JUDE E NORA
La
vecchia ansima per lo sforzo, il secchio pieno d'acqua risale oscillando e
sbattendo contro la incamiciatura di mattoni deformata dal tempo. Le sue mani
perdono a tratti la presa sulla catena di ferro, che le sfrega dolorosamente la
pelle screpolata dal freddo. Quel pozzo è tutta la fortuna che ha: qualsiasi
altra cosa deve procurarsela con interminabili andirivieni su e giù per la
collina, fino alle prime case dell'abitato a valle.
Ma
stavolta quello che ne emerge è un'acqua torbida e nauseabonda, imbevibile. Lei
si affaccia dal bordo: la carogna galleggia putrida nella falda freatica, il
ventre gonfio. È un cane, o un piccolo di pecora o di vitello, non è facile
scorgere bene il fondo, male illuminato da un pallido sole invernale. Non è la
prima volta che i contadini usano il suo pozzo come ammazzatoio per animali
vecchi, malati o malformati.
Si
passa una mano tremante sulla fronte per detergere il sudore. Nessuna
imprecazione esce dalla bocca, gli angoli perennemente incurvati in una piega
amara e rassegnata, le labbra strette ed esangui. Non ha alcun senso reagire.
La volta che si è recata a protestare presso un vicino le hanno aizzato contro
i cani. È dovuta fuggire incespicando mentre i contadini ridevano e
fischiavano.
Sanno
bene che ora lei dovrà sobbarcarsi ogni giorno un lungo tragitto fino
all'antico lavatoio romano, all'altro capo della vallata, con il suo carrettino
carico di bidoni del latte rugginosi.
La vecchia gira col carrettino e
raccatta stracci. Più spesso raccatta sputi e carogne di piccoli animali che le
vengono gettati addosso. Indossa stivali di gomma, un impermeabile logoro
stretto in vita da una cintura sdrucita, un foulard annodato sotto il mento.
Quando c'è il vento gli orli del foulard le sbattono furiosamente sulla faccia.
Sul carrettino carica ciocchi di legno, arbusti secchi, torba, frutta marcia ed
erbe che raccoglie nei campi, ciò che la aiuta a sopravvivere.
L'antica casa in cui abita, Plas
Mold, si trova su una altura che domina una vallata. Per arrivarci la vecchia affronta
una ripida salita, ogni giorno, tirando il suo carico. Al calar della notte la
casa si risveglia. Il vento ulula intorno, facendola gemere e scricchiolare
come una nave. Dalla finestra della stanza col camino, al pianterreno, si
vedono la vallata buia e il cielo stellato. L'incessante ruggito del vento
copre del tutto i rumori del bestiame nei campi. L'inverno arriva presto, nel
nord del Galles, ed è molto rigido. Piove per giorni, e ogni mattina, al
risveglio, la donna ritrova i banchi di nuvoloni grigi che passano sulla
vallata, il picchiettare della pioggia sul tetto e i latrati dei cani da
pastore sui pascoli del bestiame.
Le fattorie sono sparse sulle
colline e in lontananza si intravede una cava di ghiaia. L'acqua piovana scorre
giù per i fossi e al passaggio della donna le pecore si ammucchiano belando
dietro le spesse siepi potate. A parte qualche contadino non incontra mai
un'anima. Trasportate dal vento, le foglie cadute si raccolgono in mucchi
fradici lungo i canali di scolo. L'acqua gocciola dai rami spogli degli alberi.
Durante la cattiva stagione le strade intorno a Llandudno sono una distesa di
fango e letame.
Proseguendo oltre la casa ci si
inoltra nell'altopiano di Cladwyn Heath. Per chilometri, tutt'attorno, si stende
un panorama desolato di muschio e felci, con qua e là un albero rachitico, ma
abbastanza resistente da opporre al vento il suo profilo ricurvo. Compaiono
precipizi improvvisi, nelle cui profonde fenditure si raccoglie l'acqua
stagnante; le pozze sono circondate da un intrico di vegetazione bassa e
l'acqua, in ombra, sembra nera e limacciosa, sinistra. In quella brughiera
solitaria aleggia un'atmosfera cupa, di violenza, che tutti percepiscono. Ci
sono piccoli boschi e stagni. Punti da cui si può vedere il mare distante
alcuni chilometri. I sentieri dell'altopiano sono stretti e pietrosi, salgono e
scendono tra montagnole e ciuffi d'erica, neanche un albero a spezzare quel
paesaggio vuoto e quel cielo troppo vicino. Il vento è umido e sferzante.
Nella casa, oltre alla donna, che
si chiama Marion, si possono percepire altre tre presenze: quelle di James,
Imogen e Guy. Altri due ospiti sono attesi tra non molto. Un bambino e una
bambina. I loro nomi sono Jude e Nora. Lei non può dimenticarli, anche se vorrebbe
con tutta se stessa. Per l'intera settimana il vento ha ululato dalla brughiera
come un sabba di anime dannate. Sono le voci di Jude e Nora che gridano, ancora
a distanza di quarant'anni, la loro disperazione e la loro rabbia, che si
scagliano contro le mura dietro cui lei si è barricata per tutto questo tempo
col desiderio di distruggerle e lei con esse. La donna ha ricevuto il
telegramma che la informa della morte di Imogen, come in passato aveva ricevuto
quello della morte di Guy e la notizia della morte di James. Sa che Jude e Nora
stanno tornando. Che anche la sua vita sta per terminare.
Il paese vicino è Llandudno,
affacciato sul Mare di Irlanda, sulla costa del Galles del nord. Una regione di
scure foreste e di gente taciturna, uomini guardinghi, sospettosi, cupi,
sfuggenti, che per gli inglesi covano un risentimento antico. Quanto alle donne,
sono tutte incattivite dalla fatica. Nei loro occhi c'è solo delusione, rancore
e rassegnazione alla sterilità per quelle che non si sono sposate o non hanno
avuto figli. Tutti i ragazzini del paese e delle fattorie conoscono la vecchia
Marion. Lei c'è sempre stata, quando sono nati lei faceva già parte di
Llandudno. La fanno oggetto di scherzi crudeli, ma lei non si lamenta. La gente
è fatta così, seleziona con fiuto infallibile le proprie vittime fra le più
fragili. Infierisce sugli animali malati e indifesi, su coloro che sono in
difficoltà e hanno bisogno d'aiuto. L'ha capito ormai da tempo.
