Hillman, Il sogno e il mondo infero

 

 

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Indice

 

 

1. un ponte.

 

2. freud

 

freud e la mia tesi

 

fechner, freud e il mondo infero

 

3. la psiche

 

profondità

 

ade

 

la progenie della notte

 

mondo infero e sottosuolo

 

mondo infero e psiche

 

immagini ed ombre

 

le persone del sogno

 

la metafora della morte

 

4. barriere

 

il materialismo

 

l'opposizionismo

 

il cristianesimo

 

5. il sogno

 

romanticismi sul sogno

 

l'io onirico

 

il livello soggettivo

 

tipi di anima

 

eracle nella casa di ade

 

il lavoro onirico

 

narciso e il sogno

 

duplicità del sogno

 

i sogni, il lavoro della morte

 

il materiale onirico

 

6. la pratica

 

"caveat lector"

 

il nero

 

la malattia

 

gli animali

 

corpi d'acqua

 

ricordare e dimenticare

 

il ritardo

 

la rotondità

 

la psicopatia

 

il ghiaccio

 

pasti rituali

 

baldoria

 

porte e cancelli

 

fango e diarrea

 

odori e fumo

 

lo spazio

 

l'atteggiamento nei confronti dei sogni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. un ponte

 

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C'è chi afferma che quasi tutte le idee possono es­sere espresse con poche parole, come nei frammen­ti dei presocratici, e che quelle poche parole si pos­sono ulteriormente condensare in un titolo; dun­que il nome da dare a un libro non è cosa da pren­dersi alla leggera. Come possibili titoli del presente lavoro avevo pensato a «Il ponte del sogno», o an­che «Il sogno tra mondo e mondo infero ». Freud aveva già usato una metafora analoga definendo il sogno la via regia di accesso all'inconscio. Ma poiché da allora, nella pratica terapeutica, tale via maestra è diventata perlopiù una strada a senso unico che convoglia tutto il traffico mattutino dall'inconscio verso la città dell'Io, ho deciso di imboccare la dire­zione opposta. Di qui il mio titolo, a indicare un di­verso flusso, vespertino, diciamo, verso l'oscurità. Dunque, per cominciare, devo ammettere che u­serò quel ponte a mia volta con una certa univocità di intenti. Questo piccolo libro propone un modo di consi­derare il sogno diverso da quelli a cui siamo abituati. La sua tesi non si fonda sull'idea di rimozione (Freud) né su quella di compensazione (Jung) , ma immagina i sogni in relazione all'anima e l'anima in relazione alla morte. Mi sono convinto che un pro­cesso di interpretazione dei sogni che miri a un in­cremento della coscienza finalizzata alla vita sia to­talmente sbagliato. Sbagliato nel senso più pieno del termine: nocivo, perverso, ingannevole, inade­guato, erroneo e, sul piano esegetico, offensivo nei confronti del suo materiale, il sogno. Quando fac­ciamo torto al sogno, facciamo torto all'anima, e se l'anima possiede l'intimo nesso con la morte che la tradizione le ha sempre attribuito, allora l'erronea interpretazione dei sogni inganna il nostro morire. Nelle pagine che seguono esamineremo a fondo che cosa sia quel morire, che cosa sia quella morte in relazione ai sogni.

Cominciamo con una domanda, ovvia e tuttavia trascurata: a quale regione mitologica, a quali Dei, appartengono i sogni? La domanda ha un assunto: conoscendo il «luogo» di appartenenza dei sogni, conosceremo meglio ciò che essi vogliono, ciò che significano, e come dobbiamo trattarli. E le conse­guenze della risposta collocano la teoria del sogno qui esposta su una base mitica: che i sogni appar­tengano al mondo infero e ai suoi Dei non è un mi­stero, lo preannuncia il nostro titolo e il secondo breve capitolo mostra come sia antica l'idea che i so­gni abbiano una base mitica. Freud, forse suo mal­grado, compì precisamente questo stesso gesto quando si rivolse al mondo infero del mito per fondarvi la sua teoria dei sogni.

La novità consiste nel compiere una re-visione del sogno alla luce del mito. Le teorie dei sogni non mancano. Ogni ben fornita comunità psicoanalitica (Uptown Manhattan, Harley Street o Hampstead, Beverly Hìlls, Zurigo) ne offre un vasto assortimen­to: freudiana, freudiana ortodossa, neofreudiana, freudiana con innesti psicodinamici, junghiana di tutte le forme e sfumature, psicodrammatico-ge­staltica, mistico-trascendentale, empirico-scientifica, comportamentistico-egologica, parapsicologico-pri­mordiale, per tacere dei vari approcci esistenziali e fenomenologici che si rifanno al romanticismo e a prima ancora. Eppure, nessuna, che io sappia, pone la questione del mito; nessuna tenta di costruire una teoria, e con essa una prassi, fondata su un ap­proccio archetipico alla questione dei sogni. Altri hanno scorto miti nei sogni e li hanno usati come amplificazione dei motivi onirici. Tutt'altra cosa è però il vedere i sogni come fenomeni che emergo­no da un «luogo» archetipico specifico e che corri­spondono a una precisa geografia mitica e il riflette­re poi quel luogo, il mondo infero, nella teoria psi­cologica. Riconnettendo teoria psicologica e theoria (dal verbo greco theorein: guardare, esaminare) mi­tologica, noi ci cimentiamo in una psicologia dei so­gni che cerca di mantenere sempre viva nel nostro lavoro su di essi una sensibilità «ìnfera».

Questa mossa all'indietro, dal logos al mythos, controcorrente rispetto all'orientamento storicisti­co della nostra cultura, è l'esito di un lungo processo. Presentai per la prima volta alcuni dei temi di questo saggio nel 1972, in una conferenza che tenni a New York su invito di David Miller e James Wig­gins, presso la American Society of Arts, Religion, and Culture, sotto l'affabile direzione di Stanley Ro­maine Hopper. Il testo di quella conferenza, am­pliato, andò a costituire il mio contributo alle gior­nate di Eranos del 1973, ad Ascona, e fu pubblicato in Correspondences in Man and World, a cura di Adolf Portmann e Rudolf Ritsema.' Il presente testo, pur accresciuto e arricchito, reca sempre l'impronta di Eranos, la comunità dove per diversi anni sono ve­nuto elaborando specifici temi archetipici, con rife­rimento alla loro influenza sulla nostra coscienza, in particolare sulle idee e sugli atteggiamenti della psi­cologia.

Ho esaminato la psicologia dello sviluppo e della crescita dell'Io alla luce dell'archetipo del Puer (1971), la psicologia del conflitto tra vecchiaia e gio­vinezza alla luce della coppia Puer-Senex (1967), la diagnosi di isteria e di femminilità inferiore attra­verso la configurazione archetipica di Dioniso (1969) e l'accanimento terapeutico sulla trasforma­zione dell'anormale in normale attraverso le figure di Ananke e di Atena (1974). In ciascun caso, ho cercato di vedere in trasparenza talune posizioni psichiche generalmente riconosciute, ponendole sullo sfondo mitico pertinente, nella speranza che la prospettiva archetipica possa correggere la nostra visione della psiche e descrivere in modo più psico­logico (cioè autoriflessivo, immaginale, più profon­do) le formulazioni e le pratiche della psicologia.

Questo saggio, come i precedenti, è dunque un esercizio di epistrophe, una reversione, un ritorno, un richiamare i fenomeni alloro retro terra immagina­le. Più direttamente, questo principio (considerare i fenomeni alla luce delle loro somiglianze) deriva dal lavoro di Henry Corbin, caro amico di Eranos, e dal metodo del ta 'wil, da lui spiegato e illustrato in tutta la sua opera. Etimologicamente, dice Corbin, ta 'wil è « "reconduire, ramener (riportare)" una chose à son origine et principe, à son archetipe»; « Nel ta 'wil bisogna riportare le forme sensibili alle forme immaginative e poi sollevarsi a significati ancora più alti; procedere in direzione opposta (riportando le forme immaginative alle forme sensibili in cui hanno origine) equivale a distruggere la virtualità dell'immaginazione ».

La reversione secondo la somiglianza è un principio primo dell'approccio archetipico a tutti gli e­venti psichici. Ed è a sua volta un ponte, un metodo che riconnette un evento alla sua immagine, un processo psichico al suo mito, una sofferenza dell'a­nima al mistero immaginale di cui è espressione. La epistrophe, o ritorno attraverso la somiglianza, offre all'interpretazione psicologica una via maestra per ritrovare l'ordine tra la confusione dei fenomeni psichici, diversa dall'idea freudiana di sviluppo e da quella junghiana di opposti. Questo metodo, inol­tre, presenta due distinti vantaggi. In primo luogo, ci obbliga a riportare lo sguardo sul fenomeno: su ciò che è stato effettivamente sognato, effettivamen­te affermato, effettivamente esperito, giacché solo esaminando da vicino l'evento in questione possia­mo cercare di scoprire a quale tra molte costellazio­ni archetipiche potrebbe assomigliare. «Quale tra molte» abbiamo detto; e questo è il secondo vantag­gio: infatti, un unico principio esplicativo, per esem­pio il Sé di Jung o lo sviluppo della libido di Freud, per profonda e differenziata che ne sia la formula­zione, non offre alla intrinseca varietà della psiche una gamma di immagini somiglianti altrettanto ric­ca. La epistrophe implica il ritorno a molteplici possi­bilità, a corrispondenze con le immagini che nessu­na descrizione sistematica può abbracciare.

L'immagine è stata il mio punto di partenza per la re-visione in senso archetipico della psicologia. Nel presente libro, tale attenzione per le immagini viene portata avanti ed elaborata in maniera più particolareggiata. Anzi, questo libro fa da ponte (o da tunnel) per entrare negli altri miei scritti. Qui, infatti, la psicologia dell'immagine è situata più de­cisamente all'interno di una psicologia dei sogni e della morte. Una psicologia del profondo che si affida alle nebulose immagini della fantasia, alla profondità e alla patologizzazione e alla terapia co­me culto dell'anima ha come suo riferimento mito­logico il mondo infero. Nella psicologia del profon­do, partire dall'immagine è iniziare nel mondo in­fero del mito, e dunque questo libro fornisce alla nostra psicologia dell'immagine la prospettiva miti­ca. Sostenere che le immagini vengono prima è dire che i sogni sono i dati primari e che la coscienza diurna inizia sempre nella notte e della notte reca su di sé le ombre. La nostra psicologia del profondo parte dalla prospettiva della morte.

Tali slittamenti prospettici non mirano solo alla critica e alla correzione di ciò che in psicologia è già stato detto, nella fattispecie sul sogno. C'è dell'al­tro: l'improvvisa visione che si apre quando si lancia un ponte tra un evento quotidiano o un concetto e il suo simile mitico può generare prospettive nuove e inattese non soltanto sulla psicologia della nostra esperienza personale, che tendiamo a dare per scon­tata, ma anche sulla psicologia, che ben conoscia­mo, della teoria psicologica contemporanea.

Nonostante il mio debole per gli estremismi e le provocazioni e il mio gusto infantile nel rivelare che il re è nudo, in questa mia ricerca mi sono imposto di rispettare limiti ben precisi. Vorrei chiarire subito i princìpi che stanno alla base di tali limiti, perché essi non solo precisano la portata del presente libro e il metodo seguito, ma costituiscono una dichiara­zione di fede.

In primo luogo, indipendentemente dalle altezze e dalle profondità psichiche in cui ci avventurere­mo nelle nostre congetture e nei nostri scandagli, cercheremo di rimanere entro i confini della psiche occidentale, delle radici culturali, geografiche e sto­riche che essa ha nella nostra tradizione. L'impresa romantica dell'esplorazione e della scoperta è possi­bile soltanto entro i confini classici di ciò che è anti­co, noto e delimitato. Il nuovo, in questa ottica, si­gnifica semplicemente rinnovamento, rinascimen­to, recupero, non già creazione; ciò che diremo è ri­volto ai morti e al passato, non al futuro, il quale farà quel che vorrà; ciò che diremo è un commento, una nota a piè di pagina, su ciò che altri hanno compiuto prima di noi e meglio di noi, è un ponte gettato all'indietro.

Perciò, ed è il secondo principio, cercheremo di mantenerci entro il campo della psicologia. Così co­me Freud e Jung ripudiarono l'anatomia, la biolo­gia, le scienze naturali e la teologia come premesse della loro idea della psiche, alla stessa stregua la tra­dizione della psicologia del profondo deve stare in casa propria e crearsi il proprio humus man mano che procede. Il terreno (la psicodinamica, la psico­terapIa, la psicopatologia) è ormai ben arato ben­ché il campo abbia solo ottant'anni. Ma io non cre­do che l'erba dei vicini sia più verde: può essere ver­de anche l'erba sotto i nostri piedi, a patto che lavorinamo la terra di bel nuovo, il che in psicologia del profondo significa scavare sempre più in profondi­tà: un ponte verso il basso.

In terzo luogo, per rendere ancora più rigorosi i nostri limitì, la parte del campo della psicologia che zapperemo è la stessa su cui lavorarono Freud e Jung. Anzi, è il loro podere. Noi, però, lo areremo da un' altra angolatura, senza usare il loro aratro e senza seguire i loro solchi, ma rivoltando le loro zol­le secondo il nostro stile. I contorni che emergeran­no saranno forse diversi, ma il campo è il medesi­mo, ben delimitato: la psiche dell'uomo occidentale nella sua tradizione storica e nella sua situazione culturale; anche l'intento è il medesimo: formulare una, psicologia. che rifletta la bruciante importanza dell anima individuale. Un ponte verso l'interno.

 

 

 

 

2. freud

 

 

freud e la mia tesi

 

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La domanda da cui partiamo prende le mosse da Aristotele. È una domanda pratica, che interessa ciascuno di noi, la mattina, quando cerchiamo di in­terpretare i nostri sogni. Aristotele ha detto: « Il mi­gliore interprete di sogni è colui che sa notare le somìglianze ». Dunque, a che cosa somiglia il sogno? E non intendo le immagini o i pensieri onirici, ma il sogno in quanto tale. Qual è la cosa che è simile al sogno, ovvero in rapporto a quale mito o universo si potrebbero interpretare le immagini oniriche? A quale mondo corrispondono i sogni? Non è forse vero che, se sapessimo rispondere a questa doman­da, sarebbe possibile situare tutti i contenuti onirici sul loro giusto sfondo con maggiore verità e profon­dità?

In risposta alla mia domanda, vi invito ad associarvi a una fantasia rimasta viva a lungo e che infat­ti è romantica, rinascimentale e greca. Voglio mette­re indietro l'orologio. Voglio riprendere daccapo il filo del sogno, ritornando a tempi precedenti quelli di Freud.

La grande opera di Freud sui sogni uscì il 4 no­vembre 1899 (IS, p. XXI), benché quel «1900» stam­pato sul frontespizio annunciasse il nuovo secolo. Quel libro rappresenta effettivamente il punto di svolta. Nella relazione con la psiche, aprì la nostra epoca e chiuse quella precedente.

Tre erano le concezioni allora prevalenti riguar­do al sogno: la concezione romantica, quella razio­nalistica e quella che potremmo chiamare somatici­stica. Freud raccolse alcuni fili di ciascuna e li in­trecciò insieme in un tessuto di grande eleganza. Dai romantici prese l'idea che il sogno contenesse un messaggio personale, nascosto ma importante, proveniente da un altro mondo. Dei razionalisti ac­colse l'idea che il sogno manifesto, il linguaggio onirico così come si presentava, fosse un guazzabu­glio senza senso (ma per Freud decodificabile in un significato e un valore latenti). Con i somaticisti condivise l'idea che il sogno riflettesse processi fisiolo­gici (limitandoli, però, essenzialmente alla sessuali­tà e al sonno).

Delle tre, la posizione romantica era la più vicina al fondatore della psicoanalisi e proprio per questo, essendo stata maggiormente assimilata, è quella che è scomparsa del tutto nell'epoca postfreudiana in cui oggi viviamo e sogniamo. Come i romantici, Freud costruì un mondo sul sogno e lo ricollegò principalmente con il regno del sonno (SMTS, pp. 89-90), il mondo notturno, e con la mitologia classi­ca, assegnandogli una regione distinta, con una sua topografia. Ribadendo che i sogni erano «assoluta­mente egoistici» (SMTS, p. 90), « non essendo di per sé ... un'espressione sociale, un mezzo per farsi capi­re» (IP- NS, p. 125), Freud ne sottolineò il significato e l'importanza personali, di nuovo un punto di vista romantico. Il sogno è un fenomeno totalmente intrapsichico, in-comprensibile allo stesso sognatore che lo sogna e sembra muoversi al suo interno e svolgervi un ruolo.

Introdusse però due concessioni ai razionalisti. Equiparò il mondo dei sogni a una psicosi tempora­nea, in quanto il mondo notturno e il mondo psico­tico rappresentano entrambi «un voltare le spalle al mondo esterno della realtà» (IP-NS, p. 131). Insom­ma, si schierò con la visione della salute mentale propria del mondo diurno, dove realtà significava realtà esterna, sociale, materiale.

La seconda concessione è ancora più significati­va, e disastrosa per la sua impresa. Mi riferisco all'i­dea secondo la quale i residui diurni (Tagesreste) so­no le pietre con le quali è costruito il sogno: « ... l'e­sperienza ci ha insegnato che in quasi tutti i sogni è incorporata una traccia mnestica, un'allusione a un avvenimento ... del giorno precedente; e se seguia­mo questi collegamenti spesso scopriamo di colpo il ponte che dal mondo apparentemente remoto dei sogni conduce alla vita reale del paziente» (IP-NS, p. 127). Analogamente, « ... tutti i sogni, senza eccezio­ni, si riallacciano a un'impressione degli ultimi gior­ni ... o ... del giorno immediatamente precedente il sogno, il "giorno del sogno"» (IS, p. 24).

Eccolo, il ponte a senso unico a cui accennavo. «Se seguiamo questi collegamenti... », riattraversia­mo il ponte e dal mondo dei sogni approdiamo «al­la vita reale del paziente », al «giorno del sogno », Il fatto che il sogno potesse contenere immagini avan­zate dal giorno, che pure non ricordiamo di avere percepito, fu ben presto confermato sperimental­mente, a Vienna, da Otto Pötzl. In questo modo, la vecchia idea della mente come tabula rasa, la conce­zione dell'empirismo razionalistico, non fu sostanzialmente intaccata dalla nuova teoria freudiana del sogno. Si poteva dimostrare che i sogni consisteva­no in immagini percepite subliminalmente nel mondo diurno. Nella mente continuava a non esserci niente che non fosse prima nei sensi. Sì, il so­gno forse aveva un significato, ma fondamental­mente era una ricombinazione di residui diurni in base ai bisogni istintuali del sonno e della sessuali­tà. Alla fine, il sogno diventa, come dice Freud, un « compromesso» tra le esigenze del mondo nottur­no e quelle del mondo diurno. O non sarà piuttosto l'idea freudiana del sogno un compromesso tra il mondo notturno dei romantici e il mondo diurno dei razionalisti? All'esame finale, comunque, il com­promesso non regge. Vincono i razionalisti.

La posizione razionalista ha sconfitto quella ro­mantica perché Freud riconduce il sogno al mondo supero. Questo avviene in primo luogo attraverso i residui diurni e il ritorno al giorno precedente (Opere, IX, p. 421), quindi attraverso la definizione freudiana di interpretazione come «traduzione nel­la lingua della vita di veglia» (Opere, X, p. 153).

Bisogna dire qui che Freud riconobbe pienamen­te, e nel senso più romantico, che il sogno in sé ap­partiene al mondo infero. Dice infatti che i residui diurni «non costituiscono ancora il sogno ... Essi, da soli, non sono in grado di produrre un sogno. In senso stretto non costituiscono altro che il materiale psichico per il lavoro onirico » (Opere, VII, p. 174). Il mondo diurno è soltanto la causa materiale del so­gno; le sue cause formale, efficiente e finale sono i desideri di Eros che agiscono nottetempo sulla psi­che affinché essa continui a dormire (s, p. 45; IS, p. 154 nota).

Inoltre, egli si pronuncia in modo netto e inequi­vocabile sulla causa finale, sullo scopo del sogno: non ha niente a che fare con il mondo diurno. Dice Freud: « … è sviante affermare che i sogni vertono sui compiti dell'esistenza che ci stanno dinanzi, o che cercano una soluzione per i problemi della vita quotidiana ... Una tale utilità pratica è quanto mai lontana dai sogni ... L'unica funzione utile che si può ascrivere al sogno è quella di proteggere il son­no» (Opere, X, p. 153). Il sogno è in tutto e per tut­to estraneo alla vita di veglia, al suo linguaggio, alla sua moralità (ibid., p. 157-60), alla sua logica, alla sua scansione temporale, talmente estraneo, anzi, che Freud ne parla con il linguaggio della psicopa­tologia: narcisismo, allucinazione, psicosi (IP-NS, p. 134; SMTS, p. 96); sintomi isterici, idee ossessive (s, p.49).

Adesso i contorni del conflitto si profilano in mo­do chiaro: da un lato, il sogno appartiene completa­mente al sonno; dall'altro, l'interpretazione deve ri­portare il sogno nel mondo diurno, salvandolo, di­ciamo, o «riscattandolo » (secondo la metafora di Freud) dalla sua infera follia e immersione nel prin­cipio di piacere. Freud vuole svegliare Psiche, strap­parla al suo amplesso nel mondo notturno del pia­cere erotico, al narcisistico godimento della sua stes­sa ricchezza di immagini. Ecco la sua ambizione. E il suo libro non si intitola «La natura dei sogni », o «Lo studio dei sogni», né «Il mondo dei sogni». Si intitola Die Traumdeutung, «L'interpretazione dei sogni», e per interpretazione Freud intende, come ripetutamente precisa, «traduzione» nella lingua della vita di veglia (Opere, IX, p. 424; X, p. 155; s, p. 46).

Dunque lo scopo dell'interpretazione terapeutica è sempre stato quello di percorrere la via regia del sogno per uscire dal mondo notturno; come dice Freud, tale «lavoro che procede in direzione oppo­sta ... è il nostro lavoro di interpretazione. Esso si pro­pone di annullare il lavoro del sogno» (IP, pp. 341- 42), «di disfare la tela che il lavoro onirico ha tessu­to» (s, p. 48).

Il sogno, da parte sua, oppone resistenza ai tenta­tivi di risvegliarlo in una traduzione (IS, pp. 472-73). Anzi, il concetto di resistenza e quello di interpreta­zione sono legati secondo un rapporto inversamente proporzionale (Opere, IX, pp. 422; X, p. 155; IP­NS, pp. 129-32). Più resistenza c'è tra «l'Io ridesta­to » e «l'inconscio», meno possibilità si hanno di in­terpretare un sogno; meno c'è resistenza tra sogno e mondo diurno, più riesce la traduzione del sogno nella lingua della veglia. In altre parole, esiste una precisa resistenza da parte del sogno a lasciarsi con­vertire nel mondo diurno e utilizzare per gli scopi di questo.

Eppure tale conversione è diventata lo sforzo principale nell'uso terapeutico dei sogni. La matti­na, accendiamo la luce, li trascriviamo, li portiamo all'analista e con lui li interpretiamo per leggervi messaggi sulle situazioni, sulle scelte, sulle relazioni della nostra vita conscia, sui suoi problemi, senti­menti e pensieri. Chissà, per mezzo loro forse ricor­deremo ciò che abbiamo dimenticato del passato, ciò che ci è sfuggito del presente, o potremo pren­dere una decisione per il futuro, leggendo il sogno come una profezia, un oracolo, alla ricerca di ten­denze in atto nel mondo infero che ci possano aiu­tare a meglio gestire la nostra vita.

La nostra tesi (che si oppone alla traduzione dei sogni nella lingua dell'Io) deve far fronte qui a due obiezioni, da parte dei freudiani e da parte degli junghiani. I freudiani insisteranno nel dire che que­sta «opera di recupero» (IP-NS, p. 180) è appunto il compito della terapia: «La psicoanalisi è uno stru­mento inteso a rendere possibile la progressiva con­quista dell'Es da parte dell'Io» (rs, p. 56). L'inter­pretazione dei sogni è una porzione quotidiana di quell'opera di recupero.

L'obiezione degli junghiani è duplice. D'accordo con Freud, essi considerano l'interpretazione dei sogni una funzione precipua della coscienza egoica, momento della complessiva conquista dell'Es, ovve­ro parte del lavoro di rendere conscio l'inconscio, che essi, al modo degli amati alchimisti, intendono come l'opus contra naturam. Per gli junghiani, tutta­via, è la natura stessa a volere tale opus, giacché «il diventare conscio» è in realtà un processo archeti­pico sepolto nel desiderio del sogno stesso. Ecco dunque che il sogno ritorna al mattino e ci chiede di interpretarlo, pur opponendo resistenza all'inter­pretazione. L'interpretazione è al servizio della na­tura, pur interferendo in essa.

L'altra obiezione degli junghiani è ancora più sot­tile. L'analisi junghiana segue il processo di indivi­duazione. Riporta il sogno all'Io desto soltanto nel­l'interesse della psiche nel suo complesso. Non è nell'interesse della vita che gli junghiani concentra­no con tanta intensità l'attenzione sui sogni. Noi, di­rebbe il nostro interlocutore junghiano, nei sogni cerchiamo informazioni circa il processo di indivi­duazione, li leggiamo non già per il loro contenuto letterale, bensì per il loro contenuto simbolico. Li mettiamo in relazione all'Io soltanto a fini di compen­sazione, per sopperire alle carenze del suo atteggia­mento. L'interpretazione dei sogni getta un ponte tra il giorno e la notte, creando un nuovo punto di osservazione a metà strada, più comprensivo, che include sia il sogno sia 1'Io, sia la vita interiore sia la vita esterna.

Le pagine che seguono risponderanno a queste obiezioni di fonte freudiana e junghiana, in fondo riducibili sommariamente a una sola: il sogno esige di essere tradotto nella lingua della veglia, vuoi per esten­dere il dominio della coscienza vigile, vuoi per ri­spondere alla richiesta di una qualità di coscienza più ampia ed equilibrata che la natura stessa pone. Nello sviluppare la mia tesi, seguirò sia Freud sia Jung (ma non farò solo questo): Freud, in quanto sosterrò che il sogno non ha niente a che vedere con il mondo della veglia ma è la psiche che parla a se stessa nella propria lingua; e Jung in quanto so­sterrò che nell'Io deve avvenire un adattamento al mondo notturno. Non li seguirò, invece, laddove mi rifiuto di portare il sogno nel mondo diurno in altra forma che non sia la sua, con il sottinteso che, per me, il sogno non può essere considerato né come un mes­saggio da decifrare nell'interesse del mondo diurno (Freud), né come un modo per compensarlo (Jung).

Dicendo mondo e luce diurni, non intendo il il mondo quotidiano. Intendo piuttosto qualsivoglia visione letterale del mondo in cui le cose siano pre­se per come appaiono, in cui non si sia vista in tra­sparenza la loro oscurità, la loro mortale ombra not­turna. E questo stile diurno del pensiero (realtà let­terali, paragoni naturalistici, dualismi di opposti, un procedere sequenziale) che dobbiamo accantona­re, se vogliamo seguire il sogno nel suo territorio nativo. Là il pensiero si muove per immagini, somi­glianze, corrispondenze. Per andare in quella dire­zione dobbiamo recidere il legame con il mondo diurno, rinunciare a tutte le idee che in esso hanno origine: traduzione, recupero, compensazione. Dob­biamo attraversare il ponte e lasciarcelo alle spalle; bruciarlo, se occorre.

 

 

 

fechner, freud e il mondo infero

 

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Il tentativo di interpretare il sogno nel contesto della vita è stato altre volte stigmatizzato, e con vigo­re. Per esempio: «Dalla medesima condizione pato­logica di questa nostra epoca nacquero gli stolti ten­tativi di spiegare il sogno, prodotto indiscutibile del sonno, dal punto di vista esclusivo della coscienza vi­gile. Tale metodo esplicativo non vedeva altro nel sogno che le immagini e i pensieri diurni parzial­mente rimossi ». Queste parole furono scritte da Heinrich Steffens e pubblicate a Lipsia nel 1821, al­la stessa distanza temporale, all'indietro, che separa noi da Freud. Quella di Steffens rappresenta la criti­ca romantica alla coscienza vigile, una critica che, prima e dopo Freud, si basa sulla separazione onto­logica tra mondo diurno e mondo notturno. Cia­scuno dei due mondi, nel suo estremismo, pretende di negare l'altro e lo marchia con una diagnosi di follia o di male.

Quando Freud si addentrò nel sogno e nella relazione tra sonno e coscienza vigile, si inserì in una delle più importanti fantasie archetipiche del di­ciannovesimo secolo. Nel caso di Gustav Theodor Fechner, poi, come vedremo tra breve, la relazione tra sonno e veglia toccò addirittura l'essenza della vita, la sua definizione. Per opera dei romantici (co­me spiega esaurientemente Albert Béguin nel suo bellissimo libro L'anima romantica e il sogno, che do­vrebbe fare parte del piano di studi di tutte le scuo­le di psicologia del profondo), sonno e veglia, gior­no e notte, erano diventati i due grandi contenitori di ogni possibile forma di pensiero. Tali «regimi, diurno e notturno», per usare l'espressione di Gil­bert Durand, erano i principali portatori di oppo­sti: opposti ontologici, psicologici, simbolici, etici. Quando collochiamo un problema entro questo ti­po di linguaggio (notte e giorno, sonno e veglia), come stiamo facendo qui ora, immediatamente ci inseriamo in una tradizione che risale almeno a Era­clito, prosegue con Platone e la caverna, attraversa il neoplatonismo e il romanticismo, passa per i due si­stemi freudiani del funzionamento psichico, per sfociare nella coscienza lunare e solare di Jung.

Nessuno ha assegnato importanza a questa me­tafora più di Gustav Theodor Fechner di Lipsia, il quale si trovò a vivere la fantasia di una Tagesansicht ( «faccia diurna») e una Nachtansicht «( faccia not­turna») nella sua stessa esistenza. Fechner, infatti, mentre da un lato fu il fondatore della psicofisica, uno sperimentatore raffinato che accostava i problemi psicologici con un approccio quantitativo e fisiologico, dall'altro, con lo pseudonimo di dottor Mises, pubblicava trattati, ora seri ora satirici, su ar­gomenti come l'anatomia comparata degli angeli, la vita animica delle piante e lo Zend Avesta, ed era au­tore di varie parodie della medicina," nonché di scritti sulla vita dopo la morte.

Fechner illustra meglio di qualunque suo con­temporaneo la realtà dei due mondi, perché in lui essi si scissero. Trentanovenne, dopo anni di accani­ti studi e sperimentazioni, specialmente sulla psi­co fisica della percezione dei colori, i suoi occhi si ammalarono; dovette usare occhiali dalle lenti az­zurre, poi diventò cieco. Si chiuse in un isolamento melanconico, perdette il controllo dei pensieri, eb­be allucinazioni di torture, si rovinò completamente l'apparato digerente. Rimase in questo mondo not­turno di tormenti per tre anni. Poi guarì. La sua guarigione fu segnata da due episodi miracolosi: il primo, quando un'amica fece un sogno in cui gli preparava un piatto di Bauernschinken, prosciutto crudo fortemente speziato e marinato in succo di li­mone e vino del Reno. La donna cucinò davvero il piatto e glielo portò; Fechner, dopo qualche esita­zione e contro ogni buon senso, lo mangiò e subito l'appetito e la digestione migliorarono. Il secondo e definitivo episodio miracoloso avvenne d'improvvi­so una mattina all'alba, quando Fechner scoprì che riusciva a sopportare la luce, anzi la desiderava; do­podiché si riprese completamente e visse altri qua­rantaquattro anni, fino a compierne ottantasei.

Quella guarigione segnò una vera e propria rever­sione per Fechner. Lasciò la cattedra di fisica per quella di filosofia. Mondo diurno e mondo nottur­no acquistarono per lui un significato diverso, ri­spetto ai suoi precursori romantici. Il mondo diur­no era il regno della luce, dello spirito, di Dio e del­la bellezza; il mondo notturno, il regno della materia, del pessimismo, del secolarismo senza Dio. L'i­dea dell'inconscio la mise nel mondo notturno. Benché ne scambiasse la valenza, la fantasia archeti­pica dei due regimi rimase per lui fondamentale, così come rimane fondamentale ancor oggi per tut­te le psicologie del profondo.

Nel rivolgermi a Fechner, seguo l'indicazione di Freud, il quale, in una lettera a Fliess (9 febbraio 1898), scrive: «Sono sprofondato nel libro dei sogni ... Se solo non fossi costretto anche a leggere! Mi riesce ostica la letteratura già esistente sull'argo­mento, per quanto scarsa. L'unica cosa sensata è ve­nuta in mente al vecchio Fechner ».

Quell' « unica cosa sensata», detta dal vecchio Fechner, è così parafrasata da Freud, che in più la sottolinea: « ... la scena dei sogni è diversa da quella del­la vita rappresentativa vigile» (IS, pp. 54 e 489).

Freud l'aveva tratta da un brano di un libro di Fechner, Elemente der Psychophysik (1889): «Se la sce­na dell'attività psicofisica fosse la medesima nel son­no e nella veglia, i sogni potrebbero essere soltanto, a mio avviso, un prolungamento, a un livello inferio­re di intensità, della vita rappresentativa vigile e, inol­tre, sarebbero necessariamente del medesimo mate­riale e della medesima forma di questa. Ma i fatti in­dicano altrimenti ».

È appunto l'idea della sostanziale diversità della scena onirica che fu da Freud elaborata nella nozio­ne di inconscio come «località psichica». La «loca­lità psìchica» del sogno, prosegue Freud, «corri­sponde a un punto ... nel quale si forma uno degli stadi preliminari dell'immagine».

Qui il pensiero di Freud è, come quello di Fech­ner, un pensiero topico. Dicendo: « ... nei sogni ha luogo una regressione topica- (SMTS, p. 96), Freud ha spostato il sogno, e con esso la psicologia, da un cosmo funzionale e descrittivo a un cosmo topo­grafico, e ha restituito alla psicoterapia il regno dello spazio interiore. È a questo punto che Freud in­comincia a disegnare la geografia interiore e a com­piere un viaggio nell'immaginale." E, attraverso il sogno, riscopre il mondo infero. È quanto dichiara nell'epigrafe, tratta dall'Eneide, posta in esergo al suo hbro sui sogni: «Flectere si nequeo superos, Acheron­ta mouebo» .

L'audace, eroico passo all'intemo di un territorio ignoto fu compiuto da Freud senza che si rendesse conto delle conseguenze che avrebbe avuto per la psicologia ", Mentre apriva nuovi orizzonti al pensie­ro psicologico, conferendo ad esso la nuova dimen­sione della profondità, egli fissava tale profondità in una fantasia di livelli strutturali. Benché fosse consa­pevole del rischio di confondere il pensiero topico della psicologia con quello della fisiologia (localiz­zazione nelle zone corticali e midollari del cervello): Freud non lo era altrettanto degli altri pericoli insiti in quella metafora. Lo spazio immaginario non è un mero ricettacolo, ma si presenta già carico delle valenze di «sopra» e «sotto», «superficie» e «profondità», «vicino» e «lontano»; porta con sé il tipo di considerazioni ontologiche, estetiche e mo­rali che sono riflesse nelle topografie spirituali di molte religioni. L'inconscio stesso è stato influenza­to dal fatto che Freud lo abbia situato «al di sotto»: la sua descrizione, come anche la descrizione dell'Es, non riesce mai a liberarsi dall'implicita sensa­zione che esso sia, certo, la base della vita cosciente ma anche «bassamente» eversivo dell' ontologia e dei valori di questa.

Tra breve, faremo a nostra volta, passo per passo, una «discesa agli inferi». Do per scontato che la lo­ro geografia sia a grandi linee nota grazie ai miti, al­le religioni, alla pittura e alla letteratura, che, attra­verso secoli di cultura popolare, ci hanno trasmesso gli orrori dell'inferno e le sofferenze dell'abisso, le acque da attraversare, i guardiani della soglia, le figure che vi abitano. Vi invito dunque ad ascoltare la descrizione che Freud dà della topografia dell'in­conscio avendo come sfondo tutti questi ricordi, cui daremo corpo più minutamente nel prossimo capi­tolo.

Innanzitutto, dice Freud, l'inconscio è una regione posta al di sotto della coscienza. Sofferenza psi­chica, nevrosi e psicosi sono da ascrivere a tale re­gione - e da essa provengono i sogni. Tra le due zone (e Freud ne ha disegnato la map­pa: IP-NS, p. 487; lE, p. 189), esiste una soglia, o « barriera» (IP- NS, pp. 188-89), che ostacola il pas­saggio, e addirittura un arcigno «censore» (Opere, VIII, p. 56; IP-NS, p. 131). Per descrivere il fatto che una moltitudine di eidola, o «immagini», sono trat­tenute al di là della soglia, la psicologia ricorre al concetto di rimozione. Ciò che avviene in quella «provincia psichica» (IP-NS, p. 184) provoca l'ango­scia nella nostra vita di veglia.

Nel riferirsi alla zona al di là, Freud usa spesso, in senso apotropaico, il «pronome impersonale» (loc. cit.), das Es, che nella formulazione più tarda della sua dottrina finirà per sostituire l'inconscio topo­grafico. L'uso di das Es ha precedenti nel pensiero filosofico (Nietzsche e Schopenhauer), ma il modo in cui Freud lo nomina e lo descrive rimanda piut­tosto a un retroterra nel pensiero mitologico, dove erano spesso usati termini apotropaici ed eufemisti­ci per indicare Ade e il mondo infero. (Come ebbe a dire una volta Guggenbühl-Craig: «I freudiani hanno difficoltà a comprendere correttamente Freud perché lo prendono alla lettera. Gli junghia­ni potrebbero riuscirei meglio, perché sono in gra­do di leggerlo secondo la sua mitologia») .

Dunque, nel descrivere l'inconscio, Freud parla di «mondo psichico sotterraneo» (IP-NS, p. 171), parla del rimosso come di un «territorio straniero» (ibid., p. 170), dell'energia dell'Es dice che è fluida (ibid.,. p. 186). (Ancor oggi molti psicoterapeuti identifcano con «l'inconscio» i corpi d'acqua che compaiono nel sogno, come vasche da bagno, pisci­ne, oceani). Freud dice Inoltre che lo spazio dell'Es andrebbe immaginato come incomparabilmente pm vasto di quello dell'Io (ibid., p. 190) e che le scarse conoscenze che ne abbiamo derivano princi­palmente dall'ipnosi (dal dio greco Hypnos, «Son­no»), dalla sofferenza e dallo studio dei sogni (ibid., p.185).

Ci accorgiamo inoltre della sua esistenza quando cadiamo negli smottamenti, nelle crepe e fenditure della coscienza: ciò che Freud chiamava psicopatolo­gia della Vita quotidiana e Jung interferenze dell'at­tenzione. La mitologia riconosceva in queste lacune nella continuità del terreno su cui poggiamo i piedi, In queste caverne e pertugi, gli ingressi al mondo in­fero. Inoltre, al pari del mondo infero della classi­cità, l'inconscio riceve più che altro descrizioni « in negativo» (loc. cit.), perché è per definizione invisi­bile e non conoscibile direttamente .

All'Es, dice Freud, «ci possiamo meglio avvicinare per mezzo di immagini: lo chiamiamo un caos un crogiolo di eccitamenti ribollenti» (loc. cit.). Ma esso «non può dire ciò che vuole» (rz, p. 520), come i morti, che nel mondo infero della mitologia posso­no parlare solo per bisbigli. «Potremmo rappresen­tarci la srtuazione », ipotizza Freud nell'ultima frase del saggio in cui introduce l'Es nella psicologia, «co­me se l'Es stesso sotto il dominio delle mute ma pos­senti pulsioni dì morte» (loc. cit.). Come l'idea della morte nella classicità, così l'istinto di morte freudia­no è elusivo, difficile da riconoscere (ibid., pp. 502, 504,508). Nell'Es le leggi della logica non valgono; e l'Es non conosce né valori, né bene e male né mo­ralità (IP-NS, p. 186; IE, p. 515; opere, X, p. 158). So­prattutto, nell'Es non vi è riconoscimento del tra­scorrere del tempo (APP, p. 214). Gli impulsi che in esso rimangono sono «virtualmente immortali, si comportano dopo decenni come se fossero appena accaduti» (IP-NS, p. 185). In virtù della sua immorta­lità, Freud lo ricollega agli eroi (Opere, VIII, p. 144): « ... l'Es ... custodisce in sé i residui di innumerevoli esistenze egoiche». Tali «configurazioni dell'Io di più antica data» sono risuscitate nella vita di una persona (rs, p. 501). Anche il mondo infero della mitologia (di Omero, per esempio) presenta figure di eroi, che durano immutate in uno stato fuori del tempo, e forse risuscitano nella nostra vita persona­le, non solo nella letteratura.

Nella fantasia freudiana, 1'Io «è il paladino della ragione e della avvedutezza» (IP-NS, p. 188; lE, p. 488). Possiamo immaginare che la sua relazione con l'Es sia simile a quella che l'eroe ha con il mon­do infero; anche l'eroe, infatti, deve ricorrere a «trucchi» (è la parola usata da Freud: IP-NS, p. 188) per procurarsi l'energia che gli serve. E quando non usa trucchi, usa la sua «muscolatura»: così dice Freud nel descrivere 1'Io ( IE, pp. 503, 517; SMTS, p. 99; CP, p. 573). L'Io, come l'eroe, deve far fronte al­le furiose pretese del rimosso, i cui «desideri censu­rati sembrano salire da un vero e proprio inferno» (IP, p. 315). Gli abitatori del mondo infero sono, nel linguaggio di Freud, «investimenti pulsionali che esigono la scarica ... nell'Es non c'è altro» (IP­NS, p. 186). Tali investimenti rivolgono all'Io richie­ste esorbitanti (ricordate Odisseo circondato dalla turba famelica dei morti?). E infine l'Es, al pari del mondo infero omerico, è completamente tagliato fuori dal mondo esterno e si rapporta a esso esclusivamente «per il tramite dell'Io» (IP-NS, p. 190; CP, p.626).

Perfino la iniziale descrizione freudiana della tera­pia come «cura con le parole» e il modo di praticar­la, con gli interlocutori disposti in maniera da non vedersi in faccia, con lo sguardo ritualisticamente rivolto altrove, trovano il loro modello nell'anti­chità: «Il sacrificio alle divinità dei morti era com­piuto volgendo altrove il volto; non lo sguardo, solo la voce era ammessa nel regno dei defunti. Ciò po­teva operare miracoli» dice Kerényi (Orfeo si voltò a guardare, e perdette Euridice).

Non è difficile trasporre la mitologia concettuale della psicologia nella mitologia del mondo infero," né è difficile rappresentarsi la relazione tra mondo diurno e mondo notturno alla stregua della discesa agli inferi dell'eroe, e le nostre moderne idee sull'inconscio come riflessi del Tartaro e dello Stige, di Caronte e di Cerbero, di Ade e di Plutone. Plutone, specialmente, è importante da riconoscere nei no­stri eufemistici riferimenti a un inconscio inteso co­me fonte della totalità, come deposito di ricchezze, non già luogo di fissazione nel tormento, bensì luo­go che offre, se debitamente propiziato, fertile ab­bondanza. Gli eufemismi si usano per coprire l' an­goscia. Nell'antichità si usava il nome di Plutone ( "ricchezza") come eufemismo per coprire la spa­ventosa profondità di Ade. Oggi, l'inconscio è detto c creativo» per nascondere con un eufemismo i pro­cessi di distruzione e di morte in atto negli abissi del­l'anima .

La crisi che colse Freud alla metà della vita avven­ne mentre lavorava al libro sui sogni. Ellenberger la chiama «malattia creativa» e la paragona a quelle di Jung e di Fechner. Per Freud, quella crisi aprì la br'eccia nel regno del profondo che non era riuscito a scoprire con l'ipnosi, la cocaina e la terapia dell'i­steria.

Va ricordato, qui, che il libro di Freud si basa qua­li esclusivamente sui suoi stessi sogni, è una discesa personale agli inferi, un resoconto personale e un personale mito del mondo infero, trasformato in un'opera d'arte contenente un corpo dottrinale che ha avuto validità per altri, a somiglianza della nekyia di Dante e di altri viaggi immaginali degli scrittori classici. Essi usavano immagini; Freud con­cetti. I sentimenti di Freud nei confronti della pro­pria teoria dei sogni testimoniano, tuttavia, della sua portata archetipica. La teoria del sogno, scrive Freud, «segnala una svolta: con essa l'analisi ha compiuto il passaggio da procedimento psicoterapeutico a psicologia del profondo»; è «un pezzo di terra vergine sottratto alle credenze popolari e al misticismo », Quando si sentiva dubbioso e confuso circa il proprio lavoro, per riacquistare fiducia in se stesso si rivolgeva al sogno e alla teona del sogni.

Anche Ernest Jones, quando scrive dell'autoanali­si di Freud (di cui consiste il libro sui sogni), è pos­seduto dal mito della discesa agli inferi dell'eroe: « ... Freud pose mano alla sua più eroica impresa, la psicoanalisi del proprio inconscio .... un'impresa unica e irripetibile. Una volta compiuta, e compiuta per sempre. Nessuno infatti potrà più essere il pri­mo a esplorare quegli abissi ... Molto osò e molto n­schiò. Quale indomito coraggio », E nella pagina successiva Jones la definisce una «fatica erculea».

Per Freud, come più tardi per ]ung, l'esperienza del mondo infero rappresentò la pietra di paragone di tutta l'esistenza: «Intuizioni del genere càpitano una volta soltanto nella vita ». E anche nel motivo con cui viene spiegata tanta importanza personale risuonano echi dei miti del mondo infero: «Il libro mi è apparso come un brano della mia autoanalisi, con la mia reazione alla morte di mio padre, dunque al­I'avvenimento più importante, alla perdita più stra­ziante nella vita di un uomo ». Se ascoltiamo Freud con orecchio metaforico, avendo come sfondo la nekyia, o discesa archetipica agli inferi (ricordate l'incontro di Enea con il vecchio padre?), compren­diamo meglio come la teoria del sogno abbia potuto rappresentare per lui la visione sostentatrice, il suo «shibboleth » (IP-NS, p. 123). Non era semplicemen­te una teoria composta di ipotesi: rimozione, appa­gamento dei desideri, lavoro onirico, ecc. Fu una ri­velazione del mondo infero, formulata nel linguaggio della religione della sua epoca e del suo personale codice: con le metafore della scienza razionalistica.

Freud evoca «il grande Fechner » (IS, p. 48) una volta ancora in relazione a un'idea centrale, un'idea altrettanto importante della teoria dei sogni per la nostra comprensione del ruolo del mondo infero nella psicoanalisi. Mi riferisco al libretto intitolato Al di là del principio di piacere, dove Freud di nuovo si appoggia a Fechner (APP, p. 194). Scrive Freud: " ... abbiamo considerato il principio che domina tut­ti i processi psichici come un caso particolare della "tendenza alla stabilità" di Fechner» (Opere, X, p. 5). Le figure del mondo infero descritte nei miti, fissate nelle loro ripetizioni, incorreggibili, irredente, corri­spondono metaforicamente al principio di stabilità di Fechner, a cui Freud ricollega la pulsione di mor­te. Su questa immutabile componente della psiche torneremo verso la fine di questo libro, a proposito di quel pressante problema sociale cui si dà il nome di psicopatia o personalità sociopatica.

La deferenza di Freud per Fechner mi fa pensare a qualcosa di più del semplice rispetto per le sue idee. Il «vecchio» e «grande» Fechner, con il suo drammatico crollo nervoso alla metà della vita in cui fa esperienza del mondo infero, con il suo in­tenso conflitto tra scienza e misticismo, tra osserva­zione e astrazione, rappresentò probabilmente per Freud quel mentore interiore che Jung trovò in Ca­rus e Paracelso, in Dorn e in Goethe. La tradizione della psicologia poggia e si accresce sulla propria tradizione, e non soltanto sulle idee di questa, ma sulle figure che scegliamo perché illuminino la no­stra biografia personale e ci aiutino a farcene carico. 

 

 

 

 

3. la psiche

 

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Questi parallelismi, che svelano la mitologia insi­ta in uno dei sistemi concettuali della psicologia, avvalorano la tesi che i miti classici non sono sem­plicemente parte del passato, qualcosa che appar­tiene a un' altra epoca o che è di esclusiva pertinen­za di grecisti e latinisti. Il mito è più che mai vivo nei nostri sintomi e nelle nostre fantasie e anche nei nostri sistemi concettuali. Anzi, il mito è ciò che conferisce a concetti come «l'inconscio» o «l'Es» di Freud la loro vitalità e credibilità. Noi crediamo a Freud non soltanto per le argomentazioni della sua logica o per le conferme empiriche delle sue ipotesi. Ci sentiamo persuasi in virtù della struttura metaforica sottesa alla teoria, la quale evoca nella nostra psiche rimemorante il regno archetipico del mondo infero.

Perciò il nostro lavoro su Freud fa emergere un principio fondamentale della psicologia archetipi­ca: l'intercambiabilità di mitologia e psicologia. La mitologia è una psicologia dell'antichità. La psicolo­gia è una mitologia dell'epoca moderna. Gli antichi non avevano una psicologia, in senso stretto, ma avevano i miti, racconti congetturali sugli esseri umani nella loro relazione con forze e immagini più che umane. Noi moderni non abbiamo alcuna mi­tologia, in senso proprio, ma abbiamo sistemi psico­logici, teorie congetturali sugli esseri umani nella loro relazione con forze e immagini più che umane, oggi dette campi, istinti, pulsioni, complessi. Questo principio della psicologia archetipica, forse la cifra che la distingue da altre psicologie, è anche una prassi. Consente di riflettere ciascuna posizione psi­cologica come fantasia o mitologema. Usa i miti per criticare dall'interno i positivismi e opera anche sui racconti mitologici e sulle figure dei miti, sottraen­doli alla sfera del puro racconto e riportandoli sulla terra e dentro di noi, mostrando come esattamente un mito agisce nella psiche, nelle abitudini della sua mente e del suo cuore. Il nostro intento è di passare contmuamente dal mito alla psiche e dalla psiche al mito, riflettendoli entrambi, usando l'uno per offri­re intuizioni all'altra e viceversa, impedendo che ciascuno dei due sia preso esclusivamente per quel­lo che dice di sé.

 

 

 

profondità

 

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Le relazioni tra mitologia e psicologia risultano singolarmente evidenti nell' espressione «psicologia del profondo» (Tiefenpsychologie), proposta all'inizio del secolo dallo psichiatra zurighese Eugen Bleuler come la denominazione più appropriata per la nuo­va scienza della psicoanalisi. Questa mossa termino­logica spostava l'attenzione dall'azione alla visione, dal dissezionare le cose al guardarle in profondità. Il nuovo campo di studio poggiava ora su un terre­no diverso, meno scientifico in senso fisico, perché meno orientato alla riduzione analitica in parti, e più filosofico in senso metafisico, perché ora la ri­duzione era indirizzata a una comprensione più profonda. Un terreno diverso, ma non nuovo. Anzi, molto vecchio, giacché nella scelta e nell'adozione di questa espressione riemerge un'immagine anti­ca, dove psicologia e profondità sono connesse.

Eraclito (fr. 45/ A55)2 è il primo a collegare psyche, logos e bathun (« profondo » ): «I confini dell' anima non li potrai trovare, neppure se percorressi tutte le strade: così profondo è il suo logos ». Come scrive Bruno Snell, in Eraclito «l'immagine della profon­dità serve a illuminare la caratteristica precipua del­l'anima e della sua sfera, che è quella di avere una dimensione sua propria, di non possedere estensio­ne spaziale ». A partire da Eraclito, la profondità di­ventò la direzione, la qualità e la dimensione della psiche. L'espressione, ormai di uso comune, «psico­logia del profondo» afferma esplicitamente: per studiare l'anima, dobbiamo scendere in profondità, e ogni volta che scendiamo in profondità, viene coinvolta l'anima. Il logos dell'anima, la psico-logia, implica l'atto di percorrere il labirinto dell'anima, nel quale non si può mai andare abbastanza in profon­dità.

Vediamo qui come le metafore, che crediamo di essere noi a scegliere per descrivere idee e processi archetipici, come «l'inconscio» di Freud e la «psi­cologia del profondo» di Bleuler, siano in realtà parte costitutiva di quei processi e di quelle idee. E come se il materiale archetipico si scegliesse da sé i termini atti a descriverlo e questo facesse parte del suo niodo di esprimere se stesso. Ne consegue che «l'attribuzione di nomi» non è affatto un'attività nominalistica, bensì molto realistica, in quanto il nome ci conduce dentro la propria realtà. Si po­trebbe addirittura affermare che nell'invenzione delle terminologie sia coinvolto un fattore selettivo archetipico; che esistano, diciamo, una semantica o una fonetica archetipiche, sulle quali si basa l'erme­neutica archetipica. Dopotutto, per tirare fuori dal linguaggio della psicologia una risonanza archetipi­ca bisogna che questa sia già presente nelle parole, nelle loro radici o nei loro suoni.

Così come in Freud, agli inizi della psicologia del profondo, risuonano echi che rimandano al mondo infero della mitologia, alla stessa stregua in Eraclito, agli albori della filosofia, è adombrato l'inconscio della psicologia. Se si vuole fornire retroterra e vi­sione in profondità alla psicologia del profondo, è giocoforza rivolgersi a Eraclito, e noi lo faremo di continuo, in questo libro. Aristotele disse che Era­clito assunse l'anima come suo archon, suo principio primo, il che ne fa il primo psicologo del profondo della tradizione occidentale (De anima, a2, 405a25). E ci obbliga, inoltre, a leggere i suoi frammenti dal­la medesima prospettiva, una prospettiva in cui la psiche viene prima di tutto. Come abbiamo letto Freud in modo mitologico, così leggiamo Eraclito in modo psicologico.

Dunque, l'affermazione di Eraclito sulla profon­dità dell'anima lascia intendere anche che il visibile, ciò che è soltanto naturale, non soddisfa mai l'ani­ma. L'anima desidera andare oltre, sempre più ad­dentro, sempre più in profondità. Perché? Eraclito risponde anche a questa domanda: «La trama na­scosta è più forte di quella manifesta» (fr. 54/ A 20). Per giungere alla struttura fondamentale delle cose occorre penetrare nella loro oscurità. Ma perché? Perché, dice Eraclito, «la vera costituzione di cia­scuna cosa è usa a nascondersi» (fr. 123/A92), ovve­ro, secondo altre traduzioni: «La natura ama na­scondersi» (Burnet, p. 10; Wheelwright, p. 17). Esa­mineremo tra breve le nozioni di occultezza e invisi­bilità in relazione a Ade, ma possiamo fin d'ora co­gliere ciò che intende Eraclito. Mettendo insieme i pochi frammenti citati, ci rendiamo conto di come la dimensione della profondità sia l'unica capace di penetrare fino a ciò che è nascosto; e giacché solo ciò che è nascosto è la vera natura di tutte le cose, compresa la Natura stessa, allora soltanto la via del­l'anima può condurre a una vera visione in profon­dità. Eraclito lascia intendere che vero equivale a profondo, e apre così la strada a un'ermeneutica psicologica, a un punto di vista dell'anima riguardo a tutte le cose. E come se gli fosse nota la parola in­glese per «comprendere»: understand (under, «sot­to», e stand, «stare »), e la esplorasse come se avesse letto Heidegger.

Da Eraclito apprendiamo che l'anima non è sem­plicemente una regione nell'accezione topografica di Freud, e neppure soltanto una dimensione, come lui stesso intende; l'anima è un'operazione di pene­trazione, di visione in profondità, che mentre proce­de fa anima. Se l'anima è un motore primo, allora il suo moto primario è l'approfondimento, con il che essa accresce la propria dimensione - come fece Freud, il quale con le sue esplorazioni topografiche aggiunse caverne e componenti alla psicologia. Il perseguimento di nessi nascosti in una dimensione senza confini spiega il latente imperialismo della psi­cologia. Non c'è fine alla profondità e tutte le cose diventano anima. Gli elementi fondamentali di tutte le cose si compongono e decompongono, si genera­no e degenerano trasformandosi in anima (fr. 36/ A53), termine primo e ultimo del nostro mutevole mondo.

