IL DONO DELL'AQUILA
Carlos Castaneda
INDICE
Prologo 2
Prima parte: L'ALTRO IO
I. La certezza della seconda attenzione 3
II. Vedendo insieme 10
III. I cuasirrecuerdos dell'altro io 17
IV. Il traghettamento dei limitrofo
dell'affetto 23
V. Un'orda di stregoni iracondi 30
Seconda parte: L'ARTE DI TRASOGNARE
VIDI. Perdere la forma umana 37
VII. Trasognando insieme 43
VIII. La coscienza del lato destro e del
lato sinistro 50
Terza parte: IL DONO DELL'AQUILA
IX. La regola del nagual 57
X. Il gruppo di guerrieri del nagual 62
XI. La donna nagual 70
XII. I non-fare di Silvio Manuel 76
XIII. La complessità del sogno 81
XIV. Florinda 88
XV. Il serpente piumato 99
APPENDICE
Sei proposte esplicatorie 95
PROLOGO
Malgrado sia antropologo, questa non è,
strettamente, un'opera di antropologia; tuttavia, ha le sue radici
nell'antropologia culturale, dato che incominciò anni fa come un'investigazione
di campo in quella disciplina. In quell'epoca io ero interessato in studiare
gli usi delle piante medicinali tra gli indi del sudovest degli Stati Uniti e
del nord del Messico.
La mia investigazione, con gli anni, si
trasformò più in qualcosa, come conseguenza del suo proprio impulso e della mia
propria crescita. Lo studio delle piante medicinali fu spostato per
l'apprendistato di un sistema di credenze che dava l'impressione di abbracciare
almeno due culture distinte.
Il responsabile di questo cambiamento di
messa a fuoco nel mio lavoro fu un indio yaqui del nord del Messico, Don Juan
Matus, chi più tardi mi presentò a Don Genaro Flores, un indio mazateco del
Messico centrale. I due erano adepti apprendisti di un'antichissima conoscenza
che lo è chiamato nei nostri giorni, comunemente, stregoneria e che si
considera una forma primitiva di scienza medica e psicologica, essendo
insolitamente in realtà una tradizione di apprendisti disciplinati e di
pratiche straordinariamente sofisticate.
I due uomini si trasformarono nei miei
maestri più che nei miei informatori, ma ancora così io persistevo, in una
maniera disordinata, in considerare il mio compito come un lavoro
antropologico; passai anni tentando di dedurre la matrice culturale da quello
sistema; perfezionando una tassonomia, un modello classificatorio, un'ipotesi
della sua origine e disseminazione. Tutti risultarono sforzi vani davanti al
fatto che le urgenti forze interne di quello sistema deragliarono la mia
ricerca intellettuale e mi trasformarono nel suo partecipante.
Sotto l'influenza di questi due uomini
poderosi la mia opera si è trasformata in un'autobiografia, nel senso che mi
sono visto forzato, a partire dal momento in cui diventai partecipante,
informare quello che mi succede. Si tratta di un'autobiografia peculiare perché
io non sto trattando con quello che mi succede come uomo ordinario, né neanche
con gli stati soggettivi che sperimento durante la mia vita quotidiana.
Piuttosto, ho informato sugli eventi che si spiegano nella mia vita, come
risultato diretto dell'adozione che feci di un insieme di idee e di
procedimenti altrui a me. In altre parole, il sistema di credenze che io volevo
studiarmi ha divorato, e per proseguire col mio scrutinio devo pagare un
straordinario tributo diario: la mia vita come uomo di questo mondo.
Dovuto a queste circostanze, ora affronto
il problema speciale di dovere spiegare quello che sto facendo. Mi trovo molto
lontano dal mio punto di origine come uomo occidentale ordinario o come
antropologo, e prima che niente devo reiterare che questo non è un libro di
finzione. Quello che descrivo è strano a noi; per quel motivo, sembra irreale.
Man mano che penetro più profondamente
nelle complessità della stregoneria, quello che sembrava essere un sistema di
credenze in un principio e di pratiche primitive è risultato ora un mondo
enorme ed intricato. Per potere familiarizzare con quello mondo. e per potere
reprimerlo; devo utilizzare la mia persona di modi progressivamente complessi e
sempre di più raffinati. Qualunque cosa che mi succede non è oramai qualcosa
che possa predire, né qualcosa di congruente con quello che gli altri
antropologi conoscono circa il sistema di credenze degli indi messicani.
Conseguentemente mi trovo in una posizione difficile; tutto quello che posso
fare basso le circostanze è presentare quello che mi succede, come successe.
Non posso dare altre garanzie della mia buona fede, salvo riaffermare che non
vivo una vita duale e che mi sono impegnato a seguire i principi del sistema di
Don Juan nella mia esistenza quotidiana.
Dopo che Don Juan Matus e Don Genaro Flores
giudicarono che mi avevano spiegato la sua conoscenza alla sua soddisfazione,
mi dissero addio ed andarono via. Compresi che da allora il mio compito
consisteva in reacomodar io suolo quello che imparai di essi.
Al fine di compiere questo compito ritornai
in Messico e seppi che Don Juan e dono Genaro avevano altri nove apprendisti:
cinque donne e quattro uomini. Il maggiore delle donne si chiamava Soledad; il
seguente era María Elena, soprannominata la Grassa; le tre restanti: Combatte,
Rosa e josefina, erano più giovani e li ero conosciuti come "le
sorelline." I quattro uomini, in ordine di età, erano Scelse, Benigno,
Néstor e Pablito; ai tre ultimi li chiamavano "i Genaros" perché
furono molto vicini a Don Genaro.
Io sapevo già che Néstor, Pablito e Scelse
chi era sparito del tutto, erano apprendisti, ma mi avevano fatto credere che
le quattro ragazze erano sorelle di Pablito, e che Soledad era sua madre.
Conobbi superficialmente Soledad attraverso gli anni e la chiamai sempre signora
Soledad, come visto di rispetto, poiché in età era la più vicina a Don Juan. Mi
avevano presentato anche a Corrida e Rosa, ma la nostra relazione fu troppo
breve e casuale per permettermi di comprendere chi erano in realtà. Alla Grassa
e Josefina li conosceva solo per il suo nome. Conobbi a Benigno, ma non aveva
idea che era relazionato con Don Juan e dono Genaro.
Per ragioni incomprensibili per me, tutti
essi sembravano stare aspettando, in un modo o nell'altro, il mio ritorno al
Messico. Mi informarono che si supponeva che io dovevo prendere il posto di Don
Juan come il suo leader, il suo nagual. Mi dissero che Don Juan e dono Genaro
erano spariti della faccia della terra, come Scelse. Le donne e gli uomini
credevano che i tre non erano morti, ma erano entrati in un altro mondo
distinto a quello della nostra vita quotidiana, ma altrettanto reale.
Le donne - specialmente signora Soledad -
sbatterono violentemente con me dal primo incontro. Furono, nonostante, lo
strumento che produsse una catarsi in me. Il mio contatto con esse mi portò ad
un'effervescenza misteriosa nella mia vita. A partire dal momento in cui li
conobbi, cambiamenti drastici ebbero luogo nel mio pensiero e nella mia
comprensione.
Tuttavia, niente di quello successe in un
piano cosciente: semmai, dopo li avere visitate mi scoprii per la prima volta
più confuso che mai, ma nonostante, dentro il caos trovai una base
sorprendentemente solida. Grazie all'impatto del nostro confronto scoprii in
me, risorse che non immaginai mai possedere.
La Grassa e le tre sorelline erano
sognatrici consumati; volontariamente mi diedero consigli e mi mostrarono i
suoi propri risultati. Don Juan aveva descritto l'arte di trasognare, come la
capacità di utilizzare i sonni ordinari di uno e di trasformarli in una coscienza
controllata mediante una forma specializzata di attenzione che Don Genaro ed
egli chiamavano la seconda attenzione.
Io speravo che i tre Genaros mi
insegnerebbe i suoi risultati nell'altro aspetto degli insegnamenti di Don Juan
e dono Genaro: "quello di spiare": Questo mi era stato spiegato come
un insieme di procedimenti ed atteggiamenti che permettevano ad uno estrarre la
cosa migliore di qualunque situazione concepibile. Ma tutto quello che i
Genaros mi disse circa spiare non aveva né la coesione né la forza che io avevo
anticipato. Conclusi che gli uomini non erano in realtà apprendisti di
quell'arte o che, semplicemente, non volevano mostrarmelo.
Sospesi le mie indagini per permettere che
tutti essi potessero sentirsi bene con me, ma tanto gli uomini come le donne si
immaginarono, dato che non li formulava oramai domande che io agivo finalmente
come nagual. Ognuno di essi esigè la mia guida ed il mio consiglio.
Per accedere a questo mi vidi obbligato a
portare a termine una ricapitolazione totale di tutto quello che Don Juan e
dono Genaro mi avevano insegnato, e di penetrare ancora più nell'arte della
stregoneria.
PRIMA PARTE: L'ALTRO IO
I. La certezza della seconda attenzione
Era di tardi quando arrivai a dove vivevano
la Grassa e le sorelline. La Grassa era sola, seduta fuori della porta,
contemplando le montagne distanti. Si sbalordì vedendomi. Mi spiegò che era
stato completamente assorta in un ricordo e che in un momento stette per
ricordare qualcosa di molto vago e che aveva a che vedere con me.
Quella notte, dopo avere cenato, la Grassa,
le tre sorelline, i tre Genaros ed io ci sediamo nel suolo della stanza della
Grassa. Le donne si accomodavano giunte.
Per alcuno ragione, benché avesse la stessa
familiarità con ognuno di essi, aveva scelto inconsciamente la Grassa come
recipiente di tutta la mia attenzione. Era come se gli altri non esistesse per
me. Osservai che chissà si doveva a che la Grassa mi ricordavo a Don Juan, e
gli altri, no. Esisteva qualcosa attore comico in lei, ma quella grazia non si
trovava tanto nelle sue azioni come nei miei sentimenti verso lei.
Volevano sapere che cosa stavo facendo
prima di arrivare. Dissi loro che era appena stato nella città di Tula,
Hidalgo, dove aveva visitato le rovine archeologiche. Mi impressionò
notevolmente una fila di quattro colossali figure di pietra, con forma di
colonna, chiamate "gli Atlanti" che si trovavano nella parte
superiore facciata di una piramide.
Ognuna di queste figure quasi cilindriche
che misurano cinque metri di altezza ed uno di diametro, è composto di quattro
distinti pezzi di basalto intagliati per rappresentare quello che gli
archeologi credono essere guerrieri toltechi che portano la sua pompa magna
guerriera. A circa sette metri dietro ognuno degli atlanti si trova un'altra
fila di quattro colonne rettangolari della stessa altezza e larghezza delle
prime, anche fatte con quattro pezzi distinti di pietra.
L'impressionante scenario degli atlanti fu
rincarato ancora più per me per quello che mi contò l'amico che mi ero portato
al posto. Mi disse che un guardiano delle rovine gli rivelò che egli aveva
sentito, durante la notte, camminare agli atlanti, di tale forma che sotto ad
essi il suolo si scuoteva.
Chiesi commenti ai Genaros. Si mostrarono
timidi ed emisero risatine. Diventai alla Grassa che si trovava seduta vicino a
me, e gli chiesi direttamente la sua opinione.
- Io non ho visto mai quelle figure -
assicurò -. Non sono stato mai in Tula. La mera idea di andare a quello paese
mi fa paura.
- Perché si fa paura, Gorda?-domandai.
- A me mi passò una cosa molto rara nelle
rovine di Monte Albán, ad Oaxaca - rispose -. Io andavo molto a camminare per
quelle rovine, malgrado il nagual Juan Matus mi dicesse che non mettesse lì un
piede. Non so perché ma mi piaceva quello posto. Ogni volta che arrivava da
Oaxaca andava lì. Come alle vecchie che camminano sole li disturbano sempre, in
generale andava con Pablito, che è molto audace. Ma una volta fui con Néstor.
Ed egli vide un scintillio nel suolo. Vanghiamo un po' e troviamo una pietra
molto strana che stava nella palma della mia mano. Avevano fatto un vuoto ben
tornito nella pietra. Io volevo mettere lì il dito e mettermela come inanello,
ma Néstor non mi lasciò. La pietra era soave e mi riscaldavo molto la mano. Non
sapeva che fare con lei. Néstor la mise dentro il suo cappello e la carichiamo
come se fosse un animale vivo.
Tutti incominciarono a ridere. Sembrava
c'essere un scherzo nascosto in quello che la Grassa si diceva.
- A dove la portasti? - gli domandai.
- La portammo qui, a questa casa - rispose,
e quell'asseverazione generò risate incontenibili negli altri. Tossirono ed
annegarono di ridere.
- La Grassa è quella che pagò per la
barzelletta - spiegò Néstor -. Devi vederla come è, ostinata come una mula. Il
nagual gli aveva detto già che non si mettesse con pietre, o con ossa, o con
qualunque cosa che trovasse sepolta nel suolo. Ma ella scivolava come ladro
quando egli non si rendeva conto e raccoglieva ogni tipo di porcherie.
"Quello giorno, ad Oaxaca, la Grassa
Lei emperró in cui dovevamo portarci quella maledetta pietra. Saliamo con lei
al camion e la portammo fino a qui, fino a questo paese, e dopo fino a questa
stessa stanza.
- Il nagual e Genaro erano in viaggio -
proseguì la Grassa -. Mi sentii molto audace, misi il dito nel buco e mi resi
conto che quella pietra era stata tagliata per portarla nella mano. Lì nomás
incominciai a sentire quello che sentiva il padrone di quella pietra. Era una
pietra di potere. Mi mise di cattivo umore. Mi entrò paura. Sentiva che
qualcosa di orribile si nascondeva nella cosa offusco della casa, qualcosa che
non aveva né forma né colore. Non poteva rimanere sola. Mi svegliavo attaccando
grida e dopo un paio di giorni nomás non potei già né dormire. Tutti si
alternavano per accompagnarmi, di giorno e di notte.
- Quando il nagual e Genaro ritornarono -
disse Néstor -, il nagual mi comandò con Genaro a mettere di nuovo la pietra
nel posto esatto dove era stato sepolta. Genaro si fu da tre giorni in
localizzare il posto esatto. E lo fece.
- Ed a te, Grassa che cosa ti passò, dopo
quello? - domandai.
- Il nagual mi seppellì. Per nove giorni
fui nuda dentro una bara di terra.
Tra essi ebbe luogo un'esplosione di
risata.
- Il nagual gli disse che non si poteva
uscire di lì - spiegò Néstor -. La povera Grassa doveva pisciare e fare cacca
dentro la bara. Il nagual la spinse dentro una scatola che fece con rami e
fango. C'era una porta in un lato per il cibo e l'acqua. Tutto il resto era
bollato.
- Perché la seppellì? - indagai.
- È l'unica forma di proteggere a chiunque
- sostenne Néstor -. La Grassa doveva essere messa basso il suolo affinché la
terra la curasse. Nessuno curato migliore che la terra; inoltre, il nagual
doveva deviare il senso di quella pietra che era focalizzato nella Grassa. La
terra è un schermo, non lascia che niente passaggio per nessun lato. Il nagual
sapeva che la Grassa non poteva peggiorare per stare sepolti nove giorni, a
forza doveva migliorare. E quello passò.
- Che cosa sentisti stando seppellito così,
Grassa? - gli domandai.
- Quasi divento matta - confessò -. Ma
quello nomás era il mio vizio di consentirmi. Se il nagual non si fosse messo
lì, sarei morto. Il potere di quella pietra era troppo grande per me; il suo
padrone era stato un uomo di volume enorme. Poteva sentire che la sua mano era
il doppio della mia. Si afferrò a quella roccia perché in ciò gli andava la
vita, ed alla fine qualcuno l'ammazzò.
Il "suo terrore mi spaventò. Potei
sentire che qualcosa si avvicinava a mio per divorare la mia carne. Quello fu
quello che sentì quell'uomo. Era un uomo di potere, ma qualcuno ancora più
poderoso di lui l'acchiappò.
"Il nagual disse che una volta che hai
un oggetto di quelli, il disastro ti persegue, perché il suo potere entra in
lite col potere di altri oggetti di quello tipo, ed il padrone o si converte in
persecutore o in vittima. Il nagual disse che la natura di quegli oggetti è
stare in guerra, perché la parte della nostra attenzione che li mette a fuoco
per darloro potere è una parte bellicosa, di molto pericolo.
- La Grassa è molto avida - assicurò
Pablito -. Si immaginò che se poteva trovare qualcosa che di per sé avesse già
molto potere, ella uscirebbe guadagnando perché già nessuno è oggigiorno
interessato in sfidare al potere.
La Grassa assentì a capofitto con un
movimento.
- Io non sapevo che uno può raccogliere
altre cose a parte il potere che quegli oggetti hanno. Quando misi per la prima
volta il dito nel buco ed afferrai la pietra, la mia mano diventò caldo ed il
mio braccio incominciò a vibrare. Mi sentii in realtà grande e forte. Come
sempre, e di nascosto, nessuno si rese conto, che io portavo la pietra nella
mano. Dopo vari giorni incominciò il vero orrore. Poteva sentire che qualcuno
glieli portava col padrone della pietra. Poteva sentire il suo terrore. Senza
dubbio si trattava di un stregone molto poderoso e chi fosse quello che
camminerà dietro lui non voleva solo ammazzarlo ma anche voleva mangiarsi la
sua carne. Davvero questo mi spaventò. In quello momento dovetti tirare la
pietra, ma quella sensazione che stava avendo era tanto nuova che continuava ad
afferrarla nella mia mano come una recontra stupida che sono. Quando finalmente
la sciolsi, era già troppo tardi: qualcosa in me era stato acchiappato. Ebbi
visioni di uomini che si avvicinavano, vestiti con vestiti strani. Sentiva che
mi mordevano, laceravano la carne delle mie gambe coi suoi denti e con piccolo
coltelli filosos. Diventai frenetica!
- E come spiegò Don Juan quelle visioni? -
domandai.
- Disse che questa non aveva oramai difese
- intervenne Néstor -. E che per quel motivo poteva raccogliere la certezza di
quell'uomo, la sua seconda attenzione, che era stato versata in quella pietra.
Quando si stavano ammazzandolo afferrò della pietra per così potere unire tutta
la sua concentrazione. Il nagual disse che il potere dell'uomo si mosse del
corpo alla pietra; sapeva quello che stava facendo e non voleva che i suoi
nemici si avvantaggiassero divorando la sua carne. Anche il nagual disse che
quelli che l'ammazzarono sapevano tutto questo e per quel motivo se lo
mangiarono vivo, per potere impadronirsi di tutto il potere che gli rimanesse.
Hanno dovuto seppellire la pietra per evitarsi problemi. E la Grassa ed io,
come due stupidi, la troviamo e la dissotterriamo.
La Grassa assentì, tre o quattro volte.
Aveva un'espressione sommamente seria.
- Il nagual mi disse che la seconda
attenzione è la cosa più feroce che è - dichiarò -. Se lo è messo a fuoco in
oggetti, non c'è nient'altro orrendo.
- Quello che è orribile è che c'afferriamo
- disse Néstor -. L'uomo che era padrone della pietra si afferrava alla sua
vita ed il suo potere, per quel motivo si inorridì tanto diffondo sentì che
toglievano la carne a morsi. Il nagual ci disse che se quell'uomo avesse smesso
di essere possessivo e si sarebbe abbandonato alla sua morte, chiunque che
fosse, non avrebbe sentito nessuna paura.
La conversazione si spense. Domandai agli
altri se avevano qualcosa da dire. Le sorelline mi guardarono con fuoco negli
occhi. Benigno rise sommessamente e nascose il suo viso col cappello.
- Pablito ed io siamo andati alle piramidi
di Tula - convenne finalmente -. Siamo andati a tutte le piramidi che c'è in
Messico, ci piacciono.
- E per che motivo andarono a tutte le
piramidi? - domandai.
- Realmente non so a che cosa fummo -
rispose -. Forse fu perché il nagual Juan Matus ci disse che non fossimo.
- E tu, Pablito?
- Io andai ad imparare - replico, di
malumore, e dopo rise -. Io vivevo nella città di Tula. Conosco quelle piramidi
come la palma della mia mano. Il nagual mi disse che anche egli visse lì.
Sapeva tutto circa le piramidi. Lo stesso era un tolteco.
Notai allora che qualcosa più che curiosità
mi ero fatto andare alla zona archeologica di Tula. La ragione principale per
la quale accettai l'invito del mio amico fu perché la prima volta che visitai
la Grassa e gli altri, mi dissero qualcosa che Don Juan non mi aveva menzionato
mai: che egli si considerava un discendente culturale dei toltechi. Tula fu
l'antico epicentro dell'impero tolteco.
- E che cosa, pensano che gli atlanti
camminino di notte? - domandai a Pablito.
- Ovviamente che camminano di notte -
enfatizzò -. Quelle cose sono state lì per secoli. Nessuno sa chi costruì le
piramidi; lo stesso nagual Juan Matus mi disse che gli spagnoli non furono i
primi a scoprirli. Il nagual assicurò che ci furono altri alci che essi. Quanti
Dio saprà.
- E che cosa credi che rappresentino quelle
figure di pietra? - insistei.
- Non sono uomini, bensì donne - disse -. E
quelle piramidi dove stanno è il centro dell'ordine e della stabilità. Quelle
figure sono i suoi quattro angoli, sono i quattro venti, le quattro direzioni.
Sono la base, il fondamento della piramide. Devono essere donne, donne
mascoline se così li vuoi chiamare. Come sai già, noi gli uomini non siamo
tanto caldi. Siamo una buona legatura, un pegol che unisce le cose, e quello è
tutto. Il nagual Juan Matus disse che il mistero della piramide è la sua
struttura. Le quattro angolo sono state elevate fino alla cima. La piramide
stessa è l'uomo che sta sostenuto per le sue donne guerriere: un uomo che ha
elevato i suoi supporti fino al posto più alto. Capisci?
Ho dovuto avere un'espressione di
perplessità nel viso. Pablito rise. Si trattava di un risata corti.
- No, non capisco, Pablito - riconobbi -,
perché Don Juan non mi parlò mai di quello. Il tema è completamente nuovo per
me. Per favore, dimmi tutto quello che sappia.
- Quello che si conosce come atlanti sono
il nagual; sono donne sognatrici. Rappresentano l'ordine della seconda
attenzione che è stato portata alla superficie, per quel motivo sono tanto
temibili e misteriose. Sono creature di guerra, ma non di distruzione.
"L'altra fila di colonne, i
rettangolari, rappresentano l'ordine della prima attenzione, il tonale. Sono
accecatrici, per quel motivo sono coperte di iscrizioni. Sono molto pacifiche e
sagge, il contrario della fila di di fronte.
Pablito smise di parlare e mi guardò quasi
provocatorio; dopo, sorrise.
Pensai che andava a spiegare quello che
aveva detto, ma stette in silenzio come se aspettasse i miei commenti.
Gli dissi quanto perplesso mi trovavo e
l'urgeva che continuasse parlando. Sembrò indeciso, mi guardò un momento e
respirò largamente. Appena aveva cominciato a parlare quando le voci degli
altri si sollevarono in un clamore di proteste.
- Il nagual ci spiegò già tutto quello -
notò la Grassa, impazientemente -. Perché devi farlo ripetere?
Tentai di farloro comprendere che in realtà
io non avevo la minore idea di quello che parlava Pablito. Lo pregai che
continuasse con la sua spiegazione. Sorse un'altra ondata di voci che parlavano
contemporaneamente. A giudicare dalla maniera le sorelline mi fulminavano come
con lo sguardo, si stavano arrabbiando ancora più, Combatte specialmente.
- Non vogliamo parlare di quelle donne - obiettò
la Grassa con un tono conciliatorio -. Nomás di pensare alle donne della
piramide ci mettiamo molto nervose.
- Che cosa passa a tutti voi? - domandai -.
Perché agiscono così?
- Non sappiamo - rispose la Grassa -. È
nomás una sensazione che ci dà a tutti, una sensazione molto inquieta. Tutti
stavamo bene fino ad un momento fa, quando incominciasti a domandare su quelle
donne.
Le asseverazioni della Grassa furono come
un segno di allarme. Tutti essi si alzarono ed avanzarono minaccianti verso me,
parlando molto forte.
Mi prese un buon momento calmarli e fare
che tornassero a prendere posto. Le sorelline si trovavano molto fastidiose ed
il suo cattivo umore sembrava influenzare quello della Grassa. I tre uomini
mostravano maggiore controllo. Affrontai Néstor e gli chiesi liscia e
spontaneamente che mi spiegassi perché le donne si erano agitate tanto. Era
ovvio che io mi trovavo, involontariamente, facendo qualcosa che li esasperava.
- Veramente io non so quello che è -
rispose -. È che qui nessuno di noi sa quello che ci succede. Tutto quello che
sappiamo è che ci sentiamo male e nervosi.
- È perché stiamo parlando delle piramidi?
- lo consultai.
- Deve essere per quel motivo - rispose,
ombroso -. Io stesso non sapeva che quelle figure fossero donne.
- Indubbiamente lo sapevi, idiota - esclamò
Corrida.
Néstor si sembrò intimorirsi davanti a
quell'esplosione. Retrocedè e mi sorrise tranquillamente.
- Forse lo sapeva - concedè -. Stiamo
passando per un periodo molto strano nelle nostre vite. Già nessuno di noi può
essere sicuro di niente. Da quando arrivasti alle nostre vite a noi non ci
conosciamo oramai stessi.
Un umore molto oppressivo ci possedette.
Insistei in che l'unica maniera di scacciarlo era parlando di quelle misteriose
colonne delle piramidi.
Le donne protestarono calorosamente. Gli
uomini si mantennero in silenzio. Ebbi la sensazione che in principio erano di
accordo con le donne, ma che in fondo volevano discutere il tema, come io.
- Don Juan non ti disse qualcosa più busta
le piramidi, Pablito? - domandai.
- Disse che una piramide specialmente, lì
in Tula; era un guida - rispose Pablito, subito.
Del tono della sua voce dedussi che in
realtà aveva desideri di parlare. E l'attenzione che prestavano gli altri
apprendisti mi convinse che segretamente tutti essi volevano scambiare
opinioni.
- Il nagual disse che era un guida che
portava alla seconda attenzione - continuò Pablito -, ma che fu saccheggiata e
tutto si rovinò. Mi contò che alcune delle piramidi erano gigantesche non-fare.
Non erano posti di alloggio, bensì posti affinché i guerrieri facessero il suo
sogno ed esercitassero la sua seconda attenzione. Tutto quello che facevano si
registrava con disegni e figure che scolpivano nei muri.
"Poi è dovuto arrivare un altro tipo
di guerriero, una specie che non era di accordo con quello che gli stregoni
della piramide fecero con la sua seconda attenzione, e che distrusse la
piramide con tutto quello che lì aveva.
"Il nagual credeva che i guerrieri
dovettero essere guerrieri della terza attenzione. Come egli stesso era.
Guerrieri che si inorridirono con la cosa maligna che ha la certezza della
seconda attenzione. Gli stregoni delle piramidi erano eccessivamente occupati
con la sua certezza, per dare si racconta di quello che succedeva. Quando lo
fecero, era già troppo tardi.
Pablito aveva pubblico. Tutti nella stanza,
includendomi, eravamo affascinati con quello che ci raccontava. Potei
comprendere le idee che presentava, perché Don Juan me li arrivò a spiegare.
Don Juan mi ero detto che il nostro essere
totale consiste in due segmenti percettibili. Il primo è il nostro corpo fisico
che tutti noi possiamo percepire; il secondo è il corpo luminoso che è un
bocciolo che i veggenti possono percepire solo e che ci dà l'apparenza di
gigantesche uova luminose. Mi disse anche che una delle mete più importanti
della stregoneria era raggiungere il bocciolo luminoso; una meta che si riesce
attraverso il sofisticato uso del sogno e mediante un sforzo rigoroso e
sistematico che egli chiamava no-fare. Don Juan definiva no-fare come un atto
insolito che usa al nostro essere totale forzandolo ad essere cosciente del
segmento luminoso.
Per spiegare questi concetti, Don Juan fece
una disuguale divisione tripartita della nostra coscienza. Alla porzione più
piccola la chiamò "prima attenzione" e disse che era la coscienza che
ogni persona normale ha sviluppato per affrontare il mondo quotidiano;
abbraccia la coscienza del corpo fisico. Ad un'altra porzione più grande la
chiamò la "seconda attenzione" e la descrisse come la coscienza che
richiediamo per percepire il nostro bocciolo luminoso e per agire come esseri
luminosi. Disse che la seconda attenzione rimane nel fondo durante tutta la
nostra vita, non sia che emerga attraverso un allenamento deliberato o a causa
di un trauma accidentale, abbraccia la coscienza del corpo luminoso. All'ultima
porzione che era il maggiore, la chiamò la "terza attenzione": una
coscienza dei corpi fisico e luminoso.
Gli domandai se aveva sperimentato la terza
attenzione. Disse che si trovava nella periferia di lei e che se arrivava ad
entrare completamente io lo saprei subito, perché tutto egli si trasformerebbe
in quello che in realtà era: un'esplosione di energia. Aggregò che il campo di
battaglia dei guerrieri era la seconda attenzione che veniva ad essere qualcosa
come un campo di allenamento per arrivare alla terza attenzione; un campo un
tanto difficile da raggiungere, ma molto fruttifero una volta ottenuto.
- Le piramidi sono dannose - continuò
Pablito -. Specialmente per stregoni desprotegidos come noi. Ma sono ancora
peggiori per guerrieri senza forma, come la Grassa. Il nagual disse che non c'è
nient'altro pericoloso che la certezza maligna della seconda attenzione. Quando
i guerrieri imparano a mettersi a fuoco nel lato debole della seconda
attenzione, non c'è oramai niente che possa fermarli. Si trasformano in
cacciatori di uomini, in vampiri. Non importa che oramai non siano vivi,
possono raggiungere la sua preda attraverso il tempo, come se fossero presenti
qui ed ora; perché in prede ci convertiamo se ci mettiamo in una di quelle
piramidi Il nagual li chiamava trappole della seconda attenzione.
- Esattamente che disse che passerebbe ad
uno? - domandò la Grassa.
- Il nagual disse che magari potremmo
sopportare una visita alle piramidi - spiegò Pablito -. Nella seconda visita
sentivamo una strana tristezza; come una brezza che ci girerebbe disattenti e
stanchi: una fatica che pronto si trasforma nella sfortuna. In questione di
giorni diventeremmo alcuni salature. Il nagual assicurò che le nostre ondate
sfortunate si dovevano alla nostra ostinazione visitando quelle rovine
nonostante le sue raccomandazioni.
"Scelse, per esempio, non disubbidì
mai al nagual. Né a momenti te lo trovavi lì; neanche trovavi questo nagual che
sta qui, ed i due ebbero sempre fortuna, mentre il resto di noi portiamo il
sale, specialmente la Grassa ed io. Non ci morse lo stesso cane? E non le
stesse travi del soffitto della cucina marcirono due volte e ci caddero
addosso?
- Il nagual non mi spiegò mai questo -
confutò la Grassa.
- Certo - insistè Pablito.
- Se io avessi saputo la cosa brutta che
era tutto quello, non avrebbe messo mai un piede in quelli maledetti posti -
protestò la Grassa.
- Il nagual ci disse a tutte le stesse cose
- disse Néstor -. Il problema è che qui tutti non l'ascoltavano distintamente,
o piuttosto che ognuno di noi l'ascoltava alla sua maniera, e sentivamo quello
che volevamo sentire.
"Il nagual spiegò che la certezza
della seconda attenzione ha due visi. La prima ed il più facile è il viso malefico.
Succede quando i sognatore usano il suo sogno per mettere a fuoco la seconda
attenzione nelle cose di questo mondo, come denaro o potere sulla gente.
L'altro viso è il più difficile da raggiungere e succede quando i sognatore
mettono a fuoco la sua attenzione in cose che non stanno oramai in questo mondo
o che non sono oramai di questo mondo, come il viaggio alla cosa ignorata. I
guerrieri hanno bisogno di un'impeccabilità senza fine per raggiungere questo
viso.
Dissi loro che era sicuro che Don Juan
aveva rivelato selettivamente certe cose ad alcuni di noi; ed altre, ad altri.
Per esempio, io non potevo ricordare che qualche volta Don Juan avesse discusso
con me il viso malefico della seconda attenzione. Poi parlai loro di quello che
Don Juan si era detto relativamente alla certezza dell'attenzione in generale.
Incominciò per lasciare in indubbiamente
per lui tutte le rovine archeologiche del Messico, specialmente le piramidi,
erano dannose per l'uomo moderno. Descrisse le piramidi come sconosciute di
pensiero e di azione. Disse che ogni parte, ogni progetto, rappresentava un
sforzo calcolato per registrare aspetti di attenzione assolutamente altrui a
noi. Per Don Juan non erano solamente le rovine di antiche culture quelle che
contenevano un elemento pericoloso in esse; tutto quello che era oggetto di una
preoccupazione ossessiva aveva un potenziale dannoso.
Una volta discutiamo questo in dettaglio.
Fu a causa del fatto che io non sapevo che cosa fare per mettere a salvo le mie
note di campo. Li vedeva di una maniera molto possessiva ed era ossessionato
con la sua sicurezza.
- Che cosa devo fare? - gli domandai.
- Genaro ti diede la soluzione una volta -
replicò -. Tu credesti, come sempre, che stava scherzando. Ma egli non scherza
mai.
Ti disse "che dovresti scrivere con la
punta del tuo dito invece di matita. Non gli facesti caso perché non puoi
immaginarti che quello sia il no-fare di prendere note.
Arguii che quello che si stava proporsi
doveva essere un scherzo. La mia immagine propria era quella di un scienziato
sociale che doveva registrare tutto quello che era fatto o detto, per estrarre
conclusioni verificabili. Per Don Juan, una cosa non aveva a che vedere con
l'altra. Essere un studente serio non aveva niente a che vedere con prendere
note. Io, personalmente, non poteva vedere il valore del suggerimento di Don
Genaro; mi somigliavo umoristica, ma non unisca vera possibilità. ,
Don Juan portò più avanti il suo punto di
vista. Disse che prendere note era una maniera. di occupare la prima attenzione
nel compito di ricordare che io prendevo note per ricordare quello che si
diceva e faceva. La raccomandazione di Don Genaro non era un scherzo, perché
scrivere con la punta del mio dito in un pezzo di carta, essendo il no-fare di
prendere note, forzerebbe alla mia seconda attenzione a mettersi a fuoco in
ricordare, e non accumulerebbe oramai fogli di carta. Don Juan credeva che alla
lunga il risultato sarebbe più esatto e più poderoso di prendere note. Non si
era fatto mai, in quanto a quello che egli sapeva, ma il principio era solido.
Per un breve tempo, mi pressò affinché lo
facesse. Mi sentii perturbato. Prendere note non mi servivo solo come risorsa
mnemonica, mi alleggerivo anche. Era la mia stampella più utile. Accumulare
fogli di carta mi davo una sensazione di proposito e di equilibrio.
- Quando ti metti a cavillare in quello che
fai con le tue foglie - spiegò Don Juan -, stai mettendo a fuoco in esse una
parte molto pericolosa di te stesso. Tutti noi abbiamo quello lato pericoloso,
quella certezza. Quanto più forti arriviamo ad essere, più mortifero è quello
lato. La raccomandazione per i guerrieri è non avere niente materiale in che
cosa mettere a fuoco il suo potere, bensì metterlo a fuoco piuttosto verso lo
spirito, nel vero volo alla cosa ignorata, non in salvaguardie triviali. Nel
tuo caso, le note sono la tua salvaguardia. Non ti lasciano vivere in pace.
Io credevo seriamente che non ci fosse
maniera alcuna sulla faccia della terra che mi dissociassi delle mie note. Ma
Don Juan concepì un compito per portarmi a quello fine. Disse che smette
qualcuno che era tanto possessivo come me, il modo più appropriato di liberarmi
dei miei quaderni di note sarebbe rivelandoli, gettandoli alla cosa aperta,
scrivendo un libro. In quell'epoca pensai che quell'era ancora un scherzo
maggiore che prendere note con la punta del dito.
- La tua compulsione di possedere ed
afferrarti alle cose non è unica - sostenne -. Tutto quello che vuole seguire
quello verso il guerriero, il sentiero dello stregone, deve togliersi di dosso
quella certezza.
Il "mio benefattore mi disse che ci fu
un'epoca in cui i guerrieri sé avevano oggetti materiali nei quali
concentravano la sua ossessione. E quello dava luogo alla domanda di quale
oggetto sarebbe più poderoso, o il più poderoso di tutti. Scampoli di quegli
oggetti esistono ancora nel mondo, le piante di quella contesa per il potere.
Nessuno può dire che tipo di certezza avranno ricevuto quegli oggetti. Uomini
infinitamente più poderosi che tu virtieron tutti gli aspetti della sua
attenzione in essi. Appena tu incominci a spargere la tua minuscola
preoccupazione nelle tue note. Ancora non sei arrivato ad altri livelli di
attenzione. Pensa alla cosa orribile che sarebbe se alla fine del tuo sentiero
di guerriero ti trovassi caricando i tuoi gonfiori di note nella schiena. Per
allora quello, le note sarebbero vive, specialmente se imparassi a scrivere con
la punta del dito ed ancora dovessi ammucchiare foglie. Sotto quelle
circostanze non mi sorprenderei che qualcuno trovasse i tuoi gonfiori
camminando soli.
- Per me è facile comprendere perché il
nagual Juan Matus non voleva che avessimo possessi - segnalò Néstor, dopo che
finii di parlare -. Tutti noi siamo ensoñadores. Non voleva che mettessimo a
fuoco il nostro corpo di sogno nel viso debole della seconda attenzione. Io non
mi intesi le sue manovre di quelli giorni; io chingaba il fatto che mi fece
disfarmi di tutto quello che aveva. Pensai che era ingiusto. Credei che stesse
tentando di evitare che Pablito e Benigno mi avessero invidia, perché essi non
possedevano niente. In paragone, io ero benestante. In quell'epoca, io non
avevo idea che il nagual stava proteggendo il mio corpo di sogno.
Don Juan mi ero descritto il trasognare di
diverse maniere. Ora la più oscura, mi sembra che lo definisca meglio. Disse
che intrinsecamente trasognare è il no-fare di dormire. In questo senso, il
sogno permette all'apprendista l'uso di quella porzione della sua vita che
passa nel sopore. È come se gli ensoñadores non dormisse oramai, e tuttavia questo
non risulta in nessuna malattia. Agli ensoñadores non manca loro il sonno, ma
l'effetto di trasognare sembra essere un incremento del tempo di veglia, dovuto
all'uso di un supposto corpo extra: il corpo di sogno.
Don Juan mi ero spiegato che, in certe
occasioni, il corpo di sogno era chiamato il "doppio" o il
"altro", perché è una replica perfetta del corpo dell'ensoñador.
Inerentemente si tratta dell'energia dell'essere luminoso, un'emanazione
bianchiccia, spettrale, che è proiettata mediante la certezza della seconda
attenzione in un'immagine tridimensionale del corpo. Don Juan mi notò che il
corpo di sogno non è un fantasma, ma è tanto reale come qualunque cosa col
quale commerciamo nel mondo. Disse che, inevitabilmente, la seconda attenzione
è spinta a mettere a fuoco il nostro essere totale come campo di energia, e che
trasforma quell'energia in qualunque cosa appropriata. La cosa più facile,
ovviamente, è l'immagine del corpo fisico, con la quale siamo completamente
abituati nelle nostre vite giornaliere, grazie all'uso di nostra prima
attenzione. Quello che canalizza l'energia del nostro essere totale, per
prodursisi qualunque cosa che possa trovarsi dentro i limiti della cosa
possibile, è conosciuto come volontà. Don Juan non poteva dire quali quelli
limiti erano, a meno che al livello di esseri luminosi la nostra portata è
tanto ampia che risulta vano tentare di stabilire limiti: in modo che l'energia
di un essere luminoso può trasformarsi in qualunque cosa mediante la volontà.
- Il nagual assicurò che il corpo di sogno
si mette e si aggancia in qualunque cosa - espose Benigno -. Non ha giudizio.
Mi disse che l'uomo sono più deboli delle donne perché il corpo di sogno di un
uomo è più possessivo.
Le sorelline dimostrarono il suo accordo
all'unisono, con un movimento a capofitto. La Grassa mi guardò e sorrise.
- Il nagual mi disse che tu sei il re dei
possessivo - intervenne -. Genaro diceva che fino a saluti dia i tuoi cippi
quando glieli porta il fiume.
Le sorelline si rotolarono di risata. I Genaros
fece ovvi sforzi per contenersi. Néstor che si trovava seduto vicino a me, mi
applaudì il ginocchio.
- Il nagual e Genaro ci raccontavano storie
sensazionali di te - disse -. C'intrattennero per anni con le storie di un tipo
raro che conoscevano. Ora sappiamo che si trattava di te.
Sentii un'ondata di vergogna. Era come se
Don Juan e dono Genaro mi avrebbe tradito, ridendo di fronte di me degli
apprendisti. La tristezza mi avvolse. Incominciai a protestare. Dissi a voce
alta che ad essi li avevano predisposti in mio contro per prendere mi mangio un
stupido.
- Non è certo - disse Benigno -. Siamo
molto contenti che stia con noi.
- Stiamo? - replicò mordacemente Corrida.
Tutti si complicarono in una discussione
accaldata. Gli uomini e le donne si erano divise. La Grassa non si unì a nessun
gruppo. Rimase seduta vicino a me, mentre gli altri si mettevano in piede e
gridavano.
- Stiamo passando progressivamente
difficili - sussurrò la Grassa -. Abbiamo fatto abbastanza sogno e tuttavia non
è sufficiente per quello che necessitiamo.
- Che cosa necessitano voi, Grassa? -
domandai.
- Non sappiamo. Tutti avevano la speranza
che tu ce lo dicessi.
Le sorelline ed i Genaros presero
nuovamente posto per ascoltare quello che la Grassa si diceva.
- Abbiamo bisogno di un leader - ella
continuò -. Tu sei il nagual, ma non sei leader.
- Prende tempo arrivare ad essere un nagual
perfetto - proclamò Pablito -. Il nagual Juan Matus mi disse che egli stesso fu
un fallimento nella sua gioventù, fino a che qualcosa lo tirò fuori dalla sua
compiacenza.
- Non lo credo! - gridò Corrida -. A me non
mi disse mai quello.
- A me mi disse che era un cavicchio -
aggiunse la Grassa, a voce bassa.
- Il nagual mi contò che nella sua gioventù
era una salatura come io - precisò Pablito -. Anche il suo benefattore gli
richiese che non mettesse mai per quel motivo il piede in quelle piramidi, e
nomás, praticamente viveva lì fino a che lo corse un'orda di fantasmi.
All'opinione nessuno conosceva quella
storia. Tutti si ravvivarono.
- Quello mi ero dimenticato completamente -
commentò Pablito -. Fino allo appena ho ricordato adesso. Fu come quello che
passò alla Grassa. Un giorno, dopo che finalmente il nagual si era trasformato
in un guerriero senza forma, la certezza maligna di quelli guerrieri che
avevano fatto i suoi sogni ed altri non-fare nelle piramidi, gli furono venuti
sopra. Lo trovarono quando lavorava nel campo. Mi contò che vide che una mano
usciva dalla terra floscia di un solco fresco, per afferrargli il volo dei suoi
pantaloni. Egli credette che si trattasse accidentalmente di un compagno
lavoratore che era stato sepolto. Tentò di dissotterrarlo. Allora si rese conto
che stava mettendo le mani in una bara di terra, e che c'era lì un uomo
sepolto. Era un uomo molto magro e bruno e non aveva capelli. Freneticamente,
il nagual tentò di comporre la bara di terra. Non voleva che i suoi compagni
vedessero quello che stava passando, né neanche voleva fare male all'uomo
dissotterrandolo contro la sua volontà. Si mise a lavorare tanto duro che neanche
si rese conto che gli altri lavoratori stavano circondandolo. Per allora, il
nagual disse che la bara di terra si aveva rifiuto e che l'uomo bruno si
trovava costruzione nel suolo, nudo. Tentò di aiutarlo ad alzarsi e chiese agli
uomini che gli dessero una mano. Risero di lui. Pensarono che era ubriaco che
gli aveva dato il delirium tremens, perché lì, in quello campo, non c'erano né
uomo né bara di terra né niente per lo stile.
"Il nagual disse che rimase atterrito,
ma che non osò a contare il suo benefattore nuota di quello. Non importò,
perché nella notte tutta una banda di fantasmi arrivò per lui. Andò ad aprire
la porta della strada dopo che qualcuno aveva toccato ed un'orda di uomini
nudi, con occhi gialli e brillanti, si misero nella casa. Lo tirarono al suolo
e si ammucchiarono sopra a lui. E l'avrebbero polverizzato tutte le ossa di non
essere stato per la veloce reazione del suo benefattore. Vide i fantasmi e
spinse al nagual fino a metterlo a salvo in un vuoto nella terra che sempre
tenia convenientemente aperto nella parte di dietro della sua casa. Seppellì lì
al nagual mentre i fantasmi si accoccolarono intorno aspettando la sua
opportunità.
"Il nagual ammise che si spaventò
tanto che tutte le notti egli assolo si metteva un'altra volta alla sua bara di
terra a dormire, fino a molto dopo che i fantasmi sparirono.
Pablito cessò di parlare. Tutti sembravano
essere impazienti; cambiarono ripetutamente posizione come se volessero fare
capire che erano stanchi di essere seduti.
Per calmarli dissi loro che io avevo avuto
una reazione molto perturbatrice sentendo le asseverazioni del mio amico circa
gli atlanti che camminavano di notte nella piramide di Tula.
Non mi ero reso conto della profondità con
che accettai quello che Don Juan e dono Genaro mi avevo enseriado, fino a
quello giorno. Malgrado la mia mente stesse non c'era ben indubbiamente
possibilità alcuna che quelle colossali figure di pietra potessero camminare,
perché tale questione non entrava nell'ambito della speculazione seria, io sospesi
completamente il mio giudizio. La mia reazione fu una totale sorpresa per me.
Spiegai loro estesamente che io avevo
accettato l'idea che gli atlanti camminassero di notte, come un chiaro esempio
della certezza della seconda attenzione. Era giunto a quella conclusione
seguendo le seguenti premesse: In primo luogo che non siamo solamente quello
che il nostro buonsenso c'esige che crediamo essere. In realtà siamo esseri
luminosi, capaci di girarci coscienti della nostra luminosità. Secondo che come
esseri luminosi coscienti della nostra luminosità possiamo focalizzare distinti
aspetti della nostra coscienza, o della nostra attenzione, come Don Juan lo
chiamava. Terzo che quella messa a fuoco poteva essere prodotta mediante un
sforzo deliberato, come quello che noi tentavamo di fare, o accidentalmente,
attraverso un trauma corporeo. Stanza che c'era stata un'epoca in cui
deliberatamente gli stregoni mettevano a fuoco distinti aspetti della sua
attenzione in oggetti materiali. Recluta che gli atlanti, a giudicare dalla sua
spettacolare apparenza, erano dovuti essere oggetti della certezza degli
stregoni di un altro tempo.
Dissi che senza dubbio il guardia che diede
l'informazione al mio amico, aveva messo a fuoco un altro aspetto della sua
attenzione: egli poteva aversi convertito, involontariamente, benché solo per
un momento, in un recettore delle proiezioni della seconda attenzione degli
stregoni dell'antichità. Non era tanto smisurato per me allora che quell'uomo
avesse visualizzato la certezza di quelli stregoni.
Se essi erano membri della tradizione di
Don Juan e di Don Genaro, erano dovuti essere apprendisti impeccabili, nel qual
caso non ci sarebbe limite per quello che potrebbero portare a termine con la
certezza della sua seconda attenzione. Se il suo tentativo era che gli atlanti
camminassero di notte, allora gli atlanti camminavano di notte.
Mentre io parlavo, le sorelline diventarono
molto arrabbiate e nervose con me. Quando conclusi, mi Combatte accusò di non
fare nient'altro parlare. Si misero in piede ed andarono via senza almeno
salutare. Gli uomini li seguirono, ma si trattennero nella porta per stringermi
la mano. La Grassa ed io rimaniamo nella stanza.
- C'è qualcosa che cammina molto male con
quelle donne - censurai.
- No. Nient'altro stanno stanche di parlare
- scusò la Grassa -. Sperano che tu agisca invece di parlare.
- E come è che i Genaros non è stanco di
parlare? - domandai.
- Perché sono molto più stupidi delle donne
- replicò seccamente.
- E tu, Grassa? Sei tu anche stanca di
parlare?
- Non potrebbe dirti - evitò solennemente
-. Quando sto con te non mi stanco, ma quando sto con le sorelline mi sento
stanca, come esse.
Durante i seguenti giorni, i quali
passarono senza avvenimenti, risultò ovvio che le sorelline stavano
completamente inimicate con me. A fatica i Genaros mi tollerava. Solo la Grassa
sembrava allinearsi con me. Mi causò sorpresa. Glielo domandai prima di
diventare ad Los Angeles.
- Non so come è possibile, ma sono abituata
a te - ammise -. È come se tu ed io fossimo uniti, e le sorelline ed i Genaros
stessero in un mondo distinto.
II. VEDENDO INSIEME
Durante varie settimane dopo il mio ritorno
ad Los Angeles sperimentai ripetutamente una lieve sensazione di scomodità che
la spiegava come causata per una nausea o come una repentina perdita dell'alito
causata per qualunque sforzo fisico spossante. Culminò tutto questo una notte
in cui svegliai terrorizzato, senza potere respirare. Il medico al quale andai
a vedere diagnosticò il mio problema come iperventilazione, probabilmente
dovuta a tensione nervosa. Mi prescrisse un tranquillante e suggerì che
respirasse dentro una borsa di carta se l'attacco si ripeteva di nuovo.
Decisi di girare al Messico per chiedere
consiglio alla Grassa. Gli dissi quale la diagnosi era del mio medico;
calmadamente, ella mi assicurò che non si trattava di nessuna malattia, ma in
fin dei conti io stavo perdendo le mie salvaguardie, e che quella che
sperimentava era la perdita della mia forma "umana" e l'entrata ad un
stato di separazione coi temi umani.
- Non gli fare lotta - consigliò -. La
nostra reazione normale è spaventarci e litigarci con tutto questo. Facendolo,
l'allontaniamo. Lascia le paure di un lato, e segue la perdita della tua forma
umano passo a passo.
Aggregò che nel suo caso la disintegrazione
della sua forma umana cominciò nel suo ventre, con un dolore severo ed una
pressione eccessiva che si muoveva lentamente in due direzioni, per sotto verso
le sue gambe e per sopra fino alla sua gola. Reiterò che gli effetti si sentono
immediatamente.
Io volevo annotare ogni sfumatura della mia
entrata a quello nuovo stato. Mi preparai per descrivere un racconto
dettagliato di tutto quello che succedesse. Sfortunatamente, nient'altro
successe. Dopo alcuni giorni di incapace attesa abbandonai l'avvertenza della
Grassa e conclusi che il medico aveva diagnosticato correttamente la mia
afflizione. Questo risultava comprensibile. Mi trovavo carico di una
responsabilità che generava una tensione insopportabile. Aveva accettato la leadership
che gli apprendisti credevano che concordavo, ma non aveva la minima idea di
come guidarli.
Anche la pressione della mia vita si
riflettè di un modo più serio. Il mio abituato livello di energia decadeva
uniformemente. Don Juan mi sarei detto che stava perdendo il mio potere
personale, e pertanto arriverebbe anche a perdere la vita. Don Juan aveva
sistemato i miei temi di tale modo che viveva esclusivamente del potere
personale, il quale io rispondevo come un stato ad essere, una relazione di ordine
tra l'individuo e l'universo, una relazione che se si disordina
irrimediabilmente posto vacante la morte dell'individuo. Dato che non c'era
forma prevedibile di cambiare la mia situazione, dedussi che la mia vita si
estingueva. Quella sensazione di irrefutabile condanna, irritava tutti gli
apprendisti. Decisi di lasciarli soli per un paio di giorni per attenuare la
mia oscurità e la tensione di essi.
Quando ritornai i trovai fermi fuori della
porta principale della casa delle sorelline, come se stessero aspettandomi.
Néstor corse al mio atto e, prima che spegnesse il motore, mi disse con urla
che Pablito c'aveva lasciato a tutti che andò a morire alla città di Tula, al
posto dei suoi antenati. Mi alterai. Mi sentii colpevole.
La Grassa non condivideva la mia
preoccupazione. Era radiante, contenta.
- Quello sguattero caprone è meglio morto -
assicurò -. Ora viviamo in armonia, come deve essere. Il nagual ci disse che tu
porteresti cambiamenti alle nostre vite. Buono, perché così fu. Pablito oramai
non noi joderá più. Ti disfasti di lui. Guarda che contenti stiamo. Stiamo
meglio senza lui.
Mi scandalizzo la sua durezza. Affermai,
egli più vigorosamente possibile che Don Juan c'aveva dato, nella maniera più
laboriosa, la cornice della vita di un guerriero. Enfatizzai che
l'impeccabilità del guerriero mi esigeva che non lasciasse morire a Pablito,
così nient'altro.
- E che cosa ti credi che faccia? - domandò
la Grassa.
Porto ad uno di voi a che viva con lui fino
al giorno in cui tutti, includendo a Pablito, possano andare via di qui.
Risero di me, perfino Néstor e Benigno a
chi io credei sempre più perfeziona a Pablito. La Grassa rise molto più che
tutti, sfidandomi ovviamente.
Ricorsi alla comprensione della Grassa. Lo
pregai. Utilizzai tutti gli argomenti che mi furono successo. Mi guardò con
disprezzo totale.
- Vámonos - ordinò gli altri.
Mi offrì la più vacua dei sorrisi. Alzò le
spalle e fece un vago gesto corrugando le labbra.
- Puoi venire con noi - mi offrì -, a patto
che non faccia domande né parla di quello stupido.
- Sei una guerriera senza forma - dissi -.
Tu stessa me lo dicesti. Perché, allora, ora giudichi a Pablito?
La Grassa non rispose. Ma sentì il colpo.
Corrugò il cipiglio e non volle guardarmi.
- La Grassa stai con noi! - cigolò Josefina
con una voce terribilmente acuta.
Le tre sorelline si riunirono intorno alla
Grassa e la spinsero all'interno della casa. Li seguii. Néstor e Benigno
entrarono anche.
- Che cosa fai, portarti a forze ad una di
noi? - mi gridò la Grassa.
Dissi a tutti che io consideravo un dovere
aiutare a Pablito e che farebbe la stessa cosa per chiunque di essi.
- Davvero credi che possa uscirti con la
tua? - mi domandò la Grassa, con gli occhi fiammeggiando di ira.
Io volevo ruggire di rabbia, come una volta
lo feci nella sua presenza, ma le circostanze erano distinte. Non poteva farlo.
- Porto a Josefina - avvisai -. Sono il
nagual.
La Grassa unì le tre sorelline e li difese
col suo proprio corpo. Stavano per prendersi delle mani. Qualcosa in me sapeva
che, di farlo, la sua forza combinata sarebbe terribile ed i miei sforzi per
portarmi a Josefina risulterebbero inutili. La mia unica opportunità consisteva
in attaccare prima che esse potessero raggrupparsi. Spinsi Josefina con le
palme delle mani e le lanciai dondolandosi fino al centro della stanza. Prima
che avessero tempo di raggrupparsi, battei a Corrida e Rosa. Si piegarono,
addolorate. La Grassa venne verso me con una furia che non l'aveva visto mai.
Tutta la sua concentrazione si trovava in un assolo impulso del suo corpo. Di
mi avere battuto avrebbe finito con me. Per centimetri non mi indovinò il
petto. L'acchiappai di dietro con un abbraccio di orso e cademmo a terra.
Rodiamo e rodiamo fino a rimanere completamente esausti. Il suo corpo si
rilassò. Incominciò ad accarezzare il dorso delle mie mani che si trovavano
fortemente strette intorno al suo stomaco.
Vidi Néstor e Benigno vicino alla porta. I
due sembravano stare per vomitare.
La Grassa sorrise timidamente e mi sussurrò
all'udito che stava molto bene quello che io l'avrei dominata.
Mi portai a Josefina con Pablito. Credei
che ella era l'unica degli apprendisti che genuinamente necessitava qualcuno
che la curasse, ed al che meno detestava Pablito. Era sicuro che il senso di
cavalleria di Pablito lo forzerebbe a soccorrerla quando ella avesse bisogno di
lui.
Un mese dopo girai nuovamente al Messico.
Pablito e Josefina erano ritornate. Vivevano insieme nella casa di Don Genaro,
e la condividevano con Benigno e Rosa. Néstor e Combatte vivevano nella casa di
Soledad, e la Grassa abitava sola nella casa delle sorelline.
- Si sorprende la maniera come ci
prepariamo per vivere? - consultò la Grassa.
La mia sorpresa era più evidente. Voleva
sapere quali le implicazioni erano di questa nuova organizzazione.
La Grassa replicò, seccamente, che non
c'era niente di implicazioni. Decisero di vivere in pari, ma non mangio uguali.
Aggregò che, al contrario di tutto quello che io potessi pensare, tutti essi
erano guerrieri impeccabili.
La nuova sistemazione sembrava abbastanza
gradevole. Tutti si trovavano completamente in pace. Non c'erano oramai più
cause o esplosioni di condotta competitiva tra essi. Diede loro anche per
vestirsi coi vestiti indigeni tipici della regione. Le donne usavano vestiti
con gonne lunghe che toccavano quasi il suolo, pretesti neri ed i capelli in
trecce, ad eccezione Josefina, la quale portava sempre cappello. Gli uomini si
vestivano con leggeri pantaloni e camicie di coperta bianca che sembravano
piyamas. Usavano cappelli di paglia, e tutti calzavano huaraches fatti in casa.
Domandai alla Grassa quale la ragione era
della sua nuova maniera di vestire. Mi disse che si stavano preparando per
partire. Presto o tardi, col mio aiuto o per se stessi, andavano ad abbandonare
quella valle. Andrebbero verso un mondo nuovo, verso una nuova vita. Quando lo
facessero, tutti si renderebbero conto esatto del cambiamento, perché quanto
più usassero i vestiti indio, più drammatico sarebbe il cambiamento quando si
mettessero il vestiario della città.
Aggiunse che insegnarono loro ad essere
fluiti, a stare a suo agio in qualunque situazione in che Lei trovasse, e che a
me mi avevano insegnato la stessa cosa. Quello che si chiedeva di mio
consisteva in agire con essi senza perdere l'equanimità, nonostante quello che
mi facessero. Per essi, la domanda consisteva in abbandonare la valle e
stabilirsi in un altro posto al fine di verificare se in realtà potevano essere
tanto fluidi come i guerrieri devono essere egli.
Gli chiesi la sua onesta opinione sulle
nostre possibilità di avere successo. Mi disse che il fallimento era marcato
nei nostri visi.
La Grassa cambiò bruscamente il tema e
disse che nel suo sogno si era trovato contemplando in due un gigantesco e
stretto burrone enormi montagne rotonde; presumeva che le due montagne gli
erano conosciute e che voleva che io la portassi nel mio atto fino ad un paese
vicino. La Grassa pensava, senza sapere perché che le due montagne si trovavano
lì, e che il messaggio del suo sogno era che i due dovevano andare a quello
posto.
Partiamo rigando l'alba. Io ero stato già
in precedenza nelle vicinanze di quello paese. Era molto piccolo e non aveva
notato mai niente nei paraggi che Lei avvicinasse almeno alla visione della
Grassa. C'erano per di là solo colline erose. Risultò che le due montagne non
si trovavano lì, o, se così era, non potemmo localizzarli.
Tuttavia, durante le due ore che passiamo
nel paese, tanto ella come io avemmo la sensazione che conoscevamo qualcosa di
indefinito, una sensazione che si trasformava in certezza in momenti e che dopo
retrocedeva nuovamente all'oscurità e si trasformava in mero disturbo e
frustrazione. Visitare quello paese c'inquietò in una maniera misteriosa; o,
piuttosto, per ragioni sconosciute, i due rimaniamo molto agitati. Io mi
scoprii angosciato per un conflitto sommamente logico. Non ricordava essere
stato qualche volta nel paese stesso e, tuttavia, poteva giurare che non stetti
solo lì, ma aveva vissuto lì qualche tempo. Non si trattava di un'evocazione
chiara; non poteva ricordare né le strade né le case. Quella che sentiva era
l'apprensione vaga ma poderosa che qualcosa si chiarificherebbe nella mia
mente. Non era sicuro di che cosa, un ricordo chissà. In momenti, quell'incerta
apprensione diventava immensa, specialmente vedendo una casa in questione. Mi
stazionai di fronte a lei. La Grassa ed io la guardiamo chissà dall'atto per
un'ora e, nonostante, nessuno di noi suggerì che scendessimo dall'atto per
andare da lei.
I due ci trovavamo molto tesi. Incominciamo
a parlare circa la visione della Grassa delle due montagne e presto la nostra
conversazione divenne in causa. Ella credeva che io non avevo preso sul serio
il suo sogno. I nostri temperamenti si accesero e finiamo gridando noi l'un
l'altro, non tanto per ira come per nervosismo. Mi resi conto di ciò e mi
contenni.
Ritornando, stazionai l'atto ad un fianco
di quello verso terra. C'abbassiamo per allungare le gambe. Camminiamo alcuni
momenti, ma faceva troppo vento per stare bene. La Grassa era ancora agitata.
Ritorniamo all'atto e ci sediamo dentro.
- Se nomás recuperasse quello che sai - mi
disse la Grassa con tono supplicante -, se ripiegassi la tua conoscenza, ti
renderesti conto che perdere la forma umana. . .
Si interruppe a metà della frase; il mio
cipiglio l'aveva dovuta fermare. Sapeva molto bene la cosa difficile che era la
mia lotta. Se ci fosse stata qualche conoscenza che avrebbe potuto recuperare
coscientemente, l'avrebbe fatto già.
- Ma è che siamo esseri luminosi - convenne
con lo stesso tono supplicante -. Abbiamo tanto. . . Tu sei il nagual. Tu hai
più ancora.
- Che cosa credi che debba fare?
- Devi abbandonare il tuo desiderio di
afferrarti - suggerì -. La stessa cosa mi successe. Mi afferravo alle cose, per
esempio il cibo che mi piaceva, le montagne dove viveva, la gente con la quale
godeva conversare. Ma meglio di niente mi afferravo al desiderio che mi
vogliano.
Gli dissi che il suo consiglio non aveva
senso per me perché non stava cosciente di afferrarmi a qualcosa. Ella insistè
in che in qualche modo io sapevo che stava mettendo barriere alla perdita della
mia forma umana.
- La nostra attenzione è stata allenata per
mettere a fuoco con ostinazione - continuò -. Quella è la maniera come
sosteniamo il mondo. La tua prima attenzione è stata addestrata per mettere a
fuoco qualcosa che è molto strano per me, ma molto conosciuto per te.
Gli dissi che la mia mente si concatenava
in astrazioni, ma non in astrazioni come la matematica, per esempio, bensì
piuttosto in proposte ragionevoli.
- Ora è il momento di lasciare tutto quello
- propose -. Per perdere la tua forma umana, devi staccarti di tutta quella
zavorra. Il tuo contrappeso è tanto forte che ti paralizzi.
Non stava con umore per discutere. Quello
che la Grassa chiamava perdere la forma umana era un concetto troppo vago per
una considerazione immediata. Mi preoccupavo quello che avevamo sperimentato in
quello paese. La Grassa non voleva parlare di ciò.
- La cosa unica che conta è che ripiegature
la tua conoscenza che recuperi quello che sai - pensò -. Puoi farlo quando hai
bisogno di lui, come quello giorno in che Pablito andò via e tu ed io
c'aggrappiamo a chingadazos.
La Grassa disse che quello successo quello
giorno era un esempio di "ripiegare la conoscenza." Senza stare
pienamente cosciente di quello che faceva, aveva portato a termine complesse
manovre che implicavano vedere.
- Tu non ci distò di chingadazos nomás
perché sì - aggiunse -. Tu vestisti.
Aveva ragione in una certa maniera.
Qualcosa di abbastanza fuori della cosa comune ebbe luogo in quell'occasione.
Io l'avevo considerato dettagliatamente, confinandolo, tuttavia, ad una
speculazione puramente personale, dato che non poteva dargli una spiegazione
appropriata. Pensai che il carico emozionale del momento mi aveva colpito in
forma inusitata.
Quando ero entrato nella casa di essi ed
affrontai le quattro donne, in frazioni di secondo notai che poteva cambiare la
mia maniera ordinaria percepire. Vidi quattro amorfe bolle di luce ambra molto
intensa di fronte a me. Una di esse era di sfumatura delicata. Le altre tre
erano scintillii ostili, aspri, blancoambarinos. La lucentezza gradevole era
quella della Grassa. Ed in quello momento i tre scintillii ostili incomberono
minacciosamente su lei.
La bolla di luminosità bianchiccia più
vicina a me che era quella di Josefina, stava fuori un tanto di equilibrio. Si
trovava inclinandosi, cosicché diedi un spintone. Diedi calci alle altri due,
in una depressione che ognuna di esse aveva nel fianco destro. Io non avevo
un'idea cosciente che doveva assestare lì i miei calci. Semplicemente scoprii
che la depressione era adeguata: in qualche modo questa invitava a che io li
scalciassi lì. Il risultato fu devastatore. Combatte e Rosa svennero nell'atto.
Li aveva battute nella coscia destra. Lei non tratto di un calcio che rompesse
ossa, ma suolo spinsi col mio piede le bolle di luce che si trovavano di fronte
a me. Nonostante, fu come se avesse dato loro un colpo feroce nella più
vulnerabile parte dei suoi corpi.
La Grassa aveva ragione. Io avevo
recuperato qualche conoscenza del quale non era cosciente. Se quello si chiama
vedere, la conclusione logica del mio intelletto sarebbe che vedere è una
conoscenza corporale. La preponderanza del senso visuale in noi, influenza
questa conoscenza corporale e lo fa apparire relazionato con gli occhi. Ma quello
che sperimentai non era del tutto visuale. Vidi le bolle di luce con qualcosa
che non erano solo i miei occhi, dato che era cosciente che le quattro donne si
trovavano nel mio campo di visione per tutto il tempo che combattei con esse.
Neanche le bolle di luce si trovavano sobreimpuestas in esse. I due insiemi di
immagini erano separati. Se mi mossi visivamente di una scena all'altra, lo
spostamento dovette essere stato tanto rapido che sembrava non esistere; di lì
che poteva ricordare solo la percezione simultanea di due scene separate.
Dopo che diedi i calci alle due bolle di
luce, il più gradevole - la Grassa - a me si avvicinò. Non venne direttamente,
perché disegnò un angolo alla sinistra a partire dal momento in cui cominciò a
muoversi; ovviamente non cercava di battermi, e così quando lo scintillio passò
vicino a me l'acchiappai. Mentre rodava nel suolo con lui, sentii che mi
fondevo nello scintillio. Quello fu l'unico momento nel quale in realtà persi
il senso di continuità. Di nuovo fui cosciente di me stesso quando la Grassa
accarezzava i dorsi delle mie mani.
- In nostro trasognare, le sorelline ed io
abbiamo imparato ad unire le mani - spiegò la Grassa -. Sappiamo come una linea
fare. Il nostro problema quello giorno era che non avevamo fatto mai quella
linea fosse della nostra stanza. Per quel motivo mi trascinarono dentro. Il tuo
corpo seppe quello che significava che noi unissimo le mani. Se l'avessimo
fatto, io sarei rimasto basso controllo di esse. Ed esse sono più feroci di me.
I suoi corpi sono impenetrabilmente chiusi, non preoccupa loro il sesso. A me,
sé. Quello mi debilita. Sono sicura che la tua preoccupazione per il sesso è
quella che fa che ti sia tanto difficile ripiegare la tua conoscenza.
La Grassa continuò parlando circa gli effetti
debilitadores del sesso. Mi sentii scomodo. Tentai di deviare la conversazione
di quello tema, ma ella sembrava decisa a girarlo nonostante la mia
contrarietà.
- Vámonos tu ed io alla città del Messico -
gli dissi, disperato.
Pensai che quello la spaventerebbe. Non
rispose. Corrugò le labbra, socchiudendo gli occhi. Contrasse i muscoli del suo
mento, gettando in avanti il labbro superiore fino a che rimase basso il naso.
Il suo viso rimase tanto storto che mi alterai. Ella reagì davanti alla mia sorpresa
e rilassò i muscoli facciali.
- Camminagli, Grassa - insistei -. Andiamo
alla città dal Messico.
- Certo, perché no? - disse -. Che cosa
necessito?
Non sperava quella risposta ed io fui
quello che finì per scandalizzarsi.
- Niente - dissi -. Andiamo via come
stiamo.
Senza dire un'altra parola affondò nel
sedile e c'incamminiamo verso la città del Messico. Era ancora presto, neanche
il mezzogiorno. Gli domandai se oserebbe andare ad Los Angeles con me. Lo pensò
alcuni momenti.
- Ho appena fatto quella domanda al mio
corpo luminoso - precisò.
- E che cosa ti rispose?
- Che solo se il poterlo permette.
C'era tale ricchezza di sentimento nella
sua voce che fermai l'atto e l'abbracciai. Il mio affetto verso lei in quello
momento era tanto profondo che mi spaventò. Non aveva niente a che vedere col
sesso o con la necessità di un rafforzamento psicologico, si trattava di un
sentimento che trascendeva tutto quello che mi era conosciuto.
Abbracciare la Grassa mi restituì la
sensazione, prima sperimentata, che qualcosa che stava imbottigliato in me,
sospinto a posti reconditi ai che non poteva arrivare coscientemente, si
trovava sul punto di liberarsi. Quasi seppi quello che era, ma lo persi quando
stava per ottenerlo.
La Grassa ed io arriviamo alla città da
Oaxaca al tramonto. Stazionai l'atto in una strada vicina e camminiamo verso il
centro della città, allo zoccolo. Cerchiamo la panca nel che Don Juan e dono
Genaro normalmente sedevano. Non era occupata. Prendiamo lì posto, in un
silenzio riverente. Dopo, la Grassa disse che molte volte erano state lì con
Don Juan, come con altre persone che non poteva ricordare, non era sicura se
questo si trattava solamente di qualcosa che aveva sognato.
- Che cosa facevi con Don Juan in questa
panca? - gli domandai.
- Niente ci sedevamo Qui ad aspettare il
camion, o un camion del legno che ci portava di aventón alle montagne -
rispose.
Gli dissi che quando Don Juan ed io ci
sedevamo lì conversavamo ore ed ore.
Gli contai la gran predilezione che Don
Juan aveva per la poesia, e come io normalmente lo leggevo quando non dovevamo
fare. Sentiva i poemi sotto la base che solo in primo luogo il, o in occasioni
il secondo paragrafo, valeva la pena di essere letto; credeva che il resto era
solo un consentirsi del poeta. Unicamente alcuni poemi, dei cientos che l'avevo
dovuto leggere, arrivò ad ascoltare fino al fine. In un principio cercava
quello che mi piaceva; la mia preferenza era la poesia astratta, cerebrale,
contorta. Poi mi fece leggere un ed un'altra volta quello che gli piaceva.
Nella sua opinione, un poema doveva essere, di preferenza, compact disc, breve.
E doveva essere composto di immagini acute e precise, di gran semplicità.
Al tramonto, seduti in quella panca di
Oaxaca, un poema di César Vallejo ricapitolava sempre per lui un speciale
sentimento di nostalgia. Lo recitai a memoria alla Grassa, non tanto nel suo
beneficio come nel mio.
CHE STARÀ FACENDO QUESTA ORA MIO ANDINA E
DOLCE
Rita
di giunco e capulí;
ora che mi asfissia Bizancio, e che
sonnecchia
il sangue, come floscio cognac, dentro me.
Dove staranno le sue mani che in
atteggiamento contrito
stiravano nei pomeriggi bianchezze per
venire,
ora, in questa pioggia che mi toglie
la voglia di vivere.
Che cosa sarà della sua gonna di flanella;
di suoi
frega; di suo camminare;
del suo sapore a canne di maggio del posto.
Si deve stare alla porta guardando qualche
celaje,
e finalmente dirà tremando "Che friggo
è. . . Gesù"!
E piangerà nelle tegole un uccello
selvaggio.
Il ricordo che aveva di Don Juan era
incredibilmente vivido. Non si commerciava di un ricordo nel piano del
sentimento, né neanche nel piano dei miei pensieri coscienti. Era una classe
sconosciuta di ricordo che mi fece piangere. Le lacrime fluivano dei miei
occhi, ma non mi alleviavano nella cosa più minima.
Le ultime ore del pomeriggio avevano sempre
un significato speciale per Don Juan. Io avevo accettato le sue considerazioni
verso quell'ora, e la sua convinzione che se qualcosa di importanza pensavo
dovrebbe essere allora.
La Grassa appoggiò la sua testa sulla mia
spalla. Io misi la mia testa sulla sua. In quella posizione rimaniamo alcuni
momenti. Mi sentii calmato; l'agitazione era svanita di me. Era strano che
l'assolo fatto di appoggiare la mia testa su quella della Grassa si desse tale
pace. Voleva scherzare e dirgli che dovremmo legarci le teste. L'idea che ella
lo prenderebbe alla lettera mi fece desistere. Il mio corpo tremò di risata e
mi resi conto che mi trovavo addormentato, ma che i miei occhi stavano aperti.
Di c'essere la cosa voluta, avrebbe potuto mettermi in piede. Non voleva
muovermi, e così rimasi lì, completamente sveglio e tuttavia addormentato. Vidi
che la gente camminava di fronte a noi e ci guardava. Non mi importava nella
cosa più minima. In generale, mi sarei disturbato che facessero attenzione a
me. E di subitaneo, in un istante, la gente che si trovava di fronte a me si
trasformò in grandi bolle di luce bianca. Per la prima volta nella mia vita, in
una maniera prolungata affrontavo le uova luminose! Don Juan mi ero detto che,
ai veggenti, gli esseri umani si appaiono come uova luminose. Io avevo
sperimentato lampeggiamenti di quella percezione, ma prima non aveva messo a
fuoco mai la mia visione in essi come quello giorno.
Le bolle di luce erano abbastanza amorfe in
un principio. Era come se i miei occhi non si trovassero adeguatamente
focalizzati. Ma dopo, in un momento, era come se finalmente avesse ordinato la
mia visione e le bolle di luce bianca si trasformassero in oblunghe uova
luminose. Erano grandi; in realtà, erano enormi, chissà di più di due metri di
altezza e più di un metro di largo, o forse più grandi.
In un momento mi resi conto che le uova non
si muovevano oramai. Vidi una solida massa di luminosità di fronte a mio. Le
uova mi osservavano, si inclinavano pericolosamente su mio. Mi mossi
deliberatamente e mi sedetti eretto. La Grassa si trovava profondamente
addormentata sulla mia spalla. C'era un gruppo di adolescenti intorno a noi.
Hanno dovuto credere che fossimo ubriaci. C'imitavano. L'adolescente più audace
stava accarezzando i seni della Grassa. La scossi e si svegliò. Ci mettemmo
affrettatamente in piede ed andammo via. Ci seguirono, vituperandoci e gridando
oscenità. La presenza di un poliziotto nell'angolo li dissuase da continuare
con la sua fustigazione. Camminiamo in completo silenzio, dello zoccolo fino a
dove aveva stazionato il mio atto. Aveva oscurato già quasi. Improvvisamente,
la Grassa prese il mio braccio. I suoi occhi erano smisurati, la bocca aperta.
Segnalò e gridò:
- Guarda! Guarda! Lì sta' il nagual e
Genaro!
Vidi che due uomini giravano l'angolo una
lungo quadra avanti di noi. La Grassa si strappò correndo velocemente. Corsi
dietro lei, domandandolo se era sicura. Si trovava fuori di sé. Mi disse che
quando aveva alzato la vista, Don Juan e dono Genaro stavano guardandola. Nel
momento in che i suoi occhi trovarono quelli di essi, i due si misero a
camminare.
Quando noi arriviamo all'angolo, i due
uomini conservavano ancora la stessa distanza. Non potei distinguere i suoi
tratti. Uno era robusto, come Don Juan, e l'altro, magro come Don Genaro. I due
uomini diedero rovesciati in un altro angolo e di nuovo corremmo
strepitosamente dietro essi. La strada nella quale avevano rovesciato si
trovava deserta e conduceva alla periferia della città. Si curvava un tanto
verso la sinistra In quello momento, qualcosa successe che mi fece pensare che
in realtà sé potrebbe trattarsi di Don Juan e dono Genaro. Fu un movimento che
fece l'uomo più piccolo. Diventò tre stanze di profilo verso noi ed inclinò la
sua testa come dicendoci che li seguissimo, qualcosa che Don Genaro abituava
fare quando andavamo al campo. Camminava sempre davanti a me, sollecitandomi,
incoraggiandomi a capofitto con un movimento affinché io lo raggiungessi.
La Grassa incominciò a gridare ad ogni
volume:
- Nagual! Genaro! Speri Lei!
Correva avanti di me. A sua volta, essi
camminavano con gran rapidità verso alcune capanne che affliggi si
distinguevano nella semioscurità. Dovettero entrare in alcuna di esse o
enfilaron per chiunque dei numerosi sentieri; improvvisamente, non li vedemmo
oramai più.
La Grassa si trattenne e vociferò i suoi
nomi senza nessuna inibizione. Varie persone uscirono a vedere chi gridava. Io
l'abbracciai fino a che si calmò.
- Stavano esattamente di fronte di me -
assicurò, piangendo -, neanche ad un metro di distanza. Guando gridai e ti
dissi che li vedessi, in un istante si trovavano già più lontano una stalla.
Tentai di riappacificarla. Si trovava in un
alto stato di nervosismo. Si pese da me, tremando. Per alcuno ragione
indecifrabile, io ero assolutamente sicuro che quegli uomini non erano Don Juan
né dono Genaro, pertanto non poteva condividere l'agitazione della Grassa. Mi
disse che dovevamo ritornare a casa che il potere non gli permetterebbe andare
con me ad Los Angeles, neanche alla città del Messico. Era convinta che il li
avere visti, significava un presagio. Sparirono segnalando verso l'est, verso
il paese di lei.
Non presentai obiezioni per ritornare a
casa sua in quello stesso istante. Dopo le cose che c'erano successi quello
giorno, dovrebbe essere mortalmente stanco. Invece, mi trovavo vibrando con un
vigore dei più straordinario che mi ricordavo i giorni con Don Juan, quando
aveva sentito che poteva abbattere muraglie con le spalle.
Ritornando all'atto risentii pieno del più
appassionato affetto per la Grassa. Non potrebbe ringraziare mai
sufficientemente per lui il suo aiuto. Pensai che quello che fosse che ella
fece per aiutarmi a vedere le uova luminose, aveva dato risultato. Inoltre, la
Grassa fu molto valorosa arrischiandosi al ridicolo, e perfino ad alcuno
ingiuria fisica, sedendosi con me in quella panca. L'espressi la mia
gratitudine. Ella mi guardò come se io fossi pazzo e dopo sciolse una risata.
- Io pensai la stessa cosa di te -
riconobbe -. Pensai che tu l'avevi fatto nient'altro per me. Anche io vidi le
uova luminose. Anche questa fu la prima volta per me. Abbiamo visto insieme!
Come il nagual e Genaro normalmente lo facevano.
Quando apriva la porta dell'atto affinché
entrasse la Grassa, tutto l'impatto di quello che avevamo fatto mi battè. Fino
a quello momento fui stordito, qualcosa in me ero diventato lento. Ora, la mia
euforia era tanto intensa come l'agitazione dei Grassi momenti prima. Voleva
correre per la strada ed attaccare di grida. Toccò la Grassa contenermi. Lei
encuclilló e mi massaggiò i polpacci. Stranamente, mi calmai nell'atto. Scoprii
che stava risultandomi difficile parlare. I miei pensieri andavano davanti
della mia abilità per verbalizzarli.
Non voleva maneggiare di ritorno alla casa
in quell'istante. Mi somigliavo che ci fosse ancora molto da fare. Come non
poteva spiegare con chiarezza quello che voleva, praticamente trascinai la
riluttante Grassa di giro allo zoccolo, ma a quell'ora non troviamo oramai
panche vuote. Stava morendo di fame, cosicché spinsi la Grassa verso un
ristorante. Ella pensò che non potrebbe mangiare, ma quando ci portarono il
cibo ebbe tanta fame come me. Il mangiarci tranquillizzò completamente.
Più tardi, quella notte, ci sediamo nella
panca. Io mi ero frenato per non parlare di quello che ci successe, fino a che
avessimo opportunità di sederci lì. In un principio, la Grassa non sembrava
disposta a parlare. La mia mente si trovava in un estraneo stato di gioia. In
tempi anteriori sperimentai momenti simili con Don Juan, ma questi si trovavano
soci, inevitabilmente, con gli effetti posteriori all'ingestione di piante
allucinogene.
Incominciai per descrivere alla Grassa
quello che aveva visto. Il tratto di quelle uova luminose che più mi
impressionò erano i movimenti. Non camminavano. Si muovevano come se
galleggiassero e, tuttavia, si trovavano nel suolo. La maniera si muovevano
come era spiacevole. I suoi movimenti erano meccanici, rozzi ed a scosse.
Quando si muovevano, tutta la sua forma diventava più piccola e semibreve;
sembravano saltare o strattonarsi, o scuotersi dall'alto in basso con gran
velocità. Il risultato era un tremore nervoso sommamente faticoso. Chissà la
maniera più approssimata di descrivere quello disturbo fisico causato per i
movimenti sarebbe dire che sentii come se avessero accelerato le immagini di un
film.
Un'altra cosa che mi intrigava era che non
poteva scorgere le sue gambe. Una volta aveva visto una rappresentazione di
balletto nella quale i ballerini imitavano il movimento di soldati in pattini
di ghiaccio; per riuscire l'effetto si misero tuniche sciolte che arrivavano
fino al suolo. Non c'era maniera di vederli i piedi, di lì l'illusione che
scivolavano sul ghiaccio. Le uova luminose che avevano sfilato di fronte a me
mi diedero l'impressione che si muovevano su una superficie aspra. La
luminosità si scuoteva dall'alto in basso quasi impercettibilmente, ma quanto
basta come per quasi diventare vomitare. Quando le uova luminose riposavano,
incominciavano ad estendersi. Alcuni erano tanto lunghi e rigidi che sembravano
le immagini di un ícono di legno.
Un altro tratto ancora più perturbatore
delle uova luminose era l'assenza di occhi. Non aveva compreso mai tanto
acutamente fino a che punto c'attraggono gli occhi dei viventi. Le uova
luminose erano completamente vivi e mi osservavano con gran curiosità. Poteva
vederli scuotendosi dall'alto in basso, inclinandosi per guardarmi, ma senza
occhi.
Molti di queste uova luminose avevano
macchie nere: vuoti enormi sotto la parte mezza. Altri non li avevano. La
Grassa mi ero detto che la riproduzione colpisce i corpi, la stessa cosa di
donne che di uomini, provocandoli un buco basso lo stomaco; ciononostante, le
macchie di quegli esseri luminosi non sembravano buchi. Erano aree senza luminosità,
ma in esse non c'era profondità. Quelli che avevano le macchie sembravano
essere tranquilli, o essere stanchi; la cresta della sua forma di uovo si
trovava rovinata, si vedeva opaca in paragone col resto della lucentezza.
D'altra parte, quelle che non avevano macchie erano cegadoramente brillanti. Li
immaginava pericolosi. Si vedevano vibranti, pieni di energia e bianchezza.