Non le serve l'alcol. Freddo, buio,
fame, lavoro, umiliazioni, da trent'anni a quella parte, sono stati sufficienti
ad abbrutirla come una bottiglia di gin. La verità è che ha paura che il gin, invece
di scacciare i pensieri, lasci uscire i suoi demoni. E questo lei non può
permetterlo. Deve esercitare il controllo. Deve essere lucida.
Marion dorme pochissimo, se mai
dorme. La notte è il momento in cui loro vengono a trovarla. Passi, risatine,
"Marion… Marion…". Il suo letto oscilla come se qualcuno ci si appoggi
per curvarsi su di lei. Ma talvolta gli scrolloni al letto diventano furiosi,
sente dei morsi sul corpo. La mattina dopo ha delle tracce livide dappertutto.
Lei vorrebbe parlare, scusarsi. Ma le risatine proseguono. Non le rispondono. Li
sente muoversi, sinuosi come serpi. Qualcosa striscia per le stanze, alla base
delle pareti, come un lebbroso con gli arti corrosi che è costretto a trascinarsi
sul pavimento. A tratti avverte un ansimare, altre volte un mugolio. Altre
volte Marion si sente afferrare la caviglia.
Quando la notte avvolge Plas Mold
un alito gelido spira per le stanze. Un senso di orrore, paura e disperazione
filtra dai muri. Stuzzica la pelle come tante piccole zampe di insetto. I pochi
che sono venuti a trovare la vecchia non hanno resistito, dopo che il sole è
cominciato a tramontare. Se ne sono andati in fretta, lasciandola lì,
chiedendosi come possa sopportarlo. Le presenze della casa non la lasciano
dormire, sono sempre inquiete, come animali in gabbia. Le strappano le coperte
e il freddo la sveglia. Strattonano il pagliericcio e lo fanno cadere a terra.
Di giorno sono troppo deboli. La
notte strisciano fuori. Sono macchie sulle pareti. Correnti fredde. Respiri
accanto a lei. Sedie che cigolano. Raffiche di colpi. Passi improvvisi di corsa
per le scale. Marion non guarda la luce della luna che si proietta sui muri,
perché cominciano a comparire ombre che si muovono. Quelle cose non sono più
umane. Marion ha paura. Loro sono molto furiosi con lei, perché lei è viva. Marion
si domanda perché gli altri sono stati uccisi prima di lei. Ha saputo degli
ultimi momenti di Imogen, degli incubi terribili che la tormentavano. Del
suicidio di Guy. Ma forse a lei è riservata una sorte peggiore.
Quando si era stabilita a Plas
Mold, aveva portato con sé un piccolo gattino bianco. Glielo hanno fatto
trovare col collo spezzato. Aveva raccolto piccoli uccelli dai nidi e li aveva
nutriti. Le hanno fatto trovare morti pure quelli. Dopo di allora lei non
accoglie più piccole creature nella casa. Niente di vivo è in quella casa, a
parte lei. I colombi che vi tubavano quarant'anni prima se ne sono andati.
Colombacci, tortore e merli ne stanno lontani. Gli alberi intorno stormiscono
silenziosi e vuoti.
Il tempo sembra congelato nella
campagna dell'interno, a Llandudno. Non c'è cambiamento. Non c'è miglioramento.
Non c'è gioia. Non ci sono forestieri. Non ci sono turisti, neanche d'estate.
Per questo lei è rimasta lì, in quello scenario fisso e immutabile. L'ultima
visita che ha ricevuto risale a ventinove anni prima, un anno dopo che è
ritornata in quel luogo.
È una giornata limpida e ventosa.
Banchi di nuvole si inseguono nel cielo. L'ampia vallata è chiusa da lunghe
colline basse con file di alberi in cresta. La strada, cosparsa di letame,
corre tra siepi selvatiche e muri a secco. A quattro o cinque chilometri dal
paese l'ispettore capo Nigel Brown dice all'autista di accostare a lato della
strada e di farlo scendere. Lui rientrerà a piedi all'albergo. Imbocca l'erto
viottolo che dal nastro asfaltato si inerpica tra i boschi di carpini, tra le
cui fronde, molto in alto, si intravede un abbaino. Dopo dieci minuti la casa
diviene visibile. È un massiccio blocco grigio e squadrato che sovrasta la
vallata. All'inizio dell'ultimo tratto del sentiero, che arriva dritto alla
porta, lungo un lieve pendio, c'è un arco di mattoni e una targa: "Plas
Mold". Se c'erano un muro di cinta o una cancellata, ora non ci sono più.
Come al solito, alla fine
dell'inverno c'è molto vento, ma non piove. È un cielo irrequieto, mosso.
Adesso il sole è più alto; la primavera è alle porte. Il fumo bianco che esce
dai camini va verso est. La donna sta uscendo con il cesto del bucato. Sta
andando a stenderlo sulla corda tesa di fianco alla casa, dove c'è una macchia
d'erba. I panni già stesi sbattono rumorosamente. L'uomo e la donna rimangono
in piedi nel vento, lei aggrappata con tutte e due le mani al suo cesto di
biancheria.
Non deve avere più di trentacinque
o trentasei anni, ma la sua bellezza è come prosciugata. Nonostante gli occhi
chiarissimi e la pelle che un tempo è stata liscia e splendente, sembra senza
età e senza sesso, un frutto dimenticato da tempo immemorabile, e ormai senza
più una stilla di succo. Brown si rende conto che vive in una condizione di estrema
povertà.
«Buongiorno, Marion». Prova ad
accendere una sigaretta nel vento, ma rinuncia e la getta via. «La cantina è
rimasta com'era allora?»
La donna non risponde.
«Sto per andare in pensione» le
dice. «Sono un poliziotto, i casi irrisolti mi disturbano, continuano a
tormentarmi. Vorrei potermi dedicare senza pensieri alla lettura e alla pesca».
La guarda. «Ormai il reato è caduto
in prescrizione, Marion. Anche volendo non potrei arrestare nessuno: non vuoi
dirmi chi era con te quella notte?»
La donna restituisce il suo sguardo
impassibile. «Non so di che parli».
«Hai pagato solo tu, Marion
Vaughan. Ti è sembrato giusto decidere al posto della giustizia degli uomini.
