Hillman,
Il sogno e il mondo infero
▸ 2. freud
▸ fechner, freud e il mondo infero
▸ ade
▸ i sogni, il lavoro della morte
▸ il nero
▸ baldoria
▸ l'atteggiamento nei confronti dei
sogni
C'è
chi afferma che quasi tutte le idee possono essere espresse con poche parole,
come nei frammenti dei presocratici, e che quelle poche parole si possono
ulteriormente condensare in un titolo; dunque il nome da dare a un libro non è
cosa da prendersi alla leggera. Come possibili titoli del presente lavoro
avevo pensato a «Il ponte del sogno», o anche «Il sogno tra mondo e mondo
infero ». Freud aveva già usato una metafora analoga definendo il sogno la via
regia di accesso all'inconscio. Ma poiché da allora, nella pratica terapeutica,
tale via maestra è diventata perlopiù una strada a senso unico che convoglia
tutto il traffico mattutino dall'inconscio verso la città dell'Io, ho deciso di
imboccare la direzione opposta. Di qui il mio titolo, a indicare un diverso
flusso, vespertino, diciamo, verso l'oscurità. Dunque, per cominciare, devo
ammettere che userò quel ponte a mia volta con una certa univocità di intenti.
Questo piccolo libro propone un modo di considerare il sogno diverso da quelli
a cui siamo abituati. La sua tesi non si fonda sull'idea di rimozione
(Freud) né su quella di compensazione (Jung) , ma immagina i sogni in relazione
all'anima e l'anima in relazione alla morte. Mi sono convinto che un processo
di interpretazione dei sogni che miri a un incremento della coscienza
finalizzata alla vita sia totalmente sbagliato. Sbagliato nel senso più pieno
del termine: nocivo, perverso, ingannevole, inadeguato, erroneo e, sul piano
esegetico, offensivo nei confronti del suo materiale, il sogno. Quando facciamo
torto al sogno, facciamo torto all'anima, e se l'anima possiede l'intimo nesso
con la morte che la tradizione le ha sempre attribuito, allora l'erronea
interpretazione dei sogni inganna il nostro morire. Nelle pagine che seguono
esamineremo a fondo che cosa sia quel morire, che cosa sia quella morte in
relazione ai sogni.
Cominciamo
con una domanda, ovvia e tuttavia trascurata: a quale regione mitologica, a
quali Dei, appartengono i sogni? La domanda ha un assunto: conoscendo il
«luogo» di appartenenza dei sogni, conosceremo meglio ciò che essi vogliono,
ciò che significano, e come dobbiamo trattarli. E le conseguenze della
risposta collocano la teoria del sogno qui esposta su una base mitica: che i
sogni appartengano al mondo infero e ai suoi Dei non è un mistero, lo
preannuncia il nostro titolo e il secondo breve capitolo mostra come sia antica
l'idea che i sogni abbiano una base mitica. Freud, forse suo malgrado, compì
precisamente questo stesso gesto quando si rivolse al mondo infero del mito per
fondarvi la sua teoria dei sogni.
La
novità consiste nel compiere una re-visione del sogno alla luce del mito. Le
teorie dei sogni non mancano. Ogni ben fornita comunità psicoanalitica (Uptown
Manhattan, Harley Street o Hampstead, Beverly Hìlls, Zurigo) ne offre un vasto
assortimento: freudiana, freudiana ortodossa, neofreudiana, freudiana con
innesti psicodinamici, junghiana di tutte le forme e sfumature,
psicodrammatico-gestaltica, mistico-trascendentale, empirico-scientifica,
comportamentistico-egologica, parapsicologico-primordiale, per tacere dei vari
approcci esistenziali e fenomenologici che si rifanno al romanticismo e a prima
ancora. Eppure, nessuna, che io sappia, pone la questione del mito; nessuna
tenta di costruire una teoria, e con essa una prassi, fondata su un approccio
archetipico alla questione dei sogni. Altri hanno scorto miti nei sogni e li
hanno usati come amplificazione dei motivi onirici. Tutt'altra cosa è però il
vedere i sogni come fenomeni che emergono da un «luogo» archetipico specifico
e che corrispondono a una precisa geografia mitica e il riflettere poi quel
luogo, il mondo infero, nella teoria psicologica. Riconnettendo teoria
psicologica e theoria (dal verbo greco theorein:
guardare, esaminare) mitologica, noi ci cimentiamo in una psicologia dei sogni
che cerca di mantenere sempre viva nel nostro lavoro su di essi una sensibilità
«ìnfera».
Questa
mossa all'indietro, dal logos al mythos, controcorrente rispetto
all'orientamento storicistico della nostra cultura, è l'esito di un lungo
processo. Presentai per la prima volta alcuni dei temi di questo saggio nel
1972, in una conferenza che tenni a New York su invito di David Miller e James
Wiggins, presso la American Society of Arts, Religion, and Culture, sotto
l'affabile direzione di Stanley Romaine Hopper. Il testo di quella conferenza,
ampliato, andò a costituire il mio contributo alle giornate di Eranos del
1973, ad Ascona, e fu pubblicato in Correspondences in Man and World, a cura di
Adolf Portmann e Rudolf Ritsema.' Il presente testo, pur accresciuto e
arricchito, reca sempre l'impronta di Eranos, la comunità dove per diversi anni
sono venuto elaborando specifici temi archetipici, con riferimento alla loro
influenza sulla nostra coscienza, in particolare sulle idee e sugli
atteggiamenti della psicologia.
Ho
esaminato la psicologia dello sviluppo e della crescita dell'Io alla luce
dell'archetipo del Puer (1971), la
psicologia del conflitto tra vecchiaia e giovinezza alla luce della coppia Puer-Senex
(1967), la diagnosi di isteria e di femminilità inferiore attraverso la
configurazione archetipica di Dioniso (1969) e l'accanimento terapeutico sulla
trasformazione dell'anormale in normale attraverso le figure di Ananke e di
Atena (1974). In ciascun caso, ho cercato di vedere in trasparenza talune
posizioni psichiche generalmente riconosciute, ponendole sullo sfondo mitico
pertinente, nella speranza che la prospettiva archetipica possa correggere la
nostra visione della psiche e descrivere in modo più psicologico (cioè
autoriflessivo, immaginale, più profondo) le formulazioni e le pratiche della
psicologia.
Questo
saggio, come i precedenti, è dunque un esercizio di epistrophe, una reversione, un ritorno, un richiamare i fenomeni
alloro retro terra immaginale. Più direttamente, questo principio (considerare
i fenomeni alla luce delle loro somiglianze) deriva dal lavoro di Henry Corbin,
caro amico di Eranos, e dal metodo del ta
'wil, da lui spiegato e illustrato in tutta la sua opera. Etimologicamente,
dice Corbin, ta 'wil è «
"reconduire, ramener (riportare)" una chose à son origine et
principe, à son archetipe»; « Nel ta 'wil
bisogna riportare le forme sensibili alle forme immaginative e poi sollevarsi a
significati ancora più alti; procedere in direzione opposta (riportando le
forme immaginative alle forme sensibili in cui hanno origine) equivale a
distruggere la virtualità dell'immaginazione ».
La
reversione secondo la somiglianza è un principio primo dell'approccio
archetipico a tutti gli eventi psichici. Ed è a sua volta un ponte, un metodo
che riconnette un evento alla sua immagine, un processo psichico al suo mito,
una sofferenza dell'anima al mistero immaginale di cui è espressione. La epistrophe, o ritorno attraverso la
somiglianza, offre all'interpretazione psicologica una via maestra per
ritrovare l'ordine tra la confusione dei fenomeni psichici, diversa dall'idea
freudiana di sviluppo e da quella junghiana di opposti. Questo metodo, inoltre,
presenta due distinti vantaggi. In primo luogo, ci obbliga a riportare lo
sguardo sul fenomeno: su ciò che è stato effettivamente sognato, effettivamente
affermato, effettivamente esperito, giacché solo esaminando da vicino l'evento
in questione possiamo cercare di scoprire a quale tra molte costellazioni
archetipiche potrebbe assomigliare. «Quale tra molte» abbiamo detto; e questo è
il secondo vantaggio: infatti, un unico principio esplicativo, per esempio il
Sé di Jung o lo sviluppo della libido di Freud, per profonda e differenziata
che ne sia la formulazione, non offre alla intrinseca varietà della psiche una
gamma di immagini somiglianti altrettanto ricca. La epistrophe implica il ritorno
a molteplici possibilità, a corrispondenze con le immagini che nessuna
descrizione sistematica può abbracciare.
L'immagine
è stata il mio punto di partenza per la re-visione in senso archetipico della
psicologia. Nel presente libro, tale attenzione per le immagini viene portata
avanti ed elaborata in maniera più particolareggiata. Anzi, questo libro fa da
ponte (o da tunnel) per entrare negli altri miei scritti. Qui, infatti, la
psicologia dell'immagine è situata più decisamente all'interno di una psicologia
dei sogni e della morte. Una psicologia del profondo che si affida alle
nebulose immagini della fantasia, alla profondità e alla patologizzazione e
alla terapia come culto dell'anima ha come suo riferimento mitologico il
mondo infero. Nella psicologia del profondo, partire dall'immagine è iniziare
nel mondo infero del mito, e dunque questo libro fornisce alla nostra
psicologia dell'immagine la prospettiva mitica. Sostenere che le immagini
vengono prima è dire che i sogni sono i dati primari e che la coscienza diurna
inizia sempre nella notte e della notte reca su di sé le ombre. La nostra
psicologia del profondo parte dalla prospettiva della morte.
Tali
slittamenti prospettici non mirano solo alla critica e alla correzione di ciò
che in psicologia è già stato detto, nella fattispecie sul sogno. C'è dell'altro:
l'improvvisa visione che si apre quando si lancia un ponte tra un evento
quotidiano o un concetto e il suo simile mitico può generare prospettive nuove
e inattese non soltanto sulla psicologia della nostra esperienza personale, che
tendiamo a dare per scontata, ma anche sulla psicologia, che ben conosciamo,
della teoria psicologica contemporanea.
Nonostante
il mio debole per gli estremismi e le provocazioni e il mio gusto infantile nel
rivelare che il re è nudo, in questa mia ricerca mi sono imposto di rispettare
limiti ben precisi. Vorrei chiarire subito i princìpi che stanno alla base di
tali limiti, perché essi non solo precisano la portata del presente libro e il
metodo seguito, ma costituiscono una dichiarazione di fede.
In
primo luogo, indipendentemente dalle altezze e dalle profondità psichiche in
cui ci avventureremo nelle nostre congetture e nei nostri scandagli,
cercheremo di rimanere entro i confini della psiche occidentale, delle radici
culturali, geografiche e storiche che essa ha nella nostra tradizione.
L'impresa romantica dell'esplorazione e della scoperta è possibile soltanto
entro i confini classici di ciò che è antico, noto e delimitato. Il nuovo, in
questa ottica, significa semplicemente rinnovamento, rinascimento, recupero,
non già creazione; ciò che diremo è rivolto ai morti e al passato, non al futuro,
il quale farà quel che vorrà; ciò che diremo è un commento, una nota a piè di
pagina, su ciò che altri hanno compiuto prima di noi e meglio di noi, è un
ponte gettato all'indietro.
Perciò,
ed è il secondo principio, cercheremo di mantenerci entro il campo della
psicologia. Così come Freud e Jung ripudiarono l'anatomia, la biologia, le
scienze naturali e la teologia come premesse della loro idea della psiche, alla
stessa stregua la tradizione della psicologia del profondo deve stare in casa
propria e crearsi il proprio humus man mano che procede. Il terreno (la
psicodinamica, la psicoterapIa, la psicopatologia) è ormai ben arato benché
il campo abbia solo ottant'anni. Ma io non credo che l'erba dei vicini sia più
verde: può essere verde anche l'erba sotto i nostri piedi, a patto che lavorinamo
la terra di bel nuovo, il che in psicologia del profondo significa scavare
sempre più in profondità: un ponte verso il basso.
In
terzo luogo, per rendere ancora più rigorosi i nostri limitì, la parte del
campo della psicologia che zapperemo è la stessa su cui lavorarono Freud e
Jung. Anzi, è il loro podere. Noi, però, lo areremo da un' altra angolatura,
senza usare il loro aratro e senza seguire i loro solchi, ma rivoltando le loro
zolle secondo il nostro stile. I contorni che emergeranno saranno forse
diversi, ma il campo è il medesimo, ben delimitato: la psiche dell'uomo
occidentale nella sua tradizione storica e nella sua situazione culturale;
anche l'intento è il medesimo: formulare una, psicologia. che rifletta la
bruciante importanza dell anima individuale. Un ponte verso l'interno.
La
domanda da cui partiamo prende le mosse da Aristotele. È una domanda pratica,
che interessa ciascuno di noi, la mattina, quando cerchiamo di interpretare i
nostri sogni. Aristotele ha detto: « Il migliore interprete di sogni è colui
che sa notare le somìglianze ». Dunque, a che cosa somiglia il sogno? E non
intendo le immagini o i pensieri onirici, ma il sogno in quanto tale. Qual è la
cosa che è simile al sogno, ovvero in rapporto a quale mito o universo si
potrebbero interpretare le immagini oniriche? A quale mondo corrispondono i
sogni? Non è forse vero che, se sapessimo rispondere a questa domanda, sarebbe
possibile situare tutti i contenuti onirici sul loro giusto sfondo con maggiore
verità e profondità?
In
risposta alla mia domanda, vi invito ad associarvi a una fantasia rimasta viva
a lungo e che infatti è romantica, rinascimentale e greca. Voglio mettere
indietro l'orologio. Voglio riprendere daccapo il filo del sogno, ritornando a
tempi precedenti quelli di Freud.
La
grande opera di Freud sui sogni uscì il 4 novembre 1899 (IS, p. XXI), benché
quel «1900» stampato sul frontespizio annunciasse il nuovo secolo. Quel libro
rappresenta effettivamente il punto di svolta. Nella relazione con la psiche,
aprì la nostra epoca e chiuse quella precedente.
Tre
erano le concezioni allora prevalenti riguardo al sogno: la concezione
romantica, quella razionalistica e quella che potremmo chiamare somaticistica.
Freud raccolse alcuni fili di ciascuna e li intrecciò insieme in un tessuto di
grande eleganza. Dai romantici prese l'idea che il sogno contenesse un
messaggio personale, nascosto ma importante, proveniente da un altro mondo. Dei
razionalisti accolse l'idea che il sogno manifesto, il linguaggio onirico così
come si presentava, fosse un guazzabuglio senza senso (ma per Freud
decodificabile in un significato e un valore latenti). Con i somaticisti condivise
l'idea che il sogno riflettesse processi fisiologici (limitandoli, però,
essenzialmente alla sessualità e al sonno).
Delle
tre, la posizione romantica era la più vicina al fondatore della psicoanalisi e
proprio per questo, essendo stata maggiormente assimilata, è quella che è
scomparsa del tutto nell'epoca postfreudiana in cui oggi viviamo e sogniamo.
Come i romantici, Freud costruì un mondo sul sogno e lo ricollegò
principalmente con il regno del sonno (SMTS, pp. 89-90), il mondo notturno, e
con la mitologia classica, assegnandogli una regione distinta, con una sua topografia.
Ribadendo che i sogni erano «assolutamente egoistici» (SMTS, p. 90), « non
essendo di per sé ... un'espressione sociale, un mezzo per farsi capire» (IP-
NS, p. 125), Freud ne sottolineò il significato e l'importanza personali, di
nuovo un punto di vista romantico. Il sogno è un fenomeno totalmente
intrapsichico, in-comprensibile allo stesso sognatore che lo sogna e sembra
muoversi al suo interno e svolgervi un ruolo.
Introdusse
però due concessioni ai razionalisti. Equiparò il mondo dei sogni a una psicosi
temporanea, in quanto il mondo notturno e il mondo psicotico rappresentano
entrambi «un voltare le spalle al mondo esterno della realtà» (IP-NS, p. 131).
Insomma, si schierò con la visione della salute mentale propria del mondo
diurno, dove realtà significava realtà esterna, sociale, materiale.
La
seconda concessione è ancora più significativa, e disastrosa per la sua
impresa. Mi riferisco all'idea secondo la quale i residui diurni (Tagesreste)
sono le pietre con le quali è costruito il sogno: « ... l'esperienza ci ha
insegnato che in quasi tutti i sogni è incorporata una traccia mnestica,
un'allusione a un avvenimento ... del giorno precedente; e se seguiamo questi
collegamenti spesso scopriamo di colpo il ponte che dal mondo apparentemente
remoto dei sogni conduce alla vita reale del paziente» (IP-NS, p. 127).
Analogamente, « ... tutti i sogni, senza eccezioni, si riallacciano a
un'impressione degli ultimi giorni ... o ... del giorno immediatamente
precedente il sogno, il "giorno del sogno"» (IS, p. 24).
Eccolo,
il ponte a senso unico a cui accennavo. «Se seguiamo questi collegamenti... »,
riattraversiamo il ponte e dal mondo dei sogni approdiamo «alla vita reale
del paziente », al «giorno del sogno », Il fatto che il sogno potesse contenere
immagini avanzate dal giorno, che pure non ricordiamo di avere percepito, fu
ben presto confermato sperimentalmente, a Vienna, da Otto Pötzl. In questo
modo, la vecchia idea della mente come tabula
rasa, la concezione dell'empirismo razionalistico, non fu sostanzialmente
intaccata dalla nuova teoria freudiana del sogno. Si poteva dimostrare che i
sogni consistevano in immagini percepite subliminalmente nel mondo diurno.
Nella mente continuava a non esserci niente che non fosse prima nei sensi. Sì,
il sogno forse aveva un significato, ma fondamentalmente era una
ricombinazione di residui diurni in base ai bisogni istintuali del sonno e
della sessualità. Alla fine, il sogno diventa, come dice Freud, un «
compromesso» tra le esigenze del mondo notturno e quelle del mondo diurno. O
non sarà piuttosto l'idea freudiana del sogno un compromesso tra il mondo
notturno dei romantici e il mondo diurno dei razionalisti? All'esame finale,
comunque, il compromesso non regge. Vincono i razionalisti.
La
posizione razionalista ha sconfitto quella romantica perché Freud riconduce il
sogno al mondo supero. Questo avviene in primo luogo attraverso i residui
diurni e il ritorno al giorno precedente (Opere, IX, p. 421), quindi attraverso
la definizione freudiana di interpretazione come «traduzione nella lingua
della vita di veglia» (Opere, X, p. 153).
Bisogna
dire qui che Freud riconobbe pienamente, e nel senso più romantico, che il
sogno in sé appartiene al mondo infero. Dice infatti che i residui diurni «non
costituiscono ancora il sogno ... Essi, da soli, non sono in grado di produrre
un sogno. In senso stretto non costituiscono altro che il materiale psichico
per il lavoro onirico » (Opere, VII, p. 174). Il mondo diurno è soltanto la
causa materiale del sogno; le sue cause formale, efficiente e finale sono i
desideri di Eros che agiscono nottetempo sulla psiche affinché essa continui a
dormire (s, p. 45; IS, p. 154 nota).
Inoltre,
egli si pronuncia in modo netto e inequivocabile sulla causa finale, sullo
scopo del sogno: non ha niente a che fare con il mondo diurno. Dice Freud: « …
è sviante affermare che i sogni vertono sui compiti dell'esistenza che ci
stanno dinanzi, o che cercano una soluzione per i problemi della vita
quotidiana ... Una tale utilità pratica è quanto mai lontana dai sogni ...
L'unica funzione utile che si può ascrivere al sogno è quella di proteggere il
sonno» (Opere, X, p. 153). Il sogno è in tutto e per tutto estraneo alla vita
di veglia, al suo linguaggio, alla sua moralità (ibid., p. 157-60), alla sua
logica, alla sua scansione temporale, talmente estraneo, anzi, che Freud ne
parla con il linguaggio della psicopatologia: narcisismo, allucinazione,
psicosi (IP-NS, p. 134; SMTS, p. 96); sintomi isterici, idee ossessive (s,
p.49).
Adesso
i contorni del conflitto si profilano in modo chiaro: da un lato, il sogno
appartiene completamente al sonno; dall'altro, l'interpretazione deve riportare
il sogno nel mondo diurno, salvandolo, diciamo, o «riscattandolo » (secondo la
metafora di Freud) dalla sua infera follia e immersione nel principio di
piacere. Freud vuole svegliare Psiche, strapparla al suo amplesso nel mondo
notturno del piacere erotico, al narcisistico godimento della sua stessa
ricchezza di immagini. Ecco la sua ambizione. E il suo libro non si intitola
«La natura dei sogni », o «Lo studio dei sogni», né «Il mondo dei sogni». Si
intitola Die Traumdeutung,
«L'interpretazione dei sogni», e per interpretazione Freud intende, come
ripetutamente precisa, «traduzione» nella lingua della vita di veglia (Opere,
IX, p. 424; X, p. 155; s, p. 46).
Dunque
lo scopo dell'interpretazione terapeutica è sempre stato quello di percorrere
la via regia del sogno per uscire dal mondo notturno; come dice Freud, tale «lavoro
che procede in direzione opposta ... è il nostro lavoro di interpretazione.
Esso si propone di annullare il lavoro del sogno» (IP, pp. 341- 42), «di
disfare la tela che il lavoro onirico ha tessuto» (s, p. 48).
Il
sogno, da parte sua, oppone resistenza ai tentativi di risvegliarlo in una
traduzione (IS, pp. 472-73). Anzi, il concetto di resistenza e quello di
interpretazione sono legati secondo un rapporto inversamente proporzionale
(Opere, IX, pp. 422; X, p. 155; IPNS, pp. 129-32). Più resistenza c'è tra
«l'Io ridestato » e «l'inconscio», meno possibilità si hanno di interpretare
un sogno; meno c'è resistenza tra sogno e mondo diurno, più riesce la
traduzione del sogno nella lingua della veglia. In altre parole, esiste una
precisa resistenza da parte del sogno a lasciarsi convertire nel mondo diurno
e utilizzare per gli scopi di questo.
Eppure
tale conversione è diventata lo sforzo principale nell'uso terapeutico dei
sogni. La mattina, accendiamo la luce, li trascriviamo, li portiamo all'analista
e con lui li interpretiamo per leggervi messaggi sulle situazioni, sulle
scelte, sulle relazioni della nostra vita conscia, sui suoi problemi, sentimenti
e pensieri. Chissà, per mezzo loro forse ricorderemo ciò che abbiamo
dimenticato del passato, ciò che ci è sfuggito del presente, o potremo prendere
una decisione per il futuro, leggendo il sogno come una profezia, un oracolo,
alla ricerca di tendenze in atto nel mondo infero che ci possano aiutare a
meglio gestire la nostra vita.
La
nostra tesi (che si oppone alla traduzione dei sogni nella lingua dell'Io) deve
far fronte qui a due obiezioni, da parte dei freudiani e da parte degli
junghiani. I freudiani insisteranno nel dire che questa «opera di recupero»
(IP-NS, p. 180) è appunto il compito della terapia: «La psicoanalisi è uno strumento
inteso a rendere possibile la progressiva conquista dell'Es da parte dell'Io»
(rs, p. 56). L'interpretazione dei sogni è una porzione quotidiana di
quell'opera di recupero.
L'obiezione
degli junghiani è duplice. D'accordo con Freud, essi considerano
l'interpretazione dei sogni una funzione precipua della coscienza egoica,
momento della complessiva conquista dell'Es, ovvero parte del lavoro di
rendere conscio l'inconscio, che essi, al modo degli amati alchimisti,
intendono come l'opus contra naturam.
Per gli junghiani, tuttavia, è la natura stessa a volere tale opus, giacché
«il diventare conscio» è in realtà un processo archetipico sepolto nel
desiderio del sogno stesso. Ecco dunque che il sogno ritorna al mattino e ci
chiede di interpretarlo, pur opponendo resistenza all'interpretazione.
L'interpretazione è al servizio della natura, pur interferendo in essa.
L'altra
obiezione degli junghiani è ancora più sottile. L'analisi junghiana segue il
processo di individuazione. Riporta il sogno all'Io desto soltanto nell'interesse
della psiche nel suo complesso. Non è nell'interesse della vita che gli junghiani
concentrano con tanta intensità l'attenzione sui sogni. Noi, direbbe il
nostro interlocutore junghiano, nei sogni cerchiamo informazioni circa il
processo di individuazione, li leggiamo non già per il loro contenuto
letterale, bensì per il loro contenuto simbolico. Li mettiamo in relazione
all'Io soltanto a fini di compensazione, per sopperire alle carenze del suo
atteggiamento. L'interpretazione dei sogni getta un ponte tra il giorno e la
notte, creando un nuovo punto di osservazione a metà strada, più comprensivo,
che include sia il sogno sia 1'Io, sia la vita interiore sia la vita esterna.
Le
pagine che seguono risponderanno a queste obiezioni di fonte freudiana e
junghiana, in fondo riducibili sommariamente a una sola: il sogno esige di
essere tradotto nella lingua della veglia, vuoi per estendere il dominio della
coscienza vigile, vuoi per rispondere alla richiesta di una qualità di
coscienza più ampia ed equilibrata che la natura stessa pone. Nello sviluppare
la mia tesi, seguirò sia Freud sia Jung (ma non farò solo questo): Freud, in
quanto sosterrò che il sogno non ha niente a che vedere con il mondo della
veglia ma è la psiche che parla a se stessa nella propria lingua; e Jung in
quanto sosterrò che nell'Io deve avvenire un adattamento al mondo notturno.
Non li seguirò, invece, laddove mi rifiuto di portare il sogno nel mondo diurno
in altra forma che non sia la sua, con il sottinteso che, per me, il sogno non
può essere considerato né come un messaggio da decifrare nell'interesse del
mondo diurno (Freud), né come un modo per compensarlo (Jung).
Dicendo
mondo e luce diurni, non intendo il il mondo quotidiano. Intendo piuttosto
qualsivoglia visione letterale del mondo in cui le cose siano prese per come
appaiono, in cui non si sia vista in trasparenza la loro oscurità, la loro
mortale ombra notturna. E questo stile diurno del pensiero (realtà letterali,
paragoni naturalistici, dualismi di opposti, un procedere sequenziale) che
dobbiamo accantonare, se vogliamo seguire il sogno nel suo territorio nativo.
Là il pensiero si muove per immagini, somiglianze, corrispondenze. Per andare
in quella direzione dobbiamo recidere il legame con il mondo diurno,
rinunciare a tutte le idee che in esso hanno origine: traduzione, recupero,
compensazione. Dobbiamo attraversare il ponte e lasciarcelo alle spalle;
bruciarlo, se occorre.
fechner,
freud e il mondo infero
Il
tentativo di interpretare il sogno nel contesto della vita è stato altre volte
stigmatizzato, e con vigore. Per esempio: «Dalla medesima condizione patologica
di questa nostra epoca nacquero gli stolti tentativi di spiegare il sogno,
prodotto indiscutibile del sonno, dal punto di vista esclusivo della coscienza
vigile. Tale metodo esplicativo non vedeva altro nel sogno che le immagini e i
pensieri diurni parzialmente rimossi ». Queste parole furono scritte da
Heinrich Steffens e pubblicate a Lipsia nel 1821, alla stessa distanza
temporale, all'indietro, che separa noi da Freud. Quella di Steffens
rappresenta la critica romantica alla coscienza vigile, una critica che, prima
e dopo Freud, si basa sulla separazione ontologica tra mondo diurno e mondo
notturno. Ciascuno dei due mondi, nel suo estremismo, pretende di negare
l'altro e lo marchia con una diagnosi di follia o di male.
Quando
Freud si addentrò nel sogno e nella relazione tra sonno e coscienza vigile, si
inserì in una delle più importanti fantasie archetipiche del diciannovesimo
secolo. Nel caso di Gustav Theodor Fechner, poi, come vedremo tra breve, la
relazione tra sonno e veglia toccò addirittura l'essenza della vita, la sua
definizione. Per opera dei romantici (come spiega esaurientemente Albert
Béguin nel suo bellissimo libro L'anima
romantica e il sogno, che dovrebbe fare parte del piano di studi di tutte
le scuole di psicologia del profondo), sonno e veglia, giorno e notte, erano
diventati i due grandi contenitori di ogni possibile forma di pensiero. Tali
«regimi, diurno e notturno», per usare l'espressione di Gilbert Durand, erano
i principali portatori di opposti: opposti ontologici, psicologici, simbolici,
etici. Quando collochiamo un problema entro questo tipo di linguaggio (notte e
giorno, sonno e veglia), come stiamo facendo qui ora, immediatamente ci
inseriamo in una tradizione che risale almeno a Eraclito, prosegue con Platone
e la caverna, attraversa il neoplatonismo e il romanticismo, passa per i due sistemi
freudiani del funzionamento psichico, per sfociare nella coscienza lunare e
solare di Jung.
Nessuno
ha assegnato importanza a questa metafora più di Gustav Theodor Fechner di
Lipsia, il quale si trovò a vivere la fantasia di una Tagesansicht ( «faccia
diurna») e una Nachtansicht «( faccia notturna») nella sua stessa esistenza.
Fechner, infatti, mentre da un lato fu il fondatore della psicofisica, uno
sperimentatore raffinato che accostava i problemi psicologici con un approccio
quantitativo e fisiologico, dall'altro, con lo pseudonimo di dottor Mises,
pubblicava trattati, ora seri ora satirici, su argomenti come l'anatomia
comparata degli angeli, la vita animica delle piante e lo Zend Avesta, ed era
autore di varie parodie della medicina," nonché di scritti sulla vita
dopo la morte.
Fechner
illustra meglio di qualunque suo contemporaneo la realtà dei due mondi, perché
in lui essi si scissero. Trentanovenne, dopo anni di accaniti studi e
sperimentazioni, specialmente sulla psico fisica della percezione dei colori,
i suoi occhi si ammalarono; dovette usare occhiali dalle lenti azzurre, poi
diventò cieco. Si chiuse in un isolamento melanconico, perdette il controllo
dei pensieri, ebbe allucinazioni di torture, si rovinò completamente
l'apparato digerente. Rimase in questo mondo notturno di tormenti per tre
anni. Poi guarì. La sua guarigione fu segnata da due episodi miracolosi: il
primo, quando un'amica fece un sogno in cui gli preparava un piatto di Bauernschinken, prosciutto crudo
fortemente speziato e marinato in succo di limone e vino del Reno. La donna
cucinò davvero il piatto e glielo portò; Fechner, dopo qualche esitazione e
contro ogni buon senso, lo mangiò e subito l'appetito e la digestione
migliorarono. Il secondo e definitivo episodio miracoloso avvenne d'improvviso
una mattina all'alba, quando Fechner scoprì che riusciva a sopportare la luce,
anzi la desiderava; dopodiché si riprese completamente e visse altri quarantaquattro
anni, fino a compierne ottantasei.
Quella
guarigione segnò una vera e propria reversione per Fechner. Lasciò la cattedra
di fisica per quella di filosofia. Mondo diurno e mondo notturno acquistarono
per lui un significato diverso, rispetto ai suoi precursori romantici. Il
mondo diurno era il regno della luce, dello spirito, di Dio e della bellezza;
il mondo notturno, il regno della materia, del pessimismo, del secolarismo
senza Dio. L'idea dell'inconscio la mise nel mondo notturno. Benché ne scambiasse
la valenza, la fantasia archetipica dei due regimi rimase per lui
fondamentale, così come rimane fondamentale ancor oggi per tutte le psicologie
del profondo.
Nel
rivolgermi a Fechner, seguo l'indicazione di Freud, il quale, in una lettera a
Fliess (9 febbraio 1898), scrive: «Sono sprofondato nel libro dei sogni ... Se
solo non fossi costretto anche a leggere! Mi riesce ostica la letteratura già
esistente sull'argomento, per quanto scarsa. L'unica cosa sensata è venuta in
mente al vecchio Fechner ».
Quell'
« unica cosa sensata», detta dal vecchio Fechner, è così parafrasata da Freud,
che in più la sottolinea: « ... la scena dei sogni è diversa da quella della
vita rappresentativa vigile» (IS, pp. 54 e 489).
Freud
l'aveva tratta da un brano di un libro di Fechner, Elemente der Psychophysik (1889): «Se la scena dell'attività
psicofisica fosse la medesima nel sonno e nella veglia, i sogni potrebbero
essere soltanto, a mio avviso, un prolungamento, a un livello inferiore di
intensità, della vita rappresentativa vigile e, inoltre, sarebbero
necessariamente del medesimo materiale e della medesima forma di questa. Ma i
fatti indicano altrimenti ».
È
appunto l'idea della sostanziale diversità della scena onirica che fu da Freud
elaborata nella nozione di inconscio come «località psichica». La «località
psìchica» del sogno, prosegue Freud, «corrisponde a un punto ... nel quale si
forma uno degli stadi preliminari dell'immagine».
Qui
il pensiero di Freud è, come quello di Fechner, un pensiero topico. Dicendo: «
... nei sogni ha luogo una regressione topica- (SMTS, p. 96), Freud ha spostato
il sogno, e con esso la psicologia, da un cosmo funzionale e descrittivo a un
cosmo topografico, e ha restituito alla psicoterapia il regno dello spazio
interiore. È a questo punto che Freud incomincia a disegnare la geografia
interiore e a compiere un viaggio nell'immaginale." E, attraverso il
sogno, riscopre il mondo infero. È quanto dichiara nell'epigrafe, tratta dall'Eneide, posta in esergo al suo hbro sui sogni:
«Flectere si nequeo superos, Acheronta mouebo» .
L'audace,
eroico passo all'intemo di un territorio ignoto fu compiuto da Freud senza che
si rendesse conto delle conseguenze che avrebbe avuto per la psicologia ",
Mentre apriva nuovi orizzonti al pensiero psicologico, conferendo ad esso la
nuova dimensione della profondità, egli fissava tale profondità in una
fantasia di livelli strutturali. Benché fosse consapevole del rischio di
confondere il pensiero topico della psicologia con quello della fisiologia
(localizzazione nelle zone corticali e midollari del cervello): Freud non lo
era altrettanto degli altri pericoli insiti in quella metafora. Lo spazio
immaginario non è un mero ricettacolo, ma si presenta già carico delle valenze
di «sopra» e «sotto», «superficie» e «profondità», «vicino» e «lontano»; porta
con sé il tipo di considerazioni ontologiche, estetiche e morali che sono
riflesse nelle topografie spirituali di molte religioni. L'inconscio stesso è
stato influenzato dal fatto che Freud lo abbia situato «al di sotto»: la sua
descrizione, come anche la descrizione dell'Es, non riesce mai a liberarsi
dall'implicita sensazione che esso sia, certo, la base della vita cosciente ma
anche «bassamente» eversivo dell' ontologia e dei valori di questa.
Tra
breve, faremo a nostra volta, passo per passo, una «discesa agli inferi». Do
per scontato che la loro geografia sia a grandi linee nota grazie ai miti, alle
religioni, alla pittura e alla letteratura, che, attraverso secoli di cultura
popolare, ci hanno trasmesso gli orrori dell'inferno e le sofferenze
dell'abisso, le acque da attraversare, i guardiani della soglia, le figure che
vi abitano. Vi invito dunque ad ascoltare la descrizione che Freud dà della
topografia dell'inconscio avendo come sfondo tutti questi ricordi, cui daremo
corpo più minutamente nel prossimo capitolo.
Innanzitutto,
dice Freud, l'inconscio è una regione posta al di sotto della coscienza.
Sofferenza psichica, nevrosi e psicosi sono da ascrivere a tale regione - e
da essa provengono i sogni. Tra le due zone (e Freud ne ha disegnato la mappa:
IP-NS, p. 487; lE, p. 189), esiste una soglia, o « barriera» (IP- NS, pp.
188-89), che ostacola il passaggio, e addirittura un arcigno «censore» (Opere,
VIII, p. 56; IP-NS, p. 131). Per descrivere il fatto che una moltitudine di eidola, o «immagini», sono trattenute
al di là della soglia, la psicologia ricorre al concetto di rimozione. Ciò che
avviene in quella «provincia psichica» (IP-NS, p. 184) provoca l'angoscia
nella nostra vita di veglia.
Nel
riferirsi alla zona al di là, Freud usa spesso, in senso apotropaico, il
«pronome impersonale» (loc. cit.), das Es,
che nella formulazione più tarda della sua dottrina finirà per sostituire l'inconscio
topografico. L'uso di das Es ha
precedenti nel pensiero filosofico (Nietzsche e Schopenhauer), ma il modo in
cui Freud lo nomina e lo descrive rimanda piuttosto a un retroterra nel
pensiero mitologico, dove erano spesso usati termini apotropaici ed eufemistici
per indicare Ade e il mondo infero. (Come ebbe a dire una volta Guggenbühl-Craig:
«I freudiani hanno difficoltà a comprendere correttamente Freud perché lo
prendono alla lettera. Gli junghiani potrebbero riuscirei meglio, perché sono
in grado di leggerlo secondo la sua mitologia») .
Dunque,
nel descrivere l'inconscio, Freud parla di «mondo psichico sotterraneo» (IP-NS,
p. 171), parla del rimosso come di un «territorio straniero» (ibid., p. 170),
dell'energia dell'Es dice che è fluida (ibid.,. p. 186). (Ancor oggi molti
psicoterapeuti identifcano con «l'inconscio» i corpi d'acqua che compaiono nel
sogno, come vasche da bagno, piscine, oceani). Freud dice Inoltre che lo
spazio dell'Es andrebbe immaginato come incomparabilmente pm vasto di quello
dell'Io (ibid., p. 190) e che le scarse conoscenze che ne abbiamo derivano
principalmente dall'ipnosi (dal dio greco Hypnos, «Sonno»), dalla sofferenza
e dallo studio dei sogni (ibid., p.185).
Ci
accorgiamo inoltre della sua esistenza quando cadiamo negli smottamenti, nelle
crepe e fenditure della coscienza: ciò che Freud chiamava psicopatologia della
Vita quotidiana e Jung interferenze dell'attenzione. La mitologia riconosceva
in queste lacune nella continuità del terreno su cui poggiamo i piedi, In
queste caverne e pertugi, gli ingressi al mondo infero. Inoltre, al pari del
mondo infero della classicità, l'inconscio riceve più che altro descrizioni «
in negativo» (loc. cit.), perché è per definizione invisibile e non
conoscibile direttamente .
All'Es,
dice Freud, «ci possiamo meglio avvicinare per mezzo di immagini: lo chiamiamo
un caos un crogiolo di eccitamenti ribollenti» (loc. cit.). Ma esso «non può
dire ciò che vuole» (rz, p. 520), come i morti, che nel mondo infero della
mitologia possono parlare solo per bisbigli. «Potremmo rappresentarci la
srtuazione », ipotizza Freud nell'ultima frase del saggio in cui introduce l'Es
nella psicologia, «come se l'Es stesso sotto il dominio delle mute ma possenti
pulsioni dì morte» (loc. cit.). Come l'idea della morte nella classicità, così
l'istinto di morte freudiano è elusivo, difficile da riconoscere (ibid., pp.
502, 504,508). Nell'Es le leggi della logica non valgono; e l'Es non conosce né
valori, né bene e male né moralità (IP-NS, p. 186; IE, p. 515; opere, X, p. 158).
Soprattutto, nell'Es non vi è riconoscimento del trascorrere del tempo (APP,
p. 214). Gli impulsi che in esso rimangono sono «virtualmente immortali, si
comportano dopo decenni come se fossero appena accaduti» (IP-NS, p. 185). In
virtù della sua immortalità, Freud lo ricollega agli eroi (Opere, VIII, p.
144): « ... l'Es ... custodisce in sé i residui di innumerevoli esistenze
egoiche». Tali «configurazioni dell'Io di più antica data» sono risuscitate
nella vita di una persona (rs, p. 501). Anche il mondo infero della mitologia
(di Omero, per esempio) presenta figure di eroi, che durano immutate in uno
stato fuori del tempo, e forse risuscitano nella nostra vita personale, non
solo nella letteratura.
Nella
fantasia freudiana, 1'Io «è il paladino della ragione e della avvedutezza»
(IP-NS, p. 188; lE, p. 488). Possiamo immaginare che la sua relazione con l'Es
sia simile a quella che l'eroe ha con il mondo infero; anche l'eroe, infatti,
deve ricorrere a «trucchi» (è la parola usata da Freud: IP-NS, p. 188) per
procurarsi l'energia che gli serve. E quando non usa trucchi, usa la sua «muscolatura»:
così dice Freud nel descrivere 1'Io ( IE, pp. 503, 517; SMTS, p. 99; CP, p.
573). L'Io, come l'eroe, deve far fronte alle furiose pretese del rimosso, i
cui «desideri censurati sembrano salire da un vero e proprio inferno» (IP, p.
315). Gli abitatori del mondo infero sono, nel linguaggio di Freud,
«investimenti pulsionali che esigono la scarica ... nell'Es non c'è altro» (IPNS,
p. 186). Tali investimenti rivolgono all'Io richieste esorbitanti (ricordate
Odisseo circondato dalla turba famelica dei morti?). E infine l'Es, al pari del
mondo infero omerico, è completamente tagliato fuori dal mondo esterno e si
rapporta a esso esclusivamente «per il tramite dell'Io» (IP-NS, p. 190; CP,
p.626).
Perfino
la iniziale descrizione freudiana della terapia come «cura con le parole» e il
modo di praticarla, con gli interlocutori disposti in maniera da non vedersi
in faccia, con lo sguardo ritualisticamente rivolto altrove, trovano il loro
modello nell'antichità: «Il sacrificio alle divinità dei morti era compiuto
volgendo altrove il volto; non lo sguardo, solo la voce era ammessa nel regno
dei defunti. Ciò poteva operare miracoli» dice Kerényi (Orfeo si voltò a guardare,
e perdette Euridice).
Non
è difficile trasporre la mitologia concettuale della psicologia nella mitologia
del mondo infero," né è difficile rappresentarsi la relazione tra mondo
diurno e mondo notturno alla stregua della discesa agli inferi dell'eroe, e le
nostre moderne idee sull'inconscio come riflessi del Tartaro e dello Stige, di
Caronte e di Cerbero, di Ade e di Plutone. Plutone, specialmente, è importante
da riconoscere nei nostri eufemistici riferimenti a un inconscio inteso come
fonte della totalità, come deposito di ricchezze, non già luogo di fissazione
nel tormento, bensì luogo che offre, se debitamente propiziato, fertile abbondanza.
Gli eufemismi si usano per coprire l' angoscia. Nell'antichità si usava il
nome di Plutone ( "ricchezza") come eufemismo per coprire la spaventosa
profondità di Ade. Oggi, l'inconscio è detto c creativo» per nascondere con un
eufemismo i processi di distruzione e di morte in atto negli abissi dell'anima
.
La
crisi che colse Freud alla metà della vita avvenne mentre lavorava al libro
sui sogni. Ellenberger la chiama «malattia creativa» e la paragona a quelle di
Jung e di Fechner. Per Freud, quella crisi aprì la br'eccia nel regno del
profondo che non era riuscito a scoprire con l'ipnosi, la cocaina e la terapia
dell'isteria.
Va
ricordato, qui, che il libro di Freud si basa quali esclusivamente sui suoi
stessi sogni, è una discesa personale agli inferi, un resoconto personale e un
personale mito del mondo infero, trasformato in un'opera d'arte contenente un
corpo dottrinale che ha avuto validità per altri, a somiglianza della nekyia di Dante e di altri viaggi
immaginali degli scrittori classici. Essi usavano immagini; Freud concetti. I
sentimenti di Freud nei confronti della propria teoria dei sogni testimoniano,
tuttavia, della sua portata archetipica. La teoria del sogno, scrive Freud, «segnala
una svolta: con essa l'analisi ha compiuto il passaggio da procedimento
psicoterapeutico a psicologia del profondo»; è «un pezzo di terra vergine
sottratto alle credenze popolari e al misticismo », Quando si sentiva dubbioso
e confuso circa il proprio lavoro, per riacquistare fiducia in se stesso si
rivolgeva al sogno e alla teona del sogni.
Anche
Ernest Jones, quando scrive dell'autoanalisi di Freud (di cui consiste il
libro sui sogni), è posseduto dal mito della discesa agli inferi dell'eroe: «
... Freud pose mano alla sua più eroica impresa, la psicoanalisi del proprio
inconscio .... un'impresa unica e irripetibile. Una volta compiuta, e compiuta
per sempre. Nessuno infatti potrà più essere il primo a esplorare quegli
abissi ... Molto osò e molto nschiò. Quale indomito coraggio », E nella pagina
successiva Jones la definisce una «fatica erculea».
Per
Freud, come più tardi per ]ung, l'esperienza del mondo infero rappresentò la
pietra di paragone di tutta l'esistenza: «Intuizioni del genere càpitano una
volta soltanto nella vita ». E anche nel motivo con cui viene spiegata tanta
importanza personale risuonano echi dei miti del mondo infero: «Il libro mi è
apparso come un brano della mia autoanalisi, con la mia reazione alla morte di
mio padre, dunque alI'avvenimento più importante, alla perdita più straziante
nella vita di un uomo ». Se ascoltiamo Freud con orecchio metaforico, avendo
come sfondo la nekyia, o discesa
archetipica agli inferi (ricordate l'incontro di Enea con il vecchio padre?), comprendiamo
meglio come la teoria del sogno abbia potuto rappresentare per lui la visione
sostentatrice, il suo «shibboleth » (IP-NS, p. 123). Non era semplicemente una
teoria composta di ipotesi: rimozione, appagamento dei desideri, lavoro
onirico, ecc. Fu una rivelazione del mondo infero, formulata nel linguaggio
della religione della sua epoca e del suo personale codice: con le metafore
della scienza razionalistica.
Freud
evoca «il grande Fechner » (IS, p. 48) una volta ancora in relazione a un'idea
centrale, un'idea altrettanto importante della teoria dei sogni per la nostra
comprensione del ruolo del mondo infero nella psicoanalisi. Mi riferisco al
libretto intitolato Al di là del
principio di piacere, dove Freud di nuovo si appoggia a Fechner (APP, p.
194). Scrive Freud: " ... abbiamo considerato il principio che domina tutti
i processi psichici come un caso particolare della "tendenza alla
stabilità" di Fechner» (Opere, X, p. 5). Le figure del mondo infero
descritte nei miti, fissate nelle loro ripetizioni, incorreggibili, irredente,
corrispondono metaforicamente al principio di stabilità di Fechner, a cui
Freud ricollega la pulsione di morte. Su questa immutabile componente della
psiche torneremo verso la fine di questo libro, a proposito di quel pressante
problema sociale cui si dà il nome di psicopatia o personalità sociopatica.
La
deferenza di Freud per Fechner mi fa pensare a qualcosa di più del semplice
rispetto per le sue idee. Il «vecchio» e «grande» Fechner, con il suo
drammatico crollo nervoso alla metà della vita in cui fa esperienza del mondo
infero, con il suo intenso conflitto tra scienza e misticismo, tra osservazione
e astrazione, rappresentò probabilmente per Freud quel mentore interiore che
Jung trovò in Carus e Paracelso, in Dorn e in Goethe. La tradizione della
psicologia poggia e si accresce sulla propria tradizione, e non soltanto sulle
idee di questa, ma sulle figure che scegliamo perché illuminino la nostra
biografia personale e ci aiutino a farcene carico.
Questi
parallelismi, che svelano la mitologia insita in uno dei sistemi concettuali
della psicologia, avvalorano la tesi che i miti classici non sono semplicemente
parte del passato, qualcosa che appartiene a un' altra epoca o che è di
esclusiva pertinenza di grecisti e latinisti. Il mito è più che mai vivo nei
nostri sintomi e nelle nostre fantasie e anche nei nostri sistemi concettuali.
Anzi, il mito è ciò che conferisce a concetti come «l'inconscio» o «l'Es» di
Freud la loro vitalità e credibilità. Noi crediamo a Freud non soltanto per le
argomentazioni della sua logica o per le conferme empiriche delle sue ipotesi.
Ci sentiamo persuasi in virtù della struttura metaforica sottesa alla teoria,
la quale evoca nella nostra psiche rimemorante il regno archetipico del mondo
infero.
Perciò
il nostro lavoro su Freud fa emergere un principio fondamentale della
psicologia archetipica: l'intercambiabilità di mitologia e psicologia. La mitologia
è una psicologia dell'antichità. La psicologia è una mitologia dell'epoca
moderna. Gli antichi non avevano una psicologia, in senso stretto, ma avevano i
miti, racconti congetturali sugli esseri umani nella loro relazione con forze e
immagini più che umane. Noi moderni non abbiamo alcuna mitologia, in senso
proprio, ma abbiamo sistemi psicologici, teorie congetturali sugli esseri
umani nella loro relazione con forze e immagini più che umane, oggi dette
campi, istinti, pulsioni, complessi. Questo principio della psicologia
archetipica, forse la cifra che la distingue da altre psicologie, è anche una
prassi. Consente di riflettere ciascuna posizione psicologica come fantasia o
mitologema. Usa i miti per criticare dall'interno i positivismi e opera anche
sui racconti mitologici e sulle figure dei miti, sottraendoli alla sfera del
puro racconto e riportandoli sulla terra e dentro di noi, mostrando come
esattamente un mito agisce nella psiche, nelle abitudini della sua mente e del
suo cuore. Il nostro intento è di passare contmuamente dal mito alla psiche e
dalla psiche al mito, riflettendoli entrambi, usando l'uno per offrire
intuizioni all'altra e viceversa, impedendo che ciascuno dei due sia preso
esclusivamente per quello che dice di sé.
Le
relazioni tra mitologia e psicologia risultano singolarmente evidenti nell'
espressione «psicologia del profondo» (Tiefenpsychologie),
proposta all'inizio del secolo dallo psichiatra zurighese Eugen Bleuler come la
denominazione più appropriata per la nuova scienza della psicoanalisi. Questa
mossa terminologica spostava l'attenzione dall'azione alla visione, dal
dissezionare le cose al guardarle in profondità. Il nuovo campo di studio
poggiava ora su un terreno diverso, meno scientifico in senso fisico, perché
meno orientato alla riduzione analitica in parti, e più filosofico in senso
metafisico, perché ora la riduzione era indirizzata a una comprensione più
profonda. Un terreno diverso, ma non nuovo. Anzi, molto vecchio, giacché nella
scelta e nell'adozione di questa espressione riemerge un'immagine antica, dove
psicologia e profondità sono connesse.
Eraclito
(fr. 45/ A55)2 è il primo a collegare psyche, logos e bathun (« profondo » ):
«I confini dell' anima non li potrai trovare, neppure se percorressi tutte le
strade: così profondo è il suo logos
». Come scrive Bruno Snell, in Eraclito «l'immagine della profondità serve a
illuminare la caratteristica precipua dell'anima e della sua sfera, che è
quella di avere una dimensione sua propria, di non possedere estensione
spaziale ». A partire da Eraclito, la profondità diventò la direzione, la
qualità e la dimensione della psiche. L'espressione, ormai di uso comune,
«psicologia del profondo» afferma esplicitamente: per studiare l'anima,
dobbiamo scendere in profondità, e ogni volta che scendiamo in profondità,
viene coinvolta l'anima. Il logos
dell'anima, la psico-logia, implica l'atto di percorrere il labirinto
dell'anima, nel quale non si può mai andare abbastanza in profondità.
Vediamo
qui come le metafore, che crediamo di essere noi a scegliere per descrivere
idee e processi archetipici, come «l'inconscio» di Freud e la «psicologia del
profondo» di Bleuler, siano in realtà parte costitutiva di quei processi e di
quelle idee. E come se il materiale archetipico si scegliesse da sé i termini
atti a descriverlo e questo facesse parte del suo niodo di esprimere se stesso.
Ne consegue che «l'attribuzione di nomi» non è affatto un'attività
nominalistica, bensì molto realistica, in quanto il nome ci conduce dentro la
propria realtà. Si potrebbe addirittura affermare che nell'invenzione delle
terminologie sia coinvolto un fattore selettivo archetipico; che esistano,
diciamo, una semantica o una fonetica archetipiche, sulle quali si basa l'ermeneutica
archetipica. Dopotutto, per tirare fuori dal linguaggio della psicologia una
risonanza archetipica bisogna che questa sia già presente nelle parole, nelle
loro radici o nei loro suoni.
Così
come in Freud, agli inizi della psicologia del profondo, risuonano echi che
rimandano al mondo infero della mitologia, alla stessa stregua in Eraclito,
agli albori della filosofia, è adombrato l'inconscio della psicologia. Se si
vuole fornire retroterra e visione in profondità alla psicologia del profondo,
è giocoforza rivolgersi a Eraclito, e noi lo faremo di continuo, in questo
libro. Aristotele disse che Eraclito assunse l'anima come suo archon, suo principio primo, il che ne
fa il primo psicologo del profondo della tradizione occidentale (De anima, a2, 405a25). E ci obbliga,
inoltre, a leggere i suoi frammenti dalla medesima prospettiva, una
prospettiva in cui la psiche viene prima di tutto. Come abbiamo letto Freud in
modo mitologico, così leggiamo Eraclito in modo psicologico.
Dunque,
l'affermazione di Eraclito sulla profondità dell'anima lascia intendere anche
che il visibile, ciò che è soltanto naturale, non soddisfa mai l'anima.
L'anima desidera andare oltre, sempre più addentro, sempre più in profondità.
Perché? Eraclito risponde anche a questa domanda: «La trama nascosta è più
forte di quella manifesta» (fr. 54/ A 20). Per giungere alla struttura
fondamentale delle cose occorre penetrare nella loro oscurità. Ma perché?
Perché, dice Eraclito, «la vera costituzione di ciascuna cosa è usa a
nascondersi» (fr. 123/A92), ovvero, secondo altre traduzioni: «La natura ama
nascondersi» (Burnet, p. 10; Wheelwright, p. 17). Esamineremo tra breve le
nozioni di occultezza e invisibilità in relazione a Ade, ma possiamo fin d'ora
cogliere ciò che intende Eraclito. Mettendo insieme i pochi frammenti citati,
ci rendiamo conto di come la dimensione della profondità sia l'unica capace di
penetrare fino a ciò che è nascosto; e giacché solo ciò che è nascosto è la
vera natura di tutte le cose, compresa la Natura stessa, allora soltanto la via
dell'anima può condurre a una vera visione in profondità. Eraclito lascia
intendere che vero equivale a profondo, e apre così la strada a un'ermeneutica
psicologica, a un punto di vista dell'anima riguardo a tutte le cose. E come se
gli fosse nota la parola inglese per «comprendere»: understand (under, «sotto»,
e stand, «stare »), e la esplorasse
come se avesse letto Heidegger.
Da
Eraclito apprendiamo che l'anima non è semplicemente una regione
nell'accezione topografica di Freud, e neppure soltanto una dimensione, come
lui stesso intende; l'anima è un'operazione di penetrazione, di visione in profondità,
che mentre procede fa anima. Se l'anima è un motore primo, allora il suo moto
primario è l'approfondimento, con il che essa accresce la propria dimensione -
come fece Freud, il quale con le sue esplorazioni topografiche aggiunse caverne
e componenti alla psicologia. Il perseguimento di nessi nascosti in una
dimensione senza confini spiega il latente imperialismo della psicologia. Non
c'è fine alla profondità e tutte le cose diventano anima. Gli elementi
fondamentali di tutte le cose si compongono e decompongono, si generano e
degenerano trasformandosi in anima (fr. 36/ A53), termine primo e ultimo del
nostro mutevole mondo.
Ho
descritto diffusamente altrove questa incessante attività del fare anima, che
ho chiamato «psicologizzazione ». Adesso siamo in grado di attribuire a
quella attività un mitologema più puntuale. L'impulso innato a cercare sotto le
apparenze per giungere alla «trama invisibile », alla struttura nascosta,
conduce al mondo che sta dentro il dato. Questo impulso autoctono della psiche,
il suo spontaneo desiderio di comprendere in modo psicologico, sembrerebbe
affine a ciò che Freud definisce «pulsione di morte» e Platone descrive come
desiderio dell'Ade (Cratilo, 403c). È l'impulso che si manifesta nella mente
analitica, la quale fa anima dissezionando le cose. Esso opera per
distruzione, attraverso quei processi di dissolvimento, decomposizione,
distacco e disgregazione che sono necessari sia per la psicologizzazione
alchemica sia per la moderna psicoanalizzazione. Ecco che allora ci risulta
comprensibile anche la necessità, per il fare anima, di termini come
«psicoanalisi» (Freud) e psicologia analitica (Jung): essi descrivono un metodo
«disgregativo» del profondo, che rimanda ai mitologemi di Ade."
Ade,
come è noto, era il dio del profondo, il dio delle cose invisibili. Lui stesso
era invisibile, il che potrebbe sottintendere che la trama invisibile sia Ade
e che quel quid essenziale, che mantiene le cose nella loro forma, sia il
segreto della loro morte. E se, come dice Eraclito, la Natura ama nascondersi,
allora la natura ama Ade.
