IL COMPAGNO DAGLI OCCHI SENZA CIGLI |
Ho
lavorato quasi tutta la notte al mio romanzo veneziano. Se questo ardore mi
dura, tra tre settimane l'avrò compiuto. Verso le quattro il camino s'è spento,
ma non ho sentito l'aria raffreddarsi intorno alla mia illusione.
Veramente
mi pareva di respirare nella fornace, coi vetrai di Murano, e di non avere in
mano la mia penna ma un ferro da soffio con in cima il vetro fuso, e di non
essere rischiarato dal mio quieto olio d'oliva ma dalla vampa della grande ara
incandescente. Mi bisognava, per creare il calice, convertir la parola in
quella piccola pera di pasta rossa dal garzone aggiunta di tratto in tratto
alla forma che nasce sotto i tocchi dell'ordegno. Mi bisognava avere le mani
pieghevoli prudenti e bruciacchiate di quel buon Seguso, i suoi gesti agili e
leggeri come "i gesti d'una danza silenziosa". Ecco alfine, sul
foglio di carta, il vetro che si tempera a poco a poco, quasi colorato d'un
colore mattutino dal mio spirito come da un'alba più profonda di quella vera.
Sembra
che la più potente arte evocatrice debba essere, come la magìa, notturna o
antelucana. Ho notato che la più bella pagina è quasi sempre scritta nell'ora
dei sogni, nell'ora del gallo e della brina. Il corpo è desto, gli occhi sono
aperti; ma l'anima è "prossima al risveglio" come quella del
dormiente ed ha una misteriosa facoltà di penetrare ogni oggetto e di
trasmutarsi in esso. Che cosa è la fantasia se non un sognar di sognare?
Mi
sono coricato senza stanchezza; e non mi pareva d'essere qualcuno che sia per
risvegliarsi. Le imagini nel mio cervello non più avevano il carattere delle
apparizioni ma dei semplici ricordi. Ripensavo in realtà al giorno di Murano,
quando avevo accumulata la materia da sottoporre alla scelta dell'arte. E consideravo
le cose tralasciate dalla scelta, ormai inservibili. Esse appartenevano a
un'altra vita, a un altro mondo, a una vita spenta, a un mondo estinto. In un
campetto erboso, attorneato di magre acacie, davanti a Santa Maria degli
Angeli, le donne muranesi sedute in su le porte infilavano le conterie,
immergendo nel pieno canestro un fascio di fili di ferro e poi risollevandolo
con gli acini via via passati in que' fili; e l'atto ripetevano uguale, senza
pausa, fin nell'oscurità del sonno.
Lo
sgomento del destarsi all'ora insolita è oggi più grave. Invano sto in ascolto
per riconoscere i rumori diurni. Il silenzio di mezzogiorno è come quello di
mezzanotte, ma carico di non so che angoscia e di non so che minaccia. La mia
inquietudine somiglia quasi alla paura di vivere, alla paura di riesperimentare
l'evento e l'uomo. Stamani la mia armatura ha un fallo; e temo la ferita.
Quale
ferita, e da chi? La causa di tanto sgomento non è se non una visita
annunziata! Debbo oggi rivedere, dopo vent'anni, un mio compagno di collegio e
dietro di lui lo spettro della primissima giovinezza, la larva ambigua della
pubertà.
E'
tornato a Firenze dall'Inghilterra dove ha vissuto molti anni oscuri e duri,
interrotti da rare notizie. So che è malato, anzi condannato. D'indugio in
indugio, ho differito l'incontro penoso. La sua lettera di ieri non mi consente
più alcun pretesto. Ho già il cuore stretto e la gola chiusa. Guardo con
indifferenza le pagine di stanotte; non ho voglia di rileggerle. La coppa di
vetro mi sembra andata in frantumi, già prima che la mano convulsa di Perdita
la spezzi. Può talvolta la vita essere una così cruda nemica dell'arte? Nulla
più mi lega alla mia opera. Il ritmo concorde s'arresta. La legge della
bellezza cessa di regolare il mio giorno e la mia solitudine. Una forza ignota
sta per sopraggiungere e per entrare; come balza di tratto in tratto e
s'attende il rumore d'una chiave nella serratura che una lanterna cieca
illumini.
Io
sono uno di quei navigatori che, per non udire le sirene del Passato e per non
cedere alla tentazione di volgersi
indietro mollando la scotta, si turano le orecchie con la cera d'Ulisse.
Nondimeno m'accade talvolta di sentir rivivere le cose morte con sì grande
polso, che il presente n'è soverchiato e l'avvenire n'è tutto pallido.
E'
una di quelle giornate chiare in cui il paese toscano nudo e risecco sembra
assumere l'aspetto di quelle primitive incisioni in legno a contorno, ove soli
grandeggiano Dante grifagno e il suo duca. la spiritualità dantesca v'è come
indurita in uno stile che mi rammenta il principio del Canto di Pier della
Vigna. S'io schiantassi uno stecco di quegli oppi o rompessi un nodo di quelle
viti, forse n'uscirebbe insieme "parole e sangue".
Cammino
per la rèdola, aspettando. I tralci si dànno la mano e s'intrecciano come i
putti nel pergamo di Prato. Sono magri e storti, ma col segreto del ritmo
evocano l'imagine dei balzanti corpi infantili. E ora sembra che si ricomponga
intorno alla mia ansietà l'incanto di quella danza gioiosa che ne' miei sette
anni di clausura mi diede l'illusione d'esser prigioniero non d'un branco di
pedagoghi ma d'una ghirlanda di genietti.
Perché
ho in me il sentimento che quel marmo m'abbia nutrito come pane? Forse per suo
colore di spica matura quando il sole lo scalda e l'ingialla. L'atto del
volgere il capo in su a riguardarlo m'era istintivo come all'uccello il levar
la gola per beccare il frutto sospeso. La visione entrava in me come un sapore;
e son certo che il ricordo non m'inganna, e che non attribuisco alla mia ingenuità
di quel tempo la raffinatezza della mia sensibilità presente.
Anche
allora avevo un mio particolar modo di apprendere la materia e di possederla.
Se ripenso al divino capitello di bronzo che nell'angolo esterno del Duomo
sostiene il ballatoio e se ripenso al suo compagno mancante e alla mensoletta
di pietra nuda ch'è nel suo luogo, mi pare che in quel tempo io considerassi
quelle cose non come esanimi ed estranee ma come attinenti alla mia vita e alla
mia sorte. Domandavo all'istitutore: "Perché quel capitello manca?"
Egli mi rispondeva: "Dicono che fu portato via dagli Spagnuoli." Ma
io rimanevo pensoso e grave come se gli avessi domandato: "Che è il mondo?
che è la morte?" e fossi stato deluso da una risposta insulsa.
Crepuscolo
dell'adolescenza, pieno di musiche soffocate e di pensieri impigliati nelle
vene inestricabili, come parlerò io di te?
Ero
il primo nella scuola, ma volevo sempre essere l'ultimo nella fila, all'ora del
passeggio; e Dario, l'amico che aspetto, mi veniva allato. Quando, nel tornare
dalla Porta Mercatale, passavamo lungo il fianco sinistro del Duomo per
seguitar poi a manca ed entrare nell'ombra della via stretta che sbocca davanti
il Palazzo pretorio, io volgevo il capo indietro verso la faccia meridionale di
pietra verde e di pietra dorata a bande, verso il pulpito color di farro, verso
il grande angelico nido impietrito che radevano i voli e le strida dei
balestrucci. Il sospiro della libertà mi gonfiava il cuore. Avendo gli occhi
occupati, m'accadeva di errare col piede e d'escir dalla fila. Dario allora mi
guidava, prendendomi il braccio, finché non mi fossi distolto.
Così
ora il ricordo l'associa in maniera visibile a un atto che forse meglio d'ogni
altro esprime la creatura ch'io era. Giunti alla porta della nostra carcere, udivamo il passo misurato dei
compagni risonar nell'androne quando noi ultimi eravamo ancòra all'aperto. Bisognava che il prefetto ci
sospingesse. Eravamo insofferenti e tristi; ma la forza del nostro legame ci
consolava. Certe sere, rientrando nella camerata senza lumi, ci toglievamo i
cinturini e ce ne servivamo come flagelli per flagellare le tavole dello
studio. I compagni ci imitavano. Era un grande strepito di battiture come
all'ufficio delle Tenebre, nella Settimana Santa, quando si batte con le bacchette su le panche in
commemorazione del Signore paziente. Io e Dario eravamo così vicini che
vedevamo rilucere il bianco de' nostri occhi. Ci prendeva una frenesia
subitanea, e raddoppiavamo la violenza come se fossimo per accoppare un nemico
dall'osso duro. Sotto quella monelleria di tutti si celava qualcosa ch'era comune
a noi due soli; e non sapevamo che. Si faceva la luce. Sopravveniva il censore
furibondo, ci trovava tutti coi cinturini in mano e con l'aria dei manigoldi
battitori nelle case di Caiafa o di Pilato. Domandava: "Chi è stato il
primo?" Sùbito Dario rispondeva "Io!" E la mia risposta seguiva
la sua come il secondo colpo del fucile a due canne. "Dunque chi?"
Questa volta i due colpi partivano nel tempo medesimo. Insieme scrollavamo le
spalle, sotto la punizione.
Se
rileggo la lettera che Michelangelo scrisse il 17 d'ottobre del 1509 al suo
fratello Buonarroto, mi sembra che mai fu proferita da uomo parola più amara. "Non ho amici
di nessuna sorte, e non ne voglio." Certo, come più la vita s'inalza, più
diventa dura. Ma io, che ho veduto intorno a me tante cose corrompersi e
finire, non posso pensare senza orrore al giorno in cui perderò anche la fede
nell'amicizia ed estirperò da me il bisogno di confidarmi.
La
sorte ha voluto che io provassi la dolcezza dell'amicizia assai prima che
quella dell'amore. Per ciò m'è rimasto per tutta la vita questo rammarico
insieme con questa attesa. Di poi non ho mai
conosciuto un sentimento più fresco e più franco di quello che mi
riempiva il cuore quando, al rullo serale del tamburo indicante la fine delle
tre lunghe ore di studio, mi levavo dalla mia tavola mentre Dario si levava
dalla sua e andavamo l'uno incontro all'altro, fra il brutale clamore dei
compagni, con un sorriso silenzioso, guardandoci negli occhi un poco abbagliati
e stanchi dal lume della lucerna che troppo spesso faceva moccolaia.
Eppure
altro olio ci bisognava, per rischiarare il nostro sogno.
Or
è qualche tempo, rileggevo nel libro di Vespasiano da Bisticci la Vita di Giuliano Cesarini una sùbita
commozione mi avvicinava all'uomo divenutomi vivo veramente. "La notte gli
mancava talvolta il lume, e non ne poteva avere tanto che potesse istudiare; e
la sera quando si levavano da tavola i candelieri dov'egli stava, ragunava
certo sego, che v'avanzava, e' pezzuoli di candele e con quelli supperiva la
notte a studiare." Per sette inverni, ogni sera io feci come il cardinale
di Santo Agnolo. Terminato lo studio delle tre ore, mi accingevo all'ispezione
delle lucerne. Ognuno di noi ne aveva una, di quelle d'ottone chiamate
fiorentine, da poter alzare e abbassare sul fusto fornito d'un anello in sommo,
da passarvi il dito per portarla qua e là. Io svitavo l'anello della mia e toglievo dal fusto il
serbatoio perché mi fusse più facile riempirlo. Il simile facevo ad ogni altra
su ciascuna tavola, scolandone il poco d'olio rimasto e lasciando a secco i
lucignoli; cosicché quasi sempre, a forza di gocciole, mi riesciva di colmare
la mia e di riaccenderla, bene smoccolata e nettata. Con la lunga pratica ero
divenuto così accorto in questa bisogna di vergine saggia e così spedito che
non perdevo né una stilla né un attimo. Come nella parabola evangelica, io e il
mio amico dovevamo andare incontro al nostro Signore e il nostro Signore si chiamava
Napoleone Bonaparte. Accendevamo la lucerna per abbandonarci alla celebrazione
dell'eroe e della sua gesta.
Dario
era più fervente di me, tanto che pareva posseduto da una vera mania. Aveva
votato al Còrso una specie di zelo fanatico, ond'era escluso qualunque culto o
studio, in ispecie quello degli aoristi. Per ciò, dotato d'intelletto pronto e
acutissimo, riesciva mediocre scolare. Fisso al passaggio della Beresina, non
dava alcuna importanza ai diecimila di Senofonte.
Non
so s'egli fosse nato con quel viso che gli vedevo o se glie lo avesse
foggiato la sua passione stessa. Forse
la mania gli era sorta dal fondo dello specchio, tanto egli rassomigliava al
giovinetto d'Aiaccio che le stampe mostrano in meditazione dentro la grotta di
Milleli: pallore quasi diafano, labbra arcuate, occhi grigi senza cigli e con
scarsi sopraccigli, mento robusto, gote scarne, capelli fini e lisci sopra
un'alta fronte solcata di vene cerulee, con in tutto l'aspetto qualcosa di
timido e d'indomito, di gentile e di selvaggio. Tale doveva essere il figlio di
Letizia alla scuola di Brienne.
Suo
padre esercitava non so che officio onorevole nella Casa Reale, al Palazzo
Pitti. Mi ricordo d'aver sentito soffiare per qualche tempo nell'aria, contro
il mio amico, una di quelle calunnie infami che si creano ne' collegi tra
ragazzi feroci. Nessuno osava rinfacciargli apertamente la bastardigia, ché lo
sapevano coraggioso e manesco. Ma a un altro de' nostri compagni era apposta la
stessa macchia; e costui aveva in verità una strana rassomiglianza col Re galantuomo
e galante. Guardandolo, si pensava ai grandi baffi e al gran pizzo che gli
mancavano. In tutto il resto era coniato
come l'effigie nelle palanche.
Quando all'ora della ricreazione io me ne stavo
in disparte a guardare con quella pupilla nel tempo medesimo lucida e
allucinata che tale ancor serbo sotto la palpebra, vedevo spesso crearsi nel tumulto
fanciullesco improvvise figure di malvagità quasi in aspetto di mostri a più
gambe a più braccia a più teste. Una volontà violenta e perfida pareva saldare
insieme i corpi di tre o quattro compagni. Li prendeva per le reni e li
spingeva in un angolo della camerata e del cortile, dove un poco di silenzio era
misto a un poco d'ombra. Da prima li riuniva in cerchio per i grugni, come i maialetti che mangiano nel medesimo
truogolo. I loro dossi si piegavano innanzi e le loro bazze s'accostavano nel
mormorio della congiura; e qualcosa di fluttuante passava in mezzo a loro, simile a una forza non ancor
definita e ferma. A poco a poco, nelle pieghe delle tuniche fiacche una spina
dorsale più potente sembrava drizzarsi. Il gruppo si serrava, si congegnava, si
armava come una sola bestia nociva. La sghignazzata concorde aveva qualcosa di
sinistro che mi par d'udire tuttavia, come escita da un sol ceffo. E quando
alfine il gruppo si voltava e s'avanzava posseduto dalla volontà di nuocere, io
mi stupivo di conoscere ancòra il numero delle facce distinto sotto la stessa
difformazione ignobile e bieca, mentre le zampe camminavano con la cautela
ferina dell'agguato, congiunte a un sol tronco.
Ogni
giorno io e Dario eravamo seduti alla mia tavola, chini su la carta militare di
Smolensko. Una luce grigia e fredda entrava pe' finestroni, dove i vetri
tintinnavano al vento; ma i nostri occhi erano abbagliati dall'incendio della
città presa e i nostri orecchi erano assordati dagli urli dei feriti a mucchi
nei fossi, nelle brecce, sotto le porte, lungo le vie, entro gli androni delle
case in fiamme. A un tratto, non so che fremito della mia carne m'avvertì che
dietro di me si formava la bestia orribile.
Mi
ricordo che la volta della camerata era molto sonora e in certi punti dava un
rimbombo d'eco. Udii ripercossa sul mio capo in un modo misterioso la ghignata
singolare che nella mia imaginazione somigliava allo squittire dello sciacallo.
Anche ora, dopo tanti anni, al ricordo, quel suono della ferocia puerile mi
sgomenta e m'agghiaccia.
Voltandomi,
scorsi in fondo alla sala il gruppo imbestiato che veniva innanzi a forma di
cuneo. Una specie di maligno canchero, nato nell'isola d'Elba da un armatore
arricchito nell'Argentina, stava alla punta e guatava la vittima. Due lo
spalleggiavano: un Sardo di Sassari, giallognolo e pustoloso, attossicato
precocemente dalla nicotina, come quegli che non viveva se non per cogliere il
destri di rinchiudersi nel cesso a fumare
di nascosto la sua pipa fetida; e un Fucecchiese melenso, dal cranio
triangolare, vera testuggine di palude tratta fuor della scaglia. Tre altri
sozii seguivano, tenendo le mani dietro la schiena come se celassero una
lordura o un'arme corta; e si dondolavano sguaiati, con un riso furbesco negli
occhi, con su' denti un lustro crudele.
La
vittima designata era presso la porta del dormitorio, seduta su uno sgabello,
inconsapevole; e mangiava con attenzione golosa un pezzo di panforte. Era ben
egli il creduto bastardello regio, col suo testone rotondo, col suo naso corto
e rabbuffato in su, con le sue narici aperte, con le sue orecchie larghe.
Quando s'accorse del pericolo che gli veniva sopra, s'alzò masticando ancòra il
boccone e diventò un poco pallido. Come gli assalitori facevano tutti insieme
un bercio buffonesco, tentò di ridere. All'improvviso, l'Elbano e il Sardo lo
afferrarono per le braccia e lo abbatterono su l'impiantito. Com'egli per
difendersi calciava, il Fucecchiese s'ebbe nel ninfolo una pedata che gli
insanguinò le gengive. Uno dei tre ultimi si gettò al soccorso; e le due gambe
afferrate per le caviglia furono tenute ferme e congiunte come a ricevere il
chiodo della crocefissione. Allora gli altri due figuri mostrarono quel che
celavano dietro la schiena: un pentolino di colla e un poco di stoppa. Mentre l'atterrato
faceva l'atto di sputar loro in viso e di morderli alle mani, essi gli
attaccarono un gran paio di baffi sotto il naso e un lungo pizzo sul mento. Non
avevano finito di premere, che rotolarono sotto uno scroscio repentino di
pugni.
Con
la rapidità appresa nelle Campagne d'Italia e d'Egitto, il bonapartista s'era
scagliato contro il gruppo gridando a squarciagola: "Vigliacchi!
Vigliacchi!" Io l'avevo seguito con lo stesso impeto e con lo stesso clamore.
Libero dalle grinfie dell'Elbano e del Sardo, il mangiator di panforte s'era
drizzato furibondo e già, prima di pensare a togliersi l'ingiuria del labbro e
dal mento, distribuiva ceffoni e tempioni regali. Grande schiamazzo di risate e
di urli menavano intorno alla mischia gli spettatori. Sbaragliato e incalzato
il gruppo si ritirava verso l'uscio del lavabo, perdendo ogni coraggio, cercando
lo scampo. Ben quegli che aveva portato il pentolino nascosto dietro la
schiena, con la stessa mano dietro la schiena rinculando aprì l'uscio.
"Vigliacchi! Vigliacchi!" gridava Dario senza tregua. E l'uno dopo
l'altro li cacciammo dentro, a vergogna, e serrammo.
Girò
la chiave il buon guerriero, la tolse dalla serratura; e con un gesto di gaia e fiera grazia, ansando, la offerse
al liberato che avea ancòra sul muso qualche fiocco di stoppa. Le mani
gonfie di geloni gli sanguinavano, ma
egli mostrava di non addarsene. Sdegnò raccontare l'avventura al prefetto
sopraggiunto; ch'era un floscio Pistoiese degenere nipote di Vanni Fucci e di
quel della Monna, ignaro di fazioni, d'arsione, di balestre e di barre. Venne a
sedersi nuovamente con me davanti alla tavola dove era rimasta spiegata la
carta. Disse, continuando: "Il maresciallo Ney, dunque, occupa la
posizione presa di contro al sobborgo di Krasnoi. Appoggia la sua sinistra sul
Dnieper inferiore. Alla sua destra, fra la strada di Krasnoi e quella di
Mitislaw, il primo Corpo si sviluppa in due linee. La cavalleria leggera del re
di Napoli…" Come egli indicava coll'indice i luoghi strategici, il sangue
generoso gocciolava dalle crepature vive dei geloni contusi. Io ruppi coi denti
l'orlo della mia pezzuola, poi tirando la divisi in due lembi; e mi misi a
fasciargli le mani.
"Dario!
Dario!" Ecco ch'egli non parla e non sanguina più nel mio ricordo; ma lo
scorgo a un tratto di là dalla siepe d'alloro, lo vedo vivo in carne e ossa
camminare verso di me, affrettare il passo, alzare le mani nascoste nei guanti
di lana bianca, agitarle nel saluto, avvicinarsi ansando, raso e liscio come
allora, pallido come allora, simile a fanciullo e simile a un vecchietto, con
un sorriso straziante nella bocca smorta, con su le spalle curve un peso
orrendo e oscuro. "Dario!"
E'
tra le mie braccia, senza poter dire una parola, strozzato da un nodo di tosse
che alfine scoppia nel povero petto cavernoso squassando atrocemente tutta
quella gracilità sensibile e stracca. "Amico, amico mio!" E in
nessuno sguardo umano, come in que' suoi occhi senza cigli, ho mai letto una
tristezza tanto disperata.
Non
so terrore più profondo di quello che m'occupa quando, nella pausa della mia
propria volontà che mi crea, io vedo accorrere dall'infinito il vento senza
nome e in esso agitarsi la polvere del passato e levarsi contro a me non come
ombre delle cose che furono ma come aspetti di quelle che sono per essere:
ond'io non riconosco più la successione della vita né la mutazione della sua
sostanza, ma avverto entro di me una specie d'immobilità veggente, simile a
quella dell'occhio che mi s'aperse quando nacqui lagnandomi, sopra al quale mi
s'appassisce la palpebra e le ciglia mi si diradano.
Il
giorno d'inverno è chiaro e senza soffio, ma fragile come un globo di vetro
nella palma d'una mano che possa da un attimo all'altro lasciarlo cadere. Qualcosa
pare serrarsi intorno a noi, par divenire angustia e pericolo. Una contadina
vocia in mezzo al campo, dietro un vitello fuggivo. L'urlo è nella luce; ma si
sussulta come quando all'improvviso una persiana sbatte mentre si scantona
lungo una casa, per una viuzza deserta, verso sera. Giù nella valle fischia il
treno che va ad Arezzo. Il fischio s'attenua, si fa dolce quasi come una parola
modulata che dica: addio, addio, addio. Per un istante l'anima mi si parte,
segue la parola già vanita, scende laggiù a Girone, dove l'Arno s'incurva di sotto
ai poggi di Villamagna e dell'Incontro, dove l'acqua presso le Gualchiere è
così verde tranquilla e sola. Il mio amico ha nella mano un fazzoletto di seta
verde; con quello s'asciuga la bocca, in quello nasconde la sua infezione. Lo
prendo pel braccio; e camminando su la ghiaia
andiamo verso la casa; ma è come se ci fossimo scolorati entrambi e
fossimo entrati in un corridoio grigio. Non s'ode più il grido della donna, non
s'ode più il rumore del treno. Laggiù, fra Girone e Quintole, c'è la Nave
dell'Anchetta; e mi ricordo d'aver passato il fiume una mattina e d'aver
approdato su la strada di Rignalla e d'aver colto in una siepe un rametto di
spin bianco.
L'anima
sembra in fuga, quasi sgominata e sciolta, presa dal bisogno d'essere altrove.
Ritorna, tocca l'amico malato, lo avvolge, lo abbraccia; poi di nuovo si
divide, si sparpaglia, si dissipa, come quella fiamma che vagola su la superficie
del legno prima d'apprendersi. E una voce le mormora, non senza perfidia:
"artista, artista, ecco, tieni, mordi la vita. Questa è la malattia,
questa è la sciagura, questo è il crollo d'ogni bene. Non distogliere la
pupilla dall'amico che si trascina e s'affanna. Ma guardalo, ma sopportalo
intero. Ha uno specchio per te, perché tu vi ti miri, nel suo petto
cavernoso." E forse non è ripugnanza, forse non è viltà: è soltanto quella
dissipazione apparente dello spirito avvertito, che per raccogliersi e addensarsi
attende il luogo opportuno.
In
fatti la mia casa mi sembra mutare aspetto, mentre le ci avviciniamo. Mi sembra
come vuotata di tutto il mio calore e pronta a ricevere qualcosa d'insolito che
sia nel tempo medesimo un sogno e una necessità.
Credo
di aver ripetuto più d'una volta, con le mie labbra fredde: "Dopo
vent'anni! Dopo vent'anni!" E queste tre parole fanno dell'uno e
dell'altro di noi una mole enorme e confusa, la mole dell'età trascorsa, non
morta, non viva, ma simile a quegli smisurati carri da sgombero, su cui si
accumulano le masserizie diverse, coi segni dell'uso e della bruttura umana,
non più appartenenti alla casa vecchia, non ancòra possedute dalla casa nuova,
quasi svergognate dalla strada piena di
passanti che si voltano; e dietro vanno i freschi fanciulli.
Or
dietro quella tanta parte di noi sembrano andare due giovinetti a braccio,
simili ai due che un giorno camminavano lungo le gore brune della campagna
pratese. "Dopo vent'anni!" La gora è là, con quell'acqua color di
lavagna, che pare passata per la cenere
come il ranno; e tra essa e una siepe scarsa corre il sentiere; e di tratto in
tratto si diffonde nell'aria l'odore muschiato di un insetto dalle lunghissime
corna, che noi chiamiamo macuba.
"Vieni,
vieni, Dario." Su la soglia m'assale un'angoscia imperiosa come l'annunzio
d'una trasformazione. E dico dentro di me, senza soffio: "Sei tu? sei
proprio tu?"
Il
lembo del suo pastrano s'impiglia in un fiore del cancello di ferro battuto.
Egli si china per districarsi: ha il capo scoperto. Con una commozione che mi
passa per tutte le fibre, vedo di sotto i suoi capelli fini e radi l'orecchio
arrossato dai geloni come allora.
"Vieni,
vieni." Lo prendo per la mano e lo traggo verso la stanza più profonda,
verso la stanza della musica. Sento la sua mano sudaticcia tremare nella mia.
Tutte le cose adunate intorno, i legni i libri i quadri le maioliche le stoffe,
mi doventano rammarico e onta. Vorrei che le mie mura si facessero a un tratto
nude e bianche come quelle del refettorio ove mangiammo, del dormentorio ove
riposammo, dell'aula ove studiammo.
"Siediti."
Lo lascio sedere tra i cuscini troppo numerosi d'un divano; mi siedo sopra uno
sgabello di contro a lui. Siamo presso la finestra. Un poco di sole gli viene
su le ginocchia. E ci guardiamo.
Ah,
di che mai nasce quel suo tenue sorriso? Neppure il dolore di mia madre, in un
giorno indimenticabile, n'ebbe per me uno più straziante.
Il
volto è pur sempre quello, ma riscolpito dalla disperazione in una materia più
trasparente. Anche allora le vene apparivano a fior della pelle, ma ora mi
rammentano quell'esercizio chirurgico d'allacciamento che vidi compiere
all'ospedale sul cadavere emaciato d'un cavalleggere tisico. Potrei separarle e
contarle. Gli occhi tuttavia non hanno cigli, come quelli del Bonaparte, ma
sembrano pieni d'una inquietudine continua e di non so che spavento fisso. Le
tempie sono spoglie; la fronte non direi rugosa ma sgualcita come una cosa
delicata che una mano cruda brancichi e getti a spregio.
"Amico,
amico mio, chi t'ha fatto tanto male?" Egli pone le sue mani nude su le
sue ginocchia, e il sole glie le illumina. L'ultima falange delle dita è
stranamente deformata intorno l'unghia rigonfia alla radice.
