere e la scienza (che ha
carattere strutturale) si trasforma in uno scontro aperto, si offrono agli
scienziati una serie di soluzioni in certa misura obbligate: 1) la affermazione
di una distinzione forte fra politica e scienza o fra religione e scienza, di
una loro separatezza; 2) la dissimulazione o il mascheramento della dottrine
avvertite come pericolose; 3) l’accantonamento delle ricerche e dei problemi
che possono condurre ad aderire a soluzioni già "condannate" o a
prese di posizione opposte a quelle considerate accettabili dal potere. Tutte
queste soluzioni furono variamente adottate dai filosofi naturali e dagli
scienziati del Seicento.
L’affermazione della distinzione e della separatezza avviene
in modi diversi nei paesi cattolici e in quelli protestanti. Varrà la pena di
considerare brevemente due casi esemplari, destinati entrambi a grande
risonanza: quello di Galilei e quello di Bacon.
Nella celebre lettera del 1613 a Benedetto Castelli Galilei
formulava una serie di tesi: 1) di fronte al testo sacro non ci si può fermare
al puro significato delle parole, dato che molte proposizioni sono
"accomodate all’incapacità del volgo". 2) Nelle discussioni
scientifiche la Scrittura va considerata "in ultimo luogo". Dio si
esprime infatti mediante la Scrittura e mediante la Natura. Va tenuto presente
che mentre la Scrittura è accomodata all’intendimento degli uomini e le sue
parole hanno significati diversi, la Natura è invece "inesorabile e
immutabile" e non si cura che le sue ragioni e i suoi modi di operare
"sieno o non sieno esposti alle capacità de gli uomini". 3) La Natura
ha dentro di sé una coerenza e un rigore che sono assenti nella Scrittura:
"no ogni detto della Scrittura è legato ad obblighi così severi come ogni
effetto di natura". Gli "effetti naturali" che l’esperienza ci
pone davanti o che appaiono provati dalle dimostrazioni necessarie non possono
in alcun modo "essere revocati in
dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso
sembiante". 4) Compito dei "saggi espositori" del testo sacro –
dato che le due verità della Scrittura e della Natura non possono contrariarsi
– è quello di "affaticarsi per trovare i veri sensi de’ luoghi sacri"
che siano in accordo con le conclusioni accertate e dimostrate. Inoltre, dato
che le scritture ammettono una serie di esposizioni "lontane dal suono
letterale" e dato che non siamo affatto sicuri che tutti gli interpreti
siano ispirati da Dio, sarebbe prudente non permettere a nessuno di impegnare
luoghi della Scrittura per appoggiare o dichiarare vere conclusioni naturali
che potrebbero, in futuro, essere falsificate. 5) Le Scritture tendono a
persuadere gli uomini di quelle verità che sono necessarie alla salvezza, ma
non è affatto necessario credere che le notizie conseguibili mediante i sensi,
il discorso e l’intelletto (di cui Dio ci ha dotato) ci siano fornite dalla
Scrittura.
La consapevole limitazione della scienza al piano delle cose
naturali, il riconoscimento di un indispensabile significato morale alle verità
della fede, il rispetto per la dimensione del sovrannaturale: tutto ciò non
poteva, né servì ad impedire che queste affermazioni galileiane apparissero
pericolose e sovvertitrici. Agli occhi dei difensori del potere acquisito dalle
istituzioni esse tendevano a infrangere quella saldatura tra filosofia e
teologia che da secoli sembrava garantire alla Chiesa la sua funzione di guida
non solo delle coscienze, ma del sapere e della cultura. Certo non poneva
rimedio a questo il pezzo di bravura con cui Galilei chiudeva la sua lettera e
cercava di dividere i suoi avversari sostenendo che la dottrina copernicana si
accordava con il testo della Bibbia assai più facilmente della teoria
aristotelico-tolemaica.
Galilei oscillò spesso fra un eccesso di sicurezza e una
disposizione alla capziosità. Non ebbe sempre chiaro il senso della grande
questione che si era aperta. In che senso veniva qui spezzata la tradizionale
saldatura tra filosofia e teologia? nel momento in cui il linguaggio rigoroso
della natura veniva contrapposto al linguaggio
metaforico della Bibbia, i filosofi naturali non diventavano gli unici
autorevoli interpreti anche del significato di quelle metafore? non saranno
essi a dover indicare agli interpreti della Scrittura quei "sensi" che
si accordano con le verità naturali? E se la Bibbia contiene soltanto proposizioni necessarie alla
salvezza, che senso aveva affermare che il celebre passo di Giosuè "ci
mostra chiaramente la falsità e
impossibilità del mondano sistema aristotelico e tolemaico"?
