IL PENSIERO DI JULIUS EVOLA

 

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INDICE

 

1. sul "neo-umanismo"

2. rivoluzione dall'alto

3. l'avvento del "quinto stato"

5. giovinezza biologica e giovinezza politica

6. il problema della decadenza

7. inversione dei simboli

8. il morso della tarantola

9. roma e i libri sibillini

10. orientamenti sulla massoneria

11. il tramonto dell'oriente

12. dioniso e la "via della mano sinistra"

13. il mito della regalità futura

14. quo vadis, ecclesia?

15. l' "amore del lontano"

16. la fisima della magia

17. note sui misteri di mithra

18. sulla "via della mano sinistra"

19. senso e clima dello zen

20. prospettive dell'aldilà

21. il doppio volto dell'epicureismo

22. volti e poltiglia

23. l'occidente ha una sua idea?

24. al "muro del tempo"

25. la potenza e l'infantilismo

26. giuliano imperatore

27. metternich

28. donoso cortés

29. il fenomeno henry miller

30. vilfredo pareto, anticonformista e antidemocratico

31. joseph de maistre

32. papini

33. carlo michelstaedter

34. il caso di giovanni gentile

35. rené guénon e il "tradizionalismo integrale"

36. cultura e libertà

37. la destra e la cultura

38. prospettive della cultura di destra

39. storiografia di destra

40. la destra e la tradizione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

sul "neo-umanismo"

 

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Preso in un senso ampliato, il termine «umanismo» è forse il più atto a caratterizzare l'orientamento principale e il fondo ultimo della civiltà dell'èra moderna. Infatti come umanismo si può designare, in genere, quello spostamento per via del quale dell'uomo in quanto tale è stato fatto il centro della visione della vita, dell'attività e del sistema dei valori. Si sa che in Occidente tale orientamento ha preso inizio nel periodo della Rinascenza, associandosi ai primi spunti di una scienza profana della natura, alla prorompenza di un genere speciale della creatività artistica, a mutamenti del costume e ad una particolare linea di studi rifacentisi all'antichità, la parola generale d'ordine usata a tale riguardo essendo il superamento dell'oscuro Medioevo, la rivelazione della vita, la scoperta dell'Uomo e della sua «dignità» e «libertà », l'aperturà delle vie verso il dominio del mondo.

Considerando il suo aspetto più precipuo vale, per tutto questo movimento, ciò che ebbe a dire René Guénon: l'uomo si è staccato dal cielo con la scusa di conquistare la terra. In termini più concreti si può dire che il mutamento è consistito nello spostamento del centro dell'essere da quella che nell'uomo rappresenta la dimensione della trascendenza a ciò che è puramente umano, in uno sviluppo unilaterale, anormale e alla fine teratologico di questo ultimo aspetto, a scapito del primo, fino a determinarne l'atrofia e la tacitazione: laddove proprio tale aspetto - la dimensione della trascendenza - stava a caratterizzare la vera dignità dell'uomo.

Solamente come un fenomeno particolare in un insieme più vasto, va considerato l'umanismo nel senso corrente del termine, I'umanismo definito come una linea di studi riferentisi all'arte e alle lettere dell'antichità. A tale riguardo devesi però rilevare l'aspetto «a tendenza» di tali studi: l'antichità che si ebbe particolarmente in vista fu quella che più o meno apparve congeniale col nuovo clima; gli aspetti sacrali e metafisici dell'antichità, i contenuti simbolici e evocatori «non umani» presenti anche in molte opere dell'arte antica vennero più o meno trascurati; una ripresa o « riscoperta » di quanto nell'antichità poté avere il significato di una varietà di quella che, in genere, si può chiamare la visione « tradizionale» del mondo, può considerarsi inesistente nell'umanesimo erudito del periodo della Rinascenza. In esso cominciarono piuttosto a delinearsi gli ideali di una semplice «cultura» la quale per un certo tempo si associò all'idea di una « formazione della personalità », che in questi termini non poteva evidentemente riferirsi che ad un dominio parziale o periferico.

È su questo piano della « cultura» e della « personalità umana» che qualche secolo dopo si doveva avere un rilancio dell'« umanesimo » nei termini del cosidetto neo-umanesimo difeso da Wilhelm von Humboldt e da altri. E qui si è presentata una situazione assai caratteristica. Per una naturale concatenazione di cause e di effetti, colui che si « era staccato dai cieli con la scusa di conquistare la terra» doveva finire col pagare lo scotto della sua conquista via via che dalla nuova scienza profana della natura presero forma la tecnica e l'industrializzazione, con l'asservimento dell'uomo al lavoro produttivo presso al declino dell'artigianato tradizionale. In uno dei suoi aspetti precipui qui il neo-umanesimo ora accennato è stato un tentativo di reazione contro questo rivolgimento: esso difese i valori della «cultura» pura quale fondamento della formazione della personalità contro le prime invadenze del mondo del lavoro. E le esigenze da esso formulate in tal senso continuarono ad essere affermate da coloro che hanno considerato la civiltà nuova non come una Kultur ma come una Zivilisation - termini tedeschi usati dallo Spengler per caratterizzare l'opposizione ad un tipo spurio e materiale di civiltà, ritenuto deleterio per i valori della personalità e dello spirito. Purtroppo di rado per tali valori ci si seppe riferire a qualcosa di più - appunto - del semplice mondo della « cultura » e di un «pensiero» il cui limite estremo fu visto nella speculazione filosofica. Lettere, pensiero e filosofia opposti a scienza naturale, tecnica e industrialismo - tale è stata la posizione del neo-umanesimo.

Posizione abbastanza labile e precaria di fronte alle correnti obbedienti al cosidetto « senso della storia », il quale altro non ha significato che il realizzarsi, con un ritmo accelerato, di un completo « terre strizzar si » dell'uomo e la liquidazione di ciò che può ancora valere residualmente come personalità di fronte al collettivo e al « sociale », allo standardizzato, all'uniformisticamente unificato. Già nel campo neo-umanistico si doveva, del resto, verificare una defezione. In Germania, come « umanismo classico» venendo inteso quello difeso da un von Humboldt, ad esso è stato contrapposto un neo-umanesimo da scrittori e pedagogisti, quali ad esempio T. Litt e E. Spranger, i quali con argomenti speciosi hanno cercato di eliminare l'antitesi affermata all'urnanismo humboldtiano e di dimostrare che l'applicarsi alla natura, l'inserirsi dell'uomo nel mondo moderno del lavoro e della tecnica, l'addestramento tecnico-professionale e via dicendo sono tanti mezzi per una formazione « aggiornata» della vera personalità. Ma queste in fondo non sono state che fievoli voci rispetto alle forme più sfacciate e concrete della ideologia maggiormente conforme al « senso della storia ». Il termine « umanismo », in piena conformità al senso ampliato ad esso dato all'inizio di queste note, è stato ripreso dal marxismo e dal comunismo sovietico, i quali hanno preteso di rappresentare e di realizzare 1'« umanesimo integrale », il «nuovo umanesimo », stigmatizzando nei termini di una forma parassitaria e di una oziosa divagazione borghese e individualistica tutto ciò a cui il precedente «umanismo aristocratico della cultura» poteva rifarsi. L'« umanesimo del lavoro» è un'altra formula dei nostri giorni, indicativa del livello in cui han finito con lo scendere le esigenze di coloro che avevano preteso di celebrare la « scoperta dell'uomo », la sua dignità, 1'« infinità» del suo spirito: tutta retorica a cui è dunque subentrato il culto dell'uomo collettivizzato, animale di lavoro. Davvero, vi è di che far sorridere gli Olimpici, se essi ancora si curassero di dare uno sguardo alle vicende dei mortali ...

Manifestazioni dello stesso orientamento purtroppo non sono mancate nella stessa Italia, ad opera di alcuni intellettuali di casa nostra.

Per dare un senso del piano in cui essi si muovono, vogliamo riferirci ad un libro capitatoci fra le mani di Ugo Spirito, e il cui titolo è - appunto - Nuovo Umanesimo. Ugo Spirito è una vecchia conoscenza, già seguace dell'« attualismo» gentiliano. Successivamente lo Spirito si era discostato alquanto dal Maestro per quel che riguarda soprattutto alcune sue applicazioni politico-sociali della dottrina, le quali già preannunciavano la successiva « apertura a sinistra» di essa. Infatti fu lo Spirito insieme ad Arnaldo Volpicelli che al Convegno di Studi Corporativi tenutosi a Ferrara nel 1932 difese una interpretazione comunisticheggiante del corporativismo fascista (la «corporazione proprietaria» statizzata) riflettente la tesi, che il comunismo sarebbe soltanto un « corporativismo impaziente », un .corporativismo che va troppo in fretta, il che stava a significare che di differenze sostanziali non ve ne erano, che in fondo si trattava soltanto di diversi tempi o di diverse tecniche per la realizzazione dello stesso obiettivo: tesi, questa, che provocò violente reazioni da parte di coloro che avevano un senso delle superiori valenze del movimento fascista (ci ricordiamo di un ottimo libretto polemico di Guido Cavallucci: Il fascismo sta sulla via di Mosca?).

Gli sviluppi successivi dovevano mostrare però che a tale riguardo il discepolo precorreva il Maestro perché nel periodo successivo lo stesso Gentile doveva seguire una analoga linea sinistrorsa bandendo un cosidetto « umanesimo del lavoro » di là dal precedente «umanesimo della cultura », giudicato ormai inadeguato e sorpassato.

A questo proposito nel campo ideologico si poté osservare una curiosa inversione degli atteggiamenti dei «due fratelli della discordia », esponenti del neo-hegelianismo italiano, di Croce e di Gentile. Partendo da un liberalismo di destra, Croce, dopo alcuni primi studi su queste ideologie, mantenne un atteggiamento costantemente negativo rispetto a marxismo e a comunismo. Se egli fin( con lo schierarsi contro il fascismo, ciò fu dovuto più alla sua equazione personale che non ad una vera coerenza con le sue teorie originarie, secondo le quali la categoria della politica veniva nettamente staccata da quella dell'etica, tanto che Croce aveva riconoscluto il diritto di uno « Stato forte », aveva respinto ogni « astratto morali Imo ,. in politica, aveva ironizzato sulla «Dea Giustizia» e la "Dea Umanità"; subito dopo la prima guerra mondiale si era schierato contro le forze della sovversione riconoscendo che non era con le discussioni che si poteva venire a capo di esse. La carenza dell'autorità dello Stato a tale riguardo fu da Croce, a quel tempo, stigmatizzata, come lo fece il fascismo della prima ora. Poi Croce scopri che il « senso della storia» (il famoso « senso della storia» a tutto fare) stava nel segno di una libertà che non si accordava con quella che il fascismo-regime poteva ammettere e passò ad una decisa opposizione antifascista.

Senonché in Croce, come in Gentile, si ebbe una incongruenza - dovuta, di nuovo, ad un semplice fattore personale - rispetto alla premessa dottrinale comune ad entrambi quali « storicisti assoluti ». Infatti lo storicismo assoluto nega ogni differenza fra 1'« essere» e il «dover essere», il che equivale a dire che esso in ciò che riesce a realizzarsi storicamente vede la misura di tutto ciò che è giusto, razionale, che ha diritto ad essere. A tale stregua, Croce avrebbe dovuto riconoscere il fascismo, dato che esso aveva vinto la partita, e relegare fra le fisime di ciò che codesti filosofi chiamano la «volontà astratta », 1'« astratto moralismo », ogni atteggiamento di velleitaria opposizione. Gentile, staccandosi da Croce e aderendo al fascismo vittorioso, fu più coerente, almeno nel ventennio, ma non dopo: quando il corso della seconda guerra mondiale provocò la crisi del fascismo e apparve che esso era ormai irrimediabilmente la parte perdente, che il «senso della storia» si era spostato dalla parte opposta, da quella degli Alleati, perché essi vincevano, Gentile, in quanto storicista assoluto, avrebbe dovuto cambiar bandiera. Invece, nobilmente, non lo fece e ciò gli costò la vita. Però, prima, quasi presentendo gli ulteriori svio luppi del «senso della storia », bandi l'anzidetto « umanesimo del lavoro » nel suo libro « Genesi e struttura della società» (1943), circa il quale ecco che dice il suo discepolo, Ugo Spirito: «Forse è il suo libro piu bello... in cui tutta la speculazione di Gentile si raccoglie in forma di esigenza avveniristica. È il libro in cui è teorizzato quello che può senz' altro definirsi il comunismo di Giovanni Gentile [sic - il corsivo è dello Spirito J. Il comunismo, infatti, gli apparve come il regime dell'avvenire [sic], un regime che non si può raggiungere, secondo lui, attraverso una rivoluzione immediata ma che, sia pure attraverso una lenta evoluzione, deve rappresentare il fine da realizzare» - il che corrisponde esattamente alla subdola tattica usata, tenendo fermo l'obiettivo strategico finale, dai comunisti nei paesi ancora democratici, e in prima linea in Italia, essendo assecondati da politicanti ebeti e irresponsabili.