Egli
mi chiese: "Non mi riconosci?" Dissimulo il sussulto che mi dà il
suono inatteso della sua voce nella stanza chiusa. E' tanto sonora che mi
sembra egli m'abbia parlato forte nell'orecchio.
"Oh,
non sei mutato, quasi. Guarda me!" E vorrei enumerare le lesioni del
tempo, esagerarle, apparirgli come un uomo esausto su cui sia sospesa la
minaccia, ridiventargli compagno anche nella miseria e nella passione.
"Vedi: non ho più capelli; i denti mi si logorano; la vista mi diminuisce
ogni giorno; soffro d'insonnio e d'allucinazioni. Tutta questa ricchezza, è illusoria.
Sono carico di debiti. O prima o poi, non mi lasceranno se non una cinquantina
di libri e una tavola d'abete."
Egli
mi guarda con una malinconia così potente che sembra sola esistere come una
creatura ammirabile che intorno a sé tutto riduca a ombre vane. Poi tenta ancora
di sorridere. "Quanto eri bello! Forse avevi gli occhi più grandi. Mi
ricordo. E avevi i capelli così scuri che non mi sarei mai aspettato di
ritrovarti con una barba bionda…"
Non
ho mai provato tanto fastidio del mio corpo o tanto rincrescimento di non
potermene spogliare come d'un vecchio vestito. Da questi piedi, da queste gambe
è sostenuta la mia vita, da queste costole è rinserrata, da questo cranio è
coperchaita! E quella povera anima di fratello abita le caverne orrende di quei
polmoni, si esala in quello sputo che il fazzoletto riceve e serba!
"Credi
che io abbia perduto il tuo talismano?" mi dice il condannato, mettendo
una mano nel taschino del panciotto. "Ma, ahimé, non m'ha portato fortuna.
Doveva essermi un raggio del sole d'Austerlitz, te ne ricordi?; e m'è il
viatico per gli Invalidi."
Cava
una moneta gialla da venti lire del Ragno d'Italia coniata nel 1814 con l'effigie
imberbe di Napoleone imperatore e re. La prendo fra le dita come una reliquia
santa. Me l'aveva data mio padre, alla fine delle vacanze, in novembre, a
Firenze, il giorno medesimo in cui avevo comperato da un libraiuccio su un
parapetto del Lungarno gli otto volumi delle Memorie del duca di Rovigo legati in pelle rossa e il Manoscritto venuto di Sant'Elena in una
maniera sconosciuta, impresso a Londra nel 1817 per John Murray, dalle
pagine piene di macchie brunicce il cui lezzo di muffa doveva inebriare me e il
mio amico inconsapevoli del falso e già sollevati alle più folli speranze dalle
parole del principio, che destituivano d'ogni singolarità l'infanzia dell'Eroe
riducendolo un fanciullo ostinato curioso e taciturno come noi.
"Ti
ricordi? Ti ricordi?" Sempre la stessa domanda è ripetuto come il colpo
della zappa che disseppellisce.
Gli
scheletri e gli spettri si drizzano davanti a noi. La carne ricopre le ossa,
gli occhi rioccupano le occhiaie, le gengive si riattaccano ai denti, come
nelle resurrezioni. Vedo la moneta d'oro nella mano grassa e bianca di mio
padre.
Mio
padre è là corpulento e sanguigno, un poco ansante, con quel suo sguardo un
poco torvo in cui passava talvolta uno strano ardore come di fosforo che vi
s'accendesse. Vedo il collo enorme che ridonda sul solino rovescio, e nella
cravatta il piccolo cane cesellato dagli occhi di rubino, e il suggello di
diaspro pendente dalla catena dell'orologio. M'è vicino e m'è lontano, è fatto
della mia sostanza e m'è sconosciuto. Ho potuto vivere lungo tempo discosto da
lui, talvolta ho potuto avversarlo, talvolta perfino dimenticarlo: e ora d'un
tratto un amore tumultuoso mi riempie, e il rammarico terribile di non essere
giunto in tempo per fissare il suo viso composto nella morte.
"Ti
ricordi, quando mio padre venne in collegio, e chiese al Rettore il permesso
per noi due, e un giovedì sera ci condusse fuori insieme?" io dico
turbato, tenendo fra le dita la moneta consunta.
Era
di carnevale. Era una di quelle giornate pratesi di gran vento, quando a vespro
la città si empie d'un incessante garrito e d'un'ombra palpitante, come se
tutte le pannine dei suoi lanificii sbattessero e si divincolassero nel cielo
delle strade tristi. Gli strilli subito vi si spezzavano e dileguavano, come il
getto d'acqua nella bocca del Bacchino. Passando dinanzi alla fontanella,
ricevemmo sul viso lo spruzzo freddo. Ridendo ci mettemmo a correre. In un
colpo di vento il pulviscolo ci raggiunse, ci bagnò la nuca. Seguitammo a
correre, e sotto il palazzo del Comune ci ritrovammo in mezzo a una compagnia
di maschere sguaiate che ci avvolsero e ci trascinarono.
Un
sentimento straordinario di libertà e d'avventura ci forgiò il cuore oppresso
dal divieto e dalla prigionia. E ci prese la tentazione folle di abbandonarci a
quegli sconosciuti che avevano per noi gli occhi dei dèmoni. Udivamo la voce di
mio padre che mi chiamava, come nella tempesta. E tutto era ignoto e dubitoso
in quella strada profonda, tutto era sonoro e vacuo, nuovo e incomprensibile,
tra l'ululo disperato del cielo e gli aliti di quelle bocche quasi belluine di
sotto alle maschere di cartapesta nasuta bernoccolute deformi.
"Fuggite,
fuggite! Venite via!" sussurravano i saltatori sospingendoci. E la vita
sopra noi, per entro a noi, era non so che cosa folta e immane squassata e
dilaniata dal vento. E l'istinto in fondo al nostro petto era come un giovine
leone famelico che tentasse di spezzare le sbarre del serraglio. E non so che mistero
sensibile ci stringeva ai fianchi, più che le nostre cinture, più reale che il
nostro vestito e la nostra pelle. Ed eravamo là, io ero là ma anche altrove;
ché tutto quel tumulto aveva per luogo quel lastrico e il mondo, e il mio nome
chiamato da mio padre sorgeva dal fuoco del mio focolare e dal più remoto antro
della mia montagna e anche dalla mia intima volontà di vivere e di vincere. O
primi movimenti di quella forza lirica che fin dalla chiusa puerizia era come
il cuore del mio cuore!
Quando
mio padre sopraggiunse, ci liberammo dagli sconosciuti e ci stringemmo a lui
ch'era un poco affannato; e, mentre le
maschere schiamazzavano scantonando, io gli raccontai la storia fantastica
della nostra avventura. E Dario non soltanto consentiva alle mie invenzioni ma
le amplificava, quasi che entrambi tornassimo da un viaggio maraviglioso.
Sul
canto della Piazza del Duomo, il vento era tanto rude che disperse anche la mia
storia e ogni maraviglia. Salimmo al vecchio albergo del Contrucci, e ci
mettemmo a una finestra per veder passare il corteo di Barlingaccio.
Su
la piazza ventosa l'aria era così tersa che ci pareva di poter prendere per
mano uno de' putti del pergamo e condurre con lo stuolo il ballo tondo. Eravamo
chini al davanzale, l'uno accanto all'altro, con l'omero contro l'omero; e mio
padre stava in piedi dietro di noi e ci riuniva ancor più, tenendo una mano su
la mia spalla destra e una su la sinistra del mio compagno, affettuosamente,
quasi che così lo prendesse per figlio e me lo facesse fratello germano.
Non
passava nessuno. La piazza era diventata solitaria come il cocuzzolo della
Calvana. Anche la Via Magnolfi laggiù era deserta, e si vedeva fermo sul binario
alto un treno nero. Sembrava che la vita civica a un tratto fosse sospesa e che
soltanto il vento parlasse come sul Monteferrato selvaggio tra gli scheggioni
del serpentino. Veduto da quella finestra, il Duomo aveva un aspetto insolito
che ci stupiva. Era tanto prossimo che credevamo di toccarlo con la fronte come
fosse una vetrata; o credevamo di poter salire di banda in banda, dalla verde
alla bianca, dalla bianca alla verde, via via, sino in sommo, dov'è la
campanetta sotto la croce di ferro. Ma, discendendo noi per le bande con gli
occhi, un più grande stupore ci prese come se conoscessimo il pergamo per la
prima volta; ché era là, pieno di silenzio, quasi un nido abbandonato dagli
usignuoli, all'altezza della nostra vista. Era là come un ricetto di musica e
di amore, per certo; ma sentivamo che poteva essere anche un ricetto di sapore,
da appressarvi le labbra come all'orlo d'un vaso di miele ispessito.
Il
vento s'era allontanato dalla piazza, se n'era andato verso il Mercatale a
soffiare sul ponte del Bisenzio. Uno di noi disse sotto voce: "Da una di
quelle due porticelle esce il vescovo per mostrare al popolo la Sacra
Cintola." Tutt'e due erano chiuse tra i loro stipiti di pietra, separate
dalla colonna massiccia che sostiene la tettoia rotonda. A forza di guardarle
fiso, io creavo in me non so che sentimento di attesa e non so che perplessità
come io dovessi scegliere fra le due la mia porta e l'altra dovesse appartenere
al mio compagno e a ciascuno di noi dovesse qualche cosa apparire. E anche i pilastrini
tra formella e formella erano accoppiati con un'indicibile gentilezza, e
pensavamo che ci simigliassero perché non si sarebbero mai divisi. E credo che
i nostri petti premuti contro il davanzale si foggiassero d'una medesima
ansietà.
E
uno di noi disse, con quell'accento verace dell'imaginazione puerile che crea
dal nulla le sue potenze, uno di noi disse: "Ecco, ecco, ora s'apre la
porta e si mostra la Cintola!" E l'altro sùbito disse: "Quale porta?
quale?" E non si seppe quale ei volesse dire; ché l'uno e l'altro
stringendosi avevano fatto delle due una porta sola nel loro cuore e nella loro
speranza.
Avvertendo
non so che riflesso vago sul piombo della
tettoia, levai gli occhi e scopersi nella grande perlagione del cielo il
primo quarto della luna, un fil d'oro prezioso come la reliquia di Palestina. E
gli altri due occhi si levarono e videro. E ci sorridemmo, appena appena
sogguardandoci dall'angolo delle palpebre. E mio padre non poté vedere quel
sorriso; ma io sentivo la sua mano grave vivere su la spalla del mio fratello
come su la mia.
E
non ho mai dimenticato quel momento della nostra amicizia; che ora, nella
memoria, mi splende d'una inesplicabile bellezza.
"Ti
ricordi? Ti ricordi?" Gli occhi di Dario si velano d'una lacrima che sùbito
sgorga, non avendo la palpebra cigli a trattenerla. E la mia commozione tocca
in me una profondità inculta, onde sembra sia per sorgere un essere che a
compiutamente vivere debba spezzarmi come legame che lo vincoli, scrollarmi
come ingombro che lo impacci. Chi è egli mai? Uno che si risveglia? uno che
ritorna? uno che nasce? Soltanto il passato e il futuro esistono, e il presente
non è se non un levame per cui l'uno e l'altro fermentano. E v'ha un pianto d'uomo,
ove si stempra più dolore che non ve ne infonda il piangente. E la nudità di
quegli occhi, a cui manca la mollezza umana dei cigli, riempie la mia casa d'un
sentimento della presenza umana più severo che i libri eterni.
Ora
quella palpebra è come l'orlo d'un segreto ch'io dovrò conoscere. Non posso
fissare quella pupilla senza che il cuore mi si contragga, tanto ella è simile
al punto più sensibile d'una piaga, là dove resta scoperta l'estremità del vivo
nervo. Sento che sotto la tristezza del malato si accumula un'angoscia non
corporale, smaniosa di esprimersi e paurosa delle parole comuni. La sento a
quando a quando tendersi verso me e quasi sopraffarmi. La vita potente
suscitata dalla memoria le si oppone e la respinge. Bisogna che prima riviviamo
quella vita, che prima riudiamo quel canto, come i naufraghi tratti da
contrarie fortune sul medesimo banco di sabbia ascoltano la voce della sirena
invisibile prima che la marea li riprenda e rivòltoli. "Mi ricordo del
futuro." Chi mai ha parlato così? Forse il naufrago con le sue labbra contro le lunghe labbra
dell'onda, o forse io stesso nello smarrire me stesso.
Tanta
anima mi cresce nella carne, che mi sembra di non avere quasi più carne. La
forza che io conteneva, ora mi contiene, Sento nelle mie mani il gesto
istintivo di sollevarsi verso le mie tempie e di serrarle, come quando
l'attenzione vuol concentrare il pensiero che si disperde. Perché tutto cambia
aspetto? La zona di sole non è più su le ginocchia del mio amico ma si ritrae
da lui, discende a poco a poco giù per le sue gambe, sta per toccare i miei
piedi. La vampa nel camino ha dato l'ultimo guizzo, e la falde della cenere
accecano la brace. Se bene non spiri un soffio nella stanza, si solleva a un
tratto la pagina del volume aperto sul leggìo e oscilla. La moneta d'oro mi
sfugge dalle dita e cade. Mio padre è seduto su la seggiola di cuoio, e china
il capo sul petto in punto d'addormentarsi.
"Sai?
Quel libro, l'ho ancòra, l'ho qui. Vuoi rivederlo?" Mi levo, per uscire
dalla stanza.
Un'allegrezza
subitanea accompagna i miei primi passi. La lunga sala del Coro è meno calda,
volta a settentrione, già invasa dall'ombra. Mi soffermo a raccogliere in me il
sentimento della mia casa solitaria, dove soli vivevano ieri i libri eterni,
dove gli spiriti delle vecchie cose adunate si mescolavano alla sostanza delle
pagine meditate. Odo il battito del mio cuore, odo i colpi sordi della mia
ansia e del mio sgomento.
Dario
ha ricominciato a tossire, da prima sommesso, poi sempre più forte, come liberato
d'una costrizione nella mia assenza momentanea. Ogni volta che la tosse grassa
si spegne nella pezzuola, mi manca il respiro. M'allontano, varco una soglia,
varco un'altra soglia, entro nella biblioteca. La tosse è laggiù, più fioca,
più rada. Ma la presenza dell'uomo infermo e infelice è da per tutto; occupa
tutta la casa; non la lascia più vivere se non di sé, non la lascia più respirare
se non a traverso i suoi polmoni disfatti.
M'inginocchio
a piè dello scaffale dove ho riposto i libri che in diverse epoche della mia
esistenza mi furono donati da mio padre; chino la faccia, aguzzo gli occhi per
ritrovare quello. La mano bianca e grave sembra che s'accompagni alla mia nella
ricerca, il respiro grosso è vicino al mio soffio.
I
libri sono là, negli ultimi palchetti, da qualche tempo dimenticati, coperti di
polvere. Un'aria funebre è intorno a loro. "Ho dimenticato anche te? Ho
potuto vivere giorni e giorni senza di te? E mesi e mesi, e forse anni! L'erba
è cresciuta sul tuo sepolcro, là sulla collina che guarda il mare, dove io non
son più tornato. Volli che sul tuo sepolcro non fosse posto se non un sasso
rude e il tuo nome, per venire un giorno io stesso a porvi un più gran segno. E
non sono venuto ancòra. E non ho adempiuto il vòto. E l'oblio nutre
l'erba."
Il
mio sentimento crea la realtà. Sono carponi sopra una tomba selvaggia, con la
zolla sacra sotto le ginocchia, con i fili d'erba tra le dita. E ancor mi tiene
quella specie di misterioso orrore carnale che non m'abbandonava neppure nei
momenti della più calda tenerezza e della riconoscenza più effusa. E ripenso
che una volta mia sorella mi scrisse d'aver veduto quel pezzo di terra
brulicante di lucciole senza numero, in una sera di giugno.
Ecco
il vecchio libro! E' polveroso. Lo scuoto, lo batto con la palma aperta. La
polvere mi entra nelle narici. Non posso più indugiarmi. Odo il tempo spazzare
la vita alle mie calcagna, come un servo zelante che dietro me netti il tappeto
con la granata. Corro verso il mio amico, ansioso io stesso di riudire il suono
della mia propria voce di là dal cuore che mi balza alla gola.
"Ti
ricordi? Ti ricordi?" Come allora, la mia gota s'accosta alla sua gota, il
mio braccio destro passa dietro la sua schiena, la mia mano sinistra preme la
pagina aperta, le sue dita tengono il margine della pagina di contro per esser
pronte a voltare. Dopo vent'anni! Odo nel petto fraterno un orribile rantolo
umido, una sorta di crepito mucoso, l'occulto fragore della morte. "Mi
ricordo."
Eravamo
ancòra alla finestra, di faccia al pergamo; e il vento ritornava dal Mercatale
con una folata di maschere e con un'ondata d'azzurro notturno. La sera cadeva
rapidamente su lo schiamazzo cencioso. Come un domestico dietro di noi aprì la
porta, la raffica investì la camera a riscontro. Ci mettemmo a strillare,
mentre le cortine svolazzavano. Facendo forza, chiudemmo i vetri, chiudemmo gli
scuri. Ci ritrovammo nella stanza buia, rischiarata dal fuoco folle del
caminetto. Sùbito dopo, la lampada raccesa occupò col suo cerchio di luce la
tavola tonda. Tutto si quietò. Le legna cigolarono, scoppiettarono, e poi si
tacquero. Una pace lenta si diffuse intorno al paralume verde. Non desiderammo
più nulla fuorché di rimanere l'uno accanto all'altro. "Che vi piace di
fare stasera?" chiese mio padre, che sapeva esser dolce. Gli risposi
"Dammi il libro!"
Egli
sorrideva de' nostri occhi sfavillanti, mentre apriva la valigia con lentezza
studiata. Impaziente, io cacciai la mano nell'apertura a frugare; e scopersi al
tasto non un solo volume ma cinque, sei, sette, forse più. La mia avidità
tremava, e tutte le membra mi balzavano dal giubilo; e nel viso del mio
compagno vedevo lo splendore del mio viso. "Dammi gli altri! Dammi anche
gli altri!" Mio padre mi diede il più pesante. Lo gettai fra le braccia di
Dario; e continuai a supplicare tentando di ricacciar la mano nella valigia
meravigliosa. Le mie dita agili trascorsero come sopra una tastiera. "Sono
otto?" gridai. "Dario, sono otto!" Mio padre rideva. Il mio
compagno era divenuto pallido, tenendo il volume contro il suo petto. Il mento
forte gli vacillava, e le labbra stentavano a formare la parola. Ma gli occhi
dicevano ch'egli sapeva, ch'egli aveva indovinato. E l'aria della stanza mi
pareva ora più commossa che quando la raffica improvvisa aveva investito le
cortine e spento la lampada. "Il
Memoriale?" balbettò egli, scolorandosi ancor più, come se avesse
veduto aprirsi la porta e apparire nel vano il cappotto grigio dell'Imperatore.
Sublime
esaltazione dell'eroe nel cuore di un fanciullo! Anelito d'una verginità
inquieta verso l'inaccessibile gloria! Per la prima volta in quella sera seppi
veracemente come una creatura possa ardere.
Non
avemmo sùbito gli otto volumi: la gioia ci fu misurata perché non ci
soverchiasse. Soppesammo, palpammo, esaminammo quel solo, più massiccio. Aveva
il dosso e gli spigoli di marrocchino rosso, il taglio dorato, le facce
marmorizzate. Non so perché, ci pareva pesantissimo come un massello di bronzo,
come un disco da scagliare più oltre. Quando l'aprimmo, respirammo insieme
nella pagina breve l'ebrezza dell'immensità. Un gruppo di veterani giganteschi,
a guisa di cariatidi addossate, sosteneva il monumento equestre dell'Imperatore
cinto di lauro, più alto che la più alta alpe; e il lieve mondo pareva covato
dalla grande ombra.
Chi
ci renderà quella potenza di sogno e di prodigio, per cui tanta animazione
sorgeva da sì fiacco disegno? La sigla fatale sul frontespizio, l'iniziale del
Nome sormontata dal simbolo dell'Eternità, ci tenne da sola per lungo tempo
fissi in un fascino silenzioso, mentre un oscuro mare fluttuava in entrambi al
medesimo livello. Il mugghio del vento ci pareva la voce di quel mare; e le
strida delle maschere, i canti carnascialeschi, i clamori della plebaglia ci
giungevano di lungi come il tumulto d'una città invasa, d'un accampamento
sorpreso, d'un esercito inseguito.
Non
era se non un mediocre libro, nel testo e nelle imagini; ma noi lo trasformammo
in un poema abitato da Dio e dagli Elementi, come dentro gli smisurati occhi
dei fanciulli ascoltanti si converte in tesoro indicibile ogni sillaba della
semplice favolatrice.
Era
la Storia di Napoleone di P.M.
Laurent de l'Ardèche, illustrata da Orazio Vernet, voltata in italiano da
Antonio Lissoni antico uffiziale di cavalleria e "da esso cresciuta delle
imprese militari delle soldatesche italiane", stampata in Torino per
Alessandro Fontana nel 1839. Quella sera non demmo che qualche rapida occhiata
alla prosa del'ex-sansimoniano giudice e bibliotecario; ma su le cinquecento
imagini del pittore del Ponte d'arcole
e di Wagram ricomponemmo con la
nostra fantasia tutta la gesta, indugiandoci sopra gli argini dell'Adige, negli
stagni della pianura veronese, fra le canne stroncate dal piombo austriaco, ove
il giovine eroe dalla gota macra e dalla capellatura liscia ci appariva svelto
e pieghevole come un leopardo.
"Guarda,
babbo. Dario non somiglia al generale della Campagna d'Italia?" Avevo
preso d'un tratto fra le mie mani la faccia ossuta del mio amico che si
schermiva; e la tenevo ferma come in una tanaglia, sentendo sotto i suoi
muscoli sottili la dura maschera d'osso. La tenevo ferma e abbassata sotto il
chiarore della lampada, verso la pagina
aperta ove il vincitore di Lodi a capo del ponte ingombro di cadaveri brandendo
la bandiera pareva avesse afferrata per i capegli la Vittoria e se la trascinasse dietro il suo
impeto. "E' vero. Gli somiglia".
Come
dimenticherò quella vampa di rossore che salì sino alla fronte e sembrò affocare pur il bianco degli occhi?
Gli
avevo lasciata libera la faccia; e ora lo guardavo fiso, in silenzio, senza
sorridere, oppresso da una di quelle malinconie subitanee che in quel tempo mi
assalivano talvolta nel mezzo del gioco più sfrenato e mi davano a un tratto la
voglia di lasciarmi cadere in terra e di morire. Qualcosa di selvaggio,
indistinto, nasceva dal fondo della mia amicizia come s'ella non fosse se non
la larva dell'amore sconosciuto. Mi ricordo che gli dissi, con uno di quei
movimenti irriflessivi che spesso stupivano e scontentavano me medesimo o mi
facevano sorridere della mia stranezza: "Benché tu somigli al Bonaparte,
moriresti per me sul ponte d'Arcole come il Muiron?" Egli non esitò a
rispondere: "Sì, certo." E guardò mio padre. Non so perché, io già
sapevo che il mio destino era il più forte e che dovevo esigere dai miei
prossimi la devozione cieca e l'intero dono.
Questo
sapeva anche mio padre. Egli non mi lodava, non m'incoraggiava, né mi indicava
una via né mi proponeva uno sforzo; ma aveva in me, fin dai miei più teneri
anni, una fede così certa che sino al giorno della sua morte io non cessai di
sentir viva in lui la mia radice.
Spirito
tirannico quant'altri mai, egli aveva da tempo abdicata la sua autorità sopra
me, solo attento a vigilare le mie tendenze a spiare l'ombra de' miei sogni.
Più d'una volta l'avevo veduto domare la sua natura per non contrariarmi; più
d'una volta avevo udito nel suo gran corpo il fremito del sangue contenuto. Mi
osservava con un'attenzione grave e continua, cercando di comprendermi. Se
voglio rappresentare al mio amore la più commovente imagine di lui, evoco la
sua espressione seria e raccolta nell'ascoltarmi. Non mai mi trattò alla
leggera; né mai mi derise, pur davanti alle mie singolarità, ai miei eccessi o
alle mie affettazioni. Era rispettoso e fidente, in un'attesa che non poteva
essere delusa. E io, pur da lui tanto diverso
di cultura e d'ingegno, sentivo che una parte profonda di me comunicava
con l'oscurità chiusa nel suo corpo terribile e n'era nudrita.
Ecco,
stava là, seduto, tranquillo, taciturno, a vedermi vivere, senza saziarsi. Non
seguiva in sé i suoi proprii pensieri ma i miei. Amava in me il mio compagno, e
lo adottava nella sua fede. Respirava con noi in quella passione eroica. Aveva
così spontaneo il sentimento della poesia che, dopo molti anni, si ricordava
d'una mia parola detta in quella sera, conferendole nel ricordo una
significazione misteriosa che forse allora non apparve alla mia
inconsapevolezza. "Verso che cosa il cavallo s'impenna?" Certo egli
era toccato dal tono della mia voce più che penetrato dalla lettera, per avere
quell'orecchio di musico, disegnato con tanta delicatezza alla commettitura
delle sue mascelle di stritolatore.
Dario
volgeva le pagine. Il Bonaparte, svelto come la palma d'Egitto, dall'altura
guardava il naviglio nelle acque d'Alessandria. Ecco, drizzandosi sul cavallo
bianco dall'occhio di antilope, indicava la cima delle Piramidi ai suoi soldati
Ecco, tornando dalle fontane di Mosè, smarrita la via, era sopraggiunto su
l'antica spiaggia dalla notte e dalla marea.
"C'era
nel cielo d'Arabia la luna nuova, come stasera sul Duomo" disse Dario,
chinato avidamente su la vignetta ov'egli vedeva luccicare il gran flutto, la
falce d'oro tagliare la nuvola, lo stallone dell'uomo fatale scalpitare nella
schiuma, l'ombra del sommerso Faraone sorgere tra le rupi.
Mi
levai, andai alla finestra, apersi gli scuri, guardai a traverso i vetri. Il
primo quarto era tramontato. Su la sommità dei marmi le stelle parevano
consumarsi nel vento come le fiammelle su i candellieri di Pasquino da
Montepulciano. La piazza era deserta. I putti agghiacciavano, sospesi al
pergamo solingo. "Non c'è più!"
Lo
spazio s'allargava intorno alla nostra ansia; la notte non aveva più orizzonte;
tutto il mondo assumeva l'aspetto d'un mare periglioso dove fosse necessario
navigare, con l'occhio fisso alla stella. E il condottiero balzava nel
palischermo; s'accostava alla nave tarda il cui nome era il nome del giovine
eroe caduto sul ponte d'Arcole per aver tentato di coprirlo col suo corpo;
s'accostava alla nave di Cesare che doveva portare la fortuna di Cesare più celere
di tutte le vele. Ed era dì sette fruttidoro dell'anno settimo.
La
fregata salpò, con i suoi tre alberi a coffe, e con le sue tre gabbie, con le
sue due batterie di cannoni. Anche noi ci sedemmo sopra un affusto, a poppavìa;
e avevamo da una banda il silenzio di quel gran destino sospeso e dall'altra
banda l'odore dell'Africa. Dopo lunghe settimane di navigazione cauta, un colpo
di vento ci spinse su la Corsica. I pastori delle colline salutarono il figlio
dell'isola.
Sul
mare egli era più mio, apparteneva più profondamente al mio sogno; ché dalla
mia spiaggia natale avevo portato meco nel mio cuore il rombo marino e ogni
giorno, là, nella carcere toscana, mi ricordavo di aver toccato nel tuffo la
sabbia profonda e di aver esplorato con gli occhi aperti la luce del gorgo
rattenendo il respiro dietro le labbra
salse. Cosicché, com'ebbe per vent'ani calpestato la terra, io lo ripresi
ancòra sul mare, lo rifeci mio nell'Isola della sua fine.