Ho descritto diffusamente altrove questa inces­sante attività del fare anima, che ho chiamato «psi­cologizzazione ». Adesso siamo in grado di attribui­re a quella attività un mitologema più puntuale. L'impulso innato a cercare sotto le apparenze per giungere alla «trama invisibile », alla struttura na­scosta, conduce al mondo che sta dentro il dato. Questo impulso autoctono della psiche, il suo spon­taneo desiderio di comprendere in modo psicologi­co, sembrerebbe affine a ciò che Freud definisce «pulsione di morte» e Platone descrive come desi­derio dell'Ade (Cratilo, 403c). È l'impulso che si ma­nifesta nella mente analitica, la quale fa anima dis­sezionando le cose. Esso opera per distruzione, at­traverso quei processi di dissolvimento, decomposi­zione, distacco e disgregazione che sono necessari sia per la psicologizzazione alchemica sia per la mo­derna psicoanalizzazione. Ecco che allora ci risulta comprensibile anche la necessità, per il fare anima, di termini come «psicoanalisi» (Freud) e psicologia analitica (Jung): essi descrivono un metodo «disgre­gativo» del profondo, che rimanda ai mitologemi di Ade."

 

 

 

ade

 

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Ade, come è noto, era il dio del profondo, il dio delle cose invisibili. Lui stesso era invisibile, il che potrebbe sottintendere che la trama invisibile sia A­de e che quel quid essenziale, che mantiene le cose nella loro forma, sia il segreto della loro morte. E se, come dice Eraclito, la Natura ama nascondersi, allo­ra la natura ama Ade.

Di Ade si dice che non avesse templi né altari nel mondo supero; l'incontro con Ade è un'esperienza di violenza, di violazione (il ratto di Persefone; l'ag­gressione alle ingenue ninfe della vegetazione, Leu­ci e Minta; si vedano inoltre Iliade, V, 395; Pindaro, Olimpiche, IX, 33). E talmente invisibile, anzi, che in tutta l'arte dell'antica Grecia non si trovano rappre­sentazioni idealizzate di questo dio, come avviene invece per gli altri Dei." Ade non aveva emblemi che lo rappresentassero, tranne a volte l'aquila," e questo rivela il legame oscuro con il fratello, Zeus. Non ci sono sue tracce sulla terra: da lui non discende al­cuna stirpe, alcuna generazione.

Il nome di Ade era usato raramente. Veniva a vol­te chiamato «l'invisibile », più spesso Plutone («ric­chezza», «tesori») o Trofonio («colui che nutre »). Questi mascheramenti di Ade sono stati interpretati da alcuni come eufemismi per coprire la paura del­la morte; ma in tal caso, come mai proprio questi e non altri? Forse Plutone è una descrizione di Ade, nel senso in cui lo interpreta Platone. In questo sen­so, Plutone rimanda alla ricchezza nascosta, ai teso­ri dell'invisibile. E allora si capisce una delle ragioni per cui non esistevano sacrifici e culti in suo onore: Ade era colui che è ricco, che dà nutrimento all'ani­ma. A volte era assimilato a Thanatos, «Morte», del quale Eschilo scrisse: «Morte è l'unico dio che non gradisce doni e non cura sacrifici e libagioni, che non ha altari e non riceve inni» (fr. Niobe). Nel­la pittura vascolare è rappresentato, quando lo è, con la testa girata dall'altra parte, come se non fos­se caratterizzato neppure da una precisa fisionomia. Tutte queste prove in negativo concorrono però a formare un'immagine precisa, l'immagine di un vuoto, di un'interiorità o profondità che è scono­sciuta ma a cui può essere dato un nome, presente e avvertita benché non veduta. Ade non è un'assenza, è una presenza nascosta, una pienezza invisibile, si potrebbe dire.

Alcune ricerche sull' etimo di « demone della morte» risalgono al significato di «colui che na­sconde ». Per meglio comprendere le modalità se­condo le quali Ade si nasconde invisibilmente nelle cose, proviamo a smontare questo concetto e ad ascoltare i nessi nascosti, le metafore contenute nel­la parola stessa, «nascosto»: 1) sepolto, avvolto, ce­lato alla vista, detto sia di un cadavere sia di un my­sterium; 2) occulto, esoterico, celato nel senso di segreto; 3) ciò che di per sé non può essere visto: non visibile in quanto privo di dimensione spaziale, non esteso; 4) senza luce: oscuro, nero; 5) ciò che non si lascia vedere a un esame attento, dunque bloccato, censurato, proibito o oscurato; 6) celato in quanto contenuto dentro qualcosa (interiore) o sotto qual­cosa (inferiore): in questo ambito troviamo il latino cella (« magazzino sotterraneo »), che è affine ai ter­mini dell'antico irlandese cuile (« cantina» ) e cel (« morte»), a sua volta affine all' inglese hell ( « infer­no»): 7) ciò che è esperito con terrore, un vuoto, il nulla; 8) ciò che è esperito come un nascondersi, per esempio ritirandosi in se stessi, voltando le spal­le alla vita; 9) ciò che è furtivo, subdolo, che ingan­na, come le motivazioni nascoste e le invisibili con­nessioni di Ermes. Insomma, Ade, il nasconditore nascosto, presiede alla cripta così come a ciò che è criptico, il che conferisce alla frase di Eraclito, « physis kryptesthai philei», «Natura ama nascondersi», risvolti davvero sottili e molteplici.

Alcuni sostengono che il copricapo o elmo che Ade indossa appartiene in origine a Ermes e non ri­guarda direttamente Ade. Quel copricapo è un fe­nomeno curioso: lo portano Ermes e Ade; Atena se lo mette per avere la meglio su Ares; Perseo, per sconfiggere la Gorgone. Rende invisibile chi lo in­dossa. In tutta evidenza, è il copricapo l'immagine esplicita del nesso tra Ermes e Ade (preannunciato nell'inno omerico a Ermes). Ermes e Ade hanno in comune un certo stile di coprirsi il capo che, men­tre nasconde i loro pensieri, fa percepire i pensieri nascosti. A diventare invisibili sono le loro intenzio­ni: non possiamo vedere dove è rivolta la loro testa, anche se, nello stesso tempo, avvertiamo un control­lo occulto sui nostri pensieri più intimi. Poiché non riusciamo mai a scoprire le loro intenzioni nascoste, li consideriamo ingannatori, imprevedibili, spaven­tosi; oppure saggi.

Nel considerare la Casa di Ade, dobbiamo tenere presente che i miti, e anche Freud, ci dicono che nel mondo infero non esiste il tempo: non si danno né deterioramento né progresso, non si dà cambia­mento. Poiché il tempo è totalmente estraneo ad es­so, non è lecito concepire il mondo infero come un mondo « dopo» la vita, se non nel senso di pensieri sul dopo durante la vita. La Casa di Ade è un regno psicologico nel presente, non un regno escatologi­co nel futuro. Non è un remoto luogo di giudizio delle nostre azioni, ma fornisce il luogo per giudica­re ora, e dal di dentro, il riflesso inibitore che è in­terno alle nostre azioni.

Tale simultaneità tra mondo infero e mondo quo­tidiano viene rappresentata immaginando una per­fetta coincidenza di Ade con Zeus, una identità tra Ade e Zeus chthonios. La fratellanza tra Zeus e Ade dice che mondo di sopra e mondo di sotto sono la stessa cosa, solo la prospettiva è diversa. L'universo è uno e uno solo, coesistente e sincrono, ma lo sguar­do di un fratello lo vede dall'alto e attraverso la lu­ce, quello dell'altro dal basso e nella sua oscurità. Il regno di Ade è contiguo alla vita, la tocca in ogni suo punto, ne è appena al di sotto, ed è il fratello ombra (Doppelgänger) che alla vita conferisce pro­fondità e psiche.

Poiché il suo regno era concepito come fine irre­versibile di tutte le anime, Ade è la causa finale, lo scopo, il telos di ciascuna anima e di ciascun proces­so animico. Se questo è vero, allora tutti gli eventi psichici, e non solo gli eventi sadici o distruttivi attribuiti da Freud a Thanatos, hanno un aspetto che rimanda a Ade. Tutti i processi animici, tutto ciò che è nella psiche, muove in direzione di Ade. Co­me il finis è Ade, così il telos è Ade. Ogni cosa, allora, diventa più profonda, muove dai nessi visibili ai nes­si invisibili, lascia a poco a poco la vita per la morte. Quando cerchiamo il significato più rivelatore di un'esperienza, esso ci si presenta nel modo più net­to se lo lasciamo muovere verso Ade, se ci doman­diamo: che rapporto ha questa esperienza con la «mia» morte? Allora l'essenza risalta nitida.

Anche in questo Ade riveste importanza per la teoria psicologica. Le psicologie che sottolineano il punto di vista finalistico (quella di Jung, per esem­pio, e quella di Adler) riaffermano la prospettiva di Ade, anche se poi non sviluppano fino alle estreme conseguenze il loro fine. Voglio dire che il finali­smo, in psicologia, sembra esitare quando si tratta di assumere fino in fondo la mitologia, dove esso non è soltanto teoria ma esperienza nell'anima del­la vocazione a Ade.

Un momento, però. Attenzione a non prendere tale vocazione come la morte letterale: oggi se ne parla e se ne scrive così tanto, che si comincia a cre­dere di sapere tutto di una cosa di cui non sappia­mo nulla. La morte letterale sta diventando un mi­stero stereotipato: ci fornisce la prova provata del­l'inconoscibile.

No, per vocazione a Ade intendo quel senso di avere uno scopo che subentra ogniqualvolta si parla di anima. Che cosa vuole, l'anima? Che cosa sta cer­cando di dire (con questo sogno, questo sintomo, questa esperienza, questo problema)? Dove mi por­ta il mio destino, il mio processo di individuazione? Se abbiamo l'onestà di affrontare queste domande, la riposta non ci può sfuggire: il processo di indivi­duazione ci porta alla morte. Questa meta incono­scibile è l'unico evento assolutamente certo della condizione umana. Ade è l'invisibile e tuttavia è as­solutamente presente.

La vocazione a Ade implica che tutti gli aspetti del procedere dell'anima vanno letti alla luce della fine, non solo in quanto parte del generale proce­dere umano verso la morte, ma come eventi parti­colari che a quella morte attengono e che in essa hanno luogo. Ciascuna sfaccettatura è un'immagi­ne finita in se stessa, che adempie il suo scopo, il quale al tempo stesso è senza fine, non letteralmen­te, in senso temporale, ma senza limiti quanto a pro­fondità. In altri termini, non ci possiamo fermare in alcun luogo, perché la fine non è nel tempo ma nella morte, dove morte significa il telos o compi­mento di qualsiasi cosa; ovvero possiamo fermarci in qualunque luogo, perché, dal punto di vista fina­le, ciascuna cosa è fine a se stessa. La meta è sempre adesso.

Una psicologia autenticamente finalistica mo­strerà i suoi fini nei suoi mezzi. La sua meta finale, la morte, sarà evidente nei metodi che usa per avvi­cinarsi a essa. Pertanto, vivere fino in fondo il punto di vista finalistico significa applicare la prospettiva di Ade e del mondo infero a ciascun evento psichi­co. Ci chiediamo: qual è lo scopo di questo evento per la mia anima, per la mia morte? Domande come questa estendono illimitatamente la dimensione della profondità e, ancora una volta, la psicologia è spinta da Ade a un imperialismo dell'anima, che ri­flette gli imperialismi del suo regno e il dominio ra­dicale della morte.

 

 

 

la progenie della notte

 

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La netta contrapposizione tra giorno e notte, nonché la collocazione dei sogni unicamente nel mondo notturno del sonno e nella morte iniziano pri­ma di Eraclito. Già nell'Iliade (XIV, 231; XVI, 454, 672,682; XI, 241; e inoltre Odissea, XIII, 79-80), Hy­pnos (Sonno) e Thanatos (Morte) sono gemelli. Ma non si tratta semplicemente di un'allegoria poetica di idee astratte: «Già in Omero Hypnos è una per­sona reale, che ha facoltà di decidere se concedere o meno il sonno a qualcuno»." Queste persone, molto potenti e vivide, che governano il nostro buio, sono, secondo Esiodo (Teogonia, 211 sgg.), figli della Notte, parte della numerosa progenie del­la dea, insieme a Vecchiaia, Contesa Miseria Nemesi, Destino, Inganno e insieme alla stirpe dei Sogni (Oneiroi).

Nell' Odissea, Omero colloca i sogni o direttamen­te nella Casa di Ade o nelle vicinanze del suo regno nell'Oceano, a occidente, dove tramonta il sole. Per Virgilio, l'intera progenie della Notte risiede nel mondo infero, e questa rimase la convenzione di tutta la poesia latina: Ovidio (Met., XI, 614) dice che i sogni sono privi di vita corporea, come le creature del mondo infero. Omero (Odissea, XI, 204-22) ave­va espresso lo stesso concetto rovesciando i termini: l'anima dei morti «vaga volando, simile a un so­gno». Anche la mitologia orfica associa i sogni con la morte e con il sonno, chiamato fratello della mor­te e dell'oblio. Un parallelo più remoto è rintrac­ciabile in India nello Atharvaveda, dove si dice che i sogni provengono dal mondo di Yama, il signore dei morti.

Vediamo come, secondo questo modello antichis­simo e mai interrotto della nostra tradizione, la co­stellazione archetipica alla quale appartengono i so­gni sia Il mondo della Notte. Ciascun sogno è figlio della Notte, strettamente associato al Sonno e alla Morte e all'Oblio (Lete) di tutto ciò che il mondo diurno ricorda. I sogni non hanno padre, non han­no vocazione ascensiva. Provengono dalla Notte sol­tanto, la loro dimora è nel suo regno oscuro. Tale è dunque la genealogia dei sogni, il loro mito delle origini, che. ci descrive la loro famiglia archetipica, la sfera a cui appartengono.

Ho sottolineato sia la lunga storia di questa tradi­zione sia la sua forza poetica, nella convinzione che mitopoiesi e storia rappresentino ciascuna la verità archetipica, la prima attraverso la potenza dell'im­maginazione, l'altra attraverso la capacità di durare. Ancora una volta, Freud ci è testimone. Quando dis­se che i sogni proteggono il sonno e che questo è il loro unico scopo, ricollocò sogno e sonno nel loro antico legame fraterno. Quando, nel medesimo contesto, disse che il creatore dei sogni è Eros (s, p. 42; IP-NS, p. 134), perché, appagando desideri eroti­ci, i sogni proteggono il sonno, Freud, come già Ci­cerone (De nat. deor., III, 17), immaginò Eros come parte della progenie della Notte.

Se accettiamo questa concezione, ne consegue che Eros è fratello della morte e non già il principio che dalla morte ci può salvare. Emergerà allora un legame più intimo tra ciò che avviene nei sogni e un amore che si realizza nell'oscurità, nei corpi intan­gibili delle immagini psichiche. Dunque esiste un amore che muove verso il basso, e non soltanto un Eros che protende le braccia verso l'orizzonte al­trui. Questo amore discensivo è presente in tutta la tarda antichità nelle statue di Cupido con le ali chiuse e la fiaccola puntata verso il basso. Il medesi­mo anelito verso il profondo sarà letteralizzato nel romanticismo e addirittura messo in atto nei patti d'amore suicidi.

Cominciamo allora a capire che, nella vita come nel mito, Eros non è affatto semplice. E il principio di vita, di connessione, una libido che vuole le unio­ni, come dice Freud, e che attiene soprattutto al «femminile», come dice Jung? Oppure è il figlio di Penìa (Platone), sempre bisognoso; un fanciullo languido, addormentato; o il figlio di Venere, che immette all'improvviso nella nostra vita, con le sue frecce, il desiderio e i piaceri della dea? Viene per primo, nel senso che è origine di tutte le cose, come sostenevano alcuni miti, o nel senso che per il cri­stiano è la prima virtù? Oppure Eros è fratello di Ade, come disse Schelling? Il mito lascia la definizione di Eros nell'incertezza; o meglio, ne parla sempre e soltanto all'interno di un contesto specifico, come quello presentato qui, che lo pone nel letto del Sonno, della Morte e del Sogno, tra la progenie della Notte. Le definizioni moderne, di cui la psico­logia contemporanea trabocca con romantica esu­beranza, non hanno alcuna validità, se non vengo­no elaborate in riferimento all'uno o all'altro degli specifici contesti archetipici di Eros. I discorsi sull'a­more ci dicono più cose sulla persona che li fa, che non sull'amore: ci rivelano all'interno di quale fan­tasia è messa in scena la sua esperienza di Eros.

La progenie della Notte conferisce al sogno un'atmosfera che è ben lontana dal felice ottimismo della psicologia della crescita o dalle segrete delizie del desiderio sessuale. Non ci viene detto che i so­gni ci aiutano, che rendono più completa la nostra vita indicandoci la direzione delle nostre tendenze creative. Né ci viene detto che i sogni sgorgano da una polla inconscia di piacere libidico, da un pozzo dei desideri. Al contrario, i sogni sono parenti degli inganni e dei conflitti, delle lamentazioni della vec­chiaia, dell'irreversibilità del nostro destino: in una parola, della depressione. Il sogno ci trascina verso il basso, e lo stato d'animo che corrisponde a questo movimento è la depressione, con i suoi ritmi rallen­tati, la sua malinconia, la sua introversione .

Questa depressione ha facce diverse. Per la co­scienza eroica del mondo più antico, la Notte era la fonte del male, mentre per la coscienza mistica de­gli orfici, essa era pienezza di amore (Eros) e di luce (Fanes). La nostra coscienza moderna è più eroica che mistica, e per convocare Hypnos o Ermes, che ci aiutino a addormentarci, abbiamo bisogno di in­cantesimi, di rituali: le preghiere, lavarsi i denti, l'orsacchiotto, masturbazione, pancia piena e televi­sione, l'ultimo bicchierino e la pillola per dormire. La favola della buona notte, nella nostra cultura, dice in sostanza che dormire è sognare e sognare è entrare nella Casa del Signore dei Morti, dove giac­ciono in attesa i nostri complessi. No, noi non ce ne andiamo «docili in quella buona notte».

 

 

 

mondo infero e sottosuolo

 

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Nell'usare l'espressione «mondo infero», è asso­lutamente necessario avere presente la distinzione proposta da alcuni classicisti. Tale distinzione rive­ste grande importanza psicologica, perché svincola la sfera psichica dalla natura. I termini greci chthon e ge ("mondo infero" e "sottosuolo") non si riferiscono ne­cessariamente alla medesima regione, né evocano sentimenti uguali. «Il termine chthon, con i suoi deri­vati indica in origine le profondità morte e fredde e non ha nulla a che vedere con la fertilità ». Questo tipo di terreno profondo non è la stessa cosa della terra scura· e la Grande Signora (potnia chthon), che invia i sogni neroalatì" ed è detta a volte Erinni, non può assolutamente essere assimilata nell'unica figura della Grande Madre Terra.

In psicologia, il complesso della Grande Madre ha finito per inghiottirsi le differenziazioni pure pre­senti nella dea. Non sorprende che questo comples­so sia anche chiamato «coscienza uroborica», visto che la dea stessa scompare in una tale «monotonia di interpretazione» da indurmi a pensare che la psicologia monoteistica, contro la quale tante volte mi sono scagliato, non ricalchi tanto l'antico ebraismo (all'interno e a fianco del quale rimaneva ampio spazio per la varietà immaginale), quanto appunto la Grande Madre. Il monismo come mammismo. A parte questo, quando oggi leggiamo la psicologia analitica per capire che cosa significhi «ctonio», scopriamo che il termine ha assunto il signifìcato di terrestrità arcaica che atteneva a lei. Non solo, in quanto arcaico e terrestre, deve pure significare ma­triarcale e femminile! Di conseguenza, il nostro cor­po istintuale, nella carne o in immagine, negli uo­mini come nelle donne, oggi come nel passato, ap­partiene a lei, e per riappropriarcene dobbiamo diventare eroi e assassini. Il complesso della Grande Madre aggiunge il femminile come genere, quasi fosse un ninnolo, all'agricoltura e alla fertilità, oltre che alla terra, al corpo, all'istinto e al profondo. Questa mossa trascura il fatto che « ctonio » è un epiteto proprio anche a Ermes, a Dioniso e a Zeus stesso; ignora inoltre, nel senso che « non conosce », uno ctonio che non possa essere identificato con il corpo istintuale o con la terra intesa come suolo.

Chiariamo subito: lo ctonio non è soltanto fem­minile, soltanto istintuale, soltanto fisico, e non ha necessariamente a che fare con i riti di fertilità. Co­me scriveva Wilamowitz-Moellendorf: « Se gli studio­si moderni, che fanno un gran parlare di culti cto­nii, si riferiscono con questo all'agricoltura e a tutto ciò che in quella sfera attiene a Demetra, ebbene vuole dire che non sanno cogliere le sfumature del­le parole greche ». I due termini, ge e chthon, sottin­tendono due mondi diversi: il primo, il mondo del­la terra e sulla terra; il secondo, il mondo sotto la terra e oltre la terra.

Anzi, le distinzioni da fare sono addirittura tre, e sono state immaginate come tre diversi livelli della terra, all'interno di una immaginazione « terricola» in armonia con Gea stessa, il cui nome ritroviamo in geo-grafia, geo-logia e geo-metria. La prima distin­zione è tra la pianura verde, orizzontale di Demetra, con tutte le sue attività preposte alla crescita, e Gea, che è la terra al di sotto di Demetra. Questo secon­do livello, Gea, può essere immaginato come il ter­reno fisico e psichico di un individuo o di una col­lettività, il loro « posto sulla terra», con i relativi diritti naturali, riti e leggi (Gea-Temi). Qui, Gea è uno dei fondamenti da cui la vita umana dipende anco­ra più profondamente che dal cibo e dalla fertilità. Gea rappresenterebbe i riti e le leggi che garantiscono la fertilità, una sorta di principio regolatore materno, che rende possibile la fertilità materiale e ne costituisce il terreno spirituale. Poi, al di sotto di questi due livelli, abbiamo il terzo, chthon, il profon­do, il mondo dei morti.

Naturalmente, la mentalità politeista non divide mai in modo netto questi «livelli», e quindi negli epiteti e nei culti Demetra-Gea-Cton spesso si fon­dono." (Ciò che gli studiosi immaginano riguardo ai greci non corrisponde necessariamente a ciò che i greci immaginavano riguardo agli Dei). Inoltre, a confutare le mie distinzioni c'è anche il fatto che si può benissimo vedere l'intero complesso del mon­do infero dalla prospettiva di Gea, come fa Patricia Berry." Questo consente alla Berry di scorgere in Gea quello spirito ctonio che io trovo in Ade e di concludere che Gaia (Gea) è sia la terra materna, materiale, sia il vuoto ctonio con il suo proprio spi­rito.

Il problema dipende in parte da come si conside­ra la terra. La stratificazione di significati che ho compendiato sopra nell'immagine di Demetra-Gea-­Cton rimanda a una terra non fisica, o terre pure, che è al di sotto o al di là della terra su cui posiamo i pie­di e forse, anche, viene prima. Ci sono etimologi e classicisti che cercano di mettere in relazione i tre « livelli» dal punto di vista culturale, nella convin­zione che un livello di significato sia precedente al­l'altro, nel senso di storicamente anteriore; come se fossero essi stessi immersi in una fantasia genealogi­ca, questi studiosi fanno derivare un livello dall'al­tro, tracciando l'evoluzione storica dei tre concetti. Per esempio, Kirk cita uno dei primi filosofi preso­cratici, Ferecide di Siro, il quale collocava Cton-Ctonie nel principio, con Zeus e Crono: « ... ma a Cto­nie toccò poi il nome di Gea».

Anziché addentrarmi nelle argomentazioni della fantasia storica, preferisco attenermi alle distinzioni psicologiche riflesse nelle tre parole e nelle tre per­sonificazioni. Gea stessa presenta due aspetti. Da un lato, essa ha a che fare con la giustizia distributiva, con le Parche, e inoltre possiede poteri divinatori, profetici. (A Mykonos, Gea chthonia era venerata in­sieme a Zeus chthonios e a Dioniso Leneo, e ad Atene [Areopago] era associata con Plutone ed Ermes cto­nii e con le Erinni). Questa è la Grande Signora che invia i sogni neroalati ed è, appropriatamente, la madre di Temi (Giustizia). Dall'altro lato, in questo suo aspetto spirituale, essa può essere distinta dalla Gea fisica alla quale si offrivano cereali e frutti, ov­vero Gea-Demetra. La quale Demetra ha a sua volta un aspetto misterico: sua figlia Persefone appartie­ne a Ade e ha una funzione collegata al mondo in­fero. Il significato spirituale non può essere ridotto a quello fisico (facendo derivare il culto dei morti dai riti di fertilità, il senso di giustizia dai rituali agri­coli), senza ignorare il dato di fatto palese che esi­stono figure diverse con epiteti diversi. In altre pa­role, perfino la terra e la natura hanno una loro funzione psichica, accanto alle funzioni terrestri, e si può servire la terra e stare su di essa in molti modi, cioè attraverso attività psichiche e non soltanto attra­verso attività naturali.

La distinzione tra ctonio e terrestre, tra fonda­menti invisibili e terreno tangibile, tra oscurità del­l'anima e nerezza del suolo, tra profondità psichi­che e profondità materiali, tra mistero iniziati co e rito di fertilità trova un parallelo nella distinzione esistente nella scrittura egizia tra il geroglifico indi­cante la terra, quello indicante Aker (l'accesso al sottosuolo al limitare dell'esistenza) e un terzo ge­roglifico per indicare il regno dei morti di Anubi, il dio-sciacallo nerazzurro. Ancora una volta le di­stinzioni sono rappresentate come distanza. Nel suo capolavoro, Psiche, il classicista più rivoluzionario della fine del diciannovesimo secolo, Erwin Rohde, amico di Nietzsche, scrive che il mondo infero di A­de e Persefone è talmente distante dal nostro mon­do, che coloro che vi sono relegati «non possono e­sercitare alcuna influenza sulla vita e le azioni degli uomini della terra ». Rohde sottolinea ulterior­mente la distinzione tra il sottosuolo di Gea e il mondo ctonio, affermando che Gea «nel culto vivo la si incontra raramente nei gruppi di divinità ma­schili e femminili a carattere ctonio che in molti luoghi erano venerate collettivamente ».

La qualità spirituale del mondo infero emerge nel modo più chiaro nelle descrizioni del Tartaro, il quale, da Esiodo in poi, era immaginato al fondo dell'Ade, come sua voragine estrema. Il Tartaro era spesso paragonato alla volta celeste, in quanto dista­va dalla terra tanto quanto il cielo al di sopra di essa; ed era personificato come figlio di Etere e di Ter­ra, dunque un regno di polvere, un composto del­l'elemento più materiale e dell'elemento più imma­teriale.

Man mano che la fantasia del Tartaro andava ela­borandosi, esso diventò sempre più una regione pneumatica di aria e di vento. A differenza dell'in­ferno cristiano, che è un luogo di fuoco, nell'im­maginazione della tarda antichità il Tartaro era una regione di aria densa e fredda senza luce. Perciò, di Ade si diceva che avesse le ali; allo stesso modo, nell'epopea di Gilgamesh, Enkidu sogna la propria morte come trasformazione in uccello, le braccia che si coprono di piume. I morti sono esteriormen­te simili a uccelli, e il loro elemento è evidentemen­te l'aria.

Questa sua volatilizzazione pone il mondo infero in netto contrasto con la terra sotto i nostri piedi. In età alessandrina, l'oltretomba perdette del tutto la sua localizzazione dentro la terra (vale a dire, si li­berò dal letteralismo naturalistico) e fu trasferito, in senso geografico, sotto al mondo. Esisteva ora un emisfero inferiore. Il termine sotterraneo (hypogeios, sotto la ge) indicava l'intero emisfero celeste che si incurvava al di sotto della nostra Terra e dunque, come Ade, era necessariamente invisibile dalla no­stra prospettiva: da dove stiamo noi non può essere visto. Mondo diurno e mondo notturno, le due fac­ce dell'anima romantica, erano già allora concepiti secondo una teologia geografica di mondo supero e mondo infero. In tale «teologia, il mondo è diviso in due metà dal cerchio dell'orizzonte; l'emisfero superiore è il regno dei vivi e degli dèi superi, l'emi­sfero inferiore quello dei morti e degli dèi inferi ». Gli egizi avevano descritto con minuzia estrema questo mondo rovesciato che sta sotto i nostri piedi. I morti camminavano capovolti, testa in giù e piedi in su: «Le persone là camminano con i piedi sul soffitto. Questo comporta la spiacevole conseguen­za che, poiché la digestione procede in direzione opposta, gli escrementi arrivano alla bocca». Il mondo infero è l'inverso rispetto al mondo diurno, e dunque il suo comportamento sarà invertito, pervertito. Ciò che dalla prospettiva del giorno è solo escrementi (i residui diurni di Freud) diventa cibo per l'anima quando è capovolto. Il modo di muo­versi, il modo di assimilare le cose, la logica, perfi­no, sono a testa in giù, perché là abbiamo la testa al­trove. (Nel sesto capitolo prenderemo in esame al­cuni esempi attuali di questo «essere a testa in giù», tra cui gli escrementi nei sogni).

E se ci fosse una figura archetipica, nei «residui diurni» di Freud che costituiscono il materiale del sogno? Non potrebbero questi avanzi riferirsi alle immondizie domestiche che venivano offerte in sa­crificio a Ecate?". Ecate è stata fin dai tempi antichi coinvolta nell'interpretazione dei sogni. Sia la visio­ne magica, che ritiene i sogni premonizioni del fu­turo, sia la visione meccanicistica del diciannovesi­mo secolo, che li considera prodotti di scarto delle sensazioni fisiologiche (pattume) mostrano l'in­fluenza di Ecate. Quando essa è identificata con Nyx, la notte, come in Spenser e a volte in Shake­speare, i sogni diventano la sua provincia e le nostre idee interpretative riflettono la sua prospettiva.

Possiamo continuare questa tradizione, sebbene in maniera diversa. Sì, il sogno è fatto di rimasugli, e questi appartengono alla dea che rende sacri i ca­scami della vita, sicché tutto conta, tutto è impor­tante. Dedicare il sogno ai «misteri di Ecate e della notte» (Re Lear, I, I, 111) significa restituire i rigur­giti «vomitati» nei sogni senza pretendere di salvar­li moralmente o di trovarne l'utilità per il mondo diurno. Il ciarpame dell'anima è primordialmente salvato dalla benedizione di Ecate e perfino lo spre­co che facciamo di noi stessi può essere ricondotto a lei. Una vita sconclusionata e piena di problemi è una maniera di entrare nel suo regno e diventare «figli di Ecate »; La nostra parte consiste soltanto nel riconoscere che c'è un mito nella confusione, in modo da depositare i residui diurni nel posto giu­sto, vale a dire sull'altare di Ecate. Il rito prevedeva che la spazzatura fosse deposta di notte a un croce­via, e dunque ciascun sogno può. condurre almeno in tre direzioni, oltre a quella da cui siamo venuti. Ecate, che tradizionalmente è rappresentata con tre teste, ci obbliga a guardare e a tendere l'orecchio in più modi contemporaneamente.

Poiché il mondo infero differisce così radical­mente dal sottosuolo, i sogni, che in esso hanno la loro casa, devono riferirsi a un mondo psichico o pneumatico di fantasmi, spiriti, antenati, anime, daimones. Questi sono invisibili per natura, e non semplicemente perché dimenticati o rimossi. E un mondo fluido, o di polvere, di fuoco, di fango o di etere, dunque non offre niente di solido a cui ag­grapparci, a meno che non elaboriamo strumenti intuitivi adatti ad afferrare gli esseri impalpabili, che scivolano tra le dita o bruciano a toccarli.

Situando il sogno nella Casa di Ade, tra questi fon­damentali impalpabili, cominceremo a capire come i sogni riflettano un mondo sotterraneo di essenze, e non un sottosuolo di radici e di semi. I sogni presen­tano immagini dell'essere, non del divenire. Apprenderemo che un sogno non è tanto un commen­to sulla vita e un'indicazione sulla sua direzione evo­lutiva, quanto una enunciazione proveniente dalle profondità ctonie, da quello stato immutabile, den­so, freddo, che oggi tanto spesso chiamiamo psico­patia, perché, come ben vide Freud, il sogno non co­nosce morale, sentimenti umani, senso del tempo. Non possiamo più rivolgerei al sogno con speranze di progresso, trasformazione, rinascita.

Credo, inoltre, che il mondo infero ci insegni ad abbandonare la speranza di poter usare i sogni per conseguire l'unificazione della personalità. Gli spi­riti del mondo infero sono plurali. Tant'è vero che i di manes, gli spiriti inferi, che erano l'equivalente la­tino dei theoi chthonioi dei greci, neppure possedeva­no la forma singolare. Anche del singolo defunto si diceva: di manes, al plurale. « Gli antichi egizi rite­nevano che l'individuo vivesse dopo la morte in una molteplicità di forme, ciascuna delle quali era la persona intera». Il mondo infero è una comunità di figure innumerevoli. L'infinita varietà di figure ri­flette l'infinità dell'anima, e i sogni ripristinano nel­la coscienza questo senso del molteplice. La pro­spettiva politeistica è fondata nelle profondità cto­nie dell'anima. Una psicoterapia che rifletta tali profondità non può dunque mirare al consegui­mento di un'individualità indivisa né promuovere un'identità personale intesa come totalità unificata. 

L'accento, nella psicoterapia, cadrà invece sugli ef­fetti disgregativi del sogno: perché il sogno ci mette di fronte, tra l'altro, alla nostra dis-integrità morale, alla nostra psicopatica mancanza di una presa cen­trale su noi stessi. I sogni ci rivelano che siamo plu­rimi e che ciascuna delle forme che vi figurano sono «la persona intera», potenzialità comportamentali complete. Soltanto disgregandoci in quelle molte­plici figure ampliamo la coscienza fino ad abbrac­ciare e a contenere le sue potenzialità psicopatiche.

Quando cerchiamo di leggere il profondo livello ctonio dal punto di vista di Demetra o di Gea, ci tro­viamo in difficoltà. Percepire lo ctonio con gli occhi di Demetra è prendere il sogno come segnale per l'azione letterale e tradurlo con l'etica naturalistica in un mondo moralizzato. Prendere un sogno come se contenesse un sottinteso immorale o un'indica­zione morale volti a correggere un errore e ristabili­re l'equilibrio è leggerlo dalla prospettiva di Gea-Te­mi-Dike. Forse ci serve l'intervento di un'altra si­gnora del mondo infero, Ecate, che di fantasmi era esperta, che provocava la paura e anche la scacciava, e che non aveva niente a che vedere con il ciclo del­la vita umana (matrimonio, nascita, agricoltura), non avendo lei stessa fratelli o sorelle né discenden­ti. «Il suo culto era estraneo alla morale ». La pro­spettiva infera di Ecate arriva alla profondità ctonia del sogno, il quale, da un lato, è una semplice enun­ciazione dell' essenza (come appaiono spettrali le cose una volta spogliate del loro contesto umano) e, dall'altro, sollecita la nostra psicopatia.

La regione dell'anima in cui i sogni hanno la loro casa è più profonda delle pulsioni della carne e del sangue, che abbiamo erroneamente chiamato cto­nie, come se ctonio equivalesse a naturale, come se il mondo infero riguardasse ira e cupiditas, l' anima-­sangue, il thymos. Tutto questo è terrestre; è l'anima naturale, fisica, somatica delle emozioni. La nostra parola moderna «inconscio» è diventata una sorta di ripostiglio, e raccoglie in un unico torbido serba­toio tutte le fantasie del profondo, dell'inferiore, del volgare, del pesante (depresso) e dell'oscuro. Abbiamo seppellito nella stessa monolitica tomba denominata «l'inconscio» il corpo rosso e terragno dell'Adamo primevo, l'uomo e la donna comuni collettivi e le ombre, i fantasmi e gli antenati. Non sappiamo distinguere un'ossessione da una vocazio­ne, un istinto da un'immagine, un desiderio impetuoso da un moto dell'immaginazione. Guardando la notte dalla luce bianca del mondo diurno (che è dove fu coniato il termine «inconscìo»), non sap­piamo distinguere Il rosso dal nero. E così leggiamo i sogni cercandovi ogni sorta di messaggi contempo­raneamente: somatici, personali, psichici, divinato­ri, ancestrali, pratici, confondendo la vita istintuale ed emotiva con il regno della morte.

La netta distinzione tra emozioni e anima, tra uo­mo emozionale e uomo psicologico emerge in un altro frammento di Eraclito: « ... qualsiasi cosa vo­glia, il thymos la compra pagandola con l'anima» (fr. 85/ A116). Il thymos, per l'esperienza greca arcaica la coscienza emotiva, o anima umida, non apparte­neva al mondo infero. Dunque, considerare il so­gno un desiderio emozionale si paga con l'anima; confondere lo ctonio con il naturale fa perdere psi­che. Non possiamo dirci psicologici se leggiamo le immagini oniriche come pulsioni o desideri sessua­li. Qualunque consiglio un analista offra sulla vita emotiva, credendo di ricavarlo dai sogni, in realtà si riferisce alla sua esperienza, in cui vede un riflesso dei sogni. Ma il consiglio non si trova nei sogni. L'analista fa una sup-posizione, cioè sovrappone ai so­gni quello che sa della vita.

Quello che sappiamo della vita può non avere ri­levanza per ciò che sta sotto la vita. Le cose che una persona ha imparato e ha fatto nella vita possono essere altrettanto irrilevanti per il mondo infero quanto lo sono gli abiti, che ci consentono l'adatta­mento alla vita, per la carne e le ossa che quegli abi­ti ricoprono. Perché nel mondo infero si è spogliati di tutto e la vita è capovolta. Là si è oltre le aspetta­tive basate sull' esperienza di vita, oltre la saggezza da essa derivata.

Anche su questo punto, possiamo seguire Eracli­to: «Gli uomini, una volta morti, li aspettano cose che essi non sperano né si immaginano» (fr. 271 A58). Anche Dante, nell' Inferno, parla di lasciare la speranza, e la speranza che si abbandona nel­l'entrare nella prospettiva del mondo infero è la fantasia delle aspettative quotidiane e delle illusioni del sangue e della carne. Le anime nell'Ade, dice Platone, sono «incurabili». Non c'è modificazione in cui sperare. Una tale speranza sarebbe mal ripo­sta. Ci occorre semmai la speranza di san Paolo, una speranza di cose invisibili, non già la speranza di Pandora, la quale, essendo moglie di Prometeo, nu­tre una speranza nascosta, la stessa che lui rende manifesta nella sua missione di aiutare il genere umano. Per entrare in profondità in un sogno, oc­corre abbandonare la speranza, la speranza che spunta al mattino e vorrebbe piegare il sogno ai pro­pri scopi. Al livello di Ade, nel sogno non ci sono né speranza né disperazione: esse si elidono a vicenda. E noi possiamo lasciarci alle spalle il linguaggio del­le aspettative, quello che misura progressi e regres­si, rafforzamento e indebolimento dell'Io, successi e fallimenti.

Permettetemi di provare a chiarire ancora una volta la distinzione tra il sottosuolo della vitalità e delle emozioni e il mondo infero. Ha detto Eraclito: «Se non fosse in onore di Dioniso che conducevano la processione e cantavano l'inno all'organo ma­schile, la loro azione sarebbe il colmo dell'indecen­za. Ade e Dioniso sono lo stesso dio, per quanto delirino e baccheggino celebrando riti in onore del se­condo» (fr.15/A60).

Questo passo ha dato del filo da torcere agli stu­diosi, a quelli almeno che accettano questa lezione, in parte per l'accostamento e anzi la identificazione tra le due sfere, che noi invece cerchiamo di mante­nere distinte: le essenze psichiche e la natura emo­zionale.

Ma il frammento si riferisce al rito misterico di una processione sacra e va letto con analoga reve­renza, addirittura come rivelazione di qualcosa di profondo contenuto in atti all'apparenza spudora­tamente osceni, deliranti e folli. Non basta dunque liquidarlo con una generica constatazione moralisti­ca, come fanno alcuni esegeti, per i quali Eraclito intende dire che perfino le più sfrenate forze vitali conducono pur sempre alla morte, oppure, come fanno altri, prenderlo per una delle solite ovvietà metafisiche di Eraclito sulla equivalenza di vita e morte (frr. 62, 88/ A43, Al15). Rimangono pur sem­pre la vivezza delle immagini di questo rito misteri­co e il linguaggio sessuale con cui è espresso, che per la psicologia è così fondamentale. E allora, caro Eraclito, parlandoti al di là dei secoli, da psicologo a psicologo, io ti leggo come se stessi dicendo che, ri­guardo a questa conturbante distinzione tra emo­zioni e anima, tra la prospettiva della vitalità (Dioni­so) e la prospettiva della psiche (Ade), la fantasia sessuale racchiude un mistero. In ciò che sembra più manifesto, pubblico e concreto c'è anche qual­cosa che è coperto di vergogna, nascosto, invisibile.

L'Ade che è in Dioniso dice che esiste un signi­ficato invisibile negli atti sessuali, un senso per l'ani­ma nella parata fallica, che tutta la nostra forza vita­le, compresi i desideri polimorfi e pornografici del­la psiche, allude al mondo infero delle immagini. Le cose della vita, per quanto piene di vita siano, non sono soltanto naturali. Dioniso è anche una divinità infera (che attira giù, come un'esperienza de­pressiva). Potremo pure credere di vivere la vita al livello della vita soltanto, ma non possiamo sfuggire al senso e all'importanza psichici delle nostre azio­ni. L'anima si fa nella mischia del mondo. Ciò che ha significato per la vita ha contemporaneamente significato per l'anima, dunque considera la tua vita alla luce dell'Ade che è in essa.

L'altro lato di quella misteriosa identità, il Dioniso che è in Ade, significa che esiste una zoe, una vitalità, in tutti i fenomeni del mondo infero. Il regno dei morti non è così morto come ci si aspetterebbe. An­che Ade, attraverso le fantasie sessuali, può stuprare e rapire la psiche. Nelle ombre, benché siano prive di thymos, di corpo e di voce, c'è una libido nascosta. Le immagini di Ade sono anche dionisiache: non fertili nel senso naturale, ma nel senso psichico, immaginativamente fertili. C'è, sotto la terra, un'imma­ginazione che trabocca di forme animali, che bac­cheggia e fa musica. C'è una danza nella morte. Ade e Dioniso sono lo stesso dio. Mentre Ade stende la sua oscurità su Dioniso avviandolo alla sua tragedia, Dioniso ammorbidisce e completa Ade approfon­dendone la ricchezza. Così Farnell descrive la loro fusione: «mitezza congiunta a malinconia ».

 

 

 

mondo infero e psiche

 

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Nell'immaginazione omerica, i morti sono privi delle phrenes e del thymos e per questo chiedono a Odisseo il sangue della vita. Achille (Iliade, XXIII, 100 sgg.; cfr. XI, 204-22) spiega cosa è presente e co­sa non lo è nel mondo infero: «Ahimè, v'è dunque anche nella casa di Ade una psyche e un eidolon [un'anima e un fantasma]; di phrenes [polmoni], in­vece, al suo interno non ve ne sono affatto». Secondo Onians, le phrenes si riferiscono alla coscien­za-respiro dei polmoni e alla sua voce. I morti (con l'eccezione di Tiresia) non possiedono questo tipo di coscienza derivante dai quotidiani scambi vitali tra interno ed esterno. Il thymos che i morti vorreb­bero dai vivi è il vapore del sangue che giunge fino a loro dagli animali sacrificati. (Ricordate il «ritorno dal mondo dei morti» di Fechner, dopo avere man­giato carne di porco?). Ancora ai tempi di Ovidio, i morti sono ombre che vagano «esangui, senza cor­po, senza ossa».

Ma la psiche rimane. Il mondo infero è un regno di sola psiche, un mondo puramente psichico. Ciò che si incontra là è l'anima, e infatti le figure che Odisseo incontra (Aiace, Anticleia, Agamennone) sono dette psychai e il loro modo di muoversi è pa­ragonato ai sogni; in altre parole, il mondo infero è lo stile mitologico atto a descrivere un cosmo psico­logico.

Detto senza mezzi termini: il mondo infero è psi­che. Quando usiamo l'espressione «mondo infe­ro», facciamo riferimento a una prospettiva total­mente psichica, dove l'intero nostro modo di essere è stato desostanzializzato, spogliato della vita natu­rale, e tuttavia, in ogni forma, senso e dimensione, è la copia esatta della vita naturale. Il Ba infero degli egizi e la psyche infera della Grecia omerica erano la persona intera come in vita, ma svuotata della vita. Questo significa che la prospettiva del mondo infe­ro modifica radicalmente la nostra esperienza della vita. Essa non ha più importanza per come è, im­porta solo dal punto di vista della psiche. Per cono­scere la psiche alle sue fondamenta, per un'autenti­ca psicologia del profondo, occorre andare nel mondo infero.

Sarebbe gratificante, a questo punto, compiere ri­petutamente la discesa agli inferi, come un eroe cul­turale, attraverso le tombe etrusche, passando il ponte Cinvat dei persiani, seguendo i percorsi della babilonese Istar e del sumero Enkidu, o sulle orme della nekyia ellenistico-cristiana descritta da Diete­rich, per ritornarne con autorevoli resoconti. Sa­rebbe un'impresa eroica, dettata da hybris e in verità superiore alle nostre forze. Inoltre, non è questo lo scopo del presente libro, che non vuole fornire una mitologia comparata del mondo infero, bensì una re-visione del sogno dal punto di vista del mondo in­fero.

Jung ha splendidamente riassunto il messaggio fondamentale contenuto nelle guide «alla terra dei morti» da lui consultate (egiziana e tibetana), quando dice che esse ci insegnano «il primato della psiche, giacché questa è l'unica cosa che la vita non ci chiarisce» (Opere, XI, p. 527); ovvero, come dice Burnet della psyche omerica: «... durante la vita essa non ha la minima importanza»: allo stesso modo, l'anima Ba degli egizi «non significa mai vita», e appare soltanto in connessione con la morte. E Ro­bert Lowie afferma: «la "psiche" (cioè l'entità che è attiva dopo la morte ovvero nei sogni o nella trance) ... secondo la concezione della maggior parte dei popoli primitivi, negli esseri umani vivi e coscienti, lungi dal funzionare attivamente, rimane allo stato dormiente ».

È alla luce della psiche che vanno lette tutte le de­scrizioni del mondo infero. Essere nel mondo infe­ro significa essere psichici, essere psicologici, essere dove l'anima viene per prima. Le fantasie e le ango­sce del mondo infero sono descrizioni trasposte del­l'esistenza psichica. Le immagini del mondo infero sono enunciati ontologici intorno all'anima, su co­me essa esista in se stessa e per se stessa, al di là del­la vita. Dunque leggeremo tutti i movimenti verso questo regno della morte, siano essi fantasie di di­sfacimento, immagini oniriche di malattia, coazioni a ripetere o impulsi suicidi, come movimenti verso una prospettiva più psicologica. Di fatto, vogliamo riconnettere più intimamente psiche e Thanatos, ri­prendendo il filo che il pensiero di Freud stava se­guendo alla fine della sua vita.

L'interesse di Freud per Thanatos era iniziato molto prima e per motivi più personali. Freud era ossessionato dall'idea della propria morte. Con l'approssimarsi della fine, mentre Thanatos veniva sem­pre più in primo piano nella sua immaginazione teoretica, il suo stoicismo nei confronti della morte si fece sempre più esemplare. Poiché leggiamo le descrizioni del mondo infero in una luce psicologi­ca, possiamo altresì leggere l'interesse della psicolo­gia per la morte alla luce del mondo infero. Dai tempi di Freud, la morte è sempre stata una presen­za inquietante tra i membri della nostra professio­ne, prima in Freud stesso, poi con i suicidi dei primi collaboratori suoi (Silberer e Tausk) e di Jung (Ho­negger). Il suicidio degli psichiatri è un fenomeno tuttora rilevante. Secondo Walter Freeman, tra i me­dici il suicidio è più frequente che in altre categorie professionali e in cima alla classifica dei medici che si suicidano figurano gli psichiatri. Le sue statisti­che mostrano che negli Stati Uniti, tra il 1895 e il 1965, è stata ufficialmente certificata come dovuta a suicidio la morte di duecentotré psichiatri, e tra questi ottantuno erano di età compresa tra i venti e i quarant'anni.

La morte è la paura fondamentale della nostra professione e la sua potente metafora fondamentale. Il culto della crescita che è alla base delle odierne terapie ottimistiche, incentrate sulle peak experiences, sulla libertà, la guarigione e la creatività, è una difesa maniacale contro il terreno stesso della psicoterapia, un acting out spacciato per terapia. Se si vuole essere psico-terapeuti e lavorare nel profondo, bisogna in un modo o nell'altro collaborare con Ade.

Con l'intervento di Ade, il mondo è capovolto. Il punto di vista della vita cessa di valere. Ora i feno­meni sono visti non solo attraverso gli occhi di Eros, della vita umana e dell'amore, ma anche attraverso quelli di Thanatos, le cui fredde immote profondità non hanno legame con la vita. Capovolgendo in questo modo le cose, partecipiamo al ratto perpe­trato da Ade, che, vale ricordare, non e semplice­mente un gesto psicopatico, ma costituisce il miste­ro iniziatico centrale dei miti eleusini. Quel ratto minaccia l'integrità del sistema psicologico che deriva la sua forza dalla vita e si aggrappa al rapporti umani e alle abitudini naturali della figlia di Deme­tra. È il ratto a far compiere all'anima Persefone il passaggio dallo statuto esistenziale di figlia di Deme­tra a quello di sposa di Ade, dall'esistenza naturale della generazione, che è data a una figlia dalla vita in quanto materna, all'esistenza psichica del matri­monio con ciò che è estraneo, diverso e che non è dato. Qui, l'esperienza del mondo infero è totalizzante e non ammette di non essere compiuta. L'e­sperienza del mondo infero secondo questo stile è soverchiante, giunge come violazione e ci strappa alla vita trascinandoci nel regno che l'inno orfico a Plutone descrive come «vuoto del giorno». Perciò sui sarcofagi greci è spesso scritto che entrare nell'Ade è «lasciare la dolce luce del sole».

La psicologia archetipica del triangolo Ade-Per­sefone-Demetra non si è esaurita in Grecia. Ancora oggi nell'anima si manifestano aspetti del mistero psicologico di Eleusi. L' esperienza di Persefone si ri­presenta in ciascuno di noi nelle improvvise depres­sioni, quando ci sentiamo imprigionati nell'odio, freddi, come paralizzati e trascìnatì via dalla Vita ver­so il fondo da una forza invisibile, alla quale vorrem­mo sfuggire, e allora annaspiamo alla cieca in cerca di spiegazioni e consolazioni naturalistiche per ciò che in modo tanto oscuro ci succede. Ci sentiamo in­vasi da sotto, aggrediti, e pensiamo alla morte.

Quello del ratto non è l'unico modo di esperire il mondo infero; la discesa può avvenire secondo mol­te altre modalità. Ma quando avviene in questa ma­niera radicale, è possibile riconoscere il mitema che ci tiene imprigionati: siamo trascinati sul cocchio di Ade soltanto se ci aggiriamo nei verdi prati di De­metra, seduttivamente innocenti con le compagne tra i fiori. Quel mondo deve aprirsi. Quando ci si spalanca la terra sotto i piedi, avvertiamo soltanto l'abisso nero della disperazione; tuttavia persino questo mitema può essere esperito in altri modi.

Per esempio, nel racconto, Ecate assiste all'even­to come testimone, silenziosa e vìgile. Esiste dun­que una prospettiva capace di osservare le lotte del­l'anima senza l'agitazione di Persefone e senza la reazione catastrofica di Demetra. C'è in noi anche un angelo oscuro (Ecate era anche detta anghelos), una coscienza che splende nel buio (Ecate era an­che detta phosphoros) e che è testimone di tali eventi perché ne è consapevole a priori. Questa parte ha un nesso a priori con il mondo infero attraverso ca­ni che fiutano, megere, lune nere, spettri, immon­dizie e veleni. Tale parte di noi non è trascinata sul fondo perché sul fondo ci vive, così come Ecate è per un suo aspetto una dea del mondo infero. Da questa prospettiva abbiamo la possibilità di osserva­re le nostre catastrofi con una oscura saggezza che non si fa illusioni.

Non c'è bisogno di sottolineare come i riferimen­ti all'antica Grecia non siano intesi a una ricostru­zione storica del senso che i greci attribuivano al mi­tema Ade-Persefone o alla morte o ai sogni. Situare i sogni presso Hypnos, Nyx, Ecate, Thanatos e Cton non significa attribuire loro un culto o una colloca­zione rituale nella cultura greca, bensì dare loro una collocazione immaginale nella nostra. Stiamo ricostruendo il loro sfondo immaginale, la loro ca­sa, il mondo nel quale essi trovano la loro immagine somigliante. L'unico luogo immaginale che abbia­mo avuto finora è stata la topografia freudiana del­l'inconscio, che qui vogliamo riaffermare come to­pos psicologico.

Inoltre, situare i sogni presso il mondo infero cto­nio non esclude che essi possano riferirsi ad altri Dei che non la Notte e la sua progenie. Sappiamo, per esempio, che è ad Ermes che ci si rivolge per ri­cevere sogni, e questo implica che essi potrebbero essere inviati per il suo tramite da uno qualsiasi de­gli altri Dei, essendo Ermes il loro messaggero. Molti Dei ed eroi hanno aspetti ed epiteti ctonii, sic­ché la discesa agli inferi può avvenire secondo molti stili archetipici, non solo al modo di Persefone. Il fatto che fosse Ermes a portare i sogni e fosse Ermes la sola guida all'Ade, come afferma l'inno omerico, ci riconduce al medesimo topos, perché, se pure l'at­to del sognare è riferibile a Ermes, è dall'aspetto cto­nio del dio che deriva l'attività onirica. I sogni in sé non sono Dei e neppure messaggi degli Dei, se non in quanto trasmessi da Ermes, i cui caratteristici comportamenti tortuosi sono insondabili e ingan­nevoli come le profondità della psiche. L'avere presente che i sogni vengono per il tramite di Er­mes può aiutarci a non divinizzarli nella psicotera­pia, a non prenderli come divinazioni, a non crede­re che, con le nostre brillanti interpretazioni, pos­siamo vincere in astuzia il dio che dà il nome sia alla ermetica chiusura dei sogni sia alla ermeneutica con la quale vorremmo disvelarli.

 

 

 

immagini ed ombre

 

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«Entrare nel mondo infero» allude a una transizione dal punto di vista materiale a quello psicologico. Mentre la prospettiva della natura, della carne e della materia decade, lasciando un'esistenza di eido­la, di immagini immateriali, simili al riflesso in uno specchio, le tre dimensioni diventano due. Siamo nella terra dell'anima. Come scrive Nilsson, «Eidolon ... significa semplicemente "immagine" e mantiene sempre questo significato ... per i greci l'anima era un'immagine ».

Dobbiamo prestare molta attenzione alle parole che scegliamo per descrivere gli eidola. Poiché essi non hanno sostanza, non ci è lecito usare il nostro comodo linguaggio sostanzializzante. Non possia­mo semplicemente dire che gli eidola sono questo o quello, ovvero che l'esistenza nel mondo infero è fat­ta così o così. Possiamo parlarne soltanto per ciò che «sembrano essere», per come «appaiono» o per ciò a cui «sono paragonabili». Le nostre affer­mazioni devono essere sempre introdotte da un «come», quasi che quella paroletta fosse la moneta da offrire a Caronte perché ci traghetti sulle acque che separano due tipi di linguaggio. I morti parlano in modo diverso: i morti bisbigliano. La loro parlata ha perduto la sua sostanza concreta, la sua certezza naturale. Per sentire questo tipo di linguaggio dob­biamo farci vicini e tendere l'orecchio.

Gli eidola vanno distinti dalle icone, che sono piuttosto delle copie in senso pittorico, oggetti visi­bili, esistenti nel mondo esterno, che si possono toc­care e addirittura fare. La parola eidolon è connessa con Ade stesso (aidoneus, «invisibile ») e con eidos, le forme e figure dell'ideazione, le idee che informa­no e regolano la vita, ma sono talmente sepolte in essa che le «vediamo» soltanto quando ne emergo­no sotto forma di astrazioni. Dunque stiamo parlan­do di immagini che sono, al tempo stesso, invisibili. Siamo dentro la mente immaginativa.