«Mi hanno detto che eri ritornata.
Non hai espiato abbastanza? I tuoi amici, Imogen, Guy, James, non hanno avuto
nessun rimorso, hanno solo cercato di dimenticare. Perché hai deciso di
rimanere a Plas Mold?»
La donna si stringe nelle spalle.
Forse non lo sa neanche lei. Non che Brown si aspetti risposte, dopo tutti
quegli anni. È venuto solo per vederla un'ultima volta. Per lasciarsi alle
spalle il passato. Chiude gli ultimi bottoni del cappotto, rialza il bavero, si
calca il cappello e se ne va senza voltarsi.
Marion Vaughan ritorna con la
memoria alla prima volta che ha incontrato Imogen, Guy e James. Erano tutti
studenti ad Oxford, quell'anno, il 1883, e frequentavano il corso di
letteratura classica di James Carmichael. James era diventato fellow solo l'anno prima, a 27 anni, e stava cominciando a
farsi una notevole fama come studioso dei poeti greci e latini.
Aveva riunito intorno a sé un
circolo formato dagli studenti più brillanti, colti e curiosi. Insieme a lei,
ne facevano parte tutti coloro che si sarebbero incontrati a Llandudno quattro
anni dopo, in quella fatale notte di novembre del 1887. L'anno del primo
incontro, ad Oxford, fu indimenticabile. Erano inseparabili. Studiavano
insieme, discutevano, facevano lunghe camminate nella campagna inglese. Si
muovevano tra Oxford e Londra. Condividevano l'amore per il teatro
elisabettiano di Marlowe, Johnson e Shakespeare, quello per i manoscritti
antichi che si potevano scovare nelle piccole librerie di Bloombury, le
passeggiate lungo le antiche strade romane.
Ma soprattutto, James li iniziò all'amore
per il paganesimo, per la libertà degli uomini dell'antichità classica.
Spiegava loro come il Cristianesimo avesse demonizzato il dio Pan, simbolo dello
spirito dionisiaco, sotto le spoglie del Satana biblico; avesse represso le
passioni elevate e nobili dell'uomo di Atene o di Roma per sostituirle con un
abietto servilismo nei confronti di un Dio tiranno e con la negazione dei
propri istinti vitali.
James era stato per un breve
periodo all'Università di Basilea, dove aveva conosciuto un giovane filosofo
che giusto allora cominciava a farsi notare, un altro filologo, di nome
Friedrich Nietzsche. Aveva tradotto per loro, leggendoli dal tedesco, lunghi
passi di Umano, troppo umano, e de La gaia scienza, due opere che Nietzsche
aveva pubblicato a sue spese, e in seguito le bozze di Così parlò Zarathustra,
che avevano cominciato a circolare in una ristretta cerchia di conoscenti. Ma
fece anche conoscere loro le opere di Pico della Mirandola, dal Discorso sulla
dignità dell'uomo all'Heptaplus, il libro cabalistico
sull'interpretazione dei sette giorni della Genesi. Quelle di Marsilio Ficino, di Tommaso Campanella e di altri pensatori che
inneggiavano alla dignità dell'uomo e alle sue capacità di realizzazione
mistica.
Era un periodo di grande fermento
esoterico. Infuriava la polemica antimassonica alimentata dai libri
sensazionalistici di Léo Taxil
e Gaston Bois. Bois aveva raccontato
di culti massonici deviati, che mescolavano massoneria, cabala e satanismo. Di
chiese sataniche in India e in America, presso le città dei Mormoni. Di lì a
poco, nel 1888, due medici massoni, William Robert Woodman
e William Wynn Westcott,
avrebbero fondato la Golden Dawn, confraternita
mistico-magica destinata ad attirare gli esponenti del pensiero eterodosso più
notevoli dell'epoca, dallo scrittore Samuel Liddell MacGregor Mathers, ad Edmund Waite, Oswald Wirth, Edmund William Berridge
e William Butler Yeats, il poeta.
La ventata spiritista era già
passata nei salotti inglesi a metà del secolo, ed ora essi erano avidi di
novità. Venivano ristampate le opere di Papus ed Eliphas Lévi. Si commentavano i
simboli cabalistici dell' Oedipus
Aegyptiacus di Athanasius Kircher; ci si appassionava alla vicenda, narrata a puntate
sui giornali francesi come un feuilleton, della lotta dell'abate Boullan con il satanista Karl Kellner.
Di lì a poco, nel 1897, avrebbe fatto scalpore Là-Bas
di Joris-Karl Huysmans, con
la sua fedele descrizione di messe nere e sabba.
Su ispirazione di James, fondarono
una confraternita segreta, magica e neopagana, l'Astrum
Argentinum, di cui sottoscrissero solennemente il manifesto
fondamentale nel corso di una cerimonia di iniziazione:
Non c'è altro dio che l'uomo.
L'uomo ha diritto di vivere secondo
la sua stessa legge:
di vivere come vuole
di lavorare come vuole
di giocare come vuole
di riposare come vuole
di morire quando e come vuole.
L'uomo ha diritto di darsi il
nutrimento che vuole:
di bere quello che vuole
di stare dove vuole
di muoversi come vuole sulla faccia della Terra.
L'uomo ha il diritto di pensare
quello che vuole:
di dire quello che vuole
di scrivere quello che vuole
di disegnare, dipingere, scolpire, modellare, costruire come
vuole
di vestirsi come vuole.
L'uomo ha il diritto di amare come
vuole: di prendersi tutto l'amore che vuole, quando, dove e con chi vuole.
L'uomo ha il diritto di uccidere
coloro che volessero negargli questi diritti.
Il Diavolo non esiste: è un Falso
Nome gettato dalla Falsa Chiesa sui liberi appetiti dello spirito umano.
Suggellarono il loro patto con il
dettaglio melodrammatico della firma col proprio sangue.
Vivevano un sogno distaccato dalla
realtà. La cerimonia fu un grosso errore, la breccia nel segreto che fino a
quel momento li aveva protetti loro malgrado. Uno studente che aveva preso
parte al giuramento, pentito, denunciò James Carmichael alle autorità
accademiche. Lo scandalo fu immediato. James lasciò Oxford e non diede più
notizia di sé. I suoi studenti prediletti furono in un breve arco di tempo
individuati ed espulsi. Senza il sostegno e la guida della sua personalità,
disperso per il Paese, il gruppo si sciolse rapidamente tra diatribe, litigi e
stanche ripetizioni di rituali.
