F  A  M  U  L  U  S


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     Il mio lavoro è da sempre in questo negozio di fiori e di piante della Grande Capitale dell'Impero Asburgico, all'angolo della Hauptstrasse con una traversa affollata di piccole drogherie e negozi di sarti a buon mercato. Sull'insegna è scritto: "Bolyai. Erbe. Fiori. Essenze. Dal 1750". Il che è notevole, visto che corre l'anno 1890. La gente rimarrebbe incredula nell'apprendere da quanti secoli servo la famiglia proprietaria di questa bottega, che si è spostata di paese in paese e ha cambiato parecchi nomi prima di quello attuale, Bolyai. Dirò solo che il nome originario, Eleazar, è sparito dalla targa più di millecinquecento anni fa.

     Ho l'aspetto anonimo di un attempato garzone, basso e rotondo. Anche il mio volto è rotondo. Invaso le piante, rinfresco i fiori e cambio loro l'acqua, poto, concimo. Faccio tutto quello che mi dicono le padrone. Non devo sorridere o aprire la bocca, mi è stato ordinato, perché la vista della mia chiostra di denti spaventa i clienti.

     Ogni giorno qui è eguale ad un altro. La notte dormo sul pavimento della bottega. Ho il permesso di nutrirmi delle piccole creature che per loro sfortuna capitano nel negozio. Talvolta riesco ad attirarvi un cane o un gatto o un uccellino o una cornacchia. Ci sono molte cornacchie in città, e sono animali intelligenti e curiosi. Alcune sono più curiose che intelligenti.

     Le padrone hanno rinunciato a tenere gattini o cagnolini affettuosi, perché sanno che la tentazione di divorare un essere vivente per me è quasi irresistibile, qualche volta rischia di cancellare il ricordo delle punizioni ricevute.

     Una notte due ladri sono penetrati nel negozio e le padrone, accortesi dell'effrazione, non mi hanno chiesto niente. Sono donne dure, gli affari e la loro protezione vengono presi molto sul serio.

     E tuttavia sono sempre affamato.

     La mia è una razza molto paziente, il passare del tempo per noi non è uguale a quello degli umani. Sono stato catturato e incarcerato duemila anni fa, da un negromante della corte di Assurbanipal di Assiria. Il negromante si guardò bene dall'utilizzarmi per soddisfare i suoi desideri, perché conosceva la mia natura doppia e quello che avevo fatto ai padroni precedenti. Così, si limitò a creare un sigillo potentissimo che foggiò a forma di anello, col ferro di un meteorite e l'oro maledetto che aveva fatto rubare dai beduini in una antichissima tomba lungo il Nilo. E poco male se nessuno dei beduini era sopravvissuto.

     E' entrato un cliente. Una donna anziana e obesa. Ma sotto l'adipe posso sentire il sangue che viene pompato dal cuore, la carne tiepida dei muscoli, il giallo del grasso, i tendini. Mi avvicino, portando il vaso in cui sto invasando una pianta. Sento lo sguardo della mia padroncina su di me. La più giovane delle tre donne che gestiscono il negozio. Che hanno ereditato l'anello e il compito, tramandato di generazione in generazione per via matriarcale, di sorvegliarmi perché non mi liberi dal carcere in cui mi ha gettato il mago assiro.

     Padroncina, lasciami solo a servire questa cliente, vai nel retrobottega. Ti darò i suoi soldi e ti dirò che se ne è andata soddisfatta. Le altre donne non sapranno niente. Cosa vuoi, padroncina? Una volta ero una entità potente. Il sigillo mi ha menomato, ridotto ad un caos informe, ma posso ancora agire per te, se tu lo vuoi. Tu conosci la formula, la frase in caldeo che libera le mie catene. L'hai appresa insieme alle lingue antiche, agli incantesimi, ai nomi delle erbe e delle stelle. Sei molto giovane, padroncina, hai appena tredici anni, ma sei già molto istruita. Ti ho visto faticare sui libri, fin da quando avevi cinque anni, soffrire sulle versioni di latino e di arabo, passare serate vuote e infelici.

     Mi ricordo ancora quando arrivasti. Tua madre era morta dandoti alla luce e tuo padre si era liberato di te consegnandoti ad Erszébet ed Orsolya. Sia per disinteresse – aveva sempre voluto un maschio – sia perché era consuetudine che le bambine del clan Bolyai con poteri magici fossero sottratte alla famiglia ed allevate da altre streghe secondo una rigida disciplina fin dalla più tenera età.

     Per andare a prendere Zsofìa, Erzsébet aveva fatto un lungo viaggio. Aveva salito le scale di marmo di un palazzo nobile di Budapest, sovrastate da due colonne di granito. Aveva varcato l'atrio imponente dal soffitto altissimo, poi aveva attraversato una serie di corridoi silenziosi – c'era molto silenzio in quella casa, non si udiva né una risata né il suono delle allegre chiacchiere della servitù – fino a una pesante porta, che l'aveva introdotta in una stanza spoglia, con un piccolo letto e dei giocattoli malridotti dai colori smorti ammonticchiati in un angolo per distrarre una bambina infelice.

     Lì, seduta a terra su un tappeto logoro, con una bambola di pezza in mano, aveva trovato una pallida bimba di cinque anni: Zsofìa. Si capiva che aveva pianto da poco, ma per fortuna doveva aver desistito. Due occhi cerchiati di rosso la guardarono inespressivi. «E' pronta per la partenza» disse la voce della domestica dietro di lei.

     Erzsébet si era schiarita la voce. «Sono Erszébet, tua zia. La tua maestra. La tua vera vita inizia ora. Vieni con me».

     «Non potrai portare con te i tuoi giocattoli» aggiunse. Meglio che imparasse subito la disciplina.

     La bambina tirò su forte col naso. Erszébet notò che il mento iniziava a tremarle pericolosamente. Con un po' di disgusto, Erszébet prese la bambina per mano, la fece alzare in piedi e la condusse fuori attraverso corridoi che riecheggiavano dei loro passi fino alla carrozza che attendeva in strada.

     Nel viaggio di ritorno fece un paio di tentativi di conversazione, ma incontrò solo un silenzio lacrimoso. La cosa non le piacque; con uno sbuffo spazientito decise di lasciar perdere. Sulla porta di casa li attendeva Orsolya. Aveva in mano un vassoio di biscotti e una tazza fumante di cioccolata, e condusse la bambina in un salottino dove il fuoco guizzava nel caminetto. «Non riuscirai a strapparle neanche una parola» disse Erzsébet per tutto commento. Zsofìa non toccò il cibo.

     Più tardi Orsolya raggiunse l'altra donna nella cucina. «Si è addormentata» disse. «Non mi sorprende che sia sconvolta. E' comprensibile, visto che è appena stata abbandonata dal padre».

     La mattina dopo, Erszébet ed Orsolya la attendevano nel salottino. «Tu diventerai una maga» disse Erzsébet, «ed è il più grande privilegio che una fanciulla possa avere»

     «Tuo padre ha fatto un grande sacrificio affidandoti a questo nobile destino» le disse Orsolya «Non devi piangere. Devi impegnarti più che puoi e imparare tutto ciò che gli insegnanti richiedono. Così facendo renderai onore ai tuoi genitori e alla nostra famiglia».

     Quel giorno era iniziata l'educazione della bambina. Tutto si sarebbe ripetuto con assoluta regolarità nelle settimane, nei mesi e negli anni successivi. Dopo essersi lavata al piano inferiore, rabbrividendo di freddo, Zsofìa indossa una maglia di lana, un camicione, un sottana pesante, lunghe calze e un paio di sformate scarpe nere che erano appartenute a chissà chi.

     Mentre attende che il porridge che ha bollito sulla stufa per tutta la notte sia pronto, cerca di terminare la mole di compiti che ogni giorno le vengono assegnati e che non è riuscita a finire la sera prima.