La Grassa disse che nell'istante che
appoggiai la mia testa sulla sua, ella entrò anche in un stato che sembrava
trasognare. Era sveglia, ma non poteva muoversi. Si trovava cosciente che c'era
gente ammucchiandosi intorno a noi. Allora li vide trasformandosi in bolle
luminose e finalmente in creature con forma di uovo. Ella ignorava che anche io
stavo vedendo. In un principio pensò che semplicemente io stavo curandola, ma
dopo l'impressione della mia testa fu tanto pesante che con ogni chiarezza
concluse che anche io dovevo stare trasognando. Da parte mia, solo fino a dopo
che mi incorporai e scoprii al tipo accarezzandola, perché ella sembrava
dormire, ebbi idea di quello che potesse stare succedendolo.
Le nostre visioni differivano non appena
che ella poteva distinguere gli uomini delle donne per la forma di alcuni
filamenti che ella chiamò "radici." Le donne, disse, avevano spessi
mucchi di filamenti che somigliavano la coda di un leone; questi crescevano
verso dentro a partire dai genitale. Spiegò che quelle radici erano le
donatrici di vita. L'embrione, per potere effettuare la sua crescita, aderisce
ad una di queste radici nutritive e dopo la consuma completamente, lasciando
solo un buco. Gli uomini, d'altra parte, avevano filamenti brevi che erano vivi
e galleggiavano quasi separati della massa luminosa dei suoi corpi.
Gli domandai quale era, nella sua opinione,
la ragione che avesse visto insieme. Ella declinò rischiare qualunque commento,
ma mi incitò a che io proseguissi con le mie deduzioni. Gli dissi che la cosa
unica che pensavo Lei era la cosa ovvio: le emozioni dovevano essere stato un
fattore determinante.
Dopo che la Grassa ed io prendiamo posto
nella panca favorita di Don Juan, nell'imbrunire di quello giorno, e dopo che
io avevo recitato il poema che gli piaceva, risentii profondamente carico di
emotività. Le mie emozioni avevano dovuto preparare al mio corpo. Ma doveva
anche considerare il fatto che, con la pratica del trasognare, aveva imparato
ad entrare in un stato di quiete totale. Poteva sconnettere il mio dialogo
interno e rimanere come se stesse all'interno di un bocciolo, osservando verso
fuori attraverso un buco. In quello stato io potevo, se lo volesse, sciogliere
un po' del controllo che possedeva ed entrare nel sogno; oppure conservare
quello controllo e rimanere passivo, senza pensieri e senza desideri. Tuttavia,
non credo che quelli fossero fattori significativi. Pensai che la Grassa era
stata catalizzatore e che i miei sentimenti verso lei crearono le condizioni
per vedere.
La Grassa rise timidamente quando disse
quello che pensava.
- Non sono di accordo con te - respinse -.
Io credo che quello che passa è che il tuo corpo ha incominciato a ricordare.
- Che cosa vuoi dire con quello, Grassa? -
sondai.
Ci fu una lunga pausa. La Grassa sembrava
lottare per dire qualcosa che non volesse, oppure lottava disperatamente per
trovare la parola adeguata.
- Ci sono tante cose che so - disse -,
tuttavia neanche so che cosa è quello che so. Ricordo tante cose che alla fine
finisco senza ricordare niente. Credo che tu ti trovi nella stessa situazione.
Gli assicurai che, se quell'era così, non
mi rendevo conto. Ella si rifiutò di credermi.
- In realtà, a volte credo che non sappia
niente - disse -. Altre volte credo che stai giocando con noi. Il nagual mi
disse che egli stesso non lo sapeva. Ora sto tornando ad accordare di molte
cose che mi disse di te.
- Che cosa è quello che significa che il
mio corpo ha cominciato a ricordare? - insistei.
- Non mi domandare quello - rispose con un
sorriso -. Io non so che cosa sarà quello che si suppone che devi ricordare, o
come si ricorda. Non l'ho fatto mai, di quello sono sicura.
- C'è alcuno tra gli apprendisti che
potrebbe dirmelo? - domandai.
- Nessuno - enfatizzò -. Credo che io sono
come un messaggero per te, un messaggero che può darti solo la metà del
messaggio in questa occasione.
Si alzò e mi supplicò che la portasse di
nuovo al suo paese. In quello momento, io mi trovavo molto allegro come per
andare via. Al mio suggerimento camminiamo un po' per la piazza. Infine ci
sediamo in un'altra panca.
- Non ti è fatto strano che abbiamo potuto
vedere insieme con tanta facilità? - domandò la Grassa.
Non sapeva che cosa ella si portava nella
testa. Titubai in rispondere.
- Che cosa diresti se io ti dicessi che
credo che da prima abbiamo visto insieme? - inquisì la Grassa, eligiendo con
curato ogni parola.
Non poteva comprendere che cosa voleva
dire. Mi ripetè un'altra volta la domanda e, tuttavia, seguii senza potere
comprendere il significato.
- Quando avevamo potuto vedere insieme
prima? - confutai -. La tua domanda non ha senso.
- Lì sta la cosa - replicò -. Non ha senso
e nonostante ho la sensazione che abbiamo visto già insieme prima.
Sentii un brivido e mi incorporai. Di nuovo
ricordai la sensazione che ebbi durante la mattina in quello paese. La Grassa
aprì la bocca per dire qualcosa, ma si interruppe a mezza frase. Mi fu rimasto
vedendo, perplessa, mi mise una mano nelle labbra e praticamente mi trascinò
dopo all'automobile.
Maneggiai tutta la notte. Voleva parlare,
analizzare, ma ella rimase dormita come se a proposito volesse evitare ogni
discussione. Era nella cosa corretta, ovviamente. Di noi due, ella era quella
che conosceva bene il pericolo di dissipare un stato spirituale analizzandolo
con eccesso.
Quando scese dall'atto, arrivando
finalmente a casa sua, mi disse che non potremmo parlare, nella cosa più
minima, di quello che c'era successi ad Oaxaca.
- E quello perché, Grassa? - domandai.
- Non voglio che sprechiamo il nostro
potere - replicò -. Quella è l'abitudine dello stregone. Non sprecare mai i
tuoi guadagni.
- Ma se non parliamo di quello, non sapremo
mai che cosa fu quello che realmente ci passò - protestai.
- Possiamo rimanerci silenziosi, almeno
nove giorni - disse.
- E non possiamo parlare solamente di ciò
tra te ed io? - domandai.
- Una conversazione tra te ed io è
precisamente quella che dobbiamo evitare - contraddisse -. Siamo vulnerabile.
Dobbiamo procurarci tempo per curarci.
III. I CUASIRRECUERDOS DELL'ALTRO IO
- Puoi dirci che cosa è quello che sta
passando? - mi domandò Néstor quando tutti ci riuniamo quella notte -. A dove
furono voi due ieri?
Mi ero dimenticato la raccomandazione della
Grassa. Incominciai a dirloro che primo andammo al paese vicino e che lì
troviamo una casa della cosa più intrigante.
Sembrò come se a tutti li scuotesse un
repentino tremore. Si ravvivarono, si guardarono l'un l'altro e dopo alla
Grassa, come se sperasse che ella parlasse loro di quello.
- Che tipo di casa era? - volle sapere
Néstor.
Prima che potesse rispondere, la Grassa mi
interruppe. Incominciò a parlare in una maniera affrettata e quasi incoerente.
Era ovvio che stava improvvisando. Perfino usò frasi e parole in mazateco. Mi
diresse sguardi furtivi che implicavano una supplica silenziosa affinché io non
dicessi niente.
- Come va tuo trasognare, nagual? - mi
domandò col sollievo di qualcuno che ha trovato un'uscita -. Ci piacerebbe
sapere tutto quello che fai. È molto importante che ci conversi.
Si appoggiò su me e nel tono più casuale
che potè mi sussurrò che a causa di quello che c'era successi in Oaxaca tenia
che contarlorolo tutto relativamente al mio sogno.
- Che cosa hanno voi a che vedere col mio
sogno? - domandai in voce forte.
- Credo che stiamo già molto vicino al fine
- disse la Grassa, solennemente -. Tutto quello che dica o fa' è ora di
importanza vitale.
Contai loro allora quello che io
consideravo mio vero trasognare. Don Juan mi ero detto che non aveva caso da
enfatizzare le prove per le quali uno potesse passare. Mi diede una regola
definitiva: se io arrivavo ad avere la stessa visione tre volte, doveva
concedergli un'importanza straordinaria; altrimenti, i tentativi di un neofita
erano solo un appoggio per costruire la seconda attenzione.
Una volta trasognai che svegliava e che
saltava del letto solo per affrontare il mio proprio corpo che dormiva nel
letto. Mi vidi dormire ed ebbi l'autocontrollo di ricordare che mi trovavo
trasognando. Seguii allora le istruzioni che Don Juan si era dato, e che
consistevano in evitare scosse o sorprese repentine, ed in prendere tutto con
un grano di sale. L'ensoñador deve arrotolarsi, dichiarava Don Juan, in esperimenti
spassionati. Invece di esaminare il suo corpo che dorme, l'ensoñador esce dalla
stanza camminando. Improvvisamente mi scoprii, senza sapere come, fosse della
mia stanza. Aveva la sensazione assolutamente chiara che mi avevano collocato
lì istantaneamente. Nel primo momento che mi trovai fermato fuori della mia
stanza, il corridoio e la scala sembravano monumentali. Se ci fu qualcosa che
in realtà mi atterrì quella notte fu il volume di quelle strutture che sono del
più comuni nella vita reale e correnti; il corridoio ha da lontano circa venti
metri, e la scala, sedici scalini.
Non poteva concepire come percorrere le
enormi distanze che stava percependo. Titubai, ed allora qualcosa mi fece
muovermi. Tuttavia, non camminai. Non sentiva i miei passi. Improvvisamente mi
trovai afferrandomi al corrimano. Poteva vedere le mie mani ed i miei
avambracci, ma non li sentiva. Si stava reggendo mediante la forza di qualcosa
che non aveva niente a che vedere con la mia muscolatura, come la conosco. La
stessa cosa successe quando tentai di abbassare le scale. Non sapeva come
camminare. Semplicemente non poteva cedere un solo passo. Era come se mi
avessero saldato le gambe. Poteva vederli se mi inclinavo, ma non poteva
muoverli verso davanti o lateralmente, né elevarli verso il petto. Era come se
mi avesse attaccato allo scalino superiore. Mi sentii come uno di quelli
fantocci gonfiati, di plastica, che possono inclinarsi in qualunque direzione
fino a rimanere orizzontali, solo per ergersi nuovamente per il peso delle sue
basi arrotondate.
Feci un sforzo supremo per camminare e
rimbalzai di scalino in scalino come rozza palla. Mi costò un incredibile
sforzo di attenzione arrivare al pianterreno. Non potrebbe descriverlo
altrimenti. Si richiedeva qualche tipo di attenzione per conservare i limitrofo
della mia visione ed evitare che questa Lei disintegrasse nelle fugaci immagini
di un sonno ordinario.
Quando finalmente arrivai alla porta della
strada non potei aprirla. Lo trattai disperatamente, ma senza successo; allora ricordai
che era uscito dalla mia stanza scivolando, galleggiando come se la porta fosse
stata aperta. Con solo ricordare quella sensazione di galleggiamento, di
subitaneo stava già per strada. Si vedeva oscuro: un peculiare oscurità
grigio-piombo che non mi permettevo di percepire nessun colore. Il mio
interesse fu acchiappato subito per un'immensa laguna di brillantezza che si
trovava esattamente di fronte a me, al livello del mio occhio. Dedussi, più che
scorsi che si trattava della luce della strada, dato che io sapevo che
nell'angolo c'era un lampione di sette metri di altezza. Seppi allora che mi
era impossibile fare le sistemazioni percettive richieste per giudicare quello
che stava sopra, abbasso, qui, là. Tutto sembrava trovarsi straordinariamente presente.
Non disponeva di nessun meccanismo, come nella vita quotidiana, per sistemare
la mia percezione. Tutto stava lì, di fronte, ed io non avevo volizione per
costruire un procedimento adeguato che filtrasse quello che vedeva.
Rimasi per strada, perplesso, fino a che
incominciai ad avere la sensazione che stava levitando. Mi afferrai al palo
metallico che sosteneva la luce e l'insegna della strada. Una forte brezza mi
alzavo. Stava scivolando per il palo fino a che lessi con chiarezza il nome
della strada: Ashton.
Mesi dopo, quando nuovamente ebbi il sogno
di guardare al mio corpo che dormiva, aveva già un repertorio di cose per fare.
Nel corso di mio trasognare abituale aveva imparato che quella che conta in
quello stato è la volontà: la materialità del corpo non ha rilevanza. È solo un
ricordo che fa più lento all'ensoñador. Scivolai verso fosse della stanza senza
titubanze, poiché non doveva portare a termine i movimenti di aprire una porta
o di camminare per potere muovermi. Il corridoio e la scala non mi sembrarono
oramai tanto enormi come la prima volta. Avanzai galleggiando con gran facilità
e finii per strada, dove mi proporsi avanzare tre stalle. Mi resi allora conto
che le luci erano ancora immagini molto perturbatrici. Se metteva a fuoco la mia
attenzione in esse, si trasformavano in stagni di volume incommensurabile. Gli
altri elementi di quello sogno furono facili da controllare. Gli edifici erano
straordinariamente grandi, ma i suoi tratti mi risultavano conosciuti.
Riflettei che cosa fare. Ed allora, in una maniera abbastanza casuale, mi resi
conto che se non fissava la vista alle cose e li guardava solo, come facciamo
nel nostro mondo quotidiano, poteva ordinare la mia percezione. In altre
parole, si seguiva alla lettera le istruzioni di Don Juan, e prendeva mio
trasognare come un fatto, poteva utilizzare le risorse percettive della mia
vita di tutti i giorni. Dopo alcuni momenti lo scenario diventò controllabile,
sebbene non completamente normale.
La seguente volta che ebbi un sogno simile
andai al ristorante dell'angolo. Lo scelsi perché normalmente andava lì sempre,
all'alba. Nel mio sogno vidi di sempre alle conosciuti meseras che lavoravano
il turno di quell'ora; vidi una fila di gente che mangiava nel banco, ed
esattamente alla fine dello stesso vidi ad un tipo strano, un uomo al quale
vedeva tutti i giorni vagabondando per il recinto dell'Università della
California, in Los Angeles. Egli fu l'unica persona che realmente mi vide.
Nell'istante in cui arrivai sembrò sentirmi. Diventò e mi osservò.
Trovai lo stesso uomo nelle mie ore di
veglia, alcuni giorni dopo, nello stesso ristorante. Mi vide e sembrò
riconoscermi. Si inorridì e si andò correndo senza darmi opportunità di
parlargli.
In un altro sogno, ritornai una volta allo
stesso posto ed allora fu quando cambiò il corso mio trasognare. Quando stava
vedendo il ristorante dall'altro lato della strada, la scena si alterò. Non
poteva continuare oramai a vedere gli edifici conosciuti. Invece di quello,
vidi un scenario primigenio. Non era oramai di notte. Era un giorno brillante,
ed io mi trovavo contemplando una valle esuberante. Piante paludose di un verde
profondo, con forma di giunchiglie, crescevano ovunque. vicino a me c'era un
promontorio di rocce di tre o quattro metri di altezza. Un'enorme tigre denti
di sciabola si trovava seduto lì. Rimasi pietrificato. Ci guardiamo fissamente
l'un l'altro durante lungo momento. Il volume della bestia era sorprendente e,
tuttavia, non risultava grottesco né sproporzionato. Aveva una testa splendido,
grande occhi colore miele oscuro, zampe voluminose ed un'enorme scatola
toráxica. Quello che più mi impressionò fu il colore dei capelli. Era
uniformemente di un marrone oscuro, quasi cioccolato, e mi ricordavo grani
oscuri di caffè tostatura, ma lucidi; la tigre aveva un capelli extrañadamente
lungo, né unto né ingarbugliato. Non sembrava i capelli di un puma né quello di
un lupo o di un orso polare. Paragonava qualcosa che io non aveva mai
sottoabito.
Da allora quello diventò routine per me
vedere quella tigre. In certe occasioni, lo scenario era offuscato, freddo.
Vedeva pioggia nella valle: pioggia spessa, copiosa. Altre volte, la valle era
ricoperta per luce solare. Molto spesso poteva vedere ad altre tigri denti di
sciabola nella valle, ascoltare il suo insolito ruggito cigolante: un suono del
più asqueante per me.
La tigre non mi toccavo mai. Ci guardavamo
l'un l'altro ad una distanza di tre o quattro metri. Tuttavia, io sapevo quello
che voleva. Si stava abituando a respirare in una maniera specifica. Arrivò
tanto bene un momento in mio trasognare in che poteva imitare la respirazione
della tigre, che sentii che mi trasformavo in tigre. Dissi agli apprendisti che
una conseguenza tangibile di mio trasognare era che il mio corpo era diventato
più muscoloso.
Dopo avere sentito la mia relazione, Néstor
si meravigliò di quanto distinto era il trasognare di essi al mio. Essi avevano
compiti concreti in un sogno. La sua era trovare cure per tutto quello che
affliggeva al corpo umano. Quella di Benigno era predire, prevedere, trovare
soluzioni per qualunque cosa che fosse una preoccupazione umana. Il compito di
Pablito consisteva in trovare maniere di costruire. Néstor disse che a causa di
quelli compiti egli negoziava con piante medicinali; Benigno aveva un oracolo e
Pablito era falegname. Aggiunse che, fino a quello momento, appena i tre
avevano graffiato la superficie di suo trasognare e che non avevano niente
sostanziale che informare.
- Tu potrai pensare che siamo riusciti
molto - continuò -, ma non è così. Genaro ed il nagual facevano tutto per noi e
per queste quattro vecchie. Ancora non abbiamo fatto niente per noi stessi.
- Mi sembra che il nagual ti preparasse in
una maniera differente - osservò Benigno con gran lentezza e deliberazione -.
Tu sei dovuto essere una tigre e con ogni sicurezza giri un'altra volta tigre.
Quello fu quello che passò al nagual. egli era stato prima un corvo e quando
stette in questa vita diventò un'altra volta corvo.
- Il problema è che quello tipo di tigre
non esiste oramai - fece notare Néstor -. Non abbiamo sentito mai quello che
può passare in quello caso.
Mosse la sua testa di lato a lato per
includere a tutti i presenti con quello gesto.
- Io so quello che passa - assicurò la
Grassa -. Ricordo che il nagual Juan Matus richiamava a quell'il sogno
fantasma. Disse che nessuno di noi ha fatto mai quello tipo di trasognare,
perché non siamo violenti né distruttivi. Mai il lo fece. E disse che chiunque
che lo faccia è marcato per il destino per avere alleati ed aiutanti fantasmi.
- Che cosa vuole dire quello, Grassa? -
domandai.
- Vuole dire che non sei come noi - rispose
cupamente.
La Grassa si vedeva molto agitata. Si mise
in piede e camminò di un estremo ad un altro della stanza quattro o cinque
volte, fino a che nuovamente prese posto al mio fianco.
Ci fu una breccia di silenzio nella
conversazione. Josefina masticò qualcosa di inintelligibile. Anche ella
sembrava essere molto nervosa. La Grassa tentò di tranquillizzarla,
abbracciandola ed applaudendo egli la schiena.
Josefina ti dice qualcosa su Scelse - mi
annunciò la Grassa.
Tutti girarono a Josefina, senza emettere
una sola parola, con gli occhi interroganti.
- Malgrado Scegliesse è sparito dalla
faccia della terra - continuò la Grassa -, ancora è uno di noi. E Josefina
conversa ogni tanto con lui.
Improvvisamente, tutti si trovavano molto
attenti. Si guardarono l'un l'altro e dopo mi guardarono.
- Si trovano nel sogno - condannò la
Grassa, drammaticamente.
Josefina inalò con forza; sembrava stare
nel pinnacolo del nervosismo. Il suo corpo si scosse convulsivamente. Pablito
si stese sopra a lei, nel suolo, e cominciò a respirare con forza, obbligandola
a respirare all'unisono con lui.
- Che cosa è quello che sta facendo? -
domandai alla Grassa.
- Che cosa è quello che stai facendo! A
poco non puoi vederlo? - rispose con tono tagliarti.
Gli sussurrai che mi rendevo conto che
Pablito stava tentando di calmarla, ma che il procedimento era una novità per
me. Spiegò che gli uomini hanno un'abbondanza di energia nel plesso solare, la quale
le donne possono immagazzinare nel ventre. Semplicemente Pablito stava
trasmettendo energia a Josefina.
Josefina si sedette e mi sorrise. Si era
calmato totalmente.
- Perché davvero vedo a Scelse tutto il
tempo - confermò -. Mi aspetta tutti i giorni.
- E perché non ci dicesti mai niente di
quello? - rimproverò Pablito con tono di malumore.
- Me lo disse - interruppe la Grassa, e
dopo proseguì con una lunga spiegazione di quello che significava per tutti noi
che Scelse ci trovassimo a nostra disposizione. Aggregò che ella stava
aspettando un mio segno per rivelare le parole di Scelse.
- Non ti camminare per i rami, donna! -
cigolò Pablito -. Dicci quello che disse.
- Quello che disse non lo disse per te! -
gridò la Grassa, come risposta.
- E ferma chi lo disse, allora? - domandò
Pablito.
- Per questo nagual - gridò la Grassa,
segnalandomi.
La Grassa Lei scuso per alzare la voce.
Disse che tutto quello che Scelse aveva detto era complesso e misterioso e che
ella non poteva tirare fuori né piedi né testa di tutto quello.
- Io nient'altro l'ascoltai. Quello fu
tutto quello che potei fare: ascoltarlo - continuò la Grassa.
- Vuoi dire che anche tu hai visto a
Scelse? - indagò Pablito con un tono che era un miscuglio di ira e di attesa.
- Sì - rispose la Grassa, quasi sussurrando
-. Prima non poteva parlare di questo perché doveva aspettarlo.
Mi segnalò e dopo mi spinse con le due
mani. Momentaneamente persi l'equilibrio e cadeva un lato.
- Che cosa è questo? Che cosa stai
facendogli? - censurò Pablito con voce molto arrabbiata -. A poco quelli sono
dimostrazioni di amore indio?
Diventai alla Grassa. Ella fece un gesto
con le labbra affinché stesse in silenzio.
- Scelse dice che tu sei il nagual, ma che
non sei per noi - mi notò Josefina.
Ci fu un silenzio mortale nella stanza. Non
seppi che cosa pensare dell'asseverazione di Josefina. Dovetti sperare fino a
che un altro parlasse.
- Ti senti come se ti avessero tolto un
peso di sopra, no? - mi punse la Grassa.
Dissi a tutti che non aveva opinioni di
nessun tipo. Si vedevano come bambini sconcertati. La Grassa aveva un'aria di
un maestri di cerimonia che è completamente addolorata.
Néstor si mise in piede ed affrontò la
Grassa. Gli disse una frase in mazateco. Suonava come ordine o rimprovero.
- Dicci tutto quello che sai, Grassa -
continuò in castigliano -. Non hai diritto a giocare con noi, a conservarti
qualcosa importante nomás per te.
La Grassa protestò con veemenza. Spiegò che
si era guardato quello che sapeva, perché Scelse l'ordinò che così lo facesse.
Josefina assentì con la testa.
- Tutto questo te lo disse o lo disse a
Josefina? - domandò Pablito.
- Stavamo giunte - spiegò appena la Grassa
con un sussurro udibile.
- Vuoi dire che Josefina e tu ensueñan
giunte? - esclamò Pablito, senza alito.
La sorpresa nella sua voce coincise con
l'onda di commozione che sembrava avere invaso tutti gli altri.
- Esattamente che disse loro Scelse loro
due? - finì Néstor quando l'impatto aveva diminuito.
- Disse che io dovevo aiutare al nagual a
ricordare il suo lato sinistro - rispose la Grassa.
- Sai tu di che cosa sta parlando questa? -
mi domandò Néstor.
Non c'era maniera che io potessi saperlo.
Dissi loro che cercassero le risposte in se stessi. Ma nessuno di essi espresse
nessun suggerimento.
- Disse a Josefina altre cose che ella non
può ricordare - proseguì la Grassa -. E così stiamo in una vera confusione.
Scelse disse che tu sei definitivamente il nagual e che devi aiutarci, ma che
non sei per noi. Solo quando ricordi il tuo lato sinistro potrai portarci a
dove dobbiamo andare.
Néstor parlò a Josefina con tono paterno e
l'urse a che ricordasse quello che Scelse aveva detto, invece di chiedere che
io ricordassi qualcosa che doveva stare in alcuno specie di chiave, dato che
nessuno di noi poteva decifrare niente di quello.
Josefina retrocedè e corrugò il cipiglio
come se si troverà sotto un peso tremendo che l'opprimeva. In realtà, sembrava
un polso di straccio che stava essendo compressa. L'osservò autenticamente
affascinato.
- Non posso - ella ammise finalmente -. Io
so di che cosa sta parlandomi quando parla con me, ma ora non posso dire di che
cosa si tratta. Non mi esce.
- Ricordi alcuno parola? - domandò Néstor
-. Qualunque parola?
Josefina tirò fuori la lingua, scosse la
testa di lato a lato e gridò contemporaneamente:
- No, non posso.
- Che classe di sogno facce tu, Josefina? -
gli domandai.
- L'unica classe che so - rispose con
secchezza.
- Io ti dissi già come il mio faccio - gli
ricordai -. Ora tu mi dici come egli fai tuo.
- Io chiudo gli occhi e vedo una parete -
precisò Josefina -. È come una parete di nebbia. Scelse mi aspetta lì. Mi porta
attraverso la parete e mi insegna cose. Suppongo che mi insegna cose; non Lei
che è quello che facciamo, ma facciamo insieme qualcosa. Poi mi ritorna alla
parete e mi lascia andare. Ed io mi dimentico di quello che vidi.
- Come successe che andasti via con la
Grassa? - segnalai.
- Scelse mi disse che la portasse - rispose
-. I due speriamo la Grassa e quando si mise a fare il suo sogno la tiriamo e
la spingiamo fino all'altro lato della parete. L'abbiamo fatto già due volte.
- Come la tirasti? - domandai.
- Non so! - replicò provocatorio -. Ma ti
aspetto e quando faccia il tuo sogno ti tiro ed allora sai già.
- Puoi tirare a chiunque? - domandai.
- Chiaro - rispose sorridente -. Ma non lo
faccio perché non serve da niente. Tirai la Grassa perché Scelse mi disse che
voleva dirgli qualcosa, nomás perché ella è più giudiziosa di me.
- Allora Scelse ti ha dovuto dire le stesse
cose, Grassa - intercedè Néstor con una fermezza che mi era ignorata.
La Grassa fece un strano gesto. Inclinò la
testa, aprendo la bocca per i lati, alzò le spalle ed alzò le braccia al di
sopra della sua testa.
- Josefina ti disse già quello che passò -
concedè -. Non c'è maniera che io possa ricordare. Scelse parlata con una
velocità distinta. Egli mi conversa, ma il mio corpo non lo capisce. No. No. Il
mio corpo non può ricordare, quello è quello che passa. Io so che disse che
questo nagual si ricorderebbe e ci porterebbe a dove dobbiamo andare. Non potè
dirmi più perché c'era molto da dire in molto pochino tempo. Disse che
qualcuno, non ricordo chi, sta sperandomi specialmente.
- Quello è tutto quello che disse? -
insistè Néstor.
- La seconda volta che lo vidi, mi assicurò
che tutti noi andavamo a dovere ricordare il nostro lato sinistro, presto o
tardi, se è che vogliamo andare a dove dobbiamo andare. Ma egli è quello che
deve ricordare in primo luogo.
Mi segnalò e nuovamente mi spinse come
l'aveva fatto la volta anteriore. La forza del suo spintone mi lanciò
rimbalzando come palla.
- Per che motivo fai questo, Grassa? -
protestai, un tanto fastidioso.
- Sto tentando di aiutarti a ricordare. Il
nagual Juan Matus mi disse che doveva darti un spintone di quando in quando,
per scuoterti.
La Grassa mi abbracciò con un movimento
molto ripido.
- Aiutaci, nagual - supplicò -. Staremo
peggio che morti se non c'aiuti.
Io stavo per piangere. Non a causa del
dilemma dia essi, bensì perché sentiva qualcosa agitandosi dentro me. Era
qualcosa che stava tentando di uscire dal momento in cui andammo a quello
paese.
La supplica della Grassa mi rompevo il
cuore. Allora ebbi un altro attacco di quello che sembrava essere
iperventilazione. Un sudore freddo mi avvolse e dopo dovetti vomitare. La
Grassa mi servì con ogni sollecito.
Fedele alla sua pratica di sperare di
rivelare un risultato, neanche la Grassa volle considerare che discutessimo
nostro vedere insieme ad Oaxaca. Durante vari giorni si mostrò distante e
deliberatamente disinteressata. Neanche voleva parlare del mio malessere.
Neanche le altre donne. Don Juan normalmente sottolineava la necessità di
aspettare il momento più appropriato per lasciare uscire qualcosa che portiamo
immagazzinato. Io comprendevo le ragioni delle azioni della Grassa, benché
pensassi che la sua insistenza in sperare era un tanto irritante e che era in
disaccordo con le nostre necessità. Non poteva rimanere con essi molto tempo, e
così chiesi che ci riunissimo per condividere tutto quello che sapevamo. Ella
fu inflessibile.
- Dobbiamo sperare - disse -. Dobbiamo dare
ai nostri corpi l'opportunità di proporzionarci una soluzione. Il nostro
compito è ricordare, non con le nostre menti bensì coi nostri corpi. Tutti noi
lo capiamo così.
Mi guardò inquisitivamente. Sembrava
cercare una chiave che gli dicesse se anche io avevo compreso il compito.
Riconobbi trovarmi completamente sconcertato, poiché io ero effettivamente un
estraneo. Io ero solo, ed essi si tenevano gli alcuni agli altri per darsi
appoggio.
- Questo è il silenzio dei guerrieri -
disse ridendo, e dopo aggiunse con un tono conciliatorio -. Ma questo silenzio
non vuole dire che non possiamo parlare di altre cose.
- Forse dobbiamo tornare alla nostra
vecchia discussione di perdere la forma umana.
C'era irritazione nei suoi occhi. Gli
spiegai dettagliatamente che, specialmente quando si trattava di concetti
strani, a me Lei dovevo chiarificare costantemente i suoi significati.
- Esattamente, che cosa vuoi sapere? -
domandò.
- Tutto quello che mi voglia dire.
- Il nagual mi fece capire che perdere la
forma umana porta la libertà - disse -. Io credo che sia così. Ma non ho
sentito quella libertà, ancora non.
Ci fu un altro momento di silenzio.
Ovviamente, la Grassa calcolava la mia reazione.
- Che classe di libertà è quella, Grassa?
- La libertà di ricordarti a te stesso. Il
nagual disse che perdere la forma umana è come una spirale. Si dà la libertà di
ricordare, e questo, a sua volta, ti fa ancora più libero.
- Perché non hai sentito ancora quella
libertà?
Scricchiolò la lingua ed alzò le spalle. Sembrava
confusa o riluttante a proseguire la conversazione.
- Sono legata a te. Fino a che tu perda la
tua forma umana e possa ricordare, io non potrò sapere quale quella libertà è.
Ma chissà tu non possa perdere la tua forma umana non sia che primo ricorda. In
qualche modo, non dovremmo stare parlando di questo. Perché non conversi coi
Genaros?
La Grassa parlò con l'aria di una madre che
invia fuori a suo figlio a giocare. Non mi disturbò nella cosa più minima. In
qualunque altra persona, facilmente io avrei preso quell'atteggiamento come
arroganza o disprezzo. Mi piaceva stare con la Grassa, quell'era la differenza.
Trovai a Pablito, Néstor e Benigno nella casa di Genaro, avvolti in un estraneo
gioco. Pablito si trovava sospeso, più o meno ad un metro del suolo, in
qualcosa che sembrava essere un arnese di cuoio oscuro che aveva fagotto con
cinturini al petto, sotto le ascelle. L'arnese somigliava un grosso gilet di
cuoio. Concentrando la mia attenzione, vidi che in realtà Pablito si trovava
fermo in alcuni grossi cinturini che facevano una curva sotto l'arnese, come
staffe. Si sentiva sospeso, nel centro della stanza, mediante due archi che
passavano al di sopra della grossa trave trasversale che sosteneva il soffitto.
Ogni corda sosteneva l'arnese, al di sopra delle spalle di Pablito, grazia ad
alcuni anelli di metallo.
Néstor e Benigno tiravano di una corda
ciascuna chi. Si trovavano in piede, uno di fronte all'altro, sostenendo a
Pablito nell'aria per la forza della sua pulsione. Pablito, a sua volta, afferrava
con tutte le sue forze due pali lunghi e magri che erano stati impalati nel
suolo e che stavano comodamente nelle sue mani strette. Néstor stava alla
sinistra di Pablito, e Benigno, alla destra.
Il gioco sembrava essere una guerra di
tirate da tre lati, una feroce battaglia tra la quale tiravano e quello che si
trovava sospeso.
Quando entrai nella stanza, tutto quella
che potei sentire fu la pesante respirazione di Néstor e Benigno. I muscoli
delle sue braccia e dei suoi colli erano gonfi per la tensione.
Pablito non perdeva di vista a nessuno dei
due, concentrandosi su ognuno con sguardi fugaci. I tre si trovavano tanto
assorti nel suo gioco che neanche notarono la mia presenza o, se lo fecero, non
poterono rompere la sua concentrazione per salutarmi.
Néstor e Benigno si guardarono l'un l'altro
da dieci a quindici minuti, in silenzio totale. Dopo, Néstor tentò di
ingannarlo sciogliendo la sua corda. Benigno non cadde nella trappola, ma
Pablito sé. Accettò ancora più la sua mano sinistra ed appoggiò i suoi piedi
nei pali per puntellare la sua posizione. Benigno approfittò di quello momento
per dare una poderosa tirata, nel preciso istante in che Pablito allentava la
sua forza.
La tirata prese per sorpresa a Pablito e
Néstor. Benigno si pese dalla corda con tutto il suo peso, Néstor non potè
manovrare oramai e Pablito lottò disperatamente per equilibrarsi. Fu inutile.
Benigno aveva vinto.
Pablito si scese dall'arnese ed arrivò fino
a dove io mi trovavo. Gli chiesi che mi parlasse del suo straordinario gioco.
Mi sembrò un tanto riluttante per parlare. Néstor e Benigno ci si unirono dopo
avere conservato le sue attrezzature. Néstor disse che il gioco era stato
inventato per Pablito chi trovò la struttura nel suo sogno e dopo lo concepì
come gioco. In un principio si trattava di un artificio che permetteva di
tendere contemporaneamente i muscoli a due di essi. Si alternavano per essere
elevati. Ma, dopo, il sogno di Benigno permise loro di entrare in un gioco nel
quale i tre tendevano i muscoli ed acutizzavano la sua agilità visuale
rimanendo in stato di all'erta, a volte per ore.
- Benigno crede ora che questo sta
aiutandoci affinché i nostri corpi ricordino - proseguì Néstor -. La Grassa,
per esempio, gioca di una maniera ben rara. Guadagna sempre, non importa in che
posizione si metta. Benigno crede che sia perché il suo corpo ricorda.
Domandai loro se anche essi osservavano la
regola del silenzio. Risero. Pablito disse che, meglio di niente, la Grassa
voleva essere come il nagual Juan Matus. L'imitava deliberatamente, fino a nei
dettagli più assurdi.
- Vogliono dire che allora sé possiamo
parlare tra noi di quello che passo l'altra notte? - domandai, quasi perplesso,
poiché la Grassa era stata tanto enfatica rifiutandosi di farlo.
- Noi non abbiamo intoppi - riconobbe
Pablito -. Tu sei il nagual.
- Qui, Benigno si ricordò di qualcosa ma
bene, ben strano - precisò Néstor, senza guardarmi.
- Io credo che fosse a metà un sogno -
addugliò Benigno -. Ma Néstor crede che no.
Sperai con pazienza. Con un movimento a capofitto,
li ursi a che continuassero.
- L'altro giorno egli si ricordò che tu gli
insegnasti come trovare orme di gente nella terra floscia - dichiarò Néstor.
- Dovette essere stato un sogno - dissi.
Voleva ridere della cosa assurda che era
quello, ma i tre mi guardarono con occhi supplicanti.
- È assurdo - calcai.
- In qualche modo, è meglio che ti dica che
io ho un ricordo sembrato - disse Néstor -. Tu mi portasti ad alcune rocce e mi
spiegasti come nascondermi. Egli mio non fu a metà un sogno. Io ero ben
sveglio. Un giorno continuava a camminare con Benigno, cercando piante, ed
improvvisamente mi ricordai che tu mi insegnasti, e così mi nascosi come tu mi
insegnasti e gli attaccai un sustazo a Benigno.
- Ti insegnai io? Come potè essere? Quando?
Stava incominciandomi a mettere nervoso.
Nessuno di essi sembrava scherzare.
- Quando? Lì sta la cosa - convenne Néstor
-. Non possiamo accordarci di quando. Ma Benigno ed io sappiamo che tu eri.
Mi sentii pesante, oppresso. La mia
respirazione diventò più difficoltosa. Ebbi paura di tornare a sentirmi male.
In quello momento decisi di contarloro quello che la Grassa ed io avevamo visto
insieme. Parlare di quello mi calmò. Alla fine della mia narrazione, di nuovo
poteva controllarmi già.
- Il nagual Juan Matus ci lasciò un pochino
aperti - disse Néstor -. Tutti noi possiamo vedere un po'. Vediamo buchi nella
gente che ha figli ed anche, di volta in volta, vediamo un piccolo splendore
nella gente. Dato che tu non vedi niente, sembra che il nagual ti lasciasse
completamente chiuso affinché stia aprendo da dentro. Ora già l'aiutasti può
vedere per sé stessa o, altrimenti, sta lasciando che la porti a spalla.
Dissi loro che quello che era successo ad
Oaxaca era potuto essere un caso.
Pablito pensò che dovremmo andare alla
roccia favorita di Genaro e sederci lì con le teste giunte. Gli altri due
dissero che l'idea era brillante. Io non presentai obiezioni. Benché stessimo
seduti lì un lungo momento, niente passò. Ma ci sentiamo molto bene.
Quando ci trovavamo ancora seduti nella
roccia contai loro dei due uomini che la Grassa ed io credemmo che erano Don
Juan e dono Genaro. Scivolarono immediatamente della roccia ed entrarono a casa
della Grassa. Néstor era il più agitato. Era quasi incoerente. Tutto quello che
potei capire fu, così supposi, che tutti essi stavano aspettando un segno di
questa natura.
La Grassa stava aspettandoci alla porta.
Sapeva già quello che io avevo detto loro.
- Solamente io volevo dare tempo al mio
corpo - chiarì, prima che noi potessimo dire qualcosa -. Doveva essere
completamente sicura, e lo sto già. Erano il nagual e Genaro.
- Che cosa ci sono in quelle capanne dove
sparirono? - domandò Néstor.
- Non si misero lì - assicurò la Grassa -.
Si andarono camminando per il campo aperto, verso il Questo. In direzione di
questo paese.
Sembrava essere decisa a riappacificarli.
Chiese loro che rimanessero, ma ricusarono, si scusarono ed andarono via. Era
sicuro che si sentivano scomodi in presenza di lei chi sembrava essere molto
arrabbiata. Piuttosto io mi divertii con le esplosioni di temperamento della
Grassa, e questo era abbastanza contrario alle mie reazioni normali. Mi ero
sentito sempre inquieto in presenza di qualcuno che era arrabbiato, con la
misteriosa eccezione della Grassa.
Durante le prime ore della notte ci
riuniamo nella stanza della Grassa. Tutti si vedevano preoccupati. Presero
silenziosamente posto, guardando al piano. La Grassa tentò di iniziare la
conversazione. Spiegò che non era stato oziosa che fece certe indagini e che
trovò una soluzione.
- Questo non è un tema di fare indagini -
disse Néstor -. Questo è un compito di ricordare col corpo.
Sembrava che tutti stessero deliberando tra
sé, a giudicare dagli assensi che Néstor ottenne degli altri. Quello ci lasciò
a parte.
- Combatte ricorda anche qualcosa -
continuò Néstor -. Ella credeva che fosse la sua pura stupidità, ma sentendo
quello che io ricordai, ci disse che questo nagual la portò con una guaritrice
e la lasciò lì affinché lo curassero gli occhi.
La Grassa e mi girammo verso Corrida. Ella
inclinò la testa come se fosse imbarazzata. Parlò tra denti. Sicuramente il
ricordo gli era molto doloroso. Disse che quando Don Juan la trovò per la prima
volta, i suoi occhi erano infettati e non poteva vedere. Qualcuno la portò in
automobile una gran distanza, ad una guaritrice che la guarì. Combatte sempre
fu convinta che Don Juan aveva fatto quello, ma sentendo la mia voce si rese
conto che io fui chi la portò lì. L'incongruenza di tale ricordo l'affondò in
un'agonia dal primo giorno che mi conobbe.
- I miei uditi non mi mentono - aggiunse
Corrida dopo un lungo silenzio -. Tu fosti quello che mi portò lì.
- Impossibile! Impossibile! - gridai.
Il mio corpo incominciò a scuotersi, fosse
di controllo. Ebbi una sensazione di dualità. Chissà quello che io chiamo il
mio essere razionale, incapace di controllare al resto di me prese posto come
spettatore. Un mia parte osservava, mentre un'altra si scuoteva.
IV. IL TRAGHETTAMENTO DI I LIMITROFO
DELL'AFFETTO
- Che cosa sta passandoci, Grassa? - gli
domandai quando gli altri erano andati.
- I nostri corpi stanno ricordando, ma non
mi dà che cosa è quello che ricordano - determinò.
- Credi in quelli ricordi di Corrida,
Néstor e Benigno?
- Certo. Essi sono gente seria. Non si metterebbero
a dire così quelle cose nomás per che sì.
- Ma quello che dicono è impossibile. Mi
credi, verità, Grassa?
- Io credo che non possa ricordare, ma di
un momento ad altro...
Non concluse la frase. Venne al mio fianco
ed incominciò a bisbigliare nel mio udito. Mi contò che c'era qualcosa che il
nagual Juan Matus l'aveva obbligata a conservare fino a che arrivasse il
momento propizio, qualcosa che dovrebbe usarsi solo quando non ci fosse nessuna
altra uscita. Con un mormorio drammatico aggiunse che il nagual previó la nuova
organizzazione che era sorto quando io mi portai a Josefina a Tula affinché
stesse con Pablito. Disse che esisteva una debole opportunità che potessimo
trionfare come gruppo se seguivamo l'ordine naturale di quell'organizzazione. Mi
spiegò che, dato che ci trovavamo divisi in uguali, formavamo un organismo
vivente. Eravamo un serpente, una vipera di sonaglio. Il serpente aveva quattro
sezioni e si trovava divisa in due metà longitudinali, maschile e femminile.
Assicurò che ella ed io conformavamo la prima sezione del serpente: la testa.
Si trattava di una testa fredda, calcolatrice, velenosa. La seconda sezione,
formata per Néstor e Combatte, era il fermo e bello cuore del serpente. Il
terzo era il ventre: un ventre furtivo, capriccioso, desconfiable, che
componevano Pablito e Josefina. E la quarta sezione, la coda, dove si trovava
il sonaglio, era formata per il compagno che poteva tintinnare nel suo lingua
tzotzil per ore nella vita reale intere, Benigno e Rosa.
La Grassa si diresse della posizione che
aveva adottato per sussurrare nel mio udito. Mi sorrise e mi diede alcune
pacche nella schiena.
- Scelse disse una parola che sta girandomi
nella testa - continuò -. Josefina è di accordo con me in cui la parola era
"sentiero", un ed un'altra volta. Andiamo per un sentiero!
Senza darmi opportunità di formulare
domande, annunciò che andava a dormire un momento e che dopo congregherebbe al
gruppo affinché facessimo un viaggio.
Iniziamo la strada prima della mezzanotte
ed avanziamo sotto la brillante luce della luna. Tutti gli altri, in un
principio, si mostrarono riluttanti ad uscire, ma la Grassa, con gran abilità,
spiegò la supposta descrizione che Don Juan fece dal serpente. Prima di
cominciare a camminare, combatte suggerì che portassimo cibo per se il viaggio
risultava lungo. La Grassa respinse il suggerimento in base a che non avevamo
idea della natura della giornata. Ricordò che il nagual Juan Matus una volta
gli segnalò il principio di un sentiero, e gli disse che nell'opportunità corretta
dovevamo andare a quello posto per lasciare che il potere del sentiero ci fosse
rivelato. Aggiunse che non era verso capre, ordinario, bensì una linea naturale
della terra, la quale, aveva detto il nagual, ci darebbe forza e conoscenza se
potevamo seguirla ed essere uno con lei.
Ci muoviamo abbassò una leadership mista.
La Grassa apportava l'impeto e Néstor conosceva il terreno in questione. Ella
ci guidò ad un posto nelle montagne. Néstor si fece allora carico e localizzò
un sentiero. Era evidente la nostra formazione, con la testa guida come e gli
altri ordinati di accordo col modello anatomico del serpente: cuore, intestini
e coda. Gli uomini andavano alla destra. Ogni compagno a metro e mezzo dietro
il quale avanzava davanti ad essi.
Camminiamo tanto rapida e come ci fu
silenziosamente possibile. Alcuni cani abbaiarono per un momento; e conformi
salivamo continuava solo a rimanere il suono dei grilli. Camminiamo molto. Di
subitaneo, la Grassa si trattenne e prese il mio braccio. Ci segnalò verso davanti.
A circa venti o trenta metri, esattamente nel centro del sentiero, si trovava
la spettacolare sagoma di un uomo enorme, di più di due metri di altezza. Ci
bloccava la strada. Ci raggruppiamo in un mucchio stretto. I nostri occhi si
trovavano fissi nella forma oscura. Non si muoveva. Dopo un momento, Néstor
avanzò alcuni passi verso lui. Fino ad allora si mosse la figura. Venne verso
noi. Nonostante essere gigantesca, camminava agilmente.
Néstor ritornò correndo. Nel momento in che
ci si unì, l'uomo si trattenne. Audacemente, la Grassa cedè un passo verso lui.
L'uomo corrispose con un altro verso noi. Era evidente che se continuavamo
andando verso davanti, sbatteremmo col gigante. E non eravamo partito per lui,
fosse quello che fosse. Senza sperare di comprovarlo, presi l'iniziativa,
spinsi all'indietro a tutti e velocemente li allontanai da quello posto.
Ritorniamo a casa della Grassa, in silenzio
totale. Ci prese ore arrivare. Eravamo assolutamente esausti. Quando ci
trovavamo già a salvo, seduti nella stanza della Grassa, questa parlò:
Siamo lavati - mi disse -. Non volesti che
avanzassimo. Quella cosa che vedemmo nel sentiero era uno dei tuoi alleati,
verità? Escono dai suoi nascondigli quando tu li tiri.
Non risposi. Non aveva caso da protestare.
Ricordai le innumerevoli volte in che io credei che Don Juan e dono Genaro si
erano congiurati l'uno con l'altro. Io credevo che mentre Don Juan parlava con
me nell'oscurità, Don Genaro si mettesse un travestimento per spaventarmi, e
Don Juan insisteva in che era un alleato. L'idea che avesse alleato o entità
nel mondo che scappano alla nostra attenzione quotidiana, risultava troppo
inverosimile per me. Ma dopo, la mia forma di vita mi fece scoprire che gli
alleati dei quali Don Juan parlava sé esistevano in realtà; erano, come egli
dicesse, entità nel mondo.
Con un'esplosione autoritaria, strano per
me nella mia vita di tutti i giorni, mi misi in piede e dissi alla Grassa ed il
resto che li aveva una proposta e che potevano accettarla o ricusarla. Se erano
pronti per andare via lì di me mi trovavo disposto ad assumere la
responsabilità di portarli ad un'altra parte. Se non erano pronti, risentirei
esonerato di ogni relazione ulteriore con essi.
Sentii un germoglio di ottimismo e
sicurezza. Nessuno disse niente. Mi guardarono silenziosamente, come se nel suo
interno soppesassero la mia proposta.
- Quanto tempo porterebbe loro unire tutte
le sue cose? - domandai.
- Non abbiamo cose - disse la Grassa -.
Andremo via come stiamo. E possiamo andarci in questo stesso minuto se è
necessario. Ma se possiamo aspettare tre giorni, tutto andrà meglio.
- Che cosa passerà con le case che hai? -
domandai.
- Soledad si incaricherà di quello.
Quell'era la prima occasione in che si
menzionava il nome di signora Soledad, dall'ultima volta che l'aveva vista.
Questo mi intrigò tanto che transitoriamente dimenticai il dramma del momento.
Mi sedetti. La Grassa si mostrò indecisa a rispondere alla mia domanda, circa
signora Soledad. Néstor si affrettò e replicò che signora Soledad camminava per
di là, ma che nessuno di essi sapeva gran cosa delle sue attività. E veniva
senza avvisare a nessuno, e la sistemazione tra essi consisteva in che essi
curerebbero la casa di lei, e viceversa. Signora Soledad sapeva che essi
dovrebbero andare tardi o presto, e che ella assumerebbe la responsabilità di
fare quello che fosse necessario per disporre delle proprietà.
- E come l'avvisano? - domandai.
- Quella è cosa della Grassa - rispose
Néstor -. Noi non sappiamo dove sta.
- Dove sta signora Soledad, Grassa? -
domandai.
- Come diavoli lo so? - mi replicò.
- Ma tu sei chi la fiamma - disse Néstor.
La Grassa mi guardò. Era un sguardo
casuale, ma mi diede un brivido. Potei riconoscere quello sguardo; ma, di dove?
Le profondità del mio corpo si agitarono, il mio plesso solare acquisì una
solidità che prima non aveva sentito mai. Il mio diaframma sembrava spingere
per il suo proprio conto. Mi trovavo considerando se dovrebbe tendermi nel
suolo, quando all'improvviso mi trovai fermo.
- La Grassa non sa - li notai -. Io sono
l'unico che sa dove sta.
Ci fu una commozione, chissà più in me che
in nessuno. Aveva appena fatto quell'affermazione senza nessuna base razionale.
Tuttavia, nel momento in cui la feci ebbi la convinzione esatta che sapeva dove
si trovava. Fu come un lampo che attraversò la mia coscienza. Vidi una zona
montagnosa con becchi aridi, molto rugosi; un terreno scabroso, freddo e
desolato.
Non appena avevo parlato, il mio
susseguente pensiero cosciente fu che senza dubbio aveva visto quello paesaggio
in un film e che la pressione di stare con quella gente si stava causando un
collasso nervoso.
Chiesi loro scuse per sconcertarli di
quella maniera tanto strepitosa come involontaria. Tornai a prendere posto.
- Vuoi dire che non sai perché dicesti quello?
- mi domandò Néstor.
Aveva scelto accuratamente ogni parola. La
cosa naturale, almeno per mio, era che avesse detto: "Cosicché in realtà
non sai dove sta." Dissi loro che qualcosa sconosciuto mi ero
impossessato. Descrissi loro il terreno che vidi ed esposi la certezza che ebbi
che signora Soledad si trovava lì.
- Quello ci passa dritto - corroborò
Néstor.
Diventai verso la Grassa chi assentì. Gli
chiesi che si spiegasse.
- Queste cose rare e confuse stanno
venendoci alla testa - rinforzò la Grassa -. Domanda a Corrida, o a Rosa, o a
Josefina.
Da quando avevano iniziato la sua nuova
organizzazione di vita, Combatte, quasi Rosa e Josefina non mi parlavano. Si
limitarono a salutarmi ed a fare commenti triviali sul cibo o il tempo.
Combatte evitò i miei occhi. Mormorò che
aveva pensato che in momenti ricordava altre cose.
- A volte, davvero ti odio - mi disse -.
Credo che stia facendo lo stupido. E dopo mi ricordo che fosti molto malato per
noi. Eri tu?
- Indubbiamente egli era - intervenne Rosa
-. Io anche ricordo cose. Mi ricordo di una signora che era molto buona con me.
Mi insegnò a lavarmi, e questo nagual mi tagliò per la prima volta i capelli,
mentre la signora mi tenevo battibecco perché io ero impaurita. Quella signora
mi amavo. È stato l'unica persona che si è preoccupato per me. Con molto
piacere sarebbe andato alla tomba per lei.
- Chi era quella signora, Rosa? - gli
domandò la Grassa con l'alito interrotto.
- Egli sa - affermò Rosa.
Tutti mi guardarono, aspettando una
risposta. Mi arrabbiai e gridai a Rosa che non doveva continuare affermando
cose che erano accuse in realtà. In nessun modo io stavo mentendoloro.
Rosa non si alterò davanti alla mia
esplosione. Calmadamente mi spiegò che si ricordava della signora dicendolo che
io ritornerei qualche giorno, dopo essere stato guarito della mia malattia.
Comprese che la signora stava servendomi, badando affinché io recuperassi la
salute; pertanto, doveva sapere chi ella era e dove stava, dato che già era
sano.
- Era malato di che cosa, Rosa? - volli sapere.
- Ti ammalasti perché non potevi seguire
col tuo mondo - affermò con la massima convinzione -. Qualcuno mi disse, e di
questo credo che faccia molto tempo che tu non stavi fatto per noi, la stessa
cosa che Scelse disse alla Grassa nel suo sogno. Tu andasti via per quel motivo
e Combatte non ti perdonò mai. Ti odia oltre questo mondo.
Combatte protestò che i suoi sentimenti
verso me non avevano niente a che vedere con quello che Rosa stava dicendo.
Ella semplicemente era di temperamento brusco e si arrabbiava con facilità
davanti alle mie stupidità.
Domandai a Josefina se anche ella si
ricordava.
- Certo - affermò con un sorriso -. Ma tu
mi conosci già, sono pazza. Non puoi fidarti di mio. Non sono degna di fiducia.
La Grassa insistè nel ascoltare quello che
Josefina ricordava, ma questa non volle dire niente e tutti si misero a
discutere; finalmente, Josefina a me si diresse:
- Che caso ha tutto questo pettegolezzo di
ricordarsi? È pura bava - affermò -. E non vale un fischietto.
Josefina sembrò avere guadagnato un punto
su tutti noi. Non ci fu oramai più che dire. Tutti incominciarono a mettersi in
piede per andare via.
- Mi ricordo che mi comprasti vestiti begli
- disse improvvisamente Josefina -. Non ti ricordi di quando caddi dalle scale
di un negozio? Quasi mi ruppi la gamba e tu dovesti tirarmi fuori carica.
Tutti girarono a prendere posto con gli
occhi fissi in Josefina.
- Anche ricordo ad una vecchia pazza -
continuò -. Mi attaccavo e mi girovagava per tutta la casa fino a che tu ti
arrabbiasti e la fermasti.
Mi sentii esasperato. Tutti pendevano dalle
parole di Josefina, quando lei stessa c'aveva detto che non ci fidassimo di lei
perché era pazza. Aveva ragione. I suoi ricordi erano aberrazione pura per me.
- Anche io so perché ti ammalasti - proseguì
-. Io stavo lì. Ma non mi ricordo dove. Ti portarono all'altro lato della
parete di nebbia per cercare questa stupida Grassa. Mi suppongo che si sarebbe
perso. Non avesti forza per ritornare. Quando ti tirarono fuori già eri quasi
morto.
Il silenzio che seguì a queste rivelazioni
fu oppressivo. Io ebbi paura di fare più domande.
- Non posso ricordare perché demoni andò a
dare là la Grassa, o chi ti portò di ritorno - continuò Josefina -. Ma sì mi
ricordo che eri tanto malato che non potevi riconoscermi oramai. Questa stupida
Grasso giuramento che non ti conosceva quando arrivasti per la prima volta a
questa casa alcuni mesi fa. Io ti riconobbi subito. Mi ricordai che tu eri il
nagual che si ammalò. Vuoi sapere una cosa? Credo che questi vecchi nomás si sta
facendo i difficili. Ed anche gli uomini, specialmente quello stupido Pablito.
Devono ricordarsi. Anche essi stavano lì.
- Puoi accordarti dove stavamo? - domandai.
- No. Non posso - negò Josefina -. Ma se tu
mi porti lì, lo saprò. Quando noi stavamo lì ci dicevano gli ubriachi, perché
camminavamo sempre nauseati. Io ero il meno nauseato di tutti, per quel motivo
mi ricordo bene.
- Chi ci diceva ubriachi? - domandai.
- A te no, solo a noi - replicò Josefina -.
Non so chi, il nagual Juan Matus, suppongo.
Guardai ad ognuno di essi, ed ognuno sfuggì
il mio sguardo.
- Stiamo arrivando alla fine - mormorò
Néstor, come se parlasse con sé stesso -. Già la nostra fine sta gettandoci
sopra.
Sembrava stare sull'orlo delle lacrime.
- Dovrebbe sentire mi accontento ed
orgoglioso perché arriviamo già alla fine dei nostri giorni - continuò -. E
tuttavia sono triste. Puoi spiegarmi quello, nagual?
Improvvisamente, tutti stavamo tristi.
Perfino la provocatoria Corrida aveva rattristato.
- Che cosa passa a tutti voi? - domandai
con tono convivente -. Di che fine stanno parlando?
- Io credo che tutti sanno di che fine si
tratta - manifestò Néstor -. Ultimamente sto sperimentando sentimenti strani.
Qualcosa ci chiama. E non ci lasciamo andare via come dovremmo. C'afferriamo.
Pablito ebbe un vero momento di galanteria
e mirò che la Grassa era l'unica tra essi che non si afferrava a niente. Il
resto, mi assicurò, erano egoisti quasi irrimediabili.
- Il nagual Juan Matus ci disse che quando
sia il momento di andarci di questo mondo avremo un segno - espose Néstor -.
Qualcosa che in realtà ci piaccia c'uscirà al passo per portarci.
- Disse che non deve essere niente
grandioso - aggiunse Benigno -. Qualunque cosilla che ci piaccia sarà
sufficiente.
- Per me, il segno apparirà con la forma
dei soldatini di piombo che non ebbi mai - mi disse Néstor -. Una fila di
ussari a cavallo verrà per portarmi. Che cosa sarà nel tuo caso?
Ricordai che una volta Don Juan mi ero
detto che la morte si nascondeva dietro qualunque cosa immaginabile, perfino
dietro un punto nel mio quaderno di note. Mi diede dopo la metafora definitiva
della mia morte. Io gli avevo detto che una volta camminando per la Hollywood
Boulevard, in Los Angeles, aveva sentito il suono di una tromba che toccava una
vecchia, idiota canzonetta popolare. La musica veniva da un negozio di dischi
all'altro lato della strada. Io non avevo sentito mai prima un suono tanto
bello. Diedi appuntamento estasiato a lui. Dovetti sedere nel marciapiede. Il
limpido suono metallico di quella tromba si accodarsi diretto al mio cervello.
Lo sentii al di sopra della mia tempia destra. Mi riappacificò fino a che mi
ubriacai con lui. Quando concluse seppi che ci non sarebbe mai maniera di
ripetere quell'esperienza, ed ebbi il sufficiente disinteresse per non
continuare a correre al negozio a comprare il disco ed una squadra stereofonica
nel quale toccarlo.
Don Juan disse che quell'era stato un segno
che mi fu dato per i poteri che governano il destino degli uomini. Quando mi
arrivi il momento di lasciare il mondo, in qualunque forma che sia, ascolterò
lo stesso suono di quella tromba, la stessa canzonetta idiota, lo stesso
trombettista ineguagliabile.
Il giorno dopo fu frenetico per tutti.
Sembravano dovere infinite cose fare. La Grassa disse che le sue faccende erano
personali e che dovevano essere eseguiti per ognuno di essi senza nessun aiuto.
Anche io dovevo cose fare. Mi fece molto bene rimanere solo. Maneggiai fino al
paese vicino che mi ero ammattito tanto. Fui diretto alla casa che c'affascinasse.
Bussai alla porta. Una signora aprì. L'inventai la storia che io, da bambino,
vissi in quella casa e che voleva vederla di nuovo. La signora era molto
gentile. Mi lasciò percorrere la casa, scusandosi reiteradamente per un
inesistente disordine.
C'era una provvista di ricordi nascosti in
quella casa. Lì si trovavano, poteva sentirli, ma non potei ricordare niente.
Al giorno dopo, la Grassa uscì all'alba; io
giudicai che starebbe fuori tutto il giorno, ma ritornò verso le dodici. Si
vedeva molto fastidiosa.
- Venne già Soledad e vuole vederti - mi
avvisò spontaneamente.
Senza un'altra parola di spiegazione mi
portò alla casa di signora Soledad. Questa si trovava alla porta. Si vedeva più
giovane e più forte dell'ultima volta che parlai con lei. Gli dava appuntamento
solo una lieve somiglianza alla donna alla quale io avevo conosciuto prima
anni.
La Grassa sembrava sul punto di sciogliere
le lacrime. La tensione nervosa per la quale passavamo faceva che il suo umore
andasse via perfettamente comprensibile. Andò via senza dire una parola.
Signora Soledad disse che aveva solo molto
poco tempo per parlare con me e che era disposta a sfruttare fino all'ultimo
secondo. Si mostrava stranamente differente. C'era un tono di urbanità in ogni
parola che diceva.
Feci un gesto per interromperla e formulare
una domanda. Voleva sapere dove era stato. Ella mi disprezzò in una maniera
delicata. Scelse accuratamente ogni parola, e riaffermò che la mancanza di
tempo gli permetterebbe solo di dire quello che fosse essenziale.
Osservò nei miei occhi durante un momento
che mi sembrò lungo e poco naturale. Questo mi disturbò. Durante quello lasso
bene potè parlare con me e rispondermi varie domande. Ruppe il silenzio ed
incominciò a dire quello che io giudicai pure cose assurde. Disse che mi aveva
attaccato come me glielo chiesi il giorno in cui attraversiamo per la prima
volta le linee parallele, e che sperava solo che l'attacco fosse stato
effettivo e che avesse compiuto il suo proposito. Volli gridargli che io non
gli avevo chiesto mai niente di quello. Non capiva niente di linee parallele e
tutto quello che mi dicevo era insensato. Ella chiuse le mie labbra con la sua
mano. Mi tirai indietro automaticamente. Sembrò rattristarsi. Disse che non
c'era maniera che potessimo parlare perché in quello momento stavamo in due
linee parallele e nessuno dei due aveva l'energia sufficiente per
attraversarli; solamente i suoi occhi mi esprimerebbero il suo stato di
coraggio.
Senza ragione apparente cominciai a
tranquillizzarmi; qualcosa dentro me si sentì comodo. Notai che le lacrime
rodavano per le mie guance. E dopo, una sensazione incredibile mi conferì
momentaneamente. Fu un istante, ma egli sufficientemente lungo come per
scuotere le fondamenta della mia coscienza, o della mia persona, o dei quali io
credo e sento che io sono stesso. Durante quello breve istante seppi che ella
ed io ci trovavamo molto prossimi l'un l'altro in proposito e temperamento. Le
nostre circostanze erano simili. Gli dissi, senza dire parola alcuna che la
nostra era stata una lotta ardua, ma che quella lotta non finiva ancora. Non
finirebbe mai. Ella mi dicevo addio. Mi dicevo che le nostre strade non
girerebbero mai ad attraversare che eravamo arrivati finalmente di un sentiero.
Un'onda persa di adesione, di parentela, sorse da qualche inimmaginabile angolo
oscuro di me stesso. Fu un lampo, esplose come un carico elettrico nel mio
corpo. L'abbracciai; la mia bocca si muoveva, diceva cose che non avevano
significato per me. I suoi occhi si illuminarono. Ella mi dicevo anche qualcosa
che io non potevo comprendere. La cosa unica che mi era chiaro era che io avevo
attraversato le linee parallele, e questo non aveva nessun significato
pragmatico per me. C'era un'angoscia immagazzinata dentro mio che spingeva
verso fuori. Alcuno forza inspiegabile mi fendevo. Non poteva respirare e tutto
si oscurò.
Sentii che qualcuno si muoveva, mi scuotevo
delicatamente. Il viso della Grassa diventò nitido. Mi trovavo costruzione nel
letto di signora Soledad, e la Grassa era seduta al mio fianco. Ci trovavamo
soli.
- Dove sta signora Soledad? - domandai.
- Andò via - rispose la Grassa.
Voleva contare tutto alla Grassa. Ella me
lo chiese. Aprì la porta. Tutti gli apprendisti si trovavano fuori,
aspettandomi. Si erano messi i suoi vestiti più parchadas. La Grassa mi spiegò
che strapparono le altre che avevano. Incominciava già ad imbrunire. Aveva
dormito per ore. Senza parlare, camminiamo a casa della Grassa, dove il mio
atto si trovava stazionato. Tutti si ammucchiarono dentro, come bambini che
vanno alla sua passeggiata domenicale.
Prima di salire all'atto rimasi
contemplando la valle. Il mio corpo iniziò una lenta rotazione e fece un
circolo completo, come se avesse volontà, proposito per sé stesso. Sentii che
mi trovavo catturando l'essenza di quello posto. Voleva conservarlo dentro mio,
perché sapeva inequivocabilmente che non lo girerebbe mai a vedere in questa
vita.
Gli altri l'avevano fatto sicuramente già.
Erano liberi di malinconia, ridevano e si facevano scherzi.
Strappai l'atto ed andammo via. Quando
arriviamo all'ultima curva della strada, il sole si stava mettendo, e la Grassa
gridò che mi trattenessi. Uscì dall'atto e corse fino ad una piccola collina
che si trovava vicino alla strada. L'arrampicò e lanciò un'ultima occhiata alla
sua valle. Estese le sue braccia verso lui e tentò di inalarlo.
Discendere quelle montagne ci prese
stranamente un tempo breve; fu un viaggio senza nessun tipo di contrattempi.
Tutti andavano silenziosi. Tentai di iniziare una conversazione con la Grassa,
ma ella si negò del tutto. Spiegò che quelle montagne erano possessive e che
esigevano essere padrone di essi, e che se non conservavano la sua energia, le
montagne non lascerebbero loro mai andare.
Una volta che arriviamo alle terre basse,
tutti si azzardarono molto più, la Grassa specialmente. Sembrava gorgogliare di
energia. Perfino mi proporzionò informazioni senza nessuna coazione della mia
parte. Una delle cose che disse fu che il nagual Juan Matus gli aveva detto, e
Soledad glielo confermò che c'era un altro lato in noi. Sentendo questo, gli
altri si unirono alla conversazione con domande e commenti. Tutti si sentivano
terribilmente confusi con gli strani ricordi che avevano di eventi che
logicamente non erano potuti succedere. Dato che alcuni di essi mi avevano
conosciuto prima alcuni mesi, ricordarmi in un passato remoto era qualcosa che
oltrepassava i confini della ragione.
Parlai loro del mio incontro con signora
Soledad. Descrissi loro la mia sensazione dell'avere conosciuta intimamente da
prima, e soprattutto, la sensazione di avere attraversato inequivocabilmente
quello che ella chiamava le linee parallele. Questo ultimo causò loro una gran
agitazione; sembrava che avessero ascoltato già in precedenza il termine, ma io
non ero sicuro che comprendesse quello che significava. Per me era una
metafora. Ma non potrebbe assicurare se sarebbe la stessa cosa per essi.
Quando c'avvicinavamo alla città di Oaxaca
espressero il desiderio di visitare il posto dove la Grassa assicurò che Don
Juan e dono Genaro erano spariti. Maneggiai diretto fino a quello posto.
Uscirono affrettatamente dall'atto e sembravano stare orientandosi, annusando
qualcosa, cercando orme. La Grassa segnalò la direzione nella quale credeva che
Don Juan e dono Genaro erano andati.
- Commettesti un errore terribile, Grassa -
disse Néstor in voce molto alta -. Quello non è il Questo, è il Nord.
La Grassa protestò e difese la sua
opinione. Le donne l'appoggiarono, come Pablito. Benigno non volle
compromettersi; continuava solo guardando mi mangio se io fossi quello che
proporzionerebbe la risposta, egli quale feci. Mi riferii alla mappa della
città di Oaxaca che aveva nell'atto. Certamente la direzione che la Grassa
segnalava era il Nord.
Néstor commentò che era stato sicuro, dal
primo momento, che la sua partenza del paese non fu prematura o forzata nella
cosa più minima; il cronometraggio era stato corretto. Gli altri non ebbero
tale sicurezza e le sue titubanze furono a causa dell'errore della Grassa. Essi
avevano creduto, come la Grassa che il nagual segnalò verso il paese, egli
quale significava che dovevano rimanere lì. Io ammisi, dopo l'avere
considerato, che in fin dei conti io ero l'unico colpevole, perché, malgrado
avesse la mappa, non l'utilizzai in quello momento.
Poi menzionai loro avere dimenticato
dirloro che uno dei due uomini, quello che io credei che era Don Genaro,
c'aveva chiamati a capofitto con un movimento. Gli occhi della Grassa si
aprirono con sorpresa genuina, o perfino allarme. Ella non percepì il gesto,
affermò. Il segno era stato solo per me.
- Stiamo già! - esclamò Néstor -. I nostri
destini sono bollati!
Tornò per dirigersi agli altri. Tutti essi
parlavano contemporaneamente. Néstor fece gesti frenetici con le mani, per
calmarli.
- La cosa unica che spero è che tutti voi
abbiano fatto quello che dovevano fare come se non andassero mai a ritornare -
espresse -. Perché non ritorniamo oramai.
- Stai dicendoci la verità? - mi domandò
Corrida con un sguardo feroce nei suoi occhi, e gli altri mi contemplarono
pieni di ansietà.
Assicurai loro che io non avevo nessuna
ragione per inventarlo. Il fatto che io avessi visto a quell'uomo impadronendo
gesti della testa non aveva nessun significato per me. Inoltre, neanche era
convinto che quegli uomini fossero stati Don Juan e dono Genaro.
- Sei molto abile - disse Corrida -. Forse
stai dicendoci tutto questo affinché ti seguiamo tranquillamente.
- Sente, un momento - obiettò la Grassa -.
Questo nagual potrà essere tutta la cosa abile che voglia, ma non farebbe mai
così qualcosa.
Tutti incominciarono a parlare
contemporaneamente. Tentai di mediare e dovetti gridare, al di sopra delle sue
voci, che in qualche modo quello che avrebbe potuto vedere, non significava
niente.
Molto cortesemente, Néstor mi spiegò che
Genaro aveva detto loro che quando arrivasse il momento di abbandonare la
valle, in qualche modo egli glieli farebbe sapere con un movimento della sua
testa. Tutti stettero in silenzio quando dissi loro che se i suoi destini si
trovavano bollati per quell'evento, la stessa cosa succedeva col mio: tutti
andremmo verso il Nord.
Dopo, Néstor ci portò ad un posto dove
alloggiarci, una casa di pensione nella quale egli si sistemava quando faceva i
suoi commerci nella città. Tutti si mostravano contenti, tanto che mi facevano
sentire scomodo. Perfino Corrida mi abbracciò e si scusò per essere tanto
problematica. Mi spiegò che ella credette a piedi la Grassa juntillas e
pertanto non si erano presi il disturbo di rompere definitivamente i suoi
vincoli. Josefina e Rosa sembravano stare in un parossismo di allegria e mi
davano feroci manate nella schiena un ed un'altra volta. Io volevo parlare con
la Grassa. Doveva discutere il nostro corso di azione. Ma non ci fu maniera di
essere a sole con lei quella notte.
Néstor, Pablito e Benigno uscirono molto
presto nella mattina per sistemare alcuni temi. Combatte, anche Rosa e Josefina
andarono a fare spese. La Grassa mi chiese che l'aiutasse ad acquisire i suoi
vestiti nuovi. Voleva che io lo scegliessi un vestito: una selezione perfetta
che gli darebbe fiducia in sé stessa, necessaria per essere una guerriera
fluida. Lo trovai non solo il vestito, bensì una tenuta completa.
La portai a fare una passeggiata.
Vagabondiamo per il centro della città come un paio di turisti, guardando gli
indi coi suoi abiti regionali. Essendo una guerriera senza forma, la Grassa si
trovava perfettamente a gusto nella sua eleganza. Si vedeva rapitrice. Era come
se non avesse vestito mai altrimenti. Io ero chi stava allarmato.
Mi risultava impossibile formulare le
domande che voleva fare alla Grassa, malgrado quello dovesse essere tanto
facile per me. Non aveva idea di che cosa domandargli. Gli dissi, con gran
serietà, che la sua nuova apparenza mi colpiva oltremodo. Molto sobriamente,
rispose che il traghettamento dei limitrofo dell'affetto era quello che mi ero
alterato.
- Ieri sera attraversiamo alcuni limitrofo
- aggiunse -. Soledad mi ero detto già quello che andava a succedere, e così io
ero preparata. Ma tu no.
Incominciò a spiegarmi lentamente quello
che significava che la notte anteriore avremmo trasbordato alcuni limitrofo di
affetto. Enunciava ogni sillaba come se parlasse con un bambino o con un
straniero. Ma io non potevo concentrarmi. Ritorniamo alla nostra pensione.
Doveva riposare, e tuttavia finii uscendo nuovamente. Combatte, Rosa e Josefina
non avevano potuto trovare niente e volevano qualcosa come la tenuta della
Grassa.
A metà pomeriggio stava di giro
nell'alloggio ammirando le sorelline. Rosa aveva difficoltà con le scarpe di
tacco alto. Stavamo facendogli scherzi sui suoi piedi quando la porta si aprì
con lentezza e Néstor fece la sua drammatica apparizione. Vestiva un abito
azzurro. I suoi capelli stavano accuratamente pettinatura ed un po' felpato,
come se avesse usato un'asciugatrice. Li guardò le donne e lo guardarono.
Pablito entrò, seguito per Benigno. I due erano impressionanti. Le sue scarpe
erano nuove e gli abiti sembravano tagliati alla misura.
La mia sorpresa era totale vedendoli a
tutti essi in vestiti citadinas. Mi ricordavano enormemente a Don Juan. Chissà
mi trovavo tanto commosso vedendo ai tre Genaros col suo abiti citadinos, come
l'era stato vedendo a Don Juan vestendo abito, e tuttavia accettai
istantaneamente il cambiamento. D'altra parte, benché non mi sorprendessi la
trasformazione delle donne, per alcuno ragione non poteva abituarmi a lei.
Pensai che i Genaros aveva avuto un magico
colpo di fortuna per potere trovare abiti tanto perfetti. Essi risero quando mi
sentirono entusiasmarmi per la sua fortuna. Néstor mi chiarì che un sarto aveva
fatto loro gli abiti da mesi.
- Ognuno di noi ha un altro abito -
confermò -. È più, abbiamo anche valigie di cuoio. Sapevamo già che la nostra
vita nelle montagne aveva finito. E siamo già pronti per partire! Ovviamente,
primo devi dirci a dove andiamo. E quanto tempo rimarremo qui anche.
Mi spiegò che aveva alcuni vecchi temi che
soddisfare e che aveva bisogno di tempo per chiuderli. La Grassa si fece carico
e con gran sicurezza ed autorizzazione affermò che quella notte andremmo tanto
lontano come il potere ce lo permettesse; conseguentemente, avevano fino al
fine del giorno per sistemare i suoi temi. Néstor e Pablito si trattennero
nella porta, titubavano. Mi guardarono, sperando alcuno conferma. Pensai che
egli meno che poteva fare era essere onesto con essi, ma la Grassa mi
interruppe giusto quando incominciava a dire che non aveva la più remota idea
di quello che facciamo.
- Ci vedremo all'imbrunire nella panca del
nagual - disse la Grassa -. Partiremo di lì. Per allora abbiamo dovuto fare qui
tutto quello che abbiamo o vogliamo fare, sapendo che mai più in questa vita
ritorneremo.
La Grassa ed io rimaniamo assoli una volta
che tutti andarono via. Con un movimento ripido ed un tanto rozzo, ella si
sedette nelle mie gambe. Era tanto leggera che io potevo fare che tutto il suo
magro corpo tremasse con solo contrarre i muscoli dei miei polpacci. Il suo
capello aveva una fragranza peculiare. Scherzai dicendolo che il suo profumo
era intollerabile. Ella rideva e si scuoteva quando, del niente, un sentimento
mi arrivò... Un ricordo? Improvvisamente era un'altra Grassa quella che era
seduta nelle mie gambe, ed era obesa, di doppio tale della Grassa che
conosceva. Ebbi la sensazione che io la curavo.
L'impatto di quello spurio ricordo mi fece
mettermi in piede. La Grassa cadde a terra strepitosamente. Gli descrissi
quello che aveva appena "ricordato." Gli dissi che solo una volta
l'aveva vista quando era grassa, tanto brevemente che non aveva idea dei suoi
tratti, e, tuttavia, faceva un momento ebbi la visione del suo viso quando era
obeso.
Non fece nessun commento. Si tolse i
vestiti e tornò a mettere il suo vecchio vestito.
- Ancora non sono pronta per vestirmi così
- annunciò, segnalando i suoi nuovi vestiti -. Ancora dobbiamo un'altra cosa
fare prima che siamo liberi. Di accordo con le istruzioni del nagual Juan
Matus, dobbiamo sederci insieme in un posto di potere che egli scelse.
- Dove sta quello posto?
- In alcuno parte delle montagne in questi
paraggi. È come una porta. Il nagual mi disse che c'era una fessura naturale in
quello posto che certi posti di potere sono buchi in questo mondo; se non hai
forma, puoi passare per uno di quelli buchi verso la cosa ignorata, verso un
altro mondo. Quello mondo ed est mondo in cui viviamo stanno in due linee parallele.
Ci sono molte possibilità che tutti noi siamo stati portati attraverso quelle
linee un o varie volte, ma non lo ricordiamo. Scelse sta in quell'altro mondo.
A volte lui arriviamo attraverso il sogno. Josefina, ovviamente, è la migliore
ensoñadora di noi. Attraversa le linee tutti i giorni, ma l'essere pazza le fa
indifferente, fino ad un po' pagliaccia, e così Scelse mi aiutò ad attraversare
le linee pensando che io ero più intelligente e risultai uguale di stupida.
Scelse vuole che c'accordiamo del nostro lato sinistro. Soledad mi indicò che
il lato sinistro è la linea parallela alla quale stiamo vivendo in questo
momento. E così se Scelse vuole che lo ricordiamo, è perché dovemmo essere
stato lì. E non in sogni. Per quel motivo è che tutti noi ricordiamo ogni tanto
cose rare.
Le sue conclusioni erano logiche date le
premesse con le quali operava. Io capivo quello che ella stava dicendo; quelli
ricordi desasociados che nessuno sollecitava, erano inzuppato della realtà
della vita quotidiana, e tuttavia non potevamo trovare la sequenza temporanea
che corrispondeva loro, nessuna apertura nel continua delle nostre vite dove
potesse incastrare.
La Grassa si inclinò nel letto. C'era
prurito nei suoi occhi.
- Quello che mi preoccupa è come quello
posto di potere troviamo - si angosciò -. Senza quello, non c'è maniera di fare
il viaggio.
- Quello che mi preoccupa è a dove li porto
a tutti voi e che cosa faccio con te - riflettei.
- Soledad mi spiegò che andremmo al Nord,
almeno fino alla frontiera - ricordò la Grassa -. Alcuni di noi andiamo chissà
più al nord. Ma tu non c'accompagnerai fino al fine della nostra strada. Tu hai
un altro destino.
La Grassa rimase pensosa alcuni momenti.
Corrugò il cipiglio con l'apparente sforzo di ordinare i suoi pensieri.
- Soledad mi assicurò che tu porti a
compiere il mio destino - enfatizzò -. Io sono l'unico di tutti noi che sta al
tuo carico.
In tutto il mio viso dovette dipingere se
l'allarma. Ella sorrise.
- Anche Soledad mi notò che sei tamponato -
proseguì la Grassa -. Tuttavia, hai momenti in che se sei un nagual. Dice
Soledad che il resto del tempo è come un matto che è lucido solo per alcuni
momenti e dopo affonda nuovamente nella sua pazzia.
Signora Soledad aveva usato un'immagine che
io potevo comprendere. Nella sua maniera di vedere, avevo dovuto avere un
momento di lucidità quando seppi che aveva attraversato le linee parallele.
Quello stesso momento, nel mio modo di pensare, fu il più incongruente di
tutti. Certamente signora Soledad ed io ci trovavamo in distinte linee di
pensiero.
- Che più ti disse? - domandai.
- Che doveva forzarmi a ricordare - rispose
-. Si esaurì tentando di pulirmi la memoria, per quel motivo oramai non potè
trattare con me.
La Grassa si alzò; era pronta per uscire.
La portai a passeggiare per la città. Si vedeva molto contenta. Andava da posto
in posto osservando tutto, dilettando i suoi occhi nel mondo. Don Juan mi ero
dato quell'immagine. Diceva che un guerriero sa che sta sperando e sa anche che
cosa è quello che sta sperando, e, mentre spera, diletta i suoi occhi nel
mondo. Per lui la massima impresa di un guerriero era il godimento. Quello
giorno, ad Oaxaca, la Grassa seguiva alla lettera gli insegnamenti di Don Juan.
Dopo il tramonto del sole, prima del
crepuscolo, ci sediamo nella panca di Don Juan. Benigno, Pablito e Josefina
arrivarono in primo luogo. Dopo alcuni minuti, gli altri tre ci si unirono.
Pablito prese posto tra Josefina e Combatte ed abbracciò alle due. Tutti
avevano girato a mettersi i suoi vecchi vestiti. La Grassa si incorporò ed
incominciò a parlarloro del posto di potere.
Néstor rise di lei e tutti gli altri gli
fecero coro.
- Mai più ci raggiri già con la tua aria di
comando - criticò Néstor -. Ci liberiamo già di te. Ieri sera trasbordiamo i
limitrofo.
La Grassa seguì imperturbabile, ma gli
altri stavano arrabbiati. Dovetti intervenire. Dissi a voce alta che voleva
sapere più circa i limitrofo che avevamo trasbordato la notte anteriore. Néstor
spiegò che quegli appartenevano loro solo ad essi. La Grassa fu in disaccordo.
Sembrava che andassero già ad incominciare a litigare. Portai a Néstor ad un
lato e l'ordinai che mi parlasse dei limitrofo.
- I nostri sentimenti stabiliscono limiti
attorno a qualunque cosa - espose -. Quanto più vogliamo qualcosa, più forte è
il cerchio. In questo caso noi amavamo la nostra casa, e prima di andare
dovemmo disfarci di quello sentimento. I sentimenti per la nostra terra
arrivavano fino alla cima dalle montagne che stanno all'ovest della nostra
valle. Quello fu il limitrofo, e quando attraversiamo la cima di quelle
montagne, sapendo che non ritorneremmo mai già, li rompemmo.
- Ma anche io sapevo che non andava a
ritornare - dissi.
- È che tu non amavi quelle montagne come
noi - replicò Néstor.
- Quello sta per verta - intervenne la
Grassa, cripticamente.
- Stavamo basso la sua influenza -
intervenne Pablito, mettendosi in piede e segnalando alla Grassa -. Questo
c'aveva della nuca. Ora mi rendo conto della cosa stupida che fui per colpa di
lei. Non ha caso da piangere per quello che passò già, ma non mi girerà mai a
succedere la stessa cosa.
Combatte e Josefina si unirono a Néstor e
Pablito. Benigno e Rosa osservavano tutto come se quello litigio non li
spettasse oramai più.
In quello momento sperimentai un altro
istante di certezza e di condotta autoritaria. Mi alzai e, senza nessuna
volizione cosciente della mia parte, annunciai che io mi facevo carico e che
sostituiva la Grassa di qualunque obbligo ulteriore di fare commenti o di
presentare le sue idee come unica soluzione. Quando finii di parlare mi
meravigliai della mia audacia. Tutti, compreso la Grassa, erano contenti. La
forza che generò la mia esplosione fu in primo luogo la sensazione fisica che
le mie fosse nasali si aprivano, e dopo la certezza che io sapevo quello che
Don Juan voleva dire e dove si trovava con esattezza il posto al quale dovevamo
andare per potere essere liberi. Quando le mie fosse nasali si aprirono ebbi
una visione della casa che mi aveva intrigato. Dissi loro a dove andavamo ad
andare. Tutti accettarono le mie istruzioni, senza discutere e perfino senza
commenti. Paghiamo nella pensione ed andammo a cenare. Dopo, passeggiiamo per
la piazza fino alle undici della notte. Andammo al mio atto, si ammucchiarono
rumorosamente dentro lui, e c'incamminiamo a quello misterioso paese. La Grassa
rimase sveglia per diventare compagnia, mentre gli altri dormivano. Dopo,
Néstor maneggiò e la Grassa ed io dormiamo.