Eccolo
nel suo letto di morte, nel suo letto da campo, coperto col mantello azzurro
che l'Imperatore portava a Marengo. Ha in capo il cappello dalla coccarda
tricolore, ha un crocifisso sul petto. Un'aquila d'argento sostiene i
cortinaggi bianchi. Presso il capezzale un vaso d'argento contiene il cuore
maraviglioso.
"Ora
dammi il Memoriale!" supplicai,
prendendo mio padre per le mani e traendolo. "Dammi almeno il primo degli
otto volumi!"
Con
le sue mani egli mi costrinse, e mi imprigionò fra le sue ginocchia. Mi teneva
davanti a sé, preso per i gomiti, fermamente, come un artiere che consideri
l'opera della sua maestria. Ma io era
tutto un fremito, come un uccello afferrato per le ali; e lo guardavo dentro le
pupille, con un misto di sgomento e di perspicacia, come per penetrare l'ombra
accolta nel corpo, il buio ch'è tra le pareti della carne, l'oscurità delle viscere
e dei precordii, l'abisso della mia genitura.
"Gabriele,
Gabriele!" Egli ripeteva il mio nome sotto voce, come un segreto, come la
parola d'ordine confidata all'orecchio prima della battaglia. E mi scoteva, mi
scoteva come si scuote un albero per impazienza di vedere se il fiore cada e se
già alleghi il frutto. In me non v'era più fibra che non fremesse, non v'era
più goccia di sangue che non tremasse. "Figlio! Figlio!", ripeteva
ancòra sottovoce.
Mi
abbandonò i gomiti e mi palpò i muscoli del braccio induriti alla sbarra fissa
e alle parallele, poi gli omeri, il torace, le costole. Mi pareva ch'egli mi
armasse, pezzo per pezzo, ch'egli mi liberasse dalla mia tunica di alunno e mi
rivestisse d'arnese temprato. Sentivo le proporzioni del mio corpo in forma di
non so che gioia musicale; e aspettavo
che la natura aprisse fra le mie labbra una sorgente di melodia, come quelle polle che avevo
scoperte su lo Spazzavento o sul Monteferrato e che ritrovavo eguali in ogni
stagione.
Poi
desinammo, poco parlando. Durava in me il sentimento dell'Isola; e vedevo
rilucere laggiù laggiù, nella lontananza d'un oceano color di ferro nuovo, una
piccola ciocca di capelli biondicci, quasi biancastri come la canape: i capelli
del Re di Roma.
Gli
otto volumi erano su la tavola: Mémorial
de Sainte-Hélène. Era la ristampa del 1828, pel libraio Lecointe, nella
rilegatura del tempo. In principio, dopo l'indice dei sommarii, stava ripiegata
in più ripiegature la carta dell'Isola.
Dario
la spiegò con infinita cautela, come un divoto avrebbe spiegata una reliquia di
lino, la santa Veronica del sudario di Cristo. Il margine era ingiallito;
alcune macchie rossigne erano sparse qua e là. L'Isola aveva la foggia d'una
foglia rosicchiata all'orlo dagli insetti e malata d'autunno. Quasi nel centro
un segno non più grande d'un punto
indicava la Tomba di Napoleone. E intorno si stendeva il deserto d'acqua
infinito, l'esilio irrevocabile.
Eravamo
chini a guardare, a guardare, nel chiarore della lampada, senza saziarci,
quando mi parve udire il respiro di mio padre farsi più grave. Alzai gli occhi;
e, vedendolo addormentato su la poltrona n'ebbi una commozione così profonda
che anche oggi posso rappresentarmela intera. Tutto mi divenne misterioso e
remoto, confuso di rimembranze e di presentimenti. Dario disse, con l'indice su
la carta: "Qui è il campo dove Napoleone fece il solco." Io gli
dissi: "Taci." E gli mostrai con lo sguardo mio padre addormentato. E
rimanemmo in silenzio, trattenendo il respiro, non osando di voltare la pagina.
La
nostra biblioteca napoleonica era fondata. Dario v'aggiunse il Manoscritto del Mille ottocento dodici
di quel minuzioso e probo barone Fain segretario archivista dell'Imperatore, e
l'opera polemica del generale Gourgaud su Napoleone
e la Grande Armata in Russia: l'una nell'edizione del 1827 fatta dal
libraio Dalaunay, l'altra nell'edizione del 1825 fatta dai fratelli Bossange in
Parigi. Erano alcuni volumi un po' muffiti, con la rilegatura rabberciata, dai
cartoni storti e dalla culatta logora; ma avevano nella nostra immaginazione un
pregio arcano, perché provenivano da un giardiniere di Boboli, che li teneva
dietro una cassa piena di bulbi, chi sa come, chi sa da quando.
Alla
biblioteca era annesso il reliquiario, composto di foglie secche, di fiori
secchi, di conchiglia, di sassolini, d'un brandello di casimir, d'un mezzo
ferro di cavallo. Avevamo ottenuto che un nostro compagno di Massa cogliesse
per noi un rametto d'arancio su la piazza del Palazzo ducale, in memoria
d'Elisa Baciocchi. Consideravamo un altro nostro compagno, nato all'ombra della
Torre dei Guinigi, come il ministro della duchessa di Lucca. Le nostre continue
interrogazioni gli gonfiavano la testa che gli era deforme, cosicché egli se ne
fuggiva tenendosela fra le mani disperato.
Dario
non aveva mai vista la dolce Lucca dalla cintura verde; e nella sua mania
s'imaginava che tra Porta San Donato e Porta Santa Croce, tra San Romano e San
Francesco, tra San Frediano e San Martino non rimanesse pietra senza l'impronta dell'ossuta occhiuta
saputa Napoleònide. Certo ella aveva pur preso il luogo d'Ilaria del Carretto
su l'arca di Iacopo della Quercia per dormire il suo sonno eterno nell'ombra del
Duomo. Ma dove riposava quel seducente Bartolomeo Cenami ch'era succeduto al
Lesérut nelle grazie magre d'Elisa? La scrittura della Duchessa rassomigliava
un poco a quella del fratello? Non sarebbe stato possibile avere almeno la sua
firma apposta in calce a tanti decreti? Alfine, tornando dalle vacanze di
Pasqua, il Lucchese ci portò un sonetto d'un Academico degli Oscuri in lode
della nuova Semiramide. Prima di metterlo nell'Archivio, lo imparammo a
memoria.
Ma
il nostro vero procacciante di reliquie era un Elbano: non il canchero di
Portoferraio, non quello della colla e della stoppa: un Elbano di Marciana
Marina, che si chiamava Vittorio, un compagno affettuoso e imaginoso, pieno di
gentilezza, servizievole, ma punto di tratto in tratto da un estro maligno,
noto per aver composta una imitazione del Cinque
maggio in settenarii ora scarsi ora eccedenti, non senza il nascosto
afflato di Dario.
Dario
lo considerava come il solo tra i sudditi supersiti dell'Imperatore "Tu
sei il suo suddito" gli inculcava guardandolo nella pupilla come un incantatore
"e non puoi sottrarti al tuo obbligo sacrosanto. Tu sei il suddito di
Napoleone. Comprendi?" Il buon ragazzo in breve era divenuto anche un
ossesso, divorato dalla febbre còrsa; e anelava le vacanze sol per andare a
scoprir le vestigia imperiali nella sua isola ferrigna.
Quando
rientrava in collegio, le mani di Dario tormentate dai geloni divenivano per
lui due branche inevitabili. Ci ritiravamo in tre dentro il vano d'una finestra
e a favoleggiare dell'Eroe, come tre pescatori di tonni nel golfo di Procchio
dopo la dipartita di febbraio.
Da
prima l'Elbano era modesto e veridico raccontatore, sicché la materia dei suoi
racconti si riduceva a qualche escursione nei luoghi memorandi; né si mostrava
più efficace come raccoglitore di documenti, ché la prima volta ci recò un
ramoscello di mirto còlto presso la fontana nella Villa di San Martino, qualche
sassolino del viale, e un po' di calcinaccio rapito al palazzo della
Sottoprefettura. In séguito, covata dal nostro desiderio imperioso, la sua
fantasia cominciò a scaldarsi e a svilupparsi. "Ma di Madama Letizia, che
sai? che sai di Paolina? che sai della Walewska? Nell'agosto del 1814 Napoleone
era all'Eremo della Madonna di Marciana, era nella tua Marciana, era al fresco
dei tuoi castagni! Se io fossi in te, con questi occhi per lo meno l'avrei
veduto, e forse gli avrei parlato anche, con questa lingua." Alle veementi
obiurgazioni di Dario il suddito arrossiva fino alla radice de' suoi riccioli e
mi guardava quasi supplichevole come per chiedermi che io gli insegnassi il
modo di evocare i grandi fantasmi e di rinvenire la reliquia rara. Inesorabile,
io lo riprofondavo nella sua onta. "Ah, la Walewska, Maria Walewska!
Eppure tu sai, eppure sei certo ch'ella sbarcò nel porto di Marciana, una notte
di settembre, a visitare il Relegato."
Confesso
che io nutrivo un segreto amore per la bella Polacca di diciott'anni, bionda e
cerulea, la cui dedizione all'invocato liberatore della sua patria parve una
sorta d'immolazione sublime.
Avevo
allora a Firenze per raccomandatario un vecchio colonnello i ritiro; che, dopo
aver servito sotto il Granduca, era passato nell'esercito nazionale e, messo al
comando della piazza forte di Pescara, s'era legato d'amicizia con la mia
famiglia. Raccomandato a lui da mio padre, non soltanto ricevevo ogni domenica
a Prato la sua visita affettuosa ma passavo gran parte delle mie feste nella
sua casa fiorentina al Corso de' Tintori. Egli aveva un figliuolo, Pippo,
ufficiale d'artiglieria, che mi lasciava montare i suoi cavalli nel maneggio
della Fortezza dabbasso; e una figliuola ancor nubile, Clemenza, di fresca
bellezza e di grazia vivace, grande amatrice di profumi e leggitrice di
romanzi, motteggiatrice temibile quando la malinconia non mutava i suoi motti
in sospiri. E questa figliuola naturalmente m'aveva ispirato una passione
occulta, che una rimembranza napoleonica doveva ancor rinfocare.
"Sai
che io somiglio a Maria Walewska?" mi disse un giorno chinandosi tutta
profumata di violetta sul libro dove io leggevo il passaggio della Vistola a Thorn.
"Anzi i miei amici ora mi chiamano addirittura la piccola Walewska.
Guardami." Ella portava un vestito di velluto azzurro cupo, una gorgerina
di merletto color d'avorio, e una piuma di struzzo al cappello di feltro bruno.
Il suo viso fra le sue trecce faceva pensare a quei grandi fiori di magnolia
che i fiorai vendono intatti in un inviluppo di foglie strette da un vimine.
Le
avevano mostrato, in casa d'amici, un ritratto in miniatura, proveniente da uno
di quei Poniatowski che presero dimora in Firenze, forse da quello che mise in musica
il Giovanni da Procida del Niccolini
e ottenne dal Granduca la cittadinanza. "Ti dico che ci somigliamo come
due gocce d'acqua". Io avevo già passato la Vistola, sbaragliato i
Prussiani, varcato anche il Bug, respinto anche i Russi, e fatto il mio
ingresso in Varsavia. "Balliamo la mazurka sotto gli occhi
dell'Imperatore!" gridai con un ardimento subitaneo. E sùbito ci mettemmo
a caricare una scatola armonica che faceva le sue sonatine sin dal tempo del
Regno d'Etruria. E ballai con tanta ebrezza che, se l'Imperatore m'avesse
visto, certo m'avrebbe mandato immediatamente a raggiungere il quartier
generale del principe Gerolamo dinanzi a Breslau.
Ora
ballare la mazurka con la Walewska rediviva, e cercar di tradire il marito di
Giuseppina e di Maria Luisa abituato a questo trattamento, era il mio assiduo
sogno. Il nostro maestro di ballo, un ometto monocolo cognominato Basettino,
m'aveva ormai tra i suoi discepoli più zelanti. "La marzucca ovverossia
bassa pollacca" egli ammaestrava, forandomi col suo occhietto di pepe
"gli è un quimmèdio (quid medium)
tra la porca e i' vàrzere." Essendo io riuscito a infondere ne' miei
compagni una smoderata predilezione per la danza di Massovia, l'incatarrito
violinista al supplizio dell'ingollar polvere e del ricevere pedate accidentali
aggiunse quello di rimaner per sempre con le sua quattro corde stonate tra la
polka e il valzer.
Certo
l'Elbano di Marciana non imaginava la ragion recondita di tanto mio calore
nell'imporgli di ritrovar le tracce della visitatrice notturna. Quando giunse
alfine la liberante estate, prima di separarci gli estorcemmo il giuramento
solenne di consacrarsi intero all'importanza del nostro archivio.
Mentre
egli partiva per imbarcarsi a Livorno, io andavo a ritrovare la mia piccola
Walewska in una chiara villa di Castello che in antico era stata di Lucrezia
Rucellai; perché la providenza di mio padre mi vietava la barbara terra
d'Abruzzi finché non mi fossi intoscanito incorruttibilmente.
O
poggetto della Castellina tra i freschi boschi rigati di ruscelli! Giardini dei
Rinieri e della Topaia ancòra abitata dalla grave eleganza di Benedetto Varchi!
Delizie del Vivaio variato dai capricci dell'acqua e dalle fantasie del
Tribolo, dove per la prima volta alle cure di Cosimo era fiorito il gelsomino!
Quando
i pettirossi cominciavano giù a calare alla mia civetta in gruccia e le lodole
ai miei lacci di setole di cavallo, risonò l'ora della prigionia; e mi convenne
ritornare sotto l'ala della Cicogna invisa
colubris com'era scritto su la triste porta. Ma il pensiero di rivedere
Dario e di udire le novità dell'Elba mi alleviava lo strazio dell'addio in un
giorno di scrosci sotto la tettoia del Tabernacolo all'Olmo assordato da un
gran passeraio.
Veramente
gonfio e raggiante di novità ci riapparve Vittorio, sbarcato a Livorno come un
fiero pirata còrsoligure carico di bottino. Era irriconoscibile: non
barbugliava né arrossiva più; aveva perduto ogni timidezza, come se avesse
frequentato i mamelucchi dell'Imperatore e i più callosi veterani della Guardia
nelle taverne di Portoferraio; coloriva le sue narrazioni con particolarità così evidenti che io e
Dario ci guardammo in viso stupefatti. Aveva scoperto d'essere imparentato con
tutte le famiglie isolane che in un modo e in un altro si fossero strofinate
alla piccola corte imperiale. Da per tutto aveva raccolto notizie, reliquie,
documenti, rivelazioni. Aveva ritrovato sotto una muraglia della Linguella un
vecchietto smunto e adusto come una sardina affumicata, chiamato Fanò; il quale
era stato mozzo nella scuderia di Napoleone. E questo vecchietto bizzarro, che
anche parlando non si toglieva ma di tra le gengive sdentate la cannuccia della
sua pipa di terracotta, gli aveva venduto – per un prezzo non ben determinato –
un mezzo ferro di cavallo con tre chiodi memori dell'unghia di Wagram, del famoso barbaresco storno che
l'Imperatore montava nella famosa giornata campale.
"Giuri
che è vero?" gli diceva Dario, con la voce che gli tremava in gola,
palpando il pezzo di ferro arrugginito, tentennando nei buchi i tre chiodi
contorti, per il suo cuore sacri come se non avesser già penetrato lo zoccolo del corsiero ma le carni vive di
Colui che s'era chinato "al disonor del Golgota" come il Re de'
Giudei.
Mi
ricordo sempre dello sbigottimento che di tratto in tratto succedeva ai lampi
d'audacia negli occhi lionati dell'Elbano. "Ma, questo ferro, Wagram lo portava nella battaglia sul
piano del Danubio?" chiedeva Dario inebriato dalla sua propria commozione.
"Che ti ha detto Fanò?"
Vittorio,
vedendo il nostro compagno così pronto a creder tutto per alimentare il suo
sogno e la sua fede, pareva tentato di chiudere gli occhi e di rispondere a
bruciapelo: "Sì, nella battaglia." Somigliava a quell'attore che,
impuntato, non sapendo se dovesse dir sì o no, proruppe: "Sno". Il
monosillabo ambiguo si disegnava su le sue labbra rosse. "Che ti ha detto Fanò?"
incalzava il fanatico. Vittorio allora rispondeva: "Era difficile cavargli
una parola di bocca. E, quando borbottava, indovinala, Grillo. Ma pare che lo
stornello arabo a lunga criniera fosse l prediletto dell'Imperatore, che andava
spesso nella scuderia a portargli lo zucchero."
Io,
che anche a Castello avevo montato un sauro di Pippo ed avevo vuotato per lui
di nascosto tutte le zuccheriere del colonnello, nell'ora dello studio
riprendevo in mano il trattato senofonteo Dell'equitazione.
"Le nari bene schiuse fanno sì che il cavallo abbia più d'alito e
d'ardore…" E le favole dell'Elbano mi si animavano, tra tavola e scansìa.
Le labbra sottili di Wagram venivano
a cercare l'avena su la pagina greca. Tauris,
lo stallone persiano grigio pomellato, che l'Imperatore montava all'entrata in
Mosca e al valico della Beresina, mi guatava di traverso co' suoi larghi occhi
venati tra i lunghi ciuffi d'argento. Il buon sauro Roitelet, nato dall'incrocio d'un purosangue inglese con una
giumenta limosina, mi parlava della morte come il corsiero d'Achille sotto il
giogo. A Lutzen, gloria sanguigna del maresciallo Ney, una palla di cannone gli
era passata rasente la groppe e gli aveva bruciato il pelo così da lasciargli
la chiazza nuda per sempre. Ad Arcissur-Aube dove anche una volta il gran Ney
aveva drizzato il suo muro di ferro contro ogni sforzo, al conspetto d'un
giovine battaglione impallidito il sauro era stato spinto dal cavaliere sopra
una granata in punto di scoppiare ed era escito incolume dalla nuvola di fumo e
di fiamma con in sella il dio sorridente tra il clamore dei soldati ebri.
Il
mio professore ginnasiale, un buon prete grasso e molle come una matrona
bisantina, quando lesse la mia traduzione forbita, con la sua brava
nomenclatura esatta del morso e della briglia, non pensava che di là fosse
passato il galoppo fatale del Bonaparte e che io m'avessi per calcafogli un
ferro di cavallo eroico, ignoto alla vergine unghia della cavalleria di
Senofonte.
"Ma
la Walewska?"
Il
riccioluto Elbano preludiava con una gesticolazione muta, come se una
straordinaria plenitudine gli soffocasse la facondia. In fatti la sua scoperta
aveva del prodigio. Un suo zio chiamato Saverio era il figliuolo di un medico
di Marciana, il quale a' suoi tempi ebbe dimestichezza col dottor Joureau. E
questo zio Saverio conservava un piccolo archivio napoleonico, ove tra le altre
cose preziosissime era una copia fedele di taluni scritti giovenili del
convittore di Brienne. Ed era egli medesimo il proprietario della vecchia casa
abitata da Madama Letizia, durante il soggiorno estivo del figlio all'Eremo. Ed
egli affermava d'aver veduto un giorno con grande sgomento, entrando nella sala
gialla del primo piano, la madre dell'Imperatore seduta come la statua di
Agrippina romana.
"Ma
la Walewska?"
L'Imperatore,
per sfuggire agli ardori della canicola, s'era rifugiato nell'Eremo, all'ombra
dei castagni secolari. Abitava in una cella, come un asceta, con la semplicità
di un pastore del Cinto o del Padro; non aveva corte, non aveva cuochi né
bottiglieri; scendeva ogni giorno a Marciana per pranzare con Madama e poi
risaliva sul monte. Una sera di settembre l'Amante misteriosa sbarcò nel porto.
L'attendevano palafrenieri e famigli coi cavalli sellati. Ella montò a cavallo
e spronò impaziente per la via sassosa. La luna splendeva sul golfo di Procchio
e sul granito del Capanne. Ma dalla roccia Fetovaia sorgeva come un mostro una
grande nuvola fosca. Già, a mezzo dell'erta, il plenilunio era ingoiato. Di
sùbito scoppiava il nembo. Al lume dei lampi, sotto la foresta che si torceva e
gemeva, l'Amante s'incontrò col cavaliere ansioso. Egli cavalcava il baio
possente che non era scoppiato nella corsa terribile da Valladolid a Burgos
quando il condottiere parve più celere della Vittoria…
"Vuoi
una reliquia della Walewska?" mi chiese L'Elbano, non senza concitazione,
per finire con una pennellata di gran rilievo la sua pittura romantica.
"La vuoi? Eccola." Mi mostrò un brandelletto di casimir amaranto che
la visitatrice aveva lasciato in uno sterpo lacerando nel turbine il suo
mantello.
Fui
più facile di Dario. Non richiesi alcun giuramento. Forse era quello un onesto
ritaglio casalingo; ma certo era qualcosa di feminino e d'un colore patetico,
che bastava a commuovere la mia imaginazione orientata verso la Veneretta del
Giambologna, che con tanta venustà in cima alla fontana della Petraia si torce
la chioma grondante.
L'Elbano
però aveva trascritto dai quaderni dello zio Saverio la funerea prosa giovenile
del Bonaparte, che comincia: "Toujours
seul au milieu des hommes, je rentre pur rêver avec moi-même et me livrer à
toute la vivacité de ma mélancolie. De quel côté est-elle tournée aujourd'hui?
Du côté de la mort." Ohimei!
Dario in
conseguenza m'inflisse alcune settimane di disperata cupezza, costringendomi ad
ascoltare le strida imaginarie dell'upupa foscoliana mentre nel mio cuore
cantavano tuttavia, come alle falde del Monte Morello, le lodole che non avevo
potuto prendere con le mie pènere.
Nell'ora
della passeggiata, camminavamo in silenzio lungo le suicide gore che servivano
a gualcare i pannilani, trasmutate per noi in morte rivere d'inferno. E il mio
compagno, se bene ombra silente, non trascurava di portare la mano sinistra
dietro il dorso e la destra sul petto infilata tra due bottini del cappotto
grigio.
"Toujours seul au milieu des hommes…"
sospirò un giorno lepidamente il superstite suddito di Napoleone, il gentile
isolano, tentando di schiarire col suo sorriso promettitore di nuove reliquie
l'umor melancolico di Dario. "Rendimi lo scartafaccio dello zio Saverio,
che omai è più consunto della Grammatica di Salvadore Corticelli. Rendimelo. E'
scritto con due tristi inchiostri: l'uno, còllora rossa che è calda e secca;
l'altro, còllora nera che è secca e fredda. Se me lo rendi, ti do un'altra
orliquia che ho in serbo, una reliquia equestre!"
Sùbito
si drizzarono in me due orecchi impazienti, come se nell'estivo cavalierino di
Castello rimasto fosse stallìo il sauro di Pippo fratel di Clemenza Walewska.
"Mettila fuori sùbito" gridai. "Dov'è? Mostrala. Dammela. Lo
scartafaccio è dal censor Bereni che col suo pessimo francioso pretende di
correggere il cattivo franzese del suo compatriotto, peggiorato dagli sbagli
d'ortografia che v'ha profusi il copista elbano. A me l'illetterato Cice
consiglia per corroborante i Comentarii
di Cesare ignudi, e magari quelli del Montluc."
Alla
inattesa irriverenza parve che nello sguardo di Dario si stemprasse il cesareo Tu quoque. Ma io, ch'ero in una delle
mie ore di classica empietà, scrollai le mie spalle d'iconòmaco saputissimo e
balzai sopra il subornatore di Fanò. "E' uno sperone? una fonda?
un'aquiletta della gualdrappa o del pettorale? una fibbia di staffile? un
burello? un anello?"
Il
mento di Dario cominciava a vacillare. "Non è" balbettò egli
"non è una delle due cifre ricamate nella coperta di velluto? Non è
l'Enne?"
Presi
per le gomita l'Elbano, squassandolo. "Ma parla, ma muoviti, perdiò! Mi
sembri più rattrappito del tuo Fanò."
Come
lo vedevo circospetto, e ricoverato dietro un sorriso vago, contenni a stento
una nuova irriverenza sibilante. "Si tratta di un altro ritaglio, come
quello di casimir polacco, estratto dal canterale arruffato di Madama
Letizia?"
"Tu
devi sapere" disse Vittorio arrossendo "che il mio Fanò ebbe più
d'una volta l'onore di spazzolare quella
magnifica sella di velluto chermisino che nell'Anno XIII fu comperata per
sedicimila franchi, tutta a ricami di cifre e d'aquile coronate, col pettorale
d'argento a due passanti, co' voltoi d'oro, con le staffe doppiate d'oro, fatta
a misura di quel palafreno da comparsa, normanno di gran corpo, leardo,
codilungo, chiomante, di nome L'Intendant,
che Napoleone non montava se non per fare le sue solenni entrate di
vittorioso."
"Montava
malissimo" fece d'un tratto una voce sottile, nasale e tranquilla.
Era
la voce del mio vicino di studio; che aveva tavola e scansìa dietro di me come
il "pota da Mòdona" le aveva a me davanti.
Sussultò
il compagno dagli occhi senza cigli, serrando le modiche labbra che talora
della bocca gli facevano quasi una cicatrice recente. Ma io, che aspiravo già a
doventar maestro nell'arte del cavalcare e che tante volte nel ricordo respiravo
l'odore della scuderia paterna fatto di fresca paglia e di fresco fieno e
d'inumidita aveva e di pastone caldo, non seppi resistere al mio demone di
quell'ora sarcastico e iconoclastico.
"Parli
Gian da Luni!" squillai col più metallico de' miei toni, con una specie di
allegrezza dominatrice che s'impadronì dei cancheri già raccolti presso le tre
tavole studievoli o sollazzevoli.
"Parli
Aronta!" berciò il coro maligno.
"Lo
Carrarese che ronca e ronca e ronca!"
Sembravo
aderire alla vita astante; e pur s'era fatta dentro di me una di quelle
repentine solitudini dove non più balenava se non la inesplicabile e
indisciplinabile variazione dello spirito e della carne. Tutto mi sfuggiva, a
un tratto; e nondimeno io potevo per qualche attimo seguire la fugacità fin sul
punto d'annullarsi. Ogni gravezza di pensiero s'alleviava difformandosi. Ferme
parole di ieri perdevano ogni peso di sentenza, si attenuavano, dileguavano,
s'agguagliavano al perpetuo gioco delle menzogne. Le avevo proferite in
contraddizione di me, come ora ne dicevo altre in dissidio con me, straniere
alla mobilissima vita del mio essere profondo, sonore e false e tuttavia
toccate da non so che soffio d'un mio affanno inconsapevole, d'una mia segreta
smania, d'una indistinta mia scontentezza. Mi piaceva di gualcire il fiore
istesso dell'amicizia verace. Mi piaceva di offendere un sentimento che m'era
parso un rifugio e un'alleanza, dell'uno e dell'altra sdegnoso per fumo
d'orgoglio. Mi piaceva d'inventare improvvisare suscitare su da quell'annientamento,
su da quel vuoto, una diversa faccia della mia vita per gioire sùbito della mia
novità, della mia libertà, del mio rischio. Al limitare dell'adolescenza, una
maniera di distruggere poteva essere una maniera di acquistare. Ma
l'adolescenza m'era ancor lontana come l'infanzia, e vicina come l'infanzia. La
più astrusa parte di me somigliava
tuttavia al silenzio orgoglioso e iroso di me fanciullo raggomitolato
su la predella dell'inginocchiatoio per
serrare e celare i miei mali.
"Che
hai?" mi chiese Dario con una voce smorta e intima, come se camminassimo
di paro lungh'essa la cinericcia gora.