Un altro modo per esprimere il mondo infero sa­rebbe quello di sottolinearne l'aspetto nebuloso, di ombra. Skia era un'altra delle parole usate dall'immaginazione greca per indicare le figure del mondo infero. Le persone laggiù sono ombre. Dunque dob­biamo immaginare un mondo senza luce in cui si muovono delle ombre. Eppure, come si può parlare di ombre nell'oscurità, dal momento che, per la co­scienza del mondo di sopra, le ombre provengono soltanto da oggetti fisici che bloccano la luce? Come possono esserci ombre nell'oscurità? E un po' come cercare di avvertire il movimento della propria om­bra. Ecco: cercare di cogliere un barlume della figu­ra che sta dietro le quinte, sintonizzarsi su quello che avviene d'altro in un' azione o in una conversa­zione all'apparenza perfettamente naturali e sem­plici è appunto cercare di «vedere ombre nel bu­io »; VuoI dire notare la fantasia in atto in quel mo­mento, osservare i giochi d'ombre della psiche nel­la nostra inconscia vita quotidiana.

Questo tipo di coscienza è riflessiva, osserva non soltanto la realtà fisica che sta davanti agli occhi e la osserva non soltanto con gli occhi, ma vede le intermittenti configurazioni che stanno dentro quella realtà fisica, e dentro gli occhi stessi. E percezione della percezione, ovvero, come ha detto Jung delle immagini: esse sono la percezione che ha di sé l'i­stinto. Con l'atto di immaginare, la nostra cieca vita istintuale può riflettere se stessa, e non dopo o pri­ma degli eventi, nella cameretta dell'introspezione, bensì alla maniera di un occhio o di un orecchio, che colgono l'immagine dell'evento mentre questo ha luogo.

Dunque, di nuovo, entrare nel mondo infero è come entrare nella modalità della riflessione, del ri­specchiamento, e questo suggerisce che possiamo entrare nel mondo infero per mezzo della riflessio­ne, con mezzi riflessivi: facendo una pausa, soppe­sando le cose, modificando l'andatura, la voce, lo sguardo, scendendo di livello. Una riflessione meno imposta dalla volontà, meno finalizzata; meno volutamente introspettiva dell'eroica discesa agli inferi per vedere come stanno le cose laggiù .

Immaginiamo, piuttosto, che sia più affine a Er­mes: orecchie ritte, sguardo obliquo, occhio freddo, sospettoso; oppure sentimenti e pensieri intuitivi che si presentano nel bel mezzo della vita e la defor­mano trasformandola in psiche.

Il passaggio dalla percezione fisica tridimensiona­le alle due dimensioni della riflessione psichica è dapprima avvertito come una perdita: svanito il thy­mos, rimaniamo affamati, piagnucolosi, paralizzati, ripetitivi. Abbiamo bisogno di sangue. La perdita è effettivamente un segno caratteristico delle espe­rienze del mondo infero, dal lutto al sogno, con quel peculiare senso di incompletezza, come se ci aspettasse sempre qualcosa che ancora non abbia­mo ricevuto, un pezzetto che è andato perduto. Una vita vissuta in stretta connessione con la psiche presenta davvero un senso continuo di perdita. Sa­rebbe grandioso credere che questo sia I'incessante sacrificio richiesto dall'anima, ma a viverlo non sembra tanto sublime. Quello che proviamo è l'umi­liante inferiorità dell'incertezza e una menomazio­ne delle potenzialità. Socrate, che riteneva la cura dell'anima il suo compito più importante, ripeteva di continuo di non sapere nulla, in realtà. L'anima comporta sempre un senso di infermità, il che non significa prendere la perdita alla lettera, come nelle nevrosi neurasteniche, depressive e isteriche, dove l'identificazione con la perdita serve a sottrarsi al la­voro dell' anima. L'esperienza della perdita nelle sue varie forme e la sua letteralizzazione nella teoria (la madre negativa, il padre assente, l'infanzia de­privata) rimangono fondamentali per la psicolo­gia. Questo fenomeno rimanda, ancora una volta, al mondo infero e alla sua dimensione assente.

Dire perdita, tuttavia, non è raccontare tutta la storia, perché la dimensione avvertita come perdita è in realtà la presenza del vuoto. In realtà, stiamo fa­cendo esperienza di un'altra dimensione, e il prez­zo per esservi ammessi è la perdita del punto di vista materiale. Per un verso si rinuncia a una dimensio­ne, ma in questo modo si acquista Ade con tutte le volte piene di echi che ne costituiscono la reggia. Anche se abbiamo perduto una certa estensione nello spazio fisico e nel mondo dell'azione, quaggiù nel profondo c'è abbastanza spazio per accogliere quel mondo fisico, ma in un altro modo. Qui entria­mo in contatto con l'anima di tutto ciò che nella vi­ta si è perduto e con le anime dei perduti. Ade è an­che Plutone; colui che è «vuoto del giorno» e ha soltanto due dimensioni è anche ricchezza, nutri­mento e ricettività immensa. Le raffigurazioni di Plutone mostrano la sua cornucopia, simile a un grande orecchio, traboccante di fruttuose possibi­lità di comprensione.

La transizione dalla prospettiva materiale alla prospettiva psichica presenta spesso immagini oniri­che di malattia e di morte. L'ospedale e lo studio del medico del sogno non sono soltanto luoghi del recupero della salute. Sono anche luoghi in cui si offre rifugio al collasso del corporeo. I processi al­chemici della putrefazione e dell'annerimento, le orribili ferite e le piaghe purulente, la macellazione rituale o le morie e le stragi di animali e altre scon­volgenti immagini di questo genere indicano il pun­to dove qualcosa di materiale sta perdendo sostanza e impeto, dove un impulso fisico o una pulsione ani­male sta scendendo verso il mondo infero. Lì, in quel punto, sta avvenendo un cambiamento nei no­stri atteggiamenti materialistici e naturalistici. Con­siderare l'animale ferito o la carne malata soltanto come la parte della personalità che ha bisogno di es­sere guarita è prendere la ferita alla lettera e in ma­niera naturalistica, restituendola al mondo supero, rafforzando l'energia egoica e ostacolando con ciò il processo di patologizzazione in atto. Tale rafforza­mento interrompe l'opus contra naturam.

Le immagini del mondo infero sono nondimeno visibili, ma solo a ciò che in noi è invisibile. L'invisi­bile è percepito per mezzo dell'invisibile, cioè della psiche. Le immagini psichiche non sono necessaria­mente visive, anzi, possono non somigliare affatto alle immagini sensoriali. Sono, piuttosto, immagini nel senso di metafore. Un'immagine poetica e l'intero processo immaginativo della musica si odono, è ov­vio, con le orecchie, ma si ascoltano con un terzo orecchio, l'orecchio interiore.

Secondo Platone (Sofista, 266c), le immagini dei sogni sono paragonabili alle ombre, «quando mac­chie scure interrompono la luce », sicché noi vedia­mo una sorta di «riflesso», «l'inverso della visione abituale ». Questa utile analogia ci presenta i sogni come macchie scure, le lacune del mondo diurno, là dove il mondo diurno si inverte o converte il suo senso in significato metaforico. Non si tratta sempli­cemente del mondo diurno replicato in una si­lhouette più sottile, bidimensionale. Come tutte le ombre visive, queste immagini mettono in ombra la vita, conferendole profondità e la luce riflessa e obliqua del crepuscolo: duplicità, metafora. La sce­na del mio sogno (la radice della parola «scena» è affine a skia, «ombra») è una versione metafori­ca della scena di ieri, con quegli attori che ora han­no acquistato profondità e sono entrati nella mia anima.

La difficoltà che incontriamo nel comprendere le immagini è in parte dovuta alla nostra lingua. Pur­troppo abbiamo un'unica parola, «immagine», per indicare le immagini residue, le immagini percetti­ve, le immagini virtuali, le immagini oniriche, le im­magini delle illusioni ottiche e le idee metaforiche espresse in immagini. Usiamo la stessa parola anche per dire una falsa facciata e una fantasia collettiva.

Essere immaginativi non dovrebbe avere il significa­to riduttivo di vedere immagini a occhi chiusi o di­pingere o modellare immagini. Noi tendiamo a letteralizzare, e a idolatrare, l'immagine, trasforman­dola in un oggetto visibile, dimenticando che l'eido­lon è un fenomeno psichico, percepibile soltanto per mezzo della stessa coscienza psichica di cui è a sua volta composto. Le immagini le percepiamo con l'immaginazione, o, meglio, più che percepirle le immaginiamo, perché con la percezione sensoriale non si possono percepire le profondità che non hanno estensione nel mondo dei sensi. L'errore dell'empirismo consiste nella pretesa di impiegare ovunque la percezione sensoriale: per le allucina­zioni, per i sentimenti, le idee e i sogni. « Percepire e immaginare sono fenomeni antitetici tanto quan­to lo sono presenza e assenza».  Poiché il sogno parla per immagini, anzi, addirittura è immagini (questo significava oneiros in Omero), poiché so­gnare è produrre immagini, lo strumento che ci consente di ascoltare senza distorsioni non può che essere l'immaginazione. I sogni parlano dall'imma­ginazione all'immaginazione e soltanto l'immagina­zione può rispondere alla loro chiamata.

Anche in Egitto e a Roma queste fugaci immagini erano chiamate ombre, e a Roma i funerali avevano luogo di notte. Erano immagini nere; il nostro es­sere infero è nero, e su questo torneremo nell'ulti­mo capitolo. Il mondo ombra del profondo è una co­pia esatta della coscienza quotidiana, solo va perce­pito in modo diverso, immaginativamente. È il no­stro mondo, ma in metafora. Il nostro essere nero compie tutte le azioni, esattamente come facciamo noi nella vita, ma la sua vita non è semplicemente la nostra ombra. Dalla prospettiva psichica del mondo infero, solo l'ombra ha sostanza, solo ciò che è nel­l'ombra riveste vera importanza, eternamente. In psicologia, dunque, l'ombra non è soltanto ciò che

L'Io getta dietro di sé e che è costituito dall'Io con la sua luce, un riflesso morale, rimosso o malvagio che va integrato. L'ombra è la materia stessa dell'anima l'oscurità interiore che da sotto ci attira fuori dalla vita e ci mantiene inesorabilmente in contatto con il mondo infero.

Plotino prova a descrivere la relazione tra l'io eroico e l'ombra del mondo infero quando parla dell'ombra di Eracle. Dice Plotino (Enn., IV, 3, 27): «… tale "ombra"   ricorda tutte le azioni e le esperienze della vita… la formazione personale dell'eroe» (cfr. I,1,12). Nel dialogo di Luciano, Menippo o La negromanzia, i morti devono rispondere alle accu­se mosse loro dalla loro stessa ombra (skia). «Le om­bre che i corpi proiettano al sole ... sono considerate molto fidate perché ci accompagnano sempre e non abbandonano mai il nostro corpo».  Questa esperienza - vedere che la propria anima è giudicata dal­la propria ombra - fa apparire «simile a un sogno» la vita nel mondo supero. Luciano inverte la rela­zione tra mondo supero e sogno: ciò che avviene nella vita dell'Io non è che il riflesso della nostra es­senza più profonda, contenuta nell'ombra.

L'ombra è dunque un deposito cumulativo, che si forma in contemporanea con lo sviluppo dell'Io. Es­sa ricorda tutte le azioni della nostra vita erculea con la sua prospettiva fisica. Se vogliamo avere un Io modellato su Eracle, ci toccherà anche la sua om­bra. Dovremo sempre andare in giro in compagnia dei nostri giudizi negativi su noi stessi, con l'Io se­guito d'appresso, furtivamente, dall'ombra dell'autocritica.

Indirettamente, Plotino e Luciano sollevano la questione del senso di colpa: perché una persona impegnata nel percorso eroico dell'Io nel mondo supero si sente continuamente braccata dal senso di colpa? E, ancora, perché la costruzione della realtà di tipo eroico necessita di questa fondamentale divisione tra vita e ombra, che provoca la persecuzione del senso di colpa?

Questa impostazione del problema modifica ra­dicalmente la nozione usuale di Super-io. Non pos­siamo più presupporre che il Super-io ci sia imposto dall'alto, come formazione relativamente tardiva, come se derivasse esclusivamente dalla luce solare e come se il bambino piccolo non proiettasse alcu­na ombra. Al contrario, siamo sorvegliati nel cuore stesso delle nostre azioni dall'ombra del corpo, che del corpo è il testimone più diretto. Poiché i movi­menti del corpo e l'ombra del corpo sono simulta­nei e inseparabili, vale a dire corpo e ombra sono correlativi, chi può dire quale dei due venga prima, se l'atto o l'ombra? Come proiettiamo la causa del senso di colpa su portatori superiori, più solidi (i nostri genitori e la società), alla stessa stregua proiettiamo la causa della formazione dell' ombra sulle solide spalle dell'Io eroico. Ma forse vale an­che l'inverso: io e la mia ombra siamo nati insieme e insieme agiamo, sempre. Anziché «Io faccio om­bra», è altrettanto legittimo dire, invertendo il con­sueto modo di pensare: «La mia ombra mi fa».

Di conseguenza, possiamo rivedere la nostra con­cezione dell'ombra. Diciamo, ora, che è lei a creare le imprese eroiche dell'Io diurno, come una sorta di funzione espiatoria per i suoi tormenti psichici «di sotto »; in genere pensiamo che l'anima debba pagare per i nostri peccati in un qualche aldilà, cioè con l'espiazione subliminale dei sintomi psicosoma­tici e dei meccanismi nevrotici, descritti nelle rap­presentazioni dell'inferno. Tuttavia Plotino dice (Enn., 1,1,12): «La vita e gli atti dell'Anima non so­no quelli del soggetto che viene punito». Ora, anzi­ché vedere l'anima come colei che in un mondo notturno espia le fosche azioni da noi compiute nel mondo diurno, possiamo immaginare che le azioni del mondo diurno siano atti di espiazione per ombre che non abbiamo visto. Finché agiamo secondo la modalità eroica, siamo incalzati dal senso di col­pa, non finiamo mai di pagare. Le nostre azioni so­no in verità distruzioni e le nostre conquiste visibili sono imposte dalla forza di un'immagine invisibile che o non trova requie (come Sisifo, condannato a risalire eternamente il suo monte) o non può muo­versi (come Teseo immobilizzato sul suo trono), perché il suo desiderio non può mai essere appaga­to (come la sete insaziata di Tantalo).

In nessun luogo si coglie meglio la convertibilità delle figure del mondo infero in azioni nel mondo supero che nel complesso-immagine di Stige. Le gelide acque del fiume Stige (il cui nome deriva dal verbo stygeo, «odiare ») costituiscono la più profon­da fonte della moralità divina, giacché su di esse gli Dei prestavano i loro giuramenti, a sottintendere che l'odio svolge un ruolo essenziale nell' ordine dell'universo. Accanto a princìpi generatori e ordi­natori come Amore (Eros), Conflitto (Eris o Pole­mos), Necessità (Ananke) e Ragione (Nous), nel di­segno delle cose dobbiamo fare spazio anche per Odio. I figli di Stige sono Zelo (Zelos), Vittoria (Nike), Forza (Bia) e Potenza (Cratos). Il freddo odio della madre è trasformato dai figli in quei trat­ti implacabili che abbiamo finito per accettare come virtù. I suoi figli forniscono i prototipi di quella mo­ralità bellicosa e fanatica che accompagna l'Io nelle sue moralistiche missioni di distruzione finalizzata alI' autoconservazione.

Stige, la madre odiosa, e i suoi figli iperattivi non sfuggirono all' attenzione di Freud, che li traspose nel linguaggio concettuale dell'odio e dell'Io. In primo luogo, Freud opera una distinzione tra odio e amore, dicendo che l'odio è più antico dell'amore (opere, VIII, p. 34) e che essi «non sono derivati dal­la scissione di una originaria unità, ma hanno di­stinta origine» (ibid., p. 33). L'odio, insomma, nasce da un proprio terreno e serve a uno scopo preciso nell'Io: « ... l'Io odia, aborrisce, perseguita con in­tento distruttivo tutti gli oggetti che gli provocano sentimenti dolorosi ... gli autentici prototipi della relazione di odio non derivano dalla vita sessuale ma dalla lotta dell'Io per la propria conservazione e affermazione» (loc. cit.).

La fantasia freudiana, secondo la quale l'Io pre­serva se stesso con la lotta (e per lottare, potenza, forza, zelo e vittoria diventano requisiti indispensabi­li), insieme alla giustificazione morale con la quale queste qualità la sostengono, è una fantasia. stìgia messa in scena nel mondo supero. L'Io, qui, diventa strumento di Stige, un Figlio di Odio, gelidamente teso a preservare se stesso contro qualsiasi nemico, il più grande dei quali sarà il calore, da cui l'idea comune che odio e amore siano opposti. In realtà, se­condo Freud odio e amore hanno il medesimo obiettivo. Cercano entrambi il piacere, sicché l'odio usa l'Io per annientare il dolore. Quando imboc­chiamo la strada dell'eliminazione del dolore, giu­stificando le nostre vittorie e il nostro zelo distruttivo in nome della «autoconservazione» e dello «svilup­po dell'Io », ciascuno di noi divene figlio di Stige.

La dissoluzione di questi atteggìamentì compor­terà la riconversione dello zelo e della violenza del nostro «Io forte» in quell'odio che è la fonte della sua forza. Vedremo allora l'odio insito nelle nostre reboanti affermazioni. Quello di riconoscere nei miti i prototipi delle azioni della vita è un gesto che riconduce i figli alla loro madre. L'odio primordiale di questa madre appartiene al mondo infero, e lag­giù esso ha un diverso significato. Laggiù, la sua implacabile freddezza conferisce ordine assoluto agli stessi Dei, garantendo l'integrità del loro regno psi­chico, il mondo infero. Stige è colei che stabilisce il limite, che preserva la regione psichica alla quale perfino gli Olimpi devono discendere, che protegge non già l'Io, bensì il mondo infero, dal dolore cau­sato dagli atteggiamenti invasivi della vita.

 

 

 

le persone del sogno

 

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Grazie alla «convertibilità» tra azioni del mondo supero e configurazioni del mondo infero, le figure delle ombre nel sogni ci offrono un modo nuovo di considerare la vita dell'Io desto. Ora non lo guarde­remo tanto nelle relazioni con il mondo delle sue realtà, quanto piuttosto come un riflesso delle om­bre. Una psicologia del sogno che si fondi sulla fe­nomenologia mitica del mondo infero convertirà in maniera immaginativa le realtà del mondo quotidia­no nelle loro ombre. Saranno queste, ora, le realtà contenute nelle nostre azioni. Non più: l'Io che proietta l'Ombra dietro di sé; bensì, un'ombra che letteralizza davanti a sé un Io dietro il quale può ri­manere nascosta.

Le figure delle ombre che incontriamo nei sogni non sono le persone vere (il livello oggettivo di Jung) , e nemmeno sono la loro essenza caratterolo­gica (il livello soggettivo di Jung), cioè tratti di me che posso integrare. Il mio fratello maggiore, al quale in un sogno confido la preoccupazione per gli affari di nostro padre non è né il mio fratello og­gettivo, reale, né i miei trattì pacati, responsabili, più vecchi della mia età che mi rendono pesante e lento. Il mio fratello del sogno, essendo ora un'om­bra del mondo infero, è un eidolon, una forma pura­mente psichica, e l'interpretazione che ne diamo deve a sua volta compiere il passaggio dal quotidia­no al mitico. Jung lo ha detto chiaramente: «Per integrare i contenuti inconsci nella coscien­za, indubbia importanza riveste la riduzione dei sim­boli onirici a realtà banali. Ma in senso più profondo e lungimirante, questo procedimento non è sufficiente, perché non soddisfa al significato dei contenuti a carattere di archetipo: questi infatti giungono da ben altre profondità che non quelle intuite dal cosiddetto senso comune. Come condi­zioni universali a priori dell'evento psichico, essi pretendono a una dignità che ha sempre trovato la sua espressione in figure divine. Soltanto una simile formulazione soddisfa lo spirito inconscio... esso esige l'ampia visione del mito» (Opere, XI, p. 183).

Per attingere a questa «ampia visione del mito », dovremo spingerci oltre il metodo freudiano delle associazioni e anche oltre il metodo junghiano dell'interpretazione al livello soggettivo. Questo è più propriamente l'argomento del quinto capitolo, «Il sogno», ma una cosa dobbiamo notare fin d'ora: il metodo di Freud proietta le persone del mio sogno nuovamente al di là del ponte, dentro il giorno del sogno, sia pure con l'intento di scoprire il loro significato latente. Associamo il fratello e il padre del sogno al fratello e al padre diurni, e con questa as­sociazione riconduciamo il sogno al giorno. Il meto­do junghiano dell'interpretazione al livello soggetti­vo, dal canto suo, trasferisce le persone del sogno dentro la soggettività del sognatore. Esse diventano espressioni di miei tratti psichici. Sono introiettate nella mia personalità. In nessuno dei due metodi abbandoniamo mai veramente l'aspetto personale delle persone oniriche, e dunque esse, e noi con lo­ro, rimangono sempre nel mondo supero.

Volete che lo dica forte e chiaro? Le persone con le quali ho a che fare nei sogni non sono né rappre­sentazioni (simulacra) del loro sé vivente, né parti di me. Sono immagini fatte d'ombra che ricoprono ruoli archetipici; sono personae, maschere, nella cui cavità è presente un numen.

Così esprime la stessa tesi Dodds: «In molti sogni omerici, il dio o eidolon appare al sognatore nelle vesti di un amico vivente ed è possibile che nella realtà i sogni in cui comparivano conoscenti del sognatore venissero interpretati in questo modo».

Un'idea analoga troviamo nel culto egizio dei morti, dove l'anima-ombra è anche l'immagine di questo o quel dio, tant'è vero che ci si riferiva a esse chiamandole Hathor, Khnum, Ity, ecc. Nel regno della morte, cioè al livello psichico dell'esistenza, l'immagine essenziale del nostro sé personale, che è la nostra anima-ombra, è al tempo stesso l'immagi­ne di un dio. La nostra persona umana è seguita co­me da un'ombra da un'immagine archetipica nelle sembianze di un dio, e quel dio si manifesta come l'ombra, il fantasma, di una persona umana. L'im­magine onirica di una persona umana non può es­sere riferita alla persona reale, perché le immagini oniriche fanno parte delle ombre del mondo infero e pertanto si riferiscono a persone archetipiche in sembianze umane.

Nel sogno portato come esempio, la triade ma­schile (i due fratelli più il padre, anche se assente), la preoccupazione dei figli per gli affari paterni, la connessione con il padre attraverso tale preoccupa­zione e tutte le altre articolazioni di questa immagi­ne così semplice alludono alla presenza di configu­razioni che non soltanto danno sostegno a una ri­flessione mitica, ma la esigono. E' in atto qualcosa di archetipico, come in ogni immagine.

Il mio vecchio maestro o il mio professore che compaiono in un sogno non rappresentano soltan­to una potenzialità intellettuale della mia totalità psichica. Su un piano più profondo, quella figura è il mentore archetipico, il quale, temporaneamente, in questo sogno, indossa le vesti di quel maestro o di quel professore. La fidanzatina, o fidanzatino, delle elementari che compare nei miei sogni non è sol­tanto una particolare tonalità affettiva che potrei scoprire e integrare adesso che divento vecchio. A un livello più profondo, quella persona giovane ap­partenente al passato, che vive nella memoria, è la kore o il puer archetipici che si presentano sotto for­ma di questo o quel ricordo personale. Nei sogni, nelle sembianze degli amici incontrati ieri sera, ci vengono a visitare daimones, ninfe, eroi e Dei.

I nostri amici hanno ciascuno un nome. Anche le persone dei miti hanno ciascuna un nome, e le per­sonalità mitiche dei greci ne avevano non uno soltanto, ma una lunga serie. Tali «epiteti degli Dei», di cui gli studiosi hanno compilato l'elenco, descri­vono più accuratamente come si presentavano gli Dei. Gli Dei, infatti, non erano statue monolitiche o astrazioni esprimibili con un'unica parola (Eracle, Era, Zeus), come quando consultiamo un diziona­rio di mitologia. Quelle persone del mito erano sempre designate da un nome che ne precisava il contesto specifico. I culti degli Dei sono culti di epite­ti, e gli epiteti ci rappresentano le figure divine in termini concreti: Eracle il Soccorritore, Eracle che Protegge dal male, Eracle il Bellicoso, Eracle Vitto­rioso: il nome fornisce un'immagine e allude a un mitema. Rivela la località precisa, la parentela, la funzione, l'aspetto e il carattere della divinità. Gli epiteti, o soprannomi, vivificano tuttora l'immagi­nazione del mondo infero odierno: le bande di stra­da, la mala, la galera, l'infanzia, i pellerossa. L'es­senza di una persona è nel nome.

Una parte del nome è il suo etymon, la segreta ve­rità sepolta nella sua radice. La ricerca delle radici delle parole, la fantasia etimologica, è uno dei riti fondamentali della tradizione immaginativa, perché cerca di recuperare l'immagine contenuta nella pa­rola o di ricollegare una parola al nome di una cosa, di un'azione, di un luogo o di una persona. Uno dei modi per restituire «l'ampia visione del mito» alle persone di ieri sera che sono entrate nel mio sogno consiste nel prestare attenzione ai loro nomi. 

Nel loro nome è la loro anima: il nome di un in­dividuo e il suo Ba erano intercambiabili," quasi che solo nel mondo infero, in relazione alla morte, ricevessimo il nostro vero nome. Per vedere in tra­sparenza le persone oniriche e arrivare alla loro realtà psichica occorre avere orecchio per i nomi.

Anche quando le persone oniriche non hanno nome o ne è nominata soltanto la funzione o la si­tuazione, queste possono essere immaginate come epiteti. Ecco allora «la donna sconosciuta», «la cas­siera», «il meccanico», «il proprietario».

Oppure le figure sono caratterizzate dall'azione che compiono: il ragazzo corre, la donna guida l'au­tomobile, il fratello si preoccupa. Basta mettergli l'i­niziale maiuscola, e ci avviciniamo agli epiteti degli Dei: l'Uomo con la Camicia, la Ragazza Abbronzata, il Grosso Poliziotto Nero.

Secondo il pensiero induista, in certi stati menta­li, per esempio quando si sogna, i nomi sono cose in sé. Non rappresentano qualcosa che esiste altrove e che il nome incarna, ma sono rappresentazioni che la mente si fa delle essenze presenti in essa. Il nome dunque è il logos divino che ha assunto le vesti del­la persona del sogno. Nei corpi sottili delle persone oniriche vediamo la mente mentre muove i propri pensieri. Anche il modo in cui noi stessi siamo immaginati può essere rivelato attribuendo un sopran­nome alla nostra persona nel sogno: Io Ritardatario, Io Che Faccio la Spesa, Io Dal Parrucchiere, Io Sen­za Calzoni. Per cogliere l'idea essenziale di quel che avviene nella mente, dobbiamo dare un nome a cia­scuna figura o esaminare in profondità il nome che ha già, anche quando è un banalissimo cognome (il signor Bianchi, la figlia dei Croce, Paolo Basso). Spesso è proprio il nome l'elemento bizzarro che spicca, quando ci scervelliamo per scoprire come mai il sogno evochi quell'insignificante, fugace fantasma proveniente dalla riunione di ieri sera o dai banchi di scuola di quarant'anni fa.

Possiamo mettere a confronto tre modi di consi­derare le persone del sogno. Il primo, chiamiamolo freudiano, le riconduce all'attualità del giorno me­diante le associazioni o mediante l'interpretazione al livello oggettivo: per comprendere le persone dei sogni sono essenziali altre persone. Il secondo mo­do, che potremmo chiamare junghiano, le ricondu­ce al soggetto, intendendole come espressione dei suoi complessi: per comprendere le persone dei so­gni è essenziale la mia personalità. Il terzo modo, il metodo archetipico, le riconduce al mondo infero delle immagini psichiche. Le persone del sogno di­ventano esseri mitici, non tanto perché se ne trova­no i paralleli mitologici con l'amplificazione, ma perché si arriva a vedere le persone dell'immagina­zione che stanno dietro le maschere personali: per comprendere le persone del mio sogno sono essen­ziali solo le persone del sogno.

 

 

 

la metafora della morte

 

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Quando uso la parola «morte» e la metto in rela­zione con i sogni, corro il rischio di essere grossola­namente frainteso, perché per noi morte tende a significare esclusivamente la morte grossolana: fisica, letterale. A questa tendenza a considerare solo la morte fisica corrisponde quella ad attribuire impor­tanza al corpo fisico, e non al corpo sottile; alla vita fisica e non a quella psichica; al letterale e non al metaforico. Che amore e morte possano essere me­tafore è difficile da capire: qualcosa deve pur esserci di reale, dice l'Io, quel grande letteralista, il positivi­sta, il realista. Tendiamo a perdere il contatto con i tipi sottili di morte. Per noi, inquinamento, decomposizione e cancro sono diventati soltanto fisici. Ri­volgiamo i nostri atti propiziatori contro un tipo sol­tanto di morte, quello definito tale dal senso che l'Io ha della realtà. La morte di cui si parla nella no­stra cultura è una fantasia dell'Io, e allo stesso modo prendiamo i sogni.

La nostra cultura si fa notare per l'ignoranza che ha della morte. La grande arte e i riti di molte altre culture, quella dell'antico Egitto, quella etrusca, quella greca di Eleusi, quella tibetana, rendono onore al mondo infero. Noi, pur essendo patetica­mente nostalgici, non abbiamo alcun culto degli an­tenati. Pur facendo collezione di oggetti antichi, non conserviamo reliquie. Raramente vediamo un essere umano morto, anche se ne guardiamo alla te­levisione centinaia di imitazioni alla settimana. Gli animali che mangiamo sono tenuti da qualche par­te, dove non li vediamo. Non abbiamo miti della nekyia, eppure i nostri eroi popolari del cinema e della musica sono personaggi tenebrosi che si muo­vono nel sottobosco della società. Quello di Dante, che è stato l'ultimo mondo infero immaginato nella nostra cultura, risale addirittura a prima del Rina­scimento. Le nostre radici etniche attingono a gran­di configurazioni del mondo infero: il regno celtico del Dagda o di Cerunnos, lo Hel germanico, il bibli­co She'ol. Tutti svaniti; e come è pallido il fuoco del­l'inferno cristiano! Dove sono finiti? Dove sta la morte quando non è più sotto gli occhi? Dove van­no i contenuti della coscienza quando eludono l'at­tenzione? Nell'inconscio, dice la psicologia. Il mon­do infero è finito nell'inconscio: è addirittura diven­tato l'inconscio. È la psicologia del profondo il luo­go in cui troviamo oggi il mistero iniziatico, il lungo viaggio di apprendistato psichico, il culto degli ante­nati, l'incontro con demoni e ombre, i patimenti dell'inferno.

La persona che entra in analisi, dunque, non è un analizzando, un cliente, un allievo, un tirocinante o un partner: è un paziente. Si è mantenuta questa parola non tanto per le sue origini storiche nella medicina ottocentesca, quanto perché esprime la reale condizione di chi va nelle profondità dell'ani­ma. È l'anima il paziente della psico-terapia, e nell'i­stante in cui una persona (cliente, partner, analiz­zando) diventa un paziente è immediatamente co­stellata come anima. L'esperienza del mondo infero trasforma ciascuno di noi in paziente, oltre a darci un nuovo senso di pazienza. «Nella tua pazienza è la tua anima» recitava una massima religiosa degli al­chimisti, come a dire che l'anima si scopre nell'ac­cogliere i suoi patimenti, nell'accudirla, nel servirla fino alla fine. Dal punto di vista dell'anima, non c'è molta differenza tra paziente e terapeuta. Entrambi i termini rimandano, nella loro radice, a una devo­zione premurosa, fatta di attenzione e di attesa.

Attesa di che? Una risposta potrebbe essere: della morte. La psicoterapia come attenzione per la morte at­tendendo la morte, il lavoro del sogno come lavoro del­la morte. Ma questa risposta renderebbe letterale la morte, smarrendone il senso metaforico. Il Ba degli egizi non muore mai; l'anima cristiana è immortale; questo significa che la morte fisica, intesa come cessazione della vita secondo la definizione della medi­cina e della legge, non è lo sfondo del lavoro del so­gno. Questo tipo di morte è, ancora una volta, il punto di vista letterale dell'Io, il quale non sa uscire dalla propria vita se non morendo di una morte che esso intende allo stesso modo in cui intende ogni altra cosa, in senso fisico. Non la morte è lo sfondo del lavoro del sogno, bensì l'anima. L'anima, se è immortale, non riguarda soltanto il morire, e allora i sogni non possono essere ridotti a un servire la morte. La prospettiva psichica non è focalizzata sol­tanto sulla morte o sul morire. E', piuttosto, una co­scienza che acquista autonomia soltanto quando le nostre idee diurne sono messe a dormire. «Morte» è il modo più profondamente radicale di esprimere questo slittamento della coscienza.

Eppure, com'è difficile mantenere la prospettiva del mondo infero, com'è innaturale! Dopotutto sia­mo nella vita e i sogni li guardiamo. stando nella «dolce luce del giorno». Il prezzo di questo punto di vista solare, tuttavia, è che la morte e la paura del­la morte diventano la fonte dei predicati negativi della psicologia: «male », «ombra », «inconscio », «psìcopatico », «regressivo », «bloccato», «distrutti­vo », «scisso», «irrelato », «freddo», per non parlare del segno negativo, che sempre applichiamo a uno dei due poli di ciascun complesso. Queste parole e questo segno non significano forse «tinto di morte» in quanto nemico della vita e dell'amore? Definen­do negativi un complesso. o una situazione, non in­tendiamo. forse dire, in realtà, che bloccano la vita, che portano alla morte, all'inferno; che stiamo atti­vando la disperazione e una freddezza primordiale contraria alla vita, o un'oscurità che vuole il peggio, impenetrabile allo sguardo. lucido della ragione? A me pare che il segno. negativo in psicologia sia in realtà la trascrizione stenografica del pregiudizio di un Eros diurno. contro Thanatos. Di conseguenza, possiamo soltanto vedere negativamente le compo­nenti distruttive, pessimistiche, suicide della psiche e con la nostra intelligenza non possiamo abbraccia­re l'abisso di odio stigio a cui potrebbero arrivare quei contenuti, né il fatto che possano preferire la separazione all'unione, o imboccare il sentiero di­scendente dell'inerzia e sprofondare nell'isolamen­to affettivo, nell'amnesia e nella immobilità della riflessione .

La psicologia del profondo ha rappresentato, nella nostra cultura moderna, il movimento che le ha restituito il senso del mondo infero. Dai suoi inizi con Freud, la psicologia del profondo è stata un «movimento», animato da una missione. Parte di tale missione è stata la resurrezione dei morti, il ri­chiamare in vita tante cose che erano dimenticate e sepolte dentro ciascuno di noi. Ma non è andata ab­bastanza a fondo. Ha creduto che il percorso finisse con il recupero dell'Es istintuale dalla rimozione personale o culturale. Ha scoperchiato il sepolcro, immaginando che ne uscisse un corpo mummifica­to. Ma l'Es, inteso come il mondo infero, non è il corpo istintuale: è la psiche ctonia. Il morto e sepol­to in ciascuno di noi è anzitutto l'indifferenza della cultura nei confronti della Morte. Solo adesso Ade incomincia a riapparire, nelle nuove angosciose preoccupazioni circa i limiti dello sviluppo, la crisi energetica, l'inquinamento ambientale, l'invecchia­mento e la morte.

Non resurrezione dei morti, ma Resurrezione della Morte; perché la psicologia del profondo ci re­stituisce non solo le persone del sogno e la psiche ri­memorante del mondo infero. Ha anche riportato indietro la Morte dal suo esilio nella parapsicologia dello spiritismo, nella teologia escatologica, nel mo­ralismo remunerativo e nelle fantasie scientifiche della casualità biochimica e dell'evoluzione: l'ha ri­portata nel suo posto centrale dentro la vita psicolo­gica di ciascun individuo che a ogni passo si apre sul profondo. Da sopra, i nostri passi riecheggiano tra le volte del mondo infero. Dentro ciascun istante c'è un'apertura verso il profondo, un riverbero in­conscio, che, come l'esile filo del sogno che ci tro­viamo tra le mani ogni mattina al risveglio, ricondu­ce laggiù, dentro le immagini dell'oscurità.

 

 

 

 

4. barriere

 

Tre sono gli abiti mentali che impediscono di co­gliere l'idea di mondo infero come regno psichico. Esaminiamo brevemente queste barriere, una per una.

 

 

 

il materialismo

 

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Ho sottolineato più sopra la distinzione tra sotto­suolo e mondo infero e mostrato come la parola « inconscio» tenda a mascherare questa distinzione, conferendo un carattere naturalistico agli eventi psichici. Ebbene, dietro questo modo di vedere c'è una figura archetipica, la quale ha avuto storica­mente grande influenza sui nostri atteggiamenti in psicologia, non meno che nel diritto, nell'ammini­strazione dello Stato e nel linguaggio. Noi siamo ro­mani nella mente, oltre che nella civiltà. Nell'antica Roma, la dea Tellus, che diventò poi terra mater, era contemporaneamente una divinità terrestre in senso materno e una delle divinità infere, e dunque presiedeva sia ai campi della natura sia al regno dei morti. L'idea comune, secondo la quale la cultura romana era materialistica e poco immaginativa, po­trebbe avere la sua origine psicologica proprio in Tellus: infatti c'è una bella differenza tra un mondo infero governato da un invisibile Ade e uno appar­tenente a Tellus, terra mater.

Tellus presenta alcune caratteristiche piuttosto curiose. Innanzitutto non era accoppiata a un dio del cielo, come avviene di solito nei miti. Anzi, non aveva praticamente compagni maschili. Era però «inseparabile da Cerere », il cui nome, oltre che con i cereali, è connesso con la creazione e l'accresci­mento. Oltre a essere Dee della fecondità agricola e umana, compreso il matrimonio, Tellus e Cerere intervengono insieme a tutti i riti funebri. L'anima­le più sacro a Tellus era la vacca gravida, il cui sa­crificio trova scarsi parallelismi nei riti del resto del mondo. L'uccisione dell'animale aveva luogo a metà aprile, in un tripudio di macelleria, sangue, carne, interiora, gestazione e accrescimento, tra il verdeggiare lussureggiante delle giovani messi. La morte qui è vista interamente nell'ambito del ciclo della fertilità. Sotto la terra in cui è inumato il corpo non si apre alcun mondo pneumatico dello spirito o dell' essenza.

La Grande Madre non è soltanto una statua di pietra in un museo. È una modalità di coscienza che percorre, il nostro modo abituale di pensare e di sentire. E il nostro materialismo; la radice comune di «materia» e di «mater» non è né una coincidenza né un gioco di parole. La Grande Madre è la moda­lità di coscienza che riconnette tutti gli eventi psi­chici a eventi materiali, ponendo le immagini del­l'anima al servizio delle cose fisicamente tangibi­li. Ogni volta che riportiamo nella vita un sogno, rafforziamo il dominio della Grande Madre. Ogni traduzione di un sogno nei problemi terra-terra del­la «realtà» in carne e ossa è una forma di materiali­smo.

In psicologia la Grande Madre ha avuto un ruolo straordinario, quasi che fosse la sua unica e sola di­vinità. E non mi riferisco soltanto al continuo rifarsi all'immagine di madre e bambino come chiave per la comprensione dell'anima umana; ci sono stati raffinati interpreti, un paio di generazioni fa, che attribuirono tutto a lei: fiumi, oceani, vegetazione e animali, amore, vita e morte. Adesso, tuttavia, ap­plicando diligentemente ai sogni il metodo di Ari­stotele (la ricerca di somiglianze esatte), siamo in grado di far notare che oceani e fiumi appartengo­no a Oceano e a Poseidone; che Eros è anche una figura e una forza maschile; che uno dei signori del­la vegetazione e della vita zoologica, nonché dell'in­fanzia, è Dioniso; e che la terra stessa può avere, co­me in Egitto, culla storica della nostra simbologia, una personificazione maschile.

Non è solo la religione a nascere, come è stato detto da molti, quale riflessione sulla morte. Anche la psicologia nasce così, perché è di fronte alla mor­te che meditiamo e approfondiamo e avvertiamo l'anima e ci costruiamo poi le nostre fantasie per darle una casa, si tratti delle antiche piramidi e dei sepolcri della religione o dei riti e dei sistemi della moderna psicologia. Se si immagina che l'anima sia un vapore epifenomenico secreto dal cervello o da circuiti nervosi, o il prodotto di qualche combina­zione biochimica a livello microscopico; e se il so­gno è il riflesso del comportamento interno di un corpo interno al comportamento di campi energeti­ci di tipo sociale, storico e fisico, allora la prospetti­va filosofica che meglio si attaglia all'anima e ai suoi sogni è il materialismo. Ovvero, per inverso: quando spieghiamo le immagini e il linguaggio del sogno fa­cendo riferimento ad altre influenze (altre persone, impressioni sensoriali, ricordi del passato), siamo in una forma di materialismo, anche se non abbiamo mai fatto ricorso a termini riduzionistici. Il materia­lismo può assumere forme molto raffinate, che tra­scendono l'edonismo, il sensismo, l'associazioni­smo, il comportamentismo e gli altri segnali indica­tori, in base ai quali abbiamo imparato a riconoscer­lo. E materialismo, ogni volta che non accettiamo un sogno come immagine autoctona, come inven­zione sui generis dell'anima. I sogni non sono fatti di un qualcos'altro che sta altrove. Anzi, il «noi» che studia le condizioni causali del sogno è lui stes­so fatto della medesima sostanza dei sogni.

Il materialismo della psicologia non può essere contrastato con il soggettivismo individualista, o proprietà privata del sé, che è capitalismo psicologi­co. Questa è solo un'altra forma di materialismo, che postula a sua volta un fondamento trascendente da cui l'anima dipende e a cui il sogno fa in ultima analisi riferimento. Né può essere adeguatamente combattuto dal cristianesimo, il quale, come vedre­mo tra breve, cancella il sogno, l'anima e il mondo infero. Neppure la psicologia panteistica della cre­scita e dell'ecologia è la soluzione, perché promuo­ve un nuovo culto della Grande Madre a partire dal culto del corpo fisico e del thymos.

Si può tuttavia contrastare il materialismo della psicologia dando, sì, peso e sostanza alla vita, ma non in senso materiale, bensì facendo in modo che la vita conti e abbia senso. Mi riferisco qui al caratte­re di profondità che sostituisce l'importanza fisica. Voglio dire che niente è più importante della morte e che, quando iniziamo la nostra riflessione psicolo­gica di lì, il materialismo perde il suo fondamento materno. Il materialismo non è cominciato con De­mocrito e nemmeno con Marx; il suo punto di par­tenza è l'archetipo che governa la nostra prospettiva nei confronti degli eventi psichici, cioè la nostra vi­sione della morte, del mondo infero e dei sogni.

Finché la madre archetipica domina la nostra psi­cologia, non possiamo fare a meno di vedere i sogni dalla sua prospettiva e di leggere il loro messaggio come se riguardasse le cose che interessano a lei. Al­lora, per esempio, penseremo che quel sogno corri­sponde all'interesse di Era per le realtà di ordine so­ciale, per i problemi coniugali e famigliari che si presentano nel mondo quotidiano; oppure che cor­risponde alle funzioni visibili e concrete di Cibele, e va dunque letto come se fosse un'autorità divinato­ria che offre soluzioni affinché la vita possa prospe­rare. La madre archetipica rafforzerà inoltre la co­scienza eroica dell'Io, sfidandolo a compiti immani, come fa Era in tanti miti. A Roma, i gladiatori morti erano fatti uscire dall'arena attraverso i «cancelli di Cerere », per essere restituiti alla medesima madre che nell'arena li aveva inviati. Uno dei modi in cui la madre archetipica usa sfidarci risulta evidente quando ci scopriamo a considerare il sogno un enigma da sciogliere, decifrare, risolvere. Se il so­gno è un enigma, c'è una Sfinge, e dove c'è una Sfinge, c'è un eroe eternamente sposato alla madre.

Quello della «Grande Madre Terra» è un modo di fare psicologia che cerca di ricondurre i sogni al­la natura attraverso interpretazioni naturalistiche. Ma «la natura» è a sua volta soltanto una prospetti­va psicologica, una delle fantasie dell'anima, essa stessa una topografia immaginale, la cui descrizione cambia nei secoli con il susseguirsi delle dominanti archetipiche. La storia occidentale è ricca di tali fantasie: la natura come il meccanismo di un orolo­gio; come un nemico; come un organismo selvaggio o bellissimo che chiede di essere addomesticato o lasciato intatto e vergine; come ritmo armonioso; la natura «nei denti e negli artigli rossa», come lotta per la sopravvivenza; come volto di Dio. Non possiamo parlare dei sogni come natura o prenderli natu­ralisticamente, senza prima quantomeno accertare quale idea di natura si stia postulando.

Un altro modo in cui la Grande Madre influisce sui nostri sogni consiste nel collocarli di peso nel mondo personale. Come ha osservato Jung (Opere, IX, I, pp. 84-85), le psicologie ispirate dalla madre non riescono mai ad allontanarsi dal punto di vista personalistico. Ma i morti non sono persone uma­ne, e gli eidola del mondo infero non sono parti del­la personalità di nessuno. Sono immagini esangui, senza corpo e senza ossa, anime non più fuse con vi­te personali.

La riduzione personalistica del mondo infero era alla base dell'epicureismo, una delle maggiori scuo­le filosofiche della civiltà romana. Ancora una volta rileviamo gli effetti di Tellus. Benché la morte costi­tuisse un punto centrale del pensiero epicureo, con la sua ricerca della «vita beata», il mondo infero era considerato nient'altro che un'allegoria moralisti­ca, incentrata su paure personali (essenzialmente, la paura della morte) e desideri personali (il deside­rio di vincere la morte). Sono già adombrate, qui, la fantasia di onnipotenza e la pulsione all'immorta­lità poi concettualizzate da Freud. L'epicureismo in­segna che possiamo liberarci dell'allegoria dell'al­dilà se impariamo ad analizzare le nostre emozioni, evitando di scambiare per realtà le fantasie (simula­cra) che esse proiettano sotto forma di figure del mondo infero. Solo il mondo materiale quale ci è rappresentato direttamente dalle sensazioni possie­de realtà e soltanto la saggia gestione di tale mondo costituisce un fine ragionevole. Per essere felici, dobbiamo vivere prospettandoci il futuro senza illu­sioni, senza, in particolare, le illusioni del sovranna­turale, condensate al loro peggio nelle superstizioni del mondo infero. Tutto è atomi, momenti tran­seunti. La soluzione migliore è condurre una vita serena e ritirata in una comunità di amici a noi con­geniali.

Questo materialismo razionalistico ha dei punti in comune con la teoria freudiana dei sogni (le figu­re del sogno intese come introiezioni di paure e de­sideri riducibili in ultima analisi a sensazioni di pia­cere e dolore) e in senso molto più vasto con l'ideo­logia della morte che permea tutta la nostra civiltà. Per l'epicureo romano, morte significava mera as­senza di sensibilità, e ciò che non è sensibile non è reale o semplicemente non esiste. Il suo equivalente moderno fa un'affermazione analoga: «La morte per me non possiede alcuna realtà. Dove ci sono io (nella vita), non c'è la morte; e dove o quando c'è la morte, io non ci sono (sarò morto). Dunque, per­ché preoccuparsi? Viviamo, e basta». Nell'antica Ro­ma come da noi, troviamo un'analoga preoccupa­zione per la gestione pratica della vita personale in un universo che è o solo caso o solo determinismo (due facce della medesima razionalistica, materiali­stica medaglia). Una volta che le profondità al di là dell'Io siano considerate sue proiezioni, ecco che l'unica psicologia adatta è la psicologia dell'Io, miti­gata dall'amicizia con persone congeniali (altri ego­centrici).

Una conclusione possiamo trarre, a proposito del punto di vista materialistico che fa derivare la sua psicologia della morte da Tellus anziché da Ade: esi­ste una curiosa correlazione tra i sentimenti di realtà dati dal mondo infero e i sentimenti di valore dati dall'anima. È come se, quando manca una vivi­da immaginazione del mondo infero, avvenisse un appiattimento, una spersonalizzazione, addirittura, che va compensata con la vita comunitaria e l'amici­zia degli epicurei, ovvero, come si dice oggi, con i «rapporti interpersonali », Meno mondo infero c'è, meno c'è profondità e più la nostra vita si «spalma» in orizzontale. Il punto di vista materialistico sfocia in una sorta di vuoto, la Casa di Ade, appunto, ma ridotta ora a vuoto spirituale, giacché i suoi miti e le sue immagini sono stati definiti simulacra irraziona­li, fantasie create dalla paura e dal desiderio. Il pun­to di arrivo è la depressione: segno che la depressio­ne, la quale, ancorché mascherata, permea la nostra civiltà, è in parte una risposta dell'anima alla perdi­ta del suo mondo infero. Quando la persona de­pressa va in terapia per analizzare l'inconscio, ora, grazie a Freud, può riscoprire il mondo infero in es­so. La psicologia del profondo, nonostante professi il materialismo scientifico e renda a ogni seduta omaggio alla Grande Madre, svolge tuttavia la fun­zione principale della religione: riconnettere l'indi­viduo, per mezzo di una precisa liturgia, con il re­gno della morte.

Riassumendo, ogni volta che riusciamo a passare a una concezione meno personale, meno naturali­stica, meno moralizzata, meno interpersonale e me­no sociale, si ingaggia la battaglia per la liberazione dalla madre. L'opus contra naturam, che possiamo di­re definisca il lavoro psicologico, è all'inizio un opus contra matrem, non contro la madre personale (ecco un'altra delle sue trappole!), bensì contro le filo­sofie materialistiche del naturalismo e del personali­smo. Per liberare il regno psichico dalla mentalità naturalistica della madre occorre per prima cosa di­stinguere il mondo infero di Ade dal sottosuolo di Tellus.

 

 

 

l'opposizionismo

 

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La seconda barriera che ostacola il passaggio alla prospettiva del mondo infero è l' opposizionismo, la tendenza a pensare per opposti. L'opposizionismo, come tutti gli «ismi », è una griglia ideologica che la mente sovrappone alla vita, di solito in modo incon­scio. Anche quando ne siamo in qualche misura consapevoli, come io mi sforzo di essere in questo li­bro, esso è talmente fondante per il pensiero occi­dentale, a partire dai presocratici, da Aristotele e dal neoplatonismo, attraverso la scolastica, fino a Kant, a Hegel e alla teoria dell'informazione, che non sarà possibile sfuggire alla sua influenza soggiacente. Anche questo libro cede spesso all'abitudine di presentare coppie di opposti, come mondo not­turno e mondo diurno, mondo infero e mondo su­pero, psichico e naturale, e così via.

Non possiamo trasferirci su un altro pianeta con un altro universo di discorso; anzi, non possiamo neppure passare a un altro abito culturale. Dato che ci tocca rimanere dove l' opposizionismo fa parte del terreno stesso su cui poggiamo, l'unica soluzio­ne è imparare a conoscerlo, nella speranza di otte­nere due risultati: smuovere un po' le opposizioni, in modo da esserne meno prigionieri e più capaci di usarle ai nostri fini, e scoprire quale prospettiva archetipica è più di altre avvantaggiata da questo «ismo », cioè a quale tipo di mentalità - alle prese con quale tipo di problemi - le opposizioni sono ne­cessarie.

La logica delle opposizioni, le loro forme (con­traddittorietà, privazione, polarità, complementarie­tà), la differenza tra opposti formali e reali, il pro­blema se ognuno dei termini sia o non sia esaurito dalla relazione con l'altro: tutto questo, come anche la struttura metafisica del dualismo che sembra esi­gere e insieme presupporre la logica oppositiva, esula dai limiti di un saggio sul sogno e sul mondo infero. Eppure l'opposizionismo c'entra con il no­stro saggio, perché il tema su cui verte è stato con­cepito da Freud, e ancor più da Jung, secondo una struttura oppositiva. Perché la teoria del sogno pos­sa procedere oltre le loro posizioni, occorre andare al fondo di tali opposizioni, specialmente di quelle di Jung.

La psicologia di Jung è profondamente oppositi­va. Senza eccezioni significative, tutti i più impor­tanti concetti junghiani (eros/logos, Io/Sé, intro­versione/ estroversione, prima e seconda metà della vita, immagine/istinto, individuale/collettivo, con­scio/inconscio, etica/moralità, Anima/ Animus, e altri ancora) sono ordinati per coppie. E si tratta di opposizioni reali e funzionali, non di opposizioni logiche. Vale a dire, le opposizioni della psicologia junghiana riguardano il contenuto dei termini e il loro modo di operare. L'introversione non è contrappo­sta all'estroversione semplicemente sul piano for­male, bensì per la sua natura e la sua funzione. Tra i due termini è in atto una tensione sostanziale, non una contraddizione logica. Perciò è sbagliato tratta­re gli opposti junghiani con gli strumenti della logi­ca, come se stessimo compiendo operazioni logi­che. Poiché gli opposti junghiani non sono termini contraddittori logicamente escludentisi, l'Anima non esclude l'Animus, noi possiamo essere nello stesso tempo consci e inconsci, e così via. Ecco per­ché tanto spesso Jung rifiuta il pensiero per « aut/ aut» e preferisce dire «sia/sia». Le sue coppie sono insieme antagonistiche e complementari, mai però contraddittorie.

In questo senso Jung segue semmai l'uso roman­tico degli opposti. Li considera elementi costitutivi delle cose, più che strumenti per discuterne. Più che applicare le opposizioni alla maniera aristoteli­co-scolastica, si dichiarerebbe d'accordo con Cole­ridge, il quale parla di una legge «che regna in tutta la Natura, ossia la legge della polarità, la manifesta­zione di un'unica potenza da parte di forze oppo­ste », e dice inoltre: «Non esiste, a rigore, vera oppo­sizione se non tra due forze polari di un'unica e me­desima potenza»." Qui, l'opposizionismo è essenzialmente una visione della realtà, una legge universale, e soltanto secondariamente un procedimento epistemologico per ordinare la realtà.

Jung (Opere, VII, pp. 72-74) si rifà per il suo prin­cipio fondante alla dottrina eraclitea della enantio­dromia, da lui intesa come «funzione regolatrice degli opposti». Il termine, che in sé significa corsa in direzione contraria, è tradotto da Jung nell'e­spressione les extremes se touchent. Se si porta all' estre­mo un movimento, si produrrà un movimento con­trario. Anche lo scontro di direzioni opposte è inte­so alla maniera di Eraclito (fr. 30/A33): «La strada all'in su e all'in giù è una sola e la medesima»; ovve­ro, come dice Coleridge, «la manifestazione di un'unica potenza da parte di forze opposte »; L'inte­ra opera diJung è un'elaborazione di questa conce­zione."

Man mano che ampliava la sua psicologia, Jung estese di pari passo la sua nozione di enantiodro­mia. Nella psicologia analitica si parla degli opposti secondo quattro modalità principali: l) come con­versione nell'opposto (enantiodromia); 2) come re­golazione di uno dei due termini della coppia da parte dell'altro (autoregolazione); 3) come unione degli opposti (congiunzione); 4) come identità de­gli opposti (coincidentia oppositorum). La terza e so­prattutto la quarta modalità costituiscono il tema principale della psicologia alchemica di Jung.

E veniamo ora al sogno. Anche il sogno è consi­derato in termini di opposti, perché il sogno è una attività di compensazione. Quello della compensa­zione è l'unico costrutto generale che Jung applica ai sogni, un po' come fa Freud con il costrutto del­l'appagamento del desiderio. Essendo una compen­sazione, il sogno è sempre parziale, unilaterale, squilibrato. Per essere compreso, ha bisogno dell'al­tro elemento della coppia: il contesto diurno, la po­sizione dell'Io, la situazione collettiva, la serie di sogni precedente. La teoria della compensazione co­stringe il sogno a riattraversare il ponte; a stabilire un legame con altri, con ciò che è fuori di esso, che è altrove. Un sogno non è completo di per sé.

Questa teoria comporta alcune conseguenze per l'analisi dei sogni. Se il sogno è incompleto, sta al­l'analisi di compensarlo. Dunque, l'analista junghia­no cerca nel sogno figure e simboli capaci di riequi­librare quell'unilateralità che egli, grazie alla sua formazione, non mancherà di cogliere. Le posizioni assunte dall'Io del sogno saranno compensate da posizioni opposte, da op-posizioni. Se la figura del­l'Io è passiva, l'analista cercherà nel sogno un'Om­bra capace di dare forza, se la figura dell'Io agisce aggressivamente e con sicurezza, l'analista cercherà di renderla più sensibile con altri simboli, più «fem­minili », presenti nel sogno.