Di
Ade si dice che non avesse templi né altari nel mondo supero; l'incontro con
Ade è un'esperienza di violenza, di violazione (il ratto di Persefone; l'aggressione
alle ingenue ninfe della vegetazione, Leuci e Minta; si vedano inoltre Iliade, V, 395; Pindaro, Olimpiche, IX, 33). E talmente
invisibile, anzi, che in tutta l'arte dell'antica Grecia non si trovano rappresentazioni
idealizzate di questo dio, come avviene invece per gli altri Dei." Ade non
aveva emblemi che lo rappresentassero, tranne a volte l'aquila," e questo
rivela il legame oscuro con il fratello, Zeus. Non ci sono sue tracce sulla
terra: da lui non discende alcuna stirpe, alcuna generazione.
Il
nome di Ade era usato raramente. Veniva a volte chiamato «l'invisibile », più
spesso Plutone («ricchezza», «tesori») o Trofonio («colui che nutre »). Questi
mascheramenti di Ade sono stati interpretati da alcuni come eufemismi per
coprire la paura della morte; ma in tal caso, come mai proprio questi e non
altri? Forse Plutone è una descrizione di Ade, nel senso in cui lo interpreta
Platone. In questo senso, Plutone rimanda alla ricchezza nascosta, ai tesori
dell'invisibile. E allora si capisce una delle ragioni per cui non esistevano
sacrifici e culti in suo onore: Ade era colui che è ricco, che dà nutrimento
all'anima. A volte era assimilato a Thanatos,
«Morte», del quale Eschilo scrisse: «Morte è l'unico dio che non gradisce doni
e non cura sacrifici e libagioni, che non ha altari e non riceve inni» (fr.
Niobe). Nella pittura vascolare è rappresentato, quando lo è, con la testa
girata dall'altra parte, come se non fosse caratterizzato neppure da una
precisa fisionomia. Tutte queste prove in negativo concorrono però a formare
un'immagine precisa, l'immagine di un vuoto, di un'interiorità o profondità che
è sconosciuta ma a cui può essere dato un nome, presente e avvertita benché
non veduta. Ade non è un'assenza, è una presenza nascosta, una pienezza
invisibile, si potrebbe dire.
Alcune
ricerche sull' etimo di « demone della morte» risalgono al significato di
«colui che nasconde ». Per meglio comprendere le modalità secondo le quali
Ade si nasconde invisibilmente nelle cose, proviamo a smontare questo concetto
e ad ascoltare i nessi nascosti, le metafore contenute nella parola stessa,
«nascosto»: 1) sepolto, avvolto, celato alla vista, detto sia di un cadavere
sia di un mysterium; 2) occulto,
esoterico, celato nel senso di segreto; 3) ciò che di per sé non può essere
visto: non visibile in quanto privo di dimensione spaziale, non esteso; 4)
senza luce: oscuro, nero; 5) ciò che non si lascia vedere a un esame attento,
dunque bloccato, censurato, proibito o oscurato; 6) celato in quanto contenuto
dentro qualcosa (interiore) o sotto qualcosa (inferiore): in questo ambito
troviamo il latino cella (« magazzino
sotterraneo »), che è affine ai termini dell'antico irlandese cuile (« cantina» ) e cel (« morte»), a sua volta affine all'
inglese hell ( « inferno»): 7) ciò
che è esperito con terrore, un vuoto, il nulla; 8) ciò che è esperito come un
nascondersi, per esempio ritirandosi in se stessi, voltando le spalle alla
vita; 9) ciò che è furtivo, subdolo, che inganna, come le motivazioni nascoste
e le invisibili connessioni di Ermes. Insomma, Ade, il nasconditore nascosto,
presiede alla cripta così come a ciò che è criptico, il che conferisce alla
frase di Eraclito, « physis kryptesthai
philei», «Natura ama nascondersi», risvolti davvero sottili e molteplici.
Alcuni
sostengono che il copricapo o elmo che Ade indossa appartiene in origine a
Ermes e non riguarda direttamente Ade. Quel copricapo è un fenomeno curioso:
lo portano Ermes e Ade; Atena se lo mette per avere la meglio su Ares; Perseo,
per sconfiggere la Gorgone. Rende invisibile chi lo indossa. In tutta
evidenza, è il copricapo l'immagine esplicita del nesso tra Ermes e Ade
(preannunciato nell'inno omerico a Ermes). Ermes e Ade hanno in comune un certo
stile di coprirsi il capo che, mentre nasconde i loro pensieri, fa percepire i
pensieri nascosti. A diventare invisibili sono le loro intenzioni: non
possiamo vedere dove è rivolta la loro testa, anche se, nello stesso tempo,
avvertiamo un controllo occulto sui nostri pensieri più intimi. Poiché non
riusciamo mai a scoprire le loro intenzioni nascoste, li consideriamo
ingannatori, imprevedibili, spaventosi; oppure saggi.
Nel
considerare la Casa di Ade, dobbiamo tenere presente che i miti, e anche Freud,
ci dicono che nel mondo infero non esiste il tempo: non si danno né
deterioramento né progresso, non si dà cambiamento. Poiché il tempo è
totalmente estraneo ad esso, non è lecito concepire il mondo infero come un
mondo « dopo» la vita, se non nel senso di pensieri sul dopo durante la vita.
La Casa di Ade è un regno psicologico nel presente, non un regno escatologico
nel futuro. Non è un remoto luogo di giudizio delle nostre azioni, ma fornisce
il luogo per giudicare ora, e dal di dentro, il riflesso inibitore che è interno
alle nostre azioni.
Tale
simultaneità tra mondo infero e mondo quotidiano viene rappresentata
immaginando una perfetta coincidenza di Ade con Zeus, una identità tra Ade e
Zeus chthonios. La fratellanza tra
Zeus e Ade dice che mondo di sopra e mondo di sotto sono la stessa cosa, solo la
prospettiva è diversa. L'universo è uno e uno solo, coesistente e sincrono, ma
lo sguardo di un fratello lo vede dall'alto e attraverso la luce, quello
dell'altro dal basso e nella sua oscurità. Il regno di Ade è contiguo alla
vita, la tocca in ogni suo punto, ne è appena al di sotto, ed è il fratello
ombra (Doppelgänger) che alla vita
conferisce profondità e psiche.
Poiché
il suo regno era concepito come fine irreversibile di tutte le anime, Ade è la
causa finale, lo scopo, il telos di ciascuna anima e di ciascun processo
animico. Se questo è vero, allora tutti gli eventi psichici, e non solo gli
eventi sadici o distruttivi attribuiti da Freud a Thanatos, hanno un aspetto che rimanda a Ade. Tutti i processi
animici, tutto ciò che è nella psiche, muove in direzione di Ade. Come il finis è Ade, così il telos è Ade. Ogni cosa, allora, diventa
più profonda, muove dai nessi visibili ai nessi invisibili, lascia a poco a
poco la vita per la morte. Quando cerchiamo il significato più rivelatore di
un'esperienza, esso ci si presenta nel modo più netto se lo lasciamo muovere
verso Ade, se ci domandiamo: che rapporto ha questa esperienza con la «mia»
morte? Allora l'essenza risalta nitida.
Anche
in questo Ade riveste importanza per la teoria psicologica. Le psicologie che
sottolineano il punto di vista finalistico (quella di Jung, per esempio, e
quella di Adler) riaffermano la prospettiva di Ade, anche se poi non sviluppano
fino alle estreme conseguenze il loro fine. Voglio dire che il finalismo, in
psicologia, sembra esitare quando si tratta di assumere fino in fondo la
mitologia, dove esso non è soltanto teoria ma esperienza nell'anima della
vocazione a Ade.
Un
momento, però. Attenzione a non prendere tale vocazione come la morte
letterale: oggi se ne parla e se ne scrive così tanto, che si comincia a credere
di sapere tutto di una cosa di cui non sappiamo nulla. La morte letterale sta
diventando un mistero stereotipato: ci fornisce la prova provata dell'inconoscibile.
No,
per vocazione a Ade intendo quel senso di avere uno scopo che subentra
ogniqualvolta si parla di anima. Che cosa vuole, l'anima? Che cosa sta cercando
di dire (con questo sogno, questo sintomo, questa esperienza, questo problema)?
Dove mi porta il mio destino, il mio processo di individuazione? Se abbiamo
l'onestà di affrontare queste domande, la riposta non ci può sfuggire: il
processo di individuazione ci porta alla morte. Questa meta inconoscibile è
l'unico evento assolutamente certo della condizione umana. Ade è l'invisibile e
tuttavia è assolutamente presente.
La
vocazione a Ade implica che tutti gli aspetti del procedere dell'anima vanno
letti alla luce della fine, non solo in quanto parte del generale procedere
umano verso la morte, ma come eventi particolari che a quella morte attengono
e che in essa hanno luogo. Ciascuna sfaccettatura è un'immagine finita in se
stessa, che adempie il suo scopo, il quale al tempo stesso è senza fine, non
letteralmente, in senso temporale, ma senza limiti quanto a profondità. In
altri termini, non ci possiamo fermare in alcun luogo, perché la fine non è nel
tempo ma nella morte, dove morte significa il telos o compimento di qualsiasi cosa; ovvero possiamo fermarci in
qualunque luogo, perché, dal punto di vista finale, ciascuna cosa è fine a se
stessa. La meta è sempre adesso.
Una
psicologia autenticamente finalistica mostrerà i suoi fini nei suoi mezzi. La
sua meta finale, la morte, sarà evidente nei metodi che usa per avvicinarsi a
essa. Pertanto, vivere fino in fondo il punto di vista finalistico significa
applicare la prospettiva di Ade e del mondo infero a ciascun evento psichico.
Ci chiediamo: qual è lo scopo di questo evento per la mia anima, per la mia
morte? Domande come questa estendono illimitatamente la dimensione della
profondità e, ancora una volta, la psicologia è spinta da Ade a un imperialismo
dell'anima, che riflette gli imperialismi del suo regno e il dominio radicale
della morte.
La
netta contrapposizione tra giorno e notte, nonché la collocazione dei sogni
unicamente nel mondo notturno del sonno e nella morte iniziano prima di
Eraclito. Già nell'Iliade (XIV, 231; XVI, 454, 672,682; XI, 241; e inoltre
Odissea, XIII, 79-80), Hypnos
(Sonno) e Thanatos (Morte) sono
gemelli. Ma non si tratta semplicemente di un'allegoria poetica di idee
astratte: «Già in Omero Hypnos è una
persona reale, che ha facoltà di decidere se concedere o meno il sonno a
qualcuno»." Queste persone, molto potenti e vivide, che governano il
nostro buio, sono, secondo Esiodo (Teogonia,
211 sgg.), figli della Notte, parte della numerosa progenie della dea, insieme
a Vecchiaia, Contesa Miseria Nemesi, Destino, Inganno e insieme alla stirpe dei
Sogni (Oneiroi).
Nell'
Odissea, Omero colloca i sogni o direttamente nella Casa di Ade o nelle
vicinanze del suo regno nell'Oceano, a occidente, dove tramonta il sole. Per
Virgilio, l'intera progenie della Notte risiede nel mondo infero, e questa
rimase la convenzione di tutta la poesia latina: Ovidio (Met., XI, 614) dice
che i sogni sono privi di vita corporea, come le creature del mondo infero.
Omero (Odissea, XI, 204-22) aveva espresso lo stesso concetto rovesciando i
termini: l'anima dei morti «vaga volando, simile a un sogno». Anche la
mitologia orfica associa i sogni con la morte e con il sonno, chiamato fratello
della morte e dell'oblio. Un parallelo più remoto è rintracciabile in India
nello Atharvaveda, dove si dice che i
sogni provengono dal mondo di Yama, il signore dei morti.
Vediamo
come, secondo questo modello antichissimo e mai interrotto della nostra
tradizione, la costellazione archetipica alla quale appartengono i sogni sia
Il mondo della Notte. Ciascun sogno è figlio della Notte, strettamente
associato al Sonno e alla Morte e all'Oblio (Lete) di tutto ciò che il mondo
diurno ricorda. I sogni non hanno padre, non hanno vocazione ascensiva.
Provengono dalla Notte soltanto, la loro dimora è nel suo regno oscuro. Tale è
dunque la genealogia dei sogni, il loro mito delle origini, che. ci descrive la
loro famiglia archetipica, la sfera a cui appartengono.
Ho
sottolineato sia la lunga storia di questa tradizione sia la sua forza
poetica, nella convinzione che mitopoiesi e storia rappresentino ciascuna la
verità archetipica, la prima attraverso la potenza dell'immaginazione, l'altra
attraverso la capacità di durare. Ancora una volta, Freud ci è testimone.
Quando disse che i sogni proteggono il sonno e che questo è il loro unico
scopo, ricollocò sogno e sonno nel loro antico legame fraterno. Quando, nel
medesimo contesto, disse che il creatore dei sogni è Eros (s, p. 42; IP-NS, p.
134), perché, appagando desideri erotici, i sogni proteggono il sonno, Freud,
come già Cicerone (De nat. deor.,
III, 17), immaginò Eros come parte della progenie della Notte.
Se
accettiamo questa concezione, ne consegue che Eros è fratello della morte e non
già il principio che dalla morte ci può salvare. Emergerà allora un legame più
intimo tra ciò che avviene nei sogni e un amore che si realizza nell'oscurità,
nei corpi intangibili delle immagini psichiche. Dunque esiste un amore che
muove verso il basso, e non soltanto un Eros che protende le braccia verso
l'orizzonte altrui. Questo amore discensivo è presente in tutta la tarda
antichità nelle statue di Cupido con le ali chiuse e la fiaccola puntata verso
il basso. Il medesimo anelito verso il profondo sarà letteralizzato nel
romanticismo e addirittura messo in atto nei patti d'amore suicidi.
Cominciamo
allora a capire che, nella vita come nel mito, Eros non è affatto semplice. E
il principio di vita, di connessione, una libido che vuole le unioni, come
dice Freud, e che attiene soprattutto al «femminile», come dice Jung? Oppure è
il figlio di Penìa (Platone), sempre bisognoso; un fanciullo languido,
addormentato; o il figlio di Venere, che immette all'improvviso nella nostra
vita, con le sue frecce, il desiderio e i piaceri della dea? Viene per primo,
nel senso che è origine di tutte le cose, come sostenevano alcuni miti, o nel
senso che per il cristiano è la prima virtù? Oppure Eros è fratello di Ade,
come disse Schelling? Il mito lascia la definizione di Eros nell'incertezza; o
meglio, ne parla sempre e soltanto all'interno di un contesto specifico, come
quello presentato qui, che lo pone nel letto del Sonno, della Morte e del
Sogno, tra la progenie della Notte. Le definizioni moderne, di cui la psicologia
contemporanea trabocca con romantica esuberanza, non hanno alcuna validità, se
non vengono elaborate in riferimento all'uno o all'altro degli specifici
contesti archetipici di Eros. I discorsi sull'amore ci dicono più cose sulla
persona che li fa, che non sull'amore: ci rivelano all'interno di quale fantasia
è messa in scena la sua esperienza di Eros.
La
progenie della Notte conferisce al sogno un'atmosfera che è ben lontana dal
felice ottimismo della psicologia della crescita o dalle segrete delizie del
desiderio sessuale. Non ci viene detto che i sogni ci aiutano, che rendono più
completa la nostra vita indicandoci la direzione delle nostre tendenze
creative. Né ci viene detto che i sogni sgorgano da una polla inconscia di
piacere libidico, da un pozzo dei desideri. Al contrario, i sogni sono parenti
degli inganni e dei conflitti, delle lamentazioni della vecchiaia,
dell'irreversibilità del nostro destino: in una parola, della depressione. Il
sogno ci trascina verso il basso, e lo stato d'animo che corrisponde a questo
movimento è la depressione, con i suoi ritmi rallentati, la sua malinconia, la
sua introversione .
Questa
depressione ha facce diverse. Per la coscienza eroica del mondo più antico, la
Notte era la fonte del male, mentre per la coscienza mistica degli orfici,
essa era pienezza di amore (Eros) e di luce (Fanes). La nostra coscienza
moderna è più eroica che mistica, e per convocare Hypnos o Ermes, che ci
aiutino a addormentarci, abbiamo bisogno di incantesimi, di rituali: le
preghiere, lavarsi i denti, l'orsacchiotto, masturbazione, pancia piena e
televisione, l'ultimo bicchierino e la pillola per dormire. La favola della
buona notte, nella nostra cultura, dice in sostanza che dormire è sognare e
sognare è entrare nella Casa del Signore dei Morti, dove giacciono in attesa i
nostri complessi. No, noi non ce ne andiamo «docili in quella buona notte».
Nell'usare
l'espressione «mondo infero», è assolutamente necessario avere presente la
distinzione proposta da alcuni classicisti. Tale distinzione riveste grande
importanza psicologica, perché svincola la sfera psichica dalla natura. I termini
greci chthon e ge ("mondo infero" e "sottosuolo") non si riferiscono
necessariamente alla medesima regione, né evocano sentimenti uguali. «Il
termine chthon, con i suoi derivati
indica in origine le profondità morte e fredde e non ha nulla a che vedere con
la fertilità ». Questo tipo di terreno profondo non è la stessa cosa della
terra scura· e la Grande Signora (potnia
chthon), che invia i sogni neroalatì" ed è detta a volte Erinni, non
può assolutamente essere assimilata nell'unica figura della Grande Madre Terra.
In
psicologia, il complesso della Grande Madre ha finito per inghiottirsi le
differenziazioni pure presenti nella dea. Non sorprende che questo complesso
sia anche chiamato «coscienza uroborica», visto che la dea stessa scompare in
una tale «monotonia di interpretazione» da indurmi a pensare che la psicologia
monoteistica, contro la quale tante volte mi sono scagliato, non ricalchi tanto
l'antico ebraismo (all'interno e a fianco del quale rimaneva ampio spazio per
la varietà immaginale), quanto appunto la Grande Madre. Il monismo come mammismo.
A parte questo, quando oggi leggiamo la psicologia analitica per capire che
cosa significhi «ctonio», scopriamo che il termine ha assunto il signifìcato di
terrestrità arcaica che atteneva a lei. Non solo, in quanto arcaico e
terrestre, deve pure significare matriarcale e femminile! Di conseguenza, il
nostro corpo istintuale, nella carne o in immagine, negli uomini come nelle
donne, oggi come nel passato, appartiene a lei, e per riappropriarcene
dobbiamo diventare eroi e assassini. Il complesso della Grande Madre aggiunge
il femminile come genere, quasi fosse un ninnolo, all'agricoltura e alla
fertilità, oltre che alla terra, al corpo, all'istinto e al profondo. Questa
mossa trascura il fatto che « ctonio » è un epiteto proprio anche a Ermes, a
Dioniso e a Zeus stesso; ignora inoltre, nel senso che « non conosce », uno
ctonio che non possa essere identificato con il corpo istintuale o con la terra
intesa come suolo.
Chiariamo
subito: lo ctonio non è soltanto femminile, soltanto istintuale, soltanto
fisico, e non ha necessariamente a che fare con i riti di fertilità. Come
scriveva Wilamowitz-Moellendorf: « Se gli studiosi moderni, che fanno un gran
parlare di culti ctonii, si riferiscono con questo all'agricoltura e a tutto
ciò che in quella sfera attiene a Demetra, ebbene vuole dire che non sanno
cogliere le sfumature delle parole greche ». I due termini, ge e chthon,
sottintendono due mondi diversi: il primo, il mondo della terra e sulla
terra; il secondo, il mondo sotto la terra e oltre la terra.
Anzi,
le distinzioni da fare sono addirittura tre, e sono state immaginate come tre
diversi livelli della terra, all'interno di una immaginazione « terricola» in
armonia con Gea stessa, il cui nome ritroviamo in geo-grafia, geo-logia e
geo-metria. La prima distinzione è tra la pianura verde, orizzontale di
Demetra, con tutte le sue attività preposte alla crescita, e Gea, che è la
terra al di sotto di Demetra. Questo secondo livello, Gea, può essere
immaginato come il terreno fisico e psichico di un individuo o di una collettività,
il loro « posto sulla terra», con i relativi diritti naturali, riti e leggi
(Gea-Temi). Qui, Gea è uno dei fondamenti da cui la vita umana dipende ancora
più profondamente che dal cibo e dalla fertilità. Gea rappresenterebbe i riti e
le leggi che garantiscono la fertilità, una sorta di principio regolatore
materno, che rende possibile la fertilità materiale e ne costituisce il terreno
spirituale. Poi, al di sotto di questi due livelli, abbiamo il terzo, chthon,
il profondo, il mondo dei morti.
Naturalmente,
la mentalità politeista non divide mai in modo netto questi «livelli», e quindi
negli epiteti e nei culti Demetra-Gea-Cton spesso si fondono." (Ciò che
gli studiosi immaginano riguardo ai greci non corrisponde necessariamente a ciò
che i greci immaginavano riguardo agli Dei). Inoltre, a confutare le mie
distinzioni c'è anche il fatto che si può benissimo vedere l'intero complesso
del mondo infero dalla prospettiva di Gea, come fa Patricia Berry."
Questo consente alla Berry di scorgere in Gea quello spirito ctonio che io
trovo in Ade e di concludere che Gaia (Gea) è sia la terra materna, materiale,
sia il vuoto ctonio con il suo proprio spirito.
Il
problema dipende in parte da come si considera la terra. La stratificazione di
significati che ho compendiato sopra nell'immagine di Demetra-Gea-Cton rimanda
a una terra non fisica, o terre pure, che è al di sotto o al di là della terra
su cui posiamo i piedi e forse, anche, viene prima. Ci sono etimologi e
classicisti che cercano di mettere in relazione i tre « livelli» dal punto di
vista culturale, nella convinzione che un livello di significato sia
precedente all'altro, nel senso di storicamente anteriore; come se fossero
essi stessi immersi in una fantasia genealogica, questi studiosi fanno
derivare un livello dall'altro, tracciando l'evoluzione storica dei tre
concetti. Per esempio, Kirk cita uno dei primi filosofi presocratici, Ferecide
di Siro, il quale collocava Cton-Ctonie nel principio, con Zeus e Crono: « ...
ma a Ctonie toccò poi il nome di Gea».
Anziché
addentrarmi nelle argomentazioni della fantasia storica, preferisco attenermi
alle distinzioni psicologiche riflesse nelle tre parole e nelle tre personificazioni.
Gea stessa presenta due aspetti. Da un lato, essa ha a che fare con la
giustizia distributiva, con le Parche, e inoltre possiede poteri divinatori,
profetici. (A Mykonos, Gea chthonia era venerata insieme a Zeus chthonios e a
Dioniso Leneo, e ad Atene [Areopago] era associata con Plutone ed Ermes ctonii
e con le Erinni). Questa è la Grande Signora che invia i sogni neroalati ed è,
appropriatamente, la madre di Temi (Giustizia). Dall'altro lato, in questo suo
aspetto spirituale, essa può essere distinta dalla Gea fisica alla quale si
offrivano cereali e frutti, ovvero Gea-Demetra. La quale Demetra ha a sua
volta un aspetto misterico: sua figlia Persefone appartiene a Ade e ha una
funzione collegata al mondo infero. Il significato spirituale non può essere
ridotto a quello fisico (facendo derivare il culto dei morti dai riti di
fertilità, il senso di giustizia dai rituali agricoli), senza ignorare il dato
di fatto palese che esistono figure diverse con epiteti diversi. In altre parole,
perfino la terra e la natura hanno una loro funzione psichica, accanto alle
funzioni terrestri, e si può servire la terra e stare su di essa in molti modi,
cioè attraverso attività psichiche e non soltanto attraverso attività
naturali.
La
distinzione tra ctonio e terrestre, tra fondamenti invisibili e terreno
tangibile, tra oscurità dell'anima e nerezza del suolo, tra profondità psichiche
e profondità materiali, tra mistero iniziati co e rito di fertilità trova un
parallelo nella distinzione esistente nella scrittura egizia tra il geroglifico
indicante la terra, quello indicante Aker (l'accesso al sottosuolo al limitare
dell'esistenza) e un terzo geroglifico per indicare il regno dei morti di
Anubi, il dio-sciacallo nerazzurro. Ancora una volta le distinzioni sono
rappresentate come distanza. Nel suo capolavoro, Psiche, il classicista più rivoluzionario della fine del
diciannovesimo secolo, Erwin Rohde, amico di Nietzsche, scrive che il mondo
infero di Ade e Persefone è talmente distante dal nostro mondo, che coloro
che vi sono relegati «non possono esercitare alcuna influenza sulla vita e le
azioni degli uomini della terra ». Rohde sottolinea ulteriormente la
distinzione tra il sottosuolo di Gea e il mondo ctonio, affermando che Gea «nel
culto vivo la si incontra raramente nei gruppi di divinità maschili e
femminili a carattere ctonio che in molti luoghi erano venerate collettivamente
».
La
qualità spirituale del mondo infero emerge nel modo più chiaro nelle
descrizioni del Tartaro, il quale, da Esiodo in poi, era immaginato al fondo
dell'Ade, come sua voragine estrema. Il Tartaro era spesso paragonato alla
volta celeste, in quanto distava dalla terra tanto quanto il cielo al di sopra
di essa; ed era personificato come figlio di Etere e di Terra, dunque un regno
di polvere, un composto dell'elemento più materiale e dell'elemento più immateriale.
Man
mano che la fantasia del Tartaro andava elaborandosi, esso diventò sempre più
una regione pneumatica di aria e di vento. A differenza dell'inferno
cristiano, che è un luogo di fuoco, nell'immaginazione della tarda antichità
il Tartaro era una regione di aria densa e fredda senza luce. Perciò, di Ade si
diceva che avesse le ali; allo stesso modo, nell'epopea di Gilgamesh, Enkidu
sogna la propria morte come trasformazione in uccello, le braccia che si
coprono di piume. I morti sono esteriormente simili a uccelli, e il loro
elemento è evidentemente l'aria.
Questa
sua volatilizzazione pone il mondo infero in netto contrasto con la terra sotto
i nostri piedi. In età alessandrina, l'oltretomba perdette del tutto la sua
localizzazione dentro la terra (vale a dire, si liberò dal letteralismo
naturalistico) e fu trasferito, in senso geografico, sotto al mondo. Esisteva
ora un emisfero inferiore. Il termine sotterraneo (hypogeios, sotto la ge) indicava l'intero emisfero celeste che si
incurvava al di sotto della nostra Terra e dunque, come Ade, era
necessariamente invisibile dalla nostra prospettiva: da dove stiamo noi non
può essere visto. Mondo diurno e mondo notturno, le due facce dell'anima
romantica, erano già allora concepiti secondo una teologia geografica di mondo
supero e mondo infero. In tale «teologia, il mondo è diviso in due metà dal
cerchio dell'orizzonte; l'emisfero superiore è il regno dei vivi e degli dèi
superi, l'emisfero inferiore quello dei morti e degli dèi inferi ». Gli egizi
avevano descritto con minuzia estrema questo mondo rovesciato che sta sotto i
nostri piedi. I morti camminavano capovolti, testa in giù e piedi in su: «Le
persone là camminano con i piedi sul soffitto. Questo comporta la spiacevole
conseguenza che, poiché la digestione procede in direzione opposta, gli
escrementi arrivano alla bocca». Il mondo infero è l'inverso rispetto al mondo
diurno, e dunque il suo comportamento sarà invertito, pervertito. Ciò che dalla
prospettiva del giorno è solo escrementi (i residui diurni di Freud) diventa
cibo per l'anima quando è capovolto. Il modo di muoversi, il modo di
assimilare le cose, la logica, perfino, sono a testa in giù, perché là abbiamo
la testa altrove. (Nel sesto capitolo prenderemo in esame alcuni esempi
attuali di questo «essere a testa in giù», tra cui gli escrementi nei sogni).
E
se ci fosse una figura archetipica, nei «residui diurni» di Freud che
costituiscono il materiale del sogno? Non potrebbero questi avanzi riferirsi
alle immondizie domestiche che venivano offerte in sacrificio a Ecate?".
Ecate è stata fin dai tempi antichi coinvolta nell'interpretazione dei sogni.
Sia la visione magica, che ritiene i sogni premonizioni del futuro, sia la
visione meccanicistica del diciannovesimo secolo, che li considera prodotti di
scarto delle sensazioni fisiologiche (pattume) mostrano l'influenza di Ecate.
Quando essa è identificata con Nyx,
la notte, come in Spenser e a volte in Shakespeare, i sogni diventano la sua
provincia e le nostre idee interpretative riflettono la sua prospettiva.
Possiamo
continuare questa tradizione, sebbene in maniera diversa. Sì, il sogno è fatto
di rimasugli, e questi appartengono alla dea che rende sacri i cascami della
vita, sicché tutto conta, tutto è importante. Dedicare il sogno ai «misteri di
Ecate e della notte» (Re Lear, I, I, 111) significa restituire i rigurgiti
«vomitati» nei sogni senza pretendere di salvarli moralmente o di trovarne
l'utilità per il mondo diurno. Il ciarpame dell'anima è primordialmente salvato
dalla benedizione di Ecate e perfino lo spreco che facciamo di noi stessi può
essere ricondotto a lei. Una vita sconclusionata e piena di problemi è una
maniera di entrare nel suo regno e diventare «figli di Ecate »; La nostra parte
consiste soltanto nel riconoscere che c'è un mito nella confusione, in modo da
depositare i residui diurni nel posto giusto, vale a dire sull'altare di
Ecate. Il rito prevedeva che la spazzatura fosse deposta di notte a un crocevia,
e dunque ciascun sogno può. condurre almeno in tre direzioni, oltre a quella da
cui siamo venuti. Ecate, che tradizionalmente è rappresentata con tre teste, ci
obbliga a guardare e a tendere l'orecchio in più modi contemporaneamente.
Poiché
il mondo infero differisce così radicalmente dal sottosuolo, i sogni, che in
esso hanno la loro casa, devono riferirsi a un mondo psichico o pneumatico di
fantasmi, spiriti, antenati, anime, daimones. Questi sono invisibili per
natura, e non semplicemente perché dimenticati o rimossi. E un mondo fluido, o
di polvere, di fuoco, di fango o di etere, dunque non offre niente di solido a
cui aggrapparci, a meno che non elaboriamo strumenti intuitivi adatti ad
afferrare gli esseri impalpabili, che scivolano tra le dita o bruciano a
toccarli.
Situando
il sogno nella Casa di Ade, tra questi fondamentali impalpabili, cominceremo a
capire come i sogni riflettano un mondo sotterraneo di essenze, e non un
sottosuolo di radici e di semi. I sogni presentano immagini dell'essere, non
del divenire. Apprenderemo che un sogno non è tanto un commento sulla vita e
un'indicazione sulla sua direzione evolutiva, quanto una enunciazione
proveniente dalle profondità ctonie, da quello stato immutabile, denso,
freddo, che oggi tanto spesso chiamiamo psicopatia, perché, come ben vide
Freud, il sogno non conosce morale, sentimenti umani, senso del tempo. Non
possiamo più rivolgerei al sogno con speranze di progresso, trasformazione,
rinascita.
Credo,
inoltre, che il mondo infero ci insegni ad abbandonare la speranza di poter
usare i sogni per conseguire l'unificazione della personalità. Gli spiriti del
mondo infero sono plurali. Tant'è vero che i di manes, gli spiriti inferi, che erano l'equivalente latino dei theoi chthonioi dei greci, neppure
possedevano la forma singolare. Anche del singolo defunto si diceva: di manes, al plurale. « Gli antichi
egizi ritenevano che l'individuo vivesse dopo la morte in una molteplicità di
forme, ciascuna delle quali era la persona intera». Il mondo infero è una
comunità di figure innumerevoli. L'infinita varietà di figure riflette
l'infinità dell'anima, e i sogni ripristinano nella coscienza questo senso del
molteplice. La prospettiva politeistica è fondata nelle profondità ctonie
dell'anima. Una psicoterapia che rifletta tali profondità non può dunque mirare
al conseguimento di un'individualità indivisa né promuovere un'identità
personale intesa come totalità unificata.
L'accento,
nella psicoterapia, cadrà invece sugli effetti disgregativi del sogno: perché
il sogno ci mette di fronte, tra l'altro, alla nostra dis-integrità morale,
alla nostra psicopatica mancanza di una presa centrale su noi stessi. I sogni
ci rivelano che siamo plurimi e che ciascuna delle forme che vi figurano sono
«la persona intera», potenzialità comportamentali complete. Soltanto
disgregandoci in quelle molteplici figure ampliamo la coscienza fino ad abbracciare
e a contenere le sue potenzialità psicopatiche.
Quando
cerchiamo di leggere il profondo livello ctonio dal punto di vista di Demetra o
di Gea, ci troviamo in difficoltà. Percepire lo ctonio con gli occhi di
Demetra è prendere il sogno come segnale per l'azione letterale e tradurlo con
l'etica naturalistica in un mondo moralizzato. Prendere un sogno come se
contenesse un sottinteso immorale o un'indicazione morale volti a correggere
un errore e ristabilire l'equilibrio è leggerlo dalla prospettiva di Gea-Temi-Dike.
Forse ci serve l'intervento di un'altra signora del mondo infero, Ecate, che
di fantasmi era esperta, che provocava la paura e anche la scacciava, e che non
aveva niente a che vedere con il ciclo della vita umana (matrimonio, nascita,
agricoltura), non avendo lei stessa fratelli o sorelle né discendenti. «Il suo
culto era estraneo alla morale ». La prospettiva infera di Ecate arriva alla
profondità ctonia del sogno, il quale, da un lato, è una semplice enunciazione
dell' essenza (come appaiono spettrali le cose una volta spogliate del loro
contesto umano) e, dall'altro, sollecita la nostra psicopatia.
La
regione dell'anima in cui i sogni hanno la loro casa è più profonda delle
pulsioni della carne e del sangue, che abbiamo erroneamente chiamato ctonie,
come se ctonio equivalesse a naturale, come se il mondo infero riguardasse ira e cupiditas, l' anima-sangue, il thymos.
Tutto questo è terrestre; è l'anima naturale, fisica, somatica delle emozioni.
La nostra parola moderna «inconscio» è diventata una sorta di ripostiglio, e
raccoglie in un unico torbido serbatoio tutte le fantasie del profondo,
dell'inferiore, del volgare, del pesante (depresso) e dell'oscuro. Abbiamo
seppellito nella stessa monolitica tomba denominata «l'inconscio» il corpo
rosso e terragno dell'Adamo primevo, l'uomo e la donna comuni collettivi e le
ombre, i fantasmi e gli antenati. Non sappiamo distinguere un'ossessione da una
vocazione, un istinto da un'immagine, un desiderio impetuoso da un moto dell'immaginazione.
Guardando la notte dalla luce bianca del mondo diurno (che è dove fu coniato il
termine «inconscìo»), non sappiamo distinguere Il rosso dal nero. E così
leggiamo i sogni cercandovi ogni sorta di messaggi contemporaneamente:
somatici, personali, psichici, divinatori, ancestrali, pratici, confondendo la
vita istintuale ed emotiva con il regno della morte.
La
netta distinzione tra emozioni e anima, tra uomo emozionale e uomo psicologico
emerge in un altro frammento di Eraclito: « ... qualsiasi cosa voglia, il thymos la compra pagandola con l'anima»
(fr. 85/ A116). Il thymos, per
l'esperienza greca arcaica la coscienza emotiva, o anima umida, non apparteneva
al mondo infero. Dunque, considerare il sogno un desiderio emozionale si paga
con l'anima; confondere lo ctonio con il naturale fa perdere psiche. Non
possiamo dirci psicologici se leggiamo le immagini oniriche come pulsioni o
desideri sessuali. Qualunque consiglio un analista offra sulla vita emotiva,
credendo di ricavarlo dai sogni, in realtà si riferisce alla sua esperienza, in
cui vede un riflesso dei sogni. Ma il consiglio non si trova nei sogni.
L'analista fa una sup-posizione, cioè sovrappone ai sogni quello che sa della
vita.
Quello
che sappiamo della vita può non avere rilevanza per ciò che sta sotto la vita.
Le cose che una persona ha imparato e ha fatto nella vita possono essere
altrettanto irrilevanti per il mondo infero quanto lo sono gli abiti, che ci
consentono l'adattamento alla vita, per la carne e le ossa che quegli abiti
ricoprono. Perché nel mondo infero si è spogliati di tutto e la vita è
capovolta. Là si è oltre le aspettative basate sull' esperienza di vita, oltre
la saggezza da essa derivata.
Anche
su questo punto, possiamo seguire Eraclito: «Gli uomini, una volta morti, li
aspettano cose che essi non sperano né si immaginano» (fr. 271 A58). Anche
Dante, nell' Inferno, parla di lasciare la speranza, e la speranza che si
abbandona nell'entrare nella prospettiva del mondo infero è la fantasia delle
aspettative quotidiane e delle illusioni del sangue e della carne. Le anime
nell'Ade, dice Platone, sono «incurabili». Non c'è modificazione in cui
sperare. Una tale speranza sarebbe mal riposta. Ci occorre semmai la speranza
di san Paolo, una speranza di cose invisibili, non già la speranza di Pandora,
la quale, essendo moglie di Prometeo, nutre una speranza nascosta, la stessa
che lui rende manifesta nella sua missione di aiutare il genere umano. Per
entrare in profondità in un sogno, occorre abbandonare la speranza, la
speranza che spunta al mattino e vorrebbe piegare il sogno ai propri scopi. Al
livello di Ade, nel sogno non ci sono né speranza né disperazione: esse si
elidono a vicenda. E noi possiamo lasciarci alle spalle il linguaggio delle
aspettative, quello che misura progressi e regressi, rafforzamento e
indebolimento dell'Io, successi e fallimenti.
Permettetemi
di provare a chiarire ancora una volta la distinzione tra il sottosuolo della
vitalità e delle emozioni e il mondo infero. Ha detto Eraclito: «Se non fosse
in onore di Dioniso che conducevano la processione e cantavano l'inno
all'organo maschile, la loro azione sarebbe il colmo dell'indecenza. Ade e
Dioniso sono lo stesso dio, per quanto delirino e baccheggino celebrando riti
in onore del secondo» (fr.15/A60).
Questo
passo ha dato del filo da torcere agli studiosi, a quelli almeno che accettano
questa lezione, in parte per l'accostamento e anzi la identificazione tra le
due sfere, che noi invece cerchiamo di mantenere distinte: le essenze psichiche
e la natura emozionale.
Ma
il frammento si riferisce al rito misterico di una processione sacra e va letto
con analoga reverenza, addirittura come rivelazione di qualcosa di profondo
contenuto in atti all'apparenza spudoratamente osceni, deliranti e folli. Non
basta dunque liquidarlo con una generica constatazione moralistica, come fanno
alcuni esegeti, per i quali Eraclito intende dire che perfino le più sfrenate
forze vitali conducono pur sempre alla morte, oppure, come fanno altri,
prenderlo per una delle solite ovvietà metafisiche di Eraclito sulla
equivalenza di vita e morte (frr. 62, 88/ A43, Al15). Rimangono pur sempre la
vivezza delle immagini di questo rito misterico e il linguaggio sessuale con
cui è espresso, che per la psicologia è così fondamentale. E allora, caro
Eraclito, parlandoti al di là dei secoli, da psicologo a psicologo, io ti leggo
come se stessi dicendo che, riguardo a questa conturbante distinzione tra emozioni
e anima, tra la prospettiva della vitalità (Dioniso) e la prospettiva della
psiche (Ade), la fantasia sessuale racchiude un mistero. In ciò che sembra più
manifesto, pubblico e concreto c'è anche qualcosa che è coperto di vergogna,
nascosto, invisibile.
L'Ade
che è in Dioniso dice che esiste un significato invisibile negli atti
sessuali, un senso per l'anima nella parata fallica, che tutta la nostra forza
vitale, compresi i desideri polimorfi e pornografici della psiche, allude al
mondo infero delle immagini. Le cose della vita, per quanto piene di vita
siano, non sono soltanto naturali. Dioniso è anche una divinità infera (che
attira giù, come un'esperienza depressiva). Potremo pure credere di vivere la
vita al livello della vita soltanto, ma non possiamo sfuggire al senso e
all'importanza psichici delle nostre azioni. L'anima si fa nella mischia del
mondo. Ciò che ha significato per la vita ha contemporaneamente significato per
l'anima, dunque considera la tua vita alla luce dell'Ade che è in essa.
L'altro
lato di quella misteriosa identità, il Dioniso che è in Ade, significa che
esiste una zoe, una vitalità, in
tutti i fenomeni del mondo infero. Il regno dei morti non è così morto come ci
si aspetterebbe. Anche Ade, attraverso le fantasie sessuali, può stuprare e
rapire la psiche. Nelle ombre, benché siano prive di thymos, di corpo e di
voce, c'è una libido nascosta. Le immagini di Ade sono anche dionisiache: non
fertili nel senso naturale, ma nel senso psichico, immaginativamente fertili.
C'è, sotto la terra, un'immaginazione che trabocca di forme animali, che baccheggia
e fa musica. C'è una danza nella morte. Ade e Dioniso sono lo stesso dio.
Mentre Ade stende la sua oscurità su Dioniso avviandolo alla sua tragedia,
Dioniso ammorbidisce e completa Ade approfondendone la ricchezza. Così Farnell
descrive la loro fusione: «mitezza congiunta a malinconia ».
Nell'immaginazione
omerica, i morti sono privi delle phrenes
e del thymos e per questo chiedono a
Odisseo il sangue della vita. Achille (Iliade,
XXIII, 100 sgg.; cfr. XI, 204-22) spiega cosa è presente e cosa non lo è nel
mondo infero: «Ahimè, v'è dunque anche nella casa di Ade una psyche e un eidolon [un'anima e un fantasma]; di phrenes [polmoni], invece, al suo interno non ve ne sono affatto».
Secondo Onians, le phrenes si riferiscono
alla coscienza-respiro dei polmoni e alla sua voce. I morti (con l'eccezione
di Tiresia) non possiedono questo tipo di coscienza derivante dai quotidiani
scambi vitali tra interno ed esterno. Il thymos
che i morti vorrebbero dai vivi è il vapore del sangue che giunge fino a loro
dagli animali sacrificati. (Ricordate il «ritorno dal mondo dei morti» di
Fechner, dopo avere mangiato carne di porco?). Ancora ai tempi di Ovidio, i
morti sono ombre che vagano «esangui, senza corpo, senza ossa».
Ma
la psiche rimane. Il mondo infero è un regno di sola psiche, un mondo puramente
psichico. Ciò che si incontra là è l'anima, e infatti le figure che Odisseo
incontra (Aiace, Anticleia, Agamennone) sono dette psychai e il loro modo di muoversi è paragonato ai sogni; in altre
parole, il mondo infero è lo stile mitologico atto a descrivere un cosmo psicologico.
Detto
senza mezzi termini: il mondo infero è psiche. Quando usiamo l'espressione
«mondo infero», facciamo riferimento a una prospettiva totalmente psichica,
dove l'intero nostro modo di essere è stato desostanzializzato, spogliato della
vita naturale, e tuttavia, in ogni forma, senso e dimensione, è la copia
esatta della vita naturale. Il Ba
infero degli egizi e la psyche infera
della Grecia omerica erano la persona intera come in vita, ma svuotata della
vita. Questo significa che la prospettiva del mondo infero modifica
radicalmente la nostra esperienza della vita. Essa non ha più importanza per
come è, importa solo dal punto di vista della psiche. Per conoscere la psiche
alle sue fondamenta, per un'autentica psicologia del profondo, occorre andare
nel mondo infero.
Sarebbe
gratificante, a questo punto, compiere ripetutamente la discesa agli inferi,
come un eroe culturale, attraverso le tombe etrusche, passando il ponte Cinvat
dei persiani, seguendo i percorsi della babilonese Istar e del sumero Enkidu, o
sulle orme della nekyia
ellenistico-cristiana descritta da Dieterich, per ritornarne con autorevoli
resoconti. Sarebbe un'impresa eroica, dettata da hybris e in verità superiore alle nostre forze. Inoltre, non è
questo lo scopo del presente libro, che non vuole fornire una mitologia
comparata del mondo infero, bensì una re-visione del sogno dal punto di vista
del mondo infero.
Jung
ha splendidamente riassunto il messaggio fondamentale contenuto nelle guide
«alla terra dei morti» da lui consultate (egiziana e tibetana), quando dice che
esse ci insegnano «il primato della psiche, giacché questa è l'unica cosa che
la vita non ci chiarisce» (Opere, XI, p. 527); ovvero, come dice Burnet della psyche omerica: «... durante la vita
essa non ha la minima importanza»: allo stesso modo, l'anima Ba degli egizi «non significa mai vita»,
e appare soltanto in connessione con la morte. E Robert Lowie afferma: «la
"psiche" (cioè l'entità che è attiva dopo la morte ovvero nei sogni o
nella trance) ... secondo la concezione della maggior parte dei popoli
primitivi, negli esseri umani vivi e coscienti, lungi dal funzionare
attivamente, rimane allo stato dormiente ».
È
alla luce della psiche che vanno lette tutte le descrizioni del mondo infero.
Essere nel mondo infero significa essere psichici, essere psicologici, essere
dove l'anima viene per prima. Le fantasie e le angosce del mondo infero sono
descrizioni trasposte dell'esistenza psichica. Le immagini del mondo infero
sono enunciati ontologici intorno all'anima, su come essa esista in se stessa
e per se stessa, al di là della vita. Dunque leggeremo tutti i movimenti verso
questo regno della morte, siano essi fantasie di disfacimento, immagini
oniriche di malattia, coazioni a ripetere o impulsi suicidi, come movimenti
verso una prospettiva più psicologica. Di fatto, vogliamo riconnettere più
intimamente psiche e Thanatos, riprendendo il filo che il pensiero di Freud
stava seguendo alla fine della sua vita.
L'interesse
di Freud per Thanatos era iniziato molto prima e per motivi più personali.
Freud era ossessionato dall'idea della propria morte. Con l'approssimarsi della
fine, mentre Thanatos veniva sempre più in primo piano nella sua immaginazione
teoretica, il suo stoicismo nei confronti della morte si fece sempre più
esemplare. Poiché leggiamo le descrizioni del mondo infero in una luce
psicologica, possiamo altresì leggere l'interesse della psicologia per la
morte alla luce del mondo infero. Dai tempi di Freud, la morte è sempre stata
una presenza inquietante tra i membri della nostra professione, prima in
Freud stesso, poi con i suicidi dei primi collaboratori suoi (Silberer e Tausk)
e di Jung (Honegger). Il suicidio degli psichiatri è un fenomeno tuttora
rilevante. Secondo Walter Freeman, tra i medici il suicidio è più frequente
che in altre categorie professionali e in cima alla classifica dei medici che
si suicidano figurano gli psichiatri. Le sue statistiche mostrano che negli
Stati Uniti, tra il 1895 e il 1965, è stata ufficialmente certificata come
dovuta a suicidio la morte di duecentotré psichiatri, e tra questi ottantuno
erano di età compresa tra i venti e i quarant'anni.
La
morte è la paura fondamentale della nostra professione e la sua potente
metafora fondamentale. Il culto della crescita che è alla base delle odierne
terapie ottimistiche, incentrate sulle peak
experiences, sulla libertà, la guarigione e la creatività, è una difesa
maniacale contro il terreno stesso della psicoterapia, un acting out spacciato per terapia. Se si vuole essere psico-terapeuti e lavorare nel profondo,
bisogna in un modo o nell'altro collaborare con Ade.
Con
l'intervento di Ade, il mondo è capovolto. Il punto di vista della vita cessa
di valere. Ora i fenomeni sono visti non solo attraverso gli occhi di Eros,
della vita umana e dell'amore, ma anche attraverso quelli di Thanatos, le cui
fredde immote profondità non hanno legame con la vita. Capovolgendo in questo
modo le cose, partecipiamo al ratto perpetrato da Ade, che, vale ricordare,
non e semplicemente un gesto psicopatico, ma costituisce il mistero
iniziatico centrale dei miti eleusini. Quel ratto minaccia l'integrità del
sistema psicologico che deriva la sua forza dalla vita e si aggrappa al
rapporti umani e alle abitudini naturali della figlia di Demetra. È il ratto a
far compiere all'anima Persefone il passaggio dallo statuto esistenziale di
figlia di Demetra a quello di sposa di Ade, dall'esistenza naturale della
generazione, che è data a una figlia dalla vita in quanto materna,
all'esistenza psichica del matrimonio con ciò che è estraneo, diverso e che
non è dato. Qui, l'esperienza del mondo infero è totalizzante e non ammette di
non essere compiuta. L'esperienza del mondo infero secondo questo stile è
soverchiante, giunge come violazione e ci strappa alla vita trascinandoci nel
regno che l'inno orfico a Plutone descrive come «vuoto del giorno». Perciò sui
sarcofagi greci è spesso scritto che entrare nell'Ade è «lasciare la dolce luce
del sole».
La
psicologia archetipica del triangolo Ade-Persefone-Demetra non si è esaurita
in Grecia. Ancora oggi nell'anima si manifestano aspetti del mistero
psicologico di Eleusi. L' esperienza di Persefone si ripresenta in ciascuno di
noi nelle improvvise depressioni, quando ci sentiamo imprigionati nell'odio,
freddi, come paralizzati e trascìnatì via dalla Vita verso il fondo da una
forza invisibile, alla quale vorremmo sfuggire, e allora annaspiamo alla cieca
in cerca di spiegazioni e consolazioni naturalistiche per ciò che in modo tanto
oscuro ci succede. Ci sentiamo invasi da sotto, aggrediti, e pensiamo alla
morte.
Quello
del ratto non è l'unico modo di esperire il mondo infero; la discesa può
avvenire secondo molte altre modalità. Ma quando avviene in questa maniera
radicale, è possibile riconoscere il mitema che ci tiene imprigionati: siamo
trascinati sul cocchio di Ade soltanto se ci aggiriamo nei verdi prati di Demetra,
seduttivamente innocenti con le compagne tra i fiori. Quel mondo deve aprirsi.
Quando ci si spalanca la terra sotto i piedi, avvertiamo soltanto l'abisso nero
della disperazione; tuttavia persino questo mitema può essere esperito in altri
modi.
Per
esempio, nel racconto, Ecate assiste all'evento come testimone, silenziosa e
vìgile. Esiste dunque una prospettiva capace di osservare le lotte dell'anima
senza l'agitazione di Persefone e senza la reazione catastrofica di Demetra.
C'è in noi anche un angelo oscuro (Ecate era anche detta anghelos), una coscienza che splende nel buio (Ecate era anche
detta phosphoros) e che è testimone
di tali eventi perché ne è consapevole a priori. Questa parte ha un nesso a
priori con il mondo infero attraverso cani che fiutano, megere, lune nere,
spettri, immondizie e veleni. Tale parte di noi non è trascinata sul fondo
perché sul fondo ci vive, così come Ecate è per un suo aspetto una dea del mondo
infero. Da questa prospettiva abbiamo la possibilità di osservare le nostre
catastrofi con una oscura saggezza che non si fa illusioni.
Non
c'è bisogno di sottolineare come i riferimenti all'antica Grecia non siano
intesi a una ricostruzione storica del senso che i greci attribuivano al mitema
Ade-Persefone o alla morte o ai sogni. Situare i sogni presso Hypnos, Nyx,
Ecate, Thanatos e Cton non significa attribuire loro un culto o una collocazione
rituale nella cultura greca, bensì dare loro una collocazione immaginale nella
nostra. Stiamo ricostruendo il loro sfondo immaginale, la loro casa, il mondo
nel quale essi trovano la loro immagine somigliante. L'unico luogo immaginale
che abbiamo avuto finora è stata la topografia freudiana dell'inconscio, che
qui vogliamo riaffermare come topos psicologico.
Inoltre,
situare i sogni presso il mondo infero ctonio non esclude che essi possano
riferirsi ad altri Dei che non la Notte e la sua progenie. Sappiamo, per
esempio, che è ad Ermes che ci si rivolge per ricevere sogni, e questo implica
che essi potrebbero essere inviati per il suo tramite da uno qualsiasi degli
altri Dei, essendo Ermes il loro messaggero. Molti Dei ed eroi hanno aspetti ed
epiteti ctonii, sicché la discesa agli inferi può avvenire secondo molti stili
archetipici, non solo al modo di Persefone. Il fatto che fosse Ermes a portare
i sogni e fosse Ermes la sola guida all'Ade, come afferma l'inno omerico, ci
riconduce al medesimo topos, perché, se pure l'atto del sognare è riferibile a
Ermes, è dall'aspetto ctonio del dio che deriva l'attività onirica. I sogni in
sé non sono Dei e neppure messaggi degli Dei, se non in quanto trasmessi da
Ermes, i cui caratteristici comportamenti tortuosi sono insondabili e ingannevoli
come le profondità della psiche. L'avere presente che i sogni vengono per il
tramite di Ermes può aiutarci a non divinizzarli nella psicoterapia, a non
prenderli come divinazioni, a non credere che, con le nostre brillanti
interpretazioni, possiamo vincere in astuzia il dio che dà il nome sia alla
ermetica chiusura dei sogni sia alla ermeneutica con la quale vorremmo
disvelarli.
«Entrare
nel mondo infero» allude a una transizione dal punto di vista materiale a
quello psicologico. Mentre la prospettiva della natura, della carne e della
materia decade, lasciando un'esistenza di eidola, di immagini immateriali,
simili al riflesso in uno specchio, le tre dimensioni diventano due. Siamo
nella terra dell'anima. Come scrive Nilsson, «Eidolon ... significa
semplicemente "immagine" e mantiene sempre questo significato ... per
i greci l'anima era un'immagine ».
Dobbiamo
prestare molta attenzione alle parole che scegliamo per descrivere gli eidola. Poiché essi non hanno sostanza,
non ci è lecito usare il nostro comodo linguaggio sostanzializzante. Non possiamo
semplicemente dire che gli eidola
sono questo o quello, ovvero che l'esistenza nel mondo infero è fatta così o
così. Possiamo parlarne soltanto per ciò che «sembrano essere», per come
«appaiono» o per ciò a cui «sono paragonabili». Le nostre affermazioni devono
essere sempre introdotte da un «come», quasi che quella paroletta fosse la
moneta da offrire a Caronte perché ci traghetti sulle acque che separano due
tipi di linguaggio. I morti parlano in modo diverso: i morti bisbigliano. La
loro parlata ha perduto la sua sostanza concreta, la sua certezza naturale. Per
sentire questo tipo di linguaggio dobbiamo farci vicini e tendere l'orecchio.
Gli
eidola vanno distinti dalle icone,
che sono piuttosto delle copie in senso pittorico, oggetti visibili, esistenti
nel mondo esterno, che si possono toccare e addirittura fare. La parola eidolon è connessa con Ade stesso (aidoneus, «invisibile ») e con eidos, le forme e figure dell'ideazione,
le idee che informano e regolano la vita, ma sono talmente sepolte in essa che
le «vediamo» soltanto quando ne emergono sotto forma di astrazioni. Dunque
stiamo parlando di immagini che sono, al tempo stesso, invisibili. Siamo
dentro la mente immaginativa.
Un
altro modo per esprimere il mondo infero sarebbe quello di sottolinearne
l'aspetto nebuloso, di ombra. Skia
era un'altra delle parole usate dall'immaginazione greca per indicare le figure
del mondo infero. Le persone laggiù sono ombre. Dunque dobbiamo immaginare un
mondo senza luce in cui si muovono delle ombre. Eppure, come si può parlare di
ombre nell'oscurità, dal momento che, per la coscienza del mondo di sopra, le ombre
provengono soltanto da oggetti fisici che bloccano la luce? Come possono
esserci ombre nell'oscurità? E un po' come cercare di avvertire il movimento
della propria ombra. Ecco: cercare di cogliere un barlume della figura che
sta dietro le quinte, sintonizzarsi su quello che avviene d'altro in un' azione
o in una conversazione all'apparenza perfettamente naturali e semplici è
appunto cercare di «vedere ombre nel buio »; VuoI dire notare la fantasia in
atto in quel momento, osservare i giochi d'ombre della psiche nella nostra
inconscia vita quotidiana.
Questo
tipo di coscienza è riflessiva, osserva non soltanto la realtà fisica che sta
davanti agli occhi e la osserva non soltanto con gli occhi, ma vede le
intermittenti configurazioni che stanno dentro quella realtà fisica, e dentro
gli occhi stessi. E percezione della percezione, ovvero, come ha detto Jung
delle immagini: esse sono la percezione che ha di sé l'istinto. Con l'atto di
immaginare, la nostra cieca vita istintuale può riflettere se stessa, e non
dopo o prima degli eventi, nella cameretta dell'introspezione, bensì alla
maniera di un occhio o di un orecchio, che colgono l'immagine dell'evento
mentre questo ha luogo.