     Dopo colazione, quattro volte a settimana, raccoglie i libri e va al secondo piano, dove il signor Purgstall l'aspetta  nella stanza delle lezioni. E' un giovanotto con i baffetti biondi e i capelli biondi che vanno diradandosi e che lui si liscia di frequente nel vano tentativo di coprire la calvizie.

     Indossa un abito grigio un po' troppo grande e una serie di cravatte orribili che alterna a seconda dei giorni. Ci sono parecchie cose che lo rendono nervoso, ma più di tutte lo mette in agitazione parlare con le donne (cosa che di tanto in tanto è costretto a fare). Come conseguenza del suo nervosismo scarica tutte le frustrazioni su Zsofìa, ma essendo un uomo troppo corretto per comportarsi  brutalmente con la bambina, che è diligente, tende piuttosto a riprendere con stizza i suoi errori, inveendo come un cagnolino bizzoso.

     Con Purgstall Zsofìa non studia la magia. Lui non ne ha neanche un'oncia. Fa parte dell'umanità comune. In compenso deve dedicarsi ad altre materie, soprattutto matematica, lingue moderne, geografia e storia. Le lezioni vanno avanti fino al primo pomeriggio. Poi, dopo un parco spuntino, ci sono i lavori del negozio, e dopo cena Zsofìa si può ritirare per fare i compiti.

     Le due donne le insegnano i rituali magici, sui libri della biblioteca, tre mattine la settimana. Zsofìa deve ripetere i libri ancora e ancora finché non li impara a memoria, copiare per un tempo interminabile schemi e simboli fino a saperli riprodurre alla perfezione. Le due donne correggono severamente ogni minimo errore: «in questo foglio la cupola è più grande che nell'originale, vedi qui? E non hai chiuso i contorni di questo stelo. E' un errore grave. Se copiando un pentacolo dimenticassi di chiudere i contorni, che cosa accadrebbe? Ti costerebbe la vita».

     Erszébet e Orsolya sono estremamente severe con la bambina, le impongono innumerevoli regole. Le si accaniscono contro dalla mattina alla sera. Criticano continuamente il suo modo di mangiare, di sedere, di comportarsi.

     «Che stai sognando? Chiudi la bocca, respira col naso. E' davvero piacevole avere una nipote che se ne sta sempre tra le nuvole!»

     «Fa' attenzione! Ma come stai mangiando? Come tieni la forchetta? Hai macchiato la tovaglia. Non sei capace di mangiare bene alla tua età?»

     «Stai dritta! Cerca almeno di non sembrare gobba!». «Non parlare con la bocca piena!». «I tuoi capelli oggi sono in un disordine terribile!».

     «Non tirar su con il naso. Devi imparare ad ascoltare quando vieni ripresa, senza fare quella faccia. Non ti degni di rispondere? Ti sei mangiata la lingua? Sei un'ingrata».

     Le ricordano costantemente i suoi doveri e le sue responsabilità. La prima volta che Zsofìa aveva fatto cadere un'ampolla, che conteneva un'essenza di un certo valore, Erszébet, senza dire parola, l'aveva condotta nella cantina, ed aveva tracciato sulla porta il segno di evocazione di un demone di basso livello.

     Le urla e le implorazioni di Zsofìa, i colpi sulla porta erano durati fino a che non era diventata afona. Quando la mattina dopo Erzsébet era venuta a recuperarla e aveva cancellato i segni magici, la ragazzina era ancora rannicchiata nella posizione fetale che aveva assunto per proteggersi. Era stata portata di peso in camera sua e vi era stata lasciata. Per un giorno e una notte non aveva toccato cibo. E per tutta la settimana successiva rimase muta ed apatica. Dopo qualche tempo, però, riprese a parlare e fu in grado di tornare agli studi.

     Erszbét non menzionò più l'incidente, ma fu soddisfatta del risultato della lezione: quel giorno, in quella cantina, era stato scavato nella bambina un pozzo di terrore e di odio. L'ombra di quel giorno non lasciò più il cuore di Zsofìa. All'epoca aveva sei anni.

     Purgstall riesce a malapena a sopportare l'atmosfera opprimente della casa, il silenzio, le correnti di risentimento, l'oscurità delle stanze. Se non avesse assoluto bisogno di soldi fuggirebbe di certo.

     La casa è un edificio dalla facciata semplice, pulita, dignitosa. In tutto ci sono tre piani e una cantina piena di casse per la coltivazione di funghi ed essiccatoi per la frutta e le erbe. Al pianterreno si trovano il negozio, un retrobottega che funge da laboratorio e la cucina. Uscendo dalla cucina si accede al cortile nel retro, lungo e stretto, circondato da un alto muro di mattoni rossi, occupato da una enorme serra sopra cui torreggia l'ippocastano di un giardino vicino. Il piano superiore ospita il bagno, le camere delle due zie e un salottino. Il terzo piano ospita una imponente biblioteca con una sala da lettura e uno studio. In cima a tutto, un solaio freddo e pieno di spifferi e dei gemiti del vento. E' qui che dorme Zsofìa, sotto un tetto spiovente di travi imbiancate.

     Nella casa, d'inverno, fa un freddo terribile. L'unica fonte di riscaldamento è la stufa della serra. Il camino della cucina viene acceso raramente. Zsofìa in certi giorni non riesce a scrivere, le dita rigide e congelate per il freddo. Erzsébet dice che il freddo mantiene giovani e conserva le essenze nelle boccette.

     Le due donne sono orribilmente avare. Il legato del padre di Zsofìa le costringe a tirare fuori i soldi per la sua istruzione – Ferenc Bolyai è inflessibile su questo – ma per il resto si costringono a vivere nella più estrema parsimonia. Non ci sono soldi da sprecare per l'illuminazione a gas, e Zsofìa deve studiare con una lanterna di cui allunga ogni tanto lo stoppino con uno spillone per evitare che facendo troppa luce consumi troppo olio. Le vengono passati vestiti dismessi che sono invariabilmente troppo larghi e lei deve adattare, sorbendosi le raccomandazioni sul risparmio di ago e filo. Le Bolyai si muovono esclusivamente a piedi, con qualsiasi tempo e percorrono qualsiasi distanza, senza servirsi dei mezzi pubblici, su e giù dalle colline che ospitano i quartieri benestanti.

     Il vitto è molto semplice e poverissimo. Tre once di pane o di avena al giorno, una mezza bottiglia d'acqua di fiume. Una minestra di legumi, una tazza di latte una o due volte a settimana. Un po' di formaggio due o tre volte al mese. Un po' di carne o pesce tre o quattro volte l'anno. La frutta è considerata una ghiottoneria dispendiosa.

     Come prevedibile, hanno voluto risparmiare anche sulla donna di servizio e Zsofìa, arrivata ai dieci anni, si è trovata a star dietro a tutte le incombenze della casa, visto che le zie si consideravano anziane e si aspettano la sua gratitudine.

     Nell'appartamento non c'è altra luce se non quella rubata al lume posto di fronte alle camere delle zie. Viene utilizzata biancheria lisa, ruvida, dozzinale: quella che Zsofìa cuce viene messa da parte, senza mai toccarla; alle maniche della giacca delle due donne è cucito un vecchio paio di mezzemaniche che Zsofìa deve lavare tutti i sabato sera. Non si beve mai vino, liquori, bibite di qualsiasi tipo, poiché secondo Erzsébet l'acqua pura è la bevanda naturale per l'uomo, l'unica davvero sana e per niente pericolosa.

     Quando si affetta il pane, si mette un cestino sotto il coltello per raccogliere tutte le briciole, a queste vengono aggiunte le briciole che capita di fare a tavola e quegli ingredienti, fritti con un po' di burro, costituiscono il piatto di festa nei giorni di riposo.

     Non bisogna battere gli abiti né gli arredi per evitare di logorarli, ma solo passarli leggermente con un piumino. Le scarpe delle due donne sono munite di un rinforzo in ferro e sono le stesse che avevano calzato il giorno del loro ingresso nel negozio.