Può darsi tuttavia che in quel sogno non ci sia al­cun opposto compensatorio, per esempio ci sono «solo» uomini; allora l'analista si sente in dovere di chiedere conto del femminile assente, come esige la teoria della compensazione. Oppure, prendiamo un sogno in cui il protagonista si trova da solo in mezzo a neve e ghiaccio, lame metalliche, macchi­nari sinistri: dove sono, qui, il calore umano, o la vi­ta vegetativa e animale? Gli elementi che il sogno non contiene vanno introdotti a compensazione del quadro unilaterale, un po' come se, sentendo suo­nare una banda di ottoni, chiedessimo: «Ma dove sono i violini?». L' opposizionismo prende ben pre­sto la mano all'analista junghiano. L'inflazione vie­ne curata con dosi di depressione e di terra: l'anali­sta cerca di far atterrare gli aerei, di staccare il so­gnatore dagli alberghi di lusso e dai grattacieli e dal­la compagnia di persone importanti (la Persona), per indirizzarlo verso il legno, la lana grezza e la ri­cotta. I «tratti maschili» sono compensati con l'Anima, e l'Anima cercando di sviluppare l'Animus. C'è sempre qualcosa da aggiungere.

Se fosse possibile esaminare quello che avviene nella testa dell'analista per quanto riguarda i quat­tro tipi di opposizioni junghiane, credo che il qua­dro sarebbe più o meno il seguente: l'analista im­magina gli opposti secondo il modello del primo ca­so (conversione), quindi cerca di attuare il secondo (regolazione) e possibilmente il terzo (congiunzio­ne). La presunta unilateralità del sogno è contrasta­ta dall'interpretazione. Nella migliore delle ipotesi, l'interpretazione svolge la funzione del simbolo, tra­scendendo la coppia «Io/inconscio ». Così come il sogno è una compensazione, alla medesima stregua il lavoro sul sogno è compensatorio nei confronti del sogno stesso. Lo scopo è quello di correggere un presunto squilibrio. L'analista vuole che il paziente imbocchi un ponte e lì rimanga.

Questo è un procedimento proprio della medicina. L'u­so compensatorio degli opposti è alla base della me­dicina allopatica, la medicina ufficiale, accademica del mondo occidentale. Curare, in questo ambito, significa contrastare un processo patologico, inver­tirne la direzione, combattendolo o introducendo la cosa che manca. Lo scopo è quello di ricostituire l'equilibrio perduto. Il medico allopatico stimola gli elementi endogeni o ne introduce di estranei, che si oppongono alla malattia, allo scopo di ristabilire un'armonia originaria, una corretta krasis o armo­niosa mescolanza di elementi.

Quale sarà questa «armonia originaria», questo equilibrio ideale da ripristinare, questa fantasia nel­la quale sono rimasti impigliati il sogno e la sua in­terpretazione? A prescindere dal suo aspetto filo­sofico, certamente meritevole di esame, l'effetto di questa fantasia nello studio dell'analista è che l'in­terprete si sente chiamato a «fare qualcosa» e il so­gnatore a «correggere qualcosa». E allora, chi altri è colui che «fa» e colui che «corregge», se non la nostra vecchia conoscenza, il solito protagonista, l'Io? La teoria della compensazione ci riporta inevi­tabilmente a questa figura, l'elemento «altro» fon­damentale, il fattore allopatico che «corre in dire­zione contraria» al sogno. Che sente (pathos) altri­menti (allos) dal sogno. La teoria della compensa­zione fa appello alla prospettiva diurna dell'Io e sca­turisce dalla sua ideologia, non dal sogno. Da que­sta prospettiva, per forza il sogno è una compensa­zione: la prospettiva egoica è una forma di letterali­smo che prende le cose da un verso solo e perciò ha sempre bisogno di essere compensata.

Se però non partiamo da quella posizione parzia­le, non abbiamo bisogno di quella teoria compensa­toria.

In pratica, l'approccio compensatorio costella l'e­roe, la cui nozione di enantiodromia è l'inversione letterale e l'autoregolazione letterale. L'eroe salta dritto nell'opposto. Dopo un sogno alato, l'eroe si infila davvero gli scarponi e si mette davvero a spac­care la legna. Di fatto, il procedimento allopatico finisce per creare una nuova opposizione letterale, altrettanto unilaterale della precedente, che ren­derà necessari ancora un altro sogno, un'altra sedu­ta dal medico e la «analisi interminabile» della ego­dipendenza.

Se vogliamo parlare per opposti, ebbene qualsiasi posizione della vita ha un unico opposto reale e as­soluto, la propria morte. Questa affermazione, se ora la deletteralizziamo, significa che «la morte» è la via per superare gli opposti, cioè a dire, è l'auto­regolazione di qualsiasi posizione per mezzo della psiche, per mezzo della percezione metaforica, non­letterale. In questo senso, congiunzione (3) e iden­tità (4) degli opposti significano percezione simul­tanea da entrambe le prospettive: della vita e della morte, del naturale e dello psichico. La congiunzione, allora, è una peculiare unione di punti di vista interiori, attraverso la quale diventa manifesta un'i­dentità di opposti. Vediamo il nesso nascosto tra co­se che fino a quel momento costituivano opposizio­ni. E così che opera di solito la psicologia alchemica di Jung.

Quando un analista per analizzare deve effettuare divisioni, cioè deve concettualizzare come opposti le immagini e le figure di un sogno, o deve intro­durre l'opposto nel paziente (per esempio, più vi­sceralità per controbilanciare il pensiero, più rifles­sione per contrastare l'impulsività, più attenzione ai particolari per compensare le generalizzazioni ispi­rate), allora è 1'analista che non ha saputo attuare la congiunzione. Non ha saputo percepire che l'oppo­sto è già presente, che ogni evento psichico è un'i­dentità di almeno due posizioni e dunque è simbo­lico, metaforico, e mai unilaterale. Solo se lo si prende da un unico lato diventa unilaterale; cercan­do di riequilibrarlo, spezziamo la sua armonia na­scosta.

L'errore fondamentale, qui, è quello di leggere le quattro specie di opposizioni di Jung come se fosse­ro fasi progressive di superamento degli opposti, dalla prima alla quarta, la meta finale. Ma, se ci si­tuiamo già nella quarta, quella dell'identità degli opposti, ecco che abbiamo aggirato unilateralità, lo, compensazione, trattamento allopatico: tutto quan­to. Coincidenza degli opposti significa che non c'è niente da introdurre da parte di nessuno, perché l'opposto è già presente. C'è già tutto quello che è necessario alla situazione, sicché tutto quello che c'è è necessario. Ciascun sogno ha il suo fulcro e il suo equilibrio, si compensa da sé, è completo così com'è.

Questa è, appunto, la prospettiva del mondo infe­ro. Per essa, l'immagine è la sola cosa che esiste, tut­to il resto è svanito e non può essere introdotto nel mondo infero, finché non sarà diventato a sua volta simile al mondo infero. Non possiamo vedere l'ani­ma finché non ne facciamo esperienza, e non pos­siamo comprendere il sogno finché non ci entriamo dentro.

Diventare uguali a ciò che stiamo trattando è il modo omeopatico di curare. Richiede sensibilità per le somiglianze, un senso di affinità con il feno­meno o il processo in atto. Questa esperienza coin­cide con le modalità 4 e 3, identità e congiunzione: poiché siamo in sintonia con il processo in atto, pos­siamo unirei a esso, e questo porta poi all'autorego­lazione e infine alla conversione e all'uscita defini­tiva dall'opposizionismo. Infatti l'unico modo per «superare gli opposti» sarebbe quello di abbando­nare il pensiero per opposti. Quando ci accostiamo a un sogno o a qualsiasi altro fenomeno psichico, non c'è bisogno di rimanere in un universo opposi­tivo. Come ha detto Freud, l'inconscio non conosce la negazione. Ogni sorta di cose che sarebbero in­compatibili dal punto di vista del mondo diurno, nell'inconscio esistono fianco a fianco e trapassano facilmente l'una nell'altra. Le immagini non si con­trappongono reciprocamente. Non sono disposte per polarità e nemmeno a coppie. Vita e morte, mondo supero e mondo infero, e anche i ponti, so­no tutti eidola. Nel sogno possiamo dissolvere i no­stri costrutti, e il sogno non si contrappone a niente e non chiede di essere compensato; come ciascuna figura del mondo infero, come Sisifo, come Issione legato alla sua ruota, così ciascun sogno aggiunge il suo contributo al destino dell'anima secondo il pro­prio stile.

Dentro la prospettiva del mondo infero, il mondo non incorre nella dualità e non ha bisogno di bilan­ciamenti e di ponti. Non soltanto Ade e Plutone so­no un unico dio, e Ade e Zeus sono fratelli, e così pure Ade e Dioniso e Ade e Poseidone; non soltanto Ade ed Ermes condividono lo stesso copricapo e Ade e Persefone lo stesso regno; ma l'aspetto ctonio presente in tutte le configurazioni archetipiche fa sì che esse distolgano lo sguardo dalle relazioni ester­ne tra le cose e dal bisogno di una dialettica diadica, per rivolgerlo invece verso le relazioni interne alle cose e verso spiegazioni che sono dispiegamento di immagini.

Il sogno non è una compensazione, così come Ade non è una regione cui faccia da contrappeso un'altra regione. I commentatori del pensiero gre­co sottolineano l'intreccio e la contaminazione dei cosmoi e l'assenza del dualismo. Il mondo greco è imagistico, politeista. Il dualismo è un portato del monismo e compare più perentoriamente nelle fan­tasie monistiche, come la nostra tradizione giudai­co-cristiana, con la sua separazione tra le acque di sopra e le acque di sotto, tra paradiso e inferno. Le mie stesse contrapposizioni tra supero e infero ri­flettono questa cosmologia, nella quale siamo tutti impaniati, più di quanto non riflettano il mondo politeistico dei greci che sto cercando di evocare. Ma del resto, non si può essere altro che dove la no­stra tradizione ci ha collocati, e di lì parliamo.

I sogni, invece, non parlano in questo modo. I so­gni sono omeopatici per natura. Quello che noi ve­diamo nel linguaggio degli opposti, essi lo presenta­no in un'unica immagine. Nei sogni di pazienti ter­minali, ai quali il medico ha profetizzato la morte, si direbbe che la psiche rifiuti di scindersi negli oppo­sti di vita e morte. Non fa distinzione tra uccidere e curare, tra veleno e medicina, tra morire e partori­re. Non riconosce la domanda del mondo diurno: il paziente sta meglio o peggio? dove peggio può solo significare morte. Via via che la psiche muove verso il mondo infero, il quale, ricordiamolo, è una pro­spettiva e non necessariamente la morte concreta, si sviluppa una sensibilità sempre più acuta per la medesimezza, l'identità degli opposti, per cui la cura è la malattia, sanare è ferire più a fondo, il bambino appena nato è la morte. Qui e là sono indistinguibi­li. Esiste solo l'immagine.

Questo ci riporta alla nostra domanda iniziale: a quale tipo di mentalità - alle prese con quale tipo di problemi - l'ideologia opposizionista è tanto utile? La risposta ovvia è: per l'Io eroico, che divide per dominare. Il pensiero per antitesi, che Alfred Adler ha riconosciuto essere una forma mentis nevrotica, attiene alla volontà di potenza e alla protesta virile. Queste descrizioni si attagliano anche all'Io eroico come siamo venuti immaginandolo.

Per evitare che l'eroe diventi un capro espiatorio troppo facile, salvo poi ritornare dal deserto dove l'ho represso e irrompere nella mente del lettore al­la testa di una banda di scherani, armati ciascuno di solide giustificazioni e convincenti argomenti a dife­sa del loro vendicativo capo, dobbiamo perdonare le sue maniere malcreate. Queste, infatti, sono al servizio di un principio che trascende la volontà di potenza, il principio di distinzione. Dicevamo che il punto di vista del mondo infero non divide solita­mente il «qui» dal «là», giacché vive totalmente nelle immagini; ma il mondo infero ha anche un al­tro punto di vista, che ama fare chiarezza. E la fa per mezzo dei contrasti: più una cosa si staglia netta, più è chiara; perciò, nelle coppie, dà pennellate di luce sullo sfondo scuro.

L'opposizionismo, invece, mette a disposizione la modalità più semplice di distinzione astratta. Per questo attrae tanto. Ciò che è contemporaneamen­te semplice e astratto appare facilmente il fonda­mento di tutte le cose, si tratti di una divinità moni­stica, dei numeri dei pitagorici, delle categorie kan­tiane, o di un elegante teorema matematico.

Il primo vizio della sua virtù è che l' opposizioni­smo è capace di astrarre soltanto ciò che è semplice, e allora semplifica tutto ciò che astrae. Per esempio, quando contrapponiamo Zeus e Ade come «supe­ro» e «infero », ecco che abbiamo trascurato tutte le loro complessità imagistiche tranne la più semplice, quella della localizzazione spaziale, anzi abbiamo semplificato anche questa, riducendola a un asse verticale dove «sopra» è opposto a «sotto». Questo tipo di astrazione semplificata, che può arrivare ai diagrammi, è diventato un sintomo permanente della psicologia analitica, appunto perché essa si fonda sull'opposizionismo. In questo modo di ope­rare distinzioni, l'elemento omesso sono le specifi­che personalità di Zeus e di Ade, così come, nella psicologia analitica, il residuo con il quale è il singo­lo a dover poi fare i conti sono le specifiche com­plessità di quelle tra le sue immagini particolari che non si presentano in coppie belle e ordinate.

L'opposizionismo distingue portando agli estre­mi. Gli estremi, poi, devono toccarsi, perché, se la distinzione deve risultare evidente, hanno bisogno l'uno dell'altro. Così gli opposti sono tenuti insieme non già da una qualche mistica legge universale, bensì da una necessità epistemologica, una neces­sità che nasce da una prospettiva archetipica che esige distinzioni chiare e nette.

Da tutto questo si può dedurre che tanto la con­cezione romantica, metafisica, quanto la concezio­ne scolastica, epistemologica, se mi si passa questa generalizzazione, si fondano su (e sono espressione di) una prospettiva che deve vedere chiaramente per poter conoscere nel modo più completo possi­bile, per poter ordinare e usare. Ma così non siamo forse ritornati all'eroe solare e al suo diurno deside­rio di padroneggiare i fenomeni?

Per questa prospettiva, il «superamento degli op­posti» è un'esperienza mistica, trascendente. Per es­sa, abbandonare il pensiero per opposti è perdere la coscienza, la quale per definizione (definizione data da questa stessa prospettiva) coincide con la moda­lità chiarificatrice di vedere, conoscere, ordinare. Una simile perdita è sentita come un crollo ontolo­gico delle fondamenta, perché significa perdere an­che la certezza che l'essere sia alla fin fine spiegabile in termini di polarità astratte e semplici in tensione mistica tra loro. E questa, appunto, è una delle me­tafore radicali preferite di molte filosofie. Una tale nozione dell'essere lo rende accessibile all'intelli­genza logica di una mente che vede chiaro. Notia­mo, ancora una volta, come le posizioni ontologiche all'apparenza più sovrane abbiano i piedi di argilla. Le filosofie non possono prescindere dalla fantasia archetipica che esse riflettono e che costituisce il fondamento della loro forza di convinzione.

Con l'opposizionismo va perduto - ed è una per­dita più grave - il mondo fenomenico che esso pre­tende di dominare. Se la distinzione non è differen­ziata dalla chiarezza (è stato Cartesio a renderle in­tercambiabili), non possono darsi né mondo infero né profondità e chiaroscuri, se non come oscurità assoluta da compensare. Le distinzioni migliori so­no le più chiare e le più chiare sono, ovviamente, le contraddizioni. Allora ambiguità metaforica può si­gnificare soltanto opaca oscurità, perché la mezza luce è scomparsa e la psiche pure, come era quasi accaduto con Cartesio.

Fortunatamente la prospettiva del mondo infero offre un'altra modalità di distinzione, una modalità psicologica, dove vista acuta significa visione interio­re, che vede dentro la cosa com'è (in sé, non rispet­to a un' altra), e chiarezza significa precisione (delle relazioni interne alle immagini, non delle loro in­terrelazioni logiche). Un approccio psichico alla di­stinzione contribuisce a rendere «particolare» un evento, un sogno, poniamo, per mezzo di rassomi­glianze imagistiche, cercando di scoprire a che cosa «è simile» quel sogno, cioè «come è ». Quando «distìnguiarno » in questo modo un sogno, in realtà lo muoviamo sempre più a fondo dentro ciò che vi è di fatto presente, dentro a come è e a che cosa somi­glia. nel sentimento, nel suono, nell'aspetto. Non abbiamo bisogno di coppie in tensione, di ricorrere alla enantiodromia, alla compensazione, a niente.

La prospettiva che ho tratteggiato e che ho chia­mato psichica immagina che gli opposti siano un mo­do di notare le similarità, un caso particolare di «somiglianza». Tarde, Coleridge, Ogden e Jung hanno implicitamente affermato che soltanto i simili possono essere opposti. Soltanto le coppie i cui termini hanno in comune qualcosa di reale, di essenziale possono ragionevolmente essere considerate opposizioni. Un tacchino non può essere contrapposto a un teo­rema, a meno che non si scopra un senso in cui tac­chino e teorema sono simili. La nostra prospettiva psicologica e in grado di salvare il fenomeno degli opposti, perché considera l'opposizione una metafo­ra estrema, un modo radicale di dire una cosa come se fosse due cose nettamente diverse, intimamente in guerra (ecco di nuovo Eraclito), che il prode Io non può che immaginare letteralmente e affrontare come una sfida.

Basta così. C'è un ultimo modo per uscire dall'opposizionismo, ed e il migliore: smettere di produrre fantasie secondo le sue regole, in modo da vedere e vedere in trasparenza ciascuna cosa per come è. Questa via di uscita dall'opposizionismo è anche la via di accesso al mondo infero delle immagini.

 

 

 

il cristianesimo

 

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Un terzo motivo del nostro difficile rapporto con il mondo infero è costituito dalla prospettiva cristia­na del mondo occidentale. Tra noi e il mondo infero si erge la figura di Cristo quale è stata rappresen­tata dai primi padri della Chiesa. «Ma fu a questo scopo» sostengono «che Cristo discese all'inferno, perché non dovessimo discendervi noi». Secoli do­po, Lutero dirà: «La resurrezione di Cristo è la no­stra resurrezione ». Mentre cresce nel cuore, la fe­de in Cristo «indebolisce giorno dopo giorno la morte e la priva della sua forza, finché essa non sarà stata completamente sommersa e non scomparirà ... Attraverso di Lui ... seppelliremo la morte anche fisicamente e la elimineremo del tutto, sicché non se ne vedrà e non se ne saprà più nulla».

Facciamo qualche confronto. Orfeo e Dioniso scesero agli inferi per riscattare una persona amata, a loro molto vicina, rispettivamente la sposa, Euridi­ce, e la madre, Semele. Eracle vi discese perché ave­va un compito da svolgere. Enea e Odisseo per es­servi istruiti da un «padre », Anchise e Tiresia. Se­condo Le rane di Aristofane, Dioniso vi tornò una se­conda volta in cerca della poesia, per salvare la città. Invece, la missione di Cristo nel mondo infero con­sistette nel cancellarlo con la sua resurrezione, la vittoria sopra la morte. Grazie alla sua missione, tut­ti i cristiani furono per sempre esentati dal compie­re quella discesa. Lazzaro diventa il paradigma di tutta l'umanità: tutti ci leveremo dal sepolcro. La vi­ta eterna non sta nel mondo infero, bensì nella sua distruzione. Come dice Paolo (1 Cor, 15, 55), citan­do liberamente il profeta Osea (Os, 13, 14): «O Thanatos, dov'è il tuo pungiglione? O Ade, dov'è la tua vittoria?» .

«La parola vittoria ricorre soltanto tre volte nelle lettere di Paolo, tutte e tre le volte in questo para­grafo», per annunciare con squilli di tromba il mi­stero cristiano, l'eliminazione della morte. In que­sti squilli trionfali, in questa distruzione, non incon­triamo forse una volta di più Vittoria (nike, nikos), figlia di Stige, infusa ancora dell'odio di sua madre? La conquista di Ade evoca immagini orrende: echi di Osea, il pungiglione degli scorpioni, serpenti, ca­labroni, le locuste infernali e i pungoli che mitolo­gemi più antichi attribuivano a Ecate. Il linguaggio veemente segnala la veemenza con cui il cristianesi­mo primitivo si proponeva la missione di spazzare via uno dei baluardi del politeismo dell'epoca, la Casa di Ade.

Anche il sonno è di ostacolo all'annuncio di Pao­lo, che infatti lo contrappone alla trasformazione: «Non tutti dormiremo ma tutti saremo trasformati» (1 Cor, 15, 51). Come sappiamo, sonno e morte sono gemelli; dormire è entrare nel regno della morte, forse sognare, e essere colmati dalla psiche. Ma no: i morti saranno resuscitati «in un batter d'occhio », Cambiare è non dormire, e dormire è non cambia­re. La redenzione cristiana non passa per il sonno. E questo, per la psicologia, significa che ciò che av­viene nel sonno e nei sogni non andrebbe mai guar­dato con un'ottica cristiana, orientata alla trasfor­mazione redentiva.

Vediamo di capire esattamente quale tipo di tra­sformazione sta annunciando Paolo. Il verbo che u­sa è allaghesometha, da cui allaghe, «traslazione», con connotazioni di «scambio, permuta, traffico »; Non è semplicemente il passaggio da questo luogo o con­dizione a quel luogo o condizione; è la rinuncia a (o dismissione di) una cosa per guadagnarne un'altra. Secondo alcuni commentatori, il passo indica che «deve avvenire una radicale traslazione dallo psy­chikon allo pneumatikon». Il cambiamento consiste nello «spiritualizzare l' animìcità». Per risorgere e andare incontro al Signore nell'aria (1 Ts, 4, 17), dobbiamo diventare pneumatici, essere spiritualiz­zati. La vittoria sul sonno e sulla morte rientra nella più vasta missione del cristianesimo di scambiare l'anima con lo spirito.

L'ascensione non richiede solo di lasciarsi indietro il sangue, a somiglianza del thymos, che non ave­va cittadinanza nel mondo infero e i cui desideri si pagavano in anima. Paolo va un gradino più avanti (o più indietro) di Eraclito, perché il mistero dell'a­scensione cristiana cede psyche in cambio di pneuma. Paghiamo lo spirto con la nostra anima. La vitto­ria del cristianesimo sul mondo infero è contempo­raneamente perdita dell'anima.

La conquista di Cristo era presente in modo mol­to. vivido nell'immaginazione del cristianesimo pri­mitrvo , Nella seconda epistola di Timoteo, nell'epi­stola di Barnaba, nell'apologia di Giustino martire, si afferma che la Vittoria sulla morte era già stata realizzata con la resurrezione di Cristo. La distru­zione del mondo infero non avrebbe dovuto aspet­tare la fine del tempo: era già avvenuta. La morte e la resurrezione di Cristo furono assorbite nel mitologema classico della nekyia, ora non più un viaggio, ma un Descensuskampf, perché Cristo devasta l'infer­no e, secondo una versione, costringe Thanatos a nascondersi dietro, la sua porta. Cristo era dunque più grande del più grande degli Uomini-Dei, Era­cle, il quale, se aveva cacciato Ade dal trono, non aveva, come fece Cristo, annientato l'intero suo re­gno, compresa la morte.

Un effetto della lotta contro il mondo infero fu la satanizzazione di Thanatos. La nera figura alata, in­distinta, a volte anche benevola, delle descrizioni pagane diventò «l'ultimo nemico» (1 Cor, 15, 26) e la personificazione del principio del male. Il mondo infero ne uscì completamente moralizzato; la morte equiparata con il peccato. Secondo la nota regola psìcologica, Il peccato commesso viene attribuito a chi lo subisce. Proiezione, si chiama. La giustificazione morale per distruggere un nemico è che quel nemico è distruttivo.

L'immagine cristiana dell'inferno era dunque la proiezione di un immagine Infernale interiore del cristianesimo stesso, il quale doveva essere in preda alla disperazione più furiosa per il pessimo scambio compiuto: aveva perduto anima, profondità, mondo infero e le personizzazioni dell'immaginazione, in cambio di idealizzate spiritualizzazioni nell'alto dei cieli.

In un'unica maniera il mondo infero poteva ri­comparire: attraverso la perdita di Cristo, e dunque come perdizione, dannazione, orrore. Orrore che aprì un problema del tutto nuovo: il mondo infero inteso come regno del diavolo. La paura del diavolo (del resto, quale altra reazione è possibile di fronte a. quella intollerabile immagine?) segnalava la sua vicinanza e questa, a sua volta, segnalava il pericolo immmente della perdita di Cristo. Sicché il diavolo fu insediato in virtù di quella paura. L'immagine del diavolo ci perseguita ancor oggi nelle nostre paure dell'inconscio e della psicosi latente che si suppone stia in agguato; e ancor oggi, come riti propiziato­ri contro la nostra paura, ricorriamo ai metodi del cristianesimo (moralizzazione, buoni sentimenti, co­munione e ingenuità da fanciulli), anziché alla di­scesa classica dentro tale paura, la nekyia dentro l'im­maginazione.

Il mondo infero, le rare volte in cui riappariva, conservava, almeno nella visione giovannea, qual­che associazione con gli elementi di staticità del mi­to classico. Si ammette (AP, 22, 11) che nell'aldilà i malvagi continuino a compiere il male e gli impuri a essere impuri, e che soltanto Cristo salvi da questa condanna alla ripetizione. Chi era con Cristo era salvato; chi non era con Cristo era perduto e conse­gnato al mondo infero. Con un solo, magistrale col­po, il cristianesimo tolse di mezzo il mondo infero e contemporaneamente lo rese orrifico, costituendo­lo come la perpetua alternativa alla via cristiana: bi­sognava scegliere, ma chi avrebbe scelto l'orrore?

I sogni, la cui casa è nel mondo infero, non poterono che diventare a loro volta anticristiani. E infat­ti nel Nuovo Testamento svolgono una parte secon­daria, esattamente come la parola psyche cede il po­sto alla parola pneuma. Il verbo «sognare» non compare mai e il sostantivo «sogno» ricorre solo tre volte, e solo in Matteo. I sogni potevano soltanto es­sere rivelazioni del mondo notturno, messaggi ten­tatori inviati dalla genia dei demoni servi di Satana. Oppure, nella più benevola delle ipotesi, potevano essere intesi in senso pneumatico, come messaggi dello spirito nel contesto del mondo supero. Il mondo ebraico aveva lo She'ol, e i sogni erano ascoltati; ma quando alla moglie di Pilato arriva un sogno, importante, oltretutto, per il destino di Cri­sto, esso viene ignorato (Mt, 27, 19): perche adesso siamo nel Nuovo Testamento. Cristianesimo e mon­do infero caddero in opposizione, un'opposizione reale, funzionale e logica, sicché oggi noi ci ritrovia­mo in una situazione in cui la coscienza cristiana e il lavoro psicologico del fare anima attraverso la cura peI i sogni sono forzosamente in contraddizione.

E alla luce di questa opposizione che possiamo ri­vedere l'incessante arrovellarsi di Jung sulla figura di Cristo. Benché il suo interesse per questa imma­gine sia già stato esaminato sotto il profilo biografi­co, teologico e alchemico, ci sembra necessano im­maginare il prolungato disagio di Jung, in quanto psicologo, anche da un punto di vista archetipico. Poiché avvertiva l'intrinseca opposizione tra cristia­nesimo e mondo infero, Jung cercò di scurire la figura di Cristo con Ermes-Mercurio. Pur non spingendosi fino ad assimilarlo a Ade, tuttavia costicuì Ermes-Mercurio ad archetipo dell'inconscio in opposizione a Cristo, inteso come archetipo della co­scienza del mondo supero (Opere, XIII, p. 273). La scelta di Ermes-Mercurio come fattore di scurimen­to, come psicopompo del mondo infero, riecheggia l'inno omerico a Ermes, dove il dio è «egli solo, valido messaggero presso Ade», perché è Colui che porta i sogni.

Il tentativo di Jung di scurire la figura di Cristo va inteso sotto il profilo del fare anima, come un rico­noscimento del fatto che solo ripristinando il mon­do infero, laddove la missione di Cristo era stata quella di svuotarlo, poteva realizzarsi quel fare ani­ma che accompagna la discesa agli inferi e l'ap­profondimento verso la morte e che è così fonda­mentale per il lavoro della psicoterapia. Io vedo l'impresa di Jung come una lotta tra due impegni archetipici: il cristianesimo, che nega il mondo infe­ro, e il fare anima, che inevitabilmente a quel mon­do porta.

Aniela Jaffé, la cui comprensione umana e di stu­diosa per il pensiero di Jung non ha pari tra i suoi seguaci, ha scritto che «il percorso psicologico dell'individuazione è in ultima analisi una preparazio­ne alla morte ». Se è questo il fine ultimo del prin­cipio terapeutico fondante di Jung, allora il proces­so di individuazione dell'anima muove verso il mon­do infero. E dunque, forse, ogni fantasia di resurre­zione della teologia è una difesa contro la morte, ogni fantasia di rinascita, in psicologia, è una difesa contro la profondità, e ogni interpretazione dei so­gni che ne trasponga le immagini nella vita quoti­diana e nelle opere della vita quotidiana è una dife­sa contro l'anima.

 

 

 

 

5. il sogno

 

 

romanticismi sul sogno

 

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Cominceremo dando uno sguardo retrospettivo. Abbiamo visto, prima in Freud e poi nel mito, come il sogno appartenga al mondo infero; eppure, dopo Freud, interpretazione del sogno ha significato tra­sposizione nel mondo supero. L'analisi del profon­do, nonostante il suo nome, spinge i sogni verso la luce del giorno. Ora, se rifiutiamo l'interpretazione dei sogni nella sua consueta accezione analitica, quali alternative ci restano per lavorare su di essi?

Una la rifiutiamo in partenza. Mi riferisco all'idea romantica secondo la quale basta lasciarsi trasporta­re dalle immagini sulla barca del sonno, come l'in­vocazione di Keats:

 

O magico Sonno! O uccello consolatore, che aleggi sopra il mare agitato della mente finché placato taccia! O costrizione

senza confini! Imprigionata libertà! Grande chiave a palazzi dorati, favole strane,

grottesche fontane, piante sconosciute, decorate caverne

grotte echeggianti, piene di frangenti!

E chiaro di luna; sì, a tutto il magico mondo di argentei incanti!

(Endimione, XI, 453-61)

 

Non si creda che i romantici siano tutti estinti. Al­cuni sono ancora tra noi, anzi, per assurdo che pos­sa sembrare, si aggirano nei laboratori delle ricer­che sul sonno, dove è dato ritrovare la fiducia e la predilezione dei romantici per il mondo notturno. Alcuni ricercatori del sonno REM, infatti, sostengo­no che sognare fa bene comunque, che si ricordino i sogni oppure no, che ci si lavori sopra o ci si lasci semplicemente cullare da essi finché non placano la nostra mente agitata. Purché si sogni. L'interruzio­ne o l'inibizione dell'attività onirica, dicono questi ricercatori, provoca tutta una serie di disturbi psi­chici.

Alfred Ziegler, il quale condivide il lavoro ma non l'atteggiamento dei suoi colleghi, ha dimostrato che la loro mentalità ottimistica e le loro eufemistiche conclusioni non sono giustificate, perché i sogni so­no prevalentemente spiacevoli. Perfino nelle condizio­ni ideali del laboratorio del sonno, dove si «ritorna alla natura» nel senso più romantico della discesa nella grotta privata della propria anima, protetti, al caldo, e consegnati nel silenzio al sonno, questo do­no della natura, i sogni spiacevoli sono di gran lun­ga più numerosi di quelli piacevoli. Ziegler solleva un dubbio molto poco «romantico»: forse la natura intende «nuocerci », addirittura «alla fine uccider­ci»; infatti si hanno abbondanti prove dell'instau­rarsi di stati patologici durante l'attività onirica (sonno REM), tra cui ipertensione e infarti cardiaci notturni. L'approccio di Ziegler è fisiologico, il suo modo di pensare biologico, ma il mito che informa il suo atteggiamento è classico: anche lui restituisce il sogno al suo retroterra nel mondo infero ctonio di Ade.

C'è una seconda alternativa, ma è così vicina alla posizione romantica da lasciare a sua volta insoddi­sfatti. Deriva da Jung, benché egli personalmente non vi si attenesse alla lettera. «Il sogno è la sua pro­pria interpretazione» ha detto infatti Jung (Opere, XI, p. 36), e «tutt'al più si continua a "sognare" il mito» (Opere, IX, I, p. 154). Ma a prendere Jung sul­la parola, non si darebbe sufficiente riconoscimento al lavoro che c'è nel sogno né all'impegno di intelli­genza che il sogno reclama.

L'antica arte dell'interpretazione dei sogni non solo è un modo per difendersi dai sogni ma, al pari di ogni ermeneutica del «materiale simbolico», co­me si dice oggi, è sorta insieme al sogno. Sono en­trambi doni di Ermes: il lavoro del mistero e il lavo­ro sul mistero. Perché i sogni non sono soltanto «fe­nomeni naturali» (Opere, XI, p. 36); sono soprattut­to prodotti dell'immaginazione. Sono elaborazioni, com­plesse articolazioni linguistiche e imagistiche, atte­stanti ciò che Freud ha chiamato «lavoro onirico» (Traumarbeit). Perfino il sogno più sciocco riesce a stupirei per la sua arte, la gamma dei suoi rimandi, il gioco della fantasia, la scelta dei particolari. Se se­guiamo il nostro principio di somiglianza, allora la nostra risposta al sogno deve andare oltre l'apprez­zamento naturale che si esprime nel «continuare a sognarlo ». Dovremo rispondere anche con un ap­prezzamento critico, immaginativo, con un lavoro che assomigli al suo.

Esiste poi una terza alternativa: continuare il so­gno nella vita di veglia, il cosiddetto sogno da svegli. Prendiamo per esempio il seguente sogno: «Sono nella sala d'aspetto di un medico. Il dottore mi con­segna un bambino con il pannolino sporco e mi di­ce: «Lo cambi». Invece di interpretare il sogno alla vecchia maniera o di lasciarlo fluttuare nella mente associativa alla maniera romantica, possiamo reim­metterei nel sogno. Nel nostro esempio, torniamo nella sala d'aspetto e viviamo i sentimenti del «me» del sogno, del dottore, del bambino, del pannolino sporco, della stanza perfino: entriamo in tutti i ruo­li e diventiamo tutti gli elementi del sogno.

In realtà, questa alternativa non va oltre i senti­menti, e quindi diventa a sua volta un'ulteriore va­riante romantica. Diventare un dottore, un pannoli­no, una stanza non è quello che ha detto il sogno con le sue effettive immagini. Il sogno ha detto, molto chiaramente: un dottore mi mette tra le ma­ni un bambino e mi dice di cambiarlo. Il dottore vuole che il bambino «sia cambiato »; è un rebus ve­ro e proprio quello che mi è proposto dal dottore del sogno. Trasformarmi in quel bambino, o in un dottore o in una sala d'aspetto incoraggia la mia fantasia a impigrirsi con le associazioni, gonfiando con ciò l'immagine al di là dei suoi precisi limiti. Inoltre, l'identificazione con tutti gli altri elementi elude lo sgradevole compito affidato all'Io onirico: prendere in mano un bambino sporco di cacca e «cambiarlo». Nonostante la sua validità nell'inse­gnare «cosa si prova» a essere un pannolino pieno di cacca, a essere un dottore e a ordinare una ripuli­ta, a essere una sala d'aspetto e ad accogliere gli al­tri, oltre tutto malati, l'identificazione empatica con tutte le figure di un sogno finisce per riconsegnare il sogno all'Io desto, il quale, romanticamente, lo as­sorbirà attraverso i propri sentimenti. Questo crea una congestione nell'Io, il quale, diventando le im­magini del sogno, si ingoia il sogno stesso, invece di lavorare sulle proprie reazioni restando all'interno delle immagini. Sul piano terapeutico, il lavoro vie­ne fatto nell'interesse dell'Io desto: è psicologia del­l'Io. Ancora una volta il sogno è al servizio del mon­do diurno; non per niente questo metodo è chiama­to «sogno da svegli».

 

 

 

l'io onirico

 

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Una quarta strada, quella che seguiremo noi, prende l'avvio dall'espressione coniata da Freud: «lavoro onirico ». Freud la usa per indicare una se­rie di peculiari operazioni mentali che hanno luogo di notte: condensazione, spostamento, regressione, arcaicizzazione, simbolizzazione, sovradeterminazio­ne, inversione, deformazione (IP, lezione XI; IS, cap. VI). Naturalmente, questi termini sono tutti concet­ti del mondo diurno. Il fatto di guardare il sogno usando questi concetti indica che è già avvenuta una traduzione delle attività del mondo notturno nella lingua della luce diurna. Quello che avviene nel sogno ha già ricevuto una descrizione peggiora­tiva: il lavoro onirico viene definito regressione, spo­stamento, deformazione, e così via.

Peggio ancora, alcuni seguaci di Freud, come Ro­heim, prendono quei concetti talmente alla lettera da sostenere che il lavoro onirico consiste sempre ed essenzialmente nel far regredire il sognatore e nel dislocarlo, mediante simbolizzazioni, nella vagi­na materna e nelle arcaiche acque uterine del son­no fetale. Il delicato lavoro onirico della notte è sta­to catturato dai concetti grossolani e indifferenziati del mondo diurno e costretto a servire la sua mono­culare «visione di fondo». I sogni diventano defor­mati e condensati, esattamente come sostiene la teoria.

Perciò, se il nostro compito terapeutico consiste nel riaccompagnare l'Io all'altro capo del ponte, nell'insegnare al sognatore a sognare, non possia­mo usare questi termini per parlare del lavoro oniri­co. Dobbiamo invertire il nostro consueto procedi­mento, che traduce il sogno nella lingua dell'Io, e tradurre invece l'Io nella lingua del sogno. Questo significa applicare una sorta di lavoro onirico all'Io, farne una metafora, vedere in trasparenza la sua cosiddetta «realtà». Sospenderemo dunque tutta una serie di operazioni dell'Io, il «lavoro egoico », le modalità con cui l'Io si è accostato al sogno e ha compiuto le proprie traduzioni. Queste modalità sono: il causalismo (vedere le sequenze del sogno se­condo nessi causali); il naturalismo (presumere che gli eventi onirici debbano conformarsi al mondo su­pero della natura); il moralismo (vedere posizioni morali nel mondo infero e considerare il sogno espressione compensatoria di una coscienza morale capace di autoregolazione); il personalismo (credere che la sfera dell'anima riguardi principalmente la vita personale); il temporalismo (collegare gli eventi del sogno con il passato o con il futuro, vuoi come ricapitolazione di ciò che è già accaduto, vuoi come preannuncio di ciò che verrà); il volontarismo (vede­re il sogno come un'azione che richiede in risposta altre azioni: «I sogni ci dicono che cosa dobbiamo fare»); l'umanismo (pensare che il sogno rifletta in primo luogo le faccende umane e rappresenti un messaggio riguardante le faccende umane); il positi­vismo logico (leggere il sogno come una asserzione positiva, fattuale, suscettibile di giudizio vero-falso); il letteralismo (attribuire a un sogno o a un aspetto di un sogno un significato univoco, dimenticando così che ciascun elemento del sogno, compreso il «me» del sogno, è un'immagine metaforica).

Così come l'Io vede all'opera nel sogno un insie­me di fattori peggiorativi (regressione, deformazio­ne, spostamento), alla stessa stregua la prospettiva del mondo infero vede all'opera nell'Io un insieme di atteggiamenti peggiorativi (umanismo, personali­smo, letteralismo). Sono questi atteggiamenti che vanno per prima cosa sospesi, se vogliamo accostare il sogno secondo uno stile radicalmente nuovo.

Prendiamo, per esempio, i Tagesreste, i «residui diurni », di cui secondo Freud sono costituite le im­magini oniriche. Adesso non li prenderemo più nel loro valore di facciata, come se rimandassero a even­ti reali di un mondo diurno letterale. Immaginere­mo, invece, che il sogno stia digerendo certi avanzi del giorno, trasformandone i fatti in immagini. Più che un commento sul giorno, il sogno è un proces­so digestivo, che scompone e assimila il mondo diurno nei labirintici budelli della psiche. Il lavoro onirico cucina gli eventi della vita trasformandoli in sostanza psichica per mezzo di modalità immagina­tive: simbolizzazione, condensazione, arcaicizzazio­ne. Estrae materia dalla vita e la trasforma in anima, e contemporaneamente nutre ogni notte l'anima con materiale nuovo. Un po' come nella pratica dif­fusa in tutto il mondo, e specialmente nell'antico Egitto, di deporre nella tomba dei defunti oggetti della loro vita. Insieme alla salma, veniva traslato tutto il suo mondo. E le provviste dovevano essere immense, perché la vita psichica è un processo sen­za fine, che necessita di materiali copiosi.

Il lavoro giusto con i sogni è quello che aiuta il processo di traslazione o di morte che ha luogo co­munque nel sogno stesso. E un lavoro equivalente a quello che già sta svolgendo il sogno. L'interpreta­zione, come il sognare, diventa un morire al mondo diurno, un ruminare le sue realtà letterali fino a trasformarle in realtà metaforiche. Più sogno mia ma­dre e mio padre, mio fratello e mia sorella, mio figlio e mia figlia, meno queste persone reali sono come le percepisco nel mio ingenuo naturalismo letterale e più diventano abitatori psichici del mon­do infero. Quando appaiono nelle visioni delle mie notti e io macino e digerisco il loro andirivieni, i famigliari diventano familiares, compagni interiori: non sono più esattamente le persone letterali con le quali ho quotidianamente a che fare. A poco a po­co, la famiglia cessa di essere le persone reali, alle quali devo resistere e con le quali devo competere, per diventare gli antenati viventi, i fantasmi, le ombre, i cui caratteri scorrono nel mio sangue psichi­co, dandomi sostegno con la loro presenza nei miei sogni. La casa di famiglia si sposta da ge a chthon.

Quante volte abbiamo sognato quelle vecchie sce­ne famigliari! Ecco la mamma che sgrida, gli occhi incorniciati dagli occhiali, il babbo che volge le spal­le, il fratello morto da anni che dorme ancora nel letto accanto. Perché questo eterno ritornare alle medesime figure? Che cosa vuole la psiche? Perché ci riporta passati amori come tormenti attuali? Una notte dopo l'altra, volti a cui avevamo dato il bacio d'addio ritornano a chiedere ancora qualcosa. Di solito, si pensa che tali ripetizioni e insistenze si­gnifichino che c'è un complesso irrisolto; ma che cosa dice in realtà questa spiegazione?

Forse, nei sogni è in corso un lavoro, una prolun­gata cottura di residui coriacei che scioglie la carne fin troppo soda delle persone ricordate, riducendo­le ai loro simulacra, a un'ombra di se stesse, affinché possano andarsene, liberate dal nostro attaccamen­to, e noi si possa vivere in loro presenza non più op­pressi dalla loro vita. Queste figure sono qualcosa di più che complessi irrisolti; sono anche sostanze emotive sottoposte al processo del fare anima.

 

 

 

l'io onirico: il livello soggettivo

 

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Queste riflessioni Ci riportano alle persone che compaiono nei sogni (si veda il terzo capitolo). Dobbiamo riesaminare la nozione junghiana di interpretazione al livello soggettivo e le sue successive applicazioni terapeutiche, specialmente nella tera­pia gestaltica.

In generale, sia Freud sia Jung considerano tutte le figure e i paesaggi dei sogni alla stregua di possi­bilità psichiche interiori. Gli eventi onirici attengo­no al profondo di ciascuno; e questo è il punto di partenza di tutte le psicologie del profondo, un campo che è stato aperto dal grande libro di Freud sui sogni. Dice Freud (IS, p. 297): « ... ogni sogno ri­guarda la persona che sogna». Jung ipotizzò due li­velli di interpretazione; ne abbiamo già parlato, ma vale la pena di ricordare che per Jung «oggettivo» e «soggettivo» sono livelli di interpretazione, non li­velli del sogno: il sogno in sé è sempre e soltanto soggettivo. Le figure che passeggiano nei miei sogni non sono degli altri reali, e nemmeno aspetti della loro anima rispecchiati in me (loro icone o simulacra), bensì la psiche profonda, soggettiva, in vesti personizzate: i sogni rappresentano «me», soggetto alla «mia» soggettività; e io sono soltanto un sogget­to tra molti. Durante il sonno, sono completamente immerso nel sogno; soltanto al risveglio capovolgo questo dato di fatto e credo che il sogno sia in me. Di notte è il sogno che mi fa, ma la mattina dico: ho fatto un sogno. Un'interpretazione a un livello au­tenticamente soggettivo dovrà mantenermi soggetto al sogno.

Questo sembrerebbe l'intento della psicologia gestaltica con la tecnica della identificazione nei ruoli. Sì, è vero, essa dice, tu sei solo uno tra i molti sog­getti del sogno, dunque assoggettati a loro; lascia che entrino in te; diventa quegli altri; identificati. Ma esaminiamo questo metodo più da vicino.

La tecnica dell'identificazione nei ruoli significa fusione con l'immagine, imitazione dell'immagine e dunque perdita dell'immagine. L'immagine non è più distinta da me; io e l'immagine ci siamo uniti nel sentimento, ci siamo amalgamati nella medesi­ma Gestalt, come nell'esempio riportato più sopra (pp. 118-19).

Ma poi, quando prendo un'immagine onirica intendendola come se fosse una potenzialità psichica (mio fratello maggiore come la mia capacità di assu­mermi i problemi, p. 79) ed entro in questa immagine e la fondo con i miei sentimenti, faccio ben più che recitare un ruolo. Compio una operazione di ri­duzione: riduco l'eidolon, in cui è presente qualcosa di archetipico, a un tratto che può diventare parte della mia totalità. Si ha una «crescita», certo; ma a crescere è l'Io, la cui personalità si amplia a spese delle persone oniriche che esso è diventato.

In questo modo sottile, il lavoro gestaltico sul so­gno, mutuato dall'interpretazione al livello soggetti­vo di Jung, riesce a espandere la mia persona fino a farle assorbire le persone del sogno e alla fine an­che gli Dei, in esse presenti. La psicologia gestaltica è una psicologia umanista, cioè a dire, fornisce una tecnica psicologica con la quale l'umanismo può spazzare via l'ultima traccia dell'antico nemico, può scacciare gli Dei dal loro ultimo rifugio nell'anima. Da Protagora in poi, l'umanismo in tutte le sue mo­dalità ha sempre cercato di mantenere al centro l'uomo come misura di tutte le cose. Ora, con la «interpretazione soggettiva» o «tecnica gestaltica», anche la prima e più immediata esperienza del miti­co, gli eventi dei sogni, può essere immessa nell'es­sere umano, come tratti e parti della sua natura. In­somma, questo metodo interpretativo diventa l'en­nesima moderna maniera di inflazionare l'Io. Le idee di totalità e di crescita creativa sono il camuffa­mento della vecchia hybris eroica, e la via dell'inte­grazione è il vecchio viaggio dell'eroe, in cui egli in­contra tutti i mostri della natura, i quali sono anche forme divine dell'immaginazione. Via via che l'eroe procede da una figura all'altra, da una stazione al­l'altra, i mostri divini scompaiono. E dove sono an­dati, una volta sopraffatti e integrati, se non nella sua personalità, con ciò divinizzando l'uomo, facen­do dell'uomo stesso un mostro gigantesco, l'apoteo­si della mostruosità?

Come ricorderete, nella sezione «Le persone del sogno », nel terzo capitolo, dopo avere citato due passi di Jung e di Dodds, ho commentato: «Nei so­gni, nelle sembianze degli amici incontrati ieri sera, ci vengono a visitare daimones, ninfe, eroi e Dei»; Come possiamo ora formulare con maggiore preci­sione la relazione tra le persone archetipiche (1), che si presentano (2) attraverso le figure dei miei amici, e i miei tratti e le mie potenzialità personali (3)? Intendere gli amici solamente al livello sogget­tivo, come potenzialità personali, provoca la perdita del mondo infero. Ma allora, perché le ombre e gli Dei non si presentano nelle loro sembianze? Perché si prendono la briga di incarnarsi nei miei famiglia­ri e amici o in questo o quello sconosciuto? Eviden­temente queste persone oniriche sono per qualche ragione necessarie.

Sono necessarie per il lavoro del fare anima. Sono necessarie per vedere in trasparenza, per delettera­lizzare. Senza gli amici di ieri sera, il sogno sarebbe una comunicazione diretta con gli spiriti in una vi­sione numinosa. Ma un sogno non è una visione, e la psiche non è lo spirito. Il sogno fa entrare la valle del mondo, fa entrare quelle banalità, trivialità e meravigliose complessità che sono i miei amici per­ché esse sono necessarie al lavoro che il sogno svol­ge nell'anima. I miei amici sono figure di quel re­gno intermedio che un tempo era chiamato metaxy. Essi non sono né soltanto umani né soltanto divini, né soggettivi né oggettivi, né personali né archetipi­ci: sono l'una cosa e l'altra. Le persone con le quali sono uscito a pranzo ieri sera e che ritornano nel mio sogno incarnano, contemporaneamente, caratteri­stiche e azioni mie e caratteristiche e azioni divine. (Del «livello oggettivo» delle loro caratteristiche e azioni, dei miei commensali in carne e ossa, si è già trattato più sopra, quando si è detto che non è di lo­ro che stiamo sognando e che loro non sono nel no­stro sogno).

Poiché i miei amici incarnano contemporaneamente tratti miei e tratti divini, essi non sono risolvibili me­diante un'interpretazione unilaterale, mediante una riduzione personalistica alla mia persona o una con­versione archetipica (epistrophe) in spiriti, senza che con ciò vada perduto il mondo intermedio dell'ani­ma. Sicché, alla fin fine, sembrerebbe che la moda­lità di connessione psicologica con daimones, ninfe, eroi e Dei passi bensì per l'interpretazione al «livello soggettivo », ma solo a condizione di ampliare quel «soggettivo» fino a dargli il significato di «imperso­nale », fino a includervi persone che non sono mie, come del resto non sono miei i miei amici.

Nella psicologia del profondo, il gesto soggetti­vante è un movimento fondamentale. Viene di soli­to definito «ritiro delle proiezioni », Sicché, natural­mente, lo applichiamo anche ai sogni. E cioè: por­tando all'interno i miei commensali e cercando i tratti che hanno in comune con me e i sentimenti che evocano (lei è troppo passiva, lui velenoso, l'al­tro un ascoltatore perfetto), io li accolgo in me. Ve­do me stesso rispecchiato in loro e loro rispecchiati in me; rifletto sulle ombre che abbiamo in comune. E questo è un procedimento del mondo infero. Ac­coglierli non è però integrarli nel, mio soggetto per­sonale e in tal modo liquidarli. E a questo punto, anzi, che da «Lei che è troppo passiva», da «Lui che è velenoso », da «L'altro che è un ascoltatore perfet­to» incomincia a emergere un senso archetipico. Nella figura, singola, del mio amico vivono sia le mie personali, soggettive caratteristiche e potenzia­lità, sia le personae archetipiche, che sono poi le po­tenzialità più profonde presenti in ciascuna delle nostre soggettività. E queste personae ci conducono fuori dal soggettivo come è comunemente inteso .

Rimane un'ultima considerazione, riguardo alli­vello soggettivo, che secondo me ne fa crollare l'in­tera struttura. Fintanto che le persone del sogno ri­mangono componenti personali del sognatore, per liberare il sogno dalla soggettività personale dobbia­mo amplificarle con paralleli mitologici. Il metodo junghiano dell'amplificazione, che deliberatamente eleva a proporzioni mitiche le immagini oniriche, è una conseguenza necessaria del metodo junghiano dell'interpretazione al livello soggettivo. Ebbene, qui sta l'inciampo: come lo amplifichiamo il tizio che ruba la scena a tutti? Supponiamo di scoprire che compie tutte le azioni tipiche dei personaggi delle fiabe e dei miti; insomma, ne abbiamo am­plificato a dimensioni archetipiche comportamento e attributi, ma lui, il protagonista, chi è? Non è forse vero che identifichiamo l'Io onirico con il sognato­re? L'Io onirico è lo scoglio che manda a picco il li­vello soggettivo.

Quando un'interpretazione parla del sognatore facendo riferimento a ciò che l'Io fa nel sogno, o parla del comportamento dell'Io onirico facendo riferimento alla vita del sognatore, l'Io che agisce nel sogno è trattato a livello oggettivo, come se fosse la persona della vita quotidiana. Io sognatore sono ritenuto responsabile delle azioni dell'«io» protago­nista del sogno. Scompare la distinzione tra il so­gnatore, che vive nel mondo diurno, e il suo sogno, che avviene nel mondo notturno. In questo, appun­to, sta l'incoerenza di quasi tutti i metodi di inter­pretazione dei sogni: tutte le figure sono intese al li­vello soggettivo, tranne l'Io, che rimane al livello oggettivo. Benché l'interprete possa riconoscere che la mia automobile, nel mio sogno, non è la mia automobile reale, bensì l'immagine della mia «im­pulsività meccanica», e che mia sorella non è la mia vera sorella, bensì il modo in cui la sua immagine tocca la mia anima, ciò nonostante 1'«io» protago­nista del sogno rimane I'io che sta seduto sulla sedia del paziente nello studio dell'analista. Quell'«io» ri­mane letterale e intatto, senza mai veramente risol­versi nella propria immagine.

Perciò, per arrivare alla piena soggettività, chi la­vora sui sogni deve arrivare all'ultima sacca di og­gettività, l'Io onirico, con i suoi comportamenti e i suoi sentimenti, che vanno mantenuti dentro l'im­magine. Si tratta di assoggettare l'Io al sogno, di dis­solverlo nel sogno, mostrando come tutto quello che esso fa, prova e dice rifletta il suo essere situato nell'immagine, mostrando cioè che questo Io è total­mente immaginale. E non è un compito da poco, perché l'Io è archetipicamente un fenomeno del mondo supero e rimane saldo nelle sue posture eroiche finché, imparando a sognare, non diventa un Io immaginale.

L'Io immaginale si trova a proprio agio nell'oscu­rità e si muove tra le immagini come una di loro. Spesso si ha un accenno di questo lo nei sogni in cui ci sentiamo assolutamente tranquilli in mezzo ad as­surdità e orrori che spaventerebbero a morte la co­scienza desta. L'Io immaginale si rende conto che le immagini non gli appartengono e che perfino il corpo, il sentimento, l'azione dell'Io, nei sogni, ap­partengono all'immagine onirica. Dunque la prima mossa da fare per insegnare all'Io a sognare consi­ste nell'erudirlo su di sé, nell'insegnargli che lui pu­re è un'immagine.

L'Io immaginale si costruisce, poi, sgombrando il terreno su cui poggiava, eliminando gli atteggia­menti cui accennavamo (moralismo, personalismo, naturalismo, letteralismo), che derivano dalla pro­spettiva corporea. Il vecchio Io eroico perde l'im­bottitura e torna a essere un'ombra bidimensionale. A quel punto sarà in grado di riflettere metaforica­mente le proprie imprese. E di capire che l'Io, nel sogno, è anche una figura totalmente soggettiva, un'ombra, svuotata ora dell'io che è a letto e dor­me. Il comportamento egoico, nel sogno, riflette la configurazione dell'immagine e le relazioni interne all'immagine, piuttosto che le configurazioni e le relazioni del mondo diurno.

È vero, l'Io onirico e l'Io desto hanno uno specia­le rapporto gemellare: sono l'uno l'ombra dell'al­tro, come Ade è il fratello di Zeus. Ma l'«io» prota­gonista del sogno non è affatto il segreto regista (Schopenhauer), autore del dramma in cui recita, non è affatto il fotografo autoritrattista che si foto­grafa da sotto, così come non sono i desideri dell'Io i bisogni che vengono appagati in un sogno. Il so­gno non è «mio», è della psiche, e l'Io onirico si li­mita a recitare uno dei ruoli del dramma, ed è sog­getto a quello che vogliono gli «altri», soggetto alle necessità messe in scena dal sogno.

Il fatto che il sogno sia simile a uno spettacolo di ombre cinesi, a un masque, segnala un ulteriore nes­so con il mondo infero. Una delle più antiche visua­lizzazioni della morte era quella del danzatore ma­scherato. Di nuovo, ciò che è difficile da capire è che tutte le persone del sogno, me compreso, possono essere considerate alla stregua di maschere intente a recitare il ruolo della morte. L'aspetto dionisiaco di Ade rende effettivamente il sogno affine al teatro, come aveva notato Jung. A volte, il sogno esprime questo fatto in modo esplicito: siamo spettatori e at­tori di un film, di un' opera lirica, di un corteo in co­stume, di un romanzo storico, con la sua atmosfera teatrale. Nel dramma dei nostri sogni, tutti noi, an­che se facciamo parte del pubblico, siamo sulla sce­na, attori tutti quanti, tutti quanti persone oniriche, con indosso la maschera adatta al personaggio che dobbiamo impersonare, conforme al modo in cui dobbiamo recitare.