Perché
dunque, di là dal vocìo e dal trepestìo dei cancheri, udivo tutti i rumori del
piazzale su per le finestre a tramoggia: richiami di donne, piagnucolìo di
bimbi, uggiolìo di cani; e lo sgocciolare delle cannelle, là nel lavabo; e il
passo del bidello nel corridoio; e il pianoforte del maestro Ciardi e il
violino del maestro Nuti, e il trombon tenore del maestro Chiti, sordi e
confusi, attraverso usci e solai? E come al mio trasognamento, momentaneo e pur
senza tempo, tante dissonanze parevano consonare e quasi dare al mio orecchio
ferino e scolastico la percezione di uno schema per arsi e per tesi? Non so; né
l'articolato linguaggio mi aiuta a esprimere quell'inarticolato apparire e
vanire, fluire e arrestarsi, rilievarsi e cancellarsi, mancare e nascere. Ma,
poiché di sopra alla tramoggia, nel vano della finestra di contro, il
pomeriggio di novembre trascolorava come una mestizia senza figura, essere io
dovevo altrove che fra due scaffali e due tavole, fra due cartelle e due
calamai. Uno spirito di me mal figurato mi faceva soffrire, e avversare ogni
altra effìgie conosciuta di volontà eroica. I galoppi spietati del Bonaparte
attraverso i campi di battaglia, e i suoi troppi cavalli d'ogni sangue e d'ogni
pelame, e le sue cento otto selle dell'Anno XIII covertate di cremisino m'erano
remoti e alieni, ad esempio, quanto gli Abanti, che, combattendo sempre a piedi
e a viso a viso con la spada corta, si tondevano i capegli per non porgere la
presa.
"Parli
Aronta!" trogliò il coro melenso.
Questo
Aronta convittore aveva dell'aruspice gli occhi un poco divergenti e la bocca
sinuosa, e nella fattezza e nel colorito del volto una immutabilità di maschera
dipinta coi succhi dell'ironia: un "risettino canzonatorio" – secondo
l'arguzia dell'istitutore pistoiese – così costante che ne' suoi muscoli
coperti di pelle troppo lustra pareva inciso, al tempo della culla, da un
qualche Mometto sozio dei Fantiscritti patroni della cava azzurricina. La sua
mente lucida e gelida aveva per insegna una fronte sporgente che a Giovanmaria
Cecchi dei Dissimili sarebbe parsa
"invetriata". E veramente m'era egli tanto dissimile che pel suo
perspicacissimo gelo attraeva il mio ardore senza spegnerlo. Dai "bianchi
marmi" della sua Carrara e dall'amore per la prosa greca egli parea derivare
un gusto puro che sopravanzava il grado de' suoi studii. Più che scolare della
Cicogna, egli era l'alunno dell'Academia fondata dall'ultima discendente dei
Cybo. Dalla raccolta dei modelli eccellenti aveva appreso il Cànone di proporzione;
e ogni sconvenienza, ogni intemperanza, ogni arroganza, ogni gonfiezza lo
moveva a ironeggiare, con un presunto abominio greco della barbarie. Di
tavolino attigui, spesso studiavamo grammatica insieme, e insieme spulciavamo
il gran Thesaurus Graecae Linguae di
Enrico Stefano o il lessico dello
Scapula; e mi sollazzava quella sua pedanteria quasi petulante nell'impormi i
suoi cànoni grammaticali, come un grammaticuzzo d'Alessandria con in man la
scutica. Ma, in verità, egli era il secondo specchio del mio dittico di riprova
specchiante. Nell'amicizia di Dario miravo e misuravo le mie facoltà di azione;
nell'amicizia di Gian da Luni miravo e misuravo le mie facoltà di acume e di
sottigliezza, di arguzia e di eleganza, e specialmente il mio attentissimo
furore del bello, il decoris furorem
di Silio. Così nell'uno e nell'altro compagno, che mal dissimulavano la lor
mutua avversione, io mi compiacevo perché l'uno e l'altro mi servivano
all'esperimento di conciliare in me l'inconciliabile e di scoprire in me
l'inimitabile. Entrambi egregi "fuori della greggia" mi davano il
piacere frequente del riconoscermi a entrambi superiore in quel che avevano di
più vivido, di più strenuo e di più singolare. E in questo m'erano
"dittico di riprova": per esempio, quando Gian da Luni tornando dalle
vacanze mi portò le Odi e i Frammenti di Saffo in un libretto
sgualcito e scolorito ch'io presi nelle mie mani tremanti come se mi si ravvivassero
tra le dita le violette intessute dal sorriso di miele. Seduti su' nostri
sgabelli, quasi a tempia a tempia chini su la pagina, eravamo
irreparabilmente separati dall'infinito
del sentire. Diceva egli, filtrando nel naso la voce perché non le rimanesse
nulla di sanguigno e di numeroso, diceva: "Mi sembra che tu ti stupisca,
Gabriele. Ebbene, sappi che gli Eolii contemporanei di Saffo non usavano lo
spirito rude…" Non lo spirito rude ma non so quale altro spirito mi
rivelava dal profondo la mia vocazione di scrittore e mi comunicava l'ebrietà
del ritmo non percosso. Per la prima volta, veramente, mi s'illuminava a sommo
del petto il mistero adorabile della parola collocata con l'arte della stella
più insigne nella figura della costellazione. Senza parlare, distolsi quel dito
unghiato che seguendo il verso mi faceva soffrire come se sfogliasse la più
tenue fra le rose scempie di Mitilene. "Δεδυκε
μεν και
Πληιαδες…" Non cessai di leggere e
rileggere la notturna strofa finché non mi rimase nella memoria e nell'ansietà.
Poi, per più giorni i cancheri mi credettero preso da una sorta di demenza
alterna; ché non mi saziavo di intonare con due voci i due versi
dell'epitalamio. "Παρθενια,
παρθενια… -
Ουκετι ειςω…" E non
volli più consultare insieme con Giannetto il Thesaurus.
Ora
Dario diceva al Carrarese, in guisa di ammonimento: "Il marmo della tomba
di Napoleone fu tratto dalle cave di Colonnata. Lo sai?"
Avendo
nella bocca il sapore della fontana di Maria Beatrie Cybo d'Este, il Carrarese
abominava l'acre barbarie di Elisa Baciocchi che per ventilare il suo palagio
di Massa aveva abbattuto la cattedrale antica; e nel suo abominio accomunava
tutta la famiglia del Còrso ignava rissosa e cupida.
"Ecco
un Bonaparte a cavallo, un disegno di Orazio Vernet, da convertire in monumento
equestre col tuo miglior marmo di Créstola" insisteva Dario, non senza
un'aria di mal frenata provocazione.
"Questo
può esser Pompeo, può essere Germanico o Traiano o Marco Aurelio o un qualunque
altro cavalier latino che magari, da vivo, fosse più cornipede e meno alìpede
del cavallo" rispose pacato Gian da Luni, col suo risolino fisso.
"Puoi anche provarti a mettere in groppa a un corsiere del fregio fidiaco
il tuo Bonaparte, grasso, col ventre su le corte cosce, con la testa china, col
dosso curvo, come insaccato, co' ginocchi in fuori, con le staffe lunghe, con
le redini lente. Al primo sbalzo, casca, batte il capo contro un tronco, e
tramortisce, come a Mortefontaine. Al primo ostacolo, si rivòltola nella
belletta, come a Boulogne. Quivi anche, al primo arresto brusco, passa di sopra
agli orecchi della sua bestia e trincia la capriola in aria. Non ti fidare né
ai pittori cesarei né alle stampe popolesche. Il mito di Napoleone è nato dal
culto delle imagini. Mi meraviglio che tu non possegga almeno una delle tante
che rappresentano il ponte di Lodi e il Bonaparte su esso ponte con la bandiera in pugno. Ebbene, Dario, non
il tuo eroe passò il ponte, non egli condusse il combattimento. Ma, dopo, a un
giovine incisore di Genova mandò venticinque luigi raccomandandogli di dare
opera a una stampa del ponte di Lodi. L'incisore piantò subito il largitore in
co del ponte, dove l'imagine temeraria omai rimane immortalmente né più si
accosta al vero l'episodio di Arcole. Da Lodi, da Arcole appunto incomincia la
menzogna di tutte le arti in gloria del Còrso. E' singolare che, in tanto
glorificato ardire, egli non sia mai rimasto ferito, fuorché una volta.
Invulnerabile come Achille, fu ferito una volta leggermente al piede in Ratisbona;
e, dopo la rapida fasciatura, quanto se ne valse!"
Il
compagno dagli occhi senza cigli ora pareva imitare il riso fisso del
Carrarese. A quando a quando crollava il capo. Con un accento più amaro del
miele isolano, disse "Gian da Luni, io non son dotto come tu sei. Ma non
ignoro che i tuoi Lunensi strafacevano caci pesanti più di mille libbre, a
foggia di zucca frataia."
Il
fornitore del marmo di Créstola non mutò la sua faccia invetriata. Gli era
riconosciuta dai cancheri, e da qualche scrivano reduce dalle patrie battaglie,
una certa autorità militare, per esser egli nipote diretto di quel generale
Domenico Cucchiari che fu buon combattente nelle guerre dell'Indipendenza e
risplendette eroe tra gli eroi della battaglia di San Martino.
"Poiché
tu con tanta imprudenza ti arrischi a citar Plinio senza nominarlo" disse
l'ironeggiatore imperturbabile "ti porterò e donerò, dopo le vacanze
natalizia, una bella stampa che rappresenta Napoleone in Italia meditabondo
presso la tomba e l'alloro di Virgilio; affinché, per tal documento, tu possa
celebrarlo anche gran Latinista e cupidissimo della gloria delle umane Lettere,
come direbbe Monsignor Giovanni della Casa che qui ci salvi dalla mala creanza
dell'alterco. Vedi, Gabriele, che anch'io so prosare come te, se mi ci metto."
"Piena
lode!" sibilò Dario, le cui labbra si affilavano sempre più a taglio.
"Riponi dunque il tuo gran cacio di Luni nella caciaia della tua parola; e
andiamo a rileggere il Galateo."
"Ma,
se vogliamo abbuiare l'onesta chiarezza, facciamo intervenire nello
sragionamento anche il Seneca delle Pistole, per sentenziare una verità caciaiuola
che ti quadra bene, o Dario. Il sorcio è una parola; il sorcio rode il cacio;
adunque la parola rode il cacio. Ma con questo non ho finito Prima che l'Elbano
ci mostri l'orliquia equestre, conviene onestamente che dall'assenza del Primo
Console sul ponte di Lodi e su quel d'Arcole io concluda col viaggio
dell'Imperatore all'isola d'Elba."
Sentivo
lo sguardo inquieto e penoso di Dario
sul mio dubbio silenzio, su la mia tolleranza immota, su la dissimulazione
dell'interna mia vertigine struggitrice; scorgevo a quando a quando
l'inquietudine e lo stupore dei cancheri fissi all'incomprensibile mio
atteggiamento. E, forse, proprio allora in taluno sorse il disegno audace dei
cartelli ingiuriosi da appiccare al dossi dei libri che parevan già
sconsacrati; forse allora a taluno balenò l'allegrezza del pasquinare.
"Ascolta,
Vittorio elbano riscurato dal fumo della pipa di Fanò" continuava
imperterrito il Carrarese odiatore di Elisa Baciocchi, sogguardandomi
nell'imitar la mia maniera fiorentina di prosare alcuno. "L'Imperator
deposto aveva chiesto che, mallevadori della sua sicurezza, lo conducessero
all'isola d'Elba i commissarii delle cinque grandi Potenze. Cinque testimoni dunque
l'accompagnavano che – non ostili – per rassicurarlo consentirono a travestirsi, consentirono a mutar co' suoi
i loro panni, non senza il rischio di esporsi in suo luogo ai colpi della
plebaglia furibonda! Ad Avignone, la turba urlò e scagliò sassi. Ad Orgon, fu
intraveduta nell'aria una forca donde penzolava un fantoccio insanguinato.
Pallidissimo il Bonaparte, in fondo alla carrozza, cercò di nascondersi dietro
il generale Bertrand che gli sedeva accanto. Poi, non dominando il terrore,
giunse a incapperucciarsi da lacchè, a mettersi una coccarda bianca, e a
correre innanzi. Ma, come le carrozze rallentavano , si venne a peggio; perché
in Saint-Canat il popolo tentò di forzare gli sportelli e di trucidare quel
povero Bertrand che occupava il posto dell'Imperatore. Nella locanda, dopo aver
cercato invano di passar per Inghilese, il detto Imperatore propose di tornare
indietro fino a Lione per intraprendere un'altra strada. Puerilmente lasciava
gocciolare le lacrime, e studiava il modo di scappar dalla finestra. Ma la
finestra era inferriata, e forse spiata dalla turba selvaggia. La locandiera
sopraggiunse assicurando che la turba si disponeva ad accoppare e ad affogare
il Bonaparte. Ed egli tramenando faceva finta
di applaudire. Rifiutava il pasto comune, temendo che i commissari
fossero per avvelenarlo Perduto ogni ritegno, a tratti si sforzava di
ricacciare in gola il singhiozzo con una parlantina convulsa e insulsa,
rassegnandosi alla Commedia dell'Arte senza arrossire. A mezzanotte fu dato il
segno della partenza; e un Russo, aiutante del commissario Schuvalow, per
rassicurarlo ancòra, volle graziosamente indossar quell'abito che aveva fatto
dell'eroe di Lodi e d'Arcole un lacchè in corsa. E questi infine si travestì da
generale austriaco indossando l'abito bianco del commissario Kohler…"
Il
rullo del tamburo nei corridoi, il segnale delle tre ore di studio, interruppe
il racconto atroce. Nell'ombra della camerata, il compagno dagli occhi senza
cigli s'era ritratto, era scomparso. Scorsi la sua lucerna accesa, e lui curvo
al suo tavolino laggiù, con il capo tra le pugna. Altre lucerne s'accendevano.
Al bisbiglio e allo scalpiccìo succedeva
il silenzio dello sgobbo.
Allora
io medesimo accesi la lucerna di Aronta, e la mia. Dissi, con un cuore che mi
sanguinava meravigliosamente: "Domattina al professore di Storia e di
Geografia diremo che abbiamo udito più d'un grido venir dal piano di
Maratona."
E
presi dalla scansìa il sesto libro di Erodoto.
Non
so ridire il mio sentimento d'allegrezza e d'armonia quando, per le vacanze
natalizie, ritrovai a Castello la mia piccola Walewska nella casa di Lucrezia
Rucellai. La mia toscanità era già così profonda che un cipresso al limite d'un
oliveto bastava a farmi palpitare il cuore come la chiusa d'un sonetto di Cino
o di Guido.
Era
un inverno nitido come quel cristallo di rocca che inciso i Medici amavano
legare nell'oro. La campagna era quasi deserta d'uccelli, ma per me le memorie
cantavano in lor vece. Da per tutto s'affacciavano figure di gentili donne del
tempo di già. E sul prato ch'è dinanzi al Lepre dei Rinieri ci pareva
d'incontrare la Dianora vedova di Bernabò Malaspina, l'Ottavia di Gismondo
della stufa, la Lucrezia di Pier Francesco Rinuccini. E dagli Arcipressi che fu
dei Mini speziali al Canto del Giglio, scendeva quella Lisabetta onde Amerigo
Vespucci fu generato al mare ignoto. E veniva dalle Brache Camilla d'Antonio
Martelli, la giovinetta sposa infelice di Cosimo vecchio. E il Lasca sbucava
motteggiando dal Pozzino.
La
villa di San Poteto, là verso Quinto, ricostruita da Camillo Borghese, non
portava ancòra il nome di Paolina? Ma quelle altre gentili donne non mi
lasciavano più ammirare la reine des
colifichets, a quel modo che il Ghirlandaio annullava gli affreschi del
Bezzuoli ed il Verrocchio i bassi rilievi di Aristodemo Costoli cari al
principe romano.
Clemenza
mi chiedeva, sgranando i suoi occhi di pargoletta: "E' vero che si bagnava
in dieci pinte di latte due volte la settimana e che viaggiava sempre con un letto di legno di rosa?" Io
le rispondevo: "Sì; e anche, per preparare le sue quadriglie mitologiche,
aveva seco sempre i suoi maestri di ballo e i suoi violinisti ripetitori.
Balliamo la mazurka strisciata, Maria Walewska!"
Rapito
senza rossore al reliquiario, il brandello di casimir amaranto le fu offerto
proprio il giorno di Natale, in guisa di strenna storica. "Ne farò un
cuscinetto per gli spilli" disse ella ridendo "a forma di
cuoricino."
Andammo
alla messa notturna nella chiesa medicea di San Michele. Senza sentire il freddo,
camminavamo lungo i giardini murati che dovevan esser pieni di limoni e
d'aranci. Di tratto in tratto udivamo il chioccolìo d'una cannella o lo
stroscio d'uno zampillo, quasi una musica bassa di sotto all'alto concerto
delle campane. Un gran cipresso nero toccava le stelle. Poi le stelle
s'avvicinavano tanto che o credevo di vederle impigliate come lucciole nel
tòcco di zibellino.
Al
canto d'una via più buia, ella mi porse per mano, con l'atto d'una sorella
maggiore. Sentendomi tremare, mi domandò: "Hai freddo?" E mi coprì il
collo con l'estremità del suo boa.
"No"
dissi piano. "Sono l'Imperatore."
Al
mio ritorno, Dario non mi dissimulò il suo malcontento né mi risparmiò la sua
ironia. Senza saperlo, imitammo quell'abominevole Dialogo su l'Amore che ha per interlocutori l'innamorato Des Mazis,
l'austero Bonaparte e il Luogo comune col cappello bislungo a due punte. "Comment, monsieur, qu'est-ce que l'amour? Eh quoi!" Io non
confessai la mia piaga vera. Il giorno prima della
mia partenza dalla casa ospitale, avevo scoperto che la piccola Walewska era
fidanzata a un commilitone di Pippo, luogotenente d'artiglieria come il giovine
Còrso nel famoso assedio!
Sul
principio rilessi anch'io, col capo fra le mani, la prosa funerea sul disgusto
della vita (La vie m'est à charge, etc
etc), e anch'io riguardai con occhio torbido le gore dei lanaioli pratesi.
Ma una mattina trovammo infisso, nel palchetto della scansìa ov'erano ordinate
le Storie napoleoniche, infisso con due pennini d'acciaio uno di quei castagnacci
rotondi, zeppi di pinocchi e di zibibbo, intrisi nella Montagna pistoiese; e,
sotto, l'iscrizione infame: "Ecco il sole d'Austerliz". Sùbito
scotendo da noi ogni pensiero vile e vano, ci riarmammo di volontà eroica e ci
gettammo nella lotta.
Bisognava
tener testa alla reazione. La biblioteca insigne pareva trasmutata nel torso di
Pasquino, tanti erano i motti che v'appendeva una mano ignota e sacrilega.
L'imagine del martire di Sant'Elena sanguinava sotto i vituperii. Egli era
chiamato "villan riunto", "becco e becchino",
"carnefice panciuto", "assassino del duca di Enghien",
"strangolatore del Pichegru", "frodatore di Baiona",
"orco di Corsica", "fratello incestuoso della Messalinetta di
Guastalla", "Giove Brighella" e ben altro.
A
quando a quando un grido ostile, messo da una voce contraffatta, sorgeva da un
gruppo chiuso ma pronto a sciogliersi. La camerata si divideva nelle fazioni
più diverse e avverse. Lo spirito di parte ribolliva e fermentava peggio che
nella Prato dei Dagomari e dei Guazzalotri, peggio che nella Pistoia dei
Panciatichi e dei Cancellieri. I romanzi di Alessandro Dumas vecchio folti
d'avventure e di millantature, le Storie popolari fatturate di aneddoti, di
leggende e di partigianeria, i drammacci rimpolpettati di retorica giacobina,
le vignette e le stampe di propaganda più grossolane e più truci alimentavano
la passione criminosa e l'imaginazione sanguinaria dei cancheri e dei
cancherini irritati da mesi di clausura e di tirannide. L'incendio, la forca,
la scure, la mannaia, lo stupro, la carneficina a polvere e ad arme bianca
erano i sogni spaventevoli di tutta quella puerizia vestita di panno
turchiniccio come la fanteria di Sua Maestà. L'impresa d'Oliviero Cromwell, la
guerra di Vandea, lo sgoverno del Terrore erano i tre temi principali di quel
delirio mimetico. Ciascuno, dopo aver masticato la sua fetta di lesso e dopo
aver balbettato il suo latinuccio, voleva dimenticar sé medesimo e la sua
piccola vita per ansare sbuffare ruggire nella pelle d'un eroe violento.
Talvolta il bisogno della finzione istrionesca prendeva gli aspetti della vera
alienazione e giungeva agli eccessi della demenza.
Mi
ricordo di certe giornate pioverecce quando il passeggio era abolito ed eravamo
costretti a rimanere nella camerata uggiosa che aveva le finestre a tramoggia.
Al primo uscire dalle aule scolastiche, i cervelli già s'intorbidavano.
Salivamo con disciplina quel ramo delle scale che poteva ancòra essere
sorvegliato dall'andito ove bazzicavano le autorità. Sul principio del secondo
ramo, invasi da una subita furia, gittavamo un ululo concorde salendo i gradini
a quattro a quattro, con l'impeto dei combattenti di Villa Corsini o di
Calatafimi, irresistibili. Un colpo di spalla spalancava la porta; ed entravamo
berciando, scalpitando, sbatacchiando libri e cartelle su le tavole col piglio
feroce dei mercenarii d'Erode in atto di schiacciar contro i muri le teste
degli innocenti.
Mi
pare ancòra di sentir salire in quel tumulto l'odore dell'ammattonato che i
servi avevano sparso d'acqua nello spazzarlo: un odore molliccio, disgustoso e
un poco soffocante, che s'accomuna nella mia memoria a tutte quelle brutalità
come il fumo del sangue ai delitti della storia. Succedeva un intervallo di
smarrimento e di fame vorace. Ciascuno prendeva nel suo cassetto e addentava il
pane, il panforte, la schiacciata, il biscotto o il cantuccio. Sul rumore della
masticazione frettolosa, sul moto delle ganasce, su le guance gonfie d'un
boccone soverchio, gli occhi già cominciavano a mutarsi come se in ciascuno dei
divoratori già cominciasse a vivere il personaggio ch'egli voleva fingere. A un
tratto, un rauco clangore faceva sobbalzare tutti e tra le briciole scosse
tutti fremere di battaglia.
Era
una corna di porcaro dell'Agro romano, che il figlio d'un mercante di campagna
aveva portato dal suo casale per sonare la radunata delle bande vandeane. Ci
soffiava dentro con tutta la forza de' polmoni, rimbombando il richiamo
selvaggio per boschi e per riviere: ché egli non era se non Francesco Atanasio
Charette in persona, il gran partigiano dalla testa di gatto selvatico, gran
violatore di leggi e di femmine, segatore di polsi republicani, propagginatore
di patriotti, inafferrabile e indomabile. Sul regolo, che gli teneva luogo
della ricca spada offerta dal pusillo
Conte d'Artois, era scritto con inchiostro rosso: Je ne cède jamais. Al suono del corno di bue i Vandeani si
drizzavano, digrignavano i denti, serravano le pugna; e accorrevano al macello.
Una
voce allora gridava nell'imbuto di due mani ancor dolci di marmellata
appiccicaticcia: "La colonna di Maienza è giunta nella Vandea!"
Gridava
un'altra voce chioccia: "Il duca di York arriva davanti a Dunkerque con
ventimila Inghilesi e dodicimila Austriaci!"
Ma
una voce più ferma e più tremenda, una voce d'arcangelo, diceva: "Amici, è
necessario che qui voi vi facciate uccidere." Senza dubbio era il prode
Kléber, nelle vicinanze di Torfù; che poneva il suo pugno d'uomini a capo del
ponte.
E
chi erano quei due che a vicenda si sporcavano d'inchiostro il muso, presso il banco
del prefetto? Era Oliviero Cromwell che, nel firmare l'ordine di morte per Carlo Primo, faceva
quella lugubre burla al suo sozio Martyn; e il sozio gli rendeva la pariglia.
E
quegli altri due che, seduti a una tavola, l'uno di contro all'altro, mangiavano
un castagnaccio non senza ghigni sinistri e rotamenti d'occhi? Giuseppe Lebon
ad Arras cenava col boia.
L'ombra
del Terrore si spandeva sotto la volta a botte. Gli sgabelli trascinati
imitavano il rombo dei carri carichi di prigionieri intrepidi o tremanti. La
Legge dei Sospetti non risparmiava nessuno. Gli interrogatorii si seguivano
speditamente. "Conoscete la cospirazione? – No. – Non siete un ex-nobile?
– No. – Non siete forse un prete? – No. – Non eravate il servitore
dell'ex-costituente Tal de' Tali? – No. – Non avete il vostro suocero al
Lussemburgo? – No. – Ebbene, andate alla morte!"
Il
Fucecchiese melenso, quello dal capo triangolare, s'avanzava tentennando il suo
collo di testuggine, e soffiava con la voce fessa: "Io non sono accusato.
Il mio nome non è nella lista." Tonava il condannatore scrollando le
spalle: "Me ne strafischio! Datemi il vostro nome, e andate alla
morte."
Nei
pressi della ghigliottina avveniva allora una metamorfosi più che ovidiana. I
condannati si trasmutavano in macube, in cetonie, in bucaperi, in raganelle, in
lucertole, in topolini e perfino in salamandre e in camaleonti. Tutta quella
gente innocua, raccolta lungo le gore o lungo il Bisenzio, su per i gelsi i salici
i pioppi, intorno alle vasche, nelle grondaie o nelle soffitte, quella gente
piccola e ignara a cui il Firenzuola non aveva dato la parola né la saggezza,
passava sotto il fil della mannaia maneggiata dal boia senza fallo.
"Ah,
questo Robespierre è insaziabile!" Era Bertrando Barère, l'Anacreonte della
Ghigliottina, quello che sbuffava così, lasciandosi cadere nella seggiola bassa
destinata al lavamento ebdomadario de' nostri piedi. Poco dopo, ritto su la
medesima seggiola come su un piedestallo sentenziava solenne: "La libertà
è una vergine il cui velo non può essere sollevato senza colpa." Il nostro
pedagogo, il concittadino di Vanni Fucci, tanto schivo dallo squadrar le fiche
al cielo quanto ghiotto delle sue unghie, si scoteva e protestava contro la
frase lubrica. "Alla Badia! Alla Badia!" si vociferava da ogni parte.
"La Montagna è pura, la Montagna è sublime!" Il Saint-Just rovesciava
le sue tasche, per mostrare che non le aveva piene di liste. Il Tallien
mostrava all'Assemblea un pugnale di
legno. Un Giacobino gridava: "Io vengo a deporre nel seno…" Ma il
pedagogo si scoteva, nuovamente scandolezzato, e interrompeva la frase lubrica.
"Per l'ultima volta, Presidente degli Assassini, io ti domando la
parola", gli urlava il Robespierre tendendo verso di lui i pugni chiusi e
rovesciando in dietro il viso convulso. "Il sangue del Danton ti
soffoca!" E un istrioncello novellino, troppo impaziente, gettava sul muso
del tiranno una bottiglietta di carminio, senza dargli il tempo di tirarsi il
colpo di pistola preveduto.
Le
"costole di ferro", le "teste tonde", i banditi di Vandea,
per qualche momento sopraffatti dal dramma del Terrore, si risollevavano e
operavano senza più curarsi di quel che accadesse intorno.
Ciascuno
combatteva pel suo dio, pel suo re, pel suo padrone, pel suo bottino, per la
sua gloria, interamente invasato dal delirio mimico ch'ei s'era scelto,
gesticolando e blaterando in sé come il pazzo nel corridoio del manicomio.
L'atroce
Charette s'avanzava col braccio al collo e con la testa avvolta in una
pezzuola, come quando fu condotto a Nantes per essere fucilato; si strappava le
bende e comandava con magnifica insolenza, sbarrando gli occhi felini:
"Fuoco!"