Questo è il quadro in cui nel libro dello Spirito prendeva forma il « nuovo umanesimo » rivoluzionario che sarebbe anche un umanesimo « scientifico », liquidatore di quello culturale e individualistlco di origine rinascimentale e poi anche ottocentesco.

Ma torniamo allo Spirito per vedere più da presso in che consisterebbe l'auspicato nuovo umanesimo, a parte il suo orientamento comunista o comunisteggiante. A dire il vero, il suo libro è composto di scritti sparsi usciti già altrove, dei quali solamente un paio ha una vera attinenza col tema.

Orbene, viene di nuovo ripresa la problematica che si lega all'antitesi fra filosofia e scienza, antitesi che avrebbe dato origine «al concetto tradizionale di cultura ». Ma già questo punto di partenza è inficiato dal fatto che si prendono le mosse da due termini i quali altro non sono che i prodotti di un processo .il dissociazione e di degradazione rispetto a qualcosa di anteriore e di superiore ad entrambi.

Come tali debbono infatti considerarsi da un lato la semplice speculazione filosofica priva di radici, opera della mera ragione umana divenuta estrema istanza a se stessa, dall'altro quel conoscere che riguarda unicamente il mondo dei fenomeni quali si presentano nell'esperienza sensoriale e quali vengono ordinati dalla scienza di tipo moderno, che ha imposto la credenza che nessun'altra forma di conoscere sia possibile e concepibile.

A dire il vero, lo Spirito fa cenno « ad una terza forma di sapere che ha preceduto lo stesso sapere filosofico prima ancora di quello scientifico », ma non si tratta che di un accenno fuggevole e irrilevante, ed egli a tale riguardo non sa riferirsi che alla « religione» quale viene volgarmente concepita, come un semplice sistema di fede che il dubbio doveva attaccare, per cui la fase successiva sarebbe stata appunto la filosofia e la «metafisica» (nel senso degradato dato dalla filosofia corrente a tale termine). In realtà, li vero punto di riferimento avrebbe dovuto essere costituito da quel che ~ stato proprio alle civiltà che noi sogliamo chiamare "tradizionali". nelle quali non si trattava di semplice religione, fede o devozione ma nelle quali una unica forza formatrice, in un certo modo trascendente, era in atto nei vari domini della conoscenza, dell'azione e della esistenza umana, dando luogo ad un ordine generale e onnicomprensivo organico e gerarchico.

Ma la problematica considerata da Ugo Spirito, non avendo un qualche senso di tali orizzonti, risulta del tutto sfasata e la via congenialmente scelta per venirne a capo porta sempre più in basso. Infatti in ultima analisi la soluzione dell'antitesi fra pensiero filosofico e scienza viene conseguita con la soppressione virtuale del primo termine. Lo Spirito, il quale era già convinto che nella filosofia «attualistica» gentiliana si «riassume tutta la storia del pensiero occidentale» (!!!), ora fa uno scrutinio negativo di ciò che presenta il pensiero filosofico contemporaneo: non vi si trovano, secondo lui, che «filosofie spurie ». In ciò, in parte, ha ragione, anche se gli sfuggono alcuni spunti positivi che, da uno speciale punto di vista, non semplicemente filosofico, presentano l'esistenzialismo e la cosidetta «fenomenologia ». Ma, nel complesso, oggi si può effettivamente parlare di un processo interno di autodissoluzione della filosofia, lasciata indietro da altri orientamenti e da altri interessi dell'uomo moderno, allo stesso modo che appare essere abbastanza scontato il semplice ideale dell'umanesimo culturale da letterati.

Poi lo Spirito riprende un vecchio argomento (usato già da Kant per giustificare l'assunto della sua filosofia critica), cioè la molteplice discordante varietà dei sistemi filosofici in palese antitesi rispetto all'univocità, al consenso generale e alla certezza che esisterebbero nel campo scientifico. Cosi la situazione appare critica, per un doppio riguardo: se non si deve finire in una pura negazione, se si riconosce, in via di principio, l'insopprimibilità di una esigenza metafisica, altra via non vi sarebbe fuor di cercare una sua soddisfazione nell'ambito della scienza. In secondo luogo, vi è chi ammette che «per quanto grande sia il mondo della scienza e della tecnica, al di sopra di esso esiste un altro mondo che è propriamente il mondo dei valori, in relazione al quale la scienza non può servire che come strumento, come mezzo pel raggiungimento di ideali che non sono della stessa scienza », Ebbene, anche questa posizione deve essere superata, si dovrebbe mostrare che il mondo della scienza e della tecnica ha già valenze d'ordine etico e spirituale.

Lo Spirito crede di poter venire a capo sia del primo che del secondo punto, per cui il suo nuovo umanesimo va ad assumere caratteri apertamente scientisti.

Pel primo punto, lo Spirito viene a dirci che non c'è bisogno di cercare una sintesi fra «metafisica» e scienza moderna perché la scienza moderna contiene già una metafisica. Quale sarebbe tale metafisica? Non già quella corrispondente a certe velleità speculative estemporanee di alcuni veri scienziati di oggi i quali, effettivamente, appena escono dal loro dominio specialistico, sanno dar prova soltanto di una commovente ingenuità e sprovvedutezza. Essa consisterebbe in ciò, che lo scienziato, dopo essersi saldamente stabilito sul terreno dei «fatti », della «realtà », crede a priori nella intelligibilità di essa e elaborando la conoscenza scientifica, con le sue leggi e i suoi determinismi, dimostra la « razionalità del reale », SI che nella scienza troverebbe «la sua formulazione e la sua realizzazione effettiva la metafisica immanentistica hegeliana» (per intenderei, quella del famoso principio « Tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale»). Ora, ciò significa ignorare del tutto i principi della epistemologia scientifica, la natura sia dei procedimenti che delle «conoscenze» della scienza di tipo moderno. Dopo il fallimento delle cosidette «filosofie della natura» dello Schelling e dello stesso Hegel (a cui tuttavia si deve riconoscere almeno il merito di aver visto il vero compito), in tutto ciò che è stato raccolto dalla scienza moderna, di «razionalità» non è affatto il caso di parlare, a meno di distorcere completamente il senso della parola « razionalità »,

Come primo punto, tutti i procedimenti scientifici, anche i più astratti e teoretici, hanno un carattere pratico e pragmatico, e sembra che lo Spirito non abbia alcun sospetto di quel che già da tempo è stato scritto non da critici estemporanei della scienza ma da competenti in questo campo, a partire dal Poincaré, dal Duheim, dal Brunschwicgs, dal Meyerson ecc., per giungere ai più . moderni, fino allo stesso Heisenberg. A prescindere che quella che è stata giustamente chiamata « la superstizione scientifica del fatto» è stata ormai superata, la scienza può dimostrare non la «razionalità» dei fenomeni naturali ma semplicemente la loro «matematizzabilità », ossia la loro suscettibilità ad essere ordinati usando formule matematiche, sempreché - e questo è importante - di essi si considerino unicamente certi aspetti che a ciò si prestano e se ne trascurino altri (ad esempio, le cosidette «qualità secon-

de»). Il sistema della scienza moderna ha un mero carattere « ipotetico-deduttivo », comporta una progressiva unificazione delle relazioni, ma presupponendo alcuni dati che restano assolutamente impenetrabili, che vengono semplicemente constatati e registrati. Se si prende una qualsiasi formula delle scienze della natura - fino alla famosa equazione einsteiniana riguardante la materia e l'energia, o la legge della produzione discontinua dei «quanti» -, si può sempre chiedere: perché cOSI, e non altrimenti? - e lo scienziato non può rispondere nulla, ci si trova di fronte all'irrazionale, a qualcosa di puramente «dato »,

Croce aveva ogni ragione di chiamare «pseudoconcetti» i concetti scientifici: essi non hanno nessun carattere «noetico », cioè conoscitivo, sono puri strumenti pratici, «ipotesi di lavoro », e l'onestà scientifica consiste nell'esser pronti ad abbandonarli e a cambiarli non appena interviene, come guastafeste, un qualche fenomeno non osservato o non bene osservato, l'unico scopo essendo ia massima presa pratica (sperimentale e tecnica) sulla realtà fenomenica. In genere, anche uno studente delle medie sa poi che a tutte le leggi della scienza viene attribuito un mero carattere «statistico »; esse hanno dunque solo un carattere di «probabilità », si definiscono in base all'assommarsi quantitativo di fenomeni più o meno costanti, e non a nessi logici e razionali - a tacere delle più recenti teorie sulla « improbabilità» formulate nel corso delle ricerche che hanno cercato di penetrare fin negli strati più profondi della « realtà ». È chiaro perciò che non c'è nessuna «metafisica» nella scienza moderna.

Tutto ciò, per quel che riguarda le scienze della natura in senso proprio. Circa poi l'affermazione dello Spirito, che in particolare il «conosci te stesso» delfico ormai «si converte nella conoscenza di un soggetto divenuto oggetto di ricerca scientifica », per cui non ci si dovrebbe più rivolgere al maestro spirituale, a colui che avviava verso il mondo della contemplazione, della gnosi o dell'alta ascesi, bensi al fisiologo, al neurologo, al biologo, allo psicanalista e via dicendo, non solo, ma che nel quadro del nuovo umanesimo questa conoscenza di sé già affidata ad un centro sacro e iniziatico sarebbe non più un compito individuale ma qualcosa di collettivo, dato il carattere sempre più collettivo delle ricerche scientifiche moderne - su ciò, crediamo, ogni commento guasterebbe. Rileviamo soltanto che l'uomo che, come dicemmo all'inizio di questo scritto, si è sforzato di tacitare e oscurare sistematicamente la dimensione della trascendenza, dell'« essere» in lui gettandosi nella «storia» e nel «progresso», si sta riducendo davvero, in; moltissimi casi, ad un essere per la conoscenza adeguata e esclusiva del quale sono competenti tutte le scienze profane indicate dallo Spirito.