Questa è un'idea difficile da afferrare. C'è un qualcosa che, perfino nel sogno, si tiene aggrappato all'« io» del mondo supero: d'accordo, gli altri non sono le stesse persone che nella vita, ma io ... io sono io! Sarei forse una maschera incarnante un nume archetipico, quando, in un sogno, me la prendo con il benzinaio che fa traboccare il mio serbatoio, men­tre porto i vestiti a lavare a secco? E comunque, quello che ha avuto l'orgasmo, durante un sogno erotico, sono io, lo stesso io che si sveglia nel letto bagnato. Ma se vogliamo seguire Jung (p. 80) fino a «ben altre profondità che non quelle intuite dal co­siddetto senso comune», allora perché fare eccezio­ni quanto al tipo di sogno o di personaggio del so­gno? Siamo obbligati a dichiarare che tutti i sogni provengono dal mondo infero e che tutti i loro per­sonaggi sono ombre. Dobbiamo anche cercare il nu­men presente nell'Io onirico. AlI'«io» che si sveglia e ricorda rimangono tracce di ogni sorta, non solo le polluzioni notturne, del dramma in cui ha recita­to e del ruolo che ha impersonato, sennonché l' «io» che ricorda prosegue la sua esistenza in un luogo diverso, forse addirittura in una persona di­versa. Così come libera le ombre di mio fratello e di mio padre dalle loro incarnazioni terrene, allo stes­so modo il sogno scioglie l'Io onirico dalla necessità di incarnare l'Io desto e di agire in suo nome. Nei sogni, tutte le persone, me compreso, sono morte alla propria vita, sono ombre di quello che sono al­trove. Perfino i loro orgasmi appartengono alla ter­ra dei morti.

 

 

 

l'io onirico: tipi di anima

 

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In queste pagine cerchiamo, al modo nostro e per mezzo del sogno, di ripristinare un'idea dell'a­nima tuttora diffusa presso i popoli cosiddetti primitivi (chiamati anche pretecnologici, animistici o del quarto mondo, e così via. Ma si potrebbe anche dire che sono scampati alle dottrine dell'anima, del­la persona e dell'Io legate alla psicologia monistica della cultura degli invasori).

Secondo una scuola scandinava di ricerche etno­logiche sull'anima (Arbman, Paulson, Hultkrantz), in tutto il mondo è diffusa l'esperienza di due tipi di anima, esperienza che non solo è documentata in culture evolute come quelle della Grecia omerica, dell'antico Egitto (Ka e Ba), della Cina (hun e p'o), ma è viva ancora in questo secolo presso popolazio­ni che si estendono da un capo all'altro dell'Asia continentale, dalla Lapponia, sulle coste dell'Atlan­tico, alla Siberia, di fronte all'Alaska, nonché presso gli indiani d'America." Esperienze analoghe sono state riscontrate da Ankermann presso popolazioni africane.

Questo «pluralismo duale» dell'anima, come lo definisce Paulson, riguarda da un lato la anima-vita, che è plurale, in quanto variamente associata con parti del corpo ed emozioni, ed è perciò detta an­che « anima-corpo », « anima-respiro» e « anima­io »; dall'altro si riferisce alla anima-libera o anima-­psiche (il termine è di Arbman), che si manifesta co­me «anima-ombra», «anima-spirito», «anima-mor­te », «anima-immagine» (Ankermann) e «anima-so­gno »; Come scrive Arbman, «l'anima-corpo (o le anime-corpo) e l'anima-psiche sono indipendenti l'una dall'altra, hanno natura e origine diverse, nonché compiti e sfere d'azione diversi ». L'anima-­psiche, scrive Paulson, «compare solo fuori dal cor­po» e, essendo limitata a questa forma di esistenza, «non entra in gioco negli stati in cui l'individuo è desto, cosciente e attivo ». Negli stati di veglia, l'a­nima-psiche è completamente passiva e non rappre­senta la personalità, come invece fa durante i sogni, le visioni e le trance sciamaniche. Le relazioni del­l'anima-psiche, o anima-libera, con la morte di un individuo e con i morti, con le sue malattie e il trat­tamento di queste, con le ombre e gli spiriti, con il nome e l'effigie di una persona: tutti questi aspetti ne fanno un concetto estremamente pertinente e preciso per quelle che qui abbiamo chiamato le per­sone del sogno e in particolare per l'Io onirico .

L'idea di «Io onirico » e «Io immaginale» che sia­mo venuti elaborando in queste pagine rimanda al­l'anima-psiche dell'esperienza primitiva. L'altra prospettiva, la coscienza desta del mondo diurno, corri­sponde invece a ciò che questa scuola di etnologia chiama anima-vita, anima-corpo, anima-Io. Il trattino tra i due termini di ciascuna coppia serve a ri­cordarci che anche l'Io è un 'anima. Come sarebbe di­versa la psicologia, se l'Io fosse sempre unito da un trattino con l'anima! L'anima-Io, intesa come ani­ma-corpo, può essere senza difficoltà messa in rap­porto con la muscolare nozione freudiana di Io e con la mia frequente metafora dell'eroe e di Eracle. Anche la mia contrapposizione, che vedremo più avanti in questo capitolo, tra la prospettiva corporea di Eracle e quella di Narciso, ispirata all'immagine e alla morte, può essere messa a confronto con le pro­ve portate dall'etnologia.

Ma soltanto messa a confronto! Non vorrei che la ricerca etnologica fosse presa come la convalida universale della mia tesi. E una via per la quale la psicologia del profondo è già passata: già due volte il tentativo di accreditare con la prova dell'universa­lità una metafora fondante ci ha portati fuori stra­da. I freudiani hanno usato l'etnologia per dimo­strare l'universalità del loro complesso di Edipo, e gli junghiani per dimostrare l'universalità del moti­vo della quaternità espresso nel mandala. Noi pos­siamo evitare di percorrere questa strada, nonostan­te la sicurezza che dà: quale anima-vita, dopo tutto, non tirerebbe un bel sospiro di sollievo nel sentirsi sostenuta dalle solide prove positive raccolte da seri ricercatori indipendenti in remoti angoli del mon­do, dove i bravi indigeni non avevano mai sentito una parola di psicologia moderna (a parte i discorsi di quegli strani tipi della missione scientifica)? No, noi dobbiamo restare dentro i confini della psicolo­gia del profondo. È l'anima l'unico fondamento del nostro campo. Quelle importanti prove etnologi­che, benché riguardino tutte l'anima, sono presen­tate nel linguaggio positivo, oggettivo della coscien­za diurna e quindi non possono costituire la base di una psicologia del mondo infero. Noi dobbiamo ri­manere fedeli all'anima-sogno e guardare le cose al­la sua maniera. Allora potremo usare le ricerche, non già letteralmente, come supporto empirico, ma come similitudine, come analogia, come un'altra maniera per dire quello che stiamo dicendo, come un racconto di grande utilità.

Anche la mia teoria del sogno, con il suo fonda­mento nei mitologemi del mondo infero, «non è al­tro» che un utile racconto, ma con un qualcosa in più, che fa la differenza. Le immagini mitiche non costituiscono la solida prova di alcunché di positivo; non possono addossarsi strutture sistematiche: non restano ferme abbastanza a lungo e sono troppo ambigue; insomma, quand'anche il loro contenuto mostrasse esseri celesti in un empireo solare, sono fenomeni appartenenti in tutto e per tutto al mon­do notturno. Ed essendo fenomeni del mondo not­turno, offrono profondità e retro terra, una dimen­sione psichica che svuota, anziché confermarla, qualsiasi asserzione positiva. Il sostegno che posso­no eventualmente offrire a una realtà positiva consi­ste nel fornirle il suo retroterra nella fantasia.

Va osservato, a questo proposito, che la teoria del­le due anime e la nostra descrizione non coincido­no del tutto. La teoria delle due anime sembra tracciare una rigida linea di demarcazione tra la psiche e la vita, e anch'io in molte occasioni ho fatto lo stesso. Può darsi, tuttavia, che una convergenza sia possibile e che abbia luogo, appunto, nel sogno, perché nel sogno il mondo diurno sembra essere sottoposto a un processo che porta gli eventi fuori dalla vita e educa il sognatore alla morte. Questo non è definire il sogno un ponte; è dire, piuttosto, che esiste un'operazione, che chiamiamo sognare, la quale rende l'Io eroico un corpo più sottile, dan­dogli la possibilità di diventare un'anima-libera. Vi­sto da una prospettiva, è come se l'atto di sognare li­berasse l'anima-psiche, o anima-libera, dalla sua er­ronea convinzione di appartenere alla vita. Da un altro punto di osservazione, è come se sognare con­tribuisse a spingere l'anima-Io, o anima-corpo, in una dimensione più profonda, più psichica. Co­munque vogliamo formulare questo processo, il so­gno è il luogo più prossimo e abituale in cui possia­mo esperire il gioco sottile tra tipi diversi di anima.

Anche le situazioni in cui ci si deve presentare da­vanti a un pubblico, forse perché ci immettono nel mondo infero del teatro, costellano il curioso gioco reciproco tra anima-vita e anima-immagine. L'espe­rienza del trac da palcoscenico, così vicina alla sper­sonalizzazione, ci fa sentire come se l'anima ci aves­se abbandonato. Tutto quello che si è memorizzato e imparato di colpo è svanito. E come se fosse un al­tro, un'altra anima, a dover interpretare la parte, e il momento di salire sul palco è una sorta di rite de passage, una transizione nella morte.

Poiché l'Io diurno fa riferimento al livello ogget­tivo, il suo fantasma, l'Io onirico, si trova general­mente spaesato nel mondo infero; continua a reagi­re con gli atteggiamenti appresi nel mondo di so­pra. Nei sogni, fuggiamo se qualcuno ci insegue, cerchiamo di non farci imbrogliare, maltrattiamo gli animali, corriamo verso la luce, temiamo le situa­zioni grottesche, siamo sospettosi verso ciò che è strano; troviamo sempre nuove «ragioni» per abbandonare le ombre. (Per «ombra», non intendo qui le confrontazioni morali a cui si riferisce Jung con questo termine; intendo le altre figure impor­tanti del sogno, che l'Io onirico fraintende e a cui resiste, e che potrebbero essere suoi mercuriali maestri).

Di solito occorre una lunga pratica di analisi dei sogni, prima che l'Io onirico cominci a comportarsi come un familiaris del mondo infero e a seguire le sue leggi, che sono diverse da quelle del mondo su­pero. Nei sogni, niente può essere preso secondo le leggi della natura, niente può essere ricondotto a lassù: non c'è ritorno al sopra. Dai sogni non si pos­sono trarre previsioni fauste o infauste, perché nel mondo infero, dove ogni sogno è comunque un desiderio che si autoappaga, la speranza è una catego­ria estranea, non pertinente. Niente può essere in­terpretato in senso compensatorio, perché la com­pensazione non fa che riflettere il sogno nello spec­chio del mondo diurno, come se il mondo onirico non avesse un'intenzionalità propria e fosse invece legato a doppio filo a un mondo diurno, nell'inte­resse dell'idea che il mondo diurno ha di equili­brio.

Il ruolo dell'interprete dei sogni consiste nell'aiu­tare l'ombra-Io a adattarsi al suo ambiente infero. L'interprete è una guida, come Virgilio, o un Tire­sia, o un Caronte; non è un Eracle né un Orfeo. La sua opera è al servizio di Ermes ctonio o di Ermes psicopompo, in conformità con la direzione a senso unico verso il basso. Ermes accompagna le anime agli inferi; l'eroe, alle spalle dell'Io, cerca di ripor­tarle indietro.

Di conseguenza, il movimento che dall'interpretazione soggettiva riconduce al mondo diurno, in ri­sposta a domande come: «Che senso ha questo nel­la mia vita quotidiana? », «Cosa devo fare? », «Come influisce questo sui miei rapporti con le persone le cui immagini sono apparse nel mio sogno?», cioè la lettura del sogno in cerca di informazioni sul mon­do diurno, equivale ad avvicinare il sogno attraverso il mito dell'eroe e non attraverso la prospettiva del mondo infero. Anche l'approccio divinatorio all'interpretazione, che legge i sogni come se contenesse­ro «messaggi del Sé inconscio», ricchi del suo sape­re eterno, in ultima analisi riconduce il sogno all'Io diurno. A chi è rivolto infatti il messaggio, chi vuole conoscerlo, chi lo metterà in pratica, se non il solito vecchio Io? In breve, un sogno ci dice dove siamo, non che cosa fare; ovvero, situandoci nel luogo in cui siamo, ci dice che cosa stiamo facendo.

Se solo tenessimo sempre presente l'affinità del sonno con la morte, forse smetteremmo di voler ri­chiamare alla vita e applicare nella vita ogni sogno. Un aspetto essenziale delle tradizioni antiche, com­prese quelle cosiddette primitive, è l'idea che du­rante il sonno l'anima si separi dal corpo e si metta a «vagare». Questo «vagare» dell'anima significa che la sua logica non procede linearmente, per pas­si successivi, e che la sua attenzione non si fissa sugli scopi del giorno. Plotino (Enn., II, 2, 2) associava al corpo (all'anima-corpo), non alla psiche (all' anima-­psiche), la modalità del moto rettilineo e mirato. Durante il sonno, l'anima si muove in maniera di­versa, un po' secondo lo stile della phantasia, che nel pensiero greco era spesso associata al «di-vaga­re »; ovvero, secondo Platone nel Timeo, «vagare» potrebbe significare essere mossi da urgenze dell'a­nima non soggette alla ragione. Non stupisce che i sogni siano sempre stati considerati misteri o addi­rittura follia.

La credenza secondo la quale durante il sonno l'anima vola lontano dal corpo è un altro modo di affermare che i sogni abbandonano la prospetti­va letteralistica e naturalistica dell'anima-corpo. Se questo è vero, allora cercare di afferrare i sogni con tecniche proprie del corpo e applicare le immagini oniriche direttamente alla relazione tra corpi si­gnifica ignorare le loro di-vagazioni. Le terapie che aggrediscono i sogni secondo il linguaggio del corpo, facendo riferimento all'Io corporeo e alla vita fisica, vogliono immettere a forza l'anima-libera in prospettive che il sonno invece le consente di ab­bandonare. L'elemento chiave, qui, è la non-dire­zione: se durante il sonno l'anima, lasciato il corpo, si mette a vagare, allora il nostro modo di far torna­re l'anima alla vita concreta deve seguire il medesi­mo percorso ondivago, un girovagare indiretto, un disorientamento riflessivo, un metodo che non tra­duce mai la follia ma dialoga con essa nella sua lin­gua, la lingua del sogno.

L'anima-Ba «gode di illimitata libertà di movi­mento ». Deve avere potestà sulle proprie gambe e piedi e agire con le proprie braccia e mani: così era dipinta l'anima infera durante il Nuovo Regno. L'anima si regge sui propri piedi, possiede arti pro­pri e maneggia le cose a modo proprio: l'anima si muove per mezzo del suo corpo-anima. La follia ini­zia quando pretendiamo di immettere le sue gambe nelle nostre e di applicare direttamente ai nostri compiti diurni le sue mani. Giustamente questo si chiama acting out, agire l'interno all'esterno. La per­dita dei movimenti sottili del corpo-Ba nel grossola­no corpo muscolare è una follia erculea.

 

 

 

l'io onirico: eracle nella casa di ade

 

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Per comprendere il lato di sotto delle cose, Eracle è dovuto letteralmente impazzire, forse perché la sua discesa all'Ade era stata un disastro. Nelle im­magini di Eracle nella Casa di Ade (Euripide, Alcesti, 846-54; Omero, Iliade, V, 397-400 e Odissea, XI, 601- 26; Apollodoro, II, 5, 12) - con quell'aggressività quando sguaina la spada, tende l'arco, ferisce Ade alla spalla, sgozza armenti, spezza le costole al man­driano, strozza e incatena Cerbero - è rappresenta­to il paradigma immaginale dell'istinto di vita, come lo ha definito Freud, dentro il regno dell'istinto di morte (rs, p. 520). Precisamente da tale fusione, se­condo Freud, ha origine l'aggressività (APP, pp. 235- 36; opere, X, p. 10). Anziché morire metaforicamen­te, ammazziamo letteralmente; negando la neces­sità di morire, attacchiamo la morte stessa. La no­stra civiltà, con i suoi monumenti agli eroi, i suoi tri­buti alla vittoria sulla morte, nobilita l'Io erculeo, il quale non sa come ci si deve comportare nel mondo infero.

Eracle si distingue dagli altri eroi, i quali, come scrive Kerényi, « erano tragicamente connessi con la morte ». L' « Io eroico», nel senso in cui uso il ter­mine in questo libro, andrebbe più propriamente differenziato come «Io erculeo», perché solo Era­cle, tra tutti gli eroi, è nemico della morte. Il mio uso del termine, tuttavia, ha una sua giustificazione, perché l'eroe di allora, in un mondo di Dei viventi, e l'eroico di oggi sono due cose molto diverse, ben­ché il secondo discenda dal primo. Mentre nell'an­tichità l'eroe era metà uomo e metà dio, quando gli Dei sono morti, egli diventa fin troppo umano: la porzione divina è assunta completamente in quella umana, e il risultato è la figura fondante dell'uma­nismo, con il suo culto dell'uomo.

Allora l'eroe era in realtà una figura del mondo intero, noto soltanto nel suo tumulus, che segnalava la sua tomba e che lo legava a un luogo preciso, sic­ché il culto dell'eroe era una reminiscenza di lotte immaginative, un modo, basato sulla memoria, di essere fondati, situati e accompagnati nelle vicissitu­dini della vita. Il termine stesso, heros, eroe, è consi­derato « ctonio» da taluni studiosi, in quanto deno­tante una potenza del mondo sotterraneo, da cui « l'uso comune del termine, nel greco tardo, per in­dicare un defunto» . La cerimonia sacrificale in onore dell' eroe aveva un carattere malinconico e differiva nei particolari dalla thysia riservata agli Dei maggiori, mentre aveva in comune con i riti in ono­re dei morti il basso altare di pietra per i sacrifici, la liturgia e il canale di scolo per far defluire il sangue sotto terra, sopra il quale veniva tenuta la vittima, a testa in giù.

Oggi, distaccato da questo retroterra psichico, l'e­roico diventa lo psicopatico: un'esaltazione dell'a­zione per l'azione. Il locus del suo culto non è il tu­mulo sopra il quale è fondata la città con le sue isti­tuzioni, ma il corpo stesso dell'uomo, l'Io umanista. Quand'anche questo Io sia nobilitato dalla missione di eroe solare o eroe culturale sul piano elevato del­le buone opere, se manca l'altra metà dell'eroe (gli Dei e la morte) e se manca quella scia psichica che àncora ciascuno al suo profondo, come la forma ctonia di serpente che gli eroi avevano in passato, «le leggende degli eroi diventano cronache di uo­mini bellicosi». In Macedonia, Eracle stesso era chiamato aretos, «il Bellicoso»." Precisamente qui sta la causa della mia foga e la ragione del mio at­tacco contro l'Io eroico. L'eroe archetipico conti­nua a esistere, perché gli Dei di cui è per metà com­posto non muoiono. Tutti gli Dei sono all'interno, come ha detto Zimmer e come ha scoperto Jung studiando i complessi dei suoi pazienti. L'eroe esiste ancora nel suo tumulo sepolcrale, che oggi è l'uma­no complesso dell'Io. Questo è il locus immutabile in cui lo veneriamo e da cui deriva la forza dell'Io. La psicologia dell'Io è la forma contemporanea del culto dell'eroe. Alla fine Eracle è divorato dal fuoco. Le leggende dell'Io, che oggi chiamiamo psicolo­gia, non si stanno forse trasformando in cronache di uomini bellicosi? La psicologia dell'Io non ci tra­scinerà nella guerra e nel fuoco?

La mitologia lascia aperto il problema se Eracle fosse mai stato iniziato ai grandi misteri eleusini, il che avrebbe comportato una modificazione della coscienza, dalla vita del mondo diurno alla morte del mondo notturno. Questa iniziazione ha rap­presentato un problema così importante nel mito di Eracle, perché gli altri eroi non erano nemici della morte. A giudicare dal suo comportamento nel mondo infero, tuttavia, si direbbe che l'iniziazione, se mai era avvenuta, non sortì alcun effetto. Per noi, questo significa che il nostro Io eroico non è stato iniziato e che la nostra discesa nel sogno, ogni not­te, è una forma di iniziazione. Questo comporta un capovolgimento radicale della teoria: il sogno non è una compensazione ma un'iniziazione. Non com­pleta la coscienza egoica, ma la svuota.

Perciò è molto importante il modo in cui compia­mo la discesa. Odisseo ed Enea, come abbiamo os­servato sopra, la compiono per imparare dal mondo infero, e questo opera una re-visione della loro vita nel mondo supero. Eracle, invece, ci va per portare via e persiste nelle muscolari reazioni del mondo supero, vuole verificare la realtà di ciascun fantasma, come quando, alla vista della Gorgone, sguaina la spada ed Ermes gli deve spiegare che è un'immagi­ne. Le ombre stesse erano fuggite al suo arrivo, di­leguandosi come i sogni dalla mente diurna. Dice Freud (SMTS, p. 100): «Porremo l'esame di realtà tra le grandi istituzioni dell'Io », e spiega in che cosa consiste questa verifica come se avesse appena finito di leggere la storia di Eracle nell'Ade (ibid., p. 99): «Una percezione che è fatta scomparire mediante l'attività motoria è riconosciuta come percezione esterna, come una realtà; ove tale attività non incida su di essa, ciò significa che la percezione ha avuto origine all'interno del soggetto ... non è reale »; Nel medesimo capoverso apprendiamo che il procedi­mento di verifica per distinguere tra esterno, reale, e soggettivo, non reale, passa per le «azioni dei mu­scoli», Una coscienza che operi secondo questa mo­dalità definisce realtà soltanto ciò che reagisce alla potenza muscolare; l'immaginazione soggettiva semplicemente non è reale. Ma poiché esiste comun­que ed è pure fastidiosa, l'individuo, dice Freud, de­ve «proiettare, cioè trasferire all'esterno, tutto ciò che dall'interno gli causa fastidio».

In un altro passo, Freud propone una nuova ver­sione di Eracle nel linguaggio della psicologia, di­cendo (Opere, VIII, p. 15): «Immaginiamo di trovar­ci nella situazione di un organismo vivente quasi del tutto inerme, ancora privo di un orientamento nel mondo e sottoposto alla pressione di stimoli ... [Eracle nel mondo infero]. Un tale organismo [Eracle] sarà presto in condizioni di compiere una prima discriminazione e di trovare un primo orien­tamento. Da un lato individuerà taluni stimoli che possono essere evitati grazie all'azione dei muscoli: questi li ascriverà a un mondo esterno; dall'altro av­vertirà anche stimoli nei confronti dei quali una ta­le azione è vana [la testa della Gorgone] e la cui pressione non è da essa in alcun modo alleviata: questi stimoli sono indizi di un mondo interiore ... l'organismo vivente [Eracle] avrà in tal modo sco­perto nell'efficacia della propria attività muscolare un criterio per discriminare tra un "fuori" e un "dentro"».

«È conveniente agire e parlare come uomini dormienti» ha detto Eraclito (fr. 73/A 96). Ebbe­ne, forse nella vita notturna è sconveniente agire e parlare come uomini desti. La distinzione va man­tenuta, ma Eracle non sa vedere la differenza, per­ché sembra incapace di immaginare (ha già ucciso le belve immaginarie, le forze animali dell'immagi­nazione; ha spazzato via lo sterco dalla casa degli animali, dove l'immaginazione prolifera nella pu­trefazione) .

Nel mondo infero il cattivo è l'Io eroico, non A­de. E l'Io a provocare il danno, come aveva avuto modo di commentare, molto tempo fa, il romantico Steffens: «E la coscienza vigile attiva nel sogno a ridurre e contrastare il vero sogno interiore, la pro­fonda riflessione dell'anima sulla ricchezza nascosta della sua intima esistenza; allo stesso modo, il sogno turba la coscienza vigile durante il giorno».

Possiamo scoprire l'eroe che è in noi quando, in un sogno, l'Io si comporta aggressivamente nei con­fronti di ciò che trova sospetto, poco familiare o au­tonomo (gli animali). Anche l'intensificarsi dell'at­tività ce lo può rivelare: correre, cambiare scena, passare al compito successivo, muoversi velocemen­te nello spazio su mezzi di locomozione. I miti dico­no che nel mondo infero non è lecito usare la spa­da; con le ombre si può soltanto lottare corpo a cor­po o scagliare pietre. Nell'immaginazione omerica, Ade non interviene mai attivamente. Accoglie le anime che arrivano e la mitezza, dice Kerényi, è il suo tratto caratteristico. Nell'Attica del IV secolo le scene raffiguranti il culto dei morti sono soffuse di pietas e di raccoglimento, e «non vi è spargimento del sangue degli animali sacrifìcali».

Non bisogna sottovalutare la propensione di Era­cle alla violenza. Arrivato nell'Ade, vorrebbe dare al­le ombre il sangue che esse chiedono: vorrebbe re­stituire loro il thymos, liberarle dalla psiche per muo­verle all'azione, un'azione la cui natura è rivelata dalle sue (sgozzamento del bestiame). Il suo culto aveva a che fare con il sangue per più di un verso . La ragione principale per escludere una sua inizia­rione ai misteri eleusini, dice Kerényi," era la gran­de quantità di sangue che rendeva impure le sue mani, e Farnell" scrive: «Essendo un semidio parti­colarmente virile, egli prediligeva il sacrificio cruen­to di animali maschi, specialmente il bue o il toro, il cinghiale e l'ariete ... poteva accontentarsi dell'of­ferta di galli, perché il gallo è un volatile che ama combattere ». E Luciano precisa: «Questo dio è un mangiatore di carne di manzo».

Forse le psicologie centrate sulla terapia dell'azione (i cosiddetti trattamenti validati empiricamente, o EST, prendere a pugni il cuscino, urlarsi addosso tra coppie; il controllo progressivo dei muscoli della terapia comportamentale, il lavoro sui muscoli del­l'energica Ida Rolf e del mite Reich, nonché le scuo­le orientali di violenza disciplinata) rappresentano un modo per affrontare il problema di Eracle il For­te, Eracle il Bellicoso. Sono terapie dell'Io, e se è lì che sta la malattia, va benissimo puntare sul luogo patologizzato. Ma soltanto quando miriamo più in profondità, a un collegamento con il sogno che sia esterno all'Io, simile al modo in cui nel mito l'eroe è collegato con gli Dei e con la morte, solo allora stiamo davvero smuovendo il complesso dell'Io. Al­trimenti la terapia diventa l'ennesima impresa del mangiatore di manzo, una nuova tecnica muscolare per padroneggiare la vita; e una volta di più l'immagine va perduta nell'azione.

L'iniziazione dell'Io eroico (imparare a compren­dere il sogno in modo metaforico) non è semplice­mente un «problema psicologico», riservato alle sottigliezze della seduta terapeutica. E un problema culturale di vasta portata e decisivo. L'eroe culturale Eracle, compresi tutti i nostri minierculei Io che imitano quel semidio, diventa un killer quando si trova in mezzo alle immagini. L'immagine lo rende pazzo, o meglio evoca la sua pazzia, perché la realtà su cui poggia la salute mentale eroica è quella che può essere afferrata, colpita con una freccia o pesta­ta con una clava. Reale equivale a corporeo. Perciò l'eroe aggredisce l'immagine, scacciando la morte dal suo trono, come se per l'Io il riconoscimento dell'immagine comportasse la morte. L'Io eroico letteralizza l'immaginale. Poiché gli manca l'intelli­genza metaforica che si acquisisce lavorando con le immagini, sbaglia le mosse e quelle che fa sono vio­lente.

Eracle nell'Ade ci insegna che la prima mossa dell'assassino è l'iconoclastia. Non a caso la nostra cul­tura ha bisogno della remora del sesto comanda­mento (non uccidere), quando la possibilità dell'as­sassinio è già implicita nel secondo (non fare imma­gini). Se non si riconosce la potenza divina nelle im­magini, che cosa potrà frenare il letteralismo del­l'Io, se non le proibizioni morali? Senza intelligenza metaforica, ciascuna cosa è soltanto quello che è e va affrontata al livello più semplice, più diretto. Al­lora ogni cosa è un invito all'azione, e allora ecco l'eroe, pronto a realizzarsi in una realtà che è al ser­vizio della concezione letterale che lui stesso ne ha. Una visione della realtà che non ne riconosce altre è, come sappiamo, delirante. Nel caso dell'Io eroi­co, il delirio è la autodivinizzazione, la prospettiva dell'Io umano come realtà superiore, anzi unica. Il resto non è reale.

Senza intelligenza immaginale dobbiamo aspet­tarci la violenza omicida, quasi che la nostra cultura non possa spogliarsi dell'Io del Far West, finché non abbia ripristinato l'antica sensibilità per l'immagine e recuperato l'immaginale dai cocci del letteralismo moralistico. Ora come ora, non c'è nulla tra uomo terreno e Dio celeste, tra Io corporeo e Sé astratto, o tra fatto concreto e mera fantasticheria. In quel niente intermedio, nel paesaggio senza confini del «come se », nel metaxy dove l'immaginazione della psiche configura le sue fantasie, irrompe spavaldo l'Io con il suo fucile e la sua Bibbia, affrontando le immagini come se fossero demoni o allucinazioni costruendo su quello che chiama il territorio selvag­gio dell'inconscio la sua civiltà egocentrica e una psicologia a essa conforme, priva di anima.

Sì, oggi si parla tanto, con preoccupazione, del rapporto tra la violenza alla televisione e la violenza nelle strade, ma le ragioni di questa confusione tra immagine e atto, e in particolare della violenza del­l'atto quando si smette di creare immagini, affondano le loro radici nella base stessa della nostra tradizione. Il primo assassinio fu divino e riguardò l'im­magine; la sua conseguenza diretta si ebbe nel pri­mo atto dell'uomo dopo l'uscita dall'Eden, che fu un omicidio (essendo creati a immagine e somi­glianza del divino, possiamo solo fare ciò che gli Dei immaginano per noi nel loro comportamento). Questa confusione tra immaginare l'azione sullo schermo e agire l'azione nella strada trova ultenore santificazione per opera di Matteo (5, 28), il cui Vangelo nega la distinzione tra l'immagine dell'a­dulterio nel cuore e la sua attuazione nella carne. L'attività immaginativa non può che essere proibita, quando è intesa in modo letterale, come qualcosa che non differisce affatto dall'azione. Prendere le im­magini letteralmente, con il medesimo tipo di realismo che l'Io usa nel mondo diurno: ecco l'errore eroico, un errore di proporzioni erculee, cui è stata inoltre conferita la benedizione giudaico-cristiana dei mo­niti contro demoni, sogni, icone e ogni sorta di immagini dell' anima.

Ogni mattina, replichiamo la nostra storia occi­dentale, ammazzando il nostro fratello sogno, uccidendo le sue immagini con concetti interpretativi che spiegano il sogno all'Io. E l'Io, davanti all'im­mancabile tazza di caffè (un rituale di magia simpa­tica), scaccia le ombre della notte e rafforza il suo dominio. Nessuno scorge il marchio di Caino im­presso là dove potrebbe essere il terzo occhio.

Per noi, la regola aurea, quando si toccano i so­gni, è di mantenerli in vita. Il lavoro onirico è con­servazionista. E noi dobbiamo lasciare da parte le nostre abitudini naturali: proiettare il sogno nel fu­turo, ridurlo al passato, ricavarne un messaggio. Queste mosse provocano, in cambio di questo o quel ricavo, la perdita del sogno. Conservazione si­gnifica attaccarsi a ciò che è, e addirittura presume­re che ciò che è sia giusto. Di conseguenza tutto ciò che è nel sogno è giusto, tranne l'Io. Tutto, nel so­gno, sta facendo quello che deve fare, seguendo la necessità psichica lungo il tragitto tortuoso ddi suoi scopi; tutto, tranne l'Io. Il fiume deve essere in sec­ca, il ponte deve avere quell'altezza, l'albero deve essere sradicato, il cane investito, tra gli ospiti ci de­ve essere un avvelenatore, il dentista deve estrarre tutti i denti: soltanto il comportamento dell'Io risul­ta sospettabile. L'Io tende a fare la cosa, sbagliata e a dare valutazioni sbagliate, perché non è del posto, è appena arrivato, e non è capace di vedere nel buio.

Come fa Ermes con Eracle, trattiamo l'Io onirico come se fosse un apprendista che sta cominciando a familiarizzarsi con il mondo infero imparando a so­gnare e imparando a morire. Lui vorrebbe rimane­re aggrappato al fisico, all'aspetto shtula (India) o molk (Iran), e reagisce in maniera letterale a ciò che è visibile, come se fosse corporeo. Non possie­de ancora la visione metaforica del sukshma o del malakut e non può vedere in trasparenza le altre figure finché non avrà imparato a lasciare che esse lo vedano in trasparenza. Richiamandoci ancora una volta a Eraclito (fr. 21/ A32), «ciò che vediamo dormendo è il sonno ». Nel sonno, non vediamo il mondo della veglia; vediamo Hypnos. Sognare è il metodo con cui l'Io impara a «vedere il sonno», Il primo compito dell'interpretazione è dunque quello di proteggere quel sonno, dove proteggere si­gnifica vedere nel sonno, risvegliare l'Io onirico dentro il suo sogno.

 

 

 

il lavoro onirico

 

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E adesso guardiamo più da vicino il lavoro che si svolge durante il sonno. Che rapporto c'è tra lavoro e sonno, e quale tipo di lavoro ha luogo nel sonno? Che cosa significa sostenere che il sogno è un lavo­ro?

Per Freud il lavoro onirico era «la parte più im­portante del sogno» (IP-NS, p. 124), e una recente indagine condotta tra analisti junghiani mostra che la stragrande maggioranza di essi considera il sogno lo strumento principale del proprio lavoro. Il lavo­ro del sogno e sul sogno è fondamentale per la psi­cologia del profondo. Ma di che lavoro si tratta e perché lo si fa?

Per prima cosa occorre dissociare «il lavoro» dal­le fatiche di Eracle e ricondurre l'idea di lavoro al­l'esempio del sogno, dove il lavoro è un'attività im­maginativa, un'opera di immaginazione, come per i pittori e gli scrittori. Il lavoro non è sempre e sol­tanto quello svolto dall'Io secondo il suo principio di realtà; c'è anche il lavoro fatto dall'immaginazio­ne secondo la sua realtà, in cui hanno parte anche la gioia e la fantasia. Su questo punto Bachelard e Jung sono guide migliori di Freud e di Marx, per­ché il lavoro inteso come attività immaginativa assu­me un significato alchemico che trascende i doveri morali di una coscienza senex. Dunque la psiche è sempre al lavoro, e ribolle e fermenta, senza preoc­cuparsi in anticipo di ciò che produrrà e sapendo che dai sogni non si ricava alcun profitto. Ma noi, accostandoci al sogno per sfruttarlo ai fini della no­stra coscienza, per ricavarne informazioni, trasfor­miamo il suo lavorio in lavoro in senso economico. Questo è capitalismo dell'Io: l'Io ora fa il capitano d'industria, che, mentre accresce il flusso di infor­mazioni, si aliena tanto dalla fonte della sua materia prima (la natura) quanto dalla sua manodopera (l'immaginazione). Risultato: le tipiche malattie dei manager; insomma, lavorare sui sogni per ricavarne informazioni non garantisce affatto la buona salute.

Nell'immaginazione non c'è separazione tra lavo­ro e gioco, tra realtà e piacere. Dunque possiamo pure lasciarci alle spalle la nozione di Homo ludens, l'uomo come animale che gioca, nonché certe re­centi filosofie del gioco, che nobilitano il Bambino e il Puer a nuove divinità della nostra epoca. Queste filosofie sono esse stesse residui ribelli dei tempi d'oro del protestantesimo, con la sua etica del lavo­ro; sfruttano ancora il contrasto tra lavoro e gioco. Ma tra il lavoro e il gioco sta l'immaginazione, che li abbraccia entrambi: in quella terra di mezzo non c'è separazione tra lavoro del sogno e gioco della fantasia.

Il lavoro onirico è opera dei complessi, come Jung aveva messo in luce già nel 1906, mostrando la relazione tra complessi e figure oniriche (Opere, XI, p. 581; cfr. Opere, VIII, p. 114). I complessi sono «il piccolo popolo» (Opere, VIII, p. 117), come i Dàttili, dita che plasmano l'argilla primordiale dell'imma­ginazione; sono gli gnomi che lavorano di notte, i fabbri del mondo infero che forgiano labirinti, gli artigiani che non smettono mai di creare forme, ov­vero, nel linguaggio di Jung, l'incessante attività del­la fantasia psichica che costruisce quella che chia­miamo la realtà (opere, VI, p. 63). I sogni sono fatti dalle persone che vi compaiono, i complessi perso­nizzati che sono in ciascuno di noi; e queste perso­ne amano uscire soprattutto la notte. Per compren­dere un sogno, dobbiamo esaminare con la massi­ma attenzione quello che queste persone hanno fabbricato e il modo in cui le loro interrelazioni hanno contribuito a ciò che chiamiamo sogno. Il so­gno è l'opera di figure della fantasia, che cesellano la psiche quando noi abbiamo gli occhi chiusi. C'è un lavoro formativo che si svolge la notte, perché, ha detto Eraclito (fr. 75/ A98) , «i dormienti sono lavoratori e collaborano alle cose che accadono nel mondo».

È tale lavoro onirico che, come ha detto Freud, protegge il sonno, unico vero scopo del sogno. Questo sonno, io penso, non è però il sonno biologi­co che intendeva Freud, ma piuttosto il sonno poe­tico che intendevano i romantici. Del resto anche Freud, secondo me, sottintendeva il sonno poetico dei romantici, tant'è vero che nel sonno vede un ri­torno al primitivo narcisismo (SMTS, p. 90), altra pa­rola presa dal mito e uno dei mitologemi preferiti della coscienza poetica. Che Narciso sia il santo pa­trono dell'immaginazione? Il suo amore fu rivolto totalmente, con totale appagamento, all'immagine riflessa che lo condusse nel mondo infero.

 

 

 

il lavoro onirico: narciso e il sogno

 

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Con il narcisismo e Narciso possiamo tentare un diverso approccio al punto più controverso, per sua stessa ammissione, di tutta la teoria dei sogni di Freud: la spiegazione generale secondo la quale «tutti i sogni sono appagamento di desideri» (IP-NS, p. 142). La critica junghiana all'ipotesi di Freud si è concentrata sul desiderio, trascurando l'appaga­mento. Essa ha detto infatti: i sogni non sono desi­deri, perché è chiaro che spesso si sognano cose lontanissime da ciò che potremmo mai desiderare. Tuttavia non ha mai indagato più a fondo sulla na­tura del sogno in quanto appagamento. Chiediamo­celo noi: se «il contenuto di un sogno è la rappre­sentazione di un desiderio appagato» (IS, p. 41), al­lora, che cos'è, di preciso, che appaga il desiderio istintuale? La risposta non può essere che una: il la­voro onirico. Le immagini create nei sogni appagano il desiderio dell'istinto. Il desiderio di Narciso fu appaga­to dall'immagine del corpo esperita nella riflessio­ne. Il suo desiderio non voleva altro.

Per afferrare tutta la radicalità di questa conclu­sione, conviene ripassare la teoria freudiana. La notte, mentre dormiamo, quando il controllo è allentato, se non esistesse nella psiche un qualche meccanismo censorio che ci consenta di seguitare a dormire, il ribollente crogiolo dell'Es, con i suoi de­sideri libidici, finirebbe per traboccare, ustionando­ci con desideri polimorfi perversi. Quel meccani­smo, che traspone gli impulsi sessuali in travesti­menti accettabili, è appunto il lavoro onirico. Esso consiste nella trasfigurazione di desideri sessuali la­tenti in immagini manifeste, le quali in parte con­sentono un certo sfogo all'Es, in parte, proteggen­daci da quello che in realtà (sul piano sessuale) sta succedendo, proteggono il nostro sonno. Dunque il lavoro onirico è così importante perché gratifica sia l'istinto sessuale, sia l'istinto del sonno: insomma, soddisfa le richieste istintuali.

Su questo punto Freud è più vicino a Jung di quello che a tutta prima potrebbe sembrare. Per Jung le immagini archetipiche sono rappresentazio­ni degli istinti, l'altra faccia degli istinti. L'immagine completa l'istinto, perché lo indirizza verso le sue mete, ovvero, nella terminologia di Freud, lo appa­ga. Dunque, per Jung come per Freud, il lavoro che ha luogo nel sonno appaga un bisogno, archetipico o istintuale. La gratificazione non avviene in virtù del significato del sogno, del suo contenuto noeti­co, giacché i sogni sono precipuamente incompren­sibili: come ha detto Freud, non sono comunicazioni. Né i desideri sono soddisfatti attraverso le emo­zioni interne e le azioni rappresentate nel sogno, ovvero non è che i nostri desideri siano soddisfatti da sogni istintuali in cui si fa a pugni, ci si accoppia, si mangia, si fugge, e simili. Sogni del genere non sono poi molto frequenti né è molto frequente che da sogni del genere ci si risvegli con un senso di ap­pagata soddisfazione. No, l'appagamento che il so­gno produce è narcisistico, appagante per Narciso. In qualche stupefacente maniera, l'istinto, nel mon­do notturno, è appagato dalle proprie immagini, immagini di se stesso, come se alla psiche bastasse vedere il proprio riflesso attraverso le immagini, co­me se le bastasse immaginare in forma poetica il proprio corpo e i propri bisogni fisici, il proprio a­more, il proprio essere.

La teoria freudiana ha un' aria così scientifica­mente biologica, che si tende a non coglierne l'a­spetto romantico. Narciso ne è la spia, come Freud stesso lascia intendere. A dispetto del fatto che un istinto carnal-glandolare esige una gratificazione della medesima natura, Freud sostiene che il pro­cesso di appagamento dei desideri istintuali è total­mente interno, completamente psichico, narcisisti­co appunto. Non è necessario alcun evento esterno: niente botte, fuga, cibo, palpeggiamenti. Il bisogno istintuale è gratificato unicamente dall'immagine, e così la psiche dorme in pace. Quello di sognare di­venta un super-istinto: oltre a soddisfare altri biso­gni istintuali, compreso il bisogno di dormire, con­temporaneamente appaga narcisisticamente il pro­prio bisogno di immagini.

Possiamo tradurre la teoria di Freud nel linguag­gio di Platone nel Cratilo (403-404): «Che cosa trat­tiene le anime nel mondo infero?» chiede Socrate («Che cosa mantiene addormentata la psiche?» chiede Freud). Risposta: il desiderio (i desideri); l'a­nima desidera rimanere nell'Ade, perché lì trova soddisfazione. E che cosa soddisfa (appaga) il desi­derio (i desideri)? Risposta: la benefica intelligenza di Ade (404a), «il suo conoscere (eidenai) tutte le cose belle », da cui il suo nome. Ade, cioè, possiede un nesso nascosto con eidos e eidolon, l'intelligenza archetipica data nelle immagini. Di conseguenza, ciò che appaga il nostro desiderio più profondo è Ade, nei cui sogni vive l'intelligenza delle idee ar­chetipiche, per vedere le quali dobbiamo essere addormentati. Sono queste immagini, queste idee visi­bili, ad appagare il desiderio dell'anima, nutrendola di intelligenza mentre affonda dentro la notte; con le parole del romantico von Baader: «Le immagini fanno bene all'anima! Sono il suo vero alimento ».

L'alimento migliore sono le immagini del mito. Questa premessa, che la psiche, e la psicologia, sono appagate nel modo migliore dal mito, la ritroviamo innanzi tutto nella consuetudine di Freud di pren­dere miti antichi per riscriverli in nuovi miti. Suc­cessivamente la troviamo teorizzata da Jung. Ma pri­ma ancora, naturalmente, era presente nei romanti­ci. I romantici riconobbero, in particolare, le analo­gie esistenti tra mito e sogno. Già von Schubert, nel 1814, aveva tracciato precisi parallelismi tra il mon­do di immagini simboliche dei sogni e quello del culto di Dioniso e dei misteri eleusini.

Benché il sogno in sé non riguardi affatto la vita di veglia (Freud, Opere, voI. X, p. 153), il lavoro oni­rico, in quanto soddisfacimento dell'istinto, avrà ef­fetti su di essa, sia pure indirettamente e anche sen­za beneficiare dei collegamenti con la vita trovati nel sogno dalle terapie al servizio dell'Io. Ma se non dipendono dai consigli ricavati dal sogno, come fan­no a prodursi questi effetti?

Se paragoniamo i sogni al mito, ai culti terapeuti­ci e ai misteri religiosi, riusciamo a comprendere come nei partecipanti subentrino cambiamenti an­che senza un diretto intervento interpretativo. Il cambiamento non dipende da quello che viene detto del sogno dopo il sogno, bensì dall'esperien­za del sogno dopo il sogno. Il paragone tra il sogno e un rito misterico ci fa capire che il sogno è effica­ce finché rimane vivo. I culti terapeutici di Asclepio si basavano sui sogni ma non sull'interpretazione dei sogni. Questo per me significa implicitamente che gli interpreti possono anche uccidere un so­gno, sicché l'applicazione diretta del sogno inteso come messaggio per l'Io è probabilmente meno ef­ficace, nel produrre un effettivo cambiamento nella coscienza e nell'influire sulla vita, di quanto non lo sia un sogno mantenuto vivo come immagine e­nigmatica. E meglio tenere per tutto il giorno presen­te ai nostri sensi interiori il cane nero del sogno che «conoscerne» il significato (impulsi sessuali, complesso materno, aggressione diabolica, guar­diano, e via interpretando). Meglio un cane vivo che un cane imbottito di concetti o sostituito da un'interpretazione.

Perché un'immagine onirica agisca sulla vita, essa deve, alla stregua di un rito misterico, essere esperi­ta come pienamente reale. L'interpretazione nasce quando abbiamo perduto il contatto con le immagi­ni, quando la loro realtà ci appare di secondo gra­do, per cui bisogna recuperarla con una traduzione in concetti. Allora cerchiamo di rimpiazzare l'intel­ligenza del sogno con la nostra, invece di parlare al­la sua intelligenza con la nostra. Le immagini, appagando l'istinto, modificheranno da sole il nostro modo di vivere, esattamente come farebbe l'appaga­mento di qualsiasi altra esigenza istintuale. Prima ancora che l'interpretazione abbia inizio, il sogno sta già operando sulla coscienza e sul mondo diurno mediante il processo digestivo, che trasforma i resi­dui diurni in sostanza animica, e con l'inserimento delle nostre azioni e relazioni nella propria fantasia onirica, facendone elementi di una narrazione, in­tessendo il mondo diurno in un'altra trama. Soltan­to i cambiamenti che avvengono nell'anima posso­no influire sull'aspetto psichico delle nostre azioni e relazioni. Altri cambiamenti, quelli che si cerca di attuare attraverso la correzione cosciente della rotta dell'Io, sono conati della volontà. Fatiche di Eracle, più che riflessioni di Narciso. Queste interpretazio­ni innestate direttamente nella vita proiettano una nuova ombra nel mondo infero, un gesto per cui occorrerà una nuova compensazione, un'ulteriore correzione espiatoria.

 

 

 

il lavoro onirico: la duplicità del sogno

 

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Le traduzioni dirette tradiscono il sogno anche in un altro senso: facendone derivare un messaggio, contraddicono la sua ambiguità. Ma che cos'è que­sta ambiguità dei sogni, sulla quale tutti gli autori amano soffermarsi? Innanzitutto bisogna dire che in genere i sogni non sono affatto ambigui nella loro attualità visibile. Le immagini si presentano In forme certe: il serpente era argenteo ed enorme e piazzato al centro del tappeto della camera da letto; il poliziotto era acquattato di fianco alla barriera, a sinistra, e teneva lo scudo davanti al corpo; ho aper­to la porta e mi sono trovato davanti Groucho Marx . Nel toccare una pelle morbida provo rabbia, paura o un desiderio travolgente; sento distintamente voci che esprimono idee, brani complessi di musica, o leggo intere frasi stampate nitide come i caratteri di questa pagina.

Dunque dobbiamo distinguere tra la concreta de­finitezza della maggior parte delle ImmagInI onm­che e l'atmosfera di vaghezza, la torbida labilità, il carattere elusivo e l'intrinseca ambivalenza che esse assumono quando il sogno è riportato in superficie alla luce del giorno. Che sia il trapasso alla luce a dare al sogno la sua qualità umbratile? Sappiamo tutti quale arte sia, non già sognare, ma ricordare i sogni.

D'altro canto, esistono anche sogni vaghi, Assu­miamo dunque la vaghezza come un fenomeno vali­do; allora opacità, elusività, equivocità, indefinitezza devono far parte della forma del sogno. In tal caso queste caratteristiche appartengono all'immagine e non sono «colpa» della coscienza diurna, non sono dovute alla sua rozza comprensione del mondo in­fero.

La vaghezza situa il sogno nella regione nebulosa: mescolanza di acqua e aria; l' opacità, mescolanza di acqua e terra. I sogni inafferrabili, che subito sfuggono, sono una rappresentazione accurata del fuo­co mercuriale; mentre certi sogni lunghi, involuti, che non si capisce dove vadano a parare, sono come labirinti che si addentrano tortuosi nella terra. Il modo in cui un sogno si presenta è già parte dell'asserzio­ne che fa, ed esprime l'appartenenza a un elemento. Perché i sogni possono avere stili diversi; apparten­gono a diversi generi letterari, si potrebbe dire. Tali generi non riflettono semplicemente differenze ti­pologiche tra i sognatori o la tendenza verso questa o quella psicopatologia, nel senso che i depressi fa­rebbero sogni laconici, gli isterici sogni espansivi, gli schizofrenici sogni bizzarri. Dobbiamo ricono­scere la molteplicità di generi dei prodotti immagi­nativi e il fatto che il lavoro onirico, al pari di qual­siasi opera di poesis (creazione di immagini con le parole), è conformato non solo dal suo contenuto ma anche dallo stile in cui lo presenta.

Questo tipo di riflessione letteraria potrebbe evi­tare a noi analisti un errore molto frequente. Quan­te volte usiamo i criteri di un certo elemento o di una certa stagione (Northrop Frye) per giudicare negativamente i prodotti di un altro elemento o di un'altra stagione. Perché non dovrebbero esistere sogni di ghiaccio, di case in fiamme, di muri che ce­dono alla forza delle acque? Chi ha detto che volare sia segno di inflazione e annegare annuncio di peri­colo? O abbiamo dimenticato che Perseo, Icaro, Bellerofonte devono tutti passare attraverso l'aria per dare un'immagine alla via che li condurrà alla meta; o che nell'alchimia solo mediante la dissolu­zione nell'acqua si ottiene la trasformazione del vec­chio re e la creazione dell'Ermafrodito? Questi con­tenuti connotanti gli elementi o le stagioni possono esprimersi anche nella fraseologia del sogno: nella sua freddezza lapidaria, o nelle sue scintille, nel suo essere intrisa di umorismo o nella sua gonfiezza iperbolica. Troppe volte, quando un sogno non si adegua allo stile che a priori e arbitrariamente ci aspettiamo dal suo materiale, noi analisti siamo pron ti a sospettare una «psicosi latente».

I sogni patetici, melodrammatici, dove tutti cam­biano sesso e identità, muoiono e ricompaiono, se­guono uno stile immaginativo acquoreo; e c'è an­che un'immaginazione di fuoco: una vampata im­provvisa, e finisce. I sogni lenti, in cui tutto sembra maturare nel calore (come i sogni che fanno a volte le donne in gravidanza), non implicano che sia in corso la guarigione o l'individuazione; questi sogni appartengono al genere estate, a quella sola stagio­ne. Lo stile può essere letto come una retorica che attiene archetipicamente alle immagini particolari di quel particolare sogno, invece che come parte di un processo generale, il quale suscita aspettative che non fanno che portarci fuori strada riguardo al materiale onirico successivo.

Parlando del materiale dei sogni (come faremo più particolareggiatamente nella prossima sezione), non si può prescindere dagli studi di Bachelard sui quattro elementi nell'immaginazione. La sua poeti­ca della materia ci aiuta a vedere come lo stile di un sogno esprima un dato elemento: fuoco, aria, ac­qua, terra. Bachelard ci insegna che lo stile, o gene­re letterario, è il contenuto onirico del tipo più ele­mentare. Ciascuno degli elementi ha molti significa­ti. Il fuoco è violenza combustiva ma anche luce ca­lore, riflessione meditativa; protegge, risveglia alla vita e purifica in vista della morte. Gli elementi dell'immaginazione, a differenza di quelli della scien­za, sono di necessità polivalenti.

L'ambiguità del sogno dipende dalla natura es­senziale dell'immaginazione, la quale, come un fiume che scorre (si veda Eraclito, frr. 12, 49,91 / A44, A46, A45), deve essere mobile: l'essenza della psi­che sta nel principio del moto; anche Aristotele l'a­veva visto. Qualsiasi immagine che può «stare per» un significato psichico subito rende statico il fluire psichico. Di questo genere sono i «segni», su cui Jung ironizza, immagini che non significano niente di immaginativo. Un sogno, per rimanere sogno (e non segno, messaggio, profezia), non può dunque avere un'unica interpretazione, un unico significa­to, un unico valore. «Nel regno dell'immaginazione non esiste valore senza polìvalenza» scrive Bache­lard. L'ambiguità dei sogni sta nella molteplicità dei loro significati, nel loro intimo politeismo, nel fatto che in ciascuna scena, figura, immagine, i so­gni esprimono una «intrinseca tensione di oppo­sti », come direbbe Jung. Una tensione, però, che trascende l'accezione di Jung; è tensione di somi­glianze multiple, di possibilità infinite, perché il so­gno è l'anima stessa, e l'anima, ha detto Eraclito, non ha confini.

L'immagine può essere netta, ma il significato avere molte facce. Per esempio, in un sogno sto cor­rendo e sono inseguito. Significa che sto correndo perché sono inseguito o che sono inseguito perché corro? Oppure significa che correre è esperienza dell'inseguimento, dunque quando corro è come se facessi un inseguimento? Un'altra immagine: sto guidando e la macchina va fuori strada, dice il so­gno con la sua forma inequivocabile. Significa che la mia guida mi manda fuori strada o che anche se tengo il volante la macchina va fuori strada autono­mamente; oppure che mando deliberatamente ma inconsciamente la mia macchina fuori strada? Che rapporto c'è tra la mia guida, la mia «pulsione», e il fatto di andare fuori strada?

La duplicità o la molteplicità non stanno nell'im­magine, che è precisa, ma nella sua significanza. Ep­pure, la possibilità di significati multipli deve risiedere nell'immagine stessa, nonostante la sua nettez­za. Anzi, dice Bachelard, la duplicità è una legge fondamentale dell'immaginazione: «... una materia alla quale l'immaginazione non possa dare una vita duplice non può svolgere il ruolo psicologico di so­stanza fondamentale. Una materia che non susciti un'ambivalenza psicologica non può trovare il suo doppio poetico, che consente infinite trasposizioni. Perché l'elemento materiale coinvolga l'anima inte­ra, è dunque necessario ci sia una doppia partecipa­zione: partecipazione di desiderio e paura, di bene e male, pacifica partecipazione di bianco e nero».

L'espressione «bianco e nero» rimanda indietro di quasi due millenni, alla descrizione di immagini classiche di Filostrato (nato verso il 191 d.C.). Nel suo libro, dove sono succintamente descritti alcuni quadri che rappresentano idee, temi e figure fonda­mentali, il dio dei sogni è ritratto in posizione eret­ta, «in atteggiamento rilassato e indossa una veste bianca sopra una veste nera».

Il problema della duplicità del sogno è qui rap­presentato in forma fantastica. Vediamo i due aspet­ti: uno sopra, uno sotto; uno bianco, l'altro nero. Il sogno, poi, ha un atteggiamento di indolente indif­ferenza nei confronti del proprio abbigliamento, come se dicesse: « Non sono io quello carico di ten­sione; io posso reggere tranquillamente tutto que­sto. Questa è la mia tenuta naturale, il modo in cui mi piace presentarmi. Se voi, interpreti e analisti, vi sentite in dovere di parlare di me come innata dua­lità, polarità e tensione, è un problema vostro»; E infatti gli aspetti « bianco e nero» e le vesti « di sopra e di sotto» gli interpreti dei sogni li chiamano po­sitivo e negativo, livello soggettivo e livello oggetti­vo, latente e manifesto, maschile e femminile, ge e chthon, porta di corno e porta d'avorio, vita e morte. E dichiarano che il nostro compito consiste nel tra­smutare il nero nel bianco, oppure nel convertire il bianco nel nero nascosto, o, ancora, nell'unire gli opposti che si compensano. Qualunque cosa faccia­mo noi, il sogno si presenta nella sua doppia veste, e afferma semplicemente che una certa ambiguità di significato è il suo abituale modo di presentarsi. Se i sogni sono i maestri dell'Io desto, questa duplicità è l'insegnamento essenziale che essi impartiscono. La dupli­cità, tuttavia, non è tanto quella del paradosso logi­co, quanto quella dell'umore ironico; non l'erme­neutica delle opposizioni, ma della burla. Non stu­pisce che i sogni un tempo si chiedessero a Ermes.