Dunque,
di nuovo, entrare nel mondo infero è come entrare nella modalità della
riflessione, del rispecchiamento, e questo suggerisce che possiamo entrare nel
mondo infero per mezzo della riflessione, con mezzi riflessivi: facendo una
pausa, soppesando le cose, modificando l'andatura, la voce, lo sguardo,
scendendo di livello. Una riflessione meno imposta dalla volontà, meno
finalizzata; meno volutamente introspettiva dell'eroica discesa agli inferi per
vedere come stanno le cose laggiù .
Immaginiamo,
piuttosto, che sia più affine a Ermes: orecchie ritte, sguardo obliquo, occhio
freddo, sospettoso; oppure sentimenti e pensieri intuitivi che si presentano
nel bel mezzo della vita e la deformano trasformandola in psiche.
Il
passaggio dalla percezione fisica tridimensionale alle due dimensioni della
riflessione psichica è dapprima avvertito come una perdita: svanito il thymos, rimaniamo affamati,
piagnucolosi, paralizzati, ripetitivi. Abbiamo bisogno di sangue. La perdita è
effettivamente un segno caratteristico delle esperienze del mondo infero, dal
lutto al sogno, con quel peculiare senso di incompletezza, come se ci
aspettasse sempre qualcosa che ancora non abbiamo ricevuto, un pezzetto che è
andato perduto. Una vita vissuta in stretta connessione con la psiche presenta
davvero un senso continuo di perdita. Sarebbe grandioso credere che questo sia
I'incessante sacrificio richiesto dall'anima, ma a viverlo non sembra tanto
sublime. Quello che proviamo è l'umiliante inferiorità dell'incertezza e una
menomazione delle potenzialità. Socrate, che riteneva la cura dell'anima il
suo compito più importante, ripeteva di continuo di non sapere nulla, in
realtà. L'anima comporta sempre un senso di infermità, il che non significa
prendere la perdita alla lettera, come nelle nevrosi neurasteniche, depressive
e isteriche, dove l'identificazione con la perdita serve a sottrarsi al lavoro
dell' anima. L'esperienza della perdita nelle sue varie forme e la sua
letteralizzazione nella teoria (la madre negativa, il padre assente, l'infanzia
deprivata) rimangono fondamentali per la psicologia. Questo fenomeno rimanda,
ancora una volta, al mondo infero e alla sua dimensione assente.
Dire
perdita, tuttavia, non è raccontare tutta la storia, perché la dimensione
avvertita come perdita è in realtà la presenza del vuoto. In realtà, stiamo facendo
esperienza di un'altra dimensione, e il prezzo per esservi ammessi è la
perdita del punto di vista materiale. Per un verso si rinuncia a una dimensione,
ma in questo modo si acquista Ade con tutte le volte piene di echi che ne
costituiscono la reggia. Anche se abbiamo perduto una certa estensione nello
spazio fisico e nel mondo dell'azione, quaggiù nel profondo c'è abbastanza
spazio per accogliere quel mondo fisico, ma in un altro modo. Qui entriamo in
contatto con l'anima di tutto ciò che nella vita si è perduto e con le anime
dei perduti. Ade è anche Plutone; colui che è «vuoto del giorno» e ha soltanto
due dimensioni è anche ricchezza, nutrimento e ricettività immensa. Le
raffigurazioni di Plutone mostrano la sua cornucopia, simile a un grande
orecchio, traboccante di fruttuose possibilità di comprensione.
La
transizione dalla prospettiva materiale alla prospettiva psichica presenta
spesso immagini oniriche di malattia e di morte. L'ospedale e lo studio del
medico del sogno non sono soltanto luoghi del recupero della salute. Sono anche
luoghi in cui si offre rifugio al collasso del corporeo. I processi alchemici
della putrefazione e dell'annerimento, le orribili ferite e le piaghe
purulente, la macellazione rituale o le morie e le stragi di animali e altre
sconvolgenti immagini di questo genere indicano il punto dove qualcosa di
materiale sta perdendo sostanza e impeto, dove un impulso fisico o una pulsione
animale sta scendendo verso il mondo infero. Lì, in quel punto, sta avvenendo
un cambiamento nei nostri atteggiamenti materialistici e naturalistici. Considerare
l'animale ferito o la carne malata soltanto come la parte della personalità che
ha bisogno di essere guarita è prendere la ferita alla lettera e in maniera
naturalistica, restituendola al mondo supero, rafforzando l'energia egoica e
ostacolando con ciò il processo di patologizzazione in atto. Tale rafforzamento
interrompe l'opus contra naturam.
Le
immagini del mondo infero sono nondimeno visibili, ma solo a ciò che in noi è
invisibile. L'invisibile è percepito per mezzo dell'invisibile, cioè della
psiche. Le immagini psichiche non sono necessariamente visive, anzi, possono
non somigliare affatto alle immagini sensoriali. Sono, piuttosto, immagini nel
senso di metafore. Un'immagine poetica e l'intero processo immaginativo della
musica si odono, è ovvio, con le orecchie, ma si ascoltano con un terzo
orecchio, l'orecchio interiore.
Secondo
Platone (Sofista, 266c), le immagini
dei sogni sono paragonabili alle ombre, «quando macchie scure interrompono la
luce », sicché noi vediamo una sorta di «riflesso», «l'inverso della visione
abituale ». Questa utile analogia ci presenta i sogni come macchie scure, le
lacune del mondo diurno, là dove il mondo diurno si inverte o converte il suo
senso in significato metaforico. Non si tratta semplicemente del mondo diurno
replicato in una silhouette più
sottile, bidimensionale. Come tutte le ombre visive, queste immagini mettono in
ombra la vita, conferendole profondità e la luce riflessa e obliqua del
crepuscolo: duplicità, metafora. La scena del mio sogno (la radice della
parola «scena» è affine a skia,
«ombra») è una versione metaforica della scena di ieri, con quegli attori che
ora hanno acquistato profondità e sono entrati nella mia anima.
La
difficoltà che incontriamo nel comprendere le immagini è in parte dovuta alla
nostra lingua. Purtroppo abbiamo un'unica parola, «immagine», per indicare le
immagini residue, le immagini percettive, le immagini virtuali, le immagini oniriche,
le immagini delle illusioni ottiche e le idee metaforiche espresse in
immagini. Usiamo la stessa parola anche per dire una falsa facciata e una
fantasia collettiva.
Essere
immaginativi non dovrebbe avere il significato riduttivo di vedere immagini a
occhi chiusi o dipingere o modellare immagini. Noi tendiamo a letteralizzare,
e a idolatrare, l'immagine, trasformandola in un oggetto visibile,
dimenticando che l'eidolon è un fenomeno psichico, percepibile soltanto per
mezzo della stessa coscienza psichica di cui è a sua volta composto. Le
immagini le percepiamo con l'immaginazione, o, meglio, più che percepirle le
immaginiamo, perché con la percezione sensoriale non si possono percepire le
profondità che non hanno estensione nel mondo dei sensi. L'errore
dell'empirismo consiste nella pretesa di impiegare ovunque la percezione
sensoriale: per le allucinazioni, per i sentimenti, le idee e i sogni. «
Percepire e immaginare sono fenomeni antitetici tanto quanto lo sono presenza
e assenza». Poiché il sogno parla per
immagini, anzi, addirittura è immagini (questo significava oneiros in Omero), poiché sognare è produrre immagini, lo
strumento che ci consente di ascoltare senza distorsioni non può che essere
l'immaginazione. I sogni parlano dall'immaginazione all'immaginazione e
soltanto l'immaginazione può rispondere alla loro chiamata.
Anche
in Egitto e a Roma queste fugaci immagini erano chiamate ombre, e a Roma i
funerali avevano luogo di notte. Erano immagini nere; il nostro essere infero
è nero, e su questo torneremo nell'ultimo capitolo. Il mondo ombra del
profondo è una copia esatta della coscienza quotidiana, solo va percepito in
modo diverso, immaginativamente. È il nostro mondo, ma in metafora. Il nostro
essere nero compie tutte le azioni, esattamente come facciamo noi nella vita,
ma la sua vita non è semplicemente la nostra ombra. Dalla prospettiva psichica
del mondo infero, solo l'ombra ha sostanza, solo ciò che è nell'ombra riveste
vera importanza, eternamente. In psicologia, dunque, l'ombra non è soltanto ciò
che
L'Io
getta dietro di sé e che è costituito dall'Io con la sua luce, un riflesso
morale, rimosso o malvagio che va integrato. L'ombra è la materia stessa
dell'anima l'oscurità interiore che da sotto ci attira fuori dalla vita e ci
mantiene inesorabilmente in contatto con il mondo infero.
Plotino
prova a descrivere la relazione tra l'io eroico e l'ombra del mondo infero
quando parla dell'ombra di Eracle. Dice Plotino (Enn., IV, 3, 27): «… tale "ombra" ricorda tutte le azioni e le esperienze della vita… la formazione personale dell'eroe» (cfr. I,1,12).
Nel dialogo di Luciano, Menippo o La
negromanzia, i morti devono rispondere alle accuse mosse loro dalla loro
stessa ombra (skia). «Le ombre che i
corpi proiettano al sole ... sono considerate molto fidate perché ci
accompagnano sempre e non abbandonano mai il nostro corpo». Questa esperienza - vedere che la propria
anima è giudicata dalla propria ombra - fa apparire «simile a un sogno» la vita
nel mondo supero. Luciano inverte la relazione tra mondo supero e sogno: ciò
che avviene nella vita dell'Io non è che il riflesso della nostra essenza più
profonda, contenuta nell'ombra.
L'ombra
è dunque un deposito cumulativo, che si forma in contemporanea con lo sviluppo
dell'Io. Essa ricorda tutte le azioni della nostra vita erculea con la sua
prospettiva fisica. Se vogliamo avere un Io modellato su Eracle, ci toccherà
anche la sua ombra. Dovremo sempre andare in giro in compagnia dei nostri giudizi
negativi su noi stessi, con l'Io seguito d'appresso, furtivamente, dall'ombra
dell'autocritica.
Indirettamente,
Plotino e Luciano sollevano la questione del senso di colpa: perché una persona
impegnata nel percorso eroico dell'Io nel mondo supero si sente continuamente
braccata dal senso di colpa? E, ancora, perché la costruzione della realtà di
tipo eroico necessita di questa fondamentale divisione tra vita e ombra, che
provoca la persecuzione del senso di colpa?
Questa
impostazione del problema modifica radicalmente la nozione usuale di Super-io.
Non possiamo più presupporre che il Super-io ci sia imposto dall'alto, come
formazione relativamente tardiva, come se derivasse esclusivamente dalla luce
solare e come se il bambino piccolo non proiettasse alcuna ombra. Al
contrario, siamo sorvegliati nel cuore stesso delle nostre azioni dall'ombra
del corpo, che del corpo è il testimone più diretto. Poiché i movimenti del
corpo e l'ombra del corpo sono simultanei e inseparabili, vale a dire corpo e
ombra sono correlativi, chi può dire quale dei due venga prima, se l'atto o
l'ombra? Come proiettiamo la causa del senso di colpa su portatori superiori,
più solidi (i nostri genitori e la società), alla stessa stregua proiettiamo la
causa della formazione dell' ombra sulle solide spalle dell'Io eroico. Ma forse
vale anche l'inverso: io e la mia ombra siamo nati insieme e insieme agiamo,
sempre. Anziché «Io faccio ombra», è altrettanto legittimo dire, invertendo il
consueto modo di pensare: «La mia ombra mi fa».
Di
conseguenza, possiamo rivedere la nostra concezione dell'ombra. Diciamo, ora,
che è lei a creare le imprese eroiche dell'Io diurno, come una sorta di
funzione espiatoria per i suoi tormenti psichici «di sotto »; in genere
pensiamo che l'anima debba pagare per i nostri peccati in un qualche aldilà,
cioè con l'espiazione subliminale dei sintomi psicosomatici e dei meccanismi
nevrotici, descritti nelle rappresentazioni dell'inferno. Tuttavia Plotino
dice (Enn., 1,1,12): «La vita e gli atti dell'Anima non sono quelli del
soggetto che viene punito». Ora, anziché vedere l'anima come colei che in un
mondo notturno espia le fosche azioni da noi compiute nel mondo diurno,
possiamo immaginare che le azioni del mondo diurno siano atti di espiazione per
ombre che non abbiamo visto. Finché agiamo secondo la modalità eroica, siamo
incalzati dal senso di colpa, non finiamo mai di pagare. Le nostre azioni sono
in verità distruzioni e le nostre conquiste visibili sono imposte dalla forza
di un'immagine invisibile che o non trova requie (come Sisifo, condannato a
risalire eternamente il suo monte) o non può muoversi (come Teseo
immobilizzato sul suo trono), perché il suo desiderio non può mai essere appagato
(come la sete insaziata di Tantalo).
In
nessun luogo si coglie meglio la convertibilità delle figure del mondo infero
in azioni nel mondo supero che nel complesso-immagine di Stige. Le gelide acque
del fiume Stige (il cui nome deriva dal verbo stygeo, «odiare ») costituiscono la più profonda fonte della
moralità divina, giacché su di esse gli Dei prestavano i loro giuramenti, a
sottintendere che l'odio svolge un ruolo essenziale nell' ordine dell'universo.
Accanto a princìpi generatori e ordinatori come Amore (Eros), Conflitto (Eris
o Polemos), Necessità (Ananke) e Ragione (Nous), nel disegno delle cose
dobbiamo fare spazio anche per Odio. I figli di Stige sono Zelo (Zelos),
Vittoria (Nike), Forza (Bia) e Potenza (Cratos). Il freddo odio della madre è
trasformato dai figli in quei tratti implacabili che abbiamo finito per
accettare come virtù. I suoi figli forniscono i prototipi di quella moralità
bellicosa e fanatica che accompagna l'Io nelle sue moralistiche missioni di
distruzione finalizzata alI' autoconservazione.
Stige,
la madre odiosa, e i suoi figli iperattivi non sfuggirono all' attenzione di
Freud, che li traspose nel linguaggio concettuale dell'odio e dell'Io. In primo
luogo, Freud opera una distinzione tra odio e amore, dicendo che l'odio è più
antico dell'amore (opere, VIII, p. 34) e che essi «non sono derivati dalla
scissione di una originaria unità, ma hanno distinta origine» (ibid., p. 33).
L'odio, insomma, nasce da un proprio terreno e serve a uno scopo preciso
nell'Io: « ... l'Io odia, aborrisce, perseguita con intento distruttivo tutti
gli oggetti che gli provocano sentimenti dolorosi ... gli autentici prototipi
della relazione di odio non derivano dalla vita sessuale ma dalla lotta dell'Io
per la propria conservazione e affermazione» (loc. cit.).
La
fantasia freudiana, secondo la quale l'Io preserva se stesso con la lotta (e
per lottare, potenza, forza, zelo e vittoria diventano requisiti indispensabili),
insieme alla giustificazione morale con la quale queste qualità la sostengono,
è una fantasia. stìgia messa in scena nel mondo supero. L'Io, qui, diventa
strumento di Stige, un Figlio di Odio, gelidamente teso a preservare se stesso
contro qualsiasi nemico, il più grande dei quali sarà il calore, da cui l'idea
comune che odio e amore siano opposti. In realtà, secondo Freud odio e amore
hanno il medesimo obiettivo. Cercano entrambi il piacere, sicché l'odio usa
l'Io per annientare il dolore. Quando imbocchiamo la strada dell'eliminazione
del dolore, giustificando le nostre vittorie e il nostro zelo distruttivo in
nome della «autoconservazione» e dello «sviluppo dell'Io », ciascuno di noi
divene figlio di Stige.
La
dissoluzione di questi atteggìamentì comporterà la riconversione dello zelo e
della violenza del nostro «Io forte» in quell'odio che è la fonte della sua
forza. Vedremo allora l'odio insito nelle nostre reboanti affermazioni. Quello
di riconoscere nei miti i prototipi delle azioni della vita è un gesto che
riconduce i figli alla loro madre. L'odio primordiale di questa madre
appartiene al mondo infero, e laggiù esso ha un diverso significato. Laggiù,
la sua implacabile freddezza conferisce ordine assoluto agli stessi Dei,
garantendo l'integrità del loro regno psichico, il mondo infero. Stige è colei
che stabilisce il limite, che preserva la regione psichica alla quale perfino
gli Olimpi devono discendere, che protegge non già l'Io, bensì il mondo infero,
dal dolore causato dagli atteggiamenti invasivi della vita.
Grazie
alla «convertibilità» tra azioni del mondo supero e configurazioni del mondo
infero, le figure delle ombre nel sogni ci offrono un modo nuovo di considerare
la vita dell'Io desto. Ora non lo guarderemo tanto nelle relazioni con il
mondo delle sue realtà, quanto piuttosto come un riflesso delle ombre. Una
psicologia del sogno che si fondi sulla fenomenologia mitica del mondo infero
convertirà in maniera immaginativa le realtà del mondo quotidiano nelle loro
ombre. Saranno queste, ora, le realtà contenute nelle nostre azioni. Non più:
l'Io che proietta l'Ombra dietro di sé; bensì, un'ombra che letteralizza
davanti a sé un Io dietro il quale può rimanere nascosta.
Le
figure delle ombre che incontriamo nei sogni non sono le persone vere (il
livello oggettivo di Jung) , e nemmeno sono la loro essenza caratterologica
(il livello soggettivo di Jung), cioè tratti di me che posso integrare. Il mio
fratello maggiore, al quale in un sogno confido la preoccupazione per gli affari
di nostro padre non è né il mio fratello oggettivo, reale, né i miei trattì
pacati, responsabili, più vecchi della mia età che mi rendono pesante e lento.
Il mio fratello del sogno, essendo ora un'ombra del mondo infero, è un eidolon, una forma puramente psichica,
e l'interpretazione che ne diamo deve a sua volta compiere il passaggio dal
quotidiano al mitico. Jung lo ha detto chiaramente: «Per integrare i contenuti
inconsci nella coscienza, indubbia importanza riveste la riduzione dei simboli
onirici a realtà banali. Ma in senso più profondo e lungimirante, questo
procedimento non è sufficiente, perché non soddisfa al significato dei
contenuti a carattere di archetipo: questi infatti giungono da ben altre
profondità che non quelle intuite dal cosiddetto senso comune. Come condizioni
universali a priori dell'evento psichico, essi pretendono a una dignità che ha
sempre trovato la sua espressione in figure divine. Soltanto una simile
formulazione soddisfa lo spirito inconscio... esso esige l'ampia visione del
mito» (Opere, XI, p. 183).
Per
attingere a questa «ampia visione del mito », dovremo spingerci oltre il metodo
freudiano delle associazioni e anche oltre il metodo junghiano dell'interpretazione
al livello soggettivo. Questo è più propriamente l'argomento del quinto
capitolo, «Il sogno», ma una cosa dobbiamo notare fin d'ora: il metodo di Freud
proietta le persone del mio sogno nuovamente al di là del ponte, dentro il
giorno del sogno, sia pure con l'intento di scoprire il loro significato
latente. Associamo il fratello e il padre del sogno al fratello e al padre
diurni, e con questa associazione riconduciamo il sogno al giorno. Il metodo
junghiano dell'interpretazione al livello soggettivo, dal canto suo,
trasferisce le persone del sogno dentro la soggettività del sognatore. Esse
diventano espressioni di miei tratti psichici. Sono introiettate nella mia
personalità. In nessuno dei due metodi abbandoniamo mai veramente l'aspetto
personale delle persone oniriche, e dunque esse, e noi con loro, rimangono
sempre nel mondo supero.
Volete
che lo dica forte e chiaro? Le persone con le quali ho a che fare nei sogni non
sono né rappresentazioni (simulacra)
del loro sé vivente, né parti di me. Sono immagini fatte d'ombra che ricoprono
ruoli archetipici; sono personae,
maschere, nella cui cavità è presente un numen.
Così
esprime la stessa tesi Dodds: «In molti sogni omerici, il dio o eidolon appare al sognatore nelle vesti
di un amico vivente ed è possibile che nella realtà i sogni in cui comparivano
conoscenti del sognatore venissero interpretati in questo modo».
Un'idea
analoga troviamo nel culto egizio dei morti, dove l'anima-ombra è anche
l'immagine di questo o quel dio, tant'è vero che ci si riferiva a esse
chiamandole Hathor, Khnum, Ity, ecc. Nel regno della morte, cioè al livello
psichico dell'esistenza, l'immagine essenziale del nostro sé personale, che è
la nostra anima-ombra, è al tempo stesso l'immagine di un dio. La nostra
persona umana è seguita come da un'ombra da un'immagine archetipica nelle
sembianze di un dio, e quel dio si manifesta come l'ombra, il fantasma, di una
persona umana. L'immagine onirica di una persona umana non può essere
riferita alla persona reale, perché le immagini oniriche fanno parte delle
ombre del mondo infero e pertanto si riferiscono a persone archetipiche in
sembianze umane.
Nel
sogno portato come esempio, la triade maschile (i due fratelli più il padre,
anche se assente), la preoccupazione dei figli per gli affari paterni, la
connessione con il padre attraverso tale preoccupazione e tutte le altre
articolazioni di questa immagine così semplice alludono alla presenza di
configurazioni che non soltanto danno sostegno a una riflessione mitica, ma
la esigono. E' in atto qualcosa di archetipico, come in ogni immagine.
Il
mio vecchio maestro o il mio professore che compaiono in un sogno non
rappresentano soltanto una potenzialità intellettuale della mia totalità
psichica. Su un piano più profondo, quella figura è il mentore archetipico, il
quale, temporaneamente, in questo sogno, indossa le vesti di quel maestro o di
quel professore. La fidanzatina, o fidanzatino, delle elementari che compare
nei miei sogni non è soltanto una particolare tonalità affettiva che potrei
scoprire e integrare adesso che divento vecchio. A un livello più profondo,
quella persona giovane appartenente al passato, che vive nella memoria, è la kore o il puer archetipici che si presentano sotto forma di questo o quel
ricordo personale. Nei sogni, nelle sembianze degli amici incontrati ieri sera,
ci vengono a visitare daimones,
ninfe, eroi e Dei.
I
nostri amici hanno ciascuno un nome. Anche le persone dei miti hanno ciascuna
un nome, e le personalità mitiche dei greci ne avevano non uno soltanto, ma
una lunga serie. Tali «epiteti degli Dei», di cui gli studiosi hanno compilato
l'elenco, descrivono più accuratamente come si presentavano gli Dei. Gli Dei,
infatti, non erano statue monolitiche o astrazioni esprimibili con un'unica
parola (Eracle, Era, Zeus), come quando consultiamo un dizionario di
mitologia. Quelle persone del mito erano sempre designate da un nome che ne
precisava il contesto specifico. I culti degli Dei sono culti di epiteti, e
gli epiteti ci rappresentano le figure divine in termini concreti: Eracle il
Soccorritore, Eracle che Protegge dal male, Eracle il Bellicoso, Eracle Vittorioso:
il nome fornisce un'immagine e allude a un mitema. Rivela la località precisa,
la parentela, la funzione, l'aspetto e il carattere della divinità. Gli
epiteti, o soprannomi, vivificano tuttora l'immaginazione del mondo infero
odierno: le bande di strada, la mala, la galera, l'infanzia, i pellerossa.
L'essenza di una persona è nel nome.
Una
parte del nome è il suo etymon, la
segreta verità sepolta nella sua radice. La ricerca delle radici delle parole,
la fantasia etimologica, è uno dei riti fondamentali della tradizione
immaginativa, perché cerca di recuperare l'immagine contenuta nella parola o
di ricollegare una parola al nome di una cosa, di un'azione, di un luogo o di
una persona. Uno dei modi per restituire «l'ampia visione del mito» alle
persone di ieri sera che sono entrate nel mio sogno consiste nel prestare
attenzione ai loro nomi.
Nel
loro nome è la loro anima: il nome di un individuo e il suo Ba erano
intercambiabili," quasi che solo nel mondo infero, in relazione alla
morte, ricevessimo il nostro vero nome. Per vedere in trasparenza le persone
oniriche e arrivare alla loro realtà psichica occorre avere orecchio per i
nomi.
Anche
quando le persone oniriche non hanno nome o ne è nominata soltanto la funzione
o la situazione, queste possono essere immaginate come epiteti. Ecco allora
«la donna sconosciuta», «la cassiera», «il meccanico», «il proprietario».
Oppure
le figure sono caratterizzate dall'azione che compiono: il ragazzo corre, la
donna guida l'automobile, il fratello si preoccupa. Basta mettergli l'iniziale
maiuscola, e ci avviciniamo agli epiteti degli Dei: l'Uomo con la Camicia, la
Ragazza Abbronzata, il Grosso Poliziotto Nero.
Secondo
il pensiero induista, in certi stati mentali, per esempio quando si sogna, i
nomi sono cose in sé. Non rappresentano qualcosa che esiste altrove e che il
nome incarna, ma sono rappresentazioni che la mente si fa delle essenze
presenti in essa. Il nome dunque è il logos divino che ha assunto le vesti della
persona del sogno. Nei corpi sottili delle persone oniriche vediamo la mente
mentre muove i propri pensieri. Anche il modo in cui noi stessi siamo
immaginati può essere rivelato attribuendo un soprannome alla nostra persona
nel sogno: Io Ritardatario, Io Che Faccio la Spesa, Io Dal Parrucchiere, Io Senza
Calzoni. Per cogliere l'idea essenziale di quel che avviene nella mente,
dobbiamo dare un nome a ciascuna figura o esaminare in profondità il nome che
ha già, anche quando è un banalissimo cognome (il signor Bianchi, la figlia dei
Croce, Paolo Basso). Spesso è proprio il nome l'elemento bizzarro che spicca,
quando ci scervelliamo per scoprire come mai il sogno evochi
quell'insignificante, fugace fantasma proveniente dalla riunione di ieri sera o
dai banchi di scuola di quarant'anni fa.
Possiamo
mettere a confronto tre modi di considerare le persone del sogno. Il primo,
chiamiamolo freudiano, le riconduce all'attualità del giorno mediante le
associazioni o mediante l'interpretazione al livello oggettivo: per comprendere
le persone dei sogni sono essenziali altre persone. Il secondo modo, che
potremmo chiamare junghiano, le riconduce al soggetto, intendendole come
espressione dei suoi complessi: per comprendere le persone dei sogni è
essenziale la mia personalità. Il terzo modo, il metodo archetipico, le
riconduce al mondo infero delle immagini psichiche. Le persone del sogno diventano
esseri mitici, non tanto perché se ne trovano i paralleli mitologici con
l'amplificazione, ma perché si arriva a vedere le persone dell'immaginazione
che stanno dietro le maschere personali: per comprendere le persone del mio
sogno sono essenziali solo le persone del sogno.
Quando
uso la parola «morte» e la metto in relazione con i sogni, corro il rischio di
essere grossolanamente frainteso, perché per noi morte tende a significare
esclusivamente la morte grossolana: fisica, letterale. A questa tendenza a
considerare solo la morte fisica corrisponde quella ad attribuire importanza
al corpo fisico, e non al corpo sottile; alla vita fisica e non a quella
psichica; al letterale e non al metaforico. Che amore e morte possano essere metafore
è difficile da capire: qualcosa deve pur esserci di reale, dice l'Io, quel
grande letteralista, il positivista, il realista. Tendiamo a perdere il
contatto con i tipi sottili di morte. Per noi, inquinamento, decomposizione e
cancro sono diventati soltanto fisici. Rivolgiamo i nostri atti propiziatori
contro un tipo soltanto di morte, quello definito tale dal senso che l'Io ha
della realtà. La morte di cui si parla nella nostra cultura è una fantasia
dell'Io, e allo stesso modo prendiamo i sogni.
La
nostra cultura si fa notare per l'ignoranza che ha della morte. La grande arte
e i riti di molte altre culture, quella dell'antico Egitto, quella etrusca,
quella greca di Eleusi, quella tibetana, rendono onore al mondo infero. Noi,
pur essendo pateticamente nostalgici, non abbiamo alcun culto degli antenati.
Pur facendo collezione di oggetti antichi, non conserviamo reliquie. Raramente
vediamo un essere umano morto, anche se ne guardiamo alla televisione
centinaia di imitazioni alla settimana. Gli animali che mangiamo sono tenuti da
qualche parte, dove non li vediamo. Non abbiamo miti della nekyia, eppure i nostri eroi popolari
del cinema e della musica sono personaggi tenebrosi che si muovono nel
sottobosco della società. Quello di Dante, che è stato l'ultimo mondo infero
immaginato nella nostra cultura, risale addirittura a prima del Rinascimento.
Le nostre radici etniche attingono a grandi configurazioni del mondo infero:
il regno celtico del Dagda o di Cerunnos, lo Hel germanico, il biblico She'ol.
Tutti svaniti; e come è pallido il fuoco dell'inferno cristiano! Dove sono
finiti? Dove sta la morte quando non è più sotto gli occhi? Dove vanno i
contenuti della coscienza quando eludono l'attenzione? Nell'inconscio, dice la
psicologia. Il mondo infero è finito nell'inconscio: è addirittura diventato
l'inconscio. È la psicologia del profondo il luogo in cui troviamo oggi il
mistero iniziatico, il lungo viaggio di apprendistato psichico, il culto degli
antenati, l'incontro con demoni e ombre, i patimenti dell'inferno.
La
persona che entra in analisi, dunque, non è un analizzando, un cliente, un
allievo, un tirocinante o un partner: è un paziente. Si è mantenuta questa
parola non tanto per le sue origini storiche nella medicina ottocentesca, quanto
perché esprime la reale condizione di chi va nelle profondità dell'anima. È
l'anima il paziente della psico-terapia, e nell'istante in cui una persona
(cliente, partner, analizzando) diventa un paziente è immediatamente costellata
come anima. L'esperienza del mondo infero trasforma ciascuno di noi in
paziente, oltre a darci un nuovo senso di pazienza. «Nella tua pazienza è la
tua anima» recitava una massima religiosa degli alchimisti, come a dire che
l'anima si scopre nell'accogliere i suoi patimenti, nell'accudirla, nel
servirla fino alla fine. Dal punto di vista dell'anima, non c'è molta
differenza tra paziente e terapeuta. Entrambi i termini rimandano, nella loro
radice, a una devozione premurosa, fatta di attenzione e di attesa.
Attesa
di che? Una risposta potrebbe essere: della morte. La psicoterapia come
attenzione per la morte attendendo la morte, il lavoro del sogno come lavoro
della morte. Ma questa risposta renderebbe letterale la morte, smarrendone il
senso metaforico. Il Ba degli egizi
non muore mai; l'anima cristiana è immortale; questo significa che la morte
fisica, intesa come cessazione della vita secondo la definizione della medicina
e della legge, non è lo sfondo del lavoro del sogno. Questo tipo di morte è,
ancora una volta, il punto di vista letterale dell'Io, il quale non sa uscire
dalla propria vita se non morendo di una morte che esso intende allo stesso
modo in cui intende ogni altra cosa, in senso fisico. Non la morte è lo sfondo
del lavoro del sogno, bensì l'anima. L'anima, se è immortale, non riguarda
soltanto il morire, e allora i sogni non possono essere ridotti a un servire la
morte. La prospettiva psichica non è focalizzata soltanto sulla morte o sul
morire. E', piuttosto, una coscienza che acquista autonomia soltanto quando le
nostre idee diurne sono messe a dormire. «Morte» è il modo più profondamente
radicale di esprimere questo slittamento della coscienza.
Eppure,
com'è difficile mantenere la prospettiva del mondo infero, com'è innaturale!
Dopotutto siamo nella vita e i sogni li guardiamo. stando nella «dolce luce
del giorno». Il prezzo di questo punto di vista solare, tuttavia, è che la
morte e la paura della morte diventano la fonte dei predicati negativi della
psicologia: «male », «ombra », «inconscio », «psìcopatico », «regressivo »,
«bloccato», «distruttivo », «scisso», «irrelato », «freddo», per non parlare
del segno negativo, che sempre applichiamo a uno dei due poli di ciascun
complesso. Queste parole e questo segno non significano forse «tinto di morte»
in quanto nemico della vita e dell'amore? Definendo negativi un complesso. o
una situazione, non intendiamo. forse dire, in realtà, che bloccano la vita,
che portano alla morte, all'inferno; che stiamo attivando la disperazione e
una freddezza primordiale contraria alla vita, o un'oscurità che vuole il
peggio, impenetrabile allo sguardo. lucido della ragione? A me pare che il
segno. negativo in psicologia sia in realtà la trascrizione stenografica del
pregiudizio di un Eros diurno. contro Thanatos. Di conseguenza, possiamo
soltanto vedere negativamente le componenti distruttive, pessimistiche,
suicide della psiche e con la nostra intelligenza non possiamo abbracciare
l'abisso di odio stigio a cui potrebbero arrivare quei contenuti, né il fatto
che possano preferire la separazione all'unione, o imboccare il sentiero discendente
dell'inerzia e sprofondare nell'isolamento affettivo, nell'amnesia e nella
immobilità della riflessione .
La
psicologia del profondo ha rappresentato, nella nostra cultura moderna, il
movimento che le ha restituito il senso del mondo infero. Dai suoi inizi con
Freud, la psicologia del profondo è stata un «movimento», animato da una
missione. Parte di tale missione è stata la resurrezione dei morti, il richiamare
in vita tante cose che erano dimenticate e sepolte dentro ciascuno di noi. Ma
non è andata abbastanza a fondo. Ha creduto che il percorso finisse con il
recupero dell'Es istintuale dalla rimozione personale o culturale. Ha
scoperchiato il sepolcro, immaginando che ne uscisse un corpo mummificato. Ma
l'Es, inteso come il mondo infero, non è il corpo istintuale: è la psiche
ctonia. Il morto e sepolto in ciascuno di noi è anzitutto l'indifferenza della
cultura nei confronti della Morte. Solo adesso Ade incomincia a riapparire,
nelle nuove angosciose preoccupazioni circa i limiti dello sviluppo, la crisi
energetica, l'inquinamento ambientale, l'invecchiamento e la morte.
Non
resurrezione dei morti, ma Resurrezione della Morte; perché la psicologia del
profondo ci restituisce non solo le persone del sogno e la psiche rimemorante
del mondo infero. Ha anche riportato indietro la Morte dal suo esilio nella
parapsicologia dello spiritismo, nella teologia escatologica, nel moralismo
remunerativo e nelle fantasie scientifiche della casualità biochimica e
dell'evoluzione: l'ha riportata nel suo posto centrale dentro la vita psicologica
di ciascun individuo che a ogni passo si apre sul profondo. Da sopra, i nostri
passi riecheggiano tra le volte del mondo infero. Dentro ciascun istante c'è
un'apertura verso il profondo, un riverbero inconscio, che, come l'esile filo
del sogno che ci troviamo tra le mani ogni mattina al risveglio, riconduce
laggiù, dentro le immagini dell'oscurità.
Tre
sono gli abiti mentali che impediscono di cogliere l'idea di mondo infero come
regno psichico. Esaminiamo brevemente queste barriere, una per una.
Ho
sottolineato più sopra la distinzione tra sottosuolo e mondo infero e mostrato
come la parola « inconscio» tenda a mascherare questa distinzione, conferendo
un carattere naturalistico agli eventi psichici. Ebbene, dietro questo modo di
vedere c'è una figura archetipica, la quale ha avuto storicamente grande
influenza sui nostri atteggiamenti in psicologia, non meno che nel diritto,
nell'amministrazione dello Stato e nel linguaggio. Noi siamo romani nella
mente, oltre che nella civiltà. Nell'antica Roma, la dea Tellus, che diventò
poi terra mater, era contemporaneamente una divinità terrestre in senso materno
e una delle divinità infere, e dunque presiedeva sia ai campi della natura sia
al regno dei morti. L'idea comune, secondo la quale la cultura romana era
materialistica e poco immaginativa, potrebbe avere la sua origine psicologica
proprio in Tellus: infatti c'è una bella differenza tra un mondo infero
governato da un invisibile Ade e uno appartenente a Tellus, terra mater.
Tellus
presenta alcune caratteristiche piuttosto curiose. Innanzitutto non era
accoppiata a un dio del cielo, come avviene di solito nei miti. Anzi, non aveva
praticamente compagni maschili. Era però «inseparabile da Cerere », il cui
nome, oltre che con i cereali, è connesso con la creazione e l'accrescimento.
Oltre a essere Dee della fecondità agricola e umana, compreso il matrimonio,
Tellus e Cerere intervengono insieme a tutti i riti funebri. L'animale più
sacro a Tellus era la vacca gravida, il cui sacrificio trova scarsi
parallelismi nei riti del resto del mondo. L'uccisione dell'animale aveva luogo
a metà aprile, in un tripudio di macelleria, sangue, carne, interiora,
gestazione e accrescimento, tra il verdeggiare lussureggiante delle giovani
messi. La morte qui è vista interamente nell'ambito del ciclo della fertilità.
Sotto la terra in cui è inumato il corpo non si apre alcun mondo pneumatico
dello spirito o dell' essenza.
La
Grande Madre non è soltanto una statua di pietra in un museo. È una modalità di
coscienza che percorre, il nostro modo abituale di pensare e di sentire. E il
nostro materialismo; la radice comune di «materia» e di «mater» non è né una
coincidenza né un gioco di parole. La Grande Madre è la modalità di coscienza
che riconnette tutti gli eventi psichici a eventi materiali, ponendo le
immagini dell'anima al servizio delle cose fisicamente tangibili. Ogni volta
che riportiamo nella vita un sogno, rafforziamo il dominio della Grande Madre.
Ogni traduzione di un sogno nei problemi terra-terra della «realtà» in carne e
ossa è una forma di materialismo.
In
psicologia la Grande Madre ha avuto un ruolo straordinario, quasi che fosse la
sua unica e sola divinità. E non mi riferisco soltanto al continuo rifarsi
all'immagine di madre e bambino come chiave per la comprensione dell'anima
umana; ci sono stati raffinati interpreti, un paio di generazioni fa, che
attribuirono tutto a lei: fiumi, oceani, vegetazione e animali, amore, vita e
morte. Adesso, tuttavia, applicando diligentemente ai sogni il metodo di Aristotele
(la ricerca di somiglianze esatte), siamo in grado di far notare che oceani e
fiumi appartengono a Oceano e a Poseidone; che Eros è anche una figura e una
forza maschile; che uno dei signori della vegetazione e della vita zoologica,
nonché dell'infanzia, è Dioniso; e che la terra stessa può avere, come in
Egitto, culla storica della nostra simbologia, una personificazione maschile.
Non
è solo la religione a nascere, come è stato detto da molti, quale riflessione
sulla morte. Anche la psicologia nasce così, perché è di fronte alla morte che
meditiamo e approfondiamo e avvertiamo l'anima e ci costruiamo poi le nostre
fantasie per darle una casa, si tratti delle antiche piramidi e dei sepolcri
della religione o dei riti e dei sistemi della moderna psicologia. Se si
immagina che l'anima sia un vapore epifenomenico secreto dal cervello o da
circuiti nervosi, o il prodotto di qualche combinazione biochimica a livello
microscopico; e se il sogno è il riflesso del comportamento interno di un
corpo interno al comportamento di campi energetici di tipo sociale, storico e
fisico, allora la prospettiva filosofica che meglio si attaglia all'anima e ai
suoi sogni è il materialismo. Ovvero, per inverso: quando spieghiamo le
immagini e il linguaggio del sogno facendo riferimento ad altre influenze
(altre persone, impressioni sensoriali, ricordi del passato), siamo in una
forma di materialismo, anche se non abbiamo mai fatto ricorso a termini
riduzionistici. Il materialismo può assumere forme molto raffinate, che trascendono
l'edonismo, il sensismo, l'associazionismo, il comportamentismo e gli altri
segnali indicatori, in base ai quali abbiamo imparato a riconoscerlo. E
materialismo, ogni volta che non accettiamo un sogno come immagine autoctona,
come invenzione sui generis
dell'anima. I sogni non sono fatti di un qualcos'altro che sta altrove. Anzi,
il «noi» che studia le condizioni causali del sogno è lui stesso fatto della
medesima sostanza dei sogni.
Il
materialismo della psicologia non può essere contrastato con il soggettivismo
individualista, o proprietà privata del sé, che è capitalismo psicologico.
Questa è solo un'altra forma di materialismo, che postula a sua volta un
fondamento trascendente da cui l'anima dipende e a cui il sogno fa in ultima
analisi riferimento. Né può essere adeguatamente combattuto dal cristianesimo,
il quale, come vedremo tra breve, cancella il sogno, l'anima e il mondo
infero. Neppure la psicologia panteistica della crescita e dell'ecologia è la
soluzione, perché promuove un nuovo culto della Grande Madre a partire dal
culto del corpo fisico e del thymos.
Si
può tuttavia contrastare il materialismo della psicologia dando, sì, peso e
sostanza alla vita, ma non in senso materiale, bensì facendo in modo che la
vita conti e abbia senso. Mi riferisco qui al carattere di profondità che
sostituisce l'importanza fisica. Voglio dire che niente è più importante della
morte e che, quando iniziamo la nostra riflessione psicologica di lì, il
materialismo perde il suo fondamento materno. Il materialismo non è cominciato
con Democrito e nemmeno con Marx; il suo punto di partenza è l'archetipo che
governa la nostra prospettiva nei confronti degli eventi psichici, cioè la
nostra visione della morte, del mondo infero e dei sogni.
Finché
la madre archetipica domina la nostra psicologia, non possiamo fare a meno di
vedere i sogni dalla sua prospettiva e di leggere il loro messaggio come se riguardasse
le cose che interessano a lei. Allora, per esempio, penseremo che quel sogno
corrisponde all'interesse di Era per le realtà di ordine sociale, per i
problemi coniugali e famigliari che si presentano nel mondo quotidiano; oppure
che corrisponde alle funzioni visibili e concrete di Cibele, e va dunque letto
come se fosse un'autorità divinatoria che offre soluzioni affinché la vita
possa prosperare. La madre archetipica rafforzerà inoltre la coscienza eroica
dell'Io, sfidandolo a compiti immani, come fa Era in tanti miti. A Roma, i
gladiatori morti erano fatti uscire dall'arena attraverso i «cancelli di Cerere
», per essere restituiti alla medesima madre che nell'arena li aveva inviati.
Uno dei modi in cui la madre archetipica usa sfidarci risulta evidente quando
ci scopriamo a considerare il sogno un enigma da sciogliere, decifrare,
risolvere. Se il sogno è un enigma, c'è una Sfinge, e dove c'è una Sfinge, c'è
un eroe eternamente sposato alla madre.
Quello
della «Grande Madre Terra» è un modo di fare psicologia che cerca di ricondurre
i sogni alla natura attraverso interpretazioni naturalistiche. Ma «la natura»
è a sua volta soltanto una prospettiva psicologica, una delle fantasie
dell'anima, essa stessa una topografia immaginale, la cui descrizione cambia
nei secoli con il susseguirsi delle dominanti archetipiche. La storia
occidentale è ricca di tali fantasie: la natura come il meccanismo di un orologio;
come un nemico; come un organismo selvaggio o bellissimo che chiede di essere
addomesticato o lasciato intatto e vergine; come ritmo armonioso; la natura
«nei denti e negli artigli rossa», come lotta per la sopravvivenza; come volto
di Dio. Non possiamo parlare dei sogni come natura o prenderli naturalisticamente,
senza prima quantomeno accertare quale idea di natura si stia postulando.
Un
altro modo in cui la Grande Madre influisce sui nostri sogni consiste nel
collocarli di peso nel mondo personale. Come ha osservato Jung (Opere, IX, I,
pp. 84-85), le psicologie ispirate dalla madre non riescono mai ad allontanarsi
dal punto di vista personalistico. Ma i morti non sono persone umane, e gli eidola del mondo infero non sono parti
della personalità di nessuno. Sono immagini esangui, senza corpo e senza ossa,
anime non più fuse con vite personali.
La
riduzione personalistica del mondo infero era alla base dell'epicureismo, una
delle maggiori scuole filosofiche della civiltà romana. Ancora una volta
rileviamo gli effetti di Tellus. Benché la morte costituisse un punto centrale
del pensiero epicureo, con la sua ricerca della «vita beata», il mondo infero
era considerato nient'altro che un'allegoria moralistica, incentrata su paure
personali (essenzialmente, la paura della morte) e desideri personali (il
desiderio di vincere la morte). Sono già adombrate, qui, la fantasia di
onnipotenza e la pulsione all'immortalità poi concettualizzate da Freud.
L'epicureismo insegna che possiamo liberarci dell'allegoria dell'aldilà se
impariamo ad analizzare le nostre emozioni, evitando di scambiare per realtà le
fantasie (simulacra) che esse
proiettano sotto forma di figure del mondo infero. Solo il mondo materiale
quale ci è rappresentato direttamente dalle sensazioni possiede realtà e
soltanto la saggia gestione di tale mondo costituisce un fine ragionevole. Per
essere felici, dobbiamo vivere prospettandoci il futuro senza illusioni,
senza, in particolare, le illusioni del sovrannaturale, condensate al loro
peggio nelle superstizioni del mondo infero. Tutto è atomi, momenti transeunti.
La soluzione migliore è condurre una vita serena e ritirata in una comunità di
amici a noi congeniali.
Questo
materialismo razionalistico ha dei punti in comune con la teoria freudiana dei
sogni (le figure del sogno intese come introiezioni di paure e desideri riducibili
in ultima analisi a sensazioni di piacere e dolore) e in senso molto più vasto
con l'ideologia della morte che permea tutta la nostra civiltà. Per l'epicureo
romano, morte significava mera assenza di sensibilità, e ciò che non è
sensibile non è reale o semplicemente non esiste. Il suo equivalente moderno fa
un'affermazione analoga: «La morte per me non possiede alcuna realtà. Dove ci
sono io (nella vita), non c'è la morte; e dove o quando c'è la morte, io non ci
sono (sarò morto). Dunque, perché preoccuparsi? Viviamo, e basta». Nell'antica
Roma come da noi, troviamo un'analoga preoccupazione per la gestione pratica
della vita personale in un universo che è o solo caso o solo determinismo (due
facce della medesima razionalistica, materialistica medaglia). Una volta che
le profondità al di là dell'Io siano considerate sue proiezioni, ecco che
l'unica psicologia adatta è la psicologia dell'Io, mitigata dall'amicizia con
persone congeniali (altri egocentrici).
Una
conclusione possiamo trarre, a proposito del punto di vista materialistico che
fa derivare la sua psicologia della morte da Tellus anziché da Ade: esiste una
curiosa correlazione tra i sentimenti di realtà dati dal mondo infero e i
sentimenti di valore dati dall'anima. È come se, quando manca una vivida
immaginazione del mondo infero, avvenisse un appiattimento, una
spersonalizzazione, addirittura, che va compensata con la vita comunitaria e
l'amicizia degli epicurei, ovvero, come si dice oggi, con i «rapporti
interpersonali », Meno mondo infero c'è, meno c'è profondità e più la nostra
vita si «spalma» in orizzontale. Il punto di vista materialistico sfocia in una
sorta di vuoto, la Casa di Ade, appunto, ma ridotta ora a vuoto spirituale,
giacché i suoi miti e le sue immagini sono stati definiti simulacra irrazionali,
fantasie create dalla paura e dal desiderio. Il punto di arrivo è la
depressione: segno che la depressione, la quale, ancorché mascherata, permea
la nostra civiltà, è in parte una risposta dell'anima alla perdita del suo
mondo infero. Quando la persona depressa va in terapia per analizzare
l'inconscio, ora, grazie a Freud, può riscoprire il mondo infero in esso. La
psicologia del profondo, nonostante professi il materialismo scientifico e
renda a ogni seduta omaggio alla Grande Madre, svolge tuttavia la funzione
principale della religione: riconnettere l'individuo, per mezzo di una precisa
liturgia, con il regno della morte.
Riassumendo,
ogni volta che riusciamo a passare a una concezione meno personale, meno naturalistica,
meno moralizzata, meno interpersonale e meno sociale, si ingaggia la battaglia
per la liberazione dalla madre. L'opus
contra naturam, che possiamo dire definisca il lavoro psicologico, è
all'inizio un opus contra matrem, non
contro la madre personale (ecco un'altra delle sue trappole!), bensì contro le
filosofie materialistiche del naturalismo e del personalismo. Per liberare il
regno psichico dalla mentalità naturalistica della madre occorre per prima cosa
distinguere il mondo infero di Ade dal sottosuolo di Tellus.
La
seconda barriera che ostacola il passaggio alla prospettiva del mondo infero è
l' opposizionismo, la tendenza a pensare per opposti. L'opposizionismo, come
tutti gli «ismi », è una griglia ideologica che la mente sovrappone alla vita,
di solito in modo inconscio. Anche quando ne siamo in qualche misura
consapevoli, come io mi sforzo di essere in questo libro, esso è talmente
fondante per il pensiero occidentale, a partire dai presocratici, da
Aristotele e dal neoplatonismo, attraverso la scolastica, fino a Kant, a Hegel
e alla teoria dell'informazione, che non sarà possibile sfuggire alla sua
influenza soggiacente. Anche questo libro cede spesso all'abitudine di
presentare coppie di opposti, come mondo notturno e mondo diurno, mondo infero
e mondo supero, psichico e naturale, e così via.
Non
possiamo trasferirci su un altro pianeta con un altro universo di discorso;
anzi, non possiamo neppure passare a un altro abito culturale. Dato che ci
tocca rimanere dove l' opposizionismo fa parte del terreno stesso su cui
poggiamo, l'unica soluzione è imparare a conoscerlo, nella speranza di ottenere
due risultati: smuovere un po' le opposizioni, in modo da esserne meno
prigionieri e più capaci di usarle ai nostri fini, e scoprire quale prospettiva
archetipica è più di altre avvantaggiata da questo «ismo », cioè a quale tipo
di mentalità - alle prese con quale tipo di problemi - le opposizioni sono necessarie.
La
logica delle opposizioni, le loro forme (contraddittorietà, privazione,
polarità, complementarietà), la differenza tra opposti formali e reali, il problema
se ognuno dei termini sia o non sia esaurito dalla relazione con l'altro: tutto
questo, come anche la struttura metafisica del dualismo che sembra esigere e
insieme presupporre la logica oppositiva, esula dai limiti di un saggio sul
sogno e sul mondo infero. Eppure l'opposizionismo c'entra con il nostro
saggio, perché il tema su cui verte è stato concepito da Freud, e ancor più da
Jung, secondo una struttura oppositiva. Perché la teoria del sogno possa
procedere oltre le loro posizioni, occorre andare al fondo di tali opposizioni,
specialmente di quelle di Jung.
La
psicologia di Jung è profondamente oppositiva. Senza eccezioni significative,
tutti i più importanti concetti junghiani (eros/logos, Io/Sé, introversione/
estroversione, prima e seconda metà della vita, immagine/istinto,
individuale/collettivo, conscio/inconscio, etica/moralità, Anima/ Animus, e
altri ancora) sono ordinati per coppie. E si tratta di opposizioni reali e
funzionali, non di opposizioni logiche. Vale a dire, le opposizioni della
psicologia junghiana riguardano il contenuto dei termini e il loro modo di
operare. L'introversione non è contrapposta all'estroversione semplicemente
sul piano formale, bensì per la sua natura e la sua funzione. Tra i due
termini è in atto una tensione sostanziale, non una contraddizione logica.
Perciò è sbagliato trattare gli opposti junghiani con gli strumenti della logica,
come se stessimo compiendo operazioni logiche. Poiché gli opposti junghiani
non sono termini contraddittori logicamente escludentisi, l'Anima non esclude
l'Animus, noi possiamo essere nello stesso tempo consci e inconsci, e così via.
Ecco perché tanto spesso Jung rifiuta il pensiero per « aut/ aut» e preferisce
dire «sia/sia». Le sue coppie sono insieme antagonistiche e complementari, mai
però contraddittorie.
In
questo senso Jung segue semmai l'uso romantico degli opposti. Li considera
elementi costitutivi delle cose, più che strumenti per discuterne. Più che applicare
le opposizioni alla maniera aristotelico-scolastica, si dichiarerebbe
d'accordo con Coleridge, il quale parla di una legge «che regna in tutta la
Natura, ossia la legge della polarità, la manifestazione di un'unica potenza
da parte di forze opposte », e dice inoltre: «Non esiste, a rigore, vera opposizione
se non tra due forze polari di un'unica e medesima potenza»." Qui,
l'opposizionismo è essenzialmente una visione della realtà, una legge
universale, e soltanto secondariamente un procedimento epistemologico per
ordinare la realtà.
Jung
(Opere, VII, pp. 72-74) si rifà per il suo principio fondante alla dottrina
eraclitea della enantiodromia, da lui intesa come «funzione regolatrice degli
opposti». Il termine, che in sé significa corsa in direzione contraria, è
tradotto da Jung nell'espressione les
extremes se touchent. Se si porta all' estremo un movimento, si produrrà
un movimento contrario. Anche lo scontro di direzioni opposte è inteso alla
maniera di Eraclito (fr. 30/A33): «La strada all'in su e all'in giù è una sola
e la medesima»; ovvero, come dice Coleridge, «la manifestazione di un'unica
potenza da parte di forze opposte »; L'intera opera diJung è un'elaborazione
di questa concezione."
Man
mano che ampliava la sua psicologia, Jung estese di pari passo la sua nozione
di enantiodromia. Nella psicologia analitica si parla degli opposti secondo
quattro modalità principali: l) come conversione nell'opposto (enantiodromia);
2) come regolazione di uno dei due termini della coppia da parte dell'altro
(autoregolazione); 3) come unione degli opposti (congiunzione); 4) come
identità degli opposti (coincidentia oppositorum). La terza e soprattutto la
quarta modalità costituiscono il tema principale della psicologia alchemica di Jung.
E
veniamo ora al sogno. Anche il sogno è considerato in termini di opposti,
perché il sogno è una attività di compensazione. Quello della compensazione è
l'unico costrutto generale che Jung applica ai sogni, un po' come fa Freud con
il costrutto dell'appagamento del desiderio. Essendo una compensazione, il
sogno è sempre parziale, unilaterale, squilibrato. Per essere compreso, ha
bisogno dell'altro elemento della coppia: il contesto diurno, la posizione
dell'Io, la situazione collettiva, la serie di sogni precedente. La teoria
della compensazione costringe il sogno a riattraversare il ponte; a stabilire
un legame con altri, con ciò che è fuori di esso, che è altrove. Un sogno non è
completo di per sé.
Questa
teoria comporta alcune conseguenze per l'analisi dei sogni. Se il sogno è
incompleto, sta all'analisi di compensarlo. Dunque, l'analista junghiano
cerca nel sogno figure e simboli capaci di riequilibrare quell'unilateralità
che egli, grazie alla sua formazione, non mancherà di cogliere. Le posizioni
assunte dall'Io del sogno saranno compensate da posizioni opposte, da
op-posizioni. Se la figura dell'Io è passiva, l'analista cercherà nel sogno
un'Ombra capace di dare forza, se la figura dell'Io agisce aggressivamente e
con sicurezza, l'analista cercherà di renderla più sensibile con altri simboli,
più «femminili », presenti nel sogno.
Può
darsi tuttavia che in quel sogno non ci sia alcun opposto compensatorio, per
esempio ci sono «solo» uomini; allora l'analista si sente in dovere di chiedere
conto del femminile assente, come esige la teoria della compensazione. Oppure,
prendiamo un sogno in cui il protagonista si trova da solo in mezzo a neve e
ghiaccio, lame metalliche, macchinari sinistri: dove sono, qui, il calore
umano, o la vita vegetativa e animale? Gli elementi che il sogno non contiene
vanno introdotti a compensazione del quadro unilaterale, un po' come se,
sentendo suonare una banda di ottoni, chiedessimo: «Ma dove sono i violini?».
L' opposizionismo prende ben presto la mano all'analista junghiano.
L'inflazione viene curata con dosi di depressione e di terra: l'analista
cerca di far atterrare gli aerei, di staccare il sognatore dagli alberghi di
lusso e dai grattacieli e dalla compagnia di persone importanti (la Persona),
per indirizzarlo verso il legno, la lana grezza e la ricotta. I «tratti
maschili» sono compensati con l'Anima, e l'Anima cercando di sviluppare
l'Animus. C'è sempre qualcosa da aggiungere.
Se
fosse possibile esaminare quello che avviene nella testa dell'analista per
quanto riguarda i quattro tipi di opposizioni junghiane, credo che il quadro
sarebbe più o meno il seguente: l'analista immagina gli opposti secondo il
modello del primo caso (conversione), quindi cerca di attuare il secondo
(regolazione) e possibilmente il terzo (congiunzione). La presunta
unilateralità del sogno è contrastata dall'interpretazione. Nella migliore
delle ipotesi, l'interpretazione svolge la funzione del simbolo, trascendendo
la coppia «Io/inconscio ». Così come il sogno è una compensazione, alla
medesima stregua il lavoro sul sogno è compensatorio nei confronti del sogno
stesso. Lo scopo è quello di correggere un presunto squilibrio. L'analista
vuole che il paziente imbocchi un ponte e lì rimanga.