Anche Francis Bacon, tra il 1608 e il 1620 si era reso conto
che il tipo di sapere che stava nascendo comportava una decisa rottura verso
ogni forma di teologia che avesse pretese sistematiche e totalizzanti. Il fatto
che "la contenziosa e disordinata filosofia di Aristotele sia stata incorporata
nella religione cristiana" è, ai suoi occhi, indice di una decadenza del
sapere e spia di un atteggiamento moralmente colpevole. Se si stabilisce un
"patto" o "connubio" fra teologia e filosofia si dà vita ad
una unione insieme "iniqua" e "fallace". Quel patto include
infatti "solo le dottrine già attualmente accolte", e tutte le novità
vengono di conseguenza "escluse e sterminate". Le verità della
scienza non vanno cercate nella Scrittura, e non è lecito né possibile ricercare
nel testo sacro una filosofia naturale . Chi si dedica a questo tipo di imprese
dà luogo non solo ad una "filosofia fantastica", ma anche ad una
"religione eretica".
La teologia è volta a conoscere il libro della parola di Dio, la filosofia naturale
quello delle sue opere. Il cielo e la
terra, che sono cose temporali, non vanno ricercate nella parola di Dio che è
eterna. Richiamandosi a Matteo (22, 29) Bacon insiste a lugo sulla distinzione
fra la volontà e la potenza
di Dio. Il libro delle Scritture rivela la volontà di Dio, quello della natura
la sua potenza. Lo studio della natura non offre alcuna luce sulla essenza e
sulla volontà di Dio. Lo studio della natura produce conoscenza, ma, nei confronti di Dio, non produce conoscenza, ma
solo meraviglia, e quest’ultima è una
sorta di "sapere interrotto". Le opinioni scientifiche moderne non
possono essere ritrovate nel testo sacro: non ha quindi alcun senso la ricerca
di un significato del testo che di volta in volta si accordi con le verità
scoperte della scienza Quest'ultima può invece rafforzare la verità cristiana
suscitando la meraviglia di fronte all’ordine e all’armonia del creato. Questa
immagine della scienza troverà soprattutto espressione negli scritti di Robert
Boyle e di John Ray. Resterò centrale nella cultura inglese, fino all’età di
Darwin.
Nella storia delle idee e in quella della scienza il 1633
resta come un anno decisivo. Pochi mesi dopo la condanna (alla fine di
novembre), Cartesio scrive a Mersenne di aver "quasi preso la decisione di
bruciare tutte le carte o almeno di non lasciarle vedere a nessuno".
Preferisce sopprimere il suo scritto piuttosto che farlo comparire alterato,
dato che non vorrebbe per nessuna ragione al mondo che venisse trovata in esso
"anche una sola parola disapprovata dalla Chiesa". In una lettera del
10 gennaio ritorna sul tema. Le tesi del suo trattato (fra le quali c’è anche
l’opinione del moto della Terra) dipendono così strettamente l’una dall’altra
"che basta sapere che ce n’è una falsa per rendersi conto che tutte le
ragioni di cui mi sono servito non hanno valore". La conclusione è
significativa e ci conduce al tema della "dissimulazione": "il
desiderio che ho di vivere tranquillo, e di continuare la vita che ho
cominciato prendendo per divisa bene
vixit qui bene latuit fa che io non rimpianga il tempo e la fatica
impiegati per scriverlo".
Il tema della "dissimulazione" nella scienza del
Seicento richiederebbe un’ampia ricerca che, su larga scala, non è mai stata
tentata. Il testo del Dialogo sui massimi
sistemi non lascia dubbi sulla portata ontologica delle tesi galileiane,
sul loro riferimento al mondo reale, ma Galilei, nelle pagine rivolte Al discreto lettore, apriva con un
riferimento al "salutifero editto" del 1616. Qualcuno, proseguiva,
"temerariamente asserì" che esso fosse stato "parto non di
giudizioso esame, ma di passione poco informata" e si disse anche che i
"consultori totalmente inesperti delle osservazioni astronomiche non
dovevano con proibizione repentina tarpar l’ale a gl’intelletti
speculativi". Ma siffatti lamenti erano temerari. Scopo del Dialogo è "mostrare alle nazioni
forestiere che di questa materia se ne sa tanto in Italia e particolarmente in
Roma, quanto possa mai averne immaginato la diligenza oltramontana". La
parte copernicana, concludeva Galilei smentendo tutte le sue precedenti asserzioni sulla verità del sistema
copernicano, è stata presa "procedendo in pura ipotesi matematica".