Imogen tornò a Londra, dove
acquistò una facciata di rispettabilità sposando un ricco commerciante di
stoffe, ma grazie al suo patrimonio personale mantenne la propria indipendenza
e si immerse di nuovo nella vita libera di Bloombury.
Marion tornò alla tenuta di
famiglia, a Thetford, nel Norfolk, dove, insieme alla
sorella Elizabeth, che aveva chiesto il suo aiuto, cercò di prendere le redini
della amministrazione dopo il periodo di abbandono seguito alla morte del padre
e alla depressione della madre.
Guy finì gli studi di medicina e
andò ad esercitare in una sperduta città industriale del nord. Gli altri
lasciarono Oxford senza che Marion avesse più informazioni su dove si
trovassero.
Poi, cinque anni dopo che James si
era dileguato e il cerchio si era sciolto, i suoi antichi compagni ricevettero
una sua lettera. Li voleva di nuovo a Llandudno. Prometteva loro grandi
rivelazioni. Diede un appuntamento a Londra per il primo di settembre, ed essi
andarono.
Le idee di James Carmichael avevano
preso una piega più tenebrosa di quella che ci si poteva aspettare dalla
lettura dei libri di Nietzsche e degli autori classici. Disse loro che un
sacerdote di Durga, in un tempio di Calcutta, gli
aveva dato un pugnale e gli aveva indicato di torturare e uccidere con quello
due bambini, un maschio e una femmina. Il sacrificio avrebbe aperto agli
officianti le porte delle realtà nascoste, concesso poteri inimmaginabili.
Raccontò loro la storia delle sue esperienze in India.
Era riparato dapprima in Svizzera,
a Basilea. Nietzsche non c'era più, la sua salute cagionevole lo aveva
costretto a rinunciare alla cattedra. James l'anno successivo andò in India,
dove trovò impiego nell'amministrazione coloniale francese. A Pondicherry fu
introdotto al culto di Durga, una delle
manifestazioni di Kali, la "dea terrificante
alla quale si offrono sacrifici di sangue". Rappresentava la vita cosmica
in continuo e violento rinnovamento ed era allo stesso tempo generatrice e
distruttrice, madre sacra e divoratrice della vita che donava.
Da tempo francesi e inglesi
cercavano di estirpare in India la consuetudine dei sacrifici umani. Ragazzini
e bambini venivano offerti in sacrificio per la fertilità dei raccolti o
sgozzati perché il sangue rimanesse a guardia delle fondamenta di un ponte o di
un edificio; o utilizzati per rituali più oscuri, su commissione di ricchi
rajah che pagavano per una divinazione o per un talismano dotato di magia
potente. James era interessato ai dettagli del culto di Durga.
Si servì delle informazioni della gendarmeria coloniale francese, cui aveva
accesso, per individuare e contattare gli adepti del culto. Si guadagnò la loro
fiducia avvertendoli delle indagini in corso e rivelando i nomi degli informatori
– che loro eliminarono. Alla fine, come raccontò al circolo che aveva di nuovo
riunito, fu invitato ad assistere ad una cerimonia.
Il bambino e la bambina erano stati
drogati con un'erba che li paralizzava lasciandoli coscienti, in modo che
potessero realizzare l'orrore di ciò che li attendeva: il dolore e la paura
propiziavano l'evocazione delle divinità infere. Un fachiro dalla pelle scura,
quasi nera, di razza dravidica, tracciò con estrema cura, con sabbia di vari
colori, un intricato mandala di protezione. Poi i bambini furono trasportati al
centro, e il rito iniziò.
James lo descrisse in dettaglio.
Nel momento culminante, il sacerdote dravida sgozzò i bambini. Poi uscì dal
cerchio interno e richiuse accuratamente le aperture che aveva praticato nella
sabbia. Era notte inoltrata. Erano nel sotterraneo di un vecchio tempio,
illuminato soltanto con le torce. Si disposero ad attendere.
Erano passate due ore, quando il
sacerdote recitò una formula che richiamava il bambino e la bambina
dall'oltretomba. Essi, lentamente, si alzarono in piedi e stettero di fronte a
lui, con la gola aperta e gli occhi vacui. Erano tornati portando in sé qualcun
altro, la cui voce raspante rispose alle domande dell'officiante. Svelò eventi
futuri che, disse James, si verificarono in seguito con assoluta precisione.
Poi, con estrema cura, l'officiante
congedò ciò che aveva evocato. Tracciò un altro cerchio intorno ai precedenti.
I cadaveri furono lasciati dov'erano per tre settimane, un ciclo lunare, fino a
che, gonfi e putrefatti, non costituirono più un pericolo e poterono essere
gettati in una pira, insieme ad altri corpi, e bruciati come immondizia.
Loro, James e i suoi antichi
compagni, avrebbero ripetuto il rito.
James Carmichael li precedette a Llandudno,
per riaprire la casa, e li aspettò per i primi di novembre. Aveva fatto bene i
suoi conti nel chiedere a Marion Vaughan, Guy Peirce, Imogen
Woolsey, Hilary Putnam, Rob Harrison e Bert Osborne di tornare a Llandudno da lui.
Aveva lanciato le sue reti con la consueta abilità. Alcuni vennero per
curiosità, o noia, o ricerca di esperienze proibite. Altri perché non avevano
smesso di essere attratti da lui. Altri erano legati a quelli che venivano, intrappolati
in una rete di amori e odi che li catturava come la pania cattura il topo o
l'uccello.
Bert Osborne era un omosessuale
morbosamente interessato al sangue e al sadismo, sedotto dal carattere brusco,
crudele e autoritario di Rob Harrison. Rob era segretamente innamorato di
Imogen, come del resto James, anche se naturalmente non avrebbe mai ammesso
questa debolezza. Marion era innamorata perdutamente di James fin dal primo
momento, come Hilary. Guy era invaghito di Hilary e in cuor suo odiava James.
Sperava di portargliela via e andarsene.