Quanto all'ultimo punto, ossia alle prospettive nelle quali il mondo di scienza e tecnica non sarebbe quello di mezzi materiali ordinati a istanze trascendenti la scienza, ma soddisfarebbero anche l'esigenza etica e spirituale, darebbero una soluzione al problema dei fini, ecco che cosa udiamo dire dall'apostolo del nuovo umanesimo: « ideologie politiche, religioni, filosofie diverse hanno finora diviso gli uomini e i popoli, ponendoli gli uni contro gli altri. Scienza e tecnica, al contrario, vanno instaurando dappertutto unità e consenso ». In più, i mezzi nuovi di comunicazione, la velocità, stampa, radio, televisione, cinema e cosi via portano fuori da mondi chiusi unificano sempre più le menti e i costumi, ampliano gli orizzonti:

Si va cosi verso l'unità e l'unitarietà - e questo sarebbe il potenziale etico e il messaggio di scienza e tecnica, indicatrici di un superiore ideale umano. Anche qui, l'equivoco non potrebbe essere maggiore, e vi è da restare stupefatti. Ciò che hanno portato scienza e tecnica è solamente una unificazione esteriore, la quale ha avuto per controparte uno svuotamento interno, uno sradicamento, l'attacco contro tutto quel che è qualità, vera differenza e personalità, la standardizzazione, il mondo della quantità e delle masse dal quale esula sempre più ogni interesse superiore presso a tutte le facilities moderne e tutti gli anestetici e gli stupefacenti fabbricati per nascondere all'individuo di oggi il vuoto, la mancanza di ogni senso vero dell'esistenza. È la completa inversione dell'ideale vero, tradizionale, dell'umanità, l'unità non essendo distruttiva solo se realizzata al vertice, gerarchicamente, presso a ben determinate articolazioni e differenziazioni. E lo Spirito riprende le viete utopie scientiste ottocentesche attribuendo alla scienza il potere di eliminare ogni motivazione più profonda, superiore oppure inferiore, irrazionale o demonica che sia, dell'attività umana, di portare ad uno stato in cui tutti sono in armonia e in collaborazione come si pretende che lo siano gli scienziati. Ciò, peraltro, non sarà mai possibile senza un «lavaggio» in grande stile delle menti e degli animi, cosa in cui in fondo conviene lo stesso Spirito quando

dice che se vi sono ostacoli per la realizzazione .di quel che egli ritiene la condizione ideale, se non si ha ancora «la possibilità di credere a questo domani », « la ragione non la cercheremo certamente nel mondo della scienza ma nel mondo della politica, della religione, della metafisica», là dove sussistono «contrapposizioni di tradizioni, di storia, di mentalità». Dunque, come logica inferenza, tabula rasa, via con tutto ciò.

Ecco, dunque, gli orizzonti del nuovo umanesimo di cui lo Spirito vorrebbe gratificarci: «umanesimo del lavoro» con in piti scientismo, livellamento generale, unificazione svuotata e grigia dell'umanità. Non c'è che dire, la conformità al «senso della storia» di chi fu fervente adepto di quell'« attualismo» che celebrava 1'« indomabile creatività dello spirito assoluto» è perfetta. Pour la bonne bouche, finiremo con queste due citazioni testuali dal libro in quistione: «Soprattutto al di là della cortina di ferro e in particolare nell' esperienza cinese, quasi del tutto libera dalle tradizioni occidentali, possiamo già vedere i segni precursori della società di domani». «A questo nuovo ideale umanistico vanno informati l'educazione e gli ordinamenti scolastici del futuro ».

 

 

 

2. rivoluzione dall'alto

 

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Una carattenstica generale dei tempi ultimi è l'urgenza, la spinta e l'azione di rottura esercitata partendo dal basso, e in funzione del basso, sulle strutture esistenti: il che corrisponde al solo significato proprio e legittimo del termine «sovversione ».

Questa situazione ha per evidente presupposto la crisi dell'insieme delle strutture di cui si tratta: siano esse strutture politicosociali che culturali e intellettuali. Cosi essa si accompagna ad un processo contro il mondo moderno, la società borghese e il capitalismo, contro un ordine ridottosi ad essere un disordine esteriormente frenato, contro forme di esistenza divenute prive di ogni significato superiore, disumanizzanti, creatrici - per usare un termine ormai abusato - di « alienazioni ».

La rivolta contro tutti questi aspetti di una civiltà problematica può essere legittima. Ma ciò che caratterizza i tempi ultimi è la carenza di ogni azione rettificatrice, liberatrice o restauratrice dall'alto: è il fatto che si permette che l'iniziativa e l'azione, spesso necessaria, di rottura, avvengano appunto partendo dal basso: dal basso, inteso sia con riferimento a strati sociali inferiori, sia a valori inferiori. Cosi la conseguenza quasi inevitabile è lo spostarsi del centro di gravità verso un livello che sta ancor più giù di quello delle strutture entrate in crisi e divenute quasi prive di ogni contenuto vitale.

Nel campo politico-sociale il fenomeno presenta forme cOSI precise che è quasi superfluo soffermarvisi. Nessuno è cosi miope da non capire, ormai, che cosa voglia propriamente dire per esempio la famosa « giustizia sociale ». Essa non è per nulla la vera giustizia, quella distributiva del suum cuique, basata su di un principio di diseguaglianza e già difesa dai classici, partendo da un Aristotile e da un Cicerone. È invece una pseudo-giustizia partigiana, esclusivamente al servigio degli interessi dei ceti più bassi, dei cosidetti «lavoratori », a scapito degli altri, nel segno di miti che servono solo a spianare a poco a poco la via alla scalata dello Stato da parte delle forze di sinistra.

Contro questa azione - ormai organizzatissima e quasi marginabile, che parte dal basso, e che si lega alla fandonia che solo nei bassi ceti si potrebbe trovare l'uomo naturale, sano, generoso, ecc. e che quindi il fine ultimo del movimento sovversivo sarebbe anche un nuovo, effettivo « umanismo » - contro tale azione non vi è quasi chi sia capace di reagire con energia. E il principio della reazione dovrebbe essere questo: che si possono denunciare gli errori, i difetti e le degenerazioni di un sistema, si può essere, ad esempio, decisamente contro la borghesia e contro il capitalismo, però partendo da un piano situato al disopra e non al disotto di esso, in nome non dei valori «proletari », cosidetti «sociali» o collettivistici, bensf di quelli aristocratici, qualitativi e spirituali: i quali valori potrebbero dar luogo ad un'azione rettificatrice perfino più radicale, qualora si trovassero uomini veramente alla loro altezza, muniti di sufficiente autorità e potere, tanto da prevenire o stroncare con una rivoluzione dall' alto qualsiasi velleità o principio di rivoluzione dal basso.

Ma, purtroppo, si vede sempre più chiaro quanto simili prospettive esulino dagli orizzonti intellettuali dei nostri contemporanei. Invece si può constatare come anche coloro che presumono di combattere contro il «disordine stabilito» del mondo moderno muovendo giuste (ma ormai ovvie e quasi scontate) accuse contro l'attuale società e mettendo avanti perfino i valori della personalità e del cristianesimo, non nascondono le loro simpatie elettive per il basso, per le « rivendicazioni » dal basso e per lo pseudo-umanismo di sinistra, mostrando altrettanta insofferenza e incomprensione per ogni soluzione possibile nel quadro di un sistema poggiante su di un principio di autorità e sovranità, di vero ordine e di vera giustizia. Come esempi tipici si possono indicare il Maritain e il Mounier, ma anche un tradizionalista come L. Ziegler.

È assai interessante riconoscere la precisa solidarietà di questo orientamento con altri constatabili in domini propriamente culturali. Il cosidetto «neo-realismo» e altre tendenze similari non sono forse caratterizzati dal presentare abusivamente come « reale» soltanto gli aspetti più bassi, miserabili, equivoci e spesso perfino laidi e volgari dell'esistenza? Mentre il resto non avrebbe nulla a che fare con ciò che è autentico, sincero e « reale»?

Un caso ancor più significativo, che indica il vasto raggio di azione della diffusione della tendenza in parola, è costituito sia dalla psicanalisi che dal moderno irrazionalismo. Si è partiti da una critica, in sé legittima, contro il feticismo della « ragione» e della intellettualità astratta, contro le superstrutture dell'Io cosciente. Ma da ciò si è passati subito ad una apertura dell'uomo non verso l'alto ma verso il basso. Contro il « razionale », si è fatto valere il semplice irrazionale, la «vita »; contro il conscio, l'inconscio, e solamente in questo si è voluto vedere la vera forza motrice della psiche. Così anche qui il risultato è stato una regressione, una traslazione del centro di gravità umano verso il basso. La causa è analoga a quella indicata nel campo politico-sociale: si è fatto come se fuor dal « razionale» e delle sue eventuali prevaricazioni esistesse solo il sub-razionale (l'inconscio, il vitale, l'istintivo, ecc.), e non anche il saper-razionale: il super-razionale, attestato da tutto ciò che nella storia della civiltà si è legato alla vera grandezza umana.

Considerazioni analoghe potrebbero essere svolte per indicare altri parallelismi, nei riguardi di ulteriori fenomeni culturali contemporanei - per esempio, nei riguardi dell'esistenzialismo e di molte varietà del cosidetto neo-spiritualismo, Non possiamo soffermarci su ciò. Basterà aver brevemente mostrato l'identica tendenzialità di tutto un gruppo di fenomeni e ciò che, purtroppo, essi con la loro presenza, segnalatrice del volto dei tempi, indicano: l'inesistenza, oggi, di chi tenga le posizioni e sappia agire non dal basso ma dall'alto, in tutti i domini.

 

 

 

3. l'avvento del "quinto stato"

 

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Un merito incontestabile della storiografia marxista è il suo tentativo di individuare una direttiva generale di marcia della storia in funzione di fasi ben precise, considerando l'insieme degli avvenimenti sui quali di solito le altre storiografie portano tutta l'attenzione, guerra, rivolgimenti nazionali, sviluppi e mutamenti dell'uno o dell'altro genere, non come l'essenziale ma come il secondario e l'episodico rispetto al movimento complessivo.

Quasi nessun tentativo del genere è stato fatto dalla parte opposta, ossia dalla parte della Destra. Naturalmente l'interpretazione rnarxista del « senso della storia» (come una concatenazione di determinismi economici che condurrebbe fatalmente al dominio della cosidetta classe lavoratrice) va recisamente respinta; ma essa dovrebbe essere respinta ponendosi metodologicamente allo stesso livello, ossia riconoscendo la necessità di inquadrare gli avvenimenti storici in uno schema di non minore ampiezza, sebbene in una chiave assai diversa, conforme a punti di vista superiori, non a quelli grossolani e primitivistici del materialismo storico.

Da Piero Operti è stata ricordata la concezione generale su cui si potrebbe basare una storiografia antimarxista. Essa è stata tracciata, con una significativa concordanza e contemporaneità, da alcuni scrittori tradizionalisti, in prima linea da René Guénon, poi da V. Vezzani e da H. Berl, parzialmente dallo stesso Spengler (le considerazioni del quale si sono però limitate agli sviluppi propri a singoli cicli di civiltà), a prescindere dal contributo da noi stessi dato a questo riguardo. L'argomento che vogliamo propriamente trattare nel presente capitolo è il fenomeno dell'« avvento del Quinto Stato ». Per comprenderlo, bisogna anzitutto dare un breve ragguaglio sulla concezione ora accennata, che s'impernia sull'idea di una regressione o discesa del potere politico, del tipo di civiltà e, in genere, dei valori predominanti lungo i quattro piani che ogni organizzazione sociale completa e, possiamo pur dire, «normale », comprendeva secondo un sistema gerarchico. Al sommo, stavano capi rivestiti da una autorità spirituale e sacra, poi veniva l'aristocrazia guerriera, in terzo luogo la borghesia possidente e coloro che concentravano i loro interessi sul piano economico (i « mercanti », la casta vaiçya indii), infine venivano i lavoratori, il «popolo».

Ebbene, è abbastanza evidente che nella storia a noi nota questa piramide è franata, che si è avuta una discesa dall'uno all'altro di questi quattro livelli. Da civiltà improntate dal sacro dove il capo o la classe dominante esercitava un diritto dall'alto su basi prevalentemente spirituali e un « diritto divino» si è passati a società rette soltanto da aristocrazie guerriere; fase, questa, che doveva concludersi col ciclo delle grandi dinastie europee. Con la Rivoluzione Francese, la democrazia, il liberalismo e l'industrialismo è stato il Terzo Stato ad assumere, fattualmente, il potere come borghesia capitalista e plutocrazia, i capi effettivi essendo ora i signori del danaro, i vari « re » del carbone, dell'acciaio, del petrolio, ecc. I movimenti socialisti e proletari, che si concludono col comunismo e col sovietismo, preludono all'evento dell'ultimo strato, del Quarto Stato, che cerca di scalzare le civiltà del Terzo Stato (in via di principio, è sotto questa luce che si deve essenzialmente vedere lo scontro fra «Oriente» e «Occidente », fra gli Stati comunisti e gli Stati Uniti, coi loro satelliti) e di assicurarsi il dominio mondiale: Quarto Stato contro ciò che sussiste del mondo del Terzo Stato.