La disputa si spostava dal piano del reale a quello del possibile, da quello
dell’astronomia come fisica a quello dell’astronomia come pura costruzione
matematica. La dottrina delle maree, che era per Galilei la prova decisiva
della mobilità della Terra, diventava una "fantasia ingegnosa".
Prima della condanna del 1616, Galilei aveva formulato un
programma molto diverso. Scrivendo a Pietro Dini, nel maggio del 1615, aveva
affermato che c’era un solo modo "speditissimo e sicurissimo" per
mostrare che la dottrina copernicana no è contraria alla Scrittura:
"mostrare con mille prove ch’ella è vera e che la contraria non può in
alcun modo sussistere". Dato che due verità non possono contrariarsi è
necessario che la tesi copernicana e le Scritture "sieno
concordissime". Anche Descartes, in un frammento che risale al 1630, aveva
affermato che sulla base delle sue "fantasie" egli era in grado di
spiegare il primo capitolo della Genesi assai
meglio di altri interpreti. Si proponeva di far vedere chiaramente che la sua
"descrizione della nascita del mondo" si accordata molto meglio di
quella di Aristotele "con tutte le verità della fede". Esattamente
come Galilei, non seguirò affatto questa strada. Abbandonerò anch’egli i
riferimenti al mondo reale per entrare nel mondo dei possibili. Presenterà la
sua cosmologia come "un’ipotesi forse lontanissima dalla verità". Farà
riferimento ad un mondo immaginario.Non intende affatto spiegare, come altri
filosofi, "le cose che in effetti si trovano nel mondo vero", ma solo
"fingere un mondo a piacere". Sta raccontando una favola. Nella
favola della formazione di un universo immaginario non trovavano più posto –
proprio perché si trattava di una favola e di un mondo irreale – né Dio né
Mosè. Da buon allievo dei gesuiti non manca tuttavia di insinuare nei lettori
il sospetto che la sua favola possa dire sul mondo reale più cose di quanto non
dicano le filosofie che hanno la pretesa di descriverlo.
L’accantonamento dei temi più pericolosi è stato più volte
sottolineato dagli storici della scienza. Quando John Milton rievocò la sua
visita ai dotti italiani disse che costoro lo invidiavano per il fatto che egli
viveva in Inghilterra, "mentre essi si lamentavano dello stato di servitù
in cui la scienza era stata ridotta nella loro patria". Dopo gli indubbi
eccessi delle interpretazioni di tipo risorgimentale e positivistico, oggi è
diventato di moda esaltare la scienza dei gesuiti. Che fu certamente una
rispettabile cosa. Anche se resta indubbio, al di là di ogni tentativo di
rivalutazione, che l’astronomia fu, dopo la condanna del ’33 sempre più
calcolo e sempre meno cosmologia e che
la biologia fu sempre più analisi di organi e di strutture e sempre meno teoria
generale del vivente. Nella "scienza" di Francesco Lana Terzi o in
quella di Daniello Bartoli – così come nelle monumentali opere di Athanasius
Kircher – si tentava una sorta di grandioso compromesso fra i risultati della
nuova scienza e le eredità del naturalismo magico. Nel Mundus subterraneus del 1644 Kircher rintracciava nei fossili e
nelle rocce figure geometriche, lettere dell’alfabeto greco e latino, immagini
di corpi celesti, forme di alberi, di animali e di uomini, simboli misteriosi,
che rinviano a sensi profondi e costituiscono la via alla rivelazione dei
significati divini che pervadono il mondo. La ricerca si volgeva ancora una
volta agli abscondita latentis naturae
sacramenta. La scienza assume a oggetto il "meraviglioso",
ritorna ad essere un’impresa "dilettevole", si insiste con forza
sulla sua "utilità". Il sapere scientifico tornava ad essere ciò che Francis Bacon aveva
teorizzato non dovesse essere:
"un giaciglio per spiriti irrequieti, un belvedere per piacevoli panorami,
una bottega per le vendite e il guadagno".
Come nessun altro filosofo del suo tempo, Bacon ebbe
chiarissimo il senso dell’impresa scientifica come impresa collettiva che
investe la società, che necessita di istituzioni specifiche. Si pose anche il
problema dei rapporti fra scienza e politica. La soluzione che ci prospetta la Nuova Atlantide è, ancora una volta,
quella di una netta e forte "separazione". Rispetto al resto della
popolazione gli scienziati neoatlantici vivono in solitudine. Il luogo del loro
lavoro ci richiama a qualcosa che assomiglia ad un campus tagliato fuori dal resto del mondo, a quieti e fervorosi
luoghi per la ricerca che non siano turbati dal quotidiano affaccendarsi dei
comuni mortali. C’è di più: gli scienziati tengono apposite riunioni per
decidere quali fra le scoperte realizzate possono essere rese note al pubblico
e quali no. Si impegnano, ove la decisione sia negativa, ad un giuramento di
segretezza. Alcune delle scoperte che decidono di mantenere segrete vengono
rivelate allo Stato. Altre vengono invece tenute del tutto nascoste al Potere.