     Nella casa regna una fredda etichetta, una gelida cortesia. Le due donne non si possono soffrire. Orsolya è una cugina povera di Erszébet, che la considera inferiore. E' completamente sprovvista di mezzi e odia dover dipendere da lei. Erzsébet, a sua volta, odia quel poco di bellezza che ha Orsolya, la più giovane, e che a lei è stata negata. Non di rado, per intere settimane, le padrone non si rivolgono la parola e comunicano attraverso di me.

     Ieri Erszébet ed Orsolya erano l'una di fronte all'altra, accanto alla pianta che stavo potando. «Ricorda alla mia signora cugina» mi ha detto gelidamente Erszébet, «che in questa casa stasera riceviamo ospiti di riguardo, e che spetta lei predisporre tutto, compresi gli acquisti dei dolci e del vino».

     Orsolya ha risposto con la sua voce un po' roca «Di' alla tua padrona che questa sera sono occupata in laboratorio fino a tardi per un ordine urgente. Dille che avrebbe dovuto avvisarmi in anticipo».

     «Informa mia cugina» ha risposto Erszébet guardandomi, «che se l'avessi avvisata avrebbe trovato una scusa per defilarsi. Fàlle notare che sono i miei soldi a finanziare gli affari».

     Allora Orsolya ha sospirato. «Di' alla signora cugina che salgo a vestirmi e poi mi occuperò delle esigenze degli ospiti» ha detto, «Malvolentieri. Chiedile di scostarsi dalle scale».

     Erszébet non si scostava mai. Raccoglieva le gonne e veleggiava su per le scale davanti alla cugina, per assicurarsi che facesse come lei voleva.

     Ci fu un anno, ricordo, in cui avevano smesso persino di parlare: mi passavano delle note scritte. Erzsébet era pratica e concisa: «La signora cugina Orsolya è pregata di non prendere il materiale di cucito della signora cugina Erszébet»; «La signora cugina Orsolya voglia prender nota che stiamo spendendo troppo per il concime: se ne raccomanda un uso più parsimonioso»; «La signora cugina Orsolya mi ha messo in grave imbarazzo di fronte al cliente di ieri perché il mazzo di crisantemi che aveva ordinato non era ancora pronto».

     L'altra, di solito, lasciava che le note si accumulassero e poi rispondeva in blocco in una sorta di furiosa irruenza: «Mia cara Erszébet, continuerò ad utilizzare il tuo ago e il tuo filo se me li farai mancare, ed è compito di quello scansafatiche di Uziel assicurarsi che gli ordini siano evasi tempestivamente. Se desideri che il servizio sia migliorato non hai che da assumere un nuovo garzone, che sappia distinguere una paletta da un cucchiaio, e sia parsimonioso col concime al punto da far morire le piante». Ne seguivano settimane di sguardi torvi tra le due donne.

     Mi considero un demone tra i più potenti, con un dono unico tra tutte le razze di esseri soprannaturali: sono un viaggiatore. Non conosco altri simili a me, penso che non ne esistano. Sono capace di raggiungere luoghi, universi, della cui esistenza neanche i demoni maggiori sono al corrente. E sono un ladro. Grazie al mio talento di viaggiatore, alla capacità di penetrare e nascondermi in luoghi inaccessibili ho in questo una abilità straordinaria. Se mai mi libererò, continuerò a rubare la vita delle creature senzienti e a nascondermi, e nessuno sarà capace di catturarmi di nuovo.

     L'anello col tempo ha sviluppato una macchiolina di ruggine quasi invisibile. Ho atteso per duemila anni che la macchiolina di ruggine, atomo dopo atomo, si estendesse quanto bastava. Oh, l'anello è potentissimo. L'oro della tomba ha reagito. Il progresso della ruggine è stato arrestato. Ma ora io riesco a proiettare in una certa misura i miei pensieri verso chi mi sta vicino.

     Non ti senti sola, piccola padrona? Sai di essere destinata ad una vita senza amore, destinata unicamente a sorvegliare una miserabile creatura come me? Ti prego, lasciami assaggiare la carne di questa vecchia obesa, è passato tantissimo tempo dall'ultima volta, e ho tanta fame.

     «Vai a prendermi le cesoie, Uziel. Quelle senza il manico di legno»

     Maledetta! E' la più piccola ma non è meno perfida delle altre! Le cesoie di ferro mi faranno ululare di dolore, non voglio andare! E tuttavia sento il potere dell'ordine magico che silenziosamente mi ha lanciato. La mia mente urla, mentre la mia forma fisica mette un passo avanti ad un altro, senza potersi fermare,  entra nel retrobottega, prende le cesoie e glie le porta.

     «Grazie, Uziel. Riprendi pure ad invasare»

     Maledetta. Barcollo dietro una fila di grandi vasi. Devo riprendermi. Sto fermo immobile per minuti interminabili, col vaso stretto tra le mani che mi tremano, cercando di non lasciarlo cadere, con tutte le fibre del mio essere che urlano. Non devo lasciar cadere il vaso. Non voglio dare alla padroncina la soddisfazione di escogitare un'altra punizione. E' molto giovane, ma è già più tortuosa e ingegnosa delle altre.

     Odio le donne. Sono le padrone peggiori. Sanno colpire con perfidia, nel punto che fa più male. La mia padroncina più giovane, quando si annoia – e si annoia spesso, da sola in un negozio, con due adulte che la riempiono di incombenze – mi tortura in mille modi ignobili, sfoga su di me i suoi malumori, stando sempre ben attenta a non farsi vedere dalle altre. Quando il suo umore è particolarmente nero e non ne può più delle zie mi getta in faccia i quaderni dei compiti e il calamaio, perché glie li faccia. Io imito alla perfezione la sua calligrafia e li porto a termine.

     Se sapessero come si comporta, loro la metterebbero in guardia: trattare con me, anche solo per farmi soffrire, è estremamente pericoloso. Offendere con piccole cattiverie un demone del mio rango, è più che folle. Un demone superiore si comanda, non si offende senza ragione. Sono una creatura estremamente malvagia e vendicativa, la mia memoria corre indietro di decine, centinaia di millenni, e non dimentica mai un torto.

     Ma soprattutto, io sono un infallibile cercatore. Nessuno stregone morto, in nessun aldilà, è al sicuro da me, perché sono capace di recarmi ovunque. In qualsiasi inferno o paradiso o nascondiglio mistico si trovi colui che cerco per la mia vendetta, non manco mai di trovarlo. Questo mi rende temuto tra tutti i demoni.

     La padroncina sa tutto questo, è stata ripetutamente ammonita, ma sembra ignorarlo. Che mi dia pure il tormento ad insaputa delle altre: un segreto che solo io e lei condividiamo è un buon inizio, un'altra crepa nel muro della mia prigione. Posso permettermi di aspettare e vedere se la crepa si allarga

     Vedete, la mia razza ha una saggezza superiore. Nulla di ciò che è nel dominio del tempo dura. Loro non lo sanno. Io sì. Devo solo aspettare le ere interminabili prima di essere di nuovo libero. Se non fosse che queste tre padrone mi stanno particolarmente odiose, fischietterei nell'attesa come Falstaff sul monte delle streghe.

     Ma basta parlare dei difetti delle mie padrone, neanche fossi un vecchio marito inacidito e rancoroso. Oggi è capitato un fatto nuovo. Un giovane benvestito è entrato nel negozio, e ha ordinato tre mazzi di rose. Stavo trascrivendo l'indirizzo col nome della destinataria – sicuramente una giovane signorina di buona famiglia – quando la padroncina mi ha fatto un brusco cenno di togliermi di mezzo. Il giovane non l'ha neanche notata, preso com'era dal suo sogno d'amore. Ha chiesto in quanto tempo sarebbe avvenuto l'invio. «Immediatamente» ha assicurato la padroncina. Poi ha messo il biglietto in un cassetto e ha atteso tre ore prima di smaltire l'incombenza. Molto interessante.