Questo
è un procedimento proprio della medicina. L'uso compensatorio degli opposti è
alla base della medicina allopatica, la medicina ufficiale, accademica del
mondo occidentale. Curare, in questo ambito, significa contrastare un processo
patologico, invertirne la direzione, combattendolo o introducendo la cosa che
manca. Lo scopo è quello di ricostituire l'equilibrio perduto. Il medico
allopatico stimola gli elementi endogeni o ne introduce di estranei, che si
oppongono alla malattia, allo scopo di ristabilire un'armonia originaria, una
corretta krasis o armoniosa mescolanza di elementi.
Quale
sarà questa «armonia originaria», questo equilibrio ideale da ripristinare,
questa fantasia nella quale sono rimasti impigliati il sogno e la sua interpretazione?
A prescindere dal suo aspetto filosofico, certamente meritevole di esame,
l'effetto di questa fantasia nello studio dell'analista è che l'interprete si
sente chiamato a «fare qualcosa» e il sognatore a «correggere qualcosa». E
allora, chi altri è colui che «fa» e colui che «corregge», se non la nostra
vecchia conoscenza, il solito protagonista, l'Io? La teoria della compensazione
ci riporta inevitabilmente a questa figura, l'elemento «altro» fondamentale,
il fattore allopatico che «corre in direzione contraria» al sogno. Che sente
(pathos) altrimenti (allos) dal sogno. La teoria della compensazione fa
appello alla prospettiva diurna dell'Io e scaturisce dalla sua ideologia, non
dal sogno. Da questa prospettiva, per forza il sogno è una compensazione: la
prospettiva egoica è una forma di letteralismo che prende le cose da un verso
solo e perciò ha sempre bisogno di essere compensata.
Se
però non partiamo da quella posizione parziale, non abbiamo bisogno di quella
teoria compensatoria.
In
pratica, l'approccio compensatorio costella l'eroe, la cui nozione di
enantiodromia è l'inversione letterale e l'autoregolazione letterale. L'eroe
salta dritto nell'opposto. Dopo un sogno alato, l'eroe si infila davvero gli
scarponi e si mette davvero a spaccare la legna. Di fatto, il procedimento
allopatico finisce per creare una nuova opposizione letterale, altrettanto
unilaterale della precedente, che renderà necessari ancora un altro sogno,
un'altra seduta dal medico e la «analisi interminabile» della egodipendenza.
Se
vogliamo parlare per opposti, ebbene qualsiasi posizione della vita ha un unico
opposto reale e assoluto, la propria morte. Questa affermazione, se ora la
deletteralizziamo, significa che «la morte» è la via per superare gli opposti,
cioè a dire, è l'autoregolazione di qualsiasi posizione per mezzo della
psiche, per mezzo della percezione metaforica, nonletterale. In questo senso,
congiunzione (3) e identità (4) degli opposti significano percezione simultanea
da entrambe le prospettive: della vita e della morte, del naturale e dello
psichico. La congiunzione, allora, è una peculiare unione di punti di vista
interiori, attraverso la quale diventa manifesta un'identità di opposti.
Vediamo il nesso nascosto tra cose che fino a quel momento costituivano
opposizioni. E così che opera di solito la psicologia alchemica di Jung.
Quando
un analista per analizzare deve effettuare divisioni, cioè deve
concettualizzare come opposti le immagini e le figure di un sogno, o deve introdurre
l'opposto nel paziente (per esempio, più visceralità per controbilanciare il
pensiero, più riflessione per contrastare l'impulsività, più attenzione ai
particolari per compensare le generalizzazioni ispirate), allora è 1'analista
che non ha saputo attuare la congiunzione. Non ha saputo percepire che l'opposto
è già presente, che ogni evento psichico è un'identità di almeno due posizioni
e dunque è simbolico, metaforico, e mai unilaterale. Solo se lo si prende da
un unico lato diventa unilaterale; cercando di riequilibrarlo, spezziamo la
sua armonia nascosta.
L'errore
fondamentale, qui, è quello di leggere le quattro specie di opposizioni di Jung
come se fossero fasi progressive di superamento degli opposti, dalla prima
alla quarta, la meta finale. Ma, se ci situiamo già nella quarta, quella
dell'identità degli opposti, ecco che abbiamo aggirato unilateralità, lo,
compensazione, trattamento allopatico: tutto quanto. Coincidenza degli opposti
significa che non c'è niente da introdurre da parte di nessuno, perché
l'opposto è già presente. C'è già tutto quello che è necessario alla
situazione, sicché tutto quello che c'è è necessario. Ciascun sogno ha il suo
fulcro e il suo equilibrio, si compensa da sé, è completo così com'è.
Questa
è, appunto, la prospettiva del mondo infero. Per essa, l'immagine è la sola
cosa che esiste, tutto il resto è svanito e non può essere introdotto nel
mondo infero, finché non sarà diventato a sua volta simile al mondo infero. Non
possiamo vedere l'anima finché non ne facciamo esperienza, e non possiamo comprendere
il sogno finché non ci entriamo dentro.
Diventare
uguali a ciò che stiamo trattando è il modo omeopatico di curare. Richiede
sensibilità per le somiglianze, un senso di affinità con il fenomeno o il
processo in atto. Questa esperienza coincide con le modalità 4 e 3, identità e
congiunzione: poiché siamo in sintonia con il processo in atto, possiamo
unirei a esso, e questo porta poi all'autoregolazione e infine alla
conversione e all'uscita definitiva dall'opposizionismo. Infatti l'unico modo
per «superare gli opposti» sarebbe quello di abbandonare il pensiero per
opposti. Quando ci accostiamo a un sogno o a qualsiasi altro fenomeno psichico,
non c'è bisogno di rimanere in un universo oppositivo. Come ha detto Freud,
l'inconscio non conosce la negazione. Ogni sorta di cose che sarebbero incompatibili
dal punto di vista del mondo diurno, nell'inconscio esistono fianco a fianco e
trapassano facilmente l'una nell'altra. Le immagini non si contrappongono
reciprocamente. Non sono disposte per polarità e nemmeno a coppie. Vita e
morte, mondo supero e mondo infero, e anche i ponti, sono tutti eidola. Nel sogno possiamo dissolvere i
nostri costrutti, e il sogno non si contrappone a niente e non chiede di
essere compensato; come ciascuna figura del mondo infero, come Sisifo, come
Issione legato alla sua ruota, così ciascun sogno aggiunge il suo contributo al
destino dell'anima secondo il proprio stile.
Dentro
la prospettiva del mondo infero, il mondo non incorre nella dualità e non ha
bisogno di bilanciamenti e di ponti. Non soltanto Ade e Plutone sono un unico
dio, e Ade e Zeus sono fratelli, e così pure Ade e Dioniso e Ade e Poseidone;
non soltanto Ade ed Ermes condividono lo stesso copricapo e Ade e Persefone lo
stesso regno; ma l'aspetto ctonio presente in tutte le configurazioni
archetipiche fa sì che esse distolgano lo sguardo dalle relazioni esterne tra
le cose e dal bisogno di una dialettica diadica, per rivolgerlo invece verso le
relazioni interne alle cose e verso spiegazioni che sono dispiegamento di
immagini.
Il
sogno non è una compensazione, così come Ade non è una regione cui faccia da
contrappeso un'altra regione. I commentatori del pensiero greco sottolineano
l'intreccio e la contaminazione dei cosmoi
e l'assenza del dualismo. Il mondo greco è imagistico, politeista. Il dualismo
è un portato del monismo e compare più perentoriamente nelle fantasie
monistiche, come la nostra tradizione giudaico-cristiana, con la sua
separazione tra le acque di sopra e le acque di sotto, tra paradiso e inferno.
Le mie stesse contrapposizioni tra supero e infero riflettono questa
cosmologia, nella quale siamo tutti impaniati, più di quanto non riflettano il
mondo politeistico dei greci che sto cercando di evocare. Ma del resto, non si
può essere altro che dove la nostra tradizione ci ha collocati, e di lì
parliamo.
I
sogni, invece, non parlano in questo modo. I sogni sono omeopatici per natura.
Quello che noi vediamo nel linguaggio degli opposti, essi lo presentano in
un'unica immagine. Nei sogni di pazienti terminali, ai quali il medico ha
profetizzato la morte, si direbbe che la psiche rifiuti di scindersi negli opposti
di vita e morte. Non fa distinzione tra uccidere e curare, tra veleno e
medicina, tra morire e partorire. Non riconosce la domanda del mondo diurno:
il paziente sta meglio o peggio? dove peggio può solo significare morte. Via
via che la psiche muove verso il mondo infero, il quale, ricordiamolo, è una
prospettiva e non necessariamente la morte concreta, si sviluppa una
sensibilità sempre più acuta per la medesimezza, l'identità degli opposti, per
cui la cura è la malattia, sanare è ferire più a fondo, il bambino appena nato
è la morte. Qui e là sono indistinguibili. Esiste solo l'immagine.
Questo
ci riporta alla nostra domanda iniziale: a quale tipo di mentalità - alle prese
con quale tipo di problemi - l'ideologia opposizionista è tanto utile? La
risposta ovvia è: per l'Io eroico, che divide per dominare. Il pensiero per
antitesi, che Alfred Adler ha riconosciuto essere una forma mentis nevrotica, attiene alla volontà di potenza e alla
protesta virile. Queste descrizioni si attagliano anche all'Io eroico come
siamo venuti immaginandolo.
Per
evitare che l'eroe diventi un capro espiatorio troppo facile, salvo poi
ritornare dal deserto dove l'ho represso e irrompere nella mente del lettore alla
testa di una banda di scherani, armati ciascuno di solide giustificazioni e
convincenti argomenti a difesa del loro vendicativo capo, dobbiamo perdonare
le sue maniere malcreate. Queste, infatti, sono al servizio di un principio che
trascende la volontà di potenza, il principio di distinzione. Dicevamo che il
punto di vista del mondo infero non divide solitamente il «qui» dal «là»,
giacché vive totalmente nelle immagini; ma il mondo infero ha anche un altro
punto di vista, che ama fare chiarezza. E la fa per mezzo dei contrasti: più
una cosa si staglia netta, più è chiara; perciò, nelle coppie, dà pennellate di
luce sullo sfondo scuro.
L'opposizionismo,
invece, mette a disposizione la modalità più semplice di distinzione astratta.
Per questo attrae tanto. Ciò che è contemporaneamente semplice e astratto
appare facilmente il fondamento di tutte le cose, si tratti di una divinità
monistica, dei numeri dei pitagorici, delle categorie kantiane, o di un
elegante teorema matematico.
Il
primo vizio della sua virtù è che l' opposizionismo è capace di astrarre
soltanto ciò che è semplice, e allora semplifica tutto ciò che astrae. Per
esempio, quando contrapponiamo Zeus e Ade come «supero» e «infero », ecco che
abbiamo trascurato tutte le loro complessità imagistiche tranne la più
semplice, quella della localizzazione spaziale, anzi abbiamo semplificato anche
questa, riducendola a un asse verticale dove «sopra» è opposto a «sotto».
Questo tipo di astrazione semplificata, che può arrivare ai diagrammi, è
diventato un sintomo permanente della psicologia analitica, appunto perché essa
si fonda sull'opposizionismo. In questo modo di operare distinzioni,
l'elemento omesso sono le specifiche personalità di Zeus e di Ade, così come,
nella psicologia analitica, il residuo con il quale è il singolo a dover poi
fare i conti sono le specifiche complessità di quelle tra le sue immagini
particolari che non si presentano in coppie belle e ordinate.
L'opposizionismo
distingue portando agli estremi. Gli estremi, poi, devono toccarsi, perché, se
la distinzione deve risultare evidente, hanno bisogno l'uno dell'altro. Così
gli opposti sono tenuti insieme non già da una qualche mistica legge
universale, bensì da una necessità epistemologica, una necessità che nasce da
una prospettiva archetipica che esige distinzioni chiare e nette.
Da
tutto questo si può dedurre che tanto la concezione romantica, metafisica, quanto
la concezione scolastica, epistemologica, se mi si passa questa
generalizzazione, si fondano su (e sono espressione di) una prospettiva che
deve vedere chiaramente per poter conoscere nel modo più completo possibile,
per poter ordinare e usare. Ma così non siamo forse ritornati all'eroe solare e
al suo diurno desiderio di padroneggiare i fenomeni?
Per
questa prospettiva, il «superamento degli opposti» è un'esperienza mistica,
trascendente. Per essa, abbandonare il pensiero per opposti è perdere la
coscienza, la quale per definizione (definizione data da questa stessa
prospettiva) coincide con la modalità chiarificatrice di vedere, conoscere,
ordinare. Una simile perdita è sentita come un crollo ontologico delle
fondamenta, perché significa perdere anche la certezza che l'essere sia alla
fin fine spiegabile in termini di polarità astratte e semplici in tensione
mistica tra loro. E questa, appunto, è una delle metafore radicali preferite
di molte filosofie. Una tale nozione dell'essere lo rende accessibile
all'intelligenza logica di una mente che vede chiaro. Notiamo, ancora una
volta, come le posizioni ontologiche all'apparenza più sovrane abbiano i piedi
di argilla. Le filosofie non possono prescindere dalla fantasia archetipica che
esse riflettono e che costituisce il fondamento della loro forza di
convinzione.
Con
l'opposizionismo va perduto - ed è una perdita più grave - il mondo fenomenico
che esso pretende di dominare. Se la distinzione non è differenziata dalla
chiarezza (è stato Cartesio a renderle intercambiabili), non possono darsi né
mondo infero né profondità e chiaroscuri, se non come oscurità assoluta da
compensare. Le distinzioni migliori sono le più chiare e le più chiare sono,
ovviamente, le contraddizioni. Allora ambiguità metaforica può significare
soltanto opaca oscurità, perché la mezza luce è scomparsa e la psiche pure,
come era quasi accaduto con Cartesio.
Fortunatamente
la prospettiva del mondo infero offre un'altra modalità di distinzione, una
modalità psicologica, dove vista acuta significa visione interiore, che vede
dentro la cosa com'è (in sé, non rispetto a un' altra), e chiarezza significa
precisione (delle relazioni interne alle immagini, non delle loro interrelazioni
logiche). Un approccio psichico alla distinzione contribuisce a rendere
«particolare» un evento, un sogno, poniamo, per mezzo di rassomiglianze
imagistiche, cercando di scoprire a che cosa «è simile» quel sogno, cioè «come
è ». Quando «distìnguiarno » in questo modo un sogno, in realtà lo muoviamo
sempre più a fondo dentro ciò che vi è di fatto presente, dentro a come è e a
che cosa somiglia. nel sentimento, nel suono, nell'aspetto. Non abbiamo
bisogno di coppie in tensione, di ricorrere alla enantiodromia, alla
compensazione, a niente.
La
prospettiva che ho tratteggiato e che ho chiamato psichica immagina che gli
opposti siano un modo di notare le similarità, un caso particolare di «somiglianza».
Tarde, Coleridge, Ogden e Jung hanno implicitamente affermato che soltanto i
simili possono essere opposti. Soltanto le coppie i cui termini hanno in comune
qualcosa di reale, di essenziale possono ragionevolmente essere considerate
opposizioni. Un tacchino non può essere contrapposto a un teorema, a meno che
non si scopra un senso in cui tacchino e teorema sono simili. La nostra
prospettiva psicologica e in grado di salvare il fenomeno degli opposti, perché
considera l'opposizione una metafora estrema, un modo radicale di dire una
cosa come se fosse due cose nettamente diverse, intimamente in guerra (ecco di
nuovo Eraclito), che il prode Io non può che immaginare letteralmente e
affrontare come una sfida.
Basta
così. C'è un ultimo modo per uscire dall'opposizionismo, ed e il migliore:
smettere di produrre fantasie secondo le sue regole, in modo da vedere e vedere
in trasparenza ciascuna cosa per come è. Questa via di uscita
dall'opposizionismo è anche la via di accesso al mondo infero delle immagini.
Un
terzo motivo del nostro difficile rapporto con il mondo infero è costituito
dalla prospettiva cristiana del mondo occidentale. Tra noi e il mondo infero
si erge la figura di Cristo quale è stata rappresentata dai primi padri della
Chiesa. «Ma fu a questo scopo» sostengono «che Cristo discese all'inferno,
perché non dovessimo discendervi noi». Secoli dopo, Lutero dirà: «La
resurrezione di Cristo è la nostra resurrezione ». Mentre cresce nel cuore, la
fede in Cristo «indebolisce giorno dopo giorno la morte e la priva della sua
forza, finché essa non sarà stata completamente sommersa e non scomparirà ...
Attraverso di Lui ... seppelliremo la morte anche fisicamente e la elimineremo
del tutto, sicché non se ne vedrà e non se ne saprà più nulla».
Facciamo
qualche confronto. Orfeo e Dioniso scesero agli inferi per riscattare una
persona amata, a loro molto vicina, rispettivamente la sposa, Euridice, e la
madre, Semele. Eracle vi discese perché aveva un compito da svolgere. Enea e
Odisseo per esservi istruiti da un «padre », Anchise e Tiresia. Secondo Le rane di Aristofane, Dioniso vi tornò
una seconda volta in cerca della poesia, per salvare la città. Invece, la
missione di Cristo nel mondo infero consistette nel cancellarlo con la sua
resurrezione, la vittoria sopra la morte. Grazie alla sua missione, tutti i
cristiani furono per sempre esentati dal compiere quella discesa. Lazzaro
diventa il paradigma di tutta l'umanità: tutti ci leveremo dal sepolcro. La vita
eterna non sta nel mondo infero, bensì nella sua distruzione. Come dice Paolo
(1 Cor, 15, 55), citando liberamente il profeta Osea (Os, 13, 14): «O
Thanatos, dov'è il tuo pungiglione? O Ade, dov'è la tua vittoria?» .
«La
parola vittoria ricorre soltanto tre volte nelle lettere di Paolo, tutte e tre
le volte in questo paragrafo», per annunciare con squilli di tromba il mistero
cristiano, l'eliminazione della morte. In questi squilli trionfali, in questa
distruzione, non incontriamo forse una volta di più Vittoria (nike, nikos), figlia di Stige, infusa ancora dell'odio di sua madre? La
conquista di Ade evoca immagini orrende: echi di Osea, il pungiglione degli
scorpioni, serpenti, calabroni, le locuste infernali e i pungoli che mitologemi
più antichi attribuivano a Ecate. Il linguaggio veemente segnala la veemenza
con cui il cristianesimo primitivo si proponeva la missione di spazzare via
uno dei baluardi del politeismo dell'epoca, la Casa di Ade.
Anche
il sonno è di ostacolo all'annuncio di Paolo, che infatti lo contrappone alla
trasformazione: «Non tutti dormiremo ma tutti saremo trasformati» (1 Cor, 15,
51). Come sappiamo, sonno e morte sono gemelli; dormire è entrare nel regno
della morte, forse sognare, e essere colmati dalla psiche. Ma no: i morti
saranno resuscitati «in un batter d'occhio », Cambiare è non dormire, e dormire
è non cambiare. La redenzione cristiana non passa per il sonno. E questo, per
la psicologia, significa che ciò che avviene nel sonno e nei sogni non
andrebbe mai guardato con un'ottica cristiana, orientata alla trasformazione
redentiva.
Vediamo
di capire esattamente quale tipo di trasformazione sta annunciando Paolo. Il
verbo che usa è allaghesometha, da
cui allaghe, «traslazione», con
connotazioni di «scambio, permuta, traffico »; Non è semplicemente il passaggio
da questo luogo o condizione a quel luogo o condizione; è la rinuncia a (o
dismissione di) una cosa per guadagnarne un'altra. Secondo alcuni commentatori,
il passo indica che «deve avvenire una radicale traslazione dallo psychikon allo pneumatikon». Il cambiamento consiste nello «spiritualizzare l'
animìcità». Per risorgere e andare incontro al Signore nell'aria (1 Ts, 4, 17),
dobbiamo diventare pneumatici, essere spiritualizzati. La vittoria sul sonno e
sulla morte rientra nella più vasta missione del cristianesimo di scambiare
l'anima con lo spirito.
L'ascensione
non richiede solo di lasciarsi indietro il sangue, a somiglianza del thymos, che non aveva cittadinanza nel
mondo infero e i cui desideri si pagavano in anima. Paolo va un gradino più
avanti (o più indietro) di Eraclito, perché il mistero dell'ascensione cristiana
cede psyche in cambio di pneuma. Paghiamo lo spirto con la nostra
anima. La vittoria del cristianesimo sul mondo infero è contemporaneamente
perdita dell'anima.
La
conquista di Cristo era presente in modo molto. vivido nell'immaginazione del
cristianesimo primitrvo , Nella seconda epistola di Timoteo, nell'epistola di
Barnaba, nell'apologia di Giustino martire, si afferma che la Vittoria sulla
morte era già stata realizzata con la resurrezione di Cristo. La distruzione
del mondo infero non avrebbe dovuto aspettare la fine del tempo: era già
avvenuta. La morte e la resurrezione di Cristo furono assorbite nel mitologema
classico della nekyia, ora non più un
viaggio, ma un Descensuskampf, perché
Cristo devasta l'inferno e, secondo una versione, costringe Thanatos a nascondersi
dietro, la sua porta. Cristo era dunque più grande del più grande degli
Uomini-Dei, Eracle, il quale, se aveva cacciato Ade dal trono, non aveva, come
fece Cristo, annientato l'intero suo regno, compresa la morte.
Un
effetto della lotta contro il mondo infero fu la satanizzazione di Thanatos. La
nera figura alata, indistinta, a volte anche benevola, delle descrizioni
pagane diventò «l'ultimo nemico» (1 Cor,
15, 26) e la personificazione del principio del male. Il mondo infero ne uscì
completamente moralizzato; la morte equiparata con il peccato. Secondo la nota
regola psìcologica, Il peccato commesso viene attribuito a chi lo subisce. Proiezione,
si chiama. La giustificazione morale per distruggere un nemico è che quel
nemico è distruttivo.
L'immagine
cristiana dell'inferno era dunque la proiezione di un immagine Infernale
interiore del cristianesimo stesso, il quale doveva essere in preda alla disperazione
più furiosa per il pessimo scambio compiuto: aveva perduto anima, profondità,
mondo infero e le personizzazioni dell'immaginazione, in cambio di idealizzate
spiritualizzazioni nell'alto dei cieli.
In
un'unica maniera il mondo infero poteva ricomparire: attraverso la perdita di
Cristo, e dunque come perdizione, dannazione, orrore. Orrore che aprì un
problema del tutto nuovo: il mondo infero inteso come regno del diavolo. La
paura del diavolo (del resto, quale altra reazione è possibile di fronte a.
quella intollerabile immagine?) segnalava la sua vicinanza e questa, a sua
volta, segnalava il pericolo immmente della perdita di Cristo. Sicché il
diavolo fu insediato in virtù di quella paura. L'immagine del diavolo ci
perseguita ancor oggi nelle nostre paure dell'inconscio e della psicosi latente
che si suppone stia in agguato; e ancor oggi, come riti propiziatori contro la
nostra paura, ricorriamo ai metodi del cristianesimo (moralizzazione, buoni
sentimenti, comunione e ingenuità da fanciulli), anziché alla discesa
classica dentro tale paura, la nekyia
dentro l'immaginazione.
Il
mondo infero, le rare volte in cui riappariva, conservava, almeno nella visione
giovannea, qualche associazione con gli elementi di staticità del mito
classico. Si ammette (AP, 22, 11) che nell'aldilà i malvagi continuino a
compiere il male e gli impuri a essere impuri, e che soltanto Cristo salvi da
questa condanna alla ripetizione. Chi era con Cristo era salvato; chi non era
con Cristo era perduto e consegnato al mondo infero. Con un solo, magistrale
colpo, il cristianesimo tolse di mezzo il mondo infero e contemporaneamente lo
rese orrifico, costituendolo come la perpetua alternativa alla via cristiana:
bisognava scegliere, ma chi avrebbe scelto l'orrore?
I
sogni, la cui casa è nel mondo infero, non poterono che diventare a loro volta
anticristiani. E infatti nel Nuovo Testamento svolgono una parte secondaria,
esattamente come la parola psyche
cede il posto alla parola pneuma. Il
verbo «sognare» non compare mai e il sostantivo «sogno» ricorre solo tre volte,
e solo in Matteo. I sogni potevano soltanto essere rivelazioni del mondo
notturno, messaggi tentatori inviati dalla genia dei demoni servi di Satana.
Oppure, nella più benevola delle ipotesi, potevano essere intesi in senso
pneumatico, come messaggi dello spirito nel contesto del mondo supero. Il mondo
ebraico aveva lo She'ol, e i sogni erano ascoltati; ma quando alla moglie di
Pilato arriva un sogno, importante, oltretutto, per il destino di Cristo, esso
viene ignorato (Mt, 27, 19): perche adesso siamo nel Nuovo Testamento.
Cristianesimo e mondo infero caddero in opposizione, un'opposizione reale,
funzionale e logica, sicché oggi noi ci ritroviamo in una situazione in cui la
coscienza cristiana e il lavoro psicologico del fare anima attraverso la cura
peI i sogni sono forzosamente in contraddizione.
E
alla luce di questa opposizione che possiamo rivedere l'incessante
arrovellarsi di Jung sulla figura di Cristo. Benché il suo interesse per questa
immagine sia già stato esaminato sotto il profilo biografico, teologico e
alchemico, ci sembra necessano immaginare il prolungato disagio di Jung, in quanto
psicologo, anche da un punto di vista archetipico. Poiché avvertiva
l'intrinseca opposizione tra cristianesimo e mondo infero, Jung cercò di
scurire la figura di Cristo con Ermes-Mercurio. Pur non spingendosi fino ad
assimilarlo a Ade, tuttavia costicuì Ermes-Mercurio ad archetipo dell'inconscio
in opposizione a Cristo, inteso come archetipo della coscienza del mondo
supero (Opere, XIII, p. 273). La scelta di Ermes-Mercurio come fattore di
scurimento, come psicopompo del mondo infero, riecheggia l'inno omerico a
Ermes, dove il dio è «egli solo, valido messaggero presso Ade», perché è Colui
che porta i sogni.
Il
tentativo di Jung di scurire la figura di Cristo va inteso sotto il profilo del
fare anima, come un riconoscimento del fatto che solo ripristinando il mondo
infero, laddove la missione di Cristo era stata quella di svuotarlo, poteva
realizzarsi quel fare anima che accompagna la discesa agli inferi e l'approfondimento
verso la morte e che è così fondamentale per il lavoro della psicoterapia. Io
vedo l'impresa di Jung come una lotta tra due impegni archetipici: il
cristianesimo, che nega il mondo infero, e il fare anima, che inevitabilmente
a quel mondo porta.
Aniela
Jaffé, la cui comprensione umana e di studiosa per il pensiero di Jung non ha
pari tra i suoi seguaci, ha scritto che «il percorso psicologico
dell'individuazione è in ultima analisi una preparazione alla morte ». Se è
questo il fine ultimo del principio terapeutico fondante di Jung, allora il
processo di individuazione dell'anima muove verso il mondo infero. E dunque,
forse, ogni fantasia di resurrezione della teologia è una difesa contro la
morte, ogni fantasia di rinascita, in psicologia, è una difesa contro la
profondità, e ogni interpretazione dei sogni che ne trasponga le immagini
nella vita quotidiana e nelle opere della vita quotidiana è una difesa contro
l'anima.
Cominceremo
dando uno sguardo retrospettivo. Abbiamo visto, prima in Freud e poi nel mito,
come il sogno appartenga al mondo infero; eppure, dopo Freud, interpretazione
del sogno ha significato trasposizione nel mondo supero. L'analisi del profondo,
nonostante il suo nome, spinge i sogni verso la luce del giorno. Ora, se
rifiutiamo l'interpretazione dei sogni nella sua consueta accezione analitica,
quali alternative ci restano per lavorare su di essi?
Una
la rifiutiamo in partenza. Mi riferisco all'idea romantica secondo la quale
basta lasciarsi trasportare dalle immagini sulla barca del sonno, come l'invocazione
di Keats:
O
magico Sonno! O uccello consolatore, che aleggi sopra il mare agitato della
mente finché placato taccia! O costrizione
senza
confini! Imprigionata libertà! Grande chiave a palazzi dorati, favole strane,
grottesche
fontane, piante sconosciute, decorate caverne
grotte
echeggianti, piene di frangenti!
E
chiaro di luna; sì, a tutto il magico mondo di argentei incanti!
(Endimione, XI, 453-61)
Non
si creda che i romantici siano tutti estinti. Alcuni sono ancora tra noi,
anzi, per assurdo che possa sembrare, si aggirano nei laboratori delle ricerche
sul sonno, dove è dato ritrovare la fiducia e la predilezione dei romantici per
il mondo notturno. Alcuni ricercatori del sonno REM, infatti, sostengono che
sognare fa bene comunque, che si ricordino i sogni oppure no, che ci si lavori
sopra o ci si lasci semplicemente cullare da essi finché non placano la nostra
mente agitata. Purché si sogni. L'interruzione o l'inibizione dell'attività
onirica, dicono questi ricercatori, provoca tutta una serie di disturbi psichici.
Alfred
Ziegler, il quale condivide il lavoro ma non l'atteggiamento dei suoi colleghi,
ha dimostrato che la loro mentalità ottimistica e le loro eufemistiche
conclusioni non sono giustificate, perché i sogni sono prevalentemente
spiacevoli. Perfino nelle condizioni ideali del laboratorio del sonno, dove si
«ritorna alla natura» nel senso più romantico della discesa nella grotta
privata della propria anima, protetti, al caldo, e consegnati nel silenzio al
sonno, questo dono della natura, i sogni spiacevoli sono di gran lunga più
numerosi di quelli piacevoli. Ziegler solleva un dubbio molto poco «romantico»:
forse la natura intende «nuocerci », addirittura «alla fine ucciderci»;
infatti si hanno abbondanti prove dell'instaurarsi di stati patologici durante
l'attività onirica (sonno REM), tra cui ipertensione e infarti cardiaci
notturni. L'approccio di Ziegler è fisiologico, il suo modo di pensare
biologico, ma il mito che informa il suo atteggiamento è classico: anche lui
restituisce il sogno al suo retroterra nel mondo infero ctonio di Ade.
C'è
una seconda alternativa, ma è così vicina alla posizione romantica da lasciare
a sua volta insoddisfatti. Deriva da Jung, benché egli personalmente non vi si
attenesse alla lettera. «Il sogno è la sua propria interpretazione» ha detto
infatti Jung (Opere, XI, p. 36), e «tutt'al più si continua a
"sognare" il mito» (Opere, IX, I, p. 154). Ma a prendere Jung sulla
parola, non si darebbe sufficiente riconoscimento al lavoro che c'è nel sogno
né all'impegno di intelligenza che il sogno reclama.
L'antica
arte dell'interpretazione dei sogni non solo è un modo per difendersi dai sogni
ma, al pari di ogni ermeneutica del «materiale simbolico», come si dice oggi,
è sorta insieme al sogno. Sono entrambi doni di Ermes: il lavoro del mistero e
il lavoro sul mistero. Perché i sogni non sono soltanto «fenomeni naturali»
(Opere, XI, p. 36); sono soprattutto prodotti dell'immaginazione. Sono
elaborazioni, complesse articolazioni linguistiche e imagistiche, attestanti
ciò che Freud ha chiamato «lavoro onirico» (Traumarbeit).
Perfino il sogno più sciocco riesce a stupirei per la sua arte, la gamma dei
suoi rimandi, il gioco della fantasia, la scelta dei particolari. Se seguiamo
il nostro principio di somiglianza, allora la nostra risposta al sogno deve
andare oltre l'apprezzamento naturale che si esprime nel «continuare a
sognarlo ». Dovremo rispondere anche con un apprezzamento critico,
immaginativo, con un lavoro che assomigli al suo.
Esiste
poi una terza alternativa: continuare il sogno nella vita di veglia, il
cosiddetto sogno da svegli. Prendiamo per esempio il seguente sogno: «Sono
nella sala d'aspetto di un medico. Il dottore mi consegna un bambino con il
pannolino sporco e mi dice: «Lo cambi». Invece di interpretare il sogno alla
vecchia maniera o di lasciarlo fluttuare nella mente associativa alla maniera
romantica, possiamo reimmetterei nel sogno. Nel nostro esempio, torniamo nella
sala d'aspetto e viviamo i sentimenti del «me» del sogno, del dottore, del
bambino, del pannolino sporco, della stanza perfino: entriamo in tutti i ruoli
e diventiamo tutti gli elementi del sogno.
In
realtà, questa alternativa non va oltre i sentimenti, e quindi diventa a sua
volta un'ulteriore variante romantica. Diventare un dottore, un pannolino,
una stanza non è quello che ha detto il sogno con le sue effettive immagini. Il
sogno ha detto, molto chiaramente: un dottore mi mette tra le mani un bambino
e mi dice di cambiarlo. Il dottore vuole che il bambino «sia cambiato »; è un
rebus vero e proprio quello che mi è proposto dal dottore del sogno.
Trasformarmi in quel bambino, o in un dottore o in una sala d'aspetto
incoraggia la mia fantasia a impigrirsi con le associazioni, gonfiando con ciò
l'immagine al di là dei suoi precisi limiti. Inoltre, l'identificazione con
tutti gli altri elementi elude lo sgradevole compito affidato all'Io onirico:
prendere in mano un bambino sporco di cacca e «cambiarlo». Nonostante la sua
validità nell'insegnare «cosa si prova» a essere un pannolino pieno di cacca,
a essere un dottore e a ordinare una ripulita, a essere una sala d'aspetto e
ad accogliere gli altri, oltre tutto malati, l'identificazione empatica con
tutte le figure di un sogno finisce per riconsegnare il sogno all'Io desto, il
quale, romanticamente, lo assorbirà attraverso i propri sentimenti. Questo
crea una congestione nell'Io, il quale, diventando le immagini del sogno, si
ingoia il sogno stesso, invece di lavorare sulle proprie reazioni restando
all'interno delle immagini. Sul piano terapeutico, il lavoro viene fatto
nell'interesse dell'Io desto: è psicologia dell'Io. Ancora una volta il sogno
è al servizio del mondo diurno; non per niente questo metodo è chiamato
«sogno da svegli».
Una
quarta strada, quella che seguiremo noi, prende l'avvio dall'espressione
coniata da Freud: «lavoro onirico ». Freud la usa per indicare una serie di
peculiari operazioni mentali che hanno luogo di notte: condensazione,
spostamento, regressione, arcaicizzazione, simbolizzazione, sovradeterminazione,
inversione, deformazione (IP, lezione XI; IS, cap. VI). Naturalmente, questi
termini sono tutti concetti del mondo diurno. Il fatto di guardare il sogno
usando questi concetti indica che è già avvenuta una traduzione delle attività
del mondo notturno nella lingua della luce diurna. Quello che avviene nel sogno
ha già ricevuto una descrizione peggiorativa: il lavoro onirico viene definito
regressione, spostamento, deformazione, e così via.
Peggio
ancora, alcuni seguaci di Freud, come Roheim, prendono quei concetti talmente
alla lettera da sostenere che il lavoro onirico consiste sempre ed essenzialmente
nel far regredire il sognatore e nel dislocarlo, mediante simbolizzazioni,
nella vagina materna e nelle arcaiche acque uterine del sonno fetale. Il
delicato lavoro onirico della notte è stato catturato dai concetti grossolani
e indifferenziati del mondo diurno e costretto a servire la sua monoculare
«visione di fondo». I sogni diventano deformati e condensati, esattamente come
sostiene la teoria.
Perciò,
se il nostro compito terapeutico consiste nel riaccompagnare l'Io all'altro
capo del ponte, nell'insegnare al sognatore a sognare, non possiamo usare
questi termini per parlare del lavoro onirico. Dobbiamo invertire il nostro
consueto procedimento, che traduce il sogno nella lingua dell'Io, e tradurre
invece l'Io nella lingua del sogno. Questo significa applicare una sorta di
lavoro onirico all'Io, farne una metafora, vedere in trasparenza la sua
cosiddetta «realtà». Sospenderemo dunque tutta una serie di operazioni dell'Io,
il «lavoro egoico », le modalità con cui l'Io si è accostato al sogno e ha
compiuto le proprie traduzioni. Queste modalità sono: il causalismo (vedere le
sequenze del sogno secondo nessi causali); il naturalismo (presumere che gli
eventi onirici debbano conformarsi al mondo supero della natura); il moralismo
(vedere posizioni morali nel mondo infero e considerare il sogno espressione
compensatoria di una coscienza morale capace di autoregolazione); il
personalismo (credere che la sfera dell'anima riguardi principalmente la vita
personale); il temporalismo (collegare gli eventi del sogno con il passato o
con il futuro, vuoi come ricapitolazione di ciò che è già accaduto, vuoi come
preannuncio di ciò che verrà); il volontarismo (vedere il sogno come un'azione
che richiede in risposta altre azioni: «I sogni ci dicono che cosa dobbiamo
fare»); l'umanismo (pensare che il sogno rifletta in primo luogo le faccende
umane e rappresenti un messaggio riguardante le faccende umane); il positivismo
logico (leggere il sogno come una asserzione positiva, fattuale, suscettibile
di giudizio vero-falso); il letteralismo (attribuire a un sogno o a un aspetto
di un sogno un significato univoco, dimenticando così che ciascun elemento del
sogno, compreso il «me» del sogno, è un'immagine metaforica).
Così
come l'Io vede all'opera nel sogno un insieme di fattori peggiorativi
(regressione, deformazione, spostamento), alla stessa stregua la prospettiva
del mondo infero vede all'opera nell'Io un insieme di atteggiamenti
peggiorativi (umanismo, personalismo, letteralismo). Sono questi atteggiamenti
che vanno per prima cosa sospesi, se vogliamo accostare il sogno secondo uno
stile radicalmente nuovo.
Prendiamo,
per esempio, i Tagesreste, i «residui
diurni », di cui secondo Freud sono costituite le immagini oniriche. Adesso
non li prenderemo più nel loro valore di facciata, come se rimandassero a eventi
reali di un mondo diurno letterale. Immagineremo, invece, che il sogno stia
digerendo certi avanzi del giorno, trasformandone i fatti in immagini. Più che
un commento sul giorno, il sogno è un processo digestivo, che scompone e
assimila il mondo diurno nei labirintici budelli della psiche. Il lavoro
onirico cucina gli eventi della vita trasformandoli in sostanza psichica per
mezzo di modalità immaginative: simbolizzazione, condensazione, arcaicizzazione.
Estrae materia dalla vita e la trasforma in anima, e contemporaneamente nutre
ogni notte l'anima con materiale nuovo. Un po' come nella pratica diffusa in
tutto il mondo, e specialmente nell'antico Egitto, di deporre nella tomba dei
defunti oggetti della loro vita. Insieme alla salma, veniva traslato tutto il
suo mondo. E le provviste dovevano essere immense, perché la vita psichica è un
processo senza fine, che necessita di materiali copiosi.
Il
lavoro giusto con i sogni è quello che aiuta il processo di traslazione o di
morte che ha luogo comunque nel sogno stesso. E un lavoro equivalente a quello
che già sta svolgendo il sogno. L'interpretazione, come il sognare, diventa un
morire al mondo diurno, un ruminare le sue realtà letterali fino a trasformarle
in realtà metaforiche. Più sogno mia madre e mio padre, mio fratello e mia
sorella, mio figlio e mia figlia, meno queste persone reali sono come le
percepisco nel mio ingenuo naturalismo letterale e più diventano abitatori
psichici del mondo infero. Quando appaiono nelle visioni delle mie notti e io
macino e digerisco il loro andirivieni, i famigliari diventano familiares, compagni interiori: non sono
più esattamente le persone letterali con le quali ho quotidianamente a che
fare. A poco a poco, la famiglia cessa di essere le persone reali, alle quali
devo resistere e con le quali devo competere, per diventare gli antenati
viventi, i fantasmi, le ombre, i cui caratteri scorrono nel mio sangue psichico,
dandomi sostegno con la loro presenza nei miei sogni. La casa di famiglia si
sposta da ge a chthon.
Quante
volte abbiamo sognato quelle vecchie scene famigliari! Ecco la mamma che
sgrida, gli occhi incorniciati dagli occhiali, il babbo che volge le spalle,
il fratello morto da anni che dorme ancora nel letto accanto. Perché questo
eterno ritornare alle medesime figure? Che cosa vuole la psiche? Perché ci
riporta passati amori come tormenti attuali? Una notte dopo l'altra, volti a
cui avevamo dato il bacio d'addio ritornano a chiedere ancora qualcosa. Di
solito, si pensa che tali ripetizioni e insistenze significhino che c'è un
complesso irrisolto; ma che cosa dice in realtà questa spiegazione?
Forse,
nei sogni è in corso un lavoro, una prolungata cottura di residui coriacei che
scioglie la carne fin troppo soda delle persone ricordate, riducendole ai loro
simulacra, a un'ombra di se stesse, affinché possano andarsene, liberate dal
nostro attaccamento, e noi si possa vivere in loro presenza non più oppressi
dalla loro vita. Queste figure sono qualcosa di più che complessi irrisolti;
sono anche sostanze emotive sottoposte al processo del fare anima.
l'io
onirico: il livello soggettivo
Queste
riflessioni Ci riportano alle persone che compaiono nei sogni (si veda il terzo
capitolo). Dobbiamo riesaminare la nozione junghiana di interpretazione al livello
soggettivo e le sue successive applicazioni terapeutiche, specialmente nella
terapia gestaltica.
In
generale, sia Freud sia Jung considerano tutte le figure e i paesaggi dei sogni
alla stregua di possibilità psichiche interiori. Gli eventi onirici attengono
al profondo di ciascuno; e questo è il punto di partenza di tutte le psicologie
del profondo, un campo che è stato aperto dal grande libro di Freud sui sogni.
Dice Freud (IS, p. 297): « ... ogni sogno riguarda la persona che sogna». Jung
ipotizzò due livelli di interpretazione; ne abbiamo già parlato, ma vale la
pena di ricordare che per Jung «oggettivo» e «soggettivo» sono livelli di
interpretazione, non livelli del sogno: il sogno in sé è sempre e soltanto
soggettivo. Le figure che passeggiano nei miei sogni non sono degli altri
reali, e nemmeno aspetti della loro anima rispecchiati in me (loro icone o simulacra), bensì la psiche profonda,
soggettiva, in vesti personizzate: i sogni rappresentano «me», soggetto alla
«mia» soggettività; e io sono soltanto un soggetto tra molti. Durante il
sonno, sono completamente immerso nel sogno; soltanto al risveglio capovolgo
questo dato di fatto e credo che il sogno sia in me. Di notte è il sogno che mi
fa, ma la mattina dico: ho fatto un sogno. Un'interpretazione a un livello autenticamente
soggettivo dovrà mantenermi soggetto al sogno.
Questo
sembrerebbe l'intento della psicologia gestaltica con la tecnica della
identificazione nei ruoli. Sì, è vero, essa dice, tu sei solo uno tra i molti
soggetti del sogno, dunque assoggettati a loro; lascia che entrino in te;
diventa quegli altri; identificati. Ma esaminiamo questo metodo più da vicino.
La
tecnica dell'identificazione nei ruoli significa fusione con l'immagine,
imitazione dell'immagine e dunque perdita dell'immagine. L'immagine non è più
distinta da me; io e l'immagine ci siamo uniti nel sentimento, ci siamo
amalgamati nella medesima Gestalt, come nell'esempio riportato più sopra (pp.
118-19).
Ma
poi, quando prendo un'immagine onirica intendendola come se fosse una
potenzialità psichica (mio fratello maggiore come la mia capacità di assumermi
i problemi, p. 79) ed entro in questa immagine e la fondo con i miei
sentimenti, faccio ben più che recitare un ruolo. Compio una operazione di riduzione:
riduco l'eidolon, in cui è presente
qualcosa di archetipico, a un tratto che può diventare parte della mia
totalità. Si ha una «crescita», certo; ma a crescere è l'Io, la cui personalità
si amplia a spese delle persone oniriche che esso è diventato.
In
questo modo sottile, il lavoro gestaltico sul sogno, mutuato
dall'interpretazione al livello soggettivo di Jung, riesce a espandere la mia
persona fino a farle assorbire le persone del sogno e alla fine anche gli Dei,
in esse presenti. La psicologia gestaltica è una psicologia umanista, cioè a
dire, fornisce una tecnica psicologica con la quale l'umanismo può spazzare via
l'ultima traccia dell'antico nemico, può scacciare gli Dei dal loro ultimo
rifugio nell'anima. Da Protagora in poi, l'umanismo in tutte le sue modalità
ha sempre cercato di mantenere al centro l'uomo come misura di tutte le cose.
Ora, con la «interpretazione soggettiva» o «tecnica gestaltica», anche la prima
e più immediata esperienza del mitico, gli eventi dei sogni, può essere immessa
nell'essere umano, come tratti e parti della sua natura. Insomma, questo
metodo interpretativo diventa l'ennesima moderna maniera di inflazionare l'Io.
Le idee di totalità e di crescita creativa sono il camuffamento della vecchia hybris eroica, e la via dell'integrazione
è il vecchio viaggio dell'eroe, in cui egli incontra tutti i mostri della
natura, i quali sono anche forme divine dell'immaginazione. Via via che l'eroe
procede da una figura all'altra, da una stazione all'altra, i mostri divini
scompaiono. E dove sono andati, una volta sopraffatti e integrati, se non
nella sua personalità, con ciò divinizzando l'uomo, facendo dell'uomo stesso
un mostro gigantesco, l'apoteosi della mostruosità?
Come
ricorderete, nella sezione «Le persone del sogno », nel terzo capitolo, dopo
avere citato due passi di Jung e di Dodds, ho commentato: «Nei sogni, nelle
sembianze degli amici incontrati ieri sera, ci vengono a visitare daimones, ninfe, eroi e Dei»; Come
possiamo ora formulare con maggiore precisione la relazione tra le persone
archetipiche (1), che si presentano (2) attraverso le figure dei miei amici, e
i miei tratti e le mie potenzialità personali (3)? Intendere gli amici
solamente al livello soggettivo, come potenzialità personali, provoca la perdita
del mondo infero. Ma allora, perché le ombre e gli Dei non si presentano nelle
loro sembianze? Perché si prendono la briga di incarnarsi nei miei famigliari
e amici o in questo o quello sconosciuto? Evidentemente queste persone
oniriche sono per qualche ragione necessarie.
Sono
necessarie per il lavoro del fare anima. Sono necessarie per vedere in
trasparenza, per deletteralizzare. Senza gli amici di ieri sera, il sogno
sarebbe una comunicazione diretta con gli spiriti in una visione numinosa. Ma
un sogno non è una visione, e la psiche non è lo spirito. Il sogno fa entrare
la valle del mondo, fa entrare quelle banalità, trivialità e meravigliose
complessità che sono i miei amici perché esse sono necessarie al lavoro che il
sogno svolge nell'anima. I miei amici sono figure di quel regno intermedio
che un tempo era chiamato metaxy.
Essi non sono né soltanto umani né soltanto divini, né soggettivi né oggettivi,
né personali né archetipici: sono l'una cosa e l'altra. Le persone con le
quali sono uscito a pranzo ieri sera e che ritornano nel mio sogno incarnano,
contemporaneamente, caratteristiche e azioni mie e caratteristiche e azioni
divine. (Del «livello oggettivo» delle loro caratteristiche e azioni, dei miei
commensali in carne e ossa, si è già trattato più sopra, quando si è detto che
non è di loro che stiamo sognando e che loro non sono nel nostro sogno).
Poiché
i miei amici incarnano contemporaneamente tratti miei e tratti divini, essi non
sono risolvibili mediante un'interpretazione unilaterale, mediante una
riduzione personalistica alla mia persona o una conversione archetipica (epistrophe) in spiriti, senza che con
ciò vada perduto il mondo intermedio dell'anima. Sicché, alla fin fine,
sembrerebbe che la modalità di connessione psicologica con daimones, ninfe, eroi e Dei passi bensì
per l'interpretazione al «livello soggettivo », ma solo a condizione di
ampliare quel «soggettivo» fino a dargli il significato di «impersonale »,
fino a includervi persone che non sono mie, come del resto non sono miei i miei
amici.
Nella
psicologia del profondo, il gesto soggettivante è un movimento fondamentale.
Viene di solito definito «ritiro delle proiezioni », Sicché, naturalmente, lo
applichiamo anche ai sogni. E cioè: portando all'interno i miei commensali e
cercando i tratti che hanno in comune con me e i sentimenti che evocano (lei è
troppo passiva, lui velenoso, l'altro un ascoltatore perfetto), io li accolgo
in me. Vedo me stesso rispecchiato in loro e loro rispecchiati in me; rifletto
sulle ombre che abbiamo in comune. E questo è un procedimento del mondo infero.
Accoglierli non è però integrarli nel, mio soggetto personale e in tal modo
liquidarli. E a questo punto, anzi, che da «Lei che è troppo passiva», da «Lui
che è velenoso », da «L'altro che è un ascoltatore perfetto» incomincia a
emergere un senso archetipico. Nella figura, singola, del mio amico vivono sia
le mie personali, soggettive caratteristiche e potenzialità, sia le personae archetipiche, che sono poi le
potenzialità più profonde presenti in ciascuna delle nostre soggettività. E
queste personae ci conducono fuori
dal soggettivo come è comunemente inteso .
Rimane
un'ultima considerazione, riguardo allivello soggettivo, che secondo me ne fa
crollare l'intera struttura. Fintanto che le persone del sogno rimangono
componenti personali del sognatore, per liberare il sogno dalla soggettività
personale dobbiamo amplificarle con paralleli mitologici. Il metodo junghiano
dell'amplificazione, che deliberatamente eleva a proporzioni mitiche le
immagini oniriche, è una conseguenza necessaria del metodo junghiano
dell'interpretazione al livello soggettivo. Ebbene, qui sta l'inciampo: come lo
amplifichiamo il tizio che ruba la scena a tutti? Supponiamo di scoprire che
compie tutte le azioni tipiche dei personaggi delle fiabe e dei miti; insomma,
ne abbiamo amplificato a dimensioni archetipiche comportamento e attributi, ma
lui, il protagonista, chi è? Non è forse vero che identifichiamo l'Io onirico
con il sognatore? L'Io onirico è lo scoglio che manda a picco il livello
soggettivo.
Quando
un'interpretazione parla del sognatore facendo riferimento a ciò che l'Io fa
nel sogno, o parla del comportamento dell'Io onirico facendo riferimento alla
vita del sognatore, l'Io che agisce nel sogno è trattato a livello oggettivo,
come se fosse la persona della vita quotidiana. Io sognatore sono ritenuto
responsabile delle azioni dell'«io» protagonista del sogno. Scompare la
distinzione tra il sognatore, che vive nel mondo diurno, e il suo sogno, che
avviene nel mondo notturno. In questo, appunto, sta l'incoerenza di quasi
tutti i metodi di interpretazione dei sogni: tutte le figure sono intese al livello
soggettivo, tranne l'Io, che rimane al livello oggettivo. Benché l'interprete
possa riconoscere che la mia automobile, nel mio sogno, non è la mia automobile
reale, bensì l'immagine della mia «impulsività meccanica», e che mia sorella
non è la mia vera sorella, bensì il modo in cui la sua immagine tocca la mia
anima, ciò nonostante 1'«io» protagonista del sogno rimane I'io che sta seduto
sulla sedia del paziente nello studio dell'analista. Quell'«io» rimane
letterale e intatto, senza mai veramente risolversi nella propria immagine.
Perciò,
per arrivare alla piena soggettività, chi lavora sui sogni deve arrivare
all'ultima sacca di oggettività, l'Io onirico, con i suoi comportamenti e i
suoi sentimenti, che vanno mantenuti dentro l'immagine. Si tratta di
assoggettare l'Io al sogno, di dissolverlo nel sogno, mostrando come tutto quello
che esso fa, prova e dice rifletta il suo essere situato nell'immagine,
mostrando cioè che questo Io è totalmente immaginale. E non è un compito da
poco, perché l'Io è archetipicamente un fenomeno del mondo supero e rimane
saldo nelle sue posture eroiche finché, imparando a sognare, non diventa un Io
immaginale.
L'Io
immaginale si trova a proprio agio nell'oscurità e si muove tra le immagini
come una di loro. Spesso si ha un accenno di questo lo nei sogni in cui ci
sentiamo assolutamente tranquilli in mezzo ad assurdità e orrori che
spaventerebbero a morte la coscienza desta. L'Io immaginale si rende conto che
le immagini non gli appartengono e che perfino il corpo, il sentimento,
l'azione dell'Io, nei sogni, appartengono all'immagine onirica. Dunque la
prima mossa da fare per insegnare all'Io a sognare consiste nell'erudirlo su
di sé, nell'insegnargli che lui pure è un'immagine.
L'Io
immaginale si costruisce, poi, sgombrando il terreno su cui poggiava,
eliminando gli atteggiamenti cui accennavamo (moralismo, personalismo,
naturalismo, letteralismo), che derivano dalla prospettiva corporea. Il
vecchio Io eroico perde l'imbottitura e torna a essere un'ombra
bidimensionale. A quel punto sarà in grado di riflettere metaforicamente le
proprie imprese. E di capire che l'Io, nel sogno, è anche una figura totalmente
soggettiva, un'ombra, svuotata ora dell'io che è a letto e dorme. Il
comportamento egoico, nel sogno, riflette la configurazione dell'immagine e le
relazioni interne all'immagine, piuttosto che le configurazioni e le relazioni
del mondo diurno.
È
vero, l'Io onirico e l'Io desto hanno uno speciale rapporto gemellare: sono
l'uno l'ombra dell'altro, come Ade è il fratello di Zeus. Ma l'«io» protagonista
del sogno non è affatto il segreto regista (Schopenhauer), autore del dramma in
cui recita, non è affatto il fotografo autoritrattista che si fotografa da
sotto, così come non sono i desideri dell'Io i bisogni che vengono appagati in
un sogno. Il sogno non è «mio», è della psiche, e l'Io onirico si limita a
recitare uno dei ruoli del dramma, ed è soggetto a quello che vogliono gli
«altri», soggetto alle necessità messe in scena dal sogno.
Il
fatto che il sogno sia simile a uno spettacolo di ombre cinesi, a un masque, segnala un ulteriore nesso con
il mondo infero. Una delle più antiche visualizzazioni della morte era quella
del danzatore mascherato. Di nuovo, ciò che è difficile da capire è che tutte
le persone del sogno, me compreso, possono essere considerate alla stregua di
maschere intente a recitare il ruolo della morte. L'aspetto dionisiaco di Ade
rende effettivamente il sogno affine al teatro, come aveva notato Jung. A
volte, il sogno esprime questo fatto in modo esplicito: siamo spettatori e attori
di un film, di un' opera lirica, di un corteo in costume, di un romanzo
storico, con la sua atmosfera teatrale. Nel dramma dei nostri sogni, tutti noi,
anche se facciamo parte del pubblico, siamo sulla scena, attori tutti quanti,
tutti quanti persone oniriche, con indosso la maschera adatta al personaggio
che dobbiamo impersonare, conforme al modo in cui dobbiamo recitare.
Questa
è un'idea difficile da afferrare. C'è un qualcosa che, perfino nel sogno, si
tiene aggrappato all'« io» del mondo supero: d'accordo, gli altri non sono le
stesse persone che nella vita, ma io ... io sono io! Sarei forse una maschera
incarnante un nume archetipico, quando, in un sogno, me la prendo con il
benzinaio che fa traboccare il mio serbatoio, mentre porto i vestiti a lavare
a secco? E comunque, quello che ha avuto l'orgasmo, durante un sogno erotico,
sono io, lo stesso io che si sveglia nel letto bagnato. Ma se vogliamo seguire
Jung (p. 80) fino a «ben altre profondità che non quelle intuite dal cosiddetto
senso comune», allora perché fare eccezioni quanto al tipo di sogno o di
personaggio del sogno? Siamo obbligati a dichiarare che tutti i sogni
provengono dal mondo infero e che tutti i loro personaggi sono ombre. Dobbiamo
anche cercare il numen presente
nell'Io onirico. AlI'«io» che si sveglia e ricorda rimangono tracce di ogni
sorta, non solo le polluzioni notturne, del dramma in cui ha recitato e del
ruolo che ha impersonato, sennonché l' «io» che ricorda prosegue la sua
esistenza in un luogo diverso, forse addirittura in una persona diversa. Così
come libera le ombre di mio fratello e di mio padre dalle loro incarnazioni
terrene, allo stesso modo il sogno scioglie l'Io onirico dalla necessità di
incarnare l'Io desto e di agire in suo nome. Nei sogni, tutte le persone, me
compreso, sono morte alla propria vita, sono ombre di quello che sono altrove.