Bacon, si è visto, ritiene chele scelte che riguardano i
valori siano di pertinenza dell’etica e della religione. Relativamente al
problema degli usi che possono essere
fatti delle scoperte scientifiche e tecnologiche non p affatto un ottimista. I
sapienti che decidono di tenere nascoste alcune loro scoperte
"pericolose" non vivono infatti nel nostro dissoluto e corrotto
mondo, ma operano all’interno della
immaginaria civiltà della Nuova Atlantide che è oltremodo pacifica e
tollerante.
Nel mondo contemporaneo è quasi del tutto scomparsa la figura
dello scienziato-artigiano (un tempo così frequente) che attinge ai suoi propri
mezzi per "ricercare ciò che vuole". Per ogni ricercatore scientifico
è oggi necessario un progetto di ricerca, ed è necessario che quel progetto sia
considerato degno di essere perseguito (in vista di scopi teorici o di scopi
pratici o di entrambi) da un qualche comitato di esperti che rappresentano un governo
o un’istituzione pubblica o privata, o un’industria (anch’essa pubblica o privata).
Alcune ricerche vengono messe in moto e favorite, altre scoraggiate. Spesso i
costi e i vantaggi dei vari progetti non sono calcolati in relazione ai
generici "interessi della scienza", ma in relazione a interessi
perseguiti da singoli paesi. Partecipare allo sviluppo scientifico è diventato,
per tutti i paesi, una delle forme dell’investimento nazionale.
Chi valuta e chi decide sulla utilizzazione dei risultati
della ricerca? Nella civiltà alla quale abbiamo dato vita coesistono in modo
difficile e complicato due opposte e contrastanti tendenze: l’esigenza che le
decisioni vengano prese da persone competenti (che sono sempre assai poche di
numero) e l’esigenza del controllo dei molti sulla decisioni dei pochi. La
risposta a problemi di questo tipo ha fatto certo minori progressi di quanti
non ne abbiano fatti nei tre secoli che ci separano dal Seicento, la scienza e
la tecnologia.
La Francia di Colbert ha inventato il "classicismo"
e ha etichettato negativamente l’arte del periodo successivo al Rinascimento
come "barocca"
L’altare di S. Andrea al Quirinale del Bernini illustra la
funzione di "luogo" di esercizio spirituale dei "composti"
(tutte le arti sono fuse, pittura, scultura, architettura) gesuitici del
Bernini. Il novizio "conforma" l’anima a quella che sente palpitare
nella rappresentazione barocca. Il risultato della conformazione è un momento,
più o meno intenso, di contatto con il Cristo, un momento di ricezione della
Grazia che i teologi dell’epoca denominano "conformazione affettiva"
per sottolinearne il carattere essenzialmente passionale.
Nel Seicento l’affetto è il contrario dell’azione: essere
appassionato significa essere agito da qualcuno, il che, nel caso della
conformazione al Cristo, vuol dire rinunciare alla propria volontà per essere
agito da lui.
L’opera religiosa barocca funziona in modo da offrire al
credente gli strumenti cognitivi, sensibili e passionali di una metamorfosi
interiore, di una conformazione affettiva al Cristo, che è il percorso opposto
a quello che conduce il cristiano del Seicento a sentirsi radicalmente
dissimile al suo Signore, a sentirsi un "nulla", "pelle, ossa,
concime, carogna", come scrive il poeta gesuita boemo Bedrich Bridel.
Nell’Europa nordoccidentale un borghese o burgher, Bürger, ecc.) era, in
senso stretto, chi risiedeva in una città e godeva di certi privilegi e
diritti. L’appartenenza a questa categoria, spesso attestata dalla
registrazione in una lista ufficiale, si basava su un diritto di nascita o
sulla residenza da lunga data nella città, e sul possesso di un minimo stabilito
di ricchezze (che in genere comprendevano la casa o altri beni immobili
urbani). Fino al XVIII secolo bourgeois
de Paris era "chiunque avesse
vissuto a Parigi per un anno e un giorno, non fosse impiegato come domestico,
non abitasse in un alloggio in affitto e pagasse le tasse ordinarie". In
alcuni paesi essere un borghese significava anche possedere un titolo legale
indicante un certo status e rango collegato con un’attività economica
redditizia e con uno stile di vita quasi nobiliare. In questo senso era una
persona finanziariamente solida e rispettabile, che apparteneva o era prossima all’élite
municipale.