V. UNA ORDA DI STREGONI IRACONDI
Ci trovavamo nel paese quando spuntò
l'alba. In quello momento presi il volante e maneggiai verso la casa. La Grassa
mi chiese che mi trattenessi un paio di stalle prima di arrivare. Uscì
dall'atto ed incominciò a camminare per l'alta panca. Tutti uscirono, uno ad
uno. Seguirono la Grassa. Pablito venne al mio fianco e disse che doveva
stazionare l'atto nello zoccolo, il quale si trovava ad una stalla di lì.
Quello feci.
Nel momento in cui vidi che la Grassa
girava l'angolo seppi che qualcosa gli succedeva. Si trovava straordinariamente
pallida. Me venne e mi sussurrò che andava ad andare a sentire la prima messa.
Combatte voleva anche fare la stessa cosa. Le due attraversarono lo zoccolo ed
entrarono nella chiesa.
Non aveva visto mai tanto ombrosi a
Pablito, Néstor e Benigno. Rosa era spaventata, con la bocca aperta, gli occhi
fissi, senza battere ciglio, guardando verso la casa. Solamente Josefina
risplendeva. Mi diede un'amichevole e gioviale manata nella schiena.
- Pazzo, figlio del calcio - esclamò -.
Distò loro già nella mera torre a questi figli dalla chingada!
Rise fino a che quasi perse l'alito.
- Questo è il posto, Josefina? - gli
domandai.
- Certo - disse -. La Grassa andava sempre
alla chiesa. Era una vera beata in quelli tempi.
- Ti ricordi di quella casa che sta lì? -
gli domandai, segnalandola.
- È la casa di Silvio Manuel - rispose.
Tutti saltiamo sentendo quello nome. Io
sperimentai qualcosa di simile ad un benigno scarico di corrente elettrica che
passavo per le ginocchia. Definitivamente il nome non mi era conosciuto, e
tuttavia il mio corpo saltò sentendolo. Tutto quello che mi fu successo pensare
fu che Silvio Manuel era un nome sonoro e melodioso.
I tre Genaros e Rosa si trovavano tanto
perturbati come me. Notai che tutti essi erano impalliditi. A giudicare da
quello che sentii, io dovevo essere tanto pallido come essi.
- Chi è Silvio Manuel? - finalmente potei
domandare a Josefina.
- Ora sé mi afferrasti - disse -. Non so.
Josefina reiterò allora che era pazza e che
niente di quello che dicesse doveva prendersi sul serio. Néstor lo supplicò che
ci riferisse tutto quello che ricordasse.
Josefina tentò di pensare, ma era del tipo
di persone che non funzionano ben bassa pressione. Io sapevo che ella potrebbe
farlo se nessuno gli domandava niente. Proposi che cercassimo una panetteria o
qualunque posto dove mangiare.
- A me non mi lasciavano fare niente in
quella casa; quella è la cosa unica di quello che mi ricordo - disse
improvvisamente Josefina.
Diventò intorno suo come se cercasse
qualcosa, o come se tentasse di orientarsi.
- Ci sia qui qualcosa che manca! - esclamò
-. Questo non è esattamente come era.
Tentai di aiutarla formulando domande che
considerai appropriate, come se erano certe case quelle che mancavano, o se
queste erano state dipinte, o se si erano costruiti altre, ma Josefina non potè
determinare quale la differenza era.
Camminiamo alla panetteria e compriamo pani
di dolci. Quando andavamo di ritorno allo zoccolo ad aspettare la Grassa e
Corrida, improvvisamente Josefina si diede un colpo nella fronte come se
un'idea l'avesse fulminata.
- So già che cosa è quello che manca! -
gridò -: È quello sguattero parete di nebbia! Qui stava prima. Ora oramai non.
Tutti incominciamo a parlare
contemporaneamente, facendo gli domandi circa la parete, ma Josefina continuò
parlando senza ammattirsi, come se non stessimo lì.
- Era una parete di nebbia che si sollevava
fino al cielo - disse -. Stava esattamente qui. Lì ogni volta che rovesciava la
testa, stava la sguattero parete. Mi girò matta. Figlio della chingada! Io
camminavo bene del cocco fino a che quella parete mi fece impazzire.
La vedeva "con gli occhi aperti o con
gli occhi chiusi. Credeva che quella parete mi camminava seguendo.
Per un istante Josefina perse la sua
vivacità naturale. Un sguardo di disperazione apparve nei suoi occhi. Io avevo
visto quello tipo di sguardo in persone con esperienze psicotiche.
Affrettatamente gli suggerii che si mangiasse il suo pane. Ella Lei calmo
subito ed incominciò a mangiarlo.
- Che cosa pensi di tutto questo, Néstor? -
domandai.
- Ho paura - rispose soavemente.
- Ti ricordi di qualcosa?
Negò scuotendo la testa. Interrogai a
Pablito ed a Benigno con un movimento di sopracciglia. Essi negarono con la
testa.
- E tu, Rosa? - domandai.
Rosa saltò quando sentì che gli parlava.
Sembrava avere perso la parlata. Tenia un pane nella sua mano e gli fu rimasto
guardando, come se non decidesse che cosa fare con lui.
- Indubbiamente si ricorda - assicurò
Josefina, ridendo -, ma è morta di paura. A poco non vedi che gli esce pipí
fino a per le orecchie?
Josefina sembrava credere che la sua asseverazione
era scherzo massimo. Si piegò della risata e lasciò cadere a terra il pane. Lo
raccolse, lo scosse la polvere e se lo mangiò.
- I matti fino a mangiano merda - disse,
dandomi una manata nella schiena.
Néstor e Benigno si vedevano molto
allarmati con le stravaganze di Josefina. Ma Pablito era felice. C'era un
sguardo di ammirazione nei suoi occhi. Scuoteva la testa e scricchiolava la
lingua come se tale grazia fosse inconcepibile.
- Andiamo alla casa - c'urse Josefina -. Là
li converserò molte cose.
Gli dissi che dovevamo aspettare la Grassa
e Corrida; inoltre, era ancora molto presto per disturbare la gentile dama che
viveva lì. Pablito disse che nel corso del suo lavoro di falegnameria era stato
in quello paese e conosceva una famiglia che preparava cibo per viaggiatori.
Josefina non voleva sperare, era questione di andare alla casa o andare a
mangiare. Optai per andare a fare colazione ed ordinai a Rosa che fosse alla
chiesa a cercare la Grassa e Corrida, ma, galantemente, Benigno si offrì á aspettarli
e portarli dopo al posto dove faremmo colazione. All'opinione, anche egli
sapeva dove rimaneva.
Pablito non ci portò direttamente lì.
Invece di quello, ed alla mia petizione, facemmo una lunga deviazione. C'era un
antico ponte nella periferia del paese che io volevo esaminare.
L'aveva visto dall'atto quello giorno in
cui la Grassa ed io veniamo per la prima volta. La struttura del ponte sembrava
coloniale. Avanziamo per il ponte ed all'improvviso ci trattenemmo bruscamente
alla metà. Domandai ad un uomo che era lì che tanto antico era il ponte.
Rispose che l'aveva visto tutta la sua vita e che egli aveva già più di
cinquanta anni di età. Pensai che il ponte esercitava un fascino unico solo per
me, ma vedendo gli altri dovetti concludere che ad essi li aveva colpiti anche.
Néstor e Rosa stavano ansimando, senza potere respirare. Pablito si reggeva in
Josefina, ed a sua volta ella si reggeva in me:
- Ti ricordi di qualcosa, Josefina? -
domandai.
- Quello maledetto Silvio Manuel sta
all'altro lato del ponte - disse, segnalando verso l'altro estremo, che si
trovava come a circa nove metri.
Guardai a Rosa chi assentì affermativamente
con la testa. Sussurrò che una volta ella aveva attraversato quello ponte con
gran paura e che qualcosa stava aspettandola dell'altro lato per divorarla.
I due uomini non potevano offrire aiuto. Mi
guardarono, perplessi. Ognuno di essi disse che aveva paura senza nessuna
ragione. Fui di accordo con essi. Sentii che di notte non oserei attraversare
il ponte per tutto l'oro del mondo. Non seppi perché.
- Che più ricordi, Josefina? - gli
domandai.
- Il mio corpo ora sé si spaventò già -
disse -. Non posso accordarmi di nient'altro. Il maledetto Silvio Manuel sta
sempre nell'oscurità. Domanda a Rosa.
Con un movimento della mia testa, invitai a
Rosa a parlare. Assentì affermativamente tre o quattro volte ma non potè
vocalizzare le sue parole. La tensione che io stesso mi trovavo sperimentando
era insolita, ma reale. Tutti stavamo fermi nel ponte, alla metà, senza potere
cedere un altro passo nella direzione che Josefina aveva segnalato. Finalmente,
Josefina prese l'iniziativa e diede mezza rovesciata. Ritorniamo camminando al
centro del paese. Dopo, Pablito ci portò ad una casa abbastanza grande. La
Grassa, Combatte e Benigno stavano facendo colazione già, ed avevano ordinato
cibo per noi. Io non avevo fame. Pablito, Néstor e Rosa si trovavano offuscati;
Josefina mangiò con gran appetito. C'era un silenzio ominoso nel tavolo.
Nessuno volle vedermi agli occhi quando tentai di iniziare una conversazione.
Dopo la colazione camminiamo alla casa.
Nessuno disse una parola. Toccai nella porta e quando la dama uscì gli spiegai
che desiderava mostrare la casa ai miei amici. La signora titubò alcuni
momenti. La Grassa gli diede qualcosa di denaro e si scusò per disturbarla.
Josefina ci guidò direttamente fino al
fondo. Non aveva visto quella parte della casa quando stetti prima. C'era un
patio lastricato, con stanze distribuite intorno a lui. Alcuni pesanti attrezzi
di semina erano stati immagazzinati nei coperti corridori. Ebbi la sensazione
che aveva visto quello patio quando non c'era tanto disordine. C'erano otto
stanze, due in ognuno dei quattro lati del patio. Néstor, Pablito e Benigno
sembravano stare per vomitare. La Grassa respirava profondamente. Prese posto
con Josefina in una panca fatta nella parete stessa. Combatte e Rosa entrarono
in una delle stanze. Improvvisamente Néstor sembrò avere la bisogno di trovare
qualcosa e sparì in un'altra stanza. Benigno e Pablito fece la stessa cosa.
Rimasi solo con la signora. Volli
conversare con lei, fargli domandi, verificare se conosceva a Silvio Manuel, ma
non potei riunire energia per parlare. Il mio stomaco era fatto un nodo. Le mie
mani colavano perspiración. Quella che mi opprimevo era una tristezza
intangibile, l'anelito di qualcosa che non era presente che non poteva
formularsi.
Non potei sopportarlo. Stava per salutare
la signora ed andare dalla casa quando la Grassa arrivò al mio fianco. Mi
sussurrò che dovevamo entrare in una stanza che era visibile da dove ci
trovavamo. Fummo lì. Era molto grande e vuoto, con un gran soffitto di travi,
oscuro ma arieggiato.
La Grassa richiamò tutti a quella stanza.
La signora ci ci rimase solamente guardando ma non fu con noi. Tutti sembravano
sapere precisamente dove sedersi. I Genaros lo fece alla destra della porta, ad
un lato della stanza, e la Grassa e le tre sorelline si sedettero alla
sinistra, nel lato opposto. Si accomodarono vicino alle pareti. Benché mi fosse
piaciuto sedermi vicino alla Grassa, lo feci nel centro della stanza. Il posto
mi sembrò appropriato. Non seppi perché, ma era come se un ordine ulteriore
avesse determinato i nostri posti.
Mentre rimasi seduto lì mi avvolse
un'ondata di strani sentimenti.
Mi trovavo passivo ed in riposo totale. Mi
immaginai come se io fossi un schermo cinematografico nella quale proiettavano
sentimenti di tristezza e di anelito che non erano miei. Ma non c'era niente
che potesse riconoscere come un ricordo preciso. Rimanemmo in quella stanza più
di un'ora. Verso il fine sentii che mi trovavo sul punto di scoprire la fonte
di quella tristezza soprannaturale che si stava facendo piangere quasi senza
controllo. Ma dopo, tanto involontariamente come c'eravamo seduti lì, ci
mettemmo in piede ed usciamo della casa. Neanche salutiamo la signora, non gli
ringraziammo.
Ci riuniamo nello zoccolo. La Grassa
affermò subito che come ella aveva perso la forma umana era ancora la testa del
gruppo. Disse che prendeva quella posizione a causa delle conclusioni alle
quali era arrivato in casa di Silvio Manuel. La Grassa sembrava aspettare
qualche commento. Il silenzio degli altri mi era intollerabile. Finalmente
dovetti dire qualcosa.
- A che conclusioni arrivasti nella casa,
Grassa? - gli domandai.
- Credo che tutti sanno quali sono - mi
replicò con un tono arrogante.
- Non sappiamo niente di quello - dissi -.
Ancora nessuno ha detto niente.
- Non dobbiamo parlare, sappiamo - disse la
Grassa.
Insistei che io non potevo prendere per
certo un evento di tale importanza. Dovevamo parlare dei nostri sentimenti. In
quello che mi toccava, poteva rendere solo conto di avere trovato una
sensazione devastatrice di tristezza e disperazione.
- Il nagual Juan Matus aveva ragione -
disse la Grassa -. Dovevamo sederci in quello posto di potere per essere
liberi. Io sono già libero. Non so come passò questo, ma qualcosa uscì da me
quando era seduta lì.
Le tre donne furono di accordo. Gli uomini,
no. Néstor disse che era stato per ricordare visi reali, ma che per quanto
tentò di chiarire la sua visione qualcosa l'ostacolava. Tutto quella che aveva
sperimentato era una sensazione di anelito e di tristezza di trovarsi ancora in
questo mondo. Pablito e Benigno dissero più o meno la stessa cosa.
- Ti rendi conto, Grassa? - dissi.
La Grassa sembrava fastidiosa; arrossò e
contrasse i muscoli del viso in un gesto di collera non l'aveva visto mai come
in lei. O per caso l'aveva vista già così, in alcuno altra parte? Arringò al
gruppo. Io non potevo prestare attenzione a quello che diceva. Mi trovavo
immerso in un ricordo che non aveva forma, ma che si trovava quasi alla mia
portata. Per sostenerlo sembrava che io avessi bisogno dell'impulso continuo
della Grassa. La mia attenzione era fissa nel suono della sua voce, nella sua
ira. In un momento determinato, quando ella attenuava la sua collera gli gridai
che era autoritaria. In realtà quello la disturbò. L'osservai alcuni momenti.
Stava ricordando ad un'altra Grassa, un altro tempo; una Grassa obesa, iraconda
che batteva il mio petto coi suoi pugni. Ricordai che io ridevo vedendola
arrabbiata, e che tentava di placarla come se fosse una bambina. Il ricordo
concluse al momento in cui la Grassa commerciò di parlare. All'opinione, ella
si era resa conto di quello che io facevo.
Mi diressi a tutti e dissi loro che ci trovavamo
in una situazione precaria: qualcosa sconosciuto incombeva su noi.
- Non incombe su noi - disse seccamente la
Grassa -. Lo portiamo già addosso. Ed io credo che voi sanno di che cosa si
tratta.
- Io no, e credo parlare per il resto degli
uomini - gli dissi.
I tre Genaros assentì.
- Noi abbiamo vissuto già in quella casa,
quando stavamo nel lato sinistro - spiegò la Grassa -. Io mi sedevo in
quell'angolo nella parete a piangere, perché non dava con che cosa era quello
che doveva fare. Credo che se mi fossi potuto rimanere oggi un pochino più di
tempo in quella stanza, avesse ricordato tutto. Ma qualcosa mi spinse ad uscire
di lì. Io abituavo sedermi in quella stanza quando c'era lì più gente. Non
potei ricordare i visi, sfortunatamente. Tuttavia, altre cose si rischiararono
quando oggi mi sedetti lì. Non ho forma. Le cose mi vengono, buone o brutte.
Per esempio, tornai ad afferrare della mia antica arroganza ed il mio desiderio
di camminare arrabbiata. Ma tirai fuori anche altre cose, cose buone.
- Io anche - disse Corrida con voce roca.
- Quali sono le cose buone? - gli domandai.
- Credo che stesse male odiarti - disse
Corrida -. Quell'odio mi impedirà di potere volare. Quello mi dissero in quella
stanza gli uomini e le donne.
- Che uomini e che donne? - domandò Néstor
con un tono di paura.
- Io stavo lì quando essi stavano lì,
quello è tutto quello che so - disse Corrida -. Anche tu stavi lì. Tutti noi
stavamo lì.
- Chi erano quegli uomini e quelle donne,
Combatte? - gli domandai.
- Io stavo lì quando essi stavano lì,
quello è tutto quello che so - ripetè.
- E tu, Grassa? - domandai.
- Ti dissi già che non posso ricordare
nessuna dei visi o qualcosa in concreto - disse -. Ma se so una cosa: tutto
quello che abbiamo fatto in quella casa fu nel lato sinistro. Attraversiamo, o
qualcuno ci fece attraversare, le linee parallele. Quelli ricordi strani che
abbiamo sono di quello tempo, di quello mondo.
Senza nessun accordo verbale, abbandoniamo
lo zoccolo all'unisono e c'incamminiamo al ponte. La Grassa e Corrida corsero
davanti a noi. Quando arriviamo al posto troviamo esattamente le due detenute
dove noi l'avevamo fatto prima.
- Silvio Manuel sta nell'oscurità - mi
sussurrò la Grassa, con gli occhi fissi nell'altro lato del ponte.
Combatte tremava. Tentò anche di parlare
con me. Non potei comprendere quello che stava vociando.
Tirai tutti e li ritirai del ponte. Pensai
che chissà se potesse unire quello che sapevamo di quello posto, potremmo
sistemarlo in una forma che c'aiuterebbe a comprendere il nostro dilemma.
Ci sediamo nel suolo, ad alcuni metri del
ponte. C'era molta gente affollandosi intorno, ma nessuno ci prestava
attenzione.
- Chi è Silvio Manuel, Grassa? - domandai.
- Non aveva sentito mai fino ad ora quello
nome - disse -. Non conosco quell'uomo, e tuttavia lo conosco. Mi arriva
qualcosa come ondate quando ascolto il suo nome. Josefina me lo disse quando
stavamo nella casa. Da quello momento, cose hanno incominciato ad arrivarmi
alla mente o la bocca, igualito che a Josefina. Non pensai mai che un giorno io
finirei per essere come Josefina.
- Perché dicesti che Silvio Manuel sta
nell'oscurità? - domandai.
- Non ho idea - disse -, e tuttavia tutti
sappiamo che quella è la verità.
Sollecitai le donne affinché parlassero.
Nessuna emise parola. La presi contro Rosa. Era stato per dire qualcosa tre o
quattro volte. L'accusai di occultarci qualcosa. Il suo cuerpecito si agitò.
- Attraversiamo questo ponte e Silvio
Manuel stava aspettandoci all'altro lato - disse, con una voce appena udibile
-. Io fui l'ultimo. Io sentii le grida degli altri quando egli glieli divorava.
Volli fuggire correndo, ma quello demonio di Silvio Manuel stava nei due lati
del ponte. Non c'era come scappare.
La Grassa, Combatte e Josefina stettero di
accordo. Domandai loro se si trattava solo di una sensazione vaga e generale
che avevano avuto o se era qualcosa di preciso che poteva seguirsi passo a
passo. La Grassa disse che per lei era stato esattamente come Rosa l'aveva
descritto, un ricordo che poteva seguire passo a passo. Le altre due furono di
accordo.
A voce alta mi domandai che cosa era
successo con la gente che viveva intorno al ponte. Se le donne gridarono Rosa
come disse che l'avevano fatto, ` i passanti dovevano li avere sentite; le
grida avevano dovuto causare una commozione. Per un istante immaginai che tutto
il paese aveva collaborato in una congiura. Un brivido mi percorse. Diventai
verso Néstor e bruscamente l'espressi la dimensione totale della mia paura.
Néstor disse che il nagual Juan Matus e
Genaro, in realtà erano guerrieri di risultati supremi e che, come tali, erano
esseri solitari. I suoi contatti con la gente erano di uno in uno. Non c'era
possibilità che tutto il paese, o almeno la gente che viveva attorno al ponte,
stesse coludida con essi. Per. che quello succedesse, disse Néstor, tutta
quella gente avrebbe dovuto essere guerriera, egli quale era praticamente
impossibile.
Josefina si alzò e cominciò a camminare in
circolo ad intorno mio, guardandomi dall'alto in basso dispregiativamente.
- Tu sé che sei un sfacciato - mi disse -.
Facendoti quello che non sa niente, quando tu stesso stesti qui. Tu ci portasti
qui! Tu ci spingesti a quello ponte!
Gli occhi delle donne diventarono
minaccianti. Diventai verso Néstor alla ricerca di aiuto.
- Io non ricordo niente - disse -. Questo
posto mi fa paura, quello è tutto quello che so.
Diventare verso Néstor fu un'eccellente
manovra della mia parte. Le donne l'assalirono.
- Indubbiamente ti ricordi! - cigolò
Josefina -. Tutti noi stavamo qui. Che classe di stupido sei?
La mia investigazione richiedeva un senso
di ordine. Li allontanai dal ponte. Pensai che, essendo persone tanto attive,
risulterebbe loro molto più facile parlare camminando che rimanendo seduti,
come io avrei preferito.
Mentre camminavamo, l'ira delle donne svanì
tanto rapidamente come era sorto. Combatte e Josefina si mostrarono più
loquaci. Affermarono un ed un'altra volta le sue sensazioni che Silvio Manuel
era spaventoso. Tuttavia, nessuna di esse poteva ricordare essere stato ferito
fisicamente; ricordavano solo essere stato paralizzate per il terrore. Rosa non
disse una sola parola, ma con gesti espresse la sua approvazione a tutto quello
che le altre dicevano. Domandai loro se era stato di notte quando tentarono di
attraversare il ponte. Tanta Corrida come Josefina risposero che era stato di
giorno. Rosa si rischiarò la gola e sussurrò che era stato di notte. La Grassa
chiarificò la discrepanza, spiegando che era stato nel crepuscolo della
mattina, o un po' prima.
Arriviamo alla fine di una strada breve ed
automaticamente ci ritorniamo verso il ponte.
- È la semplicità stessa - disse
improvvisamente la Grassa, come se tutto gli fosse stato chiarito -. Stavamo
attraversando, o per meglio dire, Silvio Manuel stava facendoci attraversare le
linee parallele. Quello ponte è un posto di potere, un buco del mondo, una
porta all'altro. Passiamo per quello vuoto. Il passo ci ha dovuti fare male
molto, perché il mio corpo è spaventato. Silvio Manuel c'aspettava nell'altro
lato. Nessuno di noi può ricordare il suo viso, perché Silvio Manuel è
l'oscurità. Non insegnava mai il viso. Potevamo vederlo solo gli occhi.
- Un occhio - disse silenziosamente Rosa, e
guardò verso un'altra parte.
- Tutti quelli che stiamo qui, includendoti
- mi disse la Grassa -, sappiamo che il viso di Silvio Manuel sta
nell'oscurità. Uno nomás poteva sentirlo la voce: soave, come tosse spenta.
La Grassa smise di parlare ed incominciò ad
esaminarmi di una maniera che mi fece sentire autoconsciente. I suoi occhi
avevano un'espressione malevola.
Mi somigliavo che ella si guardasse
qualcosa che sapesse. Gli domandai che cosa era. Ella lo negò, ma ammise che
aveva quantità di sentimenti che non avevano base e che non voleva spiegare. La
pressai e dopo esigei che le donne facessero un sforzo per ricordare quello che
era successo loro nell'altro lato del ponte. Ognuna di esse poteva ricordare
solo avere sentito le grida delle altre.
I tre Genaros rimase fuori della
discussione. Domandai a Néstor se aveva alcuno idea di quello che era successo.
La sua ombrosa risposta fu che tutto quell'oltrepassava la sua comprensione.
Allora presi una decisione rapida. Mi
sembrò che l'unica rotta aperta a noi fosse attraversare il ponte. Li unii a
tutti per ritornare al ponte ed attraversarlo, insieme, come equipaggio. Gli
uomini furono istantaneamente di accordo, ma le donne no. Dopo avere esaurito
tutti i miei ragionamenti, finalmente dovetti spingere e trascinare Corrida,
Rosa e Josefina.
La Grassa si mostrava riluttante ad andare,
ma sembrava essere intrigata per la possibilità. Avanzò con me senza aiutarmi
con le donne, ed i Genaros fecero la stessa cosa; emettevano risatine nervose
davanti ai miei tentativi di raggruppare le sorelline, ma non mossero un dito
per soccorrermi. Camminiamo fino al punto dove prima c'eravamo trattenuti. Lì
sentii improvvisamente un totale mancanza di energia per fermare le tre donne.
Gridai alla Grassa che mi aiutassi. Ella fece un sforzo vago per acchiappare a
Corrida quando il gruppo perse la coesione e tutti essi, salvo la Grassa, si dispersero
precipitatamente, inciampando e sbuffando, fino a diventare a salvo per strada.
La Grassa ed io rimaniamo come se fosse incollati a quello ponte, senza potere
avanzare avanti e dovendo ritirarci malvolentieri.
La Grassa mi bisbigliò nell'udito che non
doveva avere paura nella cosa più minima, perché in realtà io ero chi stava
sperandoli dell'altro lato. Aggiunse che si trovava convinta che io sapevo che
l'aiutante di Silvio Manuel io ero. Ma che non osavo a rivelarsilo a nessuno.
In quello momento, il mio corpo si scosse
con una furia che oltrepassava il mio controllo. Sentii che la Grassa non
doveva fare quelle asseverazioni o avere quelli sentimenti. La presi dei
capelli e le feci dare rovesciate a tirate. Nella cuspide della mia ira mi resi
conto di quello che faceva e mi contenni. Gli chiesi scuse e l'abbracciai. Un
sobrio pensiero arrivò al mio riscatto. Gli dissi che essere leader si stava
rizzando i nervi, la tensione era sempre di più intensa come progredivamo. Ella
non fu di accordo. Si afferrò ostinatamente alla sua asseverazione che Silvio
Manuel ed io eravamo completamente intimi; aggregò che come ella mi ricordò al
mio padrone, io reagii con ira. Era una fortuna che ella sarebbe stata
fiduciosa alla mia attenzione, mi disse; probabilmente l'avrebbe tirata
altrimenti al fiume.
Ritorniamo. Gli altri si trovavano a salvo,
oltre il ponte, osservandoci con inequivocabile paura. Una condizione molto
peculiare di assenza di tempo sembrava prevalere. Non c'era intorno gente.
Eravamo dovuti stare nel ponte almeno cinque minuti e né una sola persona si
mosse per di lì come succederebbe in qualunque via durante le ore lavorative.
Senza dire parola camminiamo di giro allo
zoccolo. Ci trovavamo pericolosamente deboli. Io avevo un vago desiderio di
rimanere un po' più nel paese, ma saliamo all'atto ed avanziamo verso il Fusto,
verso la costa dell'Atlantico. Néstor ed io c'alterniamo per maneggiare,
fermandoci solamente a mangiare, fino a che arriviamo da Veracruz. Quella città
era terrena naturale per noi. Io ero stato solo lì un volta, ed essi né un
solo. La Grassa credeva che una città sconosciuta come quell'era il posto
adeguato per spogliarci dei nostri vecchi incarti. Ci registriamo in un hotel e
di lì essi procederono a strappare i suoi vecchi vestiti fino a trasformarli in
brandelli. L'eccitazione di stare in una nuova città fece meraviglie per la sua
morale ed il suo sentimento di benessere.
La nostra seguente fermata fu il Città del
Messico. Rimaniamo in un hotel vicino al Pioppeto, dove Don Juan ed io
c'eravamo sistemati una volta. Per due giorni fummo perfetti turisti. Andammo a
fare spese e visitiamo la maggiore quantità possibile di posti turistici. La
Grassa e semplicemente le sorelline si vedevano abbaglianti. Benigno comprò una
camera in una casa di impegno. Sparò quattrocento venticinque prese con la
camera senza rotolo. In un posto, mentre ammiravamo gli stupendi mosaici delle
pareti, un poliziotto mi domandò di dove erano quelle splendenti straniere.
Suppose che io ero un guida di turisti. Gli dissi che erano di Sri Lanka. Me lo
credette e si meravigliò perché quasi sembravano messicane.
Al giorno dopo, alle dieci della mattina,
ci trovavamo nell'ufficio di aviazione verso la quale una volta Don Juan mi
aveva spinto. Quando mi diede lo spintone io entrai per una porta ed uscii per
un'altra, ma non alla strada, come doveva, bensì ad un mercato che si trovava
oltre ad un chilometro di lì, dove presenziai alle attività della gente.
La Grassa osservò che l'ufficio di
aviazione era anche, come il ponte, un posto di potere, una porta per
attraversare di una linea parallela all'altra. Disse che evidentemente il
nagual mi aveva spinto per quell'apertura, ma io rimasi acchiappato alla metà
della strada tra i due mondi, e così aveva osservato l'attività del mercato
senza fare parte di lei. Disse che il nagual, naturalmente, aveva tentato di
spingermi fino all'altro lato, ma la mia ostinazione l'ostacolò e finii nella
stessa linea di dove veniva: in questo mondo.
Camminiamo dell'ufficio di aviazione fino al
mercato, e di lì al Pioppeto, dove Don Juan ed io c'eravamo seduti dopo
l'esperienza dell'ufficio. Era stato molte volte con lui in quello parco.
Sentii che era il posto più appropriato per parlare del corso delle nostre
azioni future.
La mia intenzione era ricapitolare tutto
quello che avevamo fatto per lasciare che il potere di quello posto decidesse
quale il nostro passo seguente doveva essere. Dopo il nostro deliberato
tentativo di attraversare il ponte, io avevo trattato, senza successo, di
trovare una maniera di riferirmi coi miei compagni come gruppo. Ci sediamo in
alcuni scalini di pietra ed incominciai con l'idea che, per me, la conoscenza
si trovava fusa con le parole. Dissi loro che io credevo molto seriamente che
se un evento o esperienza non si formulava in un concetto, era condannato a
dissolversi; pertanto, chiesi loro che esponessero le sue considerazioni
individuali della nostra situazione.
Pablito fu il primo a parlare. Pensai che
quell'era strano, dato che era stato straordinariamente silenzioso fino a
quello momento. Si scusò perché quello che andava a dire non era qualcosa che
avesse ricordato o senso, bensì una conclusione che si basava su tutto quello
che sapeva. Disse che non aveva problema in comprendere quello che le donne
contarono che era successo nel ponte. Sostenne Pablito che erano stati
obbligati ad attraversare del lato destro, il tonale, al lato sinistro, il
nagual. Quello che aveva spaventato tutti era il fatto che qualcuno più stava
in controllo, forzando l'incrocio. Neanche aveva problema in accettare che io
fui quello che allora aiutò a Silvio Manuel. Appoggiò la sua conclusione con
l'asseverazione che solo giorni prima egli mi ero visto fare la stessa cosa:
spingere tutti verso il ponte. Ma questa volta non ebbi nessuno che mi aiutassi
dall'altro lato, non stava lì Silvio Manuel per tirarsili.
Tentai di cambiare il tema e procedei a
spiegar loro che dimenticare come noi avevamo dimenticato, lo è chiamato
amnesia. La cosa poco che sapeva circa l'amnesia non era sufficiente per
rischiarare il nostro caso, ma sì bastò per diventare credere che non potevamo
dimenticare come se fosse per decreto. Dissi loro che qualcuno, possibilmente
Don Juan, dovette fare qualcosa di insondabile con noi. Ed io volevo verificare
esattamente che era stato.
Pablito insistè in che era importante per
me comprendere che io ero chi era stato confabulato con Silvio Manuel. Insinuò
dopo che Josefina e gli Combatte avevano parlato a fondo del ruolo che io avevo
svolto forzandoli ad attraversare le linee parallele.
Non mi sentii bene discutendo quello tema.
Commentai che non aveva sentito mai parlare delle linee parallele fino al
giorno in cui parlai con signora Soledad; e, tuttavia, non aveva avuto scrupoli
in adottare immediatamente l'idea. Dissi loro che io compresi subito a quello
che ella si riferiva. Perfino rimasi convinto che io stesso aveva attraversato
le linee quando credei stare ricordandola. Ognuno degli altri, ad eccezione
della Grassa, assicurò che la prima volta che aveva sentito menzionare le linee
parallele fu quando io parlai di esse. La Grassa disse che seppe di esse di
mezzo di signora Soledad, poco prima che io lo facessi.
Pablito di nuovo cercò di parlare della mia
relazione con Silvio Manuel. L'interruppi. Dissi che quando tutti noi ci
trovavamo nel ponte tentando di attraversarlo, non potei riconoscere che io - e
possibilmente tutti essi - era entrato in un stato di realtà no-ordinaria. Mi
resi solo conto del cambiamento quando notai che non c'era un'altra gente nel
ponte. Noi eravamo gli unici che eravamo stati lì. Era un giorno sereno, ma di
subitaneo i cieli si rannuvolarono e la luce della mattina si convertì in
crepuscolare. Io fui tanto occupato con le mie paure e con le mie
interpretazioni personali in quello momento che non riuscii notare quello
cambiamento tanto spaventoso. Quando ci ritiriamo del ponte percepii che di
nuovo la gente circolava per di lì. Ma che cosa era successo con essi quando
noi tentavamo l'incrocio?
La Grassa ed il resto di essi non avevano
notato niente: in realtà non si erano resi conto di nessun cambiamento fino al
momento esatto in che io li descrissi. Tutti mi furono rimasto vedendo con un
miscuglio di irritazione e paura. Pablito di nuovo prese l'iniziativa e mi
accusò di tentare di deviarli verso qualcosa che essi non volevano. Non fu
specifico, ma la sua eloquenza bastò affinché tutti l'appoggiassero.
Improvvisamente, un'orda di stregoni iracondi mi fu venuto sopra. Mi prese un
lungo momento calmarli. Spiegai loro la mia necessità di esaminare, da tutti i
punti di vista possibili, qualcosa di tanto strano ed abarcante fu come la
nostra esperienza nel ponte. Finalmente si attutirono, ma non perché li
convincesse coi miei raziocini bensì a causa della fatica emozionale. Tutti
essi, includendo la Grassa, avevano appoggiato veementemente la posizione di
Pablito.
Néstor introdusse un altro treno di
pensiero. Suggerì che possibilmente io ero un inviato involontario che non mi
rendevo pieno conto della portata delle mie azioni. Aggiunse che semplicemente
non poteva credere, come quegli altro che io ero cosciente che mi ero lasciato
il compito di malencaminarlos. Sentiva che in realtà io non mi rendevo conto
che stava portandoli alla distruzione, e quell'era tuttavia esattamente quello
che io facevo. Néstor credeva che ci fossero due maniere di attraversare le
linee parallele: per mezzo del potere di altro o attraverso nostro proprio
potere. La sua conclusione finale era che Silvio Manuel aveva fatto loro
attraversare spaventandoli tanto intensamente che neanche alcuni di essi
ricordavano c'essere la cosa fatta. Il compito che li fu designati e che
dovevano compiere consisteva in attraversare mediante suo proprio potere; e la
mia era ostacolarlo.
Benigno parlò allora. Disse che, nella sua
opinione, la cosa ultima che Don Juan aveva fatto con gli apprendisti uomini fu
aiutarli ad attraversare le linee parallele facendoloro saltare verso un
abisso. Benigno credeva che in realtà avessimo già abbastanza conoscenze circa
come attraversare, ma che non era ancora il tempo dato per riuscirlo di nuovo.
Nel ponte nessuno potè cedere un passo più perché il momento non era
appropriato. Erano nella cosa corretta, pertanto, credendo che io avevo tentato
di distruggerli forzandoli ad attraversare. Pensava che passare le linee parallele
con piena coscienza significava per tutti essi un passo finale, un passo che
dovrebbe darsi solo quando fosse già pronti a sparire da questa terra.
Mi combatte affrontò dopo. Non fece nessuna
asseverazione ma mi sfidò a che ricordasse come primo la persuasi per andare al
ponte. Aggressivamente affermò che cosa io non ero apprendista del nagual Don
Juan destino di Silvio Manuel, e che Silvio Manuel ed io c'avevamo divorati
l'un l'altro.
Ebbi un altro attacco di rabbia, come con
la Grassa nel ponte. Mi contenni in tempo. Un pensiero logico mi tranquillizzò.
Mi dissi, una volta che la cosa unica che mi interessavano erano le analisi.
Spiegai a Corrida che era inutile
provocarmi di quella maniera. Ma ella non volle trattenersi. Gridò che Silvio
Manuel era il mio padrone e che per quella ragione io non ero parte di essi
nella cosa più minima. Rosa aggiunse che Silvio Manuel mi diede tutto quello
che io ero.
Dissi a Rosa che ella non sapeva neanche
come parlare che dovette dire che Silvio Manuel si era dato tutto quello che io
avevo. Ella difese la sua asseverazione, Silvio Manuel mi ero dato quello che
io ero. Anche la Grassa l'appoggiò e disse che si ricordava d'un colpo in che
io mi ero ammalato di tale maniera che non aveva oramai più risorse; fu allora quando
Silvio Manuel prese controllo e mi influenzò nuova vita. La Grassa disse che
era molto meglio per me conoscere le mie vere origini che seguire come aveva
fatto fino a quello momento, con l'idea che il nagual Juan Matus era chi mi ero
aiutato. Insistè in che io avevo l'attenzione fissa nel nagual perché la sua
predilezione erano le parole. Silvio Manuel, d'altra parte, era l'oscurità
silenziosa. Spiegò che per seguirlo doveva attraversare le linee parallele, ma
per seguire al nagual Juan Matus tutto quello che io necessitavo fare era
parlare di lui.
Tutto quella che dicevano era solo
insensatezza per me. Stava per rispondere con quello che considerai un'idea
brillante, quando il mio treno - di pensiero si deragliò letteralmente. Non
poteva pensare oramai in quale il mio ragionamento era, malgrado prima un
secondo fosse solo la chiarezza stessa. Invece, un ricordo sommamente curioso
mi molestò. Non era la sensazione vaga di qualcosa, bensì il ricordo duro e
reale di un evento. Ricordai che cosa una volta mi trovavo con Don Juan e con
un altro uomo il cui viso non poteva precisare. I tre parlavamo di qualcosa che
io percepivo come un tratto del mondo. A tre o quattro metri alla mia destra si
trovava un'incommensurabile banca di nebbia gialla che, fino a dove io potevo
stabilire, divideva al mondo in due. Andava del suolo al cielo, all'infinito.
Parlando coi due uomini, la metà del mondo della mia sinistra si trovava
intatta, e la metà alla mia destra era velata per la nebbia. Mi resi conto che
l'asse della banca di nebbia andava dell'Oriente all'Occidente. Verso il Nord
si trovava il mondo che io conoscevo. Ricordai che domandai a Don Juan che cosa
succedeva nel mondo al sud di quella linea. Don Juan fece che diventassi alcuni
gradi verso la mia destra, e vidi che anche la parete di nebbia scivolava
quando io muovevo la testa. Il mondo si trovava diviso in due in un livello che
il mio intelletto non poteva comprendere. La divisione sembrava reale, ma il
limitrofo non poteva esistere in un piano fisico; in qualche modo doveva
trovarsi in me stesso.
C'era un altro aspetto più di questo
ricordo. L'altro uomo disse che era una gran impresa dividere il mondo in due,
ma era anche un maggiore risultato quando un guerriero aveva la serenità ed il
controllo di fermare la rotazione della parete. Disse che la parete non si
trovava dentro noi; stava, per certo, nel mondo di fuori, dividendolo in due e
ruotando quando muovevamo la testa, come se si trovasse incollata alla nostra
tempia destra. La gran impresa di mantenere la parete immobile permetteva al
guerriero di affrontarla e gli conferiva il potere di passare attraverso lei
ogni volta che così lo desiderasse.
Quando contai gli apprendisti quello che
aveva appena ricordato, le donne rimasero convinte che l'altro uomo era Silvio
Manuel. Josefina, come esperta della parete di nebbia, spiegò che il vantaggio
che Scelse aveva sugli altri consisteva nella sua capacità di immobilizzare la
parete per così potere attraversarla a volontà. Josefina aggiunse che è più
facile oltrepassarla in sogni, perché allora questa non si muove.
La Grassa sembrava chissà essere stato
colpita per una serie di risorse dolorosi. Tutta ella si scuoteva
involontariamente fino a che esplose in parole. Disse che non gli era oramai
possibile negare il fatto che io ero l'aiutante di Silvio Manuel. Il nagual
stesso l'aveva notato che io le farei la mia schiava se ella non era diligente.
Perfino Soledad gli consigliò che mi vigilasse perché il mio spirito prendeva
prigionieri e li manteneva come servi, egli quale era qualcosa che Silvio
Manuel poteva fare solo. Egli mi ero fatto il suo schiavo ed io alla mia volta
schiavizzerebbe a chiunque che fosse prossimo a me. Affermò che ella aveva
vissuto abbasso il mio incantesimo fino al momento in cui si sedette in quella
stanza nella casa di Silvio Manuel, quando improvvisamente qualcosa lo fu tolto
delle sue spalle.
Mi misi in piede. C'era un vuoto nel mio
stomaco e letteralmente mi dondolai sotto l'impatto di quello che disse la
Grassa. Era stato pienamente convinto che poteva contare sul suo aiuto abbasso
qualunque circostanza. Mi sentii tradito. Pensai che sarebbe perfettamente
appropriato fargli conoscere i miei sentimenti, ma un senso di sobrietà arrivò
al mio riscatto, invece di quello, dissi loro che io ero giunto alla
conclusione imparziale che, come guerriero, Don Juan aveva cambiato il corso la
mia vita, per bene. Io avevo soppesato un ed un'altra volta quello che egli
aveva fatto con me e la conclusione fu sempre la stessa: Don Juan mi portò la
libertà. La libertà era tutto quella che io conoscevo, e quell'era tutto quello
che io offrivo a chi fosse quello che Lei mi avvicinasse.
Néstor ebbe un gesto di solidarietà con me.
Esortò le donne a che abbandonasse la sua animosità. Mi guardò col gesto di
qualcuno che non può comprendere ma che vuole farlo. Disse che io non facevo
parte di essi che in realtà io ero un uccello solitario. Essi avevano avuto
bisogno di me per un momento per rompere i suoi limitrofo di affetto e di
routine. Ora che erano liberi, non avevano più barriere. Rimanere con me
sarebbe indubbiamente gradevole, ma un rischiò mortale per essi.
Sembrava trovarsi profondamente commosso.
Venne al mio fianco e mise la sua mano sulla mia spalla. Disse che aveva la
sensazione che mai più torneremmo già a vederci sulla faccia di questa terra.
Dispiaceva che ci separi come gente meschina: riñendo, lamentandoci,
accusandoci. Mi disse che parlando a nome degli altri, ma non nel suo proprio,
andavo a chiedere che andassi via, dato che non c'erano oramai più possibilità
di continuare insieme. Aggiunse che aveva cambiato opinione, in un principio
aveva riso della Grassa quando ella ci suggerì che formasse un serpente. Non
credeva oramai che l'idea fosse ridicola. Era stato la nostra ultima
opportunità di trionfare come gruppo.
Don Juan mi ero abituato ad accettare
umilmente la mia fortuna.
- Il destino di un guerriero è inalterabile
- una volta mi ero detto -: La sfida consiste lontano in quanto può uno
arrivare dentro quelli rigidi confini e che tanto impeccabile può un essere.
Se ci sono ostacoli nella sua strada, il
guerriero tenta, impeccabilmente, superarli. Se trova dolore e privazioni
insopportabili nel suo sentiero, il guerriero piange, sapendo che tutte le sue
lacrime sistemate giunte non cambierebbero un millimetro la linea il suo
destino.
La mia decisione originale di lasciare che
il potere segnalasse il nostro passo seguente era stata corretta. Mi misi in
piede. Gli altri mi girarono la schiena. La Grassa andò al mio fianco e mi
disse, come se niente fosse sarebbe successo, che io dovevo lasciarli lì e che
ella mi cercherei ed a me si unirebbe dopo. Volli replicare che io non vedevo
nessuna ragione affinché si riunisse con me. Lei stessa aveva scelto unirsi
agli altri. La Grassa sembrò leggere in me il sentimento che io avevo di essere
stato tradito. Calmadamente mi assicurò che come guerrieri ella ed io dovevamo
compiere insieme il nostro destino, nonostante essere tanto meschini.
SECONDA PARTE: L'ARTE DI TRASOGNARE
VIDI. Perdere la forma umana
Alcuni mesi dopo, dopo aiutare tutti a
ricollocarsi in differenti parti del Messico, la Grassa stabilì la sua
residenza in Arizona. Incominciamo allora a sviscerare la parte più misteriosa
e più profonda del nostro apprendistato. In un nostra principio relazione fu
piuttosto tesa. Mi risultava molto difficile oltrepassare i miei sentimenti
sulla maniera avevamo salutato come nel Pioppeto. Benché la Grassa sapesse dove
gli altri stavano stabiliti, non mi disse mai niente. Ella comprendeva che era
superfluo per me essere informato delle attività di essi.
Nella superficie tutto sembrava andare bene
tra la Grassa ed io. Nonostante, io mantenevo un amaro risentimento perché si
era unito agli altri in contro mia. Non l'espressi mai, ma lì stava. L'aiutai e
feci tutto quello che potei per lei come se niente fosse sarebbe successo, ma
quello si trovava sotto la sigla dell'impeccabilità. Era il mio dovere, e, per
compierlo, allegramente sarebbe andato verso la morte. Con ogni proposito mi
concentrai su guidarla ed allenarla nelle complessità della moderna vita
urbana; perfino stava imparando inglese. I suoi progressi erano fenomenali.
Tre mesi trascorsero senza che quasi ci
rendessimo conto. Ma un giorno, quando mi trovavo in Los Angeles, svegliai
molto presto nella mattina con un'intollerabile pressione nella mia testa. Non
era un mal di testa; piuttosto si commerciava di un peso molto intenso negli
uditi. Lo sentii anche nelle palpebre e nel palato. Mi trovavo febbrile, ma il
caldo abitava solo nella mia testa. Feci un debole tentativo per sedermi. Per
la mia mente passò l'idea che era vittima di un spargimento cerebrale. La mia
prima reazione fu chiedere aiuto, ma in qualche modo riuscii a rasserenarmi e
tentai di soggiogare la mia paura. Dopo un momento la pressione della mia testa
incominciò a diminuire, ma incominciò anche a scivolare verso la gola.
Boccheggiai alla ricerca di aria, tossicchiando e tossendo per un tempo; la
pressione discese dopo lentamente verso il mio petto, al mio stomaco,
all'inguine, alle gambe, e fino ai piedi, per dove finalmente abbandonò il mio
corpo.
Quello che avevo pensato, fosse quello che
fosse, si fu da due ore in spiegarsi. Durante quelle due spossanti ore era come
se qualcosa che si trovava dentro il mio corpo in realtà si muovesse verso il
basso, uscendo da me. Immaginai un tappeto che si entusiasma. Un'altra immagine
che mi fu successo fu quella di una bolla che si muoveva dentro la cavità del
mio corpo. Prescissi da quell'immagine in favore della primo, perché il
sentimento era di qualcosa che si entusiasmava. Come un tappeto che è
arrotolata, la pressione diventava sempre di più importuna, sempre di più
dolorosa, come discendeva. Le due aree nelle quali il dolore fu acuto erano le
ginocchia ed i piedi, specialmente il piede destro che seguì caldo mezz'ora
dopo che tutto il dolore e la pressione erano sparite.
La Grassa, quando aveva sentito il mio
scrutinio, disse che questa volta, con ogni sicurezza, aveva perso la mia forma
umana, che mi ero disfato di tutte le mie salvaguardie, o la maggioranza di
essi. Aveva ragione. Senza sapere come, e perfino senza darmi conta di come
successe, mi trovai in un stato spirituale sommamente sconosciuto. Risentivo
disaffezionato di tutto, senza pregiudizi. Non mi importava più quello che la
Grassa si era fatta. Non era questione che io avessi perdonato la sua condotta
riprovevole. Era come se ci non fosse stato mai tradimento alcuna. Non c'era
rancore aperto o coperto in me, verso la Grassa o verso chiunque. Quella che
sentiva non era un'indifferenza volontaria, o negligenza; neanche si trattava
di un'alienazione o del desiderio della solitudine. Piuttosto era un strano
sentimento di lontananza, una capacità di sommergermi nel momento attuale senza
avere pensiero alcuno. Le azioni della gente non mi colpivano oramai, perché io
non avevo nessuna aspettativa. La forza che governava la mia vita era una
strana pace. Sentii che in qualche modo aveva adottato uno dei concetti della
vita del guerriero: il disinteresse. La Grassa mi assicurò che io avevo fatto qualcosa
più che adottarlo: in realtà l'aveva incarnato.
Don Juan ed io avemmo lunghe discussioni
circa la possibilità che qualche giorno pensassi esattamente quello. Sempre il
mi calcò che il disinteresse non significava saggezza automatica, ma che, nonostante,
era un vantaggio poiché permetteva al guerriero di trattenersi momentaneamente
per riconsiderare le situazioni per tornare a soppesare le possibilità.
Tuttavia, per potere usare consistente e correttamente quello momento extra,
Don Juan disse che il guerriero doveva lottare insobornablemente durante tutta
una vita.
Io mi ero disperato credendo che non
arriverebbe mai a sperimentare quello sentimento. Fino a dove io potevo
determinare, non c'era come improvvisarlo. Per me era stato inutile pensare ai suoi
benefici, o razionalizzare le possibilità della sua venuta. Durante gli anni in
cui conobbi Don Juan sperimentai per certo una diminuzione uniforme dei miei
lacci personali col mondo; ma questo successe in un piano intellettuale; nella
mia vita di tutti i giorni seguii senza cambiare fino al momento in cui persi
la forma umana.
Osservai con la Grassa che il concetto di
perdere la forma umana si riferiva ad una reazione corporale che l'apprendista
ha quando raggiunge un certo livello nel corso del suo allenamento. Sia come
fosse, stranamente, il risultato finale di perdere la forma umana, per la
Grassa e per me, consistè non solo in arrivare a cercata l'e desiderata
condizione di disinteresse, ma anche l'esecuzione completa del nostro elusivo
compito di ricordare. E, nuovamente in questo caso, l'intelletto svolse una
parte minima.
Una notte, la Grassa ed io discutevamo un
film. Era andato da un cinema pornografico e me era ansioso per sentire la sua
descrizione. Non gli piacque niente il film. Sostenne che si trattava di
un'esperienza debilitante, perché essere un guerriero implicava portare
un'austera vita di celibato totale, come il nagual Juan Matus.
Gli dissi che era completamente sicuro che
a Don Juan gli piacevano le donne e che non era celibe, e che quello mi
somigliavo affascinante.
- Sei pazzo! - esclamò con un campanello di
divertimento nella sua voce -. Il nagual era un guerriero perfetto. Non era
stretto in nessuna rete di sensualità.
Voleva sapere perché io pensavo che Don
Juan non era celibe. Lo riferii un incidente che ebbe all'inizio luogo in
Arizona del mio apprendistato. Un giorno mi trovavo riposandosi in casa da Don
Juan, dopo una camminata spossante. Don Juan sembrava trovarsi stranamente
nervoso. Ad ogni momento si metteva in piede per guardare per la porta.
Sembrava aspettare qualcuno. All'improvviso, abbastanza bruscamente, mi disse
che un atto era appena arrivato all'ansa della strada e che si dirigeva alla
casa. Disse che si trattava di una ragazza, un sua amica, che gli portava alcune
ripari. Io non avevo visto mai Don Juan tanto penoso. Mi diede un'immensa
tristezza vedere la cosa indisposta al punto che non sapeva che cosa fare.
Pensai che chissà non voleva che io conoscessi la ragazza. Gli suggerii che io
potevo nascondermi, ma non c'era dove occultarmi nella stanza, e così egli mi
fece coricare nel suolo e mi coprì con una stuoia. Sentii il suono del motore
di un atto che era spento e dopo, per le fenditure della stuoia, vidi una
ragazza ferma vicino alla porta. Era alta, magra, e molto giovane. Pensai che
era bella. Don Juan gli diceva qualcosa con voce bassa ed intima. Poi si fece
il giro e mi segnalò.
- Carlos è nascosto sotto la stuoia - disse
alla ragazza con voce chiara e forte -. Salutalo.
La ragazza mi agitò la mano e mi salutò col
sorriso più amichevole del mondo. Mi sentii stupido e disturbo perché Don Juan
mi impiegavo in quella situazione tanto vergognosa. Mi sembrò terribilmente
ovvio che Don Juan trattava di alleviare il suo nervosismo, o peggiore ancora
che si stava distinguendo di fronte a me.
Quando la ragazza andò via, irritato chiesi
una spiegazione a Don Juan. Il, candidamente, ammise che aveva perso il
controllo perché i miei piedi stavano all'aperto e non seppe che cosa un'altra
cosa fare. Quando ascoltai questo, tutta la manovra mi fu ritornato chiara; Don
Juan stava presumendomi con la sua amichetta. Era impossibile che io avessi
avuto scoperti i piedi perché questi si trovavano compressi basso le mie cosce.
Risi con aria di conoscitore, e Don Juan si sentì obbligato a spiegare che gli
piacevano le donne: quella ragazza specialmente.
Non dimenticai mai quell'incidente. Don
Juan non lo discusse mai. Ogni volta che io gli tiravo in ballo, egli mi
impegnavo a tacere. Mi domandai sempre, di una maniera quasi ossessiva, chi
quella ragazza sarebbe. Aveva speranze che qualche giorno questa potesse
cercarmi dopo avere letto i miei libri.
La Grassa diventò molto agitata. Camminava
di un lato all'altro della stanza mentre io parlavo. Stava per piangere.
Immaginai ogni tipo di intricate relazioni che potessero essere pertinenti.
Pensai che la Grassa era possessiva e reagiva come una donna che è minacciata
da un'altra donna.
- Sei gelosa, Grassa? - gli domandai.
- Non essere idiota - disse, irritata -.
Sono una guerriera senza fodera. La gelosia o l'invidia non esistono oramai in
me.
Gli domandai allora qualcosa che mi avevano
detto i Genaros: che la Grassa era la donna del nagual. Suo, voce scese tanto
che appena poteva sentirla.
- Io credo che sì - disse, e con un sguardo
vago prese posto nel letto -. Ho la sensazione che l'era. Ma non so come egli
era potuto essere. In questa vita, il nagual Juan Matus era per me quello che
era per te. Non era un uomo. Era il nagual. Non aveva interesse nel sesso.
Gli assicurai avere ascoltato a Don Juan
esprimere il suo affetto per quella ragazza.
- Disse che aveva relazioni sessuali con
lei? - domandò la Grassa.
- No, mai, ma quell'era ovvio per la
maniera come parlava - gli dissi.
- A te ti piacerebbe che il nagual fosse
come te, verità? - affermò, con una smorfia -. Il nagual era un guerriero
impeccabile.
Io credevo avere la ragione e non doveva
riesaminare la mia opinione. Solo per dargli per il suo lato alla Grassa dissi
che possibilmente la ragazza era un apprendista di Don Juan e non il suo
amante.
Ci fu una lunga pausa. Quello che io stesso
dissi ebbe un effetto perturbatore in me. Fino a quello momento non aveva
pensato mai a quella possibilità. Mi ero rinchiuso in un pregiudizio, senza
permettermi la possibilità di rivederlo.
La Grassa mi chiese che descrivesse a
quella giovane. Non potei farlo. In realtà non avevo fatto attenzione ai suoi
tratti. Era stato tanto fastidioso, tanto imbarazzato che non potei esaminarla
in dettaglio. Sembrò che anche ella fosse colpita per la cosa anomala della
situazione ed uscì affrettatamente della casa.
La Grassa disse che, senza nessuna ragione
logica, credeva che quella giovane era una figura chiave nella vita del nagual.
La sua asseverazione ci portò a parlare degli amici di Don Juan che conoscevamo.
Per ore lottiamo per recuperare tutta l'informazione che avevamo delle sue
relazioni. Gli contai le distinte volte che Don Juan si era portato a
partecipare a cerimonie di peyote. Descrissi a tutti quelli che avevano. Non
riconobbe a nessuno di essi. Mi resi conto che possibilmente io conoscevo più
gente associata con Don Juan che lei. Ma qualcosa nel mio racconto slacciò in
lei il ricordo che una volta aveva visto ad una giovane portare al nagual e
Genaro in un piccolo atto bianco. La ragazza lasciò ai due alla porta della
casa e fissò la Grassa con un sguardo penetrante prima di andare via. La Grassa
pensò che quella giovane era qualcuna che aveva raccolto al nagual e Genaro
nella strada. Ricordai allora che quello giorno in casa di Don Juan, anche io potei
vedere un piccolo Volkswagen bianco che si allontanava.
Menzionai un altro incidente che aveva a
che vedere con uno degli amici di Don Juan, un uomo che una volta mi diede
alcune piante di peyote nel mercato di una città del nord del Messico. Anche il
mi ero ossessionato per anni. Si chiamava Vicente. Ascoltando il nome, la
Grassa reagì come se gli avessero toccato un nervo. La sua voce diventò
chillante. Mi chiese che gli ripetesse il nome e che descrivesse all'individuo.
Di nuovo, non potei offrire nessuna descrizione. L'aveva visto solo una volta
per alcuni minuti, faceva più di dieci anni.
La Grassa ed io passiamo un periodo nel che
quasi stavamo arrabbiati, non l'uno con l'altro, bensì con quello che c'aveva
imprigionati.
L'incidente finale che precipitò lo
spiegamento dei nostri ricordi arrivò un giorno in che io avevo un raffreddore
ed una febbre molto alta. Ero rimasto in letto, sonnecchiando
intermittentemente, mentre i pensieri vagabondavano senza rotta per la mia
mente. Tutto il giorno era stato, nella mia testa la melodia di una vecchia
canzone messicana. In un momento mi scoprii sognando che qualcuno la toccava in
una chitarra. Mi lamentai della monotonia e la persona davanti alla quale io
protestavo, fosse chi fosse, mi diede con la chitarra nello stomaco. Saltai
all'indietro, per evitare il colpo, e mi attaccai nella testa contro la parete.
Svegliai. Non era stato un sonno molto vivido, solo la melodia era stata
hechizante. Non poteva disperdere il suono della chitarra: continuava percorrendo
la mia mente. Rimasi mezzo sveglio, ascoltando la canzonetta. Sembrava come se
stesse entrando in un stato di trasognare: una scena completa e dettagliata di
sogno apparve davanti ai miei occhi. Nella scena c'era una giovane seduta
vicino a me. Poteva distinguere ognuno dei tratti delle sue fazioni. Non sapeva
chi era, ma vederla mi commosse. Svegliai in questione di secondi. L'ansietà
che quello viso creava in me era tanto intensa che mi misi in piede e di una
maniera assolutamente automatica incominciai a camminare di un lato all'altro.
Mi trovavo profondamente perspirando ed aveva paura di uscire dalla stanza.
Neanche poteva contare sull'aiuto della Grassa. Ella era andata di giro in
Messico per vedere Josefina. Legai un lenzuolo intorno alla mia vita per
sottomettere la mia parte mezza. Quello mi aiutò ad attenuare le onde di
energia nervosa che scuotevano tutto il mio corpo.
Mentre andava di un lato all'altro,
l'immagine che aveva nella mente cominciò a dissolversi, ma non in una
dimenticanza tranquilla, come mi sarebbe piaciuto, bensì in un ricordo completo
ed intricato. Ricordai che una volta si trovava seduta in alcuni sacchi di
grano od orzo immagazzinati in un granaio. La giovane cantava la vecchia
canzone che aveva invaso la mia mente, e suonava una chitarra. Quando io mi
presi gioco della sua maniera dia toccare, ella mi battè lievemente nelle
costole col sedile della chitarra. C'era lì più gente seduta con me, stava la
Grassa e due uomini. Io conoscevo molto bene quegli uomini, ma non poteva ricordare
ancora chi la giovane era. Lo tentai, ma mi sembrò impossibile.
Mi appoggiai nuovamente, inzuppato in
sudore freddo. Voleva riposare alcuni momenti prima di togliermi la piyama
bagnata. Quando appoggiai la mia testa su un cuscino la mia memoria sembrò
rischiararsi ancora più ed allora seppi chi suonava la chitarra. Era la donna
nagual, l'essere più importante sulla faccia della terra per la Grassa e per
me. Si trattava dell'analogo femminile del nagual; non era né sua moglie né sua
moglie, bensì la sua controparte. Aveva la serenità e l'autorità di un vero
capo. Ed essendo donna, ci nutriva.
Non osai pressare eccessivamente alla mia
memoria. Intuitivamente sapeva che non aveva la forza per resistere la totalità
del ricordo. Mi trattenni in un livello di sentimenti astratti. Seppi che ella
era l'incarnazione dell'affetto più puro, più disinteressato e profondo:
Sarebbe giusto dire che la Grassa ed io amavamo alla donna nagual più che alla
vita stessa. Che demoni c'era potuti succedere per dimenticarla?
Quella notte, mentre giaceva in letto,
arrivai ad agitarmi tanto che temei per la mia propria vita. Incominciai a
canticchiare alcuni parole che si trasformarono in una guida per me. E solo
dopo mi avere calmato potei ricordare che le parole che stava ripetendo un ed
un'altra volta erano anche, un ricordo che quella notte mi era arrivato; il
ricordo di una formula, un incantesimo per diventare sorteggiare mulinelli,
come quello che finiva di reexperimentar.
Mi diedi già al potere che al mio destino
dirige.
Non mi afferra già di niente, per così non
avere niente da difendere.
Non ho pensieri, per così potere vedere.
Non temo già a niente, per così potere
accordarmi di me.
La formula aveva più due versi che mi
risultarono incomprensibili in quello momento:
Metronotte e staccato
mi lascerà l'aquila passare alla libertà.
Il trovare mi ammalo e febbrile bene mi
aveva potuto servire come una specie di ammortizzatore; era potuto essere
sufficiente per deviare l'impatto di quello che io avevo fatto, o piuttosto, di
quello che mi era accaduto, dato che intenzionalmente io non avevo fatto
niente.
Fino a quella notte, di c'essere vagliato
il mio inventario dia esperienze, io avrei potuto dare fede della continuità
della mia esistenza. I ricordi nebulosi che aveva della Grassa, o il
presentimento di avere vissuto in quella casa, in una certa maniera
costituivano minacce alla mia continuità, ma tutto quello non era niente
comparato con l'azione di avere ricordato alla donna nagual. Non tanto a causa
dell'emozione che quello ricordo portò con sé, bensì per il fatto dell'avere
dimenticata, e non della maniera come uno dimentica un nome o una canzonetta.
Di lei non c'era stato niente nella mia mente fino al momento della
rivelazione. Niente! In quello momento qualcosa me arrivò, o qualcosa si staccò
da me, e di subitaneo io stavo ricordando ad un'importante persona che, dal mio
punto di vista cosciente ed experiencial, io non avevo conosciuto mai.
Dovetti aspettare due giorni fino a che
arrivasse la Grassa per potere contargli il mio ricordo. All'istante in che
descrissi alla donna nagual, la Grassa la ricordò: in qualche modo il suo
essere cosciente dipendeva dal mio.
- Quella ragazza che vidi nella carrozzina
bianca ero la donna nagual! - esclamò la Grassa -. Ella noi ritornò io e non
potei ricordarla.
Ascoltai le sue parole e compresi il suo
significato, ma alla mia mente gli portò un lungo momento potere concentrarsi
su quello che aveva detto. La mia attenzione titubava, era come se in realtà si
fosse collocato di fronte ai miei occhi una luce che si andava spegnendo. Ebbi
la sensazione che se non fermava quella diminuzione, io morrei. Improvvisamente
sentii una convulsione e seppi che aveva unito due parti di me stesso che si
trovavano nascondino; mi resi conto che la giovane che aveva visto nella casa
di Don Juan era la donna nagual.
In quello momento di cataclisma emozionale,
la Grassa non mi servì da aiuto. Piangeva senza inibizioni. La commozione
emozionale di ricordare alla donna nagual era stata traumatica per lei.
- Come potei dimenticarla? - sospirò la
Grassa.
Percepii un scintillio di diffidenza nei
suoi occhi quando la Grassa mi affrontò.
- Non avevi tu idea che esisteva, verità? -
mi domandò.
Sotto qualunque altra circostanza avrebbe
creduto che la sua domanda era impertinente, insultante, ma anche io mi
domandavo la stessa cosa. Avevo pensato che la Grassa poteva sapere più di
quello che mi ero rivelato.
- Non aveva né la minore idea - dissi -.
Ma, e tu? Sapevi che esisteva, Grassa?
Il suo viso aveva tale espressione di
innocenza e perplessità che i miei dubbi svanirono.
- No - rispose -. Non fino ad oggigiorno.
Ora so per certo che io mi sedevo con lei e col nagual Juan Matus in quella
panca della piazza di Oaxaca. Ricordai sempre che facevamo quello, e ricordava
anche le sue fazioni, ma pensava che l'aveva sognato. Lo sapeva già tutto, e
tuttavia non sapeva niente. Ma perché credei che fosse un sonno?
Ebbi un momento tremendo, dopo, la perfetta
certezza fisica che quando la Grassa parlava, in alcuno parte del mio corpo si
apriva un canale. Improvvisamente seppi che io normalmente mi sedevo anche in
quella panca con Don Juan e la donna nagual. Ricordai allora una sensazione che
aveva sperimentato in ognuna di quelle occasioni. Era una sensazione di
soddisfazione fisica, di felicità, pienezza, che risulterebbero impossibili da
immaginare. Per me Don Juan e la donna nagual erano esseri perfetti: trovarmi
in compagnia di essi era in realtà la mia gran fortuna. Un ed un'altra volta,
seduto nella panca, fiancheggiato per gli esseri più squisiti della terra,
sperimentai magari il pinnacolo dei miei sentimenti umani. In un'occasione
dissi a Don Juan, ed in realtà lo credeva che vorrebbe morire in quello
momento, per così potere conservare quello sentimento di pienezza puro,
intatto, libero di disordine.
Contai la Grassa quello che aveva
ricordato. Rimaniamo silenziosi alcuni momenti e l'impulso dei nostri ricordi
ci trascinò dopo pericolosamente verso la tristezza, verso la disperazione
perfino. Dovetti esercitare il controllo più straordinario per sottomettere le
mie emozioni e non piangere. La Grassa singhiozzava, coprendo il suo viso con
l'avambraccio.
Poi ci calmiamo. La Grassa mi guardò
fissamente. Seppi quello che pensava. Era come se leggesse le domande nei suoi
occhi. Erano le stesse interroganti che mi avevano ossessionato per giorni. Chi
era la donna nagual? Dove l'avevamo conosciuta? Dove incastrava? La conoscevano
anche gli altri apprendisti?
Mi trovavo sul punto di formulare le mie
domande quando la Grassa me l'ostacolò.
- Realmente non lo so - disse velocemente,
affrettandosi alla domanda -. Credeva che tu me lo diresti. Non so perché, ma
credo che tu puoi dirmi quale è quale.
Ella contava su me e me con lei. Ridiamo
davanti all'ironia della situazione. Gli chiesi che mi riferissi tutto quello
che sapeva della donna nagual. La Grassa si sforzò per dire qualcosa due o tre
volte ma non potè organizzare i suoi pensieri.
- Realmente non so per dove incominciare -
disse -. La cosa unica che so è che io la volevo.
Gli dissi che io avevo la stessa
sensazione. Una tristezza soprannaturale mi acchiappava ogni volta che pensava
alla donna nagual. Come parlava, il mio corpo si incominciò a scuotere.
- Tu ed io la volevamo - disse la Grassa -.
Non so perché sto dicendo questo, ma sì so che noi eravamo di lei.
La pressai affinché si spiegasse più, ma
non potè chiarirmi perché l'aveva detto. Parlava nervosamente, tentando di
ampliare la descrizione dei suoi sentimenti. Non potei prestargli più
attenzione. Sentii un battito di ala nel mio plesso solare. Un vago ricordo
della donna nagual cominciò ad acquisire forma. Ursi la Grassa a che
continuasse parlando, gli dissi che si ripetesse se non aveva oramai
nient'altro da dire, ma che non si trattenesse. Il suono della sua voce era come
un condotto verso un'altra dimensione, verso un altro tipo di tempo. Era come
se il sangue si accalcasse nel mio corpo con una pressione insolita. Sentii un
solleticamento, e dopo ebbi un ricordo corporale. Seppi nel mio corpo che la
donna nagual era l'essere che completava al nagual.
Gli proporzionava pace, pienezza, una
sensazione di essere protetto, di stare a salvo.
Dissi alla Grassa che aveva avuto la chiara
percezione che la donna nagual era la compagna di Don Juan. La Grassa mi
guardò, stupefatta. Lentamente negò con la testa.
- Non aveva niente a che vedere col nagual
Juan Matus, idiota - disse, con un tono di autorità finale -. Era di te. Per
quel motivo tu ed io gli appartenevamo.
La Grassa ed io ci guardiamo l'un l'altro.
Io ero sicuro che involontariamente ella esprimeva pensieri che razionalmente
non gli dicevano niente.
- Che cosa vuoi dire con che era di me,
Grassa? - gli domandai dopo una lunga pausa.
- Era il tuo compagno - disse -. Voi due
formavano una squadra. Ed io stavo basso la sua custodia. Ed ella ti incaricò
che qualche giorno mi portassi alla libertà e mi lasciassi nelle sue mani.
Supplicai la Grassa che mi dicessi tutto
quello che sapeva, ma non sembrava sapere nient'altro. Mi sentii finito.
- A dove andò via? - domandò improvvisamente
la Grassa -, quello è quello che non posso immaginarmi. Stava con te, non col
nagual. Dovrebbe stare qui, con noi.
In quello momento la Grassa ebbe un altro
attacco di sfiducia e paura. Mi accusò di nascondere alla donna nagual in Los
Angeles. Tentai di sfogare le sue apprensioni. Mi sorpresi parlandolo come se
fosse una bambina. Ella mi ascoltò apparentemente con un'attenzione completa;
tuttavia, i suoi occhi si trovavano vuoti, sfocati. Mi fu successo allora che
stava utilizzando il suono della mia voce come io avevo usato quell'ella, come
un condotto. Continuai a parlare fino a che finii con tutto quello che doveva
dire dentro i limiti del tema. Qualcosa estraneo ebbe allora luogo, e mi
scoprii ascoltando a metà il suono della mia propria voce. Parlava
involontariamente alla Grassa. Le parole che sembravano essere stato
imbottigliate dentro me, liberi ora, raggiunsero livelli indescrivibili di
assurdità. Parlai e parlai fino a che un ricordo fece che mi trattenessi. Una
volta, nella panca di Oaxaca, Don Juan ci parlò, alla donna nagual ed io, di
una persona il cui presenza aveva sintetizzato per lui tutto quello che poteva
sperarsi del cameratismo umano. Si trattava di una donna che era stato per lui
quello che la donna nagual era per me: una compagna, una controparte. Ella lo
lasciò, come la donna nagual mi ero lasciato. Ma quello che egli sentiva per
lei non aveva cambiato e si ravvivava con la malinconia che certi poemi
l'evocavano. Con lo stesso ricordo chiarii che la donna nagual era quella che mi
forniva di libri di poemi. Aveva quantità di essi nella cajuela del suo atto.
Alle sue istanze io leggevo poemi a Don Juan. Improvvisamente fu tanto chiaro
il ricordo della donna nagual seduto con me nella panca che involontariamente
aspirai una boccata di aria ed il mio petto si gonfiò. Prese possesso di me
un'oppressiva sensazione di perdita. Mi piegai con un dolore straziante nella
scapola destra. C'era qualcosa più che io sapevo era un ricordo che un mia
parte si ricusava a liberare.
Aderii a quello che rimanevo della mia
salvaguardia di intellighenzia, come l'unico mezzo di recuperare l'equanimità.
Mi dissi un ed un'altra volta che la Grassa ed io stavamo operando tutto il
tempo in due piani distinti. Ella ricordava molto più che io, ma non era inquisitiva.
Non era stato allenata per formulare domande ad altri o sé stessa. Ma dopo mi
assaltò l'idea che io non mi trovavo in migliori condizioni; continuava ad
essere tanto rozzo come Don Juan disse che l'era. Non aveva dimenticato mai che
leggeva poesia a Don Juan, e non mi fu successo mai tuttavia considerare il
fatto che io non ho posseduto mai un libro di poesia spagnola, né non ho
portato mai uno nel mio atto.
La Grassa mi tirò fuori dalle mie
cavillazioni. Si trovava quasi isterica. Mi gridò che la donna nagual doveva
trovarsi in alcuno parte molto vicina a noi. Credeva che come a lei e me c'era
stato incaricato che ci trovassimo l'un l'altro, alla donna nagual l'era stato
raccomandato trovarci.
Quasi la forza del suo ragionamento mi
convinse. Tuttavia, qualcosa in me sapeva che questo non era così. Quell'era il
ricordo che giaceva dentro me, e che non osavo tirare fuori alla superficie.
Volli iniziare un dibattito con la Grassa,
ma non c'era nessun motivo per farlo; la mia salvaguardia di intelletto e di
parole era insufficiente per assorbire l'impatto di avere ricordato alla donna
nagual. L'effetto era schiacciante per me, più devastatore che, perfino, la
paura di morire.
- La donna nagual è infossata in alcuno
parte - disse la Grassa, tranquillamente -. Probabilmente sta con la schiena
contro la parete e noi non facciamo niente per aiutarla.
- No, no! - gridai -. La donna nagual non
sta oramai qui.
Esattamente non seppi perché dissi quello,
e tuttavia sapeva che era verità. Affondiamo durante alcuni momenti in alcune
profondità di malinconia che sarebbe impossibile da delucidare razionalmente.
Per la prima volta, in quello che io conosco di me stesso sentii una vera ed
infinita tristezza, una temibile sensazione di essere incompleto. In alcuno
parte di me esisteva una ferita che era stato aperta di nuovo. Questa volta non
poteva, come l'aveva fatto tante altre volte, ospitarmi dietro un velo di
mistero e di incertezza. Non sapere era stato una benedizione per me. Durante
alcuni istanti mi scoprii scivolando pericolosamente verso lo scoraggiamento.
La Grassa mi fermò.
- Un guerriero è qualcuno che cerca la
libertà - mi disse nell'udito -. La tristezza non è libertà. Dobbiamo toglierci
la di dosso.
Avere un senso di disinteresse, come aveva
detto Don Juan, implica avere una pausa momentanea per riconsiderare le
situazioni. Nella cosa più profonda della mia tristezza compresi quello che
egli voleva dire. Aveva già il disinteresse, ora concordavo lottare per usare
correttamente quella pausa.
Non potrebbe dire se la mia volizione entrò
in azione, ma improvvisamente tutta la mia tristezza svanì; era come se non
fosse esistito mai. La velocità del mio cambiamento e la cosa completo che fu,
mi allarmò.
- Ora stai già dove io sto! - esclamò la
Grassa quando gli descrissi quello che era successo -. Dopo tanti anni non ho
potuto ancora imparare a maneggiare l'assenza di forma. Scivolo
irrimediabilmente di un sentimento ad un altro in un istante. Come non ho
forma, poteva aiutare le sorelline, ma per quell'esse mi avevano nelle sue
mani. Chiunque di esse era egli sufficientemente forte per sbattere di un lato
all'altro.
"Il problema è che io persi prima la
mia forma umana che tu. Se tu ed io l'avessimo persa insieme, ci saremmo potuti
aiutare l'un l'altro; ma come furono le cose, io girovagavo dall'alto in basso
come anima in pena.
Quello sua asseverazione di non avere forma
mi ero somigliato sempre spuria. A mio capire, perdere la forma umana doveva
includere una consistenza di carattere che si trovava, a giudicare dagli alti e
bassi emozionali della Grassa, oltre la sua portata. A causa di questo, l'aveva
giudicata aspra ed ingiustamente. Avendo perso già la forma umana, mi trovavo
ora in posizione di comprendere che detta condizione è un danno alla sobrietà e
la discrezione. Non apporta nessuna forza emozionale automatica. Un aspetto del
disinteresse, naturalmente la capacità di rimanere immerso in quello che uno si
trovi facendo, si estende perfino a tutto quello che si fa, essere
inconsistente e completamente meschino. Il vantaggio di non avere forma è la
capacità di trattenersi un momento, se è che si tiene autodisciplina e valore.
Finalmente la condotta passata della Grassa
diventò comprensibile per me. Non aveva avuto forma per anni, ma non aveva
l'autodisciplina richiesta. Per ciò era stato alla mercé di drastici
cambiamenti e di discrepanze incredibili tra le sue azioni ed i suoi propositi.
Nei giorni susseguenti, la Grassa e me
riuniamo tutta la nostra forza emozionale e tentiamo di congiurare altri
ricordi, ma non sembrava oramai c'essere più nessuno. Mi trovavo di nuovo dove
stetti prima di incominciare a ricordare. Intuiva che, sepolto in me, in
qualche modo dovrebbe avere molto più, ma non trovava maniera di arrivare a
ciò. Nella mia mente non esistevano né i più vaghi barlumi di qualunque altro
ricordo.
La Grassa ed io passiamo per un periodo di
tremenda confusione e di dubbi. Nel nostro caso, non avere forma significava
essere distrutti per la peggiore sfiducia immaginabile. Sentiamo che eravamo
come topi di laboratorio in mani di Don Juan, una persona che c'era
apparentemente molto familiare, ma della quale in realtà ignoravamo tutto. Noi
retroalimentamos l'un l'altro con dubbi e paure. Ovviamente la questione più
seria era la donna nagual. Quando concentravamo la nostra attenzione su lei, il
ricordo diventava tanto acuto che oltrepassava la nostra comprensione quello
che l'avremmo dimenticata. Questo ci permetteva un ed un'altra volta osservare
che cosa era quello che c'aveva fatto Don Juan in realtà. Molto facilmente
queste congetture ci conducevano alla sensazione che eravamo stati usati.
C'irritava l'inevitabile conclusione che Don Juan c'aveva ingannati, c'aveva
lasciato abbandonati e sconosciuti per noi stessi.
Quando la rabbia si esaurì, la paura
incominciò a dondolarsi su noi; ora c'affrontava la terribile possibilità che
non avevamo scoperto ancora tutto il male che Don Juan c'aveva fatto.
VII. TRASOGNANDO INSIEME
Un giorno, per alleviare momentaneamente la
nostra inquietudine, suggerii che dovremmo dedicare tutto il nostro tempo ed
energia a trasognare. Non appena feci questo suggerimento mi resi conto che
l'oscurità che mi aveva molestato per giorni si alterò radicalmente con solo
desiderare il cambiamento. Chiaramente compresi allora che il problema della
Grassa ed il mio era che inconsciamente c'eravamo incentrati nella paura e la
sfiducia, come se fossero le uniche opzioni alla nostra portata. In ogni
momento, tuttavia, avevamo avuto, senza saperlo coscientemente, l'alternativa
di centrare deliberatamente la nostra attenzione nella cosa opposta: il
mistero, la meraviglia di quello che ci succedeva.
Comunicai alla Grassa il mio ritrovamento.
Ella fu di accordo nell'atto. All'istante si azzardò, ed il panno della sua
oscurità svanì in questione di secondi.
- Che tipo di trasognare proponi che
dobbiamo fare? - domandò.
- Quanti tipi è? - dissi.
- Possiamo trasognare insieme - replicò -.
Il mio corpo mi dice che l'abbiamo fatto prima. Siamo entrati già nel sogno come
pari. Vedi che sarà facilísimo come lo fu vedere insieme.
- Ma non sappiamo quale il procedimento è
per trasognare insieme - dissi.
- Perché neanche sapevamo come vedere
insieme e tuttavia vedemmo - disse -. Sono sicura che se lo tentiamo, potremo
farlo, perché non ci sono passi specifici per tutto quello che fa un guerriero.
Bisogna solo potere personale. Ed in questo momento l'abbiamo.
"Dobbiamo, quello sì, trasognare da
due posti distinti, la cosa più lontana possibile l'uno dell'altro. Quello che
entra nel sogno primo, spera all'altro. Appena ci troviamo incrociamo le
braccia e c'addentriamo insieme alle profondità del trasognare.
Gli dissi che non aveva idea di come
aspettarla se io incominciavo a trasognare prima che ella. Lei stessa non
poteva spiegare quello che quell'implicava, ma chiarì che sperare all'altro
ensoñador era quello che Josefina aveva descritto come "tirarlo." La
Grassa era stata tirate due volte per Josefina.
- La ragione per la quale Josefina lo
chiama così è perché uno dei due deve prendere all'altro del braccio - spiegò.
Mi insegnò allora come farlo. Con la sua
mano sinistra sottomise fortemente il mio avambraccio destro all'altezza del
gomito. I nostri avambracci rimasero intrecciati quando io chiusi la mia mano
destra sul suo gomito.
- Come si può fare quell'in sogno? -
domandai.
Io, nella cosa personale, considerava che
trasognare era uno degli stati più privati che possano immaginarsi.
- Non so come, ma ti afferro - disse la
Grassa -. Io credo che il mio corpo sa come. Ma quanto più continuiamo a
parlare di questo, più difficile sembra essere.
Cominciamo a trasognare da due posti.
Potemmo metterci solo di accordo a che ora incominciare, dato che l'entrata nel
sogno era impossibile da predeterminare. La possibilità che io dovessi
aspettare la Grassa fu qualcosa che mi causò una gran ansietà, e non potei
incominciare a trasognare con la facilità usuale. Dopo dieci o quindici minuti
di agitazione finalmente riuscii ad entrare in un stato che io chiamo veglia in
riposo.
Anni prima, quando aveva acquisito già un
certo grado di esperienza in trasognare, domandai a Don Juan se c'erano
procedimenti specifici che fosse comuni per tutti. Mi disse che davvero
ciascuno ensoñador è singolare ed indipendente. Ma parlando con la Grassa
scoprii tante similitudini nelle nostre esperienze di trasognare che rischiai
un possibile modello classificatorio delle diverse tappe.
Veglia in riposo è lo stato preliminare,
nel quale i sensi si assopiscono e, tuttavia, uno si trova cosciente. Nel mio
caso, io avevo percepito sempre in questo stato un flusso di luce rossiccia,
una luce esattamente uguale alla quale appare quando affronta uno il sole con
le palpebre fortemente chiuse.
Al secondo stato di trasognargli chiamai
veglia dinamica. In questo, la luce rossiccia si dissolve come svanisce la
nebbia, ed uno rimane vedendo una scena, una specie di quadro, che è statico.
Si vede un'immagine tridimensionale, un tanto congelata: un passaggio, una
strada, una casa, una persona, un viso, o qualunque altra cosa.
Al terzo stato lo denominai testimonianza
passiva. In lui, l'ensoñador non presenzia oramai più un aspetto congelato del
mondo, ma è una testimone oculare di un evento come succede. È come se la
preponderanza dei sensi visuale ed uditivo facesse a questo stato del
trasognare principalmente una questione degli occhi e gli uditi.
Nel quarto stato uno è portato ad agire,
forzato a portare a capo azioni, a cedere passi, ad approfittare del massimo
del tempo. Io richiamai a questo stato iniziativa dinamica.