Quanto ad Imogen, la bellissima,
ricca, annoiata Imogen, lei era innamorata unicamente di se stessa. O piuttosto
della vita. La Belle Époque era finita col sangue della prima guerra mondiale e
della rivoluzione russa. Innumerevoli uomini erano rimasti uccisi. Innumerevoli
fortune erano state rovinate. La povertà sostituì l'opulenza. Ma quel periodo
inquieto sembrava particolarmente propizio agli amori passeggeri e senza
futuro. La guerra aveva sciolto molti legami. Le donne si legavano alcune con
incostanza, altre con disperazione e avidità. Gli uomini che erano tornati
induriti e cambiati dal fronte si gettavano disillusi in questo turbine per
stordirsi. Imogen aveva sempre intorno a sé uno stuolo di corteggiatori.
I bambini furono procurati da
Imogen e Guy, che tornarono due settimane a Londra appositamente. Due monelli
di strada che trovarono chissà dove e tennero per un po' nella casa di Guy a
Oxford Street. Poi li caricarono sull'auto e vennero al nord. I bambini,
all'arrivo, erano addormentati. Imogen somministrava loro caramelle con la
morfina. Avevano dieci anni lui e nove anni lei, erano fratelli. Si chiamavano
Jude e Nora.
Quella settimana il gruppo si era
riunito nella cantina per tracciare gli elaborati pentacoli di cui James aveva
portato con sé gli schemi, per provare la cerimonia, per dipingere le pareti e
il pavimento con la calce e per iniziare i digiuni e le operazioni preliminari.
I preparativi li tennero occupati, ed evitarono che l'atmosfera tesa tra di
loro sfociasse in aperti dissidi. Marion, Hilary e Imogen adattarono i
paramenti che Imogen e Guy avevano portato da Londra a Llandudno insieme alle
candele, all'incenso e agli altri materiali. La sera di sabato, Guy somministrò
a Jude e Nora una blanda dose di morfina per calmarli e tracciò con inchiostro
indelebile sulla loro schiena un segno in corrispondenza della posizione del
cuore. La femmina era tranquilla, ma il maschio doveva aver intuito qualcosa,
perché era stato sempre più irrequieto e spaventato.
Mentre risaliva la strada sterrata
nel bosco con una sporta di provviste comperate in paese, Marion sentì delle
grida provenire della casa e lo scalpiccio di una corsa giù per il sentiero
nella sua direzione.
«Riprendi quell'animale!» gridò Guy
correndo fuori dalla casa con la guancia graffiata a sangue. Lei mise a terra
il paniere e pochi istanti dopo agguantò Jude, con indosso solo un paio di
pantaloncini e a piedi scalzi. Lo tenne fermo. Le sue braccia e le sue mani, irrobustite
dai lavori della fattoria, lo trattenevano senza difficoltà mentre lui soffiava
e strideva come un piccolo animale. Aveva una malformazione del palato che gli
impediva di parlare correttamente e lo faceva sibilare. «Lasshiami,
sshignora, lasshiami scappare!»
la supplicò. Marion lo tenne fermo finché gli altri arrivarono. Lo presero e lo
riportarono scalciante nella casa.
A distanza di quarant'anni, quel
fotogramma della memoria la affligge ancora. Una delle tappe che hanno
sigillato il suo destino. Ogni volta che va giù in paese passa di fronte ad una
edicola con l'immagine di una Madonna dei Sette Dolori, il cuore confitto di
coltelli. Il ricordo delle parole di Jude è uno dei coltelli della sua corona
di dolori, insieme al sorriso esitante e fiducioso di Nora, quando lei l'aveva
accolta e rifocillata al suo arrivo a Plas Mold. E insieme al pensiero di
James, drogato e alcolizzato, ridotto a farsi mantenere da Imogen, ammazzato
come un cane, lontano da lei, senza che avesse potuto fare nulla.
Sono tutti riuniti nello
scantinato. I canti e i riti preliminari sono terminati. Jude e Nora sono stesi
bocconi, nudi, al centro della cantina, semi-incoscienti, con le mani legate
dietro la schiena. Guy ha somministrato loro un medicinale che viene utilizzato
per immobilizzare i cavalli bisognosi di cure. Dà luogo ad una paralisi dei
muscoli, ma non ha effetti sul cuore. Una croce rovesciata è stata incisa sul
loro petto col coltello.
James si avvicina salmodiando.
Conficca il pugnale prima nella schiena di lui, in corrispondenza del segno, e
poi di lei.
Marion ha visto una volta, alla sua
fattoria, un uccellino colpito dai pallini del fucile del padre agonizzare
sotto la pianta da cui era caduto, soffocato dal proprio sangue, le piume
imbrattate di rosso, il becco che si apriva e si chiudeva, gli occhi serrati
dalla sofferenza. Quell'immagine si confonde, nella sua memoria, con quelle di
Jude e Nora, i piccoli corpi scossi da brevi sussulti mentre il sangue si
allarga sotto di loro, sgorgando dalla bocca e dal naso.
James esce dal cerchio camminando
all'indietro, continuando a cantare e chiudendo di nuovo le linee di
protezione. L'abito cerimoniale gli è scivolato di sghembo, il cappuccio pende
in modo ridicolo dalla testa, i capelli sono scarmigliati. È grottesco. Il
rituale è grottesco. Marion capisce che gli uomini e le donne in quella cantina
sono lì per sfida, per dimostrare a se stessi di poter sfidare la società che
quattro anni prima li ha puniti con l'ostracismo. Che la magia e i poteri
interessano loro ben poco.
Guarda James e lo vede come
realmente è. James Carmichael è cambiato. Ha girato il mondo e dice di aver
accumulato una sapienza arcana. Ma Marion nota che è diventato più amaro, più
rabbioso verso coloro che hanno la ricchezza o la fama che lui non ha. Più
avido, nel suo intimo. Vuole ritornare ad avere dei discepoli, un pubblico, un
palcoscenico. Vuole scandalizzare ma al tempo stesso guadagnare l'attenzione
della società che lo ha cacciato. Eppure, proprio in quel momento, Marion sente
di amarlo intensamente, prova un bisogno straziante di stargli vicino, di
offrirgli il suo appoggio. La sua vita è un caos confuso.
James ora ha ripreso posizione tra
i partecipanti, che sono disposti tra il cerchio interno e quello esterno,
protetti da Jude e da Nora dalle linee del pentacolo. James sta comandando ai
due cadaveri di rialzarsi. Ripete più volte le parole dell'evocazione. Anche se
c'è curiosità e attesa nei partecipanti, nessuno si aspetta veramente quel che
avviene subito dopo.