Oggi per la maggior parte degli storici "borghese" è
sinonimo di "appartenente al ceto medio", specialmente alle fasce più
elevate e più in vista. Era la parte agiata del Terzo Stato: gli artigiani più
ricchi, i negozianti, i mercanti, i professionisti, i banchieri e i funzionari
governativi (in genere gli appartenenti ai ranghi più bassi della burocrazia
statale).
Esistevano notevoli differenze di rango e ricchezza, specie
tra i membri meno importanti (specialmente gli artigiani) e gli strati più alti
dei mercanti e dei finanzieri.
Agli occhi dei contemporanei gli strati superiori, con i
mercanti, i professionisti e i membri della burocrazia, che costituivano
l’élite cittadina non nobile rappresentavano la vera borghesia dell’epoca
barocca, e in alcune parti dell’Europa ci si riferiva ad essi proprio come
"cittadini". A Venezia i "cittadini" erano proprio lo
strato intermedio tra "patriziato" e "popolo". Esisteva
naturalmente una borghesia rurale, ma meno significativa e certamente meno in
vista di quella urbana.
Gli appartenenti al ceto medio erano coinvolti in un’ampia
gamma di attività di produzione. Di particolare importanza era il commercio.
C’era anche l’industria, dalla produzione su piccola scala – artigianato minore
– all’impiego di un gran numero di dipendenti. I liberi professionisti, giudici
avvocati, medici, educatori e altri operatori di successo del "mercato
della cultura" fornivano alla borghesia un consistente numero di reclute.
Tuttavia il principale desiderio del borghese era abbandonare
l’attività produttiva e "vivere di rendita". Strettamente connessa
alla tendenza a staccarsi dal commercio e dalle attività produttive era la
tendenza all’acquisto di cariche pubbliche, specie in Francia e Castiglia.
Insomma: la borghesia non era necessariamente capitalistica, né i capitalisti
erano necessariamente borghesi, dal momento che lo scopo a molto termine di
molti cittadini ricchi era abbandonare ogni ruolo economico attivo.
Nei consumi non aveva invece affatto uno stile passivo. Gli
storici del XVII secolo, marxisti e non, di solito prestano attenzione alla
"nascita del capitalismo"; ma di recente hanno cominciato a prestare
maggiore attenzione anche alla comparsa e all'espansione della moderna società
dei consumi. E il borghese, che nella sua inesorabile autogratificazione ebbe
pochi rivali, appare molto importante. Per tutto questo periodo egli spese
somme considerevoli, in primis per abitare meglio, utilizzando materiali più
durevoli e concedendosi i vetri alle finestre. La sua abitazione conteneva poi
più oggetti. L’espansione coloniale fu allo stesso tempo causa e conseguenza
del nascente commercio di beni che prima erano troppo costosi per essere
consumati da chi on appartenesse alla società urbana più ricca.
Le nuove abitudini prese dai nobili e dai borghesi cambiarono
anche l’aspetto della città. Tra le altre cose le classi più ricche tendevano a
concentrarsi in alcune zone della città, soprattutto del centro.
"Le marchand acquére, l’officier conserve, le noble
dissipe" coglie il ciclo generazionale delle famiglie di maggior successo
che cominciarono ad ascendere nei ranghi dell’aristocrazia.
Nel 1600 un po’ più del 10% della popolazione europea viveva
in città di 5.000 o più abitanti, numero che aumentò nel corso del XVII secolo.
Ma la percentuale della popolazione urbana dotata dei requisiti per appartenere
al ceto medio e in particolare alle sue sfere più ricche, non era altrettanto
grande. I due terzi dei maschi del centro commerciale di Anversa erano
nullatenenti. E nel tardo Seicento a Nordlingen la metà dei cittadini possedeva il 4% della ricchezza, mentre una
fascia del 10% possedeva il 60% della ricchezza. Per questa distribuzione
asimmetrica, la grande massa di poveri dei centri urbani lasciava un piccolo,
prezioso spazio (o delle risorse) al modesto cittadino che viveva nel mezzo.