 

 

 

il lavoro onirico: i sogni, il lavoro della morte

 

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Immaginiamoci il lavoro onirico come l'attività non già di un censore, bensì di un bricoleur. I cen­sori propongono delle morali, o ci coinvolgono in una sorta di controspionaggio, con codici da deci­frare e indagini. Invece il bricoleur onirico è uno che sa fare un po' di tutto, che prende i rottami e gli scarti della giornata e si diverte a ritagliare e a incol­lare e con roba residuale costruisce un collage. Le dita che danno forma al sogno, mentre distruggono il senso originale di quei residui, contemporanea­mente li conformano secondo un senso nuovo in un nuovo contesto. Se il sogno esprime l'Es, come ha detto Freud, allora esso è al servizio dei due princìpi dell'Es, amore e morte. La morte è il robi­vecchi, che smantella il mondo alla ricerca di pezzi di ricambio, separa e distrugge le connessioni (re, p. 515) che poi l'amore (per portare avanti la metafo­ra di Freud) fonde in nuove unità. L'immaginazio­ne, di notte, estrae certi eventi dalla vita e il bricoleur al servizio dell'istinto di morte rovista e fruga tra di essi in cerca di residui diurni, trasferendo sempre nuovi cascami empirici del mondo personale dalla vita alla psiche in nome del suo amore.

L'immaginazione opera deformando e formando nello stesso momento. Bachelard ha parlato di atti­vità deformativa dell'immaginazione, quasi che la causa formale all'opera nell'immaginazione fosse il prin­cipio di deformazione, ovvero la «patologizzazio­ne» dell'immagine. L'immagine deformata, o patologizzata, è fondamentale per l'alchimia e per l'arte della memoria, due campi che hanno elabo­rato metodi complessi per fare anima. E l'immagine patologizzata, la figura bizzarra, strana, malata o fe­rita - l'elemento disgregante - che dobbiamo cerca­re nel sogno per trovare la chiave del lavoro onirico. Perché è lì che la causa formale del sogno svolge al meglio la sua opera deformativa, imprimendo il suo carattere nella plasticità dell'immaginazione.

Qualcosa (che sia la psiche stessa?) sembra chie­dere e allo stesso tempo contrastare la distorsione in forme innaturali. Da un lato c'è la psiche, che, al suo livello più infantile, Freud ha immaginato per­versa: il bambino istintuale originario è per natura contorto. Dall'altro qualcosa in noi, altrettanto profondo, non ama gli estremi, vuole rimanere nel­la fantasia dell'equilibrio e dell'armonia naturali.

L'alchimia risolse il dilemma immaginando che il proprio lavoro deformativo fosse un opus contra na­turam e tuttavia al servizio di una natura più ampia, animata, infusa d'anima. Per servire la natura, il la­voro alchemico doveva deformare la natura. Per li­berare la natura animata, doveva fare male alla na­tura naturale (bollire, recidere, scuoiare, essiccare, putrefare, soffocare, affogare, ecc.). Non appena si prende in considerazione la psiche, ciò che è sol­tanto naturale non basta più. Il fare anima è uguale a ogni altra attività immaginativa: richiede perizia, esattamente come la politica, l'agricoltura, le arti, i rapporti amorosi, la guerra o la conquista di una ri­sorsa naturale. Ciò che è dato non basta per rag­giungere lo scopo: bisogna farne qualcosa. Evidentemente nell'anima c'è un qualcosa che la vuole sot­trarre al soltanto naturale: questa distorsione la esperiamo come perversione o come i tormenti e le torture della patologizzazione, e in questo modo sia­mo costretti a cercarci tentoni una strada nel con­torto e tortuoso labirinto del fare anima. L'analisi è l'esame minuzioso di queste distorsioni e contor­sioni della nostra natura, da noi chiamate comples­si, e il suo scopo è di giungere a una lysis, a un'aper­tura. Noi partiamo dal presupposto che le patolo­gizzazioni provocate dai nostri complessi derivino da forze rintracciabili nella nostra storia; ma perché non supporre che derivino dal carattere, dalla natu­ra con la quale siamo nati? Forse che la persona na­turale non è dal principio qualcosa di complesso? E gli Dei che si vestono dei nostri complessi e parlano attraverso di essi non sono forse dal principio com­plicate figure di una tensione interna estrema?

Perciò, quando gli artefici di immagini del Rina­scimento ponevano la chiave del regno in mano a Ade-Plutone, volevano dire che la chiave di accesso ai misteri iniziatici, a tutti gli eventi nascosti dell'a­nima, è nelle mani del dio che attraverso la defor­mazione sottrae le cose alla natura e le trasferisce nella psiche. Distruzione, crudeltà, ferimenti, falli­menti, stupro del naturale e anche tutti gli eventi in­naturali che compaiono nei sogni possono essere avvicinati attraverso questa luce oscura.

Talmente necessarie all'immaginazione sono per Bachelard le immagini nuove, vitali e mobili, da in­durlo a cercare sempre l'immagine non accreditata, non statica nella sua accezione. Bachelard si chiede: « Come possiamo disincagliarla dal substrato troppo stabile dei nostri ricordi abituali? ». Come liberarla dal significato che ha assunto per noi? Una risposta possibile è la seguente: attraverso lo shock della de­formazione, in particolare della deformazione pa­tologizzata, che restituisce all'immagine la sua capa­cità di perturbare all'estremo l'anima, sicché, portan­do l'immagine all'intimità con la morte, simultanea­mente la fa rivivere. E infatti il sogno sconvolgente, di cui l'incubo è il paradigma, quello che ricordia­mo meglio, quello che più di tutti stimola la memoria dell'anima.

Il lavoro sul sogno ricalca il lavoro del sogno. La­voriamo sul sogno non già per sbrogliarlo, come vo­leva Freud, per disfare il lavoro onirico di disfacitu­ra, bensì per rispondere al suo lavoro con la somi­glianza del nostro, attenti a parlare sempre come il sogno, a immaginare sempre come il sogno. Il lavo­ro sui sogni non esclude l'analisi; piuttosto, l'analisi è posta al servizio di un altro principio archetipico ed è condotta con un atteggiamento diverso dal consueto. Analisi significa ovviamente operare se­parazioni e differenziazioni; il sogno viene aperto, smontato, violato, anche, e questo è il necessario la­voro distruttivo dell'intelletto e del sentimento di­scriminante. Ma adesso l'archetipo al cui servizio si pone l'analisi del sogno non si limita a «portare alla coscienza», dove coscienza equivale a luce solare; adesso questo lavoro analitico distruttivo lo possia­mo riconnettere a Ade, il quale penserà a espunge­re la vita da tutte le nostre premesse naturali, da tut­te le nostre previsioni futuristiche; oppure lo possia­mo riconnettere al bricoleur e alla sua ermetica de­strezza di mano, che le cose che vogliamo tenerci strette le ruba.

La scomposizione in parti propria dell'analisi è una cosa diversa dall'interpretazione concettuale. Si può avere analisi senza interpretazione. L'interpre­tazione trasforma il sogno nel suo significato; la tra­duzione prende il posto del sogno. Invece la disse­zione incide la carne e le ossa dell'immagine, esami­na il tessuto delle sue connessioni interne e ne toc­ca uno a uno tutti i pezzi, ma intanto il corpo del sogno è sempre lì, sul tavolo. Non ci siamo chiesti che cosa significa, bensì chi è, che cosa è, come è.

Adesso, inoltre, possiamo considerare la nostra resistenza a sognare come una resistenza nei confronti di Ade insita nella nostra natura «naturale », Non riusciamo a ricordare i sogni, li confondiamo, dimentichiamo di annotarli, oppure li trascriviamo in modo indecifrabile, portando a giustificazione la loro ben nota elusività. Eppure, se ciascun sogno è un passo dentro il mondo infero, allora ricordare un sogno è ricordarsi della morte e spalanca un abisso spaventoso sotto i nostri piedi. L'alternativa (amare i propri sogni, attendere con impazienza il successivo), che si ritrova nella psicologia entusiasti­ca del Puer, mostra fino a che punto questo archeti­po sia innamorato della dolce morte e cieco riguar­do a ciò che sta sotto.

Di nuovo, una duplicità. Questa volta l'esperienza è di paura e desiderio. Come Persefone, proviamo insieme repulsione e attrazione, e a volte afferriamo soltanto metà dell'esperienza, lottando come lei per non farci trascinare nel profondo dal sogno, altre volte restiamo nel suo abbraccio e governiamo dal suo trono. Al di là di Ade il distruttore e amante, tut­tavia, c'è Ade dall'intelligenza incomparabile. Lavo­rare sui sogni è avvicinarsi a questa intelligenza na­scosta, entrare in comunicazione con il dio che è nel sogno. Poiché il sogno è sia nero che bianco, la sua intelligenza non è né del tutto oscura né del tut­to chiara.

Una cosa molto simile, in un contesto analogo, l'ha detta Eraclito (fr. 93/ A1): «Il Signore, a cui ap­partiene l'oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde, ma segnala». «Questa frase» commenta Marcovich «è in un certo senso un'immagine (una metafora), che si potrebbe parafrasare nel modo seguente: "Così come Apollo non dice tutto esplicita­mente né nasconde tutto, ma indica una parte della verità, alla stessa stregua il Logos interno alle cose non è né inaccessibile all'intelletto umano né evi­dente in sé, ma richiede uno sforzo intellettivo da parte dell'uomo", cioè l'intuizione, o facoltà di inter­pretare correttamente i segnali inviati dal Logos ».

Tale sforzo intellettivo e immaginativo rappresen­ta il contributo dell'Io desto al lavoro onirico. Po­tremmo definirlo la versione occidentale del ta 'wil. È uno sforzo dell'intelligenza che ci conduce den­tro il sogno, lo sforzo di seguire gli indizi delle sue immagini deformate, dove la esegesi è un exitus che conduce la vita fuori dalla vita, dove l'interpretazio­ne dei sogni non è una scienza della vita ma una scienza della morte, una forma di filosofia, la quale un tempo si pensava dovesse appunto accompagna­re la vita verso la morte.

Il ta 'wil, riconducendo il sogno al suo terreno ar­chetipico, al suo retroterra, nello stesso momento lo introduce nell'anima e lo allontana dalla vita; e tuttavia la scoperta del retroterra archetipico infon­de un senso di primordialità, il senso di cominciare dal principio, una sorta, per usare le parole di Bachelard, di «folle empito vitale»: «A mio modo di vedere, gli archetipi sono riserve di entusiasmo che ci aiutano a credere nel mondo, ad amare il mondo, a creare il nostro mondo » (Bachelard). Il passaggio dal sogno a questa gioia per il mondo non avviene direttamen­te, dal sogno al mondo, ma indirettamente, dal sogno all'archetipo al mondo, e il primo passo, il ta 'wil, è un'uscita dal mondo.

Il lavoro onirico che facciamo con i sogni porta l'espressione «psicologia del profondo» alle sue lo­giche ed estreme conseguenze. Il sogno ci ha con­dotti da Jung a Freud e da Freud alla tradizione ro­mantica precedente, che si potrebbe condensare nel seguente frammento di Eraclito, quell'Eraclito a cui ci siamo di continuo richiamati come all'inven­tore della metafora del profondo in riferimento al­l'anima e come al primo psicologo della tradizione occidentale. Fu Eraclito, come abbiamo accennato, ad assumere ad archon, a principio radicale di tutte le cose, non l'aria o l'acqua, gli atomi o i numeri, il conflitto o l'amore, bensì l'anima (fr. 261 A57): «Quando siamo vivi la nostra anima è morta e se­polta in noi, ma quando moriamo, la nostra anima torna in vita e vive». Quel «moriamo» può essere inteso nel contesto del mondo notturno, il mondo dei sogni; infatti lo stesso frammento è stato letto da altri (Marcovich) in questo modo: "Nella notte l'uomo accende una luce a se stesso, benché la sua vista sia spenta; / pur essendo vivo, mentre dorme tocca il morto; pur essendo desto, tocca il dormiente".

Insomma, il sonno ci mette in contatto con i mor­ti, con gli eidola, le essenze, le immagini; essere desti è essere in contatto con il dormiente, la personalità egoica cosciente. I romantici direbbero: durante il sonno siamo desti e vivi; nella vita, dormiamo (si ve­da il fr. II A9).

In un altro frammento (fr. 891 A99) Eraclito dice: «I desti hanno un mondo (cosmos) unico e comune, ma ciascuno dei dormienti si ritira in un mondo proprio». Nel cosmos individuale di ciascuno: ecco dove avviene il lavoro onirico. La finalità del lavoro onirico individualizza l'anima, allontanandola dalla prospettiva diurna e naturale. A causa di questa in­dividualità del sogno, le generalizzazioni concettua­li sui sogni sono destinate a fallire. Come dice anco­ra Eraclito (fr. 113, Freeman/A14): «La facoltà del pensiero (to Phronein) è comune a tutti», ma (fr. 115, Freeman/A10) « L'anima ha il suo proprio logos che cresce secondo i suoi bisogni». Digerendo e trasformando i residui diurni secondo il logos (l'in­telligenza) dell'anima, invece che secondo le leggi del pensiero comune, il lavoro onirico produce un'anima individualizzata, cosa che non può avveni­re soltanto nel mondo diurno, dove, come dice Era­clito (fr. 106/B8), «ogni giorno è uguale». Il lavoro di deformazione e trasformazione dei sogni costrui­sce la Casa di Ade, la nostra morte individuale. Cia­scun sogno contribuisce alla costruzione di quella casa. Ciascun sogno è un esercizio per imparare a entrare nel mondo infero, una preparazione della psiche alla morte.

 

 

 

il materiale onirico

 

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Una delle fantasie fondamentali di Freud riguar­do al materiale di cui sono fatti i sogni è rivelata dal suo uso dell' aggettivo «concreto» («… per il sogno tutte le operazioni condotte sulle parole non sono che fasi preparatorie per la regressione alle idee concrete» [SMTS, p. 96]). Secondo Freud, è «come se il processo onirico fosse governato da considera­zioni di rappresentabilità plastica» (SMTS, p. 95). Ba­chelard parla del sogno in termini analoghi, come se le sue forme nascessero dalla plasticità dell'im­maginazione, da un materiale grezzo immaginario, come la pasta del pane, l'argilla, il metallo fuso."

Il lavoro sui sogni è arduo; i sogni, diciamo, sono ostici, indecifrabili, difficili da penetrare. La nostra capacità di capirne qualcosa è inversamente proporzionale a quella che Freud chiama «resistenza» (IP­NS, pp. 129, 132; Opere, IX, p. 422; X, p. 154). Biso­gna lavorarci sopra, elaborarli e infatti gli analisti parlano dei sogni del paziente come del «materia­le». I sogni si formano mediante un processo di coa­gulazione: condensazione, intensificazione (sovrade­terminazione), riduzione (abbreviazione), reitera­zione (ripetizione), concretizzazione. L'operazione sintetizzatrice di alta cucina svolta dal lavoro onirico (il lavoro di bricolage di cui dicevamo), mescolando insieme ingredienti disparati ti imbandisce qualcosa di nuovo. Queste cose nuove prodotte dal sogno le chiamiamo simboli. E sono prodotte, o date, come cose dense; infatti, in tedesco, sia in Verdichtung (il termine usato da Freud, che noi traduciamo con «condensazione ») sia in Dichtung (poesia) e in Dich­ter (poeta), ricorre l'aggettivo dicht, «denso, spesso, compatto ».

Il materiale onirico non è semplice materia grez­za. Ha sempre una forma, un'immagine e, come la prima materia dell'alchimia, ha sempre un nome pre­ciso. Definirla «il caotico Es» o «l'inconscio colletti­vo» falsifica il suo vero volto. Il caos, come l'Es e l'inconscio, è un'astrazione, un concetto che serve a parlare di quel materiale, ma non è il materiale in sé, che può presentarsi nella forma di un oceano, un abisso, una colata di fango, una scena di baldo­ria, un pezzo di gelatina, un manicomio, ma sem­pre, sempre in un'immagine precisa.

Le emozioni sono cesellate in forme, materializ­zate e distinte. Il loro linguaggio (tremare come una foglia, ribollire di rabbia, essere schiacciati, tra­volti) specifica di quale sostanza sono fatte. Le dita dei complessi possono ridurci a brandelli, la notte, perché i dormienti sono lavoratori; ma mentre stra­ziano, plasmano ciascuna emozione nella sua forma specifica. Una donna tradita sognerà il suo dolore come un fossato senza sbocco, e se stessa gettata alle ortiche, un giaciglio vuoto; un altro tradimento si presenterà invece come una stanza fredda dalle pa­reti bianche, mentre il sognatore è condotto verso un alto tavolo di marmo. Il tuo tradimento è diverso dal mio, perché spurga la sua materia in forme di­verse, è di una diversa pasta ed è infornato in stam­pi diversi. Il mattino porta a ciascuno il suo sogno di immagini ben lavorate e cotte a puntino, come pa­ne croccante.

La fantasia di «il crudo e il cotto» (Lévi-Strauss) inizia nel sogno della psiche, il quale non è pura na­tura, ma natura elaborata, natura naturata. Questa cottura di materiale psichico che ha luogo durante la notte, in quanto è un fare anima, è altrettanto fondamentale per la cultura delle altre forme di cot­tura e di lavorazione esibite dall'antropologia.

Gli analisti, anche quando nel parlare dei sogni usano termini materiali come questi, in realtà sono condizionati dal dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa. Tendono a situare la materia all'ester­no, nella terra fisica, sicché al paziente viene consi­gliato, per acquistare materialità, di praticare un la­voro, di allenare il corpo fisico, di occuparsi di cose pratiche, esteriori. Mentre l'aereo e l'umido vengo­no presi in senso psicologico e metaforico (la tale persona si dà troppe arie, ha la testa tra le nuvole, vola troppo alto, oppure è uno «sbrodolone» o af­foga in un bicchier d'acqua), le immagini di terra sono intese letteralmente e proiettate sulla natura, sul corpo e sulla materia. L'elemento materiale del­la psiche è scambiato per materiale terrestre con­creto. Ma mentre a nessuno verrebbe in mente che si possa acquisire aria psichica (distanza, ironia, ra­gionamento, prospettiva) facendo esercizi di respi­razione o praticando il paracadutismo, o che si pos­sa aggiungere acqua alla psiche facendo il bagno più spesso o bevendo molta acqua minerale, non si capisce come mai invece si acquisterebbe terra con attività materiali. Anche ammettendo che l'anima sia una krasis, un composto dei quattro elementi, è plausibile che la mescolanza giusta si ottenga sem­plicemente introducendo l'elemento opposto («lei è un tipo troppo d'aria, ha bisogno di un po' di ter­ra ») o letteralizzando l' elemen to terra nella terra fisica?

Questa terra può tuttavia essere acquisita lavoran­do sul «materiale» onirico, perché i sogni «stimola­no il lavoro ». Grazie infatti a tale lavoro, che sta dietro a tutte le traduzioni e amplificazioni e inter­pretazioni, acquistiamo entroterra, terreno interiore. Le nostre operazioni con l'immagine danno una forma più salda alla nostra pasta psichica, la artico­lano, la differenziano. Più lavoriamo sul nostro ma­teriale nell'analisi, anche prima e dopo le sedute, più la psiche diventa ben modellata e ha dove essere contenuta. Riusciamo a contenere meglio le cose, in modo che possano cuocere a fuoco lento; diven­tiamo più ricettivi; abbiamo acquistato capienza e insieme terreno sotto i piedi.

A volte, di fronte a una persona pur ricca di ta­lenti naturali, abbiamo l'impressione che la sua ani­ma sia grezza, non educata, sempliciotta, come se ri­manesse un bel po' di lavoro da fare perché il suo spazio si apra, il suo corpo si solidifichi e la sua sen­sibilità si affini. Non ci accontentiamo di «anime belle» e «grandi anime», vogliamo anime lavorate, che ci comunichino il senso di qualcosa di impor­tante, di cose di sostanza.

È questo ciò a cui tutti miriamo, in fondo: sentire che le cose hanno sostanza al di là del valore mate­riale e della visione materialistica delle cose. Voglia­mo che la nostra vita abbia peso e sostanza, e così i nostri rapporti, le nostre giornate, e che la nostra morte non sia irrilevante. Ciò che cerchiamo è so­stanza animica. Ma come si produce questa sostanza psichica? Come si acquista fondamento e terra, se non lavorando sul nostro materiale psichico, su quei sogni «immateriali », talmente poco sostanziosi all'apparenza, che per dargli senso e peso bisogna sudare sette camicie: ararli, spianarli, smontarli. Una cosa, se ci lavoriamo sopra, subito incomincia ad acquistare peso per noi. Il lavoro produce sostan­za e il lavoro psichico produce importanza psichica.

Dunque possiamo acquisire terra non solo lavo­rando la terra di Demetra, la fantasia agricola del ri­torno alla terra come zappatori, come creature na­turali. Possiamo diventare più terragni anche attra­verso Gea, lavorando sul nostro destino, la giustizia retributiva legata a peccati ancestrali, le limitazioni della natura che ci sono date in modo congenito at­traverso la specifica collocazione geografica e stori­ca della nostra famiglia, luogo dei nostri attacca­menti, nostra prima patria.

C'è poi un terzo modo di produrre materia e im­portanza: attraverso Cton, lavorando nelle fredde morte profondità della psiche, nel mondo infero della notte, dei sogni, dei fantasmi, e nell'incurabi­le, immutabile essenza del carattere figurata nei no­stri ctonii complessi. Questa è la patria profonda, la Casa diAde.

Possiamo muovere in questa direzione con l'erme­neutica, seguendo l'idea della hyponoia platonica (La repubblica, 378d), del senso «sottostante» o significa­to profondo, che è un modo antico di esprimere l'i­dea freudiana di significato «latente»; La ricerca del senso sottostante è ciò che nel discorso comune esprimiamo come desiderio di capire. Vogliamo sca­vare sotto gli eventi, vederne le basi, gli elementi fon­damentali, come e dove poggiano. Il bisogno di ca­pire più a fondo, questa ricerca di una base più profonda è come un invito di Ade ad accostarci alla sua profonda intelligenza. Questi movimenti di hypo­noia, volti a una comprensione che acquista terreno e produce sostanza, sono tutti lavoro

Come abbiamo detto sopra a proposito di Eracle e come abbiamo visto con Freud (IS, pp. 142-43; lE, pp. 503, 598; CP, pp. 577-78), il lavoro è generalmente immaginato dal punto di vista dell'Io e dei suoi muscoli. Poiché la terra cartesiana è tuttora al­l'esterno, nella realtà visibile, la personalità non può che essere costruita da un Io forte, capace di gestire ostici problemi in un mondo reale di dati di fatto concreti. Ma il lavoro del sogno e sul sogno re­stituisce il lavoro alla terra invisibile, trasferendolo dalla realtà letterale alla realtà immaginaria. Attra­verso il lavoro onirico, noi spostiamo la prospettiva dalla base eroica della coscienza alla base poetica della coscienza, riconoscendo che ogni realtà, di qual­sivoglia genere, è in primo luogo un'immagine fantastica della psiche (Jung, Opere, VI, p. 63; XI, pp. 496, 555). Il lavoro onirico è il punto focale di tale interiorizza­zione della terra, della fatica e del suolo; è il primo passo per dare densità, solidità, peso, gravità, serietà, sensuosità, permanenza e profondità alla fantasia. Lavoriamo sui sogni non per rafforzare l'Io ma per produrre realtà psichica, per dare sostanza alla vita at­traverso la morte, per fare anima coagulando e in­tensificando l'immaginazione.

Forse ora sarà più chiaro perché chiamo questo lavoro il lavoro del fare anima, anziché analisi, psico­terapia o processo di individuazione. L'accento, per me, è sul modellare, sul manipolare, sul formare qualcosa con il materiale psichico. E una psicologia dell'artigianato più che della crescita. La crescita lascia che l'anima venga su spontaneamente e natu­ralmente, come una pianta. Questa mistica organica comporta un lavoro minimo. Anche il fare anima ha una mistica, il mistero della morte, che comprende la crescita organica e ne utilizza le immagini nel la­voro dell'anima. «Fare» è un termine che riflette I'attivìtà della psiche, che è quella di fare immagini. E questo il dato primo di tutta la vita psichica. Homo faber, d'accordo; ma ciò che viene fatto sono le immagini e ciò che tali immagini sembrano fare in noi è una realtà psichica che richiede perizia e immagi­nazione. La Bibbia dice che l'anima umana è fatta a immagine divina. A me piace leggere questa frase come se dicesse anche: l'essere umano è fatto dalle immagini divine che sono nell'anima.

Il grande valore dell'alchimia come modello del lavoro psicologico risiede appunto nel fatto che l'al­chimia è un opus, un lavoro condotto su una varietà di materiali. E, secondo noi, gli alchimisti lavorava­no con i materiali perché proiettavano la psiche nella materia, ovvero, come dice Bachelard: «L'alchimi­sta proietta il suo profondo». Anche oggi c'è psi­che nella materia, ma in un altro senso. Oggi il ma­teriale proiettato è la materia: i nostri materialismi e le nostre materializzazioni, tutte le fissazioni concre­te della nostra vita psichica nelle idee, nei credi, nei sintomi, nei sentimenti, nelle persone. L'investi­mento di sostanza che facciamo in tali concretizza­zioni è il luogo dove va cercata oggi la physis. La pri­ma materia, oggi, è in tutto ciò che prendiamo in­contestabilmente e acriticamente per «reale », in tutto ciò che non vediamo in trasparenza. Eccola, la nostra materia opaca. Attraverso i residui diurni, queste «realtà» entrano nei nostri sogni, dove ven­gono sottoposte a lavorazione dall'immaginazione. Mentre elaboriamo questi pezzetti di physis, il mate­riale primordiale viene riversato nel vaso psichico, dove si consolida e insieme si differenzia, conver­tendo la res cogitans nella res extensa del terreno inte­riore.

Nella pratica questi pezzetti di materia si ritrasfor­mano in terreno interiore tutte le volte che «ritiria­mo una proiezione », come si definisce questo lavo­ro in psicoterapia. Per trovare questi pezzetti di ter­reno perduto, basta notare i punti dove siamo con­cretamente letterali (pesanti, densi, gravi, pondero­si), dove dichiariamo perentoriamente: «Ma questa è la realtà!». A volte saranno convenzioni sociali e morali, un codice etico; altre volte una dieta, la sa­lute, l'energia o un'abitudine. Questo concretismo può addirittura assumere l'apparenza di una fede parafilosofica nei fatti, nella storia, nell' evidenza scientifica, nella logica o nei sentimenti personali. Molto spesso è una relazione personale, una figura idealizzata della verità e della fiducia. Il più delle volte è il denaro, il profitto. Dove una persona è concreta, lì ha investito il corpo, lì è dove dice: « Questa è una necessità inevitabile; la cosa che con­ta sopra tutto ».

Il ritiro di queste proiezioni di fatto non è così semplice come pare, perché dissolvere una proie­zione è perdere corpo, perdere il vaso dove si è ri­versato ciò che conta. Tali proiezioni sono come le idee fisse o le idee sopravvalutate; hanno una qua­lità delirante, e infatti è molto difficile vederle in trasparenza come fissazioni psichiche e valori psi­chici. E qui che siamo bloccati nella physis; e tuttavia è appunto qui che i sogni possono svolgere il loro lavoro, raccogliendo frammenti di questi concreti­smi e trasformandoli in immagini che aprono un senso nuovo. In altri termini è nel materiale oniri­co che abbiamo la possibilità di lavorare alla trasfor­mazione della materia in profondità interiore, psi­chica.

Nella pratica questo interesse per la profondità ci conduce a prestare un'attenzione speciale a tutto ciò che sta sotto. Così è stato fin dagli inizi della psicoanali­si, con le sue nozioni di repressione, subconscio e ombra, che sono termini usati per indicare ciò che nei sogni vediamo per immagini: sepolture, i morti, gli antenati; spazzini, operai delle fognature, idrauli­ci; criminali e reietti; la parte inferiore del corpo, i suoi indumenti e le sue funzioni; forme inferiori di vita che «guardiamo dall'alto in basso», dalle scim­mie agli insetti; il mondo agli antipodi, il fondo del mare, piani inferiori e cantine, qualsiasi cosa, insom­ma, si possa rivoltare, nel senso della hyponoia, perché riveli un significato più profondo. Le emozioni che accompagnano queste immagini del fondo sono riluttanza, repulsione, tristezza, lutto, inibizione, chiu­sura, apatia o quel senso di qualcosa di profondo che ci attanaglia sotto forma di depressione, oppressione, repressione. La nostra immaginazione discensiva è penetrata nella terra. « ... e dovrà intitolarla Il sogno di Bottom, proprio perché non ha fondo ... »; Freud si rese conto che ciascun sogno si apre su una profondità insondabile. Benché di solito si sfor­zi di interpretare ogni singolo sogno nei più minuti particolari, in due punti della Traumdeutung (IS, pp. 479 e 480) ammette: « ... durante il lavoro di inter­pretazione ci a.ccorgiamo che…c'è un groviglio di pensieri onirici che non si lascia sbrogliare... Que­sto e l'ombelico del sogno, il punto in cui esso pog­gia sull'ignoto»; Il cuore del sogno, il nucleo da cui il sogno stesso spunta «come un fungo dal suo mi­celio», dice Freud (con un'immagine odorosa di terra umida), è l'ignoto. Esso è, diremmo noi, il pertugio che introduce nel mondo infero, il mo­mento di Ade, l'apertura verso quello che Eraclito implicitamente indica essere il regno della psiche: la pura. profondità. Questo dunque è l'omphalos, l'ombehco, del mondo psichico. La via regia dei sogni conduce a questo punto. Quella delle corri­spondenze con il mondo diurno è, chiaramente, la direzione sbagliata.

Tutta la mia enfasi sul mondo infero e la mia insi­stenza perché sia mantenuta al sogno la sua natura di fenomeno del mondo infero sono rivolte a con­servare intatta la profondità del sogno. Ciò che estraiamo dai sogni, ciò che dei sogni vogliamo met­tere a profitto, ciò che deduciamo dai sogni riguarda solo la superficie. La profondità sta nel nesso invisi­bile; e il lavoro sui sogni consiste nel lavorare con le nostre mani sui nessi invisibili, là dove non vediamo, nel profondo del corpo della notte, penetrando, as­semblando e differenziando, spurgando, mescolan­do, agitando, impastando. Si tratta sempre di un la­voro di precisione, ma applicato a materiali invisibili ambigui e in movimento. La conoscenza della vita, qui, è di importanza secondaria. La nostra è cono­scenza del campo più di tutti affine ai sogni, il cam­po delle realtà mitiche, dove, pure, ogni cosa è netta ma ambigua, evidente solo all'immaginazione. 

Inoltre, questo lavoro formativo dell'immagina­zione è sempre al tempo stesso distruttivo, deforma­tivo. Per accedere al mondo infero bisogna necessa­riamente attraversare Stige, superare l'ostacolo del­la sua odiosa freddezza. Che è inevitabile e non può essere sentimentalizzata. Ogni gesto nel mondo not­turno, se è giusto, uccide ciò che tocca. Ci troviamo di fronte densità, luoghi di violenta resistenza, che si possono penetrare con l'intuizione, un'intuizione che sconvolge e comunica un senso di morte. Il la­voro sui sogni è arduo da compiere per il terapeuta e arduo da accettare per il paziente. Ed è qualcosa che non sembra possibile fare da soli. Forse perché non è mai possibile vedere dove si è inconsci; ma più probabilmente perché esiste in noi una resisten­za di fondo che si oppone alla distruzione che il la­voro onirico comporta: l'uccisione degli attacca­menti e il disvelamento di profondità immutabili. La regina del mondo infero è Persefone e il suo no­me significa: «portatrice di distruzione».

 

 

 

 

6. la pratica

 

 

"caveat lector"

 

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Questo capitolo è fuori luogo in un libro sulle im­magini, per due ragioni. Innanzitutto, perché non si può parlare delle immagini per idee generali; e perfino esempi specifici di sogni, quando sono pre­sentati per illustrare la pratica, diventano generaliz­zazioni. Un'immagine è per definizione particolare e contiene in sé le interrelazioni e i criteri in base ai quali essere compresa. Le idee generali esposte in questo capitolo potranno essere utili soltanto per ap­profondire una certa prospettiva nei confronti di alcuni complessi di immagini, ma non per spiegare le im­magini particolari che si possono incontrare in un sogno. Assolutamente no. Attento, dunque, lettore: questo capitolo non ti dirà che cosa significano i tuoi sogni.

In secondo luogo, l'espressione «mondo infero » allude alla prospettiva psichica, a quell'atteggiamen­to dell'anima del quale non si può dire che abbia una prassi, nell'accezione che il termine ha nel mon­do diurno. «Mettere in pratica» il mondo infero è tradire il sogno, il quale, come abbiamo imparato, non è mai pratico. I capitoli precedenti, che hai avu­to la pazienza di leggere, avevano lo scopo, caro let­tore, di farti scendere fino all'anima e di calare l'ani­ma fino al mondo infero. Il rischio di un capitolo in­titolato «La pratica» è quello di attirare l'intero libro al di là del ponte, di nuovo dentro il mondo diurno, con la tentazione dei «consigli pratici al lettore».

In particolare, attento a non fraintendere la «me­tafora della morte» (si veda sopra, p. 84). I comples­si di immagini che prenderò in esame non sono in­dizi di sogni di morte, come se sognare un cane ne­ro, un colino o un recipiente che perde, uno spec­chio, una fossa segnalasse una morte imminente e letterale. Nessuno dei complessi di immagini che prenderò in esame allude alla morte in senso lette­rale. Questo sarebbe un approccio diurno e natura­listico al sogno: utilizzare il sogno per la vita pratica, e non importa se in questo caso vita pratica significa previsione della morte. Quelle che seguono non so­no neppure immagini del mondo infero, perché, una volta che si sia assunta la prospettiva di quel mondo, ciascun sogno e ciascun dio, compreso l'e­roe, hanno un proprio stile per condurci laggiù. Ec­co, è questa la chiave. Non presenteremo immagini del mondo infero (che so, simboli della Grande Ma­dre, del Pene, o del Sé), come se l'archetipo fosse un'astrazione generale che si manifesta in una serie definita di immagini simboliche. No, il mondo infe­ro è una prospettiva interna all'immagine, per mez­zo della quale la nostra coscienza è iniziata al punto di vista infero. Le immagini che seguono facilitano tale iniziazione. E quando siano viste in questa ma­niera, possono far affiorare intuizioni radicalmente diverse da quelle che in genere ci si aspetta.

Ecco qua, dunque, il sesto capitolo, nonostante le mie titubanze - e in parte a mio beneficio. Infat­ti, le pagine che seguono mi offrono uno spazio per comunicare una manciata di intuizioni e di riflessioni sui sogni, per controbattere opinioni che av­verso fieramente (forse perché troppo vicine?), per proporre atteggiamenti alternativi nei confronti dell'oscurità che troviamo nei nostri sogni e nella natura umana: le ombre, le patologizzazioni, la fredda inumana distanza. Ma in parte questo capi­tolo è anche a tuo beneficio, lettore. I libri tradizio­nali sui sogni ti dicono sempre qualcosa sul si­gnificato dei sogni. Evitare del tutto di farlo tradi­rebbe l'aspettativa archetipica del lettore nei con­fronti di un libro che reca la parola «sogno» nel ti­tolo. Sicché questo capitolo cerca di destreggiarsi tra il desiderio di non fare un torto al lettore e quello di non fare un torto al sogno. E se ne hai an­cora voglia, allora leggilo, per soddisfare il tuo biso­gno, ma attento a non tradire quello che ci troverai cercando di metterlo in pratica.

La parola «pratica», che risale al greco praxis, ha una brutta storia. Omero la usava in riferimento agli affari dei mercanti; Platone le ha dato il senso so­prattutto di conoscenza tecnica delle scienze appli­cate. Poi Aristotele l'ha indurita ulteriormente usandola nel contesto dell'etica e della politica. Si­gnificava comunque azione, e cosa avrebbe potuto esserci di più diurno, di più egoico? No, basta, la­sciamo perdere i greci. Manteniamo pure la parola, ma spostandone il senso a indicare quello che si fa al pianoforte, in palestra, sul palcoscenico: un eser­cizio, un allenamento seguito per affinare le capa­cità. Si fa pratica allo scopo di notare piccoli parti­colari che altrimenti potrebbero sfuggire. Anche il lavoro sui sogni della psicoterapia è una pratica. Si eseguono tutti i suoi esercizi, non per diventare pra­ticanti, ma per diventare pratici di sogni.

 

 

 

il nero

 

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A proposito del nero nei sogni, vorrei tralasciare sia la ricchezza del simbolismo dei colori, sia le mol­te nozioni già analizzate dal misticismo religioso cir­ca le tenebre e dalla simbologia alchemica circa la nigredo, per limitarmi alle persone nere che compaiono nei sogni.

E convenzione junghiana considerare questi neri come ombre, e su questo non ci sono obiezioni pos­sibili. Va detto, tuttavia, che la psicologia analitica ha la tendenza ad attribuire a queste ombre nere una qualità terrestre nel senso di Gea o di Demetra, e dunque a vederle come un potenziale di vitalità (sessualità, fertilità, aggressività, forza, emotività). Inoltre, il contenuto dell'ombra nera è stato ulte­riormente condizionato da sovrapposizioni sociolo­giche. Sull' interpretazione dell' immagine influisco­no le associazioni personali ai neri di una data cul­tura. Oggi, nella nostra, si pensa che l'ombra nera apporti spontaneità, rivoluzione, calore o musica; ovvero, al contrario, una criminalità di cui avere paura. In altre epoche, le figure nere nei sogni dei bianchi avrebbero forse rappresentato fedeltà, o qualità scimmiesche, o pigrizia, servilismo e stupi­dità, oppure sarebbero state tradotte come forza maestosa e come la totalità, insomma l'Anthropos o «uomo originario », I neri hanno dovuto portare su di sé ogni sorta di ombra sociologica, dalla religio­sità e fedeltà autentiche alla codardia e al male. Tut­te le varie mode sociologiche hanno dimenticato che l'Uomo Nero è anche Thanatos.

Come abbiamo visto, nell'antico Egitto gli abitan­ti dell'oltretomba erano neri, e a Roma essi erano chiamati inferi e umbrae. Scrive Cumont al riguardo: «Questo termine implica, oltre all'idea di essenza sottile, anche quella che gli abitanti dei cupi spazi sotterranei fossero neri; spesso è questo infatti il colore loro attribuito. Nero era anche il colore delle vittime offerte ai defunti e degli indumenti a lutto indossati per onorarli ».

A mio avviso, sarebbe più corretto dal punto di vi­sta archetipico, e quindi più psicologico, considera­re le persone nere dei sogni in base alla loro affinità con il contesto infero. I loro attributi (occultezza, stupro) appartengono alla fenomenologia «della violazione» di Ade, di cui abbiamo già parlato, così come la situazione di essere inseguiti da persone ne­re assomiglia alla persecuzione dei demoni della morte. Sono fantasmi che ritornano dall'oltretom­ba rimosso, non semplicemente dal ghetto rimosso. Il loro messaggio è psichico prima che vitalistico. Ci atterrano e ci rubano i nostri «beni» e minacciano l'Io barricato dietro le sue porte sprangate.

In altri termini, benché il nostro pregiudizio so­ciologico non ammetta tale possibilità, questo loro aspetto di figure terrificanti potrebbe essere la sede della loro vera forza dinamica. Poiché vengono dal regno della morte, furtive nella notte, è naturale che ci terrorizzino. Ma l'angoscia, come Freud ci ha insegnato, segnala il ritorno del rimosso, e oggi il ri­mosso sa il cielo che non è certo la sessualità, né la criminalità o la brutalità: tutte le cose che a nostro dire le figure nere «rappresentano », No, le figure nere rendono presente la morte; il rimosso è la morte. E la morte conferisce loro dignità.

Se accettiamo fino in fondo questa idea, dunque, le persone nere dei sogni non dovranno più farsi ca­rico dell'ombra sociologica della primitività (a be­neficio della fantasia egoica dello sviluppo), della vi­talità (a beneficio della forza eroica dell'Io), o del­l'inferiorità (a beneficio della fantasia morale o po­litica dell'Io). Insomma, ci lasceremo alle spalle una finta psicologia del Negro, per arrivare a un'autenti­ca psicologia dell'Ombra, un tentativo di restituire alle figure nere «l'idea di essenza sottile».

 

 

 

la malattia

 

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Quanto alla malattia nei sogni, tutto ciò che ap­pare ferito, malato o morente può essere visto come quel particolare contenuto che conduce il sognato­re nella Casa di Ade. (Nelle tradizioni popolari, le malattie degli animali e dei bambini sono provocate da un demone della morte). Si tratta di contenuti della massima importanza psicologica, essendo stati scelti dal lavoro onirico come materiale per il suo opus contra naturam. Queste immagini vogliono pro­durre un cambiamento in noi (mentre di solito pen­siamo di dover essere noi a modificarle), e pertanto svolgono la funzione dello psychopompos. I contenuti onirici dal più elevato potenziale ai fini del fare ani­ma sono quelli patologizzati (di questo tema ho trattato più estesamente in un altro libro).

Il fatto di adottare una prospettiva archetipica tratta dal mondo infero, ci mette in grado di correg­gere l'interpretazione analitica, per esempio, dell'«Anìma malata». Non c'è bisogno di considerare la cosa in modo così personalistico o naturalistico. Come scrive Herzog, «in moltissimi racconti si dice che Huldra, Frau Holle e Frau Welt hanno la schie­na cava o marcescente, o piena di vermi e di serpen­ti e in via di putrefazione ». Di solito, quando si in­contrano figure del genere nei sogni e anche nelle fiabe, la mossa interpretativa consiste nel diagnosti­care un'«Anima malata», nel dire che l'immagine mostra come sia malconcia l'Anima (il sentimento, la femminilità, l'eros e chi più ne ha più ne metta) nella persona che ha fatto il sogno o nella cultura che «ha fatto» la fiaba.

Invece di considerare questa immagine alla stre­gua di un'anima trascurata, che ha bisogno di esse­re salvata, medicata o sviluppata, tutti appelli al sen­so di colpa perché l'Io faccia qualcosa, si potrebbe vederla come un'anima sottoposta al processo della putrefactio, un movimento simile alla caduta di Per­sefone nel baratro. La carie, il serpente e il verme del mondo infero stanno già penetrandola, non vi­sti, da dietro.

 

 

 

gli animali

 

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Quando parliamo di animali, teniamo presente che il regno animale è più vasto del nostro. Noi stes­si ne facciamo parte e vi siamo soggetti: dunque sul­le loro immagini ci è lecito esprimere solo qualche cauta e rispettosa osservazione, in quanto concitta­dini di un regno con il quale noi, animali umani, ab­biamo ultimamente instaurato rapporti alquanto cattivi.

Generalmente nella psicologia del profondo le im­magini animali sono interpretate come rappresenta­zioni della parte animale, cioè istintuale, bestiale, sessuale della natura umana. Alla base di questa in­terpretazione sono riconoscibili la teoria evoluzioni­stica e il pregiudizio cristiano. lo preferisco conside­rare gli animali dei sogni come Dei, come potenze divine, intelligenti e autoctone, cui è dovuto rispet­to. Gli inderogabili modelli di comportamento se­guiti dagli animali in natura sono simili alle leggi di Dike e di Temi, che mantengono gli Dei entro i limi­ti fissati. L'ecologia è come il politeismo: entrambi mostrano configurazioni di potenze autoctone che si compenetrano e si limitano reciprocamente; cia­scuna potenza, uno splendore qualitativo, una pre­senza che è al tempo stesso esemplare unico e gene­re universale. Come gli Dei, gli animali hanno biso­gno gli uni degli altri e ciascuno, entro i limiti della propria specie, segue una giustizia divina.

Le cose che ho appena detto non sono troppo as­surde, perché la storia dell'arte e la storia delle religioni (peraltro storicamente difficili da separare) mostrano che gli Dei si presentano in forme anima­li, che gli animali sono le offerte sacrificali più gra­dite agli Dei e che il rapporto con gli animali richie­de una sensibilità e una ritualità non dissimili da quelle richieste nel rapporto con gli Dei.

Poiché preferisco non considerare le immagini animali come nostri istinti, per rispondere alla loro apparizione nei sogni non ricorro all'ermeneutica della vitalità. Anzi, cerco di lasciarmi alle spalle l'i­dea che gli animali ci apportano vita o esprimono la nostra potenza, ambizione, energia sessuale, sop­portazione o qualsiasi altra manifestazione del rajas, le fameliche pretese e i peccati e i vizi coatti che so­no stati addossati agli animali nella nostra cultura e che continuano a venire proiettati su di essi dalle nostre interpretazioni dei sogni. Guardare gli ani­mali dei sogni da una prospettiva infera significa considerarli portatori di anima, forse portatori tote­miei della nostra stessa anima-libera o anima-morte, venuti ad aiutarci a vedere nel buio. Per scoprire chi sono e che funzione hanno in un sogno, dobbiamo innanzitutto osservare l'immagine, facendo un po' meno caso alle nostre reazioni. Come cacciatori in attesa nel capanno o sulle orme di un cervo, contro­vento, tutta la nostra attenzione è concentrata sul­l'immagine, i sensi all'erta a coglierne l'apparizio­ne, noi stessi umili, eclissati in quell'intensità, per meglio seguire i movimenti esatti della sua sponta­neità. Allora forse riusciremo a capire che significa­to l'immagine animale ha presso di noi in quel so­gno. Ma nessun animale significa mai una cosa sol­tanto, e nessun animale significa semplicemente morte.

Nei miti e nel folclore del mondo infero della no­stra tradizione solo poche specie di animali ricorro­no regolarmente: il cane di Ecate, Cerbero di Ade, Anubi, il dio-sciacallo nerazzurro; il cavallo del carro di Ade, i cavalieri della morte, i cavalli degli incubi; gli uccelli, se piccoli sono anime, se grandi sono alati demoni della morte; il serpente, come aspetto ctonio del dio, la parte che scivola nell'invisibilità attraver­so le crepe del terreno e incarna l'anima del defun­to. Poi ci sono particolari animali sacri a Dei e Dee che hanno forti legami con il mondo infero: le vac­che gravide sacre a Tellus; i maiali sacri a Demetra; i cani sacri a Ecate. In alcune fiabe la morte si pre­senta sotto forma di pesce, di lupo, di volpe. Un ani­male non meglio specificato, nero e dotato di corna è frequentemente un'immagine animale della mor­te. A volte questa figura è immaginata come una ca­pra nera. Le capre, scrive Farnell, non sono mai sta­te animali amati dagli eroi." Nel mondo classico, in particolare, alle potenze ctonie si sacrificavano ani­mali neri.

Un posto speciale merita il ragno dei sogni, per­ché normalmente il ragno non è associato al simbo­lismo del mondo infero. Le immagini di ragni ven­gono generalmente incorporate nella ragnatela del­la Grande Madre, che fila illusioni (Maya), tesse tra­me paranoidi, pettegolezzi velenosi e relazioni ap­piccicose e soffocanti, nonché in fantasie anali di potenza. Talvolta gli junghiani interpretano il ragno come il Sé negativo (in quanto creatura nera, a otto zampe, che tesse figure di mandala): il ragno, cioè, verrebbe quando il sognatore teme la forza incon­scia dell'integrazione.

Benché i ragni naturali vivano perlopiù nella ter­ra, i ragni dei sogni appaiono di solito nell'aria, un'aria del mondo notturno, affine al mondo infe­ro, che è ctonio, pneumatico. Esiste un intelletto in­fero, una mente ctonia della natura che deve filare le sue strutture, fabbricando reti capaci di catturare e trattenere qualsiasi fantasia alata la sfiori. Ricorda­te l'immagine platonica di Ade, dalla mente cosi meravigliosa che le anime non vogliono più lasciare il suo regno? Lasciate ogni speranza, o voi che en­trate. Non c'è scampo dalla tela del ragno, e lo spi­rito puer, che è un peso mosca, ha soprattutto paura della mente ctonia. Perciò, caro lettore, quando il ragno entra nel tuo sogno, non fargli la diagnosi; ri­volgiti all'altra metà della coppia, a te stesso, l'Io oni­rico: sei per caso Miss Muffet, che si tiene stretta la sua tazza, o sei tutto un ronzare di piccoli pensieri; impaurito dalla sintetica potenza immaginativa del­la mente profonda, che intesse il tuo destino nel­l'intelligenza organizzatrice sottostante alla natura?

Ma il punto essenziale è che molte sono le vie ani­mali di accesso al mondo infero. Possiamo essere guidati o cacciati giù da cani e incontrare il cane della paura, che ci sbarra la strada se vogliamo scen­dere più a fondo. Possiamo esservi trascinati dall'i­nebriante energia dei cavalli di un motore su di giri; o scendere attraverso l'aria, come un uccello, in tut­te le sue maniere (con un chiacchiericcio animato, librandoci, in picchiata); in un raptus improvviso dello spirito, l'impulso suicida di una rapida mossa della mente. Possiamo scendere per mezzo della no­stra «maialità», che possiede anch'essa, nel fondo, una santità nascosta. Ancora una volta, la discesa e la morte che l'animale costella non sono necessaria­mente, per il fatto che l'animale è un essere fisico, quelle del nostro essere fisico. Questo significhereb­be prendere l'immagine animale letteralmente. Piuttosto, l'animale esprime un familiaris, un fratel­lo-anima, muto al nostro fianco, o un dottore dell'a­nima, esperto di leggi psichiche diverse da quelle dell'Io diurno e che per il mondo diurno sono una morte.

La diffusa credenza che gli animali incarnino le anime dei defunti dovrebbe insegnarci un rispetto speciale per gli animali che vengono a visitarci la notte. Da una prospettiva notturna essi sono rappre­sentazioni di specifiche qualità e comportamenti dell'anima, aspetti essenziali che non possono rappre­sentarsi meglio che in quella forma animale.

L'apparizione di un animale ci reintegra in Ada­mo. Recuperiamo il primo uomo nella caverna, mentre disegna l'anima animale sulle pareti sotter­ranee dell'immaginazione. Certo, i vari animali pre­sentano stili e forme di vitalità, per cui tendiamo a dire: «Gli animali nei sogni rappresentano gli istin­ti. Simboleggiano la nostra bestialità e primìtività». No, non è così; prima di tutto, perché essi non sono nostri e tantomeno sono noi; in secondo luogo, per­ché essi non sono immagini di animali, ma immagi­ni come animali. Gli animali del sogno ci mostrano che il mondo infero ha fauci e artigli, aprendoci al­la consapevolezza del fatto che le immagini sono forze demoniche. Il minimo che possiamo fare per gli animali dei sogni è di riservargli il primordiale ri­spetto dell'uomo delle caverne, che disegnava al buio, la faccia alla parete; il rispetto di Adamo, che li osservò con tanta attenzione da trovare a ciascuno il suo nome. Occorrono caverne vaste e attenzione amorevole. Allora forse essi verranno e ci racconte­ranno di sé.

L'iniziazione al mondo infero può essere avviata da un sacrificio animale compiuto in un sogno. Un sacrificio che non sarebbe giusto considerare solo dal punto di vista del mondo diurno, come rinuncia a una parte del desiderio vitale. Per esempio, una donna iniziò l'analisi con un sogno in cui doveva «far sopprimere il suo cane»; Era il vecchio pastore tedesco di casa e ora lo teneva la figlia. Nel sogno la donna porta il cane dal veterinario, il dottore degli animali, che lo «addormenta». Il sogno metteva in­sieme il motivo di Demetra-Persefone, lo spirito di protettività e di vigilanza della famiglia, che, come un cane pastore, manteneva la donna dentro il gregge, docile e timorosa, e il cane inteso come spi­rito guida nel regno dei morti. Il cane viene consegnato al Sonno e alla Morte, e anche la sua padro­na, attraverso i suoi sentimenti di perdita, di apatia e di solitudine, scende nel loro regno. Il dottore de­gli animali è anche un dottore animale, ovvero qual­cuno che possiede sapienza animale ed è adatto a officiare i riti mortuari della terapia per ciò che ri­guarda l'animale. A quel sogno fecero seguito molti incontri con fantasmi di famiglia, parenti defunti, desideri perversi, antiche colpe. La donna non ave­va più il cane a proteggerla dal cane. Ora il cane go­vernava il suo paese del sonno, la sua terra addor­mentata, e scavando riportava in superficie ogni sor­ta di ossa e di detriti. Aveva avuto inizio una nekyia.

 

 

 

corpi d'acqua

 

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Quanto ai corpi d'acqua che compaiono nei sogni (oceani, fiumi, laghi, piscine, vasche da bagno), tra­lasceremo il simbolismo delle acque lustrali e batte­simali, della sapienza dottrinale e della madre ute­rina, e anche il significato troppo generico di ener­gia vitale, di Mercurio e di inconscio. Prenderemo spunto, invece, da Eraclito (fr. 36/A53): «Per le ani­me è morte diventare acqua ... » e (fr. 77, Freeman/ A49): «E godimento, o piuttosto morte, per le ani­me diventare umide». Jung ha elaborato il tema del­la morte dell'anima per acqua nel suo classico lavo­ro sul Rosarium Philosophorum (Opere, XVI, Psicologia della traslazione), dove offre una quantità di straordi­narie intuizioni psicologiche sulle molteplici con­nessioni simboliche dell'acqua. Anche Jung si ri­chiama a Eraclito.

Se colleghiamo l'affermazione di Eraclito sull'ac­qua e la morte con la famosa massima degli alchimi­sti: «Non eseguire alcuna operazione finché ogni cosa non sia diventata acqua», vediamo come l'opus abbia inizio nella morte. Quando un'immagine oni­rica viene inumidita, vuol dire che essa sta iniziando il processo della dissolutio e comincia a diventare più psichizzata, nel senso di Bachelard, a trasformarsi in anima, perché l'acqua è l'elemento precipuo della rèverie, l'elemento delle immagini riflessive e del loro incessante, inafferrabile flusso. L'inumidimento nei sogni allude al godimento dell'anima per la pro­pria morte, al piacere che prova nello sfuggire attra­verso l'acqua alle fissazioni nelle occupazioni lette­ralizzate.

Entrando nell'acqua, allentiamo la presa sulle co­se, sciogliamo i nostri blocchi. Le «acque» in cui ci immergiamo possono essere paragonate a un nuovo ambiente o a un nuovo corpo dottrinale, che ci av­volge e che può sostenerci ma anche risucchiarci nelle sue profondità. Possono essere paragonate a una nuova relazione sessuale, nella quale il corpo nudo si immerge, un fiume che trascina impetuoso (Poseidone era fiume e cavallo) o sul quale galleg­giamo, sostenuti e mossi dalla sua profondità. Le ac­que possono essere fredde, tiepide o calde, gonfie, basse, limpide: come dice Bachelard, il linguaggio dell'acqua è ricco e particolarmente adatto alla rève­rie metaforica. Il mondo infero distingue almeno cinque fiumi: il gelido Stige, l'infuocato Piriflege­tonte, il luttuoso Cocito pieno di gemiti, il nero Acheronte della depressione, e il Lete (si veda la se­zione seguente). Anche in questo caso dobbiamo prestare attenzione al tipo di acqua che appare nel sogno, e non dare per scontato che i fiumi simbo­leggino sempre il flusso della vita.

Poiché l'iniziazione all'acqua di solito porta una nuova rinfrescante liquidità, gli interpreti di sogni hanno identificato l'acqua con le emozioni (gli af­fetti, i sentimenti), ma in realtà il movimento pro­dotto possiede la qualità impersonale degli elemen­ti, come l'acqua appunto. A osservare con attenzione il sogno, si vede che di solito l'emozione è situata nella riarsa anima-Io, non già nell'acqua, che il più delle volte si limita a esserci, fredda, spassionata, ri­cettiva.