Perfino i loro orgasmi appartengono alla terra dei morti.
In
queste pagine cerchiamo, al modo nostro e per mezzo del sogno, di ripristinare
un'idea dell'anima tuttora diffusa presso i popoli cosiddetti primitivi
(chiamati anche pretecnologici, animistici o del quarto mondo, e così via. Ma
si potrebbe anche dire che sono scampati alle dottrine dell'anima, della
persona e dell'Io legate alla psicologia monistica della cultura degli
invasori).
Secondo
una scuola scandinava di ricerche etnologiche sull'anima (Arbman, Paulson,
Hultkrantz), in tutto il mondo è diffusa l'esperienza di due tipi di anima,
esperienza che non solo è documentata in culture evolute come quelle della
Grecia omerica, dell'antico Egitto (Ka e Ba), della Cina (hun e p'o), ma è viva
ancora in questo secolo presso popolazioni che si estendono da un capo
all'altro dell'Asia continentale, dalla Lapponia, sulle coste dell'Atlantico,
alla Siberia, di fronte all'Alaska, nonché presso gli indiani d'America."
Esperienze analoghe sono state riscontrate da Ankermann presso popolazioni
africane.
Questo
«pluralismo duale» dell'anima, come lo definisce Paulson, riguarda da un lato
la anima-vita, che è plurale, in
quanto variamente associata con parti del corpo ed emozioni, ed è perciò detta
anche « anima-corpo », « anima-respiro» e « animaio »; dall'altro si
riferisce alla anima-libera o anima-psiche (il termine è di Arbman),
che si manifesta come «anima-ombra», «anima-spirito», «anima-morte »,
«anima-immagine» (Ankermann) e «anima-sogno »; Come scrive Arbman,
«l'anima-corpo (o le anime-corpo) e l'anima-psiche sono indipendenti l'una
dall'altra, hanno natura e origine diverse, nonché compiti e sfere d'azione
diversi ». L'anima-psiche, scrive Paulson, «compare solo fuori dal corpo» e,
essendo limitata a questa forma di esistenza, «non entra in gioco negli stati
in cui l'individuo è desto, cosciente e attivo ». Negli stati di veglia, l'anima-psiche
è completamente passiva e non rappresenta la personalità, come invece fa durante
i sogni, le visioni e le trance sciamaniche. Le relazioni dell'anima-psiche, o
anima-libera, con la morte di un individuo e con i morti, con le sue malattie e
il trattamento di queste, con le ombre e gli spiriti, con il nome e l'effigie
di una persona: tutti questi aspetti ne fanno un concetto estremamente
pertinente e preciso per quelle che qui abbiamo chiamato le persone del sogno
e in particolare per l'Io onirico .
L'idea
di «Io onirico » e «Io immaginale» che siamo venuti elaborando in queste pagine
rimanda all'anima-psiche dell'esperienza primitiva. L'altra prospettiva, la
coscienza desta del mondo diurno, corrisponde invece a ciò che questa scuola
di etnologia chiama anima-vita, anima-corpo, anima-Io. Il trattino tra i due
termini di ciascuna coppia serve a ricordarci che anche l'Io è un 'anima. Come
sarebbe diversa la psicologia, se l'Io fosse sempre unito da un trattino con
l'anima! L'anima-Io, intesa come anima-corpo, può essere senza difficoltà
messa in rapporto con la muscolare nozione freudiana di Io e con la mia
frequente metafora dell'eroe e di Eracle. Anche la mia contrapposizione, che
vedremo più avanti in questo capitolo, tra la prospettiva corporea di Eracle e
quella di Narciso, ispirata all'immagine e alla morte, può essere messa a
confronto con le prove portate dall'etnologia.
Ma
soltanto messa a confronto! Non vorrei che la ricerca etnologica fosse presa
come la convalida universale della mia tesi. E una via per la quale la
psicologia del profondo è già passata: già due volte il tentativo di
accreditare con la prova dell'universalità una metafora fondante ci ha portati
fuori strada. I freudiani hanno usato l'etnologia per dimostrare
l'universalità del loro complesso di Edipo, e gli junghiani per dimostrare
l'universalità del motivo della quaternità espresso nel mandala. Noi possiamo
evitare di percorrere questa strada, nonostante la sicurezza che dà: quale
anima-vita, dopo tutto, non tirerebbe un bel sospiro di sollievo nel sentirsi
sostenuta dalle solide prove positive raccolte da seri ricercatori indipendenti
in remoti angoli del mondo, dove i bravi indigeni non avevano mai sentito una
parola di psicologia moderna (a parte i discorsi di quegli strani tipi della
missione scientifica)? No, noi dobbiamo restare dentro i confini della psicologia
del profondo. È l'anima l'unico fondamento del nostro campo. Quelle importanti
prove etnologiche, benché riguardino tutte l'anima, sono presentate nel
linguaggio positivo, oggettivo della coscienza diurna e quindi non possono costituire
la base di una psicologia del mondo infero. Noi dobbiamo rimanere fedeli
all'anima-sogno e guardare le cose alla sua maniera. Allora potremo usare le
ricerche, non già letteralmente, come supporto empirico, ma come similitudine,
come analogia, come un'altra maniera per dire quello che stiamo dicendo, come
un racconto di grande utilità.
Anche
la mia teoria del sogno, con il suo fondamento nei mitologemi del mondo
infero, «non è altro» che un utile racconto, ma con un qualcosa in più, che fa
la differenza. Le immagini mitiche non costituiscono la solida prova di
alcunché di positivo; non possono addossarsi strutture sistematiche: non
restano ferme abbastanza a lungo e sono troppo ambigue; insomma, quand'anche il
loro contenuto mostrasse esseri celesti in un empireo solare, sono fenomeni
appartenenti in tutto e per tutto al mondo notturno. Ed essendo fenomeni del
mondo notturno, offrono profondità e retro terra, una dimensione psichica che
svuota, anziché confermarla, qualsiasi asserzione positiva. Il sostegno che
possono eventualmente offrire a una realtà positiva consiste nel fornirle il
suo retroterra nella fantasia.
Va
osservato, a questo proposito, che la teoria delle due anime e la nostra
descrizione non coincidono del tutto. La teoria delle due anime sembra
tracciare una rigida linea di demarcazione tra la psiche e la vita, e anch'io
in molte occasioni ho fatto lo stesso. Può darsi, tuttavia, che una convergenza
sia possibile e che abbia luogo, appunto, nel sogno, perché nel sogno il mondo
diurno sembra essere sottoposto a un processo che porta gli eventi fuori dalla
vita e educa il sognatore alla morte. Questo non è definire il sogno un ponte;
è dire, piuttosto, che esiste un'operazione, che chiamiamo sognare, la quale
rende l'Io eroico un corpo più sottile, dandogli la possibilità di diventare
un'anima-libera. Visto da una prospettiva, è come se l'atto di sognare liberasse
l'anima-psiche, o anima-libera, dalla sua erronea convinzione di appartenere
alla vita. Da un altro punto di osservazione, è come se sognare contribuisse a
spingere l'anima-Io, o anima-corpo, in una dimensione più profonda, più
psichica. Comunque vogliamo formulare questo processo, il sogno è il luogo
più prossimo e abituale in cui possiamo esperire il gioco sottile tra tipi
diversi di anima.
Anche
le situazioni in cui ci si deve presentare davanti a un pubblico, forse perché
ci immettono nel mondo infero del teatro, costellano il curioso gioco reciproco
tra anima-vita e anima-immagine. L'esperienza del trac da palcoscenico, così vicina alla spersonalizzazione, ci fa
sentire come se l'anima ci avesse abbandonato. Tutto quello che si è
memorizzato e imparato di colpo è svanito. E come se fosse un altro, un'altra
anima, a dover interpretare la parte, e il momento di salire sul palco è una
sorta di rite de passage, una
transizione nella morte.
Poiché
l'Io diurno fa riferimento al livello oggettivo, il suo fantasma, l'Io
onirico, si trova generalmente spaesato nel mondo infero; continua a reagire
con gli atteggiamenti appresi nel mondo di sopra. Nei sogni, fuggiamo se
qualcuno ci insegue, cerchiamo di non farci imbrogliare, maltrattiamo gli
animali, corriamo verso la luce, temiamo le situazioni grottesche, siamo
sospettosi verso ciò che è strano; troviamo sempre nuove «ragioni» per
abbandonare le ombre. (Per «ombra», non intendo qui le confrontazioni morali a
cui si riferisce Jung con questo termine; intendo le altre figure importanti
del sogno, che l'Io onirico fraintende e a cui resiste, e che potrebbero essere
suoi mercuriali maestri).
Di
solito occorre una lunga pratica di analisi dei sogni, prima che l'Io onirico
cominci a comportarsi come un familiaris
del mondo infero e a seguire le sue leggi, che sono diverse da quelle del mondo
supero. Nei sogni, niente può essere preso secondo le leggi della natura,
niente può essere ricondotto a lassù: non c'è ritorno al sopra. Dai sogni non
si possono trarre previsioni fauste o infauste, perché nel mondo infero, dove
ogni sogno è comunque un desiderio che si autoappaga, la speranza è una categoria
estranea, non pertinente. Niente può essere interpretato in senso
compensatorio, perché la compensazione non fa che riflettere il sogno nello
specchio del mondo diurno, come se il mondo onirico non avesse un'intenzionalità
propria e fosse invece legato a doppio filo a un mondo diurno, nell'interesse
dell'idea che il mondo diurno ha di equilibrio.
Il
ruolo dell'interprete dei sogni consiste nell'aiutare l'ombra-Io a adattarsi
al suo ambiente infero. L'interprete è una guida, come Virgilio, o un Tiresia,
o un Caronte; non è un Eracle né un Orfeo. La sua opera è al servizio di Ermes
ctonio o di Ermes psicopompo, in conformità con la direzione a senso unico
verso il basso. Ermes accompagna le anime agli inferi; l'eroe, alle spalle
dell'Io, cerca di riportarle indietro.
Di
conseguenza, il movimento che dall'interpretazione soggettiva riconduce al
mondo diurno, in risposta a domande come: «Che senso ha questo nella mia vita
quotidiana? », «Cosa devo fare? », «Come influisce questo sui miei rapporti con
le persone le cui immagini sono apparse nel mio sogno?», cioè la lettura del
sogno in cerca di informazioni sul mondo diurno, equivale ad avvicinare il
sogno attraverso il mito dell'eroe e non attraverso la prospettiva del mondo
infero. Anche l'approccio divinatorio all'interpretazione, che legge i sogni
come se contenessero «messaggi del Sé inconscio», ricchi del suo sapere
eterno, in ultima analisi riconduce il sogno all'Io diurno. A chi è rivolto
infatti il messaggio, chi vuole conoscerlo, chi lo metterà in pratica, se non
il solito vecchio Io? In breve, un sogno ci dice dove siamo, non che cosa fare;
ovvero, situandoci nel luogo in cui siamo, ci dice che cosa stiamo facendo.
Se
solo tenessimo sempre presente l'affinità del sonno con la morte, forse
smetteremmo di voler richiamare alla vita e applicare nella vita ogni sogno.
Un aspetto essenziale delle tradizioni antiche, comprese quelle cosiddette
primitive, è l'idea che durante il sonno l'anima si separi dal corpo e si
metta a «vagare». Questo «vagare» dell'anima significa che la sua logica non
procede linearmente, per passi successivi, e che la sua attenzione non si
fissa sugli scopi del giorno. Plotino (Enn.,
II, 2, 2) associava al corpo (all'anima-corpo), non alla psiche (all' anima-psiche),
la modalità del moto rettilineo e mirato. Durante il sonno, l'anima si muove in
maniera diversa, un po' secondo lo stile della phantasia, che nel pensiero greco era spesso associata al «di-vagare
»; ovvero, secondo Platone nel Timeo, «vagare» potrebbe significare essere
mossi da urgenze dell'anima non soggette alla ragione. Non stupisce che i
sogni siano sempre stati considerati misteri o addirittura follia.
La
credenza secondo la quale durante il sonno l'anima vola lontano dal corpo è un
altro modo di affermare che i sogni abbandonano la prospettiva letteralistica
e naturalistica dell'anima-corpo. Se questo è vero, allora cercare di afferrare
i sogni con tecniche proprie del corpo e applicare le immagini oniriche direttamente
alla relazione tra corpi significa ignorare le loro di-vagazioni. Le terapie
che aggrediscono i sogni secondo il linguaggio del corpo, facendo riferimento
all'Io corporeo e alla vita fisica, vogliono immettere a forza l'anima-libera
in prospettive che il sonno invece le consente di abbandonare. L'elemento
chiave, qui, è la non-direzione: se durante il sonno l'anima, lasciato il
corpo, si mette a vagare, allora il nostro modo di far tornare l'anima alla
vita concreta deve seguire il medesimo percorso ondivago, un girovagare
indiretto, un disorientamento riflessivo, un metodo che non traduce mai la
follia ma dialoga con essa nella sua lingua, la lingua del sogno.
L'anima-Ba
«gode di illimitata libertà di movimento ». Deve avere potestà sulle proprie
gambe e piedi e agire con le proprie braccia e mani: così era dipinta l'anima
infera durante il Nuovo Regno. L'anima si regge sui propri piedi, possiede arti
propri e maneggia le cose a modo proprio: l'anima si muove per mezzo del suo
corpo-anima. La follia inizia quando pretendiamo di immettere le sue gambe
nelle nostre e di applicare direttamente ai nostri compiti diurni le sue mani.
Giustamente questo si chiama acting out, agire l'interno all'esterno. La perdita
dei movimenti sottili del corpo-Ba nel grossolano corpo muscolare è una follia
erculea.
l'io
onirico: eracle nella casa di ade
Per
comprendere il lato di sotto delle cose, Eracle è dovuto letteralmente
impazzire, forse perché la sua discesa all'Ade era stata un disastro. Nelle immagini
di Eracle nella Casa di Ade (Euripide, Alcesti,
846-54; Omero, Iliade, V, 397-400 e Odissea, XI, 601- 26; Apollodoro, II, 5,
12) - con quell'aggressività quando sguaina la spada, tende l'arco, ferisce Ade
alla spalla, sgozza armenti, spezza le costole al mandriano, strozza e
incatena Cerbero - è rappresentato il paradigma immaginale dell'istinto di
vita, come lo ha definito Freud, dentro il regno dell'istinto di morte (rs, p.
520). Precisamente da tale fusione, secondo Freud, ha origine l'aggressività
(APP, pp. 235- 36; opere, X, p. 10). Anziché morire metaforicamente,
ammazziamo letteralmente; negando la necessità di morire, attacchiamo la morte
stessa. La nostra civiltà, con i suoi monumenti agli eroi, i suoi tributi
alla vittoria sulla morte, nobilita l'Io erculeo, il quale non sa come ci si
deve comportare nel mondo infero.
Eracle
si distingue dagli altri eroi, i quali, come scrive Kerényi, « erano
tragicamente connessi con la morte ». L' « Io eroico», nel senso in cui uso il
termine in questo libro, andrebbe più propriamente differenziato come «Io erculeo»,
perché solo Eracle, tra tutti gli eroi, è nemico della morte. Il mio uso del
termine, tuttavia, ha una sua giustificazione, perché l'eroe di allora, in un
mondo di Dei viventi, e l'eroico di oggi sono due cose molto diverse, benché
il secondo discenda dal primo. Mentre nell'antichità l'eroe era metà uomo e
metà dio, quando gli Dei sono morti, egli diventa fin troppo umano: la porzione
divina è assunta completamente in quella umana, e il risultato è la figura
fondante dell'umanismo, con il suo culto dell'uomo.
Allora
l'eroe era in realtà una figura del mondo intero, noto soltanto nel suo tumulus, che segnalava la sua tomba e
che lo legava a un luogo preciso, sicché il culto dell'eroe era una reminiscenza
di lotte immaginative, un modo, basato sulla memoria, di essere fondati,
situati e accompagnati nelle vicissitudini della vita. Il termine stesso, heros, eroe, è considerato « ctonio» da
taluni studiosi, in quanto denotante una potenza del mondo sotterraneo, da cui
« l'uso comune del termine, nel greco tardo, per indicare un defunto» . La
cerimonia sacrificale in onore dell' eroe aveva un carattere malinconico e
differiva nei particolari dalla thysia riservata agli Dei maggiori, mentre
aveva in comune con i riti in onore dei morti il basso altare di pietra per i
sacrifici, la liturgia e il canale di scolo per far defluire il sangue sotto
terra, sopra il quale veniva tenuta la vittima, a testa in giù.
Oggi,
distaccato da questo retroterra psichico, l'eroico diventa lo psicopatico:
un'esaltazione dell'azione per l'azione. Il locus del suo culto non è il tumulo
sopra il quale è fondata la città con le sue istituzioni, ma il corpo stesso
dell'uomo, l'Io umanista. Quand'anche questo Io sia nobilitato dalla missione
di eroe solare o eroe culturale sul piano elevato delle buone opere, se manca
l'altra metà dell'eroe (gli Dei e la morte) e se manca quella scia psichica che
àncora ciascuno al suo profondo, come la forma ctonia di serpente che gli eroi
avevano in passato, «le leggende degli eroi diventano cronache di uomini
bellicosi». In Macedonia, Eracle stesso era chiamato aretos, «il Bellicoso»." Precisamente qui sta la causa della
mia foga e la ragione del mio attacco contro l'Io eroico. L'eroe archetipico
continua a esistere, perché gli Dei di cui è per metà composto non muoiono.
Tutti gli Dei sono all'interno, come ha detto Zimmer e come ha scoperto Jung
studiando i complessi dei suoi pazienti. L'eroe esiste ancora nel suo tumulo
sepolcrale, che oggi è l'umano complesso dell'Io. Questo è il locus immutabile in cui lo veneriamo e
da cui deriva la forza dell'Io. La psicologia dell'Io è la forma contemporanea
del culto dell'eroe. Alla fine Eracle è divorato dal fuoco. Le leggende
dell'Io, che oggi chiamiamo psicologia, non si stanno forse trasformando in
cronache di uomini bellicosi? La psicologia dell'Io non ci trascinerà nella
guerra e nel fuoco?
La
mitologia lascia aperto il problema se Eracle fosse mai stato iniziato ai
grandi misteri eleusini, il che avrebbe comportato una modificazione della
coscienza, dalla vita del mondo diurno alla morte del mondo notturno. Questa
iniziazione ha rappresentato un problema così importante nel mito di Eracle,
perché gli altri eroi non erano nemici della morte. A giudicare dal suo
comportamento nel mondo infero, tuttavia, si direbbe che l'iniziazione, se mai
era avvenuta, non sortì alcun effetto. Per noi, questo significa che il nostro
Io eroico non è stato iniziato e che la nostra discesa nel sogno, ogni notte,
è una forma di iniziazione. Questo comporta un capovolgimento radicale della
teoria: il sogno non è una compensazione ma un'iniziazione. Non completa la
coscienza egoica, ma la svuota.
Perciò
è molto importante il modo in cui compiamo la discesa. Odisseo ed Enea, come
abbiamo osservato sopra, la compiono per imparare dal mondo infero, e questo
opera una re-visione della loro vita nel mondo supero. Eracle, invece, ci va
per portare via e persiste nelle muscolari reazioni del mondo supero, vuole
verificare la realtà di ciascun fantasma, come quando, alla vista della
Gorgone, sguaina la spada ed Ermes gli deve spiegare che è un'immagine. Le
ombre stesse erano fuggite al suo arrivo, dileguandosi come i sogni dalla
mente diurna. Dice Freud (SMTS, p. 100): «Porremo l'esame di realtà tra le
grandi istituzioni dell'Io », e spiega in che cosa consiste questa verifica
come se avesse appena finito di leggere la storia di Eracle nell'Ade (ibid., p.
99): «Una percezione che è fatta scomparire mediante l'attività motoria è
riconosciuta come percezione esterna, come una realtà; ove tale attività non
incida su di essa, ciò significa che la percezione ha avuto origine all'interno
del soggetto ... non è reale »; Nel medesimo capoverso apprendiamo che il procedimento
di verifica per distinguere tra esterno, reale, e soggettivo, non reale, passa
per le «azioni dei muscoli», Una coscienza che operi secondo questa modalità
definisce realtà soltanto ciò che reagisce alla potenza muscolare;
l'immaginazione soggettiva semplicemente non è reale. Ma poiché esiste comunque
ed è pure fastidiosa, l'individuo, dice Freud, deve «proiettare, cioè
trasferire all'esterno, tutto ciò che dall'interno gli causa fastidio».
In
un altro passo, Freud propone una nuova versione di Eracle nel linguaggio
della psicologia, dicendo (Opere, VIII, p. 15): «Immaginiamo di trovarci
nella situazione di un organismo vivente quasi del tutto inerme, ancora privo
di un orientamento nel mondo e sottoposto alla pressione di stimoli ... [Eracle
nel mondo infero]. Un tale organismo [Eracle] sarà presto in condizioni di
compiere una prima discriminazione e di trovare un primo orientamento. Da un
lato individuerà taluni stimoli che possono essere evitati grazie all'azione
dei muscoli: questi li ascriverà a un mondo esterno; dall'altro avvertirà
anche stimoli nei confronti dei quali una tale azione è vana [la testa della
Gorgone] e la cui pressione non è da essa in alcun modo alleviata: questi
stimoli sono indizi di un mondo interiore ... l'organismo vivente [Eracle] avrà
in tal modo scoperto nell'efficacia della propria attività muscolare un
criterio per discriminare tra un "fuori" e un "dentro"».
«È
conveniente agire e parlare come uomini dormienti» ha detto Eraclito (fr. 73/A
96). Ebbene, forse nella vita notturna è sconveniente agire e parlare come
uomini desti. La distinzione va mantenuta, ma Eracle non sa vedere la
differenza, perché sembra incapace di immaginare (ha già ucciso le belve
immaginarie, le forze animali dell'immaginazione; ha spazzato via lo sterco
dalla casa degli animali, dove l'immaginazione prolifera nella putrefazione) .
Nel
mondo infero il cattivo è l'Io eroico, non Ade. E l'Io a provocare il danno,
come aveva avuto modo di commentare, molto tempo fa, il romantico Steffens: «E
la coscienza vigile attiva nel sogno a ridurre e contrastare il vero sogno
interiore, la profonda riflessione dell'anima sulla ricchezza nascosta della
sua intima esistenza; allo stesso modo, il sogno turba la coscienza vigile
durante il giorno».
Possiamo
scoprire l'eroe che è in noi quando, in un sogno, l'Io si comporta
aggressivamente nei confronti di ciò che trova sospetto, poco familiare o autonomo
(gli animali). Anche l'intensificarsi dell'attività ce lo può rivelare:
correre, cambiare scena, passare al compito successivo, muoversi velocemente
nello spazio su mezzi di locomozione. I miti dicono che nel mondo infero non è
lecito usare la spada; con le ombre si può soltanto lottare corpo a corpo o
scagliare pietre. Nell'immaginazione omerica, Ade non interviene mai
attivamente. Accoglie le anime che arrivano e la mitezza, dice Kerényi, è il
suo tratto caratteristico. Nell'Attica del IV secolo le scene raffiguranti il
culto dei morti sono soffuse di pietas e di raccoglimento, e «non vi è spargimento
del sangue degli animali sacrifìcali».
Non
bisogna sottovalutare la propensione di Eracle alla violenza. Arrivato
nell'Ade, vorrebbe dare alle ombre il sangue che esse chiedono: vorrebbe restituire
loro il thymos, liberarle dalla
psiche per muoverle all'azione, un'azione la cui natura è rivelata dalle sue
(sgozzamento del bestiame). Il suo culto aveva a che fare con il sangue per più
di un verso . La ragione principale per escludere una sua iniziarione ai
misteri eleusini, dice Kerényi," era la grande quantità di sangue che
rendeva impure le sue mani, e Farnell" scrive: «Essendo un semidio particolarmente
virile, egli prediligeva il sacrificio cruento di animali maschi, specialmente
il bue o il toro, il cinghiale e l'ariete ... poteva accontentarsi dell'offerta
di galli, perché il gallo è un volatile che ama combattere ». E Luciano
precisa: «Questo dio è un mangiatore di carne di manzo».
Forse
le psicologie centrate sulla terapia dell'azione (i cosiddetti trattamenti
validati empiricamente, o EST, prendere a pugni il cuscino, urlarsi addosso tra
coppie; il controllo progressivo dei muscoli della terapia comportamentale, il
lavoro sui muscoli dell'energica Ida Rolf e del mite Reich, nonché le scuole
orientali di violenza disciplinata) rappresentano un modo per affrontare il
problema di Eracle il Forte, Eracle il Bellicoso. Sono terapie dell'Io, e se è
lì che sta la malattia, va benissimo puntare sul luogo patologizzato. Ma
soltanto quando miriamo più in profondità, a un collegamento con il sogno che
sia esterno all'Io, simile al modo in cui nel mito l'eroe è collegato con gli
Dei e con la morte, solo allora stiamo davvero smuovendo il complesso dell'Io.
Altrimenti la terapia diventa l'ennesima impresa del mangiatore di manzo, una
nuova tecnica muscolare per padroneggiare la vita; e una volta di più
l'immagine va perduta nell'azione.
L'iniziazione
dell'Io eroico (imparare a comprendere il sogno in modo metaforico) non è
semplicemente un «problema psicologico», riservato alle sottigliezze della
seduta terapeutica. E un problema culturale di vasta portata e decisivo. L'eroe
culturale Eracle, compresi tutti i nostri minierculei Io che imitano quel
semidio, diventa un killer quando si trova in mezzo alle immagini. L'immagine
lo rende pazzo, o meglio evoca la sua pazzia, perché la realtà su cui poggia la
salute mentale eroica è quella che può essere afferrata, colpita con una
freccia o pestata con una clava. Reale equivale a corporeo. Perciò l'eroe
aggredisce l'immagine, scacciando la morte dal suo trono, come se per l'Io il
riconoscimento dell'immagine comportasse la morte. L'Io eroico letteralizza
l'immaginale. Poiché gli manca l'intelligenza metaforica che si acquisisce
lavorando con le immagini, sbaglia le mosse e quelle che fa sono violente.
Eracle
nell'Ade ci insegna che la prima mossa dell'assassino è l'iconoclastia. Non a
caso la nostra cultura ha bisogno della remora del sesto comandamento (non
uccidere), quando la possibilità dell'assassinio è già implicita nel secondo
(non fare immagini). Se non si riconosce la potenza divina nelle immagini,
che cosa potrà frenare il letteralismo dell'Io, se non le proibizioni morali?
Senza intelligenza metaforica, ciascuna cosa è soltanto quello che è e va
affrontata al livello più semplice, più diretto. Allora ogni cosa è un invito
all'azione, e allora ecco l'eroe, pronto a realizzarsi in una realtà che è al
servizio della concezione letterale che lui stesso ne ha. Una visione della
realtà che non ne riconosce altre è, come sappiamo, delirante. Nel caso dell'Io
eroico, il delirio è la autodivinizzazione, la prospettiva dell'Io umano come
realtà superiore, anzi unica. Il resto non è reale.
Senza
intelligenza immaginale dobbiamo aspettarci la violenza omicida, quasi che la
nostra cultura non possa spogliarsi dell'Io del Far West, finché non abbia
ripristinato l'antica sensibilità per l'immagine e recuperato l'immaginale dai
cocci del letteralismo moralistico. Ora come ora, non c'è nulla tra uomo
terreno e Dio celeste, tra Io corporeo e Sé astratto, o tra fatto concreto e
mera fantasticheria. In quel niente intermedio, nel paesaggio senza confini del
«come se », nel metaxy dove
l'immaginazione della psiche configura le sue fantasie, irrompe spavaldo l'Io
con il suo fucile e la sua Bibbia, affrontando le immagini come se fossero
demoni o allucinazioni costruendo su quello che chiama il territorio selvaggio
dell'inconscio la sua civiltà egocentrica e una psicologia a essa conforme,
priva di anima.
Sì,
oggi si parla tanto, con preoccupazione, del rapporto tra la violenza alla
televisione e la violenza nelle strade, ma le ragioni di questa confusione tra
immagine e atto, e in particolare della violenza dell'atto quando si smette di
creare immagini, affondano le loro radici nella base stessa della nostra
tradizione. Il primo assassinio fu divino e riguardò l'immagine; la sua
conseguenza diretta si ebbe nel primo atto dell'uomo dopo l'uscita dall'Eden,
che fu un omicidio (essendo creati a immagine e somiglianza del divino,
possiamo solo fare ciò che gli Dei immaginano per noi nel loro comportamento).
Questa confusione tra immaginare l'azione sullo schermo e agire l'azione nella
strada trova ultenore santificazione per opera di Matteo (5, 28), il cui
Vangelo nega la distinzione tra l'immagine dell'adulterio nel cuore e la sua
attuazione nella carne. L'attività immaginativa non può che essere proibita,
quando è intesa in modo letterale, come qualcosa che non differisce affatto
dall'azione. Prendere le immagini letteralmente, con il medesimo tipo di
realismo che l'Io usa nel mondo diurno: ecco l'errore eroico, un errore di
proporzioni erculee, cui è stata inoltre conferita la benedizione
giudaico-cristiana dei moniti contro demoni, sogni, icone e ogni sorta di
immagini dell' anima.
Ogni
mattina, replichiamo la nostra storia occidentale, ammazzando il nostro
fratello sogno, uccidendo le sue immagini con concetti interpretativi che
spiegano il sogno all'Io. E l'Io, davanti all'immancabile tazza di caffè (un
rituale di magia simpatica), scaccia le ombre della notte e rafforza il suo
dominio. Nessuno scorge il marchio di Caino impresso là dove potrebbe essere
il terzo occhio.
Per
noi, la regola aurea, quando si toccano i sogni, è di mantenerli in vita. Il
lavoro onirico è conservazionista. E noi dobbiamo lasciare da parte le nostre
abitudini naturali: proiettare il sogno nel futuro, ridurlo al passato,
ricavarne un messaggio. Queste mosse provocano, in cambio di questo o quel
ricavo, la perdita del sogno. Conservazione significa attaccarsi a ciò che è,
e addirittura presumere che ciò che è sia giusto. Di conseguenza tutto ciò che
è nel sogno è giusto, tranne l'Io. Tutto, nel sogno, sta facendo quello che
deve fare, seguendo la necessità psichica lungo il tragitto tortuoso ddi suoi
scopi; tutto, tranne l'Io. Il fiume deve essere in secca, il ponte deve avere
quell'altezza, l'albero deve essere sradicato, il cane investito, tra gli ospiti
ci deve essere un avvelenatore, il dentista deve estrarre tutti i denti:
soltanto il comportamento dell'Io risulta sospettabile. L'Io tende a fare la
cosa, sbagliata e a dare valutazioni sbagliate, perché non è del posto, è
appena arrivato, e non è capace di vedere nel buio.
Come
fa Ermes con Eracle, trattiamo l'Io onirico come se fosse un apprendista che
sta cominciando a familiarizzarsi con il mondo infero imparando a sognare e
imparando a morire. Lui vorrebbe rimanere aggrappato al fisico, all'aspetto shtula (India) o molk (Iran), e reagisce in maniera letterale a ciò che è visibile,
come se fosse corporeo. Non possiede ancora la visione metaforica del sukshma o del malakut e non può vedere in trasparenza le altre figure finché non
avrà imparato a lasciare che esse lo vedano in trasparenza. Richiamandoci
ancora una volta a Eraclito (fr. 21/ A32), «ciò che vediamo dormendo è il sonno
». Nel sonno, non vediamo il mondo della veglia; vediamo Hypnos. Sognare è il
metodo con cui l'Io impara a «vedere il sonno», Il primo compito dell'interpretazione
è dunque quello di proteggere quel sonno, dove proteggere significa vedere nel
sonno, risvegliare l'Io onirico dentro il suo sogno.
E
adesso guardiamo più da vicino il lavoro che si svolge durante il sonno. Che
rapporto c'è tra lavoro e sonno, e quale tipo di lavoro ha luogo nel sonno? Che
cosa significa sostenere che il sogno è un lavoro?
Per
Freud il lavoro onirico era «la parte più importante del sogno» (IP-NS, p.
124), e una recente indagine condotta tra analisti junghiani mostra che la
stragrande maggioranza di essi considera il sogno lo strumento principale del
proprio lavoro. Il lavoro del sogno e sul sogno è fondamentale per la psicologia
del profondo. Ma di che lavoro si tratta e perché lo si fa?
Per
prima cosa occorre dissociare «il lavoro» dalle fatiche di Eracle e ricondurre
l'idea di lavoro all'esempio del sogno, dove il lavoro è un'attività immaginativa,
un'opera di immaginazione, come per i pittori e gli scrittori. Il lavoro non è
sempre e soltanto quello svolto dall'Io secondo il suo principio di realtà;
c'è anche il lavoro fatto dall'immaginazione secondo la sua realtà, in cui
hanno parte anche la gioia e la fantasia. Su questo punto Bachelard e Jung sono
guide migliori di Freud e di Marx, perché il lavoro inteso come attività
immaginativa assume un significato alchemico che trascende i doveri morali di
una coscienza senex. Dunque la psiche
è sempre al lavoro, e ribolle e fermenta, senza preoccuparsi in anticipo di
ciò che produrrà e sapendo che dai sogni non si ricava alcun profitto. Ma noi,
accostandoci al sogno per sfruttarlo ai fini della nostra coscienza, per
ricavarne informazioni, trasformiamo il suo lavorio in lavoro in senso
economico. Questo è capitalismo dell'Io: l'Io ora fa il capitano d'industria,
che, mentre accresce il flusso di informazioni, si aliena tanto dalla fonte
della sua materia prima (la natura) quanto dalla sua manodopera (l'immaginazione).
Risultato: le tipiche malattie dei manager; insomma, lavorare sui sogni per
ricavarne informazioni non garantisce affatto la buona salute.
Nell'immaginazione
non c'è separazione tra lavoro e gioco, tra realtà e piacere. Dunque possiamo
pure lasciarci alle spalle la nozione di Homo
ludens, l'uomo come animale che gioca, nonché certe recenti filosofie del
gioco, che nobilitano il Bambino e il Puer
a nuove divinità della nostra epoca. Queste filosofie sono esse stesse residui
ribelli dei tempi d'oro del protestantesimo, con la sua etica del lavoro;
sfruttano ancora il contrasto tra lavoro e gioco. Ma tra il lavoro e il gioco
sta l'immaginazione, che li abbraccia entrambi: in quella terra di mezzo non
c'è separazione tra lavoro del sogno e gioco della fantasia.
Il
lavoro onirico è opera dei complessi, come Jung aveva messo in luce già nel
1906, mostrando la relazione tra complessi e figure oniriche (Opere, XI, p.
581; cfr. Opere, VIII, p. 114). I complessi sono «il piccolo popolo» (Opere,
VIII, p. 117), come i Dàttili, dita che plasmano l'argilla primordiale
dell'immaginazione; sono gli gnomi che lavorano di notte, i fabbri del mondo
infero che forgiano labirinti, gli artigiani che non smettono mai di creare
forme, ovvero, nel linguaggio di Jung, l'incessante attività della fantasia
psichica che costruisce quella che chiamiamo la realtà (opere, VI, p. 63). I
sogni sono fatti dalle persone che vi compaiono, i complessi personizzati che
sono in ciascuno di noi; e queste persone amano uscire soprattutto la notte.
Per comprendere un sogno, dobbiamo esaminare con la massima attenzione quello
che queste persone hanno fabbricato e il modo in cui le loro interrelazioni hanno
contribuito a ciò che chiamiamo sogno. Il sogno è l'opera di figure della
fantasia, che cesellano la psiche quando noi abbiamo gli occhi chiusi. C'è un
lavoro formativo che si svolge la notte, perché, ha detto Eraclito (fr. 75/
A98) , «i dormienti sono lavoratori e collaborano alle cose che accadono nel
mondo».
È
tale lavoro onirico che, come ha detto Freud, protegge il sonno, unico vero
scopo del sogno. Questo sonno, io penso, non è però il sonno biologico che
intendeva Freud, ma piuttosto il sonno poetico che intendevano i romantici.
Del resto anche Freud, secondo me, sottintendeva il sonno poetico dei
romantici, tant'è vero che nel sonno vede un ritorno al primitivo narcisismo
(SMTS, p. 90), altra parola presa dal mito e uno dei mitologemi preferiti
della coscienza poetica. Che Narciso sia il santo patrono dell'immaginazione?
Il suo amore fu rivolto totalmente, con totale appagamento, all'immagine
riflessa che lo condusse nel mondo infero.
il
lavoro onirico: narciso e il sogno
Con
il narcisismo e Narciso possiamo tentare un diverso approccio al punto più
controverso, per sua stessa ammissione, di tutta la teoria dei sogni di Freud:
la spiegazione generale secondo la quale «tutti i sogni sono appagamento di
desideri» (IP-NS, p. 142). La critica junghiana all'ipotesi di Freud si è
concentrata sul desiderio, trascurando l'appagamento. Essa ha detto infatti: i
sogni non sono desideri, perché è chiaro che spesso si sognano cose
lontanissime da ciò che potremmo mai desiderare. Tuttavia non ha mai indagato
più a fondo sulla natura del sogno in quanto appagamento. Chiediamocelo noi:
se «il contenuto di un sogno è la rappresentazione di un desiderio appagato»
(IS, p. 41), allora, che cos'è, di preciso, che appaga il desiderio
istintuale? La risposta non può essere che una: il lavoro onirico. Le immagini
create nei sogni appagano il desiderio dell'istinto. Il desiderio di Narciso fu
appagato dall'immagine del corpo esperita nella riflessione. Il suo desiderio
non voleva altro.
Per
afferrare tutta la radicalità di questa conclusione, conviene ripassare la teoria
freudiana. La notte, mentre dormiamo, quando il controllo è allentato, se non
esistesse nella psiche un qualche meccanismo censorio che ci consenta di
seguitare a dormire, il ribollente crogiolo dell'Es, con i suoi desideri
libidici, finirebbe per traboccare, ustionandoci con desideri polimorfi
perversi. Quel meccanismo, che traspone gli impulsi sessuali in travestimenti
accettabili, è appunto il lavoro onirico. Esso consiste nella trasfigurazione
di desideri sessuali latenti in immagini manifeste, le quali in parte consentono
un certo sfogo all'Es, in parte, proteggendaci da quello che in realtà (sul
piano sessuale) sta succedendo, proteggono il nostro sonno. Dunque il lavoro
onirico è così importante perché gratifica sia l'istinto sessuale, sia l'istinto
del sonno: insomma, soddisfa le richieste istintuali.
Su
questo punto Freud è più vicino a Jung di quello che a tutta prima potrebbe
sembrare. Per Jung le immagini archetipiche sono rappresentazioni degli
istinti, l'altra faccia degli istinti. L'immagine completa l'istinto, perché lo
indirizza verso le sue mete, ovvero, nella terminologia di Freud, lo appaga.
Dunque, per Jung come per Freud, il lavoro che ha luogo nel sonno appaga un
bisogno, archetipico o istintuale. La gratificazione non avviene in virtù del
significato del sogno, del suo contenuto noetico, giacché i sogni sono
precipuamente incomprensibili: come ha detto Freud, non sono comunicazioni. Né
i desideri sono soddisfatti attraverso le emozioni interne e le azioni
rappresentate nel sogno, ovvero non è che i nostri desideri siano soddisfatti
da sogni istintuali in cui si fa a pugni, ci si accoppia, si mangia, si fugge,
e simili. Sogni del genere non sono poi molto frequenti né è molto frequente
che da sogni del genere ci si risvegli con un senso di appagata soddisfazione.
No, l'appagamento che il sogno produce è narcisistico, appagante per Narciso.
In qualche stupefacente maniera, l'istinto, nel mondo notturno, è appagato
dalle proprie immagini, immagini di se stesso, come se alla psiche bastasse
vedere il proprio riflesso attraverso le immagini, come se le bastasse
immaginare in forma poetica il proprio corpo e i propri bisogni fisici, il
proprio amore, il proprio essere.
La
teoria freudiana ha un' aria così scientificamente biologica, che si tende a
non coglierne l'aspetto romantico. Narciso ne è la spia, come Freud stesso
lascia intendere. A dispetto del fatto che un istinto carnal-glandolare esige
una gratificazione della medesima natura, Freud sostiene che il processo di
appagamento dei desideri istintuali è totalmente interno, completamente
psichico, narcisistico appunto. Non è necessario alcun evento esterno: niente
botte, fuga, cibo, palpeggiamenti. Il bisogno istintuale è gratificato
unicamente dall'immagine, e così la psiche dorme in pace. Quello di sognare diventa
un super-istinto: oltre a soddisfare altri bisogni istintuali, compreso il
bisogno di dormire, contemporaneamente appaga narcisisticamente il proprio
bisogno di immagini.
Possiamo
tradurre la teoria di Freud nel linguaggio di Platone nel Cratilo (403-404): «Che cosa trattiene le anime nel mondo infero?»
chiede Socrate («Che cosa mantiene addormentata la psiche?» chiede Freud).
Risposta: il desiderio (i desideri); l'anima desidera rimanere nell'Ade,
perché lì trova soddisfazione. E che cosa soddisfa (appaga) il desiderio (i
desideri)? Risposta: la benefica intelligenza di Ade (404a), «il suo conoscere
(eidenai) tutte le cose belle », da
cui il suo nome. Ade, cioè, possiede un nesso nascosto con eidos e eidolon,
l'intelligenza archetipica data nelle immagini. Di conseguenza, ciò che appaga
il nostro desiderio più profondo è Ade, nei cui sogni vive l'intelligenza delle
idee archetipiche, per vedere le quali dobbiamo essere addormentati. Sono
queste immagini, queste idee visibili, ad appagare il desiderio dell'anima,
nutrendola di intelligenza mentre affonda dentro la notte; con le parole del
romantico von Baader: «Le immagini fanno bene all'anima! Sono il suo vero
alimento ».
L'alimento
migliore sono le immagini del mito. Questa premessa, che la psiche, e la
psicologia, sono appagate nel modo migliore dal mito, la ritroviamo innanzi
tutto nella consuetudine di Freud di prendere miti antichi per riscriverli in
nuovi miti. Successivamente la troviamo teorizzata da Jung. Ma prima ancora,
naturalmente, era presente nei romantici. I romantici riconobbero, in
particolare, le analogie esistenti tra mito e sogno. Già von Schubert, nel
1814, aveva tracciato precisi parallelismi tra il mondo di immagini simboliche
dei sogni e quello del culto di Dioniso e dei misteri eleusini.
Benché
il sogno in sé non riguardi affatto la vita di veglia (Freud, Opere, voI. X, p.
153), il lavoro onirico, in quanto soddisfacimento dell'istinto, avrà effetti
su di essa, sia pure indirettamente e anche senza beneficiare dei collegamenti
con la vita trovati nel sogno dalle terapie al servizio dell'Io. Ma se non
dipendono dai consigli ricavati dal sogno, come fanno a prodursi questi
effetti?
Se
paragoniamo i sogni al mito, ai culti terapeutici e ai misteri religiosi,
riusciamo a comprendere come nei partecipanti subentrino cambiamenti anche
senza un diretto intervento interpretativo. Il cambiamento non dipende da
quello che viene detto del sogno dopo il sogno, bensì dall'esperienza del
sogno dopo il sogno. Il paragone tra il sogno e un rito misterico ci fa capire
che il sogno è efficace finché rimane vivo. I culti terapeutici di Asclepio si
basavano sui sogni ma non sull'interpretazione dei sogni. Questo per me
significa implicitamente che gli interpreti possono anche uccidere un sogno,
sicché l'applicazione diretta del sogno inteso come messaggio per l'Io è
probabilmente meno efficace, nel produrre un effettivo cambiamento nella
coscienza e nell'influire sulla vita, di quanto non lo sia un sogno mantenuto
vivo come immagine enigmatica. E meglio tenere per tutto il giorno presente
ai nostri sensi interiori il cane nero del sogno che «conoscerne» il
significato (impulsi sessuali, complesso materno, aggressione diabolica, guardiano,
e via interpretando). Meglio un cane vivo che un cane imbottito di concetti o
sostituito da un'interpretazione.
Perché
un'immagine onirica agisca sulla vita, essa deve, alla stregua di un rito
misterico, essere esperita come pienamente reale. L'interpretazione nasce
quando abbiamo perduto il contatto con le immagini, quando la loro realtà ci
appare di secondo grado, per cui bisogna recuperarla con una traduzione in
concetti. Allora cerchiamo di rimpiazzare l'intelligenza del sogno con la nostra,
invece di parlare alla sua intelligenza con la nostra. Le immagini, appagando
l'istinto, modificheranno da sole il nostro modo di vivere, esattamente come
farebbe l'appagamento di qualsiasi altra esigenza istintuale. Prima ancora che
l'interpretazione abbia inizio, il sogno sta già operando sulla coscienza e sul
mondo diurno mediante il processo digestivo, che trasforma i residui diurni in
sostanza animica, e con l'inserimento delle nostre azioni e relazioni nella
propria fantasia onirica, facendone elementi di una narrazione, intessendo il
mondo diurno in un'altra trama. Soltanto i cambiamenti che avvengono
nell'anima possono influire sull'aspetto psichico delle nostre azioni e
relazioni. Altri cambiamenti, quelli che si cerca di attuare attraverso la
correzione cosciente della rotta dell'Io, sono conati della volontà. Fatiche di
Eracle, più che riflessioni di Narciso. Queste interpretazioni innestate
direttamente nella vita proiettano una nuova ombra nel mondo infero, un gesto
per cui occorrerà una nuova compensazione, un'ulteriore correzione espiatoria.
il
lavoro onirico: la duplicità del sogno
Le
traduzioni dirette tradiscono il sogno anche in un altro senso: facendone
derivare un messaggio, contraddicono la sua ambiguità. Ma che cos'è questa
ambiguità dei sogni, sulla quale tutti gli autori amano soffermarsi?
Innanzitutto bisogna dire che in genere i sogni non sono affatto ambigui nella loro
attualità visibile. Le immagini si presentano In forme certe: il serpente era
argenteo ed enorme e piazzato al centro del tappeto della camera da letto; il
poliziotto era acquattato di fianco alla barriera, a sinistra, e teneva lo
scudo davanti al corpo; ho aperto la porta e mi sono trovato davanti Groucho
Marx . Nel toccare una pelle morbida provo rabbia, paura o un desiderio travolgente;
sento distintamente voci che esprimono idee, brani complessi di musica, o leggo
intere frasi stampate nitide come i caratteri di questa pagina.
Dunque
dobbiamo distinguere tra la concreta definitezza della maggior parte delle
ImmagInI onmche e l'atmosfera di vaghezza, la torbida labilità, il carattere
elusivo e l'intrinseca ambivalenza che esse assumono quando il sogno è
riportato in superficie alla luce del giorno. Che sia il trapasso alla luce a
dare al sogno la sua qualità umbratile? Sappiamo tutti quale arte sia, non già
sognare, ma ricordare i sogni.
D'altro
canto, esistono anche sogni vaghi, Assumiamo dunque la vaghezza come un
fenomeno valido; allora opacità, elusività, equivocità, indefinitezza devono
far parte della forma del sogno. In tal caso queste caratteristiche
appartengono all'immagine e non sono «colpa» della coscienza diurna, non sono
dovute alla sua rozza comprensione del mondo infero.
La
vaghezza situa il sogno nella regione nebulosa: mescolanza di acqua e aria; l'
opacità, mescolanza di acqua e terra. I sogni inafferrabili, che subito
sfuggono, sono una rappresentazione accurata del fuoco mercuriale; mentre
certi sogni lunghi, involuti, che non si capisce dove vadano a parare, sono
come labirinti che si addentrano tortuosi nella terra. Il modo in cui un sogno
si presenta è già parte dell'asserzione che fa, ed esprime l'appartenenza a un
elemento. Perché i sogni possono avere stili diversi; appartengono a diversi
generi letterari, si potrebbe dire. Tali generi non riflettono semplicemente
differenze tipologiche tra i sognatori o la tendenza verso questa o quella
psicopatologia, nel senso che i depressi farebbero sogni laconici, gli
isterici sogni espansivi, gli schizofrenici sogni bizzarri. Dobbiamo riconoscere
la molteplicità di generi dei prodotti immaginativi e il fatto che il lavoro
onirico, al pari di qualsiasi opera di poesis (creazione di immagini con le
parole), è conformato non solo dal suo contenuto ma anche dallo stile in cui lo
presenta.
Questo
tipo di riflessione letteraria potrebbe evitare a noi analisti un errore molto
frequente. Quante volte usiamo i criteri di un certo elemento o di una certa
stagione (Northrop Frye) per giudicare negativamente i prodotti di un altro
elemento o di un'altra stagione. Perché non dovrebbero esistere sogni di
ghiaccio, di case in fiamme, di muri che cedono alla forza delle acque? Chi ha
detto che volare sia segno di inflazione e annegare annuncio di pericolo? O
abbiamo dimenticato che Perseo, Icaro, Bellerofonte devono tutti passare
attraverso l'aria per dare un'immagine alla via che li condurrà alla meta; o
che nell'alchimia solo mediante la dissoluzione nell'acqua si ottiene la
trasformazione del vecchio re e la creazione dell'Ermafrodito? Questi contenuti
connotanti gli elementi o le stagioni possono esprimersi anche nella
fraseologia del sogno: nella sua freddezza lapidaria, o nelle sue scintille,
nel suo essere intrisa di umorismo o nella sua gonfiezza iperbolica. Troppe
volte, quando un sogno non si adegua allo stile che a priori e arbitrariamente
ci aspettiamo dal suo materiale, noi analisti siamo pron ti a sospettare una
«psicosi latente».
I
sogni patetici, melodrammatici, dove tutti cambiano sesso e identità, muoiono
e ricompaiono, seguono uno stile immaginativo acquoreo; e c'è anche
un'immaginazione di fuoco: una vampata improvvisa, e finisce. I sogni lenti,
in cui tutto sembra maturare nel calore (come i sogni che fanno a volte le
donne in gravidanza), non implicano che sia in corso la guarigione o
l'individuazione; questi sogni appartengono al genere estate, a quella sola
stagione. Lo stile può essere letto come una retorica che attiene
archetipicamente alle immagini particolari di quel particolare sogno, invece
che come parte di un processo generale, il quale suscita aspettative che non
fanno che portarci fuori strada riguardo al materiale onirico successivo.
Parlando
del materiale dei sogni (come faremo più particolareggiatamente nella prossima
sezione), non si può prescindere dagli studi di Bachelard sui quattro elementi
nell'immaginazione. La sua poetica della materia ci aiuta a vedere come lo
stile di un sogno esprima un dato elemento: fuoco, aria, acqua, terra.
Bachelard ci insegna che lo stile, o genere letterario, è il contenuto onirico
del tipo più elementare. Ciascuno degli elementi ha molti significati. Il
fuoco è violenza combustiva ma anche luce calore, riflessione meditativa;
protegge, risveglia alla vita e purifica in vista della morte. Gli elementi
dell'immaginazione, a differenza di quelli della scienza, sono di necessità
polivalenti.
L'ambiguità
del sogno dipende dalla natura essenziale dell'immaginazione, la quale, come
un fiume che scorre (si veda Eraclito, frr. 12, 49,91 / A44, A46, A45), deve
essere mobile: l'essenza della psiche sta nel principio del moto; anche
Aristotele l'aveva visto. Qualsiasi immagine che può «stare per» un
significato psichico subito rende statico il fluire psichico. Di questo genere
sono i «segni», su cui Jung ironizza, immagini che non significano niente di
immaginativo. Un sogno, per rimanere sogno (e non segno, messaggio, profezia),
non può dunque avere un'unica interpretazione, un unico significato, un unico
valore. «Nel regno dell'immaginazione non esiste valore senza polìvalenza»
scrive Bachelard. L'ambiguità dei sogni sta nella molteplicità dei loro
significati, nel loro intimo politeismo, nel fatto che in ciascuna scena,
figura, immagine, i sogni esprimono una «intrinseca tensione di opposti »,
come direbbe Jung. Una tensione, però, che trascende l'accezione di Jung; è
tensione di somiglianze multiple, di possibilità infinite, perché il sogno è
l'anima stessa, e l'anima, ha detto Eraclito, non ha confini.
L'immagine
può essere netta, ma il significato avere molte facce. Per esempio, in un sogno
sto correndo e sono inseguito. Significa che sto correndo perché sono
inseguito o che sono inseguito perché corro? Oppure significa che correre è
esperienza dell'inseguimento, dunque quando corro è come se facessi un inseguimento?
Un'altra immagine: sto guidando e la macchina va fuori strada, dice il sogno
con la sua forma inequivocabile. Significa che la mia guida mi manda fuori
strada o che anche se tengo il volante la macchina va fuori strada autonomamente;
oppure che mando deliberatamente ma inconsciamente la mia macchina fuori
strada? Che rapporto c'è tra la mia guida, la mia «pulsione», e il fatto di
andare fuori strada?
La
duplicità o la molteplicità non stanno nell'immagine, che è precisa, ma nella
sua significanza. Eppure, la possibilità di significati multipli deve
risiedere nell'immagine stessa, nonostante la sua nettezza. Anzi, dice
Bachelard, la duplicità è una legge fondamentale dell'immaginazione: «... una
materia alla quale l'immaginazione non possa dare una vita duplice non può
svolgere il ruolo psicologico di sostanza fondamentale. Una materia che non
susciti un'ambivalenza psicologica non può trovare il suo doppio poetico, che
consente infinite trasposizioni. Perché l'elemento materiale coinvolga l'anima
intera, è dunque necessario ci sia una doppia partecipazione: partecipazione
di desiderio e paura, di bene e male, pacifica partecipazione di bianco e
nero».
L'espressione
«bianco e nero» rimanda indietro di quasi due millenni, alla descrizione di
immagini classiche di Filostrato (nato verso il 191 d.C.). Nel suo libro, dove
sono succintamente descritti alcuni quadri che rappresentano idee, temi e
figure fondamentali, il dio dei sogni è ritratto in posizione eretta, «in
atteggiamento rilassato e indossa una veste bianca sopra una veste nera».
Il
problema della duplicità del sogno è qui rappresentato in forma fantastica.
Vediamo i due aspetti: uno sopra, uno sotto; uno bianco, l'altro nero. Il
sogno, poi, ha un atteggiamento di indolente indifferenza nei confronti del
proprio abbigliamento, come se dicesse: « Non sono io quello carico di tensione;
io posso reggere tranquillamente tutto questo. Questa è la mia tenuta
naturale, il modo in cui mi piace presentarmi. Se voi, interpreti e analisti,
vi sentite in dovere di parlare di me come innata dualità, polarità e
tensione, è un problema vostro»; E infatti gli aspetti « bianco e nero» e le
vesti « di sopra e di sotto» gli interpreti dei sogni li chiamano positivo e
negativo, livello soggettivo e livello oggettivo, latente e manifesto,
maschile e femminile, ge e chthon, porta di corno e porta d'avorio,
vita e morte. E dichiarano che il nostro compito consiste nel trasmutare il
nero nel bianco, oppure nel convertire il bianco nel nero nascosto, o, ancora,
nell'unire gli opposti che si compensano. Qualunque cosa facciamo noi, il
sogno si presenta nella sua doppia veste, e afferma semplicemente che una certa
ambiguità di significato è il suo abituale modo di presentarsi. Se i sogni sono
i maestri dell'Io desto, questa duplicità è l'insegnamento essenziale che essi
impartiscono. La duplicità, tuttavia, non è tanto quella del paradosso logico,
quanto quella dell'umore ironico; non l'ermeneutica delle opposizioni, ma
della burla. Non stupisce che i sogni un tempo si chiedessero a Ermes.
il
lavoro onirico: i sogni, il lavoro della morte
Immaginiamoci
il lavoro onirico come l'attività non già di un censore, bensì di un bricoleur. I censori propongono delle
morali, o ci coinvolgono in una sorta di controspionaggio, con codici da decifrare
e indagini. Invece il bricoleur
onirico è uno che sa fare un po' di tutto, che prende i rottami e gli scarti
della giornata e si diverte a ritagliare e a incollare e con roba residuale
costruisce un collage. Le dita che danno forma al sogno, mentre distruggono il
senso originale di quei residui, contemporaneamente li conformano secondo un
senso nuovo in un nuovo contesto. Se il sogno esprime l'Es, come ha detto
Freud, allora esso è al servizio dei due princìpi dell'Es, amore e morte. La
morte è il robivecchi, che smantella il mondo alla ricerca di pezzi di
ricambio, separa e distrugge le connessioni (re, p. 515) che poi l'amore (per
portare avanti la metafora di Freud) fonde in nuove unità. L'immaginazione,
di notte, estrae certi eventi dalla vita e il bricoleur al servizio
dell'istinto di morte rovista e fruga tra di essi in cerca di residui diurni,
trasferendo sempre nuovi cascami empirici del mondo personale dalla vita alla
psiche in nome del suo amore.