Dal punto di vista della Destra, è in questi termini che si presenta il «senso della storia », il quale, quanto a significato, si dovrebbe piuttosto chiamare il non-senso della storia. Il processo regressivo si arresta al Quarto Stato? Fra le due guerre mondiali a Karlsruhe usci un singolare libretto il cui autore, H. Berl, era andato un passo più avanti. Il libro si intitolava L'avvento del Quinto Stato (Die Heraufkunft des Fiinften Standes). A parte il contenuto teorico con l'interpretazione della storia in chiave regressiva esso era saturo di forti cariche emotive. Il Berl lo aveva scritto in un sanatorio, come in una ossessione (« Vi è febbre in ogni pagina », aveva detto lui stesso). Prescindendo da ciò e da alcune esagerazioni, la tesi sostenuta non è priva di un certo interesse per chi vuoI rendersi conto di alcuni aspetti dei tempi.

La caduta lungo la storia non si fermerebbe, dunque, al Quarto Stato, ossia al mondo collettivizzato marxista e comunista; essa tenderebbe a continuarsi nella emergenza di un Quinto Stato. Che sarebbe questo Quinto Stato? Qui bisogna riferirsi soprattutto all'idea, che ogni organizzazione comprende due principi elementari, forze di ordine da un lato, forze di caos dall'altro. Essa sorge da un'azione formatrice che vincola e frena in determinate strutture (entro le quali esse possono manifestarsi creativamente come un fattore dinamico) le seconde. Ebbene, quando un ciclo volge al termine, questo substrato elementare, il fondo sub-personale e quasi si potrebbe dire goethianamente «demonico» che nelle civiltà tradizionali era stato piegato, tenuto a freno e elevato da una legge superiore e dal naturale prestigio che rivestivano i valori spirituali, eroici e aristocratici e i rappresentanti di essi, tende .a tornare allo stato libero, ad agire in modo distruttivo, a prendere Il sopravvento. Questo è il limite e ciò che può corrispondere all'avvento del Quinto Stato.

In ogni fenomeno « rivoluzionario» in quanto tale vi è sempre una emergenza di questo substrato informe, più o meno contenuto nei successivi sviluppi, ma nella prima fase sempre caratterizzato da qualcosa di selvaggio, dal piacere per la distruzione e l'eversione, da una regressione dell'individuo nel collettivo, dalla « demonia del collettivo ». Le pagine scritte da Joseph de Maistre sulla Rivoluzione Francese sono, a tale riguardo, di un valore perenne. D'altr.a parte, il Quarto Stato lo si può concepire in genere come l'antiStato se lo Stato lo si intende nel senso tradizionale, come una realtà sopraelevata e come l'incarnazione di una idea e di un superiore potere ordinatore. Il Berl aveva creduto di ricono~cere, su tale linea, un valore sintomatico al fenomeno moderno dì una delinquenza organizzata e endemica, il primo esempio tipico del quale è stato il gangsterismo americano. Il caratteristico, pertanto, nei tempi recenti è appunto il fatto «organizzazione ». Con un paradosso, si potrebbe dire che «il caos si organizza». In effetti le stesse forze spesso si celano anche dentro al sistemi politici creati dal Quarto Stato, dal comunismo e dal marxismo, perché per una naturale legge di gravitazione è difficile che in un processo di caduta uno stadio non finisca con l'aprirsi a ciò che appartiene ad un livello ancor più basso.

 A questo riguardo va considerato non solamente quanto ha attinenza col piano sociale e politico, ma anche quanto riguarda la stessa personalità, la distruzione della personalità. Nella storia ci sono sempre state crudeltà e atrocità, ma l'elemento caratteristico che può entrare in quistione nella diagnosi dei tempi ultimi riguarda sinistri metodi razionalmente studiati di degradazione intesi a ridurre gli esseri a cui vengono applicati a fantocci senza volontà, a degradarli ai loro stessi occhi (alcune considerazioni valide a questo riguardo, sia pure con riferimenti tendenziosamente unilaterali, sono state svolte dall'esistenzialista cattolico Gabriel Marcel). Si può pensare qui ai retroscena di certi processi d'oltrecortina di ferro e a un certo regime di campi di concentramento e di « rieducazione ». L'attacco si porta anche contro quella «forma» in senso eminente che è la personalità. I piani sono naturalmente diversi, ma la convergenza della direzione, la «sigla », è ben riconoscibile.

Dal tempo in cui usci il libro del Berl, nel mondo moderno si sono delineati in altri campi fenomeni che in parte potrebbero venir riportati alle «emergenze» dianzi accennate. Sarebbero da menzionare, ad esempio, certi aspetti della cosidetta «generazione in rivolta ». La rivolta può essere legittima quando si porta contro una civiltà in cui quasi nulla ha più una giustificazione superiore, che è vuota e assurda, che, meccanizzata e standardizzata, tende essa stessa verso il sub-personale in un mondo amorfo della quantità. Ma quando si tratta di «ribelli senza bandiera », quando la rivolta è, per cosi dire, scopo a se stessa, il resto facendo da pretesto, quando si accompagna a forme di scatenamento, di primitivismo, di abbandono a quel che è elementare in senso inferiore (sesso, jazz negro, ebrezza, violenza gratuita e spesso criminosa, esaltazione compiaciuta del volgare e dell'anarchico), allora non è azzardato stabilire un certo nesso fra questi fenomeni e gli altri che su un piano diverso attestano l'azione di forze del caos affioranti dal basso attraverso le' crepe sempre più visibili dell'ordine sussistente, forze da cui sono posseduti elementi gettatisi allo sbaraglio e più o meno traumatizzati.

Non vogliamo cedere alla tentazione di indicare altri fenomeni concomitanti, attestanti parimenti, benché per un altro verso, un attacco contro la personalità. Ad esempio, che altro rappresenta la psicanalisi se non una apertura del diaframma che chiude, spesso provvidenzialmente, un sottosuolo sub-personale costituito da forze oscure, e l'inversione per via della quale tale sotto suolo viene presentato come l'elemento primario dell'uomo, come la forza veramente motrice della psiche? La similarità di questi fenomeni con quanto dalla ideologia di sinistra viene presentato come una ascesa sul piano sociale e storico è evidente, alle strutture politiche dall'alto travolte ed esautorate da questa ascesa facendo da riscontro l'attacco che si muove contro quel che il pensiero antico aveva chiamato l'egemonikon, ossia il sovrano nell'uomo, ridotto parimenti ad una mera sovrastruttura.

Però l'interesse maggiore dell'ordine di idee qui brevemente esposto riguarda forse quel che negli aspetti propriamente sociali e esistenziali del fenomeno va riportato al vero « senso della storia », a sintomi precorri tori che rientrano nella logica di esso. Ci si deve mettere in guardia dalle esagerazioni e da ogni «apocalittismo », ma molte cose, nel contesto ora accennato, dovrebbero far riflettere coloro che sono ancora narcotizzati dai miti della democrazia progressista e che si dimostrano incapaci di cogliere i rigidi nessi di causa ed effetto presentati da un ormai secolare corso degli avvenimenti, La discesa quadripartita del livello della civiltà e delle organizzazioni sociali è una realtà; lo è parimenti l'affiorare, quando l'ultimo gradino sta per essere raggiunto, di forze infere, di forze del caos, che in certo senso si può dire non appartengono più al mondo propriamente umano, la formula dell'avvento del Quinto Stato potendo forse far da cornice ad essa proprio in una gerarchia normale. Nei gradi superiori ed essenziali di questa gerarchia né «lavoro» né «lavoratori» possono avere qualcosa da fare. Se vogliamo dare spunti per utili riflessioni e discussioni alla gioventù ancora sana, è in base a queste visuali che bisogna darli. Ci sono già abbastanza «aperture a sinistra» altrove perché anche in campo «nazionale» ci si debba mettere quasi a fare la concorrenza sullo stesso piano, anche se l'intento fosse solo «profilattico », come nell'infelice avventura e nel pretesto accampato dal «centro-sinistra» attuale. L'appello ad un coraggio intellettuale e ad un vero spirito rivoluzionario (più esattamente: controrivoluzionario, perché la vera rivoluzione oggi può essere solo rivolta contro il sistema politico e ideologico dove imperano proprio le idee qui stigmatizzate) è, a tale riguardo, una esigenza veramente categorica.

 

 

 

5. giovinezza biologica e giovinezza politica

 

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Una delle quistioni su cui spesso si torna negli ambienti di Destra è quella che riguarda la nuova generazione, nei suoi rapporti con la precedente; la gioventù « rivoluzionaria» nelle sue relazioni con gli uomini e con le idee del Ventennio. Vi sono alcuni che, a tale proposito, credono di riconoscere, qui, ciò che si constata più in genere: la nuova generazione non capisce più la precedente, il ritmo accelerato degli avvenimenti avendo frapposto fra l'una e l'altra una distanza ideale assai più grande di quella che in altri tempi normalmente le separava.

Tuttavia in questa impostazione si può spesso rilevare una certa superficialità e tendenziosità. E già i concetti di «giovinezza », di nuova generazione, di « vocazione rivoluzionaria» non sono, essi stessi, privi di ambiguità?

In effetti, bisognerebbe cominciare col precisare il piano su cui si vogliono propriamente far valere simili nozioni: se si tratta del piano biologico, ovvero di un piano più alto, come nel nostro caso si dovrebbe ben supporre. Se si vogliono considerare le cose spiritualmente, bisogna badare, perché vi sono dei casi in cui i valori possono invertirsi, quanto al significato che spetta a ciò che è « nuovo », che è giovane, che è venuto per ultimo. Cosi, in generale, se consideriamo le generazioni che si succedono all'interno di un dato ciclo di civiltà, nei casi accennati si può enunciare addirittura un paradosso, perché davvero giovane è da dirsi quel che sta alle origini, mentre le generazioni ultime, cronologicamente più giovani, sono le più vecchie, le senescenti, le crepuscolari, anche se talvolta ciò che è solo infantilismo e pnrruttvismo può essere scambiato erroneamente per giovinezza. Per citare un esempio, la cosidetta «giovinezza» delle razze nord-americane, col loro «mondo nuovo» e il loro primitivismo, per noi dice proprio dell'infantilismo proprio non a generazioni «giovani» ma alle generazioni ultime, a quelle che si trovano involutivamente verso la fine di un ciclo - del ciclo della civiltà occidentale in genere.

Si è accennato a ciò perché cosa analoga vale anche in un dominio più concreto. Cosi, volgendoci d'intorno, possiamo davvero chiamar giovane, altrimenti che in senso biologico ed anagrafico, una parte purtroppo considerevole dei «giovani» dell'Italia di oggi? Quella gioventù indifferente ed agnostica, presa da un materialismo e un edonismo spicciolo, incapace di un qualunque slancio, incapace di una qualunque linea, animantesi al massimo a delle partite di calcio e al Giro d'Italia? Questa «gioventti» noi piuttosto la diremmo morta ancor prima di esser nata. Chiunque oggi non si lasci andare, chiunque viva una idea, chiunque sappia tenersi in piedi secondo una dirittura e disdegni tutto ciò che è fiacco, obliquo, ritorto, vile, qualunque sia la sua età, è infinitamente più « giovane» di codesta particolare «gioventti ».

Proprio su tale linea devesi intendere ciò che è gioventù in un senso non soltanto biologico e si definisce un comune denominatore, per il superamento di antitesi artificiali. Se dovessimo indicare il carattere fondamentale di una giovinezza intesa in questo senso superiore, noi la indicheremmo nella volontà per l'incondizionato. In effetti, a non diverso fattore può ricondursi, da un lato, tutto ciò che è idealismo in senso positivo, dall'altro, ogni specie di coraggio, di slancio, di iniziativa creativa, di attitudine a portarsi risolutamente su posizioni nuove, tenendo in poco conto la propria persona. In particolare, fisicamente, la gioventù vera ha in proprio appunto la disposizione quasi paradossale di una vita in crescenza, che, invece di esser attaccata a se stessa, sa spendersi senza riguardo e può tenere in non conto la stessa morte.