Condizioni simili caratterizzavano altre città europee, in cui
dalla metà a due terzi degli abitanti conducevano un’esistenza prossima alla
linea della povertà o al disotto di essa. A Rotterdam la minoranza abbiente era
ancora più ristretta e distinta. In genere, un terzo faceva parte del ceto
medio mentre la percentuale appartenente alla élite civica si contraeva
all’1-2%. I borghesi vivevano all’interno di una cerchia numericamente
ristretta e socialmente esclusiva.
La città costituiva il vero centro di esistenza del ceto
medio. Non è strano che l’epoca barocca abbia dato voce a un discorso enfatico
in lode della città come luogo privilegiato per l’attività favorita della
borghesia, cioè il consumo: parlando dei benefici materiali della vita urbana,
molte descrizioni di città di quell’epoca assumono toni lirici. Ad esempio nei
fornitissimi negozi di Amsterdam si poteva trovare ogni sorta di beni
alimentari e non. Anche le abitazioni borghesi di Amsterdam "erano colme
di ninnoli come regge.
Ma non tutte le spese erano materiali: l’età barocca si dimostrò
particolarmente fertile per lo sviluppo e l’espansione di nuovi modelli di
consumo culturale. Il borghese, per quanto potesse essere inizialmente rozzo si
raffinava espandendo allo stesso tempo il suo ruolo di consumatore di cultura
(soprattutto prodotti tangibili: libri, opere d’arte, giornali) e assistendo a
rappresentazioni di ogni tipo (musica, opera, teatro, danza). L’istruzione e il
contatto regolare con la parola stampata costituivano naturalmente già da molto
tempo una dimensione cruciale nella vita delle classi medie urbane.
L’uomo istruito divenne un ideale borghese di prestigio,
perseguito però principalmente dalla nobiltà e dai pochi che vivevano di
rendita del ceto medio
Ma secondo molti critici dell’epoca (tra cui La Bruyère) non
c’era una vera partecipazione alla (vera) vita intellettuale: il vistoso mondo
del consumismo urbano era unicamente artifizio e pubblica finzione. Per tutta
l’Europa un potente coro di critiche biasimava il nascente identificarsi della
città con l’ostentazione di ricchezza e le abitudini oziose del ceto medio e
alto; la vita cittadina era considerata nel migliore dei casi apprezzabile. Ma
nel complesso il borghese trovava la sua città molto più da celebrare che da
condannare. Nasce (Venezia e Olanda) una pittura urbana che descrive
minuziosamente lo stile della borghesia.
La città rappresentava
l’orizzonte politico principale. Gran parte del tempo del borghese era occupato
da obblighi civici tra cui il servizio nella milizia urbana. I ceti medi
consideravano un diritto e un obbligo partecipare al quotidiano funzionamento
della città
Di norma il governo locale era riservato al ceto medio più
abbiente o a una nobiltà urbana distinta, come nel caso di Venezia e Tolosa. In
molte città (es. Norimberga) i più grossi mercanti e banchieri tenevano sotto
stretto controllo l’amministrazione
civica, ma erano poche le città che non riservassero almeno una qualche forma
di partecipazione alla vita pubblica – in genere gli incarichi minori – ai
membri degli strati inferiori della borghesia. E in alcuni casi (specialmente
nell’Impero, nei Paesi Bassi e in Svizzera), i mastri artigiani potevano
occupare posti molto importanti nel governo municipale. Praticamente sempre,
comunque, il ceto medio svolgeva negli affari civici il ruolo più attivo.
La borghesia reclamava anche un ruolo sempre più importante
all’interno degli affari pubblici a livello regionale e nazionale. Sebbene la
borghesia inglese fosse più fedele al re, e quindi non si potesse parlare di
"rivoluzione borghese", essa era coinvolta in modo crescente nella
politica nazionale. La guerra civile e la "Glorious Revolution" del
1688 hanno provocato la rimozione dei vincoli alla libera impresa e il trionfo
dell’"individualismo proprietario". In Inghilterra e in Olanda, nel
momento in cui i membri più ricchi del ceto medio, giocando sulla loro
preminenza economica, cominciavano a diventare protagonisti dell’alta politica,
i mercanti e i finanzieri che operavano nelle città più grandi si legavano
sempre più strettamente all’influente ceto dei proprietari terrieri, non solo
per via di un comune interesse alla stabilità politica, ma anche attraverso
legami più diretti e personali, incluso il matrimonio.
Ma all’interno delle monarchie assolute del continente
prevalevano modelli diversi, più restrittivi dei diritti dei cittadini comuni
ad aver voce nella politica nazionale, se non addirittura in quella locale.