Aspettarmi, come proponeva la Grassa, aveva
a che vedere col secondo ed il terzo stato di nostro trasognare insieme. Quando
entrai nella seconda fase, veglia dinamica, in una scena di trasognare vidi Don
Juan ed a varie altre persone, includendo la Grassa quando era obesa. Prima che
potesse considerare che cosa era quello che vedeva, sentii una tremenda biffa
nel mio braccio e mi resi conto dia che la Grassa "vera" si trovava
al mio fianco. Stava alla mia sinistra ed aveva preso il mio avambraccio destro
con la sua mano sinistra. Chiaramente sentii come alzava la mia mano affinché
potessimo incrociare gli avambracci. Poi mi scoprii nella testimonianza
passiva, il terzo stato del trasognare. Don Juan mi dicevo che io dovevo
servire la Grassa e badarla alla maniera più egoista: questo è, come se ella
fosse parte di me stesso.
Il suo gioco di parole mi sembrò delizioso.
Sentii una felicità soprannaturale per trovarmi lì con lui e con gli altri. Don
Juan proseguì spiegando che il mio egoismo poteva essere utilizzato di molto
buon modo, e che mettergli redini non era impossibile.
C'era un'atmosfera generale di cameratismo
tra tutta la gente congregata lì. Tutti ridevano di quello che Don Juan si
diceva, ma senza burlarsi. Don Juan aggiunse che la maniera più sicura di soggiogare
l'egoismo era per mezza delle attività quotidiane delle nostre vite. Manteneva
che io ero efficiente in tutto quello che faceva perché non aveva nessuno che
mi facessi la vita impossibile e che non era niente dell'altro mondo camminare
diritto se uno cammina solo. Se mi dessi Lei il compito di curare la Grassa,
tuttavia, la mia efficienza esploderebbe in pezzi, e per sopravvivere dovrebbe
estendere la preoccupazione egoista per me stesso fino ad includere la Grassa.
Solo aiutandola, Don Juan diceva col tono più enfatico, io troverei le chiavi
per l'adempimento del mio vero compito.
La Grassa mise le sue obese braccia attorno
al mio collo. Don Juan dovette smettere di parlare. Rideva di tale maniera che
non poteva proseguire. Tutti essi ruggivano di risata.
Mi sentii imbarazzato ed irritato con la
Grassa. Tentai di staccarmi di lei, ma le sue braccia si trovavano fortemente
allacciate intorno al mio collo. Con un gesto di mani, Don Juan mi fermò. Disse
che la minima gravidanza che allora sperimentava non era niente in confronto a
quello che mi aspettavo.
Il suono delle risate era assordante. Mi
sentii molto felice, benché mi preoccupassi dovere aiutare la Grassa, poiché
ignorava quello che questo implicherebbe.
In un momento di mio trasognare cambiai il
punto di vista. . . , o piuttosto, qualcosa mi tirò fuori dalla scena ed
incominciai a guardare tutto come spettatore. Ci trovavamo in una casa del nord
del Messico; poteva rendermi conto di questo per il panorama che la circondava,
il quale mi era parzialmente visibile. Poteva vedere in lontananza montagne.
Ricordai anche gli abbigliamenti della casa. Ci trovavamo in un portico
coperto, aperto. Parte della gente era seduta in grandi poltrone; tuttavia, la
maggioranza si trovava in piedi o seduta nel suolo. C'erano sedici persone. La
Grassa si trovava al mio fianco, di fronte a Don Juan.
Mi resi conto che poteva avere
contemporaneamente due differenti percezioni. Ugualmente poteva entrare nella
scena del trasognare e recuperare un sentimento perso faceva molto, o poteva
presenziare alla scena con le emozioni e sentimenti della mia vita attuale.
Godendo affondavo nella scena del trasognare mi sentivo sicuro e protetto, ma
quando la contemplava dell'altro modo mi sentivo perso, insicuro, angosciato.
Non mi piacque quello mia reazione, pertanto mi immersi nella scena del
trasognare.
Una Grassa obesa domandò a Don Juan, con
una voce che poteva sentirsi al di sopra della risata di tutti, se io andavo ad
essere suo marito. Ci fu un momento di silenzio. Don Juan sembrava calcolare
quello che dice. Applaudì la testa della Grassa e disse che di sicuro io sarei
incantato di essere suo marito. La gente rideva strepitosamente. Io risi con
essi. Il mio corpo si agitò con un piacere genuino, e tuttavia non credei stare
ridendo della Grassa. Non la considerava un'aberrata o una stupida. Era una
bambina. Don Juan diventò verso me e disse che io dovevo onorare la Grassa
nonostante qualunque cosa che ella si facesse, e che doveva allenare il mio
corpo, attraverso la mia interazione con lei, a sentirsi bene davanti alle
situazioni più esigenti. Don Juan si diresse a tutto il gruppo e disse che era
molto più facile comportarsi ben basse condizioni di massima tensione che
essere impeccabile in circostanze normali, tali come l'interrelazione con
qualcuno come la Grassa. Don Juan aggiunse che abbasso nessuna circostanza io
dovevo irritarmi con la Grassa, perché in realtà ella era la mia benefattrice:
solo attraverso lei io potrei essere capace di controllare il mio egoismo.
Mi trovavo tanto completamente immerso
nella scena del trasognare che mi ero dimenticato che stava trasognando. Una
repentina pressione nel braccio me lo ricordò. Sentii la presenza della Grassa
vicino a me, ma senza vederla. Si trovava lì solo come un contatto, una sensazione
tattile nel mio avambraccio. In questo concentrai la mia attenzione, qualcuno
mi tenevo fortemente aggrappato; dopo la Grassa mi materializzò come una
persona completa, come se fosse fatta di quadri soprattasse di un film
cinematografico. La scena di trasognare si dissolse. Invece di quello, la
Grassa e me ci guardavamo l'un l'altro con gli avambracci incrociati.
All'unisono, di nuovo concentriamo la
nostra attenzione sulla scena che stavamo presenziando. In quello momento
seppi, senza alcun dubbio, che avevamo osservato la stessa scena. Ora Don Juan
diceva qualcosa alla Grassa, ma io non potevo sentirlo. La mia attenzione era
portata di un lato ad un altro tra il terzo stato di trasognare, contemplazione
passiva, e la seconda, veglia dinamica. In un momento io stavo con Don Juan,
con una Grassa obesa e le sedici persone, ed il seguente istante mi trovavo di
sempre con la Grassa contemplando una scena congelata.
Allora una drastica scossa nel mio corpo mi
condusse ad un altro livello più di attenzione: sentii qualcosa come lo
scricchiolio di un pezzo secco di legno rompendosi, e mi trovai nel primo stato
di trasognare, veglia in riposo. Mi trovavo addormentato e, nonostante,
interamente cosciente. Io volevo rimanere la cosa più possibile in quello stato
tranquillo, ma un'altra scossa mi fece svegliare subito. Era l'impatto
intellettuale di avermi dato conta che la Grassa ed io avevamo trasognato
insieme.
Mi trovavo più che ansioso per parlare con
lei. La Grassa sentiva la stessa cosa. Quando ci calmiamo, gli chiesi che mi
descrivessi tutto quello che gli era successo in nostro trasognare insieme.
- Stavo aspettandoti un lungo momento -
disse -. Una parte di mio credeva che ti avesse perso, ma un'altra parte
pensava che eri nervoso e che avevi problemi, e così sperai.
- Dove mi aspettasti, Grassa? - domandai.
- Non so - rispose -. So che era uscito già
dalla luce rossiccia, ma non poteva vedere niente. Pensandolo bene, non aveva
vista, sentiva solo. Forse ancora stava nella luce rossiccia, benché non fosse
rossa. Il posto dove mi trovavo aveva una tintura colore pesca. Allora aprii
gli occhi e lì stavi. Sembrava che stessi già per andarti, e così ti afferrai
del braccio. Allora guardai e vidi al nagual Juan Matus, a te, a me, ed
all'altra gente nella casa di Vicente. Tu eri più giovane ed io ero grassa.
La menzione della casa di Vicente mi portò
una repentina comprensione. Dissi alla Grassa che una volta, maneggiando per
Zacatecas, nel nord del Messico, ebbi un strano impulso ed andai a visitare
Vicente, uno degli amici di Don Juan. Non compresi allora che facendolo,
involontariamente aveva attraversato ad un dominio escluso. Vicente, come la
donna nagual, apparteneva ad un'altra area, ad un altro mondo. Mi intesi di
quello momento la ragione per la quale la Grassa rimanesse tanto attonita
quando lo riferii quella visita. Conoscevamo molto bene Vicente chi era tanto
vicino a noi come Don Genaro, o magari più ancora. E tuttavia, li avevamo
dimenticati, come aveva dimenticato alla donna nagual.
In quello momento la Grassa ed io facemmo
un'immenso disgresión. Insieme ricordiamo che Vicente, Genaro e Silvio Manuel
erano amici di Don Juan, le sue coorti. Tutti essi si trovavano uniti per una
specie di giuramento. La Grassa ed io non potevamo ricordare che cosa era
quello che li aveva uniti. Vicente non era indio. Era stato farmaceutico quando
giovane. Era l'erudito del gruppo, il vero guaritore che manteneva tutti in
perfetto stato di salute. L'appassionava la botanica. Io non avevo dubbio
alcuna che egli sapeva di piante più che qualunque essere umano vivente. La
Grassa ed io ricordiamo che fu Vicente quello che dava istruzione a tutti,
includendo Don Juan, riguardo, delle piante medicinali. Prese un interesse
speciale in Néstor, e tutti noi pensavamo che Néstor arriverebbe ad essere come
egli.
- Ricordare a Vicente mi fa pensare a me -
disse la Grassa -. Mi fa pensare alla cosa insopportabile che sono stato. La
cosa peggiore che può passare ad una donna è avere figli, avere buchi nel suo
corpo, e nonostante quello continuare ad agire come un'adolescente. Quell'era
il mio problema. Io volevo essere un incantesimo ed era vuota. Ed essi mi
lasciavano fare il ridicolo e fino a mi aiutavano a farlo.
- Chi sono essi, Grassa? - gli domandai.
- Il nagual e Vicente e tutta quella gente
che stava in casa di Vicente quando mi comportai come un'asina con te.
La Grassa ed io comprendemmo la stessa cosa
all'unisono. Alla Grassa gli era permesso essere insopportabile solo con me.
Nessuno più sopportava le sue sciocchezze, benché ella li tentasse con tutti.
- Vicente sé mi trattenevo - disse la
Grassa -. Mi portavo la corda. Immaginati che fino a zio gli diceva. Quando
volli dire zio a Silvio Manuel, quasi mi spella le ascelle con le sue mani che
sembravano artigli.
I due trattiamo di concentrare la nostra
attenzione su Silvio Manuel, ma non potemmo ricordare come era. Sentivamo la
sua presenza nei nostri ricordi, ma egli non era una persona, era solo un
sentimento.
Parliamo della nostra scena di trasognare e
giungiamo all'accordo che questa era stata una replica fedele di quello che
ebbe luogo nelle nostre vite in un certo tempo in realtà, ma ci risultava
impossibile ricordare quando. Tuttavia, io avevo l'estranea sicurezza che
effettivamente stetti a carico della Grassa come allenamento per affrontare
l'interazione con la gente. Era imperativo che io interiorizzassi un stato di
equanimità davanti a situazioni sociali difficili, e ferma questo nessuno era
potuto essere un migliore allenatore che la Grassa. I relampagazos di vaghi ricordi
che io avevo di un'obesa Grassa sorgeva da quelle circostanze, perché io avevo
eseguito alla lettera le ordine di Don Juan.
La Grassa disse che non gli era piaciuto
nella cosa più minima la scena di trasognare. Ella avrebbe preferito guardare
solamente, ma io la spinsi a che rivivesse i suoi vecchi sentimenti che gli
erano detestabili. Il suo scontento fu tanto intenso che deliberatamente
strinse il mio braccio per forzarmi a finire la nostra partecipazione in
qualcosa che gli risultava tanto odioso.
Al giorno dopo incominciamo un'altra
sessione di trasognare insieme. Ella l'iniziò nel suo guardaroba e me nel mio
studio, ma non successe niente. Rimaniamo finiti meramente tentando di entrare
nel sogno. Dopo, passarono settimane intere senza che potessimo avanzare la
cosa minima. Ogni fallisco ci girava più disperati ed avidi.
In considerazione della nostra sconfitta
decisi che, per il momento, dovremmo posporre trasognare insieme ed esaminare
con maggiore curato i processi del trasognare ed analizzare i suoi concetti e
procedimenti. In un principio la Grassa non fu di accordo con me. Per lei,
l'idea di rivedere quello che sapevamo di trasognare ricostituiva un'altra
maniera di soccombere all'avidità. Ella preferiva i nostri fallimenti. Io
persistei fino a che finalmente accedè, meglio di niente dovuto alla sensazione
che eravamo assolutamente persi.
Una notte, egli più casualmente che
potemmo, incominciamo a discutere quello che dovevamo trasognare.
Immediatamente ci fu ovvio che c'erano alcuni temi centrali che specialmente
Don Juan aveva enfatizzato.
La cosa prima era l'atto stesso, il quale
comincia come un stato unico di coscienza al quale si arriva concentrando il
residuo cosciente che si conserva, anche se uno è addormentato, negli elementi
o i tratti dei sonni comuni e correnti.
Il residuo cosciente, al quale Don Juan
chiamava la seconda attenzione, è addestrato attraverso esercizi di no-fare. La
Grassa ed io fummo di accordo che un sostituto essenziale del trasognare era un
stato di quiete mentale che Don Juan aveva chiamato "fermare" il
dialogo interno, o il "no-fare di parlarsi ad uno stesso." Per
insegnarmi come riuscirlo, Don Juan normalmente diventava camminare durante
chilometri con gli occhi fosse di faretto, fissi in un piano alcuni gradi al di
sopra dell'orizzonte, al fine di rialzare la visione periferica. Il metodo fu
effettivo per due ragioni. Mi permise di fermare il mio dialogo interno dopo
anni di pratica, ed allenò la mia attenzione. Forzandomi ad una concentrazione
nella vista periferica, Don Juan rinforzò la mia capacità di concentrarmi, per
lunghi periodi di tempo, in una sola attività.
Dopo, quando riuscii a controllare la mia
attenzione e fui già capace di lavorare per ore in qualunque compito - qualcosa
che non potei fare mai prima -, Don Juan mi disse che la migliore maniera di
entrare in sogni era concentrandomi sull'area esatta nella punta dello sterno.
Disse che di quello posto emerge l'attenzione che si richiede per cominciare il
sogno. L'energia che necessita uno per muoversi nel sogno sorge dall'area tre o
quattro centimetri sotto l'ombelico. A quell'energia la chiamava la volontà, o
il potere di selezionare, di armare. In una donna, tanto l'attenzione come
l'energia per trasognare, nasce nel ventre.
- Il trasognare di una donna deve venire
dal suo ventre perché quello è il suo centro - disse la Grassa -. Affinché io
possa incominciare a trasognare o smettere di farlo, tutto quello che devo fare
è fissare l'attenzione al mio ventre. Ho imparato a sentirlo all'interno. Vedo
un scintillio rossiccio per un istante e dopo sto già fuori.
- Quanto tempo si prende riuscire a vedere
quella luce rossiccia? - gli domandai.
- Alcuni secondi. Nel momento in che la mia
attenzione sta nel mio ventre, sto già nel trasognare - continuò -. Non combatto
mai, mai più. Così sono le donne. Per una donna la parte più difficile è
imparare come incominciare; a me mi portò un paio di anni fermare il mio
dialogo interno concentrando la mia attenzione sul ventre. Magari quella è la
ragione per la quale una donna necessita sempre che un altro l'acicatee.
"Il nagual Juan Matus mi mettevo nelle
pancia pietre del fiume, fredde e bagnate; per diventare sentire quell'area. O
mi mettevo sopra un peso; io avevo un pezzo di piombo che egli mi ottenne. Il
nagual mi facevo chiudere gli occhi e concentrare l'attenzione sul posto dove
io sentivo il peso. Di solito rimanevo dormita. Ma quello non lo disturbava.
Realmente non importa quello che uno fa mentre l'attenzione stia nel ventre.
Infine imparai a concentrarmi su quello posto senza avere niente messo sopra.
Un giorno incominciai solita a trasognare. Come sempre, cominciai da sentire la
mia pancia, nel posto dove il nagual aveva messo il peso tante volte, dopo
rimasi dormita come sempre, a meno che qualcosa mi tirò diretto dentro al mio
ventre. Vidi un scintillio rossiccio e dopo ebbi un sonno della cosa più bella.
Ma non appena volli raccontarsilo al nagual, mi resi conto che era stato un
sonno ordinario. Non c'era modo di contargli come era stato. Del sonno io
sapevo solo che in lui mi sentii molto felice e forte. Il nagual mi disse che
io avevo trasognato.
"A partire da quello momento mai più
mi girò già a mettere sopra un peso. Mi lasciò fare mio trasognare senza
interferire. Ogni tanto mi chiedevo che gli contasse come andavano le cose, e
mi davo consigli. Così è come deve portare a termine l'istruzione del
trasognare."
La Grassa assicurò che Don Juan gli aveva
spiegato che qualunque cosa può servire come no-fare per propiziare il
trasognare, purché questo forzi all'attenzione a rimanere fissa. Per esempio,
fece che ella e gli altri apprendisti contemplassero fissamente foglie e
pietre, ed incoraggiò a Pablito a che costruisse il suo proprio apparato di
no-fare. Pablito incominciò col no-fare di camminare all'indietro. Egli
avanzava mettendo veloci sguardi da parte per non perdere la direzione e per
evitare gli ostacoli della strada. Io gli diedi l'idea di utilizzare un
specchio ed egli espanse l'idea costruendo un casco di legno con un
assemblaggio esterno di filo di ferro che sosteneva due piccoli specchi, a
circa quindici centimetri del suo viso ed a cinque centimetri sotto il livello
dei suoi occhi. I due specchi non interferivano con la sua visione frontale, e
dovuto all'angolo laterale nel che si trovavano posizionati questi gli
permettevano di coprire tutto il campo visuale alle sue spalle. Pablito
ostentava che aveva una visione periferica di 360 gradi. Soccorso per questo
artefatto, Pablito poteva camminare all'indietro lunghe distanze, o per lunghi
periodi di tempo.
Anche la posizione che uno sceglie per fare
il trasognare era un tema molto importante.
- Non so perché il nagual non mi spiegò dal
mero principio - disse la Grassa - che per una donna la migliore posizione per
incominciare è sedersi con le gambe incrociate e dopo lasciare che il corpo
cada come possa. Il nagual mi disse questo un anno dopo che io avevo
incominciato. Oggigiorno, io prendo posto in quella posizione per un momento,
sento il mio ventre, e subito sto trasognando già.
Al principio, e come la Grassa, io l'avevo
fatto coricato di spalle, fino a che un giorno Don Juan mi disse che per
ottenere migliori risultati doveva sedermi in una stuoia soave e magra, con le
piante dei miei piedi messe giunte e con le cosce toccando la stuoia. Mi
segnalò che, come io avevo le congiunture delle anche qualcosa elastiche,
doveva esercitarli al massimo, col fine di arrivare ad avere le cosce
completamente appianate contro il suolo. Don Juan aggiunse che se io arrivavo
ad entrare nel trasognare seduto in quella posizione, il mio corpo non
scivolerebbe né cadrebbe a nessuno dai lati, ma il mio tronco si inclinerebbe
in avanti e la mia fronte si appoggerebbe sui miei piedi.
Un altro tema di enorme significato era
l'ora di trasognare. Don Juan c'aveva detto che le ore più avanzate della notte
o le prime ore dell'alba erano le migliori.
Egli spiegava la ragione per la quale
preferiva queste ore come un'applicazione pratica della conoscenza degli
stregoni. Disse che dal momento in cui uno deve fare suo trasognare dentro il
suo mezzo sociale, uno debito di cercare le migliori condizioni possibili di
isolamento, liberi di interferenze. Le interferenze alle quali si riferiva
avevano a che vedere con la "attenzione" della gente, e non con la
sua presenza fisica. Per Don Juan era fuori qualcosa di proposito il ritirarsi
del mondo e nascondersi, perché perfino se uno Lei trovasse solo in un posto
isolato e deserto, l'interferenza dei nostri prossimi prevale. La certezza
della sua prima attenzione non può essere staccata. Solo localmente alle ore
nelle che la maggioranza della gente è addormentata uno può deviare parte di
quella certezza per un breve lasso. In quelle ore è assopita la prima
attenzione di chi ci circondano.
Questo condusse Don Juan al tema della
seconda attenzione. Egli ci spiegò che l'attenzione che uno richiede negli
inizi del trasognare deve costringersi a rimanere in un determinato dettaglio
di un sonno. Solo mediante l'immobilizzazione dell'attenzione può uno
trasformare in sogno un sonno ordinario.
Spiegò anche che trasognando uno debito di
usare gli stessi compulsivi meccanismi di attenzione della vita quotidiana.
Nostra prima attenzione è stata allenata per mettere a fuoco gli elementi del
mondo, compulsivamente e con gran forza, al fine di trasformare il dominio
caotico ed amorfo della percezione nel mondo ordinato della coscienza.
Anche Don Juan ci disse che la seconda
attenzione svolgeva il ruolo di un richiamo; la chiamò un convocador di
opportunità. Quanto più se l'esercita, maggiore è la possibilità di ottenere
quello che si desidera. Affermò che anche questo è la funzione dell'attenzione
in generale, la quale diamo di tale forma per seduta nella nostra vita
giornaliera che non la notiamo mai; se ci passa un evento fortuito, parliamo di
lui in termini di un incidente o di una coincidenza, e non in termini che la
nostra attenzione fece che succedesse.
La nostra discussione della seconda
attenzione preparò il terreno per un'altra questione cruciale, il corpo di
sogno. Per potere guidare la Grassa verso questo, Don Juan gli diede il compito
dia immobilizzare la sua seconda attenzione egli più fermamente possibile negli
elementi della sensazione di volare in sogni.
- Come imparasti a volare in sogni? - gli
domandai -. Ti insegnò qualcuno?
- Il nagual Juan Matus fu quello che mi
insegnò in questa terra - rispose -. E nel sogno mi insegnò qualcuno al quale
non potei vedere mai. Era solo una voce che stavo dicendo quello che bisognava
fare. Il nagual mi impose il compito di imparare a volare in sogni e la voce mi
insegnò come farlo. Poi mi fu da anni imparare per me stessa a cambiare il mio
corpo normale, quello che uno può vedere e toccare, al mio corpo di sogno.
- Quello me lo devi spiegare - gli chiesi.
- Tu stavi imparando ad entrare nel tuo
corpo di sogno quando trasognasti che uscivi dal tuo corpo - continuò -. Ma
come me vedo le cose, il nagual non ti diede nessun compito specifico, cosicché
tu continuasti a darlo come ti uscisse lì. D'altra parte, a me mi fu dato il
compito di utilizzare il mio corpo di sogno. Le sorelline ebbero lo stesso
compito. Nel mio caso, una volta ebbi un sonno nel quale volava come papalote.
Lo contai al nagual perché mi era piaciuto la sensazione di pianificare. Egli
lo prese sul serio e lo fece un compito. Disse che non appena uno impara a
trasognare, qualunque sonno che uno può ricordare non è oramai un sonno, è
sogno.
"Allora incominciai a tentare di
volare quando trasognava. Ma non poteva organizzarmi. Quanto più tentava di
influenzare i miei sogni, più difficile mi mettevo Lei. Finalmente il nagual mi
consigliò che smettesse di forzarmi e che lasciasse che tutto succedesse per sé
stesso. Poco a pochino incominciai a volare nei sogni. Fu allora quando una
voce mi incominciò a dire che cosa fare. Credei sempre che fosse una voce di
donna.
"Quando aveva imparato già a volare
perfettamente, il nagual mi disse che doveva ripetere, sveglia, tutti i
movimenti di volo che io imparai in sogni. Tu avesti la stessa opportunità
quando la tigre denti di sciabola ti insegnava come respirare. Ma non
diventasti mai una tigre in sogni, in modo che propriamente non potevi tentare
di farlo quando eri sveglio. Ma io sé imparai a volare in sogni. Cambiando la
mia attenzione al mio corpo di sogno, poteva volare come papalote quando era
sveglia. Una volta ti insegnai il mio volo perché voleva che vedessi che io
avevo imparato ad usare il mio corpo di sogno. Ma a te non ti fu successo mai
di che cosa si trattava la cosa.
La Grassa si riferiva contemporaneamente in
che mi atterrì con l'incomprensibile atto reale di alzarsi e pianificare
nell'aria come un volatore. Il fatto fu tanto stravagante per me che non potei
incominciare neanche a capirlo in una maniera logica. Come di abitudine, quando
io ero confrontato per eventi di quella natura, lo misi nell'amorfa categoria
di percezioni sotto condizioni di tensione "estrema." Io argomentavo
che in casi di tensione severa la percezione poteva essere enormemente distorta
per i sensi. La mia spiegazione non spiegava niente ma sembrava riappacificare
alla mia ragione.
Dissi alla Grassa che doveva avere più per
forza, in quello che ella richiamava il cambiamento al suo corpo di sogno che
ripetere meramente l'azione di volare.
Ella lo pensò un momento prima di
rispondere.
- Io credo che anche il nagual ti ha dovuto
dire - affermò - che la cosa unica che in realtà conta facendo quello
cambiamento è ancorare la seconda attenzione. Il nagual diceva che è
l'attenzione quella che fa al mondo. Aveva le sue ragioni per dirlo. Era il
padrone dell'attenzione. Suppongo che lo lasciò al mio conto quello che io
verificassi che tutto quello che doveva per cambiare al mio corpo di sogno, era
concentrare la mia attenzione su volare. La cosa importante era immagazzinare
attenzione in sogni, osservare tutto quello che io verso volando. Quell'era
l'unica forma di coltivare la mia seconda attenzione. Una volta che questa era
solida, con solo metterla a fuoco lievemente nei dettagli e nella sensazione di
volare mi prodursi più sogni di volare, fino a che finalmente per me era una
routine trasognare che salivo per le arie.
"Nella questione di volare, dunque, la
mia seconda attenzione era molto affilata. Quando il nagual mi diede il compito
di cambiarmi al mio corpo di sogno; quello che voleva fare era che
sintonizzasse la mia seconda attenzione essendo sveglia. Così è come io lo
capisco. La prima attenzione, l'attenzione che fa al mondo, non può essere mai
soggiogata del tutto; può essere sconnessogli solo alcuni momenti per
rimpiazzarla con la seconda attenzione, quello è, se il corpo l'ha immagazzinata
quanto basta. Naturalmente, trasognare è una maniera di immagazzinare la
seconda attenzione. In modo che io direi che per potere cambiarti al tuo corpo
di sogno, essendo sveglio devi trasognare fino a che i sogni ti siano uscito
dalle orecchie.
- Puoi entrare nel tuo corpo di sogno ogni
volta che vuoi? - gli domandai.
- No. Non è così facile - replicò -. Ho
imparato a ripetere i movimenti e le sensazioni di volare quando sono sveglia,
e tuttavia, non posso volare ogni volta che voglio. Il mio corpo di sogno trova
sempre una barriera. A volte la barriera cede; il mio corpo è libero in quelli
momenti e me posso volare come se stesse trasognando.
Dissi alla Grassa che nel mio caso Don Juan
mi diede tre compiti per allenare la mia seconda attenzione. La prima era
trovare le mie mani nei miei sogni. Poi mi raccomandò che scegliesse un posto
locale, concentrasse su lui la mia attenzione, e dopo facesse trasognare in
pieno giorno e verificasse se in realtà poteva andare lì. Mi suggerì che
collocasse in quello posto ad una persona vicina a mio, di preferenza una
donna. Con questo otterrebbe due cose: in primo luogo, ella potrebbe percepire
cambiamenti sottili che potesse testimoniare che io stavo in realtà lì in
sogni; e, secondo, ella potrebbe osservare dettagli minuscoli e questioni del
posto, perché precisamente in quelli si incentrerebbe la mia seconda
attenzione.
Il problema più serio che a questo rispetto
ha l'ensoñador è la certezza infrangibile della seconda attenzione di dettagli
che passerebbero completamente: inosservati nella vita quotidiana, creando, di
quella maniera, un ostacolo quasi invincibile per la verifica. Quello che uno
ricerca in sogni non è quell'a quello che gli sarei prestato attenzione nella
vita ordinaria.
Don Juan spiegò che durante il periodo di
apprendistato uno battaglia per immobilizzare la seconda attenzione.
Conseguentemente, uno deve combattere ancora più per rompere quella stessa
immobilizzazione. In sogni uno deve soddisfarsi con occhiate molto brevi, con
barlumi passeggeri. Non appena uno mette a fuoco qualcosa, uno perde controllo.
Il compito meno generalizzato di Don Juan
mi diede, consisteva in uscire dal mio corpo. Io l'ero riuscito in parte, e per
certo lo considerai sempre come il mio unico vero risultato in sogni. Don Juan
partì prima che io avessi perfezionato la sensazione che poteva maneggiare il
mondo dei temi giornalieri mentre trasognava. La sua partenza interruppe quello
che io pensai andava ad essere un inevitabile montaggio della mia realtà di
sogni sul mondo della mia vita giornaliera.
Per delucidare il controllo della seconda
attenzione, Don Juan presentò l'idea della volontà. Disse che la volontà poteva
descriversi come il massimo controllo della luminosità del corpo in quanto a
campo di energia, o poteva descriversi come un livello di perizia, o un stato
di essere a quello che arriva bruscamente un guerriero in un momento dato. Lo è
sperimentato come un forza che irradia della parte mezza del corpo dopo un
momento del silenzio più assoluto, o di un momento di terrore puro, o di una
profonda tristezza; ma non dopo un momento di felicità. La felicità è troppo
trastornante per permettere al guerriero la concentrazione richiesta al fine di
usare la luminosità il suo corpo e trasformarla in silenzio.
- Il nagual mi disse che per un essere
umano la tristezza è tanto poderosa come il terrore - disse la Grassa -. La
tristezza fa che un guerriero rovesci lacrime di sangue. Ambedue possono
produrre il momento di silenzio. O il silenzio viene per sé stesso, perché il guerriero
lo persegue durante la sua vita.
- Sei arrivato tu a sentire quello momento
di silenzio? - gli domandai.
- Certo l'ho fatto, ma non posso ricordare
come è - disse -. Tu ed io l'abbiamo sentito prima e nessuno dei due possiamo
ricordare niente di quello. Il nagual disse che è un momento di nerezza, un
momento ancora più silente che il momento di fermare e chiudere il dialogo
interno. Quella nerezza, quello silenzio, permette che sorga il tentativo da
dirigere la seconda attenzione, di dominarla, di obbligarla a fare cose. Per
quel motivo lo è chiamato volontà. Il tentativo e l'effetto sono la volontà; il
nagual disse che le due erano unite. Mi disse tutto questo quando io tentavo di
imparare a volare in sogni. Il tentativo di volare produce l'effetto di volare.
Gli dissi che quasi io avevo scartato già
la possibilità di arrivare a sperimentare la volontà.
- La sperimenterai - disse la Grassa -. Il
problema è che tu ed io non stiamo quanto basta affilature per sapere che cosa
è quello che sta succedendoci. Non sentiamo la nostra volontà perché pensiamo
che dovrebbe essere qualcosa del quale siamo sicuri, come il fatto di
arrabbiarsi, per esempio. La volontà è molto silenziosa, non si nota. La
volontà appartiene all'altro io.
- Quale altro io, Grassa? - domandai.
- Tu sai di che cosa sto parlando - rispose
energicamente -. Quando trasogniamo entriamo in nostro altro io. Abbiamo messo
già lì infinite volte, ma ancora non siamo completi.
Un lungo silenzio ebbe luogo. Io mi dissi
che ella aveva ragione dicendo che ancora non eravamo completi. Capii che con
quell'ella voleva dire che eravamo meri apprendisti di un'arte inesauribile. Ma
allora attraversò per la mia mente l'idea che forse ella si riferiva ad
un'altra cosa. Non si trattava di un pensiero razionale. In un principio sentii
qualcosa come una sensazione acuta nel mio plesso solare e dopo ebbi l'idea che
chissà ella si riferiva ad un'altra cosa. Quindi sentii la risposta. Mi arrivò
come un assolo blocco, una specie di massa. Seppi che tutto un insieme si
trovava lì, primo nella punta dello sterno e dopo nella mia mente. Il mio
problema era che non poteva districare velocemente quello che sapeva,
sufficienza per verbalizzarlo.
La Grassa non interruppe i miei processi di
pensiero con commenti o gesti. Era perfettamente silenziosa, sperando. Sembrava
trovarsi collegato internamente con me a tale punto che non dovevamo dire
niente.
Sostenemmo questo sentimento di comunione
dell'uno con l'altro per un momento e dopo questo c'assoggettò ai due. La
Grassa ed io ci calmiamo a poco a poco. Finalmente, incominciai a parlare. Non
era che io dovessi reiterare quello che sentiamo e sapemmo di comune, quello
che necessitava era ristabilire le nostre basi di discussione. Gli dissi che io
sapevo eravamo incompleti di che maniera, ma che non poteva mettere in parole
la mia conoscenza.
- Ci sono tante e tante cose che sappiamo -
disse -. E tuttavia, non possiamo usare tutto quello perché in realtà ignoriamo
come estrarrlo di noi stessi. Tu incominciasti già a sentire quella pressione.
Io l'ho avuta per anni. So e contemporaneamente non so. La maggior parte del
tempo mi sono caduto le bave e tutto quella che dico è pura stupidità.
Io capii a che cosa si riferiva e me
l'intesi di un livello fisico. Io sapevo qualcosa di assolutamente pratico ed
evidente della volontà e di quello che la Grassa aveva chiamato l'altro io, e,
tuttavia, non poteva emettere non la minore parola di quello che sapeva, perché
fosse prenotato o vergognoso, bensì perché ignorava per dove cominciare, come organizzare
la mia conoscenza.
- La volontà è un controllo della seconda
attenzione alla quale lo è chiamato l'altro io - disse la Grassa dopo una lunga
pausa -. Nonostante tutto quello che abbiamo fatto, conosciamo solo un pezzetto
molto piccolo dell'altro io. Il nagual lasciò al nostro carico quello che
completassimo la nostra conoscenza. Quello è il nostro compito di ricordare.
Si diede un colpo nella fronte con la palma
della sua mano, come se qualcosa fosse arrivato improvvisamente alla sua mente.
- Dio sacro! Stiamo ricordando all'altro
io! - esclamò, con la sua voce quasi costeggiando l'isteria. Poi si calmò e
parlò in un tono più soave -: Siamo stati evidentemente già lì e l'unica
maniera di ricordarlo è come stiamo facendolo, sparando i nostri corpi di sogno
mentre trasogniamo insieme.
- Che cosa vuoi dire con quello di sparare
i nostri corpi di sogno? - lo consultai.
- Tu stesso presenziasti quando Genaro
sparava il suo corpo di sogno - disse -. Esce come se fosse una pallottola
lenta; in realtà si attacca e si stacca del corpo fisico con un scricchiolio
forte. Il nagual diceva che il corpo di sogno di Genaro poteva fare la maggior
parte delle cose che noi facciamo normalmente; egli si dirigeva a di quella
maniera per scuoterti. Ora già so che cosa era quello che cercavano il nagual e
Genaro. Volevano che ricordassi, e per riuscirlo Genaro portava a termine
imprese incredibili davanti ai tuoi stessi occhi sparando il suo corpo di
sogno. Ma non servì da niente.
- Io non seppi mai che egli si trovava nel
suo corpo di sogno - dissi.
- Non lo sapesti mai perché non osservavi
niente - disse -. Genaro tentò di fartelo sapere tentando cose che il corpo di
sogno non può fare, come mangiare, bere, e cuci per lo stile. Il nagual mi
disse che a Genaro gli piaceva scherzare con te dicendoti che andava a cagare e
fare che tremassero le montagne.
- Perché il corpo di sogno non può fare
quelle cose? - domandai.
- Perché il corpo di sogno non può
maneggiare il tentativo di mangiare o di bere - rispose.
- Che cosa vuoi dire con quello, Grassa?
- La gran impresa di Genaro consisteva in
che imparò il tentativo di formare il suo corpo fisico nei suoi sogni - spiegò
-. Egli finì quello che tu incominciasti a fare. Egli poteva trasognare tutto
il suo corpo della più perfetta maniera. Ma il corpo di sogno ha un tentativo
differente del tentativo del corpo fisico. Per esempio, il corpo di sogno può
attraversare una parete, perché conosce il tentativo di sparire nell'aria. Il
corpo fisico conosce il tentativo di mangiare, ma non quello di sparire
nell'aria. Per il corpo fisico di Genaro, oltrepassare una parete sarebbe tanto
impossibile come sarebbe mangiare per il suo corpo di sogno.
La Grassa tacque durante alcuni istanti
come se soppesasse quello che aveva appena detto. Io volli sperare di
formularlo più domande.
- Genaro aveva dominato solo il tentativo
del corpo di sogno - disse con una voce soave -. Silvio Manuel, d'altra parte,
era il massimo padrone del tentativo. Ora già so che non possiamo ricordare il
suo viso perché egli non era come qualunque altro.
- Che cosa ti fa dire quello, Grassa? -
domandai.
Ella cominciò a spiegarmi quello che voleva
dire, ma non potè parlare coerentemente. All'improvviso, sorrise. I suoi occhi
si illuminarono.
- So già! - esclamò -. Il nagual mi disse
che Silvio Manuel era il padrone del tentativo perché era permanentemente in
suo altro io. L'era il vero capo. Si trovava dietro tutto quello che faceva il
nagual. In realtà, egli fu quello che fece che il nagual si incaricasse di te.
Sperimentai un'acuta scomodità fisica
sentendo alla Grassa dire quello. Quasi finii per vomitare e dovetti fare
sforzi straordinari per nascondersilo. Ebbi spasmi di vomito. Gli diedi la
schiena. Ella smise di parlare per un istante e dopo procedè come se avesse
deciso di ignorare il mio stato. Mi gridò. Disse che quell'era il momento di
chiarire le nostre offese. Mi rinfacciò il mio risentimento per quello che
successe nella città del Messico. Aggiunse che il mio rancore non si doveva a
che ella si sarebbe messa dalla parte degli altri apprendisti in contro mia,
bensì perché ella li aveva aiutati a smascherarmi. Gli spiegai che tutti quelli
sentimenti erano svaniti in me. Ella continuò inesorabile. Sostenne che non sia
che io affrontassi quelli sentimenti, in qualche modo questi mi girerebbero.
Insistè in che la mia adesione con Silvio Manuel era il midollo del tema.
Io non potevo credere i cambiamenti
spirituali per i quali passai sentendo i suoi argomenti. Mi trasformai in due
persone: un'arrabbiava, spumeggiando della bocca; l'altra era calmata,
osservando. Ebbi un ultimo spasmo doloroso nel mio stomaco e vomitai. Non fu la
sensazione di nausea quella che causò lo spasmo. Piuttosto si trattava di
un'ira incontenibile.
Quando finalmente mi calmai risentii molto
imbarazzato del mio comportamento e preoccupato che un incidente di quella
natura potesse girare a pensare in un'altra occasione.
- Non appena accetti la tua vera natura,
sarai libero del furore - disse la Grassa in un tono impassibile.
Volli discutere con lei, ma vidi la
futilità che quell'implicava. Inoltre, l'attacco di ira aveva consumato la mia
energia. Risi perché in realtà ignorava che cosa io farei in caso che la Grassa
stesse nella cosa certa. Mi fu successo allora che dal momento in che io avevo
dimenticato alla donna nagual, tutto era possibile. Sentiva una strana
sensazione di caldo o irritazione nella gola, come se avesse ingerito cibo
piccante. Ebbi una scossa di allarme corporale giostro come se avesse visto
qualcuno rannicchiato alle mie spalle, ed in quello momento seppi di scienza un
certo qualcosa che un istante prima non sapeva. La Grassa aveva ragione. Silvio
Manuel era stato incaricato di me.
La Grassa rise estentóreamente quando
glielo dissi. Aggiunse che anche ella ricordava qualcosa più di Silvio Manuel.
- Non mi ricordo di lui come persona, come
ricordo alla donna nagual - continuò -, ma sì mi ricordo di quello che il
nagual mi disse di lui.
- Che cosa ti disse? - domandai.
- Disse che mentre Silvio Manuel stette in
questa terra era come Scelse. Sparì una volta senza lasciare orme ed andò
all'altro mondo. Andò via per anni, ed un giorno ritornò. Il nagual diceva che
Silvio Manuel non ricordava dove era stato o che cosa aveva fatto, ma il suo
corpo aveva cambiato. Era ritornato al mondo, ma ritornò in suo altro io.
- Che più ti disse, Grassa? domandai.
- Non posso accordarmi di ma - rispose -. È
come se stesse vedendo attraverso la nebbia.
Io ero sicuro che se ci sforzavamo
duramente, verificheremmo lì stesso chi Silvio Manuel era. Glielo dissi.
- Il nagual assicurava che il tentativo è
presente in tutto - disse improvvisamente la Grassa.
- E quello che cosa vuole dire? - domandai.
- Non so - rispose -. Sto parlando solo
quello che mi è venuto nella mente. Anche il nagual disse che il tentativo è
quello che fa il mondo.
Era sicuro di avere sentito prima quello
stesso. Pensai che Don Juan mi aveva dovuto dire la stessa cosa e che io
l'avevo dimenticata.
- Quando ti parlò di quello Don Juan? -
domandai.
- Non ricordo quando - rispose -. Ma mi
disse che la gente, e tutte le altre creature viventi, per certo, è schiava del
tentativo. Stiamo nei suoi artigli. Ci fa fare tutto quello che vuole. Ci fa
agire nel mondo. Perfino ci fa morire.
Mi disse "che quando ci trasformiamo
in guerrieri, tuttavia, il tentativo diventa il nostro amico. Ci lascia essere
liberi per un momento. A volte perfino noi viene, come se per di là stesse
aspettandoci. Mi disse che egli era personalmente solo un amico del tentativo.
. . , non mangio Silvio Manuel, che era il suo padrone.
In me c'erano immense pressioni di memorie
nascoste che lottavano per uscire. Sperimentai una tremenda frustrazione
durante alcuni momenti e dopo qualcosa in me cedè. Mi calmai. Non mi
interessavo oramai verificare niente di Silvio Manuel.
La Grassa interpretò il mio cambiamento
come un segno che non ci trovavamo intelligenti per confrontare i nostri
ricordi di Silvio Manuel.
- Il nagual ci mostrò a tutti noi quello
che egli poteva fare col suo tentativo - disse, bruscamente -. Poteva fare
apparire cose richiamando al tentativo.
Mi disse "che se io volevo volare,
doveva convocare il tentativo di volare. Mi insegnò allora come egli convocava,
e saltò nell'aria e salì facendo un circolo, come un papalote gigantesco. O
poteva fare che nella sua mano apparissero cose. Mi disse che conosceva il
tentativo di molte cose e che poteva richiamare a quelle stesse cose
tentandoli. La differenza tra lui e Silvio Manuel era che Silvio Manuel,
essendo il padrone del tentativo, conosceva il tentativo di tutto.
Gli dissi che la sua spiegazione richiedeva
chiarimenti. Ella sembrò lottare per sistemare le parole nella sua mente.
- Io imparai il tentativo di volare - disse
-, ripetendo tutte le sensazioni che aveva avuto volando nei miei sogni. Questo
fu solamente un esempio. Il nagual aveva imparato in vita il tentativo di
cientos di cose. Ma Silvio Manuel andò alla fonte stessa. La penetrò. Non
dovette imparare il tentativo di niente. Era uno col tentativo. Il problema era
che non aveva oramai più desideri, perché il tentativo non ha desideri per sé
stesso, e così doveva dipendere dal nagual per la volontà. In altre parole,
Silvio Manuel poteva fare tutto quello che il nagual voleva. Il nagual dirigeva
il tentativo di Silvio Manuel. Ma neanche il nagual aveva come desideri, la
maggior parte del tempo non facevano niente.
VIII. LA COSCIENZA DEL LATO DESTRO E DEL
LATO SINISTRO
La nostra discussione sul trasognare fu
sommamente benefica per noi, non solo perché risolse gli ostacoli di nostro
trasognare insieme, bensì perché portò i concetti del trasognare al livello
intellettuale. Parlare di essi c'ebbe occupati; ci permise di fare una pausa
col fine di mitigare la nostra agitazione.
Una notte che camminava di acquisti chiamai
la Grassa da una cabina telefonica. Mi disse che era stato in un magazzino
commerciale e che aveva avuto la sensazione che io ero nascosto dietro alcuni
manichini di vetrina. Era tanto sicura che io gli continuavo giocando un
scherzo che diventò furiosa con me. Si scagliò per il negozio tentando di
acchiapparmi e diventare sapere la sua collera. Quindi si rese conto che in
realtà stava ricordando qualcosa che ella abituava fare con me: avere una
stizza.
All'unisono, giungiamo allora alla
conclusione che era ora di tornare a cercare del trasognare insieme. Dicendolo,
sentiamo un ottimismo rinnovato. Andai immediatamente a casa.
Entrai molto facilmente nel primo stato,
veglia in riposo. Ebbi una sensazione di piacere corporeo, un formicolio che
irradiava del mio plesso solare e che si trasformò nell'idea che otterremmo
grandi risultati. Quell'idea si trasformò in una nervosa anticipazione. Mi resi
conto che i miei pensieri derivavano dal formicolio nella metà del mio petto.
Tuttavia, nel momento in cui centrai la mia attenzione in lui, il formicolio
cessò. Era come una corrente elettrica che io potevo collegare e sconnettere.
Il formicolio incominciò di nuovo, questa
volta più pronunciato che prima, e di subitaneo mi scoprii faccia a faccia con
la Grassa. Era come se avesse dato rovesciata ad un angolo per urtarmi con lei.
Rimasi assorto guardandola. Era tanto assolutamente reale, tanto lei stessa che
sentii la necessità di toccarla. L'effetto più puro, più soprannaturale per
lei, germogliò di me in quello momento. Incominciai a singhiozzare incontrolablemente.
Rapidamente, la Grassa tentò di incrociare
le nostre braccia per fermare la mia esplosione, ma non potè muoversi nella
cosa più minima. Guardiamo intorno nostro. Non c'era nessun quadro fisso di
fronte ai nostri occhi, nessuna immagine statica di nessun tipo. Ebbi un
discernimento repentino e dissi alla Grassa che avevamo perso l'opportunità di
vedere una scena di trasognare a causa di stare guardandoci l'un l'altro. Solo
fino a dopo che avevo parlato mi resi conto che ci trovavamo in una situazione
nuova. Il suono della mia voce mi spaventò. Era una voce strana, aspra,
spiacevole. Mi diede una sensazione di irritazione fisica.
La Grassa rispose che non avevamo perso
niente che nostra seconda attenzione era stata acchiappata per qualcosa di
strano. Sorrise e fece un gesto corrugando la bocca, un miscuglio di sorpresa
ed irritazione davanti al suono della sua propria voce.
Trovai la novità di parlare in sogni
affascinante. Non era che stessimo trasognando una scena nella quale
parlassimo, ma in realtà conversavamo. E questo richiedeva un sforzo unico,
molto simile allo sforzo che dovetti fare in un principio discendendo una scala
in sogni.
Gli domandai se credeva che il suono della
mia voce era spiritoso. Ella assentì e non estentóreamente. Il suono della sua
risata mi commosse. Ricordai che Don Genaro normalmente faceva i rumori più
strani ed aterrorizantes; la risata della Grassa si trovava nella stessa
categoria. Allora sperimentai l'impatto di comprendere che la Grassa ed io,
spontaneamente, eravamo entrati nei nostri corpi di sogno.
Voleva prenderla della mano. Lo tentai, ma
non potei muovere il braccio. Come aveva già una certa esperienza di muovermi
in quello stato, mi proporsi andare via di fianco alla Grassa. Il mio desiderio
era abbracciarla, ma invece di quello mi mossi fino ad un punto tanto prossimo
di lei che ci fondiamo. Io ero cosciente della mia individualità, ma
contemporaneamente sentiva che era parte della Grassa. Quella sensazione mi
piacque immensamente.
Rimanemmo fusi fino a che qualcosa ruppe il
nostro vincolo. Sentii un impulso di esaminare l'ecosistema. Guardai, e
chiaramente ricordai l'avere visto prima. Ci trovavamo circondati di piccoli
promontori circolari che esattamente somigliavano dune di sabbia. Queste si
trovavano intorno nostro, in tutte le direzioni, fino a dove poteva vedersi. Le
dune sembravano essere fatte di qualcosa che somigliasse pietra arenosa di un
tono gialli pallidi, o rozzi granelli di solfuro. Il cielo era dello stesso
colore, molto basso ed oppressivo. C'erano banche di nebbia giallognola o
qualche tipo di vapore giallo che pendeva da certi posti del cielo.
Allora notai che la Grassa ed io sembravamo
respirare normalmente. Io non potevo sentire il mio petto con le mani, ma sì
riusciva a sentirlo espandersi quando inalava. Ovviamente i vapori gialli non
erano dannosi per noi.
Incominciamo a muoverci contemporaneamente,
lenta, accuratamente, quasi come se camminassimo. Dopo una breve distanza mi
sentii molto stanco, e la Grassa anche. Scivolavamo sul suolo e,
apparentemente, muoversi di quella maniera era molto faticoso per nostra
seconda attenzione; richiedeva un grado eccessivo di concentrazione. Non ci
trovavamo imitando intenzionalmente la nostra forma ordinaria di camminare, ma
l'effetto veniva ad essere quasi lo stesso. Muoverci richiedeva esplosioni di
energia, qualcosa come esplosioni minuscole, con pause intermedie. Dato che non
avevamo obiettivo muovendoci, finalmente dovemmo fermare.
La Grassa mi parlò con una voce tanto
dispersa che appena era udibile. Disse che ci trovavamo avanzando, come automi,
verso le regioni più pesanti, e che di continuare facendolo la pressione
risulterebbe tanto grande che morremmo.
Automaticamente facemmo il giro e ci
dirigiamo per dove venivamo, ma la sensazione di fatica non cedè. I due stavamo
tanto finiti che non potevamo conservare oramai il nostro posizione erecta.
Crolliamo e, spontaneamente, adottiamo la posizione di trasognare.
Svegliai istantaneamente nel mio studio. La
Grassa svegliò nel suo guardaroba.
La cosa prima che dissi al risveglio fu che
era stato già prima in quello paesaggio vane varie volte. Aveva visto già
almeno due aspetti di lui: uno perfettamente piano, l'altro coperto per piccoli
promontori rotondi, come di sabbia. Al momento di parlare, mi resi conto che
neanche mi ero disturbato a confermare se la Grassa ed io avemmo la stessa
visione. Mi contenni e gli dissi che mi ero lasciato portare per la mia propria
eccitazione; aveva proceduto come se paragonasse note di un viaggio di ferie
con lei.
- È già molto tardi per quello tipo di
conversazione tra noi - disse, con un sospiro -, ma se quello ti fa felice, ti
dirò quello che vidi.
Pazientemente mi descrisse tutto quello che
aveva visto, detto e fatto. Aggiunse che anche ella era stata in precedenza in
quello posto deserto, e che era completamente sicura che si trattava dello
spazio tra il mondo che conosciamo e l'altro mondo.
- È la zona tra le linee parallele -
continuò -. Possiamo andare lì in sogni: Ma per potere abbandonare questo mondo
ed arrivare all'altro, quello che sta oltre le linee parallele, dobbiamo
percorrere quella zona coi nostri propri corpi.
Sentii un brivido pensando che entreremmo
in quello posto deserto coi nostri propri corpi.
- Tu ed io siamo stati insieme lì prima,
coi nostri corpi - continuò la Grassa -. Non ti ricordi?
Gli dissi che tutto quello che poteva
ricordare era avere visto quello paesaggio due volte sotto la guida di Don
Juan. Le due volte, io avevo scartato l'esperienza perché questa era stata
prodotta mediante l'ingestione di piante allucinogene. Seguendo i dettati del
mio intelletto, li aveva considerate come visioni private e non mangio
esperienze consensuali. Non ricordava avere visto quello paesaggio in nessuna
altra circostanza.
- Quando fu che tu ed io fummo lì coi
nostri corpi? - domandai.
- Non so - disse -. Mi arrivò un vago
ricordo di quello giusto quando tu menzionasti essere stato lì prima. Credo che
ora a te si tocchi aiutarmi a finire quello che ho cominciato già a ricordare.
Non posso metterlo a fuoco ancora, ma sì ricordo che Silvio Manuel ci portò,
alla donna nagual, a te e me a quello posto tanto desolato. Ma non ricordo
perché ci portò lì. Non stavamo trasognando.
Non l'ascoltai più, benché ella continuasse
a parlare. La mia mente aveva cominciato a profilarsi verso qualcosa di ancora
disarticolato. Lottai per mettere in ordine i miei pensieri, perché questi
vagavano alla deriva. Durante alcuni istanti sentii che era ritornato dietro
anni, ad un'epoca in che non poteva fermare il mio dialogo interno. Allora la
nebbia cominciò a rasserenarsi. I miei pensieri si ordinarono per se stessi
senza la mia direzione cosciente, ed il risultato fu il ricordo completo di un
evento che era riuscito già a ricordare parzialmente in uno di quelli
lampeggiamenti disarticolati di ricordi che normalmente aveva. La Grassa aveva
ragione, una volta eravamo stati portati ad una regione che Don Juan chiamava
"il limbo", evidentemente basandosi sui dogmi religiosi. Seppi che
anche la Grassa aveva ragione dicendo che non stavamo trasognando.
In quell'occasione, a richiesta di Silvio
Manuel, Don Juan congregò alla donna nagual, alla Grassa ed io. Mi disse che
c'aveva convocati perché senza sapere come, io ero entrato in un recesso
speciale della coscienza che era il centro della più acuta attenzione. Io ero
arrivato già previamente a quello stato, al quale Don Juan chiamava "il
lato sinistro sinistro", ma molto brevemente, e sempre guidato per lui.
Uno dei tratti principali, e quello che aveva il valore più grande per tutti
quelli che ci trovavamo inclusi con Don Juan, era che potevamo percepire una
colossale banca di vapore giallognolo in quello stato, qualcosa che Don Juan
chiamava "la parete di nebbia." Ogni volta che io potevo percepirla,
questa si trovava sempre alla mia destra, estendendosi fino all'orizzonte e,
per la cosa alta, verso l'infinito, dividendo in due al mondo. La parete di
nebbia normalmente muoveva andasse già alla sinistra o la destra, come io
girassi la mia testa; sembrava non c'essere modo di affrontarla.
In quello giorno, tanto dono Juan come
Silvio Manuel mi aveva parlato della parete di nebbia. Ricordai che quando finì
di parlare Silvio Manuel prese la Grassa della nuca, come se fosse una gattina,
e sparì con lei dentro la banca di nebbia. Io ebbi solo una frazione di secondo
per presenziare alla sua sparizione, perché in qualche modo Don Juan era
riuscito a fare che io affrontassi la parete. Non mi prese della nuca, ma mi
spinse dentro alla nebbia; ed immediatamente mi trovai guardando quella piana
desolata. Don Juan, anche Silvio Manuel, la donna nagual e la Grassa si
trovavano lì. Non presi in considerazione che cosa era quello che stavano
facendo. Mi preoccupavo una sensazione che sperimentava, un'oppressione di lui
ma spiacevole e minaccioso. Percepii che mi trovavo all'interno di una caverna
soffocante, gialla, di soffitti bassi. La sensazione fisica di pressione
diventò tanto dominatore che non potei continuare oramai a respirare. Era come
se tutte le mie funzioni fisiche si fossero fermate. Non poteva sentire nessuna
parte del mio corpo. E tuttavia, potevo muovermi, camminare, estendere le
braccia, girare la testa. Misi le mie mani nelle cosce: non c'era sensazione
nelle mie cosce né nelle palme delle mie mani.
Le mie gambe e braccia si trovavano lì visibilmente,
ma non erano palpabili.
Mosso per l'infinito terrore che
sperimentava, presi alla donna nagual di un braccio e le feci perdere
l'equilibrio. Ma non fu la mia forza muscolare quello che la spinse. Era
un'energia che non era immagazzinata nei miei muscoli o nell'assemblaggio
osseo, bensì nello stesso centro di me.
Mi fu supposto mettere a funzionare
un'altra volta quell'energia e presi la Grassa. Ella sbattè a causa della forza
della mia biffa. Allora compresi che l'energia che mi permettevo di muoverla
derivava da una protuberanza che si trovava equilibrata nel punto centrale del
mio corpo. Quello la spingeva e tirava come lo farebbe un tentacolo.
Vedere e comprendere tutto quello mi prese
solo un istante. Al momento seguente di nuovo mi trovavo nello stesso stato di
angoscia e terrore. Guardai a Silvio Manuel con una muta supplica di aiuto.
Come la maniera mi restituì lo sguardo mi convinse che io ero perso. I suoi
occhi erano freddi ed indifferenti. Don Juan mi diede la schiena ed io mi
scuotevo dal mio interno con un terrore che oltrepassava la mia compressione.
Pensai che il sangue del mio corpo si trovava in ebollizione, non perché
sentisse caldo, bensì perché una pressione interna cresceva fino al punto di
esplodere.
Don Juan mi ordinò che mi calmassi e che mi
abbandonassi alla mia morte. Disse che io andavo a rimanere lì fino a che
morisse e che aveva la possibilità di morire mitemente se faceva un sforzo
supremo e lasciava che il terrore mi possedesse; o poteva morire in agonia, se
sceglieva combatterlo.
Silvio Manuel mi parlò, qualcosa che molto
raramente faceva. Disse che l'energia di che io avevo bisogno per accettare il
mio terrore si trovava nella mia parte mezza, e che l'unica maniera di
trionfare era piegandomi, rendendomi senza rendermi.
La donna nagual e la Grassa stavano in
perfetta calma. Io ero l'unico che agonizzava lì. Silvio Manuel disse che mi
trovavo sprecando tanta energia che la mia fine era questione di momenti, e che
io potevo considerarmi già morto. Don Juan fece un segno alla donna nagual e la
Grassa affinché lo seguissero. Esse mi diedero la schiena. Non potei vedere
oramai che più fecero. Sentii una vibrazione poderosa percorrendomi. Supposi
che era il rantolo della mia morte; la mia lotta aveva concluso. Non mi
preoccupai oramai più. Cedei all'incommensurabile terrore che si stava
ammazzando. Il mio corpo, o la configurazione che io consideravo il mio corpo,
si calmò, si abbandonò alla morte. Quando lasciai che il terrore entrasse in
mio, o chissà che uscisse da me, sentii e vidi un tenue vapore - una macchia
bianchiccia contro i paraggi giallo-solforosi - che abbandonava quello che io
credevo che era il mio corpo.
Don Juan ritornò al mio fianco e mi esaminò
con curiosità. Silvio Manuel si allontanò e tornò a prendere la Grassa della
nuca. Chiaramente lo vidi gettandola, come se fosse un gigantesco polso di
straccio, dentro la banca di nebbia. Poi egli stesso si introdursi lì e sparì.
La donna nagual fece un gesto come
invitandomi ad avvicinarmi. Diventai verso lei, ma, prima che potesse
raggiungerla, Don Juan mi diede un poderoso spintone che mi lanciò attraverso
la spessa nebbia gialla. Non trastabillé, ma pianificai attraverso la banca e
finii cadendo a capofitto nel suolo dal mondo di tutti i giorni.
La Grassa ricordò tutto questo come io
glielo narravo. Dopo, aggregò più dettagli.
- La donna nagual ed io non temevamo per la
tua vita - assicurò -. Il nagual c'aveva detto già che tu dovevi essere forzato
ad abbandonare le tue difese, quello non era nuovo. Ogni guerriero uomo deve
essere forzato mediante la paura.
"Silvio Manuel mi ero portato già tre
volte prima all'altro lato della parete, affinché io imparassi a calmarmi.
Disse che se tu mi vedevi tranquilla, quello ti colpirebbe, e così fu. Tu ti
abbandonasti e ti attutisti.
- Ti diede anche molto lavoro imparare a
calmarti? - domandai.
- No. Quello è facile per una donna -
rispose -. Quello è il vantaggio che abbiamo. L'unico problema è che qualcuno
ci deve trasportare attraverso la nebbia. Noi non possiamo farlo sole.
- Perché no, Grassa? - domandai.
- Si deve essere pesante per attraversare
la nebbia, ed una donna è leggera - disse -. Troppo leggera, in realtà.
- E la donna nagual? Io non vidi che
nessuno la trasportasse - dissi.
- La donna nagual era speciale - assicurò
la Grassa -. Ella sé poteva fare tutto per sé stessa. Potevo portarmi là, o
portarti. Perfino poteva attraversare tutta quella piana deserta, qualcosa che
il nagual disse che era obbligatorio per tutti i viaggiatori che si
avventuravano nella cosa ignorata.
- E perché fu là con me la donna nagual? -
gli domandai.
- Silvio Manuel ci portò per appoggiarti -
disse -. Egli credeva che tu avevi bisogno della protezione di due donne e di
due uomini che ti fiancheggiassero. Silvio Manuel credeva che dovessi essere
protetto delle entità che circondano e spiano in quello posto. Gli alleati
vengono da quella piana deserta. Ed altre cose ancora più feroci.
- A te ti protessero anche? - domandai.
- Io non ho bisogno di protezione - rispose
-. Sono donna. Sono libero di tutto quello. Ma tutti credevamo che tu ti
trovavi in un guaio terribile. Tu eri il nagual, ma un nagual molto stupido.
Credevamo che chiunque di quelli feroci alleati, o demoni se preferisci
chiamarli così, ti aveva potuto sventrare, o smembrato. Quello fu quello che
disse Silvio Manuel. Ci portò affinché fiancheggiassimo i tuoi quattro angoli.
Ma la cosa più spiritosa era che né il nagual né Silvio Manuel sapevano che in
realtà non avevi bisogno di noi. Quello che era dable era che tu dovevi
camminare moltissimo fino a che perdessi la tua energia. Allora Silvio Manuel
ti andava a spaventare segnalandoti gli alleati e convocandoli affinché ti
fossero venuto sopra. L'e il nagual decidevano di aiutarti poco a pochino.
Quella è la regola. Ma qualcosa riuscì male. All'istante in cui arrivasti lì,
diventasti pazzo. Non ti eri mosso né un centimetro e stavi morendo già. Eri
morto dallo spavento e neanche avevi visto gli alleati.
"Silvio Manuel mi contò che non sapeva
che cosa fare, e così ti disse all'udito la cosa ultima che si proporsi dirti:
che cedessi che ti arrendessi senza renderti. Tu assolo ti tranquillizzasti ed
essi non dovettero fare niente di quello che avevano pianificato. Al nagual e
Silvio Manuel non rimase loro oramai un'altra cosa bensì tirarmi fuori di lì.
Dissi alla Grassa che quando mi sentii di
nuovo nel mondo c'era in piedi qualcuno vicino a me che mi aiutò ad alzarmi.
Quell'era tutto quello che poteva ricordare.
- Stavamo in casa di Silvio Manuel - ella
chiarì -. Ora già posso ricordare molte cose di quella casa. Qualcuno mi disse,
non so chi che Silvio Manuel trovò la casa e la comprò perché era stato
costruita in un posto di potere. Ma qualcuno più disse che Silvio Manuel trovò
la casa, gli piacque, la comprò, e dopo portò il potere a lei. Io nella cosa
personale credo che Silvio Manuel portò il potere. Credo che la sua
impeccabilità sostenne il potere in quella casa tutto il tempo in che egli ed i
suoi compagni vissero lì.
"Quando era ora che essi andassero
via, il potere del posto svanì con essi, e la casa si trasformò in quello che
era stato prima che Silvio Manuel la trovasse: una casa ordinaria.
Mentre la Grassa parlava, la mia mente
sembrava rischiararsi molto più, ma quanto basta non ferma rivelarmi quello che
ci successe in quella casa, quello che mi ero riempito di tanta tristezza.
Senza sapere perché, era sicuro che aveva a che vedere con la donna nagual.
Dove stava ella?
La Grassa non rispose quando glielo
domandai. Un lungo silenzio ebbe luogo. Ella si scusò, dicendo che doveva fare
la colazione; era già di domani. Mi lasciò solo, con una lugubrez ed una
dolorosa malinconia. La chiamai. Ella si arrabbiò e tirò le sue casseruole al
suolo. Capii molto bene perché lo faceva.
In un'altra sezione di trasognare
penetriamo insieme ancora più profondamente nella cosa intricata della seconda
attenzione. Questo ebbe dopo luogo alcuni giorni. La Grassa ed io, senza
nessuna aspettativa o sforzo al riguardo, ci troviamo insieme in piedi. Tre o
quattro volte ella tentativo, in vano, incrociare il suo avambraccio col mio.
Mi parlò, ma quello che diceva mi era incomprensibile. Tuttavia, seppi che ella
spiegava che nuovamente ci trovavamo nei nostri corpi di sogno. La Grassa mi
notava che tutto il nostro movimento dovrebbe sorgere dalle nostre parti mezze.
Come nel nostro tentativo anteriore,
nessuna scena di trasognare si presentò affinché l'esaminassimo, ma mi sembrò
riconoscere un locale concreto che io avevo visto quasi nei miei sogni tutti i
giorni per un anno: si trattava della valle della tigre denti di sciabola.
Camminiamo alcuni metri. Questo nostra
volta movimenti non furono violenti o esplosivi. In realtà camminiamo coi
nostri ventri, senza nessun tipo di azione muscolare. L'aspetto più violento
era la mia mancanza di pratica; era come la prima volta che montai in
bicicletta. Facilmente mi stancai e persi il ritmo, diventai titubante ed
insicuro di me stesso. Ci trattenemmo. Anche la Grassa si aveva desincronizado.
Incominciamo ad esaminare quello che ci
circondava. Tutto aveva una realtà indisputabile, almeno per l'occhio. Ci
trovavamo in una zona rugosa con una strana vegetazione. Non potei identificare
i rari arbusti che vidi. Sembravano alberi piccoli, di un metro e mezzo di
alto. Avevano molto poche foglie che erano piane e grosse, di un colore
verdognolo, e fiori enormi, attraenti, di colore marrone oscuro con frange di
oro. I fusti non erano maderosos, ma sembravano leggeri e flessibili, come
giunchiglie; si trovavano posate di spine lunghe che somigliavano formidabili
aghi. Alcuni piante vecchie che si erano asciugati e caduto al suolo mi
facevano avere l'impressione che i fusti erano vuoti.
Il suolo era molto oscuro, come se fosse
umido. Tentai di inclinarmi per toccarlo, ma non potei muovermi. La Grassa mi
indicò con un segno che utilizzasse la parte mezza del mio corpo. Quando lo
feci non dovetti inclinarmi per toccare il suolo; c'era qualcosa in me che era
come un tentacolo con capacità di sentire. Ma io non potevo riconoscere quello
che mi trovavo sentendo. Non c'erano qualità tattili in questione sulle quali
stabilire distinzioni. Il suolo che toccava sembrava essere un nucleo visuale
in me. Mi immersi allora in un dilemma intellettuale. Perché il trasognare
sembrava essere il prodotto della mia facoltà visuale? Si doveva alla preponderanza
della cosa visuale nella vita di tutti i giorni? Le mie domande non avevano
significato. Non c'era possibilità di risponderli, e tutti quelli punti
interrogativi debilitavano solo la mia seconda attenzione.
La Grassa ruppe le mie riflessioni dandomi
un spintone. Sperimentai una sensazione che era come tutto d'un colpo. Un
tremore mi percorse. La Grassa segnalò avanti di noi. Come sempre, la tigre
denti di sciabola giaceva nello scoglio dove l'aveva visto sempre.
C'avviciniamo fino a che ci troviamo ad alcuni metri dello scoglio e dovemmo
alzare le nostre teste per vedere la tigre. Ci trattenemmo. La tigre si
incorporò. Il suo volume era stupendo, specialmente la sua larghezza.
Seppi che la Grassa voleva che sfuggissimo
intorno alla tigre fino ad arrivare all'altro lato della collina. Io volevo
dirgli che quello potrebbe essere pericoloso, ma non potei trovare una maniera
di trasmettergli il messaggio. La tigre sembrava iraconda, eccitata. Si
appoggiò sulle zampe posteriori, come se si preparasse assaltare su noi. Io ero
terrorizzato.
La Grassa diventò verso me, sorridendo.
Compresi che mi dicevo che non soccombesse al panico, perché la tigre sola era
un'immagine fantasmagorica. Con un movimento della testa, mi sollecitò a
proseguire. E tuttavia, in un livello imprecisable, io sapiente che la tigre
era un'entità, chissà non nel senso concreto del nostro mondo quotidiano, ma
nonostante reale. E come la Grassa ed io stavamo trasognando, avevamo perso la
nostra propria concrezione nel mondo. In quello momento eravamo all'uguale che
la tigre: la nostra esistenza era fantasmagorica ugualmente.
Avanziamo un altro passo davanti alla
brontolone insistenza della Grassa. La tigre saltò dello scoglio. Vidi il suo
enorme corpo solcando l'aria, venendo faceva io direttamente. Persi la
sensazione che mi trovavo trasognando: per me, la tigre era reale ed io andavo
ad essere rotto. Una barriera di luci, immagini ed i colori primari più intensi
che sia riuscito a vedere lampeggiò in tutto il mio ambiente. Svegliai nel mio studio.
Dopo la Grassa ed io arriviamo ad essere
esperti in trasognare insieme. Io avevo la certezza che riusciamo questo grazie
al nostro disinteresse, al fatto che non avevamo oramai tanta premura. Il
risultato dei nostri sforzi non era quello che c'impelleva ad agire. Piuttosto
si trattava di una compulsione ulteriore che ci dava l'impeto per agire
impeccabilmente senza pensare a ricompense. Tutte le nostre sessioni furono
tanto facili come la prima, benché fosse maggiore la velocità e la semplicità con
la quale entravamo nella seconda fase di trasognare, la veglia dinamica.
La nostra abilità era tale che trasognavamo
insieme ogni notte. Senza nessuna intenzione della nostra parte, i sogni si
concentrarono a caso su tre aree: nelle dune di sabbia, nell'ecosistema della
tigre denti di sciabola e, la cosa più importante, in avvenimenti del nostro
passato che avevamo dimenticato del tutto.
Quando le scene che confrontavamo avevano a
che vedere con eventi dimenticati nei quali la Grassa ed io svolgiamo un ruolo
importante, ella non aveva difficoltà in intrecciare il suo braccio col mio.
Quell'atto mi davo un'irrazionale sensazione di sicurezza. La Grassa mi spiegò
che scacciava la solitudine infrangibile che produce la seconda attenzione.
Disse che incrociare le braccia propizia un coraggio di obiettività, e, come
risultato, ambedue potevamo contemplare le attività che avevano luogo in ogni
scena. A volte facevamo parte delle attività. Altre volte contemplavamo
obiettivamente la scena come se stessimo in un cinema.
Secondo la Grassa, la maggior parte di
nostro trasognare si raggruppava insieme in tre categorie. La prima, e per
certo la più vasta, era una riattuazione di avvenimenti che avevamo vissuto
insieme. Il secondo era un scrutinio che noi due facevamo di eventi che
solamente io avevo "vissuto": la terra della tigre denti di sciabola
si trovava in questa categoria. Il terzo era una visita reale in un dominio che
esisteva come presenziavamo a lui nel momento della nostra visita. La Grassa
sosteneva che quelli promontori gialli si trovavano presenta qui ed ora, e che
quella è la maniera come quelli vedi il guerriero che viaggia tra essi.
Io volevo discutere una questione con lei.
Ambedue avevamo avuto misteriose relazioni con gente alla quale avevamo
dimenticato per ragioni inconcepibili per noi; ma era gente al che, nonostante,
c'era in realtà conosciuto. La tigre denti di sciabola, d'altra parte, era una
creatura propria del mio sogno. Mi era impossibile concepire uno e l'altro
nella stessa categoria:
Prima che potesse esprimere i miei
pensieri, ricevei la sua risposta. Era come se in realtà ella si trovasse
all'interno della mia mente, leggendola come se fosse un testo.
- Appartengono alla stessa classe - disse,
e rise nervosamente -. Non possiamo spiegare perché abbiamo dimenticato tutto
quello, o come è che ora lo ricordiamo. Non possiamo spiegare niente. La tigre
denti di sciabola sta lì, in alcuno parte. Non sapremo mai dove. Ma perché
preoccuparci per un'inconciencia inventata? Dire che una cosa è una realtà e
che l'altra è un sogno non ha nessun significato per l'altro io.
Per la Grassa e per me trasognare arrivò
insieme ad essere un mezzo di raggiungere un mondo inimmaginato di ricordi
nascosti. Trasognare ci permise insieme accordarci di avvenimenti che non
potevamo ricordare attraverso la nostra memoria usuale e corrente. Quando li
riesaminavamo nelle nostre ore di veglia, ricordi ancora più elaborati si
liberavano. Di questa maniera dissotterriamo, per così dirlo, masse di ricordi
che erano stati nascosti in noi. Ci prese quasi due anni di sforzo prodigioso e
di concentrazione arrivare ad una minima comprensione di quello che c'era
successi.
Don Juan ci disse che un essere umano è
diviso in due. Il lato destro che è chiamato il tonale, abbraccia tutto quello
che l'intelletto è capace di concepire. Il lato sinistro, chiamato il nagual è
un dominio di tratti indescrivibili; un dominio che è impossibile da contenere
in parole. Magari il lato sinistro è compreso, se compressione è quella che ha
luogo, con la totalità del corpo, di lì la sua resistenza alla
concettualizzazione.
Anche Don Juan c'aveva detto che tutte le
facoltà, possibilità e risultati della stregoneria, dalla cosa più semplice
fino alla cosa più sorprendente; si trova nel corpo umano stesso.
Prendendo come basi i concetti che ci
troviamo divisi in due e che tutto si trova nel corpo stesso, la Grassa propose
una spiegazione dei nostri ricordi. Ella credeva che durante gli anni della
nostra associazione col nagual Juan Matus, il nostro tempo si trovava diviso
tra stati di coscienza normale, nel lato destro, il tonale, dove prevale la
prima attenzione, e stati di coscienza accresciuta, nel lato sinistro, il
nagual, o il posto della seconda attenzione.
La Grassa credeva che gli sforzi del nagual
Juan Matus avessero come oggettivo condurci all'altro io per mezzo
dell'autocontrollo della seconda attenzione attraverso il trasognare. Tuttavia,
anche Don Juan ci mise in contatto diretto con la seconda attenzione mediante
una manipolazione corporale. La Grassa ricordava che egli la forzava a passare
di un lato all'altro fosse già opprimendo o massaggiandolo la schiena. Diceva
che perfino gli dava a volte un buon colpo nella scapola destra. Il risultato
era che ella entrava in un straordinario stato di chiarezza. La Grassa credeva
che in quello stato tutto si muovesse con maggiore celerità, e tuttavia niente
nel mondo era stato invertito.
Settimane dopo che la Grassa mi ero detto
questo, ricordai che a me avevo pensato la stessa cosa. In un momento dato, Don
Juan mi davo un colpo nella schiena. Io sentii sempre quello colpo nella spina,
in mezzo ed approda delle mie scapole. Una chiarezza straordinaria mi dominavo
dopo. Il mondo era lo stesso ma più nitido. Tutto si realizzava per sé stesso.
Magari si trattava che le mie facoltà di ragionamento erano nuvolose mediante
il colpo di Don Juan, e quello mi permettevo percepire senza esse.
Io rimanevo indefinitamente con quella
chiarezza, o fino a che Don Juan mi davo un altro colpo nello stesso posto per
diventare ritornare al mio stato normale di coscienza. Don Juan non mi spinse
mai o mi massaggiò. Mi diede sempre un colpo diretto e forte, non mangio il
colpo di un pugno, bensì piuttosto un impatto che mi toglievo l'alito per
istanti. Io dovevo respirare interrottamente, inalare lunghe e rapide boccate
di aria fino a che di nuovo poteva respirare normalmente.
La Grassa represse lo stesso effetto: tutta
l'aria era espulsa dei suoi polmoni mediante il colpo del nagual ed ella doveva
aspirare più del conto per potere riempirli nuovamente. La Grassa credeva che
la respirazione era il fattore decisivo. Nella sua opinione le inalazioni di
aria che ella si vedeva forzata a fare dopo essere stato battuta erano quelle
che accrescevano la coscienza. Non poteva, tuttavia, spiegare di che maniera la
respirazione colpiva la sua percezione e la sua coscienza. Anche la Grassa
spiegò che a lei non l'era dovuto battere per farle ritornare al suo stato
normale. La girava mediante i suoi propri mezzi, senza sapere come.
Le sue osservazioni mi sembrarono
pertinenti. Quando bambino, e perfino già di adulto, occasionalmente era
rimasto senza alito cadendo di spalle. Ma l'effetto del colpo di Don Juan,
benché mi lasciassi senza alito, non era simile in nessun modo. Non c'era
dolore, ed invece mi apportava una sensazione impossibile da descrivere. La
cosa più vicina a quello che posso arrivare sarebbe dire che creava in me un
sentimento come di secchezza. I colpi nella schiena sembravano resecare i miei
polmoni ed offuscare tutto il resto. Dopo, come la Grassa aveva osservato,
tutto quello che dopo il colpo del nagual era diventato nebbioso, acquisiva una
nitidezza cristallina non appena respirava, come se la respirazione fosse il
catalizzatore, il fattore determinante.
La stessa cosa pensavo quando ritornava
alla coscienza di tutti i giorni. L'aria era espulsa di me, il mondo che
contemplava diventava torbido e dopo si rischiarava quando riempiva i polmoni.
Un altro tratto di quelli stati di
coscienza accresciuta era la ricchezza incomparabile dell'interazione
personale, una ricchezza che i nostri corpi comprendevano come una sensazione
di velocità. Il nostro movimento di andata e ritorno tra il lato destro ed il
sinistro ci facilitava discernere che nel lato destro si consuma troppa energia
e troppo tempo nelle azioni ed interazioni della vita giornaliera. Nel lato
sinistro, d'altra parte, esiste una necessità inerente di economia e velocità.
La Grassa non poteva descrivere quello che
in realtà questa velocità, né io ero neanche. La cosa migliore che potrebbe
fare sarebbe dire che nel lato sinistro io potevo comprendere il significato
delle cose con precisione, direttamente. Ogni aspetto di attività si trovava
libero di preliminari o introduzioni. Io agivo e riposava; avanzava e
retrocedeva senza nessuno dei processi di pensiero che mi sono usuali. Questo
era quello che la Grassa ed io capivamo per velocità.
La Grassa ed io discerniamo in un momento
dato che la ricchezza della nostra percezione nel lato sinistro era una
comprensione post-facto. La nostra interazione sembrava essere ricca alla luce
della nostra capacità di ricordarla. Ci rendemmo allora conto che in quelli
stati di coscienza accresciuta avevamo percepito tutto di un solo colpo, una
massa bultosa di dettagli inspiegabili. A questa abilità di percepire tutto di
un solo colpo lo chiamiamo intensità. Per anni era stato impossibile per noi
esaminare le distinte parti che componevano quelle esperienze; non avevamo
potuto sintetizzare quelle parti in una sequenza che avesse significato per
l'intelletto. Dato che eravamo incapaci di effettuare quelle sintesi, non
potevamo ricordare. La nostra incapacità per ricordare, in realtà era
l'incapacità di mettere su una base lineare la memoria della nostra percezione.
Non potevamo estendere, per così dirlo, le nostre esperienze al fine di
sistemarli in un ordine di successione. Le esperienze stettero sempre alla
nostra portata, ma contemporaneamente era impossibile restaurarli, perché si
trovavano bloccate per una muraglia di intensità.
Il compito di ricordare, allora,
propriamente, consisteva in unire i lati sinistro e destro, di riconciliare
quella due forma distinte di percezione in un tutto unificatore. Il compito di
consolidare la totalità di uno stesso si effettuava mediante il reacomodo dell'intensità
in una sequenza lineare.
Ci ci pensò che chissà le attività nelle
quali ricordavamo avere preso parte, non presero molto tempo in portarsi a
termine in termini di tempo dosato per orologio. Per ragione di potere, in
quelle circostanze, percependo in termini di intensità, avevamo potuto avere
solo la sensazione di estesi passaggi di tempo. La Grassa credeva che se
potessimo rearreglar l'intensità in una sequenza lineare, credessimo c'essere
abitate migliaia di anni.
Il passo pragmatico che Don Juan prese per
soccorrerci nel nostro compito di ricordare consistè in farci interagire con
una certa gente quando ci trovavamo in un stato di coscienza accresciuta. Egli
aveva molto curato di impedirci di vedere quella gente quando ci trovavamo in
un stato normale di coscienza, creando di questa maniera le condizioni
appropriate per ricordare.
Completando i nostri ricordi, la Grassa ed
io entriamo in un stato insolito. Avevamo dettagliata conoscenza di interazioni
sociali che avevamo condiviso con Don Juan ed i suoi compagni. Questi non erano
ricordi del modo come io ricorderei un episodio della mia infanzia; erano
ricordi più che vividi di avvenimenti che potevamo rivivere passo a passo.
Riproducemmo conversazioni che sembravano riverberare nei nostri uditi, come se
stessimo ascoltandoli. I due pensiamo che non era. superfluo osservare su
quello che stava succedendoci. Quello che stavamo ricordando, dal punto di
vista della nostra esperienza immediata, tenia posto ora. Tale era, il
carattere del nostro ricordo.
Finalmente la Grassa ed io potemmo
risolvere gli interroganti che c'avevano spinti tanto duramente. Ricordiamo chi
la donna nagual era, come incastrava tra noi, quale la sua carta era stata.
Deducemmo, più che ricordiamo che avevamo passato uguali porzioni di tempo con
Don Juan e dono Genaro in stati normali di coscienza, e con Don Juan ed i suoi
altri compagni in stati di coscienza accresciuta. Riprendiamo ogni sfumatura di
quelle interazioni che erano stati vegliate per l'intensità.
Dopo una diligente revisione di quello che
avevamo scoperto, comprendemmo che appena avevamo stabilito un minuscolo ponte
tra i due lati di noi stessi. Diventammo allora ad altri temi, a nuovi punti
interrogativi che avevano preso precedenza sulle antica. C'erano tre temi, tre
domande che riassumevano tutte le nostre preoccupazioni. Chi era Don Juan e chi
erano i suoi compagni? Che cosa c'avevano fatto? E, a dove erano andati via
tutti essi?
TERZA PARTE: IL DONO DELL'AQUILA
IX. La regola del nagual
Don Juan era stato straordinariamente parco
in quanto alla storia della sua vita personale. La sua reticenza era, nella
cosa fondamentale, una risorsa didattica; fino a dove gli riguardava, la sua
vita incominciò quando si trasformò in guerriero, ed in precedenza tutto quello
che gli era successo era di molto poche conseguenze.
Tutto quello che la Grassa ed io sapevamo
di quella prima epoca della sua vita, era che Don Juan era nato in Arizona, di
ascendenza yaqui e yuma. Quando era ancora bambino i suoi genitori lo portarono
a vivere con gli yaquis, nel nord del Messico. A dieci anni di età l'acchiappò
la marea delle guerre yaquis. Sua madre fu assassinata, e dopo suo padre fu
catturato per l'esercito messicano. Tanto dono Juan come suo padre furono
inviati ad un centro di ricollocazione nello stato di Yucatan, nell'estremo
meridionale del paese. Lì crebbe.
Quello che gli sia successo durante quello
periodo non c'andò via mai rivelato. Don Juan credeva che non ci fosse
necessità di parlarci di quello. Io credevo il contrario. L'importanza che
diedi a quella parte della sua vita, aveva a che vedere con la mia convinzione
che i tratti distintivi e l'enfasi del suo comando emersero da quell'inventario
personale di esistenza.
Ma quell'inventario, per molto importante
che sia stato, non fu quello che gli diede l'immenso significato che egli aveva
per noi, o ferma i suoi altri compagni. La sua preminenza totale si basava
sull'atto fortuito di c'essere legato con "la regola."
Il trovarsi legato con la regola può
descriversi come vivere un mito. Don Juan viveva un mito, un mito che
l'acchiappò e che lo fece essere il nagual.