È opportuno distinguere fra la fase più elementare, in cui le qualità ora indicate si manifestano solo in forma spontanea, disordinata e transitoria, spesso come in un fuoco di paglia, e la fase, in cui esse sono convalidate e stabilizzate. Il primo è di frequente il caso della gioventù vera e propria, che poi a poco a poco si « normalizza », «mette la testa a posto », si convince che « l'idealismo è una cosa, la vita un'altra », abdicando a quella volontà per l'incondizionato, che cOSI si palesa aver avuto, in essa, un a base prevalentemente fisica. Il secondo caso si verifica invece quando si abbiano dovute affrontare delle prove, dure prove, e queste prove le si siano superate senza venir meno.

Ciò vale sia nel dominio interiore che in quello politico. Con il che si può tornare al problema da cui si è partiti. Quale è la generazione di ieri che quella di oggi non potrebbe più comprendere? Esiste, di fatto, un ricorso: anche ieri (dopo la prima guerra mondiale) vi è stata una «generazione del fronte »; anche ieri si presentarono condizioni politiche, sociali e morali insopportabili e per una insofferenza, un idealismo e un virilismo enucleatisi attraverso una vita di pericolo e di combattimento, si formarono le premesse per il movimento fascista. Oggi le cose si ripresentano negli stessi termini; in più, vi è la circostanza di una prova più dura, oggi trattandosi di una «generazione del fronte» superstite non di una vittoria, ma di una disfatta e di un generale disfacimento.

In questi termini dovrebbe solo esistere una fondamentale continuità. Siffatta continuità di una « giovinezza» non biologica ma politica, cessa solo quando si tratti di uomini di ieri che nel fascismo venuto al potere si perdettero, che non furono più capaci di mantenere la loro intransigenza, la loro volontà per l'incondizionato, il loro radicalismo, vendendo la loro primogenitura per un piatto di lenticchie: per questa o quella carica semi-burocratica nei quadri di un deprecabile, scenografico «gerarchismo» e nuovo conformismo.

Sarebbe però davvero ingiusto fare di ogni erba un fascio e disconoscere che nel fascismo vi son pure stati uomini che sono rimasti in piedi, spesso ostacolati in ogni modo dall'una o dall'altra cricca ufficiosa. Il ricongiungersi di essi con la nuova ondata, con la nuova gioventù e la nuova «generazione del fronte », dovrebbe esser naturale, per congenialità: come in una stessa corrente che, superata l'ostruzione, l'ingorgo, riprende il suo corso.

Sia accennato ancora un punto. Non è sempre facile - specie nel caso di .Italiani, di Mediterranei - dare a se stessi un valore autonomo. Per sentire la propria individualità, la propria importanza, molti han bisogno di agitarsi, di contrapporsi a tutti i costi a qualcosa o a qualcuno. È a questa luce che bisogna giudicare certi aspetti della «vocazione rivoluzionaria» ed anche di un certo individualismo della « giovenni », quando essa in ogni caso vuol differenziarsi e sposa indiscriminatamente idee nuove solo perché nuove. A base di ciò, spesso vi è, dunque, semplicemente un «complesso d'inferiorità »: il bisogno, appunto, di valere in modo indiretto, per antitesi e contrasto, non sentendosi abbastanza sicuri di se stessi. È, questo, un atteggiamento che la giovenni politica, e non semplicemente biologica, dovrebbe rettificare. L'ambizione più alta non dovrebbe essere quella di fare i rivoluzionari ad ogni costo, ma piuttosto di esser gli esponenti di una tradizione, i portatori di una forza trasmessa che va accresciuta e potenziata con tutto ciò che può assicurarle una direzione inflessibile. Il che concerne anche il dominio delle idee, e una delle prove della freschezza interna è intendere che quelle giuste sovrastano ogni contingenza e che con esse acquista valore la vera personalità: non in un confuso impulso rivoluzionario, non in una diffidenza preconcetta per il passato, non in un dinamismo disordinato che solo accusa la mancanza di una vera forma interna. Senza venire a particolari deduzioni, perché questa non ne è la sede si potrà facilmente riconoscere, da ciò, quel che nella gioventù politica di oggi va rettificando come attitudine generale affinché in una unità di forze, possa esser perseguito un ideaÌe politico preciso: l'ideale del vero Stato organico.

 

 

 

6. il problema della decadenza

 

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Chi respinge il mito, peraltro orma! In gran parte scontato, del progressismo e dell'evoluzionismo e in una interpretazione almeno della storia più recente e con riferimento a valori superiori, va invece a constatare come senso di detta storia una involuzione, si trova di fronte al «problema della decadenza ». Se l'evoluzionismo poggia su di una impossibilità logica, il più non potendo derivare dal meno e il superiore dall'inferiore, una analoga difficoltà sembra presentarsi a voler spiegare l'involuzione. Come è possibile che ciò che è superiore degeneri, che un dato livello spirituale e di civiltà vada perduto?

La soluzione non sarebbe difficile se ci si potesse accontentare di semplici analogie: l'uomo sano può ammalarsi, il virtuoso può divenire vizioso, una legge naturale che non desta sorpresa in nessuno, fa si che ogni organismo, dopo nascita, sviluppo e pienezza di vita s'invecchi, s'indebolisca, muoia. Ma questo è un constatare, non uno spiegare, anche ad ammettere che fra i due ordini esista una analogia completa: cosa dubbia, quando si tratta delle civiltà e delle organizzazioni politico-sociali, dato che qui la volontà umana e la sua libertà hanno una parte assai diversa che non in quei fenomeni naturalistici.

Pertanto, questa obiezione incontra anche la teoria di Oswald Spengler, la quale riprende proprio l'analogia offerta dalla fattualità organica, assumendo che, al pari di ogni organismo, ogni civiltà ha una fase aurorale, una fase di pieno dispiegamento, poi un invecchiamento autunnale, una sclerosi e, infine, la morte e la dissoluzione.

Il ciclo andrebbe dalle forme originarie organiche, spirituali ed eroiche di quella che lo Spengler chiama Kultur, alle forme materializzate, inorganiche, massificate e disanimate di ciò che egli chiama Zivilisation. Una tale teoria ripete in parte quella, a carattere tradizionale, riguardante le cosidette «leggi cicliche », riferite, peraltro, ad un dominio assai piri vasto, anche metafisico, e che può portarci un po' più oltre nell'approfondimento del nostro problema. Essa offre, effettivamente, un inizio di spiegazione perché qui ci si riferisce alla manifestazione di una forza la quale, a poco a poco, si esaurisce - con una banale ma acconcia imagine, come la forza immessa in uno stantuffo la quale provoca un movimento espansivo che gradatamente si rallenta e finisce, a meno che si verifichi una nuova immissione (che darebbe luogo, nel nostro caso, ad un nuovo ciclo). In particolare, è da raccogliere la specificazione che sul piano della realtà umana la forma in quistione sarebbe essenzialmente da intendere come una superiore forza organizzatrice la quale lega forze inferiori, ad esse imprimendo una forma. Quando la tensione originaria si indebolisce tali forze si svincolano e gradatamente prendono il sopravvento, dando luogo a fenomeni dissolutivi.

 Questa veduta appare utilizzabile nel quadro specifico in cui qui vogliamo limitare il problema della decadenza. Il punto di partenza, in parte simile a quello dello Spengler, è un dualismo di tipi di civiltà, conseguentemente anche di Stato. Da un lato vi sono le civiltà tradizionali, diverse nella forma e in tutto ciò che è dovuto a fattori contingenti, ma identiche nel loro principio: sono le civiltà nelle quali forze e valori spirituali e superindividuali costituiscono l'asse e il punto supremo di riferimento per l'organizzazione generale, per la formazione e per la giustificazione di ogni realtà subordinata.

Dall'altro lato vi è la civiltà di tipo moderno, identica alla antitradizione, costruita ad opera di fattori soltanto umani, terrestri, individualistici e collettivistici, completo sviluppo di tutto ciò che può una vita dissociatasi dalla supervita. La decadenza appare come il senso della storia, per il fatto che si constata il venir meno in essa delle civiltà di tipo « tradizionale» e l'avvento sempre più preciso, generale, planetario di una nuova civiltà comune di tipo « moderno ».

Il problema specifico è, dunque, in genere, come ciò sia stato possibile. Restringiamo ulteriormente il campo dell'indagine e consideriamo quel che ha propriamente attinenza con una struttura gerarchica e col principio dell'autorità, perché, in fondo, ciò costituisce anche la: chiave di tutto il resto. Nel caso delle gerarchie tradizionali e di quell'azione formatrice di cui si è detto or ora con riferimento alle leggi cicliche, come premessa si deve contestare l'idea che il fattore fondamentale ed esclusivo di esse sia stato una specie di imposizione, di controllo diretto e di dominio violento, sia pure di ciò che si considera superiore, su ciò che è inferiore. A parte tutto questo, va dato un peso essenziale ad un'azione spirituale. Cosi tradizionalmente si è potuto parlare di un «agire senza agire », si è usato il simbolismo del «motore immobile» (nel senso aristotelico) e del «polo », dell'asse immutabile intorno al quale si svolge ogni moto ordinato delle forze soggette; è stato sottolineato l'attributo «olimpico» della vera autorità e sovranità e il suo modo di affermarsi direttamente, non per violenza ma per presenza: infine, talvolta è stata usata l'imagine del magnete che, come vedremo, dà la chiave di tutto il problema qui in esame. La concezione dell'origine violenta di ogni ordinamento gerarchico e statale, cara alla storiografia e alla ideologia di sinistra, è da rigettare perché primitiva, falsa o almeno incompleta.

In genere, è assurdo credere che i rappresentanti di una vera autorità spirituale e della tradizione si mettessero a correre dietro agli uomini per afferrarli e legarli ognuno al proprio posto avendo un interesse diretto a creare e a mantenere quei rapporti gerarchici in virtù dei quali essi anche visibilmente potevano apparire come dei capi. Non la semplice sottomissione ma l'adesione e il riconoscimento da parte dell'inferiore sono, invece, la base fondamentale di ogni gerarchia normale e tradizionale. Non è il superiore che ha bisogno dell'inferiore, ma è l'inferiore che ha bisogno del superiore; non è il capo che ha bisogno dei gregari ma è il gregario che ha bisogno di un capo.

L'essenza della gerarchia sta nel fatto che in alcuni esseri vive, in forma di presenza e di realtà attuata, ciò che negli altri esiste solo come aspirazione confusa, come presentimento, come tendenza, per cui questi sono fatalmente attratti dai primi, naturalmente ad essi si subordinano, in ciò subordinandosi meno a qualcosa di esteriore che non ad un loro più vero « io ». Qui sta il segreto di ogni prontezza al sacrificio, di ogni eroismo lucido, di ogni libera virile dedizione nel mondo delle antiche gerarchie - e, d'altra parte, di un prestigio, di una autorità, di una calma potenza e di una influenza che nemmeno il tiranno più armato avrebbe mai potuto assicurarsi.

Riconoscere questo, significa anche vedere sotto un'altra luce non solo il problema della decadenza ma anche quello della possibilità, in genere, di ogni rivolgimento sovvertitore. Non si è forse sentito ripetere che, se una rivoluzione ha trionfato, è segno che i capi antichi erano fiacchi e che gli antichi ceti dirigenti erano degeneri? Ciò può essere vero, ma è unilaterale. Si dovrebbe certamente pensare a ciò, qualora si avessero come dei cani selvaggi alla catena, che alla fine prendono la mano: ciò evidentemente proverebbe che le mani che tenevano fermi quegli animali non sono, o non sono più, abbastanza forti. Ma le cose stanno altrimenti se si contesta l'origine esclusivamente violenta del vero Stato e quando il punto di partenza è la gerarchia di cui abbiamo or ora indicato il fondamento più essenziale. Una tale gerarchia può venire rovesciata in un solo caso: quando il singolo decade, quando egli usa della sua fondamentale libertà per privare la sua vita di ogni superiore riferimento e costituirsi a sé quasi come troncone. Allora i contatti vengono fatalmente interrotti, la tensione che unificava l'organismo tradizionale e che del processo politico faceva la controparte di un processo di elevazione e di integrazione del singolo, di realizzazione di possibilità superiori latenti, si allenta; allora ogni forza vacilla nella sua orbita, e alla fine - dopo un eventuale vano tentativo di sostituire con costruzioni razionalistiche o utilitarie la tradizione perduta - se ne svincola: gli àpici possono anche rimanere puri e intatti in alto, ma il resto, che prima stava come sospeso ad essi, sarà simile ad una valanga che con un moto dapprima impercettibile e poi accelerato, perduta la stabilità precipita giù, sino in fondo, sino al livellamento della valle: liberalismo, socialismo, collettivismo di massa, comunismo.