     La seconda volta che il cliente è venuto l'ho guardato meglio. Era effettivamente un giovane uomo di una bellezza notevole, fuori del comune. Capelli corvini, volto dagli zigomi alti, lunghe ciglia, fisico prestante. Nel panciotto un superbo Taschenuhr con una catena d'oro. Invece degli orribili scarponi che oggigiorno si vedono ai piedi degli studenti squattrinati, aveva un paio di stivaletti di morbido cuoio che dovevano essere costati una fortuna, come del resto l'abbigliamento di ottimo taglio. Una persona di classe, una famiglia di ingenti mezzi. Lo si capiva anche senza considerare la finezza aristocratica dei modi.

     Aveva appuntato, sul bavero della giacca, lo stemma di una delle tante confraternite universitarie di Vienna, così di moda tra i giovani rampolli dell'aristocrazia. Non potei gettare un altro sguardo perché quando feci per avvicinarmi la padroncina era uscita dal retro del negozio e mi aveva dato il silenzioso ordine di sparire.

     Il giovanotto aveva perso qualche grado di baldanza. Evidentemente il primo invio di rose – la signorina si chiamava Greta Goldstein – non aveva sortito effetto. La padroncina passò a dargli consigli sui fiori, ne spiegò il significato simbolico, propose altre composizioni. Lui non l'ascoltava neanche. Quando lei ebbe finito di parlare ordinò cinque mazzi di rose identici a quelli dell'altra volta. Se Zsofìa si era sentita ferita dalla poca attenzione riservatale non lo fece notare. Esibì uno dei suoi rari sorrisi e trascrisse di nuovo l'ordine. Si rigirò a lungo nelle mani il cartellino contemplando pensosa il nome della donna amata da Christian.

     Il giovane comparve nei giorni successivi, sempre più depresso e nervoso. Le altre due padrone, che normalmente stavano nel retrobottega a badare alla contabilità, a ricevere i fornitori o a cucinare o a giocare interminabili partite di solitario, avendo visto sulle fatture l'entità delle sue spese, la terza volta vollero essere presenti.

     Saranno stati i tratti magiari riconoscibili nel suo aspetto – il naso lievemente aquilino, le sopracciglia folte, o l'educazione inappuntabile con cui le trattò – si tolse addirittura la giacca e prese da una scansia in alto un vaso di forsizia che una di loro stava tentando di prendere – o il timbro gradevolmente maschile della sua voce, troppo spesso stridula nei giovani della sua età, ma da allora in poi anche le altre due donne casualmente si trovavano presenti ogni volta che lui arrivava.

     Quanto a Zsofìa, la prima volta che era entrato lui le aveva lanciato un sorriso radioso che l'aveva portata rapidamente alle soglie dell'adorazione. Nessuno le sorrideva mai.

     Ad ogni scampanellìo della porta nelle ore in cui di solito lui si reca in negozio il naso sottile di Orsolya o quello lungo, carnoso, appuntito e azzurrino di cipria di Erzsébet sbucano dalla tenda del retro per poi sparire velocemente se si tratta di un ospite qualsiasi.

     Molto, molto interessante.

     Una settimana dopo le tre donne hanno invitato il giovane ad un the. Lui, che si chiama, come appurammo dalle fatture, Christian Ungern, ha finito per confidare loro che il rapporto con l'oggetto del suo amore non naviga in buone acque. Ho servito il the e ho ascoltato impassibile l'elogio delle qualità della bella Greta. Per me qualsiasi creatura umana non è altro che cibo.

     Ma non avevo tempo per arrabbiarmi. I cambiamenti nel negozio si stavano susseguendo velocemente, esigendo la mia attenzione. Dapprima erano comparsi vecchi gioielli e acconciature più elaborate. Davanti agli specchi in camera vennero allineati flaconcini e bottigliette di cristallo molato di tutte le forme e di tutti i colori. Poi notai tracce di profumo e belletto sui volti rugosi e le lunghe guance, brune e magre, di Erszébet e Orsolya. Ma fu la faccenda degli orecchini a scatenare la tempesta.

     Quando Zsofìa scese in negozio con un paio di orecchini di pizzo che si era confezionata e i capelli acconciati con l'aiuto di alcuni fermacapelli di legno le altre due donne le ordinarono di risalire in camera e di toglierseli. La minacciarono di raderla a zero e tenerla reclusa nella sua stanza finché non le fosse "ricresciuta la cresta". Zsofìa rispose che si togliessero anche loro i vistosi orecchini che portavano. Ne seguì un furibondo litigio, il peggiore a cui avessi assistito in tutti gli anni in cui avevo lavorato per loro.

     La razza delle streghe è estremamente passionale, una passione che potrebbe anche non manifestarsi mai, ma che tuttavia cova sotto le ceneri. Peggio che passionali, le streghe hanno una inclinazione ad impadronirsi con ogni mezzo di ciò su cui hanno messo gli occhi: avendo degli strumenti magici la tentazione di usarli è forte.

     Io sono un potente strumento magico. Il mio vero nome, in caldeo, ha in realtà 3333 lettere per un totale di 1111 sillabe mistiche. Colui che riesce a pronunciarlo correttamente può costringermi a mettergli a disposizione i miei poteri, che sono meravigliosi e molteplici. Questo nome è tramandato di generazione in generazione tra i custodi dell'anello.

     La padroncina, che ha dimostrato un intelletto notevole e precocissimo, ha cominciato ad apprenderlo già a cinque anni, insieme al latino e al greco. E' molto istruita, e oltre ad una infinità di lingue conosce l'astronomia, la biologia e la matematica e chissà quante altre scienze. E' già in grado di pronunciare il nome senza un errore, e quindi, se lo desiderasse, sarebbe in grado di comandarmi. Tutto sta fornirle la motivazione giusta perché lo faccia. E ora pensavo proprio di averla trovata. Ma lasciate che vi descriva prima gli sviluppi dei giorni successivi.

     La mia padroncina venne esclusa dalle visite del giovane. Le due vecchie streghe stavano tutto il tempo a parlare con lui. La mia padroncina mi osservava meditabonda, come se avesse qualche idea su di me. Io continuavo ad invasare, potare, annaffiare, concimare e ad attendere.

     E a sentire fame. Ero intrappolato in una dimensione a me poco congeniale. La sofferenza del piano fisico indeboliva la mia essenza, provocando un dolore sordo che aumentava insensibilmente ma inesorabilmente col passare dei secoli. Come un cane impazzito avrei azzannato e divorato qualsiasi essere umano mi fosse capitato a tiro per placarlo temporaneamente.

     Poi, un giorno, la fiamma di Christian venne nel nostro negozio. Era accompagnata da una allegra brigata di giovani cosmopoliti, di cui lei era chiaramente l'ape regina. Entrarono rumorosamente, e io mi nascosi dietro una grande pianta in vaso. Gridarono a voce altissima per chiamare le padrone nel retrobottega.

     Greta Goldstein era una magnifica bionda, alta e slanciata. Indossava una camicetta bianca con pizzo sotto un elegante soprabito di velluto color tortora, tonalità che andava di moda, con gonna in tinta dall'orlo splendidamente ricamato, come il soprabito. Non indossava corsetto né crinolina. Il suo seno tendeva in modo provocante la camicetta e la carnagione aveva un colore delicato di pesca. I capelli erano raccolti in un sobrio chignon da cui sfuggivano ad arte delle ciocche lucenti.

     Semplice e perfetta. Potevo capire come il giovane Christian avesse lasciato il cuore nelle sue mani indifferenti.

     Le mie padrone vennero tutte e tre, silenziose. "Allegre come una settimana di pioggia", commentò uno dei giovani a voce non troppo bassa. Greta chiese loro, mentre i suoi amici rovistavano dappertutto mettendo a soqquadro vasi ed attrezzi, se le rose provenivano dal nostro negozio. Le tre donne risposero impassibili di sì. La più anziana chiese se potevano essere loro utili. La ragazza acquistò un piccolo vaso con un'erba aromatica, la cosa dal prezzo più basso che trovò, e la diede ad un giovane che, chiaramente, l'avrebbe gettata nella spazzatura appena voltato l'angolo. Disse di tenere il resto.