L'immaginazione
opera deformando e formando nello stesso momento. Bachelard ha parlato di attività
deformativa dell'immaginazione, quasi che la causa formale all'opera
nell'immaginazione fosse il principio di deformazione, ovvero la
«patologizzazione» dell'immagine. L'immagine deformata, o patologizzata, è
fondamentale per l'alchimia e per l'arte della memoria, due campi che hanno
elaborato metodi complessi per fare anima. E l'immagine patologizzata, la
figura bizzarra, strana, malata o ferita - l'elemento disgregante - che
dobbiamo cercare nel sogno per trovare la chiave del lavoro onirico. Perché è
lì che la causa formale del sogno svolge al meglio la sua opera deformativa,
imprimendo il suo carattere nella plasticità dell'immaginazione.
Qualcosa
(che sia la psiche stessa?) sembra chiedere e allo stesso tempo contrastare la
distorsione in forme innaturali. Da un lato c'è la psiche, che, al suo livello
più infantile, Freud ha immaginato perversa: il bambino istintuale originario
è per natura contorto. Dall'altro qualcosa in noi, altrettanto profondo, non
ama gli estremi, vuole rimanere nella fantasia dell'equilibrio e dell'armonia
naturali.
L'alchimia
risolse il dilemma immaginando che il proprio lavoro deformativo fosse un opus contra naturam e tuttavia al
servizio di una natura più ampia, animata, infusa d'anima. Per servire la
natura, il lavoro alchemico doveva deformare la natura. Per liberare la
natura animata, doveva fare male alla natura naturale (bollire, recidere,
scuoiare, essiccare, putrefare, soffocare, affogare, ecc.). Non appena si
prende in considerazione la psiche, ciò che è soltanto naturale non basta più.
Il fare anima è uguale a ogni altra attività immaginativa: richiede perizia,
esattamente come la politica, l'agricoltura, le arti, i rapporti amorosi, la
guerra o la conquista di una risorsa naturale. Ciò che è dato non basta per
raggiungere lo scopo: bisogna farne qualcosa. Evidentemente nell'anima c'è un
qualcosa che la vuole sottrarre al soltanto naturale: questa distorsione la
esperiamo come perversione o come i tormenti e le torture della
patologizzazione, e in questo modo siamo costretti a cercarci tentoni una
strada nel contorto e tortuoso labirinto del fare anima. L'analisi è l'esame
minuzioso di queste distorsioni e contorsioni della nostra natura, da noi
chiamate complessi, e il suo scopo è di giungere a una lysis, a un'apertura. Noi partiamo dal presupposto che le patologizzazioni
provocate dai nostri complessi derivino da forze rintracciabili nella nostra
storia; ma perché non supporre che derivino dal carattere, dalla natura con la
quale siamo nati? Forse che la persona naturale non è dal principio qualcosa
di complesso? E gli Dei che si vestono dei nostri complessi e parlano
attraverso di essi non sono forse dal principio complicate figure di una
tensione interna estrema?
Perciò,
quando gli artefici di immagini del Rinascimento ponevano la chiave del regno
in mano a Ade-Plutone, volevano dire che la chiave di accesso ai misteri
iniziatici, a tutti gli eventi nascosti dell'anima, è nelle mani del dio che
attraverso la deformazione sottrae le cose alla natura e le trasferisce nella
psiche. Distruzione, crudeltà, ferimenti, fallimenti, stupro del naturale e
anche tutti gli eventi innaturali che compaiono nei sogni possono essere
avvicinati attraverso questa luce oscura.
Talmente
necessarie all'immaginazione sono per Bachelard le immagini nuove, vitali e
mobili, da indurlo a cercare sempre l'immagine non accreditata, non statica
nella sua accezione. Bachelard si chiede: « Come possiamo disincagliarla dal
substrato troppo stabile dei nostri ricordi abituali? ». Come liberarla dal
significato che ha assunto per noi? Una risposta possibile è la seguente:
attraverso lo shock della deformazione, in particolare della deformazione patologizzata,
che restituisce all'immagine la sua capacità di perturbare all'estremo
l'anima, sicché, portando l'immagine all'intimità con la morte, simultaneamente
la fa rivivere. E infatti il sogno sconvolgente, di cui l'incubo è il
paradigma, quello che ricordiamo meglio, quello che più di tutti stimola la
memoria dell'anima.
Il
lavoro sul sogno ricalca il lavoro del sogno. Lavoriamo sul sogno non già per
sbrogliarlo, come voleva Freud, per disfare il lavoro onirico di disfacitura,
bensì per rispondere al suo lavoro con la somiglianza del nostro, attenti a
parlare sempre come il sogno, a immaginare sempre come il sogno. Il lavoro sui
sogni non esclude l'analisi; piuttosto, l'analisi è posta al servizio di un
altro principio archetipico ed è condotta con un atteggiamento diverso dal
consueto. Analisi significa ovviamente operare separazioni e differenziazioni;
il sogno viene aperto, smontato, violato, anche, e questo è il necessario lavoro
distruttivo dell'intelletto e del sentimento discriminante. Ma adesso
l'archetipo al cui servizio si pone l'analisi del sogno non si limita a
«portare alla coscienza», dove coscienza equivale a luce solare; adesso questo
lavoro analitico distruttivo lo possiamo riconnettere a Ade, il quale penserà
a espungere la vita da tutte le nostre premesse naturali, da tutte le nostre
previsioni futuristiche; oppure lo possiamo riconnettere al bricoleur e alla sua ermetica destrezza
di mano, che le cose che vogliamo tenerci strette le ruba.
La
scomposizione in parti propria dell'analisi è una cosa diversa
dall'interpretazione concettuale. Si può avere analisi senza interpretazione.
L'interpretazione trasforma il sogno nel suo significato; la traduzione
prende il posto del sogno. Invece la dissezione incide la carne e le ossa
dell'immagine, esamina il tessuto delle sue connessioni interne e ne tocca
uno a uno tutti i pezzi, ma intanto il corpo del sogno è sempre lì, sul tavolo.
Non ci siamo chiesti che cosa significa, bensì chi è, che cosa è, come è.
Adesso,
inoltre, possiamo considerare la nostra resistenza a sognare come una
resistenza nei confronti di Ade insita nella nostra natura «naturale », Non
riusciamo a ricordare i sogni, li confondiamo, dimentichiamo di annotarli,
oppure li trascriviamo in modo indecifrabile, portando a giustificazione la
loro ben nota elusività. Eppure, se ciascun sogno è un passo dentro il mondo
infero, allora ricordare un sogno è ricordarsi della morte e spalanca un abisso
spaventoso sotto i nostri piedi. L'alternativa (amare i propri sogni, attendere
con impazienza il successivo), che si ritrova nella psicologia entusiastica
del Puer, mostra fino a che punto
questo archetipo sia innamorato della dolce morte e cieco riguardo a ciò che
sta sotto.
Di
nuovo, una duplicità. Questa volta l'esperienza è di paura e desiderio. Come
Persefone, proviamo insieme repulsione e attrazione, e a volte afferriamo
soltanto metà dell'esperienza, lottando come lei per non farci trascinare nel
profondo dal sogno, altre volte restiamo nel suo abbraccio e governiamo dal suo
trono. Al di là di Ade il distruttore e amante, tuttavia, c'è Ade
dall'intelligenza incomparabile. Lavorare sui sogni è avvicinarsi a questa
intelligenza nascosta, entrare in comunicazione con il dio che è nel sogno.
Poiché il sogno è sia nero che bianco, la sua intelligenza non è né del tutto
oscura né del tutto chiara.
Una
cosa molto simile, in un contesto analogo, l'ha detta Eraclito (fr. 93/ A1):
«Il Signore, a cui appartiene l'oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde,
ma segnala». «Questa frase» commenta Marcovich «è in un certo senso un'immagine
(una metafora), che si potrebbe parafrasare nel modo seguente: "Così come
Apollo non dice tutto esplicitamente né nasconde tutto, ma indica una parte
della verità, alla stessa stregua il Logos
interno alle cose non è né inaccessibile all'intelletto umano né evidente in
sé, ma richiede uno sforzo intellettivo da parte dell'uomo", cioè
l'intuizione, o facoltà di interpretare correttamente i segnali inviati dal
Logos ».
Tale
sforzo intellettivo e immaginativo rappresenta il contributo dell'Io desto al
lavoro onirico. Potremmo definirlo la versione occidentale del ta 'wil. È uno sforzo dell'intelligenza
che ci conduce dentro il sogno, lo sforzo di seguire gli indizi delle sue
immagini deformate, dove la esegesi è un exitus
che conduce la vita fuori dalla vita, dove l'interpretazione dei sogni non è
una scienza della vita ma una scienza della morte, una forma di filosofia, la
quale un tempo si pensava dovesse appunto accompagnare la vita verso la morte.
Il
ta 'wil, riconducendo il sogno al suo
terreno archetipico, al suo retroterra, nello stesso momento lo introduce
nell'anima e lo allontana dalla vita; e tuttavia la scoperta del retroterra
archetipico infonde un senso di primordialità, il senso di cominciare dal
principio, una sorta, per usare le parole di Bachelard, di «folle empito
vitale»: «A mio modo di vedere, gli archetipi sono riserve di entusiasmo che ci
aiutano a credere nel mondo, ad amare il mondo, a creare il nostro mondo »
(Bachelard). Il passaggio dal sogno a questa gioia per il mondo non avviene
direttamente, dal sogno al mondo, ma indirettamente, dal sogno all'archetipo
al mondo, e il primo passo, il ta 'wil,
è un'uscita dal mondo.
Il
lavoro onirico che facciamo con i sogni porta l'espressione «psicologia del
profondo» alle sue logiche ed estreme conseguenze. Il sogno ci ha condotti da
Jung a Freud e da Freud alla tradizione romantica precedente, che si potrebbe
condensare nel seguente frammento di Eraclito, quell'Eraclito a cui ci siamo di
continuo richiamati come all'inventore della metafora del profondo in
riferimento all'anima e come al primo psicologo della tradizione occidentale.
Fu Eraclito, come abbiamo accennato, ad assumere ad archon, a principio radicale di tutte le cose, non l'aria o
l'acqua, gli atomi o i numeri, il conflitto o l'amore, bensì l'anima (fr. 261
A57): «Quando siamo vivi la nostra anima è morta e sepolta in noi, ma quando
moriamo, la nostra anima torna in vita e vive». Quel «moriamo» può essere
inteso nel contesto del mondo notturno, il mondo dei sogni; infatti lo stesso
frammento è stato letto da altri (Marcovich) in questo modo: "Nella notte
l'uomo accende una luce a se stesso, benché la sua vista sia spenta; / pur
essendo vivo, mentre dorme tocca il morto; pur essendo desto, tocca il
dormiente".
Insomma,
il sonno ci mette in contatto con i morti, con gli eidola, le essenze, le immagini; essere desti è essere in contatto
con il dormiente, la personalità egoica cosciente. I romantici direbbero:
durante il sonno siamo desti e vivi; nella vita, dormiamo (si veda il fr. II
A9).
In
un altro frammento (fr. 891 A99) Eraclito dice: «I desti hanno un mondo (cosmos) unico e comune, ma ciascuno dei
dormienti si ritira in un mondo proprio». Nel cosmos individuale di ciascuno: ecco dove avviene il lavoro
onirico. La finalità del lavoro onirico individualizza l'anima, allontanandola
dalla prospettiva diurna e naturale. A causa di questa individualità del
sogno, le generalizzazioni concettuali sui sogni sono destinate a fallire.
Come dice ancora Eraclito (fr. 113, Freeman/A14): «La facoltà del pensiero (to Phronein) è comune a tutti», ma (fr.
115, Freeman/A10) « L'anima ha il suo proprio logos che cresce secondo i suoi bisogni». Digerendo e trasformando
i residui diurni secondo il logos
(l'intelligenza) dell'anima, invece che secondo le leggi del pensiero comune,
il lavoro onirico produce un'anima individualizzata, cosa che non può avvenire
soltanto nel mondo diurno, dove, come dice Eraclito (fr. 106/B8), «ogni giorno
è uguale». Il lavoro di deformazione e trasformazione dei sogni costruisce la
Casa di Ade, la nostra morte individuale. Ciascun sogno contribuisce alla
costruzione di quella casa. Ciascun sogno è un esercizio per imparare a entrare
nel mondo infero, una preparazione della psiche alla morte.
Una
delle fantasie fondamentali di Freud riguardo al materiale di cui sono fatti i
sogni è rivelata dal suo uso dell' aggettivo «concreto» («… per il sogno tutte
le operazioni condotte sulle parole non sono che fasi preparatorie per la
regressione alle idee concrete» [SMTS, p. 96]). Secondo Freud, è «come se il
processo onirico fosse governato da considerazioni di rappresentabilità
plastica» (SMTS, p. 95). Bachelard parla del sogno in termini analoghi, come
se le sue forme nascessero dalla plasticità dell'immaginazione, da un
materiale grezzo immaginario, come la pasta del pane, l'argilla, il metallo
fuso."
Il
lavoro sui sogni è arduo; i sogni, diciamo, sono ostici, indecifrabili,
difficili da penetrare. La nostra capacità di capirne qualcosa è inversamente
proporzionale a quella che Freud chiama «resistenza» (IPNS, pp. 129, 132;
Opere, IX, p. 422; X, p. 154). Bisogna lavorarci sopra, elaborarli e infatti
gli analisti parlano dei sogni del paziente come del «materiale». I sogni si
formano mediante un processo di coagulazione: condensazione, intensificazione
(sovradeterminazione), riduzione (abbreviazione), reiterazione (ripetizione),
concretizzazione. L'operazione sintetizzatrice di alta cucina svolta dal lavoro
onirico (il lavoro di bricolage di cui dicevamo), mescolando insieme
ingredienti disparati ti imbandisce qualcosa di nuovo. Queste cose nuove
prodotte dal sogno le chiamiamo simboli. E sono prodotte, o date, come cose dense;
infatti, in tedesco, sia in Verdichtung
(il termine usato da Freud, che noi traduciamo con «condensazione ») sia in Dichtung (poesia) e in Dichter (poeta), ricorre l'aggettivo dicht, «denso, spesso, compatto ».
Il
materiale onirico non è semplice materia grezza. Ha sempre una forma,
un'immagine e, come la prima materia dell'alchimia, ha sempre un nome preciso.
Definirla «il caotico Es» o «l'inconscio collettivo» falsifica il suo vero
volto. Il caos, come l'Es e l'inconscio, è un'astrazione, un concetto che serve
a parlare di quel materiale, ma non è il materiale in sé, che può presentarsi
nella forma di un oceano, un abisso, una colata di fango, una scena di baldoria,
un pezzo di gelatina, un manicomio, ma sempre, sempre in un'immagine precisa.
Le
emozioni sono cesellate in forme, materializzate e distinte. Il loro
linguaggio (tremare come una foglia, ribollire di rabbia, essere schiacciati,
travolti) specifica di quale sostanza sono fatte. Le dita dei complessi
possono ridurci a brandelli, la notte, perché i dormienti sono lavoratori; ma
mentre straziano, plasmano ciascuna emozione nella sua forma specifica. Una
donna tradita sognerà il suo dolore come un fossato senza sbocco, e se stessa
gettata alle ortiche, un giaciglio vuoto; un altro tradimento si presenterà
invece come una stanza fredda dalle pareti bianche, mentre il sognatore è
condotto verso un alto tavolo di marmo. Il tuo tradimento è diverso dal mio,
perché spurga la sua materia in forme diverse, è di una diversa pasta ed è
infornato in stampi diversi. Il mattino porta a ciascuno il suo sogno di
immagini ben lavorate e cotte a puntino, come pane croccante.
La
fantasia di «il crudo e il cotto» (Lévi-Strauss) inizia nel sogno della psiche,
il quale non è pura natura, ma natura elaborata, natura naturata. Questa
cottura di materiale psichico che ha luogo durante la notte, in quanto è un
fare anima, è altrettanto fondamentale per la cultura delle altre forme di cottura
e di lavorazione esibite dall'antropologia.
Gli
analisti, anche quando nel parlare dei sogni usano termini materiali come
questi, in realtà sono condizionati dal dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa. Tendono a situare la materia all'esterno, nella terra
fisica, sicché al paziente viene consigliato, per acquistare materialità, di
praticare un lavoro, di allenare il corpo fisico, di occuparsi di cose
pratiche, esteriori. Mentre l'aereo e l'umido vengono presi in senso
psicologico e metaforico (la tale persona si dà troppe arie, ha la testa tra le
nuvole, vola troppo alto, oppure è uno «sbrodolone» o affoga in un bicchier
d'acqua), le immagini di terra sono intese letteralmente e proiettate sulla
natura, sul corpo e sulla materia. L'elemento materiale della psiche è
scambiato per materiale terrestre concreto. Ma mentre a nessuno verrebbe in
mente che si possa acquisire aria psichica (distanza, ironia, ragionamento,
prospettiva) facendo esercizi di respirazione o praticando il paracadutismo, o
che si possa aggiungere acqua alla psiche facendo il bagno più spesso o
bevendo molta acqua minerale, non si capisce come mai invece si acquisterebbe
terra con attività materiali. Anche ammettendo che l'anima sia una krasis, un composto dei quattro
elementi, è plausibile che la mescolanza giusta si ottenga semplicemente
introducendo l'elemento opposto («lei è un tipo troppo d'aria, ha bisogno di un
po' di terra ») o letteralizzando l' elemen to terra nella terra fisica?
Questa
terra può tuttavia essere acquisita lavorando sul «materiale» onirico, perché
i sogni «stimolano il lavoro ». Grazie infatti a tale lavoro, che sta dietro a
tutte le traduzioni e amplificazioni e interpretazioni, acquistiamo
entroterra, terreno interiore. Le nostre operazioni con l'immagine danno una
forma più salda alla nostra pasta psichica, la articolano, la differenziano.
Più lavoriamo sul nostro materiale nell'analisi, anche prima e dopo le sedute,
più la psiche diventa ben modellata e ha dove essere contenuta. Riusciamo a
contenere meglio le cose, in modo che possano cuocere a fuoco lento; diventiamo
più ricettivi; abbiamo acquistato capienza e insieme terreno sotto i piedi.
A
volte, di fronte a una persona pur ricca di talenti naturali, abbiamo
l'impressione che la sua anima sia grezza, non educata, sempliciotta, come se
rimanesse un bel po' di lavoro da fare perché il suo spazio si apra, il suo
corpo si solidifichi e la sua sensibilità si affini. Non ci accontentiamo di
«anime belle» e «grandi anime», vogliamo anime lavorate, che ci comunichino il
senso di qualcosa di importante, di cose di sostanza.
È
questo ciò a cui tutti miriamo, in fondo: sentire che le cose hanno sostanza al
di là del valore materiale e della visione materialistica delle cose. Vogliamo
che la nostra vita abbia peso e sostanza, e così i nostri rapporti, le nostre
giornate, e che la nostra morte non sia irrilevante. Ciò che cerchiamo è sostanza
animica. Ma come si produce questa sostanza psichica? Come si acquista
fondamento e terra, se non lavorando sul nostro materiale psichico, su quei
sogni «immateriali », talmente poco sostanziosi all'apparenza, che per dargli
senso e peso bisogna sudare sette camicie: ararli, spianarli, smontarli. Una
cosa, se ci lavoriamo sopra, subito incomincia ad acquistare peso per noi. Il
lavoro produce sostanza e il lavoro psichico produce importanza psichica.
Dunque
possiamo acquisire terra non solo lavorando la terra di Demetra, la fantasia
agricola del ritorno alla terra come zappatori, come creature naturali.
Possiamo diventare più terragni anche attraverso Gea, lavorando sul nostro
destino, la giustizia retributiva legata a peccati ancestrali, le limitazioni
della natura che ci sono date in modo congenito attraverso la specifica
collocazione geografica e storica della nostra famiglia, luogo dei nostri
attaccamenti, nostra prima patria.
C'è
poi un terzo modo di produrre materia e importanza: attraverso Cton, lavorando nelle fredde morte
profondità della psiche, nel mondo infero della notte, dei sogni, dei fantasmi,
e nell'incurabile, immutabile essenza del carattere figurata nei nostri
ctonii complessi. Questa è la patria profonda, la Casa diAde.
Possiamo
muovere in questa direzione con l'ermeneutica, seguendo l'idea della hyponoia platonica (La repubblica, 378d), del senso «sottostante» o significato
profondo, che è un modo antico di esprimere l'idea freudiana di significato
«latente»; La ricerca del senso sottostante è ciò che nel discorso comune
esprimiamo come desiderio di capire. Vogliamo scavare sotto gli eventi,
vederne le basi, gli elementi fondamentali, come e dove poggiano. Il bisogno
di capire più a fondo, questa ricerca di una base più profonda è come un
invito di Ade ad accostarci alla sua profonda intelligenza. Questi movimenti di
hyponoia, volti a una comprensione
che acquista terreno e produce sostanza, sono tutti lavoro
Come
abbiamo detto sopra a proposito di Eracle e come abbiamo visto con Freud (IS,
pp. 142-43; lE, pp. 503, 598; CP, pp. 577-78), il lavoro è generalmente
immaginato dal punto di vista dell'Io e dei suoi muscoli. Poiché la terra
cartesiana è tuttora all'esterno, nella realtà visibile, la personalità non
può che essere costruita da un Io forte, capace di gestire ostici problemi in
un mondo reale di dati di fatto concreti. Ma il lavoro del sogno e sul sogno restituisce
il lavoro alla terra invisibile, trasferendolo dalla realtà letterale alla
realtà immaginaria. Attraverso il lavoro onirico, noi spostiamo la prospettiva
dalla base eroica della coscienza alla base poetica della coscienza,
riconoscendo che ogni realtà, di qualsivoglia genere, è in primo luogo
un'immagine fantastica della psiche (Jung, Opere, VI, p. 63; XI, pp. 496, 555).
Il lavoro onirico è il punto focale di tale interiorizzazione della terra,
della fatica e del suolo; è il primo passo per dare densità, solidità, peso,
gravità, serietà, sensuosità, permanenza e profondità alla fantasia. Lavoriamo
sui sogni non per rafforzare l'Io ma per produrre realtà psichica, per dare
sostanza alla vita attraverso la morte, per fare anima coagulando e intensificando
l'immaginazione.
Forse
ora sarà più chiaro perché chiamo questo lavoro il lavoro del fare anima,
anziché analisi, psicoterapia o processo di individuazione. L'accento, per me,
è sul modellare, sul manipolare, sul formare qualcosa con il materiale
psichico. E una psicologia dell'artigianato più che della crescita. La crescita
lascia che l'anima venga su spontaneamente e naturalmente, come una pianta.
Questa mistica organica comporta un lavoro minimo. Anche il fare anima ha una
mistica, il mistero della morte, che comprende la crescita organica e ne
utilizza le immagini nel lavoro dell'anima. «Fare» è un termine che riflette
I'attivìtà della psiche, che è quella di fare immagini. E questo il dato primo
di tutta la vita psichica. Homo faber,
d'accordo; ma ciò che viene fatto sono le immagini e ciò che tali immagini
sembrano fare in noi è una realtà psichica che richiede perizia e immaginazione.
La Bibbia dice che l'anima umana è fatta a immagine divina. A me piace leggere
questa frase come se dicesse anche: l'essere umano è fatto dalle immagini
divine che sono nell'anima.
Il
grande valore dell'alchimia come modello del lavoro psicologico risiede appunto
nel fatto che l'alchimia è un opus,
un lavoro condotto su una varietà di materiali. E, secondo noi, gli alchimisti
lavoravano con i materiali perché proiettavano la psiche nella materia,
ovvero, come dice Bachelard: «L'alchimista proietta il suo profondo». Anche
oggi c'è psiche nella materia, ma in un altro senso. Oggi il materiale
proiettato è la materia: i nostri materialismi e le nostre materializzazioni,
tutte le fissazioni concrete della nostra vita psichica nelle idee, nei credi,
nei sintomi, nei sentimenti, nelle persone. L'investimento di sostanza che
facciamo in tali concretizzazioni è il luogo dove va cercata oggi la physis. La prima materia, oggi, è in
tutto ciò che prendiamo incontestabilmente e acriticamente per «reale », in
tutto ciò che non vediamo in trasparenza. Eccola, la nostra materia opaca. Attraverso
i residui diurni, queste «realtà» entrano nei nostri sogni, dove vengono
sottoposte a lavorazione dall'immaginazione. Mentre elaboriamo questi pezzetti
di physis, il materiale primordiale
viene riversato nel vaso psichico, dove si consolida e insieme si differenzia,
convertendo la res cogitans nella res extensa del terreno interiore.
Nella
pratica questi pezzetti di materia si ritrasformano in terreno interiore tutte
le volte che «ritiriamo una proiezione », come si definisce questo lavoro in
psicoterapia. Per trovare questi pezzetti di terreno perduto, basta notare i
punti dove siamo concretamente letterali (pesanti, densi, gravi, ponderosi),
dove dichiariamo perentoriamente: «Ma questa è la realtà!». A volte saranno
convenzioni sociali e morali, un codice etico; altre volte una dieta, la salute,
l'energia o un'abitudine. Questo concretismo può addirittura assumere
l'apparenza di una fede parafilosofica nei fatti, nella storia, nell' evidenza
scientifica, nella logica o nei sentimenti personali. Molto spesso è una
relazione personale, una figura idealizzata della verità e della fiducia. Il
più delle volte è il denaro, il profitto. Dove una persona è concreta, lì ha
investito il corpo, lì è dove dice: « Questa è una necessità inevitabile; la
cosa che conta sopra tutto ».
Il
ritiro di queste proiezioni di fatto non è così semplice come pare, perché
dissolvere una proiezione è perdere corpo, perdere il vaso dove si è riversato
ciò che conta. Tali proiezioni sono come le idee fisse o le idee
sopravvalutate; hanno una qualità delirante, e infatti è molto difficile
vederle in trasparenza come fissazioni psichiche e valori psichici. E qui che
siamo bloccati nella physis; e tuttavia è appunto qui che i sogni possono
svolgere il loro lavoro, raccogliendo frammenti di questi concretismi e
trasformandoli in immagini che aprono un senso nuovo. In altri termini è nel
materiale onirico che abbiamo la possibilità di lavorare alla trasformazione
della materia in profondità interiore, psichica.
Nella
pratica questo interesse per la profondità ci conduce a prestare un'attenzione
speciale a tutto ciò che sta sotto.
Così è stato fin dagli inizi della psicoanalisi, con le sue nozioni di
repressione, subconscio e ombra, che sono termini usati per indicare ciò che
nei sogni vediamo per immagini: sepolture, i morti, gli antenati; spazzini,
operai delle fognature, idraulici; criminali e reietti; la parte inferiore del
corpo, i suoi indumenti e le sue funzioni; forme inferiori di vita che
«guardiamo dall'alto in basso», dalle scimmie agli insetti; il mondo agli
antipodi, il fondo del mare, piani inferiori e cantine, qualsiasi cosa, insomma,
si possa rivoltare, nel senso della hyponoia,
perché riveli un significato più profondo. Le emozioni che accompagnano queste
immagini del fondo sono riluttanza, repulsione, tristezza, lutto, inibizione,
chiusura, apatia o quel senso di qualcosa di profondo che ci attanaglia sotto
forma di depressione, oppressione, repressione. La nostra immaginazione
discensiva è penetrata nella terra. « ... e dovrà intitolarla Il sogno di Bottom, proprio perché non
ha fondo ... »; Freud si rese conto che ciascun sogno si apre su una profondità
insondabile. Benché di solito si sforzi di interpretare ogni singolo sogno nei
più minuti particolari, in due punti della Traumdeutung
(IS, pp. 479 e 480) ammette: « ... durante il lavoro di interpretazione ci
a.ccorgiamo che…c'è un groviglio di pensieri onirici che non si lascia
sbrogliare... Questo e l'ombelico del sogno, il punto in cui esso poggia
sull'ignoto»; Il cuore del sogno, il nucleo da cui il sogno stesso spunta «come
un fungo dal suo micelio», dice Freud (con un'immagine odorosa di terra
umida), è l'ignoto. Esso è, diremmo noi, il pertugio che introduce nel mondo
infero, il momento di Ade, l'apertura verso quello che Eraclito implicitamente
indica essere il regno della psiche: la pura. profondità. Questo dunque è l'omphalos, l'ombehco, del mondo psichico.
La via regia dei sogni conduce a questo punto. Quella delle corrispondenze con
il mondo diurno è, chiaramente, la direzione sbagliata.
Tutta
la mia enfasi sul mondo infero e la mia insistenza perché sia mantenuta al
sogno la sua natura di fenomeno del mondo infero sono rivolte a conservare
intatta la profondità del sogno. Ciò che estraiamo dai sogni, ciò che dei sogni
vogliamo mettere a profitto, ciò che deduciamo dai sogni riguarda solo la
superficie. La profondità sta nel nesso invisibile; e il lavoro sui sogni
consiste nel lavorare con le nostre mani sui nessi invisibili, là dove non
vediamo, nel profondo del corpo della notte, penetrando, assemblando e
differenziando, spurgando, mescolando, agitando, impastando. Si tratta sempre
di un lavoro di precisione, ma applicato a materiali invisibili ambigui e in
movimento. La conoscenza della vita, qui, è di importanza secondaria. La nostra
è conoscenza del campo più di tutti affine ai sogni, il campo delle realtà
mitiche, dove, pure, ogni cosa è netta ma ambigua, evidente solo
all'immaginazione.
Inoltre,
questo lavoro formativo dell'immaginazione è sempre al tempo stesso
distruttivo, deformativo. Per accedere al mondo infero bisogna necessariamente
attraversare Stige, superare l'ostacolo della sua odiosa freddezza. Che è
inevitabile e non può essere sentimentalizzata. Ogni gesto nel mondo notturno,
se è giusto, uccide ciò che tocca. Ci troviamo di fronte densità, luoghi di
violenta resistenza, che si possono penetrare con l'intuizione, un'intuizione
che sconvolge e comunica un senso di morte. Il lavoro sui sogni è arduo da
compiere per il terapeuta e arduo da accettare per il paziente. Ed è qualcosa
che non sembra possibile fare da soli. Forse perché non è mai possibile vedere
dove si è inconsci; ma più probabilmente perché esiste in noi una resistenza
di fondo che si oppone alla distruzione che il lavoro onirico comporta:
l'uccisione degli attaccamenti e il disvelamento di profondità immutabili. La
regina del mondo infero è Persefone e il suo nome significa: «portatrice di
distruzione».
Questo
capitolo è fuori luogo in un libro sulle immagini, per due ragioni.
Innanzitutto, perché non si può parlare delle immagini per idee generali; e
perfino esempi specifici di sogni, quando sono presentati per illustrare la
pratica, diventano generalizzazioni. Un'immagine è per definizione particolare
e contiene in sé le interrelazioni e i criteri in base ai quali essere
compresa. Le idee generali esposte in questo capitolo potranno essere utili
soltanto per approfondire una certa prospettiva nei confronti di alcuni
complessi di immagini, ma non per spiegare le immagini particolari che si
possono incontrare in un sogno. Assolutamente no. Attento, dunque, lettore:
questo capitolo non ti dirà che cosa significano i tuoi sogni.
In
secondo luogo, l'espressione «mondo infero » allude alla prospettiva psichica,
a quell'atteggiamento dell'anima del quale non si può dire che abbia una
prassi, nell'accezione che il termine ha nel mondo diurno. «Mettere in
pratica» il mondo infero è tradire il sogno, il quale, come abbiamo imparato,
non è mai pratico. I capitoli precedenti, che hai avuto la pazienza di
leggere, avevano lo scopo, caro lettore, di farti scendere fino all'anima e di
calare l'anima fino al mondo infero. Il rischio di un capitolo intitolato «La
pratica» è quello di attirare l'intero libro al di là del ponte, di nuovo
dentro il mondo diurno, con la tentazione dei «consigli pratici al lettore».
In
particolare, attento a non fraintendere la «metafora della morte» (si veda
sopra, p. 84). I complessi di immagini che prenderò in esame non sono indizi
di sogni di morte, come se sognare un cane nero, un colino o un recipiente che
perde, uno specchio, una fossa segnalasse una morte imminente e letterale.
Nessuno dei complessi di immagini che prenderò in esame allude alla morte in
senso letterale. Questo sarebbe un approccio diurno e naturalistico al sogno:
utilizzare il sogno per la vita pratica, e non importa se in questo caso vita
pratica significa previsione della morte. Quelle che seguono non sono neppure
immagini del mondo infero, perché, una volta che si sia assunta la prospettiva
di quel mondo, ciascun sogno e ciascun dio, compreso l'eroe, hanno un proprio
stile per condurci laggiù. Ecco, è questa la chiave. Non presenteremo immagini
del mondo infero (che so, simboli della Grande Madre, del Pene, o del Sé),
come se l'archetipo fosse un'astrazione generale che si manifesta in una serie
definita di immagini simboliche. No, il mondo infero è una prospettiva interna
all'immagine, per mezzo della quale la nostra coscienza è iniziata al punto di
vista infero. Le immagini che seguono facilitano tale iniziazione. E quando
siano viste in questa maniera, possono far affiorare intuizioni radicalmente
diverse da quelle che in genere ci si aspetta.
Ecco
qua, dunque, il sesto capitolo, nonostante le mie titubanze - e in parte a mio
beneficio. Infatti, le pagine che seguono mi offrono uno spazio per comunicare
una manciata di intuizioni e di riflessioni sui sogni, per controbattere
opinioni che avverso fieramente (forse perché troppo vicine?), per proporre
atteggiamenti alternativi nei confronti dell'oscurità che troviamo nei nostri
sogni e nella natura umana: le ombre, le patologizzazioni, la fredda inumana
distanza. Ma in parte questo capitolo è anche a tuo beneficio, lettore. I
libri tradizionali sui sogni ti dicono sempre qualcosa sul significato dei
sogni. Evitare del tutto di farlo tradirebbe l'aspettativa archetipica del
lettore nei confronti di un libro che reca la parola «sogno» nel titolo.
Sicché questo capitolo cerca di destreggiarsi tra il desiderio di non fare un
torto al lettore e quello di non fare un torto al sogno. E se ne hai ancora
voglia, allora leggilo, per soddisfare il tuo bisogno, ma attento a non
tradire quello che ci troverai cercando di metterlo in pratica.
La
parola «pratica», che risale al greco praxis, ha una brutta storia. Omero la
usava in riferimento agli affari dei mercanti; Platone le ha dato il senso soprattutto
di conoscenza tecnica delle scienze applicate. Poi Aristotele l'ha indurita
ulteriormente usandola nel contesto dell'etica e della politica. Significava
comunque azione, e cosa avrebbe potuto esserci di più diurno, di più egoico?
No, basta, lasciamo perdere i greci. Manteniamo pure la parola, ma spostandone
il senso a indicare quello che si fa al pianoforte, in palestra, sul
palcoscenico: un esercizio, un allenamento seguito per affinare le capacità.
Si fa pratica allo scopo di notare piccoli particolari che altrimenti
potrebbero sfuggire. Anche il lavoro sui sogni della psicoterapia è una
pratica. Si eseguono tutti i suoi esercizi, non per diventare praticanti, ma
per diventare pratici di sogni.
A
proposito del nero nei sogni, vorrei tralasciare sia la ricchezza del
simbolismo dei colori, sia le molte nozioni già analizzate dal misticismo
religioso circa le tenebre e dalla simbologia alchemica circa la nigredo, per
limitarmi alle persone nere che compaiono nei sogni.
E
convenzione junghiana considerare questi neri come ombre, e su questo non ci
sono obiezioni possibili. Va detto, tuttavia, che la psicologia analitica ha
la tendenza ad attribuire a queste ombre nere una qualità terrestre nel senso
di Gea o di Demetra, e dunque a vederle come un potenziale di vitalità
(sessualità, fertilità, aggressività, forza, emotività). Inoltre, il contenuto
dell'ombra nera è stato ulteriormente condizionato da sovrapposizioni sociologiche.
Sull' interpretazione dell' immagine influiscono le associazioni personali ai
neri di una data cultura. Oggi, nella nostra, si pensa che l'ombra nera
apporti spontaneità, rivoluzione, calore o musica; ovvero, al contrario, una
criminalità di cui avere paura. In altre epoche, le figure nere nei sogni dei
bianchi avrebbero forse rappresentato fedeltà, o qualità scimmiesche, o
pigrizia, servilismo e stupidità, oppure sarebbero state tradotte come forza
maestosa e come la totalità, insomma l'Anthropos o «uomo originario », I neri
hanno dovuto portare su di sé ogni sorta di ombra sociologica, dalla religiosità
e fedeltà autentiche alla codardia e al male. Tutte le varie mode sociologiche
hanno dimenticato che l'Uomo Nero è anche Thanatos.
Come
abbiamo visto, nell'antico Egitto gli abitanti dell'oltretomba erano neri, e a
Roma essi erano chiamati inferi e umbrae. Scrive Cumont al riguardo:
«Questo termine implica, oltre all'idea di essenza sottile, anche quella che
gli abitanti dei cupi spazi sotterranei fossero neri; spesso è questo infatti
il colore loro attribuito. Nero era anche il colore delle vittime offerte ai
defunti e degli indumenti a lutto indossati per onorarli ».
A
mio avviso, sarebbe più corretto dal punto di vista archetipico, e quindi più
psicologico, considerare le persone nere dei sogni in base alla loro affinità
con il contesto infero. I loro attributi (occultezza, stupro) appartengono alla
fenomenologia «della violazione» di Ade, di cui abbiamo già parlato, così come
la situazione di essere inseguiti da persone nere assomiglia alla persecuzione
dei demoni della morte. Sono fantasmi che ritornano dall'oltretomba rimosso,
non semplicemente dal ghetto rimosso. Il loro messaggio è psichico prima che
vitalistico. Ci atterrano e ci rubano i nostri «beni» e minacciano l'Io
barricato dietro le sue porte sprangate.
In
altri termini, benché il nostro pregiudizio sociologico non ammetta tale
possibilità, questo loro aspetto di figure terrificanti potrebbe essere la sede
della loro vera forza dinamica. Poiché vengono dal regno della morte, furtive
nella notte, è naturale che ci terrorizzino. Ma l'angoscia, come Freud ci ha
insegnato, segnala il ritorno del rimosso, e oggi il rimosso sa il cielo che
non è certo la sessualità, né la criminalità o la brutalità: tutte le cose che
a nostro dire le figure nere «rappresentano », No, le figure nere rendono
presente la morte; il rimosso è la morte. E la morte conferisce loro dignità.
Se
accettiamo fino in fondo questa idea, dunque, le persone nere dei sogni non
dovranno più farsi carico dell'ombra sociologica della primitività (a beneficio
della fantasia egoica dello sviluppo), della vitalità (a beneficio della forza
eroica dell'Io), o dell'inferiorità (a beneficio della fantasia morale o politica
dell'Io). Insomma, ci lasceremo alle spalle una finta psicologia del Negro, per
arrivare a un'autentica psicologia dell'Ombra, un tentativo di restituire alle
figure nere «l'idea di essenza sottile».
Quanto
alla malattia nei sogni, tutto ciò che appare ferito, malato o morente può
essere visto come quel particolare contenuto che conduce il sognatore nella
Casa di Ade. (Nelle tradizioni popolari, le malattie degli animali e dei
bambini sono provocate da un demone della morte). Si tratta di contenuti della
massima importanza psicologica, essendo stati scelti dal lavoro onirico come
materiale per il suo opus contra naturam. Queste immagini vogliono produrre un
cambiamento in noi (mentre di solito pensiamo di dover essere noi a
modificarle), e pertanto svolgono la funzione dello psychopompos. I contenuti
onirici dal più elevato potenziale ai fini del fare anima sono quelli
patologizzati (di questo tema ho trattato più estesamente in un altro libro).
Il
fatto di adottare una prospettiva archetipica tratta dal mondo infero, ci mette
in grado di correggere l'interpretazione analitica, per esempio, dell'«Anìma
malata». Non c'è bisogno di considerare la cosa in modo così personalistico o
naturalistico. Come scrive Herzog, «in moltissimi racconti si dice che Huldra,
Frau Holle e Frau Welt hanno la schiena cava o marcescente, o piena di vermi e
di serpenti e in via di putrefazione ». Di solito, quando si incontrano
figure del genere nei sogni e anche nelle fiabe, la mossa interpretativa
consiste nel diagnosticare un'«Anima malata», nel dire che l'immagine mostra
come sia malconcia l'Anima (il sentimento, la femminilità, l'eros e chi più ne
ha più ne metta) nella persona che ha fatto il sogno o nella cultura che «ha
fatto» la fiaba.
Invece
di considerare questa immagine alla stregua di un'anima trascurata, che ha
bisogno di essere salvata, medicata o sviluppata, tutti appelli al senso di
colpa perché l'Io faccia qualcosa, si potrebbe vederla come un'anima sottoposta
al processo della putrefactio, un
movimento simile alla caduta di Persefone nel baratro. La carie, il serpente e
il verme del mondo infero stanno già penetrandola, non visti, da dietro.
Quando
parliamo di animali, teniamo presente che il regno animale è più vasto del
nostro. Noi stessi ne facciamo parte e vi siamo soggetti: dunque sulle loro
immagini ci è lecito esprimere solo qualche cauta e rispettosa osservazione, in
quanto concittadini di un regno con il quale noi, animali umani, abbiamo
ultimamente instaurato rapporti alquanto cattivi.
Generalmente
nella psicologia del profondo le immagini animali sono interpretate come
rappresentazioni della parte animale, cioè istintuale, bestiale, sessuale
della natura umana. Alla base di questa interpretazione sono riconoscibili la
teoria evoluzionistica e il pregiudizio cristiano. lo preferisco considerare
gli animali dei sogni come Dei, come potenze divine, intelligenti e autoctone,
cui è dovuto rispetto. Gli inderogabili modelli di comportamento seguiti
dagli animali in natura sono simili alle leggi di Dike e di Temi, che
mantengono gli Dei entro i limiti fissati. L'ecologia è come il politeismo:
entrambi mostrano configurazioni di potenze autoctone che si compenetrano e si
limitano reciprocamente; ciascuna potenza, uno splendore qualitativo, una presenza
che è al tempo stesso esemplare unico e genere universale. Come gli Dei, gli
animali hanno bisogno gli uni degli altri e ciascuno, entro i limiti della
propria specie, segue una giustizia divina.
Le
cose che ho appena detto non sono troppo assurde, perché la storia dell'arte e
la storia delle religioni (peraltro storicamente difficili da separare)
mostrano che gli Dei si presentano in forme animali, che gli animali sono le
offerte sacrificali più gradite agli Dei e che il rapporto con gli animali
richiede una sensibilità e una ritualità non dissimili da quelle richieste nel
rapporto con gli Dei.
Poiché
preferisco non considerare le immagini animali come nostri istinti, per
rispondere alla loro apparizione nei sogni non ricorro all'ermeneutica della
vitalità. Anzi, cerco di lasciarmi alle spalle l'idea che gli animali ci
apportano vita o esprimono la nostra potenza, ambizione, energia sessuale, sopportazione
o qualsiasi altra manifestazione del rajas, le fameliche pretese e i peccati e
i vizi coatti che sono stati addossati agli animali nella nostra cultura e che
continuano a venire proiettati su di essi dalle nostre interpretazioni dei
sogni. Guardare gli animali dei sogni da una prospettiva infera significa
considerarli portatori di anima, forse portatori totemiei della nostra stessa
anima-libera o anima-morte, venuti ad aiutarci a vedere nel buio. Per scoprire
chi sono e che funzione hanno in un sogno, dobbiamo innanzitutto osservare
l'immagine, facendo un po' meno caso alle nostre reazioni. Come cacciatori in
attesa nel capanno o sulle orme di un cervo, controvento, tutta la nostra
attenzione è concentrata sull'immagine, i sensi all'erta a coglierne
l'apparizione, noi stessi umili, eclissati in quell'intensità, per meglio
seguire i movimenti esatti della sua spontaneità. Allora forse riusciremo a
capire che significato l'immagine animale ha presso di noi in quel sogno. Ma
nessun animale significa mai una cosa soltanto, e nessun animale significa
semplicemente morte.
Nei
miti e nel folclore del mondo infero della nostra tradizione solo poche specie
di animali ricorrono regolarmente: il cane di Ecate, Cerbero di Ade, Anubi, il
dio-sciacallo nerazzurro; il cavallo del carro di Ade, i cavalieri della morte,
i cavalli degli incubi; gli uccelli, se piccoli sono anime, se grandi sono
alati demoni della morte; il serpente, come aspetto ctonio del dio, la parte
che scivola nell'invisibilità attraverso le crepe del terreno e incarna
l'anima del defunto. Poi ci sono particolari animali sacri a Dei e Dee che
hanno forti legami con il mondo infero: le vacche gravide sacre a Tellus; i
maiali sacri a Demetra; i cani sacri a Ecate. In alcune fiabe la morte si presenta
sotto forma di pesce, di lupo, di volpe. Un animale non meglio specificato,
nero e dotato di corna è frequentemente un'immagine animale della morte. A
volte questa figura è immaginata come una capra nera. Le capre, scrive
Farnell, non sono mai state animali amati dagli eroi." Nel mondo
classico, in particolare, alle potenze ctonie si sacrificavano animali neri.
Un
posto speciale merita il ragno dei sogni, perché normalmente il ragno non è
associato al simbolismo del mondo infero. Le immagini di ragni vengono
generalmente incorporate nella ragnatela della Grande Madre, che fila
illusioni (Maya), tesse trame paranoidi, pettegolezzi velenosi e relazioni appiccicose
e soffocanti, nonché in fantasie anali di potenza. Talvolta gli junghiani
interpretano il ragno come il Sé negativo (in quanto creatura nera, a otto
zampe, che tesse figure di mandala): il ragno, cioè, verrebbe quando il
sognatore teme la forza inconscia dell'integrazione.
Benché
i ragni naturali vivano perlopiù nella terra, i ragni dei sogni appaiono di
solito nell'aria, un'aria del mondo notturno, affine al mondo infero, che è
ctonio, pneumatico. Esiste un intelletto infero, una mente ctonia della natura
che deve filare le sue strutture, fabbricando reti capaci di catturare e
trattenere qualsiasi fantasia alata la sfiori. Ricordate l'immagine platonica
di Ade, dalla mente cosi meravigliosa che le anime non vogliono più lasciare il
suo regno? Lasciate ogni speranza, o voi che entrate. Non c'è scampo dalla
tela del ragno, e lo spirito puer, che è un peso mosca, ha soprattutto paura
della mente ctonia. Perciò, caro lettore, quando il ragno entra nel tuo sogno,
non fargli la diagnosi; rivolgiti all'altra metà della coppia, a te stesso, l'Io
onirico: sei per caso Miss Muffet, che si tiene stretta la sua tazza, o sei
tutto un ronzare di piccoli pensieri; impaurito dalla sintetica potenza
immaginativa della mente profonda, che intesse il tuo destino nell'intelligenza
organizzatrice sottostante alla natura?
Ma
il punto essenziale è che molte sono le vie animali di accesso al mondo
infero. Possiamo essere guidati o cacciati giù da cani e incontrare il cane
della paura, che ci sbarra la strada se vogliamo scendere più a fondo.
Possiamo esservi trascinati dall'inebriante energia dei cavalli di un motore
su di giri; o scendere attraverso l'aria, come un uccello, in tutte le sue
maniere (con un chiacchiericcio animato, librandoci, in picchiata); in un
raptus improvviso dello spirito, l'impulso suicida di una rapida mossa della
mente. Possiamo scendere per mezzo della nostra «maialità», che possiede
anch'essa, nel fondo, una santità nascosta. Ancora una volta, la discesa e la
morte che l'animale costella non sono necessariamente, per il fatto che
l'animale è un essere fisico, quelle del nostro essere fisico. Questo
significherebbe prendere l'immagine animale letteralmente. Piuttosto,
l'animale esprime un familiaris, un fratello-anima, muto al nostro fianco, o
un dottore dell'anima, esperto di leggi psichiche diverse da quelle dell'Io
diurno e che per il mondo diurno sono una morte.
La
diffusa credenza che gli animali incarnino le anime dei defunti dovrebbe
insegnarci un rispetto speciale per gli animali che vengono a visitarci la
notte. Da una prospettiva notturna essi sono rappresentazioni di specifiche
qualità e comportamenti dell'anima, aspetti essenziali che non possono rappresentarsi
meglio che in quella forma animale.
L'apparizione
di un animale ci reintegra in Adamo. Recuperiamo il primo uomo nella caverna,
mentre disegna l'anima animale sulle pareti sotterranee dell'immaginazione.
Certo, i vari animali presentano stili e forme di vitalità, per cui tendiamo a
dire: «Gli animali nei sogni rappresentano gli istinti. Simboleggiano la
nostra bestialità e primìtività». No, non è così; prima di tutto, perché essi
non sono nostri e tantomeno sono noi; in secondo luogo, perché essi non sono
immagini di animali, ma immagini come animali. Gli animali del sogno ci
mostrano che il mondo infero ha fauci e artigli, aprendoci alla consapevolezza
del fatto che le immagini sono forze demoniche. Il minimo che possiamo fare per
gli animali dei sogni è di riservargli il primordiale rispetto dell'uomo delle
caverne, che disegnava al buio, la faccia alla parete; il rispetto di Adamo,
che li osservò con tanta attenzione da trovare a ciascuno il suo nome.
Occorrono caverne vaste e attenzione amorevole. Allora forse essi verranno e ci
racconteranno di sé.
L'iniziazione
al mondo infero può essere avviata da un sacrificio animale compiuto in un
sogno. Un sacrificio che non sarebbe giusto considerare solo dal punto di vista
del mondo diurno, come rinuncia a una parte del desiderio vitale. Per esempio,
una donna iniziò l'analisi con un sogno in cui doveva «far sopprimere il suo
cane»; Era il vecchio pastore tedesco di casa e ora lo teneva la figlia. Nel
sogno la donna porta il cane dal veterinario, il dottore degli animali, che lo
«addormenta». Il sogno metteva insieme il motivo di Demetra-Persefone, lo
spirito di protettività e di vigilanza della famiglia, che, come un cane
pastore, manteneva la donna dentro il gregge, docile e timorosa, e il cane
inteso come spirito guida nel regno dei morti. Il cane viene consegnato al
Sonno e alla Morte, e anche la sua padrona, attraverso i suoi sentimenti di
perdita, di apatia e di solitudine, scende nel loro regno. Il dottore degli animali
è anche un dottore animale, ovvero qualcuno che possiede sapienza animale ed è
adatto a officiare i riti mortuari della terapia per ciò che riguarda
l'animale. A quel sogno fecero seguito molti incontri con fantasmi di famiglia,
parenti defunti, desideri perversi, antiche colpe. La donna non aveva più il
cane a proteggerla dal cane. Ora il cane governava il suo paese del sonno, la
sua terra addormentata, e scavando riportava in superficie ogni sorta di ossa
e di detriti. Aveva avuto inizio una nekyia.
Quanto
ai corpi d'acqua che compaiono nei sogni (oceani, fiumi, laghi, piscine, vasche
da bagno), tralasceremo il simbolismo delle acque lustrali e battesimali,
della sapienza dottrinale e della madre uterina, e anche il significato troppo
generico di energia vitale, di Mercurio e di inconscio. Prenderemo spunto,
invece, da Eraclito (fr. 36/A53): «Per le anime è morte diventare acqua ... »
e (fr. 77, Freeman/ A49): «E godimento, o piuttosto morte, per le anime
diventare umide». Jung ha elaborato il tema della morte dell'anima per acqua
nel suo classico lavoro sul Rosarium Philosophorum (Opere, XVI, Psicologia
della traslazione), dove offre una quantità di straordinarie intuizioni
psicologiche sulle molteplici connessioni simboliche dell'acqua. Anche Jung si
richiama a Eraclito.
Se
colleghiamo l'affermazione di Eraclito sull'acqua e la morte con la famosa
massima degli alchimisti: «Non eseguire alcuna operazione finché ogni cosa non
sia diventata acqua», vediamo come l'opus
abbia inizio nella morte. Quando un'immagine onirica viene inumidita, vuol
dire che essa sta iniziando il processo della dissolutio e comincia a diventare più psichizzata, nel senso di
Bachelard, a trasformarsi in anima, perché l'acqua è l'elemento precipuo della rèverie, l'elemento delle immagini
riflessive e del loro incessante, inafferrabile flusso. L'inumidimento nei
sogni allude al godimento dell'anima per la propria morte, al piacere che
prova nello sfuggire attraverso l'acqua alle fissazioni nelle occupazioni
letteralizzate.
Entrando
nell'acqua, allentiamo la presa sulle cose, sciogliamo i nostri blocchi. Le
«acque» in cui ci immergiamo possono essere paragonate a un nuovo ambiente o a
un nuovo corpo dottrinale, che ci avvolge e che può sostenerci ma anche
risucchiarci nelle sue profondità. Possono essere paragonate a una nuova
relazione sessuale, nella quale il corpo nudo si immerge, un fiume che trascina
impetuoso (Poseidone era fiume e cavallo) o sul quale galleggiamo, sostenuti e
mossi dalla sua profondità. Le acque possono essere fredde, tiepide o calde,
gonfie, basse, limpide: come dice Bachelard, il linguaggio dell'acqua è ricco e
particolarmente adatto alla rèverie
metaforica. Il mondo infero distingue almeno cinque fiumi: il gelido Stige,
l'infuocato Piriflegetonte, il luttuoso Cocito pieno di gemiti, il nero
Acheronte della depressione, e il Lete (si veda la sezione seguente). Anche in
questo caso dobbiamo prestare attenzione al tipo di acqua che appare nel sogno,
e non dare per scontato che i fiumi simboleggino sempre il flusso della vita.
Poiché
l'iniziazione all'acqua di solito porta una nuova rinfrescante liquidità, gli
interpreti di sogni hanno identificato l'acqua con le emozioni (gli affetti, i
sentimenti), ma in realtà il movimento prodotto possiede la qualità
impersonale degli elementi, come l'acqua appunto. A osservare con attenzione
il sogno, si vede che di solito l'emozione è situata nella riarsa anima-Io, non
già nell'acqua, che il più delle volte si limita a esserci, fredda,
spassionata, ricettiva.
Dunque
il piacere dell' anima-immagine è il terrore dell'anima-Io. Nei sogni
l'anima-Io ha il terrore di affogare nei fiumi tumultuosi, nei gorghi, nell'onda
di marea, cosa che naturalmente gli interpreti (è così riarsa la loro anima?)
tendono a tradurre come se il sognatore fosse in pericolo di essere travolto
dall'inconscio in una psicosi emotiva, sommerso dalle fantasie, senza
terraferma, senza punti di appoggio. Eraclito, però, come la psicologia
alchemica, vede la morte per acqua come un modo per dissolvere un certo tipo di
terra mentre un altro ne emerge. Il frammento 36/ A53 (nella traduzione di
Freeman) prosegue: «Per le anime è morte diventare acqua; e per l'acqua è morte
diventare terra. / Dalla terra sorge l'acqua e dall'acqua, l'anima».
Le
fissazioni letterali in problemi terrestri arrestano il moto dell'anima, e in
questo senso «è morte diventare terra». L'anima vuole continuare a fluire,
vuole penetrare. D'altro canto, poiché morte significa anche prospettiva
animica, queste stesse fissazioni immettono anima nella terra e terra nell'anima,
dando alle cose materiali un nuovo senso psichico. Si forma una materia
psichica, vale a dire, «dalla terra sorge l'acqua». Cominciamo a vedere e a
sentire psicologicamente che cosa è importante, ha peso, nelle fissazioni
dell'anima. Questo rigenera l'acqua, oltre che l'anima.
Le
letteralizzazioni che uccidono il flusso e sotterrano l'anima devono sempre
dissolversi; al tempo stesso ciò che è dissolto trova sempre nuovi terrapieni
per arrestare il flusso. E un processo ciclico, come nell' alchimia; descrive
un ciclo del fare anima, per il quale è necessaria la dissoluzione nell'acqua.
Temere le acque del sogno è temere di essere circondati e sommersi nel corpo di
questo ciclo che per l'anima è godimento.