Questo è il mistero della decadenza nell'àmbito ristretto al quale abbiamo limitato le nostre considerazioni; questo è il mistero di ogni rivoluzione sovvertitrice. Il rivoluzionario ha cominciato con l'uccidere in sé la gerarchia mutilandosi di quelle possibilità alle quali corrispondeva il fondamento interiore dell'ordine, che egli, poi, va ad abbattere anche esteriormente. Senza una preliminare distruzione interiore non vi è rivoluzione - nel senso di sovvertimento antigerarchico e antitradizionale - che sia possibile. E poiché questa fase preliminare sfugge all'osservatore superficiale, al miope che non sa vedere e valutare che i « fatti », così si è usi a considerare le rivoluzioni come fenomeni irrazionali o a spiegarle unicamente con fattori materialistici e sociali, i quali in ogni civiltà normale non hanno avuto che una funzione secondaria e subordinata.

Quando la mitologia cattolica riferisce la caduta dell'uomo primordiale e la stessa «rivolta degli angeli» al libero arbitrio, in fondo essa si riporta allo stesso principio esplicativo. Si tratta del temibile potere, insito nell'uomo, di usare la libertà nel senso di una distruzione spirituale, per respingere tutto ciò che può assicurargli una più alta dignità. È, questa, una decisione metafisica, della quale tutta la corrente che serpeggia nella storia, nelle varie forme di apparire dello spirito antitradizionale, rivoluzionario, individualistico, umanistico, laicistico e infine «moderno », non è che la manifestazione e, per così dire, la fenomenologia. Questa decisione è la causa prima attiva e determinante nel mistero della decadenza, della distruzione tradizionale.

Compreso ciò, si è anche vicini a penetrare il senso di antiche tradizioni, di natura alquanto enigmatica, relativa a dei capi che, in un certo senso, già esistono, non avendo mai cessato di essere, e che possono essere ritrovati (essi stessi, o le loro « sedi») mediante azioni descritte in vario modo ma sempre a carattere simbolico; la loro ricerca equivale infatti ad un reintegrarsi, al creare un dato atteggiamento la cui virtù è analoga alle qualità essenziali per le quali un dato metallo subitamente sente (per così dire) il magnete, scopre il magnete e si orienta e muove irresistibilmente verso il magnete. Ci limitiamo a questo accenno, che chi vuole può sviluppare.

Ma guardando ai tempi attuali la controparte è un profondo pessimismo. Quand'anche apparissero dei veri capi, oggi essi non verrebbero riconosciuti, a meno che non nascondessero questa loro qualità e non si presentassero essenzialmente sotto le specie di demagoghi e di agitatori di miti sociali. È anche per questo che l'epoca delle monarchie si è chiusa, mentre in precedenza, a che l'ordine sussistesse, poteva bastare perfino il semplice simbolo, non occorreva che chi lo incarnava fosse sempre, come uomo all'altezza di esso.

 

 

 

7. inversione dei simboli

 

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All'opposto di quel che pensano i seguaci del mito del progresso, i movimenti rivoluzionari dell'epoca moderna, lungi dal rappresentare qualcosa di positivo e di aver dato vita a forme autonome e originali, hanno essenzialmente agito per inversione, sovversione, usurpazione e degradazione dei principi, delle forme e dei simboli dei regimi e delle civiltà precedenti, a carattere tradizionale. Ciò potrebbe venir facilmente illustrato con esempi tipici presi da vari domini, cominciando con una considerazione degli stessi «immortali principi» della Rivoluzione Francese. Ma per ora vogliamo soffermarci solo su alcuni termini e alcuni. simboli caratteristici.

Anzitutto il colore rosso. Tale colore, divenuto l'emblema della sovversione, è quello che in precedenza, come porpora, ha avuto ricorrentemente relazione con la funzione regale e imperiale: ciò, non senza relazione col carattere sacro ad essa riconosciuto. La tradizione potrebbe riportarci fino all'antichità classica, ove tale colore, avente corrispondenza col fuoco concepito come il più alto fra tutti gli elementi (è quello che, secondo gli Antichi, sostanziava il cielo più alto, detto perciò l'empireo), si associò anche al simbolismo trionfale. Nel rito romano del « trionfo» avente un carattere più religioso che non militare, l'imperatore, il vincitore, non solo rivestiva la porpora, ma in origine si tingeva dello stesso colore, nel senso di rappresentare Giove, il re degli dei, che si pensava avesse agito attraverso la sua persona tanto da esser lui il vero artefice della vittoria. È superfluo citare esempi delle tradizioni successive per quel che riguarda il rosso come colore della regalità: .nello stesso cattolicesimo i « porporati» sono i « principi della Chiesa ». Ora, noi oggi vediamo questo colore degradato nella bandiera rossa marxista e nella rossa stella dei Soviet.

 Ma prendiamo la stessa parola « rivoluzione ». Pochi si rendono conto della perversione del significato originario proprio all'uso moderno di essa. Rivoluzione in senso primario non vuoI dire sovvertimento e rivolta, ma proprio l'opposto, cioè ritorno ad un punto di partenza e moto ordinario intorno ad un centro per cui nel linguaggio astronomico la rivoluzione di un astro è appunto il movimento che esso compie gravitando intorno ad un centro, che ne vincola la forza centrifuga per via della quale esso si perderebbe nell'infinito.

Ma questo concetto ha anche parte importante nella dottrina e nel simbolismo della regalità. Ha avuto un carattere pressoché universale il simbolismo del polo applicato al Sovrano, punto fermo e stabile intorno a cui si ordinano le varie attività politicosociali. Ecco un detto caratteristico della tradizione estremoorientale: « Colui che regna mediante la virtù del Cielo (o mandato divino) rassomiglia alla stella polare: essa resta ferma al suo posto, ma tutte le altre stelle le volgono d'intorno ». Nel vicino Oriente il termine Qutb, « polo », ha designato non solo il sovrano ma phi in genere, colui che dà legge ed è il capo della tradizione di un dato periodo storico. Si può rilevare, del resto, che l'insegna regia e . imperiale dello scettro in origine non ha avuto un significato diverso, Lo scettro incorpora il concetto di « asse », analogo al concetto di «polo ». E questo è l'attributo essenziale della regalità, la base dell'idea stessa di «ordine ». Quando esso è reale, sussiste sempre, in un organismo politico, qualcosa di saldo e di. calmo, malgrado ogni agitazione o sconvolgimento dovuto alle contingenze storiche: si potrebbe usare, a tal proposito, l'imagine del cardine di una porta, che resta immobile e tiene ferma la porta anche quando essa sbatte.

 La «rivoluzione» nel senso moderno, con tutto ciò che ha creato, equivale invece allo scardinamento della porta, all'opposto del significato tradizionale del termine: le forze sociali e poIitiche si sciolgono dalla loro orbita naturale, declinano, non conoscono più un centro né un ordine che sia diverso da una forma malamente e temporaneamente arginata di disordine.

Si è accennato alla stella dei Soviet. È la stella a cinque punte.

Per essa possono valere considerazioni analoghe. Ci limiteremo a ricordare che tale segno - come il cosidetto «pentagramma» - ancor dopo la Rinascenza valse come un simbolo esoterico del « microcosmo », cioè dell'uomo concepito come imagine del mondo e di Dio, dominatore di tutti gli elementi grazie alla sua dignità e alla sua destinazione sovrannaturale. Cosi anche nelle leggende e nelle storie di magia (si ricordi il Faust di Goethe) quella stella appare come il segno consacrato al quale S~1t1t1 ed elementi obbediscono. Ebbene, attraverso un processo di degradazione di cui sarebbe interessante seguire le fasi, la stella pentagrammata da quel simbolo dell'uomo come essere spiritualmente integrato e sovrannaturalmente sovrano, che era, è passato ad esser il simbolo dell'uomo terretrizzato e collettivizzato, del mondo delle masse proletarie volte al dominio del mondo nel. segno di un messianismo esso stesso invertito, ateo, distruttore di ogni valore superiore e di ogni dignità umana.

Questa degradazione dei simboli è, per ogni sguardo attento, un segno quanto mai significativo ed eloquente dei tempi.

 

 

 

8. il morso della tarantola

 

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Si racconta che in una terra non europea, ma di antica civiltà, una impresa americana, lamentando il poco concorso degli abitanti del luogo assunti pei lavori pensò di aver trovato il mezzo adatto per spronarli: ne raddoppiò le paghe orarie. Insuccesso: gran parte degli operai si presentò ai lavori per la metà delle ore di prima. Ritenendo la mercede originaria sufficiente per i bisogni naturali della loro vita, essi ora pensavano del tutto assurdo doversi applicare più di quel che, in base al nuovo criterio, bastava per procurarsela.

È, questa, l'antitesi di ciò che recentemente da noi è stato chiamato lo stakhanovismo. Questo aneddoto può valere come la pietra di paragone per due mondi, due mentalità, due civiltà, da giudicarsi l'una sana e normale, l'altra deviata e psicotica.

Per esserci riferiti a una ragione non-europea non si adducano qui i luoghi comuni circa l'inerzia o l'indolenza di razze che non sono quella « attivista» e « dinamica» occidentale. In questo, come in altri domini, tali obbiezioni non hanno ragion d'essere: basta distogliersi dalla civiltà «moderna» per ritrovare anche da noi, in Occidente, le stesse concezioni della vita, la stessa attitudine, lo stesso apprezzamento del lucro e del lavoro.

Prima dell'avvento in Europa di quella che ufficialmente e significativamente è stata chiamata 1'« economia mercantile» (significativamente, perché si sa in che conto nella gerarchia sociale tradizionale fossero tenuti i tipi del «mercante» e del prestatore di danaro), dalla quale doveva rapidamente svilupparsi il capitalismo moderno, era criterio fondamentale nella economia che i beni esteriori debbono esser soggetti ad una certa misura, che la ricerca del guadagno è scusata e lecita solo se serve ad assicurarsi una sussistenza corrispondente al proprio stato. Di conseguenza come economia normale, valeva essenzialmente una economia di consumo. Questa era anche la concezione tomistica e, più tardi, la stessa concezione luterana. L'importante era che il singolo riconoscesse la sua appartenenza ad un dato gruppo e l'esistenza di determinati quadri fissi o limiti, entro cui sviluppare le sue possibilità, realizzare la sua vocazione, tendere ad una parziale specifica perfezione. Non diversa, anche, l'antica etica corporativa, ove avevano risalto i valori della personalità e della qualità, ove, in ogni caso, la quantità del lavoro era sempre in funzione di un livello determinato dei bisogni naturali. In genere, il concetto di progresso veniva allora applicato ad un piano essenzialmente interiore, non all'uscire dal proprio rango a cercare il lucro ed a moltiplicare la quantità di lavoro per raggiungere una posizione esteriore, economica e sociale, che non fosse la propria.

 Tutte queste, dunque, furono vedute perfettamente occidentali: dell'uomo europeo, quand'era ancora sano, non ancora morso' dalla tarantola, non ancora succube deIl'insana agitazione e dell'ipnosi dell'«economia», che dovevano condurlo fino ai disordini, alle crisi e ai parossismi dell'attuale civiltà. Ed oggi si bandisce questo o quel sistema, si cerca questo o quel palliativo, ma nessuno si riporta all'origine. Il riconoscere che anche in economia i fattori primari sono i fattori spirituali, che un cambiamento di attitudine, una vera metanoia è il solo mezzo efficace se si deve ancora concepire un arresto sulla china, ciò va al di là dell'intelletto dei tecnici, giunti a proclamare ormai che «la economia è il nostro destino».