     La meno anziana delle due cugine contò pazientemente le monete e mise il resto sul bancone. Greta, con una smorfia sarcastica, le prese. Qualcuno sghignazzò. Un altro additò a Greta un cactus che aveva una forma vagamente fallica. «Compra quello, già che ci sei». Altre risate. Greta prese la porta, non prima di aver detto alle mie padrone che la prossima volta avrebbero dovuto controllare meglio le rose, perché in uno dei fasci ne aveva trovata una infestata da bruchi. «Mio Dio!» concluse, simulando un principio di svenimento. «Lo dovrò dire a Christian: conquistare una donna mandandole bruchi!». E ciò detto si volse verso la porta.

     Le tre donne la fissarono con spaventosa impassibilità. Io sono bravo ad interpretare il linguaggio corporeo delle mie padrone, e posso dire che Greta Goldstein era in serio pericolo. L'immobilità delle mie padrone era più inquietante di qualsiasi reazione, perché sapevo che stavano pensando. Pensando a come fargliela pagare. Fu probabilmente in quel momento che decisero di separare definitivamente il giovane Christian da Greta.

     «Aspetti, signorina Greta, c'è forse qualcosa che possiamo fare per rimediare al nostro increscioso errore», disse Erzsébet.

     «Altre rose? Le vostre rose mi sono venute a noia, sapete?» rispose sgarbatamente quella. Gli altri ragazzi erano già fuori e la stavano chiamando e schiamazzando.

     «Noi vendiamo anche essenze profumate miss Greta: ecco, provi questa», e le diede un bellissimo vasetto di vetro che conteneva una sostanza dal colore perlaceo. «Lei ha una bellissima pelle, mi permetta di farle provare questa pomata». Greta, incuriosita, non poté resistere e si avvicinò. «Annusi: il suo profumo è straordinario, contiene l'essenza delle rose del giardino del Topkapi, il palazzo del Sultano». Greta ne prese un po' con la punta del dito e la spalmò sul polso.

     «Vede? si assorbe immediatamente. E' una crema da notte. Al mattino lascia la pelle del volto, del petto e delle mani chiara e morbida. Elimina tutte le macchie, per sempre. Per quanto fosse bella, avevo notato che Greta aveva una minuscola voglia sulla tempia. Se la toccò involontariamente. «Ho detto tutte, signorina Greta. Sono necessarie tre applicazioni in tre notti successive».

     «Beh… se bastano tre applicazioni…». Greta guardava con cupidigia il vasetto.

     «La accetti, signorina Greta, con le nostre scuse, e torni a servirsi del nostro negozio». Glie lo incartò. «Non dica a nessuno che si serve di questa pomata, potrebbero pensare che lei, che ha una pelle così bella, la mantiene grazie ad artifici cosmetici». Greta non si fece ripetere due volte l'offerta. Mise l'incarto nella borsetta e si avviò velocemente alla porta.

     L'indomani il giovane innamorato non si vide. E neanche nei giorni successivi, fino alla fine della settimana. Il lunedì, un Christian sconvolto entrò nel negozio e ci diede la terribile notizia: Greta era stata ricoverata in una clinica per malattie mentali in stato di grave amnesia. Non ricordava più chi fosse, la sua psiche era regredita allo stato di bambina, e i dottori avevano prognosticato lunghe e difficili cure per farle ritrovare la memoria.

     «La riconquisterò. Sarò sempre al suo fianco, e quando riavrà la memoria la prima persona che vedrà sarò io» disse risolutamente Christian. Doveva andare a trovarla, e chiese un bel mazzo di fiori da porre nella sua stanza. «Prenda queste orchidee, signor Christian. La notte emanano un odore dolce che propizia il sonno e calma le angosce» disse la più giovane delle cugine. Non avrei scommesso un soldo su una ripresa di Greta Goldstein. Persino io stavo lontano da quelle inquietanti orchidee, la notte.

     Poi le cose ripresero il loro corso. Ogni tanto Christian veniva a parlare con le donne e a chiedere fiori. Greta non migliorava. La padroncina era sempre più infatuata del giovane. Zsofìa si era creata ogni sorta di fantasie romantiche su Christian. Lo vedeva bello, coraggioso, patriota impegnato in operazioni rischiose ed eroiche.

     Si illuminava quando lui rideva con la sua risata d'oro puro. Christian le aveva dato una mancia, e Zsofìa sarebbe morta piuttosto che spendere quel fiorino. Ogni volta che cambiava vestito, trasferiva la moneta nella nuova tasca. Lei farneticava e io ascoltavo pazientemente. Non potevo far altro che osservare e attendere. I tempi non erano ancora maturi.

     L'anello, la cui ubicazione conoscevamo solo io e la donna più anziana, era nascosto nel grande vaso della palma nana, in fondo al negozio, protetto da potenti incantesimi. Nessuno vedeva realmente quella palma. Vi passavano davanti senza riuscire a notarla. Percepivo la presenza nascosta dell'oggetto magico, la sommessa, ma incessante vibrazione meccanica degli atomi del reticolo che intrappolavano la mia essenza tra i loro piani cristallini.

     La rottura dei rapporti con le zie inaugurata da Zsofìa come atto di ribellione aprì inaspettatamente un canale di comunicazione tra me e lei. Era pur sempre una bambina sola, desiderosa di confidarsi con qualcuno, e io sembravo pur sempre un essere umano. Per quanto dura e furba Zsofìa già fosse, sapevo che questo doveva accadere.

     «Voglio fare un regalo a Christian, Uziel. Così forse mi noterà»

     Risposi scegliendo con estrema cura le parole. «E' sconveniente che una donna regali qualcosa di frivolo ad un uomo, padrona, a parte un ricordo di sé, come un fazzoletto o un anello. Ma questo non è un regalo. Le donne accorte, che non vogliono farsi dimenticare, danno agli uomini qualcosa di utile, di cui loro siano grati: ottimi pasti, cura della casa, figli, lenzuola fresche ed abiti lavati e stirati. Dagli una pozione per rafforzare la sua memoria, in modo che divenga infallibile. Lo aiuterà immensamente nello studio. Leggerà una volta i teoremi e sarà in grado di ripeterli senza errore. In tal modo prenderà sempre il massimo dei voti anche se la sua comprensione non sarà perfetta. Ogni volta penserà a te con gratitudine».

     «Ma non posso prendere alcuna pianta o essenza senza che le mie due aguzzine se ne accorgano» disse tristemente Zsofìa.

     «Consentimi di fare un incantesimo. Non si accorgeranno di niente»

     Zsofìa mi fece giurare sull'anello che l'incantesimo avrebbe avuto unicamente quello scopo, e poi acconsentì, anche per ribellione nei confronti delle zie. Sorrisi entro di me. Il secondo seme era piantato. Del primo parlerò tra poco.

     Tutte e tre spasimavano per Christian, si vedeva. Si era creata una corrente di odio tra di loro. Ciascuna delle due cugine era stata una ragazzina sognatrice e disperata, priva di amore come ora era Zsofìa, e la odiava perché lei, così giovane, aveva ancora una possibilità.

     Zsofìa non era stupida, e aveva capito da tempo il destino di solitudine che l'attendeva. Ma il pensiero di Christian rendeva intollerabile questa prospettiva. Provava un'invidia vergognosa, disperata, che le consumava il cuore, nel vedere in strada le coppie di innamorati passeggiare al tramonto scambiandosi sguardi teneri e tenendosi per mano, vacillando un poco, come ebbri. Nello specchio vedeva il volto pallido di una ragazzina della sua età, sentiva i seni che premevano sotto lo stretto grembiule e che ferivano e impacciavano il suo corpo debole e infantile. Si guardava le mani arrossate dalle dita macchiate di inchiostro.