Anche
la questione della memoria e dell'oblio può essere esaminata in modo nuovo,
questa volta dalla prospettiva di Lete, Oblio, che, come ricorderete, fa parte
della cosmogonia orfica: sogni, sonno, morte e oblio. Oltre a diventare materia
poetica per i romantici, Lete, la sorgente dell'oblio, ha svolto un ruolo
importante anche nello sviluppo della psicologia del profondo, che iniziò con
l'indagine di Freud sulla perdita del ricordo (nell'isteria) e sui lapsus e i
buchi di memoria, le piccole dimenticanze della coscienza, le Fehlleistungen. Jung mosse nella
medesima direzione, sulle tracce del dimenticato nello stato di disattenzione
durante esperimenti di associazione verbale e con le sue ricerche antropologiche
in aree della psicologia che avevano subìto un processo di oblio collettivo
(gnosticismo, alchimia, mitologia). Seguendo Lete, Freud e Jung furono
condotti nel mondo infero.
Purtroppo,
però, la psicologia pone l'accento sull'attenzione e sul ricordo; il mondo
diurno vuole, anzi deve assolutamente, avere «buona memoria»; una cattiva
memoria è più disastrosa per il successo di quanto non lo sia la cattiva
coscienza. Di conseguenza dimenticare diventa segno di patologia. Ma la
psicologia del profondo, in quanto si basa su una prospettiva archetipica,
potrebbe intendere la dimenticanza come qualcosa che serve uno scopo più
profondo, e vedere nei lapsus e nei vuoti del mondo diurno gli strumenti con i
quali gli eventi sono trasformati ed espunti dalla vita personale, svuotandola,
sgombrandola. In un modo o nell'altro, dovremo migliorare il nostro rapporto
con Lete, visto che esso regna su molti anni della vita, specialmente gli anni
finali, e sarebbe sciocco liquidare la sua opera come qualcosa di soltanto
patologico. I romantici prendevano molto seriamente Lete.
Kerényi,
in un articolo dedicato a Lete e a Mnemosine, ipotizza che nell'antichità
queste figure avessero un significato inverso a quello che attribuisce loro il
nostro attuale punto di vista diurno. Dimenticare doveva allora significare il
vano scorrere della vita, come un fiume, come l'acqua delle Danaidi, le cui
anfore erano forate come colini: un altro mitologema del mondo infero
evocativo delle anime non fatte, incompiute. Questo scorrere continuo della
vita porta a una sete inestinguibile di sempre nuova vita e a bere le acque
dell'oblio, che non fanno che accrescere la coazione a cercare nuovi afflussi e
deflussi. Ciò che è dimenticato non è questo o quel fatto, questo o quel viso,
ma la memoria archetipica stessa, Mnemosine, la madre delle Muse e della
mente assorta nei ricordi, che sola potrebbe placare quella sete. Questo modo
di intendere Lete offre sostegno alla nostra idea: forse ciò che viene
dimenticato, e in tal modo espunto dal mondo diurno della nostra vita, è
appunto ciò che - quando si sia distolta l'attenzione dalla ricerca accanita
del dato perduto e la si sia spostata sul senso di vuoto, di smarrimento che il
dimenticare si lascia dietro - rende possibile l'afflusso di un'altra sorta di
memoria, che è anch'essa la madre della riflessione rimemorante.
Gli
esempi di smemorataggine nei sogni (disattenzioni, parole dette per sbaglio,
errori di persona, sonnolenza, ubriachezza, non ultimo dimenticare il sogno
stesso) non saranno soltanto indicatori di un complesso (una lettura, in fondo,
determinata dal valore che il mondo diurno attribuisce all'attenzione), né
andranno riferite soltanto a un severo censore posto su una soglia
inamovibile, ma saranno mezzi per condurre gli eventi in un altro regno archetipico.
Il sogno dimenticato è il sogno che oppone resistenza a essere ricordato,
forse perché la memoria è stata soggiogata al mondo diurno e il sogno dimenticato
si rifiuta di servirlo. Si rifiuta di consegnare i suoi contenuti ai fini del
rafforzamento dell'Io. Quanto più il mondo infero ci inumidisce, come avviene
nell'analisi, tanto meno Lete oppone resistenza. I sogni arrivano più
facilmente, perché ora abbiamo rapporti migliori con l'intera famiglia a cui
Lete appartiene. Il fatto che ci sia una relazione tanto intima tra dimenticare
e sognare implica che il sognare stesso, come abbiamo detto in precedenza, è
un processo consistente nel dimenticare, nel rimuovere dalla vita certi
elementi, in modo che non rivestano più tanto interesse, nel lasciarli
scivolare via con la corrente, un movimento che allontana dall'Io e avvicina
alla psiche.
Se,
come dice Freud, il mondo infero non conosce il tempo, allora puntualità e
ritardo non vi hanno posto. Eppure, nei sogni essi sono esperienze comuni. Siamo
troppo in ritardo per prendere l'aereo, corriamo per arrivare a un
appuntamento ma gli ingorghi e gli ostacoli si moltiplicano, sbagliamo a
leggere l'ora e arriviamo un'ora dopo che è cominciato l'esame (lo spettacolo,
il convegno), perdendoci l'inizio. Peggio di tutto, cerchiamo disperatamente
di recuperare il tempo perduto, ma scopriamo che le gambe non ci ubbidiscono,
sembrano impaniate, paralizzate.
Queste
emozioni di ansia affannosa vanno lette a partire dall'immagine. Scopriamo così
che l'Io onirico ha il terrore della lentezza, specialmente della lentezza
della parte inferiore del suo corpo. Scopriamo che le immagini di puntualità
sono adattamenti ideali al tempo altrui, fissazioni sull'orologio che
mantengono funzionante l'Io onirico. Nei sogni la puntualità rivela un Io
onirico conforme alla coscienza diurna, e il ritardo un Io che sta scivolando
nel disorientamento dell'atemporalità del mondo infero, nonostante gli sforzi
dettati dal panico. Il mondo infero ha cominciato a contagiare il mondo supero,
che adesso si spoglia dell'adesione al tempo e rallenta la sua coazione a
conformarsi a un ordine meccanico.
Perciò,
quando nei sogni troviamo frasi come: «Non c'era più tempo», «Dovevo
affrettarmi, o sarei arrivato in ritardo», «Il mio orologio doveva essere
indietro», «E ora mi sarei perso l'inizio», possiamo leggerle come
dichiarazioni che il tempo si è fermato. La «sveglia» non scatta, il
meccanismo si è inceppato. L'esperienza è quella di avere perduto tempo e di
essere perduti fuori dal tempo in uno spazio psichico dove il moto in avanti
non è più possibile. Non esistono più né partenza né nuovo inizio. Gli arti
inferiori hanno fatto segretamente lega con ciò che ci insegue: ecco perché le
gambe si rifiutano di proseguire la corsa. E subentrata la stasi. Progressione
e regressione diventano costrutti senza validità: non c'entrano niente con il
mondo infero.
Questo
passaggio dal tempo del mondo supero a quello del mondo infero, attuato con
l'esperienza del ritardo e dello scadere del tempo, può essere paragonato al
passaggio dalla narrazione all'immagine compiuto espungendo da un racconto gli
avverbi di tempo. I racconti si dipanano nel tempo: prima succede la tal cosa,
poi questa e questa, poi quest'altra. Ciascun «poi» è collegato a un poi
successivo. «Poi» ha una connotazione esclusivamente temporale; si riferisce
sempre a qualcosa che succederà dopo, spesso in conseguenza di qualcosa che è avvenuto
prima.
L'approccio
al «poi» a partire dall'immagine è di tutt'altro genere: il «poi» è sempre
correlato a «quando», invece che a una serie di altri «poi», e diventa semmai
un «allora». Gli eventi che accadono in un sogno sono immaginati senza preoccupazioni
di tempo, come se, anziché secondo la concatenazione lineare di una
narrazione, avessero luogo tutti contemporaneamente, per cui la loro successione
temporale non ha importanza.
Per
esempio: quando in un sogno tu (l'Io onirico) corri dal dottore, allora sei in
ritardo; e quando sei in ritardo, allora corri dal dottore. Correre ed essere
in ritardo si necessitano inseparabilmente a vicenda; si sviluppano l'uno
dall'altro e si intensificano l'un l'altro. Si presentano insieme in un'immagine
con lo studio del medico, ma nessuno dei due viene prima o è conseguenza
dell'altro.
Un
altro esempio: quando chiamano per la tavola rotonda delle tre del pomeriggio,
allora il tuo ascensore si blocca e non può salire al piano giusto; quando il
tuo ascensore si blocca e tu non puoi salire, allora avverti la chiamata della
tavola rotonda delle tre. Blocco e chiamata (alle «tre ») nel sogno compaiono
insieme, senza che una cosa preceda e causi l'altra.
Dalla
prospettiva imagistica, che legge il sogno come una dichiarazione di essenza,
non viene prima né la gallina né l'uovo. Perché non siamo in un tempo
narrativo, bensì in uno spazio immaginativo, dove gallina e uovo sono
reciprocamente necessari e sono correlativi simultanei. In una prospettiva infera
anche le idee di origine e di causalità sono costrutti privi di validità,
perché lì il tempo non ha corso e l'immagine esprime uno stato dell'anima che è
eterno (sempre in atto, ripetitivo).
Questo
passaggio al tempo immaginale libera gli eventi temporali dei sogni dagli
atteggiamenti del mondo diurno, vale a dire dalla superstizione naturalistica,
che fa riferimento al tempo «reale» e a orologi «reali». Ora, invece, i
fenomeni del ritardo sono mantenuti dentro l'immagine dell'ascensore o dello
studio del medico, perché è lì che hanno luogo il blocco e il ritardo: i
problemi temporali sono situati in un luogo preciso. La domanda è: in relazione
a chi e a che cosa, in particolare, è richiesta la puntualità e si costella la
fretta? Che cosa, esattamente, non risponde alle intenzioni dell'Io onirico: la
capacità di leggere le indicazioni, l'ascesa automatica (ascensore), il motore
di avviamento dell' automobile, il meccanismo della (s)veglia, i piedi e le
gambe? Cerchiamo il luogo del malfunzionamento, perché quello è il luogo della
patologizzazione, dove il lavoro onirico ha cominciato a smantellare il tempo
diurno.
Se
il sogno non si dipana nel tempo, essendo il mondo infero fuori dal tempo,
allora il sogno non ci conduce da nessuna parte, nel senso di indicarci una
meta. E quando lavoriamo con il sogno, dobbiamo abbandonare le speranze circa
il futuro. Il sogno arresta il tempo, e anche noi dobbiamo fermarci,
altrimenti il sogno scivola in una narrazione e ci trascina nella corrente del
tempo. Possiamo fermare il tempo evitando di leggere il sogno come se fosse
un racconto. Allora il sogno non ha fine. Questo significa sia che non sta
andando da nessun'altra parte, sia che continua sempre. Il sogno è bloccato in
se stesso, nelle sue immagini quali sono, e va letto per quello che avviene
nelle sue immagini. È bloccato entro i limiti della sua cornice, come un dipinto,
nel quale niente viene prima e niente viene dopo e che si legge articolando e
approfondendo le interrelazioni della sua immagine.
Se
il sogno non va da nessuna parte, allora lo stesso vale per l'Io onirico, a
sua volta inchiodato entro i limiti del sogno, intrappolato nell'immagine che
arresta la narrazione secondo il tempo del mondo supero, il tempo
dell'orologio, con il suo procedere regolare scandito da ore numerate. L'Io
onirico cerca di sfuggire all'immagine con il suo panico temporale. Vuole
precipitosamente recuperare il tempo perduto per paura di rimanere indietro,
cioè sotto.
Concentrandoci
sull'immagine in cui è incorporato il tempo, parte della quale è simbologia
dei numeri, ecco che mettiamo in evidenza l'aspetto qualitativo del tempo, come
facevano Artemidoro e altri interpreti di sogni dell'antichità, i quali
chiedevano sempre a che ora era avvenuto il sogno: subito dopo essersi
addormentati, a notte inoltrata e molto prima dell'alba, o verso mattina?
Benché possa sembrare che volessero fissare il sogno a un determinato livello
del sonno, in conformità con le loro teorie, di fatto essi invitavano il
sognatore a prendere nota della qualità temporale delle immagini oniriche.
Tali qualità temporali corrispondono a momenti psichici distinti: a colazione,
al ritorno da scuola, dopo l'ultimo spettacolo; esprimono momenti che
definiscono tonalità soggettive della coscienza: mattutina, pomeridiana,
serotina o notturna. Un'interrogazione alle due del pomeriggio, in un sogno,
ci esamina sotto il profilo delle duplicità e tensioni del due, ma
contemporaneamente è qualcosa che ha luogo dopo lo zenit, quando già il giorno
si avvia impercettibilmente al declino, per quanto sia difficile accorgersene,
nella luce e nel calore accumulati che ancora riverberano da un mezzogiorno
ormai alle spalle.
Quello
che vorrei recuperare, qui, è una sensibilità per le differenze tra le ore.
Sono anch'esse persone mitiche (Horae),
ciascuna con la propria distinta personalità. Il tempo nei sogni allude a
regioni della notte, luoghi dotati di qualità, come i dodici regni sotterranei
che il dio del sole egizio attraversava sulla sua barca della notte. Il
Con
le sue ricerche sul simbolismo del Sé, Jung ha istituito una convenzione
interpretativa: rotondità = il Sé. Il fondamento di questa ipotesi si trova
nelle sue analisi del mandala («cerchio»
in sanscrito). Da allora questa accezione della rotondità è applicata
categoricamente a ogni sorta di manifestazioni, dalle circonvallazioni
stradali, alle ciambelle, alle perle, agli UFO. Qualsiasi forma di mandala appaia
in sogno tende a essere interpretata con categorica letteralità secondo
l'affermazione di Jung che tali figure circolari sono «un tentativo di autoguarigione
»; La premessa di Jung si basa in parte sulla stretta associazione linguistica
tra heal, «guarire, hale, «integro», heil, «sano e salvo» (in tedesco), e whole, «intero».
Il
mandala appartiene alla geografia psichica del Tibet, alla sua religione
misterica imperniata sul mondo infero e a una cultura fondata su quella
religione. Il Sé raffigurato nel mandala è pertanto una configurazione
differenziata di persone e luoghi in senso politeistico (non un semplice,
monoteistico cerchio, anello o sfera, in conformità con le aspirazioni
dell'Occidente a un monismo unitario). Poiché l'immagine deriva da una cultura
centrata sul mondo infero, può legittimamente essere letta soltanto da una
prospettiva infera. La presenza di un oggetto o una struttura a forma di
mandala in un sogno può bensì indicare un'integrazione, come ha detto Jung, ma
si tratta di un'integrazione nel mondo della morte del Bardo Thodol. Cioè di
una perdita di realtà nella consueta accezione diurna del termine. Perciò, se
la manifestazione spontanea del cerchio in un sogno è un tentativo di
autoguarigione, tale guarigione significa morte nel senso che siamo venuti
elaborando in questo libro.
Quando,
seguendo Jung, compiamo il passaggio dal mandala inteso come cerchio al mandala
inteso come integrazione, cioè da un'immagine della rotondità al concetto della
totalità, dovremo tenere ben presente l'ombra della morte che è implicita nel
mandala. La totalità considerata soltanto dalla prospettiva naturale, come
crescita (la persona a tutto tondo, dove «tondo» rimanda all'idea di riempimento
anziché di svuotamento), diventa un'integrazione a carattere difensivo, un
rafforzamento ottenuto pigiando riempitivi nei buchi della nostra natura, quei
buchi che sono le vie per mantenerci in contatto con il mondo infero. Jung
stesso sottolinea il possibile uso difensivo del mandala e mette in guardia
dalla «ripetizione artificiosa o l'intenzionale imitazione di tali immagini»
(Opere, IX, I, p. 383). La funzione difensiva è insita nella natura stessa del
cerchio. Il cerchio può facilmente diventare chiusura paranoide del
significato, perché, includendo tutto nella sua totalità, tiene a bada il mondo
infero nel momento stesso in cui lo rappresenta. Così come il mandala tibetano
è una modalità di meditazione che protegge l'anima dall'attacco dei demoni,
alla stessa stregua il Sé, in quanto totalità onnicomprensiva, impedisce alla
natura demonica degli eventi psichici di arrivare fino all'anima. La rotondità,
nel Sé come nel mandala, è protettiva, è un temenos
che offre sempre protezione soprattutto alle nostre tendenze paranoidi. Un
cerchio è centrato, completo, non ha bisogno di altro oltre se stesso. E il
sistema perfetto. Dunque «sbagliato» non è soltanto l'uso scorretto che si può
fare del mandala nel mondo diurno; la possibilità di errore è data con il
cerchio stesso.
Nel
simbolismo occidentale arcaico il cerchio è un luogo della morte. Lo ritroviamo
nel cerchio sepolcrale e nel tumulo funerario poi ripresi nei cimiteri
cristiani circolari. Sia la ruota sia l'anello (specie come ghirlanda) possono
essere letti come espressioni del mondo infero. Essere legati alla ruota (come
nel supplizio di Issione) è essere collocati in un luogo archetipico, legati
alla ruota della fortuna, alle rotazioni della luna e del fato, alle infinite
ripetizioni che ci riportano eternamente alle medesime esperienze, senza
remissione. Tutto si muove e nulla cambia; la vita come déjà vu. La connotazione infera del cerchio è particolarmente
evidente presso i celti, scrive Margarete Riemschneider. Nella mitologia
celtica la ruota e tutto ciò che rotola possiedono un'intenzione arcana e
sinistra. Gli anelli sono cerchi chiusi e il cerchio si chiude su di noi, si
tratti della vera nuziale, della corona di alloro o della ghirlanda funebre.
Non c'è via d'uscita, e «senza via d'uscita» è stata definita anche Necessità
(Ananke). L'etimologia della parola greca ananke
rimanda al collare che stringeva il collo di schiavi e prigionieri. La ruota
impartisce il moto all'anello chiuso, ed ecco che siamo in un rotolare ciclico,
coatto, senza fine. Presi in un meccanismo: vedi le previsioni apocalittiche
che accompagnano il progresso tecnologico (il quale, prima ancora che con la
ruota, inizia con il collare dello schiavo) o il senso di tragedia che
accompagna gli allori della vittoria.
La
ruota è un modo universale per misurare il tempo, rappresentato come ciclica
rotazione di giorni e notti. Noi giriamo con il tempo, e mentre lo spazio, come
dice Bachelard, ci è amico, il tempo ha in sé la morte. Dunque l'ora di
analisi, quella peculiare liturgia del tempo su cui, da Freud in avanti, si
fonda la psicoterapia, ha in sé la morte, come la sabbia nella clessidra. Il
dentista, l'internista, il chirurgo non assegnano il tempo allo stesso modo:
nel loro caso, il medico si basa sul tempo che occorre per svolgere il suo
compito; non interrompe il lavoro in base all'orologio. Invece la psicoterapia
si fa a ore. Si conforma alla grande ruota. Ciascuna delle sue ore, evocando la
morte, evoca l'anima. E «l'ora» rimane, anche quando il terapeuta cerca di
liberarsene (facendo durare la seduta quarantacinque minuti, concedendo
sedute fuori dall'orario); è come se il giro dell'orologio e lo svuotamento
della clessidra che l'analisi implica fossero essenziali per il suo processo
di morte-guarigione.
A
volte delle immagini spontanee della rotondità producono una guarigione, al di
là della difesa paranoide, al di là della sicurezza cercata dentro il proprio
privato programma di integrazione personale. Dunque vuol dire che queste
immagini offrono un'integrazione di tipo diverso, impersonale. L'anima-libera
individuale entra in una prospettiva di necessità cosmica. Diventiamo parte del
cerchio nel quale ci muoviamo, qualunque cosa sia quel cerchio: la nevrosi, la
società, l'intelletto. Siamo diventati necessari a esso e attirati in esso.
La
ripetitività delle situazioni circolari, quel girare senza posa nella spirale
dei nostri stati, ci obbliga a riconoscere che questi sono la nostra propria
essenza e che il moto circolare dell'anima (secondo Plotino, il suo moto
innato) non può essere distinto dal cieco fato. È come se per l'anima non si
trattasse di liberarsi dalla cecità ma di liberare se stessa con quel suo
continuo rigirarsi nella cecità. In ultima analisi, se il mandala spontaneo
guarisce, lo fa perché costringe a un riconoscimento dei limiti della
coscienza, del fatto che la mia mente, il mio cuore e la mia volontà non
possono che girare in cerchio, e tuttavia quel cerchio è la mia porzione di una
necessità eterna.
Un'essenza
statica della personalità può apparire nelle figure oniriche che l'Io desto
giudica psicopatiche perché non sono toccate dai valori morali del mondo
diurno e perché non cambiano. Tali figure sono detenuti perenni del mondo
infero. Nei sogni li incontriamo sotto forma di assassini, nazisti e truffatori
dal fascino ingannatore.
Una
piccola parentesi: in queste pagine, uso il concetto di psicopatia in senso
intercambiabile con quello di sociopatia; preferisco il primo perché mantiene
la descrizione legata alla psiche, anziché riferirla in prima istanza al campo
in cui il comportamento «patico» si manifesta, cioè la società. La natura
della personalità psicopatica costituisce uno dei problemi più inesplicabili
della psichiatria. Ciò nonostante, nella letteratura ricevono di gran lunga più
spazio gli episodi schizofrenici acuti, la farmaceutica degli antidepressivi e
perfino le sindromi minori e circoscritte. Anche le menti più brillanti della
psichiatria, da Jung a Laing, hanno sempre dedicato un'attenzione molto
limitata a questa componente incorreggibile, distruttiva, incapace di imparare
e di cambiare.
La
psicopatia è tradizionalmente caratterizzata da due tratti principali. In primo
luogo si presume sia congenita e statica, in quanto non sono visibili segni di
apprendimento dall'esperienza né processi di miglioramento o peggioramento. In
secondo luogo è uno stato di «insanità morale», secondo la definizione che per
primo ne diede Prichard nel 1835, e la sua amoralità può toccare senza rimorsi
né espiazione le manifestazioni più estreme dell'egoismo e della crudeltà.
Questa combinazione di ripetitività infinita, di egocentrismo amorale e di
intrinseca distruttività suggerisce che la prospettiva infera può essere la
modalità idonea per cogliere lo psicopatico e, inoltre, che il mondo infero
non è soltanto un regno dell'anima, ma anche un regno della psicopatia. Freud
riconobbe questo mondo infero psicopatico insito nell'Es, al quale attribuì
«impulsi immorali, incestuosi e perversi ... voglie omicide e sadiche»
(Opere, X, p. 158). Freud parla del «male presente nell'Es» e ritiene il
sognatore moralmente responsabile del contenuto dei suoi sogni (ibid., 59).
Se
nel caso di altre immagini oniriche non è lecita la traduzione nella lingua
naturale, supera, dell'Io desto, perché si dovrebbe prendere in modo letterale
il «male presente nell'Es»? Non è anche questo un linguaggio analogico? Nei
sogni l'incesto, come ha osservato Jung, significa unione di simili e libido
famigliare. Analogamente, gli impulsi perversi possono riferirsi alle
connessioni contra naturam necessarie
per trasformare la natura in psiche. Anche i desideri omicidi e sadici possono
essere intesi analogicamente, come aspetti del desiderio di destrutturazione
necessario ai processi alchemici della mortificatio
e della putrefactio, dove le parti si
aggrediscono a vicenda al fine di realizzare una separazione radicale.
Mascheramento, inganno, sorpresa fredda, crudele: ora ci troviamo in un luogo
che è al di là del calore e della decenza umani, nel quale tuttavia avvengono
pur sempre operazioni psichiche, anche se ci è impossibile distinguere tra il
coltello a serramanico di un ragazzotto e il coltello rituale.
Se
vogliamo riuscire a convivere con la base della psiche, dobbiamo evitare di
guardare la sua bassezza con occhio moralistico. Sarà necessario, piuttosto,
guardare il mondo infero come fece Polignoto nel suo famoso dipinto di Delfi,
dove non c'era traccia di moralismo; allo stesso modo, «ogni giudizio sui morti
è estraneo alla poesia omerica»; allo stesso modo il culto di Ecate è amorale;
ed Ermes accompagna e Ade accoglie ciascuno di noi per come siamo,
indipendentemente dalla nostra moralità. Anche Freud sosteneva che nelle
profondità della psiche non esistono né bene né male, non esistono codici
morali e neppure la loro negazione. Laggiù una stessa parola può essere al
fondo ingannevole, significare contemporaneamente cose opposte; e quante volte
Jung non ha ripetuto che i sogni ci sviano e allo stesso tempo ci indicano la
strada (Opere, X, II, p. 298)? In quanto porzioni di natura oggettiva, i sogni
non hanno secondi fini morali. Pertanto, assumere un punto di vista morale nei
confronti del sogno non corrisponde al sogno e non gli parla con il linguaggio
delle somiglianze. Teniamo presente Ermes: paradossi, nero e bianco insieme.
Definire «buono» o «cattivo» un sogno,
dedurre una scelta da un sogno, trovarvi la correzione di un atteggiamento sono
tutte operazioni moralizzatrici, che introducono nel mondo infero un punto di
vista estraneo. E pretendere dal sogno che si assuma una responsabilità morale
e ci faccia da direttore spirituale. La coscienza morale e il Super-io sono
anch'essi fattori psichici, è vero, e questi concetti trovano il proprio
fondamento in figure oniriche rappresentanti la legge, l'ordine costituito o
un'autorità morale superiore; ma non possiamo liberarci magicamente dall'onere
e dall'onore dei problemi morali scaricandone la responsabilità sui sogni. Noi
vorremmo che i sogni ci guidassero sulla retta via e ci avvisassero quando
sbagliamo. «Ho fatto un sogno di avvertimento» diciamo. Eccola qui, la
«psicopatia», e di un genere insidioso: anziché assumerci la nostra decisione,
fingiamo che sia il sogno a decidere per noi («I sogni mi dicono che dovrei
separarmi, cominciare una storia, chiudere un rapporto», e via delegando).
Anziché vivere i rischi del confronto con gli altri, ci rifacciamo alla voce
interiore del sogno privato, che supponiamo superiore, e oggettiva. Questa sì è
amoralità sociale, cioè irresponsabilità, a cui ipocritamente conferiamo però
la ratifica incontrovertibile della psiche. Le immagini, al pari degli Dei, ci
fanno delle richieste, così come i sogni pretendono che li elaboriamo; ma i
sogni non ci dicono quello che dobbiamo fare.
Teniamo
ferma in mente la prospettiva di fondo esposta in questo libro, una prospettiva
enunciata del resto tanto tempo fa da Freud mentre prendeva in esame la
questione della moralità dei desideri onirici: «La realtà psichica è una
particolare forma di esistenza, da non confondersi con la realtà materiale»
(IS, p. 564). Le affermazioni di Freud e di Jung sulla amoralità del mondo
infero attestano che prese di posizione morali e comprensione psicologica sono
incompatibili. Di conseguenza le reazioni alle immagini basate sulla morale
sono reazioni non appropriate. Prima di esaminare un sogno, occorre sempre,
perciò, un lavoro preparatorio: dobbiamo de-moralizzare l'anima, liberarla dai
radicati criteri del mondo supero che le vengono dall'essere rimasta per
duemila anni confinata nelle celle del cristianesimo teologico, dove tutta la
sua immaginazione introversa era sottoposta
a giudizio morale. Ma gli «impulsi immorali, incestuosi e perversi» presenti al
fondo dei sogni dell'anima, di cui parla Freud, sono immagini psichiche, non
azioni morali.
Il sogno de-moralizzato diventa un pericolo
psicopatico soltanto nelle mani del traduttore che traspone le immagini in
messaggi diretti a promuovere azioni nella società. Il comportamento
psicopatico che c'e nel mondo non deriva dall'immagine, ma semmai dalla
traduzione dell'immagine in realtà materiali. Ancora una volta, la vera psicopatia
ha a che vedere con l'Io eroico, che ammiriamo per le sue azioni positive, più
che con le figure del mondo infero, che temiamo per le loro fantasie negative.
L'assassino onirico diventa tendenza psicopatica quando è trasposto nella vita,
ma nel mondo infero della «realtà psichica» l'assassino è una delle maschere
miti che della morte, allo stesso titolo della vecchia con la falce, che è solo
un modo più convenzionale di rappresentarla. L'assassino che compare in un
sogno non è semplicemente l'Ombra ostile, malvagia o «amorale» che il sognatore
deve riconoscere e integrare. Nell'assassino è presente una figura divina della
morte: Ade, o Thanatos, o Crono-Saturno, o Dis Pater (Dite) o Ermes, un demone
della morte che vuole recidere i legami che tengono la coscienza attaccata alla
vita.
Lo
stesso fanno le figure che ritornano di continuo, immutate: i ragazzi e le
ragazze della nostra adolescenza, che non sono invecchiati come noi, il padre
severo o la madre fredda, che continuano a pretendere il nostro sangue. Queste
figure, al pari di Aiace che ancora cova il suo risentimento, al pari di Didone
che volta le spalle, di Tantalo eternamente teso verso ciò che è inattingibile,
sono l'aspetto psicopatico, immutabile del complesso. I tentativi terapeutici di
mutare l'immutabile sono malriposti, partono da una confusione ontologica che
può condurre la psicoterapia nel mito di Sisifo. L'istinto di morte, secondo la
concezione di Freud (opere, X, p. 9) e di Fechner, cerca la stabilità; ovvero,
con il linguaggio di Platone, le anime nell'Ade sono incurabili (Gorgia, 525e);
non cambiano. Adesso chiamiamo « psicopatia» questo aspetto essenziale del
complesso che trascende la morale e il mutamento, eppure esso è psiche al grado
più puro e più stabile di permanenza, ciò che la filosofia definirebbe la sfera
dell'essenza. Pretendere che l'essenza psicopatica riconosca i valori morali
del mondo supero o si smuova dalle sue stabili fissità è agire come fecero
Eracle o Cristo negli inferi, che volevano salvare i morti anziché imparare da
essi. Per Platone (Cratilo, 403-404; Fedone, 80d) questa fissità, il fatto di
non poter lasciare Ade, non è una cosa di cui rattristarsi, perché Ade è così
intelligente, così buono, che l'anima desidera rimanere presso di lui per
sempre. E da questa fissità immutabile dell'elemento psicopatico che abbiamo
soprattutto da imparare circa la natura dell'anima.
Imparare
dal mondo infero significa imparare dall'elemento psicopatico. Lo so che è
chiedere quasi l'impossibile. Nei sogni posso trovarmi a infierire con il
coltello in preda a un raptus, posso vedere uno sconosciuto della mia età
inseguire un bambino con intenzioni sessuali o osservare mio figlio che
falsifica una firma e nega con disinvoltura il fatto: nei sogni avvengono e si
ripetono atti criminali come questi, e peggio. Ma proprio lì posso
ripetutamente attingere intuizioni profonde sulla personalità e sul
comportamento e conoscere più a fondo l'Ombra e i limiti essenziali che essa mi
pone. Il fatto che questi sogni si ripetano rivela la stabilità della mia
psicopatia, indica che adesso si è stabilizzata in essenze caratteriali. Se il
carattere è il nostro daimon custode
e il nostro destino, secondo alcune interpretazioni delle parole di Eraclito
(fr. 119/A112), allora questi schemi ripetitivi sono in realtà spiriti tutelari
che influiscono sulla realizzazione del mio destino, più di quanto non facciano
i miei rapporti e i miei progetti nel mondo supero.
Ma
l'Io diurno non vuole ammetterlo. Dice: benché questi orrori morali appaiano in
un sogno, occorre intervenire. Lo shock morale provoca il tentativo di
modificare un'immagine che è incurabile. Una volta di più vediamo come la
reazione morale sia inappropriata, e usata addirittura come difesa contro
l'immagine; è adesso, infatti, che subentra la vera minaccia: il complesso
dell'assistente sociale costellato dall'orrore morale. Non appena ci facciamo
prendere dallo shock morale, svicoliamo in una prospettiva sociale e prendiamo
le distanze mettendo in campo cause, rimedi e azione letterale. Ma questa è
appunto la prospettiva della psicopatia! Assistente sociale e sociopatico
dicono entrambi: è tutto all'esterno ed è tutto sbagliato; entrambi devono
sempre intervenire. A causa di questo letteralismo dell'agire, l'individuo sociopatico
è incapace di imparare dall'esperienza e l'assistente sociale è incapace di
intaccare la psiche del problema. Gli sforzi dell'Io diurno per gestire l'Ombra
amorale diventano altrettanto sterili delle ripetizioni del mondo infero. Anzi,
i miti del mondo infero si irrigidiscono in recidività, l'eterno ritorno dello
psicopatico alla sua amoralità e gli eterni tentativi di correzione da parte
delle istanze moralistiche della società.
Il
bisogno pressante di curare l'incurabile ci impedisce di riconoscere l'essenza
delle nostre limitazioni e i limiti che derivano dall'essenza psicopatica della
personalità. Peggio ancora: questo bisogno nasconde un impostore, il quale,
come un attore trasformista, si traveste da assistente sociale. Il ripetitivo
senso di disperazione e il ripetitivo disperato bisogno di curare hanno la
medesima origine: la natura amorale, non processuale del mondo infero.
E mia speranza che queste poche righe su un
tema così profondamente sconcertante possano se non altro indicare come mai la
psicopatia sia rimasta un tale enigma per la psicologia: perché la psicologia
ha proiettato il mondo infero totalmente all'esterno, nei bassifondi della
società, cercando di cogliere lì la spiegazione della psicopatia. Ma se la
psicopatia appartiene ai bassifondi della psiche, allora l'indagine deve
iniziare da dove Freud si è fermato: dalla pulsione di morte, non dalla
moralità.
Quando
nei sogni appaiono immagini di ghiaccio, si tende a immaginare che esse si
riferiscano a regioni dello spirito: montagne altissime, remota purezza polare,
lo splendore trasparente del pulito. Ma c'è un altro regno di ghiaccio: nel
profondo del profondo. Al di sotto dell'acqua, del fuoco infernale, del fango
c'è il nono girone dell'inferno, che è tutto di ghiaccio. Secondo Dante, è il
luogo di Caino, di Giuda e di Lucifero. Anche in alcune opere gnostiche è
descritta una regione di neve e di ghiaccio del mondo infero. Questo topos
ghiacciato è un altro modo di dare immagine alla psicopatia. Ma non solo.
La
discesa nel mondo infero può essere distinta sotto molti profili dal viaggio
notturno per mare dell'eroe. Abbiamo già messo in rilievo la differenza
principale: l'eroe ritorna dal suo viaggio notturno meglio attrezzato per i
compiti della vita, mentre la nekyia
è un viaggio nel profondo che l'anima compie per se stessa, sicché non si dà
«ritorno». Il viaggio notturno per mare si distingue inoltre per il fatto di
produrre calore interiore (tapas),
mentre la nekyia conduce al di sotto
di quella pressione contenuta, di quel temperamento nel fuoco della passione,
fino a una zona di freddo assoluto.
L'analisi
terapeutica rimane incompleta se si accontenta di recare balsamo a problemi
brucianti. Le resta ancora di avventurarsi nelle algide profondità che tanto
hanno affascinato poeti ed esploratori e che nella psicologia del profondo sono
le zone delle nostre cristallizzazioni archetipiche, delle inamovibili
depressioni e dei mutacismi della catatonia.
Qui
siamo intirizziti, raggelati. Tutte le nostre reazioni sono sospese, congelate.
Questo è un luogo psichico della paura e di un terrore così profondo da trovare
un paragone soltanto in esperienze sovrannaturali, come la morte vudù e il Totstell Reflex. Nel ghiaccio vive un
assassino. Oppure, il ghiaccio può essere esperito come distanza paranoica,
come quella descritta da Nietzsche nel «Canto della notte» di Zarathustra «Luce
io sono ... Ma questa è la mia solitudine, che io sia recinto di luce ...
Ahimè, ghiaccio è intorno a me, la mia mano si brucia al gelo ».
E
opportuno ricordare, a questo proposito, che Stige è un fiume di gelido odio,
posto a protezione del mondo infero, che possiede la sacralità e l'eternità dei
giuramenti prestati dagli Dei sulle sue acque glaciali. Se il ghiaccio svolge
una funzione nel mondo infero, allora la zona ghiacciata della nostra natura
svolge una funzione nell' anima. Il freddo glaciale (psicopatico, paranoico,
catatonico) non è assenza di sentimento o sentimento negativo, ma un tipo di
sentimento a sé stante. Caino, Giuda e Lucifero non sono raggiungibili dal
calore umano e dalle tecniche di partecipazione del cuore messe a punto dalla
psicologia, come se l'umanismo potesse ricostruire la Terra in modo che tutta
l'umanità vivesse nel tiepido equilibrio delle zone temperate. Caino, Giuda e
Lucifero non sono tiepidi, non sono temperati; il loro cuore è di un altro
genere. L'abisso ghiacciato dell'Ombra cristiana è un regno di importanza
fondamentale, che non può essere raggiunto con il cuore sanguinante del
cristianesimo. L'approccio archetipico a questa zona segue la massima
omeopatica: similia similibus curantur.
La nekyia nel ghiaccio dell'inferno
richiede freddezza. Se vogliamo stabilire una qualche connessione, dobbiamo
essere capaci di operare con gli estremi di crudeltà del ghiaccio. Possiamo
andare incontro a Caino, Giuda e Lucifero soltanto se prendiamo coscienza del
nostro desiderio di mentire e di tradire, di uccidere nostro fratello e di
ucciderci, del fatto che il nostro bacio ha dentro la morte e che esiste una
porzione dell'anima decisa a vivere esiliata per sempre dal consorzio di uomini
e Dei. Questi desideri che non cercano redenzione e hanno abbandonato ogni
speranza si agitano anche nel cuore del terapeuta: non ci sono soltanto la sua
carità e la sua fede. Questi desideri da nono girone conferiscono quel freddo
occhio psicologico che vede tutte le cose da sotto, come immagini impigliate
nei loro giri; un occhio in cui riluce la inumana intuizione di Lucifero,
portatore di luce.
Il
cuore possiede una freddezza, un luogo di riserve, simile al frigorifero, che
conserva, contiene, protegge, isola, sospende l'animazione e la circolazione,
un alchemico congelamento della sostanza. La crudeltà e il disprezzo meschino
costituiscono l'ambiente di un intimo senso di approfondimento estremo. Forse è
vero, nel mio ghiaccio c'è la mia principessa della fiaba, che la psicologia
dell'Io vuole chiamare in vita con un bacio; ma forse essa, nella sua frigida
immobilità, è intenta ad altro, a scendere più a fondo, verso il nono girone,
al di sotto di tutto ciò che si muove; un distacco e una stabilità che ricordano
il freddo corpo della morte. Abbiamo qui una figura di Anima che non è umori ed
emozioni volubili o sensuosamente carezzevoli o di malinconica meditazione. No,
lo scintillio del ghiaccio riflette la perfezione; solo intuizioni cristalline
e verità taglienti possono soddisfare. Desiderio di assoluto, assoluzione nella
perfezione. La fanciulla di ghiaccio è una padrona dispotica, fredda e
insensibile; ma dal momento che la sua regione è segnata sulla mappa della
geografia psichica, anche la freddezza polare è un luogo in cui è possibile
essere. Di conseguenza il bisogno di riscaldare ciò che è freddo e di
sciogliere il ghiaccio (di nuovo, l' opposizionismo) riflette un intervento
terapeutico che non ha saputo incontrare il ghiaccio al suo livello. La
pulsione curativa nasconde la paura del nono girone, la paura di andare fino in
fondo, fino a quegli abissi che in modo troppo affrettato e con troppa
sicurezza definiamo psicotici.
Alcune
iscrizioni su tombe pagane e paleocristiane dicono che l'anima da morta è
«refrigerata»: in refrigeratio anima tua;
deus te refrigeret; in refrigerio et in pace. Anche la
tradizione letteraria usava i termini refrigerium
e refrigerare per indicare lo stato
dell'anima liberata, dopo la morte. L'origine di questa convenzione è
probabilmente la traduzione in latino di termini greci affini a psyche che rientrano nell'ambito
semantico del freddo (psykter, «
recipiente in cui veniva tenuto in fresco il vino »; psychos, «inverno, tempo freddo »; psychros, «freddo, irreale, insensibile, frigido» ). Il verbo psycho significa « soffio, respiro» e
«raffreddo». Insomma, esiste un nesso antichissimo tra la dimensione della
freddezza e l'anima.
Oltre a stare in un luogo freddo o a essere
un luogo di freddezza nei vari sensi del termine, la psiche riceveva, per
esempio da Osiride, una bevanda rinfrescante di dolce refrigerio psichico.
Queste bevande fredde ritornano nei nostri sogni: che la Coca Cola, i gelati e
le bibite ghiacciate dei nostri sogni vadano riferite a questo antico retroterra?
Il problema in questi casi è dato dalla letteralizzazione della dolcezza nello
zucchero (o nei suoi succedanei artificiali), vale a dire è il problema
dell'atteggiamento ingenuo, naturalistico del Bambino, per il quale, se una
cosa è dolce, deve avere un sapore dolce e se è fredda, deve esserlo
concretamente, per i sensi. Quando il luogo del ghiaccio è anche il luogo dello
zucchero, c'è confusione tra i bisogni psichici del mondo infero e i bisogni
emotivi del Bambino. L'immagine onirica li presenta mescolati insieme. (Un
indizio per risolvere il problema sarà dato dal colore e dal nome della
bevanda, oltre che dall'ambientazione dell'immagine). L'Io onirico che
sorseggia il suo frappè al cioccolato è un Io che per assorbire il suo ghiaccio
oscuro ha bisogno di un dolcificante cremoso, ma quello che conta è che
comunque sta sorbendo la fredda bevanda della morte.
Anche
l'ermeneutica psicoanalitica riguardo ai pasti rituali (banchetti,
scorpacciate) necessita di una correzione dal punto di vista archetipico.
Poiché Dioniso e Ade sono lo stesso dio, i riti che apparentemente celebrano la
gioia e la forza vitali contengono anche un'ombra infera. Ed è quest'ombra a
essere coinvolta quando in un sogno si mangia con persone defunte e si
preparano o si consumano cibi che avevano una particolare associazione con
mitologemi del mondo infero: miele, semi, melagrane, cereali, focacce e anche
mele. Per inciso, secondo le popolazioni delle foreste tropicali (per esempio,
i Dayak), i funghi sono le anime dei morti che spuntano nella terra dei vivi;
le vesce, umide, fragranti, spontanee, i «funghi di mezzanotte» (La tempesta,
V, I, 39) di terra ariosa o aria terragna, dal neoplatonico Porfirio erano
chiamate «figli degli Dei»; e nella tradizione popolare italiana, il punto del
terreno in cui spunta un fungo segnala il giacimento sotterraneo di uno
specifico corpo metallico, cioè le figure planetarie o corpi archetipici del
mondo infero. Freud, come abbiamo visto, è ricorso all'immagine dei funghi per
rappresentare l'origine misteriosa dei sogni.
Altri
cibi di cui è citato l'uso nei culti ctonii greci e nei «banchetti offerti ai
defunti» sono verdure cotte, uova, galli, a volte pesci; tra le bevande, una
mistura di miele, acqua, latte e vino. Nei sacrifici si usavano pecore o capre
nere, che dopo essere state sgozzate venivano bruciate completamente."
Come si vede, il menu può essere lungo e vario, con differenze secondo il
luogo, il culto e il periodo storico, e l'amplificazione di uno qualunque di
questi alimenti, per esempio il latte o il miele, richiederebbe almeno una
ventina pagine.
Non
è il caso di essere troppo rigorosi nel distinguere quali cibi attengano
esclusivamente al mondo infero e quali no; l'importante è che nel sogno si
avverta l'atmosfera sacrificate che trasforma l'atto del mangiare in un rito
per la psiche. In tal caso, possiamo intendere i cibi e i pasti come un
riferimento a Ade «l'ospitale », il segreto anfitrione del banchetto della
vita. Dunque queste comunioni rituali possono aprire la via a un più spontaneo senso
di fratellanza con le nostre «persone morte», quei contenuti esperiti di solito
come influenze famigliari provenienti dal passato, come la vita non vissuta,
come le aspettative irrealizzate degli antenati che inconsapevolmente portiamo
su di noi. Adesso, sedendo a tavola con loro, gli diamo nutrimento e ne veniamo
nutriti.
La
psiche ha bisogno di essere nutrita. Questa idea la si ritrova sia nella
diffusa pratica di deporre nelle tombe cibo e utensili per cucinarlo, sia in
festività pubbliche, per esempio in Grecia, nelle annuali Antesterie, in cui si
dava da mangiare alle anime Chere, che dagli inferi tornavano nel luogo in cui
erano vissute; un'usanza rituale che sopravvive ancor oggi nella notte dei
Morti, o Halloween, quando, per placare persone mascherate, facciamo loro
piccole offerte simboliche di cibo. Gli alchimisti eseguivano un'operazione
detta cibatio e una detta imbibitio, che consistevano nel somministrare, in un
determinato momento dell'opus del fare anima, il cibo e la bevanda necessari
alla sostanza psichica su cui operavano.
Nell'Eden
l'atto di mangiare costituì il primo peccato; dunque la nostra vita come esseri
umani inizia con quel primo morso. Questo non lo intendo certo nel senso
evolutivo di oralità e capezzoli: i sogni alimentari vanno ampliati al di là di
concetti semplicistici come fase orale e gratificazione delle richieste. Il
cibo è talmente fondamentale, più della sessualità, dell'aggressività e
dell'apprendimento, che è davvero sorprendente constatare quanto scarsa attenzione
ricevano il cibo e l'atto di mangiare nella psicologia del profondo. Occorre
perciò esaminare con molta attenzione questi sogni, nella consapevolezza che la
nostra tradizione psicologica ci soccorre ben poco al riguardo.
Dunque
prenderemo nota di quello che le persone oniriche mangiano e dove, quando e con
chi mangiano, perché questi particolari ci dicono come si svolge il processo
nutritivo. In tal modo potremo apprendere di che cosa e secondo quali modalità
si nutre l'Io onirico. Riceve il cibo da una cameriera, che prende (o non
prende) la sua ordinazione? Va a «mangiare fuori»? Oppure mangia «in casa»,
dove può «cucinare lui stesso»? Fa man bassa di dolciumi in pubblico, o va al
suo refrigerium, nel cuore della
notte, per trovare ciò di cui ha una fame disperata?
I
cibi evocano associazioni concrete, naturalistiche: «Detesto il fegato: è
troppo pesante e ha un sapore dolciastro »; «Non prendo mai il tè a colazione,
chissà perché l'ho sognato?»; «Il succo d'arancia fa bene, anche se nel sogno
lo trangugio tutto d'un fiato », E difficile vedere in trasparenza il fegato
del sogno, che è, tra altre cose, il grande organo sanguigno delle passioni più
vitali (indipendentemente dal gradimento per il fegato del mondo diurno); è
difficile riconoscere che il tè mattutino del sogno è un nuovo rituale per
affrontare la giornata e che trangugiare il succo d'arancia avidamente è
esattamente quello che dice: una coazione maniacale per il dorato «succo»
solare, a somiglianza delle anime nell'Ade, assetate di vita. Penetrare una
specifica immagine alimentare è particolarmente difficile, perché si tratta di
qualcosa di assai concreto; eppure quello che mangiamo nei sogni non è cibo, ma
immagini.
Nelle raffigurazioni dell'oltretomba egizio,
il cadavere riceve cibo e bevande dal Ba. Ancora una volta vediamo come
nell'antico Egitto il mondo infero capovolga il mondo diurno. L'idea
rappresentata non è quella dell'anima che si ciba della materia del corpo, che
sarebbe un epifenomeno della dieta (siamo quello che mangiamo); ci viene
mostrato, al contrario, che il corpo attinge all'anima per avere nutrimento. La
vita del corpo ha bisogno della sostanza animica delle immagini.
Abbiamo
citato l'idea romantica secondo la quale le immagini sono il migliore alimento
per l'anima. Che voglia dire anche che i cibi sono le migliori immagini
dell'anima? Insomma: forse l'atto di mangiare, nei sogni, nutre la bocca dei
nostri fantasmi, restituendo alle altre anime, e alla nostra anima onirica, una
porzione di ciò che cresce nella nostra psiche. È un atto sacrificale,
liturgico. Chiunque sia a compierlo nel sogno, e in qualunque luogo e momento
si svolga, quelle immagini oniriche nutrono delle persone psichiche. L'atto di
mangiare, nei sogni, avrà pertanto poco a che vedere con un istinto della fame
e molto a che vedere con un bisogno psichico di immagini nutrienti. Il cibo, di
qualsiasi genere, è appunto l'immagine del nutrimento. E la probabile origine
del cibo onirico è la cornucopia di Plutone.
Anche
gli Dei vogliono il cibo a loro adatto: ricordate come si vendicarono di
Prometeo, che aveva cercato di rifilare loro cibo di scarto? Nemmeno la cucina
di Caino era gradita. Per quanto i frutti, la macellazione di animali e la
consumazione con il fuoco attengano alla natura, ciò che nutre gli Dei non è
letterale, bensì sacrificale, metaforico. La liturgia è fatta di immagini
concrete, il cibo come pegno del rito; perciò nei nostri sogni quello del
mangiare è un momento di transustanziazione, in cui ciò che è soltanto naturale
diventa anche metaforico. È un rito primordiale, volto a mantenere in vita gli
Dei, perché ci mantiene in comunione con presenze che trascendono la nostra
persona e perché tratta gli Dei come membri della famiglia, che hanno bisogno
di pasti regolari.
Tratteremo
ora diversi generi di baldoria (musica, carnevale, circo, clown), tenendo
presente che l'ambito semantico a cui ci riferiamo è quello della parola
inglese revelry, dal latino rebellare, da cui ribelle. Dunque: ribellione licenziosa, discordia dissonante,
scompiglio, la rivolta dell'allegria e l'effetto dirompente della risata.
Cominciamo
con la musica. Dal punto di vista archetipico, la musica non può essere
ricondotta al solo Orfeo o al solo Apollo. Esistono diversi tipi di musica:
meditativa, marziale, amorosa, funebre, ditirambica, canzonette, canti di
lavoro. Molte Muse vuol dire che la musica può avere molte ispirazioni; un
tipo, in particolare, può essere più direttamente riconnesso con il mondo
infero: per scacciare i demoni dei defunti così come per ridestarli, si usava e
si usa suonare tamburi, campane, campanelli e pifferi dalle note acute. Questo
genere di musica stridente e arcana si presenta a volte nei sogni insieme con
strane processioni (per esempio di storpi e pellegrini medioevali, come in un
film di Bergman): una corte dei miracoli, un pandemonio, appunto, parola che a
sua volta ha finito per significare una tremenda e chiassosa confusione. lo
intendo queste grottesche scene di musica come lo svolgimento di un rito, un
movimento che riunisce gli elementi deformi e reietti della psiche e li mette
insieme nel processo del fare anima. Ora, la massa confusa dell'alchimia è in
cammino, si sta movendo.
Ma
anche le canzoni più semplici, in un sogno, fanno sospettare un senso più
profondo, un significato sotto-stante (hyponoia).
Secondo i Toda dell'India, soltanto i morti cantano nei sogni. Possiamo dunque
ascoltare tutta la musica onirica con orecchio rivolto alla morte, teso a
distinguere le tonalità psichiche. Questo significa che non occorre sentire
suoni letterali per sintonizzarsi con la musica di un sogno (il fraseggio, il
ritmo, le dissonanze, i temi dominanti e ricorrenti, l'armonia nascosta). Basta
avere l'orecchio musicale che trasforma in musica gli eventi. E quando in un
sogno si sente davvero della musica, quello che il sogno sta anzitutto
affermando è che può essere udito; anzi, diciamo pure che vuole essere
ascoltato.
Feste
di carnevale, balli mascherati, fiere e spettacoli itineranti: il mondo infero
come una folle vitalità a rovescio di figure autonome, travestite,
incontrollabili, affascinanti e paurose, che vagano nella notte o montano il
loro circo di notte, nel bel mezzo della città. Sono arrivati i fenomeni da
baraccone e i ciarlatani, gli animali e le giostre con il loro moto meccanico e
circolare.
Nel
sogno di una donna molto attaccata alla sua famiglia, alla sua confortevole
vita borghese e ai relativi valori, l'Io onirico è inseguito nei bassifondi
della città da figure carnevalesche minacciose e oscene. L'Io onirico si
sottrae all'inseguimento prendendo posto al tavolo di un caffè, dove, con finta
disinvoltura, si mette a conversare spiritosamente con gli intellettuali lì
riuniti (è un sogno europeo, ovviamente).
L'umorismo
aggressivo e chiassoso e la scurrilità corporea dei bassifondi sono riflessi
nell'Io onirico sotto forma di conversazione spiritosa e colta. Anche l'Io è in
maschera (finge disinvoltura). L'operazione difensiva funziona, perché si
mantiene nello stile della minaccia: rimane in strada, usa l'umorismo, ha la
coscienza di stare fingendo.
Un'altra
giovane donna, che era entrata in analisi per «riuscire a dominare la sua
condotta dissoluta» (alcol, abbuffate, psicofarmaci, sesso facile), sente
avvicinarsi minacciosamente la musica stridente di una chiassosa banda
carnevalesca, un Martedì grasso. L'Io onirico sveglia la sognatrice in preda al
panico, e lì per lì la donna crede di essere nello studio dell'analista. Il
processo di depravazione, per sfuggire al quale l'Io onirico si rifugia
nell'analisi, è sempre in corso, nonostante l'analisi, anzi si fa più vicino.
La dissolutezza non si lascia dominare come lei aveva progettato. Anzi, lo
studio dell'analista e la banda carnevalesca fanno parte della medesima
immagine. L'immagine le chiedeva di prestare un orecchio analitico alla musica
sfrenata che la banda della sua anima suonava in lei e con lei. Le ceneri quaresimali
del Mercoledì delle Ceneri e la musica carnevalesca del Martedì grasso
appartengono alla medesima immagine e si costruiscono a vicenda.
Una
terza giovane donna, il cui ideale era di vivere in una comune e avere rapporti
basati sulla sincerità e la trasparenza, sognò di trovarsi a una festa in
costume in cui tutte le figure portavano la maschera. Tutti che ballano, da
soli, negli angoli, come dei pazzi. L'Io onirico è trascinato in una danza
vorticosa con un partner che la donna non riesce a vedere o non riconosce; si
sveglia terrorizzata perché tutti sono irreali.
La
morte, sotto forma del danzatore mascherato, l'invisibile, colui che separa, ci
trascina in una danza senza compagni, nella forma individuale della nostra
maschera. Questa danza è «irreale» dal punto di vista del mondo diurno, nella
cui realtà l'Io cerca rifugio con il risveglio. Il carnevale indica un evento
collettivo (molte figure, folla, balli), ma al tempo stesso un evento irrelato
e impersonale, senza coppie né appaiamenti, addirittura senza gruppi intimi. Il
livello personale è demolito per dare luogo a un altro tipo di esperienza.
Anche
a Tebe, all'arrivo di Dioniso, si diffuse questo tipo di terrore e di
eccitazione. Le identità diventarono incerte; giovani donne abbandonarono i
legami famigliari e i rapporti personali per riversarsi nelle strade e nei
boschi. Poiché Dioniso e Ade sono lo stesso dio, questi sogni strappano l'Io
onirico alla vita quotidiana, portandolo a vedere in trasparenza i suoi valori
nella ribellione orgiastica.
Quando
il carnevale incalza e il danzatore mascherato invita, l'Io onirico si trova
nel ruolo di Persefone, inseguita dalle richieste dello spirito invisibile. Se
lo spirito non fosse mascherato, sarebbe possibile prenderlo nel suo valore
facciale, letteralmente; capiremmo dalla faccia che presenta che cosa cerca.
Porta la maschera per stimolare l'indagine, la fatica della scoperta. E questa
la giusta risposta spirituale allo spirito mascherato o invisibile; si impara a
danzare con le sue richieste, il che non equivale ad adorarlo o a esserne
schiavi. La cosa, tuttavia, terrorizza l'Io, ed evoca lo straniero mascherato,
la Morte, oppure l'Animus negativo, o un Vampiro. A Tebe Dioniso veniva
chiamato lo Straniero.
La
parola «carnevale» deriva dal latino carnem
levare, cioè «eliminare la carne», e si riferisce a un momento di
psichizzazione che elimina l'atteggiamento naturalistico ed è perciò vissuto
come una morte. Alle figure del carnevale che pretendono questa eliminazione
oppongono resistenza le emozioni corporee dell'Io onirico, le quali temono per
la propria «vita» e, in preda al panico, si difendono contro questa stranezza
interpretando il «carnevale» riduttivamente, come un momento di esuberanza
della carne.