Massimiliano
Robespierre stava disteso sul banco del preferito, con un pacco di libri sotto
la nuca, facendo sangue dal labbro e dalla gota. Come s'asciugava con una
ciabatta simulante il fodero della pistola, gli assistenti gli davano pezzi di
carta perché meglio con quelli si nettasse.
Oliviero
Cromwell, duro e freddo sotto il suo imaginario feltro di puritano, massiccio
su' suoi imaginarii stivali a tromba, con l'impenetrabile torace fasciato
d'imaginario dante, si chinava a guardare il cadavere del Re, gli toccava la
testa per accertarsi ch'ella fosse veramente recisa, e diceva con la voce
diaccia: "Ecco un corpo ben costruito, che prometteva una vita
lunga."
Ma
il decapitato disteso nella bara non era se non un falso monarca. Il vero Carlo
primo d'Inghilterra, il vero Stuardo, il vinto di Noseby, ricusava
costantemente di farsi decapitare e di farsi poi riappiccare il capo al collo
per ricevere la visita del nemico. Nel processo del suo martirio, egli si
fermava al punto più patetico, all'episodio dello sputo; e non c'era verso di
spingerlo fino al ceppo, se bene vi fosse qualche buono effetto da trarre
nell'ora del boia, specialmente in quell'interrompersi continuo per ripetere al
gentiluomo: "Attento alla scure; non mi toccate la scure; non mi guastate
il taglio."
Quanto
è misteriosa la vicenda che dà maggiore o minor vigorìa alle impronte della
memoria! Misteriosa forse come il rilievo e il legame de' sogni. Figure ed
eventi in apparenza poco notabili rimangono impressi indelebilmente, quasi
nascondano un enigma dello spirito o un emblema dl destino. Forse scioglieremmo
l'uno o comprenderemmo l'altro, se ci dessimo la pena d'indagare e di meditare.
Ma anche i più vigili e i più inquieti si acquetano nella nozione della
stranezza e nel culto del caso. Si sa come del sangue si sia giovato talun
morituro a scrivere su la parete il testamento del suo eroismo. Forse un giorno
l'uomo saprà leggere e interpretare quel che in lui medesimo il suo sangue di
continuo scrive.
Perché
fra tanti aspetti attitudini gesti di quel tempo io serbo così viva l'imagine
di quel mio compagno ostinato nel rappresentare la parte dello Stuardo esposto
agli oltraggi della soldatesca e dei giudicatori?
Era
un Modenese, mi ricordo, un povero figliuolo scialbo e di scarso ingegno, una
specie di ravanello bianchiccio, niente altro che linfa stagnante. Aveva i
capelli deboli e mal piantati sopra un cranio a pan di zucchero, non bruni né
biondi ma d'un color di talpa; gli occhi chiarissimi come quelli degli albini,
tra gli orli della congiuntiva arrossati; il naso per solito untuoso e
punteggiato di nero; la bocca un poco aperta, col labbro superiore sporgente.
Pareva promesso a una dolce ebetudine, disposto a vivere "dentro una
cassetta di cotone" come la Secchia tassoniana, riserrata nella sua
Ghirlandina.
Nella
camerata la sua tavola da studio era davanti alla mia. In quelle lunghe tre ore
serali, lo vedevo sempre chino a sbirciare le pagine d'un romanzo nascosto
sotto il quaderno del còmpito. Aveva nella nuca gracile un solco pieni di
lanugine, e la cotenna bianca appariva di sotto ai capelli restii. Sempre la
vista di quel suo dosso meschino mi poneva nel cuore una gran compassione. Per
aiutarlo, gli lasciavo copiare i miei latinetti e i miei problemi risolti. La
qualità della sua indole si manifestava in questo: che, in segno di
riconoscenza, se bene fosse perdutamente dato alla lettura amena, ricacciava giù
il lucignolo nel becco della lucernina affinché troppo ardendo non consumasse
tutto l'olio, e alla fine dello studio si mostrava felice se aveva potuto
risparmiare tanto da offrirmi un poco più delle ultime stille che solevo
raccogliere. Forse per ciò aveva gli occhi malati.
Una
sera m'era parso che la sua schiena e le sue spalle sussultassero più del
consueto ai soffii tragici ventati dalle pagine del libro occulto. A un certo
punto m'era parso perfino di vedere la pelurie di talpa drizzarglisi sul cocuzzolo.
Sorridevo in me medesimo bizzarramente pensando allo zampone famoso, alla
prodezza del conte di Culagna, alla "Vera historia del pota da
Mòdona". Quando il rullo del tamburo sonò la fine delle tre ore, egli si
volse verso di me ansando come se mi giungesse di corsa da un luogo lontano per
recarmi chi sa che messaggio.
"Che
accade?" gli chiesi. "Di dove torni?" Mi rispose: "Dalla
grande sala di Wesminster."
Si
stropicciava le palpebre irritate. Udivo battere il suo cuore. "Che si fa
nella grande sala di Westminster?" Mi pareva di interrogare una di quelle
sonnambule bendate che avevo vedute nelle fiere di terra d'Abruzzi.
"Si
giudica il Re. Il presidente Bradshaw siede in un seggiolone di velluto
crèmisi, e i sessantasei commissarii ai due lati in fila seggono su panche
ricoperte di scarlatto. Carlo entra con passo fermo; ha il cappello in testa,
la mazza in mano. Sopra la tavola, dove scrivono i due segretarii del
tribunale, i giudici riconoscendosi carnefici hanno posta una spada sguainata.
Carlo, passando presso la tavola, tocca la lama con la punta della mazza e
dice: – Non mi fa paura…"
Mi
rappresentava il processo dello Stuart davanti all'alta corte, come un
visionario, con una strana facoltà d'imitazione, che di minuto in minuto si
faceva più intensa. Non so in che modo quel suo povero viso esangue evocasse il
pallore e la tristezza regale. Quando disse che il miserabile aveva sputato su
la guancia del Re, prese il fazzoletto e l'asciugò in silenzio, con un gesto di
così patetica verità che m'è ancor vivo nell'anima e in più di vent'anni non
s'è affievolito.
Perché
da quell'attimo quel gesto s'impadronì di lui come l'idea fissa si radica nel
cervello del maniaco?
A
cena, poco dopo, ogni volta che m'avveniva di guardarlo, egli mi guardava triste
e s'asciugava la guancia molle e smorta. Più tardi, nel dormentorio, mentre mi
spogliavo per coricarmi, egli passò a pié del mio letto, si soffermò, mi guardò
e s'asciugò la guancia. Ebbi un brivido oscuro, come sotto l'aura gelida della
follia. E fu la prima volta che mi si rivelò in confuso il terrore della lesione
improvvisa, che in certe epoche della mia vita m'ha poi così crudelmente
incalzato.
Parve
stabilirsi tra noi una specie di muto fascino, non so che dipendenza
indistinta. Egli indovinava il mio turbamento; e io mi sentivo come il complice
del suo gesto. A poco a poco la frequenza lo aveva reso simile a quei moti
nervosi involontarii che affliggono i degeneri e gli esausti. I compagni ne
ridevano come della scempiaggine tenace d'un mentecatto; e avevano cognominato
"la Secchia sciapita" l'acquoso concittadino di quell'Alessandro
Tassoni cui dal tanto faticare era rimasto in mano un fico, un fico vieto: ficus inanis.
Io
non sapevo fuggirlo, né persuaderlo o costringerlo a smettere. Era là, davanti
a me, col suo fievole petto contro il taglio del tavolino; e sempre il cuore mi
dava un colpo sordo quando lo vedevo rimanere fiso e poi ripetere quel gesto
come in sogno. La guancia ne pareva affloscita, appassita. Talvolta il sogno
avviluppava anche me, disciogliendo ogni senso di realtà, aprendo non so che
lontananze deserte nella mia consapevolezza. La mia anima sbigottita, con uno
sgomento ignoto che non la ritraeva ma la protendeva, un giorno vide sul muro
bianco nell'ombra di quel capo deforme disegnarsi la maschera della follia.
Mi
rivelava forse Vergilio le lacrime delle cose? o ero nato per adunarle in me e
per temprarne la mia stessa amarezza?
Su
quel muro certe volte, in una certa ora del mattino, appariva un tremolìo che
si propagava ai precordii e moveva i pensieri a
sua somiglianza; ma non poteva essere se non un riflesso d'acqua
percossa dal sole, forse d'una pozzanghera nella piazza, forse d'una catinella
sul davanzale d'una finestra dirimpetto celata a noi dalla tramoggia.
Il
piccolo re oltraggiato teneva nel suo cassetto un topo domestico, un topo
bianco dagli occhi rossi e dalle zampine nude. S'udiva a quando a quando
annusare, rosicchiare, trotterellare. Talora mi pareva che non abitasse il
cassetto ma quel tristo corpo abbandonato contro il tavolino e che lo frugasse
incessantemente.
Un
giorno fu agguantato e portato via da uno dei satelliti di Oliviero Cromwell, e
decapitato dal boia, insieme con le raganelle e con le lucertole.
Vedo
la pena squallida del superstite davanti al cassetto vuoto, sparso di rimasugli
e di sporcizie; e il fazzoletto premuto su la sua guancia e l'orlo infiammato
della palpebra tratta giù dalla pressura, e la pupilla dilatata nell'iride
senza colore; e quel tremolìo tenue nella parete, sospeso su quel capo vanito.
Come
l'infermiere venne e lo prese per mano, egli si alzò, si lasciò condurre, si
voltò dalla soglia verso di me, rifece quel gesto. E non ricomparve mai più tra
i suoi giudici e i suoi carnefici che lo dimenticarono.
Dario
dice, dopo un intervallo di silenzio, con la bocca convulsa, con la voce
tremante, con non so che di colpevole e d'inconfesso in tutto l'aspetto:
"Chi occupò il suo posto vuoto
accanto al tuo? Te ne ricorsi?"
La
paura di non so che confessione improvvisa mi riassale. Sembra che l'imagine
del posto vuoto si propaghi alla stanza ove respiriamo. L'aria si fa cava e
senza fondo. Non esiste la vita che fu, non esiste la vita che i polsi murano;
ma qualcosa intorno a noi vige, che nessuno mai espresse, che nessuno esprimerà
mai.
L'intervallo
dura un attimo, a bastanza perché io veda in quella specie d'orrore indistinto
dileguarsi la larva scialba del demente come nel suo proprio mistero, come
nell'ignoto ch'egli trovò di là dalla soglia lasciando dietro di sé il sussurro
dei fanciulli feroci.
Rieccomi
fra tavola e scansia. Il cassetto è sgombro, e vi persiste ancòra il lezzo
della bestiuola domesticata. Sgombri sono i palchetti, e il muro nudo si vede a
traverso. Il calamaio di piombo è risecco. Riconosco el macchie d'inchiostro,
le tacche fatte col temperino, le iniziali del nome intagliate come nella
scorza d'un albero o nel coperchio di una cassa mortuaria. Lo sgabello è là, su
le sue quattro gambe, con la sua fessura per mettervi le dita nel tramutarlo,
con i suoi spigoli levigati. A quando a quando riappare su la parete il
tremolìo d'oro.
Era
la prima volta che raccoglievo in me la tristezza delle cose impregnate ancòra
della vita d'una creatura scomparsa. Il piccolo re esangue non era più là
eppure non mi pareva del tutto assente. La sera, nel silenzio delle tre ore,
alzavo a un tratto gli occhi dal libro con un lieve sussulto come s'egli fosse
tornato in punta di piedi e si fosse messo di nuovo a sedere e stesse là, col
gomito su la tavola e col fazzoletto contro la guancia. Il posto era vuoto e
pieno d'ombra; ma una fievole esalazione vitale esciva dal legno, saliva dal
mattone, in quel modo che il fosforo tramanda il suo bagliore; e respirandola
mi sentivo inquieto e oppresso.
Talvolta
m'avveniva di sognare a occhi aperti e di mescolare il fantasma ai ricordi
dell'infanzia più lontana. Quell'odore tenace del topo bianco mi rammentava un
vecchio stipo di casa mia, messo da parte in un andito che conduceva alla carbonaia,
un vecchio stipo d'abete pencolante su tre gambe, chiuso da una chiave perduta
chi sa da quando, con negli sportelli due spiragli tondi protetti da una grata
di fil di ferro addoppiata d'un ragnatelo, donde emanava un puzzo di cacio
stantio e di cotenna rancida come da una vecchia trappola. Mazzi di sorbe
pendevano appiccati ai travicelli, nespole e cotogne maturavano su la paglia,
sacchi di civaie e di crusca s'appoggiavano al muro e le cipolle dalla resta ci
spiavano a traverso la sfoglia, con un viso tondo o con un viso schiacciato, e
le malige allungavano il muso. Tutto per noi viveva d'una vita coperta e
insidiosa, come nel vestibolo d'un palagio incantato. Per me, pel mio fratello minore,
per le mie tre sorelle la carbonaia era la sede delle meraviglie, era l'abisso
delle apparizioni e dei tesori. Tenendoci stretti, verso sera ci arrischiavamo
nell'andito, affascinati dalla stessa
nostra paura, in ascolto, guatando laggiù l'uscio dalla soglia nera, presso il
quale un sacco di cicerchie se ne stava sornion sornione. Se a taluno di noi
borbottava il ventre, davamo un gran balzo indietro, sbigottiti, col gelo nella
radice dei capelli, non sapendo di dove potesse escire un rumore tanto vicino.
Poi si rideva, l'uno sospingendo l'altro; e una sorba matura cadendo dal mazzo arrestava
il riso.
Non
so perché, quel sentimento del soprannaturale mi risaliva dal fondo in certe
ore, davanti al posto vuoto e pieno d'ombra. La mia imaginazione ci si
avventurava trepidando, come laggiù verso la soglia nera. Talvolta mi pareva
che la figura del vano re smorticcio mi tornasse veramente da quella
lontananza, immedesimata a una fantasima dalla faccia bianca di farina, che il
mio piccolo fratello chiamava Mamàla. La scansìa sgombra scricchiolando come il
vecchio stipo pareva rinnovare in me uno di quei brividi. E, poiché tutto
questo era indicibile e incomunicabile, uno strano impedimento pareva nato fra
me e Dario, una fenditura pareva essersi fatta nella nostra amicizia senza
fallo.
In
séguito a un accordo col cameriere che si chiamava Cipriani come quello che
accompagnò Napoleone a Sant'Elena, ogni sera per lo studio delle tre ore la
lucernina era posta su la tavola disoccupata, piena d'olio ma non accesa.
Alzando gli occhi dal còmpito, vedevo rilucere l'ottone pulito e pensavo alla
buona riserva. Il lettore ansioso non era più là, ma quello era tuttavia il suo olio. Non egli
me lo riservava con la sua parsimonia gentile, ma pur gli apparteneva in
qualche modo.
Quando,
la notte, dopo il primo sonno, mi levavo di nascosto e con grandi cautele
escivo dal dormentorio e tornavo ai miei libri, il cuore mi palpitava d'un sentimento
misterioso che talvolta il canto lontano d'un gallo rendeva bello come l'ansia
d'un poeta inconsapevole. Sentivo di non essere solo, nella vasta sala che
rendeva più paurosa il chiarore fioco della lampada passando a traverso la
porta vetrata. Sbigottito, mi volgevo a guardare di là dai vetri la fila dei
letti bianchi; e speravo che Dario non dormisse ma che mi seguisse co' suoi
occhi aperti, co' suoi occhi senza cigli. Poi, a tentoni, m'accostavo alla
tavola, ritrovavo la lucerna respirante verso la mia anima, come una creatura
viva. E, quando lo zolfanello non s'accendeva alla prima, nel buio la forza di
quella vita s'accresceva smisuratamente: la manìa riprendeva carne e ossa e
sguardo e gesti.
Allumato
il lucignolo, ogni scoppiettìo, ogni vacillazione della fiammella m'era una sorta
di linguaggio intermesso che mi pareva d'intendere o di divinare. A poco a poco
il cuore mi si placava, già capace di contenere quell'aumento di potenza e di
libertà, che dà la veglia solitaria dello studioso. Vedevo biancheggiare i
letti, di là dai vetri, sotto la lampada sospesa; scorgevo qualche testa bruna
sul guanciale, tenuta dall'opaco sonno; e in me sorridevo dei dormienti supini,
ignari del mio acquisto segreto, del mio stratagemma notturno per vincere. Il
rullo del tamburo, la piccola diana scolastica, avrebbe trovato me solo pronto
e sicuro della vittoria e ricco d'una vita diversa, con una speranza che aveva
risposto al canto del gallo sbattendo la cresta e le ali contro le gretole
della gabbia.
Sul
far del giorno, andavo nel lavabo inviso ai sonnacchiosi e aprivo sul mio corpo
tutte le cannelle dell'acqua diaccia attonite di tanto spreco. Poi, quando il
rullo echeggiava nei corridoi deserti, correvo al dormentorio urlando e
tempestando, toglievo dal mio letto il capezzale e me ne servivo contro i
covatori di lenzuola come Sansone usò la mascella non ancor secca contro i
Filistei. "Con una mascella d'asino, un mucchio, due mucchi! Con una
mascella d'asino i' striglio trenta ciuchi!"
Ma
le mascelle si moltiplicavano, e la battaglia diveniva più furiosa che a
Ramat-Lehi. Dietro i capezzali volavano i guanciali; dietro i guanciali, le
coltri; dietro le coltri infine i materassi arrotolati in guisa di barili ardenti
da lanciare col mangano a sfascio. Il pedagogo pistoiese in mutande, dritto sul
suo letto, pudicamente serrato nelle cortine candide, metteva fuori il capo tra
lembo e lembo, minacciando i fulmini del Censore. "Dàlli al Panciatico!
Dàlli al Panciatico!" si gridava da ogni parte, sol per onorarlo, come in
un capo di strada della sua città faziosa. E il timorato Panciatico era stretto
d'assedio nella sua torre di cotonina. "Brucia, brucia! Ardi, ardi! La
stipa! La ragia! La pece!" Ultimi fuochi maneschi, volavano i berretti e
le pantofole. "Rompi, rompi, dirocca, dirocca!"
All'improvviso
dietro di noi sonava un ruggito di leone infreddato, un rugghio ben noto.
Di
colpo la fazione s'arrestava coi gesti in aria, immobile e ammutolita,
simulando una mischia da museo di cera. La faccia del pedagogo in mutande, fra
cortina e cortina, si raggrinzava, faceva greppo, e metteva un suono
lacrimevole: "Non credevo trovarmi a questi ferri, signor Censore."
Si sarebbe detto che gli cascassero di mano i ferri da calza o il ferro da
stirare, in verità. Ma un secondo rugghio, accompagnato da una battuta di
piede, lo annientava nel cotone con una rapidità da castello di burattini. E
quel fantoccio del Tiranno rimaneva solo col suo furore dinanzi ai nostri visi
compunti e ai nostri occhi ridenti, sul campo sparso di armi imbottite.
Era
un nuovo Censore, una specie di inesorabile riformatore dei costumi, Catone catonior, venuto a reprimere e
sopprimere con rigido polso ogni "disdicevole usanza" e ogni
"licenza d'abuso". E era – o bizzarria della sorte! – un Còrso, un
vero Còrso, un Còrso schietto, da quanto il Paoli e il Bonaparte, portato chi
sa da qual vento, chi sa di dove, e ammesso al censorato dagli Amministratori
municipali su le vive raccomandazioni del Rettore che ne rispondeva come d'un
"amico d'infanzia". Quando difficile cosa rappresentarsi l'infanzia
dell'uno e dell'altro! Il raccomandante rimontava all'Odissea, e forse di lui si poteva dire che fosse novenne, avendo
conservato la sua buaggine favolosa pe' secoli de' secoli: ché egli non era se
non l'otre di Eolo, mal chiuso, l'otre "conciato col cuoio di un bue di
nove anni", onde continuo gemendo o ronfando sfuggivano strani vènti, e
noi si diceva: "Attento alla scotta, Ulisse!" Ma il raccomandato
aveva dovuto servire da spaventacchio senza età, in qualche campo sassoso di
Fiumorbo o di Valinco frequente di corvi, tanto la sua terribilità pareva
posticcia.
"Che
ne dici?" chiedevo a Dario, dopo aver udito bofonchiare sul mio capo
chiomato d'angelo neutro quella barba da pannocchia di formentone. Egli scoteva
il suo capo da vincitore di Lodi e d'Arcole; poi rispondeva, con una gravità
galileana: "Eppure è Còrso!" Non potendo destituirlo della sua qualtà
nativa, deliberammo di battezzarlo Matteo Buttafuoco (Il suo vero nome era
Bereni, Dio l'abbia in pace) per potergli gettare in faccia alla prima
occasione la famosa epistola napoleonica ricopiata dall'Elbano di Marciana
nell'archivio dello zio Saverio. Depuis Bonifacio au
Cap Corse, depuis Ajaccio à Bastia, ce n'est qu'un chorus d'imprécation contre
vous… Qu'avez-vous donc fait? Quels sont donc les dèlits, etc., etc.
Ne
imparammo a memoria le frasi più virulente, e le imbeccammo anche a qualche
pappagallo dei nostri. Giù s'udiva mormorare nei corridoi, al passaggio del
castigamatti: L'histoire de votre vie est
connue. Les prinpaux traits en sont
tracés ici en lettres de sang… Nel refettorio, il mercoledì e il sabato, giorni sacri
all'ineffabile polpetta, il mormorio si propagava di mensa in mensa. Empoisnnés par les aliments, tourmentés par
leurs chaines, accablés par les plus indignes traitements… Eravamo tutti trasmutati in patriotti còrsi, rinchiusi nella
Torre di Tolone, ròsi dalla fame e dalla vendetta. E il prezzemolo nell'orrido
tritume sapeva di cicuta socratica.
Matteo
Buttafuoco, alquanto sordo, non riesciva
a comprendere che gergo fosse mai quello; ché il pessimo francese dell'epistolografo
pativa per giunta le più atroci stroppiature passando negli accenti dei più
diversi dialetti d'Italia. Si voltava in qua e in là, bruscamente, come se un
moscone inafferrabile lo tormentasse; e il fiocco d'oro in sommo della papalina
tentennava e si voltava con lui, le falde dell'autorevolissima giornea
sventolavano lungh'essi i pantaloni color pulce che tanto erano scarsi quanto
quella era prolissa. A un brontolio più rude, si fermava di botto, nel mezzo
del refettorio; e cominciava a rotare gli occhiacci scerpellato coccoveggiando
come fosse su la gruccia per pettirossi. Quando la sua guardatura bieca si
posava su me, era prodigio che io non ne rimanessi incenerito.
Egli
aveva preso a odiarmi fin dal primo istante, per una di quelle antipatie
subitanee ed irreconciliabili che sembran fare d'una creatura umana l'assoluta
negazione dell'altra. Sentii che il solo e semplice caso dell'essere io vivo
gli dava cruccio, e che ogni moto inatteso e incompreso della mia vitalità gli
moveva la bile atra. Egli poteva dirsi veramente il precursore inconsapevole di
quel curioso fenomeno animale che più tardi la sapienza critica designò foggiando a sua similitudine la parola di
molti piedi e di lunga coda "antidannunzianesimo".
Accettai la lotta allegra; e c'è ancora nel vecchio
collegio pratese qualcuno che se ne ricorda e ne fa le grasse risa.
L'altr'anno, in una mia visita al Pergamo e alla camerata, il piacevole bidello
Carmagnino, vegeto tuttavia e rubicondo, mi domandò: "Quando la scrive La Bereneide? Mi ci mette anche me?
Proprio me lo merito. E poi, sa, sto bene con la rima."
Il
Carma, in fatti, era un alleato segreto di grandissimo pregio. Egli esercitava
la polizia dei corridoi, delle scale e
di altri luoghi pubblici con una beata indulgenza. Accoccolato nel suo
sgabuzzino come un fratacchiotto nella sua celletta, col suo véggio e col suo
fiasco di Chianti, chiudeva un occhio e spesso anche due, solo intento a
scalducciarsi, a bevicchiare, a leggiucchiare Bertoldo, Cacasenno, Sesto Caio
Baccelli, l'antico Vesta-Verde, il Barbanera e altre famose opere d'alta
letteratura; cosicché conosceva a menadito la genealogia di tutti i sovrani
regnanti e spodestati, il corso di tutte le monete dalla lira di cento
centesimi al peso di cento centavos, le feste e i digiuni degli Israeliti, le
tavole naturali e simpatiche per la cabala del lotto, e specialmente le fiere e
i mercati della Toscana con tutte le loro date che gli erano cagione di sospiro
come se a restar là perdesse ogni giorno qualche grosso affare di bozzoli o di
cereali o di bestiame nero. Di tratto in tratto ammoniva, con un tono
divinatorio: "Ragazzi, movimenti vulcanici in Francia." Oppure
"Fra breve, ragazzi, morte d'un capo di stato." Oppure: "Uragani
e vènti terribili, accadranno disgrazie in terra e in mare." Ma l'officio
sul più meritorio era di provvedere alla nostra ghiottoneria biscotti,
cantucci, stiacciate, panforti, canditi: e per me il suo più gran merito era di
possedere la "comunella" e di lasciarsela carpire.
La
comunella si poteva dir veramente il nerbo della mia guerrùcola. Era una specie
di chiave magica, che girava in tutte le serrature, apriva porte usci e usciuoli, doppia, a due ingegni, maschio e
femmina, col cannello snodato. Il Carma, che per essere discepolo dello
Strolago di Brozzi aveva gran fede nel mio oroscopo, non osava resistermi in
nulla, precursore anch'egli nel senso opposto; ché me le dava tutte vinte,
persuaso che tutto mi fosse permesso e tutto mi fosse dovuto. Non soltanto
ottenevo da lui l'onesto grimaldello a ogni richiesta, ma gli avevano insegnato
un linguaggio furbesco di suoni gutturali, di colpi di tosse e di nocca, di strizzatine
d'occhi e d'altri segni e cenni, utilissimo per il lavoro di vigilanza contro
le sorprese. Egli era doventato il mio informatore, il mio esploratore e la mia
vedetta fedele. In compenso i pepatissimi salami d'Abruzzo e i caci pugliesi
gonfi come uveri di vacche gli adornavano lo sgabuzzino e gli aguzzavano il
gusto di Carmignano.
Come
un nemico può abbellire e arricchire la nostra vita e come comprendo colui che
coltivò con indefessa costanza l'arte di inimicarsi il prossimo!
Quel
tanghero di Corsica non imaginava che mi fosse causa di tanto ardore e ti tanga
gioia. La prigionia non m'incresceva più, le mura edificate dal gran Gesuita
non più m'opprimevano, l'orario misurato non più m'era a noia, la disciplina
non m'era più di peso; ché davo tutto me stesso all'infrazione e alla
trasgressione, vivevo solo pel divino piacere di rompere il divieto, facevo
d'ogni mio giorno un gioco appassionato d'astuzia e d'audacia, consideravo
quell'immensa fuga di corridoi, di anditi, di aule, di sale, di scale come una
reggia piena d'insidie e di minacce dove io fosse per cercare qualcosa d'infinitamente
prezioso che mi appartenesse e d'attimo in attimo mutasse di natura e di pregio
serbando la sua novità perpetua a mia ricerca puerile.
Quante porte! Quante porte!
Quante toppe! Quanti serrami! Cento,
mille, diecimila, innumerevoli, come nelle favole, come nei sogni. La mia
immaginazione moltiplica senza fine le chiusure, complicava i congegni,
consolidava le imposte, mentre il ferro della comunella magica s'intiepidava
contro la palma della mia mano.
Eludendo
ogni vigilanza partivo per la mia corsa perigliosa, talvolta solo, talvolta con
Dario che m'era divenuto ancor più certo, più concorde, e più caro. Andavamo
alla ventura, come una coppia di malandrini in un castello ignoto, regolandoci
su una voce, su un rumore, indugiandoci nei pianerottoli, risalendo e
ridiscendendo le scale a precipizio,
sporgendoci da una finestre, ritrovandoci nel buio d'un nascondiglio, sbucando
sul tatto per un abbaino.
