LA NOTTE NELLA CASA DI ILSE |
Ero nella casa d'Ilse, in una notte
della invernale Parigi chimerica.
La stanza era piena del fumo che il vento di fuori respingeva
per la canna del camino acceso. E la fata freddolosa vietava di aprire le
finestre.
Intorno a un liocorno di legno dorato, proveniente da quell'impero birmano che è amico della musica. Alastair vestito d'una tunica azzurra broccata
d'oro aveva danzato le sue danze gotiche. Tra cervi di bronzo e antilopi e
altri svelti animali dell'Estremo Oriente che sembravano pascolare il tappeto,
aveva officiato in rima un rimatore vestito da vescovo violetto, con i capelli
tagliati in tondo nello stile della santa chierica di Frate Angelico. Coricata
su i cuscini bassi, la dama del luogo pareva una figura di cera dagli occhi di
smalto; ma rivelava la vita movendo leggermente la gamba dalla caviglia
sottilissima, come la serpe batte la coda nell'amore o nella collera.
Era una di quelle ore arteficiate
che la follia la fantasia e la nostalgia lavorano insieme come tre streghe
intorno a un beveraggio sospetto.
Ma in mezzo a tanta falsità e morbidezza c'era una coppia di
forze rudi: il fumo risoffiato dal vento e Isnayat-Khan
cantore indiano.
Il fumo di tizzo uccideva i profumi perfidi. La bocca
dischiusa d'Isnayat fece tacere le civette e gli
assioli.
Il liocorno cercò invano un grembo di donzella vergine dove
potesse riposare la testa altiera e addormentarsi
nella dolcezza dell'umiliamento. Ma parve contribuire alla perfezione del
silenzio col suo mistero favoloso.
Il cantore era seduto con pacatezza, come se quel fumo gli
venisse dai roghi del fiume padre e non gli potesse offendere la voce. Portava
una tunica d'un color giallo rosato e una gran collana d'ambra. Teneva stese su
le ginocchia le mani brune. Una corta barba nera compiva l'ovale del suo vòlto bronzino. Il bianco degli occhi era più puro che un
guscio d'uovo di tortora. Ed egli cantava sempre a bocca aperta, modulando le
note nella gola.
Conosceva più di cinquecento modi.
Era un uomo fragile, era un petto d'uomo scarno; e il suo
canto pareva sorgere dalla profondità del tempio, venire di più giù che la
pietra, di più giù che lo spazio di sotterra, fondere in sé le aspirazioni di
tutta la stirpe, raccogliere in sé il travaglio di tute le radici.
Non c'erano più pareti, non c'era più il camino angusto; non
c'erano più fantasmi né maschere né frodi.
C'era il fumo del rogo, e il sudore che ingemmava la fronte
del cantore sacro.
Nella pausa nessuno più osava parlare o esclamare.
Isnayat mi guardava a ogni principio
di canto. Voleva significarmi che cantava per me solo.
Per me solo cantò il canto antelucano, il canto d'innanzi
l'alba, misterioso come il messaggio del vento inviato sopra l'affanno della
terra da Colui "che è intento ad accrescere la luce".