Niente
meglio del circo incarna il capovolgimento dell' esperienza raffigurato
nell'oltretomba egizio. Nel circo tutto sembra convergere verso un unico scopo:
sovvertire l'ordine naturale delle cose, un opus
contra naturam che vince la forza di gravità e instaura un mondo
assolutamente pneumatico. L'elefante si rizza sulle zampe posteriori o sta in
equilibrio sopra un pallone pieno d'aria. Un uomo da solo ne regge undici sopra
la testa. Un altro fa stare in equilibrio sulla gamba di una sedia una pila
sempre più alta di piatti. L'Uomo Mosca cammina a testa in giù, e non un
oggetto sfugge mai di mano al giocoliere. L'Uomo Proiettile è sparato per aria
e Uomini Uccello stanno appollaiati su un cavo altissimo o volano per lo spazio
dai trapezi. Le belve saltano attraverso il fuoco. Il cavallo, bianco, cavalca
in cerchio.
Intanto
i clown con la faccia bianca della morte, muti come le anime nel mondo infero,
suonano musiche strane, cascano e si disarticolano; troppo lenti a capire e
troppo pronti a dimenticare, ripetono sempre gli stessi sbagli, se la fanno
sotto (si veda più avanti, a p. 227, «Fango e diarrea») e, mimando il nostro
comportamento nel mondo supero, presentano alla vita lo specchio della
riflessione.
Dove
altro, se non al circo, possiamo vedere il mondo infero in pieno giorno? Lo
spazio circoscritto del tendone, le piste ad anello, ciascuno degli attori che
si spinge tanto vicino alla morte quanto glielo consente la sua arte, i
fenomeni di natura che sovvertono la natura e, soprattutto, l'esecuzione
accurata di assurdità ripetitive, come se Issione, Tantalo e Sisifo avessero
fondato una scuola di arti circensi.
Nei
sogni e nelle immaginazioni terapeutiche, il motivo del capovolgimento ricorre
più frequentemente di quanto ci si aspetti. Basta cercarlo. In ascensore, un
uomo si ritrova capovolto: i piedi adesso sono più in alto della testa e la
testa, che adesso è in basso, diventa la base dei piedi: quello che gli passa
per la testa diventa il suo punto di appoggio, e sta sotto. Tutto questo
avviene in un ascensore, confermando Eraclito, il quale ha detto che « la
strada all'in su e all'in giù è una sola e la medesima» (fr. 60/A33). Un altro
paziente sogna di rimanere ritto sulla testa dopo tre perfette capriole; in
seguito mi disse di avere provato a eseguire quel numero e di aver sentito il
sangue aflluirgli alla testa, mentre prima di allora non aveva mai associato la
testa con il sangue; ora essa era diventata un organo ben irrorato, denso,
rosso, rotondo. L'uomo cominciò allora a considerare il pensiero da un nuovo
punto di vista e ad avere « pensieri rosso sangue », come li descriveva,
pensieri ribelli e contemporaneamente simili a sberleffi sguaiati: attraverso
il clown gli si stava aprendo l'intelligenza della passione.
Durante
un'immaginazione attiva, all'inizio dell'analisi, una donna vede una scimmia
appesa per la coda. La scimmia le spiega che nel suo mondo quella è la
posizione giusta e che anche lei deve imparare a muoversi in quel modo, se
vuole stare con lei. La donna ha paura ed è disorientata: sembra un primo passo
verso la follia, eppure fa tanto ridere! Un'altra paziente sogna un clown che
si cala dalla fune tesa a grande altezza; scende a testa in giù, guidato nella
discesa da una corda di sicurezza legata al tendine di Achille. La via della
discesa è la via dell'umana fragilità: ciò che per l'eroe è il punto debole,
per il clown è il sistema di sicurezza; il punto più vulnerabile è ciò che
sorregge e guida, quando si è a testa in giù.
Mentre
scrivo queste cose, mi si affollano immagini della mia esperienza di analista, mescolate
alle immagini di Fellini e della storia dell'arte, segno di un grande trasporto
verso i clown, i mimi, il circo.
Come
ragazzini vorremmo scappare di casa per seguire il circo, ma l'identificazione
con il clown è un mimare il mimo. Eraclito ci ha messo in guardia: « Non è
conveniente essere comici al punto da apparire noi stessi comici» pare abbia
detto (fr. 130, Freeman). Agire concretamente il clown letteralizza la guida al
mondo infero. Lo spirito comico ci può condurre laggiù, ma non siamo noi la
guida: noi non siamo Arlecchino, il Briccone o Ermes Psicopompo e neppure il
Clown. Lo spirito comico si mostra in maschera in tutte le cose che facciamo e
diciamo; siamo noi stessi una burla e non c'è bisogno di infarinarci la faccia.
Non
si tratta di diventare un clown ma di imparare la sua lezione: farne un'arte
delle nostre insensate ripetizioni, dei nostri capitomboli e delle nostre
patologizzazioni, indossare la maschera della morte che apre la porta al mondo
onirico e osservare come esso trasforma in immagini sorprendenti gli oggetti
quotidiani e in oggetto di risate la nostra persona pubblica.
Si
segue il clown nel circo entrando in una prospettiva di ribellione contro
l'ordine del mondo diurno; una ribellione senza causa e senza violenza. Mettendoci
a testa in giù, deletteralizziamo, nelle più piccole cose che diamo per
scontate, tutte le leggi della fisica e tutte le convenzioni della società.
Attraverso il clown entriamo nella prospettiva dell'anima fantastica; il clown
come psicologo del profondo. Pensate un po': Freud e Jung, due vecchi clown.
Due
parole su porte e cancelli. Uno degli epiteti di Ade era « colui che chiude la
porta». Fu alle porte degli inferi che Eracle ingaggiò la lotta con Ade. Prima
dell'iniziazione (se mai avvenne) ai misteri eleusini, Eracle dovette essere
adottato da un padrino, Pilio, che fungesse da portinaio, perché gli fosse
concesso l'ingresso nei cancelli di Ade.
Il
problema del mondo infero, per l'Io erculeo, si situa sulla soglia, sulla linea
di confine (borderline), che per lui
separa due tipi di coscienza. Per la coscienza ermetica non esiste un problema
di conflitto tra mondo supero e mondo infero: Ermes abita i confini; sui
confini sono erette le erme in suo onore, e il dio facilita gli scambi tra ciò
che è familiare e ciò che è estraneo. A differenza di Eracle, il quale rintuzza
il male e ci salva dalla malattia, la coscienza ermetica non trova soglie né
cancelli al di là dei quali siano contenuti stati definibili «malati» e cronici
(o «ritardati »), perché sul confine vita e morte sono inscindibili. A tenerle
insieme è la patologizzazione. I confini sono un luogo di scambi aperti anche
per il Briccone, per il Danzatore e per l'Arlecchino. Per Eracle, invece, è
sempre una lotta e una gran fatica entrare e uscire, prendere in considerazione
contemporaneamente alternative, lingue e usanze diverse: realtà psichiche e
realtà fisiche. Il suo mondo è un mondo di opposizioni; egli è incapace di
oltrepassare i cancelli senza I'enantiodromia, la fuga nell'opposto: nella
follia, nel misterico, nel sesso femminile.
Porte
e cancelli sono i luoghi dell'attraversamento, del «trapasso », come si diceva
in epoca vittoriana. Sono le strutture che rendono possibili i riti di
passaggio. La prospettiva infera inizia al cancello di ingresso, dove ingresso
significa iniziazione. All'inizio si deve penetrare la natura duplice, di Giano
bifronte, del cancello, in modo che tutto ciò che sta all'interno possa essere
inteso in un doppio senso, ermeticamente, metaforicamente. I cancelli rendono
possibile la prospettiva del mondo infero.
Più
che nei sogni, incontriamo i cancelli al momento del risveglio da un sogno; è
allora che facciamo esperienza della lotta sulla soglia. La consapevolezza si
dibatte tra immagini del mondo notturno e progetti del mondo diurno. Ci riesce
più difficile ricordare i sogni quando siamo nella postura erculea, pronti ad
alzarci e a metterei in moto. Di conseguenza i periodi in cui non riusciamo a ricordare
i sogni potrebbero segnalare la presenza di Eracle, più che un'esclusione da
parte di Ade. Ade secondo me chiude la porta non tanto per impedire ai sogni di
fuggire dal suo regno, quanto per impedire che fuggano con Eracle e siano
incamerati nel suo Io, che traduce i sogni in azioni volte a risolvere i suoi
problemi. Questo deruba Ade e defrauda la morte del contributo del sogno al
fare anima. La cattura di Cerbero, il guardiano della soglia, rende evidente la
minaccia di fondo che Eracle pone a Ade: la distruzione della soglia, che
aprirebbe il mondo infero alle incursioni dall'alto, mettendo per sempre a
disposizione della vita pratica il regno dell'anima. La missione di Cristo, che
sconfisse l'inferno, è stata prefigurata in quella di Eracle. E questo non è
soltanto mito, una cosa dei tempi antichi, perché, come dice Salustio, il mito
non è mai accaduto, ma è sempre. La distruzione dei cancelli, del mondo infero
e dell'anima avviene ogni mattina. Ogni mattina, noi catturiamo il cane del
terrore notturno ed entriamo immediatamente nel giorno, gonfiando i muscoli,
buttandoci giù dal letto, le nostre proiezioni rafforzate dal sogno.
Che
differenza, una volta ancora, con Ermes, per il quale non esiste il problema di
due mondi, di due atteggiamenti e del loro conflitto. Esiste soltanto una
modalità, ermetica, che vede tutti i mondi con occhi ermeneutici.
Si
potrebbe pensare che la lotta sulla soglia sia una lotta fra atteggiamento
interiore e atteggiamento esteriore, ma la prospettiva erculea non è semplicemente
estroversione: è il modo letterale di considerare le immagini che abbiamo
rilevato nel comportamento di Eracle agli inferi. Perciò il medesimo Io eroico
lo ritroviamo nel letteralismo introverso, per esempio quando prendiamo i sogni
alla lettera come messaggi spirituali, previsioni sincronistiche, profezie di
individuazione, istruzioni da parte del Sé, ricordi del passato, dichiarazioni
sui nostri stati d'animo e così via. Sì, i sogni sono meravigliosi e ci
riempiono di meraviglia, ma non sono meraviglie, miracoli, rivelazioni, la
verità. I sogni appartengono all'anima e alle sue immagini, non allo spirito; i
fenomeni spirituali che possono apparire nei sogni sono a loro volta
deletteralizzati dalle immagini nelle quali lo spirito si presenta. Il
letteralismo introverso disperde l'immagine nel messaggio.
Vediamo
all'opera il letteralismo introverso (chiamiamolo così, in mancanza di
un'espressione migliore) in un altro luogo della leggenda di Eracle. La tarda
antichità convertì Eracle da «uomo dalla forza arcana a simbolo di salvazione
mistica». Ma la conversione è pur sempre una enantiodromia. Lo stile di
coscienza rimane intatto. E cambiata la sua sfera d'azione, ma l'atteggiamento
è il medesimo anche nel nuovo campo. Sicché siamo catturati da Eracle anche
quando vediamo il sogno non più come un messaggio rivolto ai muscoli della
vita, ma come «simbolo di salvazione mistica».
La chiave che apre la porta degli inferi a
Eracle è in mano a Persefone. Nell'antichità fu molto dibattuta la questione se
Eracle avesse incontrato Kore-Persefone; perché, in caso affermativo, avrebbe
voluto dire che era un iniziato. Per noi questo implica che la lotta sulla
soglia, l'opposizionismo tra due mondi, può essere abbandonata soltanto quando
nell'anima si opera uno slittamento da Ebe a Persefone, quando la fantasia
stessa incomincia a desiderare non il successo esteriore e neppure la salvezza
interiore, bensì la profondità.
Nel
quinto capitolo, parlando del materiale onirico, ci siamo richiamati all'idea
di Bachelard della plasticità della sostanza psichica, il fatto che è come
l'argilla, la pasta del pane, il metallo fuso. Questa è anche l'idea implicita
nelle descrizioni del mondo infero come un regno fatto di materia melmosa o
fecale. Platone (La repubblica,
363c-d) dice che l'Ade è di fango; Aristofane, nelle Rane, descrive una palude traboccante di escrementi; Kerényi,
quando parla di Eracle che attraversa le acque melmose dell'Acheronte, dice che
esse richiamano la palude di Stinfalo, nonché, aggiungerei, le stalle di Augia
piene di sterco. A proposito del testo della nekyia che aveva tradotto, Dieterich osserva che la fascinazione
degli autori cristiano-orfici per la purgazione e per l'inferno immaginato come
buco schifoso, pieno di sangue e di brago riflette la doppia connotazione della
diarrea, da un lato immagine oggettiva, intesa ad ammonire con la sua
repellenza, dall'altro sintomo soggettivo della paura provocata da quella
immagine. Si potrebbe inoltre ricordare come, per gli egizi, i morti nel mondo
infero camminassero a testa in giù, sicché il contenuto degli intestini
fuoriusciva dalla bocca.
Il
labirintico apparato intestinale, con il suo calore, la sua collocazione
interna e il suo fetore sulfureo, è già stato da altri assimilato a un mondo
infero interiorizzato. Esiste nella nostra cultura una lunga tradizione che
associa le viscere con la malattia mentale, e non manca chi ha identificato in
esse la sede dell'anima." Il termine con il quale la medicina indica i
brontolii dell'intestino, «borborigmi », è lo stesso usato da Platone (Fedone, 69c) e da Aristofane per
definire la mota schifosa del mondo infero. Un inno orfico tardo chiama la Dea
del regno della morte Borborophoba,
epiteto che si potrebbe intendere nel duplice senso di « colei che spaventa le
feci, dunque le tiene lontane» e « colei che, inducendo il panico, provoca la
diarrea».
Alla
luce di questo retro terra, i sogni in cui compare la diarrea ci si rivelano
come movimenti radicali che spingono irresistibilmente verso il mondo infero; o
come un mondo infero che in modo improvviso e irrefrenabile ha preso vita
dentro di noi, indipendentemente da chi siamo e da dove ci troviamo. Come la
morte, la diarrea colpisce quando vuole e senza distinzioni. La merda è la
grande livellatrice.
Stiamo attraversando un confine. La diarrea
segnala che l'ordine diurno è giunto allo sbocco finale. Il vecchio re crolla e
fa la cacca come un neonato: decomposizione e creazione simultaneamente -
incontinenza, umiliazione, ridicolo, da Saturno, signore delle latrine e delle
mutande, ai Saturnalia. Si ha l'impressione che sul mondo si sia scatenata pura
anarchia e non si vorrebbe altro che un luogo chiuso e privato in cui calare le
brache. Come per i nordici che vanno al Sud, la tanto sognata e desiderata
vacanza si concretizza in un gabinetto. Il gabinetto come morte del desiderio,
come desiderio di morte, come burla, luogo del clown.
Quello
che sto proponendo qui, con lo stile sguaiato dell'umorismo da latrina, è
un'estensione sia dei concetti freudiani che associano gli intestini con
l'analità, sia dei concetti junghiani che mettono in relazione gli intestini e
i loro prodotti con l'espressione creativa, la prima materia e l'oro alchemico.
I « sogni di gabinetti» (quelli in cui ci sono bisogno urgente di defecare,
fogne intasate e inondazioni fecali, o l'imbarazzante e frustrante ricerca di
un posto « dove andare» o la scoperta di essersela fatta addosso e simili)
possono essere letti come iniziazioni al mondo infero. Si tratta effettivamente
di esperienze di morte, per l'Io diurno, per il quale essere pulito equivale
praticamente a essere fatto a immagine di Dio. Per usare il linguaggio delle
immagini egizie, l'anale si è rovesciato nell'orale, ciò che era stato tenuto
dentro è sputato fuori e noi siamo liberati nel rimosso. Ricordate il panico di
Freud al pensiero che le idee di Jung potessero allentare la presa della
scienza psicoanalitica sulla psiche profonda, scatenando « la nera marea di
fango dell'occultismo »?
Pensate
al cumulo di idee interpretative che esiste sulle feci, di « significati»
attribuiti alla cacca (le cagate sulla merda!): il dono d'amore alla madre; la
creatività, che comincerebbe a manifestarsi con l'imbrattare e il colorare; il
controllo della ricchezza e le origini della coscienza; la morte interiore; la nascita
del non-Io, che rende possibile la separazione e l'oggettività; il Sé negativo
dei valori nascosti negli aspetti più vili e reietti; l'Ombra che ci segue da
dietro; nonché i rituali scatologici di tutti i paesi e l'inesauribilità
dell'umorismo da latrina ... c'è solo l'imbarazzo della scelta! Appunto questa
ricchezza di formulazioni fa pensare a uno sfondo archetipico nella ricchezza
di Ade, nel tesoro di Plutone. Naturalmente il mondo infero è fatto anche di
escrementi, che sono una ricchezza per la produzione continua di immagini
fantastiche. Da questo punto di vista le feci non sono ulteriormente
traducibili. In quanto residuo di residui, le feci alludono a un'essenza che è
permanentemente presente e si riforma in continuazione. La loro comparsa nei
sogni riflette un mondo infero al quale ci inchiniamo qu<?tidianamente e del
quale non ci sbarazzeremo mai.
Quanto
detto sopra ci introduce agli odori e al fumo. Secondo le statistiche, nella
stragrande maggioranza, i sogni vengono «visti» o comunque usano il linguaggio
della percezione visiva. Solo occasionalmente nei sogni usiamo l'udito, il
tatto, il gusto e, ancora più raramente, l'olfatto. Eppure, come dice Eraclito
(fr. 98, W'heelwright/A47), «Nell'Ade le anime percepiscono annusando» e,
ancora (fr. 71 A48), «Se tutte le cose diventassero fumo, le narici le
distinguerebbero l'una dall'altra».
In
genere, come abbiamo visto, l'antichità considerava le ombre dei defunti come
esseri pneumatici. Scrive Cumont: «Sono paragonate al vento, perché il vento è
aria in movimento, a un vapore, a fumo che sfugge non appena si tenta di
imprigionarlo ». Platone (Cratilo,
404d) ipotizza che il significato etimologico del nome Persefone sia «Colei che
afferra ciò che si muove ».
Ma
come si afferrano i moti dell'anima; come si fa a percepire l'aria? In greco,
il senso primitivo di aisthomai,
«percepire» (con il sostantivo aisthesis,
di cui manteniamo traccia in «etere» e in «estetica») era quello di «assorbire
», «inspirare ». Forse il problema sollevato da Eraclito non è quale tipo di
sensazioni abbia a disposizione l'anima nell'aldilà (secondo la lettura
concretistica, ingenua e cristianizzata di Kirk), ma semmai quale sia
l'analogia migliore per la percezione psicologica. Forse le profondità
psichiche che non si rivelano ai sensi più visibili, più tangibili, richiedono
una modalità percettiva come l'olfatto, capace di discriminare tra ciò che è
nascosto: una percezione di essenze intangibili con strumenti intangibili. Il
lavoro psicologico, dunque, richiederà naso fino, la capacità di percepire
corpi sottili, o di percepire il corpo con sottigliezza, rintracciando ciò che
è essenziale. Si dice «essenza» per indicare sia una sostanza elementare
germinale, sia un profumo. E forse questa valutazione metaforica dell' olfatto
spiega la curiosa convinzione di alcuni psichiatri secondo la quale le
allucinazioni olfattive degli schizofrenici sarebbero percezioni reali rese più
acute dal ritiro autistico dagli altri sensi, come se il paziente si ritirasse
nel mondo infero, pneumatico, dove le anime percepiscono annusando.
È
il tipo di percezione sottile che può essere attribuito agli Dei invisibili, i
quali mediante la facoltà del fiuto riconoscono le offerte e gli incensi
bruciati in loro onore: «Il dio assume varie forme così come fa il fuoco, il
quale, quando è mescolato a spezie, prende nome secondo la qualità olfattiva di
ciascuna» (fr. 67/A91). Insomma, sono le narici a discriminare gli spiriti.
Perciò,
quando Eraclito dice (fr. 961 A121): «I cadaveri sono da gettare via più dello
sterco», non ci possiamo accontentare di un'interpretazione banale, che fa dire
a Eraclito una cosa che già sappiamo: il corpo morto è meno utile dello sterco.
E più probabile che Eraclito intenda, nel suo solito stile paradossale: lo
sterco, nella fattispecie l'odore della putrefazione, vale più del materiale
che lo produce; ovvero, ciò che ha valore non è il semplice corpo fisico, bensì
l'anima che si libera attraverso la putrejactio. Il termine jumus, o vapore
sottile, è etimologicamente affine afimus, «letame», la materia morente dalla
quale esso emana. Nella merda (come abbiamo visto) ha luogo un processo
psichico riconoscibile soltanto mediante una modalità percettiva psichica che,
sull'esempio di Eraclito, chiamiamo « olfatto ».
I
rari sogni in cui si odora qualcosa andrebbero esaminati in questa prospettiva.
Se è vero che soltanto il naso conosce le cose, allora non mi limiterò a
immaginare ciò che avviene nel sogno come un evento volgare attinente all'anale
o all'animale, o come un evento passato attinente alla memoria, o come
l'entrata in scena della funzione intuitiva; considererò invece l'evento
onirico come qualcosa di essenziale, di pneumatico, di estetico, di etereo
perfino. Quando annusiamo una cosa, assorbiamo il suo spirito, quindi conviene
sapere che cosa stiamo annusando. «Etereo» può significare anche ultraterreno e
arcano nel senso di diabolico; anche il diavolo si riconosce dall'odore. Dunque
il fenomeno che si presenta insieme a un odore proviene dal mondo infero, e per
discernere la sua natura occorre un intenso acume psichico.
L'olfatto
è il senso sottostante, la hyponoia
(p. 171) che percepisce le realtà psichiche quando «tutte le cose [diventano]
fumo» (fr. 7/ A48). Il fumo rimanda da un lato a stati che all'occhio diurno
della percezione fisica risultano opachi e confusi; dall'altro, a stati
vaporizzati o psichizzati, in cui l'anima-morte o anima-immagine abbandona la
materia corporea. (Potrebbe esserci una verità nascosta nella convinzione di
certi clinici di saper diagnosticare le psicosi «a naso »).
Il fumo è il primo effetto visibile
dell'azione del fuoco sulla materia. E contemporaneamente materia rarefatta e
aria densa, una sostanza intermedia tra spirito e corpo. In questo senso,
costituisce una ottima analogia per l'anima, cosa che non sfuggì agli
alchimisti." Scrive Wheelwright: « ... fumo, nuvola e vapore non sono che
forme diverse dello stato intermedio tra il fuoco e l'acqua, e l'anima
appartiene ontologicamente a tale zona. L'anima, essendo di vapore, è anche di
fumo ».
Nei sogni in cui c'è fumo non c'è soltanto un
fuoco invisibile (una passione nascosta, come usa dire). Il fumo è importante
in sé, indipendentemente dal fuoco che si suppone segnali. Significa che è in
atto il processo del fare anima, una modificazione irreversibile della natura
delle cose, un'elevazione che diventa anche accecamento e soffocamento se ci si
spinge troppo in là, identificandosi con la trasformazione dell'elemento.
(Tralascio volutamente in questa sede tutto il tema del piacere, della
ritualità e della dipendenza dal fumo, inteso come fumare tabacco).
Un'idea
che Freud aveva assunto da Fechner (che il sogno si svolge in un topos suo
proprio) ci induce a considerare lo spazio una dimensione fondamentale di tutti
i sogni. Quasi ogni sogno ha la sua «località psichìca», dove prendono vita le
sue immagini (si veda sopra, p. 28). Le immagini sono sempre in un luogo e
possiedono una propria, caratteristica qualità spaziale. Il mondo infero stesso
è una topografia: la Casa di Ade, le sale del Walhalla, fiumi, isole, livelli
sempre più profondi. Il linguaggio basilare del profondo non è dato dai
sentimenti, dalle persone, dal tempo o dai numeri, ma dallo spazio. Il profondo
rappresenta se stesso soprattutto come, strutture psichiche espresse con
metafore spaziali. E un dato così primario ed evidente che tende a sfuggirci,
sicché non facciamo caso alla profondità che pure è lì, nello spazio specifico
di ciascuna immagine.
Per esempio, tendiamo a non cogliere questa
dimensione spaziale, l'ubi, la
«dovìtà» del sogno, quando lo amplifichiamo con il simbolismo. Una mela, un
pesce o una signora dalla faccia fuori squadra, se li consideriamo archetipi,
sono dappertutto; e dunque in nessun luogo. Ma questa mela, questo pesce e
questa signora occupano uno spazio specifico in un sogno specifico, e la
profondità di tali immagini emerge soltanto all'interno di quello spazio, come
è per una mela in un dipinto di Cézanne, un pesce in un dipinto di Braque e la
donna dalla faccia fuori squadra in un ritratto di Picasso.
L'immagine
fondamentale di tutto il mondo infero è quella dello spazio circoscritto (anche
se i limiti sono nascosti alla vista e indefiniti). Applicando il nostro
principio di somiglianza, ogni risposta al mondo infero dovrebbe risuonare da
un analogo spazio circoscritto, sia esso fisicamente lo studio dell'analista,
l'intimità della relazione terapeutica, il vaso ermetico in cui è compiuta
l'opera, il diario dei sogni o lo spazio interiore in cui si entra con l'immaginazione:
derivano tutti dal mondo infero, che è profondo e chiuso. A volte esperiamo il
topos onirico come un essere «ingabbiati, costretti, confinati» (Macbeth, III,
IV, 23), come un'incubazione, un labirinto, una gravidanza, una claustrofobica
catacomba in cui ricercare gli scheletri ancestrali. Infatti si parla di
«entrare in» analisi o di volerne «uscire », perché le profondità della
psicoterapia sono diventate oggi uno dei «luoghi» in cui è possibile fare
esperienza dello spazio psichico.
Queste
esperienze di uno spazio circoscritto sono essenziali per il lavoro onirico. E
non mi riferisco alI'idea di contenitore emotivo o di temenos religioso, bensì a qualcosa di più comune. Mi sono convinto
che la psiche deve essere tenuta sotto pressione, messa con le spalle al muro;
all'esterno, incalzata dagli altri, che la spintonano nella valle del mondo;
all'interno, da tutta la paccottiglia che contiene, le sue collezioni di
immagini e di fantasie controcorrente. Scorie, montagne di scorie: a costituire
i nostri sogni sono i residui diurni, cioè cianfrusaglie e spazzatura. Lo
spirito vorrebbe liberarci da questa oppressione; lo spirito ha bisogno di
aria, di spazio. «Nel mio matrimonio mi manca l'aria» dice la moglie; «Se non
me ne vado di casa, morirò soffocata», dice la figlia; dopo di che, ciascuna di
loro si ritira in una cameretta privata, con la finestra che dà su un muro.
Annotiamo
i sogni sul nostro diario a caratteri fitti e minuti, notiamo le più piccole
macchinazioni dei nostri sintomi, facciamo tesoro di ogni minima intuizione,
come se fosse un granello di sabbia sul quale ruota un intero mondo.
Naturalmente, sono necessarie anche le vaste prospettive cosmiche; dobbiamo pur
riempirei i polmoni. Ma il lavoro onirico è un'arte del piccolo, e a volte si
diventa piccoli e precisi soltanto sotto pressione. Forse lo stare stretti è
una preparazione alla morte, serve a farci diventare abbastanza piccoli
nell'anima da adattarci al corpo rimpicciolito che va nella bara, abbastanza
piccoli da passare attraverso la finestrella aperta nella camera mortuaria
perché le anime possano uscire. Forse il sentirsi rinchiusi e limitati fa parte
dell'esperienza del corpo psichico, quella consapevolezza di un'interiorità
nascosta rannicchiata dentro ogni parola e ogni gesto.
Nel
suo La poetica dello spazio,
Bachelard ha elaborato alcune immagini dello spazio interiore (soltanto quelle
gioiose). Con l'intera sua opera Bachelard ha contribuito ad aprire la
psicologia a metafore nuove sul lavoro psicologico, avviando così un'ulteriore
correzione in senso archetipico della psicologia analitica. Per troppo tempo,
per analizzare i sogni abbiamo preso in prestito termini estranei, astrazioni
come «opposti », «compensazione », «elementi», «polarità», «energia», eccetera.
Se
il luogo onirico è fondamentalmente una scena delimitata, come ha sottolineato
Ludwig Binswanger, ecco che per esperire l'ambientazione scenica dei nostri
sogni non occorre più continuare a rifarsi all'idea di psicodramma. Basta
guardare il sogno come se fosse una sceneggiatura teatrale. Scena: La casa di
mia madre; La giardinetta del mio amante; Un grande prato; queste scene
definiscono già la posizione psichica di tutti gli eventi del sogno. Tutto
quello che accade, accade lì.
Il
passaggio dalla drammaturgia alla scenografia è simile al passaggio dalla
narrazione all'immagine e dall'agonista eroico alle ombre (abbiamo già
osservato che «scena» e skia,
«ombra», sono etimologicamente affini). Questo spostamento ci libera dalla
visione drammatica del sogno, pur conservando la connotazione più profonda del
teatro. La visione drammatica impone al sogno un movimento nel tempo attraverso
quattro fasi, verso una lysis o
scioglimento, e considera lo spazio o ambientazione del sogno un semplice
preliminare della trama. Dal punto di vista del mondo infero, invece,
l'importante non è come va a finire la storia, ma dove si svolge, quale regione
dell'anima è in scena in questo momento, così che io possa sapere «da che parte
sto» rispetto alla mia anima onirica. Una sensibilità per le scene, diciamo
pure una sensibilità isterica che ama costruire scene melodrammatiche, cerca di
ricondurre il lavoro onirico a Dioniso e a Ade, a quel senso della vita come
messa in scena di maschere, in cui le maschere sono i sogni. Il teatro crea
l'illusione dissociativa di essere dentro e fuori nello stesso momento,
entrambe le anime presenti contemporaneamente. Siamo allo stesso tempo
completamente dentro il sogno e tuttavia consapevoli che il sogno è (che noi
siamo) soltanto una commedia.
l'atteggiamento
nei confronti dei sogni
Per
finire, quanto all'atteggiamento nei confronti dei sogni, di tutti i sogni, di
qualunque tipo, diciamo che bisogna andare loro incontro all'altro capo del
ponte, nel loro territorio. Seguendo il sogno nel mondo notturno, la nostra
coscienza sarà vespertina, una coscienza che trapassa in notte, incontro al suo
terrore e al suo balsamo; ovvero sarà una coscienza di Persefone, l'eccitazione
di inseguire le immagini fino alle loro profondità e di unirsi laggiù con
l'intelligenza di Ade. Questa affinità con l'Oscuro pervade tutto, anche quando
le immagini oniriche sono piene di sole. I sogni sono figli della Notte e le
loro immagini più luminose le dobbiamo guardare attraverso analoghe lenti
scure. Dunque con il nostro lavoro ci addentreremo nel sogno senza prefigurarci
alcuna Aurora consurgens, perché
Aurora (Eos) ha una predilezione per
gli eroi e li riporta su. Invece: la resurrezione della Morte. Anziché rivolgerci
al sogno cercandovi segni di un nuovo inizio e avvertimenti su trabocchetti e
regressioni, ci sarà sempre una discesa, dapprima accompagnata da un senso di
sconforto, poi, man mano che l'occhio della mente si dilata nel buio, da
sorpresa e gioia crescenti. Lo smarrimento, che segnala come il mondo infero
sia già presente, si fa sentire subito, non appena si guarda il sogno. C'è un
oscuramento della coscienza che ce lo fa apparire assolutamente estraneo e
incomprensibile. Prometeo e Pandora, soccorso e speranza, rimangono sull'altra
sponda.
La
coscienza sarà meno visiva; il contatto sacrificale con le «divinità dei morti
era compiuto volgendo il viso altrove; non lo sguardo, solo la voce ». Il mondo
infero bisbiglia; non c'è alcun thymos emozionale in quel mondo quanto mai distante
da chiassose concezioni della terapia come quella dell'urlo primario, il cui
archetipo è il venire alla luce e la nascita del Bambino. Questo tipo di
terapia, insieme a tutte le tecniche di addestramento della consapevolezza
percettiva, prepara l'Io per la vita, mentre, come abbiamo visto, il lavoro
onirico va in tutt'altra direzione.
La
sede della sensibilità si sposterà dall'occhio all'orecchio e poi a tutti gli
altri sensi: tatto, gusto, fiuto; sicché cominceremo a percepire sempre più per
particolari e sempre meno per visioni complessive. Prenderemo sempre più
coscienza di come, dietro le nostre riflessioni, operi un discernimento animale
che le guida.
Questa
rieducazione dei sensi, per cui si impara a sintonizzarsi e a entrare in
contatto, a fiutare e ad assaporare, ad accordarsi con quel senso nascosto,
invisibile di un'immagine che la rende importante, di peso, forse potrà
mitigare alla fonte il nostro materialismo sensoriale.
L'immaginazione
sensuale restituisce all'immagine la sua supremazia come base psichica della
sensazione. Considerare i sensi solo al livello delle sensazioni naturali è una
superstizione naturalistica. È come credere che per immaginare sia necessario
vedere un'immagine, o che per ascoltare musicalmente sia necessario sentire
della musica. No, è l'immagine che rende possibile la percezione dell'immagine.
Questo
capovolge completamente ciò che la psicologia è andata insegnando da Aristotele
in poi: le immagini derivano dalle sensazioni e l'anima si costruisce con i
mattoni dell'esperienza sensoriale (i residui diurni). Una volta che si sia
deletteralizzata la sensazione e si siano intesi anche i nostri sensi alla
stregua di modalità di percezione metaforiche, eccoci finalmente dall'altra
parte del ponte, da dove possiamo guardare alla struttura in mattoni fin troppo
solida in cui viviamo la nostra vita come a un sistema di difese erette
dall'uomo contro l'anima, come a un «antropomorfismo chiamato realtà».
Certo,
non è facile; e poi, sa tanto di esoterico, di occulto. Ma le teorie sui sogni,
se minimamente riflettono i sogni, appariranno di necessità strane alla
coscienza diurna. La teoria di Freud fu considerata scandalosa e fu osteggiata:
la sessualità era qualcosa che i suoi colleghi e la sua generazione non erano
preparati a digerire; nessuno lesse la prima edizione del suo grande libro. La
teoria di Jung era troppo difficile, troppo impegnativa sul piano
intellettuale: non solo bisognava imparare tutti quei termini nuovi ma anche,
per riconoscere simboli e archetipi, avere dimestichezza con la storia
universale della cultura; le sue opere principali sono a tutt'oggi pochissimo
lette. Quando nacquero, la teoria di Freud era perversa e quella di Jung troppo
complessa. Oggi sono date per scontate.
Poiché
deriva in parte da Freud e da Jung, la prospettiva avanzata in questo libro si
porta appresso la loro eredità: è insieme scandalosa e difficile, ma in questo
caso a cagione della morte. Ai motivi di rifiuto ereditati, questo libro ne
aggiunge un altro tutto suo: le tesi che propongo sono inverosimili,
inattuabili e visionarie. Il mio approccio palesa il territorio d'origine, chthon, il remoto mondo pneumatico, che
è una dimensione non accessibile in sé e dunque difficile da rappresentare
adeguatamente; può solo essere una prospettiva adombrata che fa piazza pulita
di altre posizioni: micidiale!
Tanto
Freud quanto Jung cercarono con le loro opere di costruire una scienza positiva
della psiche. Ciascuno a suo modo, Freud e Jung hanno dato un contributo alla
conoscenza scientifica dei sogni, spiegandone natura, struttura, dinamica,
simbolismo, linguaggio, intenzioni, meccanismi interni, significati. Al
contrario, questo libro si propone di elaborare un atteggiamento nei confronti
dei sogni, per cui qualsiasi conoscenza positiva sarebbe un gesto del mondo
diurno, che fa torto al sogno e nuoce all'anima. Quando ci si convince di
conoscere l'invisibile, si è su una brutta china. E infatti oggi stiamo
mietendo i frutti degli insipienti deliri di una ottocentesca scienza positiva
della natura, quando invece la natura ama nascondersi. Convinti di conoscere
entità invisibili come l'atomo, la cellula e il gene, ci siamo dati a spronare
il cavallo della hybris, e oggi
potrebbe essere troppo tardi per invertire la corsa. Sostenere una conoscenza
positiva del sogno e della psiche non equivale forse a spingere lo stesso
cavallo sulla stessa catastrofica china? E con un secolo di ritardo, per di
più, accostandoci anacronisticamente alla psiche con atteggiamenti che sono già
stati invalidati per ciò che riguarda la natura. Essenziale, per lavorare con
ciò che è sconosciuto, è mettersi nell'atteggiamento di quando non si conosce
una cosa. In questo modo, lasciamo che sia il fenomeno a parlare. Questo
soltanto, forse, può salvaguardarci da convinzioni deliranti. Di qui la mia
insistenza su due punti: l'occhio oscuro che rende incerta la nostra luce; e
un'attenta precisione nei confronti di ciò che effettivamente si presenta, un
metodo che Lopez-Pedraza con felice metafora chiama «restare dentro l'immagine
»,
L'assenza
in questo libro di conoscenze positive, la sua f1agrante indifferenza per il
dato di fatto, le previsioni statistiche, la falsificabilità degli enunciati e
l'autorità storica, e addirittura per le prove e per gli esempi, additano
un'ulteriore differenza tra quello che siamo venuti facendo in queste pagine e
quello che fecero Freud e Jung, per quanto in verità neppure loro abbiano
fondato su tali metodi la propria psicologia del sogno. Freud e Jung avevano
tuttavia ciascuno una metapsicologia, coesa al suo interno, su cui poggiare il
proprio metodo di analisi dei sogni. pove essi costruirono un sistema coeso,
noi propomamo invece una prospettiva coerente, conforme a una specifica regione
del mito, il mondo infero. Invece che a una teoria psicologica coesa, noi
miriamo a un coerente atteggiamento psicologico.
La
differenza tra una teoria psicologica coesa e un coerente atteggiamento
psicologico sta nel fatto che quest'ultimo è al tempo stesso più modesto nelle
ambizioni e più audace nella prassi. Con la nostra prospettiva, i sogni possono
appartenere alla teoria che più ci aggrada (quella di Freud, di Jung, di
chiunque altro), perché le narrazioni metapsicologiche che spiegano i sogni
(loro natura, funzione, dinamica, simbolismo) sono irrilevanti per il sogno e
per le sue immagini. Qualunque teoria va bene, purché non interferisca con la
coerente prospettiva infera del sogno inteso come immagine. Noi ci atteniamo
alla tattica, al lavoro immaginativo sul sogno, un lavoro che è un fare anima.
Non ci interessa la strategia. Il mondo infero non è una teoria e nemmeno un
racconto. È, piuttosto, un luogo mitico, dove solo la psiche ha importanza, la
psiche e nient'altro. Una prospettiva coerente sarà coerente con tale
senso-immagine della realtà psichica, indipendentemente dalla teoria più
complessa (freudiana, junghiana o altro) che ci si costruisce sulla realtà
psichica.
La
nostra metapsicologia è interamente mitica e immaginativa. Poggia su
inconoscibili non sistematici, come il profondo, l'anima e la morte. La
prospettiva conforme a questo retroterra è limitata in partenza nelle sue
ambizioni. Quale teoria potremmo mai costruire, se non siamo in grado non dico
di definire ma nemmeno di descrivere i termini fondamentali del nostro lessico?
Ci tocca affrontare la battaglia senza direttive da parte del quartier
generale, come se non esistessero né quartieri generali né piani di battaglia.
Sempre all'erta per cogliere il senso sottostante, dobbiamo venire alle prese
con ciascun sogno a mani nude, facendoci audacemente strada da un'immagine
all'altra, armati soltanto della nostra perizia immaginativa e del nostro
coerente punto di vista, senza finalità teoriche a dirci come dovrà essere il
risultato e quando scadrà l'ingaggio. Privi come siamo di teoria, non ci resta
che restare dentro il sogno.
E
qui che diventa più evidente un'altra differenza con la prassi freudiana e con
quella junghiana. Cioè, nel nostro modo di lavorare, è diversa la relazione tra
il sogno e i ricordi del paziente, o anamnesi. Benché i freudiani abbiano
sempre dedicato particolare attenzione ai sogni e gli junghiani abbiano
elaborato le categorie di «sogni iniziali» e di «grandi sogni», che essi usano
come immagini predittive determinanti, né gli uni né gli altri compiono quel
gesto radicale di bruciarsi il ponte alle spalle che il nostro atteggiamento ci
impone. Mentre loro situano il sogno nel paziente e nel contesto della sua
vita, noi situiamo il paziente e la sua vita nel sogno. La nostra prima mossa
psicoterapeutica consiste nell'immaginare il paziente in un sogno. I racconti
della sua vita diurna sono considerati ulteriori luoghi in cui il suo sogno è
sognato e i suoi problemi ulteriori similitudini delle sue immagini. Sono
quelle immagini il suo contesto psichico e la sua realtà psichica, che noi, in
quanto terapeuti della psiche, consideriamo nostro primo e ultimo interesse. La
nostra teoria delle immagini dice che non abbiamo altro luogo in cui situare il
paziente se non dentro le sue immagini, nel mezzo del suo «materiale», e che
sia lui sia noi dobbiamo rimanere nel mondo infero, rinunciando a mettere il
sogno al servizio di finalità metapsicologiche, quali che siano: sviluppo
dell'Io, integrazione, interesse sociale, individuazione.
Questo
significa fare a meno dell'anamnesi nel senso di storia clinica, la consueta
raccolta di un contesto di realtà sociali e di esperienze personali in cui
situare il sogno. Secondo la nostra prospettiva, nessuna di queste cose è più
importante del sogno o è di aiuto per comprenderlo. Il fenomeno da salvare è il
sogno, e va salvato dai suoi collegamenti con il mondo diurno, che distorcono
le immagini trasformandole in ricordi personali. La nostra anamnesi è il sogno
stesso; impariamo a conoscere il paziente attraverso i suoi sogni, dal di
sotto, rivolgendoci alla sua psiche prima che alla sua vita diurna. Questa
mossa costella dal principio il mondo infero e dà inizio all'intero processo
analitico come discesa nello spazio ignoto.
Nell'oscurità
di questa iniziazione, i due partecipanti si fanno istintivamente più vicini.
Si forma un legame, simile a un eros tra morenti, qualcosa che è altro rispetto
alla traslazione di emozioni del passato, che è altro rispetto all'amore tra
mentore e discepolo, tra medico e paziente, un sentimento molto raro e
inesplicabile, indotto dal mistero dell'immagine.
Non
so che cosa sia questo tipo di amore, ma so che non è riducibile ad altre forme
più note. Forse è un'esperienza di Eros in Thanatos. Forse è un'esperienza
dell' eros telestico, di cui parla Platone nel Fedro l'eros dei misteri e delle
iniziazioni dell'anima; oppure può avere a che fare con l'eros creativo che
sempre si attiva quando si è in intimità con l'anima, il mito di Amore e Psiche
che percorre le nostre emozioni. Quale ne sia la natura, c'è un amore nel
lavoro onirico: avvertiamo che i sogni sono benevoli, ci spalleggiano e ci
spronano, ci comprendono più a fondo di quanto noi stessi ci comprendiamo,
espandono la nostra sensuosità e il nostro spirito, inventano sempre nuove cose
da offrirci ... e questa sensazione di essere amati dalle immagini permea la
relazione analitica. Chiamiamolo amore immaginale, un amore basato interamente
sul rapporto con le immagini e attraverso le immagini, un amore che si rivela
nella risposta immaginativa dei due partner all'immaginazione all'opera nei
sogni. Che sia questo l'amore platonico? E simile all'amore di un vecchio che
la morte imminente ha svuotato del consueto contenuto personale e tuttavia è un
amore ancora intenso, giocoso e teneramente, premurosamente intimo.
«I
vecchi dovrebbero essere esploratori» ha scritto T.S. Eliot. Immaginiamoli,
allora, esploratori dell'immagine, amanti del sogno: Prospero, piuttosto che
Ferdinando tra le braccia di Miranda; o in viaggio verso Bisanzio. Questo amore
non mira soltanto a unire, come ci è stato insegnato fino alla noia. Quando
amiamo, vogliamo esplorare, discriminare in un orizzonte sempre più vasto,
estendere la complessità che rende più intensa l'intimità.
Ve
lo immaginate? Sedute terapeutiche che lasciano perdere madre, infanzia e sensi
di colpa sessuali, sempre un po' in ritardo rispetto alle battaglie personali
che si stanno combattendo a casa, alle depressioni e alle emicranie che il
paziente vuole curare: una terapia che sembra adagiarsi in permanenza nel paese
dei sogni. E che solo a poco a poco e in maniera obliqua si addentra nella
storia ricordata del paziente e nelle crisi del suo sviluppo personale. Il
nostro modo di fare anamnesi è indiretto, segue il corso sinuoso dei sogni,
lasciando che siano loro a dettare il passo. Gli elementi anamnestici di cui
l'anima ha bisogno per muoversi emergono al momento opportuno. Tutti i tasselli
della storia clinica (madre e padre, passati amori e malesseri presenti)
entrano nella terapia per il tramite del sogno, diventando così a loro volta
immagini. Il sogno è la cosa che chiediamo nella prima seduta, e il sogno è la
cosa da cui partiamo nelle sedute successive. Questo fa sì che l'intero
incontro terapeutico vada a collocarsi nel terreno psichico del mondo infero.
In quel contesto rientrano sia la storia passata sia il giorno presente.
Spesso le immagini dimenticano quelli che per
il sognatore sono i suoi traumi, come se ai sogni non interessassero i
fallimenti che lo hanno portato in terapia. I sogni sono già occupati a
dimenticare la vita che il paziente ricorda. Quando ritorna direttamente a
quelle azioni e a quelle sofferenze, la terapia non fa che ricostituire l'Io
eroico. Il metodo del mondo infero consiste nel dimenticare, dunque non si deve
trattenere il paziente nel suoi ricordi, bensì dissolvere i ricordi nei suoi
sogni.
Partire
dal sogno non è probabilmente una mossa così radicale come sembra. Forse non
facciamo altro che conformarci a un dato di natura già rilevato da Platone.
Secondo Platone e anche secondo talune recenti ricerche comportamentali, il
sogno precede comunque la vita cosciente. Dai movimenti delle zampe, dagli
spasmi muscolari e dal tracciato elettroencefalografico di animali osservati
durante il sonno si è dedotto che essi stavano sognando. Poiché segnali
comportamentali analoghi sono presenti nei neonati e nei feti umani, e stata
avanzata l'ipotesi che anch'essi siano soggetti, a un processo: se non
identico, analogo all'attivita onirica degli adulti. Prima ancora che il mondo
diurno abbia nuzio a livello fattuale ed evolutivo, il sogno. è all'opera. La
psiche precede le proprie manifestazioni nella vita dell'esperienza esterna e
sociale. Prima ancora che esistano i contesti in cui cerchiamo di collocarla,
l'anima sta già creando immagini.
Nonostante
queste differenze tra la pratica della psicoterapia classica (di Freud e Jung)
e quella che siamo venuti abbozzando In queste pagine, sia io sia loro ci
basiamo sul metodo della reversione, cioè riconduciamo il sogno a miti che trascendono
Il sogno stesso. Sia noi che loro proponiamo ciascuno una visione che
restituisce i sogni a una metapsicologia del mito quanto mai profonda e universale;
e dunque il nostro lavoro è, in tutti e tre i casi, un esercizio di epistrophe, nel senso indicato all'inizio
del libro. ,
Il mito al quale tutti e tre riconduciamo il
sogno è il medesimo, il mondo infero. E questa la base e Il terreno comune
della psicologia del profondo, nella quale il sogno ha sempre svolto Il ruolo più
importante. Freud e Jung, però, tendevano a tradurre il mitico nel concettuale
e il mondo infero nell'inconscio. Quel primo gesto diurno portò a ulteriori
concettualizzazioni (rimozione, opposizione, Io, libido) e a un ulteriore
allontanamento dal sogno e anche dal mito. A questo punto bisognò introdurre
altri miti: Edipo, Eros e Thanatos, l'orda primitiva, l'eroe, la coppia Anima/
Animus, lo unus mundus e la
quadruplice radice. In tal modo Freud e Jung costruirono ciascuno una
cosmologia e una mitologia di princìpi mitici.
In
genere essi riconobbero che questo appunto stavano facendo, ma non riuscirono a
prendere i miti come miti, anche se Jung, con i suoi archetipi personificati,
cercò di elaborare una modalità esplicitamente mitica. Non riuscendo a
liberarsi dalla concettualizzazione psicologica, essi finirono per concepire i
miti in modo metapsicologico (laddove noi cerchiamo di immaginare la nostra
metapsicologia in modo mitico). Tradussero i miti in princìpi sovraordinati, e
di conseguenza i sogni diventarono illustrazioni di tali princìpi. Freud e Jung
usarono i sogni come prove positive; erano convinti che il sogno potesse
contribuire alla costruzione di una scienza della psicologia, favorendo la
conoscenza progressiva delle sue leggi. E probabile che nella loro pratica
terapeutica questo atteggiamento, che considera il sogno come «materiale
empirico», non sia mai stato predominante; tuttavia è ampiamente presente in
tutti i loro scritti sui sogni. Anche quando mettevano i sogni in relazione con
i miti, lo facevano per illustrare tale relazione, per dimostrare che i miti
agiscono nella psiche. Il sogno era sempre una testimonianza a conferma della
loro metapsicologia.
E
su questo punto che incomincia ad aprirsi una piccola crepa nel nostro terreno
comune. E nel separare il nostro metodo dal loro, la crepa potrebbe diventare
un abisso, perché separa anche due epoche della coscienza. Il loro metodo è
incomparabilmente più grande: chapeau!
Tuttavia la loro immensa genialità è nello stesso tempo limitata dagli
atteggiamenti positivistici dell'empirismo medico. Neppure due giganti come
loro si sono potuti liberare del tutto dal proprio periodo storico. Di
conseguenza, la loro epistrophe è un
ritorno a miti immaginati positivisticamente: sistematici, oggettivamente
fondati, presi letteralmente per veri. La situazione edipica è proclamata un
dato di fatto universale, gli archetipi sono definiti universali istintuali; la
libido non è una teoria, la libido è; il Sé non è un'ipotesi, il Sé è. La base
su cui poggiano le loro teorie dei sogni va dunque chiamata con il suo giusto
nome: mitologia metafisica, in cui il «meta» è sacrificato alle sostanziazioni
della «fisica» e il «mito» è sacrificato ai letteralismi delle «logie».
Invece,
il mito a cui noi riconduciamo il sogno è privo di sostanza esattamente come il
sogno. Né il sogno né il suo retroterra nel mondo infero possono essere
presentati come prova a conferma l'uno dell'altro. Le qualità che abbiamo
attribuito al sogno sono impossibili da stabilire con l'esperienza e non
possono essere fondate nel mito. Il mito non dà fondamento, dà apertura. Noi
rimaniamo nella prospettiva del profondo, senza niente di più solido sotto i
piedi del profondo stesso. Prendiamo la psicologia del profondo letteralmente,
sulla parola, perché il profondo è una metafora che non ha base.
Quest'ultima
frase riflette la distanza che si è aperta tra i fondatori della psicologia del
profondo e noi che siamo venuti dopo, in questa epoca ermeneutica, non
letterale. Loro dovevano per forza di cose avere una base solida, benché
sapessero e a volte anche dicessero che quella base erano le immagini, che sono
immateriali, come la fantasia. Il nostro modo di lavorare con i sogni, invece,
non può che fare affermazioni infondate e, come ogni sogno, ogni notte, vi
chiede di accettare «l'edificio senza fondamenta di questa visione». L'immagine
è psiche e non può ritornare a nulla se non al suo stesso gesto di immaginare.
Quest'ultimo
capitolo dedicato alla pratica è stato un esercizio di immaginazione, non di
interpretazione; e questa sua ultima parte è un tentativo di ricapitolare lo
scopo dell'intero libro: proporre un atteggiamento che mantenga il sogno al
lavoro nell'anima. So di essere a volte ricaduto nei vecchi modi di parlare dei
sogni, spiegando quale potrebbe essere «il significato» di un sogno e trattando
le sue immagini alla stregua di simboli. Ma, come ho avvertito il lettore,
questa modalità è in un certo senso imposta dal genere letterario a cui
appartengono i libri sui sogni. Senza contare che in ciascuno di noi è presente
in qualche misura il desiderio di conoscenze certe, positive.
Eppure,
se ripensiamo a uno qualunque dei sogni che hanno rivestito importanza per noi,
ci accorgiamo che più passa il tempo e più ci riflettiamo sopra, più numerose
sono le cose che vi scopriamo e più numerose e variegate le direzioni che da
essi si aprono. Ogni volta che il sogno è studiato di nuovo, qualunque certezza
esso possa averci dato si rifrange in complessità che sfuggono a ogni
formulazione chiara e netta. La profondità dell'immagine, anche della più
semplice, è davvero insondabile. Tale infinita profondità che tutto abbraccia è
uno dei modi in cui i sogni mostrano il loro amore.
Poiché
non possiamo conoscere i sogni nel modo positivo che vorremmo, quasi per
alleviare la frustrazione modifichiamo il nostro atteggiamento nei loro
confronti. Anziché saperne di più, vogliamo penetrarli più a fondo elaborando
forme di indagine sempre più affilate e sottili: il nostro atteggiamento
conduce a un metodo ermetico. Dunque, la nostra insistenza sull'oscurità del
sogno non è oscurantismo e neppure è il pessimismo dei cinici, che è rinuncia
di fronte alla propria incapacità di conoscere, né è un romantico laisser alter che desidera soltanto
contemplare i sogni con meraviglia ed esserne amato. No, l'oscurità del sogno
incoraggia a indagare ulteriormente e a lavorare con rinnovato impegno. Con
entusiasmo, con coraggio, senza pregiudizi, senza le posizioni che abbiamo
appreso da teorie inadatte e da libri di testo del mondo diurno, che
immancabilmente adattano i sogni a questo o quel sistema psicologico
dottrinale.
Io
non considero l'attività del sognare come una porzione della psiche, come se
fosse uno dei capitoli di un libro di testo, insieme a memoria, percezione,
emozione, e così via. L'attività onirica è la psiche stessa intenta al suo
lavoro del fare anima. Non ne capiamo abbastanza, di questo lavoro dell'anima,
perché non siamo completamente immersi nel suo luogo; perché, una volta usciti
dal mondo infero e tornati alle nostre varie altre parti di anima elencate nei
manuali, non siamo «morti», non siamo tutta psiche.
Dunque
il nostro compito non consiste tanto nell'integrare i sogni e l'attività
onirica in un qualche sistema psicologico capace di darci la sensazione di
averne una conoscenza positiva, quanto piuttosto nel vedere tali sistemi come
«sogni» essi stessi. La mia argomentazione sa a sua volta di teoria (pluralità
di anime e regioni, di interi e parti), ma in realtà vuole essere un espediente
euristico volto a promuovere un atteggiamento capace di convivere con lo scacco
del nostro desiderio di conoscenza. Allora potremo dissociare il sogno dai
nostri tentativi diurni di afferrarlo, lasciando che il nostro desiderio si
dissolva nelle sue immagini, le quali sono poi le uniche posizioni che il sogno
stesso sembra assumere.
Nonostante
l'ininterrotto interesse di Freud e di Jung per l'umana oscurità e per la
psiche come campo del profondo, la psicoterapia, comprese quelle freudiana e
junghiana, si è lasciata sempre più coinvolgere nella vita, mantenendo la
psiche attaccata alla vita, e in tal modo dando dei sogni una lettura al
servizio della vita. Nel suo smodato ottimismo, la psicoterapia trascura sempre
di più le profondità dei suoi fondatori. Se è vero che, come ha detto Jung,
l'uomo moderno è alla ricerca di un'anima perduta, ebbene quest'anima si è in
parte perduta nella vita; i tentativi della moderna psicoterapia di
riconnettere i sogni alla vita non fanno che rafforzare l'Io a spese dell'
anima, seguendo il thymos, non la psyche. L'aspetto infero di ciascun
complesso, il punto in cui esso tocca la morte, è anche il luogo in cui risiede
la psiche nella sua essenza immutabile e in cui può essere ritrovata l'anima.
Il mondo infero e le sue immagini, poiché lì sono contenuti gli enigmi più
profondi, diventano alla fine l'interesse prioritario di chiunque sia impegnato
nel fare anima.
Così
come il sogno è il guardiano del sonno, alla stessa stregua il lavoro onirico
di ciascuno di noi sta a protezione delle profondità dalle quali il sogno
nasce: l'ancestrale, il mitico, l'immaginale e tutte le nascoste essenze
invisibili che governano la nostra vita. I sogni sono i vigili fratelli del sonno,
della confraternita della morte, araldi, sentinelle di quella notte imminente;
e forse il nostro atteggiamento nei loro confronti andrebbe modellato su Ade,
che accoglie, è ospitale e tuttavia conduce inesorabilmente nel profondo, è in
sintonia con il notturno, l'opaco ed è dotato di una paurosa fredda
intelligenza che offre permanente rifugio, nella sua casa, agli stati
incurabili della nostra umanità.
Gennaio
1972 - Dicembre 1977