Ecco
un odore di bucato, di giaggiolo e di spico! Eravamo alla soglia della
guardaroba: udivamo un cicaleccio di vecchie streghe, il colpo dei ferri da
stirare, il fruscìo della tela.
Ecco
un odore tristo, come d'acido fenico e di brodo grasso, come di spedale e di
cucina. Eravamo dinanzi all'infermeria: tendevamo l'orecchio per sentire se non
ci fosse Cice, l'infermiere carceriere; camminavamo in punta di piedi,
ascoltavamo agli usci delle camere, entravamo in qualcuna all'improvviso,
vedevamo il piccolo malato colorarsi in volto dalla maraviglia, sollevarsi su i
guanciali, tenderci le mani, chiamarci per nome. Avevamo vergogna di non dargli
nulla; ci frugavamo nelle tasche per trovare qualcosa; gli promettevamo di
tornare con un cartoccio di chicche e con un libro di figure. "Non lo dire
a Cice. Guarisci presto. Addio, addio."
Scendevamo
un ramo di scale, fendendo col viso quella malinconia accolta, come si fende la
nebbia della sera. Un getto di sole vivo irrompeva da uno spiraglio, batteva
contro un pilastro, colava giù come un'acqua dorata traboccante dalla tazza
d'una fontana, con tanta copia che ci stupivamo di non udirla scrosciare, di
non vederla schiumare. Rimanevamo quasi soffocati, palpitanti come se la
Primavera fosse nascosta dietro il pilastro e ci spiasse e avesse già tra le
labbra la piccola rosa scempia che sboccia dallo stecco del pesco. Lo spiraglio
dava sul giardino annesso al Gabinetto di Storia naturale pieno di pietre
fossili e di uccelli impagliati. Da un crepitìo leggero indovinavamo che il giardiniere
annaffiava l'aiuola. La fronte di Dario era liscia come la foglia del mughetto.
In me la vita era fresca come quell'acqua in quell'annaffiatoio.
Dico
ridendo, quasi ritrovando le affettazioni del mio riso venusto e del mio
motteggio dotto di allora: "O Dario, ma darei oggi anche il sole di
Austerliz, darei fin la cavalla dell'Aurora che in frode di luce t'elesse
all'annitribile regno, per un'ora sola della mia vita folle di balestruccio
senza nido, lassù, rasente la gronda dei tetti… Te ne ricordi?"
"Pure
il ricordo mi fa rabbrividire" egli dice, senza poter sorridere.
"Veramente,
lo stil fugato era un ramo del mio stile scolastico. Ti ricordi della mia fuga
di Pistoia, quando io alfiere ti consegnai la bandiera nel sacco a piantarti là
con tutta la tua voglia di seguirmi, e abbandonai la compagnia molto
accortamente e per andarmene a mirare il fregio robbiesco delle Sette opere di
misericordia nell'Ospedale del Ceppo? Ma non io mi scorderò mai della seconda
mia fuga sul Montalbano, che meglio della femminella Gloriuzza deve avere
appreso e ritenuto il mio nome tante volte gridato dai cercatori ansanti, tante
volte abbaiato dai segugi privi di fiuto. Innanzi a tutti voi correva serpeggiante la Calunnia
d'Apelle, fuggita anch'ella; però dalla tavola di Sandro con in bocca un'ottava
del Poliziano: Ma io ho vista una gentil
donzella Che va cogliendo fiori intorno al monte… Non era vero. Lo sai. La
mia libertà voleva possedere nel respiro del pieno petto la bellezza del
Valdarno intiera, fino ai monti di Volterra, fino all'Amiata, e per l'Arno fino
al mare al mare al mare! Voleva giungere alla torre di Sant'Allucio, alla ruina
di San Giusto, alla badia di San Baronto. Tanto mi cercaste, e non mi trovaste.
Io ritornai quando mi piacque, senza smarrirmi, e vi ritrovai. Te ne ricordi?
Sotto il croscio dei rimprocci non aprii bocca. A nessuna dimanda risposi mai.
Credo ch'i' avessi lasciato la mia voce di muda in una delle tre assidiole di
San Giusto. Non risposi neppure a te. M'avveniva di straniarmi anche da te, a
quando a quando, come in quell'ora di Aronta, in quella storia del Carrarese.
Ho nel rimpianto la tua cera attonita e appenata. Pareva che tu stentassi a
riconoscermi; e a me pareva che, nell'annottare, il giorno non si partisse dal
mio viso Te ne rammenti? Avevo perduto il mio berretto di alfiere nelle
frasche. Sentivo nell'ombra la mia fronte scoperta rilucere come il fosforo dei
mari. Ah, Dario, quanto era bella e nuova la mia anima, che ora la voluttà di
scrivere consuma!"
Angosciosamente
egli mi prende le mani; e, nello stringerle, mi fa sentire l'umidore delle
palme, il tremore dei polsi. Tutta quanta ricevo la sua miseria. Sul suo capo
accostato vedo i suoi capelli intristiti come una peluria di dubbio colore.
Nuda è l'angoscia ne' suoi occhi senza cigli; e de' suoi radi sopraccigli non
v'è quasi più traccia. Il suo mento, ch'era il suo segno più robusto, l'osso
della volontà incugnato nella passione, è divenuto una povera cosa vacillante
sotto il labbro inetto a dissimulare la più lieve fitta del dolore. Nella mia
pietà perplessa si rinnova la dimanda senza suono: "Amico, amico mio, chi
t'ha fatto tanto male?" Ma, per un'apprensione che sempre più dentro mi
cresce nell'oscurità non oso interrogare, ripugno a sollecitare la confidenza, a
strappare il segreto. L'opera interrotta, lasciata là sopra la lunga tavola
umbra massiccia più che un'asse di potente strettoio, m'è come un'attenenza
implacabile. Il calore del cervello, quasi l'odore del cervello, che per giorni
e per notti ha impregnato ogni cosa là tra le pareti severe, sembra di tratto
in tratto investirmi passando per la fuga delle stanza come un alito
d'incendio. Son nato a creare una vita sovrana, intento a crearla, per non lasciarmi
sopraffare dal contrasto spietato; ed ecco, nel colmo dello sforzo inaccesso,
posto m'è innanzi un tremendo specchio dalla larva di un'amicizia estinta.
L'impulso interiore della creazione mi conduce a ricolorire la larva, a
risuscitare l'amicizia, a comunicare la forza traendola all'abbondanza della lontana
età rivissuta. E, per l'inganno del mio cuore ambiguo, ho nel rivivere e
nell'illudere la fervidezza e l'impeto
del vivere o del creare. Sembro infatuarmi nei tripudii che gira in me lo
sveglio fanciullo non domato.
"Voglio
tornare in un solstizio sul Montalbano, ad inalzarvi una colonnetta militare
con incisa una parola breve: Sibi;
ché tutti que' miei passi su per l'erta mi son memorandi come se li avessi
allungati dentro di me. E fui punito con otto giorni di prigione! Sùbito dopo
il ritorno il carceriere si presentò, mi mostrò la sua chiave e mi accennò di
far fagotto. In quella sera di novità, conobbi anche un novo tono del
dispregio. Non salutai nessuno. Neppur noi due ci salutammo. Avevo potuto
celare nella giubba quello spuntoncello che m'era stato utile in più d'una
infrazione. Portavo anche meco celati il mio disegno e il mio gioco."
Ma
come non mi sento rimordere nell'abbandonarmi a rivivere con tanta puerilità un
incanto che non fu fatto se non da me solo per me solo?
La carcere da me frequentata
guardava i vasti tetti del Collegio gesuitico disposto in forma dei πι
greco maiuscolo. Per burbero favore del carceriere Cice, era riserbata alla mia
"singulare e nefaria crudelitade". Però alla grazia s'aggiungeva la
cautela contro il malo esempio; ché io soleva a dispetto intieramente istoriare
le pareti bianche, e le istoriette distinguere con iscrizioni in lingua
furbesca. Né l'imbianchino valeva a cancellarle, rifiorendo esse come le sante
verità conculcate o lasciandomi il campo a novissime vendette. "Muro
bianco, carta di pazzi" proverbiava Cice tentennando il suo capo di bue.
Quella
notte dormii profondo nella branda, con sul viso il buon cociore del sole di
Montalbano e con sul capezzale un rametto del cìtiso di Vergilio. Al mattino,
fui risvegliato dal primo sole che, toccando le mie palpebre, mi mostrò rosea la vita
attraverso il mio sangue innanzi ch'io
le aprissi. Ben a ragione il Bonaparte si rideva di quelli che ammiravano
Scipione Cesare Alessandro pel loro sonno tranquillo alla vigilia della
battaglia persuaso non dall'estremo coraggio ma dalla estrema stanchezza. Io
avevo dormito, in verità, il più placido de' miei sonni. E, senza indugiarmi,
balzai alla finestra ferrata sopra tetto e la scossi, compiacendomi
dell'esperto e coperto mio lavoro eseguito a più riprese. In fatti le sbarre
vacillavano scalzate ne' fori ov'erano infisse; ma i frammenti della calcina
rimesi intorno con arte avevano occultato gli incavi. Soltanto resistevano i
ferri di sotto, incastrati nel davanzaletto di pietra. Né mi valeva lo
spuntoncello.
Apparivo
rassegnato e mansueto quando il carceriere venne per condurmi all'aula delle
lezioni e poi ricondurmi alla carcere sopra tetto. A Dario, che mi sedeva
accanto nel banco, dissi in un orecchio: "Per l'ora della lezione
pomeridiana ho assoluto bisogno d'un cartoccio di polvere da schioppo o da
mina, d'un poco di carta forte e d'un gomitolo di spago. Incarica uno degli
esterni più sfacciati, magari Pippo Lippo. Armeggia come puoi; ma portami la
polvere." E, proprio quella mattina, avemmo per tema del componimento dal prete
rotondo una sentenza di Seneca: "Nil
maiores nostri liberos suos docebant quod discendum esset iacentibus. Non
insegnavano i nostri maggiori cosa veruna di quelle che si imparano a
sedere." Pensai che quella volta avrei sicuramente meritato dieci con lode, e in aspetto di agnello
mi riconsegnai al carceriere mormorando a capo chino: "Ecce agnus petulcus"
Ebbi
il cartoccio di polvere, e il resto. Seppi celare il tutto con infernali
accorgimenti. Rientrato in prigionia, quando udii stridere la chiave e il
chiavistello fui preso da una così fiera allegrezza che parvi consentire coi
Padri la cella del continuo abitata doventar dolce.
"I
petardi si fanno a più fogge e di forme diverse, a uso di rompere porte,
palizzate, barricate, saracinesche, grate
di ferro…" Avevo studiato con Dario gli Aforismi dell'arte bellica, di Raimondo Montecuccoli, con le
annotazioni di Ugo Foscolo, attratto da una certa concordanza napoleonica nel
prevedere e provvedere per tutto osare. Ma confesso di avere imparato la
fabbricazione dei petardi dal Fornaretto di Pescara, da "lu Furnarielle",
che ne faceva d'ogni misura e d'ogni tuono in gloria di santo Cetteo patrono
strepitosissimo. Nondimeno il disperato assalitore del novo Brandeburgo avrebbe
potuto essere contento di me.
Certo,
dopo aver terminato gli apparecchi, in quella seconda notte dormii men
profondo. Al primo albeggiare – "quando l'alba s'innamora" come usan
dire le massaie della mia terra d'Abruzzi – ero già in piedi, già pronto. Con
uno straordinario palpito, udii garrire le rondini nell'argentatura cilestra.
In fondo al mio cuore di uomo da fazione viveva dunque un cuor di rondine?
Nell'attendere che si placasse, considerai il mio pericolo nello scoppio e il
modo di scansarlo.
Con
terrore dei topo tettaiuoli, alfine lo scoppio avvenne; la presa della pietra
fu allentata; poche stratte bastarono a sconficcare le sbarre. Appoggiai la
graticola di ferro contro la porta chiusa; bevvi un gran bicchiere d'acqua, mi
misi in tasca una crosta di pane; e libero balzai sul tetto. Senza indugiarmi,
di tegolo in tegolo, d'embrice in embrice, seguendo il comignolo, col piede
lesto e cauto d'un ginnasta peritissimo, mi allontanai dal luogo del
forzamento.
Mi
fermai dietro una rocca di camino senza fumo, ottima per stare alle vedette.
Allora le risa rattenute dall'ansia della fuga e dalla difficoltà
dell'equilibrio mi si ruppero con un così schietto scroscio che mi parve tutto
l'argento del mattino tintinnire su la mia allegrezza. E due tre quatto rondini
mi passarono rasente il capo, quasi forandomi col grido aguzzo. Mi premetti i
fianchi a contenere l'eccesso dell'ilarità, che mi torceva a doglia; ma,
imaginando lo stupore e il clamore di Cice nello spingere l'uscio del carcere e
nell'abbattere la graticola contro l'ammattonato, mi riprendeva il sussulto e
mi si riempivano gli occhi di lacrime razzanti che m'impedivan di vedere.
Tornarono le rondini a rasentarmi gridando, con un accento che mi parve
d'intendere. Mi asciugai le ciglia: intravidi da una parte le case e le strade
cittadine, dall'altra parte – di là dal muro che chiude il prato della
ricreazione – la campagna verde. Ripensai la vastità del Montalbano; e non
cercai più oltre in val di Bisenzio, ma mi ridussi per proposito al mio dominio
embriciato. Soltanto la cima del campanile a liste, coronato da Nicolò del
Mercia, mi commosse perché mi indicava dove si allungasse il fianco del Duomo e
dove sporgesse il pergamo. "Era là, pieno di silenzio, quasi un nido
abbandonato dagli usignuoli. Era là come un ricetto di musica e di amore, per
certo; ma sentivamo che poteva essere anche un ricetto di sapore, da
appressarvi le labbra come all'orlo d'un vaso di miele ispessito." Per
alcuni attimi ripensai la lontana giornata pratese di gran vento, ripensai
l'ora del donato Memoriale, il
pallore e il rossore di Dario, l'esaltazione eroica che aveva sostenuto la
nostra amicizia e che già era per attenuarsi. Respinsi da me quell'importuno
assalto della malinconia; e mi piacque d'esser solo e d'intraprendere così la
mia giornata imprevedibile.
Passavano
e ripassavano a saetta sul mio capo le rondini; e, crescendo di numero,
incominciavano a stormeggiare in torno alla rocca, come raccolte da un richiamo
delle prime, con uno stridìo d'allarme. Per tutta la distesa dei tetti non mi
si mostrava segno d'altro allarme. Scorgevo la vuota occhiaia della carcere; e
pensavo che, se lo schianto del mortaretto aveva assordato me accenditore, non
aveva certo risvegliato i dormienti, e forse ai desti era parso come il lontano
colpo di fucile tirato da un cacciatore mattiniero.
Ma
le rondini avevan l'aria di volermi fugare come incomodo e sospetto; e avevo
anche veduto guizzare e celarsi qualche lucertola grigia che mi ricordava le
tarantole del mio torrazzo pescarese. Cauto e lieve girai intorno alla rocca
spiando. E, nella Salutazione angelica, che forse veniva dalla chiesa di San
Francesco o da Santa Maria delle Carceri, mi apparì un miracolo tanto gentile
che dal mio nome d'arcangelo sorse l'Ave senza ch'io aprissi le labbra.
Pendeva
dalla rocca un nido non somigliante ad alcuno di quelli che tante volte avevo
osservato nelle cornici della mia casa paterna e sotto le arcate della scuderia
e della cantina, costrutti con la terra cretosa delle mie rive natali. Quelli,
in forma di mezza sfera, avevano un'angustissima apertura a cerchio, che appena
bastava all'entrata della covatrice mentre il maschio rimaneva aggrappato
all'orlo. Ma il nido miracoloso, un po' più grande e un poco più schiacciato,
d'un terzo di sfera, aveva una lunga fenditura che sùbito mi diede la francescana imagine d'una bocca rotonda
che nel beatamente ridere si fosse fenduta sino a mezzo le gote e rimasta fosse
così atteggiata dalla beatitudine perenne. Ecco che per la prima volta miravo
il riso d'un nido terreno, e qualcosa d'ancor più incantevole del riso
d'argilla! Quattro testine nerazzurre sporgevano in fila dalla fenditura,
quattro teneri becchi in fila s'aprivano all'attesa del cibo mattutino, quattro
rondinette stavano affacciate come a un veroncello. Stupito e rapito da quel
felice cambiamento dell'originaria architettura pènsile, umiliandomi su i
tegoli disteso, quasi accovacciandomi e comprimendomi per non occupar l'aria
delle creature tutt'ali che si cibano volando si dissetano volando si bagnano
volando e perfin nutrono volando i lor nati, io sùbito riconobbi i benefizii
ottenuti dall'arte del divino architetto innovatore. I piccoli non rimanevan
più chiusi nel covàcciolo, ma si disponevano in ordine lungh'essa la fenditura
per ricever l'imbeccata con agio, per gioire della luce, per respirare il
cielo, per godere "la conversazion dell'aria" secondo la grazia
toscana del favolatore greco che a scuola m'avea fatto venire in uggia Fedro.
Inoltre i genitori non dovevano più entrar nel nido alternamente per nutrire i
nidaci, né studiare qual d'essi bisognasse di cibo, né angustiarli nell'ufficio
disagevole. Aggrappandosi si sotto all'adito lungo, potevano imbeccarli l'un
dopo l'altro senza dubitare e senza errare; e più facilmente potevan anche,
nell'ora propizia, sceglier via via i più arditi e trarli all'aria per
addestrarli nel "dilettevole volamento" del grecotosco favolatore.
"Se credere coelo modulava la
campana di Santa Maria delle Carceri, per i nidaci, e per me fatto uccel di
gronda. Pennis et corde assurgere in
auras.)
Per
convertire in subitanea vita, in volo e in grido, un ricordo d'infanzia
attonita nel mirare il genio socievole delle ali falcate e delle code forcute,
ebbi un pensiero misto di crudeltà e di dolcezza. Mi levai da giacere, tolsi
una lista dal mio fazzoletto e delicatamente ne copersi i quattro capini
nerazzurri, serrai tutta l'apertura del nido, cercai di fermare ai lati le
cocche perché il vento e l'agitazione della nidiata non sollevasse lo strano
bavaglio. La coppia, senza un'attimo di esitazione, cominciò a svolazzare rasentando
la casa pendula, con gran garrissa di furore e di dolore; poi s'aggrappò alla
creta tenace, più e più volte, cercando di strappare la benda perfida. Le altre
rondini, già raccolte da un men fiero
allarme, turbinavano e garrivano intorno alla rocca dando segni compagnevoli di
consenso e di soccorso. La coppia infelice si levò e spaziò a volo fulmineo con
strida di richiamo. Alcune compagne seguirono l'esempio a richiamar tutta la
gente falcata e forcuta. Da ogni parte, da tutte le gronde, di Prato, da tutti i
fumaioli, da tutti i campanili, e dagli archi del ponte di Bisenzio, e dalle
ripe murate, e da' sei bastioni e dalle cinque porte: dalla Fiorentina, dalla
Pistoiese, dal Mercatale, dal Serraglio, da Santa Trìnità: e forse da un gruppo
venusto di nidi color di frumento che sempre vedo nel mio sogno adornare con
arte aerea la faccia del capitello angolare vedova di bronzo: da ogni parte
accorsero, più o men folti, più o men radi, gli stormi. Eran mille, eran
dumila, eran tremila, erano una miriade i sodali: fraterno more sodales o mio peligno Ovidio del mio medesimo sangue
ansioso si metamorfosi! M'ero rimesso a giacere su' tegoli, questa volta
supino; e miravo sopra di me tutto il mattino vibrante di ali e di gridi, di
bontà e di coraggio, d'amore e di collera. A quando a quando il numero prendeva
la forma di un'albero, assottigliandosi fin su la rocca e dilatandosi più in
alto a chioma. E pensavo essere la radice umana dell'innumerevole albero alato;
pensavo che sorgesse tal figura dalla maraviglia del mio maravigliato cuore;
pensavo che al battito celere de' miei polsi e delle mie tempie corrispondesse
la trepidazione incessante del volo unanime.
Se credere coelo cantava largo il
bronzo di Santa Maria delle Carceri: pennis
et corde assurgere in auras. E sul canto disteso i gridi acuti del nero e
bianco tumulto non erano le faville sonore del bronzo sacro?
Il
mio orecchio di fanciullo, già attento alla esopea "conversazion
dell'aria" negli arrivi di primavera e nelle partenze d'autunno, si
rinnovellava in me con più d'acume abile e più di perizia ritmica a riconoscere
la diversità degli accenti espressivi nell'agitato coro, a comprendere una così ricca brevità di linguaggio,
l'indignazione, la compassione, il consiglio, la disputa, la proposta, la risposta,
l'accordo, l'ordinanza eran significati
con sì chiara prontezza che talune note mi parevano restare impresse
quasi con caratteri mobili su la rigata musicale del mio cervello. Divinavo che
un atto straordinario era per seguire: e l'attesa e l'ansia m'erano palpitanti
alle tempie come le due alette del pètaso. Più mi sforzai di comprimermi fra
tegoli ed embrici, meglio m'adeguai alla spina del tetto; e più e più, per
riflesso dell'alto e per aumento dell'anima, gli occhi mi s'ingrandivano e mi s'inazzurravano.
Giuro,
per le vendette di Progne, che questa testimonianza è verace. Vidi una parte
degli stormi assottigliarsi disponendosi in una lunga fila serrata che
s'abbassò per volar rasente alla rocca donde pendeva il nido offeso. Ciascuna
rondine passando beccava la benda, con l'esattezza veloce d'una giostra
all'anello, d'un torneamento al brocchiero. I colpi si susseguivano d'attimo in
attimo. Dopo le prime prove, mi parvero meglio diretti alle cocche della
pezzuola; che l'una dopo l'altra cedettero. E allora la rimanente fila sfiorò
con l'ala la fascia leggera, la sollevò e l'involò col vento dell'ala, liberò
l'apertura del nido, discoprì le quattro teste immelensite delle rondinette. E
una saettante garrissa di giubilo e un innumerevole bagliore di petti bianchi
inebriarono il mattino serafico.
Or
che avrebbe potuto mai predicare il fratello del Re de' versi alle sue
sirocchie rondini? Non avrebbe potuto se non laudarle. Né, s'egli avesse fatto
il segno della croce per il commiato come 'l fece tra Armano e Bevagno, si
sarebber partite le liberatrici in quattro schiere: l'una verso l'oriente, l'altra
verso l'occidente, la terza verso il meriggio, la quarta verso l'aquilone. I
miei stormi s'indugiavano a turbinare a felicitare a conversare a comentare,
ricomponendo e discomponendo diradando e affoltando sul mio cuore il celeste
albero volante e parlante. La campana di Santa Maria delle Carceri sonava a
distesa e quella dello Spirito Santo, e quella di San Francesco, e quella del
Duomo: Se credere coelo – pennis et corde
assurgere in auras.
Balzai
in piedi; un poco vacillai come cotticcio. La famiglia era aggrappata al nido,
presso l'orlo dell'apertura lunga ove i quattro becchi tozzi s'erano aperti
all'imbeccata del conforto.
Mi
ribalenò, dinanzi alla novità dell'architetto pratichissimo e dinanzi alla
mutazione inaudita dell'istinto millenne, mi ribalenò l'imagine d'una bocca
rotonda che nel beatamente ridere si fosse fenduta fino a mezzo le gote e rimasta
fosse così atteggiata dalla beatitudine durevole. La mia maraviglia e la mia
fede parvero aggiungere un fioretto ai fioretti dell'Umbria, della Verna, della
Soldanìa. Tutti i nidi nuovi delle rondini pellegrine, su tute le terre de' lor
pellegrinaggi, ridevano di quel medesimo riso. E tal providenza d'argilla
mutava a miracolo il costume immutabile. A laude di Cristo. Amen.
Non
avevo udito i rulli del tamburo disciplinare, intanto. Non avevo più alcuna
misura del tempo; né scorgevo alcun
indizio di scoprimento e d'inseguimento.
Ma sentivo omai sotto i miei piedi
ricominciare il tramenìo de' cancheri, de' pedagoghi, de' pedanti, de'
torzoni. Con una ripugnanza più tetra
della stomacaggine e dello schifo, mi contraevo e storcevo come per
dissepararmi straniarmi involarmi
smemorarmi, quasi che le creature dell'aria avessero confitto a castigo
nella mia impotenza disperata il lor privilegio irridendomi. Per non so che tempo intimo come l'infinito
della favola nella credulità di chi ascolta, tanto ero io stato aeroso che non
più avevo distinto il mio pensiero dal mio respiro. Ecco, e mi pareva assai men
triste di me nella memoria l'otre che con una pietà irragionevole la mia
infanzia vedeva afflosciarsi quando l'uomo della Maiella toglieva la bocca
dalla canna del soffio e le dita dalle altre canne bucherate, dinanzi al
Presepe esanime. Di molto lontano, a
lembi, mi tornavano i ricordi musicali
del focolare e della strada. E nella musica del mio paese e in tutta la musica
del mondo io soffriva come non mai. E la volontà di fuggire era come la volontà
di vanire.
Oggi,
mentre scrivo per medicare il dolore e il terrore che il compagno dagli occhi
senza cigli ha portato in questa fucina
della mia poesia, penso che l'ora delle rondini mi sia memoranda perché in
quell'ora più e più si strinse il nodo lirico annodato dentro di me: il nodo
che tuttora m'affanno a disciogliere, che mi bisogna pur disciogliere intieramente per essere il grande poeta
certo.
Inanzi
quell'ora, non avevo io sentito dentro di me il viluppo incognito, sin dal
limitare della puerizia, sin da certi avidi giorni dell'infanzia consunta?
Il
mio zio diletto, quello medesimo nomato Demetrio nel Trionfo della Morte, soleva al tramonto condurmi verso la foce
della Pescara e poi a destra verso il lido dell'Adriatico, quando ad
accelerarmi il cuore mi bastava l'essere attento alle ombre dei pini maritimi
fratelli degli olivi di poggio nell'espressivo distorcersi, e attento
all'attenuarsi delle ombre nell'affievolirsi del chiarore, e attento al
cancellarsi delle ombre nella sabbia che pareva suggerle come suggeva l'orlo
lieve dell'onda.
Mi
si accelerava il cuore, e mi si gonfiava di non segnati ritmi. E il mio
parente, nell'ammaestrarmi, si agguagliava alla mia infanzia, con una triste
grazia ove l'acume non era dissimile agli aghi del pino galleggianti nella
spuma della maretta. M'insegnava il nome della prima stella sgorgante.
M'insegnava il nome d'una conchiglia che mi pareva ascoltasse il mare come
l'orecchia d'un fanciullo a me simigliante e a me consanguineo ma nato prima di
me. M'insegnava a riconoscere la fase lunare dalla curvatura della falce che il
pugno del mietitore celeste volgeva e
rivolgeva per tagliare il vento azzurrato o la lanugine della nube pubere.
Sapeva dare per me una subitanea novità ai più antichi detti della nostra gente
pensosa, ai più usuali adagi del nostro popolo virtuoso. Talvolta,
all'improvviso, mi toglievo dal suo
fianco, l'oltrepassavo, correvo un tratto avanti, senza volgermi indietro, come
divenuto oscuramente indocile e ingrato.
Così
più tardi, molto più tardi, essendo pieno di musiche, mi avvenne di rivolgermi
contro le mie interne corde, a simiglianza di quelle figure intagliate nel
luogo del riccio in sommo del manico di certi antichi strumenti, figure
angeliche o demoniache rivolte verso il sonatore di viola o di violino, quasi
alenanti volti del legno sonoro, della misteriosamente congegnata anima. E mi
sovviene del brivido magico c'ebbi in una sacrestia della terra sulmontina, al
colmo dell'adolescenza, quando per la prima volta un parroco rustico mi pose
tra le mani una viola da braccio cavata fuori da una specie di custodia
ermetica; e la figura intagliata nel manico, una specie di giovine Belzebù ebro
di ritmi, così mi fu viva che non soltanto mi creò le corde assenti ma al
numero della regola aggiunse altre corde che l'ardire delle mie imaginazioni
conobbe e tentò sùbito, non senza inaudite consonanze e dissonanze omai
familiari alla mia arte non impressa.