Don Juan diceva che quando la regola
l'acchiappò, egli era un uomo aggressivo e sfrenato che viveva nell'esilio,
come migliaia di altri indio yaquis. Don Juan lavorava nei piantagioni
tabacchifici del sud del Messico. Un giorno, dopo il lavoro, lo spararono un
tiro nel petto in un incontro quasi fatale con un collega su questioni di
denaro. Quando ritornò in sé, un vecchio indio era inclinato su lui e frugava
con le dita una piccola ferita che Don Juan aveva nel petto. La pallottola non
aveva penetrato nella cavità pettorale, ma si trovava alloggiata in un muscolo,
vicino ad una costola. Don Juan svenne due o tre volte a causa della
commozione, la perdita di sangue e, secondo lui stesso lo riferì, della paura
di morire. Il vecchio indio estrasse la pallottola e, come Don Juan non aveva
dove rimanere, lo portò a propria casa sua e lo curò durante più di un mese.
Il vecchio indio era buono ma severo. Un
giorno, quando Don Juan si sentiva già relativamente forte e quasi si era
rimesso, il vecchio gli diede un forte colpo nella schiena e lo forzò ad
entrare in un stato di coscienza accresciuta. Dopo, senza maggiori preliminari,
rivelò a Don Juan la porzione della regola che aveva a che vedere col nagual e
la sua funzione.
Don Juan portò esattamente a termine la
stessa cosa con me e con la Grassa; ci fece cambiare livelli di coscienza e ci
disse la regola del nagual della seguente maniera:
Al potere che governa il destino di tutti
gli esseri viventi lo è chiamato l'Aquila, non perché sia un'aquila o perché
abbia qualcosa a che vedere con le aquile, bensì perché ai veggenti è apparso
loro come un'incommensurabile e nera aquila, di altezza infinita; alzata come
si alzano le aquile.
Man mano che il veggente contempla quella
nerezza; quattro esplosioni di luce gli rivelano quello che è l'Aquila. La
prima esplosione che è come un raggio, guida il veggente a distinguere i
contorni del corpo dell'Aquila. Ci sono pezzi di bianchezza che sembrano essere
le piume ed i talloni di un'aquila. Una seconda esplosione di luce rivela a
fiato una vibrante nerezza, creatrice che aleggia come le ali di un'aquila. Con
la terza esplosione di luce il veggente nota un occhio taladrante, inumano. E
la stanza ed ultima esplosione gli lascia vedere quello che l'Aquila fa.
L'Aquila si trova divorando la coscienza di
tutte le creature che, vive nella terra un momento prima ed ora morte,
continuano a galleggiare come un incessante sciame di lucciole verso il becco
dell'Aquila per trovare il suo padrone, la sua ragione di avere avuto vita.
L'Aquila districa quelle minuscole fiamme, li tende come un conciatore estende
una pelle, e dopo li consuma, perché la coscienza è il sostentamento
dell'Aquila.
L'Aquila, quello potere che governa i
destini degli esseri viventi, riflessa ugualmente e subito a tutti quegli
esseri. Pertanto, non ha senso che l'uomo preghi l'Aquila, gli chieda favori, o
abbia speranze di grazia. La parte umana dell'Aquila è troppo insignificante come
per commuovere alla totalità.
Solo attraverso le azioni dell'Aquila il
veggente può dire che cosa è quello che ella vuole. L'Aquila, benché non si
commuova davanti alle circostanze di nessun essere vivente, ha concesso un
regalo, ad ognuno di questi esseri. Al suo proprio modo e per il suo proprio
diritto, chiunque di essi, se così lo desidera, ha il potere di conservare la
fiamma della coscienza, il potere di disubbidire il mandato di comparizione per
morire ed essere consumato. Ad ogni cucia vivente gli è stato concesso il
potere, se così lo desidera, di cercare un'apertura verso la libertà e di
passare per lei. È ovvio per il veggente che vedi quell'apertura e per le
creature che passano attraverso lei che l'Aquila ha concesso quello regalo al
fine di perpetuare la coscienza.
Col proposito di guidare gli esseri viventi
verso quell'apertura, l'Aquila creó al nagual. Il nagual è un essere doppio a
chi si è rivelato la regola. Abbia già forma di essere umano, di animale, di
pianta o di qualunque cosa vivente, il nagual, per virtù della sua piega, è
forzato a cercare quello passaggio nascosto.
Il nagual appare in pari, maschile e
femminile. Un uomo doppio ed una donna doppia si trasformano nel nagual solo
dopo che la regia è stata loro rivelata ad ognuno di essi, ed ognuno di essi
l'ha compresa e l'ha accettata nella sua totalità.
All'occhio del veggente, un uomo nagual o
una donna nagual appare come un uovo luminoso con quattro scompartimenti. A
differenza dell'essere umano ordinario che ha solo due lati, uno diritto ed uno
sinistro, il nagual ha il lato sinistro diviso in due sezioni longitudinali, ed
un lato destro altrettanto diviso in due.
L'Aquila creó il primo uomo nagual e la
primo donna nagual come veggenti ed immediatamente li mise nel mondo affinché
vedessero. Proporzionò loro quattro guerriero accecatrici, tre guerrieri ed un
proprio a chi essi dovrebbero mantenere, ingrandire e condurre alla libertà.
Le guerriere sono chiamate le quattro
direzioni, le quattro angolo di un quadrato, i quattro umori, i quattro venti,
le quattro distinte personalità femminili che esistono nella razza umana.
La prima è la Questa. Lo è chiamato ordine.
È, ottimista, di cuore leggero, soave, persistente come una brezza costante.
La seconda è il Nord. È chiamata forza. Ha
molte risorse, è brusca, presa diretto, tenace come il vento duro.
La terza è l'Ovest. Lo è chiamato
sentimento. È introspettiva, piena di rimorsi, astuta, furba, come una raffica
a fiato freddo.
Il quarto è il Sud. Lo è chiamato crescita.
Nutre, è rissosa, timida, incoraggiata come il vento caldo.
I tre guerrieri ed il proprio rappresentano
i quattro tipi di attività e temperamento maschili.
Il primo tipo è l'uomo che conosce,
l'erudito; un uomo fidato, nobile, metronotte, interamente affezionato a portare
a termine il suo compito, chiunque che questa fosse.
Il secondo tipo è l'uomo di azione,
sommamente volatile, un gran compagno, volubile e riempio di umore.
Il terzo tipo è l'organizzatore, il socio
anonimo, l'uomo misterioso, sconosciuto. Niente si può dire di lui perché non
lascia che niente di lui fugga.
Il proprio è il quarto tipo. È
l'assistente, un uomo ombroso e taciturno che riesce molto se gli è diretto
adeguatamente ma che non può agire per sé stesso.
Col fine di fare le cose più facili, l'Aquila
mostrò all'uomo nagual e la donna nagual che ognuno di questi tipi tra gli
uomini e le donne della terra ha tratti specifici nel suo corpo luminoso.
L'erudito ha una specie di fessura
superficiale, una brillante depressione nel plesso solare. In alcuni uomini
appare come un stagno di intensa luminosità, a volte tersa e rilucente come un
specchio che non riflette.
L'uomo di azione ha alcune fibre che
derivano dall'area della volontà. Il numero di fibre varia di un'a cinque, ed
il suo spessore fluttua da un spago fino ad un massiccio tentacolo simile ad
una frusta di più di due metri. Alcuni uomini hanno fino a tre di queste fibre
sviluppate al punto di essere tentacoli.
Al socio anonimo non lo è riconosciuto da
nessun tratto esclusivo bensì per la sua abilità di creare, molto
involontariamente, un'esplosione di potere che blocca con effettività
l'attenzione dei veggenti. Quando stanno in presenza di questo tipo di uomo, i
veggenti si scoprono immersi in dettagli esterni invece di vedere.
L'assistente non ha configurazione ovvia.
Davanti al veggente appare come una lucentezza diafana in un guscio di
luminosità senza imperfezioni.
Nel dominio femminile, si riconosce al
Questo per il macchie quasi impercettibili della sua luminosità che sono come
piccole zone di descoloración.
Il Nord ha una radiazione che abbraccia
tutto, essuda un scintillio rossiccio, quasi come caldo.
L'Ovest ha una tenue membrana che l'avvolge
che la fa verta più oscura delle altre.
Il Sud ha un scintillio intermittente;
brilla per un momento e dopo si opacizza, per brillare di nuovo.
L'uomo nagual e la donna nagual hanno due
movimenti distinti nei suoi corpi luminosi; i suoi lati destri ondeggiano,
mentre i sinistri girano.
In termini di personalità, l'uomo nagual è
un fornitore, stabile, incambiable. La donna nagual è un essere in guerra ma
ancora così è un essere calmato, per sempre cosciente ma senza nessun sforzo.
Ognuno di essi riflessa i quattro tipi del suo sesso in quattro materas di
comportamento.
Il primo ordine che l'Aquila diede all'uomo
nagual e la donna nagual fu che trovassero, per i suoi propri mezzi, un altro
gruppo di quattro guerriere, le quattro direzioni, che essendo sognatrici fosse
le repliche esatte delle accecatrici.
Le sognatrici appare davanti al veggente
come se avesse nelle sue parti mezze un grembiule di fibre che paragonano
capelli. Le accecatrici ha un tratto simile, che grembiule sembra, ma invece di
fibre il grembiule consiste in innumerevoli, piccole e rotonde protuberanze.
Le otto guerriere sono divise in due bande
che sono chiamati pianeti destro e sinistro. Il pianeta destro è composto di
quattro accecatrici; il sinistro, di quattro sognatrici. Le guerriere di ogni
pianeta furono addestrate dall'Aquila nella regola dei suoi compiti specifici:
le accecatrici imparò a spiare; le sognatrici, a sognare.
Le due guerriere di ogni direzione vivono
giunte. Sono tanto simili che si riflettono l'una all'altra, e solo attraverso
l'impeccabilità possono trovare sollazzo e stimolo nel suo riflesso comunale.
L'unica volta in cui le quattro sognatrici
o le quattro accecatrici si riuniscono, è quando devono portare a termine un
compito estremo. Ma solo sotto circostanze speciali devono unire le sue mani.
Quello contatto li fonde in un assolo essere e solamente debito di essere usato
in casi di necessità estrema, o nel momento di abbandonare questo mondo.
Le due guerriere di ogni direzione sono
unite a chiunque dei guerrieri, nella combinazione che sia necessaria. Di
quella maniera stabiliscono un gruppo di quattro case, nelle che possono
incorporarsi quanti più guerrieri siano necessari.
Anche i guerrieri ed il proprio possono
formare un gruppo indipendente di quattro uomini, od ognuno di essi può
funzionare come essere solitario, se quello detta la necessità.
Dopo, al nagual ed il suo gruppo li fu
ordinati trovare ad altri tre propri. Questi potevano essere tutti uomini o
tutte donne o un gruppo misto; le donne dovevano essere del Sud.
Per assicurare che il primo uomo nagual
conducesse al suo gruppo alla libertà, senza allontanare dalla strada o senza
corrompersi, l'Aquila si portò alla donna nagual all'altro mondo affinché
servisse come faro che guida al gruppo verso l'apertura.
Il nagual ed i suoi guerrieri riceverono
dopo l'ordine di dimenticare. Furono infossati nell'oscurità e fu dato loro
nuovi compiti: il compito di ricordarsi a se stessi, ed il compito di ricordare
all'Aquila.
L'ordine di dimenticare fu tanto enorme che
tutti si separarono. Non poterono ricordare chi erano. L'Aquila designò che se
riuscivano a ricordarsi nuovamente a se stessi, potrebbero trovare la totalità
di se stessi. Avrebbero solo allora la forza e la tolleranza necessarie per
cercare ed affrontare la sua giornata definitiva.
Il suo ultimo compito, dopo avere
recuperato la totalità di se stessi, consistè in ottenere un nuovo paio di
esseri doppi e di trasformarli in un nuovo uomo nagual ed in una nuovo donna
nagual per virtù di rivelar loro la regola.
E come il primo uomo nagual e la primo
donna nagual furono provviste di una banda minima, il suo dovere era
proporzionare al nuovo paio di naguales quattro guerriero accecatrici, tre
guerrieri ed un proprio.
Quando il primo nagual e la sua banda
furono pronte per entrare nel passaggio, la primo donna nagual li aspettava già
per guidarli. Li fu ordinati allora che si portassero con essi alla nuovo donna
nagual affinché ella servisse da faro alla sua gente; il nuovo uomo nagual
rimase nel mondo per ripetere il ciclo.
Mentre si trovano nel mondo, il numero
minimo che si trovava la direzione del nagual è sedici: otto guerriere, quattro
guerrieri contando al nagual, e quattro propri. Nel momento di abbandonare il
mondo, quando la nuovo donna nagual si trova con essi, il numero del nagual è
diciassette. Se il potere personale permette di avere più guerrieri, questi
devono aggiungersi in multipli di quattro.
Io avevo presentato a Don Juan la questione
di come fu che si fece conoscere la regola all'uomo. Mi spiegò che la regola
non aveva fine e che copriva ogni aspetto della condotta di un guerriero.
L'interpretazione ed accumulazione della regola è opera di veggenti il cui
compito, attraverso i millenni, è stato vedere l'Aquila, osservare il suo
flusso incessante. Per mezzo delle sue osservazioni, i veggenti hanno concluso
che, se il guscio luminoso che comprende l'umanità di uno è stato rotto, uno
può trovare nell'Aquila il tenue riflesso dell'uomo. Gli irrevocabili dettati
dell'Aquila possono essere catturati dai veggenti, interpretati adeguatamente
per essi, ed accumulati in forma di un corpo di governo.
Don Juan mi spiegò che la regola non era un
racconto, e che attraversare verso la libertà non significa vita eterna come si
capisce comunemente all'eternità: questo è, vivere per sempre. Quello che la
regola collocava era che uno poteva conservare la coscienza che si abbandona
nel momento di morire per forza. Don Juan non poteva spiegare quello che
significava conservare quella coscienza, o neanche poteva concepirlo chissà. Il
suo benefattore gli aveva detto che nel momento di attraversare, uno entra
nella terza attenzione, e che il corpo nella sua totalità si infiamma di
conoscenza. Ogni cellula Lei ritorno, subito, cosciente di sé stessa ed anche
della totalità del corpo.
Anche il suo benefattore gli aveva detto
che questo tipo di coscienza non ha senso per il nostro menti
compartamentalizadas. Quindi, il midollo della lotta del guerriero non
consisteva tanto in sapere che l'incrocio del quale si parla nella regola
significava attraversare alla terza attenzione, bensì, piuttosto, in concepire
che tale coscienza esiste.
Don Juan diceva che all'inizio la regola
era, per lui, qualcosa strettamente nel dominio delle parole. Non poteva
immaginare come poteva scivolare al dominio del mondo reale e le sue
manifestazioni. Sotto l'effettiva guida del suo benefattore, tuttavia, e dopo
molto lavoro, finalmente riuscì a comprendere la vera natura della regola, e
l'accettò totalmente come un insieme di direttivi pragmatici e non mangio mito.
A partire da quello momento, non ebbe problemi trattando con la realtà della
terza attenzione. L'unico ostacolo nella sua strada sorse a causa della sua
credenza che la regola era una mappa. Era tanto convinto di ciò che credette
che dovesse cercare un'apertura nel mondo, un passaggio. In qualche modo, era
rimasto superfluamente bloccato nel primo livello dello sviluppo di un
guerriero.
Come risultato di questo, il compito di Don
Juan, nella sua capacità di guida e maestro, fu diretto ad aiutare gli
apprendisti, ed a me nella cosa speciale, ad evitare che si ripetesse
quell'errore. Quello che riuscì a fare con noi fu condurrci attraverso le tre
tappe dello sviluppo del guerriero, senza enfatizzare nessuna di esse più del
conto. Primo ci guidò affinché prendessimo la regola dopo mappa, ci guidò come
alla comprensione che uno può ottenere una coscienza suprema, perché tale cosa
esiste; e, infine, ci guidò ad un passaggio concreto per passare a quell'altro
mondo nascosto della coscienza.
Per condurrci attraverso la prima tappa,
l'accettazione della regola come una mappa, Don Juan prese la sezione che
appartiene al nagual e la sua funzione, e ci mostrò che questa corrisponde a
fatti inequivocabili. Egli riuscì questo a forza di farci avere, mentre ci
trovavamo in fasi di coscienza accresciuta, un trattamento senza restrizioni
coi membri del gruppo che erano le personificazioni viventi degli otto tipi
descritti per la regola. Come trattiamo con essi, ci furono rivelati aspetti
più complessi ed indotti della regola. Fino a che stemmo in condizioni di
comprendere che ci sentivamo acchiappati nella rete di qualcosa che in un
principio avevamo concettualizzato come mito, ma che era una mappa in essenza.
Don Juan ci disse che, in questo rispetto,
il suo caso era stato identico al nostro. Il suo benefattore l'aiutò a passare
attraverso quella prima fase permettendogli lo stesso tipo di interazione. Per
ciò lo fece spostare si unisca ed un'altra volta della coscienza del lato
destro a quella del sinistro, lo presentò coi membri del suo proprio gruppo, le
otto guerriere, i tre guerrieri ed i quattro propri che erano, come è
obbligatorio, gli esempi più stretti dei tipi che descrive la regola. L'impatto
di conoscerli e di trattare con essi fu schiacciante per Don Juan. L'obbligò
non solo a considerare la regola come un fatto positivo ma lo fece comprendere
la grandezza delle nostre sconosciute possibilità.
Don Juan disse che per il momento in cui
tutti i membri del suo proprio gruppo erano stati riuniti, egli si trovava
tanto profondamente dato alla vita del guerriero che non gli causò gran
sorpresa il fatto che, senza nessun sforzo evidente da parte di nessuno, essi
vennero ad essere repliche perfette dei guerrieri del gruppo del suo
benefattore. La similitudine dei suoi gusti personali, antipatie, adesioni,
eccetera, non era risultato di imitazione; Don Juan diceva che essi
appartenevano, come espone la regola, a gruppi specifici di gente che ha le
stesse reazioni. Le uniche differenze tra la gente dello stesso gruppo era il
tono delle sue voci, il suono della sua risata.
Spiegandomi gli effetti che aveva avuto il trattamento
coi guerrieri del suo benefattore in lui, Don Juan toccò il tema della
differenza molto significativa che esisteva tra come interpretavano la regola
il suo benefattore ed egli, ed anche in come conducevano ed insegnavano ad
altri ad accettarla come mappa. Mi disse che ci sono due tipi di
interpretazioni: l'universale e l'individuale. Le interpretazioni universali
prendono le affermazioni che conformano il corpo della regola come sono. Un
esempio sarebbe dire che all'Aquila non gli importano le azioni degli uomini e,
tuttavia, ha proporzionato loro un passaggio verso la libertà.
L'interpretazione individuale, d'altra
parte, è una conclusione presente, del giorno, alla quale arrivano i veggenti
utilizzando le interpretazioni universali come premesse. Un esempio sarebbe
dire che a causa di che non importo l'Aquila, io dovrei vedere modi di
assicurare le mie possibilità di raggiungere la libertà, magari attraverso la
mia propria iniziativa.
Secondo Don Juan, egli ed il suo
benefattore erano molto distinti nei suoi metodi per guidare i suoi pupilli.
Don Juan diceva che il suo benefattore era troppo severo; guidava con mano di
ferro e, seguendo la sua convinzione che con l'Aquila non esistono le
elemosine, non fece mai niente per nessuno in una maniera diretta.
Invece, appoggiò attivamente tutti affinché
si aiutassero a se stessi. Considerava che il regalo della libertà che offre
l'Aquila non è una donazione altro che l'opportunità di avere un'opportunità.
Don Juan, benché apprezzasse i meriti del
metodo del suo benefattore, non era di accordo con lui. Quando egli era già
nagual vide che quello metodo spreca tempo insostituibile. Per lui era più
efficace presentare a chiunque una situazione data e forzarlo ad accettarla, e
non sperare a che fosse pronto ad affrontarla per il suo proprio conto. Quello
fu il metodo che seguì con me e con gli altri apprendisti.
L'occasione in cui quella differenza fu più
opprimente per Don Juan, fu per il tempo che trattò coi guerrieri del suo
benefattore. Il mandato della regola era che il benefattore doveva trovare Don
Juan primo una donna nagual e dopo un gruppo di quattro donne e quattro uomini
per comporre il suo gruppo di guerrieri. Il benefattore vide che Don Juan non
disponeva ancora di sufficienza potere personale per assumere la responsabilità
di una donna nagual, e così investì l'ordine e chiese alle donne del suo
proprio gruppo che trovassero in primo luogo le quattro donne e dopo i quattro
uomini.
Don Juan confessò che l'idea di
quell'investimento l'entusiasmò. Aveva capito che quelle donne erano per il suo
uso, e nella sua mente quello si tradursi in un uso sessuale. La sua rovina fu
il rivelare le sue aspettative al suo benefattore chi immediatamente lo mise in
contatto coi guerrieri e le guerriero del suo proprio gruppo e lo lasciò con
essi.
Per Don Juan fu un vero scontro conoscere
quelli guerrieri, non solo perché erano a proposito difficile con lui, bensì
perché quell'incontro è di per sé un fa strade.
Don Juan diceva che è un fa strade perché
gli atti nel lato sinistro non possono avere luogo non sia che tutti i
partecipanti condividano lo stesso stato. Per quella ragione non ci lasciava
entrare nella coscienza del lato sinistro bensì per portare alla nostra capo
attività coi suoi guerrieri. Nel suo caso, tuttavia, il suo benefattore lo
spinse e non lo lasciò uscire di lì.
Don Juan mi diede una breve relazione di
quello che successe durante il suo primo incontro coi membri del gruppo del suo
benefattore. Aveva l'idea che chissà io potevo usare quell'esperienza come una
dimostrazione di quello che mi aspettavo. Mi disse che il mondo del suo
benefattore aveva una sicurezza magnifica. I membri del suo gruppo erano
guerrieri indio che provenivano da tutto il Messico. Quando egli li conobbe,
tutti essi vivevano in una remota regione montagnosa del sud del Messico.
Arrivando alla casa, Don Juan affrontò due
donne identiche, le indiane più grandi che non avrebbero visto mai. Erano
accigliate e brutte, ma avevano fazioni molto gradevoli. Quando egli volle
passare tra esse, l'acchiapparono con le sue enormi pance, lo presero delle
braccia ed incominciarono a batterlo. Lo tirarono al suolo e si sedettero su
lui, quasi schiacciandolo la scatola toracica. L'ebbero immobilizzo ma di
dodici ore mentre negoziavano col suo benefattore chi dovette parlare senza
fermare tutta la notte fino a che finalmente esse lasciarono libero a Don Juan
nella mattina. Mi disse che meglio di niente quella che l'atterrì fu la
determinazione che mostravano gli occhi di quelle donne. Pensò che era perso,
perché esse andavano a rimanere sedute sopra a lui fino a che morisse, come
l'avevano notato.
Per regola generale deve avere un periodo
di attesa di alcune settimane prima di conoscere al seguente gruppo di
guerrieri, ma poiché il suo benefattore decideva di lasciarlo permanentemente
con essi, Don Juan fu immediatamente presentato agli altri. Conobbe ad ognuno
di essi in un solo giorno e tutti essi lo trattarono come spazzatura. Arguivano
che non era l'uomo adeguato per il compito che era troppo scurrile ed
eccessivamente stupido, giovane ma già senile nel suo modo di fare. Il suo
benefattore parlò brillantemente in difesa di Don Juan; disse loro che tutti
essi andavano ad avere l'opportunità di modificare quelle condizioni, e che
dovrebbe essere il massimo diletto, per essi e per Don Juan, assumere quella
responsabilità.
Don Juan mi disse che la prima impressione
fu corretta. Per lui, a partire da quello momento, ci furono solo penurie e
lavoro. Le donne videro che Don Juan era ingovernabile e che non poteva essere
confidatogli il complesso e delicato compito di dirigere a quattro donne. Come
erano veggenti, fecero la sua propria interpretazione personale della regola e
decisero che sarebbe più adeguato per Don Juan avere in primo luogo i quattro
guerrieri e dopo alle quattro donne. Don Juan era convinto che quello vedere
era stato giusto. Per potere dirigere guerriere, un nagual deve trovarsi in un
stato di potere personale consumato; un stato di serietà e controllo, nel quale
i sentimenti umani svolgono un ruolo minimo; in quello tempo tale stato gli era
inconcepibile.
Il suo benefattore lo mise basso la
supervisione diretta di suoi due guerriere dell'ovest, i più intransigenti e
feroci di tutte. Don Juan mi disse che le donne dell'ovest, di accordo con la
regola, sono completamente pazze e che qualcuno deve curarli. Scese le durezze
dal trasognare e dello spiare i suoi lati destri, le sue menti si guastano. La
sua ragione si estingue molto facilmente per il fatto che la sua coscienza del
lato sinistro è eccessivamente acuta. Una volta che perdono il lato razionale
sono sognatrici ed accecatrici insuperabili perché non hanno oramai nessuna
zavorra razionale che li contenga.
Don Juan dice che quelle donne lo curarono
della lussuria. Per sei mesi passò la maggior parte del tempo in un arnese,
sospeso del soffitto di una cucina rurale, come prosciutto che si affumica,
fino a che rimase al verde di pensieri di guadagno e di gratificazione
personale.
Don Juan mi spiegò che l'arnese di cuoio è
splendida risorsa per curare certe malattie che non sono fisiche. Quanto più
dimissione sia sospesa una persona e più tempo passi senza toccare il suolo,
pendendo nell'aria, migliori sono veramente le possibilità di un effetto
purificatore.
Man mano che le due guerriere dell'ovest lo
pulivano, le altre donne erano occupate in trovare gli uomini e le donne che
andavano a formare il suo gruppo. Li prese anni riuscirlo. Don Juan, mentre,
dovette trattare per il suo proprio conto a tutti i guerrieri del suo
benefattore. La presenza ed il contatto con essi fu tanto dominatore che Don
Juan credette che non si vedrebbe mai libero della sua influenza. Il risultato
fu un'aderenza totale e letterale al corpo della regola. Don Juan diceva che
sprecò tempo irremplazable riflettendo sull'esistenza del suo passaggio reale
verso l'altro mondo. Considerava che quella preoccupazione era una trappola che
doveva evitarsi ad ogni costa. Per proteggermi da lei, non mi lasciò portare a
termine il trattamento obbligatorio coi membri del suo corpo a meno che fosse
protetto per la presenza della Grassa o di qualunque altro degli apprendisti.
Nel mio caso, conoscere i guerrieri di Don
Juan fu il risultato finale di un lungo processo. Non si fece mai menzione di
essi nelle conversazioni abituali con Don Juan. Io sapevo solamente della sua
esistenza attraverso inferenze; egli andavo rivelando porzioni della regola che
mi facevano capire quello. Più tardi, Don Juan ammise che quelle persone
esistevano, e che alla lunga io li conoscerei. Mi preparò per quegli incontri
dandomi istruzioni e consigli generali.
Mi prevenne circa un errore comune;
l'errore di sovrastimare la coscienza del lato sinistro, di sorprendersi
davanti alla sua chiarezza e potere. Mi disse che stare nella coscienza del
lato sinistro non vuole dire che uno si libera immediatamente degli spropositi:
significa solo avere una capacità percettiva più intensa, una facilità ancora
maggiore per comprendere ed imparare e, soprattutto, una gran abilità per
dimenticare.
Man mano che si avvicinava l'ora che
conoscesse i guerrieri di Don Juan, questo mi diede una schietta descrizione
del gruppo del suo benefattore, come una guida per il mio proprio uso. Mi disse
che per un spettatore il mondo del suo benefattore potrebbe sembrare a volte
che consisteva in quattro famiglie. La prima era formata per le donne del Sud
ed il primo proprio; la seconda, per le donne del Questo, l'erudito ed un
proprio; la terza, per le donne del Nord, l'uomo di azione ed altro proprio; ed
il quarto, per le donne dell'ovest, il socio anonimo ed un terzi proprio.
Altre volte, quello mondo poteva sembrare
composto di gruppi. C'era un gruppo di quattro uomini di maggiore età,
completamente distinti, che erano il benefattore di Don Juan ed i suoi tre
guerrieri. Dopo, stava tremendamente un gruppo di quattro uomini somiglianze
tra sé: i propri. Un terzo gruppo composto di due paia di gemelle,
apparentemente. identiche che vivevano giunte e che erano le donne del Sud e
quelle del Questo. Ed un quarto gruppo formato per altri due paia di supposte
sorelle, le donne del Nord e dell'ovest.
Nessuna di queste donne aveva lacci di
parentela tra sé, semplicemente sembravano uguali, al punto, in certi casi, di
essere identiche. Don Juan credeva che questo era prodotto dell'enorme potere
personale che aveva il suo benefattore. Don Juan descrisse alle donne del Sud
come due mastodonti temibili in apparenza ma molto simpatiche ed affettuose. Le
donne del Questo erano molto belle, fresche e spiritose, un vero diletto per
vederli e sentirli. Le donne del Nord erano completamente femminili, vane,
civettuole, preoccupate con l'età, ma anche terribilmente dirette e
spazientisci. Le donne dell'ovest erano a volte pazze, ed altre, un'epitome di
severità e determinazione. Erano quelle che più perturbavano Don Juan chi non
poteva riconciliare il fatto che fossero tanto sobrie, buone e servizievoli,
col fatto che in un momento dato potevano perdere la riparazione e rimanere
completamente pazze.
Gli uomini, d'altra parte, erano in nessun
modo memorabili per Don Juan. Credeva che non ci fosse niente notabile in essi.
Tutti sembravano trovarsi completamente annullati per la conmocionante forza e
determinazione delle donne e per la personalità dominatore del benefattore.
In quanto al suo proprio sviluppo, Don Juan
diceva che l'avere stato spinto al mondo del suo benefattore gli fece
comprendere quanto facile e conveniente gli era stato lasciare che la sua vita
trascorresse senza disciplina alcuna Capì che il suo errore era consistito in
credere che le sue mire erano le uniche mete preziose che un uomo poteva avere.
Tutta la sua vita era stata un indigente; l'ambizione che lo consumava,
pertanto, era avere possessi materiali, essere qualcuno. Tanto gli preoccupò
l'affanno di uscire avanti e la disperazione di sapere che non stava
riuscendolo; che non ebbe mai tempo di esaminare cosa alcuna. Volentieri si unì
al suo benefattore perché credette che stava presentandogli un'opportunità di
ingrandirsi. Pensò che, per lo meno, potrebbe imparare ad essere stregone. La
realtà del suo incontro col mondo del suo benefattore fu tanto differente che
egli la concepiva come qualcosa di analogo all'effetto della conquista spagnola
nella cultura indigena. Qualcosa che distrusse tutto, ma che portò anche ad una
convalida totale.
La mia reazione ai preparativi per
conoscere al gruppo di guerrieri di Don Juan non fu paura reverenziale o paura,
bensì piuttosto una meschina preoccupazione intellettuale su due questioni. La
prima era la proposta che nel mondo ci sono solo quattro tipi di uomini e quattro
tipi di donne. Arguii con Don Juan che la variazione individuale nella gente è
troppo vasta e complessa per un schema tanto semplice. Egli non fu di accordo
con me. Disse che la regola era finale, e che questa non permetteva un numero
indefinito di tipi di gente.
La seconda questione era il contesto
culturale della conoscenza di Don Juan. Egli non lo sapeva. Lo considerava
prodotto di una specie di panindianismo. La sua congettura era che una volta,
nel mondo indigeno anteriore alla Conquista, la manipolazione della seconda
attenzione si corruppe. Si era sviluppato senza nessun ostacolo durante chissà
migliaia di anni, fino a che perse la forza. Possibilmente gli apprendisti di
quello tempo non avevano bisogno di controlli, e così, senza freno, la seconda
attenzione, invece di diventare più forte si debilitò conforme diventò sempre
di più intricata. Poi vennero gli invasori spagnoli e, con la sua tecnologia
superiore, distrussero il mondo degli indi. Don Juan mi disse che il suo
benefattore si trovava convinto che un gruppo piccolo di guerrieri sopravvisse
solo e potè raggruppare la sua conoscenza e rindirizzare il suo sentiero. Tutto
quello che Don Juan ed il suo benefattore sapevano della seconda attenzione
veniva ad essere versione ristrutturata, una nuova versione alla quale l'erano
stato aggiunto restrizioni perché era stato forgiata sotto le più aspre
condizioni di soppressione.
X. IL GRUPPO DI GUERRIERI DEL NAGUAL
Quando Don Juan considerò che era ora che
avesse il mio primo incontro coi suoi guerrieri, mi fece cambiare livelli di
coscienza. In quello momento mi chiarì che egli non avrebbe niente a che vedere
con la maniera in che essi mi commerciassero. Mi prevenne che se decidevano di
battermi, egli non li andava a fermare. Potevano fare quello che desiderassero,
meno ammazzarmi. Sottolineò un ed un'altra volta che i guerrieri del suo gruppo
erano la perfetta replica del gruppo del suo benefattore, a meno che alcuni
donne erano più feroci, e tutti gli uomini erano assolutamente poderosi e senza
pari. Pertanto, il mio primo incontro con essi potrebbe risultare come una
collisione frontale.
Io, da un lato, mi trovavo nervoso ed
apprensivo, ma, per un'altra, curioso. La mia mente si opprimeva con infinite
speculazioni, la maggior parte di esse su come sarebbero i guerrieri.
Don Juan mi disse che egli aveva due
opzioni, un'era la possibilità di insegnarmi a memorizzare un elaborato
rituale, come avevano fatto con egli, e l'altra era fare l'incontro la cosa più
casuale possibile. Aspettò un presagio che gli segnalasse che alternativa
prendere. Il suo benefattore aveva fatto qualcosa di simile, ma aveva insistito
in che Don Juan imparasse il rituale prima che il presagio si presentasse.
Quando Don Juan gli rivelò le sue illusioni di dormire con quattro donne, il
suo benefattore l'interpretò come il presagio, lasciò ad un lato il rituale e
finì negoziando per la vita di Don Juan.
Nel mio caso, Don Juan voleva un presagio
prima di insegnarmi il rituale. Il presagio arrivo quando Don Juan ed io
viaggiavamo per un paese confinante in Arizona ed un poliziotto mi fermò. Il
poliziotto credeva che io ero un straniero senza documentazione. Solo fino a
che gli mostrai il mio passaporto che egli suppose falsificato, ed altri
documenti, mi lasciò andare. A Don Juan che stette vicino a me nel sedile
anteriore, neanche il poliziotto lo guardò. Si era concentrato assolutamente su
me. Don Juan considerò che quell'incidente era il presagio che sperava.
L'interpretò come qualcosa che segnalava la cosa pericolosa che risulterebbe se
io richiamavo l'attenzione, e concluse che il mio mondo doveva essere della
massima semplicità e candore: ogni pompa e rituali elaborati starebbero fuori
di carattere. Concedè, tuttavia, che sarebbe adeguata una minima osservazione
di modelli ritualistici quando mi presentassi ai suoi guerrieri. Doveva
incominciare avvicinandomi ad essi dal Sud, perché quella è la direzione che il
potere segue nel suo flusso incessante. La forza vitale fluisce verso noi dal
Sud, e c'abbandona fluendo verso il Nord. Mi disse che l'unica entrata al mondo
del nagual era attraverso il Sud, e che il portone si trovava custodito per due
guerriere chi dovrebbero salutarmi e lasciarmi passare se così lo decidevano.
Mi portò ad un paese del centro del
Messico. Camminiamo ad una casa nel campo e quando a lei c'avvicinavamo dal
Sud, vidi due indiane massicce, in piedi, affrontando l'una l'altra ad un metro
di distanza. Si trovavano a circa dieci o quindici metri della porta principale
della casa, in un'area dove la terra era spianata. Le due donne erano
straordinariamente muscolose. Entrambe avevano i capelli neri e molto, unito in
una grossa treccia. Sembravano sorelle. Erano della stessa altezza, dello
stesso peso: calcolai che dovevano avere attorno ad un metro sessanta di statura
ed un peso di circa settanta chili. Una di esse era abbastanza oscura, quasi
nera, e, l'altra, molto più chiara. Si trovavano vestite come tipiche indiane
del centro del Messico: vestiti lunghi, fino al suolo, pretesti e huaraches
casalinghi.
Don Juan mi fece fermare ad un metro di
esse. Diventò verso la donna che si trovava alla nostra sinistra e mi fece
guardarla. Mi disse che si chiamava Cecilia e che era ensoñadora. Quindi
diventò bruscamente, senza darmi tempo di dire niente, e mi fece affrontare la
donna più bruna che si trovava alla nostra destra. Mi disse che il suo nome era
Delia e che era accecatrice. Le donne mi salutarono a capofitto con un
movimento. Né sorrisero né fecero nessun gesto di benvenuto.
Don Juan camminò tra esse come se fossero
due colonne che segnalavano un portone. Avanzò un paio di passi e diventò come
se sperasse che esse mi invitassero a passare. Mi osservarono calmadamente
durante alcuni momenti. Poi Cecilia mi invitò ad entrare, come se io mi
trovassi nella soglia di una porta vera.
Don Juan guidò la strada verso la casa.
Nella porta principale troviamo un uomo. Era molto magro. A prima vista era
abbastanza giovane, ma un scrutinio più acuto rivelava che sembrava avere quasi
sessanta anni. Mi diede l'impressione di essere un bambino vecchio: piccolo,
forte e nervoso, con penetranti occhi oscuri. Era come un'ombra. Don Juan me lo
presentò come Emilito, e disse che era suo proprio, il suo assistente
personale, e che egli mi darei il benvenuto al suo nome.
Mi sembrò che in realtà Emilito fosse
l'essere più appropriato per bienvenir a chiunque. Il suo sorriso era radiante,
i suoi piccoli denti erano perfettamente allineati. Mi diede la mano, o
piuttosto attraversò i suoi avambracci e strinse le mie due mani. Sembrava
essudare godimento, e chiunque avrebbe detto che era estatico di vedermi. La
sua voce era molto soave ed i suoi occhi scoppiettavano.
Entriamo ad una gran stanza. Lì stava
un'altra donna. Don Juan mi disse che si chiamava Teresa e che era l'aiutante
di Cecilia e Delia. Magari appena aveva circa trenta anni, e definitivamente
sembrava essere figlia di Cecilia. Era molto silenziosa, ma amichevole.
Seguiamo Don Juan al fondo della casa, dove c'era una terrazza coperta. Era un
giorno caldo. Ci sediamo a tavola, e dopo una frugale merenda conversiamo fino
alla mezzanotte.
Emilito fu l'anfitrione. Piacque e dilettò
tutti con le sue storie esotiche. Le donne si azzardarono. Erano un pubblico
magnifico. Sentire la sua risata era un piacere squisito. In un momento, quando
Emilito disse che esse erano come le sue due madri, e Teresa come sua figlia,
l'alzarono al volo e lo gettarono all'aria come se fosse un bambino.
Delle due, Delia mi somigliavo il più
razionale, coi piedi nella terra. Cecilia era chissà più indifferente, ma sembrava
avere maggiore forza interna. Mi diede l'impressione di essere più intollerante
o più impaziente; sembrava irritarsi con alcuni dei racconti di Emilito.
Nonostante, definitivamente era tutta sentita quando egli contava quello che
chiamava i suoi "racconti" dell'eternità. Ogni istoria era preceduta
per la frase "sapevano voi, cari amici, che. . .? La storia che più mi
impressionò trattava di alcune creature che come egli esistevano nell'universo
e che erano la cosa più prossima ad esseri umani, senza esserlo; erano creature
ossessionate col movimento, capaci di percepire la più leggera fluttuazione
dentro o intorno ad esse. Erano tanto sensitive al movimento che questo
costituiva una maledizione per esse, qualcosa di tanto terribilmente doloroso
che la sua massima ambizione era trovare la quiete.
Emilito intercalava tra i suoi racconti
dell'eternità le più terribili barzellette piccanti. Dovuto alle sue
incredibili doti narratore, mi diede come l'impressione che ognuna delle sue
storie era una metafora, una parabola, attraverso la quale c'insegnava
qualcosa.
Don Juan disse che non era così che
semplicemente Emilito reprimeva quello che aveva presenziato nei suoi viaggi
per l'eternità. La funzione di un proprio consisteva in viaggiare davanti del
nagual, come esploratore di un'operazione militare. Emilito era arrivato fino
ai limiti della seconda attenzione, e tutto quello che presenziava il
trasmetteva agli altri.
Il mio secondo incontro coi guerrieri di
Don Juan fu tanto preparato come in primo luogo il. Un giorno Don Juan mi fece
cambiare livelli di coscienza e mi informò che io andavo ad avere un secondo
appuntamento. Mi fece maneggiare a Zacatecas, nel nord del Messico. Arriviamo
lì molto presto nella mattina. Don Juan mi disse che si trattava solamente di
una scala, e che avevamo fino al giorno dopo per riposare prima di
intraprendere il mio secondo incontro formale con le donne dell'Est ed il
guerriero erudito del suo gruppo. Mi incominciò a parlare allora di un delicato
ed intricato tema di elezione. Disse che avevamo conosciuto a metà pomeriggio
al Sud ed il proprio, perché egli aveva fatto un'interpretazione personale
della regola ed aveva scelto quell'ora per rappresentare la notte. Veramente il
Sud era la notte - una notte calda, propizia, gradevole -, e propriamente
andati a conosciuto le due donne del Sud dopo la mezzanotte. Tuttavia, quello
non sarebbe stato buon auspicio per me, dato che la mia direzione generale era
verso la luce, verso l'ottimismo, un ottimismo che si districa armoniosamente
ed entra nel mistero dell'oscurità. Disse che quell'era precisamente quello che
avevamo fatto quello giorno; avevamo goduto la nostra riunione, conversando e
ridendo nella luce del giorno e nella totale oscurità della notte. Mi allontano
in quell'occasione perché non infiammavano le animo.
Don Juan disse che il Questo, d'altra
parte, era la mattina, la luce, e che dovremmo visitare le donne del Questo
nella mattina del giorno dopo.
Prima della colazione andammo allo zoccolo
e prendiamo posto in una panca. Don Juan mi chiese che rimanessi lì e gli
sperasse mentre egli faceva alcuni mandati. Andò via, e poco dopo arrivò una
donna e prese posto nell'altro estremo della panca. Non gli prestai nessuna
attenzione ed incominciai a leggere un giornale. Un momento dopo un'altra donna
lo fu unito. Volli andare ad un'altra panca, ma ricordai che Don Juan aveva
specificato che io dovevo sedermi lì. Diedi la schiena alle donne e mi ero
dimenticato già che stavano lì, dato che tutti stavamo in perfetto silenzio,
quando un uomo li salutò e si trattenne, giusto di fronte a me. Mi resi conto,
attraverso la sua conversazione, che le donne stavano sperandolo. L'uomo si
scusò per il suo ritardo. Ovviamente voleva sedersi. Lasciai cadere un po' per
fargli distanzio. Mi ringraziò profusamente e si scusò per disturbarmi. Mi
disse che i tre erano assolutamente persi nella città perché erano gente del
campo che una volta erano andati alla città del Messico e quasi muoiono nel
traffico. Mi domandò se io vivevo in Zacatecas. Gli dissi che non e mi disporsi
a finire la nostra conversazione in quello momento, ma c'era qualcosa di molto
avvincente nel suo sorriso. Era un uomo vecchio, notevolmente conservato per la
sua età. Non era indio. Sembrava un cavaliere agricolo di paese rurale. Vestiva
abito ed aveva messo un cappello di paglia. I suoi tratti erano molto delicati,
e la pelle era quasi trasparente. Aveva naso profilato, bocca piccola ed una
barba bianca, breve e perfettamente pettinata. Si vedeva straordinariamente
sano e, contemporaneamente, sembrava fragile. Era di statura media, muscoloso,
ma contemporaneamente dava l'impressione di essere magro, quasi debole.
Si mise in piede e si presentò. Mi disse
che si chiamava Vicente Medrano che starebbe solamente nella città per quello
giorno, e che le due donne erano le sue sorelle. Le donne si alzarono e ci
guardiamo. Erano molto magre, più brune che suo fratello. Erano anche molto più
giovani; una di esse la cosa abbastanza come per essere sua figlia. Notai che
la pelle di esse era più secca, non era come quella di lui. Le due donne erano
molto attraenti. Come l'uomo, avevano fazioni delicate ed i suoi occhi erano
chiari e tranquilli. Le due misuravano come un metro sessanta. Brillavano
vestiti accuratamente tagliati, ma coi suoi pretesti, le sue scarpe senza tacco
e le sue calze di cotone oscuro somigliavano contadine ricche. Quella di
maggiore età sembrava avere circa cinquanta anni, e la minorenne, quaranta.
L'uomo me li presentò. Il maggiore si
chiamava Carmela e la minorenne, Hermelinda. Mi misi in piede e brevemente
strinsi le sue mani. Domandai loro se avevano figli. In generale quella domanda
era la maniera con che io iniziavo conversazioni. Le donne risero ed
all'unisono passarono le mani per i suoi stomachi per mostrarmi quanto magre
erano. L'uomo mi spiegò con molta calma che le sue sorelle erano zitellone, e
che egli stesso era anche un vecchio zitellone. Mi confidò, con un tono
semibromista, che sfortunatamente le sue sorelle erano troppo mascoline,
mancava loro quella femminilità che fa desiderabili alle donne, e che non
avevano potuto mai pertanto trovare marito.
Dissi loro che così stavano meglio,
considerando la carta subordinata delle donne nella nostra società. Le donne
non furono di accordo; dissero che non avrebbe importato loro sottomettersi se
avesse trovato solamente uomini che volessero essere i suoi padroni. Il più
giovane disse che il vero problema era che suo padre non aveva insegnato loro a
comportarsi come donne. L'uomo commentò con un sospiro che il padre era tanto
dominante che anche a lui gli aveva impedito di sposarsi. I tre sospirarono e
si mostrarono ombrosi. A me, mi diede risata.
Dopo un prolungato silenzio tornammo a
prendere posto e l'uomo disse che se io rimanevo lì un po' più avrebbe
l'opportunità di conoscere il padre di essi chi era ancora molto focoso
nonostante la sua età tanto avanzata. Aggiunse, con un tono timido, che suo
padre li andava a portare a fare colazione, perché essi non portavano mai
denaro. Suo papà era quello che amministrava l'economia.
Rimasi stupefatto. Quelli vecchi che
sembravano tanto forti, in realtà erano come bambini deboli ed allarmati. Dissi
loro addio e mi misi in piede per ritirarmi. L'uomo e le sue sorelle
insisterono in che rimanessi. Mi assicurarono che a suo papà gli piacerebbe che
io li accompagnassi a fare colazione. Io non volevo conoscere suo padre, e
contemporaneamente aveva curiosità. Dissi loro che anche io aspettavo qualcuno.
In quello momento, le donne incominciarono a ridere con alcune risate soffocate
che dopo si trasformarono in risate stentoree. Anche l'uomo si lasciò portare
per una risata incontenibile. Mi sentii stupido. Il mio desiderio era andare
via subito di lì In quello momento Don Juan arrivò e mi resi conto di tutta la
manovra. Non mi sembrò divertente.
Tutti ci mettemmo in piede. Essi ridevano
ancora quando Don Juan mi disse che le donne erano l'Est; Carmela era
accecatrice e Hermelinda, ensoñadora; Vicente era il guerriero erudito, ed il
compagno più antico di Don Juan.
Come c'allontanavamo dallo zoccolo, un
altro uomo ci si unì, un indio bruno ed alto, chissà di circa quaranta anni.
Vestiva pantaloni di tessuto di fibra misto ed un cappello di vaccaro. Sembrava
essere terribilmente forte e scontroso. Don Juan me lo presentò come Juan Tuma,
il proprio e l'assistente di investigazioni di Vicente.
Camminiamo ad un ristorante che si trovava
ad alcune stalle. Le donne mi misero tra esse. Carmela mi disse che sperava che
io non mi fossi offeso che ebbero l'alternativa di semplicemente presentarsi
con me o di giocarmi un scherzo. Quello che li decise in favore di ingannarmi
fu il mio atteggiamento assolutamente snob di darloro la schiena e di volere
cambiarmi panca. Hermelinda aggregò che uno deve essere completamente umile e
non caricare niente che uno non abbia. che difendere, neanche la sua propria
persona; la persona di uno deve proteggersi, ma non difendersi. Disprezzandoli,
io non mi proteggevo, ma semplicemente stava difendendomi.
Mi sentii bellicoso. Francamente, il suo
scherzo ero caduto male. Incominciai a parlare della mia collera, ma prima che
esponesse il mio argomento, Don Juan venne al mio fianco. Disse alle due donne
che perdonassero la mia bellicosità che prende molto tempo pulire la spazzatura
che un essere luminoso raccoglie nel mondo.
Il padrone del ristorante a dove fummo
conosceva Vicente e c'aveva preparati una colazione sontuosa. Tutti essi
stavano di magnifico umore, ma io non potevo finire con la mia collera. Allora,
a richiesta di Don Juan, Juan Tuma ci cominciò a parlare dei suoi viaggi. Era
un uomo di fatti. Mi ipnotizzarono le sue secche narrazioni di cose che stavano
oltre il mio intendimento. Per me il più affascinante fu la descrizione di
alcuni raggi di luce o di energia che suppostamente intrecciano la terra. Disse
che quelli raggi non fluttuano come tutto il resto nell'universo, ma si trovano
fissi in un modello. Quello modello coincide con cientos di punti del corpo
luminoso. Hermelinda credeva che tutti quelli punti si trovavano nel nostro
corpo fisico, ma Juan Tuma spiegò che, dato che il corpo luminoso è abbastanza
grande, alcuni di quelli punti sono localizzati fino ad ad un metro di distanza
del corpo fisico. In un certo senso si trovano fuori di noi, e tuttavia, questo
non è così: stanno nella periferia della nostra luminosità e, pertanto,
appartengono al corpo totale. Il punto più importante si localizza a circa
trenta centimetri dello stomaco, a quaranta gradi alla destra di una linea
immaginaria che si stacca, retta, verso davanti. Juan Tuma ci contò che
quell'era il centro dove si riunisce la seconda attenzione, e che è possibile
maneggiarlo battendo soavemente con le palme delle mani. Sentendo parlare a
Juan Tuma, dimenticai la mia collera.
Il mio seguente incontro col mondo di Don
Juan fu con l'Ovest. Don Juan mi diede varie avvertenze che il primo contatto
con l'Ovest era un evento sommamente importante, perché questo deciderebbe, in
un modo o nell'altro, quello che conseguentemente io dovrei fare. Mi mise anche
in guardia che andava ad essere un evento difficile, specialmente per me che
tanto inflessibile e tanto importante mi sentivo. Mi disse che in generale uno
si avvicina all'Ovest durante il crepuscolo, un momento del giorno che già in
sé è difficile, e che suoi guerriere dell'ovest erano poderose, temerarie ed
interamente esasperanti. Contemporaneamente, conoscerebbe anche il guerriero
che era il socio anonimo. Don Juan mi raccomandò che esercitasse la maggiore
cautela e pazienza; quelle donne non erano solo pazze di legare, ma esse e
l'uomo erano i guerrieri più poderosi che aveva conosciuto. Nella sua opinione,
i tre erano le massime autorità della seconda attenzione.
Un giorno, come se si trattasse di un mero
impulso, improvvisamente Don Juan decise che era ora di iniziare il nostro
viaggio per conoscere le donne dell'ovest. Viaggiamo ad una città del nord del
Messico. Giostro all'imbrunire, Don Juan mi indicò che stazionasse di fronte
l'atto di una gran casa senza luci che si trovava quasi nella periferia della
città. Ci scendiamo dall'automobile e camminiamo alla porta principale. Don
Juan toccò varie volte. Nessuno rispose. Ebbi la sensazione che eravamo
arrivati in un momento inopportuno. La casa sembrava vuota.
Don Juan continuò toccando fino a che,
apparentemente, si affaticò. Mi indicò che toccasse. Mi disse che lo facesse
senza fermare perché lì le persone che vivevano erano mezzo sorde. Gli domandai
se non sarebbe migliore ritornare più tardi, o al giorno dopo. Mi disse che
continuasse battendo la porta.
Dopo un'attesa che sembrò interminabile, la
porta si incominciò ad aprire lentamente. Una donna rara tirò fuori la testa e
mi domandò se quello che voleva era abbattere la porta al suolo, o irritare i
vicini ed i suoi cani coi miei colpi.
Don Juan cedè un passo come per dire
qualcosa. La donna uscì fuori e con asprezza lo spinse ad un lato. Incominciò a
scuotere il suo dito indice quasi sul mio naso, gridando che si stava
comportando come se nel mondo non esistesse più nessuno a parte me. Protestai.
Dissi che io stavo compiendo solo quello che Don Juan mi aveva ordinato fare.
La donna domandò se mi avevano ordinato abbattere la porta. Don Juan volle
intervenire ma di nuovo fu spinto ad un lato.
Sembrava che quella donna si fosse alzata
dal letto. Era una calamità. L'avevamo svegliata probabilmente e nella sua
fretta si mise un vestito, del suo cesto di vestiti sporchi. Si trovava scalza,
i suoi capelli incanutiti stavano in disordine totale. Aveva gli occhi irritati
ed appena socchiusi. Era una donna di fazioni ordinarie, ma in qualche modo
molto impressionante: piuttosto dimissione, di un metro settanta centimetri,
bruna ed enormemente muscolosa; le sue braccia nude erano annodate con duri
muscoli. Notai che il contorno delle sue gambe era bello.
Ella mi guardò dall'alto in basso,
irguiéndose al di sopra di me, e gridò che non aveva sentito le mie scuse. Don
Juan mi sussurrò che dovrebbe scusarmi con voce forte e chiara.
Una volta che lo feci, la donna sorrise e
diventò verso Don Juan e l'abbracciò come se fosse un bambino. Grugnì che egli
non dovette diventare battere la porta perché il mio contatto era troppo
furtivo e perturbatore. Prese Don Juan del braccio, lo condusse all'interno e
l'aiutò ad attraversare la porta che per certo aveva un piede molto alto. Lo
chiamava "caro viejecillo." Don Juan rise. Io mi trovavo attonito
vedendolo comportarsi come se l'affascinassero le assurdità di quella temibile
donna. Una volta che aiutò al "caro viejecillo" ad entrare nella
casa, la girò verso me e fece un gesto con la mano per scacciarmi, come se io
fossi un cane. Rise vedendo la mia sorpresa: i suoi denti erano grandi, dispari
e sporchi. Poi sembrò cambiare opinione e mi indicò che entrasse.
Don Juan si dirigeva ad una porta che
difficilmente io potevo distinguere alla fine di un oscuro corridoio. La donna
lo rimprovero per ignorare verso dove si dirigeva. Ci condusse per un altro
corridoio oscuro. La casa sembrava immensa, e non c'era una sola luce in lei.
La donna aprì una porta che conduceva ad una stanza molto grande, quasi vuoto
ad eccezione di due vecchie sedie nel centro, sotto il faretto più debole che
ho visto mai. Era un faretto allungato, antico.
Un'altra donna si trovava seduta in una
delle poltrone. La prima donna prese posto in una piccola stuoia e reclinò la
sua schiena contro l'altra sedia. Poi collocò le sue cosce contro i seni,
scoprendosi completamente. Non usava biancheria intima. La contemplai,
stupefatto.
In un tono aspro e brutto, la donna mi
domandò che perché gli stava io guardando sfacciatamente la vagina. Non seppi
che cosa dire e lo negai solo. Ella si alzò e sembrò stare per battermi. Esigè
che confesserà che ero rimasto con la bocca aperta davanti a lei perché non
aveva visto mai una vagina nella mia vita. Mi atterrii. Mi trovavo
completamente imbarazzato e dopo mi sentii irritato per avermi lasciato
acchiappare in tale situazione.
La donna domandò a Don Juan che tipo di
nagual io ero che non aveva visto mai una vagina. Incominciò a ripetere questo
un ed un'altra volta; gridando egli ad ogni polmone. Corse per tutta la stanza
e si trattenne nella sedia dove si trovava seduta l'altra donna. La scosse
delle spalle e, segnalandomi, gli disse che io non avevo visto mai una vagina
in tutta la mia vita.
Mi trovavo mortificato. Sperava che Don
Juan facesse qualcosa per evitarmi quell'umiliazione. Ricordai che mi ero detto
che quelle donne erano ben pazze. Si era imbarazzato: quella donna stava nel
suo punto per il manicomio. Guardai Don Juan, alla ricerca di consiglio ed
appoggio. Egli deviò il suo sguardo. Sembrava trovarsi altrettanto perso, benché
mi sembrasse notare un sorriso malizioso che occultò rapidamente girando la
testa.
La donna si stese supino, si sollevò la
gonna e mi ordinò che guardasse fino a saziarmi invece di stare con sguardi
maligni. Il mio viso dovette arrossare, a giudicare dal caldo che sentii nella
testa ed il collo. Mi trovavo tanto fastidioso che quasi persi il controllo.
Aveva voglia di schiacciarlo la testa.
Improvvisamente la donna che si trovava
nella sedia si mise in piede e prese dei capelli all'altri; le fece alzarsi con
un solo movimento, apparentemente senza nessun sforzo. Mi fu rimasto guardando
con gli occhi socchiusi, ed avvicinò il suo viso a circa cinque centimetri del
mio. Il suo odore era sorprendentemente fresco.
Con una voce molto chillante disse che
dovremmo finire con quello che incominciamo. Le due donne rimasero molto vicino
a me sotto il faretto. Non si somigliavano. Il secondo era di maggiore età, o
dava quell'impressione. Il suo viso si trovava coperto per una densa cappa di
polvere cosmetica che gli dava un'apparenza di buffone. Il suo capello era
sistemato in un chignon. Sembrava molto serena, salvo un continuo tremore nel
labbro inferiore ed il mento.
Le due erano altrettanto alti e forti in
apparenza; entrambe si ersero minacciose su me e mi osservarono un momento
lungo. Don Juan non fece niente per rompere la sua certezza. La donna di più
età assentì con la testa e dono Juan mi disse che si chiamava Zuleica e che era
ensoñadora. La donna che aveva aperto la porta si chiamava Zoila, ed era
accecatrice.
Zuleica girò verso me e, con voce di
pappagallo, mi domandò se non aveva visto mai in realtà una vagina. Don Juan
non potè conservare oramai più tempo la riparazione, ed incominciò a ridere.
Con un gesto, gli feci vedere che non sapeva che cosa dire. Mi sussurrò
nell'udito che la cosa migliore sarebbe dire che non; altrimenti dovrebbe
descrivere una vagina, perché quello mi esigerebbe dopo Zuleica.
Risposi come Don Juan mi indicò e Zuleica
commentò che sentiva pena per me. E dopo ordinò a Zoila che mi abituassi la sua
vagina. Zoila si stese supino abbasso il faretto ed aprì le cosce.
Don Juan rideva e tossiva. Lo supplicai che
mi tirasse fuori da quello manicomio. Di nuovo mi sussurrò nell'udito che
quello che doveva fare era guardare bene e mostrarmi attento ed interessato,
perché se non dovremmo rimanerci lì fino al Giorno del Giudizio.
Dopo un esame diligente ed attento, Zuleica
disse che a partire da quello momento io potevo ostentare di essere un
conoscitore, e che se qualche volta mi imbattevo con una donna senza
pantaletas, non sarebbe oramai tanto volgare ed osceno come per rimanere
strabico guardandola, perché aveva visto già una vagina.
Camminando molto lentamente, Zuleica ci
condusse al patio. Mi sussurrò che lì si trovava qualcuno sperando di conoscermi.
Il patio stava in complete tenebre. A fatica poteva distinguere le sagome degli
altre. Allora vidi l'oscuro contorno di un uomo che si trovava ad alcuni metri
di me. Il mio corpo sperimentò una scossa involontaria.
Don Juan parlò a quell'uomo con una voce
molto bassa, e disse che mi ero portato con lui affinché lo conoscesse. Gli
disse come mi chiamavo. Dopo un momento di silenzio, Don Juan mi disse che
l'uomo si chiamava Silvio Manuel che era il guerriero dell'oscurità ed il vero
capo di tutto il gruppo di guerrieri. Dopo, Silvio Manuel mi parlò. Mi diede
l'impressione che aveva un disordine nella parlata: la sua voce era attenuata e
le parole gli uscivano come soavi esplosioni di tosse.
Mi ordinò che mi avvicinassi. Quando tentai
di avvicinarmi, egli retrocedè, esattamente come se galleggiasse. Mi portò ad
un recesso ancora più oscuro del corridoio, camminando, o quello sembrava,
all'indietro e senza rumore. Mormorò qualcosa che non potei comprendere. Volli
parlare, ma la gola mi offendevo ed era rinsecchita. Mi ripetè qualcosa due o
tre volte fino a che compresi che stava ordinandomi che mi denudassi. C'era
qualcosa di opprimente nella sua voce e nell'oscurità che l'avvolgeva. Non
potei disubbidire. Mi tolsi i vestiti e rimasi nudo, tremando di paura e di
freddo.
Era tanto oscuro che non poteva vedere se
Don Juan e le due donne stavano ancora lì. Ascoltai un soave e prolungato
zittio che nasceva molto vicino a me; allora sentii una brezza fresca. Compresi
che Silvio Manuel esalava soprattutto il suo alito il mio corpo.
Poi mi chiese che mi sedessi nei miei
vestiti e guardasse un punto brillante che con facilità io potevo distinguere
nell'oscurità, un punto che dava una tenue luce ambra. Mi sembrò che rimanessi
guardando ore intere fino a che cosa di subitaneo compresi che il punto di
brillantezza era l'occhio sinistro di Silvio Manuel. Potei distinguere allora
il contorno di tutto il suo viso e del suo corpo. Il corridoio non stava tanto
oscuro come sembrava. Silvio Manuel avanzò verso me e mi aiutò ad incorporarmi.
Mi piacque vedere nell'oscurità con tale chiarezza. Neanche mi importava essere
nudo o che, come allora notai, le donne mi guardassero. All'opinione, anche
essi potevano vedere nell'oscurità; mi osservavano. Volli mettermi il
pantaloni, ma Zoila me lo strappò delle mani.
Le due donne e Silvio Manuel mi osservarono
per un lungo momento. Dopo, Don Juan si presentò improvvisamente, mi diede le
mie scarpe, e Zoila ci portò per un corridore ad un patio aperto, con alberi.
Distinsi la sfortuna sagoma di una donna ferma nella metà del patio. Don Juan
gli parlò ed ella mormorò qualcosa come risposta. Don Juan mi disse che era una
donna del Sud, si chiamava Martora, ed era l'assistente delle due donne
dell'ovest. Martora disse che potrebbe scommettere che io non mi ero presentato
mai ad una donna essendo nudo; il procedimento abituale è conoscersi e
svestirsi dopo. Rise con forza. La sua risata era tanto gradevole, tanto chiara
e giovane che mi scosse. La sua risata rimbalzò per tutta la casa, aumentata
per l'oscurità ed il silenzio che lì regnava. Guardai Don Juan alla ricerca di
appoggio. Era andato via, e Silvio Manuel anche. Mi trovavo solo con le tre
donne. Diventai molto nervoso e domandai a Martora se sapeva a dove era andato
via Don Juan. In quello preciso momento, qualcuno mi afferrò della pelle delle
mie ascelle. Gridai di dolore. Seppi che era stato Silvio Manuel. Mi alzò come
se io non pesassi niente e mi scosse fino a che mi furono uscito le scarpe. Poi
mi alzò in una stretta tinozza di acqua gelata che mi arrivava alle ginocchia.
Rimasi nella tinozza per un momento lungo
mentre tutti mi scrutavano. Dopo, Silvio Manuel girò ad alzarmi, mi tirò fuori
dall'acqua e mi collocò vicino alle mie scarpe che diligentemente qualcuno
aveva messo di fianco alla tinozza.
Don Juan di nuovo apparve e mi diede i miei
vestiti. Mi sussurrò che doveva mettermela e che la cosa cortese era rimanere
conversando per un momento. Martora mi diede un asciugamano affinché mi
asciugassi. Cercai le altre due donne e Silvio Manuel, ma non apparivano per
nessun posto.
Martora, Don Juan ed io rimanemmo
nell'oscurità conversando un lungo momento. Ella sembrava dirigersi
principalmente a Don Juan, ma credei che io ero il suo vero pubblico. Aspettai
un'indicazione di Don Juan affinché andassimo via, ma egli sembrava godere
l'agile conversazione di Martora. Ci disse che quello giorno Zoila e Zuleica
erano stati nella cima della pazzia. Aggiunse dopo, nel mio beneficio, che le
due erano straordinariamente razionali la maggior parte del tempo.
Come se rivelasse un segreto, Martora ci
contò che il capello di Zoila era tanto spettinato perché almeno un terzo di
questo era capelli di Zuleica. Le due avevano avuto un momento di intenso
cameratismo, e si aiutarono mutuamente a pettinarsi i capelli. Zuleica
intrecciò i capelli di Zoila come l'aveva fatto cientos di volte, a meno che,
come stava fuori di controllo, annodò parte del suo proprio capello con quello
di Zoila. Martora disse che alzandosi dalle sedie ci fu una commozione. Ella corse
al riscatto, ma quando entrò nella stanza, Zuleica aveva preso già l'iniziativa
e si trovava più lucida di Zoila, decise di tagliare la parte dei capelli di
Zoila che aveva intrecciato col suo. Nel disordine che venne dopo, Zuleica si
confuse e finì per tagliare i suoi propri capelli.
Don Juan rideva come se fosse la cosa più
spiritosa che avrebbe sentito nella sua vita. Ascoltai soavi esplosioni di
risata che sembravano tosse e che provenivano dall'oscurità del lato opposto
del patio.
Martora aggiunse che aveva dovuto
improvvisarlo un chignon fino a che gli crescesse i capelli a Zuleica.
Risi con Don Juan. Martora cadevo molto
simpatica. Invece le altre due donne mi facevano schifo. Martora, al contrario,
sembrava un paragone di calma e di volontà ferrea. Non poteva vedere i suoi
tratti, ma l'immaginai molto bella. Il suono della sua voce era attraente.
Molto cortesemente, ella domandò a Don Juan
se io vorrei qualcosa di mangiare. Egli rispose che io non mi sentivo molto a
gusto che diciamo con Zuleica e Zoila e che probabilmente finirebbe in nausea.
Martora mi assicurò che le due donne erano andate via già, e prese il mio
braccio e ci portò attraverso un corridore ancora più oscuro fino ad un bene
illuminata cucina. Il contrasto fu eccessivo per i miei occhi. Rimasi nella
soglia della porta tentando di abituarmi alla luce.
La cucina era di soffitto alto ed
abbastanza moderna e funzionale. Prendiamo posto in una specie di desayunador.
Martora era giovane e molto forte; aveva una figura piena, voluttuosa; viso
circolare e naso e bocca piccole. I suoi capelli neri erano intrecciati ed
attorcigliati sopra alla sua testa.
Era sicuro che ella sarebbe stata tanto
curiosa per esaminare io mi mangio per vederla nella luce. Ci sediamo e
mangiammo e parliamo per ore. Io rimasi affascinato. Era una donna senza
educazione e, tuttavia, mi ebbe assorto con la sua conversazione. Ci raccontò
spiritose e dettagliate storie delle ridicolaggini che Zoila e Zuleica facevano
quando erano pazze.
Quando usciamo della casa, Don Juan
espresse la sua ammirazione per Martora. Disse che ella era magari il più
ammirabile esempio di come la determinazione può colpire un essere umano. Senza
nessuna base educativa o di preparazione, salvo la sua volontà infrangibile,
Martora aveva trionfato nel più arduo compito immaginabile: quella di curare a
Zoila, Zuleica e Silvio Manuel.
Domandai a Don Juan perché Silvio Manuel si
era ricusato a che lo guardasse nella luce. Mi rispose che Silvio Manuel si
trovava nel suo elemento nell'oscurità, e che avrebbe già innumerevoli
opportunità di vederlo. Durante nostro primo incontro, nonostante, era
obbligatorio che egli si conservasse dentro i limitrofo del suo potere:
l'oscurità della notte. Silvio Manuel e le due donne vivevano insieme perché
formavano una squadra di stregoni formidabili.
Don Juan mi raccomandò che non mi formassi
giudizi affrettati delle due donne dell'ovest. Io li avevo conosciute in un
momento in cui stavano fuori di controllo, ma quell'assenza di controllo aveva
solo a che vedere con la condotta superficiale. Le due avevano un centro
interno che era inalterabile; pertanto, fino a nei momenti di peggiore pazzia
potevano ridere delle sue proprie aberrazioni come se si trattasse di una
rappresentazione messa in scena per altre persone.
Il caso di Silvio Manuel era distinto, non
si trovava frastornato di maniera alcuna. In realtà, la sua profonda sobrietà
gli permetteva di agire tanto effettivamente con le due donne, perché esse ed
egli erano estremi opposti. Don Juan mi disse che Silvio Manuel era nato da
quella maniera e che tutti quelli che lo circondavano riconoscevano la
differenza. Nonostante lo stesso benefattore di Don Juan che era duro ed
implacabile con tutti, sperperava speciale attenzione a Silvio Manuel. Don Juan
tardò anni a comprendere la ragione di quella preferenza. Dovuto a qualcosa di
inspiegabile nella sua natura, mai più una volta che Silvio Manuel versò nella
coscienza del lato sinistro, uscì di lì. La sua propensione a rimanere in un
stato di coscienza accresciuta, unito alla superba capacità del suo
benefattore, gli permisero di arrivare, prima che gli altri, non solo alla
conclusione che la regola è una mappa e che, in realtà, esiste un altro tipo di
coscienza, ma anche il passaggio reale e concreto che conduce all'altro mondo
della coscienza. Don Juan diceva che Silvio Manuel, nella maniera più
impeccabile, equilibrava i suoi guadagni eccessivi mettendoli al servizio del
proposito comune di tutti essi. Silvio Manuel era la forza silenziosa che si
trovava dietro Don Juan.
Il mio ultimo incontro introduttivo coi
guerrieri di Don Juan fu col Nord. Don Juan mi portò alla città di Guadalajara
al fine di portarlo a termine. Mi disse che il nostro appuntamento era solo ad
una breve distanza del centro della città e che avrebbe a mezzogiorno luogo,
perché il Nord era il mezzogiorno. Lasciamo il hotel alle undici della mattina,
e passeggiiamo tranquillamente per la zona del centro.
Camminava senza fissarmi, preoccupato per
l'incontro, quando mi schiantai a capofitto con una dama che usciva affrettata
da un negozio. Portava alcuni pacchetti che si divertirono per il marciapiede.
Chiesi scuse ed incominciai ad aiutarla a raccoglierli. Don Juan mi urse a che
mi affliggessi per non arrivare troppo tardi. La signora sembrava stordita col
colpo. La sostenni del braccio. Era una donna alta, molto snella, chissà di
circa sessanta anni, vestita con somma eleganza. Sembrava una dama di società.
Era squisitamente cortese ed assunse la colpa, adducendo che si era distrarsi
cercando il suo domestico. Mi domandò se poteva aiutarla a localizzarlo tra la
moltitudine. Diventai a Don Juan chi disse che, dopo mezzo ammazzarla, egli
meno che poteva fare era aiutarla.
Presi i pacchetti e ritorniamo al negozio.
A breve distanza localizzai un indio di aria abbandonata che sembrava stare
assolutamente fuori lì di posto. La signora lo chiamò ed egli andò quasi al suo
fianco come un cagnolino deviato. Sembrava che stesse per leccarlo la mano.
Don Juan c'aspettava fuori del negozio.
Spiegò alla signora che avevamo fretta e dopo gli diedi il mio nome. La signora
sorrise con grazia e mi estese la sua mano. Pensai che nella sua gioventù era
dovuto essere travolgente, perché si conservava ancora bella ed attraente.
Don Juan a me me diventò e bruscamente mi
disse che il nome della signora era Nélida che era del Nord, e che era
ensoñadora. Poi mi fece diventare verso il domestico e mi disse che si chiamava
Genaro Flores, e che egli era l'uomo di azione, il guerriero delle imprese del
gruppo. La mia sorpresa fu totale. I tre sciolsero una risata, e quanto più
cresceva la mia costernazione più essi godevano.
Don Genaro regalò i pacchetti ad un gruppo
di bambini, dicendoli che la sua patrona, la buona Sig.ra, aveva comprato
quelle cose per regalarsili. Era la sua buona azione del giorno. Poi camminiamo
in silenzio una calza stalla. Io avevo la lingua unita. Improvvisamente, Nélida
segnalò un negozio e ci chiese che ci trattenessimo un istante perché doveva
raccogliere una scatola di calze che stavano conservandolo lì. Mi scrutinò
sorridendo, con gli occhi risplendenti, e mi disse che, già sul serio,
stregoneria o non stregoneria, ella doveva usare mezze nylon e pantaletas di
pizzo. Don Juan e dono Genaro risero come idioti. Io rimasi guardandola con la
bocca aperta, perché non doveva un'altra cosa fare. C'era qualcosa di
assolutamente terreno in lei e, tuttavia, era quasi eterea.
In tono in vena di scherzi disse a Don Juan
che mi reggessi perché stava per svenire. Poi cortesemente chiese a Don Genaro
che fosse correndo dentro e che raccogliesse il pacchetto. Quando egli
procedeva ad entrare nel negozio, Nélida cambiò idea e lo chiamò, ma
apparentemente egli non l'ascoltò e sparì nel negozio. Nélida si scusò e corse
dietro lui.
Don Juan oppresse la mia schiena per
tirarmi fuori dalle mie turbolenze. Mi disse che andava a conoscere l'altra
donna del Nord il cui nome era Florinda, per il mio proprio conto ed in
un'altra occasione, perché ella sarebbe la mia unione con un altro ciclo, con
un altro stato di essere. Descrisse a Florinda come una copia al carbone di
Nélida, o viceversa.
Osservai che Nélida era tanto sofisticato e
di tanto buon gusto che poteva immaginarla in una rivista di mode. Il fatto che
fosse bella e tanto bianca, chissà di famiglia francese o del nord dell'Italia,
mi sorprese. Benché neanche Vicente fosse indio, la sua apparenza rurale non lo
faceva vedere come un'anomalia. Domandai a Don Juan perché c'era gente bianca
nel suo mondo. Disse che il potere è quello che seleziona i guerrieri del
gruppo di un nagual, e che è impossibile conoscere i suoi propositi.
Aspettiamo di fronte per lo meno del
negozio un mezz'ora. Don Juan sembrò spazientirsi e mi chiese che entrasse e li
affrettasse. Entrai nel negozio. Non era un posto grande, non c'era porta
posteriore, ed essi non stavano lì. Domandai agli impiegati, ma nessuno potè
darmi ragione.
Ritornai con Don Juan e gli esigei che mi
dicessi che cosa era successo. Mi disse che o erano spariti in piena aria o
erano usciti ad escurridillas quando egli mi oppresse la schiena.
Mi infuriai e gli gridai che tutta la sua
gente erano alcuni imbroglioni. Egli rise tanto che gli rodarono lacrime per le
guance. Disse che io ero l'ideale vittima di inganno. Il mio senso di
impazienza personale mi spingeva a svolgere senza speranza il ruolo di un
stupido. La mia irritazione lo faceva ridere con tanta forza che dovette
appoggiarsi sulla parete.
La Grassa mi raccontò il suo primo incontro
coi membri del gruppo di Don Juan. La sua versione differiva solo nel
contenuto: la forma era la stessa. Chissà i guerrieri furono un po' più
violenti con lei. La Grassa l'interpretò come un esperimento per tirarla fuori
dalla sua sonnolenza, o una reazione naturale, da parte di essi, a quello che
ella considerava la sua detestabile personalità.
Man mano che rivedevamo il mondo di Don
Juan, stavamo rendendo conto che questa era una replica del mondo del suo
benefattore. Poteva vedersi che consisteva o di gruppi o di case. C'era un
gruppo di quattro paia indipendenti di donne che sembravano sorelle e che lavoravano
e vivevano giunte; un altro gruppo era composto per Don Juan e tre uomini
dell'età di Don Juan, e molto vicini a lui; un paio di donne del Sud, più
giovani delle altre, che sembravano avere lacci di parentela tra esse, Martora
e Teresa; e finalmente un paio di uomini minori di Don Juan, i propri Emilito e
Juan Tuma. Ma sembravano anche consistere in quattro sposi a parte, localizzate
molto lontano l'una dell'altra in distinte zone del Messico. Una si trovava
composta per le due donne dell'ovest, Zuleica e Zoila, Silvio Manuel e Martora.
Il seguente era formato per le due donne del Sud, Cecilia e Delia; Emilito che
era il proprio di Don Juan, e Teresa. Un'altra casa era fatta per Carmela e
Hermelinda, le donne dell'ovest, Vicente, ed il proprio Juan Tuma; e, infine,
quella delle donne del Nord, Nélida e Florinda, e Don Genaro.
Secondo Don Juan, il suo mondo non aveva né
l'armonia né l'equilibrio di quello del suo benefattore. Le due uniche donne
che si equilibravano completamente l'una all'altra, e che sembravano gemelle
identiche, erano le guerriere del Nord, Nélida e Florinda. Una volta, Nélida mi
disse che le due erano tanto simili che perfino avevano lo stesso tipo
sanguineo.
Per me, una delle sorprese più gradevoli fu
la trasformazione di Zuleica e Zoila chi erano stati tanto ripugnanti.
Risultarono essere, come aveva detto Don Juan, le guerriere più sobrie che
potesse immaginarsi. Non poteva crederlo quando li vidi per la seconda volta.
L'attacco di pazzia aveva passato ed ora paragonavano due signore ben vestite,
alte, brune e muscolose, con brillanti occhi oscuri come pezzi di risplendente
ossidiana nera. Risero e scherzarono con me per quello che successe la notte di
nostro primo incontro, come se altre persone e non esse avrebbero preso parte a
lui. Può capirsi facilmente il tumulto emozionale di Don Juan causato per le
guerriero dell'ovest del gruppo del suo benefattore. Per me era anche
impossibile accettare che Zuleica e Zoila potessero trasformarsi in creature
ripugnanti e detestabili. Mi toccò l'opportunità di presenziare a quella
metamorfosi in varie occasioni; non potei giudicarli felicemente mai tanto
aspramente come lo feci nel primo incontro. Meglio di niente, i suoi eccessi mi
causavano tristezza.
Ma la sorpresa più grande me la procurò
Silvio Manuel. Nell'oscurità di nostro primo trovo l'immaginai come un uomo
imponente, un gigante dominatore. In realtà era piccolo, ma non fragilmente
piccolo. Il suo corpo era come quello di un fantino di corse, un fantino
piccolo ma perfettamente proporzionato. Mi sembrò che avesse potuto essere un
ginnasta. Il suo controllo fisico era tanto notevole che poteva gonfiarsi, come
se fosse un rospo, fino a quasi il doppio del suo volume, espandendo tutti i
muscoli del corpo. Dava sorprendenti dimostrazioni di come poteva slogare
nuovamente i suoi membri e reacomodarlos senza nessuna manifestazione di
dolore. Guardando a Silvio Manuel, sperimentai sempre un profondo, sconosciuto
sentimento di paura. Per me, era come un visitatore di un altro tempo. Era bruno
pallido, come statua di bronzo. I suoi tratti erano affilati. Il suo naso
aquilino; le sue labbra grosse ed i suoi occhi obliqui ampiamente separati, lo
facevano sembrare una figura stilizzata di un fresco maya. Durante il giorno
era amichevole e simpatico, ma tanto pronto oscurava diventava insondabile. La
sua voce si trasformava. Prendeva posto in un angolo oscuro e si lasciava
divorare per l'oscurità. Tutto quello che rimaneva visibile di lui era il suo
occhio sinistro che rimaneva aperto ed acquisiva un fulgore strano, come occhi
di felino.
Una questione secondaria che emerse nel
decorso dal nostro trattamento coi guerrieri di Don Juan fu il tema dello
sproposito controllato. Don Juan mi diede d'un colpo una spiegazione suscinta
che si trovava esponendo le due categorie nelle quali obbligatoriamente si
dividono le donne guerriere: sognatrici ed accecatrici. Mi disse che tutti i
membri del suo gruppo facevano trasognare e spiare come parte delle sue vite
giornaliere, ma che le donne che componevano il pianeta delle sognatrici ed il
pianeta delle accecatrici erano le massime autorità delle sue attività
rispettive.
Le accecatrici è quella che affrontano gli
embates del mondo quotidiano. Sono le amministratrici di commerci, quelle che
trattano con la gente. Tutto quello che ha a che vedere col mondo dei temi
ordinari passa per le sue mani. Le accecatrici è le apprendista dello
sproposito controllato, come le sognatrici è le apprendista del sogno. In altre
parole, lo sproposito controllato è la base dello spiare, ed i sogni sono le
basi del trasognare. Don Juan diceva che, parlando in termini generali, il
risultato più importante di un guerriero nella seconda attenzione è trasognare,
e nella prima attenzione il risultato più grande è spiare.
Io fraintesi quello che i guerrieri di Don
Juan fecero con me in nostri primi incontri. Prenda i suoi atti come esempi di
inganno e falsità, e quella sarebbe la mia impressione fino alla data, di non
essere stato per l'idea dello sproposito controllato. Don Juan mi disse che gli
atti di quelli guerrieri furono lezioni maestre di spiare. Mi disse che il suo
benefattore gli aveva insegnato l'arte di spiare prima che un'altra cosa. Per
potere sopravvivere tra i guerrieri del suo benefattore dovette imparare a gran
velocità quell'arte. Nel mio caso, disse Don Juan, dato che non doveva vedermi
le coi suoi guerrieri, dovetti imparare in primo luogo a trasognare. Ma quando
il momento fosse appropriato, Florinda apparirebbe per guidarmi attraverso le
complessità dello spiare. Nessuno più che ella poteva parlare dettagliatamente
con me dell'agguato; solamente gli altri potevano offrirmi dimostrazioni
dirette, come già l'avevano fatto in nostri primi incontri.
Don Juan mi spiegò dettagliatamente che
Florinda era uno dei massimi apprendisti dell'agguato, poiché il suo
benefattore e suoi quattro guerriere che erano accecatrici, l'avevano allenata
negli aspetti più intricati di questa arte. Florinda fu il primo guerriera che
arrivò al mondo di Don Juan, e per quella ragione ella andava ad essere la mia
guida personale: non solo nell'arte di spiare ma anche nel mistero della terza
attenzione, se è che io arrivavo a quello livello. Don Juan non mi spiegò
nient'altro circa quello punto. Mi disse che quello dovrebbe sperare a che io
fossi pronto, primo per imparare a spiare, e dopo ad entrare nella terza
attenzione.
Don Juan diceva che il suo benefattore era
stato molto meticoloso con ognuno dei suoi guerrieri addestrandoli nell'arte di
spiare. Utilizzò ogni tipo di stratagemmi al fine di creare un contrappunto tra
i dettati della regola e la condotta dei guerrieri nel mondo quotidiano.
Credeva che quell'era la migliore forma di convincerli che l'unica maniera che
dispongono per trattare col mezzo sociale sia in termini dello sproposito
controllato.
Man mano che sviluppava i suoi stratagemmi,
il benefattore di Don Juan metteva alla gente ed i guerrieri di fronte ai
mandati della regola, e lasciava che il dramma naturale Lei svolgesse per sé
stesso. L'insensatezza della gente prendeva la parte anteriore e per un momento
trascinava con lei ai guerrieri, come sembra essere la cosa naturale, ma sarà
sempre vinta per i propositi più abarcantes della regola.
Don Juan ci disse che in un principio si
sentì profondamente offeso per il controllo che il suo benefattore esercitava
sui suoi guerrieri. Perfino glielo rinfacciò. Il suo benefattore non si alterò.
Sostenne che il suo controllo era solamente un'illusione che l'Aquila creava.
Solamente l'era un guerriero impeccabile, ed i suoi atti rappresentavano un umile
tentativo di riflettere l'Aquila.