Nondimeno è possibile vedere la borghesia affermare i suoi diritti durante
l’epoca barocca sia direttamente (si pensi alla partecipazione dei ceti medi
urbani alle rivolte delle tasse in Francia durante gli anni ’30 del Seicento e
alla Fronda un decennio più tardi) sia indirettamente. Nel secondo caso molte
milizie borghesi si rifiutarono di reprimere le rivolte popolari dirette contro
gli esattori delle tasse e gli odiati rappresentanti del governo centrale,
soprattutto durante la prima metà del Seicento (ma fu più l’eccezione, perché
si aveva paura della classi inferiori).
Un aspetto cruciale nel comportamento pubblico del borghese,
quello che anzi lo identificava, era il suo diritto ad intervenire negli affari
locali. Che il suo ruolo fosse importante o limitato dipendeva dalla sua ricchezza.
Esiste una ricca vena letteraria di critica dei borghesi,
dipinti come avidi e arrampicatori rovinati dalla propria ambizione. Ma i
borghesi si vedevano diversamente. Una diversa letteratura mette in evidenza il
contributo alla città da parte del borghese agiato. Questo ritratto poggiava
sulla retorica dell’"etica protestante", che postula un rapporto
eccezionalmente intenso tra la borghesia e le virtù sociali di devozione al
lavoro, sobrietà, austerità, purezza e procrastinazione della gratificazione
personale. Abbiamo visto che alcuni elementi di questa congerie di virtù si
tenevano in piedi con molta difficoltà: perfino i più protestanti tra i ceti
medi protestanti, come quello inglese e quello olandese cedettero a volte alle
tentazioni del moderno consumismo. Ma le altre componenti di questa ideologia,
e soprattutto l’accento sul contributo positivo,produttivo, di questo ceto alla
società, assieme all’insistenza sulle virtù di onestà, sobrietà, e sul valore
redimente del lavoro, facevano vibrare corde più sonore. Non solo furono
accolte nei molti influenti panegirici del comportamento economico borghese,
come Le parfait négociant di Savary
(1675), ma le ritroviamo negli scritti privati di commercianti e di altri
borghesi. Fierezza nel lavoro, ferma credenza nella honneté, devozione a una più flessibile nozione dell’economia, che
permettesse il consumo nella misura in cui poteva essere sostenuto dalla
produzione, piuttosto che a un rigido ideale di austerità.
Durante il periodo barocco i borghesi di qualsiasi convinzione
religiosa – cattolici, protestanti, ebrei – concepivano il loro mondo e si
riferivano ad esso attraverso il linguaggio religioso. Espressioni sociali di
comportamento giusto e sbagliato e speranze e ambizioni personali si
congiunsero, modellandosi in una visione religiosa del mondo spesso molto
sentita. Il carattere fortemente personale era tuttavia ciò che più distingueva
la vita spirituale della borghesia cittadina da quella delle altre classi
sociali. In ogni aspetto della vita religiosa, il borghese tendeva ad
accostarsi al divino in modo intellettualmente attivo e, in certa misura,
individualistico, imperniato sugli strumenti forniti dall’istruzione,
specialmente sulla meditazione individuale, col supporto della lettura della
Scrittura e di libri di devozione. Questa personalizzazione della pietà ebbe
probabilmente grande importanza nella esclusione dei borghesi dal mondo della
religione popolare, molto più incline alle manifestazioni esteriori e
all’organizzazione collettiva dell’identità rituale e religiosa.
Secondo una teoria recente l’inizio dell’era moderna, specie i
secoli XVII e XVII assistette al
consolidarsi di uno nuovo modello di comportamento sociale basato su una più
netta suddivisione dell’esistenza nelle due sfere separate del pubblico e del
privato. Il ceto medio, che sempre più cercava rifugio nel mondo atomizzato
dell’io e nei suoi immediati dintorni (stretta cerchia familiare), partecipò
intensamente a questa trasformazione. Non si arrivò al punto in cui "ogni
persona, rinchiusa in se stessa, si comporta come se fosse estranea al destino
di tutti gli altri". Vi fu la costruzione di un ethos di classe improntato
a egoismo, una "crescita di individualismo", ma moderate. Il nuovo
individualismo era incentrato sulla famiglia, dove il borghese, stanco della
scena della vita cittadina, si ritirava. Diversamente dalla famiglia
aristocratica, ossessionata dall’onore e dagli interessi di lignaggio (in genere
patrilignaggio), la famiglia borghese faceva riferimento all’unità nucleare
delle due generazioni di genitori e di figli. La famiglia non era più un’unità
economica alla cui riproduzione si doveva sacrificare tutto. Non era più una
restrizione della libertà individuale, un luogo in cui il potere era
controllato dalle donne. Diventò ciò che non era mai stata: un rifugio in cui
la gente fuggiva per sottrarsi allo sguardo indiscreto degli estranei; un
centro della vita emozionale; un luogo in cui, nel bene e nel male, i figli
costituivano l’oggetto principale delle attenzioni. Vi fu l’ascesa della
famiglia nucleare. Diversamente dalla virtù eroica del passato aristocratico,
la mentalità borghese si basava sulla virtù morale, esaltava la pietà, la
sobrietà, la spontanea assunzione delle responsabilità, creando così anche una
formula efficace che conciliava il conflitto tra le esigenze del bene pubblico
e il perseguimento dell’interesse privato.