Ma dove conduca la via, ove l'uomo tradisca se stesso, sovverta ogni giusta gerarchia di valori e di interessi, si concentri nell'esteriorità e della ricerca del guadagno, della «produzione », del fattore economico in genere faccia il motivo predominante della sua anima, lo si sa. Forse il Sombart è colui che meglio di ogni altro ha analizzato tutto il processo. Esso sbocca fatalmente in quelle forme dell'alto capitalismo industriale, in cui si è condannati ad una corsa senza tregua e ad una espansione illimitata del produrre, perché ogni arresto significherebbe immediatamente arretrare, spesso essere scalzati o travolti. Donde dei processi economici a catena che prendono il grande imprenditore anima e corpo, che lo. legano più dell'ultimo suo operaio, mentre la corrente, resasi quasì autonoma: trascina con sé migliaia di esseri e finisce col dettar legge a genti o governi. Fiat productio, pereat homo, come già scrisse appunto il Sombart.

Ciò svela, fra l'altro, gli stessi retroscena dell'opera di «bbera: zione» e di aiuto americano al mondo. Siamo al quarto punto di Truman che, traboccante di disinteressato amore, vuole «l'elevamento economico delle zone meno progredite della terra»: in altri termini: il condurre a termine le nuove tnva.slom. barba: riche, l'abbrutimento nei trivi dell'economia anche di quel paesi che un felice incontro di circostanze ha ancora preservato dal morso della tarantola, ha ancora conservato in un tenore tradlzionale dì vita ha ancora trattenuto dallo sfruttamento economico e «produttivo» ad oltranza di ogni possibilità dell'uomo e. della natura. Mutatis mutandis, si continua il sistema di quelle prime: compagnie commerciali che si facevano accompagnare dal cannoni per «persuadere» al commercio chi a ciò non aveva alcun interesse…

Occidentale è stata l'etica compendiantesi nel principio «abstine et substine», come occidentale è stato il tradlmento di essa in una concezione della vita che, invece di mantenere il blsogno entro i limiti naturali in vista del perseguimento di ciò che e veramente degno di umano sforzo, ha per ideale l'accrescimento e la moltiplicazione artificiale del bisogno stesso, epperò anche dei mezzi per soddisfarlo, senza riguardo alla schiavitù crescente che ciò va a costituire, prima per il singolo e poi per le collettività, in forza di una ineluttabile legge. Che, su tale base non vi sia più stabilità alcuna, che tutto frani e la cosidetta «quistione socale»: già pregiudicata in partenza da premesse impossibili, si esasperi fin là dove comunismo e bolscevismo lo desiderano, ciò non deve far meraviglia.   . .

Peraltro, oggi si è giunti a tanto, ogni diversa veduta appare "anacronistica", "antistorica". Belle, impagabili parole! Ma dovunque si tornasse alla nromalità si renderebbe evidente che, per il singolo, non vi è accrescimento esteriore, "economico", il quale valga la pena, e alla cui lusinga egli non debba assolutamente resistere quando la controparte sia la menomazione essenziale della sua libertà; che nessun prezzo è tale da poter pagare uno spazio libero, un libero respiro, tanto da permettere il ritrovare se stessi, l'essere se stessi, il raggiungere ciò che ad ognuno è possibile di là dalla sfera condizionata dalla materia e dai bisogni della vita ordinaria.

Né cosa diversa vale per le nazioni, specie quando le loro risorse sono limitate. Qui la «autarchia» è un principio etico, perché identico deve essere, per un singolo e per uno Stato, ciò che pesa di più sulla bilancia dei valori: meglio rinunciare al fantasma di un illusorio miglioramento delle condizioni generali ed adottare, ove occorra, un sistema di «austerity», che non aggiogarsi al carro di interessi stranieri, lasciarsi coinvolgere in processi mondiali di una egemonia e di una produttività economica lanciata a vuoto, che alla fine, quando non trovino più presa, si ritorceranno contro quelli stessi che li hanno destati a vita.

Non meno di tutto ciò si rende evidente a chi rifletta sulla « morale» insita nel semplice aneddoto riferito al principio. Due mondi, due mentalità, due destini. Di contro ai « morsi della tarantola» stanno coloro che ancora sanno ricordarsi di ciò che è giusta attività, retto sforzo, cosa degna di esser perseguita, fedeltà a se stessi. «Realizzatori» ed esseri che stanno davvero in piedi, sono solo essi.

 

 

 

9. roma e i libri sibillini.

 

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A chi si darà a considerare la storia segreta dell'antica romanità, l'esame dei cosidetti Libri Sibillini costituirà un compito di una importanza, che non potrebbe essere esagerata. Per rendersene conto, naturalmente, occorre avere degli adeguati principi e in prima linea bisogna rifarsi all'idea, che la romanità non costitui qualcosa di omogeneo; forze opposte in essa s'incrociarono e scontrarono. Traendosi enigmaticamente da civiltà e razze che facevano essenzialmente parte del ciclo mediterraneo pelasgico pre-ariano, Roma va a manifestare un principio opposto. Con essa, l'elemento virile, apollineo e solare si oppone, in forme varie, a quello prorniscuo-feminile, tellurico, lunare del mondo precedente che, alla fine, era riuscito a travolgere la stessa Ellade olimpica e eroica. Solo questo inquadramento permette di comprendere il senso profondo di tutti i rivolgimenti più importanti dell'antica vita e dell'antica storia romana. Ciò che Roma ebbe di specificatamente romano si costituì attraverso una lotta incessante del principio virile e solare dell'Imperium contro un oscuro substrato di elementi etnici, religiosi e anche mistici ove la presenza di una forte componente semitico-pelasgica è incontestabile e dove il culto tellurico-lunare delle grandi Dee Madri della natura aveva una parte importantissima. Questa lotta ebbe alterne vicende. L'elemento pre-romano, soggiogato in un primo tempo, passò successivamente alla riscossa, in forme phi sottili, e in stretta dipendenza con culti e forme di vita decisamente asiaticomeridionali. È in questo insieme che bisogna studiare l'essenza e l'influenza dei Libri Sibillini in Roma antica: essi costituirono un importantissimo punto di riferimento per una sotterranea azione di corrosione e di snaturamento della romanità aria, nell'ultima fase della quale, nel punto, cioè, in cui la controffensiva si sentiva vicina allo scopo sognato, vediamo entrare significativamente in giuoco, quasi senza maschera, non solo il generico elemento di decomposizione asiatico-semitico, ma anche quello propriamente e coscientemente giudaico.

La tradizione riferisce l'origine dei Libri Sibillini ad una figura feminile e ad un re della dinastia straniera: si tratterebbe di una parte dei testi offerti da una vecchia a Tarquinio il Superbo, cioè all'ultimo dominatore dell'epoca romana prisca derivato dal ceppo pre-romano e pelasgico degli Etruschi. Questi libri furono accolti nello stesso tempio di Giove Capitolino. Affidati ad uno speciale collegio - i duumviri che poi divennero i quindicemviri sacris faciundis - essi divennero una specie di oracolo a cui il Senato chiedeva i responsi. Nell'83 essi andarono perduti nell'incendio che distrusse il Campidoglio. Si cercò di ricostituirli facendo delle ricerche nei luoghi sacri più noti della religione sibillina e il nuovo testo fu oggetto di successive revisioni. Naturalmente, in questa nuova fase, attraverso il materiale piti o meno spurio raccolto, le infiltrazioni dovettero esser assai facili. I testi eran tenuti segretissimi. Solo il collegio anzidetto poteva vederli e direttamente consultarli. Come lo sappiamo attraverso la fine orribile di M. Attilio, comunicare qualcosa di essi ad estranei era considerato un misfatto che attirava un castigo inesorabile.

Se si prescinde da quelli che comunemente sono chiamati i libri sibillini ebraici (Orac. Sibyll., III, IV, V), non si sa dunque nulla di preciso sul loro contenuto: si sa solo degli effetti che essi produssero, cosa che però può fornirci l'essenziale. La base materiale, «oggettiva », di un «oracolo », infatti è ciò che meno importa: essa, appunto, non è che base, che appoggio: è uno strumento il quale, in circostanze speciali, permette a certe «influenze» di esprimersi cosi come, su di un altro piano, fenomeni vari sono propiziati dalla presenza di un medium e dal suo stato di transe. Perciò, nei riguardi dei primi Libri Sibillini, non interessa sapere quali fossero le formule e le sentenze che contenevano, bensi la « linea» che si tradisce attraverso la serie dei responsi a cui essi dettero luogo attraverso interpretazioni spesso varie, caso per caso, degli identici testi. È questa linea che ci fa conoscere con esattezza la vera natura dell'influenza connessa all'oracolo.

Ora, noi vediamo che questo oracolo quasi sempre agi nel senso di allontanare Roma dalle proprie tradizioni, di introdurre elementi esotici e altera tori, culti che andavano sovversivamente incontro soprattutto alla plebe, cioè all'elemento che in Roma si manteneva in una inconscia coalescenza con le precedenti civiltà italico-pelasgiche, opposte al nucleo solare e ariano. Usati soprattutto in momenti di pericolo, di calamità e di incertezza per calmare il popolo, i Libri Sibillini con i loro responsi dovevano indicare i mezzi più atti per assicurarsi la benevolenza e il concorso di forze superne, divine. Ebbene, mai le risposte ebbero per conseguenza il rafforzare il popolo romano nelle sue antiche tradizioni e nei culti che più caratterizzavano il suo patriziato sacrale; esse sempre ordinarono di introdurre o adottare divinità esotiche, la relazione delle quali col ciclo della civiltà preromana e antiromana della Madre è, nella grandissima maggioranza dei casi, visibilissima.

Il contenuto di uno dei più antichi responsi sibillini, quello dato nel 399 in occasione di una peste, può considerarsi come un simbolo complessivo del senso dello snaturamento che doveva poi gradatamente operarsi. L'oracolo volle che Roma introducesse il lettisternio e la supplicatio a questo correlativa. La supplicatio consisteva nell'inginocchiarsi o prostrarsi dinanzi alle divinità, per abbracciarne e baciarne le ginocchia o i piedi. Tanto può sembrare naturale o, almeno, appena un po' esagerato questo rito a chi si sia assuefatto alle forme di religione subentrate all'antica paganità, altrettanto questa usanza era sconosciuta al romano antico: che non conosceva servilismi semitici dinanzi al divino, che virilmente, in piedi, pregava, invocava o sacrificava. È già l'indice di una trasformazione profonda, del passaggio da una mentalità ad un'altra.

Nel 258, dai Libri Sibillini furono introdotti in Roma Demetra, Dioniso e Core. È la prima grande fase dell'offensiva spirituale: essa conduce le due grandi Dee telluriche della natura con il loro compagno orgiastico, simbolo di ogni confuso e antivirile misticismo, all'interno del mondo che la romanità prisca aveva costruito distruggendo con le armi razze e centri di potenza i quali già avevano incarnato forme affini, promiscue di spiritualità. Nel 249 entrano a Roma, sempre per volontà dei Libri Sibillini, Dispater e Proserpina, cioè addirittura le divinità tellurico-infere, le personificazioni più tipiche di ciò che è opposto agli ideali olimpici e apollinei; ad esse fa seguito, nel 217, una divinità afroditica, la Venus Ericina e infine, nel 205, nel momento più critico delle guerre puniche, entra, per cosi dire, la Sovrana di tutto questo ciclo, colei che può dirsi la personificazione dell'intero spirito pelasgico-asiatico preromano, Cibele, la Magna Mater. Tutte queste divinità erano affatto sconosciute ai Romani: e se la plebe, rigalvanizzata nel suo substrato più spurio, era presa da un entusiasmo spesso frenetico per esse, il senato e il patriziato in un primo tempo non mancarono di dar segni della loro ripugnanza e della loro coscienza del pericolo. Donde la strana incongruenza propria al fatto, che mentre Roma con ogni sfarzo andò a prendere il simulacro di Cibele da PeSS1- nunte, pure proibi ai cittadini romani di prender parte alle cerimonie e alle feste orgiastiche, presiedute da preti frigi eunuchi, di questa dea. Ma, naturalmente, questa resistenza non fu che di breve durata. Ebbe lo stesso destino della proibizione del dionisismo e del pitagorismo. E di nuovo nel 140 i Libri Sibillini introducono ancora un'altra figura del ciclo femineo tellurico, la Venus Verticordia o Afrodite Apostropha.