Il corpo di Jude ha uno spasmo. Le
braccia si agitano come per artigliare il terreno. Poi comincia a contorcersi come
un serpente e striscia lungo le linee del cerchio in cerca di un varco. Lui e
Nora si muovono come due rettili, con velocità non umana, la lingua
innaturalmente lunga che serpeggia fuori e dentro la bocca insanguinata. Al
chiarore delle lampade la loro pelle ha assunto una intensa tonalità viola, il
colore di Durga.
Hilary Putnam grida di terrore e si
volta per fuggire. Il braccio di Jude scatta fulmineo e la mano le ghermisce la
caviglia. Lei si afferra a Rob Harrison e lo fa cadere. Rob è terrorizzato,
cerca di liberarsi, «Lasciami, stupida pazza!»
Nora ha piantato le unghie in
faccia a Bert Osborne, che grida come un maiale scannato. Le luci delle candele
vanno spegnendosi. James, Marion, Imogen e Guy fanno appena a tempo a gettarsi
verso la porta e a serrarla dietro di loro. Viene scossa da violentissimi
colpi. James, livido, afferra un gesso per terra. Traccia dei segni sulla
porta. Pronuncia una lunga formula.
I colpi sulla porta cessano, ma
nella stanza da cui sono fuggiti si sta scatenando l'inferno. Tonfi di corpi
che vengono scaraventati sulle pareti, urla disperate, ringhi e mugolii che
fanno accapponare la pelle. Imogen e Marion sono accucciate in un angolo del
pavimento dinanzi alla porta della cantina, abbracciate l'una all'altra. James
è appoggiato alla parete, in piedi, in procinto di svenire. Attendono così
l'alba. Le urla durano per ore. Quando sembra che siano cessate, iniziano di
nuovo i versi animali e sentono le voci disperate dei loro compagni.
Quando, a metà del giorno dopo, con
la luce del sole alta nel cielo, trovano il coraggio di aprire la porta ed
entrare, trovano tre cadaveri smembrati e nessuna traccia di Jude e Nora. Le
ossa sono state strappate violentemente dai muscoli, frantumate con i denti e
ne è stato succhiato il midollo.
Le ombre del crepuscolo cominciano
ad allungarsi quando hanno finito di trasportarli all'esterno. Imogen e Marion
fanno tre viaggi, con il carretto e la lanterna, fino alla brughiera, protetti
dalla notte. Gettano i corpi nei crepacci profondi dell'altopiano di Cladwyn, dove
le acque e le erbe della brughiera si raccolgono in pozze fetide.
Imogen, la mattina dopo, è già
sulla porta che fuma nervosamente l'ultima sigaretta e la getta a terra. «Finisci
di pulire la cantina e sparisci in fretta pure tu, Marion. Io non ce la faccio
a rimanere un minuto di più». Col suo tipico egoismo, se ne va, portando con sé
anche James. Guy era fuggito la notte precedente.
Marion non è più scesa in quella
cantina. Ha serrato la porta e ha gettato la chiave nel pozzo. Il gruppo dei
superstiti si era disperso. Per un po' si tennero in contatto epistolare, poi
prevalse la logica della salvezza individuale e non si scrissero più.
Imogen e Guy erano partiti da un
pezzo quando arrivarono i poliziotti a Plas Mold. Hilary Putnam e Bert Osborne
avevano alloggiato per tre giorni in un albergo di Llandudno, e la polizia
aveva parlato con le persone che avevano visto diversi forestieri aggirarsi per
il paese. Sciamarono dappertutto ma non trovarono granché. Solo quando aprirono
la cantina Marion udì le esclamazioni e vide gli ispettori scendere di corsa.
Non li seguì, continuò a fumare
nervosa una sigaretta dopo l'altra, senza in realtà vedere o udire realmente
nulla, né le voci né le domande che le venivano rivolte. Due ore dopo era
seduta di fronte all'ispettore Nigel Brown e al soprintendente Jack Straffen, al tavolo della cucina. Due poliziotti erano
appoggiati alla parete e assistevano all'interrogatorio.
C'era sangue dappertutto, si
sospettava che fosse umano e i campioni erano stati mandati all'ospedale
locale. Era stato trovato sangue sul portafoglio di Rob Harrison. La
tempestarono di domande, ma lei continuò a guardare fuori dalla finestra senza
vedere niente. Venne trattenuta in stato di fermo e messa in cella. Veniva
spostata da una stanza all'altra e interrogata all'infinito, senza che dicesse
loro una sola parola. Alla fine la incriminarono per omicidio e occultamento di
cadavere.
Non si lamentò quando le lessero la
sentenza: dieci anni di manicomio criminale. Né quando la trasportarono per un
tempo interminabile per la campagna scozzese su un furgone scassato, in
compagnia di altri come lei. Né quando la scortarono alla sua cameretta, le
spiegarono le rigide regole e le diedero gli abiti degli internati. Lasciò che
le dicessero cosa fare, dove lavarsi, cosa mangiare e quali medicine prendere.
Lei aveva esaurito ogni energia, ogni impulso.
Il manicomio era un posto
spaventoso. Era un istituto di massima sicurezza, una cittadella fortificata
che sorgeva su un alto colle e dominava la campagna circostante: fitte pinete a
nord e a ovest, bassi acquitrini a sud. Era costruito secondo il tipico schema
lineare dell'architettura vittoriana, con i bracci che si irradiavano dai corpi
principali in modo che tutti i padiglioni avessero la vista libera sull'aperta
campagna di là dal muro. Era un'architettura morale, che esprimeva regolarità,
disciplina e organizzazione.
Tutte le porte si aprivano verso
l'esterno perché non si potessero barricare, e tutte le finestre avevano le
sbarre. Solo le terrazze digradanti, che scendevano fino al muro ai piedi della
collina ricoperte di alberi, manti erbosi e aiuole fiorite, ingentilivano e
rendevano in qualche misura più umana la tetra architettura carceraria che le
sovrastava. Marion si sentiva al tempo stesso rinchiusa e al sicuro
dall'esterno, protetta da Jude e Nora, anche se sapeva che niente avrebbe
potuto proteggerla, quando fosse giunto il momento.