IL BORGHESE DALL'INTERNO: SAMUEL PEPYS
Per il ritratto dell’io interiore del borghese disponiamo dei
diari che Samuel Pepys (1633-1703) scrisse dal 1660 al 1669. Pubblico
funzionario solerte e socialmente ambizioso. Da oscuro e secondario impiegato
statale salì fino ai primi ranghi della burocrazia, acquistando un potere e un
prestigio sempre maggiori nell’amministrazione della marina reale. Era un vero
e proprio arrampicatore sociale, con lo scopo della stima sociale e dei soldi.
Chiave del suo successo era per lui la diligenza. Da 25 sterline il suo
patrimonio, in dieci anni, arrivò a 10.000 sterline, senza essere un
funzionario troppo corrotto.
Pepys non perde occasione di divertimento, specie
trattenimenti sociali e consumismo. Nel decennio del diario ha relazioni con
non meno di 50 donne. Il suo fondo puritano gli fa giustificare il tutto
dicendosi che è ora che si è in buona salute che ci si può divertire e non si
deve perdere l’occasione.
I borghesi avevano un forte senso di distacco sia dalla
nobiltà che dalla plebe, classe pericolosa che minacciava l’ordine e la
proprietà. Nei confronti dei nobili erano consapevoli dei molteplici confini
che la separavano perfino dai borghesi più ricchi, che avevano le migliori chances, ma che erano consapevoli dei
limiti sociali della loro condizione di non nobili.
L’attaccamento borghese all’ordine era legato a questa
percezione di mediocrità, di essere
nel mezzo. Ma la mobilità sociale era perfettamente accettata purché fossero
riconosciute e rispettate le regole del gioco. Collegata all’adesione
all’ordine e alla regola era la spiccata razionalità borghese, la fiducia nella
ragione e nei procedimenti logici, che precede di gran lunga la deificazione
che ne fa l’illuminismo. Di qui anche il conservatorismo e il conformismo
innati, l’interesse per la stabilità e la diffidenza per il rischio e
l’innovazione.
Il vero borghese non era un dinamico imprenditore capitalista, un fortunato giocatore d’azzardo,
un precursore della modernità anche se spesso appartenevano alla borghesia
color (relativamente pochi( che in epoca barocca assunsero questi ruoli. Al contrario
apprezzava più la sicurezza che la voglia di rischiare e preferiva i percorsi
familiari. Gli storici lo hanno accusato di "tradimento", di essere
"ceto fallimentare", "in via di sparizione" nel XVII
secolo, specie nei paesi del Mediterraneo.Si tratta di un’esagerazione, che ha
sottolineato troppo la fuga collettiva verso la classe nobile da parte di una
visibile ma esigua minoranza. Anche il molto decantato spostamento nei modelli
di investimento del ceto medio dal commercio alla terra non significava
necessariamente che il ceto stesse voltando le spalle alle sue origini
commerciali. Le proprietà rurali spesso venivano acquisite per ragioni molto
pratiche, es. per accrescere la possibilità di ottenere ipoteche o crediti di
altro tipo. E’ innegabile che ricorrere a forme di investimento di minor
rischio e maggiore sicurezza era un comportamento molto razionale, specie in
periodi come il XVII secolo, in cui le maggiori difficoltà economiche rendevano
meno redditizi i modelli tradizionali di commercio e produzione, specialmente
nelle più mature economie urbane del Sudeuropa.
C’era una costante spinta borghese alla sicurezza. Il marchio
di garanzia della strategia borghese per
la sopravvivenza e per l’eventuale avanzamento sociale era la conformità alle
aspettative del ceto dominante, e l’aristocrazia continuò di fatto a dominare
le società europee durante tutta l’età barocca. Sarebbe troppo aspettarsi
eroismo da una classe allora come oggi ben consapevole di avere – a differenza
di quasi tutti gli altri gruppi sociali – qualcosa da perdere.