Don Juan diceva che l'impulso col quale il
suo benefattore portava a termine i suoi stratagemmi nasceva nella sua certezza
che l'Aquila era reale e finale, e nella sua certezza che quello che la gente
fa è un sproposito assoluto. Quelle due convinzioni davano origine allo
sproposito controllato che il benefattore di Don Juan descriveva come l'unico
ponte che esiste tra l'insensatezza della gente e la finalità dei dettati
dell'Aquila.
XI. LA DONNA NAGUAL
Don Juan mi disse che quando fu messo basso
l'attenzione delle donne dell'ovest, per essere purificato, anche lo misero
basso la tutela della donna del Nord che era l'equivalente di Florinda,
affinché questa gli insegnasse i principi dell'arte di spiare. Ella ed il suo
benefattore gli diedero i mezzi concreti per acquisire i tre guerrieri, al
proprio e le quattro accecatrici che comporrebbero il suo gruppo.
Le otto donne veggente del gruppo del suo
benefattore avevano cercato le configurazioni distintive di luminosità, e non
ebbero ostacolate alcuna in trovare i tipi appropriati di guerrieri maschili e
femminili per il gruppo di Don Juan. Tuttavia, il suo benefattore non permise
che quelli veggenti facessero nessun tentativo per congregare i guerrieri che
avevano trovato. Corrispose a Don Juan applicare i principi dell'agguato per
ottenerli.
Il primo guerriero che apparve fu Vicente.
Don Juan non dominava ancora l'arte di spiare per potere arruolarlo. Il suo
benefattore e l'accecatrice del Nord dovettero fare quasi tutto il lavoro. Poi
venne Silvio Manuel, più tardi Don Genaro e, infine, Emilito, il proprio.
Florinda fu il primo guerriera. Fu seguita
per Zoila, dopo per Delia e dopo per Carmela. Don Juan diceva che
inesorabilmente il suo benefattore li obbligò a tutti essi a che commerciassero
col mondo in termini di sproposito controllato.
Il risultato fu una stupenda squadra di
apprendisti chi concepivano ed eseguivano i più intricati stratagemmi.
Quando tutti essi avevano già un certo
grado di perizia nell'arte di spiare, il suo benefattore considerò che era il
momento adeguato di trovare per essi una donna nagual. Fedele alla sua politica
di aiutarli a che si aiutassero a se stessi, sperò, per trovarla, fino a che
Don Juan aveva imparato a vedere e tutti essi erano esperto acechadores. Benché
Don Juan si dispiacesse immensamente del tempo che sprecò in sperare, era di
accordo in cui quello corso di azione creó un enorme vincolo tra tutti essi e
diede nuova vita al suo obbligo di cercare la libertà.
Il suo benefattore incominciò il suo
stratagemma per attrarre alla donna nagual convertendosi, improvvisamente, in
un cattolico devoto. Esigè che Don Juan, essendo l'erede della sua conoscenza,
si comporterà come un figlio e fosse alla chiesa con lui. Giorno dopo giorno lo
spingeva a sentire messa. Don Juan diceva che il suo benefattore chi nel suo
trattamento con la gente era un uomo affascinante ed eloquente, lo presentava a
tutti come suo figlio, l'algebrista.
Don Juan che era a quel tempo un selvaggio
secondo le sue proprie parole, si sentiva desolato in situazioni sociali nelle
che doveva parlare e dare una relazione di sé stesso. La cosa unica che lo
tranquillizzava era l'idea che il suo benefattore aveva ragioni ulteriori.
Tentò di dedurre attraverso le sue osservazioni quali quelle ragioni potevano
essere, ma non potè farlo. Gli atti del suo benefattore sembravano essere
aperti in presenza di tutti. Come cattolico esemplare, guadagnò la fiducia di
moltissima gente, specialmente del parroco chi l'aveva in dimissione stima e lo
considerava amico e confidente. Gli passò per la mente l'idea che sinceramente
il suo benefattore poteva aversi convertito al cattolicesimo, se non è che era
diventato pazzo di liquidazione. Non aveva compreso ancora che un guerriero non
perde mai la testa sotto nessuna circostanza.
I lamenti di Don Juan per dovere andare
alla chiesa svanirono quando il suo benefattore incominciò a presentarlo con le
figlie della gente che conosceva. Quello gli piacque, benché lo scomodasse
anche. Don Juan credette che il suo benefattore stava aiutandolo a sciogliere
la lingua. Egli non era né eloquente né affascinante, ed il suo benefattore gli
aveva detto che un nagual per forze deve essere entrambe le cose.
Una domenica, durante la messa, dopo quasi
un anno di sentirla praticamente tutti i giorni, Don Juan scoprì quale la vera
ragione era per quella che andavano alla chiesa. Si trovava inginocchiato
vicino ad una ragazza chiamato Olinda, figlia di uno dei conoscenti del suo
benefattore. Don Juan tornò per incrociare sguardi con lei, come già era la sua
abitudine dopo mesi di contatto diario. I suoi occhi si trovarono, ed
improvvisamente Don Juan la vide come un essere luminoso e dopo vide che Olinda
era una donna doppia. Il suo benefattore lo sapeva dall'inizio, ed aveva scelto
la strada più difficile affinché Don Juan si mettesse in contatto con lei. Don
Juan mi confessò che quello momento fu dominatore per lui.
Il suo benefattore seppe che Don Juan aveva
visto. La sua missione di riunire gli esseri doppi era stata riuscita
impeccabilmente. Si mise in piede ed i suoi occhi scoparono tutti gli angoli
della chiesa; camminò dopo verso fuori senza girare la testa una sola volta.
Non aveva oramai niente che cosa fare lì.
Don Juan mi disse che quando il suo
benefattore si mise in piede ed uscì dalla messa, tutti girarono a vederlo. Don
Juan volle seguirlo, ma audacemente Olinda lo prese la mano e lo fermò. In
quello momento seppe che il potere di vedere non era stato solamente suo.
Qualcosa li aveva oltrepassati ai due. Don Juan notò improvvisamente che la
messa non aveva concluso solo, ma ambedue stavano già fuori della chiesa. Il
suo benefattore tentava di calmare la madre di Olinda che si trovava adirata e
svergognata per l'inaspettata ed inammissibile dimostrazione di affetto che
ebbe luogo tra Olinda e Don Juan.
Don Juan mi disse che si trovò
completamente disorientato. Sapeva che a lui gli corrispondeva concepire un
piano di azione. Aveva le risorse, ma l'importanza dell'evento lo fece perdere
la fiducia nella sua abilità. Lasciò ad un lato la sua perizia come acechador e
si perse nel dilemma intellettuale di se doveva o non trattare ad Olinda come
sproposito controllato.
Il suo benefattore gli disse che non poteva
aiutarlo. Il suo dovere era stato riunirli, e lì cessava la sua responsabilità.
A Don Juan gli corrispondeva prendere i passi appropriati. Suggerì perfino che
Don Juan considerasse sposarsi con lei, se quell'era quello che si richiedeva.
Solo quando Olinda lui fosse per la sua propria volontà egli potrebbe aiutare a
Don Juan intervenendo direttamente come nagual.
Don Juan tentò un corteo formale. Non fu
ben ricevuto per i genitori chi non potevano concepire che qualcuno di una
classe sociale tanto distinta fosse pretendente di sua figlia. Olinda non era
indio; la sua famiglia era di classe mezza, padrona di un piccolo commercio. Il
padre aveva altri piani per sua figlia. Minacciò di inviarla alla capitale se
Don Juan insisteva nel sposarsi con lei.
Don Juan mi disse che gli esseri doppi, le
donne specialmente, sono straordinariamente moderati, perfino timidi. Olinda
non era un'eccezione. Dopo l'esaltazione iniziale nella chiesa, fu dominata per
la prudenza, e dopo per la paura. Le sue proprie reazioni la spaventavano.
Come manovra strategica, il suo benefattore
fece che Don Juan si ritirasse, per dare l'idea che accondiscendeva con lui chi
non aveva approvato la ragazza: quella fu la supposizione di tutti quelli che
presenziarono all'incidente della chiesa, La gente spettegolò che lo spettacolo
dei due aggrappati della mano era spiaciuto tanto intensamente "al
padre" di Don Juan, un cattolico tanto devoto, che questo non ritornò
oramai più alla chiesa.
Il suo benefattore disse a Don Juan che un
guerriero non può essere assediato. Stare basso posto implica che uno deve possessi
personali difendere. Un guerriero non ha niente nel mondo salvo la sua
impeccabilità, e l'impeccabilità non può essere assediata. Nonostante, in una
battaglia di vita o morte, come era quella che Don Juan affrontava per ottenere
alla donna nagual, un guerriero debito di usare strategicamente tutti i mezzi
possibili.
Don Juan risolse, di accordo con ciò, usare
qualunque parte la sua conoscenza di acechador che fosse pertinente. Per quello
fine, raccomandò a Silvio Manuel che usasse le sue arti di stregone che
nonostante in quell'epoca di principiante erano già formidabili, per
sequestrare la ragazza. Silvio Manuel e Genaro chi era davvero temerario,
entrarono furtivamente nella casa della ragazza mascherati da lavandaie. Era
mezzogiorno, e tutti nella casa erano occupati preparando cibo per i parenti ed
amici che avevano invitato a cenare. Si trattava di una festa di addio per
Olinda. Silvio Manuel contava sulla possibilità che quelli che vedessero a due
strane lavandaie entrando con alcuni fagotti di vestiti credessero che avessero
a che vedere con la festa di Olinda, e che di quella forma non sospetterebbero
niente. Don Juan aveva proporzionato a Silvio Manuel e Genaro, in anticipo,
tutta l'informazione necessaria circa le routine dei membri della casa. Disse
loro che in generale le lavandaie portavano i suoi fagotti di vestiti lavati
alla casa e li smettevano nella stanza di stirare. Silvio Manuel e Genaro,
carichi di enormi fagotti di vestiti, furono direttamente a quella stanza,
perché sapevano che Olinda starebbe lì.
Don Juan mi contò che Silvio Manuel si
avvicinò ad Olinda ed utilizzò il suo poteri mesmerizantes per affievolirla. La
misero dentro un sacco, avvolsero questo con lenzuola ed andarono via,
lasciando oltre a sé i fagotti che avevano portato. Si imbatterono col padre di
Olinda nella porta, e neanche egli li guardò.
Al benefattore di Don Juan non gli piacque
nella cosa minima la manovra. Ordinò Don Juan che portasse immediatamente alla
ragazza di giro a casa sua. Era imperativo, disse, che la donna doppia
arrivasse alla casa del benefattore per la sua propria volontà, chissà non con
l'idea di unírseles bensì, almeno, perché essi gli interessavano.
Don Juan credette che tutto era perso - le
possibilità che potesse ritornarla a casa sua senza che nessuno si rendesse
conto erano minime -, ma a Silvio Manuel gli fu successo una soluzione. Propose
che le quattro donne del gruppo di Don Juan porteranno alla giovane ad una
strada deserta, dove Don Juan la riscatterebbe.
Silvio Manuel voleva che le donne agissero
un dramma. In quello dramma esse erano quelle che stavano sequestrandola. In
qualche posto della strada qualcuno li scopriva e si lanciava alla
persecuzione. Il persecutore li raggiungeva ed esse lasciavano cadere il sacco,
con la sufficienza forza per essere convincenti. Ovviamente, il persecutore
sarebbe Don Juan chi miracolosamente era stato durante il tragitto.
Silvio Manuel esigè un'attuazione ben
realistica. Ordinò le donne che imbavagliassero la ragazza chi per allora era
sveglia, gridando all'interno del sacco. Li fece dopo che corressero chilometri
con tutto e carica. Durante la giornata indicò loro quando dovevano occultarsi
del persecutore e quando dovevano correre. Infine, dopo un'ordalia davvero
spossante, fece loro tirare il sacco nella maniera più adeguata affinché la
giovane potesse presenziare ad una lite della cosa più terribile tra Don Juan e
le quattro donne. Silvio Manuel aveva proposto alle donne che la lite dovrebbe
essere assolutamente reale. Li armò con pali e li istruì a che battessero Don
Juan senza povertà.
Delle donne, Zoila era quello che più
facilmente si lasciava portare per l'isteria; non appena incominciarono a
bastonare Don Juan, Zoila si lasciò possedere per la carta ed offrì
un'attuazione da brivido; battè tanto forte a Don Juan che gli strappò pezzi da
carne della schiena e delle spalle. Per un momento sembrò che le sequestratrici
andassero a guadagnare. Silvio Manuel dovette uscire dal suo nascondiglio e,
fingendo essere un passante, ricordò loro che si trattava solo di un
stratagemma e che era ora che fuggissero.
Don Juan si trasformò di quella maniera nel
salvatore e protettivo di Olinda. Gli disse che egli stesso non potrebbe
portarla a casa perché era ferito, ma che l'invierebbe di ritorno con suo pio
padre.
Ella l'aiutò a camminare a casa del suo
benefattore. Don Juan mi disse che non dovette fingere essere ferito:
sanguinava profusamente ed a fatica potè arrivare alla porta. Quando Olinda
narrò al suo benefattore quello che era successo; questo dovette mascherare da
pianto il suo agonizzante desiderio di ridere.
Bendarono le ferite a Don Juan e dopo si
coricò. Olinda incominciò a spiegargli perché non poteva sposarsi con lui, ma
non potè finire. Il benefattore di Don Juan entrò alla stanza e disse ad Olinda
che gli era evidente, vedendola camminare che le sequestratrici l'avevano leso
la schiena. Si offrì ad allinearla prima che Lei trasformasse in qualcosa
critico.
Olinda titubò. Il benefattore di Don Juan
gli ricordò che le sequestratrici non stavano giocando; dopo tutto, quasi
avevano ammazzato suo figlio. Olinda fu di fianco al benefattore e permise che
questo lo propinasse un colpo nella scapola. Si sentì un scricchiolio ed Olinda
entrò in un stato di coscienza accresciuta. Il benefattore gli rivelò la regola
e; come Don Juan, ella l'accettò di pieno. Non ci furono dubbio, né titubanze.
La donna nagual e Don Juan trovarono
pienezza, unità e silenzio nella sua compagnia mutua. Don Juan mi disse che
quello che sentivano l'uno per l'altro non aveva niente a che vedere con
l'affetto o la necessità; era piuttosto come una sensazione fisica che ambedue
condividevano; la sensazione che una barriera che era esistito dentro ognuno di
essi si era rotta e che erano uno e lo stesso essere.
Don Juan e la donna nagual, come
prescriveva la regola, lavorarono anni, l'uno di fianco all'altro, per trovare
quattro sognatrici; che vennero ad essere Nélida, Zuleica, Cecilia e
Hermelinda, ed i tre propri, Juan Tuma, Teresa e Martora. Trovarli fu in
un'occasione in cui la natura pragmatica della regola gli fu un'altra volta
rivelata a Don Juan. Tutti essi erano esattamente quelli che la regola diceva.
La sua venuta produsse un nuovo ciclo per tutti, includendo il benefattore di
Don Juan ed il suo gruppo. Per Don Juan ed i suoi guerrieri significò il ciclo
di trasognare, e ferma il suo benefattore ed il suo gruppo significò un periodo
di impeccabilità insuperabile.
Il suo benefattore spiegò a Don Juan che
quando egli era giovane e gli fu presentato per la prima volta l'idea della regola
come un strumento di libertà, rimase esaltato di godimento. Per lui, la libertà
era una realtà che stava a portata di mano. Quando arrivò a comprendere la
natura della regola in qualità di mappa, le sue speranze ed ottimismo si
ripeterono. Più tardi, la sobrietà entrò a fare parte della sua vita; quanto
più invecchiava, meno opportunità vedeva che egli ed il suo gruppo avessero
successo. Finalmente si convinse che, facessero quello che facessero, la sua
tenue coscienza umana non arriverebbe mai a volare libero. Entrò con sé in pace
stesso e col suo destino, e si rassegnò al fallimento. Disse all'Aquila dalla
cosa più profonda del suo essere che era contento ed orgoglioso di avere
ingrandito la sua coscienza. L'Aquila poteva disporre di lei.
Don Juan mi disse che tutti i membri del
gruppo del suo benefattore condivisero lo stesso stato di coraggio. La libertà
che la regola proponeva era qualcosa che tutti consideravano irraggiungibile.
Nel corso delle sue vite avevano scorto la forza aniquilante che è l'Aquila, e
credevano che non avessero nessuna possibilità davanti a lei. Tuttavia, tutti
erano di accordo che vivrebbero impeccabilmente le sue vite senza più ragione
che l'impeccabilità stessa.
Don Juan diceva che il suo benefattore ed
il suo gruppo, nonostante sapersi inadeguati, o magari a causa di questo, sé
trovarono la libertà. Entrarono nella terza attenzione, ma non mangio gruppo
altro che uno ad uno. Il fatto che trovassero l'accesso fu la corroborazione
totale della verità contenuta nella regola. L'ultimo in lasciare il mondo della
coscienza di tutti i giorni fu il suo benefattore. Questo compiè la regola e si
portò con sé alla donna nagual di Don Juan. Quando i due si dissolvevano nella
coscienza totale, Don Juan e tutti i suoi guerrieri furono obbligati ad
explosionar da dentro a se stessi: Don Juan non trovava un'altra maniera di
descrivere la sensazione di essere forzato a dimenticare tutto quell'a che essi
avevano presenziato del mondo del suo benefattore.
Quello che non dimenticò mai fu Silvio Manuel.
Egli fu chi spinse Don Juan nello sforzo spossante di tornare a riunire i
membri del gruppo chi si erano divertiti per tutto il paese. Dopo, Don Juan li
affondò a tutti essi nel compito di trovare la totalità di se stessi. Fu loro
da anni completare entrambi i compiti.
Don Juan aveva discusso estesamente con me
la questione della dimenticanza, ma solo in connessione con la gran difficoltà
che ebbe in tornare a congregare tutti ed incominciare senza il suo
benefattore. Non ci disse mai con esattezza quello che implicava dimenticare o
guadagnare la totalità di uno stesso. In quell'aspetto fu fedele agli
insegnamenti del suo benefattore: solamente c'aiutò ad aiutarci stessi.
Per questo, Don Juan allenò la Grassa ed io
a vedere insieme e potè mostrarci che, benché gli esseri umani appaiano davanti
ai veggenti come uova luminose, la forma ovale è un bocciolo esterno, un guscio
di luminosità che alberga un nucleo che è contemporaneamente ossessionante e
mesmérico, composto di circoli concentrici di luminosità gialla, del colore
della fiamma di una candela. Durante la nostra sessione finale fece che
vedessimo la gente che si riuniva nella periferia di una chiesa. Era già tardi,
quasi aveva oscurato, e tuttavia, le creature all'interno dei suoi rigidi
boccioli luminosi irradiavano sufficiente luce come per illuminare chiaramente
tutto il nostro ambiente. La visione fu meravigliosa.
Don Juan ci spiegò che i gusci che
sembravano essere tanto brillanti, in realtà erano opachi. La luminosità
derivava dal centro brillante; in realtà, il bocciolo opacizzava il suo
splendore. Don Juan ci rivelò. che bisogna romperlo per liberare quell'essere
brillante. Il bocciolo deve rompersi dall'interno nel momento esatto, giostro
come i polli che rompono il guscio nascendo. Se non riescono a farlo, si
assillano e muoiono. Come le creature che nascono da uova, un guerriero non può
rompere il guscio della sua luminosità fino a che sia il momento dato.
Don Juan ci disse che perdere la forma
umana era l'unico mezzo di rompere quello guscio, l'unica maniera. di liberare
quell'ossessionante centro luminoso, il centro della coscienza che viene ad
essere l'alimento dell'Aquila. Rompere il guscio significa ricordare l'altro io
ed arrivare alla totalità di uno stesso.
Dopo che Don Juan ed i suoi guerrieri
arrivarono alla totalità di se stessi, affrontarono il suo ultimo compito:
trovare un nuovo paio di esseri doppi. Don Juan diceva che essi crederono che
questo sarebbe un tema semplice: tutto quello che avevano fatto fino ad allora
quell'era stato loro relativamente facile. Non avevano idea che l'apparente
facilità dei suoi risultati come guerrieri era conseguenza della maestria ed il
potere personale del suo benefattore.
La ricerca di un nuovo paio di esseri doppi
risultò un compito senza frutto. In tutte le sue ricerche non trovarono mai una
donna doppia. Trovarono vari uomini doppi, ma tutti stavano ben redditi,
occupati, prolifici, e tanto soddisfatti con le sue vite che sarebbe stato
inutile aproximárseles. Non dovevano trovare un proposito nella vita, credevano
c'essere la cosa trovata già.
Don Juan diceva che un giorno si rese conto
che egli ed il suo gruppo stavano invecchiando, e che non sembrava c'essere
speranze di arrivare a compiere il suo compito. Quella fu la prima volta che
sentirono l'aguijonazo della disperazione e l'impotenza.
Silvio Manuel insistè in che tutti dovevano
rassegnarsi e vivere impeccabilmente senza speranze di trovare la libertà. A
Don Juan gli era plausibile che in realtà questo potesse essere la chiave di
tutto. In questo aspetto, si scoprì seguendo i passi del suo benefattore.
Arrivò ad accettare che un invincibile pessimismo domina il guerriero in un
certo punto della sua strada. Una sensazione di sconfitta, o chissà più
esattamente, una sensazione di inutilità, gli arriva quasi senza che si renda
conto. Don Juan diceva che, prima, egli rideva dei dubbi del suo benefattore e
non poteva arrivare a credere che questo si preoccupasse sul serio. Nonostante
le proteste e gli avvertimenti di Silvio Manuel, Don Juan credette ogni volta
che questo era un gigantesco stratagemma destinato ad insegnarloro qualcosa.
Dato che Don Juan non poteva credere che i
dubbi del suo benefattore fossero reali, neanche poteva credere che fosse
genuina la risoluzione del suo benefattore di vivere senza speranza di libertà.
Quando finalmente comprese che il suo benefattore, con ogni serietà, si era
rassegnato alla sconfitta, comprese anche che nonostante tutto la risoluzione
di un guerriero di vivere non può essere impeccabilmente concepita come una
strategia per assicurare il trionfo. Don Juan ed il suo gruppo si dimostrarono
questa verità a se stessi, trovandosi diedero conto esatto che non avevano
vantaggio contro le forze della cosa ignorata. Don Juan diceva che in tali
momenti l'allenamento di tutta una vita è quello che esce a mano, ed il
guerriero entra in un stato di umiltà insuperabile; quando diventa innegabile
la povertà dei risorse umane, il guerriero non deve un'altra alternativa
retrocedere e chinare la testa.
Don Juan si meravigliava che dette
circostanze non sembrano avere effetto nelle guerriero di un gruppo; il
disordine li lascia imperturbabili. Ci disse che aveva notato già questo, nel
gruppo del suo benefattore; le donne non si mostrarono mai tanto preoccupate né
tanto abbattute come gli uomini. Sembrava che, semplicemente portavano la
corrente al suo benefattore e lo seguivano senza mostrare segni di usura
emozionale. Se erano in qualche modo confuse, sembravano essere indifferenti a
questo. Essere occupate era tutto quello che contava per esse. Era come se
solamente gli uomini avessero fatto un'offerta per la libertà e sentissero
l'impatto di un'offerta contraria.
Don Juan osservò lo stesso contrasto nel
suo proprio gruppo. Le donne furono immediatamente di accordo quando egli si
convinse che le sue risorse erano insufficienti. Don Juan potè concludere solo
che le donne, benché non lo dicessero mai, non avevano creduto mai avere
risorsa alcuno. In conseguenza, non c'era maniera che si sentissero frustrate o
sconfortate imbattendosi con la sua impotenza: da un principio sapevano già che
erano così.
Don Juan ci disse che la ragione per la
quale l'Aquila esigeva un numero doppio di guerriero era precisamente poiché le
donne hanno un equilibrio innato che non esiste negli uomini. In un momento
cruciale, sono gli uomini quelli che diventano isterici e si suicidano se è che
considerano che tutto è perso. Una donna potrà ammazzarsi per mancanza di
direzione e di propositi, ma non dovuto al fallimento di un sistema al quale
appartiene.
Dopo che Don Juan ed il suo gruppo di
guerrieri persero ogni speranza o, piuttosto, come diceva Don Juan, dopo che
egli e gli uomini toccarono fondo e le donne trovarono maniere appropriate di
portarloro la corda -, finalmente Don Juan trovò un uomo doppio al quale poteva
avvicinarsi. Io ero quell'uomo doppio. Mi disse che come nessuno nel suo sano
giudizio si offre di volontario per qualcosa di tanto assurdo come la lotta per
la libertà, dovette seguire gli insegnamenti del suo benefattore e, in fedele stile
di acechador, io come encarriló aveva encarrilado ai membri del suo proprio
gruppo. Doveva essere a sole con me in un posto dove potesse applicare
pressione fisica nel mio corpo, ed era necessario che io fossi lì per il mio
proprio conto. Mi attrasse a casa sua con gran facilità: come diceva, ottenere
un uomo doppio non è gran problema. La difficoltà poggia su trovare uno che sia
disponibile.
La prima visita a casa sua fu, dal punto di
vista della mia coscienza di tutti i giorni, una sessione senza avvenimenti.
Don Juan si comportò in una maniera affascinante con me. Condusse la
conversazione verso la fatica che sperimenta il corpo dopo lunghi viaggi in
automobile. A me che era studente di antropologia, questo tema mi sembrò
assolutamente fuori di proposito. Dopo, Don Juan commentò che la mia schiena
sembrava disallineata, e senza dire più mi mise una mano nel petto, mi alzò il
mento e mi diede una forte manata nella schiena. Mi prese tanto sprovveduto che
persi la conoscenza. Quando tornai ad aprire gli occhi sentii un dolore acuto,
come se mi fossero partito la spina dorsale, ma sentii anche che io ero
differente. Era un altro, e non l'io che era stato sempre. A partire da quello
momento, ogni volta che vedeva Don Juan, questo mi facevo cambiare livelli di
coscienza e dopo procedeva a rivelarmi la regola.
Quasi immediatamente dopo mi avere trovato,
Don Juan scoprì una donna doppia. Non la mise in contatto con me seguendo un
stratagemma come il suo benefattore aveva fatto con lui, ma concepì un inganno,
tanto effettivo ed elaborato come quelli del suo benefattore, mediante il quale
egli stesso attrasse ed ottenne la donna doppia. Don Juan assunse quello carico
perché credeva che il dovere del benefattore è ottenere i due esseri doppi non
appena li è trovati, e dopo, metterli insieme come soci di un'impresa
inconcepibile.
Mi disse che un giorno, quando viveva in
Arizona, era andato ad un ufficio governativo per riempire un sollecito. La
receptionist gli disse che fosse con un'impiegata della sezione adiacente, e,
senza alzare la testa, segnalò verso la sua sinistra. Don Juan seguì la
direzione del braccio esteso e vide ad una donna doppia seduta in una
scrivania. Quando gli portò il sollecito si rese conto che in realtà era una
ragazzina chi, l'informò che ella non aveva niente a che vedere coi sollecito.
Nonostante, commossa davanti al povero viejecillo indio, gli offrì aiutarlo.
Si richiedevano alcuni documenti legali che
Don Juan portava nella sua tasca, ma egli finse totale ignoranza ed abbandono.
Si comportò come se l'organizzazione burocratica fosse un enigma per lui. Don
Juan diceva che non gli fu niente difficile imitare un stato di completa
insensatezza; tutto quello che dovette fare fu ritornare a quello che una volta
era stata il suo stato normale di coscienza. La sua intenzione era prolungare
il trattamento con la ragazza il maggiore tempo possibile. Il suo benefattore
gli aveva detto, ed egli stesso l'aveva verificato durante la sua ricerca che
le donne doppie sono sommamente scarse. Anche il suo benefattore l'aveva
prevenuto che hanno risorse interne che li girano sommamente volatili. Don Juan
temeva che se non maneggiava le sue lettere abilmente andava a perderla. Per
guadagnare tempo, si appoggiò sulla compassione che ella mostrava. Creó maggiori
dilazioni fingendo avere perso i documenti. Quasi tutti i giorni gli portava
uno differente. Ella lo leggeva e si lamentava di che cosa l'adeguato non
fosse. La ragazza si commosse tanto per la deplorevole condizione di Don Juan
che si offrì a pagargli un avvocato che lo preparerebbe una dichiarazione
giurata che supplisse i documenti.
Dopo tre mesi, Don Juan pensò che era già
il momento di mostrare i documenti. Per la ragazza a lui si era abituata allora
e quasi sperava di vederlo tutti i giorni. Don Juan andò per ultima volta ad
esprimerlo la sua gratitudine ed a dirgli addio. Gli disse che gli sarebbe
piaciuto portargli un regalo per mostrargli la sua gratitudine, ma non aveva
denaro né per mangiare. Ella si commosse davanti a questo candore e l'invitò a
pranzare. Quando mangiavano, Don Juan riflettè a voce alta che un regalo non
deve essere, per forza, un oggetto che si compra. Poteva essere anche qualcosa
che fosse unicamente per la vista del testimone. Qualcosa fatto per ricordare e
non ferma possedere.
A lei l'intrigarono queste parole. Don Juan
gli ricordò che ella aveva espresso compassione verso gli indi e la sua
condizione miserabile. Gli domandò se non gli piacerebbe vedere gli indi
abbasso un'altra luce: non mangio esseri miserabili bensì come artisti. Gli
disse che conosceva un vecchio che era l'ultimo discendente di una linea di
ballerini di potere. Gli assicurò che quell'uomo ballerebbe per lei se egli
glielo chiedeva: e, ancora più, gli giurò che ella mai nella sua vita aveva
visto qualcosa di simile e che non lo girerebbe mai a vedere. Si trattava di
qualcosa che gli indi presenziavano solo.
A lei l'affascinò l'idea. Fu per lui dopo
il suo lavoro nella sua automobile e dono Juan la guidò verso le colline dove
stava la sua propria casa. Fece che stazionasse l'atto ad una considerabile
distanza, e seguirono a piedi il resto della strada, prima di arrivare alla
casa, Don Juan si trattenne e tracciò una riga col piede nella terra secca ed
arenosa. Gli disse che quella riga era un limitrofo, e la sollecitò a che
l'attraversasse.
La donna nagual mi contò che fino a quello
momento ella si trovava intrigadísima davanti alla possibilità di vedere un
genuino ballerino indio, ma che quando il vecchio fece una riga nel suolo e la
chiamo un limitrofo, ella incominciò a titubare. Poi si allarmò assolutamente
quando egli aggiunse che quello limitrofo era solo per lei, e che una volta che
l'attraversasse non avrebbe oramai come ritornare.
Apparentemente l'indio vide la
costernazione della ragazza e volle tranquillizzarla. Cortesemente gli applaudì
la spalla e gli diede la sua garanzia che non gli succederebbe nessun danno
finché egli stava lì. Gli disse che il limitrofo poteva spiegarsi come una
forma di pagamento simbolico al ballerino chi non accettava mai denaro. Il
rituale rimpiazzava al denaro, ed il rituale richiedeva che ella attraversasse
il limitrofo per il suo proprio conto.
Il vecchio, apparentemente pieno di
giubilo, cedè un passo al di sopra della linea e gli disse che per lui tutto
quello che stavano facendo erano pure sciocchezze indio, ma che c'era seguirgli
la corrente il ballerino chi si trovava guardandoli dall'interno del. sposa, se
è che ella voleva vederlo ballare.
La donna nagual mi contò che
improvvisamente ebbe tanta paura che non poteva muovere si ferma attraversare
la linea. Il vecchio fece un sforzo per persuaderla, dicendo che attraversare
quello limitrofo era benefico per tutto il corpo. Egli, attraversandolo, non si
era sentito solo più giovane, ma in realtà era diventato più giovane, perché
tale era il potere che aveva quello limitrofo. Per dimostrare quello che
diceva, tornò ad attraversare la riga in retrocessione e nell'atto le sue
spalle crollarono, gli angoli della sua bocca si inclinarono verso il basso, i
suoi occhi persero la lucentezza. Alla donna nagual gli era impossibile negare
le differenze che generava l'incrocio.
Don Juan tornò ad attraversare la riga per
la terza volta. Respirò profondamente, espandendo il petto; si muoveva con
energia e sicurezza. La donna nagual disse che gli passò per la mente l'idea
che se Don Juan si sentiva tanto giovane fino agli arriverebbe a fare proposte
sessuali. La sua automobile si trovava troppo lontano per correrlo. La cosa
unica che gli rimaneva era dirsi a sé stessa che era stupido avere paura di
quello viejecillo.
Poi il vecchio tentò di fargli vedere la
barzelletta che tutto quell'aveva. In un tono di cospiratore, come se
riluttantemente gli rivelasse un segreto, gli disse che solamente si trovava
fingendo essere più giovane per soddisfare il ballerino, e che se ella non
l'aiutava attraversando la riga andava ad affievolire in qualunque momento
dovuto allo sforzo di camminare con la schiena destra. Tornò ad attraversare di
un lato all'altro della linea per mostrargli l'immenso sforzo che implicava la
sua pantomima.
La donna nagual mi disse che gli occhi
supplicanti di Don Juan rivelavano i dolori che il suo corpo stava passando
fingendo gioventù. Attraversò la linea per aiutarlo e per finire lo spettacolo;
voleva andare a casa:
Nel momento in cui attraversò la linea, Don
Juan diede un salto prodigioso e pianificò al di sopra del soffitto della casa.
La donna nagual mi disse che Don Juan volò come se fosse un immenso boomerang.
Quando atterrò al suo fianco, ella cadde di spalle. Il suo spavento era il più
grande che aveva sperimentato nella sua vita, ma la stessa cosa succedeva con
la sua emozione di avere presenziato a simile meraviglia. I suoi sentimenti
erano tanto confusi che neanche gli domandò come aveva portato a termine quella
straordinaria prodezza. Voleva ritornare correndo al suo atto ed andare a casa
sua.
Il vecchio l'aiutò ad incorporarsi e si
scusò per l'avere raggirata. Gli disse che egli era in realtà il ballerino ed
il suo volo al di sopra della casa era stato il suo ballo. Gli domandò se aveva
fatto attenzione alla direzione del volo. La donna nagual fece un circolo con
la sua mano di destra a sinistra. Don Juan gli applaudì paternamente la testa e
disse che era stato molto propizio che ella sarebbe stata attenta. Poi aggiunse
che chissà ella si era ferita cadendo, e che in nessun modo poteva lasciarle
andare senza assicurarsi che stava bene. Senza dire bé, Don Juan l'alzò le
spalle e l'alzò il mento, come se la dirigesse a che allungasse la spina
dorsale. Poi gli diede un forte colpo tra le scapole, e letteralmente lo tirò
fuori tutta l'aria dai polmoni. Durante alcuni istanti ella non potè respirare
e so affievolì.
Quando ritornò in sé, si trovava dentro la
casa. Il suo naso sanguinava, i suoi uditi ronzavano; la sua respirazione era
accelerata e non poteva mettere a fuoco la vista. Don Juan gli indicò che
facesse inalazioni profonde mentre contava fino ad otto, quanto più respirava,
più si rischiarava tutto. Mi contò ella che, in un momento dato, la stanza
diventò incandescente; ogni destelleaba con una luce ambra. Rimase stupefatta e
non potè continuare oramai a respirare profondamente. Per allora la luce ambra
era tanto densa che sembrava foschia. Poi la nebbia si trasformò in ragnatele
di colore ambra. Infine, si dissolse, ma il mondo continuò uniformemente ambra
per un lungo momento.
Don Juan gli incominciò a parlare. La
condusse fuori della casa e gli mostrò che il mondo si trovava diviso in due
metà. La parte sinistra si trovava chiara, ma la destra era velata per una nebbia
gialla. Gli disse che è mostruoso pensare che il mondo è comprensibile o che
noi stessi siamo comprensibili. Gli disse che quello che si trovava percependo
era un enigma, un mistero che può accettarsi solo con stupore ed umiltà.
Poi gli rivelò la regola. La sua chiarezza
mentale era tanto intensa che ella comprese tutto quello che egli gli diceva.
La regola gli sembrò appropriata ed evidente.
Don Juan gli spiegò che i due lati di un
essere umano sono completamente separati e che si richiede una gran disciplina
e determinazione per rompere quello francobollo ed andare di un lato all'altro.
Gli esseri doppi hanno un gran vantaggio: la condizione di essere doppio
permette loro un movimento relativamente facile tra gli scompartimenti del lato
destro. Il gran svantaggio degli esseri doppi consiste in che per virtù di
avere due scompartimenti sono sedentari, conservatori, paurosi del cambiamento.
Don Juan gli disse che la sua intenzione
era stata spostarla dello scompartimento dell'estremo destro al suo più lucido
e definito lato diritto-sinistro, ma, invece di quello, a causa di un giro
inspiegabile, il colpo l'aveva inviata attraverso tutta la sua piega,
dell'estrema destra quotidiana all'estrema sinistra. Quattro volte la battè
nelle scapole al fine di ricollocarla nello stato normale di coscienza, ma
senza successo. I colpi l'aiutarono, tuttavia, a fare che la sua percezione
della parete di nebbia ubbidisse alla sua volontà. Benché non fosse stato la
sua intenzione, Don Juan era stato nella cosa certa dicendo che attraversare la
linea era un viaggio senza ritorno. Una volta che ella l'attraversò, come
Silvio Manuel, ritornò già mai.
Quando Don Juan ci mise faccia a faccia,
nessuno dei due sapeva niente dell'esistenza dell'altra, e tuttavia, subito
sentiamo un'intensa familiarità. Don Juan sapeva, attraverso la sua propria
esperienza, che il sollievo che gli esseri doppi sperimentano l'uno nell'altro
è indescrivibile, e troppo breve. Ci disse che forzi incomprensibili alla
nostra ragione, c'avevano collocati insieme e che la cosa unica che non avevamo
era tempo. Ogni minuto poteva essere l'ultimo; pertanto, doveva essere vissuto
con lo spirito.
Una volta che Don Juan ci riunì, tutto
quello che gli sottrasse fu trovare quattro accecatrici, tre guerrieri ed un
proprio per completare il nostro gruppo. Per quello fine, Don Juan trovò a
Corrida, Josefina, la Grassa, Rosa, Benigno, Néstor, Pablito e Scelse. Ognuna
di essi era una replica incipiente dei membri del gruppo di Don Juan.
XII. I non-fare DI SILVIO MANUEL
Don Juan ed i suoi guerrieri fecero una
pausa al fine di dare campo a che la donna nagual ed io potessimo compiere la
regola: questo è, mantenere, ingrandire e condurre gli otto guerrieri alla
libertà. Tutto sembrava perfetto, e tuttavia, qualcosa stava male. Le prime
quattro guerriere che Don Juan aveva trovato erano sognatrici, quando erano
dovuti essere accecatrici. Don Juan non sapeva come spiegare questa anomalia.
Poteva concludere solo che il potere aveva messo a quelle donne in suo verso
tale maniera che fu impossibile ricusarli.
C'era un'altra brevetto irregolarità che
era ancora più sorprendente per Don Juan ed il suo gruppo; tre delle donne ed i
tre guerrieri non potevano entrare in un stato di coscienza accresciuta,
nonostante gli sforzi titanici di Don Juan. Erano come istupiditi, vacillanti,
apparentemente non potevano rompere il francobollo, la membrana che separa i
due lati. Li soprannominavano gli ubriachi, perché si dondolavano ovunque senza
coordinazione muscolare. Scelse e la Grassa erano gli unici che disponevano di
un grado straordinario di coscienza, specialmente Scelse chi si trovava allo
stesso modo della stessa gente di Don Juan.
Le tre ragazze formarono un'unità
infrangibile. La stessa cosa fecero i tre uomini. Gruppi di tre, quando la regola
prescrive di quattro, era qualcosa di nefasto. Il numero tre è simbolo di
dinamismo, cambiamento, movimento, e soprattutto, simbolo di rivitalizzazione.
La regola non serviva oramai come mappa. E
tuttavia, era inconcepibile la possibilità di un errore. Don Juan ed i suoi
guerrieri arguirono che il potere non commette errori. Esaminarono il tema come
ensoñadores e veggenti. Si domandarono se chissà non si sarebbero affrettati in
eccesso, e semplicemente non avevano visto che le tre donne ed i tre uomini
erano inetti.
Don Juan mi confidò che per lui c'erano due
questioni pertinenti. Un'era il problema pragmatico della nostra presenza tra
essi. L'altra era la questione della validità della regola. Il suo benefattore
li aveva guidati alla certezza che la regola abbracciava tutto quello che
riguardava un guerriero. Non li aveva preparati per l'eventualità che la regola
potesse risultare inapplicabile.
La Grassa diceva che le donne del gruppo di
Don Juan non ebbero mai problemi con noi; erano solo gli uomini quelli che non
sapevano che cosa fare. Gli uomini trovavano incomprensibile ed inaccettabile
che la regola fosse incongruente nel nostro caso. Le donne, tuttavia, avevano
fiducia in che presto o tardi si rischiarerebbe la ragione della nostra
presenza tra essi. Io stesso aveva osservato come le donne si mantenevano
lontane della turbolenza emozionale apparentemente completamente altrui al
risultato. Sembravano sapere, senza nessun dubbio, che il nostro caso si
trovava incluso in qualche modo nella regola. Dopo tutto, definitivamente io li
avevo aiutati accettando la mia carta. Grazie alla donna nagual ed ad io, Don
Juan ed il suo gruppo avevano completato il suo ciclo e quasi si trovavano
liberi.
Finalmente la risposta arrivò loro
attraverso Silvio Manuel. Egli vide che le tre sorelline ed i tre Genaros non
erano inetti; piuttosto si trattava di che io non ero il nagual adeguato per
essi. Io non potevo guidarli perché aveva una configurazione insospettata che
non incastrava col modello stabilito per la regola, una configurazione che a
Don Juan, come veggente, gli aveva passato inosservata. Il mio corpo luminoso
dava l'apparenza di avere quattro scompartimenti quando in realtà c'erano solo
tre. C'era un'altra regola. per quello che chiamavano "il nagual di tre punte."
Io appartenevo a quella regola. Silvio Manuel disse che io ero come un uccello
covato per il caldo e l'attenzione di uccelli di altre specie. Tutti essi si
trovavano ancora obbligati ad aiutarmi, come io stesso era obbligato a fare
tutto per essi, ma anche cosí, io non appartenevo al suo gruppo.
Don Juan assunse ogni responsabilità, dato
che egli mi ero trovato, tuttavia la mia presenza nel gruppo obbligò a che
tutti dessero di sé fino al massimo, cercando due cose: di che cosa una
spiegazione era quella che io facevo tra essi, e la soluzione del problema di
che cosa fare con me.
Con gran rapidità, Silvio Manuel trovò i
mezzi per i quali potevano disfarsi di mio. Prese la direzione del progetto, ma
come non aveva né l'energia né la pazienza per trattare con me, commissionò Don
Juan affinché facesse la cosa necessaria in qualità del suo supplente. La meta
di Silvio Manuel consisteva in prepararmi per il momento in cui un messaggero
mi portasse la regola pertinente al nagual di tre punte.
Disse che non gli corrispondeva
personalmente rivelare quella porzione della regola. Io dovevo, come tutti gli
altri, sperare a che arrivasse il momento adeguato.
C'era ancora altro serio problema che
aggiungeva più confusione. Aveva a che vedere con la Grassa, e, alla lunga, con
me. La Grassa era stata accettata nel mio gruppo come donna del Sud. Don Juan
ed il resto dei suoi veggenti l'avevano confermato. Sembrava trovarsi nella
stessa categoria di Cecilia, Debba, Martora e Teresa. Le similitudini erano
innegabili. Ma dopo la Grassa perse il peso superfluo e dimagrì fino alla metà
del suo volume anteriore. Il cambiamento fu tanto radicale e profondo che si
convertì in un'altra persona.
Passò inosservata per molto tempo,
semplicemente perché gli altri guerrieri si trovavano tanto preoccupati con le
mie difficoltà che non gli prestarono attenzione. Dopo, quando successe il suo
drastico cambiamento, tutti dovettero concentrarsi su lei, e videro che non era
una donna del Sud. La cosa ingombrata del suo corpo aveva fatto loro vederla
inadeguatamente. Allora ricordarono che dal momento in cui arrivò; la Grassa in
realtà non poteva andare d'accordo con Cecilia, Delia e le altre donne del Sud.
D'altra parte, si trovava affascinata con Nélida e Florinda, perché in realtà
era stato sempre come esse. Egli quale significava che c'era due sognatrici del
Nord nel mio gruppo: la Grassa e Rosa, una stridente discrepanza con la regola.
Don Juan ed i suoi guerrieri sperimentarono
una tremenda confusione. Interpretarono tutto quello che succedeva loro come un
presagio, un'indicazione che le cose avevano preso un corso imprevedibile. Dato
che non potevano accettare l'idea che un errore umano subordinasse alla regola,
assunsero che un proposito superiore aveva fatto loro sbagliare per ragioni difficili
da discernere, ma che per quel motivo non lasciavano di essere reali.
Studiarono il tema di come rimediare tutto
questo, ma prima che alcuno di essi arrivasse ad una risposta, una vera donna
del Sud, signora Soledad, entrò in scena con tale forza che fu loro impossibile
respingerla. Di accordo con la regola, ella era accecatrice.
La sua presenza ci distrasse. Per un tempo
sembrò come se ella fosse a spingerci verso un altro livello. Creó un movimento
vigoroso. Florinda, la prese abbasso il suo comando per istruirla nell'arte di
spiare. Ma con sé tutto il beneficio che ella portò non fu sufficiente per
rimediare una strana perdita di energia che io sperimentavo, una languidezza
che sembrava aumentare giorno per giorno.
Finalmente, Silvio Manuel disse che in suo
trasognare aveva ricevuto un piano maestro. Era traboccante di allegria e si
affrettò a discutere i dettagli con Don Juan e con gli altri guerrieri: La
donna nagual fu invitata alle discussioni, ma io no. Questo mi fece sospettare
che non volevano che io venissi a sapere quello che Silvio Manuel aveva
scoperto circa me.
Parlai ad ognuno di essi dei miei sospetti.
Tutti lo negarono e risero di me, salvo la donna nagual, chi mi disse che io
stavo nella cosa certa. Il sogno di Silvio Manuel gli aveva rivelato la nefasta
ragione della mia presenza tra essi. Io avevo, tuttavia, l'obbligo di accettare
il mio destino che consisteva in non sapere la natura del mio compito fino al
momento in cui mi trovassi intelligente per saperlo.
Parlò con tanta serietà che non dovetti più
risorsa accettare senza domande tutto quello che mi dicevo. Credo che se Don
Juan o Silvio Manuel mi avessero detto la stessa cosa, io non mi fossi arreso
tanto facilmente. Anche la donna nagual mi disse che ella aveva persistito in che
Don Juan e gli altri mi informasse il proposito generale delle sue azioni,
benché solo fuori per evitare frizioni e disubbidienze non necessarie.
Mi dissero che quello che Silvio Manuel si
proporsi fare era prepararmi per il mio compito portandomi direttamente alla
seconda attenzione. Per ciò decideva di portare a capo manovre che
galvanizzerebbero la mia coscienza.
In presenza di tutti gli altri mi disse che
stava prendendomi al suo carico, e pertanto mi porterei alla zona del suo
potere.
Ci spiegò che nei suoi sogni gli erano
stati presentati una serie di non-fare progettati per una squadra composta per
la Grassa e per me come attori, e per la donna nagual come vigilante.
Silvio Manuel aveva solo parole di
ammirazione quando si riferiva alla donna nagual. Diceva che ella era di una
classe esclusiva, e che poteva sdebitarsi di uguale ad uguale con lui o con
qualunque altro dei guerrieri del gruppo. Non aveva esperienza ma poteva manear
la sua attenzione come voglia che avesse bisogno di lui. Silvio Manuel mi
confessò che, per lui, la destrezza della donna nagual era un mistero tanto
grande come l'era la mia presenza tra essi, e che la forza della donna nagual
era tanto intensa che io ero un principiante vicino a lei. A tal punto che
chiese alla Grassa che mi soccorresse specialmente, affinché io potessi
resistere il contatto della donna nagual.
Per nostro primo no-fare, Silvio Manuel
costruì un'enorme scatola di legno dove la Grassa ed io stavamo, se ci sedevamo
schiena contro schiena con le ginocchia verso l'alto. La scatola aveva un
coperchio di cancellata per permettere la ventilazione. La Grassa ed io
dovevamo entrare in lei e sederci in totale oscurità e silenzio, senza
rimanerci addormentati. Silvio Manuel incominciò lasciandoci entrare nella
scatola per brevi periodi; dopo li aumentò, come c'abituavamo al procedimento,
fino a che potemmo passare la notte intera dentro lei senza muoverci né
sonnecchiare.
La donna nagual rimaneva con noi per
assicurarsi che non cambiasse livelli di coscienza a causa della fatica. Silvio
Manuel diceva che la tendenza naturale, sotto condizioni di sforzo e tensione
disabituati, è cambiare lo stato di coscienza accresciuta al normale, e
viceversa.
L'effetto generale di questo no-fare, ogni
volta che lo portavamo a termine, era una sensazione ineguagliabile di
tranquillità, di riposo, egli quale era un completo enigma per me, poiché non
rimaniamo mai addormentati durante quelle veglie di tutta la notte. Attribuii
quella sensazione di tranquillità al fatto che ci trovavamo in un stato di
coscienza accresciuta, ma Silvio Manuel disse che una cosa niente aveva a che
vedere con l'altra, e che la sensazione di riposo si doveva a che ci sedevamo
sopra con le ginocchia.
Nel secondo no-fare, Silvio Manuel ci
faceva tendere nel suolo nel nostro lato sinistro, come cani fatto gomitolo,
quasi in una posizione fetale, con le fronti sulle braccia arcuate. Silvio
Manuel insistè in che conservassimo gli occhi chiusi egli più che potessimo,
aprendoli solamente quando c'indicava che cambiassimo posizione e che ci
stendessimo nel lato destro. Ci spiegò che il proposito di questo no-fare era
separare a nostro, senso dell'udito di quello della vista. Come prima,
gradualmente Silvio Manuel incrementò la durata delle sessioni fino a che
potemmo passare tutta la notte in una veglia uditiva. Silvio Manuel ci disse
che stavamo per allora intelligenti per entrare ad un'altra area di attività.
Ci spiegò che nei due primi non-fare avevamo rotto un certa barriera percettivo
mentre eravamo incollati al suolo. A mo' di analogia, paragonava gli esseri
umani con alberi. Siamo alberi mobili. In qualche modo ci troviamo radicati
alla terra; le nostre radici sono trasportabili, ma quello non ci libera del
suolo. Disse che per stabilire l'equilibrio dovevamo portare a termine il terzo
a no-fare sospesi nell'aria. Se riuscivamo a canalizzare il nostro tentativo
mentre rimanevamo appesi di un albero dentro un arnese di cuoio, potremmo fare
un triangolo col nostro tentativo; la base di questo triangolo si trovava nel
suolo ed il vertice nell'aria. Silvio Manuel credeva che coi due primi non-fare
avevamo immagazzinato la nostra attenzione a tale punto che potremmo eseguire
perfettamente il terzo dal principio.
Una notte, Silvio Manuel ci mise in due
arnesi separati che erano come sedie di cinturini; ci sediamo in essi e lui ci
sospese con una puleggia fino al ramo più alto e grossa di un albero molto
grande. Voleva che prestassimo attenzione alla coscienza dell'albero che,
secondo lui, ci darebbe segni, poiché eravamo i suoi ospiti. Fece che la donna
nagual rimanesse nel suolo e ci chiamasse a voce alta, un ed un'altra volta,
durante tutta la notte.
Mentre ci trovavamo sospesi dell'albero,
nelle innumerabili volte in cui portiamo a termine questo no-fare,
sperimentavamo un glorioso diluvio di sensazioni fisiche, come tibie carichi di
impulsi elettrici. Durante i tre primi dei quattro tentativi che realizziamo,
era come se l'albero protestasse per la nostra intrusione; dopo quello, gli
impulsi si trasformarono in segni di pace ed equilibrio. Silvio Manuel ci disse
che la coscienza di un albero attrae il suo alimento delle profondità della
terra, mentre la coscienza delle creature mobili l'attrae della superficie. Non
ci sono sensazione di contesa o rivalità in un albero, mentre negli esseri
mobili quella sensazione i riempie completamente.
Silvio Manuel esponeva che la percezione
soffre una profonda scossa quando c'impiegiamo in stati di quiete
nell'oscurità. I nostri uditi prendono allora la parte anteriore e possono
percepirsi i segni di tutte le entità viventi ed esistenti intorno a noi: non
solo con gli uditi, bensì con una combinazione dei sensi uditivo e visuale, in
quell'ordine. Diceva che nell'oscurità, specialmente mentre uno si trova
sospeso, gli occhi diventano sussidiari degli uditi.
La Grassa ed io scopriamo che Silvio Manuel
aveva assoluta ragione. Attraverso il terzo no-fare, Silvio Manuel diede una
nuova dimensione alla nostra percezione del mondo che ci circonda.
Poi ci disse alla Grassa e mio che il
seguente gruppo di tre non-fare sarebbe intrinsecamente distinto e più
complesso. Questi avevano a che vedere con l'apprendistato di come manipolare
l'altro mondo. Era obbligatorio incrementare il suo effetto cambiando l'ora di
azione al crepuscolo mattutino o vespertino. Ci disse che il primo no-fare del
secondo gruppo aveva due fasi. Nella prima dovevamo arrivare al più profondo
stato di coscienza accresciuta al fine di percepire la parete di nebbia. Una
volta che questo si riusciva, la seconda fase consisteva in fare che la parete
smettesse di girare per così potere uno avventurarsi nel mondo che si trovava
tra le linee parallele.
Ci notò che la sua meta era collocarci
direttamente nella seconda attenzione, senza nessuna preparazione
intellettuale. Voleva che imparassimo la cosa sottile e complessa che è, senza
comprendere razionalmente quello che stavamo facendo. Il suo tema era che un
cervo magico o un coyote magico maneggia la seconda attenzione senza
intelletto. Attraverso la pratica forzata di viaggiare all'altro lato della
parete di nebbia andavamo a soffrire, presto o tardi, un'alterazione permanente
del nostro essere totale, e quell'alterazione ci farebbe accettare che il mondo
che si trova tra le linee parallele è reale, perché fa parte della totalità del
mondo, come il nostro corpo luminoso è parte della totalità del nostro essere.
Anche Silvio Manuel disse che c'usava per
esplorare la possibilità che qualche giorno potessimo aiutare agli altri
apprendisti introducendoli nell'altro mondo, nel qual caso essi accompagnerebbero
al nagual Juan Matus ed il suo gruppo nel viaggio definitivo. Ragionava che
dato che la donna nagual doveva abbandonare questo mondo col nagual Juan Matus
ed i suoi guerrieri, gli apprendisti dovevano seguirla perché ella era la sua
unica guida in assenza di un uomo nagual. C'assicurò che la donna nagual si
fidava di noi, e che per quella ragione soprintendeva il nostro lavoro.
Silvio Manuel fece che la Grassa ed io
prendessimo posto nel suolo dell'area posteriore della sua casa, dove avevamo portato
a termine gli altro non-fare. Non abbiamo bisogno dell'aiuto di Don Juan per
entrare nel nostro più profondo stato di coscienza accresciuta Quasi nell'atto
vidi la parete di nebbia. La Grassa la vide anche, ma, per quanto trattavamo,
non potevamo fermare la rotazione di questa. Ogni volta che muoveva la mia
testa, la parete si muoveva con lei.
La donna nagual potè fermarla ed
attraversarla senza aiuto di nessuno, ma per più sforzi che fece non riuscì a
trasportarci due con lei. Infine, Don Juan e Silvio Manuel dovettero fermare la
parete e spingerci fisicamente attraverso lei. La sensazione che ebbi entrando
in quella parete di nebbia fu che al mio corpo lo torcevano come le trecce di
una corda.
Nell'altro lato si trovava l'orribile valle
desolata, con piccole dune rotonde di sabbia. C'erano alcune nuvole gialle
molto basse intorno a noi, ma nessun cielo, nessun orizzonte; banche di pallido
vapore giallo ostacolavano la visibilità. Camminare era molto difficile. La
pressione sembrava molto maggiore di quell'al quale il mio corpo è abituato. La
Grassa ed io camminiamo senza rotta, ma la donna nagual sembrava sapere verso
dove si dirigeva. Quanto più lontano andavamo via della parete, più oscuro era
tutto e più difficile risultava avanzare. La Grassa ed io non potemmo
continuare già a camminare erectos. Dovemmo gattonare. Persi la mia forza, ed
alla Grassa gli passò la stessa cosa; la donna nagual dovette trascinarci
affinché potessimo ritornare alla parete ed uscire da lei.
Ripetiamo quello viaggio innumerevoli
volte. Le prime volte Don Juan e Silvio Manuel ci soccorrevano a fermare la
parete di nebbia, ma dopo la Grassa ed io diventammo tanto esperti come la
donna nagual. Imparammo a fermare la rotazione della parete. Questo successe di
una forma molto naturale. Nel mio caso, in un'occasione notai che il mio
tentativo era la chiave: un aspetto speciale del mio tentativo, perché non si
trattava della mia volontà come la conosco. Era un desiderio intenso che si
concentrava sulla parte mezza del mio corpo. Si trattava di un nervosismo
peculiare che mi facevo tremare e che dopo si trasformava in una forza che non
fermava alla parete in realtà, ma che faceva che involontariamente una certa
parte del mio corpo diventasse novanta gradi alla destra. Il risultato era che
per un istante aveva due punti di vista. Guardava al mondo diviso in due per la
parete di nebbia e contemporaneamente contemplava direttamente una banca di
vapore giallognolo. Questa ultima visione guadagnava predominancia e qualcosa
mi tirava verso la nebbia ed oltre lei.
Un'altra cosa che imparammo andò a
considerare quello posto come qualcosa di reale; i nostri viaggi si
trasformarono per noi in qualcosa di tanto concreto come un'escursione alle
montagne, o un viaggio per mare in una scialuppa di candela. La valle deserta
con promontori che somigliavano dune di sabbia, per noi era tanto reale come
qualunque parte del mondo.
La Grassa ed io avevamo la sensazione che i
tre passavamo un'eternità in quello mondo che si trova tra le linee parallele,
e tuttavia, non potevamo ricordare che cosa era quello che realmente accadeva
lì. Potevamo ricordare solo il terrificanti che erano i momenti quando dovevamo
uscire da quello mondo per ritornare a quello della vita di tutti i giorni.
Erano sempre momenti di tremenda angoscia ed insicurezza.
Don Juan e tutti i suoi guerrieri seguirono
i nostri impegni con gran curiosità; solamente Scelse si trovava sempre
stranamente assente di tutte le nostre attività. Benché fosse un guerriero
insuperabile che poteva paragonarsi solo coi guerrieri del gruppo di Don Juan,
non prese mai parte alle nostre lotte, né ci soccorse in nessun modo.
La Grassa diceva che Scelse era riuscito ad
aderire ad Emilito e, così, direttamente al nagual Juan Matus. Non fu mai parte
del nostro problema perché egli poteva trasportarsi nella seconda attenzione in
un aprire e chiudere di occhi. Per lui, viaggiare ai confini della seconda
attenzione era tanto facile come scuotere le dita.
La Grassa mi fece ricordare il giorno in
cui gli insoliti talenti di Scelse gli permisero di scoprire che io non ero
l'uomo indicato per essi, molto prima che qualunque altro avesse il minore
sospetto della verità.
Mi trovavo seduto sotto una ramada dietro
della casa di Vicente quando Emilito. e Scelse improvvisamente apparvero. Tutti
erano abituati a che Emilito si assentarsi durante lunghi periodi di tempo;
quando tornava ad apparire, tutti davano, per certo quale aveva girato di un
viaggio. Nessuno lo formulava domande. Egli faceva una relazione delle sue
scoperte primo a Don Juan e dopo a tutto quello che volesse ascoltarlo.
In quello giorno era come se Emilito e
Scelse semplicemente sarebbero entrati nella casa per la porta posteriore.
Emilito si trovava tanto effervescente come sempre. Scelse, nella sua abituata
condizione silenziosa ed ombrosità. Io pensai sempre, quando i due si trovavano
insieme che la squisita personalità di Emilito opprimeva a Scelse e lo faceva
ancora più taciturno.
Emilito entrò alla casa a cercare Don Juan
e Scelse mi abbracciò sorridente. Andò al mio fianco, mise il suo braccio sulle
mie spalle e collocò la sua bocca vicino al mio udito per sussurrarmi che aveva
rotto il francobollo delle linee parallele ed era entrato in qualcosa che
Emilito chiamava la gloria.
Scelse continuò spiegandomi certe cose
circa la gloria che io non potei comprendere. Era come se la mia mente potesse
concentrare solo sulla periferia di quell'evento. Dopo l'averme spiegato,
Scelse mi prese della mano e mi fece mettermi in piede alla metà del patio,
guardando al cielo col mio mento lievemente alzato. Si trovava alla mia destra,
in piedi vicino a me nel. vizia posizione. Mi disse che allentasse tutti i
muscoli e che mi lasciassi cadere dietro, tirato per la pesantezza del
coperchio della mia testa. Qualcosa mi acchiappò di dietro e mi tirò verso il
basso. C'era un abisso e caddi dentro lui. Improvvisamente mi trovavo nella
valle desolata con promontori che somigliavano dune.
Scelse mi urse a seguirlo. Mi disse che il
bordo della gloria si trovava all'altro lato delle colline. Camminai con lui
fino a che non potei muovermi oramai più. Egli correva davanti a me senza
nessun sforzo, come se fosse fatto di aria. Si trattenne nella cima di un gran
promontorio e segnalò più in là. Corse verso me e mi supplicò che strisciassi fino
alla cima di quella collina che era, come disse, il bordo della gloria. La
collina si trovava magari a solo trenta metri di me, ma non potei muovermi
oramai più un centimetro.
Tentò di strisciare, non potè farlo. Il mio
peso sembrava avere aumentato cento volte. Finalmente, Scelse dovette portare a
Don Juan ed il suo gruppo. Cecilia mi alzò nelle sue spalle e mi portò di
ritorno.
La Grassa aggiunse che Emilito aveva
comandato a Scelse che facesse tutto quello. Emilito procedeva di accordo con
la regola. Mio proprio aveva viaggiato alla gloria. Gli era obbligatorio
mostrarmela.
Potei ricordare l'anelito nel viso di
Scelse ed il fervore col quale mi urgeva a fare un ultimo sforzo affinché
presenziasse alla gloria. Potei ricordare anche la sua tristezza e delusione
quando fallii. Non tornò mai a parlarmi.
La Grassa ed io ci trovavamo tanto immersi
nei nostri viaggi all'altro lato della parete di nebbia che avevamo dimenticato
che era tempo di intraprendere il seguente no-fare della serie. Silvio Manuel
ci disse che questo potrebbe essere devastatore, e che consisteva in
attraversare le linee parallele con le tre sorelline ed i tre Genaros,
direttamente verso l'entrata del mondo della coscienza totale. Non incluse
signora Soledad perché suoi non-fare erano solo per ensoñadores e lei era
accecatrice.
Silvio Manuel aggregò che il suo interesse
era che noi stessimo abituando alla terza attenzione, collocandoci al piede
dell'Aquila un ed un'altra volta. Ci preparò per quella scossa; ci spiegò che i
viaggi di un guerriero verso le desolate dune di sabbia, è un passo
preparatorio per il vero incrocio di limitrofo. Avventurarsi dietro la parete
di nebbia quando uno si trova in un stato di coscienza accresciuta o quando si
sta trasognando, usa solamente una piccola porzione della nostra coscienza
totale, mentre attraversare corporalmente all'altro mondo usa la totalità del
nostro essere.
Silvio Manuel aveva concepito l'idea di
usare il ponte come simbolo del vero incrocio. Ragionò che il ponte era
adiacente ad un posto di potere; ed i posti di potere sono crepe, passaggi
verso l'altro mondo. Credeva che fosse possibile che la Grassa ed io avessimo
acquisito la forza sufficiente per resistere un barlume dell'Aquila.
Annunciò che era il mio dovere personale
rinchiudere le tre donne ed i tre uomini, ed aiutarli ad entrare al livello più
profondo di coscienza accresciuta. Era egli meno che io potevo fare per essi,
dato che magari io ero stato lo strumento che distruggerebbe le sue possibilità
di libertà.
Mosse il nostro periodo di azione all'ora
giusta prima dell'alba. Ubbidientemente tentai di farloro spostare la sua
coscienza, come Don Juan aveva fatto con me. Dato che io non avevo la minima
idea di come maneggiare i suoi corpi o di che cosa fare con essi, finii per
batterli nella schiena. Dopo vari truculenti tentativi della mia parte, Don
Juan intervenne finalmente. Preparò loro la cosa migliore che potè e me li
passò a che li spingesse come un branco di bestiame nel ponte. Il mio compito
consisteva in portarli, uno ad uno, all'altro lato del ponte. Il posto di
potere si trovava nel lato meridionale, egli quale era un presagio molto
favorevole. Silvio Manuel decise di attraversare egli in primo luogo,
aspettarmi a che glieli portasse e dopo condurrci come gruppo verso la cosa ignorata.
Silvio Manuel attraversò il ponte, seguito
per Scelse chi neanche mi guardò. Unii i sei apprendisti in un gruppo compatto
nel lato nord del ponte. Tutti erano terrorizzati; si staccarono da me ed
incominciarono a correre in distinte direzioni. Acchiappai alle tre donne un'a
un e riuscii a darsili a Silvio Manuel. Egli li fermò all'entrata della fessura
tra i mondi. I tre uomini furono troppo rapidi per me. Era molto stanco per
perseguirli.
Guardai Don Juan, all'altro lato del ponte,
alla ricerca di guida.
Egli ed il resto dei suoi guerrieri e la
donna nagual formava un gruppo compatto e mi sollecitavano con gesti a che
corresse dietro le donne e gli uomini, ridendo dei miei rozzi tentativi. Don
Juan fece un gesto con la testa per indicarmi che non facesse caso dai tre
uomini ed attraversasse con la Grassa verso Silvio Manuel.
Attraversiamo. Silvio Manuel e Scelse
sembravano sostenere i lati di una crepa verticale del volume di un uomo. Le
donne corsero e si nascosero dietro la Grassa. Silvio Manuel c'urse a tutti a
che entrassimo per l'apertura. Obbedii a lui. Le donne, no. Oltre l'entrata non
c'era niente. E tuttavia, questa si trovava strapiena fino ai bordi di qualcosa
che non era niente. I miei occhi erano aperti, tutti i miei sensi si trovavano vigili.
Mi sforzai tentando di vedere di fronte di me. Ma non c'era niente di fronte a
me. O, se c'era lì qualcosa, io non potevo comprendere quello che era. I miei
sensi non erano divisi negli scompartimenti che danno loro significato. Tutto
mi arrivò improvvisamente, o piuttosto il niente me arrivò. Sentii che il mio
corpo era rotto. Una forza dal mio interno spingeva verso fuori. Io mi trovavo
sfruttando, e non in una maniera figurata. Di subitaneo sentii che una mano
umana mi tirava fuori di lì prima di essere disintegrato.
La donna nagual aveva attraversato per
salvarmi. Scelse non aveva potuto muoversi perché stava sostenendo l'apertura,
e Silvio Manuel aveva soggette alle quattro donne del capello, due in ogni
sgorgo, intelligente per gettarli dentro.
Suppongo che tutto l'evento dovette
trascorrere almeno in una stanza di ora, ma in quello momento non mi fu
successo mai preoccuparmi per la gente che potesse stare vicino al ponte. In
qualche modo, il tempo si sembrava aversi sospeso, della stessa forma come
sembrò impennarsi quando ritorniamo al ponte nel nostro viaggio al Città del
Messico.
Silvio Manuel disse che benché l'attentato
di attraversare sembrasse essere un fallimento, fu un successo assoluto. Le
quattro muori se videro l'apertura e, attraverso lei, l'altro mondo; e lì
quella che io sperimentai fu una vera sensazione della morte.
- Non c'è niente delicato o pacifico nella
morte - disse -. Perché il vero terrore comincia morendo, Con
quell'incalcolabile forza che sentisti lì, l'Aquila ti spremerà tutti ed ognuno
dei battiti di ala di coscienza che sei arrivato ad avere. Dopo, Silvio Manuel
ci preparò per un altro tentativo. Ci spiegò che i posti di potere in realtà
erano buchi in una specie di palo che evita che il mondo perda la sua forma. Un
posto di potere è utilizzato quando uno ha congregato sufficienza forza nella
seconda attenzione. Ci disse che la chiave per resistere la presenza
dell'Aquila era la potenza del tentativo di uno. Senza tentativo non c'era
niente. Mi disse che io dovevo capire, dato che io ero l'unico che aveva messo
il piede nell'altro mondo che quella che quasi mi ero ammazzato era la mia
incapacità per cambiare il mio tentativo. Tuttavia, egli era fiducioso in che
con una pratica forzata, tutti noi arriveremmo ad allungare il nostro
tentativo. Ma non poteva spiegare quello che era il tentativo. Scherzò dicendo
che solo il nagual Juan Matus potrebbe spiegarlo. . . , ma non camminava per di
lì.
Sfortunatamente, il seguente incrocio non
ebbe luogo, perché io esaurii la mia energia. Fu una rapida e devastatrice
perdita di vitalità. Improvvisamente mi sentii tanto debole che svenni in casa
di Silvio Manuel.
Domandai alla Grassa semmai ella sapeva
quello che successe dopo. Io non avevo né idea. La Grassa disse che Silvio
Manuel disse a tutti che l'Aquila si era gettata del gruppo, e che finalmente
mi trovavo intelligente affinché essi mi preparassero a portare a termine i
propositi del mio destino. Il suo piano era portarmi al mondo che si trova tra
le linee parallele mentre io fosse insensato, e lasciare che quello mondo mi
estraesse tutta l'energia restante ed inutile del mio corpo. La sua idea era
corretta a giudizio di tutti i suoi compagni poiché la regola indica che può
entrarsi solo lì cosciente di uno stesso. Entrare senza coscienza porta la
morte, dato che senza lei la forza si esaurisce a causa della pressione fisica
di quello mondo.
La Grassa aggiunse che a lei non la
portarono con me. Ma il nagual Juan Matus gli aveva contato che al momento che
mi trovai vuoto di energia vitale, praticamente morto, tutti essi si
alternarono a soffiare nuova energia al mio corpo. In quello mondo, chiunque
che ha forza può darsila agli altri soffiandosila. Seguendo la regola mi
diedero il suo alito in tutti i posti dove c'è un punto di immagazzinamento.
Silvio Manuel soffiò in primo luogo, dopo la donna nagual. Il resto di me fu
composto da tutti i membri del gruppo del nagual Juan Matus.
Dopo che tutti mi soffiarono la sua
energia, la donna nagual mi tirò fuori dalla nebbia in casa di Silvio Manuel.
Mi tese nel suolo con la testa verso il Sud. La Grassa mi disse che io sembravo
essere morto. Ella ed i Genaros e le tre sorelline stavano lì. La donna nagual
spiegò loro che io ero malato, ma che qualche giorno ritornerebbe per aiutarli
a trovare la libertà, perché io stesso non potrebbe essere libero fino a che
essi lo facessero. Dopo Silvio Manuel mi diede il suo alito e mi fece
resuscitare. Per quella ragione le sorelline ed ella ricordavano che egli era
il mio padrone. Silvio Manuel mi portò al mio letto e mi lasciò addormentato,
come se niente fosse avrebbe passato. Dopo che svegliai andai via e non
ritornai. E dopo la Grassa dimenticò tutto perché nessuno la girò già a
spingere al lato sinistro. Andò a vivere al paese dove più tardi la trovai con
gli altri. Il nagual Juan Matus e Genaro stabilirono due case differenti.
Genaro si incaricò degli uomini, il nagual Juan Matus curò le donne.
Tutto quello che io ricordavo era il mi
avere sentito depresso e debole. Dopo, persi la conoscenza e, quando svegliai,
mi trovavo in perfetto controllo di me stesso, effervescente, pieno di
un'energia straordinaria e disabituata. Il mio benessere finì nel momento che
Don Juan mi disse che doveva lasciare alla donna nagual e la Grassa e cercare
io suolo il perfezionamento della mia attenzione, fino al giorno in cui potesse
ritornare ad aiutare tutti gli apprendisti. Mi disse anche che né mi
spazientissi né mi scoraggiasse, perché il portatore o la portatrice della
regola mi farei Lei presente a tempo debito per così rivelarmi la mia vera
missione.
Poi non andai oramai a vedere Don Juan per
un lungo tempo. Quando ritornai, egli continuò diventando cambiare la coscienza
del lato destro a quella del sinistro con due fini: in primo luogo, affinché io
potessi continuare la mia relazione coi suoi guerrieri e con la donna nagual;
e, secondo, affinché egli potesse mettere mi scendo il diretto tutoraggio da
Zuleica.
Mi disse che di accordo col piano maestro
di Silvio Manuel, c'erano due tipi di istruzione per me, uno per il lato
destro, l'altro per il sinistro. L'istruzione del lato destro apparteneva allo
stato di coscienza normale e la sua fine era condurrmi alla convinzione
razionale che c'è un altro tipo di coscienza nascosta negli esseri umani. Don
Juan si trovava a carico di questa istruzione. Quella del lato sinistro era
stata assegnata a Zuleica, era relazionata con lo stato di coscienza
accresciuta e doveva vedere esclusivamente col maneggio della seconda
attenzione attraverso il sogno. Di quella maniera, ogni volta che andava in
Messico passava la metà del tempo con Zuleica, e l'altra metà con Don Juan.
XIII. LA COMPLESSITÀ DEL SOGNO
Don Juan, cominciando il compito di
introdurrmi nella seconda attenzione, disse che aveva già abbastanza esperienza
in entrare in lei. Silvio Manuel mi ero portato giusto fino all'entrata. Il
difetto aveva risieduto in che non mi furono dati i raziocini appropriati. Ai
guerrieri deve essere datoloro serie ragioni prima che possano avventurarsi
senza pericoli nella cosa ignorata. Le guerriere non sono soggette a questo e
possono entrare in ciò senza nessuna titubanza, a patto che abbiano fiducia
totale in chi la guida.
Mi disse che io dovevo incominciare in
primo luogo per imparare la complessità del sogno. Mi mise allora scendo la
supervisione da Zuleica. Mi esortò a che fosse impeccabile e praticasse con
meticolosità tutto quello che avrebbe imparato, e, soprattutto, mi chiese che
fosse diligente e deliberato nelle mie azioni affinché non esaurisse in vano la
mia forza vivente. Disse che il prerequisito di entrata a chiunque delle tre
fasi dell'attenzione è possedere forza vivente, perché senza lei i guerrieri
non possono avere direzione né proposito. Mi spiegò che morendo, anche la
nostra coscienza entra nella terza attenzione, ma solo per un istante, come
un'azione catartica, giusto prima che l'Aquila la divori.
La Grassa diceva che il nagual Juan Matus
fece che ognuno degli apprendisti imparasse a trasognare. Ella credeva che a
tutti essi era stato dato loro contemporaneamente questo compito che a me.
L'istruzione che fu dato loro fu divisa anche in destra e sinistra. Disse che
il nagual e Genaro proporzionarono loro istruzione del lato destro, per lo
stato di coscienza normale. Quando giudicarono che gli apprendisti erano
pronti, il nagual fece loro cambiare ad un stato di coscienza accresciuta e li
lasciò con le sue rispettive controparti. Vicente insegnò a Néstor, Silvio
Manuel fu il maestro di Benigno, Genaro istruì a Pablito, Combatte ebbe come
maestra a Hermelinda, e Rosa, a Nélida. La Grassa aggregò che Josefina ed ella
furono messe a cura di Zuleica affinché unisci imparassero gli aspetti più
delicati del trasognare e così potessero arrivare ad aiutarmi qualche giorno.
Inoltre, la Grassa dedusse per il suo
proprio conto che anche i tre Genaros fu portato con Florinda per imparare
l'agguato. La prova di questo era il suo drastico cambiamento di condotta. La
Grassa mi disse che ella sapeva, nonostante da prima di ricordare niente che
qualcuno gli insegnò i principi di spiare, ma di una maniera molto
superficiale; non gli fu fatto praticare, mentre agli uomini furono dati loro
conoscenze pratiche e compiti. Il cambiamento di condotta di essi era la prova.
Diventarono più allegri e gioviali. Godevano le sue vite, mentre ella e le
altre donne, a causa di suo trasognare, diventarono sempre di più ombrose e di
malumore.
La Grassa credeva che i Genaros non potè
ricordare la sua istruzione, quando io chiesi loro che mi rivelassero le sue
conoscenze dell'arte di spiare, perché lo praticavano senza sapere che stessero
facendolo. Tuttavia, la sua destrezza usciva alla luce nei suoi trattamenti con
la gente. Erano artisti consumati in torcere la volontà di chi fosse e di
uscire sempre con la sua. Attraverso le pratiche di spiare, i Genaros fino ad avevano
imparato lo sproposito controllato. Per esempio, si comportavano come se
Soledad fosse la madre di Pablito. Per qualunque osservatore, sembrerebbe che
fossero madre e figlio incitandosi a litigare l'uno contro l'altro, quando in
realtà i due stavano rappresentando una carta. Convincevano a chiunque. In
occasioni Pablito dava tali rappresentazioni che fino a si convinceva a se
stesso.
La Grassa mi confidò che tutti essi si
trovavano più che attoniti davanti alla mia condotta. Non sapevano se io ero pazzo
o se era un maestro dello sproposito controllato. Io davo tutte le indicazioni
esterne di prendere sul serio le sue drammatizzazioni. Soledad disse loro che
non si sbagliassero, perché in realtà io ero pazzo. Sembrava stare in
controllo, ma mi trovavo tanto completamente aberrato che non poteva comportare
mi mangio nagual. Ella raccomandò ad ognuna delle donne che mi propinasse un
colpo mortale. Disse loro che io stesso l'aveva chiesto in un momento in che mi
trovavo in controllo delle mie facoltà.
La Grassa mi contò che gli costò vari anni,
sotto la guida di Zuleica, per imparare a trasognare. Quando il nagual Juan
Matus giudicò che ella era già un'esperta, finalmente la portò con la sua vera
controparte, Nélida. Fu Nélida che gli insegnò come comportarsi nel mondo. La
preparò non solo affinché sapesse come vestirsi bene, ma anche affinché avesse
garbo.
Di quella maniera, quando si mise i suoi
vestiti nuovi ad Oaxaca e mi lasciò allarmato col suo incantesimo ed eleganza,
aveva già esperienza in quella trasformazione.
Nel mio caso, Zuleica fu molto effettivo
come guida verso la seconda attenzione. Insistè in che il nostro compito avesse
solamente posto nella notte, e nell'oscurità assoluta. Per me, Zuleica era solo
una voce nelle tenebre, una voce che iniziava tutti i contatti che avemmo,
dicendomi che concentrasse la mia attenzione sulle sue parole e nient'altro. La
sua voce era la voce femminile che la Grassa credeva avere sentito in sogni.
Zuleica mi disse che se trasogna dentro la
casa, la cosa migliore è farlo nell'oscurità totale, stando uno disteso o
seduto in un letto stretto, o, migliore ancora, seduto dentro una culla con
forma di bara. Nel campo aperto, il sogno si dovrebbe fare nella protezione di
una caverna, nelle aree arenose di sorgenti secchi, o seduto con la schiena
contro una roccia nelle montagne: mai nel suolo piano di una valle, né vicino a
fiumi o laghi o il mare, poiché le zone piane; come l'acqua, erano antitetiche
alla seconda attenzione.
Ognuna delle mie sessioni con lei fu
inzuppata di mistero. Mi spiegò che la maniera più sicura di indovinare un
colpo diretto nella seconda attenzione è attraverso atti rituali: canti
monotoni ed intricati movimenti ripetitivi.
I suoi insegnamenti non furono circa i
principi dell'arte di trasognare che mi erano stato già rivelati per Don Juan.
Zuleica diceva che per averla come maestra uno doveva sapere come trasognare,
per lasciarla liberi così a che trattasse esclusivamente con le questioni
esoteriche della coscienza del lato sinistro.
Le istruzioni di Zuleica incominciarono un
giorno in cui Don Juan mi portò a casa sua. Arriviamo a metà del pomeriggio. Il
posto sembrava deserto, benché la porta di di fronte si aprì quando a lei
c'avviciniamo. Io speravo che Zoila o Martora apparissero, ma non c'era nessuno
nell'entrata. Sentii che chi fosse quello che aprì la porta, si allontanò con
gran rapidità. Don Juan mi portò dentro al patio e mi fece sedere in una
scatola di legno che aveva un cuscino e che era stato convertita in panca. Il
sedile della scatola era duro e molto scomodo. Spostai la mia mano sotto il
magro cuscino e trovai un pugno di pietre filosas. Don Juan mi disse che la mia
situazione era poco convenzionale perché io dovevo imparare le questioni più
delicate del trasognare a gran velocità. Sedermi in una superficie dura era una
maniera di evitare che il mio corpo sentisse che si trovava in una situazione
normale. Alcuni minuti prima di arrivare alla casa, Don Juan mi fece cambiare
livelli di coscienza. Mi disse che l'istruzione di Zuleica doveva essere
condotta in un stato di coscienza accresciuta affinché io potessi avere la
rapidità che si richiedeva. Mi ordinò che rimanessi tranquillo e che si fidasse
implicitamente di Zuleica. Poi mi comandò che fissasse la mia attenzione, con
tutta la forza che fosse capace, e che memorizzasse tutti i dettagli del patio
che si trovavano dentro il mio campo di visione. Insistè in che io dovevo
memorizzare ogni dettagli come la sensazione di stare seduto lì. Mi ripetè le
sue istruzioni per essere sicuro che io avevo capito. Poi andò via.
Rapidamente diventò oscuro ed incominciai
ad irritarmi, seduto lì. Non ebbi tempo sufficiente per concentrarmi sui
dettagli del patio. Improvvisamente ascoltai un scricchiolio giusto alle mie
spalle e dopo la voce di Zuleica mi allarmò. Con un vigoroso sussurro mi disse
che mi mettessi in piede e la seguisse. Automaticamente obbedii a lei. Non
poteva vedere il suo viso, ella era solo una forma oscura che camminava due
passi davanti a me. Mi portò ad un angolo del corridoio più oscuro della sua
casa. Benché i miei occhi fossero abituati all'oscurità non poteva vedere
ancora niente. Mi imbattei in qualcosa e lei mi ordinò che mi sedessi dentro
una stretta culla e che reclinasse la parte inferiore della mia schiena in un
cuscino duro.
Poi sentii che ella era retrocessa alcuni
passi dietro me, egli quale mi sconcertò completamente, perché pensai che la
mia schiena si trovava ad alcuni centimetri della parete. Parlando da lì, mi
ordinò con voce soave che mettesse a fuoco la mia attenzione nelle sue parole
affinché queste potessero guidarmi. Mi disse che mantenesse gli occhi aperti e
fissi in un punto che si trovava di fronte a me, all'altezza dei miei occhi, e
che quello punto si trasformerebbe di nerezza ad un gradevole e brillante colore
rosso-arancia.
Zuleica parlava molto soavemente, con
intonazione uniforme. Ascoltai ognuna delle sue parole. L'oscurità che mi
arrotolavo sembrava avere tagliato efficacemente qualunque stimolo esterno che
mi distrarsi. Sentii le parole di Zuleica in un vuoto, e dopo notai che il
silenzio di quello corridoio era paragonabile al silenzio dentro me.
Zuleica mi spiegò che un ensoñador deve
partire da un punto di colore; la luce intensa o le complete tenebre sono
inutili per un ensoñador nel suo assalto iniziale. Colora la porpora o verde
chiaro o giallo profondo come sono, d'altra parte, eccellenti punti di
avviamento. Zuleica mi assicurò che una volta che sarebbe riuscito io entrare
nel colore rosso-arancia, avrebbe congregato permanentemente la mia seconda
attenzione, se è che era capace di essere cosciente delle sensazioni fisiche
che uno sperimenta entrando in quello colore.