Ecco
l'opera interrotta dall'evento sinistro mentre sopra la pagina il vetro si
temperava a poco a poco, quasi colorato d'un colore mattutino dal mio
spirito come da un'alba più profonda di
quella vera. Non ho cuore di metter le dita fra le carte, di svolgerle, di
riconoscerle. Verso il fascio dei fogli, sensibile come i legni trascelti dal
liutaio, inclino questo orecchio che certo aiutò Saffo ad accordare la sua
cetra, e Riccardo Wagner a scatenare e a contenere le procelle della sua
orchestra non classicamente domata come dal solingo Orfeo il bestiame
sanguinario.
Vorrei
che domani, nel nuovo giorno, la musica qui chiusa e segreta mi sembrasse avere
tuttora qualche analogia con la gemmazione dell'albero nell'imminenza della
primavera. Mi sembrò ieri che la musica urgesse in ogni sillaba, come in ogni
gemma il turbamento della radice profonda. Mi sembrò che la sinfonia
primaverile fosse presentita e annunciata.
La
linea della modulazione è nelle labbra del sonatore appassionato, prima ch'egli
imbocchi l'istrumento. Ho nella memoria non so che angelo di cantoria respirante l'inspirazione nella grazia
dell'atteggiata bocca del misurato fiato, mentre le dita già commosse avvivano
i fòri del flauto prima di trascorrerli Esprimo io l'inesprimibile? Spesso la
mia penna latina, il fusto della mia penna scorrevole, è il càlamo: levis calamus.
M'avviene,
in alcuna sosta, poggiarne l'estremità al labbro, come il dito del silenzio:
non legno insensibile, ma sì capace di afflato, obbediente all'alito umano,
obbediente al soffio del dio meditabondo.
O
mia penna, aggiustata in una delle sette canne della syrinx di Pan disciolta
dal lino e dalla cera, dislegata e sparsa! E credo averle provate tutt'e sette,
nella mia arte notturna di scrivere, con tutte le generazioni di suoni
originate dalle sette e sette e sette.
Come
dunque lassù, lungo il comignolo dell'imbiancato convitto gesuitico, il sopruso
alla mia natura poteva non apparirmi irreparabile? Disperavo di preservare dai
contagi dalle infezioni dalle deformazioni da ogni sorta di falsità e di
meschinità quel che in me era degno di rimanere intatto e immune, fuor della
regola e fuor della legge. Vedevo sotto di me, come in uno spaccato, i corridoi
le scale gli stanzoni da sgobbo e da chiasso i dormentorii i refettorii le aule
le bigonce le panche, tutto quel gran seminario laicale istituito per
isterilire e inaridire le più fervide semenze, quel vivaio piantato a immagine
del Girone secondo per ridurre a stecchi con tosco i più vividi arbusti umani,
quel convento senza celle avverso a ogni solitudine e a ogni ritrosìa, quel
conservatorio di ben tollerate cattivèrie e di mal esaminate asinità, quella
ufiziatura cotidiana della più obbrobriosa fra le soggezioni, della più disonorante fra le abiezioni: che è
l'obbedienza per timore di castigo, l'obbedienza per desiderio di premio:
l'obbedienza costretta. Poi, discendendo
verso la gronda in facciata, vedevo giungere strasciconi per la via di
fronte e per la piazza la pretarìa degli insegnanti; distinguevo il gesto
abituale della mano alzata a contener lo sbadiglio ch'era per convertirsi in
biascicatura d'insegnamento, in noia di parolone e di parolozze rigonfiate per
anni ed anni senza divario; riavevo nell'orecchio il continuo stonìo di ciascuna voce, gli impacci della pronuncia,
le cadenze stucchevoli, gli intercalari sazievoli, le lungaggini sonnifere, i
vecchiumi e i tritumi topici rugumati senza fine. La dottrina imparaticcia era
nel loro cranio pronta alla presa fra indice e pollice come il tabacco da naso
nella tabacchiera d'osso o di bosso. La serie de' loro giudizii e pregiudizii
non superava in pregio la fila dei bottoni a globetto ordinata fra il collarino
e l'orlo della gonnella talare; né l'ampiezza del più ampio fra i lor pensieri
avanzava quella della chierica sul cocuzzolo grattato. "E consegnerò
dunque domattina al mio grassetto prete de' Bocchineri il mio componimentuccio
sul tema insolito?" pensavo, in un ritorno di risa che non eran più quelle
dell'alba. Nil maiores nostri liberos suos
docebant quod discendum esset iacentibus.
Era
l'ora della scuola, l'ora delle prime
lezioni. La pretarìa arcigna entrava nell'atrio, passava sotto il segno della
Cicogna, si affrettava a occupare le bigonce, fra il crocifisso e la mappa, fra
la tabella delle Radici quadrate e la lavagna "pietra del paragone de' cervelli".
In
quel punto udii Cice bociare di sopra i tetti. Mi volsi, e riconobbi il capo di
bue nel vano della mia finestra senza graticola; vidi fuor del vano le braccia
furiosamente dimenate verso me tetragono; attesi che la furia balzasse dal
parapetto e cercasse di raggiungermi. Ma periglioso era il balzo, e non men
disagevole il tramite; cosicché ridendo mi tenni sicuro che da quella parte
alle vociferazioni e alle gesticolazioni goffe non era per seguire l'affronto.
Pensai che, discordato dalla mia incuranza, il Contraggènio di Perétola non
potesse altro fare se non correre a denunziarmi
se non sostenere le prime smanie del finto Matteo Buttafuoco, se non
ricevere ordini bislacchi per la cattura, se non traccheggiare confondersi
indugiarsi, infermiere e carceriere sempre oscillante fra il serviziale e le
manette. La strategia della monelleria mi occupò scacciando l'angoscia; mi
rischiarò la fronte, mi acuì la vista, mi sveltì le gambe. Avevo tutto il tempo
di confermare il mio disegno, di studiare i luoghi, di scegliere il punto strategico; e perfin di occhieggiare
le belle nuvole giovinette che salivano da dietro le spalle di Monteferrato, a
borea ponente. Come poteva mai aver ragione della mia mobilissima audacia quel
balogio bischerume seditore, quella genìa sedentaria alle lacche adese alla ciambella,
che di Benedetto Varchi e degli altri Citati non avea comentato in carne se non
un passo a proposito? "La paura è una trepidazione, e vogliamo dire
spavento della mente, per cagione d'alcun pericolo o presente o futuro. La
paura è un'oppenione…" L'ilarità mi ritornava a squassi, a buffi; mentre
vedevo scomparire dal vano della finestra il capo di bue e mi fingevo
l'infiochito muglio della denunzia e la prima "interghiezione
d'indegnazione" de' maggioringhi, il borbottìo a poco a poco ingrossato
dall'enfasi e mutato in subbuglio, la notizia propagata per gli anditi e per le
aule di panca in panca, la sussurrante allegria de' cancheri, i loro occhi
distolti dal libro e tutti levati al soffitto con lo sforzo lìnceo di
trapassare e di giungere a scoprire l'eroe discolo sopra i tetti…
Tenevo
sotto i calcagni la scolaresca occhiuta, la greggia che avea cessato di
belare declinazioni coniugazioni aoristi
attivi passivi medii, per non rovesciar panche e bigonce come a un segnale di
rivolta ma per riporre la penna dietro l'orecchia ceruminosa e stropicciarsi le
mani sporche d'inchiostro. M'infastidiva quella specie di gloriuzza funambola
che, venendo di giù, pareva fumigare tra gli interstizii degli embrici. Ero una
sommità solitaria inarrivabile. Ero
pacato e intento, senza ombra di millanteria verso altrui né verso me,
dissimulando a me medesimo l'orrore di una necessità non evitabile se avessi
dovuto compiere il mio proposito dichiarato, eseguire la mia deliberata
minaccia.
L'esplorazione
de' luoghi mi accertava che il corpulento e lento birro non aveva se non un
varco per escir sopra il tetto a tentare
di riammansarmi o di riacchiapparmi: un abbaino riserbato al servigio
dei racconciatori di tegoli, al passaggio de' gatti tettaiuoli.
Or
la latinàggine del mio prete in bigoncia non si sognava, di certo, che per
accrescitiva diligenza io avessi desunto da quel suo medesimo Seneca un tempo
ben più temerario – Estrema tegola stat
– e fossi per isvolgerlo co' piedi: pedibus
firmis: senza offesa della metrica. Il mio punto strategico era infatti
l'orlo del precipizio, l'estremità della gronda. Avevo esplorato la resistenza
terminale, provato in me la persistenza di quell'immunità dalla vertigine che
fece così candidamente rischiosa la mia fanciullezza apparentata al gallo del
mio campanile e alla testadimoro del mio trabàccolo. Avevo osservato in quel
tratto di dòccia un po' di poltiglio, un po' di terriccio, qualche filo d'erba,
qualche fogliuzza macera, e uno scheletrino d'uccello.
Ma
quanto eran belle e cortesi le nuvole che da Monteferrato crescendo e splendendo
già raggiungevano il colmo del cielo! Apparivano come opere d'arte foggiate
dalla improvvisa fecondità diversità celerità d'un artista giovenile che avesse studiato nelle offìcine dei
Ciclopi, nelle più antiche officine pelasgiche,
sotto i maestri fonditori di Samo, sotto i maestri saldatori e congegnatori di
Chio, nelle scuole doriche del Peloponneso, nella scuola di Egina, e anche
nella scuola d'Atene, e anche in quella di Pergamo, e anche presso i coroplasti
di Tanagra e di Mileto e di Mirina e di Tarso, ma ricevuto avesse dall'Etereo il poter di scuotere da sé tanti secoli di studio e il
dono di serbare per sempre la sua giovinezza d'alunno. Ben io mi ricordavo del
suo nome sconosciuto, non compreso nel Pinace pelasgo, non nella Rosa italiana.
Tra Léuco e Apeliote, tra Ornitio e Argeste, egli si chiamava Nefeloplàste Νεϕλοπλαστε. Gli altri
Vènti effigiati, nel soffio mostran le gote così gonfie che muovono a riso. Ma
egli mostrava la faccia d'un bel pastore cerulo attenuata dall'arte del canto
come quella dei gareggianti siracusani; e le sue palpebre erano immote e le sue
labbra eran composte mentre le sue mani infaticabili creavano la mai veduta
bellezza di alcuno de' suoi cieli nuvolosi.
"Che
la fa qui, signorino mio bello?" Da una nuvola divinamente adagiata come
il Cefiso nel frontone occidentale del Partenone mi volsi alla melliflua voce
del birro apparito nell'apertura dell'aino; e risposi, inspirato da
Nefeloplàste: "Κουβαντιαω".
Ero a men di due passi dalla gronda.
Egli
tentennò il capo di bue bonariamente, con un suo sorriso tra il trasecolato e
l'incantato. E anche una volta, come in tanti altri casi, riconobbi ch'io gli
facevo una sorta dei malia forse non
lontana da quella di certe serpi leggiadre che impastoiano la bestia bovina
nella stalla sordida.
"Ma
che si gira! Fa certi estri! Qui da più che cent'anni o dugento una diavoleria
simile non s'era mai vista; neppur per ombra. Il general Cicognini con tutta la
Compagnia di Gesù si dev'esser rivoltato sottosopra. La dica, sor Gabriello:
non s'è noiato ancòra? Basta. La venga via col suo Cice. Tutto s'accomoda. Fra
poco rulla il tamburo per il refettorio."
Palesemente,
m'era fatto non il ponte d'oro ma il ponte di zucchero candi, pur che
rientrassi "nel bell'ovile ov'io dormii agnello"!
Quella
volta più che altre mai mi riconobbi balestra a petto, eccellentemente
costrutta e caricata a perfettissimi quadrelli, tanto lo scatto della volontà
fu pronto. Come il Contraggenio si curvava per porre il piede su la soglia di
pietra continua alla prima fila di tegoli, io con ferma cautela posi tutt'e due
i piedi sul tegolo estremo: extrema
tegula stesi. Vidi il buon birro applicator d'empiastri farsi smorto e
coprirsi gli occhi con le palme in un moto di orrore. "Per carità, per
carità,si levi di lì! La supplico, mi metto ginocchioni."
"O
Cice gridai senza muovermi dal punto "O Cice, copriti pure gli occhi ma
stùrati gli orecchi. Ascolta. Se tu osi avvicinarti a me, se tu osi porre la
mano su me, io mo getto giù di stianto; e non so ancòra se mi piaccia
aggrapparmi a te e trascinarti meco. M'intendi? Rientra nell'abbaino, e ritorna
a chi ti manda, sùbito. Per la finestra senza graticola io rientrerò nella mia
carcere, solo, non costretto, nell'ora del segnale per la Cappella e per la
Cena o del Silenzio e del Riposo. Fino a quell'ora nessuno si ardisca di venire
a noiarmi. L'accoglierò come t'ho accolto; lo tratterò come ti tratto. Hai
inteso? Sparisci sùbito. Di qui, sempre di qui, ritto io dico: Uno, due,
tre!"
Il
capo di bue, tutto bianciardo come se avesse bollito a stroscio nel paiuolo,
senza fiatare scomparve per l'abbaino, si dileguò, andò a fiutare l'aceto de'
sette ladri. Io mi mossi, m'appressai all'usciuolo, trovai la chiave nella
toppa di dentro, la tolsi, serrai di fuori; e me la tennni, mastia com'era, per
fare il paio con la comunella del Carmagnino. Mancò la cerimonia
dell'inchinevole offerta in sul piatto d'ariento, ma quella era ben la chiave
dell'espugnata signoria.
"Optime" mi dissi con parca lode.
"Come premio, ti concederai di andare a rivedere i quattro rondinini, là, nel
riso d'argilla, nel nido miracoloso del tuo fioretto non tramandato."
Confesso che allo sforzo della tesa corda succedeva dentro di me il sollievo
dell'allentamento; e, dopo la disfida alla morte ignuda di creazione, una
selvaggia avidità di vivere, una quasi rabida bramosia d'offrire alla mia fame
un canestro di frutti appena colto, una brocca d'acqua diaccia alla mia sete.
Affogavo di sete, morivo di sete. Pensavo alla voluttà delle rondini che entrano
con tutto il petto nell'acqua inseguendo gli insetti acquàtili e s'abbeverano in vol radente imitando i
sassi scagliati a rimbalzello.
Le
quattro testine nerazzurre sporgevano in fila tuttavia dalla fenditura,
immobili. La coppia volando in caccia non si dilungava dalla rocca del camino
sicura. Appressandomi, sentii novamente sul mio capo stridere il vetro arido
dell'aria rigato dal diamante fuggitivo. Non so perché, lo stridore e l'ombra
guizzante parvero accrescere il bruciore della mia gola, esasperare il mio
supplizio; ma non toccarono l'anima, non rinnovarono l'incanto della prima ora,
non mi ridonarono la fresca trasparenza primiera. Ero come deluso. Il nido non
m'arrideva più. Non più la maraviglia del mio maravigliato cuore ingrandiva
il portento. Non più i miei pensieri si disperdevan nel gioco
ribalenando a gara con i bagliori dei candidi petti. Non sapevo più leggere
nelle apparenze; e avevo un inquieto bisogno di leggere dentro di me, nel più
profondo di me. Qualcosa di grave m'era
avvenuto nel più profondo, qualcosa che mi valeva come la rivelazione della mia
natura vera, della mia vera sorte. Ritornai a capo chino verso il luogo della
mia prova, laggiù, tra l'usciuolo e la gronda. E anche quel luogo non ebbe più
il medesimo aspetto. L'ansia di vivere continuo nella novità dello spirito e
dell'evento era dunque il mio divieto di tregua e di pace, il mio divieto di sosta
e d'indugio? In quel punto cominciava a determinarsi quella sentenza che doveva
rimaner sospesa su la mia prima giovinezza e su la seconda, e certo più oltre,
e certo insino al trapasso: la spada a due tagli,il dilemma affilato: "O
rinnovarsi o morire." Ma l senso della novità è tanto più breve quanto più
lo spirito è vorace. La novità di vita richiede la rinnovazione rischiosa non
d'ogni dì ma d'ogni ora, ma d'ogni attimo. Vivere per creare è un precetto men
grave dell'altro, inverso: creare per vivere. Nell'ordine dell'azione
interiore, nell'ordine dell'alta illusione che si genera tra i sensi e gli
esperimenti, l'anima dedita alla dea dalla fronte velata e dalla tunica lunga
non deve mantener vivo il fuoco sacro né conservare intatto il suo vòto, ma
deve di continuo riaccendere il fuoco che si spegne, di continuo riprodurre il
pregio del dono che si dona: voti munus,
muneris votum. Il possesso ideale del mondo non comporta il rimpianto
dell'epitalamio saffico, non la malinconia dell'intervallo, non il dubbio nella
potenza inesausta del "gran sentire e fiammeggiare" – secondo la
parola di quell'asceta italiano che scambiava la Volontà all'Amore, l'Amore
alla Volontà.
Laggiù,
in quell'estrema tegola che per gioco avevo chiamata "il mio punto
strategico", ora vedevo una scolpita figura della mia volontà. Il mio atto
forsennato e lucido si disegnava già fuori di me; non più m'apparteneva,
compiuto; discordava stranamente con l'impulso che l'aveva mosso. Non v'era una
causa eroica che lo sostenesse. Il motivo che l'aveva spinto non valeva più
d'un capriccio puerile. Ma valeva altissimamente in me la sincerità della mia
risoluzione la certezza d'aver messo a repentaglio la vita su l'orlo vero del
precipizio, per nulla, per ben poco, per dispregio alla trivialità altrui, per
vampo del mio orgoglio. Tutto il resto impallidiva e spariva, come la faccia
del birro. Rimaneva la volontà intrepida, là esternata come una figura,
espressa come un esempio. Rimaneva in me la consapevolezza del possedere una
volontà di tal tempra, e l'aspirazione generosa alla causa bella, e il crudo
amore della solitudine. Che segno m'era omai quella brutta chiave non atta ad
aprire se non un piccol uscio servile? La presi; e, sollevando un tegolo, la
seppellii. Avevo, da quell'ora, un'altra chiave, invisibile ma irresistibile,
per tutte le porte incognite: custudite
e incustodite.
Ero
incapace di meditar, incapace di rischiarare e di noverare le tante altre forze
oscure che mi travagliavano. Non so da quale lontananza, non so da quale
origine mi venisse un atteggiamento che solevo prendere come per contenere e
costringere la pienezza del tumulto, nelle ore estrose, Risalii verso il
colmigno; e mi sedetti, circondando con
le braccia le ginocchia sollevate fino al mento, incurvando la schiena,
piegando la nuca, quasi del mio capo facendo coperchio al serrame delle mie
ossa. Era bello nella levità del digiuno sentir pullulare la vita, come in una
di quelle urne coricate che figurano le
sorgenti perenni. Era bello non derivarla non deviarla non condurla non
disperderla ma saperla nascosta e intiera, misteriosa e intiera. Non più avevo
cura delle rondini, delle nuvole, dei rumori sottostanti, delle voci lontane,
di quel che accadeva, di quel che poteva accadere. E a poco a poco l'arte del sogno
cominciò a insinuarsi nel folto delle forme senza nome. I grandi spazii che
avevo dentro di me cominciarono a distendersi intorno a me, davanti a me, non
segnati da alcuna via, da alcuna mèta. Chiusi gli occhi; smarrii la certezza
dei luoghi; scordai la carcere, scordai la fuga. Solo rimase in me il senso
dello spaio, il senso indefinito dell'orizzonte del cerchio massimo,
dell'ultimo termine. Non avevo da scegliere un cammino, non un cammino da
seguire, non avevo davanti a me il bivio
come emblema solenne, dove un giudicatore canuto fosse "a far
l'alta separazione degli eletti da' reprobi". Ma nelle ginocchia sollevate
e abbracciate, ma in tutto il corpo rannicchiato e ristretto, dai piedi congiunti
al collo curvo, sentii l'impulso di sorgere e di camminare. Allora il mio nome
fu pronunziato, fu gridato. Il piccolo uscio servile fu battuto. Sùbito mi
levai; e in quella prima riscossa non chiara un movimento d'ira prevalse.
"Chi chiama?" Era Dario.
"Che
vuoi?"
"Vederti.
Aprimi."
"Non
posso più aprire."
"Perché?"
"Non
voglio."
"Aprimi.
Che follia t'ha preso?"
"Lasciami
con questa follia. Vattene."
"Ti
porto qualcosa da mangiare."
"Non
ho fame."
"Ti
porto da bere."
"Non
ho sete."
"Sono
mandato per parlarti."
"Un
parlamentario basta. L'ho respinto."
"Ma
sono io, Dario."
"Addio,
Dario. Vattene. Me ne vado."
"Ascoltami!
Ascoltami!"
"Mi
conosci. Non parlo due volte."
Rimontai
sul colmigno, allontanandomi. Un'avversione insuperabile mi separava anche dal
compagno diletto, mi disamorava dall'amicizia, m'induceva a considerare
l'amicizia come un vincolo da abolire.
si palesava in quella durezza improvvisa un altro de' miei rilievi più risentiti: la ripugnanza all'aiuto, al
sostegno: quella che nell'infanzia costantemente, quando cadevo, mi dava
l'impeto di respingere la mano tesa a rialzarmi, perfin la mano più cara.
Anche
la vicenda del cielo si cangiava. Soffii tiepidi e freschi, umidi e secchi a
volta a volta mi passavano sul viso. Il volo delle rondini si faceva sempre più
basso. Dalla parte di Monteferrato veniva un rombo rotto come se le macine di
granito e i massi di serpentino rotolassero e precipitassero. Le opere della
bellezza erano difformate o cancellate come da una barbarie soverchiante.
Addio, Nefeloplàste, modellatore senza peso, che repente sapevi convertire in
una sostanza labile e fulgida tutti i marmi adunati nella valle dell'Alfeo!
Pareva che succeduto gli fosse un barbaro gonfiatore di otri. S'accumulavano e
s'infoscavano le nuvole. Si freddavano nella mia bocca riarsa i soffii,
d'attimo in attimo più distesi e più gagliardi, con un sapore d'acqua piovana.
Allora
novamente l'anima mi fu rapita dalle cosa, mi fu dispersa nell'ansietà della
bufera. La sete mi fece simile a sé, mi fece simile al suo bruciore, non mi
lasciò niente altro, come quando nel deserto nulla più vale fuorché la polla da
scoprire o la cisterna da raggiungere, come quando tutto il sangue ispessito
non vale una gocciola d'acqua. Le nuvole s'addensavano e s'abbassavano così che
io mi tendevo con l'illusione febrile di raggiungerne una, di afferrarla, di tirarla,
di pigiarla come le mani dei sitibondi pigiano l'otre non abbastanza pieno per
tanta sete che un fiume non estinguerebbe.
Nel
primo mattino l'albero volante e parlante delle rondini non aveva dato al mio
petto il respiro della vastità che il mio desiderio perdutamente dava alla mia
gola aperta. Era come il mio respiro di Montalbano, l'alito pànico della mia
sensualità e della mia poesia, capace di trarre a sé uno spazio più ampio di
quello che la vista avea percorso. Fra le più distanti nuvole cerulee
distinguevo dal grado del colore la più acquosa, la più pregna di nembo; e colorata l'umidità mi scendeva ai
precordii. Una pausa del vento mi rendeva piano e liscio come un lastra
esposta alla prima gocciola. Un saettìo
nero di rondini fuggiasche mi trasmetteva lo scroscio lontano affrettandone il
sopraggiungere. Così m'era la sete un tormento plastico, una specie di follìa
mimetica che somigliava all'inizio d'una metamorfosi della Meteora.
O
annunzio e attesa, patimento angusto, dominio ampliato di là da ogni limite!
Repentino si rovesciò il nembo, come la massa della cataratta che di sùbito s'apre e inonda. Mi sentivo già
tutto fradicio, prima d'inumidire l'arsura della bocca, prima di raccogliere la
misura d'un sorso. Tenni la faccia levata per bagnare la labbra; e le occhiaie
pigliavan più acqua che le labbra. Mi chinai; mi stesi lungo sopra i coppi, mi
adeguai tutto ai rìvoli che già ingrossavano correndo verso la gronda; posi la bocca nel filo mediano degli
embrici, con un'accortezza ferina usando la lingua a sceverare il tritume e il
sudiciume mescolati al rovescio, senza schifo io tanto schifiltoso. Aiutandomi
con le mani e co' piedi scivolai sino alla gronda; cercai di aggiustarmi per
avanzare il capo. I capelli m'erano tanto zuppi che per le gote mi bagnavan la
commessura delle labbra, ma pur anco mi rempievan gli orecchi. Sporgendo alfine
la faccia, vidi che la gronda s'era lavata e mostrava il metallo netto. I
rivoli parevan men torbidi. Col rischio mi cresceva la destrezza. Prima
adoperai la lista di lino che m'era servita a imbavagliare il riso d'argilla;
tuffai e suzzai, inzuppai e spremetti. Ma l'acquazzone aumentava di veemenza e
di piena. Mi sentivo come in punto d'esser travolto dal torrente. Il torrente
m'entrava giù dalle gambe fino alla schiena, mi guadagnava la pelle come se
fosse per trarmi dalla trista spoglia e selvaggiamente nudarmi. Ma passandomi
sul corpo l'acqua non mi spegneva la sete, non mi dava la gioia del lungo sorso
che dall'ugola sembra colare insino al calcagno. Fissai le punte de' piedi a un
rilievo scabro, che non sapevo se dietro di me resistesse. Tenendo
l'antibraccio sinistro serrato contro il petto prono, cercai di pontare con
sicurezza il gomito. Avendo riconosciuto l'impossibilità di bere a giumella
dalla dòccia di latta come dalla fonte di Bandusia, ebbi liberato il gioco del
braccio destro per prender l'acqua nel cavo d'una sola mano. Com'è bello
sentire nella lucidità del coraggio, all'orlo del precipizio, gli spiriti
dell'accortezza misteriosamente istruire e condurre senza fallo i giovani
muscoli che si accorgono di appartenere a un giovine animale! Il rivolo era
tanto gagliardo che mi disperavo di non poter bere a garganella, di dover bere
"a zinzini" come soleva ammonire nel refettorio l'istitutore ciano.
Ma, quasi che nel fradicio mi si agevolassero le giunture, ebbi modo di
portare la mano alla bocca seguitamente
con tanta frequenza che d'un solo cavo feci una giumella, imitai la continuità
del sorso lungo: prima che il zinzino scendesse in gola, l'altro zinzino era già
alle labbra. M'arrestai per alcuni attimi come a interrogare la mia sete, e a
considerare la saldezza del gomito manco. Se fossi scivolato giù, avrei creduto
di bere volando come le rondini, a rimbalzello sul nembo e su la nembosa morte.
Rispondendomi la sete non essere in tutto spenta, ripresi la bevuta acrobatica.
Poi, con eguale scaltrezza strisciando in dietro, mi ritrassi incolume; mi
soffermai respirando nel diluvio come quando nel mio pare dopo il lungo tuffo
risalivo a galla; eseguii da maestro un movimento girevole verso l'alto, a
simiglianza della lancetta d'un oriuolo: mettiamo, di qual tanto famoso oriuolo
fatto da Lorenzo della Volpaia in ripa d'Arno. Da prono mi rivoltai supino. Mi
ritrovai presso il comignolo, secondando col corpo il pendio de' tegoli e de'
rivoli, con la faccia alla sferza della pioggia, macerato non come un fascio di
canapa o di lino, sì bene come un abil fascio di vimini. Ma mi sentivo tanto
felice d'una divina bestialità che mi rimisi a ridere finalmente, per disdegno
della similitudine vegetale, preferendo esser magari una lontra o un bevero di
gronda. Ridendo ripensai la crudele parodia dell'Inferno scritta da me e da Gian da Luni a castigo di cancheri e di
pedagoghi; e due versi danteschi bagnai dicendoli ad alta voce con labbra forse
giù lividicce: E come là tra li Beoti
lurchi – Lo bevero s'assetta a far sua guerra..