Dunque il piacere dell' anima-immagine è il terro­re dell'anima-Io. Nei sogni l'anima-Io ha il terrore di affogare nei fiumi tumultuosi, nei gorghi, nel­l'onda di marea, cosa che naturalmente gli inter­preti (è così riarsa la loro anima?) tendono a tra­durre come se il sognatore fosse in pericolo di esse­re travolto dall'inconscio in una psicosi emotiva, sommerso dalle fantasie, senza terraferma, senza punti di appoggio. Eraclito, però, come la psicolo­gia alchemica, vede la morte per acqua come un modo per dissolvere un certo tipo di terra mentre un altro ne emerge. Il frammento 36/ A53 (nella tra­duzione di Freeman) prosegue: «Per le anime è morte diventare acqua; e per l'acqua è morte diventare terra. / Dalla terra sorge l'acqua e dall'acqua, l'anima».

Le fissazioni letterali in problemi terrestri arresta­no il moto dell'anima, e in questo senso «è morte diventare terra». L'anima vuole continuare a fluire, vuole penetrare. D'altro canto, poiché morte si­gnifica anche prospettiva animica, queste stesse fissazioni immettono anima nella terra e terra nel­l'anima, dando alle cose materiali un nuovo senso psichico. Si forma una materia psichica, vale a dire, «dalla terra sorge l'acqua». Cominciamo a vedere e a sentire psicologicamente che cosa è importante, ha peso, nelle fissazioni dell'anima. Questo rigene­ra l'acqua, oltre che l'anima.

Le letteralizzazioni che uccidono il flusso e sotter­rano l'anima devono sempre dissolversi; al tempo stesso ciò che è dissolto trova sempre nuovi terra­pieni per arrestare il flusso. E un processo ciclico, come nell' alchimia; descrive un ciclo del fare anima, per il quale è necessaria la dissoluzione nell'ac­qua. Temere le acque del sogno è temere di essere circondati e sommersi nel corpo di questo ciclo che per l'anima è godimento.

 

 

 

ricordare e dimenticare

 

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Anche la questione della memoria e dell'oblio può essere esaminata in modo nuovo, questa volta dalla prospettiva di Lete, Oblio, che, come ricorde­rete, fa parte della cosmogonia orfica: sogni, sonno, morte e oblio. Oltre a diventare materia poetica per i romantici, Lete, la sorgente dell'oblio, ha svolto un ruolo importante anche nello sviluppo della psi­cologia del profondo, che iniziò con l'indagine di Freud sulla perdita del ricordo (nell'isteria) e sui la­psus e i buchi di memoria, le piccole dimenticanze della coscienza, le Fehlleistungen. Jung mosse nella medesima direzione, sulle tracce del dimenticato nello stato di disattenzione durante esperimenti di associazione verbale e con le sue ricerche antropo­logiche in aree della psicologia che avevano subìto un processo di oblio collettivo (gnosticismo, alchi­mia, mitologia). Seguendo Lete, Freud e Jung furono condotti nel mondo infero.

Purtroppo, però, la psicologia pone l'accento sul­l'attenzione e sul ricordo; il mondo diurno vuole, anzi deve assolutamente, avere «buona memoria»; una cattiva memoria è più disastrosa per il successo di quanto non lo sia la cattiva coscienza. Di conse­guenza dimenticare diventa segno di patologia. Ma la psicologia del profondo, in quanto si basa su una prospettiva archetipica, potrebbe intendere la di­menticanza come qualcosa che serve uno scopo più profondo, e vedere nei lapsus e nei vuoti del mondo diurno gli strumenti con i quali gli eventi sono trasformati ed espunti dalla vita personale, svuotando­la, sgombrandola. In un modo o nell'altro, dovre­mo migliorare il nostro rapporto con Lete, visto che esso regna su molti anni della vita, specialmente gli anni finali, e sarebbe sciocco liquidare la sua opera come qualcosa di soltanto patologico. I romantici prendevano molto seriamente Lete.

Kerényi, in un articolo dedicato a Lete e a Mne­mosine, ipotizza che nell'antichità queste figure avessero un significato inverso a quello che attribui­sce loro il nostro attuale punto di vista diurno. Di­menticare doveva allora significare il vano scorrere della vita, come un fiume, come l'acqua delle Da­naidi, le cui anfore erano forate come colini: un al­tro mitologema del mondo infero evocativo delle anime non fatte, incompiute. Questo scorrere con­tinuo della vita porta a una sete inestinguibile di sempre nuova vita e a bere le acque dell'oblio, che non fanno che accrescere la coazione a cercare nuovi afflussi e deflussi. Ciò che è dimenticato non è questo o quel fatto, questo o quel viso, ma la me­moria archetipica stessa, Mnemosine, la madre del­le Muse e della mente assorta nei ricordi, che sola potrebbe placare quella sete. Questo modo di intendere Lete offre sostegno alla nostra idea: forse ciò che viene dimenticato, e in tal modo espunto dal mondo diurno della nostra vita, è appunto ciò che - quando si sia distolta l'attenzione dalla ricerca acca­nita del dato perduto e la si sia spostata sul senso di vuoto, di smarrimento che il dimenticare si lascia dietro - rende possibile l'afflusso di un'altra sorta di memoria, che è anch'essa la madre della riflessione rimemorante.

Gli esempi di smemorataggine nei sogni (disat­tenzioni, parole dette per sbaglio, errori di persona, sonnolenza, ubriachezza, non ultimo dimenticare il sogno stesso) non saranno soltanto indicatori di un complesso (una lettura, in fondo, determinata dal valore che il mondo diurno attribuisce all'attenzio­ne), né andranno riferite soltanto a un severo cen­sore posto su una soglia inamovibile, ma saranno mezzi per condurre gli eventi in un altro regno ar­chetipico. Il sogno dimenticato è il sogno che op­pone resistenza a essere ricordato, forse perché la memoria è stata soggiogata al mondo diurno e il so­gno dimenticato si rifiuta di servirlo. Si rifiuta di consegnare i suoi contenuti ai fini del rafforzamen­to dell'Io. Quanto più il mondo infero ci inumidi­sce, come avviene nell'analisi, tanto meno Lete op­pone resistenza. I sogni arrivano più facilmente, perché ora abbiamo rapporti migliori con l'intera famiglia a cui Lete appartiene. Il fatto che ci sia una relazione tanto intima tra dimenticare e sognare im­plica che il sognare stesso, come abbiamo detto in precedenza, è un processo consistente nel dimenti­care, nel rimuovere dalla vita certi elementi, in mo­do che non rivestano più tanto interesse, nel lasciar­li scivolare via con la corrente, un movimento che allontana dall'Io e avvicina alla psiche.

 

 

 

il ritardo

 

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Se, come dice Freud, il mondo infero non cono­sce il tempo, allora puntualità e ritardo non vi han­no posto. Eppure, nei sogni essi sono esperienze co­muni. Siamo troppo in ritardo per prendere l'ae­reo, corriamo per arrivare a un appuntamento ma gli ingorghi e gli ostacoli si moltiplicano, sbagliamo a leggere l'ora e arriviamo un'ora dopo che è co­minciato l'esame (lo spettacolo, il convegno), per­dendoci l'inizio. Peggio di tutto, cerchiamo dispera­tamente di recuperare il tempo perduto, ma sco­priamo che le gambe non ci ubbidiscono, sembrano impaniate, paralizzate.

Queste emozioni di ansia affannosa vanno lette a partire dall'immagine. Scopriamo così che l'Io oni­rico ha il terrore della lentezza, specialmente della lentezza della parte inferiore del suo corpo. Sco­priamo che le immagini di puntualità sono adatta­menti ideali al tempo altrui, fissazioni sull'orologio che mantengono funzionante l'Io onirico. Nei so­gni la puntualità rivela un Io onirico conforme alla coscienza diurna, e il ritardo un Io che sta scivolan­do nel disorientamento dell'atemporalità del mon­do infero, nonostante gli sforzi dettati dal panico. Il mondo infero ha cominciato a contagiare il mondo supero, che adesso si spoglia dell'adesione al tempo e rallenta la sua coazione a conformarsi a un ordine meccanico.

Perciò, quando nei sogni troviamo frasi come: «Non c'era più tempo», «Dovevo affrettarmi, o sarei arrivato in ritardo», «Il mio orologio doveva essere indietro», «E ora mi sarei perso l'inizio», possiamo leggerle come dichiarazioni che il tempo si è ferma­to. La «sveglia» non scatta, il meccanismo si è incep­pato. L'esperienza è quella di avere perduto tempo e di essere perduti fuori dal tempo in uno spazio psi­chico dove il moto in avanti non è più possibile. Non esistono più né partenza né nuovo inizio. Gli arti inferiori hanno fatto segretamente lega con ciò che ci insegue: ecco perché le gambe si rifiutano di prose­guire la corsa. E subentrata la stasi. Progressione e regressione diventano costrutti senza validità: non c'entrano niente con il mondo infero.

Questo passaggio dal tempo del mondo supero a quello del mondo infero, attuato con l'esperienza del ritardo e dello scadere del tempo, può essere paragonato al passaggio dalla narrazione all'immagi­ne compiuto espungendo da un racconto gli avverbi di tempo. I racconti si dipanano nel tempo: prima succede la tal cosa, poi questa e questa, poi quest'al­tra. Ciascun «poi» è collegato a un poi successivo. «Poi» ha una connotazione esclusivamente tempo­rale; si riferisce sempre a qualcosa che succederà dopo, spesso in conseguenza di qualcosa che è avve­nuto prima.

L'approccio al «poi» a partire dall'immagine è di tutt'altro genere: il «poi» è sempre correlato a «quando», invece che a una serie di altri «poi», e diventa semmai un «allora». Gli eventi che accado­no in un sogno sono immaginati senza preoccupa­zioni di tempo, come se, anziché secondo la conca­tenazione lineare di una narrazione, avessero luogo tutti contemporaneamente, per cui la loro succes­sione temporale non ha importanza.

Per esempio: quando in un sogno tu (l'Io oniri­co) corri dal dottore, allora sei in ritardo; e quando sei in ritardo, allora corri dal dottore. Correre ed es­sere in ritardo si necessitano inseparabilmente a vi­cenda; si sviluppano l'uno dall'altro e si intensifica­no l'un l'altro. Si presentano insieme in un'immagi­ne con lo studio del medico, ma nessuno dei due viene prima o è conseguenza dell'altro.

Un altro esempio: quando chiamano per la tavola rotonda delle tre del pomeriggio, allora il tuo ascen­sore si blocca e non può salire al piano giusto; quan­do il tuo ascensore si blocca e tu non puoi salire, al­lora avverti la chiamata della tavola rotonda delle tre. Blocco e chiamata (alle «tre ») nel sogno com­paiono insieme, senza che una cosa preceda e causi l'altra.

Dalla prospettiva imagistica, che legge il sogno come una dichiarazione di essenza, non viene pri­ma né la gallina né l'uovo. Perché non siamo in un tempo narrativo, bensì in uno spazio immaginativo, dove gallina e uovo sono reciprocamente necessari e sono correlativi simultanei. In una prospettiva in­fera anche le idee di origine e di causalità sono co­strutti privi di validità, perché lì il tempo non ha corso e l'immagine esprime uno stato dell'anima che è eterno (sempre in atto, ripetitivo).

Questo passaggio al tempo immaginale libera gli eventi temporali dei sogni dagli atteggiamenti del mondo diurno, vale a dire dalla superstizione naturalistica, che fa riferimento al tempo «reale» e a orologi «reali». Ora, invece, i fenomeni del ritardo sono mantenuti dentro l'immagine dell'ascensore o dello studio del medico, perché è lì che hanno luo­go il blocco e il ritardo: i problemi temporali sono situati in un luogo preciso. La domanda è: in rela­zione a chi e a che cosa, in particolare, è richiesta la puntualità e si costella la fretta? Che cosa, esattamente, non risponde alle intenzioni dell'Io onirico: la capacità di leggere le indicazioni, l'ascesa auto­matica (ascensore), il motore di avviamento dell' au­tomobile, il meccanismo della (s)veglia, i piedi e le gambe? Cerchiamo il luogo del malfunzionamento, perché quello è il luogo della patologizzazione, do­ve il lavoro onirico ha cominciato a smantellare il tempo diurno.

Se il sogno non si dipana nel tempo, essendo il mondo infero fuori dal tempo, allora il sogno non ci conduce da nessuna parte, nel senso di indicarci una meta. E quando lavoriamo con il sogno, dob­biamo abbandonare le speranze circa il futuro. Il so­gno arresta il tempo, e anche noi dobbiamo fermar­ci, altrimenti il sogno scivola in una narrazione e ci trascina nella corrente del tempo. Possiamo ferma­re il tempo evitando di leggere il sogno come se fos­se un racconto. Allora il sogno non ha fine. Questo significa sia che non sta andando da nessun'altra parte, sia che continua sempre. Il sogno è bloccato in se stesso, nelle sue immagini quali sono, e va letto per quello che avviene nelle sue immagini. È bloc­cato entro i limiti della sua cornice, come un dipin­to, nel quale niente viene prima e niente viene dopo e che si legge articolando e approfondendo le interrelazioni della sua immagine.

Se il sogno non va da nessuna parte, allora lo stes­so vale per l'Io onirico, a sua volta inchiodato entro i limiti del sogno, intrappolato nell'immagine che arresta la narrazione secondo il tempo del mondo supero, il tempo dell'orologio, con il suo procedere regolare scandito da ore numerate. L'Io onirico cer­ca di sfuggire all'immagine con il suo panico tem­porale. Vuole precipitosamente recuperare il tempo perduto per paura di rimanere indietro, cioè sotto.

Concentrandoci sull'immagine in cui è incorpo­rato il tempo, parte della quale è simbologia dei nu­meri, ecco che mettiamo in evidenza l'aspetto quali­tativo del tempo, come facevano Artemidoro e altri interpreti di sogni dell'antichità, i quali chiedevano sempre a che ora era avvenuto il sogno: subito dopo essersi addormentati, a notte inoltrata e molto pri­ma dell'alba, o verso mattina? Benché possa sem­brare che volessero fissare il sogno a un determina­to livello del sonno, in conformità con le loro teo­rie, di fatto essi invitavano il sognatore a prendere nota della qualità temporale delle immagini oniri­che. Tali qualità temporali corrispondono a mo­menti psichici distinti: a colazione, al ritorno da scuola, dopo l'ultimo spettacolo; esprimono mo­menti che definiscono tonalità soggettive della co­scienza: mattutina, pomeridiana, serotina o nottur­na. Un'interrogazione alle due del pomeriggio, in un sogno, ci esamina sotto il profilo delle duplicità e tensioni del due, ma contemporaneamente è qual­cosa che ha luogo dopo lo zenit, quando già il gior­no si avvia impercettibilmente al declino, per quanto sia difficile accorgersene, nella luce e nel calore ac­cumulati che ancora riverberano da un mezzogior­no ormai alle spalle.

Quello che vorrei recuperare, qui, è una sensibi­lità per le differenze tra le ore. Sono anch'esse persone mitiche (Horae), ciascuna con la propria distin­ta personalità. Il tempo nei sogni allude a regioni della notte, luoghi dotati di qualità, come i dodici regni sotterranei che il dio del sole egizio attraversa­va sulla sua barca della notte. Il

 

 

 

la rotondità

 

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Con le sue ricerche sul simbolismo del Sé, Jung ha istituito una convenzione interpretativa: roton­dità = il Sé. Il fondamento di questa ipotesi si trova nelle sue analisi del mandala («cerchio» in sanscri­to). Da allora questa accezione della rotondità è ap­plicata categoricamente a ogni sorta di manifesta­zioni, dalle circonvallazioni stradali, alle ciambelle, alle perle, agli UFO. Qualsiasi forma di mandala ap­paia in sogno tende a essere interpretata con cate­gorica letteralità secondo l'affermazione di Jung che tali figure circolari sono «un tentativo di auto­guarigione »; La premessa di Jung si basa in parte sulla stretta associazione linguistica tra heal, «guari­re, hale, «integro», heil, «sano e salvo» (in tedesco), e whole, «intero».

Il mandala appartiene alla geografia psichica del Tibet, alla sua religione misterica imperniata sul mondo infero e a una cultura fondata su quella religione. Il Sé raffigurato nel mandala è pertanto una configurazione differenziata di persone e luoghi in senso politeistico (non un semplice, monoteistico cerchio, anello o sfera, in conformità con le aspira­zioni dell'Occidente a un monismo unitario). Poi­ché l'immagine deriva da una cultura centrata sul mondo infero, può legittimamente essere letta sol­tanto da una prospettiva infera. La presenza di un oggetto o una struttura a forma di mandala in un so­gno può bensì indicare un'integrazione, come ha detto Jung, ma si tratta di un'integrazione nel mon­do della morte del Bardo Thodol. Cioè di una per­dita di realtà nella consueta accezione diurna del termine. Perciò, se la manifestazione spontanea del cerchio in un sogno è un tentativo di autoguarigio­ne, tale guarigione significa morte nel senso che sia­mo venuti elaborando in questo libro.

Quando, seguendo Jung, compiamo il passaggio dal mandala inteso come cerchio al mandala inteso come integrazione, cioè da un'immagine della rotondità al concetto della totalità, dovremo tenere ben presente l'ombra della morte che è implicita nel mandala. La totalità considerata soltanto dalla prospettiva naturale, come crescita (la persona a tutto tondo, dove «tondo» rimanda all'idea di riem­pimento anziché di svuotamento), diventa un'integrazione a carattere difensivo, un rafforzamento ot­tenuto pigiando riempitivi nei buchi della nostra natura, quei buchi che sono le vie per mantenerci in contatto con il mondo infero. Jung stesso sottoli­nea il possibile uso difensivo del mandala e mette in guardia dalla «ripetizione artificiosa o l'intenziona­le imitazione di tali immagini» (Opere, IX, I, p. 383). La funzione difensiva è insita nella natura stessa del cerchio. Il cerchio può facilmente diventare chiusu­ra paranoide del significato, perché, includendo tutto nella sua totalità, tiene a bada il mondo infero nel momento stesso in cui lo rappresenta. Così co­me il mandala tibetano è una modalità di medita­zione che protegge l'anima dall'attacco dei demoni, alla stessa stregua il Sé, in quanto totalità onnicom­prensiva, impedisce alla natura demonica degli e­venti psichici di arrivare fino all'anima. La roton­dità, nel Sé come nel mandala, è protettiva, è un te­menos che offre sempre protezione soprattutto alle nostre tendenze paranoidi. Un cerchio è centrato, completo, non ha bisogno di altro oltre se stesso. E il sistema perfetto. Dunque «sbagliato» non è soltanto l'uso scorretto che si può fare del mandala nel mondo diurno; la possibilità di errore è data con il cerchio stesso.

Nel simbolismo occidentale arcaico il cerchio è un luogo della morte. Lo ritroviamo nel cerchio sepolcrale e nel tumulo funerario poi ripresi nei ci­miteri cristiani circolari. Sia la ruota sia l'anello (specie come ghirlanda) possono essere letti come espressioni del mondo infero. Essere legati alla ruo­ta (come nel supplizio di Issione) è essere collocati in un luogo archetipico, legati alla ruota della fortu­na, alle rotazioni della luna e del fato, alle infinite ripetizioni che ci riportano eternamente alle mede­sime esperienze, senza remissione. Tutto si muove e nulla cambia; la vita come déjà vu. La connotazione infera del cerchio è particolarmente evidente pres­so i celti, scrive Margarete Riemschneider. Nella mitologia celtica la ruota e tutto ciò che rotola pos­siedono un'intenzione arcana e sinistra. Gli anelli sono cerchi chiusi e il cerchio si chiude su di noi, si tratti della vera nuziale, della corona di alloro o del­la ghirlanda funebre. Non c'è via d'uscita, e «senza via d'uscita» è stata definita anche Necessità (A­nanke). L'etimologia della parola greca ananke ri­manda al collare che stringeva il collo di schiavi e prigionieri. La ruota impartisce il moto all'anello chiuso, ed ecco che siamo in un rotolare ciclico, coatto, senza fine. Presi in un meccanismo: vedi le previsioni apocalittiche che accompagnano il pro­gresso tecnologico (il quale, prima ancora che con la ruota, inizia con il collare dello schiavo) o il senso di tragedia che accompagna gli allori della vittoria.

La ruota è un modo universale per misurare il tempo, rappresentato come ciclica rotazione di giorni e notti. Noi giriamo con il tempo, e mentre lo spazio, come dice Bachelard, ci è amico, il tempo ha in sé la morte. Dunque l'ora di analisi, quella pecu­liare liturgia del tempo su cui, da Freud in avanti, si fonda la psicoterapia, ha in sé la morte, come la sab­bia nella clessidra. Il dentista, l'internista, il chirur­go non assegnano il tempo allo stesso modo: nel loro caso, il medico si basa sul tempo che occorre per svolgere il suo compito; non interrompe il lavoro in base all'orologio. Invece la psicoterapia si fa a ore. Si conforma alla grande ruota. Ciascuna delle sue ore, evocando la morte, evoca l'anima. E «l'ora» ri­mane, anche quando il terapeuta cerca di liberarse­ne (facendo durare la seduta quarantacinque minu­ti, concedendo sedute fuori dall'orario); è come se il giro dell'orologio e lo svuotamento della clessidra che l'analisi implica fossero essenziali per il suo pro­cesso di morte-guarigione.

A volte delle immagini spontanee della rotondità producono una guarigione, al di là della difesa pa­ranoide, al di là della sicurezza cercata dentro il proprio privato programma di integrazione perso­nale. Dunque vuol dire che queste immagini offro­no un'integrazione di tipo diverso, impersonale. L'anima-libera individuale entra in una prospettiva di necessità cosmica. Diventiamo parte del cerchio nel quale ci muoviamo, qualunque cosa sia quel cer­chio: la nevrosi, la società, l'intelletto. Siamo diven­tati necessari a esso e attirati in esso.

La ripetitività delle situazioni circolari, quel gira­re senza posa nella spirale dei nostri stati, ci obbliga a riconoscere che questi sono la nostra propria essenza e che il moto circolare dell'anima (secondo Plotino, il suo moto innato) non può essere distinto dal cieco fato. È come se per l'anima non si trattasse di liberarsi dalla cecità ma di liberare se stessa con quel suo continuo rigirarsi nella cecità. In ultima analisi, se il mandala spontaneo guarisce, lo fa per­ché costringe a un riconoscimento dei limiti della coscienza, del fatto che la mia mente, il mio cuore e la mia volontà non possono che girare in cerchio, e tuttavia quel cerchio è la mia porzione di una neces­sità eterna.

 

 

 

la psicopatia

 

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Un'essenza statica della personalità può apparire nelle figure oniriche che l'Io desto giudica psicopa­tiche perché non sono toccate dai valori morali del mondo diurno e perché non cambiano. Tali figure sono detenuti perenni del mondo infero. Nei sogni li incontriamo sotto forma di assassini, nazisti e truf­fatori dal fascino ingannatore.

Una piccola parentesi: in queste pagine, uso il concetto di psicopatia in senso intercambiabile con quello di sociopatia; preferisco il primo perché mantiene la descrizione legata alla psiche, anziché riferirla in prima istanza al campo in cui il compor­tamento «patico» si manifesta, cioè la società. La natura della personalità psicopatica costituisce uno dei problemi più inesplicabili della psichiatria. Ciò nonostante, nella letteratura ricevono di gran lunga più spazio gli episodi schizofrenici acuti, la farma­ceutica degli antidepressivi e perfino le sindromi minori e circoscritte. Anche le menti più brillanti della psichiatria, da Jung a Laing, hanno sempre de­dicato un'attenzione molto limitata a questa componente incorreggibile, distruttiva, incapace di im­parare e di cambiare.

La psicopatia è tradizionalmente caratterizzata da due tratti principali. In primo luogo si presume sia congenita e statica, in quanto non sono visibili segni di apprendimento dall'esperienza né processi di mi­glioramento o peggioramento. In secondo luogo è uno stato di «insanità morale», secondo la defini­zione che per primo ne diede Prichard nel 1835, e la sua amoralità può toccare senza rimorsi né espiazione le manifestazioni più estreme dell'egoismo e della crudeltà. Questa combinazione di ripetitività infinita, di egocentrismo amorale e di intrinseca di­struttività suggerisce che la prospettiva infera può essere la modalità idonea per cogliere lo psicopati­co e, inoltre, che il mondo infero non è soltanto un regno dell'anima, ma anche un regno della psico­patia. Freud riconobbe questo mondo infero psico­patico insito nell'Es, al quale attribuì «impulsi im­morali, incestuosi e perversi ... voglie omicide e sa­diche» (Opere, X, p. 158). Freud parla del «male presente nell'Es» e ritiene il sognatore moralmen­te responsabile del contenuto dei suoi sogni (ibid., 59).

Se nel caso di altre immagini oniriche non è leci­ta la traduzione nella lingua naturale, supera, dell'Io desto, perché si dovrebbe prendere in modo let­terale il «male presente nell'Es»? Non è anche que­sto un linguaggio analogico? Nei sogni l'incesto, co­me ha osservato Jung, significa unione di simili e li­bido famigliare. Analogamente, gli impulsi perversi possono riferirsi alle connessioni contra naturam ne­cessarie per trasformare la natura in psiche. Anche i desideri omicidi e sadici possono essere intesi ana­logicamente, come aspetti del desiderio di destrut­turazione necessario ai processi alchemici della mor­tificatio e della putrefactio, dove le parti si aggredisco­no a vicenda al fine di realizzare una separazione ra­dicale. Mascheramento, inganno, sorpresa fredda, crudele: ora ci troviamo in un luogo che è al di là del calore e della decenza umani, nel quale tuttavia avvengono pur sempre operazioni psichiche, anche se ci è impossibile distinguere tra il coltello a serra­manico di un ragazzotto e il coltello rituale.

Se vogliamo riuscire a convivere con la base della psiche, dobbiamo evitare di guardare la sua bassez­za con occhio moralistico. Sarà necessario, piutto­sto, guardare il mondo infero come fece Polignoto nel suo famoso dipinto di Delfi, dove non c'era traccia di moralismo; allo stesso modo, «ogni giudizio sui morti è estraneo alla poesia omerica»; allo stesso modo il culto di Ecate è amorale; ed Ermes accompagna e Ade accoglie ciascuno di noi per come siamo, indipendentemente dalla nostra moralità. Anche Freud sosteneva che nelle profondità della psiche non esistono né bene né male, non esistono codici morali e neppure la loro negazione. Laggiù una stessa parola può essere al fondo ingannevole, significare contemporaneamente cose opposte; e quante volte Jung non ha ripetuto che i sogni ci sviano e allo stesso tempo ci indicano la strada (Opere, X, II, p. 298)? In quanto porzioni di natura oggettiva, i sogni non hanno secondi fini morali. Pertanto, assumere un punto di vista morale nei confronti del sogno non corrisponde al sogno e non gli parla con il linguaggio delle somiglianze. Teniamo presente Ermes: paradossi, nero e bianco insieme.

  Definire «buono» o «cattivo» un sogno, dedurre una scelta da un sogno, trovarvi la correzione di un atteggiamento sono tutte operazioni moralizzatrici, che introducono nel mondo infero un punto di vista estraneo. E pretendere dal sogno che si assuma una responsabilità morale e ci faccia da direttore spirituale. La coscienza morale e il Super-io sono anch'essi fattori psichici, è vero, e questi concetti trovano il proprio fondamento in figure oniriche rappresentanti la legge, l'ordine costituito o un'autorità morale superiore; ma non possiamo liberarci magicamente dall'onere e dall'onore dei problemi morali scaricandone la responsabilità sui sogni. Noi vorremmo che i sogni ci guidassero sulla retta via e ci avvisassero quando sbagliamo. «Ho fatto un sogno di avvertimento» diciamo. Eccola qui, la «psicopatia», e di un genere insidioso: anziché assumerci la nostra decisione, fingiamo che sia il sogno a decidere per noi («I sogni mi dicono che dovrei separarmi, cominciare una storia, chiudere un rapporto», e via delegando). Anziché vivere i rischi del confronto con gli altri, ci rifacciamo alla voce interiore del sogno privato, che supponiamo superiore, e oggettiva. Questa sì è amoralità sociale, cioè irresponsabilità, a cui ipocritamente conferiamo però la ratifica incontrovertibile della psiche. Le immagini, al pari degli Dei, ci fanno delle richieste, così come i sogni pretendono che li elaboriamo; ma i sogni non ci dicono quello che dobbiamo fare.

Teniamo ferma in mente la prospettiva di fondo esposta in questo libro, una prospettiva enunciata del resto tanto tempo fa da Freud mentre prendeva in esame la questione della moralità dei desideri onirici: «La realtà psichica è una particolare forma di esistenza, da non confondersi con la realtà materiale» (IS, p. 564). Le affermazioni di Freud e di Jung sulla amoralità del mondo infero attestano che prese di posizione morali e comprensione psicologica sono incompatibili. Di conseguenza le reazioni alle immagini basate sulla morale sono reazioni non appropriate. Prima di esaminare un sogno, occorre sempre, perciò, un lavoro preparatorio: dobbiamo de-moralizzare l'anima, liberarla dai radicati criteri del mondo supero che le vengono dall'essere rimasta per duemila anni confinata nelle celle del cristianesimo teologico, dove tutta la sua immaginazione introversa era sottoposta a giudizio morale. Ma gli «impulsi immorali, incestuosi e perversi» presenti al fondo dei sogni dell'anima, di cui parla Freud, sono immagini psichiche, non azioni morali.

  Il sogno de-moralizzato diventa un pericolo psicopatico soltanto nelle mani del traduttore che traspone le immagini in messaggi diretti a promuovere azioni nella società. Il comportamento psicopatico che c'e nel mondo non deriva dall'immagine, ma semmai dalla traduzione dell'immagine in realtà materiali. Ancora una volta, la vera psicopatia ha a che vedere con l'Io eroico, che ammiriamo per le sue azioni positive, più che con le figure del mondo infero, che temiamo per le loro fantasie negative. L'assassino onirico diventa tendenza psicopatica quando è trasposto nella vita, ma nel mondo infero della «realtà psichica» l'assassino è una delle maschere miti che della morte, allo stesso titolo della vecchia con la falce, che è solo un modo più convenzionale di rappresentarla. L'assassino che compare in un sogno non è semplicemente l'Ombra ostile, malvagia o «amorale» che il sognatore deve riconoscere e integrare. Nell'assassino è presente una figura divina della morte: Ade, o Thanatos, o Crono-Saturno, o Dis Pater (Dite) o Ermes, un demone della morte che vuole recidere i legami che tengono la coscienza attaccata alla vita.

Lo stesso fanno le figure che ritornano di continuo, immutate: i ragazzi e le ragazze della nostra adolescenza, che non sono invecchiati come noi, il padre severo o la madre fredda, che continuano a pretendere il nostro sangue. Queste figure, al pari di Aiace che ancora cova il suo risentimento, al pari di Didone che volta le spalle, di Tantalo eternamente teso verso ciò che è inattingibile, sono l'aspetto psicopatico, immutabile del complesso. I tentativi terapeutici di mutare l'immutabile sono malriposti, partono da una confusione ontologica che può condurre la psicoterapia nel mito di Sisifo. L'istinto di morte, secondo la concezione di Freud (opere, X, p. 9) e di Fechner, cerca la stabilità; ovvero, con il linguaggio di Platone, le anime nell'Ade sono incurabili (Gorgia, 525e); non cambiano. Adesso chiamiamo « psicopatia» questo aspetto essenziale del complesso che trascende la morale e il mutamento, eppure esso è psiche al grado più puro e più stabile di permanenza, ciò che la filosofia definirebbe la sfera dell'essenza. Pretendere che l'essenza psicopatica riconosca i valori morali del mondo supero o si smuova dalle sue stabili fissità è agire come fecero Eracle o Cristo negli inferi, che volevano salvare i morti anziché imparare da essi. Per Platone (Cratilo, 403-404; Fedone, 80d) questa fissità, il fatto di non poter lasciare Ade, non è una cosa di cui rattristarsi, perché Ade è così intelligente, così buono, che l'anima desidera rimanere presso di lui per sempre. E da questa fissità immutabile dell'elemento psicopatico che abbiamo soprattutto da imparare circa la natura dell'anima.

Imparare dal mondo infero significa imparare dall'elemento psicopatico. Lo so che è chiedere quasi l'impossibile. Nei sogni posso trovarmi a infierire con il coltello in preda a un raptus, posso vedere uno sconosciuto della mia età inseguire un bambino con intenzioni sessuali o osservare mio figlio che falsifica una firma e nega con disinvoltura il fatto: nei sogni avvengono e si ripetono atti criminali come questi, e peggio. Ma proprio lì posso ripetutamente attingere intuizioni profonde sulla personalità e sul comportamento e conoscere più a fondo l'Ombra e i limiti essenziali che essa mi pone. Il fatto che questi sogni si ripetano rivela la stabilità della mia psicopatia, indica che adesso si è stabilizzata in essenze caratteriali. Se il carattere è il nostro daimon custode e il nostro destino, secondo alcune interpretazioni delle parole di Eraclito (fr. 119/A112), allora questi schemi ripetitivi sono in realtà spiriti tutelari che influiscono sulla realizzazione del mio destino, più di quanto non facciano i miei rapporti e i miei progetti nel mondo supero.

Ma l'Io diurno non vuole ammetterlo. Dice: benché questi orrori morali appaiano in un sogno, occorre intervenire. Lo shock morale provoca il tentativo di modificare un'immagine che è incurabile. Una volta di più vediamo come la reazione morale sia inappropriata, e usata addirittura come difesa contro l'immagine; è adesso, infatti, che subentra la vera minaccia: il complesso dell'assistente sociale costellato dall'orrore morale. Non appena ci facciamo prendere dallo shock morale, svicoliamo in una prospettiva sociale e prendiamo le distanze mettendo in campo cause, rimedi e azione letterale. Ma questa è appunto la prospettiva della psicopatia! Assistente sociale e sociopatico dicono entrambi: è tutto all'esterno ed è tutto sbagliato; entrambi devono sempre intervenire. A causa di questo letteralismo dell'agire, l'individuo sociopatico è incapace di imparare dall'esperienza e l'assistente sociale è incapace di intaccare la psiche del problema. Gli sforzi dell'Io diurno per gestire l'Ombra amorale diventano altrettanto sterili delle ripetizioni del mondo infero. Anzi, i miti del mondo infero si irrigidiscono in recidività, l'eterno ritorno dello psicopatico alla sua amoralità e gli eterni tentativi di correzione da parte delle istanze moralistiche della società.

Il bisogno pressante di curare l'incurabile ci impedisce di riconoscere l'essenza delle nostre limitazioni e i limiti che derivano dall'essenza psicopatica della personalità. Peggio ancora: questo bisogno nasconde un impostore, il quale, come un attore trasformista, si traveste da assistente sociale. Il ripetitivo senso di disperazione e il ripetitivo disperato bisogno di curare hanno la medesima origine: la natura amorale, non processuale del mondo infero.

  E mia speranza che queste poche righe su un tema così profondamente sconcertante possano se non altro indicare come mai la psicopatia sia rimasta un tale enigma per la psicologia: perché la psicologia ha proiettato il mondo infero totalmente all'esterno, nei bassifondi della società, cercando di cogliere lì la spiegazione della psicopatia. Ma se la psicopatia appartiene ai bassifondi della psiche, allora l'indagine deve iniziare da dove Freud si è fermato: dalla pulsione di morte, non dalla moralità.

 

 

 

il ghiaccio

 

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Quando nei sogni appaiono immagini di ghiaccio, si tende a immaginare che esse si riferiscano a regioni dello spirito: montagne altissime, remota purezza polare, lo splendore trasparente del pulito. Ma c'è un altro regno di ghiaccio: nel profondo del profondo. Al di sotto dell'acqua, del fuoco infernale, del fango c'è il nono girone dell'inferno, che è tutto di ghiaccio. Secondo Dante, è il luogo di Caino, di Giuda e di Lucifero. Anche in alcune opere gnostiche è descritta una regione di neve e di ghiaccio del mondo infero. Questo topos ghiacciato è un altro modo di dare immagine alla psicopatia. Ma non solo.

La discesa nel mondo infero può essere distinta sotto molti profili dal viaggio notturno per mare dell'eroe. Abbiamo già messo in rilievo la differenza principale: l'eroe ritorna dal suo viaggio notturno meglio attrezzato per i compiti della vita, mentre la nekyia è un viaggio nel profondo che l'anima compie per se stessa, sicché non si dà «ritorno». Il viaggio notturno per mare si distingue inoltre per il fatto di produrre calore interiore (tapas), mentre la nekyia conduce al di sotto di quella pressione contenuta, di quel temperamento nel fuoco della passione, fino a una zona di freddo assoluto.

L'analisi terapeutica rimane incompleta se si accontenta di recare balsamo a problemi brucianti. Le resta ancora di avventurarsi nelle algide profondità che tanto hanno affascinato poeti ed esploratori e che nella psicologia del profondo sono le zone delle nostre cristallizzazioni archetipiche, delle inamovibili depressioni e dei mutacismi della catatonia.

Qui siamo intirizziti, raggelati. Tutte le nostre reazioni sono sospese, congelate. Questo è un luogo psichico della paura e di un terrore così profondo da trovare un paragone soltanto in esperienze sovrannaturali, come la morte vudù e il Totstell Reflex. Nel ghiaccio vive un assassino. Oppure, il ghiaccio può essere esperito come distanza paranoica, come quella descritta da Nietzsche nel «Canto della notte» di Zarathustra «Luce io sono ... Ma questa è la mia solitudine, che io sia recinto di luce ... Ahimè, ghiaccio è intorno a me, la mia mano si brucia al gelo ».

E opportuno ricordare, a questo proposito, che Stige è un fiume di gelido odio, posto a protezione del mondo infero, che possiede la sacralità e l'eternità dei giuramenti prestati dagli Dei sulle sue acque glaciali. Se il ghiaccio svolge una funzione nel mondo infero, allora la zona ghiacciata della nostra natura svolge una funzione nell' anima. Il freddo glaciale (psicopatico, paranoico, catatonico) non è assenza di sentimento o sentimento negativo, ma un tipo di sentimento a sé stante. Caino, Giuda e Lucifero non sono raggiungibili dal calore umano e dalle tecniche di partecipazione del cuore messe a punto dalla psicologia, come se l'umanismo potesse ricostruire la Terra in modo che tutta l'umanità vivesse nel tiepido equilibrio delle zone temperate. Caino, Giuda e Lucifero non sono tiepidi, non sono temperati; il loro cuore è di un altro genere. L'abisso ghiacciato dell'Ombra cristiana è un regno di importanza fondamentale, che non può essere raggiunto con il cuore sanguinante del cristianesimo. L'approccio archetipico a questa zona segue la massima omeopatica: similia similibus curantur. La nekyia nel ghiaccio dell'inferno richiede freddezza. Se vogliamo stabilire una qualche connessione, dobbiamo essere capaci di operare con gli estremi di crudeltà del ghiaccio. Possiamo andare incontro a Caino, Giuda e Lucifero soltanto se prendiamo coscienza del nostro desiderio di mentire e di tradire, di uccidere nostro fratello e di ucciderci, del fatto che il nostro bacio ha dentro la morte e che esiste una porzione dell'anima decisa a vivere esiliata per sempre dal consorzio di uomini e Dei. Questi desideri che non cercano redenzione e hanno abbandonato ogni speranza si agitano anche nel cuore del terapeuta: non ci sono soltanto la sua carità e la sua fede. Questi desideri da nono girone conferiscono quel freddo occhio psicologico che vede tutte le cose da sotto, come immagini impigliate nei loro giri; un occhio in cui riluce la inumana intuizione di Lucifero, portatore di luce.

Il cuore possiede una freddezza, un luogo di riserve, simile al frigorifero, che conserva, contiene, protegge, isola, sospende l'animazione e la circolazione, un alchemico congelamento della sostanza. La crudeltà e il disprezzo meschino costituiscono l'ambiente di un intimo senso di approfondimento estremo. Forse è vero, nel mio ghiaccio c'è la mia principessa della fiaba, che la psicologia dell'Io vuole chiamare in vita con un bacio; ma forse essa, nella sua frigida immobilità, è intenta ad altro, a scendere più a fondo, verso il nono girone, al di sotto di tutto ciò che si muove; un distacco e una stabilità che ricordano il freddo corpo della morte. Abbiamo qui una figura di Anima che non è umori ed emozioni volubili o sensuosamente carezzevoli o di malinconica meditazione. No, lo scintillio del ghiaccio riflette la perfezione; solo intuizioni cristalline e verità taglienti possono soddisfare. Desiderio di assoluto, assoluzione nella perfezione. La fanciulla di ghiaccio è una padrona dispotica, fredda e insensibile; ma dal momento che la sua regione è segnata sulla mappa della geografia psichica, anche la freddezza polare è un luogo in cui è possibile essere. Di conseguenza il bisogno di riscaldare ciò che è freddo e di sciogliere il ghiaccio (di nuovo, l' opposizionismo) riflette un intervento terapeutico che non ha saputo incontrare il ghiaccio al suo livello. La pulsione curativa nasconde la paura del nono girone, la paura di andare fino in fondo, fino a quegli abissi che in modo troppo affrettato e con troppa sicurezza definiamo psicotici.

Alcune iscrizioni su tombe pagane e paleocristiane dicono che l'anima da morta è «refrigerata»: in refrigeratio anima tua; deus te refrigeret; in refrigerio et in pace. Anche la tradizione letteraria usava i termini refrigerium e refrigerare per indicare lo stato dell'anima liberata, dopo la morte. L'origine di questa convenzione è probabilmente la traduzione in latino di termini greci affini a psyche che rientrano nell'ambito semantico del freddo (psykter, « recipiente in cui veniva tenuto in fresco il vino »; psychos, «inverno, tempo freddo »; psychros, «freddo, irreale, insensibile, frigido» ). Il verbo psycho significa « soffio, respiro» e «raffreddo». Insomma, esiste un nesso antichissimo tra la dimensione della freddezza e l'anima.

  Oltre a stare in un luogo freddo o a essere un luogo di freddezza nei vari sensi del termine, la psiche riceveva, per esempio da Osiride, una bevanda rinfrescante di dolce refrigerio psichico. Queste bevande fredde ritornano nei nostri sogni: che la Coca Cola, i gelati e le bibite ghiacciate dei nostri sogni vadano riferite a questo antico retroterra? Il problema in questi casi è dato dalla letteralizzazione della dolcezza nello zucchero (o nei suoi succedanei artificiali), vale a dire è il problema dell'atteggiamento ingenuo, naturalistico del Bambino, per il quale, se una cosa è dolce, deve avere un sapore dolce e se è fredda, deve esserlo concretamente, per i sensi. Quando il luogo del ghiaccio è anche il luogo dello zucchero, c'è confusione tra i bisogni psichici del mondo infero e i bisogni emotivi del Bambino. L'immagine onirica li presenta mescolati insieme. (Un indizio per risolvere il problema sarà dato dal colore e dal nome della bevanda, oltre che dall'ambientazione dell'immagine). L'Io onirico che sorseggia il suo frappè al cioccolato è un Io che per assorbire il suo ghiaccio oscuro ha bisogno di un dolcificante cremoso, ma quello che conta è che comunque sta sorbendo la fredda bevanda della morte.

 

 

 

pasti rituali

 

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Anche l'ermeneutica psicoanalitica riguardo ai pasti rituali (banchetti, scorpacciate) necessita di una correzione dal punto di vista archetipico. Poiché Dioniso e Ade sono lo stesso dio, i riti che apparentemente celebrano la gioia e la forza vitali contengono anche un'ombra infera. Ed è quest'ombra a essere coinvolta quando in un sogno si mangia con persone defunte e si preparano o si consumano cibi che avevano una particolare associazione con mitologemi del mondo infero: miele, semi, melagrane, cereali, focacce e anche mele. Per inciso, secondo le popolazioni delle foreste tropicali (per esempio, i Dayak), i funghi sono le anime dei morti che spuntano nella terra dei vivi; le vesce, umide, fragranti, spontanee, i «funghi di mezzanotte» (La tempesta, V, I, 39) di terra ariosa o aria terragna, dal neoplatonico Porfirio erano chiamate «figli degli Dei»; e nella tradizione popolare italiana, il punto del terreno in cui spunta un fungo segnala il giacimento sotterraneo di uno specifico corpo metallico, cioè le figure planetarie o corpi archetipici del mondo infero. Freud, come abbiamo visto, è ricorso all'immagine dei funghi per rappresentare l'origine misteriosa dei sogni.

Altri cibi di cui è citato l'uso nei culti ctonii greci e nei «banchetti offerti ai defunti» sono verdure cotte, uova, galli, a volte pesci; tra le bevande, una mistura di miele, acqua, latte e vino. Nei sacrifici si usavano pecore o capre nere, che dopo essere state sgozzate venivano bruciate completamente." Come si vede, il menu può essere lungo e vario, con differenze secondo il luogo, il culto e il periodo storico, e l'amplificazione di uno qualunque di questi alimenti, per esempio il latte o il miele, richiederebbe almeno una ventina pagine.

Non è il caso di essere troppo rigorosi nel distinguere quali cibi attengano esclusivamente al mondo infero e quali no; l'importante è che nel sogno si avverta l'atmosfera sacrificate che trasforma l'atto del mangiare in un rito per la psiche. In tal caso, possiamo intendere i cibi e i pasti come un riferimento a Ade «l'ospitale », il segreto anfitrione del banchetto della vita. Dunque queste comunioni rituali possono aprire la via a un più spontaneo senso di fratellanza con le nostre «persone morte», quei contenuti esperiti di solito come influenze famigliari provenienti dal passato, come la vita non vissuta, come le aspettative irrealizzate degli antenati che inconsapevolmente portiamo su di noi. Adesso, sedendo a tavola con loro, gli diamo nutrimento e ne veniamo nutriti.

La psiche ha bisogno di essere nutrita. Questa idea la si ritrova sia nella diffusa pratica di deporre nelle tombe cibo e utensili per cucinarlo, sia in festività pubbliche, per esempio in Grecia, nelle annuali Antesterie, in cui si dava da mangiare alle anime Chere, che dagli inferi tornavano nel luogo in cui erano vissute; un'usanza rituale che sopravvive ancor oggi nella notte dei Morti, o Halloween, quando, per placare persone mascherate, facciamo loro piccole offerte simboliche di cibo. Gli alchimisti eseguivano un'operazione detta cibatio e una detta imbibitio, che consistevano nel somministrare, in un determinato momento dell'opus del fare anima, il cibo e la bevanda necessari alla sostanza psichica su cui operavano.

Nell'Eden l'atto di mangiare costituì il primo peccato; dunque la nostra vita come esseri umani inizia con quel primo morso. Questo non lo intendo certo nel senso evolutivo di oralità e capezzoli: i sogni alimentari vanno ampliati al di là di concetti semplicistici come fase orale e gratificazione delle richieste. Il cibo è talmente fondamentale, più della sessualità, dell'aggressività e dell'apprendimento, che è davvero sorprendente constatare quanto scarsa attenzione ricevano il cibo e l'atto di mangiare nella psicologia del profondo. Occorre perciò esaminare con molta attenzione questi sogni, nella consapevolezza che la nostra tradizione psicologica ci soccorre ben poco al riguardo.

Dunque prenderemo nota di quello che le persone oniriche mangiano e dove, quando e con chi mangiano, perché questi particolari ci dicono come si svolge il processo nutritivo. In tal modo potremo apprendere di che cosa e secondo quali modalità si nutre l'Io onirico. Riceve il cibo da una cameriera, che prende (o non prende) la sua ordinazione? Va a «mangiare fuori»? Oppure mangia «in casa», dove può «cucinare lui stesso»? Fa man bassa di dolciumi in pubblico, o va al suo refrigerium, nel cuore della notte, per trovare ciò di cui ha una fame disperata?

I cibi evocano associazioni concrete, naturalistiche: «Detesto il fegato: è troppo pesante e ha un sapore dolciastro »; «Non prendo mai il tè a colazione, chissà perché l'ho sognato?»; «Il succo d'arancia fa bene, anche se nel sogno lo trangugio tutto d'un fiato », E difficile vedere in trasparenza il fegato del sogno, che è, tra altre cose, il grande organo sanguigno delle passioni più vitali (indipendentemente dal gradimento per il fegato del mondo diurno); è difficile riconoscere che il tè mattutino del sogno è un nuovo rituale per affrontare la giornata e che trangugiare il succo d'arancia avidamente è esattamente quello che dice: una coazione maniacale per il dorato «succo» solare, a somiglianza delle anime nell'Ade, assetate di vita. Penetrare una specifica immagine alimentare è particolarmente difficile, perché si tratta di qualcosa di assai concreto; eppure quello che mangiamo nei sogni non è cibo, ma immagini.

  Nelle raffigurazioni dell'oltretomba egizio, il cadavere riceve cibo e bevande dal Ba. Ancora una volta vediamo come nell'antico Egitto il mondo infero capovolga il mondo diurno. L'idea rappresentata non è quella dell'anima che si ciba della materia del corpo, che sarebbe un epifenomeno della dieta (siamo quello che mangiamo); ci viene mostrato, al contrario, che il corpo attinge all'anima per avere nutrimento. La vita del corpo ha bisogno della sostanza animica delle immagini.

Abbiamo citato l'idea romantica secondo la quale le immagini sono il migliore alimento per l'anima. Che voglia dire anche che i cibi sono le migliori immagini dell'anima? Insomma: forse l'atto di mangiare, nei sogni, nutre la bocca dei nostri fantasmi, restituendo alle altre anime, e alla nostra anima onirica, una porzione di ciò che cresce nella nostra psiche. È un atto sacrificale, liturgico. Chiunque sia a compierlo nel sogno, e in qualunque luogo e momento si svolga, quelle immagini oniriche nutrono delle persone psichiche. L'atto di mangiare, nei sogni, avrà pertanto poco a che vedere con un istinto della fame e molto a che vedere con un bisogno psichico di immagini nutrienti. Il cibo, di qualsiasi genere, è appunto l'immagine del nutrimento. E la probabile origine del cibo onirico è la cornucopia di Plutone.

Anche gli Dei vogliono il cibo a loro adatto: ricordate come si vendicarono di Prometeo, che aveva cercato di rifilare loro cibo di scarto? Nemmeno la cucina di Caino era gradita. Per quanto i frutti, la macellazione di animali e la consumazione con il fuoco attengano alla natura, ciò che nutre gli Dei non è letterale, bensì sacrificale, metaforico. La liturgia è fatta di immagini concrete, il cibo come pegno del rito; perciò nei nostri sogni quello del mangiare è un momento di transustanziazione, in cui ciò che è soltanto naturale diventa anche metaforico. È un rito primordiale, volto a mantenere in vita gli Dei, perché ci mantiene in comunione con presenze che trascendono la nostra persona e perché tratta gli Dei come membri della famiglia, che hanno bisogno di pasti regolari.

 

 

 

baldoria

 

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Tratteremo ora diversi generi di baldoria (musica, carnevale, circo, clown), tenendo presente che l'ambito semantico a cui ci riferiamo è quello della parola inglese revelry, dal latino rebellare, da cui ribelle. Dunque: ribellione licenziosa, discordia dissonante, scompiglio, la rivolta dell'allegria e l'effetto dirompente della risata.

Cominciamo con la musica. Dal punto di vista archetipico, la musica non può essere ricondotta al solo Orfeo o al solo Apollo. Esistono diversi tipi di musica: meditativa, marziale, amorosa, funebre, ditirambica, canzonette, canti di lavoro. Molte Muse vuol dire che la musica può avere molte ispirazioni; un tipo, in particolare, può essere più direttamente riconnesso con il mondo infero: per scacciare i demoni dei defunti così come per ridestarli, si usava e si usa suonare tamburi, campane, campanelli e pifferi dalle note acute. Questo genere di musica stridente e arcana si presenta a volte nei sogni insieme con strane processioni (per esempio di storpi e pellegrini medioevali, come in un film di Bergman): una corte dei miracoli, un pandemonio, appunto, parola che a sua volta ha finito per significare una tremenda e chiassosa confusione. lo intendo queste grottesche scene di musica come lo svolgimento di un rito, un movimento che riunisce gli elementi deformi e reietti della psiche e li mette insieme nel processo del fare anima. Ora, la massa confusa dell'alchimia è in cammino, si sta movendo.

Ma anche le canzoni più semplici, in un sogno, fanno sospettare un senso più profondo, un significato sotto-stante (hyponoia). Secondo i Toda dell'India, soltanto i morti cantano nei sogni. Possiamo dunque ascoltare tutta la musica onirica con orecchio rivolto alla morte, teso a distinguere le tonalità psichiche. Questo significa che non occorre sentire suoni letterali per sintonizzarsi con la musica di un sogno (il fraseggio, il ritmo, le dissonanze, i temi dominanti e ricorrenti, l'armonia nascosta). Basta avere l'orecchio musicale che trasforma in musica gli eventi. E quando in un sogno si sente davvero della musica, quello che il sogno sta anzitutto affermando è che può essere udito; anzi, diciamo pure che vuole essere ascoltato.

Feste di carnevale, balli mascherati, fiere e spettacoli itineranti: il mondo infero come una folle vitalità a rovescio di figure autonome, travestite, incontrollabili, affascinanti e paurose, che vagano nella notte o montano il loro circo di notte, nel bel mezzo della città. Sono arrivati i fenomeni da baraccone e i ciarlatani, gli animali e le giostre con il loro moto meccanico e circolare.

Nel sogno di una donna molto attaccata alla sua famiglia, alla sua confortevole vita borghese e ai relativi valori, l'Io onirico è inseguito nei bassifondi della città da figure carnevalesche minacciose e oscene. L'Io onirico si sottrae all'inseguimento prendendo posto al tavolo di un caffè, dove, con finta disinvoltura, si mette a conversare spiritosamente con gli intellettuali lì riuniti (è un sogno europeo, ovviamente).

L'umorismo aggressivo e chiassoso e la scurrilità corporea dei bassifondi sono riflessi nell'Io onirico sotto forma di conversazione spiritosa e colta. Anche l'Io è in maschera (finge disinvoltura). L'operazione difensiva funziona, perché si mantiene nello stile della minaccia: rimane in strada, usa l'umorismo, ha la coscienza di stare fingendo.

Un'altra giovane donna, che era entrata in analisi per «riuscire a dominare la sua condotta dissoluta» (alcol, abbuffate, psicofarmaci, sesso facile), sente avvicinarsi minacciosamente la musica stridente di una chiassosa banda carnevalesca, un Martedì grasso. L'Io onirico sveglia la sognatrice in preda al panico, e lì per lì la donna crede di essere nello studio dell'analista. Il processo di depravazione, per sfuggire al quale l'Io onirico si rifugia nell'analisi, è sempre in corso, nonostante l'analisi, anzi si fa più vicino. La dissolutezza non si lascia dominare come lei aveva progettato. Anzi, lo studio dell'analista e la banda carnevalesca fanno parte della medesima immagine. L'immagine le chiedeva di prestare un orecchio analitico alla musica sfrenata che la banda della sua anima suonava in lei e con lei. Le ceneri quaresimali del Mercoledì delle Ceneri e la musica carnevalesca del Martedì grasso appartengono alla medesima immagine e si costruiscono a vicenda.

Una terza giovane donna, il cui ideale era di vivere in una comune e avere rapporti basati sulla sincerità e la trasparenza, sognò di trovarsi a una festa in costume in cui tutte le figure portavano la maschera. Tutti che ballano, da soli, negli angoli, come dei pazzi. L'Io onirico è trascinato in una danza vorticosa con un partner che la donna non riesce a vedere o non riconosce; si sveglia terrorizzata perché tutti sono irreali.

La morte, sotto forma del danzatore mascherato, l'invisibile, colui che separa, ci trascina in una danza senza compagni, nella forma individuale della nostra maschera. Questa danza è «irreale» dal punto di vista del mondo diurno, nella cui realtà l'Io cerca rifugio con il risveglio. Il carnevale indica un evento collettivo (molte figure, folla, balli), ma al tempo stesso un evento irrelato e impersonale, senza coppie né appaiamenti, addirittura senza gruppi intimi. Il livello personale è demolito per dare luogo a un altro tipo di esperienza.

Anche a Tebe, all'arrivo di Dioniso, si diffuse questo tipo di terrore e di eccitazione. Le identità diventarono incerte; giovani donne abbandonarono i legami famigliari e i rapporti personali per riversarsi nelle strade e nei boschi. Poiché Dioniso e Ade sono lo stesso dio, questi sogni strappano l'Io onirico alla vita quotidiana, portandolo a vedere in trasparenza i suoi valori nella ribellione orgiastica.