Ebbi bisogno di varie sessioni con la voce
di Zuleica per darmi conta sul mio corpo di quello che ella tentava di fare. Il
vantaggio di stare in un stato di coscienza accresciuta era che io potevo
seguire la mia transizione di un stato di veglia ad un stato di sogno. Sotto
condizioni normali quella transizione è torbida, ma in quelle circostanze
speciali sentii in realtà, nel decorso di una delle mie sessioni, come la mia
seconda attenzione prendeva i controlli. Il primo passo fu un'inusitata
difficoltà in respirare. Non era una difficoltà per inalare o esalare, né
neanche mi mancava l'aria; piuttosto, la mia respirazione cambiò improvvisamente
ritmo. Il mio diaframma incominciò a contrarsisi e forzò alla parte mezza del
mio corpo a muoversi come un soffietto, con gran celerità. Respirava con la
parte inferiore dei miei polmoni e sentii una gran pressione negli intestini.
Senza successo tentai di rompere gli spasmi del mio diaframma. Quanto più
trattava, più doloroso diventava.
Zuleica mi ordinò che lasciasse che il mio
corpo facesse tutto quello che fosse necessario e che non pensasse di dirigerlo
o controllarlo. Io volevo obbedire a lei, ma ignorava come. Gli spasmi che sono
dovuti durare da dieci a quindici minuti, svanirono tanto improvvisamente come
erano apparsi e furono seguiti per un'altra sensazione strana e commuoverti. In
un principio la sentii come un prurito della cosa più peculiare, un sentimento
fisico che non era né gradevole né spiacevole; era sembrato qualcosa ad un
tremore nervoso. Diventò molto intenso, fino al punto di forzarmi a concentrare
la mia attenzione su lui al fine di determinare parte del mio corpo in che cosa
stava succedendo.
Rimasi sbalordito dandomi conta che non
aveva da nessuna parte luogo del mio corpo fisico, bensì fosse di lui, e
tuttavia lo sentiva ancora.
Non feci caso all'ordine di Zuleica di
entrare in una macchia di colorazione che incominciava a formarsi all'altezza
dei miei occhi, e mi diedi interamente all'esplorazione di quell'estranea
sensazione che succedeva fuori di me. Zuleica aveva dovuto vedere quello che
stava succedendomi; improvvisamente incominciò a spiegarmi che la seconda attenzione
appartiene al corpo luminoso, come la prima attenzione appartiene al corpo
fisico. Disse che il punto dove la seconda attenzione si arma è situato nel
posto che Juan Tuma si era descritto la prima volta che ci conoscemmo:
approssimativamente ad un metro di distanza di fronte della parte mezza del
corpo, giusto tra lo stomaco e l'ombelico, ed a quindici centimetri alla
destra.
Zuleica mi ordinò che mettesse le mani in
quello punto e lo massaggiasse muovendo le dita delle mie due mani, esattamente
come se stesse toccando un'arpa. Mi assicurò che se persisteva nell'esercizio,
presto o tardi finirebbe sentendo che le mie dita passavano per qualcosa che
era tanto denso come l'acqua, e che finalmente sentirebbe il mio guscio
luminoso.
Man mano che continuava a muovere le mie
dita, l'aria diventò progressivamente denso fino a che sentii una specie di
massa. Un indefinito piacere fisico si divertì per tutto il mio corpo. Pensai
che mi trovavo toccando un nervo e mi sentii ridicolo per la cosa assurda di
tutto quello. Mi trattenni.
Zuleica mi notò che se non muoveva le mie
dita andava a darmi un scappellotto nella testa. Quanto più io continuavo
quello movimento oscillante, più vicina sentiva il prurito. Finalmente, questa
arrivò a stare a circa dieci centimetri del mio corpo. Era come se qualcosa
dentro me si fosse avvilito. In realtà credei che potesse sentire una
concavità, un'ammaccatura dove sentiva il prurito. Poi ebbi un'altra sensazione
impressionante. Stava rimanendo addormentato e, contemporaneamente, era
cosciente. C'era una vibrazione nelle mie orecchie che mi ricordavo il suono di
un cicalino; dopo sentii una forza bruci arrotolava sul mio lato sinistro senza
svegliarmi. Fui arrotolato molto strettamente, come un sigaro, e mi fu
collocato nella concavità dove sentiva il prurito. La mia coscienza rimase
sospesa lì, incapace di svegliare, ma tanto strettamente arrotolata in sé
stessa che neanche poteva rimanere dormita.
Sentii la voce di Zuleica che mi dicevo che
vedesse intorno a mio. Non potei aprire gli occhi, ma il mio senso del tatto mi
rivelò che mi trovavo in un fosso; coricato supino. Mi sentii comodo, sicuro.
Il mio corpo era tanto compatto e stretto che io non avevo il più lieve
desiderio di incorporarmi. La voce di Zuleica mi ordinò che mi mettessi in
piede ed aprisse gli occhi. Non potei farlo. Mi disse che doveva desiderare i
miei movimenti, perché non si trattava di un tema di contrarre i miei muscoli
per alzarmi.
Pensai che la mia lentezza l'aveva
disturbata. Compresi allora che mi trovavo pienamente cosciente, chissà più
cosciente di quello che era stato in tutta la mia vita. Poteva pensare
razionalmente e contemporaneamente sembrava essere completamente addormentato.
Mi fu successo l'idea che Zuleica mi ero messo in un stato di ipnosi profonda.
Questo mi disturbò un istante, ma dopo non ebbe oramai importanza. Cedei alla
sensazione di trovarmi sospeso, e galleggiai liberamente.
Non potei sentire oramai quello che ella si
diceva. O ella aveva smesso di parlare o io avevo tagliato il suono della sua
voce. Non voleva abbandonare quello rifugio. Non mi ero sentito mai tanto in
pace e tanto completo. Rimasi lì immobile senza volere alzarmi né cambiare
niente. Poteva sentire il ritmo della mia respirazione. Improvvisamente,
svegliai.
Nella seguente sessione, Zuleica mi disse
che io ero riuscito a fare una concavità nella mia luminosità senza aiuto di
nessuno, e che fare quella concavità significava che io avevo mosso un punto
distante del mio guscio luminoso ma vicino al mio corpo fisico, e pertanto, più
vicino al controllo. Sostenne ripetute volte che a partire dal momento in cui
il corpo impara a fare quella concavità, è più facile entrare nel sogno. Fui di
accordo con lei. Io avevo acquisito un strano impulso, una sensazione che il
mio corpo aveva imparato a riprodurre istantaneamente. Era una dimostrazione di
sentirmi in riposo, sicuro, insonnolito, sospeso senza il senso del tatto, e
contemporaneamente completamente sveglio, cosciente di tutto.
La Grassa mi disse che il nagual Juan Matus
aveva lottato per anni per creare quella concavità in lei, nelle tre sorelline
ed anche nei Genaros, per darloro abilità permanente di concentrare la sua
seconda attenzione. Gli disse che in generale l'ensoñador la creda nel momento
stesso in cui ha bisogno di lei. Dopo, il cuore luminoso gira a recuperare la
sua forma originale. Ma nel caso degli apprendisti, dato che non avevano un
nagual che li dirigesse, la concavità fu creata da fuori ed arrivò ad essere un
tratto permanente dei suoi corpi luminosi: un gran aiuto ma anche
un'ostruzione. A tutti faceva loro vulnerabile e taciturni.
Ricordai che una volta io avevo visto e
colpito col mio piede una fessura nei gusci luminosi di Corrida e di Rosa.
Pensai che la fessura si trovava parallela
alla porzione superiore della coscia destra, o magari insieme nella cresta
dell'osso dell'anca. La Grassa mi spiegò che io li avevo propinati il calcio
nella concavità della sua seconda attenzione e che quasi li ammazzai.
La Grassa mi disse che, durante la sua
istruzione, Josefina e lei vissero nella casa di Zuleica durante vari mesi. Il
nagual Juan Matus li fu con lei da un giorno, dopo avere fatto loro cambiare
livelli di coscienza. Non disse loro che cosa andavano a fare lì né che cosa
era quello che dovevano sperare, semplicemente li lasciò sole in un corridoio
della casa ed andò via. Esse si sedettero lì fino a che oscurò, fu allora che
Zuleica arrivò a dove esse stavano. Non la videro mai, ascoltarono solo la sua
voce come se parlasse loro da un posto nella parete.
Zuleica fu molto esigente a partire dal
momento in cui prese carico. Fece loro svestirsi nell'atto e li ordinò che si
mettessero dentro alcune grosse e spugnose borse di cotone, una specie di
ponchi. Si coprirono della testa ai piedi con essi. Zuleica li ordinò dopo che
si sedessero schiena con schiena, su una stuoia, nello stesso angolo del
corridoio dove io normalmente mi sedevo. Dissi loro che il suo compito
consisteva in contemplare l'oscurità fino a che questa incominciasse ad
acquisire una tintura. Dopo varie sessioni, in realtà esse cominciarono a
vedere colori nelle tenebre, allora fu quando Zuleica fece loro sedersi lato a
lato e vedere lo stesso punto.
La Grassa diceva che Josefina imparò con
gran rapidità, e che una notte entrò drammaticamente, di una tirata, nella
macchia di rosso-arancia, staccandosi fisicamente dalla borsa. La Grassa
credeva che o Josefina si distese fino a raggiungere la macchia di colore, o
questa si distese fino a raggiungerla la. Il risultato fu che in un istante
Josefina uscì dall'interno della borsa. A partire da quello momento, Zuleica li
separò, e la Grassa iniziò suo lento ed allungo apprendistato.
La narrazione della Grassa mi fece
ricordare che anche Zuleica si era fatto mettermi nella borsa spugnosa. Per
certo, il tenore delle ordine che mi diede mi rivelarono la ragione del suo
uso. Zuleica mi diresse a che sentisse la spugnosità con la mia pelle nuda,
specialmente con la pelle dei miei polpacci. Mi ripetè un ed un'altra volta che
gli esseri umani abbiamo un eccellente centro di percezione nell'esterno dei
polpacci, e che se la pelle di quell'area era messa in calma e massaggiata, la
portata della nostra percezione aumenterebbe di maniere impossibili da
concepire razionalmente. La borsa era molto soave e calda, ed induceva nelle mie
gambe una straordinaria sensazione di calma e pace. I nervi dei miei polpacci
sperimentarono una piacevole stimolazione
La Grassa mi diede una relazione di un
piacere fisico uguale al mio. Ancora più, ella disse che il potere di quella
borsa l'aveva guidata a trovare la macchia di colore rosso-arancia. Sentiva
tale rispetto ed ammirazione per la borsa che si fece una, copiando
l'originale. Ma, secondo lei, il suo effetto non era lo stesso, benché gli
proporzionasse anche pace e benessere. Disse che Josefina ed ella normalmente
passavano tutto il sobretiempo che disponevano, dentro le borse che ella aveva
cucito per le due.
Combatte e Rosa furono anche posizionate
dentro la borsa, ma a nessuna di esse gli piacque. Era loro indifferente. La
stessa cosa a me me passavo.
La Grassa spiegò l'attaccamento di Josefina
e di lei come una conseguenza diretta del fatto di essere stato guidate a
scoprire il suo colore di sogno quando si trovavano dentro la borsa. Diceva che
la mia indifferenza si doveva a che io non entrai nella zona di colorazione;
piuttosto, la tintura me venne. Aveva ragione. Qualcosa più che la voce di
Zuleica fu responsabile dello sviluppo di quella fase preparatoria.
Evidentemente, Zuleica mi fece seguire gli stessi passi per i quali condusse la
Grassa e Josefina. Io avevo conservato gli occhi fissi nell'oscurità attraverso
molte sessioni e mi trovavo intelligente per visualizzare la zona della
colorazione. Per certo, presenziai a tutta la sua metamorfosi cominciando con
la pura oscurità e finendo in una macchia di intensa brillantezza. A
quell'altezza rimasi assorto nella sessione di un prurito esterno, fino al
punto di finire entrando in un stato di veglia in riposo. Fu allora quando
rimasi immerso per la prima volta in un colorazione rosso-arancia.
Dopo che imparai a rimanere sospeso nel
sonno e la veglia, Zuleica sembrò allentare il passo. Perfino arrivai a credere
che aveva cambiato tattica e che non aveva fretta di tirarmi fuori da quello
stato. Mi lasciò rimanere in lui senza interferire, e non mi fece mai chissà
domande circa quello che stava sperimentando, perché la sua voce era solo per
dare ordini e non ferma fare domande. Non parliamo realmente mai durante la sua
istruzione, almeno non mangio il faceva con Don Juan.
Mentre mi trovavo nello stato di veglia in
riposo, mi resi d'un colpo conto che era inutile rimanere lì, perché nonostante
la cosa gradevole che potesse essere, le limitazioni di quell'esperienza erano
evidenti. Sentii nel mio corpo un tremore ed aprii gli occhi, o piuttosto i miei
occhi si aprirono soli. Zuleica mi osservava. Il mio stupore fu totale. Pensai
che aveva svegliato, e l'affrontare Zuleica in carne ed osso fu qualcosa di
completamente inaspettato. Mi ero abituato a sentire solamente la sua voce. Mi
sorprese anche che non fosse oramai di notte. Guardai intorno mio. Non stavamo
oramai nella casa di Zuleica. Ebbi allora l'istantanea certezza che mi trovavo
trasognando e svegliai.
Zuleica incominciò dopo un altro aspetto
dei suoi insegnamenti. Mi insegnò come muovermi. Iniziò la sua istruzione
ordinandomi che fissasse la mia attenzione al punto mezzo del mio corpo. Nel
mio caso quello punto si trovava sotto al bordo inferiore del mio ombelico. Mi
disse che scopasse il suolo con lui; questo è che facesse oscillare il mio ventre
come se avesse incollata una scopa lì. Attraverso innumerevoli sessioni cercai
di fare quello che la voce mi ordinava. Zuleica non mi permise di entrare in un
stato di veglia in riposo. La sua intenzione era portarmi a percepire l'azione
di scopare il suolo col punto mezzo del mio corpo, mentre seguiva sveglio. Mi
disse che stare nella coscienza del lato sinistro era un vantaggio sufficiente
per compiere bene l'esercizio.
Un giorno, per nessuna ragione che io
potessi concepire, riuscii ad avere una vaga sensazione nell'area del mio
stomaco. Non era qualcosa di definito e quando misi a fuoco in lui la mia
attenzione compresi che era come un prurito dentro la cavità del mio corpo. E
non esattamente nell'area dello stomaco bensì più su. Come l'esaminava, notava
maggiori dettagli. La cosa vaga della sensazione si trasformò presto in una
certezza. C'erano una strana connessione di nervosismo o una sensazione
cosquilleante tra il mio plesso solare ed il mio polpaccio destro.
La sensazione si acutizzò, ed involontariamente
io elevai la mia coscia destra fino al petto. Così i due punti rimasero tanto
prossimi l'un l'altro come la mia anatomia lo permetteva. Tremai per un momento
con un nervosismo inusitato e dopo sentii con chiarezza che scopava il piano
col punto mezzo del mio corpo, era una sensazione tattile che succedeva ogni
volta che oscillava il mio corpo essendo seduto.
Nella seguente sessione, Zuleica mi permise
di entrare in un stato di veglia in riposo. Tuttavia, non sentii in lui quello
che abituava. Sembrava c'essere una specie di controllo in me che riduceva la
possibilità di goderlo liberamente, come sempre l'aveva fatto; anche quello
controllo mi fece concentrare la mia attenzione sulla maniera come si sviluppa
la veglia in riposo. Primo notai il prurito nell'area della seconda attenzione,
nel mio guscio luminoso. Massaggiai quello punto muovendo le mie dita su lui
come se toccasse un'arpa: il punto affondò verso il mio stomaco. Lo sentii
quasi nella mia pelle. Sperimentai sprono nell'esterno del mio polpaccio
destro. Era un miscuglio di piacere e dolore. La sensazione si divertì per
tutta la mia gamba e dopo per la parte inferiore della schiena. Sentii che i
miei glutei si scuotevano. Tutto il mio corpo fu oltrepassato per un'onda
nervosa. Sentii come se il mio corpo fosse stato acchiappato, coi piedi verso
l'alto, in una rete. Davanti mio e le mie dita dei piedi sembravano toccarsi.
Mi trovavo in una forma di O chiusa. Poi sentii come se mi piegassero in due e
mi arrotolassero in un lenzuolo. I miei spasmi nervosi erano quelli che
facevano che il lenzuolo si entusiasmasse con me nel centro. Quando si era
entusiasmato non potei sentire oramai il mio corpo. Io ero solo una coscienza
amorfa, un spasmo nervoso arrotolato in sé stesso. Quella coscienza andò a
riposare dentro un fosso, dentro una depressione di sé stessa.
Compresi allora l'impossibilità di
descrivere quello che succede trasognando. Zuleica diceva che la coscienza del
lato destro e quella del lato sinistro si arrotolano giunte. Entrambe arrivano
a riposare fatte un solo mucchio nella concavità della seconda attenzione. Per
trasognare, uno deve maneggiare tanto il corpo luminoso come il corpo fisico.
In primo luogo, il centro della seconda attenzione nel guscio luminoso è
forzato ad essere accessibile: o qualcuno lo spinge da fuori, o l'ensoñador lo
sugge da dentro. Secondo, per slogare la prima attenzione, i centri del corpo
fisico localizzati nel punto mezzo del corpo e nei polpacci, specialmente la
destra, devono essere stimolati e posizionati egli più vicino possibile l'uno
dell'altro fino a che sembrino unirsi. Questo si riesce collocare alla coscia
destra contro il petto. Poi ha luogo la sensazione di essere arrotolato ed
automaticamente la seconda attenzione prende il controllo.
La spiegazione di Zuleica, data attraverso
ordini, era la maniera più conveniente di descrivere quello che succede, perché
nessuna delle esperienze sensoriali implicate in trasognare sono parte del
nostro inventario quotidiano. Innanzitutto la sensazione di un solleticamento
fuori di me, era locale ed a causa di quell'era minima il turbamento del mio
corpo sperimentandola. La sensazione di essere arrotolato in me stesso, d'altra
parte, era molto più inquietante. Includeva una serie di sensazioni che
lasciavano al mio corpo in un stato di emozione. Per esempio, io ero convinto
che in un momento le dita dei miei piedi toccavano davanti mio. Per me, quello
è una posizione impossibile da raggiungere; e tuttavia, io sapevo, oltre
qualunque possibilità di dubbio, che mi trovavo dentro una rete, appeso coi
piedi verso l'alto, con forma di pera, e con le dita dei piedi ben incollati a
davanti mio. In un piano fisico mi sentivo seduto con le mie cosce ripiegate
contro il petto.
Anche Zuleica mi disse che la sensazione di
essere arrotolato come se fosse un sigaro e posizionato dentro la concavità
della seconda attenzione era il risultato di avere fuso la coscienza del lato
destro e quella del lato sinistro fino a formare una sola, nella quale l'ordine
di preponderanza era stato invertito ed il lato sinistro aveva la supremazia.
Zuleica mi urse a che acutizzasse sufficientemente la mia attenzione egli come
per presenziare al movimento opposto, questo è, le due attenzioni nuovamente
trasformandosi in quello che sono normalmente, col lato destro portando le
redini.
Non arrivai mai a fare quello che mi
chiedevo, ma mi ossessionai fino al punto di rimanere acchiappato in mortali
titubanze causate per il mio impegno per osservare tutto. Zuleica dovette
cambiare idea ordinandomi che cessasse i miei scrutini, dato che doveva altre
cose fare.
Zuleica mi disse che primo fra tutti io
dovevo perfezionare il mio controllo al fine di potere muovermi a volontà.
Incominciò la sua istruzione quando mi trovavo in un stato di veglia in riposo,
ordinandomi ripetute volte aprire gli occhi. Mi costò moltissimo sforzo potere
farlo, ma improvvisamente i miei occhi si aprirono e vidi a Zuleica su me. Io
ero disteso. Non potei determinare dove. La luce era straordinariamente
brillante, come se mi trovassi esattamente sotto ad un poderoso faretto
elettrico, ma la luce non brillava direttamente sui miei occhi. Poteva vedere a
Zuleica senza nessun sforzo.
Mi ordinò che mi mettessi in piede mediante
un atto di volontà. Mi disse che doveva spingermi a me stesso con la mia parte
mezza che io avevo lì tre grossi tentacoli che poteva usare come stampelle per
elevare tutto il mio corpo.
. Tentai innumerabili volte di mettermi in
piede. Fallii. Ebbi una sensazione di disperazione e di angoscia fisica che mi
ricordavano gli incubi che aveva da bambino, nei quali non poteva svegliare e
tuttavia mi trovavo completamente sveglio tentando di gridare.
Finalmente Zuleica mi parlò. Mi disse che
doveva seguire un certo ordine, e che era un'incapace e stupida manovra della
mia parte lo spazientirmi ed agitare mi mangio se trattasse col mondo della
vita giornaliera. Spazientirsi era corretto solo nella prima attenzione; la
seconda attenzione era la calma stessa. Zuleica voleva che io ripetessi la
sensazione che ebbi di scopare il suolo con la parte mezza. Pensai che per
potere ripeterla doveva essere seduto. Senza nessuna premeditazione della mia
parte, mi sedetti ed adottai la stessa posizione che usai la prima volta che
ebbi quella sensazione. Qualcosa in me sbattè e di subitaneo io stavo in piede.
Non poteva discernere che cosa aveva fatto per muovermi. Pensai che se tornava
ad incominciare poteva essere cosciente del procedimento. Non appena ebbi
quello pensiero mi scoprii di nuova costruzione. Mettendomi in piede un'altra
volta mi resi conto che non c'era nessun procedimento che dovevo cercare di
muovermi da un livello molto profondo per muovere. In altre parole, doveva
essere assolutamente convinto che voleva muovermi, o chissà sarebbe più esatto
esporre che doveva essere convinto che doveva muovermi.
Una volta che avevo compreso questo
principio, Zuleica mi fece praticare tutti gli aspetti concepibili del
movimento volitivo. Quanto più praticava, più chiaro girava per me che
trasognare in realtà era un stato razionale. Zuleica mi spiegò. Disse che
trasognando, il lato destro, la coscienza razionale, rimane avvolta dentro la
coscienza del lato sinistro al fine di dare all'ensoñador un senso di sobrietà
e razionalità, ma che l'influenza della razionalità deve essere minima e deve
usarsi solo come un meccanismo inibitorio che protegge all'ensoñador di eccessi
ed imprese grottesche.
Il seguente aspetto dell'istruzione
consistè in dirigere il mio corpo di sogno. Don Juan aveva proposto, dalla
prima volta che conobbi a Zuleica, il compito di contemplare il patio quando mi
trovavo seduto nella scatola di legno. Meticolosamente mi misi a contemplarlo,
a volte per ore. Io stavo sempre suolo nella casa di Zuleica. Sembrava che i
giorni che io andavo tutti lì andavano via, o si nascondevano. Il silenzio e la
solitudine mi soccorsero e riuscii a memorizzare i dettagli del patio.
Zuleica, quindi, mi propose il compito di
aprire gli occhi mentre mi trovavo in un stato di veglia in riposo per vedere
il patio. Riuscirlo mi prese molte sessioni. In un principio io aprivo gli
occhi e la vedeva a lei, e lei, con una scossa del corpo, mi facevo rimbalzare,
come se fosse palla, allo stato di vigilanza in riposo. In uno di quelli
rimbalzi sentii un tremore intenso; qualcosa che si trovava localizzato nei miei
piedi tintinnò verso l'alto ed arrivò al mio petto, e lo tossii; di notte la
scena del patio uscì da me come se fosse emerso dai miei tubi bronchiali. Era
qualcosa di simile al ruggito di un animale.
Ascoltai la voce di Zuleica che mi arrivava
come se fosse un tenue mormorio. Non potei comprendere che cosa diceva.
Vagamente notai che mi trovavo seduto nella scatola di legno. Volli mettermi in
piede ma notai che io non ero solido. Era come se il vento si portasse.
Ascoltai allora molto chiara la voce di Zuleica dicendomi che non mi muovessi.
Tentai di rimanere immobile ma alcuno forza mi tirò e svegliai nel corridoio.
Silvio Manuel si trovava di fronte a me.
Dopo ogni sessione di trasognare nella casa
di Zuleica, Don Juan mi aspettavo sempre nell'oscuro corridoio. Mi portavo
fuori della casa e mi facevo cambiare livelli di coscienza. Ma quella volta
Silvio Manuel si trovava lì. Senza dirmi una sola parola, mi mise dentro un
arnese e mi issò contro le travi del soffitto. Lì mi lasciò fino a mezzogiorno,
quando venne Don Juan e mi fece scendere. Mi spiegò che il corpo si
ingentilisce essendo sospeso, senza toccare il suolo, per un periodo di tempo,
e che è essenziale farlo prima di un viaggio pericoloso come quello che io
andavo ad intraprendere.
Dovettero passare molte sessioni più di
sogno fino a che imparai finalmente ad aprire gli occhi e vedere andasse già a
Zuleica o il patio oscuro. Compresi allora che lei stessa stava trasognando
tutto il tempo. Non era stato mai in persona oltre a mio nel corridoio. Io stavo
nella cosa certa la prima notte quando credei che la mia schiena stava vicino
alla parete. Zuleica era una voce di sogno.
Durante una delle sessioni, quando aprii
deliberatamente gli occhi per vedere a Zuleica, mi lasciò stupefatto trovare la
Grassa come a Josefina affacciandosi su me insieme a Zuleica. L'aspetto finale
del suo insegnamento cominciò allora. Zuleica c'insegnò ai tre a viaggiare con
lei. Ci disse che nostra prima attenzione si trovava legata nelle emanazioni
della terra, e che la seconda attenzione era legata nelle emanazioni
dell'universo. Quello che voleva dire con quello è che un ensoñador, per
definizione sta fuori dei limitrofo delle preoccupazioni della vita quotidiana.
Come viaggiatrice del sogno, l'ultimo compito di Zuleica con la Grassa,
Josefina e con me consisteva in temperare nostra seconda attenzione per potere
seguirla nei suoi viaggi per la cosa ignorata.
In sessioni successive, la voce di Zuleica
mi disse che la sua "ossessione" mi orienterei ad un posto di
appuntamento che in temi della seconda attenzione l'ossessione dell'ensoñador
serve come guida, e che la sua si trovava concentrata in un posto reale oltre
questa terra. Da lì mi chiamerei ed io dovrei usare la sua voce come se fosse
una corda con la quale tirarmi.
Niente successe in due sessioni; la voce di
Zuleica risultava più tenue come parlava, ed a me mi preoccupavo non potere
seguirla. Non mi ero detto quello che doveva fare. Sperimentai anche una
pesantezza disabituata. Non poteva rompere una stridente forza alla mia
periferia che mi sottomettevo e che impedivo di uscire dallo stato di veglia in
riposo.
Durante la terza sessione, improvvisamente
aprii gli occhi senza c'esserlo almeno tentato. Zuleica, la Grassa e Josefina
mi osservavano. Io stavo in piedi, con esse. Immediatamente mi resi conto che
ci trovavamo in qualche posto sconosciuto per me. Il tratto più ovvio era una
brillante luce diretta. Tutta la scena era inondata di una poderosa luce
bianca, come di neon. Zuleica sorrideva come invitandomi a vedere intorno a me.
La Grassa e Josefina sembravano tanto caute come me. Zuleica c'indicò che ci
muovessimo. Ci trovavamo a campo aperto, in piedi nel centro di un circolo
deslumbrador. Il suolo sembrava essere roccia dura, oscura, e tuttavia
rifletteva molto dell'accecante luce bianca che consenso di sopra. La cosa
estraneo era che benché, io sapevo che la luce era eccessivamente intensa per i
miei occhi, non mi ferii nella cosa minima quando alzai la testa e scoprii la
sua fonte. Era il sole. Io stavo guardando direttamente al sole, il quale,
chissà a causa di che io stavo trasognando, era intensamente bianco.
Anche la Grassa e Josefina guardavano
direttamente al sole, apparentemente senza nessun effetto dannoso.
Improvvisamente, mi sentii assentarsi. La luce era troppo strana. Era una luce
implacabile; sembrava stagnarmi creando un vento che io potevo sentire. Ma non
poteva sentire niente di caldo. Credeva che la luce era maligna. All'unisono,
la Grassa, Josefina ed io c'accoccoliamo come bambini spaventati, in tomo a
Zuleica. Ella ci raggruppò. Poi l'abbagliante luce bianca incominciò a
diminuire gradualmente fino a che sparì completamente. Nel suo posto rimase una
tranquilla luce giallognola.
Mi resi allora totale conto che non ci
trovavamo nella terra. Il suolo era di colore terracotta bagnata. Non c'erano
montagne, ma dove ci trovavamo neanche era terra piana. Era un suolo asolanado,
pieno di crepe e macchie. Sembrava un infuriato mare secco di terracotta.
Poteva vederlo intorno a tutto mio, come se mi trovassi in mezzo all'oceano.
Guardai sopra: il cielo aveva perso il suo stridente splendore. Era offusco, ma
non azzurro. Una stella brillante, incandescente, si trovava vicino
all'orizzonte. Ebbi allora la certezza che stavamo in un mondo con due soli,
due stelle. Un'era enorme e si era nascosto già; l'altra era più piccola o
chissà più distante.
Volli fare domande, camminare per di là e
vedere cose. Con un segno, Zuleica c'ordinò che rimanessimo quieti. Ma qualcosa
sembrava tirarci. Improvvisamente, la Grassa e Josefina non furono più; ed io
mi svegliai.
Da quella volta non ritornai più a casa di
Zuleica. Don Juan mi facevo cambiare livelli di coscienza nella sua propria
casa o dove stessimo, ed io incominciavo a trasognare. Zuleica, la Grassa e
josefina mi aspettavano sempre. Ritorniamo alla stessa scena un ed un'altra
volta, fino a che ci fosse completamente conosciuta. Ogni volta che potevamo,
evitavamo lo splendore, la luce del giorno, ed arrivavamo quando era di notte,
giostro in tempo per presenziare all'uscita di un astro colossale: qualcosa di
tale grandezza che quando erupcionaba sulla dentata linea dell'orizzonte,
copriva più della metà del piano di cento ottanta gradi di fronte a noi.
L'astro era bello, e la sua salita sull'orizzonte era qualcosa di tanto inaudita
che io avessi potuto rimanere lì un'eternità solo per presenziare a quella
vista.
L'astro riempiva quasi tutto il firmamento
quando arrivava allo zenit. Noi ci stendevamo invariabilmente di spalle per
contemplarlo. Aveva configurazioni consistenti che Zuleica c'insegnò a
riconoscere. Notai che non era una stella. Rifletteva la luce; doveva essere
stato un corpo opaco perché la luce che rifletteva era debole in relazione col
monumentale volume. C'erano enormi macchie marrone che erano permanenti nella
sua superficie di colore giallo-zafferano.
Zuleica ci portò sistematicamente a viaggi
che oltrepassavano le parole. La Grassa diceva che Zuleica portò ancora più
lontano a Josefina, più profondo nella cosa ignorata, perché Josefina, come
Zuleica, era pazza; nessuna delle due possedeva quello centro di razionalità
che proporziona sobrietà all'ensoñador; pertanto, non avevano barriere né
interesse in cercare cause razionali per nessuna cosa.
La cosa unica che Zuleica mi disse circa i
nostri viaggi che sembrava una spiegazione, era che il potere che gli
ensoñadores ha di concentrarsi sulla sua seconda attenzione li trasformava in
bande viventi di gomma elastica. Quanto più forti ed impeccabili erano le
ensoñadores più lontano potevano proiettare la sua seconda attenzione nella
cosa ignorata e più tempo potevano mantenere questa proiezione.
Don Juan diceva che i miei viaggi con
Zuleica non erano illusione, e che ogni cucia che io avevo fatto con lei era un
passo verso il controllo della seconda attenzione; in altre parole, Zuleica si
stava abituando la predisposizione percettivo di quell'altro dominio. Tuttavia,
egli non poteva spiegare la natura esatta di quelli viaggi. O chissà non voleva
farlo. Mi disse che se egli si arrischiava a spiegare la predisposizione
percettivo della seconda attenzione in termini della prima attenzione,
rimarrebbe irrimediabilmente acchiappato in parole. Voleva che io trovassi la
mia propria spiegazione, e quanto più io pensavo a ciò più chiaro tornava per
me che era impossibile farlo. La rinuncia di Don Juan era funzionale.
Sotto la guida di Zuleica portai a termine
vere visite a misteri che si trovano certamente oltre la cornice della mia
ragione, ma ovviamente dentro le possibilità della mia coscienza normale.
Imparai a viaggiare verso qualcosa di incomprensibile e finii, come Emilito e
Juan Tuma, copilando i miei propri racconti dell'eternità.
XIV. FLORINDA
La Grassa ed io eravamo totalmente di
accordo in che contemporaneamente in che Zuleica c'aveva insegnato la
complessità del sogno, noi avevamo accettato tre fatti innegabili: che la
regola è una mappa che occulta in noi giace un'altra coscienza e che è
possibile penetrare in quella coscienza. Don Juan era riuscito quello che la
regola prescriveva.
La regola determinava che il seguente passo
di Don Juan consisteva in presentarmi a Florinda, l'unica del suo gruppo che io
non avevo conosciuto. Don Juan mi disse che doveva andare a casa di Florinda io
suolo, perché quello che accadesse tra Florinda ed io non aveva niente a che
vedere con altri. Mi disse che Florinda sarebbe la mia guida personale,
esattamente come se io fossi un nagual come egli. Egli aveva avuto quello tipo
di relazione con la guerriero del gruppo del suo benefattore paragonabile a
Florinda.
Don Juan mi lasciò un giorno alla porta
della casa di Nélida. Mi disse che entrasse che Florinda mi aspettavo
nell'interno.
- È un onore conoscerla - dissi alla donna
che mi aspettavo nel corridore.
- Io sono Florinda - disse.
Ci guardiamo in silenzio. Rimasi
stupefatto. Il mio stato di coscienza era più acuto che mai. E non sono tornato
mai a sperimentare una sensazione paragonabile.
- Che nome tanto bello - potei dire, ma
voleva dire molto più che quello.
Il nome non mi era raro, semplicemente non
aveva conosciuto nessuno, fino a quello giorno, che fosse l'essenza di quello
nome.
Alla donna che si trovava di fronte a me
gli rimaneva come se l'avessero fatto per lei, o magari era come se ella avesse
fatto che la sua persona incastrasse nel nome.
Fisicamente era identica a Nélida, ad
eccezione che Florinda sembrava avere più fiducia in sé stessa, e più autorità.
Era ben alta e snella. Aveva la pelle chiara della gente del Mediterraneo; di
ascendenza spagnola, o chissà francese. Era già di età, e tuttavia non era
debole né invecchiata. Il suo corpo era agile, flessibile e magro. Gambe
lunghe, tratti angolari, bocca piccola, un naso accuratamente scolpito, occhi
oscuri, capello intrecciato e completamente bianco. Né doppio mento né pelle
pendente nel viso e collo. Era vecchia come se l'avessero sistemata per
sembrare vecchia.
Ricordando, retrospettivamente, il mio
primo incontro con lei, mi viene completamente nella mente qualcosa senza
relazione ma a proposito. Una volta vidi dietro allora in una rivista una
fotografia presi venti anni di un'attrice di Hollywood giovane che aveva dovuto
caratterizzare si ferma rappresentare la carta di una donna che invecchiava.
Vicino alla fotografia, la rivista aveva pubblicato una foto della stessa
attrice come si vedeva dopo venti veri anni di vita ardua. Florinda, nel mio
giudizio soggettivo, era come la prima immagine dell'attrice di cinema, una
ragazza truccata per verta vecchia.
- Che cosa è quello che abbiamo qui? - mi
disse, pizzicandomi -. Non sembri gran cosa. Floscio. Pieno di pecadillos piccolini
ed alcuni grandi, ehi?
La sua franchezza mi ricordò quella di Don
Juan, come la forza interna del suo sguardo. Avevo pensato, rivedendo la mia
vita con Don Juan che i suoi occhi stavano sempre in riposo. Era impossibile
vedere agitazione in essi. Non era che gli occhi di Don Juan fossero begli. Ho
visto occhi abbaglianti, ma non ho scoperto mai che dicano qualcosa. Gli occhi
di Florinda, come quelli di Don Juan, mi davano la sensazione che avevano visto
tutto quello che può vedersi; erano sereni, ma non dolci. L'eccitazione in
quegli occhi aveva affondato in dentro e si era trasformato in qualcosa che
posso descrivere solo come vita interna.
Florinda mi portò attraverso la sala fino
ad un patio coperto. Ci sediamo su alcuni comode poltrone. I suoi occhi
sembravano cercare qualcosa nel mio viso.
- Sai chi io sono e quello che si suppone
che devo fare con te? - domandò.
Gli dissi che tutto quello che sapeva circa
ella, e la sua relazione con me, era quello che Don Juan aveva abbozzato. Nel
corso della mia spiegazione la chiamai signora Florinda.
- Non mi chiamare signora Florinda - mi
chiese con un gesto infantile di irritazione e gravidanza -. Ancora non sono
tanto vecchia, e neanche tanto rispettabile.
Gli domandai come voleva che la trattasse.
- Solamente Florinda - disse -. In quanto a
chi sono, posso dirti immediatamente che sono una guerriera che conosce i
segreti dello spiare. Ed in quanto a quello che si suppone che devo fare con
te, posso dirti che ti insegno i primi sette principi dell'agguato, i tre primi
principi della regola per gli acechadores, e le tre primi manovre dell'agguato.
Aggregò che per ogni guerriero la cosa
normale era dimenticare quello che accade quando le azioni succedono nel lato
sinistro, e che mi sarei da anni arrivare a comprendere quello che andava ad
insegnarmi. Disse che la sua istruzione era appena il principio, e che qualche
giorno finirebbe i suoi insegnamenti ma sotto condizioni differenti.
Gli domandai se lo disturbava che gli
facesse domande.
- Domanda quello che voglia - disse -.
Tutto quello che ho bisogno di te è che ti impegni a praticare. Dopo tutto, in
un modo o nell'altro già sai molto bene quello che trattiamo. I tuoi difetti
consistono in che non hai fiducia in te stesso ed in cui stai disposto a
reclamare la tua conoscenza come potere. Il nagual, essendo uomo, ti ipnotizzò.
Non puoi agire per il tuo proprio conto. Solo una donna può liberarsi di
quello.
‘Incomincerò raccontandoti la storia della
mia vita, e, facendolo, le cose ti chiariscono. Devo contartela in pezzetti, e
così dovrai venire dritto qui. '
La sua apparente disposizione a parlare
della sua vita mi sorprese perché era il contrario alla reticenza che gli altri
mostrava per rivelare qualunque cosa personale. Dopo anni di stare con essi, io
avevo accettato tanto indisputabilmente i suoi modi di fare che quello
tentativo volontario di rivelarmi la sua vita personale mi fu inquietante.
L'asseverazione mi mise immediatamente in guardia.
- Perdono - dissi -, disse lei che pensa
rivelarmi la sua vita personale?
- Perché no? - domandò.
Gli risposi con una lunga spiegazione di
quello che Don Juan si era detto circa l'opprimente forza della storia
personale, e della necessità che hanno i guerrieri di cancellarla. Conclusi
tutto dicendolo che Don Juan mi ero proibito terminantemente parlare della mia
vita.
Rise con una voce molto acuta. Sembrava
essere incantata.
- Quello si applica solo agli uomini -
disse -. Per esempio, il no-fare della tua vita personale consiste in
raccontare racconti interminabili ma nessuno di essi sulla tua vera identità.
Come vedi, essere uomo significa che hai una solida storia oltre a te. Hai
famiglia, amici, conosciuti, ed ognuno di essi ha un'idea definita di te.
Essere uomo significa che sei responsabile. Non puoi sparire tanto facilmente.
Per potere cancellare la tua storia hai bisogno di molto lavoro.
Il "mio caso è distinto. Essere donna
mi dà un splendido vantaggio. Non devo rendere conto. Sapevi tu che le donne
non devono rendere conti?
- Non so che cosa voglia dire con rendere conto
- dissi.
- Voglio dire che una donna può sparire
facilmente - rispose -. Una donna può, se non c'è più, sposarsi. La donna
appartiene al marito. In una famiglia con molti figli, le figlie si scartano
con facilità. Nessuno conto con esse e fino a è possibile che esse un giorno
spariscano senza lasciare rastrello. La sua sparizione si accetta con facilità.
"Un figlio, d'altra parte, è qualcosa
in quello che uno investe. Ad un figlio non gli è tanto facile sfuggire e
sparire. E nonostante se lo fa, lascia orme oltre a sé. Un figlio si sente
colpevole per sparire. Una figlia, no.
"Quando il nagual ti allenò a non dire
una parola circa la tua vita personale, quello che egli trattava era aiutarti a
vincere quell'idea che hai che facesti male alla tua famiglia ed i tuoi amici
che contavano con te di una forma o un'altra.
"Dopo avere lottato tutta una vita, il
guerriero finisce, ovviamente, cancellandosi, ma quella lotta lascia tacche
nell'uomo. Diventa riservato, sempre in guardia contro sé stesso. Una donna non
deve combattere con quelle privazioni. La donna è già preparata a svanire in
piena aria. E per certo, quello è quello che si aspetta che faccia presto o
tardi.
"Essendo donna, i segreti non mi
importano un cetriolo. Non mi sento obbligata a conservarli. L'ossessione per i
segreti è la maniera come pagano voi gli uomini per essere importanti nella
società. La contesa è solo per gli uomini, perché li offende il dovere
cancellarsi e trovano maniere curiose di riapparire, come sia, ogni tanto.
Guarda per esempio quello che a te te passa,; lì barella dando classi e
parlando con tutto il mondo.
Florinda mi mettevo nervoso di una maniera
molto peculiare. Mi sentivo stranamente inquieto nella sua presenza. Io
ammettevo senza vacillazione che anche Don Juan e Silvio Manuel mi facevano
sentire nervoso ed apprensivo, ma di una maniera molto distinta. In realtà li
aveva paura, specialmente a Silvio Manuel. Mi spaventavo e, tuttavia, aveva
imparato a vivere col mio terrore. Florinda non mi spaventavo. Il mio nervosismo
era piuttosto una specie di fastidio; mi sentivo scomodo con la sua franchezza
e garbo.
Ella non fissava il suo sguardo su me della
maniera come Don Juan e Silvio Manuel lo facevano. Essi mi scrutinavano sempre
fissamente fino a che io muovevo il viso in un gesto di sottomissione. Florinda
mi guardavo solo per un istante. I suoi occhi andavano continuamente di una
cosa all'altra. Sembrava esaminare non solo i miei occhi, bensì ogni centimetro
del mio viso e del mio corpo. Come parlava, i suoi occhi si muovevano, con
sguardi rapidi, del mio viso alle mie mani, o ai suoi piedi, o al soffitto.
- Non ti senti molto bene con me, verità? -
mi domandò.
Definitivamente la sua domanda mi prese per
sorpresa. Risi. Il suo tono non era bellicoso nella cosa più minima.
- Sì - dissi.
- Ah, è perfettamente comprensibile -
proseguì -. Sei abituato ad essere uomo. Per te la donna si fece solo per il
tuo uso. Tu credi che la donna è stupida di natura. Ed il fatto che sei uomo e
nagual ti fa ancora le cose più difficili.
Mi sentii obbligato a difendermi. Pensai
che era una dama ostinata e voleva dirsilo nel viso. Incominciai molto bene, ma
mi sgonfiai quasi subito sentendo la sua risata. Era una risata gioiosa e
giovanile. Don Juan e dono Genaro normalmente ridevano spesso di me di quella
maniera. Ma la risata di Florinda aveva una vibrazione distinta. Non c'era
nessuna premura, nessuna pressione in lei.
- Migliore vámonos dentro - disse -. Non
deve avere niente che ti distragga. Il nagual Juan Matus si è distrarsi già
quanto basta, si è mostrato il mondo; quell'era importante per quello che ti
doveva dire. Io devo altre cose dirti che richiedono un altro ambiente.
Ci sediamo su un sofà con sedili di cuoio,
in una stanza con porta al patio. Mi sentii lì molto a gusto. Immediatamente
ella cominciò con la storia della sua vita.
Mi disse che era nato nella Repubblica
Messicana, in una città abbastanza grande. La sua famiglia era sistemata. Come
era figlia unica, i suoi genitori la consentirono dal momento in cui nacque.
Senza nessun tratto di falsa modestia, Florinda ammise che seppe sempre che era
bella. Disse che la bellezza è un demonio che si genera e prolifera quando lo è
ammirato. Mi assicurò che poteva dire senza il minore dubbio che quello demonio
è il più difficile da vincere, e che se io esaminavo la gente bella troverebbe
gli esseri più infelici che possano immaginarsi.
Non voleva discutere con lei, ma aveva un
desiderio sommamente intenso di dirgli che era abbastanza dogmatica. Dovette
dare si racconta dei miei sentimenti. Mi strizzò un occhio.
- Sono esseri sfortunati, credimi lo -
continuò -. Spronali. Falloro sapere che non sei di accordo con la sua idea che
sono begli e per quel motivo importanti. Vedi quello che passa.
Florinda continuò con la sua storia. Disse
che non era possibile incolpare totalmente i suoi genitori o incolparsi lei
stessa per la sua presunzione. Tutti quelli che la circondavano dalla sua
infanzia avevano cospirato per farle sentire importante ed unica.
- Quando aveva quindici anni - proseguì -,
io ero sicuro di essere la cosa più squisita che pestò la terra. Tutto il mondo
me lo diceva, specialmente gli uomini.
Confessò che durante gli anni della sua
adolescenza godè del corteo e l'adulazione di numerosi ammiratori. Ai diciotto,
giudiziosamente decise di sposarsi col migliore candidato entri non meno di
undici seri pretendenti. Si sposò con Celestino, un uomo di risorse, quindici
anni maggiore che ella.
Florinda descriveva la sua vita di sposata
come il paradiso terreno. Al suo enorme circolo di amici aggiunse quelli di
Celestino. L'effetto totale era una vacanza perenne.
La sua estasi, tuttavia, durò solo sei
mesi, che passarono quasi senza notarsi. Tutto arrivò ad un fine della cosa più
ripida e brutale quando contrasse una malattia misteriosa e paralizante. Il
piede, caviglia e polpaccio della sua gamba sinistra incominciarono a
gonfiarsi. La sua bella figura si rovinò. Il gonfiore fu tanto intenso che non
potè camminare più. I tessuti cutanei incominciarono a gonfiarsi ed a
suppurare. Tutta la parte inferiore della sua gamba sinistra, del ginocchio
verso il basso, si riempì di croste e di una secrezione pestilente. La pelle si
indurì. E la malattia fu diagnosticata come elefantiasi. I tentativi che fecero
i medici per curarla furono rozzi e dolorosi, e la conclusione finale fu che in
Europa c'erano solo centri medici il sufficientemente avanzati per
intraprendere una cura.
In questione di tre mesi il paradiso di
Florinda si era trasformato in un inferno nella terra. Disperata ed in vera
agonia voleva morire prima che seguire così. La sua sofferenza era tanto
pratica che un giorno una domestica che non potè sopportare oramai più vederla
così, gli confessò che l'antico amante di Celestino l'aveva subornata affinché
gettasse un certo miscuglio nel suo cibo: un veleno manufatto per stregoni. La
domestica, come atto di contrizione, promise portarla con una guaritrice, una
donna che si diceva era l'unica che poteva resistere quello veleno.
Florinda rise ricordando il suo dilemma.
Era una devota cattolica. Non credeva in stregonerie né in guaritori indio. Ma
i suoi dolori erano tanto intensi, e la sua condizione tanto seria che stava
disposta a provare qualunque cosa. Celestino si opporsi decisamente. Voleva
inviare alla domestica alla prigione. Florinda intercedè, non tanto per
compassione bensì per paura di che non potesse trovare la guaritrice ella sola.
Florinda si mise improvvisamente in piede.
Mi disse che doveva andare via. Mi prese del braccio e mi condusse alla porta
come se io fossi il suo più antico e caro amico. Mi spiegò che mi trovavo
finito, poiché stare nella coscienza del lato sinistro è una condizione fragile
e speciale che deve usarsi parsimoniosamente; e, per certo, non è un stato di
potere. La prova risiedeva in che quasi io ero morto quando Silvio Manuel tentò
di raggruppare la mia seconda attenzione forzandomi ad entrare in lei. Florinda
mi disse che non c'è maniera in cui uno possa ordinare qualcuno, o ad uno
stesso, a fare quello che i guerrieri chiamano "ripiegare" la
conoscenza. Piuttosto quello è un tema lento; il corpo, nel momento adeguato ed
abbasso le appropriate circostanze di impeccabilità, raggruppa la sua
conoscenza senza l'intervento della volizione.
Rimaniamo nella porta principale per un
momento, scambiando commenti gradevoli e trivialità. Improvvisamente disse che
il nagual Juan Matus si era stato con lei da quello giorno perché egli sapeva
che stava per finire la sua permanenza nella terra. Le due forme di istruzione
che io avevo ricevuto, di accordo col piano di Silvio Manuel, si erano portati
già a termine. Tutto quello che rimaneva in attesa era quello che ella doveva
dire. Sottolineo che la sua non era propriamente un'istruzione parlando, bensì
piuttosto l'atto di stabilire un vincolo con lei.
La prossima volta che Don Juan mi portò
dove Florinda, un momento prima di lasciarmi nella porta mi ripetè che ella mi
ero detto già che si stava avvicinando il momento in che egli ed il suo gruppo
andavano ad entrare nella terza attenzione. Prima che potesse fargli domandi,
mi spinse all'interno della casa. Il suo spintone mi inviò non solo dentro alla
casa, ma anche dentro allo stato di coscienza più acuto. Vidi la parete di
nebbia.
Florinda si trovava nell'entrata. Mi prese
del braccio e silenziosamente mi portò alla sala. Prendiamo posto. Volli
iniziare una conversazione ma non potei parlare. Ella mi spiegò che un spintone
dato da un guerriero impeccabile, come il nagual Juan Matus, può causare lo
spostamento di un'a un'altra area della coscienza. Disse che sempre il mio
errore era consistito in credere che i procedimenti sono importanti. Il
procedimento di spingere un guerriero ad un altro stato di coscienza è
utilizzabile se entrambi i partecipanti, specialmente quello che spinge, sono
impeccabili e si trovano influenzati di potere personale.
Il fatto di stare vedendo la parete di
nebbia mi facevo sentire terribilmente nervoso. Il mio corpo tremava
incontrolablemente. Florinda disse che io tremavo perché aveva imparato ad
assaggiare il movimento, l'attività quando mi trovavo in quello stato di
coscienza, e che anche io potevo imparare ad assaggiare le parole, quello che
qualcuno si stesse dicendo.
Mi diede dopo la ragione per la quale era
conveniente essere posizionato nella coscienza del lato sinistro. Disse che
forzandomi ad entrare in un stato di coscienza accresciuta e permettendomi solo
di trattare coi suoi guerrieri quando mi trovavo in quello stato, il nagual
Juan Matus si stava assicurando che io avrei un punto di appoggio. La sua
strategia consisteva in coltivare una piccola parte dell'altra io riempendolo
premeditatamente di ricordi personali. Quelli ricordi si dimenticano solo
affinché qualche giorno risorgano e servano come quartiere di avamposto dal
quale partire verso l'incommensurabile vastità dell'altra io.
Come io ero tanto nervoso, Florinda propose
calmarmi proseguendo con la storia della sua vita che, mi chiarificò, non si
trattava della storia della sua vita come donna, ma era la storia di come una
donna deplorevole si era convertita in guerriera.
Mi disse che una volta che si risolse a
vedere la guaritrice, non ebbe oramai come fermarla. Iniziò il viaggio, portata
in una barella per la domestica e quattro uomini; fu un viaggio di due giorni
che cambiò il corso la sua vita. Non c'erano strade. Il terreno era montagnoso
ed a volte gli uomini dovettero caricarla nelle sue spalle.
Arrivarono al tramonto a casa della
guaritrice. Il posto si trovava ben illuminato e c'era lì molta gente. Florinda
mi disse che un signore anziano molto simpatico l'informò che la guaritrice era
uscita tutto il giorno a trattare un paziente. L'uomo sembrava essere molto
bene informato delle attività della guaritrice e Florinda trovò che gli era
molto facile parlare con lui. Era molto sollecito e gli confidò che egli anche
era malato. Descrisse la sua malattia come una condizione incurabile che lo
faceva dimenticarsi del mondo. Conversarono amichevolmente fino a che si fece
tardi. Il signore era tanto signorile che perfino gli cedè il suo letto
affinché ella potesse poggiare ed aspettare fino al giorno dopo, quando
ritornerebbe la guaritrice.
Nella mattina; Florinda disse che
improvvisamente la svegliò un dolore acuto nella gamba. Una donna lo muoveva la
gamba, pressandola con un pezzo di legno lucido.
- La guaritrice era una donna bella -
proseguì Florinda -. Guardò la mia gamba e mosse la testa. Già Lei chi ti fece
"questo", mi disse. "O gli hanno dovuto pagare molto bene, o ti
guardò e si rese conto che sei un sguattero stupida che vale madre. Come credi
che fosse"?
Florinda rise. Mi disse che la cosa unica
che gli fu successo fu che la guaritrice o era pazza o era una donna
grossolana. Non poteva concepire che qualcuno nel mondo potesse credere che
ella era un essere che non valesse niente. Perfino, malgrado si trovasse in
mezzo a dolori acuti, gli fece sapere della donna, senza misurare parole, che
ella era una persona ricca ed onorevole, e che nessuno poteva prenderla per
pagliaccia.
Florinda disse che la guaritrice cambiò
subito atteggiamento. Si sembrò aversi spaventato. Rispettosamente a lei si
diresse dicendogli "signorina", si alzò dalla sedia dove era seduta
ed ordinò che tutti uscissero dalla stanza. Quando furono sole, la guaritrice
si scagliò su Florinda, si sedette nel letto e lo spinse all'indietro la testa
sul bordo del letto. Florinda resistè con tutta la sua forza. credette che
l'andasse ad ammazzare. Volle gridare, mettere in guardia ai suoi domestici, ma
rapidamente la guaritrice lo coprì la testa con una ripara e lo coprì il naso.
Florinda annegava e dovette respirare con la bocca aperta. Quanto più lo
pressava il petto la guaritrice e quanto più gli stringeva il naso, Florinda
apriva sempre di più la bocca. Quando notò quello che realmente la guaritrice
stava facendo, aveva bevuto già tutto lo schifoso liquido che conteneva una gran
bottiglia che la guaritrice l'aveva collocato nella bocca. Florinda commentò
che la guaritrice l'aveva maneggiata tanto bene che neanche ella si ingozzò
malgrado la sua testa pendesse ad un lato dal letto.
- Bevvi tanto liquido che stetti per
vomitare - continuò Florinda -. La guaritrice mi fece sedere e mi guardò
fissamente agli occhi, senza sbattere le palpebre. Io volevo mettermi il dito
nella gola e vomitare. Mi diede sentieri schiaffi fino a che mi sanguinarono le
labbra. Un'indiana dandomi di schiaffi! Tirando fuori mi sanguini delle labbra!
Mio padre o mia madre mi avevano messo neanche sopra le mani. La mia sorpresa
fu tanto enorme che mi dimenticai della nausea.
"Chiamò la mia gente e disse loro che
mi portassero a casa. Poi si inclinò su me e mi mise la bocca nell'udito
affinché nessuno più potesse sentirla. ‘Bensì ritorni in nove giorni, stupido
', mi sussurrò, ‘gonfi come rospo e che Dio ti protegga da quello che si
aspetta '.
Florinda mi contò che il liquido l'aveva
irritato la gola e le corde vocali. Non poteva emettere una sola parola. Questa
era, tuttavia, la minorenne delle sue preoccupazioni. Quando arrivò a casa sua,
Celestino l'aspettava, frenetico, vociferando pieno di rabbia. Come non poteva
parlare, Florinda ebbe la possibilità di osservarlo. Notò che la sua ira non si
doveva ad una preoccupazione per lo stato di salute di lei, era piuttosto
un'inquietudine dovuto alla paura che i suoi amici si prendessero gioco di lui.
Essendo uomo benestante e di posizione sociale, non poteva tollerare che lo
considerassero come qualcuno che ricorre a guaritrici indio. Con urla,
Celestino gli disse che si lamenterebbe al comandante dell'esercito e che
farebbe che i soldati catturassero la guaritrice e la portassero al paese per
frustarla e metterla nella prigione. Queste non furono minacce vane; in realtà,
Celestino obbligò il comandante affinché inviasse una pattuglia a catturare la
guaritrice. I soldati ritornarono dopo alcuni giorni con la notizia che la
donna era fuggita.
La domestica tranquillizzò a Florinda
assicurandolo che la guaritrice starebbe aspettandola se ella si arrischiava a
ritornare. Benché l'infiammazione della gola persistesse al punto che non
poteva ingerire cibo solido ed appena poteva prendere liquidi, Florinda non
vedeva l'ora di girare alla guaritrice. La medicina aveva mitigato il dolore
della sua gamba.
Quando fece conoscere le sue intenzioni a
Celestino, questo diventò tanto furioso che assunse certe persone affinché
l'aiutasse a mettere fine per sé stesso a tutta quell'insensatezza. L'e tre dei
suoi uomini di fiducia uscirono prima a cavallo che ella.
Quando Florinda arrivò a casa della
guaritrice, sperava di trovarla chissà morta, ma invece di quello trovò a
Celestino seduto, assolo. Aveva inviato ai suoi uomini a tre distinti posti
della rotta con ordini di portare alla guaritrice, per mezzo della forza se
quell'era necessario. Florinda riconobbe l'anziano che aveva conosciuto la
volta anteriore, lo vide come tentava di calmare a Celestino, assicurandolo che
alcuno degli uomini ritornerebbe magari presto con la donna.
Non appena Florinda fu posizionato in un
letto nell'entrata della casa, la guaritrice uscì da una stanza. Incominciò ad
insultare a Celestino, gridando egli oscenità fino a che egli si indignò tanto
che si lanciò a batterla. L'anziano lo contenne e lo supplicò che non gli
attaccasse. Glielo implorò di ginocchia, facendo vederlo che la guaritrice era
già una donna di età. Celestino non si commosse. Disse che benché fosse
vecchia, egli l'andava a frustare con le redini del suo cavallo. Avanzò per
afferrarlo, ma si trattenne in secco. Sei uomini di apparenza temibile uscirono
di dietro i cespugli brandendo machete. Florinda mi disse che il terrore
paralizzò a Celestino nel posto dove si trovava. Rimase mortalmente pallido. La
guaritrice andò da lui e gli disse che o docilmente si lasciava che ella gli
desse di fruste nel posteriore, o i suoi aiutanti lo farebbero pezzi. In un
momento, la guaritrice lo ridusse a niente. Rise di lui nel suo viso. Sapeva
che l'aveva dominato e lo lasciò affondare. Lo stesso si mise nella trappola -
proseguì Florinda -, come buon stupido imprudente che era, ubriacato con le sue
idee bonaccione di essere uomo benestante e di posizione sociale. Con tutta la
cosa orgogliosa che era, Celestino si incurvò docilmente affinché lo
frustassero.
Florinda mi guardò e sorrise. Stette in
silenzio durante alcuni momenti.
- Il primo principio dell'arte di spiare è
che i guerrieri scelgono il suo campo di battaglia - mi disse -. Un guerriero
entra solo in battaglia quando sa tutto quello che può circa il campo di lotta.
Nella battaglia con Celestino, la guaritrice mi insegnò il primo principio di
spiare.
"Dopo, ella si avvicinò a dove mi
avevano coricato. Io piangevo perché era la cosa unica che poteva fare. Ella
sembrava preoccupata. Mi coprì le spalle con mio ripara e sorrise e mi strizzò
un occhio."
Segue "ancora il trattamento, vecchia
stupida", disse. ‘Ritorna non appena possa se è che vuoi continuare a
vivere. Ma non portare al tuo modello con te, vecchia reputa. Porta nient'altro
al quale siano assolutamente necessario '.
Florinda fissò i suoi occhi a me per un
momento. Del suo silenzio conclusi che aspettava commenti.
- Eliminare tutta la cosa non necessaria è
il secondo principio dell'arte di spiare - disse, senza darmi tempo di dire
niente.
Io ero tanto assorto nella sua narrazione
che non mi ero reso conto che la parete di nebbia era sparita, semplicemente
notai che non stava oramai lì. Florinda si alzò dalla sua sedia e mi portò alla
porta. Lì rimaniamo un momento, come avevamo fatto alla fine di nostro primo
incontro.
Florinda disse che anche l'ira di Celestino
aveva permesso alla guaritrice di dimostrargli - non alla sua ragione, bensì al
suo corpo - i primi tre precetti della regola per acechadores. Benché la sua
mente fosse concentrata esclusivamente in lei stessa, poiché niente esisteva
per lei a parte il suo dolore fisico e dell'angoscia di perdere la bellezza, il
suo corpo sé potè riconoscere tutto quello che accadde; e più tardi tutto
quella che necessitò fu una lieve reminescenza al fine di collocare ogni cucia
nel suo posto.
- I guerrieri non hanno al mondo affinché
li protegga, come l'hanno altre persone, e così devono avere la regola -
proseguì -. Tuttavia, la regola degli acechadores si applica a chiunque.
"L'arroganza di Celestino fu la sua
rovina ed il principio della mia istruzione e liberazione. La sua importanza
personale che era anche la mia, ci forzò ai due a credere che praticamente
stavamo al di sopra di tutti. La guaritrice ci scese a quello che siamo in
realtà: niente.
"Il primo precetto della regola è che
tutto quello che ci circonda è un mistero insondabile.
"Il secondo precetto della regola è
che dobbiamo tentare di decifrare quelli misteri, ma senza avere la minore
speranza di riuscirlo.
"Il terzo è che un guerriero,
cosciente dell'insondabile mistero che lo circonda e cosciente del suo dovere
di tentare di decifrarlo, prende il suo legittimo posto tra i misteri ed egli
stesso si considera uno di essi. Quindi, per un guerriero il mistero di essere
non ha fine, benché essere significhi essere una pietra o una formica o uno
stesso. Quella è l'umiltà del guerriero. Uno è uguale a tutto.
Ebbe luogo un silenzio lungo e forzato.
Florinda sorrise, giocando con la punta della sua lunga treccia. Mi disse dopo
che avevamo parlato già quanto basta.
La terza volta che andai a vedere a
Florinda, Don Juan non mi lasciò nella porta, ma entrò con me. Tutti i membri
del suo gruppo erano congregati nella casa, e mi salutarono come se fosse il
figlio prodigo che ritorna alla casa dopo un lungo viaggio. Fu un evento
squisito che integrò a Florinda col resto di essi nei miei sentimenti, dato che
era la prima volta che ella li era uniti quando io ero presente.
La seguente volta che andai a casa di Florinda,
Don Juan mi spingo come l'aveva fatto inaspettatamente prima. La mia sorpresa
fu immensa. Florinda mi aspettavo nell'entrata. Istantaneamente io ero entrato
nello stato nel quale è visibile la parete di nebbia.
- Ti ho contato come mi insegnarono i
principi dell'arte di spiare - disse, non appena prendiamo posto nel sofà della
sua sala -. Ora, tu devi fare la stessa cosa. Come te li insegnò il nagual Juan
Matus?
Gli dissi che non poteva ricordare subito.
Doveva pensare, e non poteva pensare. Il mio corpo era spaventato.
- Non complicare le cose - mi disse con
tono autoritario -. Il tiro è la semplicioneria. Applica tutta la
concentrazione che hai per decidere se entri o non nella battaglia, perché ogni
combatte è di vita o morte. Questo è il terzo principio dell'arte di spiare. Un
guerriero debito di essere disposto ed elenco per entrare nella sua ultima
battaglia, al momento ed in qualunque posto. Ma non così nomás alla matta.
Io non potevo organizzare i miei pensieri.
Allungai le gambe e mi stesi nel sofà. Inalai profondamente varie volte per
calmare l'agitazione del mio stomaco che sembrava stare fatti nodi.
- Bene - disse Florinda -, vedo che stai
applicando il quarto principio dell'arte di spiare. Riposa, dimenticati di te
stesso, non avere paura di niente. Solo allora i poteri che ci guidano ci fanno
la strada e ci soccorrono. Solo allora.
Lottai per ricordare come Don Juan mi ero
abituato i principi dell'arte di spiare. Per aluna ragione inspiegabile la mia
mente si ricusava a concentrarsi su esperienze passate. Don Juan era solo un
vago ricordo. Mi misi in piede ed incominciai ad esaminare il salone.
La stanza in che ci trovavamo era stata
sistemato squisitamente. Il piano era fatto con grandi mattonelle di colore di
davanti a; quello che lo fece dovette essere un eccellente artigiano. Stava per
esaminare i mobili. Avanzai verso un bel tavolo marrone oscuro. Florinda saltò
al mio fianco e mi scosse vigorosamente.
- Hai applicato correttamente il quinto
principio dell'arte di spiare - disse -. Non ti lasciare portare per la
corrente.
- Quale è il quinto principio?
- Quando affrontano una forza superiore con
la quale non possono combattere, i guerrieri si ritirano per un momento - disse
-. Lasciano che i suoi pensieri corrano liberamente. Si occupano di altre cose.
Qualunque cosa può servire.
"Quello è quello che hai appena fatto.
Ma ora che lo sei riuscito, devi applicare il sesto principio: i guerrieri
comprimono il tempo, tutto conta, benché sia un secondo. In una battaglia per
la tua vita, un secondo è un'eternità, un'eternità che può decidere la
vittoria. I guerrieri tentano di trionfare, pertanto comprimono il tempo. I
guerrieri non sprecano né un istante.
Improvvisamente, un'enormità di ricordi
erupcionó nella mia mente. Agitatamente dissi a Florinda che poteva ricordare
già la prima volta che Don Juan mi mise in contatto con quelli principi.
Florinda si mise le dita nelle labbra con un gesto che esigeva il mio silenzio.
Disse che era stato solo interessata in mettermi faccia a faccia coi principi,
ma che non voleva che gli raccontasse quelle esperienze.
Florinda continuò la sua storia. Mi disse
che mentre la guaritrice l'esortava a che ritornasse senza Celestino, le fece
anche bere un decotto che l'alleviò quasi istantaneamente il dolore, e sussurrò
all'udito che ella, Florinda, per il suo proprio conto, doveva prendere una
decisione importante. Doveva, pertanto, calmarsi occupando la sua mente in
altre cose, ma che non sprecasse né un momento, una volta che sarebbe arrivato
ad una decisione.
In casa, Florinda, con una convinzione
infrangibile, espose il suo desiderio di ritornare. Celestino non vide come
opporsisi.
- Quasi immediatamente ritornai a vedere la
guaritrice - continuò Florinda -. Quella volta andammo a cavallo. Mi portai ai
domestici in chi più confidava, la ragazza che mi ero dato il veleno ed un uomo
che si incaricasse dei cavalli. La passiamo molto dura in quelle montagne; i
cavalli erano molto nervosi per la pestilenza della mia gamba, ma come voglia
potemmo arrivare. Senza saperlo aveva utilizzato il terzo principio dell'arte
di spiare. Mi ero giocato la vita, o quello che rimanevo di lei. Era disposta
ed elenca per morire. Non fu una gran decisione della mia parte, in qualche
modo già stava morendo. La verità è che quando un essere umano è mezzo morto,
come nel mio caso, non con grandi dolori ma sì con grandi scomodità e
sofferenze emozionali, uno tende ad essere tanto indolente e debole che nessun
sforzo è possibile.
Rimasi sei giorni in casa della guaritrice.
Per il secondo giorno mi sentivo già meglio. Abbassò il gonfiore. Egli trasudo
della gamba si era asciugato. Non aveva oramai più dolore. Mi trovavo solo un
tanto debole e le ginocchia mi tremavano quando voleva camminare.
"Durante il sesto giorno la guaritrice
mi portò alla sua stanza. Mi trattò molto cerimoniosamente e, mostrandomi tutte
le considerazioni, mi fece sedere sul suo letto e mi diede caffè. Si sedette ai
miei piedi guardandomi agli occhi. Posso ricordare esattamente le sue parole.
‘Stai molto, ma molto malata e solo io posso curarti ', mi disse. ‘Se io non ti
curo, morrai in una maniera orripilante. Dato che sei un'imbecille, duri fino
alla cosa ultima. D'altra parte, io potrei curarti in un solo giorno, ma non lo
faccio. Devi continuare a venire qui fino a che abbia compreso quello che devo
insegnarti. Solo fino ad allora ti curerò completamente; altrimenti, essendo
tanto imbecille come sei, non ritorneresti mai '.
Florinda mi contò che la guaritrice, con
gran pazienza, gli spiegò i punti più delicati della sua decisione di aiutarla.
Florinda non capì una sola parola. La
spiegazione le fece credere più che mai che la guaritrice era fanatica.
Quando la guaritrice si rese conto che
Florinda non la capiva, diventò più seria e le fece ripetere un ed un'altra
volta, come se Florinda fosse una bambina che senza l'aiuto della guaritrice la
sua vita stava finita, e che la guaritrice poteva decidere in qualunque momento
di cancellare la cura e lasciarle morire. Infine, la donna perse la pazienza
quando Florinda incominciò a chiedergli di ginocchia che finisse di curarla e
che l'inviasse a casa con la sua famiglia. La guaritrice prese una bottiglia
che tratteneva la medicina da Florinda e la gettò nel suolo.
Florinda diceva che allora rovesciò le
uniche lacrime vere della sua vita. Espresse la guaritrice che tutto quello che
voleva era curarsi e che era disposta a pagargli quello che chiedesse. La donna
gli disse che era già molto tardi per un pagamento monetario, non voleva il suo
denaro, quello che voleva era che Florinda gli prestasse attenzione.
Florinda ammetteva che ella aveva imparato,
nel decorso della sua vita, ad ottenere tutto quello che desiderava. Sapeva
come essere ostinata, disse alla guaritrice che sicuramente quantità di
pazienti arrivavano tutti i giorni, mezzo morti come ella, e la guaritrice sé
accettava il suo denaro... per che il suo caso era distinto? La risposta della
guaritrice che ferma Florinda non spiegò niente, era che essendo una veggente,
ella aveva visto il corpo luminoso di Florinda, e vide che ella e la guaritrice
erano esattamente uguali. Florinda pensò che quella donna doveva essere pazza
per non dare si racconta che c'era un mondo di differenza tra le due. La
guaritrice era una volgare indiana primitiva senza educazione, mentre Florinda
era ricco, bello e bianco.
Florinda domandò alla guaritrice che
decideva di fare con lei. La guaritrice gli disse che gli era stato incaricato
curarla e dopo insegnargli qualcosa di somma importanza. Florinda volle sapere
chi gli aveva incaricato tutto quello. La guaritrice gli rispose che l'Aquila.
. . , questa risposta convinse a Florinda che la donna era pazza, e tuttavia
dovette accedere. Disse alla donna che era disposta a fare quello che fosse.
La guaritrice cambiò istantaneamente
atteggiamento. Impacchettò un rimedio affinché Florinda lo portasse a casa e
gli disse che ritornasse non appena potesse.
- Come sai già - proseguì Florinda -, il
maestro deve raggirare il suo discepolo. Mi imbrogliò con la cura. Ella aveva
ragione. Io ero tanto idiota che se ella si fosse curata immediatamente, io
sarei ritornato alla mia stupida vita, come se non mi fosse successo mai
niente. Ma quello è quello che tutti fanno, no?
Florinda ritornò a casa della guaritrice la
settimana seguente. Arrivando si trovò con l'anziano che prima aveva
conosciuto. Questo la salutò come se fossero intimi amici. Gli disse che faceva
già vari giorni che la guaritrice era uscita, ma che ritornerebbe fino a dopo
alcuni giorni e che gli aveva incaricato alcuni rimedi per il dolore della sua
gamba. In un tono molto amichevole ma autoritario disse a Florinda che
l'assenza della guaritrice le lasciava a lei con due possibilità di azione:
oppure si ritornava a casa sua, possibilmente peggiorata dovuto al viaggio
tanto faticoso, oppure poteva seguire accuratamente le istruzioni delineate che
la guaritrice aveva lasciato per lei. Aggiunse che se decideva di rimanere ed
iniziare immediatamente il suo trattamento, in tre o quattro mesi starebbe come
notizia. Tuttavia, c'era una stipulazione: se decideva di rimanere doveva
rimanere in casa della guaritrice otto giorni consecutivi e, quindi, doveva
disfarsi dei suoi domestici comandandoli a casa.
Florinda diceva che per lei non c'era
decisione alcuna: doveva rimanere. Immediatamente il vecchio gli fece bere la pozione
che apparentemente la guaritrice gli aveva lasciato. Rimase conversando con lei
la maggior parte della notte. La sua presenza l'ispirava fiducia, la sua amena
conversazione infiammò l'ottimismo e l'animo di Florinda.
I due domestici andarono al giorno dopo,
dopo avere fatto colazione. Florinda non aveva la minore paura. Si fidava
implicitamente dell'uomo. Questo gli disse che doveva costruire una scatola per
il suo trattamento, di accordo con le istruzioni della guaritrice. Le fece
sedere su una sedia bassa che era stato posizionata nel centro di un'area
circolare sprovvista di vegetazione. L'anziano presentò a tre giovani e disse
che erano i suoi aiutanti. Due erano indio ed il terzo bersaglio.
I quattro incominciarono a lavorare ed in
meno di un'ora costruirono una scatola intorno alla sedia dove Florinda era
seduta. Quando finirono, Florinda rimase compattamente incassato. La scatola
aveva una cancellata nella parte superiore per permettere la ventilazione. Uno
dei lati aveva cardini affinché servisse da porta.
L'anziano aprì la porta ed aiutò a Florinda
ad uscire dalla scatola, e la portò alla casa a che l'aiutasse a preparare la
sua propria medicina. Disse che voleva avere la medicina intelligente per
quando arrivasse la guaritrice.
A Florinda l'affascinò la maniera il
vecchio come lavorava. Questo fece un miscuglio con piante di odore fetido e lo
preparò un recipiente con liquido caldo. Suggerì che se introduceva la gamba
nel recipiente, il caldo del liquido gli farebbe molto bene, e se voleva fino a
potrebbe bere il miscuglio che l'aveva preparato, prima che questa perdesse
potenza. Florinda obbedì a fare domande. Il sollievo che sentì fu meraviglioso.
Dopo il vecchio gli assegnò una stanza e
fece che i giovani mettessero la scatola dentro la stanza. Gli disse che
potrebbero passare vari giorni senza che ritornasse la guaritrice; mentre, ella
doveva seguire meticolosamente tutte le istruzioni che la donna aveva dato.
Florinda fu di accordo, ed egli tirò fuori una lista con compiti. Queste
includevano lunghe camminate al fine di raccogliere le piante medicinali
richieste per il suo trattamento, e la sua assistenza in prepararli.
Florinda mi contò che passò lì dodici
giorni invece di otto, perché i suoi domestici si trattennero in ritornare a
causa di alcune piogge torrenziali. Non fu bensì fino al decimo giorno che si
rese conto che la guaritrice era stata in casa tutti quelli giorni e che il
vecchio in realtà era il vero guaritore.
Florinda rise descrivendo la sua sorpresa.
Il signore gli aveva giocato un inganno al fine di farle partecipare
attivamente alla sua propria cura. Più ancora, sotto il pretesto che così la
guaritrice l'esigeva, la mise nella scatola almeno sei ore giornaliere affinché
compiesse un compito specifico che chiamò la "ricapitolazione."
In quello punto della sua narrazione,
Florinda mi guardò fissamente e concluse che era ora che andassi via.
Nel nostro seguente incontro, Florinda mi
spiegò che l'anziano era il suo benefattore, e che ella era la primo
accecatrice che le donne del gruppo del suo benefattore avevano trovato per il
nagual Juan Matus. Ma niente di questo ella sapeva a quel tempo, malgrado il
suo benefattore le facesse cambiare livelli di coscienza e gli rivelò tutto
quello. Ella era stata sempre bella; l'educarono solo affinché traesse
vantaggio di ciò e quell'era un impenetrabile salvaguarda che il verso
invulnerabile al cambiamento.
Il suo benefattore sapeva tutto questo e
concluse che Florinda aveva bisogno di più tempo per cambiare. Concepì un piano
per per tirarsi fuori a Celestino di sopra. A poco a poco fece vedere a
Florinda certi aspetti della personalità di Celestino che ella non ebbe mai il
valore di affrontare per il suo proprio conto. Celestino era molto possessivo
con tutto quello che gli apparteneva: il suo denaro e Florinda si trovavano
nella cosa più alta della sua gerarchia. Era stato forzato a divorarsi il suo
orgoglio dopo l'umiliazione che soffrì con l'intervento della guaritrice,
perché questa riscuoteva molto poco e Florinda stava evidentemente rimettendosi.
Celestino stava sperando che gli arrivasse l'ora della sua vendetta.
Florinda mi disse che un giorno il suo
benefattore gli espose che il pericolo poggiava in che il suo recupero completo
andava ad essere troppo rapida e che Celestino deciderebbe, poiché egli
prendeva tutte le decisioni della casa che non c'era oramai nessuna necessità
che Florinda vedesse la guaritrice. Per risolvere quello problema, diede a
Florinda una pomata, con istruzioni che gliela applicasse nell'altra gamba.
L'unguento aveva un cattivo odore e produceva un'irritazione nella pelle che
somigliava la proliferazione della malattia. Il suo benefattore lo raccomandò
che l'usasse ogni volta che volesse ritornare a vederlo, benché non avesse
bisogno di trattamento.
Florinda mi contò che tardò un anno a
curarsi. Nel decorso di quello tempo, il suo benefattore gli fece conoscere la
regola e l'istruì nell'arte di spiare. Le fece applicare i principi
dell'agguato nelle cose che faceva giornalmente; le cose piccole in primo
luogo, fino ad arrivare alle questioni principali della sua vita.
Nel decorso di quell'anno, anche il suo
benefattore la presentò col nagual Juan Matus. La prima impressione che
Florinda ebbe di lui, fu che era un giovane spiritoso e contemporaneamente
molto serio. Dopo, quando lo conobbe più a fondo, lo vide l'uomo più indomabile
e terrificante che come aveva conosciuto mai. Mi disse che il nagual Juan Matus
fu chi l'aiutò a scappare da Celestino. L'e Silvio Manuel la passarono di
contrabbando attraverso i posti di ispezione dell'esercito. Celestino aveva
presentato una domanda legale di abbandono di casa e, come era un uomo
influente, aveva utilizzato le sue risorse per tentare di ostacolare che ella
l'abbandonasse.
A causa di questo, il suo benefattore
dovette stabilirsi in un'altra parte del Messico ed ella dovette rimanere
nascosta con lui per anni; questa situazione fu appropriata per Florinda,
poiché doveva portare a termine il compito di ricapitolare, e ferma ciò
richiedeva assoluta quiete e solitudine.
Mi spiegò che la ricapitolazione è la forte
degli acechadores, allo stesso modo come il corpo di sogno è il forte degli
ensoñadores. Consisteva in ricordare la vita di uno fino al dettaglio più
insignificante. Per ciò il suo benefattore gli aveva dato l'enorme scatola di
legno come simbolo ed attrezzo. Era un attrezzo che gli permise di imparare a
concentrarsi; dovette sedersi lì durante vari anni, fino a che tutta la sua
vita passò davanti ai suoi occhi. Ed era un simbolo degli stretti limitrofo
della nostra persona. Il suo benefattore gli disse che quando avesse finito la
ricapitolazione doveva rompere la scatola per simbolizzare che non era oramai
soggetta alle limitazioni della sua persona.
Mi disse che gli acechadores usa scatole o
bare di terra per rinchiudersi dentro ad essi mentre rivivono, perché non si
tenta solo di ricordare ogni momento delle sue vite. La ragione per la quale
gli acechadores deve ricapitolare le sue vite di forma tanto meticolosa è che
il dono dell'Aquila all'uomo include la buona volontà di accettare un sostituto
invece della coscienza genuina, se in realtà tale sostituto è una replica
perfetta. Florinda mi spiegò che poiché la coscienza è l'alimento dell'Aquila,
questa può rimanere soddisfatta con una ricapitolazione perfetta invece della
coscienza stessa.
Florinda mi diede allora gli aspetti
fondamentali della ricapitolazione. Disse che la prima tappa consiste in un
breve calcolo di tutti gli incidenti delle nostre vite che si prestano al
nostro scrutinio in una maniera palese.
La seconda fase è un calcolo più
dettagliato che incomincia in un punto che potrebbe essere il momento previo a
che l'acechador prenda posto nella scatola, e sistematicamente si estende,
almeno in teoria, fino allo stesso momento della nascita.
Mi assicurò che una ricapitolazione
perfetta poteva cambiare ancora ad un guerriero più che il controllo totale del
corpo di sogno. In questo aspetto, trasognare e spiare conducono alla stessa
fine: l'entrata nella terza attenzione. Tuttavia, per un guerriero era
importante conoscere e praticare ambedue. Mi disse che una donna può dominare
solo uno dei due, secondo le configurazioni nel corpo luminoso. D'altra parte,
gli uomini possono praticare ambedue con gran facilità, ma non arrivano mai ad
ottenere il livello di efficacia che le donne riescono in ogni arte.
Florinda mi spiegò che l'elemento chiave
ricapitolando era la respirazione. L'alito, per lei, era magico, perché si
trattava di una funzione che dà la vita. Disse che ricordare diventa facile se
uno può ridurre l'area di stima intorno al corpo. Per quel motivo deve usarsi
la scatola; dopo, la respirazione stessa fomenta sempre di più ricordi
profondi.
In teoria, gli acechadores deve ricordare
ogni sentimento che hanno avuto nelle sue vite, e questo processo incomincia con
una respirazione. Florinda mi notò che tutto quello che si stava abituando
erano solo i preliminari che, qualche giorno nel futuro ed in un posto
distinto, mi abituerei la cosa più intricata.
Florinda mi contò che il suo benefattore
incominciò facendole compilare una lista degli eventi per rivivere. Gli disse
che il procedimento comincia con una respirazione iniziale. Gli acechadores
incomincia ogni sessione col mento nella spalla destra e lentamente inalano
mentre muovono la testa in un arco di cento ottanta gradi. La respirazione
conclude sulla spalla sinistra. Una volta che l'inalazione finisce, la testa
ritorna alla posizione frontale ed esalano guardando verso davanti.
Allora gli acechadores prende l'evento che
si trova alla testa della lista e rimangono lì fino a che sono stati ricontati
tutti i sentimenti invertiti in lui. Man mano che ricordano inalano lentamente
muovendo la testa della spalla destra al sinistra. Questa respirazione compie
la funzione di restaurare l'energia. Florinda sosteneva che costantemente il
corpo luminoso creda filamenti che somigliano ragnatele, e che questi sono
stimolati esternamente della massa luminosa per emozioni di qualunque tipo.
Pertanto, ogni situazione nella quale c'è azione sociale, od ogni situazione a
cui partecipano i sentimenti è potenzialmente spossante per il corpo luminoso.
Respirando di destra a sinistra, quando si ricorda un avvenimento gli
acechadores, attraverso la magia della respirazione, raccolgono i filamenti che
lasciarono dietro. La seguente immediata respirazione è di sinistra a destra, e
è un'esalazione. Con lei, gli acechadores espelle i filamenti che altri corpi
luminosi che dovettero vedere nell'avvenimento che si ricorda, lasciarono in
essi.