La
mia guerra non era finita, era anzi nel colmo. Mi bisognava senza indugio fare
una nuova invenzione, ricorrere a uno stratagemma tacito. Veramente ero
fradicio sino alle midolle. I miei panni zuppi mi facevano aderire al tetto
ostile, come quelle gromme ravvivate che per tutto maculavano i coppi bruni e
li rendevano molto più sdrucciolevoli. Insofferente della sferza incessante che
battendomi le palpebre mi faceva dolere gli occhi, da supino mi rivoltai prono
e con una mossa di bevero montai sul colmigno; mi stesi per lungo; poggiai i
gomiti e rialzai tra le palme la fronte stillante, in atto di meditare, come un
epitagmarco di Alessandro, come un capo di falangi macedoni (in dispetto di
Dario?) che dopo la vittoria di Arbela studii il guado dell'Euleo e l'entrata
nella pianura di Persepoli, standosi unto di olio sopra una muraglia di Susa
straboccante di dàrici d'oro.
Meglio
esser unto di ginnasiale oliva che fradicio di acqua a flagello. Avevo voglia
di strapparmi i panni da dosso e di gettarli alla bufera. Ogni raffìca me li
diacciava sul nodo e mi dava i brividi.
Allora,
disperato di trovare uno stratagemma valido, tolsi dalle mie tempie le palme; e,
piegando la gota contro il braccio destro disteso innanzi mentre il sinistro più
indietro per caso era contratto, mi accorsi di aver preso l'atteggiamento mio
favorito di nuotatore. La sofferenza e la stanchezza mi ammansarono, mi
fiaccarono la volontà d'insorgere e di lottare ancòra; mi volsero l'anima alle
imagini della mia terra lontana, della mia casa lontana. Chiusi gli occhi,
stillanti come se lacrimassero; e non cangiai l'attitudine, che mi persuadeva
il sogno marino. Non ero più sul comignolo inviso ma su la chiglia d'una paranza
capovolta, nell'Adriatico; e stavo per gettarmi a nuoto senza darmi pensiero
del naufragio, avendo avvistato una frotta di delfini miei familiari che
rilucevano dalle schiene curve a ogni salto. Dopo aver nuotato a lungo, mi
prendeva il freddo. Sbracciando con più vigore, riguadagnavo la spiaggia. Con
una maravigliosa voluttà mi rotolavo nella sabbia affocata, mi seppellivo nella
sabbia cocente.
Apersi
gli occhi. Cominciavo a batter i denti. La pioggia continuava a flagello.
Guardai, co' cigli acquosi, la finestra della carcere senza graticola. Cercai
di rialzarmi in piedi; ma il passo era difficilissimo su per i coppi ingrommati
e inondati. Due o tre volte sdrucciolai, con pericolo di raggiungere per
l'ultima volta la dòccia e di saltare oltre. Strofinandomi un ginocchio pesto,
mi misi a ridere della disavventura che da buon marinaio d'Abruzzo non
attribuivo se non al malocchio di Matteo Buttafuoco. "Dove sono i miei
delfini super aequora curvi? Se casco
giù da questa maledetta chiglia, senza il lauro e senza la cetera di Arione, è
certo che non trovo nel piazzale della Cicogna un delfino salvatore, e neppure
una barella!" Dovetti rassegnarmi a far di nuovo il bevero dantesco,
camminando con le mani e coi piedi, beffandomi di quel glorioso ribelle che nel
primo mattino sul tetto non esplorato si reggeva sempre in equilibrio. Avevo
nell'orecchio pien d'acqua la voce nasalissima del mio prete che volgeva a
scherno la parola sacra: Sic transit
gloria mundi. Scuotere il capo per vuotar gli orecchi ingombri, come
nell'uscir dal mare verso la sabbia ardente, mi faceva dolere il cuore.
Il
malessere e la stanchezza estrema attutirono l'intimo tumulto, mi velarono
perfin l'aspetto della carcere. Al parapetto, dond'ero balzato con sì agile
arditezza, m'inerpicai con uno sforzo penoso. Rientrai. La cella era deserta,
l'uscio era chiuso; l'inferriata divelta era poggiata al muro. Il finale
sussulto della mia energia mi consentì di smuovere il ferro e di ricollocarlo
contro l'uscio. Né so com'ebbi la forza di strapparmi da dosso i panni molli
che s'eran appiccati alla pelle; né so com'ebbi
la forza di asciugarmi almen la
faccia. Mi distesi nella branda; mi avviluppai nelle coperte di lana color di
cenere; mi rannicchiai; ricevetti il colpo di clava nell'occipite dal sonno
fratello della morte.
Come
escii dal fondo del nero sonno, non so dopo quanto tempo, nell'atto di stirarmi
a dirompere le membra indolenzite,
sentìì l'impedimento. Per le
braccia e pe' fusoli delle gambe ero legato ai ferri della branda con una fune,
ignudo! Non potei trattenermi dal ridere nel buio, tanto mi parve grossa la
stupidità del martirio. Per l'uscio socchiuso Cice sporse la lampada accesa e
il suo capo di bue ricolorito; e disse "Si sveglia ridendo. Buon segno!"
"Rido,
o bue, perché m'hai consacrato martire e m'hai dischiuso il regno de'
cieli."
"Gli
è stato quel bischero del censor Bereni, non so come diàmine lo chiamate
voi" risposte Cice appressandosi.
"Bischero
Buttafuoco, appunto. Ma chi m'ha legato?
"I'
l'ho dovuto ubbidire. La dormiva sodo, sino al giorno del Giudizio. Neppure un
sospiro!"
"Tu
sei un birro, un chiappino, un ciàffero; ma non se' buono né a chiapare né a
legare. Io, oggi marinaio d'acqua piovana ma in altri tempi marinaio d'acqua
salatissima, conosco un nodo che appunto si chiama birro, come te, quando si
naviga: formato a braca, così che l'occhio di un doppino entra
nell'altro…"
"Ma
la mi faccia il piacere" interruppe il canzonato.
"Quel
buttafuoco della papalina non ha imaginazione, orbo balogio. Io t'avrei
ordinato di legarmi alla graticola come san Lorenzo. Chi di ferro fere di ferro
pere."
"La
non mi canzoni, ch'io le voglio bene. La venga via con me."
"Dove?"
"La
venga all'infermeria, dove c'è tutto per mutarsi, per bere, per mangiare, per
riposare fra due lenzuola. Vedrà che le scoppia una febbre da cavallo."
"Da
leone. Ora ti faccio vedere come mi slego."
"La
venga via, sor martire tettaiuolo. La si lasci slegare da Cice."
Fui
slegato. E il Contraggenio furzuto volle portarmi su le braccia avvolto in una
coperta di lana. Nell'infermeria ebbe di me ogni cura; mentre i piccoli malati
susurravano e parlottavano e mi nominavano, nelle stanze attigue. Dal bagno
passi al letto. Come il figliuol prodigo, fui pettinato stropicciato abbeverato
rifocillato.
A
sedere nel letto, col busto rialzato dai cuscini dietro la schiena, non senza
malinconia e svogliataggine mangiucchiavo, di sopra a una tavoletta acconcia,
quando vidi Cice volgersi verso l'uscio socchiuso per dove s'insinuava qualcosa
come un'ombra timida.
Incerto
domandai: "Chi è?"
"Il
su' compagno" rispose l'infermiere a bassa voce.
Dario
singhiozzava a più del letto, col viso nascosto fra le palme.
Dario
è ancor là, seduto di contro a me, con un viso disfatto che somiglia a quello
di quella sera come un giovine dolore ardente può somigliare a un dolore
invecchiato e umiliato. Il ricordo delle terza fuga, che rivive in me con sì
robusti rilievi, non gli riappare se non come un gaio rischio, se non come una
tremenda fanciullaggine, nelle mie parole interrotte che non mai alludono al
profondo evento interiore, all'intima rivelazione, all'intimo acquisto.
"Ritornando
nella camerata – te ne ricordi? – ritrovasti occupato il posto vuoto del povero
Stuardo di Modena" dice Dario anche una volta, con la bocca convulsa, con
la voce tremante, con non so che di colpevole e d'inconfesso in tutto
l'aspetto. "Nel posto non vollero metter me, cambiandomi, per timore della
lega. Misero uno che aveva la lisca in gola ed era sospettato di far la spia:
quello delle ferriere di Cutigliano.
Novamente
mi stringe l'angoscia oscura. Nella dissimulazione soffrendo, rispondo con
leggerezza affannosa: "Dimentichi che per ingraziarsi me e te aveva
trascritta e appiccata alla sua scansìa la notizia storica che si legge nel
Palazzo pretorio di Cutigliano: Al tempo
di Giovanni Filippo di Mario Bonaparte di San Miniato Capitano della Montagna
dal 1742 al 1745. E, quando rientrai nella camerata, mi salutò col nome
d'un de' due condottieri nativi del suo paese arditissimi: – Il capitan Mattana! – E diede a sé il
nome dell'altro: Il capitan Santuccio,
con la lisca"
Dario
non si rischiara, non sorride. Balbetta: "Pochi giorni dopo, quando si
sparse la voce che per la tua condotta ti avrebbero espulso, accadde il furto
della grammatica…"
"Ma
come sei strano, Dario! Sembra che il fatto della mia grammatica ti sia rimasto
più impresso che il fatto della mia gronda."
Egli
si rovescia da un lato su i cuscini del divano, premendosi il fazzoletto su la
bocca, straziato da un nodo della sua tosse mortale.
"Dario!
Dario!"
Non
riesco a comprendere la sua insistenza dolorosa in quell'episodio volgare ed
estraneo. Il nuovo vicino di scansìa, alunno della mia classe, di poca statura,
bleso, obeso anzi tempo, con due occhi vitrei tanto chiari che l'iride pareva
stinta e quasi cancellata, era diverso dal suo predecessore ma della medesima
specie misera e degenere. Il breve spazio tra la sua tavola e la mia rimase per
me occupato dall'inquietudine e dalla tristezza, come nella stagione del
piccolo re oltraggiato che teneva dentro il cassetto il topo bianco dagli occhi
rossi e dalle zampine nude. Ora avvenne che un bel giorno io non trovassi più
tra' miei libri la lodatissima e omai rarissima Grammatica del Padre Salvadore
Corticelli: Regole ed Osservazioni della
Lingua toscana, ridotte a metodo per uso del Seminario di Bologna – 1745.
Era caro ai miei studii minuti specialmente l'ottimo libro secondo Della costruzione toscana. Inutilmente
la cercai, ne dimandai con ogni premura a' miei vicini. Ma Gian da Luni osservò
un lieve rossore sul viso gialligno del bleso di Cutigliano. Cogliendo l'ora
della ricreazione in cortile, quando la stanza dello sgobbo restava deserta, si
mise a rovistare nello scaffale del "Lisca della Lima"; e trovò, ben
nascosto in fondo al più alto de' palchetti d'asse, il libro involato. Lo
lasciò nel nascondiglio, per incrudire la scena dell'accusa. Senza indugio,
quando gli alunni furono rientrati tutti, accusò il ladruncolo, lo svergognò,
lo confuse; montando sopra lo sgabello, tirò fuori dal fondo del palchetto il
volume; porgendomelo disse: "Non è questo?" Io dissi: "Non esser
crudele, Aronta. Comprendi e scusa l'amore della Costruzione toscana in chi
nacque là dove Filippo Pananti e Giuseppe Tigni respirarono la purità dell'aria
e della favella, dove Niccolò Tommaseo si beò nel canto della Beatrice di Pian
degli Ontani." All'ironeggiatore l'ironia. Ma chiudevo dentro di me una
tristezza ben più aspra di quella che avevo già patita dal compagno scomparso quando
s'asciugava in silenzio la guancia molle e smorta col gesto e con lo sguardo
della fissa demenza. E' proprio vero che non v'è in terra luogo più orrido di
quell'orridezza che in certi attimi può storcere un volto umano. Dopo vent'anni
e più, ecco che mi riappare atrocemente la faccia del confesso, innanzi ai
cancheri senza pietà, pallido e boffice come una vescica di sugna, scilinguato
nell'affanno del mentire, con quella lisca ridicola che lo strozza, con quegli
occhi tondi che sotto il battito delle palpebre sembrano sciogliersi in acqua
come due acini d'uva bianca pigiati. Dopo vent'anni e più, quel povero capitan
Santuccio s'appaia nella mia pena col reuccio scialbo che non finisce mai
d'asciugarsi il vituperio dello sputo su la gota che non finisce mai
d'afflosciarsi.
Balzo
in piedi. La stessa angoscia mi volge l'anima e lo sguardo all'un de' due
Prigioni che Michelangelo aveva scolpito per la sepoltura interminabile della
sua propria infelicità: al Giovine che inarca il braccio sinistro sul capo e
posa le musiche dita dell'altra mano sotto la zona del petto, bello come un
Orfeo che abbia infranto la pèttide e sia rimasto in su la porta dell'Ade a
sostenere con la sua deserta bellezza il dolore di tutti i perdimenti. E'
presso il cembalo. A' suoi piedi la
maschera funebre dell'eroe dalle nove sinfonie sta sopra un velluto d'Italia
rosso, che serba il suo proprio fuoco da più di quattro secoli.
"Vieni,
Dario. Lèvati. Vieni a bere una tazza di tè dove in su quest'ora io la bevo:
sopra la tavola del mio lavoro. Andiamo."
Lo
aiuto a levarsi, quasi brusco. Non lo guardo. Conduco una disperazione che
agonizza nel non sapersi confessare. Indovino che andiamo entrambi a un
supplizio inevitabile. "Ecco, qui io lavoro quindici ore, diciott'ore di
séguito, ogni giorno. Tra le belle pàtine ve n'è una molto rara, che non è
prodotta se non dall'assiduo calore del cervello. Prima di me, questi legni non
erano tanto ricchi."
La
stanza è rivestita d'un legno corale di sacrestia. Due vasti leggii a muro,
provenienti da Santa Maria Novella, fiancheggiano il camino. Sorge nel mezzo
uno stupendo leggìo da coro, trovato nel Senese a miracolo: veramente il più
sensuale piacere ch'io m'abbia nella mia casa composta a mia simiglianza, la
più saporosa delle dovizie simoniache ancor calde di offìcio divino: materia
ambigua tra il legno dell'Occidente cattolico e il bronzo dell'Oriente estremo,
d'un indicibile color nocciuola rosseggiante, con i rilievi dell'intaglio più
lisci e lustri che la più liscia e lustra pelle d'una susina claudia.
"Vedi.
La Grammatica del confessore di Benedetto XIV è là, sempre utile a chi vuol
sempre imparare. L'arte è lunga. Vedi: porta segnato il mio numero di
matricola, e tre volte il mio nome, con la scrittura ancòra un po' debole e
negletta di quel tempo; che arieggiava la tua. Ecco, nel fontespizio, un segno
della mia tirannide puerile: le Regole
sono in tre libri distribuite da Salvadore Corticelli per uso di Gabriele d'Annunzio!"
Sospingo
il cumulo ingente di pagine che compongono il mio romanzo già prossimo alla
fine. Le spargo su la tavola, bianche e nere: carta a mano e inchiostro di
seppia. "Ora guarda che forza! Questo si chiama inchiostrare. Asciugo il
calamaio ogni tre ore. Spezzo non so quante penne al giorno. Ma poco dura alla sua penna tempra, come
nel Canto di Vanni Fucci."
Parlo
con quella volubilità che s'illude di stornare la tristezza, evitando
d'incontrar gli occhi senza cigli.
Dario
ammutito prende un de' fogli bianchi, intinge una penna, e scrive il mio nome,
tanto perfettamente contraffacendo la mia firma che io gli metto le mani su le
spalle con un atto affettuoso ed esclamo: "Alter ego!" Di sùbito egli si volge verso di me, a faccia a
faccia.
In
un attimo sono vuotato di tutto il mio mondo imaginario, di tutte le mie funzioni,
di tutte le mie musiche; in un attimo la stanza severa è vuotato di tutta la
sua sensibilità affine ai miei pensieri come la cassa dello strumento alle
corde. L'aura di laggiù, quella che appenava lo spazio fra la mia tavola e
l'altra, l'aura sorda respirata dal maniaco e dal bleso, l'aura di sfacelo e di
dolo mi riavvolge a un tratto, mi affanna, mi affoga, come l'emanazione di un
contagio sordido. Come in un sogno incubo, vedo il mio amico serrato fra i due
miseri. I tre volti esangui si sovrappongono, si confondono, formano un volto
solo e un solo male, una sola
convulsione e una sola ignominia. E col meglio e col peggio di me io soffro
nell'attimo e negli anni, soffro in non so che groppo inumano di pietà e di
paura, di bontà e di rimorso di offerta e di rancore. "Ma che hai? Dario,
che hai? Parla. Ti supplico."
"Devo
parlare? o dovevo uccidermi?"
"Sono
sempre il tuo fratello, Dario. Pensa che mio padre sia là e ci ci unisca
mettendo le sue mani su le nostre spalle, come in quella sera del Memoriale. So comprendere tutto; e posso
ancor tutto fare per te. Ma parla."
Brucerei
questa mano che scrive, la brucerei alla fiammella che rischiara questa mia
angoscia di notte perduta, piuttosto che interpretare qui con la mia arte la
sua voce, piuttosto che fermare qui alcuna delle sue parole. Il suo clamore di
colpa non è se non lo spasimo de' suoi polmoni malati, come la sua tosse
lacerante. Alcuna delle sue parole doventa il soffio d'una larva che temo
presente, che temo aggiunta agli spettri della mia oscurità minacciosa. Quando
credo aver riafferrato il mio coraggio,
gli dico: "non ti stimare così basso, non t'accusare con tanta acredine,
non di dispregiare così. Non credere che io osi giudicarti. Sono come te.
Conosco il vizio. Ma non mi abbandono se non per vincerlo, come fanno talvolta i
lottatori ingannando l'avversario con un falso smarrimento. Giungo persino a
intendere la personificazione de' Vizii nelle allegorie cristiane. Tu devi
spesso aver sentito il tuo, o fratello, vivere nella tua casa, all'agguato,
bruciarti col suo alito che si parte dall'angolo più oscuro. Conosco lo sforzo
orgoglioso per isfuggirgli. Conosco il vacillare della volontà, conosco gli
espedienti puerili: apro la finestra; guardo la notte chiara, le stelle, il
giardino, la faccia dell'iddio; guardo questa tavola del mio lavoro, le pagine
scritte che paventano la lima dura, le
pagine on scritte che dimandano la
spontanea perfezione. L'anima in me è alta, sollevata da una specie di delirio
stellare. Perfino in questa ambascia del resistere, non iscopro novelle
regioni della mia vita? Non allargo la
mia tragedia, di là dal quinto atto consueto? Anche fuor del deserto, il dramma
della Tentazione è sublime; non per il resistere, che rinserra il cerchio
interiore, ma per il cedere che ti conduce a scoprire l'immensità lirica del
tuo corpo e le inaudite creazioni plastiche del tuo desiderio. Credi d'esser
perduto, e ricevi un infinito dono. Leggi quel che è inciso nel noce massiccio
dal coltello di una saggezza sfrontata: Coercitio
Effrenatio."
La
mia voce sembra dargli una specie di sollievo soporoso, come un farmaco
benigno. A quando a quando scuote il capo; e la commessura delle labbra
violacee gli si contrae con una lugubre assenza di vita, come il congegno
guasto del sorriso in una maschera semovente. A quando a quando, quasi ei fosse
cotticcio in fondo alla sua taverna di Charing Cross, mormora qualche parola
nell'idioma della sua femmina: "O this gloomy World!" Mi sembra di
cogliere una sillaba o due, e d'indovinare. Il mio dolore è men torbido; la
pietà si chiarisce. L'aspetto del compagno dagli occhi senza cigli è così
difformato che mi sembra una mia immaginazione espressa con una evidenza di
allucinazione, come quando chiudo gli occhi per formare intensamente nel mio cervello
una figura scenica di tragedia e poi apro gli occhi e non senza brivido la vedo
là, tra vita e arte, esterna, più durevole di me.
Ora
imagino che forse si è seduto egli nella taverna della Sirena in Bread-street o
in Friday-street fra Cristoforo Marlowe e Roberto Greene, dinanzi ai nappi
colpi di birra chiara o di vino delle Canarie, dinanzi alla figliuola di quella
celebre bagascia e ladra espertissima che si chiamava Cutting-Ball e che fu
impiccata a Tuburn dopo un processo scandaloso, forse anche dinanzi a quella
grande e fulva femmina raccolta in Turnbull-street dall'autore dello Specchio di Modestia; e forse ha udito
l'amasia di Cristoforo, quella che domani lo tradirà nelle braccia del servo
Francis Archer e lo getterò alla truce morte, dire: "O Marlowe, fa il
sordo ai consigli della tua madre timorata. Vivi fra letto e taverna, fra
taverna e letto. Sii su la terra quel che il dio ottimo massimo è in cielo: il
flessibile schiavo delle tue passioni." E forse ha udito il poeta di Faustus pronunziare quel suo verso che
lui mago inebriava più che il vino delle Canarie: A sound magician is a migthy God.
O
lo sforzo della confessione l'ha spossato, o lo estenua la mancanza del farmaco
abituale. E' là, nella sedia, come istupidito, con le mani su le ginocchia, col
mento premuto sul sommo del petto, con gli occhi fissi, con la bocca malchiusa.
Mormora: "Allora, domani… Dunque, domani… Mi devo uccidere?" E alza
una mano tremolante per cercar sopra la tavola il foglio dove con la stessa
mano ha contraffatto la mia firma di debitore perpetuo.
Gli
dico: "Dario, non ti tormentare. Quel che ti ho promesso, domattina sarà
mantenuto. Se sei stanco, se hai bisogno di riposarti, ti rimando sino a
Firenze, sino alla porta della tua casa, con una vettura chiusa. Ti prego
d'esser tranquillo, Dario. Ho per te lo stesso cuore che avevo dianzi nel
venirti incontro per la rèdola."
Così
lo rassicuro, lo racqueto; mi sforzo di togliere ogni gravità al fallo astuto
che lo svergogna: vinco la mia ripugnanza con l'aumento continuo della mia
tristezza; medicandogli la piaga invelenita dalla sua femmina
"tormentatrice pratica dei farmachi e delle maniere di far patire gli uomini",
penso al giorno irrevocabile quando il sangue generoso gli gocciolava giù dalle
crepature vive dei geloni contusi e io ruppi coi denti l'orlo della mia
pezzuola e la divisi in due lembi per fasciargli le mani. "Non hai più
nulla da temere. Tutto è ormai divenuto semplice, mio povero Dario!"
Per
la disperata smania di mandar denaro alla lontana sorella della figliuola di
Cutting-Ball, alla sua Infida nomata italianamente secundum mores meretricis come l'amasiuncola di Roberto Greene,
egli ha scritto il mio nome – con la perizia che gli conduceva dianzi la penna
su quel foglio vergine – profittando del mio ben noto credito presso gli usurai
concittadini di Ciappo Ebriachi dall'oca bianca in campo vermiglio. Che
importa?
Prendo
un cofanetto intagliato da quel Clemente di Francesco del Tasso che fece
l'ornamento per una tavola di Filippino Lippi. Contiene il mio scarso tesoro.
Lo apro. Dico a Dario esausto, un poco scotendolo: "Guarda. Qui ho quel
che mi occorre per ritirare domattina quelle carte. Ma credo che tu sia
smanioso di ritornare a Londra. Prendi questo che rimane, ti prego: t'è
indispensabile. Domani nel pomeriggio verrai a salutarmi. E bruceremo le carte
in quel camino di marmo nero che dev'essere delle cave di Lesbo. Non hai badato
che nel sasso, fra i due alari, è inciso Divae
Salamdrae sacrum. Dentro quel sarcofago alto, che sta su due mensole nel
luogo della cappa, dorme la principessa Salamandra. Ho la credulità di
Benvenuto."
Parlo
come chi, avendo paura nel buio, crede di poter tenere a ciancia le tenebre e
le larve. Sì, ho paura di essere sopraffatto dalla tristezza, in quella stanza
di sacrifizio indefesso dove, dissipandosi il calore del cervello, ròssica la
passione del cuore lacerato e umiliato. Nel mio coetaneo, che senza il più
lieve segno di repulsa in ambe le mani accostate riceve quanto gli offro, vedo
scendere una improvvisa vecchiezza. Con un dolore che mi sforza al pianto, con
un terrore che mi ghiaccia la schiena, nel compagno dagli occhi senza cigli
scopro a un tratto qualcosa di vile, qualcosa di ignobile.
Balbetta,
riponendo il tasca il denaro: "Hai una bottiglia di gin in casa? Mi fai
dare un bicchiere di gin? Non ho più forza."
Esco
dalla stanza, camminando mollemente sul mio cuore. Chiamo qualcuno de' miei
famigli. Affretto gli ordini per la vettura chiusa. Faccio portare il ginepro sono
alla soglia. Io stesso prendo la bottiglia e il bicchiere; poso l'una e l'altro
presso la pagina dove si tempera il vetro foggiato dall'ordegno del mio vetraio
di Murano con gesti agili e leggeri come "i gesti d'una danza
silenziosa". Per crudeltà contro me stesso, dico a colui che non può udire
né intendere: "Ti verso il gin nel calice di Murano appena appena
freddato, o Dario."
Egli
chiude gli occhi senza cigli e tracanna. Manda il sorso ardente giù sul nodo di
tosse che riscoppia gli rompe il petto lo strangola.
Diritto,
con nel mezzo dell'anima una gòrgone che m'impietra e mi ammutola, attendo il
termine del mio supplizio assai più iniquo del suo patimento. Così, condannato,
egli smania di ringoiare l'onta e la nebbia. O this gloomy world!
"Ora
ti accompagno alla vettura, che è pronta. Còpriti. Rimetti i tuoi guanti di
lana. Avvolgiti bene il collo in questa sciarpa."
Egli
soffia: "Non è mia."
Gli
dico: "E' mia. Prendila. Rialzala fin su la bocca."
Egli
tocca la bottiglia di ginepro, e soffia: "Se me la dai, la porto via. Non
ho più forza."
"Prendila.
Forse ti sta in una tasca del pastrano."
"Sì,
mi sta."
Fa
per muoversi; tentenna; si regge in piedi a stento; dondola un poco dalla parte
della bottiglia come se inchinasse l'orecchia al ginepro che un poco si
diguazza. Brontola parole smozzicate, che non intendo.
Io
e un de' famigli lo prendiamo per le braccia tra gomito e ascella. Lo
conduciamo fino allo sportello, aiutandolo a salire. Annotta. Il cavallo
sbuffa; e nel chiarore dei fanali vedo fumare il suo fiato. I miei cani, che
dal canile prossimo hanno riconosciuto la mia voce, cominciano a latrare
eccitandosi finché s'accordano in quel roco e lungo clamore che pel rimbombo del chiuso è lùgubre, quando annotta
sui campi deserti.
Dario
è già nel fondo della vettura cupa come se fosse rivestita del drappo nero che
s'usa a coprire la bara o a cucire la coltre.
"Addio,
amico! Addio, fratello!" gli grido rassettandogli il pastrano su' poveri
ginocchi.
Così
alto è il latrato della mia doppia muta che io stesso odo appena le mie parole.
"Addio,
addio, Dario!"
Ma
l'anima ode lo schianto del pianto, e si torce indietro soffrendo nell'attimo e
negli anni. Riode e rivede il compagno dagli occhi senza cigli, che
singhiozzava a pié del letto, nel giorno delle rondini e del miracolo, nel
giorno delle nubi e della bufera, nel giorno della ribellione e del coraggio e
dell'orgoglio, quando senza di lui nacqui alla gloria.
Gennaio, 1900, in
Settignano di Desiderio