Quando il carnevale incalza e il danzatore mascherato invita, l'Io onirico si trova nel ruolo di Persefone, inseguita dalle richieste dello spirito invisibile. Se lo spirito non fosse mascherato, sarebbe possibile prenderlo nel suo valore facciale, letteralmente; capiremmo dalla faccia che presenta che cosa cerca. Porta la maschera per stimolare l'indagine, la fatica della scoperta. E questa la giusta risposta spirituale allo spirito mascherato o invisibile; si impara a danzare con le sue richieste, il che non equivale ad adorarlo o a esserne schiavi. La cosa, tuttavia, terrorizza l'Io, ed evoca lo straniero mascherato, la Morte, oppure l'Animus negativo, o un Vampiro. A Tebe Dioniso veniva chiamato lo Straniero.

La parola «carnevale» deriva dal latino carnem levare, cioè «eliminare la carne», e si riferisce a un momento di psichizzazione che elimina l'atteggiamento naturalistico ed è perciò vissuto come una morte. Alle figure del carnevale che pretendono questa eliminazione oppongono resistenza le emozioni corporee dell'Io onirico, le quali temono per la propria «vita» e, in preda al panico, si difendono contro questa stranezza interpretando il «carnevale» riduttivamente, come un momento di esuberanza della carne.

Niente meglio del circo incarna il capovolgimento dell' esperienza raffigurato nell'oltretomba egizio. Nel circo tutto sembra convergere verso un unico scopo: sovvertire l'ordine naturale delle cose, un opus contra naturam che vince la forza di gravità e instaura un mondo assolutamente pneumatico. L'elefante si rizza sulle zampe posteriori o sta in equilibrio sopra un pallone pieno d'aria. Un uomo da solo ne regge undici sopra la testa. Un altro fa stare in equilibrio sulla gamba di una sedia una pila sempre più alta di piatti. L'Uomo Mosca cammina a testa in giù, e non un oggetto sfugge mai di mano al giocoliere. L'Uomo Proiettile è sparato per aria e Uomini Uccello stanno appollaiati su un cavo altissimo o volano per lo spazio dai trapezi. Le belve saltano attraverso il fuoco. Il cavallo, bianco, cavalca in cerchio.

Intanto i clown con la faccia bianca della morte, muti come le anime nel mondo infero, suonano musiche strane, cascano e si disarticolano; troppo lenti a capire e troppo pronti a dimenticare, ripetono sempre gli stessi sbagli, se la fanno sotto (si veda più avanti, a p. 227, «Fango e diarrea») e, mimando il nostro comportamento nel mondo supero, presentano alla vita lo specchio della riflessione.

Dove altro, se non al circo, possiamo vedere il mondo infero in pieno giorno? Lo spazio circoscritto del tendone, le piste ad anello, ciascuno degli attori che si spinge tanto vicino alla morte quanto glielo consente la sua arte, i fenomeni di natura che sovvertono la natura e, soprattutto, l'esecuzione accurata di assurdità ripetitive, come se Issione, Tantalo e Sisifo avessero fondato una scuola di arti circensi.

Nei sogni e nelle immaginazioni terapeutiche, il motivo del capovolgimento ricorre più frequentemente di quanto ci si aspetti. Basta cercarlo. In ascensore, un uomo si ritrova capovolto: i piedi adesso sono più in alto della testa e la testa, che adesso è in basso, diventa la base dei piedi: quello che gli passa per la testa diventa il suo punto di appoggio, e sta sotto. Tutto questo avviene in un ascensore, confermando Eraclito, il quale ha detto che « la strada all'in su e all'in giù è una sola e la medesima» (fr. 60/A33). Un altro paziente sogna di rimanere ritto sulla testa dopo tre perfette capriole; in seguito mi disse di avere provato a eseguire quel numero e di aver sentito il sangue aflluirgli alla testa, mentre prima di allora non aveva mai associato la testa con il sangue; ora essa era diventata un organo ben irrorato, denso, rosso, rotondo. L'uomo cominciò allora a considerare il pensiero da un nuovo punto di vista e ad avere « pensieri rosso sangue », come li descriveva, pensieri ribelli e contemporaneamente simili a sberleffi sguaiati: attraverso il clown gli si stava aprendo l'intelligenza della passione.

Durante un'immaginazione attiva, all'inizio dell'analisi, una donna vede una scimmia appesa per la coda. La scimmia le spiega che nel suo mondo quella è la posizione giusta e che anche lei deve imparare a muoversi in quel modo, se vuole stare con lei. La donna ha paura ed è disorientata: sembra un primo passo verso la follia, eppure fa tanto ridere! Un'altra paziente sogna un clown che si cala dalla fune tesa a grande altezza; scende a testa in giù, guidato nella discesa da una corda di sicurezza legata al tendine di Achille. La via della discesa è la via dell'umana fragilità: ciò che per l'eroe è il punto debole, per il clown è il sistema di sicurezza; il punto più vulnerabile è ciò che sorregge e guida, quando si è a testa in giù.

Mentre scrivo queste cose, mi si affollano immagini della mia esperienza di analista, mescolate alle immagini di Fellini e della storia dell'arte, segno di un grande trasporto verso i clown, i mimi, il circo.

Come ragazzini vorremmo scappare di casa per seguire il circo, ma l'identificazione con il clown è un mimare il mimo. Eraclito ci ha messo in guardia: « Non è conveniente essere comici al punto da apparire noi stessi comici» pare abbia detto (fr. 130, Freeman). Agire concretamente il clown letteralizza la guida al mondo infero. Lo spirito comico ci può condurre laggiù, ma non siamo noi la guida: noi non siamo Arlecchino, il Briccone o Ermes Psicopompo e neppure il Clown. Lo spirito comico si mostra in maschera in tutte le cose che facciamo e diciamo; siamo noi stessi una burla e non c'è bisogno di infarinarci la faccia.

Non si tratta di diventare un clown ma di imparare la sua lezione: farne un'arte delle nostre insensate ripetizioni, dei nostri capitomboli e delle nostre patologizzazioni, indossare la maschera della morte che apre la porta al mondo onirico e osservare come esso trasforma in immagini sorprendenti gli oggetti quotidiani e in oggetto di risate la nostra persona pubblica.

Si segue il clown nel circo entrando in una prospettiva di ribellione contro l'ordine del mondo diurno; una ribellione senza causa e senza violenza. Mettendoci a testa in giù, deletteralizziamo, nelle più piccole cose che diamo per scontate, tutte le leggi della fisica e tutte le convenzioni della società. Attraverso il clown entriamo nella prospettiva dell'anima fantastica; il clown come psicologo del profondo. Pensate un po': Freud e Jung, due vecchi clown.

 

 

 

porte e cancelli

 

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Due parole su porte e cancelli. Uno degli epiteti di Ade era « colui che chiude la porta». Fu alle porte degli inferi che Eracle ingaggiò la lotta con Ade. Prima dell'iniziazione (se mai avvenne) ai misteri eleusini, Eracle dovette essere adottato da un padrino, Pilio, che fungesse da portinaio, perché gli fosse concesso l'ingresso nei cancelli di Ade.

Il problema del mondo infero, per l'Io erculeo, si situa sulla soglia, sulla linea di confine (borderline), che per lui separa due tipi di coscienza. Per la coscienza ermetica non esiste un problema di conflitto tra mondo supero e mondo infero: Ermes abita i confini; sui confini sono erette le erme in suo onore, e il dio facilita gli scambi tra ciò che è familiare e ciò che è estraneo. A differenza di Eracle, il quale rintuzza il male e ci salva dalla malattia, la coscienza ermetica non trova soglie né cancelli al di là dei quali siano contenuti stati definibili «malati» e cronici (o «ritardati »), perché sul confine vita e morte sono inscindibili. A tenerle insieme è la patologizzazione. I confini sono un luogo di scambi aperti anche per il Briccone, per il Danzatore e per l'Arlecchino. Per Eracle, invece, è sempre una lotta e una gran fatica entrare e uscire, prendere in considerazione contemporaneamente alternative, lingue e usanze diverse: realtà psichiche e realtà fisiche. Il suo mondo è un mondo di opposizioni; egli è incapace di oltrepassare i cancelli senza I'enantiodromia, la fuga nell'opposto: nella follia, nel misterico, nel sesso femminile.

Porte e cancelli sono i luoghi dell'attraversamento, del «trapasso », come si diceva in epoca vittoriana. Sono le strutture che rendono possibili i riti di passaggio. La prospettiva infera inizia al cancello di ingresso, dove ingresso significa iniziazione. All'inizio si deve penetrare la natura duplice, di Giano bifronte, del cancello, in modo che tutto ciò che sta all'interno possa essere inteso in un doppio senso, ermeticamente, metaforicamente. I cancelli rendono possibile la prospettiva del mondo infero.

Più che nei sogni, incontriamo i cancelli al momento del risveglio da un sogno; è allora che facciamo esperienza della lotta sulla soglia. La consapevolezza si dibatte tra immagini del mondo notturno e progetti del mondo diurno. Ci riesce più difficile ricordare i sogni quando siamo nella postura erculea, pronti ad alzarci e a metterei in moto. Di conseguenza i periodi in cui non riusciamo a ricordare i sogni potrebbero segnalare la presenza di Eracle, più che un'esclusione da parte di Ade. Ade secondo me chiude la porta non tanto per impedire ai sogni di fuggire dal suo regno, quanto per impedire che fuggano con Eracle e siano incamerati nel suo Io, che traduce i sogni in azioni volte a risolvere i suoi problemi. Questo deruba Ade e defrauda la morte del contributo del sogno al fare anima. La cattura di Cerbero, il guardiano della soglia, rende evidente la minaccia di fondo che Eracle pone a Ade: la distruzione della soglia, che aprirebbe il mondo infero alle incursioni dall'alto, mettendo per sempre a disposizione della vita pratica il regno dell'anima. La missione di Cristo, che sconfisse l'inferno, è stata prefigurata in quella di Eracle. E questo non è soltanto mito, una cosa dei tempi antichi, perché, come dice Salustio, il mito non è mai accaduto, ma è sempre. La distruzione dei cancelli, del mondo infero e dell'anima avviene ogni mattina. Ogni mattina, noi catturiamo il cane del terrore notturno ed entriamo immediatamente nel giorno, gonfiando i muscoli, buttandoci giù dal letto, le nostre proiezioni rafforzate dal sogno.

Che differenza, una volta ancora, con Ermes, per il quale non esiste il problema di due mondi, di due atteggiamenti e del loro conflitto. Esiste soltanto una modalità, ermetica, che vede tutti i mondi con occhi ermeneutici.

Si potrebbe pensare che la lotta sulla soglia sia una lotta fra atteggiamento interiore e atteggiamento esteriore, ma la prospettiva erculea non è semplicemente estroversione: è il modo letterale di considerare le immagini che abbiamo rilevato nel comportamento di Eracle agli inferi. Perciò il medesimo Io eroico lo ritroviamo nel letteralismo introverso, per esempio quando prendiamo i sogni alla lettera come messaggi spirituali, previsioni sincronistiche, profezie di individuazione, istruzioni da parte del Sé, ricordi del passato, dichiarazioni sui nostri stati d'animo e così via. Sì, i sogni sono meravigliosi e ci riempiono di meraviglia, ma non sono meraviglie, miracoli, rivelazioni, la verità. I sogni appartengono all'anima e alle sue immagini, non allo spirito; i fenomeni spirituali che possono apparire nei sogni sono a loro volta deletteralizzati dalle immagini nelle quali lo spirito si presenta. Il letteralismo introverso disperde l'immagine nel messaggio.

Vediamo all'opera il letteralismo introverso (chiamiamolo così, in mancanza di un'espressione migliore) in un altro luogo della leggenda di Eracle. La tarda antichità convertì Eracle da «uomo dalla forza arcana a simbolo di salvazione mistica». Ma la conversione è pur sempre una enantiodromia. Lo stile di coscienza rimane intatto. E cambiata la sua sfera d'azione, ma l'atteggiamento è il medesimo anche nel nuovo campo. Sicché siamo catturati da Eracle anche quando vediamo il sogno non più come un messaggio rivolto ai muscoli della vita, ma come «simbolo di salvazione mistica».

  La chiave che apre la porta degli inferi a Eracle è in mano a Persefone. Nell'antichità fu molto dibattuta la questione se Eracle avesse incontrato Kore-Persefone; perché, in caso affermativo, avrebbe voluto dire che era un iniziato. Per noi questo implica che la lotta sulla soglia, l'opposizionismo tra due mondi, può essere abbandonata soltanto quando nell'anima si opera uno slittamento da Ebe a Persefone, quando la fantasia stessa incomincia a desiderare non il successo esteriore e neppure la salvezza interiore, bensì la profondità.

 

 

 

fango e diarrea

 

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Nel quinto capitolo, parlando del materiale onirico, ci siamo richiamati all'idea di Bachelard della plasticità della sostanza psichica, il fatto che è come l'argilla, la pasta del pane, il metallo fuso. Questa è anche l'idea implicita nelle descrizioni del mondo infero come un regno fatto di materia melmosa o fecale. Platone (La repubblica, 363c-d) dice che l'Ade è di fango; Aristofane, nelle Rane, descrive una palude traboccante di escrementi; Kerényi, quando parla di Eracle che attraversa le acque melmose dell'Acheronte, dice che esse richiamano la palude di Stinfalo, nonché, aggiungerei, le stalle di Augia piene di sterco. A proposito del testo della nekyia che aveva tradotto, Dieterich osserva che la fascinazione degli autori cristiano-orfici per la purgazione e per l'inferno immaginato come buco schifoso, pieno di sangue e di brago riflette la doppia connotazione della diarrea, da un lato immagine oggettiva, intesa ad ammonire con la sua repellenza, dall'altro sintomo soggettivo della paura provocata da quella immagine. Si potrebbe inoltre ricordare come, per gli egizi, i morti nel mondo infero camminassero a testa in giù, sicché il contenuto degli intestini fuoriusciva dalla bocca.

Il labirintico apparato intestinale, con il suo calore, la sua collocazione interna e il suo fetore sulfureo, è già stato da altri assimilato a un mondo infero interiorizzato. Esiste nella nostra cultura una lunga tradizione che associa le viscere con la malattia mentale, e non manca chi ha identificato in esse la sede dell'anima." Il termine con il quale la medicina indica i brontolii dell'intestino, «borborigmi », è lo stesso usato da Platone (Fedone, 69c) e da Aristofane per definire la mota schifosa del mondo infero. Un inno orfico tardo chiama la Dea del regno della morte Borborophoba, epiteto che si potrebbe intendere nel duplice senso di « colei che spaventa le feci, dunque le tiene lontane» e « colei che, inducendo il panico, provoca la diarrea».

Alla luce di questo retro terra, i sogni in cui compare la diarrea ci si rivelano come movimenti radicali che spingono irresistibilmente verso il mondo infero; o come un mondo infero che in modo improvviso e irrefrenabile ha preso vita dentro di noi, indipendentemente da chi siamo e da dove ci troviamo. Come la morte, la diarrea colpisce quando vuole e senza distinzioni. La merda è la grande livellatrice.

  Stiamo attraversando un confine. La diarrea segnala che l'ordine diurno è giunto allo sbocco finale. Il vecchio re crolla e fa la cacca come un neonato: decomposizione e creazione simultaneamente - incontinenza, umiliazione, ridicolo, da Saturno, signore delle latrine e delle mutande, ai Saturnalia. Si ha l'impressione che sul mondo si sia scatenata pura anarchia e non si vorrebbe altro che un luogo chiuso e privato in cui calare le brache. Come per i nordici che vanno al Sud, la tanto sognata e desiderata vacanza si concretizza in un gabinetto. Il gabinetto come morte del desiderio, come desiderio di morte, come burla, luogo del clown.

Quello che sto proponendo qui, con lo stile sguaiato dell'umorismo da latrina, è un'estensione sia dei concetti freudiani che associano gli intestini con l'analità, sia dei concetti junghiani che mettono in relazione gli intestini e i loro prodotti con l'espressione creativa, la prima materia e l'oro alchemico. I « sogni di gabinetti» (quelli in cui ci sono bisogno urgente di defecare, fogne intasate e inondazioni fecali, o l'imbarazzante e frustrante ricerca di un posto « dove andare» o la scoperta di essersela fatta addosso e simili) possono essere letti come iniziazioni al mondo infero. Si tratta effettivamente di esperienze di morte, per l'Io diurno, per il quale essere pulito equivale praticamente a essere fatto a immagine di Dio. Per usare il linguaggio delle immagini egizie, l'anale si è rovesciato nell'orale, ciò che era stato tenuto dentro è sputato fuori e noi siamo liberati nel rimosso. Ricordate il panico di Freud al pensiero che le idee di Jung potessero allentare la presa della scienza psicoanalitica sulla psiche profonda, scatenando « la nera marea di fango dell'occultismo »?

Pensate al cumulo di idee interpretative che esiste sulle feci, di « significati» attribuiti alla cacca (le cagate sulla merda!): il dono d'amore alla madre; la creatività, che comincerebbe a manifestarsi con l'imbrattare e il colorare; il controllo della ricchezza e le origini della coscienza; la morte interiore; la nascita del non-Io, che rende possibile la separazione e l'oggettività; il Sé negativo dei valori nascosti negli aspetti più vili e reietti; l'Ombra che ci segue da dietro; nonché i rituali scatologici di tutti i paesi e l'inesauribilità dell'umorismo da latrina ... c'è solo l'imbarazzo della scelta! Appunto questa ricchezza di formulazioni fa pensare a uno sfondo archetipico nella ricchezza di Ade, nel tesoro di Plutone. Naturalmente il mondo infero è fatto anche di escrementi, che sono una ricchezza per la produzione continua di immagini fantastiche. Da questo punto di vista le feci non sono ulteriormente traducibili. In quanto residuo di residui, le feci alludono a un'essenza che è permanentemente presente e si riforma in continuazione. La loro comparsa nei sogni riflette un mondo infero al quale ci inchiniamo qu<?tidianamente e del quale non ci sbarazzeremo mai.

 

 

 

odori e fumo

 

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Quanto detto sopra ci introduce agli odori e al fumo. Secondo le statistiche, nella stragrande maggioranza, i sogni vengono «visti» o comunque usano il linguaggio della percezione visiva. Solo occasionalmente nei sogni usiamo l'udito, il tatto, il gusto e, ancora più raramente, l'olfatto. Eppure, come dice Eraclito (fr. 98, W'heelwright/A47), «Nell'Ade le anime percepiscono annusando» e, ancora (fr. 71 A48), «Se tutte le cose diventassero fumo, le narici le distinguerebbero l'una dall'altra».

In genere, come abbiamo visto, l'antichità considerava le ombre dei defunti come esseri pneumatici. Scrive Cumont: «Sono paragonate al vento, perché il vento è aria in movimento, a un vapore, a fumo che sfugge non appena si tenta di imprigionarlo ». Platone (Cratilo, 404d) ipotizza che il significato etimologico del nome Persefone sia «Colei che afferra ciò che si muove ».

Ma come si afferrano i moti dell'anima; come si fa a percepire l'aria? In greco, il senso primitivo di aisthomai, «percepire» (con il sostantivo aisthesis, di cui manteniamo traccia in «etere» e in «estetica») era quello di «assorbire », «inspirare ». Forse il problema sollevato da Eraclito non è quale tipo di sensazioni abbia a disposizione l'anima nell'aldilà (secondo la lettura concretistica, ingenua e cristianizzata di Kirk), ma semmai quale sia l'analogia migliore per la percezione psicologica. Forse le profondità psichiche che non si rivelano ai sensi più visibili, più tangibili, richiedono una modalità percettiva come l'olfatto, capace di discriminare tra ciò che è nascosto: una percezione di essenze intangibili con strumenti intangibili. Il lavoro psicologico, dunque, richiederà naso fino, la capacità di percepire corpi sottili, o di percepire il corpo con sottigliezza, rintracciando ciò che è essenziale. Si dice «essenza» per indicare sia una sostanza elementare germinale, sia un profumo. E forse questa valutazione metaforica dell' olfatto spiega la curiosa convinzione di alcuni psichiatri secondo la quale le allucinazioni olfattive degli schizofrenici sarebbero percezioni reali rese più acute dal ritiro autistico dagli altri sensi, come se il paziente si ritirasse nel mondo infero, pneumatico, dove le anime percepiscono annusando.

È il tipo di percezione sottile che può essere attribuito agli Dei invisibili, i quali mediante la facoltà del fiuto riconoscono le offerte e gli incensi bruciati in loro onore: «Il dio assume varie forme così come fa il fuoco, il quale, quando è mescolato a spezie, prende nome secondo la qualità olfattiva di ciascuna» (fr. 67/A91). Insomma, sono le narici a discriminare gli spiriti.

Perciò, quando Eraclito dice (fr. 961 A121): «I cadaveri sono da gettare via più dello sterco», non ci possiamo accontentare di un'interpretazione banale, che fa dire a Eraclito una cosa che già sappiamo: il corpo morto è meno utile dello sterco. E più probabile che Eraclito intenda, nel suo solito stile paradossale: lo sterco, nella fattispecie l'odore della putrefazione, vale più del materiale che lo produce; ovvero, ciò che ha valore non è il semplice corpo fisico, bensì l'anima che si libera attraverso la putrejactio. Il termine jumus, o vapore sottile, è etimologicamente affine afimus, «letame», la materia morente dalla quale esso emana. Nella merda (come abbiamo visto) ha luogo un processo psichico riconoscibile soltanto mediante una modalità percettiva psichica che, sull'esempio di Eraclito, chiamiamo « olfatto ».

I rari sogni in cui si odora qualcosa andrebbero esaminati in questa prospettiva. Se è vero che soltanto il naso conosce le cose, allora non mi limiterò a immaginare ciò che avviene nel sogno come un evento volgare attinente all'anale o all'animale, o come un evento passato attinente alla memoria, o come l'entrata in scena della funzione intuitiva; considererò invece l'evento onirico come qualcosa di essenziale, di pneumatico, di estetico, di etereo perfino. Quando annusiamo una cosa, assorbiamo il suo spirito, quindi conviene sapere che cosa stiamo annusando. «Etereo» può significare anche ultraterreno e arcano nel senso di diabolico; anche il diavolo si riconosce dall'odore. Dunque il fenomeno che si presenta insieme a un odore proviene dal mondo infero, e per discernere la sua natura occorre un intenso acume psichico.

L'olfatto è il senso sottostante, la hyponoia (p. 171) che percepisce le realtà psichiche quando «tutte le cose [diventano] fumo» (fr. 7/ A48). Il fumo rimanda da un lato a stati che all'occhio diurno della percezione fisica risultano opachi e confusi; dall'altro, a stati vaporizzati o psichizzati, in cui l'anima-morte o anima-immagine abbandona la materia corporea. (Potrebbe esserci una verità nascosta nella convinzione di certi clinici di saper diagnosticare le psicosi «a naso »).

  Il fumo è il primo effetto visibile dell'azione del fuoco sulla materia. E contemporaneamente materia rarefatta e aria densa, una sostanza intermedia tra spirito e corpo. In questo senso, costituisce una ottima analogia per l'anima, cosa che non sfuggì agli alchimisti." Scrive Wheelwright: « ... fumo, nuvola e vapore non sono che forme diverse dello stato intermedio tra il fuoco e l'acqua, e l'anima appartiene ontologicamente a tale zona. L'anima, essendo di vapore, è anche di fumo ».

  Nei sogni in cui c'è fumo non c'è soltanto un fuoco invisibile (una passione nascosta, come usa dire). Il fumo è importante in sé, indipendentemente dal fuoco che si suppone segnali. Significa che è in atto il processo del fare anima, una modificazione irreversibile della natura delle cose, un'elevazione che diventa anche accecamento e soffocamento se ci si spinge troppo in là, identificandosi con la trasformazione dell'elemento. (Tralascio volutamente in questa sede tutto il tema del piacere, della ritualità e della dipendenza dal fumo, inteso come fumare tabacco).

 

 

 

lo spazio

 

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Un'idea che Freud aveva assunto da Fechner (che il sogno si svolge in un topos suo proprio) ci induce a considerare lo spazio una dimensione fondamentale di tutti i sogni. Quasi ogni sogno ha la sua «località psichìca», dove prendono vita le sue immagini (si veda sopra, p. 28). Le immagini sono sempre in un luogo e possiedono una propria, caratteristica qualità spaziale. Il mondo infero stesso è una topografia: la Casa di Ade, le sale del Walhalla, fiumi, isole, livelli sempre più profondi. Il linguaggio basilare del profondo non è dato dai sentimenti, dalle persone, dal tempo o dai numeri, ma dallo spazio. Il profondo rappresenta se stesso soprattutto come, strutture psichiche espresse con metafore spaziali. E un dato così primario ed evidente che tende a sfuggirci, sicché non facciamo caso alla profondità che pure è lì, nello spazio specifico di ciascuna immagine.

  Per esempio, tendiamo a non cogliere questa dimensione spaziale, l'ubi, la «dovìtà» del sogno, quando lo amplifichiamo con il simbolismo. Una mela, un pesce o una signora dalla faccia fuori squadra, se li consideriamo archetipi, sono dappertutto; e dunque in nessun luogo. Ma questa mela, questo pesce e questa signora occupano uno spazio specifico in un sogno specifico, e la profondità di tali immagini emerge soltanto all'interno di quello spazio, come è per una mela in un dipinto di Cézanne, un pesce in un dipinto di Braque e la donna dalla faccia fuori squadra in un ritratto di Picasso.

L'immagine fondamentale di tutto il mondo infero è quella dello spazio circoscritto (anche se i limiti sono nascosti alla vista e indefiniti). Applicando il nostro principio di somiglianza, ogni risposta al mondo infero dovrebbe risuonare da un analogo spazio circoscritto, sia esso fisicamente lo studio dell'analista, l'intimità della relazione terapeutica, il vaso ermetico in cui è compiuta l'opera, il diario dei sogni o lo spazio interiore in cui si entra con l'immaginazione: derivano tutti dal mondo infero, che è profondo e chiuso. A volte esperiamo il topos onirico come un essere «ingabbiati, costretti, confinati» (Macbeth, III, IV, 23), come un'incubazione, un labirinto, una gravidanza, una claustrofobica catacomba in cui ricercare gli scheletri ancestrali. Infatti si parla di «entrare in» analisi o di volerne «uscire », perché le profondità della psicoterapia sono diventate oggi uno dei «luoghi» in cui è possibile fare esperienza dello spazio psichico.

Queste esperienze di uno spazio circoscritto sono essenziali per il lavoro onirico. E non mi riferisco alI'idea di contenitore emotivo o di temenos religioso, bensì a qualcosa di più comune. Mi sono convinto che la psiche deve essere tenuta sotto pressione, messa con le spalle al muro; all'esterno, incalzata dagli altri, che la spintonano nella valle del mondo; all'interno, da tutta la paccottiglia che contiene, le sue collezioni di immagini e di fantasie controcorrente. Scorie, montagne di scorie: a costituire i nostri sogni sono i residui diurni, cioè cianfrusaglie e spazzatura. Lo spirito vorrebbe liberarci da questa oppressione; lo spirito ha bisogno di aria, di spazio. «Nel mio matrimonio mi manca l'aria» dice la moglie; «Se non me ne vado di casa, morirò soffocata», dice la figlia; dopo di che, ciascuna di loro si ritira in una cameretta privata, con la finestra che dà su un muro.

Annotiamo i sogni sul nostro diario a caratteri fitti e minuti, notiamo le più piccole macchinazioni dei nostri sintomi, facciamo tesoro di ogni minima intuizione, come se fosse un granello di sabbia sul quale ruota un intero mondo. Naturalmente, sono necessarie anche le vaste prospettive cosmiche; dobbiamo pur riempirei i polmoni. Ma il lavoro onirico è un'arte del piccolo, e a volte si diventa piccoli e precisi soltanto sotto pressione. Forse lo stare stretti è una preparazione alla morte, serve a farci diventare abbastanza piccoli nell'anima da adattarci al corpo rimpicciolito che va nella bara, abbastanza piccoli da passare attraverso la finestrella aperta nella camera mortuaria perché le anime possano uscire. Forse il sentirsi rinchiusi e limitati fa parte dell'esperienza del corpo psichico, quella consapevolezza di un'interiorità nascosta rannicchiata dentro ogni parola e ogni gesto.

Nel suo La poetica dello spazio, Bachelard ha elaborato alcune immagini dello spazio interiore (soltanto quelle gioiose). Con l'intera sua opera Bachelard ha contribuito ad aprire la psicologia a metafore nuove sul lavoro psicologico, avviando così un'ulteriore correzione in senso archetipico della psicologia analitica. Per troppo tempo, per analizzare i sogni abbiamo preso in prestito termini estranei, astrazioni come «opposti », «compensazione », «elementi», «polarità», «energia», eccetera.

Se il luogo onirico è fondamentalmente una scena delimitata, come ha sottolineato Ludwig Binswanger, ecco che per esperire l'ambientazione scenica dei nostri sogni non occorre più continuare a rifarsi all'idea di psicodramma. Basta guardare il sogno come se fosse una sceneggiatura teatrale. Scena: La casa di mia madre; La giardinetta del mio amante; Un grande prato; queste scene definiscono già la posizione psichica di tutti gli eventi del sogno. Tutto quello che accade, accade lì.

Il passaggio dalla drammaturgia alla scenografia è simile al passaggio dalla narrazione all'immagine e dall'agonista eroico alle ombre (abbiamo già osservato che «scena» e skia, «ombra», sono etimologicamente affini). Questo spostamento ci libera dalla visione drammatica del sogno, pur conservando la connotazione più profonda del teatro. La visione drammatica impone al sogno un movimento nel tempo attraverso quattro fasi, verso una lysis o scioglimento, e considera lo spazio o ambientazione del sogno un semplice preliminare della trama. Dal punto di vista del mondo infero, invece, l'importante non è come va a finire la storia, ma dove si svolge, quale regione dell'anima è in scena in questo momento, così che io possa sapere «da che parte sto» rispetto alla mia anima onirica. Una sensibilità per le scene, diciamo pure una sensibilità isterica che ama costruire scene melodrammatiche, cerca di ricondurre il lavoro onirico a Dioniso e a Ade, a quel senso della vita come messa in scena di maschere, in cui le maschere sono i sogni. Il teatro crea l'illusione dissociativa di essere dentro e fuori nello stesso momento, entrambe le anime presenti contemporaneamente. Siamo allo stesso tempo completamente dentro il sogno e tuttavia consapevoli che il sogno è (che noi siamo) soltanto una commedia.

 

 

 

l'atteggiamento nei confronti dei sogni

 

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Per finire, quanto all'atteggiamento nei confronti dei sogni, di tutti i sogni, di qualunque tipo, diciamo che bisogna andare loro incontro all'altro capo del ponte, nel loro territorio. Seguendo il sogno nel mondo notturno, la nostra coscienza sarà vespertina, una coscienza che trapassa in notte, incontro al suo terrore e al suo balsamo; ovvero sarà una coscienza di Persefone, l'eccitazione di inseguire le immagini fino alle loro profondità e di unirsi laggiù con l'intelligenza di Ade. Questa affinità con l'Oscuro pervade tutto, anche quando le immagini oniriche sono piene di sole. I sogni sono figli della Notte e le loro immagini più luminose le dobbiamo guardare attraverso analoghe lenti scure. Dunque con il nostro lavoro ci addentreremo nel sogno senza prefigurarci alcuna Aurora consurgens, perché Aurora (Eos) ha una predilezione per gli eroi e li riporta su. Invece: la resurrezione della Morte. Anziché rivolgerci al sogno cercandovi segni di un nuovo inizio e avvertimenti su trabocchetti e regressioni, ci sarà sempre una discesa, dapprima accompagnata da un senso di sconforto, poi, man mano che l'occhio della mente si dilata nel buio, da sorpresa e gioia crescenti. Lo smarrimento, che segnala come il mondo infero sia già presente, si fa sentire subito, non appena si guarda il sogno. C'è un oscuramento della coscienza che ce lo fa apparire assolutamente estraneo e incomprensibile. Prometeo e Pandora, soccorso e speranza, rimangono sull'altra sponda.

La coscienza sarà meno visiva; il contatto sacrificale con le «divinità dei morti era compiuto volgendo il viso altrove; non lo sguardo, solo la voce ». Il mondo infero bisbiglia; non c'è alcun thymos emozionale in quel mondo quanto mai distante da chiassose concezioni della terapia come quella dell'urlo primario, il cui archetipo è il venire alla luce e la nascita del Bambino. Questo tipo di terapia, insieme a tutte le tecniche di addestramento della consapevolezza percettiva, prepara l'Io per la vita, mentre, come abbiamo visto, il lavoro onirico va in tutt'altra direzione.

La sede della sensibilità si sposterà dall'occhio all'orecchio e poi a tutti gli altri sensi: tatto, gusto, fiuto; sicché cominceremo a percepire sempre più per particolari e sempre meno per visioni complessive. Prenderemo sempre più coscienza di come, dietro le nostre riflessioni, operi un discernimento animale che le guida.

Questa rieducazione dei sensi, per cui si impara a sintonizzarsi e a entrare in contatto, a fiutare e ad assaporare, ad accordarsi con quel senso nascosto, invisibile di un'immagine che la rende importante, di peso, forse potrà mitigare alla fonte il nostro materialismo sensoriale.

L'immaginazione sensuale restituisce all'immagine la sua supremazia come base psichica della sensazione. Considerare i sensi solo al livello delle sensazioni naturali è una superstizione naturalistica. È come credere che per immaginare sia necessario vedere un'immagine, o che per ascoltare musicalmente sia necessario sentire della musica. No, è l'immagine che rende possibile la percezione dell'immagine.

Questo capovolge completamente ciò che la psicologia è andata insegnando da Aristotele in poi: le immagini derivano dalle sensazioni e l'anima si costruisce con i mattoni dell'esperienza sensoriale (i residui diurni). Una volta che si sia deletteralizzata la sensazione e si siano intesi anche i nostri sensi alla stregua di modalità di percezione metaforiche, eccoci finalmente dall'altra parte del ponte, da dove possiamo guardare alla struttura in mattoni fin troppo solida in cui viviamo la nostra vita come a un sistema di difese erette dall'uomo contro l'anima, come a un «antropomorfismo chiamato realtà».

Certo, non è facile; e poi, sa tanto di esoterico, di occulto. Ma le teorie sui sogni, se minimamente riflettono i sogni, appariranno di necessità strane alla coscienza diurna. La teoria di Freud fu considerata scandalosa e fu osteggiata: la sessualità era qualcosa che i suoi colleghi e la sua generazione non erano preparati a digerire; nessuno lesse la prima edizione del suo grande libro. La teoria di Jung era troppo difficile, troppo impegnativa sul piano intellettuale: non solo bisognava imparare tutti quei termini nuovi ma anche, per riconoscere simboli e archetipi, avere dimestichezza con la storia universale della cultura; le sue opere principali sono a tutt'oggi pochissimo lette. Quando nacquero, la teoria di Freud era perversa e quella di Jung troppo complessa. Oggi sono date per scontate.

Poiché deriva in parte da Freud e da Jung, la prospettiva avanzata in questo libro si porta appresso la loro eredità: è insieme scandalosa e difficile, ma in questo caso a cagione della morte. Ai motivi di rifiuto ereditati, questo libro ne aggiunge un altro tutto suo: le tesi che propongo sono inverosimili, inattuabili e visionarie. Il mio approccio palesa il territorio d'origine, chthon, il remoto mondo pneumatico, che è una dimensione non accessibile in sé e dunque difficile da rappresentare adeguatamente; può solo essere una prospettiva adombrata che fa piazza pulita di altre posizioni: micidiale!

Tanto Freud quanto Jung cercarono con le loro opere di costruire una scienza positiva della psiche. Ciascuno a suo modo, Freud e Jung hanno dato un contributo alla conoscenza scientifica dei sogni, spiegandone natura, struttura, dinamica, simbolismo, linguaggio, intenzioni, meccanismi interni, significati. Al contrario, questo libro si propone di elaborare un atteggiamento nei confronti dei sogni, per cui qualsiasi conoscenza positiva sarebbe un gesto del mondo diurno, che fa torto al sogno e nuoce all'anima. Quando ci si convince di conoscere l'invisibile, si è su una brutta china. E infatti oggi stiamo mietendo i frutti degli insipienti deliri di una ottocentesca scienza positiva della natura, quando invece la natura ama nascondersi. Convinti di conoscere entità invisibili come l'atomo, la cellula e il gene, ci siamo dati a spronare il cavallo della hybris, e oggi potrebbe essere troppo tardi per invertire la corsa. Sostenere una conoscenza positiva del sogno e della psiche non equivale forse a spingere lo stesso cavallo sulla stessa catastrofica china? E con un secolo di ritardo, per di più, accostandoci anacronisticamente alla psiche con atteggiamenti che sono già stati invalidati per ciò che riguarda la natura. Essenziale, per lavorare con ciò che è sconosciuto, è mettersi nell'atteggiamento di quando non si conosce una cosa. In questo modo, lasciamo che sia il fenomeno a parlare. Questo soltanto, forse, può salvaguardarci da convinzioni deliranti. Di qui la mia insistenza su due punti: l'occhio oscuro che rende incerta la nostra luce; e un'attenta precisione nei confronti di ciò che effettivamente si presenta, un metodo che Lopez-Pedraza con felice metafora chiama «restare dentro l'immagine »,

L'assenza in questo libro di conoscenze positive, la sua f1agrante indifferenza per il dato di fatto, le previsioni statistiche, la falsificabilità degli enunciati e l'autorità storica, e addirittura per le prove e per gli esempi, additano un'ulteriore differenza tra quello che siamo venuti facendo in queste pagine e quello che fecero Freud e Jung, per quanto in verità neppure loro abbiano fondato su tali metodi la propria psicologia del sogno. Freud e Jung avevano tuttavia ciascuno una metapsicologia, coesa al suo interno, su cui poggiare il proprio metodo di analisi dei sogni. pove essi costruirono un sistema coeso, noi propomamo invece una prospettiva coerente, conforme a una specifica regione del mito, il mondo infero. Invece che a una teoria psicologica coesa, noi miriamo a un coerente atteggiamento psicologico.

La differenza tra una teoria psicologica coesa e un coerente atteggiamento psicologico sta nel fatto che quest'ultimo è al tempo stesso più modesto nelle ambizioni e più audace nella prassi. Con la nostra prospettiva, i sogni possono appartenere alla teoria che più ci aggrada (quella di Freud, di Jung, di chiunque altro), perché le narrazioni metapsicologiche che spiegano i sogni (loro natura, funzione, dinamica, simbolismo) sono irrilevanti per il sogno e per le sue immagini. Qualunque teoria va bene, purché non interferisca con la coerente prospettiva infera del sogno inteso come immagine. Noi ci atteniamo alla tattica, al lavoro immaginativo sul sogno, un lavoro che è un fare anima. Non ci interessa la strategia. Il mondo infero non è una teoria e nemmeno un racconto. È, piuttosto, un luogo mitico, dove solo la psiche ha importanza, la psiche e nient'altro. Una prospettiva coerente sarà coerente con tale senso-immagine della realtà psichica, indipendentemente dalla teoria più complessa (freudiana, junghiana o altro) che ci si costruisce sulla realtà psichica.

La nostra metapsicologia è interamente mitica e immaginativa. Poggia su inconoscibili non sistematici, come il profondo, l'anima e la morte. La prospettiva conforme a questo retroterra è limitata in partenza nelle sue ambizioni. Quale teoria potremmo mai costruire, se non siamo in grado non dico di definire ma nemmeno di descrivere i termini fondamentali del nostro lessico? Ci tocca affrontare la battaglia senza direttive da parte del quartier generale, come se non esistessero né quartieri generali né piani di battaglia. Sempre all'erta per cogliere il senso sottostante, dobbiamo venire alle prese con ciascun sogno a mani nude, facendoci audacemente strada da un'immagine all'altra, armati soltanto della nostra perizia immaginativa e del nostro coerente punto di vista, senza finalità teoriche a dirci come dovrà essere il risultato e quando scadrà l'ingaggio. Privi come siamo di teoria, non ci resta che restare dentro il sogno.

E qui che diventa più evidente un'altra differenza con la prassi freudiana e con quella junghiana. Cioè, nel nostro modo di lavorare, è diversa la relazione tra il sogno e i ricordi del paziente, o anamnesi. Benché i freudiani abbiano sempre dedicato particolare attenzione ai sogni e gli junghiani abbiano elaborato le categorie di «sogni iniziali» e di «grandi sogni», che essi usano come immagini predittive determinanti, né gli uni né gli altri compiono quel gesto radicale di bruciarsi il ponte alle spalle che il nostro atteggiamento ci impone. Mentre loro situano il sogno nel paziente e nel contesto della sua vita, noi situiamo il paziente e la sua vita nel sogno. La nostra prima mossa psicoterapeutica consiste nell'immaginare il paziente in un sogno. I racconti della sua vita diurna sono considerati ulteriori luoghi in cui il suo sogno è sognato e i suoi problemi ulteriori similitudini delle sue immagini. Sono quelle immagini il suo contesto psichico e la sua realtà psichica, che noi, in quanto terapeuti della psiche, consideriamo nostro primo e ultimo interesse. La nostra teoria delle immagini dice che non abbiamo altro luogo in cui situare il paziente se non dentro le sue immagini, nel mezzo del suo «materiale», e che sia lui sia noi dobbiamo rimanere nel mondo infero, rinunciando a mettere il sogno al servizio di finalità metapsicologiche, quali che siano: sviluppo dell'Io, integrazione, interesse sociale, individuazione.

Questo significa fare a meno dell'anamnesi nel senso di storia clinica, la consueta raccolta di un contesto di realtà sociali e di esperienze personali in cui situare il sogno. Secondo la nostra prospettiva, nessuna di queste cose è più importante del sogno o è di aiuto per comprenderlo. Il fenomeno da salvare è il sogno, e va salvato dai suoi collegamenti con il mondo diurno, che distorcono le immagini trasformandole in ricordi personali. La nostra anamnesi è il sogno stesso; impariamo a conoscere il paziente attraverso i suoi sogni, dal di sotto, rivolgendoci alla sua psiche prima che alla sua vita diurna. Questa mossa costella dal principio il mondo infero e dà inizio all'intero processo analitico come discesa nello spazio ignoto.

Nell'oscurità di questa iniziazione, i due partecipanti si fanno istintivamente più vicini. Si forma un legame, simile a un eros tra morenti, qualcosa che è altro rispetto alla traslazione di emozioni del passato, che è altro rispetto all'amore tra mentore e discepolo, tra medico e paziente, un sentimento molto raro e inesplicabile, indotto dal mistero dell'immagine.

Non so che cosa sia questo tipo di amore, ma so che non è riducibile ad altre forme più note. Forse è un'esperienza di Eros in Thanatos. Forse è un'esperienza dell' eros telestico, di cui parla Platone nel Fedro l'eros dei misteri e delle iniziazioni dell'anima; oppure può avere a che fare con l'eros creativo che sempre si attiva quando si è in intimità con l'anima, il mito di Amore e Psiche che percorre le nostre emozioni. Quale ne sia la natura, c'è un amore nel lavoro onirico: avvertiamo che i sogni sono benevoli, ci spalleggiano e ci spronano, ci comprendono più a fondo di quanto noi stessi ci comprendiamo, espandono la nostra sensuosità e il nostro spirito, inventano sempre nuove cose da offrirci ... e questa sensazione di essere amati dalle immagini permea la relazione analitica. Chiamiamolo amore immaginale, un amore basato interamente sul rapporto con le immagini e attraverso le immagini, un amore che si rivela nella risposta immaginativa dei due partner all'immaginazione all'opera nei sogni. Che sia questo l'amore platonico? E simile all'amore di un vecchio che la morte imminente ha svuotato del consueto contenuto personale e tuttavia è un amore ancora intenso, giocoso e teneramente, premurosamente intimo.

«I vecchi dovrebbero essere esploratori» ha scritto T.S. Eliot. Immaginiamoli, allora, esploratori dell'immagine, amanti del sogno: Prospero, piuttosto che Ferdinando tra le braccia di Miranda; o in viaggio verso Bisanzio. Questo amore non mira soltanto a unire, come ci è stato insegnato fino alla noia. Quando amiamo, vogliamo esplorare, discriminare in un orizzonte sempre più vasto, estendere la complessità che rende più intensa l'intimità.

Ve lo immaginate? Sedute terapeutiche che lasciano perdere madre, infanzia e sensi di colpa sessuali, sempre un po' in ritardo rispetto alle battaglie personali che si stanno combattendo a casa, alle depressioni e alle emicranie che il paziente vuole curare: una terapia che sembra adagiarsi in permanenza nel paese dei sogni. E che solo a poco a poco e in maniera obliqua si addentra nella storia ricordata del paziente e nelle crisi del suo sviluppo personale. Il nostro modo di fare anamnesi è indiretto, segue il corso sinuoso dei sogni, lasciando che siano loro a dettare il passo. Gli elementi anamnestici di cui l'anima ha bisogno per muoversi emergono al momento opportuno. Tutti i tasselli della storia clinica (madre e padre, passati amori e malesseri presenti) entrano nella terapia per il tramite del sogno, diventando così a loro volta immagini. Il sogno è la cosa che chiediamo nella prima seduta, e il sogno è la cosa da cui partiamo nelle sedute successive. Questo fa sì che l'intero incontro terapeutico vada a collocarsi nel terreno psichico del mondo infero. In quel contesto rientrano sia la storia passata sia il giorno presente.

  Spesso le immagini dimenticano quelli che per il sognatore sono i suoi traumi, come se ai sogni non interessassero i fallimenti che lo hanno portato in terapia. I sogni sono già occupati a dimenticare la vita che il paziente ricorda. Quando ritorna direttamente a quelle azioni e a quelle sofferenze, la terapia non fa che ricostituire l'Io eroico. Il metodo del mondo infero consiste nel dimenticare, dunque non si deve trattenere il paziente nel suoi ricordi, bensì dissolvere i ricordi nei suoi sogni.

Partire dal sogno non è probabilmente una mossa così radicale come sembra. Forse non facciamo altro che conformarci a un dato di natura già rilevato da Platone. Secondo Platone e anche secondo talune recenti ricerche comportamentali, il sogno precede comunque la vita cosciente. Dai movimenti delle zampe, dagli spasmi muscolari e dal tracciato elettroencefalografico di animali osservati durante il sonno si è dedotto che essi stavano sognando. Poiché segnali comportamentali analoghi sono presenti nei neonati e nei feti umani, e stata avanzata l'ipotesi che anch'essi siano soggetti, a un processo: se non identico, analogo all'attivita onirica degli adulti. Prima ancora che il mondo diurno abbia nuzio a livello fattuale ed evolutivo, il sogno. è all'opera. La psiche precede le proprie manifestazioni nella vita dell'esperienza esterna e sociale. Prima ancora che esistano i contesti in cui cerchiamo di collocarla, l'anima sta già creando immagini.

Nonostante queste differenze tra la pratica della psicoterapia classica (di Freud e Jung) e quella che siamo venuti abbozzando In queste pagine, sia io sia loro ci basiamo sul metodo della reversione, cioè riconduciamo il sogno a miti che trascendono Il sogno stesso. Sia noi che loro proponiamo ciascuno una visione che restituisce i sogni a una metapsicologia del mito quanto mai profonda e universale; e dunque il nostro lavoro è, in tutti e tre i casi, un esercizio di epistrophe, nel senso indicato all'inizio del libro. ,

  Il mito al quale tutti e tre riconduciamo il sogno è il medesimo, il mondo infero. E questa la base e Il terreno comune della psicologia del profondo, nella quale il sogno ha sempre svolto Il ruolo più importante. Freud e Jung, però, tendevano a tradurre il mitico nel concettuale e il mondo infero nell'inconscio. Quel primo gesto diurno portò a ulteriori concettualizzazioni (rimozione, opposizione, Io, libido) e a un ulteriore allontanamento dal sogno e anche dal mito. A questo punto bisognò introdurre altri miti: Edipo, Eros e Thanatos, l'orda primitiva, l'eroe, la coppia Anima/ Animus, lo unus mundus e la quadruplice radice. In tal modo Freud e Jung costruirono ciascuno una cosmologia e una mitologia di princìpi mitici.

In genere essi riconobbero che questo appunto stavano facendo, ma non riuscirono a prendere i miti come miti, anche se Jung, con i suoi archetipi personificati, cercò di elaborare una modalità esplicitamente mitica. Non riuscendo a liberarsi dalla concettualizzazione psicologica, essi finirono per concepire i miti in modo metapsicologico (laddove noi cerchiamo di immaginare la nostra metapsicologia in modo mitico). Tradussero i miti in princìpi sovraordinati, e di conseguenza i sogni diventarono illustrazioni di tali princìpi. Freud e Jung usarono i sogni come prove positive; erano convinti che il sogno potesse contribuire alla costruzione di una scienza della psicologia, favorendo la conoscenza progressiva delle sue leggi. E probabile che nella loro pratica terapeutica questo atteggiamento, che considera il sogno come «materiale empirico», non sia mai stato predominante; tuttavia è ampiamente presente in tutti i loro scritti sui sogni. Anche quando mettevano i sogni in relazione con i miti, lo facevano per illustrare tale relazione, per dimostrare che i miti agiscono nella psiche. Il sogno era sempre una testimonianza a conferma della loro metapsicologia.

E su questo punto che incomincia ad aprirsi una piccola crepa nel nostro terreno comune. E nel separare il nostro metodo dal loro, la crepa potrebbe diventare un abisso, perché separa anche due epoche della coscienza. Il loro metodo è incomparabilmente più grande: chapeau! Tuttavia la loro immensa genialità è nello stesso tempo limitata dagli atteggiamenti positivistici dell'empirismo medico. Neppure due giganti come loro si sono potuti liberare del tutto dal proprio periodo storico. Di conseguenza, la loro epistrophe è un ritorno a miti immaginati positivisticamente: sistematici, oggettivamente fondati, presi letteralmente per veri. La situazione edipica è proclamata un dato di fatto universale, gli archetipi sono definiti universali istintuali; la libido non è una teoria, la libido è; il Sé non è un'ipotesi, il Sé è. La base su cui poggiano le loro teorie dei sogni va dunque chiamata con il suo giusto nome: mitologia metafisica, in cui il «meta» è sacrificato alle sostanziazioni della «fisica» e il «mito» è sacrificato ai letteralismi delle «logie».

Invece, il mito a cui noi riconduciamo il sogno è privo di sostanza esattamente come il sogno. Né il sogno né il suo retroterra nel mondo infero possono essere presentati come prova a conferma l'uno dell'altro. Le qualità che abbiamo attribuito al sogno sono impossibili da stabilire con l'esperienza e non possono essere fondate nel mito. Il mito non dà fondamento, dà apertura. Noi rimaniamo nella prospettiva del profondo, senza niente di più solido sotto i piedi del profondo stesso. Prendiamo la psicologia del profondo letteralmente, sulla parola, perché il profondo è una metafora che non ha base.

Quest'ultima frase riflette la distanza che si è aperta tra i fondatori della psicologia del profondo e noi che siamo venuti dopo, in questa epoca ermeneutica, non letterale. Loro dovevano per forza di cose avere una base solida, benché sapessero e a volte anche dicessero che quella base erano le immagini, che sono immateriali, come la fantasia. Il nostro modo di lavorare con i sogni, invece, non può che fare affermazioni infondate e, come ogni sogno, ogni notte, vi chiede di accettare «l'edificio senza fondamenta di questa visione». L'immagine è psiche e non può ritornare a nulla se non al suo stesso gesto di immaginare.

Quest'ultimo capitolo dedicato alla pratica è stato un esercizio di immaginazione, non di interpretazione; e questa sua ultima parte è un tentativo di ricapitolare lo scopo dell'intero libro: proporre un atteggiamento che mantenga il sogno al lavoro nell'anima. So di essere a volte ricaduto nei vecchi modi di parlare dei sogni, spiegando quale potrebbe essere «il significato» di un sogno e trattando le sue immagini alla stregua di simboli. Ma, come ho avvertito il lettore, questa modalità è in un certo senso imposta dal genere letterario a cui appartengono i libri sui sogni. Senza contare che in ciascuno di noi è presente in qualche misura il desiderio di conoscenze certe, positive.

Eppure, se ripensiamo a uno qualunque dei sogni che hanno rivestito importanza per noi, ci accorgiamo che più passa il tempo e più ci riflettiamo sopra, più numerose sono le cose che vi scopriamo e più numerose e variegate le direzioni che da essi si aprono. Ogni volta che il sogno è studiato di nuovo, qualunque certezza esso possa averci dato si rifrange in complessità che sfuggono a ogni formulazione chiara e netta. La profondità dell'immagine, anche della più semplice, è davvero insondabile. Tale infinita profondità che tutto abbraccia è uno dei modi in cui i sogni mostrano il loro amore.

Poiché non possiamo conoscere i sogni nel modo positivo che vorremmo, quasi per alleviare la frustrazione modifichiamo il nostro atteggiamento nei loro confronti. Anziché saperne di più, vogliamo penetrarli più a fondo elaborando forme di indagine sempre più affilate e sottili: il nostro atteggiamento conduce a un metodo ermetico. Dunque, la nostra insistenza sull'oscurità del sogno non è oscurantismo e neppure è il pessimismo dei cinici, che è rinuncia di fronte alla propria incapacità di conoscere, né è un romantico laisser alter che desidera soltanto contemplare i sogni con meraviglia ed esserne amato. No, l'oscurità del sogno incoraggia a indagare ulteriormente e a lavorare con rinnovato impegno. Con entusiasmo, con coraggio, senza pregiudizi, senza le posizioni che abbiamo appreso da teorie inadatte e da libri di testo del mondo diurno, che immancabilmente adattano i sogni a questo o quel sistema psicologico dottrinale.

Io non considero l'attività del sognare come una porzione della psiche, come se fosse uno dei capitoli di un libro di testo, insieme a memoria, percezione, emozione, e così via. L'attività onirica è la psiche stessa intenta al suo lavoro del fare anima. Non ne capiamo abbastanza, di questo lavoro dell'anima, perché non siamo completamente immersi nel suo luogo; perché, una volta usciti dal mondo infero e tornati alle nostre varie altre parti di anima elencate nei manuali, non siamo «morti», non siamo tutta psiche.

Dunque il nostro compito non consiste tanto nell'integrare i sogni e l'attività onirica in un qualche sistema psicologico capace di darci la sensazione di averne una conoscenza positiva, quanto piuttosto nel vedere tali sistemi come «sogni» essi stessi. La mia argomentazione sa a sua volta di teoria (pluralità di anime e regioni, di interi e parti), ma in realtà vuole essere un espediente euristico volto a promuovere un atteggiamento capace di convivere con lo scacco del nostro desiderio di conoscenza. Allora potremo dissociare il sogno dai nostri tentativi diurni di afferrarlo, lasciando che il nostro desiderio si dissolva nelle sue immagini, le quali sono poi le uniche posizioni che il sogno stesso sembra assumere.

Nonostante l'ininterrotto interesse di Freud e di Jung per l'umana oscurità e per la psiche come campo del profondo, la psicoterapia, comprese quelle freudiana e junghiana, si è lasciata sempre più coinvolgere nella vita, mantenendo la psiche attaccata alla vita, e in tal modo dando dei sogni una lettura al servizio della vita. Nel suo smodato ottimismo, la psicoterapia trascura sempre di più le profondità dei suoi fondatori. Se è vero che, come ha detto Jung, l'uomo moderno è alla ricerca di un'anima perduta, ebbene quest'anima si è in parte perduta nella vita; i tentativi della moderna psicoterapia di riconnettere i sogni alla vita non fanno che rafforzare l'Io a spese dell' anima, seguendo il thymos, non la psyche. L'aspetto infero di ciascun complesso, il punto in cui esso tocca la morte, è anche il luogo in cui risiede la psiche nella sua essenza immutabile e in cui può essere ritrovata l'anima. Il mondo infero e le sue immagini, poiché lì sono contenuti gli enigmi più profondi, diventano alla fine l'interesse prioritario di chiunque sia impegnato nel fare anima.

Così come il sogno è il guardiano del sonno, alla stessa stregua il lavoro onirico di ciascuno di noi sta a protezione delle profondità dalle quali il sogno nasce: l'ancestrale, il mitico, l'immaginale e tutte le nascoste essenze invisibili che governano la nostra vita. I sogni sono i vigili fratelli del sonno, della confraternita della morte, araldi, sentinelle di quella notte imminente; e forse il nostro atteggiamento nei loro confronti andrebbe modellato su Ade, che accoglie, è ospitale e tuttavia conduce inesorabilmente nel profondo, è in sintonia con il notturno, l'opaco ed è dotato di una paurosa fredda intelligenza che offre permanente rifugio, nella sua casa, agli stati incurabili della nostra umanità.

 

Gennaio 1972 - Dicembre 1977