Florinda affermò che questi erano i
preliminari obbligatori dell'agguato, per quello che tutti i membri del suo
gruppo dovettero passare come introduzione agli esercizi più esigenti di
quell'arte. Non sia che gli acechadores abbia passato per questi preliminari al
fine di recuperare i filamenti che lasciarono nel mondo, e particolarmente al
fine di scartare quelli che altri esseri luminosi lasciarono in essi, non c'è
possibilità di maneggiare lo sproposito controllato. Quelli filamenti altrui
sono la base della nostra illimitata capacità di sentirci importanti. Florinda
manteneva che per praticare lo sproposito controllato, posto che cosa non è
fatto per ingannare la gente, uno deve essere capace di ridere di sé stesso.
Florinda mi disse che uno dei risultati della ricapitolazione dettagliata è la
capacità di esplodere in risata genuina quando uno si trova faccia a faccia con
le noiose ripetizioni che l'io personale fa circa la sua importanza.
Florinda sottolineava che la regola
definiva l'agguato ed il sogno come arti, pertanto, erano qualcosa che uno
mette in opera, qualcosa che uno porta a termine. Diceva che la natura
intrinseca dell'alito è dare vita, e che quello è quello che gli dà capacità di
pulire il corpo luminoso. Questa capacità è quella che trasforma alla
ricapitolazione in una questione pratica.
Nel nostro seguente incontro, Florinda
riassunse quello che chiamò le sue istruzioni di ultimo minuto. Affermò che,
dato che il mutuo accordo del nagual Juan Matus e del suo gruppo di guerrieri
era stato che io non dovevo trattare col mondo della vita quotidiana, mi
avevano insegnato a trasognare e non a spiare. Mi spiegò che quella decisione
si era modificata radicalmente, e che essi si erano visti in una posizione
scomoda: non avevano oramai tempo per insegnarmi a spiare. Ella doveva rimanere
nella periferia della terza attenzione, per potere compiere in una volta questo
compito posteriore, quando io fossi pronto. D'altra parte, se io potessi
abbandonare il mondo con essi, a lei lo sarei esonerato da quella
responsabilità.
Florinda mi disse che il suo benefattore
considerava le tre tecniche basilari dell'agguato - la scatola, la lista di
eventi a ricapitolare, e la respirazione dell'acechador - come le tre compito
più importanti che un guerriero può portare a termine. Il suo benefattore era
convinto che una ricapitolazione profonda è il mezzo più spedito per perdere la
forma umana. Di lì che è loro più facile agli acechadores, dopo avere
ricapitolato le sue vite, fare uso di tutti i non-fare dell'io personale, come
sono cancellare la storia personale, perdere l'importanza in uno stesso,
rompere le routine, eccetera.
Florinda mi disse che il suo benefattore
diede a tutti essi esempi pratici di ognuna degli aspetti della sua conoscenza.
Agiva direttamente di accordo con le sue premesse di guerriero, e dopo dava
loro le ragioni di guerriero per avere agito dal tale modo. Nel caso di
Florinda, essendo egli un maestro dell'arte di spiare, montò l'inganno della
malattia e la cura che non era solo congruente con le azioni del guerriero, ma
rappresentava un'introduzione magistrale ai sette principi basilari dell'arte
di spiare. Primo attrasse a Florinda al campo di battaglia di lui, dove ella si
trovava alla sua grazia; la forzò ad eliminare tutto quello che non gli era
essenziale, gli insegnò a giocarsi la vita con ogni decisione, gli insegnò come
calmarsi, le fece entrare in un nuovo ed ottimista stato di coraggio al fine di
aiutarla a raggruppare le sue risorse, gli insegnò a comprimere il tempo, e,
infine, gli mostrò che un acechador non lascia mai vedere il suo gioco, non si
mette mai di fronte a niente.
Florinda si impressionò vivamente con
questo ultimo principio. Per lei, questo condensava tutto quello che mi volevo
dire nelle sue istruzioni di ultimo minuto.
- Il mio benefattore era il capo - disse
Florinda -. E, tuttavia, guardandolo, nessuno l'avrebbe creduto. Metteva sempre
come di fronte ad una di suoi guerriere, mentre egli, con ogni libertà,
frequentava i pazienti fingendo essere uno di essi; o, se no, si faceva passare
per un vecchio senile che costantemente scopava le foglie secche con una scopa
casalinga.
Florinda mi spiegò che per applicare il
settimo principio dell'arte di spiare, bisogna applicare gli altri sei. Il suo
benefattore viveva di quello modo. Meticolosamente i sette principi applicati
gli permettevano di osservare tutto senza essere il punto di messa a fuoco.
Grazie a ciò poteva evitare o fermare conflitti. Se c'era una disputa, questa
non aveva mai a che vedere con lui, bensì con la che agiva come dirigente, la
guaritrice.
- Spero che per quegli altezze faggi dato
conto - continuò Florinda - che solo un maestro acechador può essere un maestro
dello sproposito controllato. Lo sproposito controllato non significa
imbrogliare la gente. Significa, come me lo spiegò il mio benefattore che i guerrieri
applicano i sette principi basilari dell'arte di spiare in qualunque cosa che
fanno, da, gli atti più triviali fino alle situazioni di vita o morte.
"Applicare questi principi produce tre
risultati. Il primo è che gli acechadores impara a mai prendersi sul serio:
imparano a ridere di se stessi. Dato che non hanno paura di fare la figura di
tonta, possono fare tonto a chiunque. Il secondo è che gli acechadores impara
ad avere una pazienza senza fine. Gli acechadores non ha mai fretta, non si
irritano mai. Ed il terzo è che gli acechadores impara ad avere una capacità
infinita per improvvisare.
Florinda si mise in piede. Come di
abitudine, eravamo stati seduti nella sala. All'istante supposi che la
conversazione aveva concluso. Mi disse che c'era un altro tema più che doveva
presentarmi, prima di licenziarci. Mi portò ad un altro patio dentro la casa.
Non era stato mai prima lì. Florinda richiamò qualcuno in voce molto rimane ed
una donna uscì dalla sua stanza. Per un momento non la riconobbi. La donna mi
parlò ed allora notai solo che si trattava di signora Soledad. Il suo
cambiamento era stupendo. Si vedeva incredibilmente più giovane, più forte.
Florinda mi disse che Soledad era stata
dentro una scatola, ricapitolando per cinque anni, e che l'Aquila aveva
accettato la sua ricapitolazione invece della sua coscienza e che l'aveva
lasciata libero. Signora Soledad assentì con un movimento della testa. Florinda
finì bruscamente l'incontro e mi disse che era ora che andassi via perché io
non avevo oramai ma energia.
Andai a casa di Florinda molte volte più.
La vidi tutte le volte, benché solo fuori un momento. Mi avvisò che aveva
deciso di non istruirmi più perché era più vantaggioso per me che trattasse
solo con signora Soledad.
Signora Soledad ed io ci troviamo molte
volte, sempre nello stato più acuto di coscienza, e quello che ebbe luogo nei
nostri incontri è qualcosa di incomprensibile per me. Ogni volta che stavamo mi
facevo insieme sedere alla porta della sua stanza, col viso verso il Questo.
Ella si adattava alla mia destra, sfiorandomi; dopo facevamo che la parete di
nebbia smettesse di girare ed i due rimanevamo improvvisamente anche col viso
verso il Sud, verso l'interno della sua stanza.
Aveva imparato già con la Grassa a fermare
la rotazione della parete; ed avevamo scoperto correttamente che solo una
porzione di noi fermava il muro. Era come se improvvisamente io rimanessi
diviso in due. Una porzione del mio essere totale guardava verso davanti e
vedeva una parete che si muoveva col movimento laterale della mia testa, mentre
l'altra porzione, più grande, del mio essere totale, era diventato novanta
gradi alla destra ed affrontava una parete immobile.
Ogni volta che signora Soledad ed io
fermavamo la parete, rimanevamo guardandola fissamente; non entravamo mai
nell'area che si trova tra le linee parallele, come la donna nagual, la Grassa
ed io l'avevamo fatto innumerevoli volte. Signora Soledad mi facevo sempre
contemplare la nebbia come se questo fosse un vetro reflejante. Sperimentava
allora la dissociazione più stravagante. Era come se io corressi ad una
velocità scardinata. Vedeva pezzi di paesaggio che si formavano nella nebbia,
ed improvvisamente mi trovavo in un'altra realtà fisica; era un'area
montagnosa, rugosa ed inospitale. Signora Soledad stava sempre lì in compagnia
di una donna carina che rideva estentóreamente di me.
Dopo la mia incapacità per ricordare quello
che facevamo era ancora più acuta che la mia incapacità di ricordare quello che
la donna nagual, la Grassa ed io facemmo nell'area che si trova tra le linee
parallele. Sembrava che signora Soledad ed io entrassimo in un'altra zona di
coscienza che mi fosse ignorata. Io, per certo, stava già in quello che credeva
essere il mio stato di coscienza più acuto e, tuttavia, c'era qualcosa di
ancora più sottile. L'aspetto della seconda attenzione che signora Soledad si
stava aiutando ovviamente a verificare era più complesso e più inaccessibile di
tutto quello che ho presenziato fino alla data. Quella che posso ricordare è la
sensazione di mi avere mosso molto, una sensazione fisica paragonabile a quella
di avere camminato chilometri. Aveva anche la chiara certezza corporale, benché
non possa concepire perché, che signora Soledad, l'altra donna ed io
scambiavamo parole, pensieri, sentimenti. Ma non potrebbe specificarli.
Dopo ogni trovo con signora Soledad,
Florinda mi facevo andare via immediatamente. Signora Soledad mi davo minime
spiegazioni. Sembrava che solo trovarsi nello stato di coscienza accresciuta la
colpiva tanto profondamente che difficilmente poteva parlare. D'altra parte,
c'era qualcosa che vegliamo, quell'aspra campagna coltivata, oltre alla carina
donna, o qualcosa che facevamo insieme ci lasciava senza alito. Ella non poteva
ricordare niente, nonostante trattarlo disperatamente.
Chiesi a Florinda che mi chiarificasse la
natura dei miei viaggi con signora Soledad. Ella mi disse che una parte delle
sue istruzioni di ultimo minuto era diventare entrare nella seconda attenzione
come lo fanno gli acechadores, e che signora Soledad era ancora più competente
che ella per introdurrmi nella dimensione dell'acechador.
Nella sessione che verrebbe ad essere
l'ultima, Florinda, come aveva fatto all'inizio della nostra istruzione, mi
aspettavo nell'entrata. Mi prese del braccio e mi portò alla sala. Prendiamo
posto. Mi notò che non tentasse ancora di trovare senso ai miei viaggi con
signora Soledad. Mi spiegò che gli acechadores è innatamente distinto agli
ensoñadores nella maniera utilizzano come il mondo, e che quello che signora
Soledad faceva con me era tentare di aiutarmi a rovesciare la testa.
Quando Don Juan mi descrisse il concetto di
rovesciare la testa del guerriero per affrontare una nuova direzione, io
l'avevo capito come una metafora che segnalava un cambiamento di atteggiamento.
Florinda mi disse che la mia idea era corretta, ma che non si trattava di una
metafora. Era verità che gli acechadores rovescia la testa; tuttavia, non lo
fanno per affrontare una nuova direzione, bensì per affrontare il tempo in una
maniera distinta. Gli acechadores affronta il tempo che arriva. Normalmente
affrontiamo il tempo quando questo va via di noi. Solo gli acechadores può
cambiare questa situazione ed affrontare il tempo quando questo avanza verso
essi.
Florinda mi spiegò che rovesciare la testa
non significa che uno vede il futuro, ma uno vedi il tempo come qualcosa di
concreto, ma incomprensibile. Pertanto, era superfluo tentare di chiarificare
quello che signora Soledad ed io facevamo. Tutto questo avrebbe senso quando io
potessi percepire la totalità di me stesso ed avesse allora l'energia
necessaria per decifrare quello mistero
Florinda mi disse, nel tono di qualcuno che
rivela un segreto che signora Soledad era un'accecatrice suprema, la chiamava
il più grande di tutte. Diceva che signora Soledad poteva attraversare le linee
parallele in qualunque momento. Inoltre, nessuno dei guerrieri del gruppo del
nagual Juan Matus aveva potuto fare quello che ella aveva fatto. Signora
Soledad, attraverso le sue tecniche impeccabili di spiare, aveva trovato il suo
essere parallelo.
Florinda mi spiegò che chiunque delle
esperienze che ebbi col nagual Juan Matus, con Genaro, Silvio Manuel o con
Zuleica, erano solo minime porzioni della seconda attenzione; tutto quella che
signora Soledad si stava aiutando a presenziare era anche una porzione minima;
ma, quello sì, differente.
Signora Soledad non mi ero fatto solo
affrontare il tempo che arriva, ma mi portò anche al suo essere parallelo.
Florinda definiva l'essere parallelo come il contrappeso che tutti gli esseri viventi
hanno per il fatto di essere entità luminose piene di energia inspiegabile.
L'essere parallelo di una persona è un'altra persona dello stesso sesso che è
unita intima ed inestricabilmente alla prima. Coesistono contemporaneamente nel
mondo. I due esseri paralleli sono come quelle due punte della stessa
bacchetta.
Florinda mi disse che ai guerrieri, in
generale, è loro quasi impossibile trovare il suo essere parallelo. Ma chiunque
che è capace di riuscirlo troverà nel suo essere parallelo, come l'aveva fatto
signora Soledad, una fonte infinita di gioventù e di energia.
Florinda si mise bruscamente in piede, mi
condusse alla stanza di signora Soledad e mi lasciò a sole con lei. Chissà
perché sapeva già che quello sarebbe il nostro ultimo incontro, mi invase una
strana ansietà. Signora Soledad sorrise quando lo riferii quello che Florinda
aveva appena detto. Disse, con una vera umiltà di guerriero, che ella si non
stava abituando niente che tutto quello che aveva aspirato a fare era portarmi
dove il suo essere parallelo, perché lì si ritirerebbe dopo che il nagual Juan
Matus ed i suoi guerrieri lasciassero il mondo. Disse che nel nostro incontro,
tuttavia, era successo qualcosa che oltrepassava la sua comprensione. Ella ed
io, secondo Florinda gli aveva spiegato, avevamo aumentato mutuamente la nostra
energia individuale e che quello c'aveva fatto affrontare il tempo venturo, ma
non in piccola dose, come Florinda avrebbe preferito che lo facessimo, bensì in
enormi porzioni, come la mia sfrenata natura lo voleva.
Signora Soledad ed io entriamo insieme per
ultima volta nella seconda attenzione. Il risultato di quell'incontro fu ancora
più sorprendente per me. Signora Soledad, il suo essere parallelo ed io
rimanemmo insieme in quello che io sentii che fu straordinariamente molto un
lasso. Vidi tutti i tratti del viso del suo essere parallelo. Sentii che questo
tentava di dirmi chi era. Sembrava anche sapere che quello nostra era ultimo
incontro. C'era una sensazione opprimente di fragilità nel suo sguardo. Dopo,
una forza che somigliava un vento ci lanciò dentro a qualcosa che non aveva
senso per me.
Florinda, improvvisamente, mi aiutò ad
alzarmi. Mi prese del braccio e mi portò alla porta. Signora Soledad fu con
noi. Florinda disse che andava ad essere molto difficile ricordare tutto quello
che era accaduto lì, perché si stava dando totalmente alla mia mania
intellettuale; questo era un tema che peggiorerebbe solo perché essi stavano
per partire del mondo ed io non avrei più nessuno che mi aiutassi a cambiare livelli
di coscienza. Aggiunse che qualche giorno signora Soledad ed io c'imbatteremmo
di nuovi nel mondo di tutti i giorni.
Fu allora quando diventai a signora Soledad
e lo supplicai che quando ci vedessimo di nuovo mi liberassi della mia
prigione; gli dissi che se ella falliva dovrebbe ammazzarmi perché io non
volevo vivere nella povertà della mia razionalità.
- È una stupidità dire quello - disse
Florinda -. Siamo guerrieri, ed i guerrieri hanno una sola meta nella mente:
essere liberi. Morire ed essere divorato dall'Aquila è il destino dell'uomo.
D'altra parte, volere uscirci dal nostro destino, volere mettere metronotte e
staccati alla libertà, è l'audacia finale.
XV. IL SERPENTE PIUMATO
Avendo raggiunto ognuna delle mete che
specificava la regola, Don Juan ed il suo gruppo di guerrieri erano pronti per
il compito finale, abbandonare il mondo. Quello che ci rimaneva alla Grassa,
agli altri apprendisti ed io era presenziare alla sua uscita. C'era un solo
problema irresolto: che cosa fare con gli apprendisti? Don Juan diceva che,
propriamente, dovrebbero accompagnare incorporandoseli al suo proprio gruppo;
tuttavia, non erano pronti. Le reazioni che avevano avuto cercando di
attraversare il ponte avevano dimostrato quali le sue debolezze erano.
Don Juan diceva che la decisione del suo
benefattore di sperare anni di congregare il gruppo dei suoi guerrieri, era
stato una decisione sensata che produsse risultati positivi, mentre la sua
propria determinazione di riunirmi senza perdita di tempo con la donna nagual
ed il mio proprio gruppo era stato quasi fatale per noi.
Don Juan non esprimeva questo come un
lamento o un'accusa bensì come l'affermazione della libertà del guerriero di
scegliere ed accettare la sua selezione. Disse, inoltre, che in un principio
egli considerò seriamente seguire l'esempio del suo benefattore, e che di
c'essere la cosa fatta avrebbe scoperto con la sufficiente anticipazione che io
non ero un nagual come egli, e che nessuno più, alla mia eccezione, sarebbe
rimasto ingarbugliato nel suo mondo. Come stavano le cose, Combatte, Rosa,
Benigno, Néstor e Pablito avevano seri svantaggi; la Grassa e Josefina avevano
bisogno di tempo per perfezionarsi; solamente Soledad e Scelse stavano a salvo,
perché magari essi erano più abili dei guerrieri vecchi del suo proprio gruppo.
Don Juan aggiunse che corrispondeva loro ai nove soppesare le circostanze
sfavorevoli o favorevoli e, senza lamentarsi né disperarsi né darsi pacche
nella schiena, trasformare la sua maledizione o benedizione in un incentivo.
Don Juan segnalò che non tutto in noi era
stato un fallimento: la cosa poco che ci toccò vedere e fare tra i suoi
guerrieri era stato un successo completo nel senso che la regola incastrava in
ognuno del mio gruppo, alla mia eccezione. Fui completamente di accordo con
lui. Per incominciare, la donna nagual era tutto quella che la regola.
prescriveva. Era divertente, controllo; era un essere in guerra e, tuttavia,
completamente in pace. Senza nessuna preparazione evidente, seppe trattare e
guidare tutti i dotati guerrieri di Don Juan malgrado questi avessero la
sufficiente età come per essere i suoi nonni. Essi assicuravano che ella era
una copia al carbone dell'altro donna nagual che avevano conosciuto. Rifletteva
alla perfezione ad ognuna delle otto guerriere di Don Juan e poteva riflettere
conseguentemente anche le cinque donne che egli aveva trovato per il mio
gruppo, perché queste erano le repliche dei maggiori. Combatte era come
Hermelinda, Josefina era come Zuleica, Rosa e la Grassa erano come Nélida, e Soledad
era come Delia.
Anche gli uomini erano repliche dei
guerrieri di Don Juan: Néstor era una copia di Vicente; Pablito, di Genaro;
Benigno, di Silvio Manuel, e Scelse era come Juan Tuma. In realtà la regola era
l'esponente di una forza inconcepibile che aveva modellato questa gente. Solo
mediante un'estranea rovesciata del destino erano rimasti abbandonati, senza il
guida che trovasse il passo verso l'altra coscienza.
Don Juan diceva che i membri del mio gruppo
dovevano entrare senza aiuto e da soli nell'altra coscienza, e che ignorava se
potrebbero farlo, perché quell'era qualcosa che ad ogni chi gli corrispondeva
individualmente. Egli li aveva aiutati impeccabilmente a tutti; pertanto, il
suo spirito era libero di tribolazioni, e la sua mente libera di speculazioni
inutili. Tutto quello che gli rimaneva da fare era mostrarci pragmaticamente
quello che significava attraversare le linee parallele nella totalità di uno
stesso.
Don Juan mi disse che, nel meglio dei casi,
io potevo aiutare uno degli apprendisti, e che egli aveva scelto la Grassa a
causa della sua agilità nella seconda attenzione e perché mi trovavo abituato
con lei in estremo. Mi disse che io non disponevo di energia per gli altri,
poiché doveva altri doveri portare a termine, un'altra strada. Don Juan mi
spiegò che ognuno della sua guerriera sapiente quale quello compito era ma che
nessuno di essi poteva rivelarmelo perché io dovevo provare che la meritava. Il
fatto che si trovassero alla fine del suo sentiero, ed il fatto che io avevo
seguito fedelmente le istruzioni era da imperativo che la rivelazione prendesse
posto, benché solo fuori in una forma parziale.
Quando arrivò il momento di partire, Don
Juan mi disse quale il mio compito era. Come mi trovavo in un stato di
coscienza normale, persi il vero senso di quello che mi disse. Fino all'ultimo
momento Don Juan tentò di indurrmi ad unire i miei due stati di coscienza.
Tutto sarebbe stato molto semplice se io avessi potuto effettuare quella
fusione. Come non potei, fui solo toccato razionalmente per le sue rivelazioni.
Don Juan mi fece dopo cambiare livelli di coscienza al fine di permettermi di
apprezzare l'evento della sua partenza totale in termini più abarcantes.
Ripetutamente mi notò che stare nella coscienza del lato sinistro è un vantaggio
solo non appena si sbriga la nostra comprensione. È un svantaggio perché ci
permette solo contemporaneamente di mettere a fuoco con inconcepibile lucidità
una cosa, e questo ci gira vulnerabile. Non può agirsi indipendentemente mentre
si sta nella coscienza del lato sinistro; uno deve essere aiutato da guerrieri
che hanno ottenuto la totalità di se stessi e sanno come sdebitarsi in quello
stato.
La Grassa mi disse che un giorno il nagual
Juan Matus e Genaro riunirono tutti gli apprendisti nella sua casa. Egli nagual
fece loro cambiare alla coscienza il lato sinistro, e disse loro che il suo
tempo nella terra era arrivato alla sua fine.
La Grassa non gli credette in un principio.
Era convinta che Don Juan tentava di spaventarli affinché agissero come guerrieri.
Ma dopo si rese conto che c'era una lucentezza nei suoi occhi che non l'aveva
visto mai.
Dopo avere fatto loro cambiare livelli di
coscienza, Don Juan parlò individualmente con ognuno di essi ed ad ognuno gli
fece un riassunto di tutti i concetti e procedimenti che aveva insegnato loro.
Con me fece la stessa cosa, ma nel mio caso condusse il riassunto in entrambi
gli stati di coscienza, il giorno anteriore al suo viaggio definitivo. Per
certo, mi fece cambiare il suo lato alle altre varie volte, come se volesse
essere sicuro che io mi trovavo completamente saturo nei due.
Per molto tempo mi fu impossibile
ricordare, quello che ebbe luogo dopo il riassunto. Un giorno, finalmente la
Grassa riuscì a rompere le barriere della mia memoria. Mi disse che ella era
stata nella mia mente, come se mi leggesse all'interno. Affermò che quella che
manteneva chiusa la mia memoria era la paura che io avevo di ricordare qualcosa
di doloroso. Quello che era successo in casa di Silvio Manuel la notte previa
al viaggio definitivo si trovava inseparabilmente ingarbugliato col mio
terrore. Disse che aveva la chiara sensazione che anche ella ebbe paura, ma
ignorava la ragione. Neanche poteva ricordare esattamente che era successo in
casa, specificamente nella stanza dove prendiamo posto.
Come la Grassa parlava sentii come se
stesse cadendo dentro un abisso. Compresi che qualcosa in me tentava di
stabilire in due una connessione differenti avvenimenti a che io avevo
presenziato nei due stati di coscienza. Nel mio lato sinistro aveva rinchiuso i
ricordi di Don Juan ed il suo gruppo di guerrieri nel suo ultimo giorno nella
terra; nel mio lato destro stava il ricordo di avere saltato in un burrone.
Tentando di unire i due lati sperimentai una sensazione totale di discesa
fisica. Le mie ginocchia si piegarono e crollai nel suolo.
La Grassa disse che quello che passavo era
che era arrivato alla mia coscienza del lato destro un ricordo che sorse in lei
quando io parlavo. Ricordò che avevamo fatto un tentativo più di attraversare
le linee parallele col nagual Juan Matus ed il suo gruppo. Disse che ella ed io
insieme col resto degli apprendisti avevamo tentato un'altra volta di
attraversare il ponte.
Io non potevo mettere a fuoco quello
ricordo. Sembrava c'essere una forza costrittore che mi chiedevo organizzare i
miei pensieri. La Grassa disse che Silvio Manuel aveva detto al nagual Juan
Matus che a me e gli altri apprendisti mi preparassi per attraversare. Non
voleva lasciarmi nel mondo, perché credeva che io non avevo la minore possibilità
di compiere il mio compito. Il nagual non fu di accordo con lui, ma portò
nonostante a termine le preparazioni quello che pensava.
La Grassa mi disse che ricordava che io ero
andato nel mio atto a casa sua per portarla a lei e gli altri apprendisti a casa
di Silvio Manuel. Essi rimasero lì mentre io ritornavo col nagual Juan Matus e
con Genaro al fine di prepararmi per l'incrocio.
Non potei ricordare niente. Ella insistè in
che doveva utilizzarla come guida, dato che ci trovavamo intimamente uniti; mi assicurò
che io potevo leggergli la mente e trovare lì qualcosa che potrebbe svegliare
la totalità del mio ricordo.
La mia mente si trovava in un stato di gran
turbamento. Una sensazione di ansietà mi premunivo perfino concentrarmi su
quello che la Grassa diceva. Ella continuò a parlare, descrivendo quello che
ricordava di nostro secondo tentativo per attraversare il ponte. Riferì che
Silvio Manuel li aveva arringati. Disse loro che l'allenamento che avevano era
sufficiente come per tentare di attraversare nuovamente; quello che dovevano
per entrare pienamente nell'altro io ero abbandonare il tentativo della prima
attenzione. Una volta che si trovassero nella coscienza dell'altra io, il
potere del nagual Juan Matus e del suo gruppo li raccoglierebbe e li eleverebbe
alla terza attenzione con gran facilità: questo era qualcosa che non potevano
fare se gli apprendisti si trovavano nella sua coscienza normale.
All'improvviso, non ascoltava oramai più la
Grassa. In realtà il suono della sua voce era come un veicolo per me e portò
con sé il ricordo di tutto l'evento. Mi dondolai davanti all'impatto. La Grassa
cessò di parlare, ed io conformi gli descriveva il mio ricordo, anche ella si
ricordò di tutto. Avevamo unito finalmente gli ultimi pezzi dei ricordi separati
di nostri due stati di coscienza.
Ricordai che Don Juan e dono Genaro mi
prepararono per attraversare mentre io mi trovavo nello stato normale di
coscienza. Io pensai razionalmente che stavano preparandomi per dare un salto
in un abisso.
La Grassa ricordò che al fine di prepararli
ad attraversare, Silvio Manuel li aveva appesi delle travi del soffitto in
arnesi di cuoio. C'era uno di questi in ogni stanza della sua casa. Gli
apprendisti furono sospesi in essi quasi tutto il giorno.
La Grassa commentò che avere un arnese
nella stanza di uno è qualcosa ideale. I Genaros, senza sapere realmente quello
che stavano facendo, aveva indovinato costruendo un arnese, ebbero a metà un
ricordo e crearono il suo gioco. Era un gioco che combinava le qualità curative
e purificatrici di essere separato del suolo con la concentrazione che uno
richiede per cambiare livelli di coscienza. Il gioco in realtà era un artificio
che li aiutava a ricordare.
La Grassa mi disse che Silvio Manuel fece
loro discendere all'imbrunire dall'arnese, dopo essere stato sospesi tutto il
giorno. Tutti andarono con lui al ponte e sperarono lì col resto del gruppo
fino a che il nagual Juan Matus e Genaro arrivarono con me. Il nagual Juan
Matus spiegò a tutti che il preparare si era preso più tempo di quello che lui
anticipò.
Ricordai che Don Juan ed i suoi guerrieri
attraversarono prima il ponte che noi. Signora Soledad e Scelse automaticamente
furono con essi. La donna nagual fu l'ultima che attraversò. Dall'altro lato
del ponte, Silvio Manuel c'indicò che incominciassimo a camminare. Senza dire
una sola parola, tutti noi, incominciamo. Alla metà del ponte, Combatte, Rosa e
Pablito sembrarono non potere cedere un altro passo. Benigno e Néstor
arrivarono quasi fino al finale e dopo si trattennero. Solamente la Grassa,
Josefina ed io arriviamo a dove Don Juan e gli altri si trovavano.
Dopo quello che successe fu abbastanza
simile a quello che successe la prima volta che cerchiamo di attraversare.
Silvio Manuel e Scelse avevano aperto qualcosa che io credei che era una crepa
reale. Ebbi l'energia sufficiente per concentrare la mia attenzione su lei. Non
era la collina che si trovava vicino al ponte, né neanche era un'apertura nella
parete di nebbia, benché potesse distinguere un vapore nebbioso intorno alla
crepa. Era una misteriosa ed oscura apertura che si ergeva da sola al margine
di tutto il resto; era del volume di un uomo, ma stringe. Don Genaro fece un
scherzo e la chiamò "vagina cosmica", e questa osservazione produsse
risate stentoree dei suoi compagni. La Grassa e Josefina a me si afferrarono ed
entriamo.
Istantaneamente sentii che mi trituravano.
La stessa forza incalcolabile che quasi mi fece sfruttare la prima volta mi
aveva acchiappato nuovamente. Poteva sentire alla Grassa e Josefina fondendosi
con me. Io sembravo essere più largo di esse e la forza mi appianò contro le
due giunte.
Quando un'altra volta mi resi conto di me
stesso, giaceva nel suolo con la Grassa e Josefina sopra a me. Silvio Manuel
c'aiutò a metterci in piede. Mi disse che non sarebbe impossibile unirci ad
essi in quell'occasione, ma che chissà dopo, quando ci fossimo ingentiliti fino
alla perfezione, l'Aquila ci lascerebbe passare.
Quando ritornavamo a casa sua, Silvio
Manuel mi disse quasi in un sussurro che la sua strada e la mia strada si erano
separate quella notte e che non tornerebbero mai ad attraversare. Mi trovavo
solo. Mi esortò ad essere frugale ed ad utilizzare la mia energia con gran
misura senza sprecare né un apice di lei. Mi assicurò che se io arrivavo alla
totalità di me stesso senza usure eccessive, avrebbe energia sufficiente per
compiere il mio compito. Ma mi esaurivo eccessivamente prima di perdere la mia
forma umana, era perso.
Gli domandai se c'era una maniera di
evitare l'usura. Negò con la testa. Disse che il mio trionfo o il mio
fallimento non era tema della mia volontà. Poi mi rivelò i dettagli del mio
compito. Ma non mi disse come portarla a termine, ma qualche giorno l'Aquila
metterebbe a qualcuno nella mia strada per dirmi come compierla. E fino a non
avere trionfato, non sarebbe libero.
Quando arriviamo alla casa, ci riuniamo
tutti in una gran stanza. Don Juan prese posto nel centro col viso verso lui
sudorientale. Le otto guerriere lo circondarono. Si accomodarono in pari nei
punti cardinali, col viso anche verso il sudest. Poi i tre guerrieri fecero
fuori un triangolo del circolo, con Silvio Manuel nel vertice che mirava al
sudest. Le due donne propri si sedettero fiancheggiandolo, ed i due uomini
propri si accomodarono di fronte a lui, quasi contro la parete.
La donna nagual fece che gli apprendisti
uomini prendessero posto contro la parete di quello Stia, e fece che le donne
si sedessero contro la parete dell'ovest. Poi mi condusse ad un posto che si
trovava direttamente dietro di Don Juan. Lì ci sediamo insieme.
Rimanemmo seduti quello che io credei che
era solo un istante, e tuttavia sentii un'ondata di strana energia. Quando
domandai alla donna nagual perché c'eravamo alzati tanto rapidamente, mi
rispose che eravamo stati seduti lì durante varie ore, e che qualche giorno,
prima che entrasse alla terza attenzione, tutto quell'avrebbe senso per me.
La Grassa affermò che ella non ebbe solo la
sensazione che stemmo seduti solo un istante, ma non gli dissero mai che quello
non era stato così. La cosa unica che il nagual gli disse dopo era che aveva
l'obbligo di aiutare gli altri apprendisti, specialmente a Josefina, e che un
giorno io ritornerei per dargli lo spintone finale per attraversare totalmente
verso l'altro io. Ella era legata a me e Josefina. In nostro trasognare
insieme, sotto la supervisione di Zuleica, avevamo scambiato enormità della
nostra luminosità. Per quella ragione potemmo resistere insieme la pressione
dell'altra io entrando in lui con tutto e corpo. Gli disse anche che il potere
dei guerrieri del suo gruppo fu quello che fece che l'incrocio fosse facile
quella volta, e che quando ella dovesse attraversare per sé stessa doveva farlo
attraverso il sogno.
Dopo che ci mettemmo in piede, Florinda si
avvicinò a dove io stavo. Mi prese del braccio e camminiamo per la stanza,
mentre Don Juan ed i suoi guerrieri parlavano con gli altri apprendisti.
Mi disse che non doveva permettere che gli
eventi di quella notte, nel ponte, mi confondessero. Io non dovrei credere,
come credette una volta il nagual Juan Matus che c'è un'avanzata in realtà
fisica verso l'altro io. Semplicemente la crepa che io avevo visto era una
costruzione del tentativo di tutti essi; un tentativo che fu acchiappato per
una combinazione tra l'osservazione del nagual Juan Matus con avanzate reali ed
il grottesco senso dell'umorismo di Silvio Manuel: il miscuglio di ambedue
produsse la vagina cosmica. Fino a dove ella sapeva, il passo di un io
all'altro non avevo caratteristiche fisiche. La vagina cosmica era
un'espressione fisica del potere degli uomini per muovere "la ruota del
tempo."
Florinda mi spiegò che quando ella o i suoi
compagni parlavano del tempo, non si riferivano a qualcosa che si misura coi
movimenti dell'orologio. Il tempo è l'essenza dell'attenzione; le emanazioni
dell'Aquila sono composte di tempo, e, propriamente parlando, quando uno entra
in qualunque aspetto dell'altro io, uno incomincia a familiarizzare col tempo.
Florinda mi assicurò che quella notte,
quando eravamo seduti in formazione, essi ebbero la sua ultima opportunità di
aiutarci, a me e gli apprendisti, ad affrontare la ruota del tempo. Disse che
la ruota del tempo è come un stato di coscienza accresciuta dell'altra io, come
la coscienza del lato sinistro è lo stato di coscienza accresciuta dell'io di tutti
i giorni. La ruota del tempo poteva descriversi fisicamente come da lontano un
tunnel infinito, un tunnel con solchi riflettori. Sposa solco è infinito, e ci
sono quantità infinite di essi. Le creature viventi sono obbligate, per la
forza della vita, a contemplare compulsivamente uno di quelli solchi.
Contemplarlo significa essere acchiappato da lui, vivere quello solco.
Florinda affermò che quello che i guerrieri
chiamano volontà appartiene alla ruota del tempo. È qualcosa di simile ad un
tentacolo intangibile che tutti noi possediamo. Disse che il proposito finale
del guerriero consiste in imparare a concentrarlo sulla ruota del tempo col
fine di farle girare. I guerrieri che sono riusciti a fare girare la ruota del
tempo può contemplare, qualunque solco ed estrarre di lui quello che
desiderino, come, per esempio, la vagina cosmica. Essere acchiappato
compulsivamente in qualunque solco del tempo implica vedere le immagini di
quello solco conforme si alleghino. Essere libero della forza affascinante di
quelli solchi significa che uno può vedere in qualunque direzione, già sia
quando le immagini si allontanano o quando si avvicinano.
Florinda smise di parlare e mi abbracciò.
Mi sussurrò all'udito che ritornerebbe a terminare la sua istruzione qualche
giorno, quando io avessi guadagnato la totalità di me stesso.
Don Juan chiese a tutti che si
avvicinassero a dove io stavo. Mi circondarono. Don Juan fu il primo a
parlarmi. Disse che io non potevo andare con essi nel suo viaggio definitivo
perché era impossibile che ritrattasse il mio compito. Sotto quelle circostanze
la cosa unica che essi potevano fare per me era darmi i suoi migliori voti.
Aggiunse che i guerrieri non hanno vita propria. A partire dal momento in cui
comprendono la natura della coscienza, smettono di essere persone e la
condizione umana non fa oramai parte della sua visione. Io avevo un dovere come
guerriero e solo quell'era quello che contava al fine di compiere il tenebroso
compito che mi ero affidato. Dato che io avevo prescisso dalla mia vita, essi
non avevano oramai niente da dirmi, a meno che dovrebbe dare la cosa migliore
di me. E neanche io avevo niente da dirloro, a meno che aveva compreso e che
cosa accettava il mio destino.
Dopo, Vicente venne al mio fianco. Parlò
molto quedamente. Disse che la sfida di un guerriero consiste in arrivare ad un
equilibrio molto sottile di forze positive e negative. Questa sfida non vuole
dire che un guerriero debba lottare per avere ogni pianterreno il suo
controllo, ma il guerriero debito di lottare per affrontare qualunque
situazione concepibile, la cosa sperata e la cosa inaspettata, con uguale
efficienza. Essere perfetto in circostanze perfette è essere un guerriero di
carta. La mia sfida consisteva in rimanere dietro. Quello di essi era irrompere
nella cosa ignorata. Entrambe le sfide erano opprimenti. Per i guerrieri,
l'eccitazione di rimanere è uguale all'eccitazione del viaggio. Ambedue sono
gli stessi, perché i due penetrano il compimento di un carico sacro.
Il seguente che venne a parlarmi fu Silvio
Manuel; disse che a lui gli importava la cosa pratica. Mi diede una formula, un
incantesimo per le ore in che il mio compito fosse maggiore che la mia forza;
quello fu l'incantesimo che mi venne nella mente la prima volta che ricordai
alla donna nagual.
Mi diedi già al potere che al mio destino
dirige.
Non mi aggrappo già di niente, per così non
avere niente da difendere.
Non ho pensieri, per così potere vedere.
Non temo già a niente, per così potere
accordarmi di me
Metronotte e staccato,
Mi lascerà l'aquila passare alla libertà.
Mi disse che andava a rivelarmi una manovra
pratica della seconda attenzione. E senza dire bé si trasformò in una palla di
luce, in un uovo luminoso. Ritornò alla sua apparenza normale e ripetè la
trasformazione tre o quattro volte. Compresi perfettamente bene quello che
verso. Non doveva spiegarmelo e tuttavia mi era impossibile formulare in parole
quello che io sapevo.
Silvio Manuel sorrise, cosciente del mio
problema. Disse che si richiedeva un'enormità di forza per abbandonare il
tentativo della vita di tutti i giorni. Il segreto che avevo appena rivelato
era come facilitare l'abbandono del tentativo. Per potere fare quello che egli
aveva fatto, uno deve mettere a fuoco l'attenzione nella superficie del guscio
luminosa.
Un'altra volta diventò una palla di luce e
dopo mi fu fatto ovvio quello che sapeva già dall'inizio. Silvio Manuel girò
gli occhi e per un istante li mise a fuoco nel punto della seconda attenzione.
La sua testa era eretta, affrontando quello che stava davanti a sé, solo i suoi
occhi erano sbiecati. Disse che un guerriero deve evocare il tentativo. Nello
sguardo sta il segreto. Gli occhi convocano il tentativo.
Diventai euforico. Finalmente io ero capace
di considerare qualcosa che io sapevo senza saperlo in realtà. La ragione per
la quale il vedere sembra essere visuale è perché abbiamo bisogno degli occhi
per mettere a fuoco il tentativo. Don Juan ed il suo gruppo di guerrieri
sapevano come usare gli occhi per acchiappare altri aspetti del tentativo ed a
questo atto lo chiamavano vedere. Quella che Silvio Manuel si era mostrato era
la vera funzione degli occhi, gli atrapadores del tentativo.
Utilizzai allora premeditatamente i miei
occhi per convocare il tentativo. Li concentrai sul punto della seconda attenzione.
Improvvisamente, Don Juan, i suoi guerrieri, signora Soledad e Scelse erano
uova luminose, ma non la Grassa, le tre sorelline ed i Genaros. Continuai a
muovere lo sguardo di un lato all'altro; tra le bolle di luce e la gente, fino
a che ascoltai un scricchiolio nella base del mio collo, e tutti quelli che
stavano nella mia stanza erano uova, luminosi. Per un istante sentii che non
poteva sapere chi era chi, ma dopo i miei occhi riuscirono a stringersi e
sostenni due aspetti del tentativo, due immagini contemporaneamente. Poteva
vedere i suoi corpi fisici ed anche le sue luminosità. Le due scene non si
trovavano una sopra all'altra, ma erano separate, e tuttavia non poteva
concepire come. Definitivamente aveva due canali di visione; vedere stava intimamente
unito ai miei occhi e nonostante era qualcosa di indipendente di essi. Se li
chiudeva, poteva vedere ancora le uova luminose, ma non i corpi fisici.
In un momento ebbi la sensazione chiara che
io sapevo come cambiare la mia attenzione verso la mia luminosità. Sapeva anche
che per girare di nuovo al livello fisico tutto quello che doveva fare era
mettere a fuoco gli occhi nel mio corpo.
Don Juan venne dopo al mio fianco e mi
disse che il nagual Juan Matus, come regalo di addio, mi ero dato il dovere, Vicente
mi diede la sfida, Silvio Manuel mi diede magia, ed egli andava a darmi la
grazia. Mi guardò dall'alto in basso e commentò che io ero il nagual di
apparenza più deplorevole che avesse visto. Esaminò gli apprendisti, mosse la
testa e concluse che con un'apparenza tanto deplorevole la cosa unica che ci
rimaneva era essere ottimista e vedere il lato positivo delle cose. Ci contò la
barzelletta di una ragazza paesana che fu sedotta da un agente viaggiante che
gli promise matrimonio. Quando arrivò il giorno del matrimonio e gli dissero
che il fidanzato era fuggito dal paese, ella non si alterò, sorrise con
fatalità e disse che non tutto era perso. Perse la verginità, sì, ma meno male
che ancora non aveva ammazzato il lattonzolo della festa.
Don Genaro raccomandò che la cosa unica che
poteva aiutarci ad uscire da quella situazione che era quella della fidanzata
vestita ed agitata, era afferrarci ai nostri lattonzoli, chiunque che fosse, e
riderci a crepapelle. Solo attraverso la risata potremmo cambiare la nostra
condizione.
Ci sollecitò con gesti della testa e delle
mani a che ridessimo. Si inginocchiò e ci chiese una risata. Vedere Don Genaro
di ginocchia ed agli apprendisti tentando di sbellicarsi era tanto ridicolo
come i miei propri tentativi. Improvvisamente io stavo ridendo stentóreamente
con Don Juan ed i suoi guerrieri.
Don Genaro che scherzava sempre che io ero
poeta e pazzo, mi chiese che gli leggesse a voce alta un poema. Disse che
voleva riassumere i suoi sentimenti e le sue raccomandazioni col poema che
celebra la vita, la morte e la risata. Si riferiva ad un frammento del poema di
José Gorostiza Muerte senza fine.
La donna nagual mi tese il libro ed io
lessi la parte che piaceva sempre a Don Juan e Don Genaro.
Ahi, una cieca allegria,
una fame di consumare
l'aria che si respira,
la bocca, l'occhio, la mano;
questi pungentes solletico
di goderci interi
in un solo colpo di risata,
ahi, questa morte insultante,
procace che c'assassina
a distanza, dal gusto
che prendiamo in morirla,
per una tazza di tè,
per un'appena carezza.
L'effetto del poema fu annichilante. Sentii
una scossa. Emilito e Juan Tuma andarono al mio fianco. Non dissero una sola
parola. I suoi occhi brillavano come biglie nere. Tutti i suoi sentimenti
sembravano concentrarsi sui suoi occhi. Juan Tuma disse molto soavemente che
una volta egli mi ero introdursi nella sua casa nei misteri di Mescalito e che
quell'era stato un precursore di un'altra occasione nella ruota del tempo nel
quale egli si introdursi nell'ultimo dei misteri: la libertà.
Emilito disse, come se la sua voce fosse
un'eco di Juan Tuma che i due confidavano in che io potrei compiere il mio
compito. Essi mi aspetterebbero, perché qualche giorno io me li unirei. Juan
Tuma aggiunse che l'Aquila si era messa col gruppo del nagual Juan Matus perché
quell'era la mia unità di riscatto. Nuovamente mi abbracciarono ed all'unisono
mi sussurrarono che doveva avere fiducia in me stesso.
Poi vennero le guerriere a me. Ognuna di
esse mi abbracciò e mi sussurrò un desiderio nell'udito, un desiderio di
pienezza e risultati.
La donna nagual fu l'ultima che mi fu
avvicinato. Prese posto e mi sedette nelle sue gonne come se io fossi un
bambino. Essudava affetto e purezza. Persi l'alito. Ci mettemmo in piede e
camminiamo per la stanza. Parliamo ed esaminiamo il nostro destino. Forze
impossibili da concepirci avevano guidato a quello momento culminante. La
trepidazione che sentii fu incommensurabile. E così era anche la mia tristezza.
Allora mi rivelò una porzione della regola
che si applicava al nagual di tre punte. Ella si trovava in un stato di
agitazione estrema e tuttavia era calmata. Il suo intelletto era impeccabile e
tuttavia non tentava di ragionare niente.
Il suo stato di coraggio nel suo ultimo
giorno nella terra era inaudito e me lo trasmise. Era come se fino a quello
momento io non mi avrei reso conto della finalità della nostra situazione.
Stare nel lato sinistro implicava che la cosa immediata prendeva precedenza,
egli quale faceva che per me fosse praticamente impossibile prevedere oltre
quello momento. Tuttavia, il contatto con la donna nagual acchiappò qualcosa
della mia coscienza del lato destro e la sua capacità per pregiudicare la cosa
mediata. Compresi allora completamente che mai più la girerebbe a vedere. E
quello per me ero un'angoscia senza limite!
Don Juan diceva che nel lato sinistro non
c'è posto per le lacrime che un guerriero non può piangere, e che l'unica
espressione di angoscia è una scossa che viene dalle profondità stesse
dall'universo. È come se una delle emanazioni dell'Aquila fosse l'angoscia. La
scossa del guerriero è infinita. Mentre la donna nagual mi parlava e mi
abbracciavo, io sentii quella scossa.
Ella mise le sue braccia intorno al mio
collo e strinse la sua testa contro la mia. Sentii che si stava spremendo come
un pezzo di straccio, e che qualcosa emergeva dal mio corpo, o di quello di lei
verso il mio. La mia angoscia fu tanto intensa e mi inondò tanto rapido che
persi il controllo dei muscoli. Caddi a terra, con la donna nagual ancora
abbracciato a me. Pensai, come se stesse in un sonno che aveva dovuto tagliare
la fronte durante la nostra caduta. Il suo viso ed il mio stavano coperti di
sangue. Il sangue aveva fatto un stagno nei suoi occhi.
Don Juan e dono Genaro mi raggiunsero con
sollecitudine. Mi sostennero. Io avevo spasmi incontrollabili, come attacchi.
Le guerriere circondarono alla donna nagual; dopo fecero una fila alla metà
della stanza. Gli uomini li furono uniti. In un momento Lei creó un'innegabile
catena di energia che fluiva tra essi. La fila si mosse e sfilò di fronte di
me. Ognuno di essi si avvicinò e si trattenne di fronte a me per un momento, ma
senza rompere fila. Era come se scivolassero in una rampa movibile che li
trasportava e che faceva loro trattenersi ed affrontare per un secondo. I
quattro propri avanzarono in primo luogo, con gli uomini alla testa, dopo li
seguirono i guerrieri, dopo le sognatrici, le accecatrici e, infine, la donna
nagual. Passarono di fronte a me e per un secondo o due rimasero a piena vista;
dopo sparirono nella nerezza dalla misteriosa crepa che era apparso nella
stanza.
Don Juan oppresse la mia schiena e mi aiutò
a resistere un po' di mia angoscia intollerabile. Disse che comprendeva il mio
dolore, e che l'affinità dell'uomo nagual e della donna nagual è qualcosa che
non può formularsi. Esiste come risultato delle emanazioni dell'Aquila; una
volta che le due persone si uniscono e si separano, non c'è maniera di riempire
la vuotezza, perché non si tratta di una vuotezza sociale, bensì di un
movimento di quelle emanazioni.
Don Juan mi disse allora che andava a
diventare cambiare fino alla mia estrema destra. Disse che era una manovra
conmiserativa ma temporale; per il momento mi aiuterei a dimenticare, ma non mi
sarebbe un sollievo quando ricordasse.
Anche Don Juan mi disse che l'atto di
ricordare è assolutamente incomprensibile. In realtà si tratta dell'atto di
ricordarsi di uno stesso che uno cessa quando il guerriero recupera la memoria
delle azioni portate a capo nella coscienza del lato sinistro, ma prosegue fino
a recuperare ognuno dei ricordi che il corpo luminoso ha immagazzinato dal
momento di nascere.
Le azioni sistematiche che i guerrieri
portano a termine in stati di coscienza accresciuta sono una risorsa per
permettere che l'altro io mi riveli in termini di ricordi. Questo atto di
ricordare, benché sembri solamente essere associato coi guerrieri, è qualcosa
che appartiene a qualunque essere umano; ognuno di noi può andare direttamente
ai ricordi della nostra luminosità con risultati insondabili.
Don Juan mi disse allora che essi
partirebbero quello stesso giorno, nel momento del crepuscolo, e che quello che
doveva ancora fare con me era creare un'apertura, un'interruzione nel continuo
del mio tempo. Andavano a diventare saltare un abisso come mezzo di
interrompere l'emanazione dell'Aquila che è responsabile della mia sensazione
di essere completo ed uniformi. Il salto dovrebbe farsi quando io stessi in un
stato di coscienza normale, e la meta era che la mia seconda attenzione
prendesse il controllo; invece di morire in fondo dell'abisso, io entrerei
pienamente nell'altro io. Don Juan mi disse che finalmente uscirebbe dall'altro
io un'altra volta che la mia energia si esaurisse, ma non nella montagna della
quale io andavo a saltare. Predisse che io risorgerei nel mio posto favorito,
chiunque che questo fosse. Quella sarebbe l'interruzione del continua del mio
tempo,
Dopo, Don Juan mi tirò fuori completamente
dalla mia coscienza del lato sinistro. Ed io dimenticai la mia angoscia, il mio
proposito, il mio compito.
All'imbrunire di quello giorno, Pablito,
Néstor ed io, in realtà saltiamo dentro un precipizio. Il colpo del nagual era
stato tanto esatto e tanto conmiserativo che niente di quello straordinario
addio trascese oltre l'altro straordinario atto di saltare ad una morte sicura,
e non morire. Spaventoso come fu quell'avvenimento, risultava pallido in
paragone con quello che ebbe luogo nell'altro dominio.
Don Juan mi fece saltare nel preciso
momento in che egli e tutti i suoi guerrieri avevano infiammato le sue animo.
Ebbi una visione, come di sonno, di una fila di gente che mi guardavo. Poi lo
razionalizzai come se fosse parte di una serie di visioni o allucinazioni che
ebbi dopo avere saltato. Questa era la magra interpretazione della mia coscienza
del lato destro, oppressa per la cosa spaventosa dell'evento totale.
Nel mio lato sinistro, tuttavia, compresi
che era entrato nell'altro io, ma senza l'aiuto della mia razionalità. I
guerrieri del gruppo di Don Juan mi avevano afferrato per un istante eterno,
prima che svanissero nella luce totale, prima che l'Aquila lasciasse loro
passare. Io sapevo che si trovavano aspettando Don Juan e Don Genaro in una
sfera delle emanazioni dell'Aquila che stava oltre la mia portata. Vidi a Don
Juan prendendo la parte anteriore. E ci fu dopo solo una fila di squisite luci
nel cielo. Qualcosa come un vento sembrava fare che la fila si contrarsi ed
oscillasse. In un estremo della linea di luci, dove si trovava Don Juan, c'era
un'immensa lucentezza. Pensai al serpente piumato della leggenda tolteca. E
dopo le luci svanirono.
APPENDICE
Sei proposte esplicatorie
Nonostante le sorprendenti manovre che Don
Juan effettuò con la mia coscienza, durante gli anni io persistei, ostinato, in
tentare di valutare intellettualmente quello che egli faceva. Benché abbia
scritto molto circa queste manovre, è stato sempre dal punto di vista
experiencial e, inoltre, da una posizione strettamente razionale. Immerso come
stava nella mia propria razionalità, non potei riconoscere le mete degli
insegnamenti di Don Juan. Per comprendere la portata di queste mete con qualche
grado di esattezza, era necessario che perdesse la mia forma umana e che
arrivasse alla totalità di me stesso.
Gli insegnamenti di Don Juan avevano come
fine guidarmi attraverso la seconda fase dello sviluppo di un guerriero: la
verifica ed accettazione irrestricta che in noi c'è un altro tipo di coscienza.
Questa fase si divideva in due categorie. La prima, per la quale Don Juan
richiese l'aiuto di Don Genaro, trattava con le attività. Consisteva in
mostrarmi certi procedimenti, azioni e metodi che erano progettati ad
esercitare la mia coscienza. La seconda aveva a che vedere con la presentazione
delle sei proposte esplicatorie.
A causa delle difficoltà che ebbi in
adattare la mia razionalità al fine di accettare la plausibilità di quello che
mi abituavo, Don Juan presentò questi proposte esplicatorie in termini dei miei
antecedenti scolastici.
La cosa prima che fece, come introduzione,
fu creare una scissione in me mediante un colpo specifico nella scapola destra,
un colpo che mi facevo entrare in un stato desusual di coscienza, il quale io
non potevo ricordare una volta che era ritornato alla normalità.
Fino al momento in cui Don Juan mi fece
entrare in tale stato di coscienza aveva un innegabile senso di continuità che
credei prodotto della mia esperienza vitale. L'idea che aveva di me stesso era
quella di essere un'entità completa che poteva rendere conto di tutto quello
che aveva fatto. Inoltre, mi trovavo convinto che la stanza di tutta la mia
coscienza, se è che ci l'era, si trovava nella mia testa. Tuttavia, Don Juan mi
dimostrò col suo colpo che esiste un centro nella spina dorsale, all'altezza
delle scapole che ovviamente è un posto di coscienza accresciuta.
Quando interrogai Don Juan sulla natura di
quello colpo, mi spiegò che il nagual è un dirigente, un guida che ha la
responsabilità di fare la strada, e che deve essere impeccabile per inzuppare i
suoi guerrieri con un senso di fiducia e chiarezza. Abbasso solo quelle
condizioni un nagual si trova in possibilità di proporzionare un colpo nella
schiena al fine di forzare un spostamento di coscienza, perché il potere del
nagual è quello che permette di portare a termine la transizione. Se il nagual
non è un apprendista impeccabile, lo spostamento non succede, come fu il caso
quando io trattai, senza successo, di collocare gli altri apprendisti in un
stato di coscienza accresciuta bastonandoli nella schiena prima di rischiamo
nel ponte.
Domandai a Don Juan che cosa implicava
quello spostamento di coscienza. Mi disse che il nagual deve dare il colpo in
un posto preciso che varia di persona a persona ma che si trova sempre
nell'area generale delle scapole. Un nagual deve vedere per specificare il
posto che si localizza nella periferia della luminosità di uno e non nel corpo
fisico in sé; una volta che il nagual l'identifica, lo spinge, più che
batterlo, e così creda una concavità, una depressione nel guscio luminoso. Lo
stato di coscienza accresciuta che deriva da quello colpo dura quello che dura
la depressione. Alcuni gusci luminosi girano alle sue forme originali per se
stessi, alcuni devono essere battuti in un altro punto al fine di essere
restaurati, ed altri più non recuperano mai già le sue forme ovali.
Don Juan diceva che i veggenti vedono la
coscienza come una brillantezza peculiare. La coscienza della vita quotidiana è
un scintillio nel lato destro che si estende dell'esterno del corpo fisico fino
alla periferia della nostra luminosità.
La coscienza accresciuta è una lucentezza
più intensa che si associa con gran velocità e concentrazione, un fulgore che
satura la periferia del lato sinistro.
Don Juan diceva che i veggenti spiegano
quello che succede col colpo del nagual, come un sgombero temporaneo di un
centro posizionato nel bocciolo luminoso del corpo. Le emanazioni dell'Aquila
in realtà si valutano e si selezionano in quello centro. Il colpo altera il suo
funzionamento normale.
Attraverso le sue osservazioni, i veggenti
sono giunti alla conclusione che i guerrieri devono essere messi in quello
stato di disorientamento. Come il cambiamento nella maniera funzioni la
coscienza sotto quelle condizioni fa che quello stato sia un territorio ideale
per delucidare i mandati dell'Aquila: permette che i guerrieri funzionino come
se stessero nella coscienza di tutti i giorni, con la differenza che possono
concentrarsi su tutto quello che fanno con una chiarezza e con una forza senza
precedenti.
Don Juan diceva che la mia situazione era
analoga alla quale egli aveva sperimentato. Il suo benefattore creó una
profonda scissione in lui, facendolo spostare si unisca ed un'altra volta della
coscienza del lato destro a quella del lato sinistro. La chiarezza e la libertà
della sua coscienza del lato sinistro si trovavano in opposizione diretta alle
razionalizzazioni ed interminabili difese del suo lato destro. Mi disse che
tutti i guerrieri sono cacciati alle profondità della stessa situazione che
quella polarità modella, e che il nagual creda e rinforza la scissione al fine
di condurre i suoi apprendisti alla convinzione che c'è una coscienza negli
esseri umani che non si è esplorato.
1. Quello che percepiamo come mondo sono le
emanazioni dell'Aquila.
Don Juan mi spiegò che il mondo che
percepiamo non ha esistenza trascendentale. Come siamo abituati con lui
crediamo che quello che percepiamo è un mondo di oggetti che esistono come li
percepiamo, quando in realtà non c'è un mondo di oggetti, bensì, piuttosto, un
universo di emanazioni dell'Aquila.
Quelle emanazioni rappresentano l'unica realtà
immutabile. È una realtà che abbraccia tutto quello che esiste, la cosa
percettibile e la cosa impercettibile, la cosa conoscibile e l'inconoscibile.
I veggenti che vedono le emanazioni
dell'Aquila li chiamano mandati a causa della sua forza urgente. Tutte le
creature viventi sono sollecitate ad usare le emanazioni, e li usano senza
arrivare a sapere quello che sono. L'uomo ordinario li interpreta come la
realtà. Ed i veggenti che vedono le emanazioni li interpretano come la regola.
Malgrado i veggenti vedano le emanazioni,
non hanno maniera di sapere che cosa è quello che stanno vedendo. Invece di
dirigersi con congetture superflue, i veggenti si occupano nella speculazione
funzionale di come possono interpretarsi i mandati dell'Aquila. Don Juan sosteneva
che intuire una realtà che trascende il mondo che percepiamo rimane nel livello
delle congetture; non basta ad un guerriero congetturare che i mandati
dell'Aquila sono percepiti istantaneamente per tutte le creature che vivono
nella terra, e che nessuna di esse li percepiscono allo stesso modo. I
guerrieri devono tentare di presenziare al flusso di emanazioni e
"vedere" la maniera come l'uomo ed altri esseri viventi l'usano per
costruire il suo mondo percettibile.
Quando proposi utilizzare la parola "descrizione"
invece di emanazioni dell'Aquila, Don Juan mi chiarì che non stava facendo una
metafora. Disse che la parola descrizione connota un accordo umano, e che
quello che percepiamo emerge da un mandato nel quale non contano gli accordi
umani.
2. L'attenzione è quella che ci fa
percepire le emanazioni dell'Aquila come l'atto di "scremare?"
Don Juan diceva che la percezione è una
facoltà fisica che coltivano le creature viventi; il risultato finale di questa
coltivazione negli esseri umani è conosciuto, tra i veggenti, come
"attenzione." Don Juan descrisse l'attenzione come l'atto di
agganciare e canalizzare la percezione. Disse che quell'atto è la nostra
impresa più singolare che copre tutta la gamma di alternativa e possibilità
umane. Don Juan stabilì una distinzione precisa tra alternativa e possibilità.
Alternative umane sono quelle che siamo qualificati per scegliere come persone
che funzionano dentro il mezzo sociale. Il nostro panorama di questo dominio è
molto limitato. Possibilità umane risultano essere quelli che siamo qualificati
per riuscire come esseri luminosi.
Don Juan mi rivelò un schema
classificatorio di tre tipi di attenzione, enfatizzando che chiamarli
"tipi" era erroneo. In realtà, si tratta di tre livelli di
conoscenza: la prima, la seconda e la terza attenzione; ognuna di esse è un
dominio indipendente, completo in sé.
Per un guerriero che si trova nelle fasi
iniziali del suo apprendistato, la prima attenzione è la più importante delle
tre. Don Juan diceva che il suo proposte esplicatorie era tentativi di portare
al primo piano il modo come funziona la prima attenzione, qualcosa che è
completamente inosservato per noi. Considerava imperativo che i guerrieri
comprendessero la natura della prima attenzione se è che andavano ad avventurarsi
nelle altre due.
Mi spiegò che alla prima attenzione gli è
stato insegnato a muoversi istantaneamente attraverso tutto un spettro delle
emanazioni dell'Aquila, senza mettere la minore enfasi evidente in ciò, al fine
di raggiungere "unità percettive" che tutti noi abbiamo imparato che
sono percettibili. I veggenti chiamano "scremare" a questa impresa
della prima attenzione, perché implica la capacità di sopprimere le emanazioni
superflue e selezionare quali di esse devono enfatizzarsi.
Don Juan spiegò questo processo prendendo
come esempio la montagna che vedevamo in quello momento. Sostenne che la mia
prima attenzione, al momento di vedere la montagna, aveva scremato un'infinita
quantità di emanazioni per ottenere un miracolo di percezione; un scremi che
tutti gli esseri umani conoscono perché ognuno di essi lo è riuscito
raggiungere per sé stesso.
I veggenti dicono che tutto quello che la
prima attenzione sopprime per ottenere un scremi, non può essere oramai
recuperato per la prima attenzione sotto nessuna condizione. Una volta che
impariamo a percepire in termini di screma, i nostri sensi non registrano
oramai le emanazioni superflue. Per delucidare questo punto mi diede l'esempio
di quello scremi "corpo umano." Disse che nostra prima attenzione è
completamente incosciente delle emanazioni che compongono il luminoso guscio
esterno del corpo fisico. Il nostro bocciolo ovale non è soggetto alla
percezione; si sono respinti le emanazioni che lo farebbero percettibile in
favore del quale permettono alla prima attenzione di percepire il corpo fisico
come lo conosciamo.
Pertanto, la meta percettivo che devono
riuscire i bambini mentre maturano, consiste in imparare ad isolare le
emanazioni appropriate col fine da canalizzare la sua percezione caotica e
trasformarla nella prima attenzione; facendolo, imparano a costruire screma.
Tutti gli esseri umani maturi che circondano i bambini insegnano loro a
scremare. Presto o tardi i bambini imparano a controllare la sua prima
attenzione al fine di percepire gli screma in termini simili a quelli dei suoi
maestri.
Don Juan non smise mai di meravigliarsi con
la capacità degli esseri umani di impartire ordine al caos della percezione.
Sosteneva che ognuno di noi, per i suoi propri meriti, è un mago magistrale e
che la nostra magia consiste in influenzare di realtà scremali che nostra prima
attenzione ha imparato a costruire. Il fatto che percepiamo in termini di
screma è il mandato dell'Aquila, ma percepire i mandati come oggetti è il
nostro potere, nostro Don magico. La nostra fallacia, d'altra parte, è che
finiamo sempre per essere unilaterali dimenticando che li scremi sono solo
reali nel senso che li percepiamo come reali, dovuto al potere che abbiamo per
farlo. Don Juan richiamava a questo un errore di giudizio che distrugge la
ricchezza delle nostre misteriose origini.
3. A scremali dà loro sentito il primo
anello di potere.
Don Juan diceva che il primo anello di
potere è la forza che esce dalle emanazioni dell'Aquila per colpire
esclusivamente nostra prima attenzione. Spiegò che lo è stato rappresentato
come un "anello" a causa del suo dinamismo, del suo movimento
ininterrotto. Lo è stato chiamato anello "di potere" dovuto, in primo
luogo, al suo carattere compulsivo, e, secondo, a causa della sua capacità
unica di fermare le sue opere, di cambiarli o di ritornare la sua direzione.
Il carattere compulsivo si mostra meglio
nel fatto che non sollecita solo alla prima attenzione a costruire e perpetuare
screma, ma esige un consenso di tutti i partecipanti. A tutti noi c'è esatto un
completo accordo sulla fedele riproduzione di screma, perché la conformità al
primo anello di potere deve essere totale.
Precisamente quella conformità è quella che
ci dà la certezza che li scremi sono oggetti che esistono come tali,
indipendentemente della nostra percezione. Inoltre, la cosa compulsiva del
primo anello di potere non cessa dopo l'accordo iniziale, ma esige che
continuamente rinnoviamo l'accordo. Tutta la vita dobbiamo operare come se, per
esempio, ognuno di nostri scremi fossero percettivomente i primo per ogni
essere umano, nonostante linguaggi e di culture, Don Juan concedeva che benché
tutto quello sia troppo serio per prenderlo per scherzo, il carattere urgente
del primo anello di potere è tanto intenso che ci forza a credere che se la
"montagna" potesse avere una coscienza propria, questa si
considererebbe come quello scremi che abbiamo imparato a costruire.
La caratteristica più preziosa del primo
anello di potere ha per i guerrieri è la singolare capacità di interrompere il
suo flusso di energia, o di sospenderlo del tutto. Don Juan diceva che questa è
una capacità latente che esiste in tutti noi come unità di appoggio. Nel nostro
stretto mondo di screma non c'è necessità di usarla. Dato che siamo tanto
efficientemente attenuati e difesi per la rete della prima attenzione, non ci
rendiamo conto, neanche vagamente, che abbiamo risorse nascoste. Tuttavia, se
ci fossi presentato un'altra alternativa per scegliere, come è l'opzione del
guerriero di utilizzare la seconda attenzione, la capacità latente del primo
anello di potere potrebbe incominciare a funzionare e potrebbe usarsi con
risultati spettacolari.
Don Juan sottolinea che la maggiore impresa
degli stregoni è il processo di attivare quella capacità latente; egli lo
chiamava bloccare il tentativo del primo anello di potere. Mi spiegò che le
emanazioni dell'Aquila che sono stati già isolate per la prima attenzione per
costruire il mondo di tutti i giorni, esercita una pressione infrangibile nella
prima attenzione. Affinché questa pressione fermi la sua attività, il tentativo
deve essere sloggiato. I veggenti richiamano a questo un'ostruzione o
un'interruzione del primo anello di potere.
4. Il tentativo è la forza che muove al
primo anello di potere.
Don Juan mi spiegò che il tentativo non si
riferisce ad avere un'intenzione, o desiderare una cosa o un'altra, bensì
piuttosto si tratta di una forza imponderabile che ci fa comportarci di maniere
che possono descriversi come intenzione, desiderio, volizione, eccetera. Don
Juan non lo presentava come una condizione di essere, proveniente di uno
stesso, come è un'abitudine prodotta per la socializzazione, o una reazione
biologica, bensì piuttosto lo rappresentava come una forza privata, intima che
possediamo ed usiamo individualmente come una chiave che fa che il primo anello
di potere si muova di maniere accettabili. Il tentativo è quello che dirige
alla prima attenzione affinché questa si concentri sulle emanazioni dell'Aquila
dentro una certa cornice. Ed anche il tentativo è quello che ordina al primo
anello di potere ad ostruire o interrompere il suo flusso di energia.
Don Juan mi suggerì che concepisse il
tentativo come una forza invisibile che esiste nell'universo, senza riceversi a
se stessa, ma che anche cosí colpisce tutto: forza che creda e che mantiene gli
screma.
Affermò che li scremi devono svagarsi
incessantemente per essere influenzati di continuità. Al fine di ricrearli ogni
volta col fresco che devono per costruire un mondo vivente, dobbiamo tentarli
ogni volta che li costruiamo. Per esempio, dobbiamo tentare la
"montagna" con tutte le sue complessità affinché quello scremi si
materializzi completo. Don Juan diceva che per un spettatore che si comporta
esclusivamente in base alla prima attenzione senza l'intervento del tentativo,
la "montagna" apparirebbe come un scremi interamente distinto.
Potrebbe apparire come quello scremi "forma geometrica" o
"macchia amorfa di colorazione." Affinché quello scremi montagna si
completi, lo spettatore deve tentarlo, sia già involontariamente attraverso la
forza urgente del primo anello di potere, o premeditatamente, attraverso
l'allenamento del guerriero.
Don Juan mi segnalò le tre maniere come
c'arriva il tentativo. Il più predominante è conosciuto dai veggenti come
"il tentativo del primo anello di potere." Questo è un tentativo
cieco che c'arriva per una casualità. È come se stessimo nella sua strada, o
come se il tentativo si mettesse nel nostro. Inevitabilmente ci scopriamo
acchiappati nei suoi fuseaux senza avere né il minore controllo di quello che
sta succedendoci.
La seconda maniera è quando il tentativo
c'arriva per il suo proprio conto. Questo richiede un considerabile grado di
proposito, un senso di determinazione per la nostra parte. Solo nella nostra
capacità di guerrieri possiamo collocarci volontariamente durante il tragitto
del tentativo; lo convochiamo, per così dirlo. Don Juan mi spiegò che la sua
insistenza per essere un guerriero impeccabile non era nient'altra che un
sforzo per lasciare che il tentativo sapesse che egli si sta mettendo nella sua
strada.
Don Juan diceva che i guerrieri chiamano
"potere" a questo fenomeno. E così quando parlano di avere potere
personale, si riferiscono al tentativo che arriva loro volontariamente. Il
risultato, mi dicevo, può descriversi come la facilità di trovare nuove
soluzioni, o la facilità di colpire la gente o gli avvenimenti. È come se altre
possibilità, sconosciute previamente per il guerriero, di subitaneo Lei
ritornasse apparenti. Di questa maniera, un guerriero impeccabile non decide
mai in anticipo di niente, ma i suoi atti sono tanto decisivi che sembra come
se il guerriero avesse calcolato in anticipo ogni aspetto della sua attività.
La terza maniera troviamo come al tentativo
è la più rara e complessa delle tre; succede quando il tentativo ci permette di
armonizzare con lui. Don Juan descriveva questo stato come il vero momento di
potere: il culmine degli sforzi di tutta una vita alla ricerca
dell'impeccabilità. Solo i guerrieri supremi l'ottengono, e mentre si trovano
in quello stato, il tentativo si lascia maneggiare per essi a volontà. È come
se il tentativo si fosse fuso in quelli guerrieri, e facendolo li trasforma in
una forza pura, senza preconcepciones. I veggenti richiamano a questo stato il
"tentativo del secondo anello di potere", o "volontà."
5. Il primo anello di potere può essere
fermato mediante un blocco funzionale della capacità di armare scremi.
Don Juan diceva che la funzione dei
non-fare è creare un'ostruzione nella messa a fuoco abituale di nostra prima
attenzione. I non-fare sono; in questo senso, manovre destinate a preparare la
prima attenzione per il blocco funzionale del primo anello di potere o, in
altre parole, per l'interruzione del tentativo.
Don Juan mi spiegò che questo blocco
funzionale che è l'unico metodo di utilizzare sistematicamente la capacità
latente del primo anello di potere, rappresenta un'interruzione temporanea che
il benefattore creda nella capacità di armare screma del discepolo. Si
commercia di una premeditata e poderosa intrusione artificiale nella prima
attenzione, con l'oggetto di spingerla oltre le apparenze che li scremi
conosciuti ci presentano; questa intrusione si riesce interrompere il tentativo
del primo anello di potere.
Don Juan diceva che per portare a termine
l'interruzione, il benefattore tratta al tentativo come quello che veramente è:
un processo, un flusso, una corrente di energia che eventualmente può
trattenersi o riorientarsi. Un'interruzione di questa natura, tuttavia, implica
una commozione di tale grandezza che può forzare al primo anello di potere a
trattenersi del tutto; una situazione impossibile da concepire abbasso le
nostre condizioni normali di vita. Ci risulta impensabile che possiamo
retrocedere i passi che prendiamo consolidando la nostra percezione, ma è
fattibile che scendo l'impatto da quell'interruzione possiamo collocarci in una
posizione percettivo molto simile a quella dei nostri principi, quando i
mandati dell'Aquila erano emanazioni che non influenzavamo ancora di
significato.
Don Juan diceva che qualunque procedimento
che il benefattore possa cessare per creare questa interruzione, deve essere
intimamente legata col suo potere personale, pertanto, un benefattore non usa
nessun processo per maneggiare il tentativo, ma attraverso il suo potere personale
lo muove e lo mette a portata dell'apprendista.
Nel mio caso, Don Juan riuscì il blocco
funzionale del primo anello di potere mediante un processo complesso che
combinava tre, metodi: ingestione di piante allucinogene, manipolazione del
corpo e manovrare il tentativo stesso.
Nel principio Don Juan si appoggiò
fortemente sull'ingestione di piante allucinogene, apparentemente a causa della
persistenza del mio lato razionale. L'effetto fu tremendo, e tuttavia ritardò
l'interruzione che si cercava. Il fatto che le piante fossero allucinogene
offriva alla mia ragione la giustificazione perfetta per congregare tutte le
sue risorse disponibili per continuare esercitando il controllo. Io ero
convinto che poteva spiegare logicamente qualunque cosa che sperimentava,
insieme alle inconcepibili imprese che Don Juan e dono Genaro normalmente
portavano a capo per creare le interruzioni, come distorca percettivoes causato
per l'ingestione di allucinogeni.
Don Juan diceva che l'effetto più notevole
delle piante allucinogene era qualcosa che ogni volta che li ingeriva io
interpretavo come la peculiare sensazione che tutto intorno a me essudava una
sorprendente ricchezza. C'erano colori, forme, dettagli che prima non aveva
presenziato mai. Don Juan utilizzò questo incremento della mia abilità per
percepire, e mediante una serie di ordini e commenti mi costringevo ad entrare
in un stato di agitazione nervosa. Poi manipolava il mio corpo e mi facevo
cambiare un lato all'altro della coscienza, fino a che aveva creato visioni
fantasmagoriche o scene completamente reali con creature tridimensionali che
era impossibile che esistessero in questo mondo.
Don Juan mi spiegò che una volta che si
rompe la relazione diretta tra il tentativo e scremali che stiamo costruendo,
questa non può restituirsi mai già. A partire da quello momento acquisiamo
l'abilità di acchiappare una corrente di quello che egli conosceva come
"tento fantasma", o il tentativo di scremali che non sono presenti
nel momento o nel posto dell'interruzione, quello è, un tentativo che rimane a
nostra disposizione attraverso qualche aspetto della memoria.
Don Juan sosteneva che con l'interruzione
del tentativo del primo anello di potere diventiamo ricettivi e malleabili; un
nagual può introdurre allora il tentativo del secondo anello di potere. Don
Juan si trovava convinto che i bambini di una certa età si trovano in una
situazione simile di ricettività; stando privato di proposito, rimangono
intelligenti affinché è imprimato qualunque tentativo accessibile ai maestri che
li circondano.
Dopo un periodo di ingestione continua di
piante allucinogene, Don Juan descontinuó totalmente il suo uso. Tuttavia,
ottenne nuove ed ancora più drammatiche interruzioni in me manipolando il mio
corpo e diventando cambiare stati di coscienza, combinando tutto questo con
manovrare il tentativo stesso. Attraverso una combinazione di istruzioni
mesmerizantes e di commenti appropriati, Don Juan creava di proposito una
corrente fantasma, ed io ero condotto a sperimentare gli screma comuni e correnti
come qualcosa di inimmaginabile. Egli concettualizzò tutto quello come scorgere
l'immensità della "Aquila."
Don Juan mi guidò magistralmente di
proposito attraverso innumerevoli interruzioni fino a che si convinse, come
veggente che il mio corpo mostrava l'effetto del blocco funzionale del primo
anello di potere. Diceva che poteva vedere un'attività disabituata nel mio
guscio luminoso intorno all'area delle scapole. La descrisse come una fossetta
che si era formato esattamente come se la luminosità fosse una cappa muscolare
contratta per un nervo.
Per me, l'effetto del blocco funzionale del
primo anello di potere fu che riuscì a cancellare la certezza che tutta la mia
vita aveva avuto che era "reale" quello che reprimevano i miei sensi.
Silenziosamente entrai in un stato di silenzio interno. Don Juan diceva che
quello che dà ai guerrieri quell'estrema incertezza che il suo benefattore
sperimentò alla fine della sua vita, quella rassegnazione al fallimento che
egli stesso si trovava vivendo, è il fatto che un barlume dell'immensità
dell'Aquila ci lascia senza speranze. La speranza è risultata della nostra
familiarità con scremali e dell'idea che li controlliamo. In tali momenti la
vita di guerriero può aiutarci solo a perseverare nei nostri sforzi per scoprire
quello che l'Aquila ci ha occultato, ma senza speranze che possiamo arrivare a
comprendere qualche volta quello che scopriamo.
6. la seconda attenzione.
Don Juan mi spiegò che l'esame della
seconda attenzione deve cominciare con dare si racconta che la forza del primo
anello di potere che c'incassa, è un limitrofo fisico, concreto. I veggenti
l'hanno descritto come una parete di nebbia, una barriera che può essere
portata sistematicamente alla nostra coscienza per mezza del blocco del primo
anello di potere; e dopo può essere perforata per mezzo dell'allenamento del
guerriero.
Perforando la parete di nebbia, uno entra
in un vasto stato intermedio. Il compito dei guerrieri consiste in
attraversarlo fino ad arrivare alla seguente linea divisoria che si dovrà
perforare al fine di entrare in quello che propriamente è l'altro io o la
seconda attenzione.
Don Juan diceva che le due linee divisorie
sono perfettamente discernibili. Quando i guerrieri perforano la parete di
nebbia, sentono che si ritorcono i suoi corpi, o sentono un intenso tremore
nella cavità dei suoi corpi, in generale alla destra dello stomaco o attraverso
la parte mezza, di destra a sinistra. Quando i guerrieri perforano la seconda
linea, sentono un acuto scricchiolio nella parte superiore del corpo, qualcosa
come il suono di un piccolo ramo secco che è partita in due.
Le due linee che incassano alle due
attenzioni, e che li bollano individualmente; sono conosciute dai veggenti come
le linee parallele. Queste bollano le due attenzioni mediante il fatto che si
estendono fino all'infinito, senza permettere mai l'incrocio non sia che li sia
perforati.
Tra le due linee esiste un'area di
coscienza specifica che i veggenti chiamano limbo, o il mondo che si trova tra
le linee parallele. Si tratta in due di un spazio reale enormi ordini di
emanazioni dell'Aquila; emanazioni che si trovano dentro le possibilità umane
di coscienza. Uno è il livello che creda l'io della vita di tutti i giorni, e
l'altro è il livello che creda l'altro io. Come il limbo è una zona
transizionale, lì i due campi di emanazioni si estendono l'uno sull'altro. La
frazione del livello che c'è conosciuto che si estende dentro quell'area,
aggancia ad una porzione del primo anello di potere; e la capacità del primo
anello di potere di costruire scremi, c'obbliga a percepire una serie di screma
nel limbo che sono quasi come quelli della vita giornaliera, a meno che
appaiono grotteschi, insoliti e contorti. Di quella maniera il limbo ha tratti
specifici che non cambiano arbitrariamente ciascuna volta che uno mette in lui.
C'è in lui tratti fisici che somigliano gli screma della vita quotidiana.
Don Juan sosteneva che la sensazione di
pesantezza che si sperimenta nel limbo si deve al carico crescente che si è
impiegato nella prima attenzione. Nell'area che si trova giustamente oltre alla
parete di nebbia possiamo comportarci ancora come lo facciamo normalmente; è
come se ci trovassimo in un mondo grottesco ma riconoscibile. Come penetriamo
più profondamente in lui, oltre la parete di nebbia, progressivamente diventa
più difficile riconoscere i tratti o comportarsi in termini dell'io conosciuto.
Mi spiegò che era possibile fare che invece
della parete di nebbia apparisse qualunque altra cosa, ma che i veggenti hanno
optato per accentuare quello che consuma minore energia: visualizzare quello
limitrofo come una parete di nebbia non costa nessun sforzo.
Quello che esiste oltre la seconda linea
divisoria è conosciuto dai veggenti come la seconda attenzione, o l'altro io, o
il mondo parallelo; e l'atto di oltrepassare i due limitrofo è conosciuto come
"attraversare" le linee parallele.
Don Juan pensava che io potevo assimilare
più fermamente questo concetto se mi descrivevo ogni dominio della coscienza
come una predisposizione percettivo specifico. Mi disse che nel territorio
della coscienza della vita quotidiana, ci troviamo inesplicabilmente
ingarbugliati nella predisposizione percettivo della prima attenzione. A
partire dal momento in cui il primo anello di potere incomincia a costruire
screma, la maniera di costruirli si trasforma nella nostra predisposizione
percettivo normale. Rompere la forza unificatrice della predisposizione
percettivo della prima attenzione implica rompere la prima linea divisoria. La
predisposizione percettivo normale passa allora all'area intermedia che si
trova tra le linee parallele. Uno continua costruendo screma quasi normali per
un tempo. Ma conformi si avvicina uno a quello che i veggenti chiamano la
seconda linea divisoria, la predisposizione percettivo della prima attenzione
incomincia a cedere, perde forza. Don Juan diceva che questa transizione è
marcata per una repentina incapacità di ricordare o di comprendere quello che
si sta facendo.
Quando si capisce la seconda linea
divisoria, la seconda attenzione incomincia ad agire sui guerrieri che portano
a termine il viaggio. Se questi sono inesperti, la sua coscienza si svuota,
rimane in bianco. Don Juan sosteneva che questo succede perché si stanno
avvicinando ad un spettro delle emanazioni dell'Aquila che non hanno ancora una
predisposizione percettivo sistematizzato. Le mie esperienze con la Grassa e la
donna nagual oltre la parete di nebbia era un esempio di quell'incapacità.
Viaggiai fino all'altro io, ma non potei rendere conto di quello che aveva
fatto per la semplice ragione che la mia seconda attenzione si trovava ancora
non formulata e non mi davo l'opportunità di organizzare tutto quello che aveva
percepito.
Don Juan mi spiegò che uno incomincia ad
attivare il secondo anello di potere forzando alla seconda attenzione a
svegliare del suo stupore. Il blocco funzionale del primo anello di potere
riesce questo. Dopo, il compito del maestro consiste in ricreare la condizione
che diede principio al primo anello di potere, la conclusione di stare saturato
di proposito. Il primo anello di potere è messo in movimento per la forza del
tentativo dato per chi insegnano a scremare. Come il mio maestro egli si stava
dando, allora, un nuovo tentativo che creerebbe un nuovo mezzo percettivo.
Don Juan diceva che prende tutta una vita
di disciplina incessante che i veggenti chiamano tentativo infrangibile,
preparare al secondo anello di potere affinché possa costruire screma
dell'altro livello di emanazioni dell'Aquila. Dominare la predisposizione
percettivo dell'io parallelo è un'impresa. di valore incomparabile che pochi
guerrieri riescono. Silvio Manuel era uno di quelli pochi.
Don Juan mi notò che non deve cercare di
dominarla deliberatamente. Se questo succede, deve essere mediante un processo
naturale che si districa senza un gran sforzo della nostra parte. Mi spiegò che
la ragione di questa indifferenza poggia sulla considerazione pratica che
dominandola semplicemente diventa molto difficile romperla, perché attivamente
la meta che i guerrieri perseguono è rompere entrambi il predisposizioni
percettive per entrare nella libertà finale della terza attenzione.
FINE
* * *
Questo materiale fu processato da Luis di
Cuba ed apportato per diffusione libera e gratuita.
Novembre di 2002