     D'improvviso era divenuta acutamente consapevole della bruttezza degli abiti, della sciatteria del suo aspetto, della trasandatezza dei suoi capelli e odiava le altre due donne perché non le davano la possibilità di rivelare a Christian la sua bellezza. Le considerava dei mostri egoisti che la derubavano della sua parte di felicità,  che volevano rendere anche lei come loro. Non si ha diritto alla felicità a quattordici anni? Era sicura che loro avessero avuto, bene o male, la loro parte.

     C'erano dei momenti in cui le odiava a tal punto che avrebbe voluto ucciderle, sfigurarle, o almeno poter gridare loro di andare all'inferno. Avrebbe preferito essere morta e sprofondata sotto terra alla schiavitù, alla prigione del ripetere giorno dopo giorno gli stessi gesti alla stessa ora. Alzarsi, vestirsi con gli abiti scuri e pesanti, fatti apposta perché nessuno per strada seguisse con lo sguardo neppure per un istante quella ragazza insignificante e infagottata.

     In questo modo passava il tempo. Le donne si tenevano d'occhio, e nessuna osava fare una mossa nei confronti di Christian. Così non si andava da nessuna parte. Occorreva separarle. Una legge non scritta, che non sarebbe mai stata rivelata alla padroncina, stabiliva che non si sarebbero mai separate. Ma c'era un caso: se il loro nonno fosse morto, per nulla al mondo avrebbero lasciato che i suoi beni, e soprattutto i suoi oggetti magici, andassero alle altre parenti. Erano avide e detestavano gli altri membri della famiglia. Sarebbero andate alla lettura del testamento.

     Io invaso le piante, innaffio, poto, semino semi che germogliano dopo molto, moltissimo tempo. Quando il vecchio Ferenc Bolyai, il padre delle due megere, venne nel negozio, anni addietro, io lessi il tempo della sua vita. Sarebbe morto di lì a poco. Allora allungai il numero dei suoi giorni. La mia visione di demone dei futuri alternativi, non del tutto cancellata dall'anello, mi suggeriva che in un certo punto del futuro dalla sua morte si sarebbe dipanato un corso di eventi completamente differente da quello predestinato.

     Bisogna stilare con estrema cura i patti e i vincoli dei demoni. Mi era stato impedito di attentare alla vita di un qualsiasi membro della famiglia che possedeva l'anello. Non potevo abbreviare un'esistenza. Ma non mi era stato proibito di allungarla. E nell'allungarla ottenni quello che volevo: potei stabilirne la durata. Così, sapevo che sarebbe morto proprio quel giovedì. La notizia arrivò al negozio la mattina successiva.

     Le due padrone si prepararono immediatamente a partire. Prima di farlo mi chiamarono nella serra, e, come si fa con un cane, mi misero un morso e un guinzaglio molto dolorosi, legandomi ad un anello di elettro fissato al terreno con un paletto dello stesso materiale.

     Quella notte, un incendio si sviluppò nella serra. Non sto a raccontare le vie tortuose che un cervello di demone come il mio aveva escogitato per far uscire una piccola scintilla dall'enorme stufa di ceramica che riscaldava la serra – della cui manutenzione io ero incaricato – e farla volare fino ad un filo di paglia, perché devo concludere il racconto.

     Quando l'incendio fu domato, la mattina, fu chiaro che le preziose piante magiche avrebbero richiesto cure urgenti per non morire. Alcune di esse erano esemplari unici, che producevano sostanze preziose e introvabili. Così, a malincuore, le due cugine si separarono. Quella più giovane avrebbe dovuto raggiungere la più anziana il giorno dopo al paese dove era morto il padre. Un solo giorno. A mezzogiorno si accomiatarono. Scese la notte. Io attesi.

     Quel che successe quella notte lo avevo già previsto, e non avevo bisogno di essere presente. Dagli scaffali mancavano due filtri magici. Ciascuna delle tre donne, libera dagli occhi delle altre dopo anni e anni, subì il morso della tentazione. Un giorno, un solo giorno d'amore con un bel giovane dopo tutti quegli anni vuoti e squallidi passati a custodire uno spregevole demone. La tentazione fu troppo forte.

     Ciascuna si ritrovò insieme alle altre nella piazza dove si affacciava il palazzo di Christian. Anche la padroncina aveva deciso di rivelare il suo amore a Christian e di fuggire con lui. Le altre due avevano rubato i filtri per annullare gli effetti del tempo. Gli sarebbero apparse giovani, voluttuose e splendenti come erano al tempo della loro ardente giovinezza.

     Pioveva e tuonava. Tutti i lampioni erano stati spenti dal vento. La piazza era umida, buia e deserta, tranne che per tre ombre, ferme ai capi opposti, che si guardavano con odio. Ciascuna sapeva perché l'altra era lì. Ciascuna era pronta a sbarrare la strada all'altra a costo della sua vita. Rimasero sotto la pioggia ad inzupparsi miserabilmente fino al mattino. Poi, alle prime luci, come se si fossero scambiate un tacito segnale, si voltarono e tornarono al negozio per vie diverse. Niente sarebbe stato più come prima.

     Non si dissero una sola parola sull'accaduto della notte. Erzsébet e Orsolya avevano un'aria pallida ma determinata. Erano spariti gli orecchini e gli orpelli: brutto segno. Conoscevo quanto fossero terribilmente orgogliose e odiassero essere colte in fallo. Dovevano essere furibonde, ed in quello stato erano capaci di tutto. Fui chiamato al loro cospetto.

     «Uccidi il ragazzo. Uccidilo in modo che Zsofìa non sospetti di nulla. Simula un incidente. Sei in grado di farlo» mi disse Erszébet. Orsolya era pallidissima, ma non la contraddisse.

     «Certo, padrone, posso dominare la mente delle creature inferiori e cambiare la materia di piccoli oggetti, posso far imbizzarrire un cavallo, marcire i chiodi che tengono ferma una pesante insegna, far sciamare i tarli nelle travi di un soffitto, e nel giro di una notte esse diventeranno fragili come cartone, e altro ancora».

     Avevo esagerato. Sebbene avessero bisogno di me, alle due donne non piacque sentire questo. Mi guardarono diffidenti, come se io fossi una medicina troppo pericolosa da inghiottire, e furono sul punto di rinunciare. Ma non avevano scelta. Io sapevo che non avrebbero avuto la forza di uccidere esse stesse Christian. Alla fine, la più anziana ruppe gli indugi. Se una di loro non poteva avere Christian, nessuna delle altre doveva averlo. Recitò il mio nome. E io mi misi all'opera.

     La notizia della morte di Christian, investito da una carrozza, arrivò al negozio due settimane più tardi, quando un amico di famiglia venne a saldare il debito con il negozio. Nel frattempo la padroncina, che era stata tenuta all'oscuro, si struggeva nell'ansia e nell'incertezza.

     Il negozio quel giorno rimase chiuso. La sera, i passanti videro le tende tirate e le finestre dei piani superiori serrate. Fuori, la pioggia continuava a cadere e a lavare le strade della città. Dentro, niente si muoveva. Tutti erano nelle loro stanze. Regnava un silenzio simile alla morte.

     Le due cugine erano rimaste per tutto il giorno nelle loro camere, rifiutandosi si vedere la padroncina, che batté alla loro porta fino a ferirsi le mani e a strapparsi quasi le unghie. Né le indusse a scendere il fracasso di lei che lanciava gridando gli oggetti del negozio. Poi era scesa una calma innaturale. Il campanile vicino suonò le nove di sera. Dall'angolo della serra in cui mi ero rifugiato, sentii i passi di Zsofìa che si dirigevano verso di me.

     «Tu. Esci dal tuo nascondiglio».

     Quando guardai la faccia di Zsofìa fui veramente spaventato. Le occhiaie erano livide, il colore era stato come risucchiato via. I capelli erano una massa arruffata. Gli occhi erano iniettati di sangue. Tra le mani reggeva una piccola urna di piombo istoriata con simboli magici.