La sorella si era sposata e ora il
marito l'aiutava nella conduzione della tenuta. Elizabeth la andava a trovare
una volta al mese, ma Marion non aveva niente da dirle. Non intendeva
soddisfare la sua curiosità, le mille domande che certamente affollavano il suo
cervello ed erano alimentate da tutte le storie che aveva sentito su di lei e
ciò che aveva commesso. Elizabeth voleva capire, ma come poteva, dal momento
che lei stessa, Marion, non riusciva a farlo?
Quando fu dimessa, Elizabeth la
venne a prendere e la portò a conoscere il marito, che non le aveva fatto
visita una sola volta. Tra lui e Marion l'antipatia fu immediata. Una settimana
dopo il suo arrivo lei, Elizabeth e Martin si riunirono dopo cena al tavolo
della cucina e discussero le faccende del patrimonio. Lei chiese che la sua
parte fosse liquidata. Martin le offrì una cifra irrisoria. Minacciò
velatamente di farla interdire. Marion era già stata in giro e aveva parlato
con l'avvocato di famiglia che Martin aveva opportunamente licenziato e con il fattore,
pure licenziato – Martin ne aveva subito assunto un altro. Ne sapeva abbastanza
per recarsi dal giudice della Contea e far andare in carcere suo cognato per
appropriazione indebita. Ma non volle ferire la sorella.
Non capiva come Elizabeth avesse potuto
cambiare tanto. Era diventata un'appendice di Martin e della suocera, pendeva
dalle sue labbra, aveva perso ogni iniziativa. Quello che più faceva infuriare
Marion era che Martin la colpevolizzava perché non avevano ancora un figlio.
Quel bastardo sapeva di colpire nel punto debole. Vedere sua sorella triste e
depressa le era intollerabile. Accettò la liquidazione e firmò un documento con
cui rinunciava a qualsiasi altra pretesa sui beni ereditari. Quel posto non le
apparteneva più, non lo sentiva più come casa sua. Poteva rimanere, ma sapeva
che sarebbero scoppiati litigi continui con Martin, e questo avrebbe fatto del
male a Elizabeth. Era troppo debole e sfinita per lottare per la sorella, per
convincerla a lasciare Martin, che aveva un'amante giù a Norwich. Non le
importava più di nulla. Ci vollero due settimane perché il notaio svolgesse
tutte le pratiche e poi lei partì per andare a trovare Imogen.
L'ultimo colloquio, il più
difficile, lo ebbe con Edgar Stark. Erano cresciuti
insieme, in fattorie vicine. Se lei non avesse incontrato James, sicuramente si
sarebbero sposati. Lui non aveva mai cessato di attenderla. Quando lei era
ritornata a Thetford, aveva sperato di nuovo.
«Lasciami andare» gli disse, «sposa
un'altra. Se starai con me, sarai il bersaglio del mio odio. Se vivrò con te,
ti distruggerò». La sua voce era asciutta, aspra, senza commozione. Marion era
spietata. Lo odiava per la sua devozione. Lo odiava perché non era James. Ormai
avrebbe odiato qualsiasi persona cui aveva voluto bene, per il semplice motivo che
le portavano affetto e avevano compassione di lei. Doveva andarsene lontano da
tutti.
Edgar era una persona
straordinaria. La guardò per un lungo istante e disse solo: «Sei così
incredibilmente bella, Marion. Lo sei sempre stata, ma la sofferenza ha reso la
tua bellezza più adulta, matura». Scosse la testa. «Non riesco a credere che
qualcuno abbia sprecato tutto questo». Poi si voltò e se ne andò senza
guardarsi indietro.
Era Imogen la proprietaria di Plas
Mold. Glielo aveva comunicato di persona, andandola a trovare tre anni dopo il
suo internamento. Era venuta per controllare che lei non parlasse. James,
sprovvisto di mezzi, era andato a stare da lei e aveva vissuto a sue spese.
Imogen, col suo solito spirito pratico, si era fatta intestare la casa di
Llandudno. James si era attaccato alla bottiglia e alla morfina. Farneticava di
stupire i circoli esoterici londinesi, che lo avevano ostracizzato una volta
per tutte, di prendersi una grandiosa rivincita facendo rivelazioni straordinarie.
Ma fu quando si mise a scrivere un resoconto romanzato delle vicende di Plas
Mold con l'intenzione di pubblicarlo che Imogen si rese conto che era
definitivamente impazzito ed era diventato una minaccia per lei. Così lo
uccise, con una dose di morfina, con la stessa impassibile efficienza con cui
Marion le aveva visto una volta sparare a bruciapelo al suo vecchio collie
semicieco e ormai paralizzato.
Marion le offrì la somma avuta da
Martin per Plas Mold. Imogen, anche se ricca, era una donna dura e scaltra,
dotata di senso pratico. Fra loro non c'era mai stata amicizia. Le rise in
faccia. «Plas Mold vale molto di più».
Marion, con estrema calma, la
minacciò di deporre contro di lei accusandola di complicità nella sparizione di
Rob Harrison, Hilary Putnam, Bert Osborne. Il reato non era caduto in
prescrizione, e l'ispettore Brown non aveva mai rinunciato al tentativo di
identificare tutti i colpevoli.
Imogen le vendette la casa. «Non ti
riconosco più» le disse quando si videro per l'ultima volta. «Perché vuoi
quella maledetta casa? Cosa stai facendo, Marion? Mi fai paura. Quando ti ho
conosciuto ti ho sottovalutato. Eri innocente come una vergine del Botticelli,
innamorata del tuo James. Mi divertivi. Vattene pure a Plas Mold. Non venirmi
più a trovare. Puoi morire di fame a Llandudno».
Imogen era convinta che Marion si
stesse vendicando in questo modo nei suoi confronti per l'assassinio di James,
ma Marion aveva capito che la vita di James era terminata la notte di dieci
anni prima a Plas Mold. Non le serbava rancore. Gli unici sentimenti che
provava erano un dolore acuto che la faceva torcere in due per la fine
squallida di James e altro dolore perché lui era andato a trovare Imogen e non
lei. Come un animale ferito si ritirò a Llandudno. Desiderava solo far sparire
tutto e tutti dalla sua vita. Aveva molti dolori da covare, e questo richiedeva
solitudine.