     «Hanno mandato un mostro ad uccidere Christian. Hanno mandato il peggiore, hanno mandato te. E senza un rimorso».

     Cercai di prendere tempo. «Credevi che ti lasciassero fuggire con Christian? Le donne della famiglia Bolyai hanno il compito, da tempo immemorabile, di custodire l'anello che mi imprigiona. Se posso dire, è un assurdo spreco di vite. Io non sono altro che un piccolo demone insignificante».

     «Tre di loro, ad ogni generazione, devono consacrarvi l'esistenza. Non si devono fidanzare. Non si devono legare a nessuno sposo o amante. Devono trascorrere la loro vita nella sterilità e nella solitudine, avendo come compagne solo le altre sventurate. Tu invecchierai in questa bottega, e vedrai altre come te subentrare nel compito, fino a che morirai, senza aver mai saputo veramente perché».

     Zsofìa mi guardò con odio. «Ora ti odio di più, se possibile, Uziel-ha-fazir» disse pronunciando le prime sillabe del mio nome e producendo un fremito nel profondo del mio essere. Purtroppo mancavano le altre millecento sillabe.

     Proseguii, sperando di distrarla e di prendere altro tempo. «Ciascuna delle tre donne deve sorvegliare le altre e impedire che tradisca la consegna. Questo compito è stato affidato alla tua congrega da un congresso di rabbini convocato dal grande Bar-Eleazar di Ninive, all'inizio dell'era cristiana, poco dopo la distruzione del Tempio e la diaspora degli israeliti. Bar-Eleazar era il padre delle prime custodi, e il suo sangue scorre anche nelle tue vene. Così è sempre stato, per suo volere, e nessuno ha osato trasgredire le sue disposizioni o metterle in discussione».

     «E quale importanza può mai avere un miserabile demone come te!» gridò Zsofìa, «uno spirito maligno tra gli spiriti maligni, un mostro proveniente dalle Sfere Esterne, che dovrebbe essere piuttosto rimandato nei suoi tenebrosi luoghi di origine che provocare tanta pena alla nostra famiglia?»

     «La ragione è conosciuta solo dalla padrona Erzsébet e dalla padrona Orsolya. Le due custodi più anziane vengono messe a parte del segreto al compimento del diciottesimo anno di età».

     «E quale mai sarebbe questo segreto?»

     «Questa è la cosa sorprendente, padrona: neanche colui che è controllato dall'anello conosce più questo segreto. Il potere dell'anello cancella la sua memoria». Ma io conoscevo il segreto. Lo conoscevo eccome.

     Zsofìa aprì l'urna e la posò sul bancone della serra. Poi aprì l'altra mano e mi fece vedere l'anello. Un brivido gelido percorse la mia essenza. «Credevi che non sapessi dove era nascosto, e che non fossi in grado di trovarlo Uziel-ha-fazir?»

     «Padrona, non fare niente di cui potresti poi pentirti»

     Si passò brusca il dorso della mano sul viso per asciugare le lacrime. Il suo tono monocorde e spento mi fece raggelare, sembrava provenire da una tomba, da una persona già morta. «Pentirmi? No, Uziel-ha-fazir, non mi pentirò sicuramente di ciò che sto per fare. Quando sarai nell'urna, la getterò nel Danubio, in un punto in cui affonderà profondamente nel limo, e poi mi taglierò le vene dei polsi, e utilizzerò il mio sangue per creare un incantesimo che ti renderà invisibile per sempre, nei secoli e nei millenni».

     Prese l'anello e lo pose nell'urna. Immediatamente sentii un dolore lancinante e la mia essenza fu attirata inesorabilmente verso il recipiente di piombo.

     Le parole mi sfuggirono di bocca. «Aspetta! Aspetta! Io posso rimediare a quanto ho fatto!»

     La padrona, impassibile, cominciò a recitare un incantesimo. La sofferenza divenne intollerabile. Non potevo più tacere. Le altre mi avrebbero inflitto tormenti infinitamente superiori se l'avessero saputo, ma non avevo altra scelta che parlare.

     «Io posso riportarlo in vita!»

     La recita dell'incantesimo si interruppe, ma l'anello rimase nell'urna e la forza di attrazione si fece sempre più intensa. Zsofìa mi guardò. «Hai pochi secondi prima di sparire per sempre nell'urna, Uziel-ha-fazir».

     «Io sono un demone viaggiatore. Posso raggiungere tutti i luoghi degli infiniti universi. Io so dove è andata la sua anima, e so come riportarla indietro»

     Zsofìa tolse l'anello dall'urna. «Fallo».

     Ero comunque in trappola. Sapevo quale sarebbe stata la mia sorte non appena avessi esaudito il suo desiderio. Ma almeno l'avrei ritardata.

     «Per te, benvolentieri, padrona. Ma ho bisogno di tre oggetti: il fiore di quella pianta simile ad un cardo che è lì sul bancone, un oggetto appartenuto a Christian, e la collana con sette pendenti che hai al collo».

     «Cos'ha quella pianta, oltre ad avere spine dappertutto, persino sul fiore, che sembrano volermi pungere ogni volta che la tocco?»

     Non glie lo dissi. «E' un fiore magico, la cui forma ricorda la stella dei venti, destinato ai naviganti, che, masticato, renderà più acuti i miei sensi di demone e il mio orientamento. Quanto al gioiello, essendo appartenuto a te, mi servirà per ritrovare la via del ritorno».

     «La collana la getterei comunque via. Mi è stata regalata da Erzsébet, e non posso tollerarla su di me un istante di più. Ed eccoti un pezzo di fazzoletto appartenuto a Christian. Solo un pezzo: è l'unica cosa che mi rimane di lui. Ma ora pronuncerò il tuo nome, e tu dovrai giurare, per la forza dell'incantesimo che ti lega e dell'anello che ho al dito, che niente di tutto questo mi farà danno, e che riporterai realmente Christian a me, e che ogni azione che compirai sarà a mio vantaggio».

     «Lo giurerò, e giurerò anche che nessuna azione che compirò andrà a danno delle tue zie».

     Mi guardò freddamente. «No, questo non è necessario, Uziel-ha-fazir». Così, feci il giuramento che mi era stato richiesto. E subito lei iniziò a pronunciare le sillabe del mio nome. Mezz'ora dopo ero libero dalle mie catene, e di portare finalmente a termine il piano che avevo concepito con torva pazienza nei lunghi secoli del mio imprigionamento.

     Il luogo che dovevo raggiungere si trovava al centro di un labirinto infinito di prismi di cristallo che distorcevano in modi impossibili da spiegare la luce buia di un sole morente, costituita dalle invisibili radiazioni letali del suo collasso gravitazionale.  La rifrazione dei prismi abbagliava e confondeva gli organi sensori di qualsiasi specie vivente, accecando e intrappolando inesorabilmente il malcapitato come una maligna pianta carnivora.

     Si trovava in un universo così remoto che avrei impiegato milioni di anni del mio tempo soggettivo per raggiungerlo – non più di un'ora in termini di tempo umano. Ma l'avrei comunque fatto: questo dà la misura dell'odio e della sete di vendetta di una creatura delle tenebre. Oltre a ciò, avevo una missione da compiere e un padrone da servire, di cui dirò più avanti. Così, dopo essere penetrato in una baita sulle montagne, e aver divorato tutti esseri viventi che vi trovai, partii. Non avrei più mangiato fino alla fine del viaggio.

     Zsofìa ritornò nella bottega, si mise a sedere nella grande poltrona che guardava l'ingresso, ed attese, torcendosi le mani. Passò un'ora, il tempo indicato da Uziel. Ne passarono due. Cosa stava succedendo? Qualcosa era andato storto? In quella, Orsolya discese le scale immerse nella semioscurità e la chiamò. «Zsofìa? Zsofìa? Dobbiamo parlare».