A Llandudno il suo ritorno non fu
accolto bene. Il pastore Austin le aizzò addosso i parrocchiani, dipingendola
come la puttana dell'Anticristo, la donna sulla bestia dell'Apocalisse, che era
tornata per riportare il demonio nella loro comunità. La descrisse come una
pervertita e un'ubriacona e una fumatrice. In realtà Marion non aveva quasi più
i soldi per acquistare i fiammiferi, figurarsi fumare. Si era attaccata alla
bottiglia di gin – lei che non l'aveva mai potuto tollerare negli altri, a
cominciare da suo padre – per vedere se riusciva a dimenticare. Ma l'alcol aggravava
il suo malessere, le procurava una nausea violenta, la faceva vomitare. Era come
stordirsi prendendo un brutto colpo in testa. Aveva smesso quasi subito, ma la
calunnia del reverendo aveva ormai attecchito. La sua vita divenne orribile.
Tutti si rifiutavano di aiutarla, cadde in estrema povertà – il resto
dell'eredità, tolto quello che aveva investito in Plas Mold, era ben poca cosa.
Ma le vicissitudini esteriori non
rappresentavano per lei niente di particolarmente spaventoso a paragone con
quello che provava dentro di sé. Così strinse i denti e sopravvisse. Svolgeva
lavori di cucito, in cui era molto abile, per le signore della città vicina a
Llandudno, sulla costa. Glieli portava e li ritirava l'autista della corriera,
con cui si era messa d'accordo. Faceva cestini per aragoste e li rivendeva ai
turisti, che li compravano perché avevano belle decorazioni. Non rivendeva i
cestini ai pescatori: non aveva praticamente alcun rapporto con la popolazione
di Llandudno, se si faceva eccezione per il droghiere e il proprietario della
merceria, che la truffavano invariabilmente sul prezzo senza che lei dicesse
niente. La sua principale fonte di sostentamento era la raccolta di buccini.
Appena arrivata a Llandudno, dieci anni prima, gliene aveva parlato il vecchio
Fergus giù al molo, conversando del più e del meno.
I buccini erano una specie di
conchiglie grigiastre – occorreva scartare quelli piccoli, che non valevano
niente, ma quelli grossi andavano bene. Abbondavano all'estuario di Llandudno.
Ce n'erano milioni, se si cercavano nel periodo adatto. Aveva acquistato un
libro sulle maree dalla Guardia Costiera, spendendo 75 pence.
Calcolava quando arrivava la bassa marea, andava alla spiaggia col carrettino e
cominciava a raccoglierli. Appena ne aveva abbastanza lo faceva sapere ad un
commerciante di Chester, che veniva a prenderli raggiunto un ammontare
superiore ai venti chili, quantità che lei impiegava una settimana a
raccogliere.
I buccini valevano parecchio in
Spagna e in Francia. Il commerciante di Chester li rivendeva ai fornitori dei
ristoranti. Non ce n'erano mai abbastanza, specie d'inverno. La maggior parte
di quelli che li raccoglievano volevano lavorare solo d'estate. D'inverno non
faceva troppo freddo per i buccini, ma faceva troppo freddo per le persone. Ma
Marion si metteva un paio di guanti di gomma, usciva con qualsiasi tempo e
stringeva i denti, senza badare alle mani screpolate o ai piedi gonfi. O questo
o morire di fame, e lei aveva ancora, curiosamente, un attaccamento residuo
alla vita. O piuttosto sentiva che non era ancora venuta la sua ora.
I buccini non andavano a male, ci
voleva una settimana prima che morissero, e Marion li teneva da parte per un
po' in modo da far scivolare via l'acqua. Stesa nel letto, senza dormire,
sentiva i risucchi dei molluschi che tentavano di uscire dal borsone. Le
facevano schifo. Le prime volte aveva trascurato di chiuderlo e quelli erano
strisciati fuori fino alla camera da letto.
Jude e Nora sono arrivati. La porta
sulle scale per la cantina è aperta. Loro sono usciti da lì e sono entrati dove
è lei ad attenderli, nella cucina illuminata dalla luce del fuoco.
«Noi siamo i sacrificati che sono
divenuti sacrificatori» dice piano il bambino.
«Noi apriamo le porte delle realtà
oscure. Noi diamo la morte e la rinascita» dice piano la bambina. «Noi siamo
Jude e Nora, non ci riconosci?»
La donna li guarda. Ora non sono
più umani. I riflessi e le ombre del fuoco si sono fusi con i loro volti, che
danzano di fiamme nere e rosse.
«Gli altri sono già con noi. Manchi
solo tu. Incontrerai il tuo James, Marion. Finalmente.
«Abbiamo preso James per primo. Oh,
non lo abbiamo ucciso subito. Lui sentiva la nostra presenza ed era
terrorizzato. Ha cominciato a bere e a drogarsi per esorcizzarci. Quando è
morto era un relitto pietoso.
«Poi siamo andati a cercare Imogen.
Viveva bene, era sposata ad un commerciante molto ricco, che la amava, ci
crederesti? Con Imogen siamo stati più cattivi. È morta in manicomio, il
cervello devastato da un parassita tropicale contratto durante un viaggio in Nordafrica. Vuoi che ti descriviamo i deliri di Imogen
prima di morire? O li puoi immaginare perfettamente anche tu?
«Poi siamo andati a cercare Guy.
Guy era stato investito da un'auto, guarda caso, ed è finito sciancato, le ossa
frantumate senza possibilità di rimetterle a posto. Non poteva camminare a
lungo. Passava molto del suo tempo in carrozzella. I dolori, specie quelli al
bacino, erano così atroci che ha cominciato a drogarsi prendendo la morfina
dall'armadietto farmaceutico del suo ambulatorio. Diceva agli ispettori che la
sua clientela era molto anziana, che doveva somministrare molti antidolorifici.
Alla fine si è suicidato con un colpo di pistola».
Il ragazzo non ha più naso né bocca
né occhi. Marion si accorge che i denti sono piccoli e aguzzi, come quelli di
un grosso gatto. Il viso è l'allegoria di un orribile felino, si stira in un
ghigno. Nora non parla. Si tiene dietro a Jude. Ma Marion sente che le sue
orbite vuote la fissano.
«Vieni».
Tenendosi per mano, Marion, Jude e
Nora scendono i gradini della cantina.