     Ovviamente tutto ciò che ottenne fu il silenzio. «Dov'è Uziel, Zsofìa?» La voce della donna aveva una nota di allarme. Scorse la figuretta della nipote i cui occhi la fissavano brillanti nell'ombra. In quel momento dei colpi fortissimi cominciarono ad essere battuti alla porta del negozio. Sebbene fosse una porta magica, capace di resistere a qualsiasi attacco umano, tale era la loro potenza che la casa vibrava come un tamburo. Erzsébet arrivò di corsa. Un terribile odore di putrefazione filtrò nel negozio.

     Lo sguardo di Erzsébet abbracciò d'un colpo la scena, cogliendone tutti i dettagli: l'anello al dito della nipote, la collana mancante, il fazzoletto di Christian che stringeva in mano.

     «Pazza! Sai chi hai fatto venire? Sai com'è ridotto ora il tuo Christian là fuori? Non si fanno patti con demoni come Uziel!» I colpi ripresero, come se la cosa putrefatta all'esterno della casa fosse presa da una crescente frenesia di entrare.

     Poi cessarono improvvisamente. La porta si aprì da sola e le due donne si strinsero istintivamente l'una all'altra. Entrò Uziel. Il suo aspetto era cambiato. Portava un turbante e l'abbigliamento del viaggiatore del deserto. Il suo volto aveva le fattezze aquiline e segnate di un vecchio beduino, solcate dalle tracce di infinite intemperie, di venti e polveri cosmiche che soffiano in luoghi che non si possono descrivere.

     Porse la collana a Zsofìa. «Ti restituisco la collana. Indossala».

     Le due donne si precipitarono verso di lui, ma con un movimento fluido di serpe, Uziel si sottrasse alle unghie che volevano graffiargli la faccia ed allacciò la collana al collo della ragazzina.

     Erzsébet e Orsolya erano ora immobili, livide. I colpi all'esterno cessarono. Nel silenzio, Uziel-ha-fazir parlò, ignorandole e rivolgendosi, con tono di grande rispetto a Zsofìa. Sul volto della bimba, nel momento in cui le era stata restituita la collana, si era dipinta un'espressione di infinito stupore.

     «Tu non sei umana, Zsofìa Bolyai. Sei una creatura soprannaturale adottata dagli umani, un lupo tolto dalla cucciolata, allevato in una casa, indotto a dimenticare la sua natura selvaggia e a mordere i suoi simili, al servizio dei padroni umani». Ora le due donne piangevano.

     «L'anello serve a controllare colui che ti aveva rubato la memoria ed è in grado di andarla a riprendere, al centro del labirinto, in un universo remoto e nascosto. Me, Uziel-ha-fazir». Zsofìa taceva, ascoltava con aria affascinata le parole del demone.

     «Non volete rivelarle il suo nome, padrone? Dopotutto ne ha diritto. E' stata privata della sua identità per tutto questo tempo. Per tutto il tempo a partire dalla morte del Rabbino, lei è sempre stata qui, è sempre vissuta con le sue custodi, credendosi loro nipote, credendo che sarebbe divenuta adulta, perché la sua memoria era stata magicamente manipolata e le erano stati inseriti dei ricordi estranei».

     «I sette pendenti della collana sono fatti di un cristallo indistruttibile, un veicolo capace di fare da ricettacolo alle memorie rubate e proteggerle fino a destinazione. Sono i cristalli in cui riposi le sette facce della tua mente, con cui feci il primo viaggio, riportandolo indietro vuoto. Per ottenere che il labirinto lasciasse libero il tuo spirito era necessaria una goccia del tuo sangue. Il sangue che avevi lasciato sul fiore spinoso quando ti ha punto».

     «Quanto al fazzoletto di Christian, ha reso più facile il viaggio, facendo da faro, ma non era necessario. Quel che era stato necessario fu invece rendere perfetta la sua memoria in modo che, nel momento in cui lo uccisi, inviai la sua anima nel labirinto, soffiando nella sua mente, col mio alito ardente, la figura infinitamente complicata della mappa che gli avrebbe consentito di giungervi».

     «Gli ordinai di andare lì e di aspettare, se voleva avere una speranza di essere liberato. Così che ho potuto giurare in perfetta buona fede, senza che l'anello potesse bloccarmi, che sarei andato a riprendere Christian. Ebbene, l'ho ripreso, ma penso che ora tu abbia cose più importanti da fare, Mio Signore».

     «Perché, vedi, il tuo vero nome è Mashkhith, Lo Sterminatore»

     Il volto della ragazzina stava cambiando, i tratti femminili stavano divenendo androgini, di una bellezza quasi impossibile a contemplarsi, impassibile e terribile.

     «Tu sei l'Angelo del Castigo. Gli uomini ti chiamano con molti nomi: il Crudele Emissario, il Furore del Re, il Messaggero di Morte, il Portatore dei Flagelli, il Terrore di Isacco».

     «Sei colui che ha massacrato i primogeniti di Egitto. Che ha sparso la peste su Gerusalemme per il peccato di Davide. Che Ezechiele vide camminare per le strade della Città santa uccidendo gli idolatri. Colui che uscì nottetempo per annientare il campo degli Assiri lasciando al mattino immensi cumuli di cadaveri.»

     «Sei colui che nell'Apocalisse si manifesta all'apertura del settimo sigillo, il primo dei sette angeli destinati a flagellare la Terra. Quello destinato ad iniziare la stagione della vendemmia, colui che si scioglierà i capelli e pigerà nel tino il vino del castigo».

     «Tu non sei della razza dell'uomo, ma della razza del lupo, del leone, dell'aquila, dei potenti animali da preda. Getta il tuo travestimento. Segui la tua natura».

     «Nel momento della morte di suo figlio ad opera degli uomini, Dio evocò dinanzi a sé lo Sterminatore per eseguire l'opera della sua vendetta ed annientare la Terra e l'umanità con essa».

     «Il Rabbino Bar-Eleazar era immensamente sapiente e potente. Ma era anche immensamente pio e devoto. Digiunò quattro volte quaranta giorni in una grotta, e, in fin di vita, pregò l'Onnipotente di lasciargli fare un tentativo di salvare il mondo. L'Onnipotente fu impietosito dal suo digiuno e dalla sua devozione. Quanto chiedeva gli fu concesso. Dio avrebbe atteso e osservato il comportamento dell'Umanità».

     «Eleazar aveva al dito l'anello che mi imprigionava, ereditato da generazioni di maghi. Conosceva i miei poteri, che erano unici. Mi ordinò di rubarti i ricordi e di nasconderli in un luogo così remoto che persino tu non saresti stato in grado di accedervi. Poi incaricò due donne della sua stirpe, ad ogni generazione, di custodire l'anello. Finché io fossi stato legato dal suo incantesimo, non avrei potuto risvegliarti, e la fine del mondo sarebbe stata rimandata».

     «Ma Bar-Eleazar era un asceta, che non conosceva bene le femmine. Non sapeva che è impossibile farle andare d'accordo a lungo. Per millenni, poi!». Il demone sghignazzò, il suo cachinno simile a un lungo ululato.

     «Il suo sforzo è stato vano. Il richiamo di Mashkhith giungerà ai suoi sei compagni. Essi si risveglieranno. Arriveranno dai sei punti estremi dell'Universo, dall'alto e dal basso, da settentrione e da mezzogiorno, da oriente e da occidente. Vendemmieranno col sangue dei peccatori e degli innocenti, degli uomini e delle donne, dei vecchi e dei bambini, dei nobili e dei vagabondi. Porranno fine a questo Eone, così che le anime siano tutte liberate dall'inferno della materia e possano raggiungere, quali di esse la luce, quali la tenebra».

     La fisionomia di Uziel stava mutando. Il suo volto iniziò a divenire nero e lucente come ossidiana. Protuberanze cornee spaccarono la sua pelle umana e lacerarono gli abiti. La sua figura si allungò. I suoi denti scintillavano nell'ombra. Si avvicinò a Erzsébet e Orsolya. «Permettimi, Signore, di iniziare il Banchetto».