La trasformazione collettiva procedente da tutto ciò la notava già Livio (XXV, 1) che, riferendosi al periodo intorno all'anno 213, scrisse testualmente: «Forme religiose, in gran parte venute da fuori, agitavano in tal modo la cittadinanza, che o gli uomini, o gli dei parvero di un tratto divenuti diversi. I riti romani erano ormai aboliti non solo nelle forme segrete o nel culto domestico, ma anche in pubblico; e nel foro capitolino vi era una turba di donne che non sacrificavano né pregavano più secondo la tradizione patria ». È cosi che per quanto più si estendeva la potenza romana, le stesse forze da questa vinte all'esterno andavano a svolgere su di un piano invisibile, attraverso una simile opera di corrosione e di snaturamento, una seconda guerra, ove riportavano dei successi sempre più visibili e clamorosi.

Si giunge cosi al periodo dei cosidetti Libri Sibillini Ebraici, che sembrano esser stati compilati fra il primo e il terzo secolo e buona parte del testo dei quali ci è noto. Nel riguardo, lo Schììhrer usa l'espressione: «Propaganda ebraica sotto maschera pagana - iiidiscbe Propaganda unter heidnischer Maske »; opinione condivisa da uno studioso ebreo, Alberto Pincherle, che riconosce nei testi in quistione una esplosione di odio ebraico contro le razze italiche e contro Roma. Qui si ripete, in una forma già tangibile e indiscutibile, una manovra mistificatrice che già si applicò agli antichi oracoli per il fatto che essi, attraverso le Sibille, cercarono di giustificarsi in funzione di Apollo. Per le relazioni - tutt'altro che limpide - della religione sibillina col culto apollineo, gli oracoli introdotti a Roma dal re etrusco si accaparravano,. per cosi dire, un superiore titolo di autorità, vezzeggiando la vocazione apollinea della razza di Roma: e ciò, fino ad Augusto, Il. quale, nel senso di essere l'iniziatore di una nuova èra apollinea e solare ordinò una revisione dei testi sibillini per allontanare da essi gli apporti spuri. Naturalmente, le cose stavano in tutt'alt~o modo e l'albero si dava a conoscer dai frutti: è esattamente la serie delle divinità più antisolari che da quell'oracolo furono introdotte a Roma. Lo stesso alibi fu tentato dai nuovi Libri Sibillini: qui è il puro ebraismo che riveste le sue idee in modo da farle apparire profezia autentica di una antichissima sibill~ pagana e .da. otte~er per esse, in Roma, un corrispondente credito. Per cui SI arnva al paradosso incredibile, che molti ambienti romani considerarono come sapienza della loro stessa tradizione delle imagini apocalittiche, le quali erano esclusivamente espressioni dell'odio ebraico contro la città romulea e contro le genti italiche.

Questi oracoli possono infatti concepirsi come un pendant dell'Apocalissi giovannea. Ma l'Apocalissi, nella religione cristiana, è stata interpretata su di un piano universalistico, simbolico e teologico, di modo che la tesi ebraica, che originariamente vi stava al centro, è rimasta pressoché cancellata. Negli Oracoli Sibillini essa e invece rimasta allo stato originario, La profezia della pseudo-sibilla si volge contro le razze dei gentili: essa predice la vendetta che l'Asia trarrà di Roma e la punizione che, più severa della legge del taglione, colpirà la città signora del mondo. Vale la pena riprodurre qualche passo caratteristico per quest'odio antiromano: «Quante ricchezze Roma ha ricevuto dall'Asia tributaria, tre volte tante ne riceverà l'Asia da Roma e le si farà scontare il fio delle violenze fatte; e quanti uomini d'Asia diverranno servi nella residenza degli Italici, venti volte tanti italici miserabili lavoreranno per salario in Asia e ognuno sarà debitore per decine» (III, 350). «O Italia, a te non verrà nessun Marte straniero (a soccorrerti), il sangue tanto sciagurato e non facile a distruggere del tuo stesso popolo devasterà te, celebre e svergognata. E tu, giacendo presso le ceneri ancor calde, impreveggente nell'animo tuo, ti darai la morte. Sarai madre di uomini senza bontà, sarai la nutrice di belve» (III, 460- 470). E qui fa seguito tutto un film di sciagure e di catastrofi, descritte con sàdica compiacenza. I riferimenti all'ebraismo si fanno sempre più distinti verso la fine del III libro e sul principio del IV. La profezia diviene storia in IV, 115: «Anche a Gerusalemme verrà una malvagia tempesta di guerra dall'Italia e abbatterà il gran tempio di Dio ». Ma da catastrofi di ogni genere «essi dovranno riconoscere l'ira del Dio celeste, perché distrussero l'innocente popolo di Dio ». Che la Babilonia di cui, in relazione a ciò, con tinte granguignolesche simili a quelle dell'Apocalissi giovannea, si descrive il crollo agognato, perché essa, insieme all'Italia, fece perire di fra gli ebrei molti santi fedeli e il popolo verace (cioè Israele); forse Roma, anche agli antichi era perfettamente chiaro. Lattanzio, per es., scrive (Div. Inst., VII, 15, 18): «Sibyllae tamen aperte interitum esse Romam locuntur et quidem iudicio dei quod nomen eius habuerit inuisum et inimica iustitiae alumnum ueritatis populum trudidarit ». In IV, 167 segg. si continua: «Ahi, o città tutta impura della terra latina, ménade che ama le vipere, vedova ti sederai sulle alture e il fiume Tevere piangerà te, la sua consorte, che hai cuore omicida e animo impuro. Non sai che cosa può Dio e che cosa egli ti prepara? Ma tu dici: lo sola sono e nessuno mi distruggerà. Ed ora te e tutti i tuoi distruggerà invece il Dio imperituro, e non vi sarà traccia di re in quella terra, come prima, quando il gran Dio inventò le tue glorie. Rimani sola, o iniqua; immersa nel fuoco divampante, abita la tua iniqua regione tartarea di Ade », Di contro alla città romulea e alla terra italica condannate sta invece la «razza divina dei celesti beati giudei» (248). Nel libro III (703-5) si ripete: «Ma gli uomini del gran Dio tutti quanti vivranno intorno al tempio rallegrandosi di quelle cose che ad essi darà il creatore, giudice solo sovrano ... e tutte le città esclameranno: Quanto ama questi uomini, l'Immortale! ». I passi 779 segg. riproducono quasi alla lettera le note profezie di Isaia, vi prende forma il sogno messianico e imperialista ebraico, che per centro ha il Tempio: i «profeti del Gran Dio» terranno, dopo il ciclo delle catastrofi e delle distruzioni, la spada, e saranno re e giustizieri delle genti. Questi nuovi profeti, tutti discendenti da Israele, son destinati di essere «guide di vita per l'intero genere umano» (580).

È singolare il contrasto proprio al fatto che, mentre da una parte, come si è accennato, gli autori di questi scritti tentano un alibi pagano, vogliono cioè dare alle loro espressioni profetiche l'autorità procedente dall'antica tradizione sibillina romana, nel libro quarto (l-IO) essi vanno a tradire completamente le loro vere posizioni. In questo passo i Libri Sibillini contengono infatti una viva polemica contro le sibille pagane rivali e colei, nella bocca della quale si mette l'espressione delle speranze d'odio e di vendetta del popolo eletto, dice di esser profetessa non del «bugiardo Febo », del dio apollineo «che uomini sciocchi dissero un dio e chiamarono a torto profeta, ma di Dio grande »; del Dio, che non tollera imagini; cosa che vuol palesemente dire ]ehova, il dio del Mosaismo.

Con ciò - si direbbe in linguaggio hegeliano - la negazione va a negare la negazione, epperò a mettere in luce il fatto essenziale di tutta questa «tradizione ». Il «bugiardo Febo» che il Dio d'Israele vuole soppiantare è in realtà il falso Apollo, poiché, anche se la religione sibillina ha riferimenti ad Apollo, non si tratta qui, della pura divinità della luce, del simbolo del culto solare d'origine iperborea (nordico-aria), bensì dell'Apollo dionisizzato, che si associa all'elemento feminile e soprattutto questo prende ad organo delle sue rivelazioni, riesumando il principio dell'antica ginecocrazia demetrico-pelasgica. Ciò che rimane, è dunque la continuità di una influenza antiromana che sempre più si precisa e che nel periodo fra il I e il III secolo va incontestabilmente a far capo o, almeno, a far causa comune con l'elemento semitico-giudaico, in relazione al quale essa assume le sue forme più estremistiche e, per così dire, rivela finalmente il terminus ad quem , lo scopo finale di tutta questa fonte d'ispirazione: «O città tutta impura della terra latina, ménade che ama le vipere, immersa nel fuoco divampante raggiungi la tua iniqua regione tartarea di Ade».

 

 

 

10. orientamenti sulla massoneria

 

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Chi vuol rendersi conto delle influenze a cui l'epoca moderna deve la sua forma, non può trascurare uno studio avente per oggetto la massoneria. Fino a ieri, per molti, un tale studio presentò un carattere particolarmente attuale e da esso furono tratte conseguenze anche pratiche e politiche. Una volta constatata la parte che la massoneria ha avuto come potenza storica, non si poteva infatti non prendere posizione di fronte ad essa, in modo conforme ai principi che si difendevano. Come è noto, fin dalle origini il fascismo si schierò contro la massoneria (e qui nessuno vorrà avanzare ciò che si pretende che sia accaduto col razzismo e l'antisemitismo nel fascismo, ossia che tale presa di posizione sia avvenuta quasi coercitivamente, per influenze esterne). È egualmente nota la campagna antimassonica intrapresa da tempo da ambienti cattolici ufficiali, specie dai Gesuiti, e fino a ieri in scritti, come per es. quelli di Padre Gemelli, si potevano trovare espressioni, come «consorterie ebraico-massoniche », usate per accusare le forze che nell'ombra continuavano la lotta già secolare contro la Chiesa e i valori tradizionali.

Però su tutta questa materia non si hanno, in genere, idee chiare e ben fondate. I giudizi sulla massoneria oscillano fra quelli abbastanza superficiali di chi, riferendosi alla situazione più recente, non vede in essa che una combutta di individualità le quali si appoggiano a vicenda per delle utilità materiali e affatto profane, senza nessuna finalità trascendente, titoli e cerimonie simboliche essendo un mero orpello, e i giudizi di coloro che in essa vedono invece una potenza occulta avente i suoi capi segreti e dei piani ad ampio raggio. Sarà dunque utile venire ad una breve messa a punto, per orientamento di quei lettori della Destra, che si interessano al problema.

Accenneremo anzitutto alle origini effettive della massoneria. Non solo i nemici di essa, ma anche molti eminenti massoni hanno, a tale riguardo, delle nozioni assai vaghe e approssimative, credendo, in genere, che la massoneria sia stata sempre ciò che oggi si è trovata ad essere; in particolare, essi pensano che le origini positive della massoneria risalgano al 1717, anno in cui si costitui la Grande Loggia di Londra. Le cose stanno in modo alquanto diverso. La massoneria preesistette a tale data, che non fu la data della sua nascita ma quella di una crisi profonda e di una specie di secolarizzazione e di inversione di polarità subita da una precedente tradizione.

 Ciò che, in realtà, a partire da quel periodo si organizzò e si diffuse in modo sempre più vasto in Europa, fu la cosidetta massoneria speculativa, la quale negli stessi ambienti massonici moderni viene distinta dalla massoneria operativa. Non è facile dire brevemente circa l'essenza di quest'ultima, perché bisognerebbe entrare in un dominio che, pei più, è inusitato. Secondo l'interpretazione più superficiale e profana, la massoneria operativa sarebbe stata quella delle corporazioni di veri massoni, alle quali si aggiunsero in séguito elementi vari: operativa, dunque, perché essi svolgevano una attività materiale reale come costruttori di edifici, forse anche di cattedrali. L'antica massoneria ebbe di certo intime relazioni con tradizioni corporative di tale genere, risalenti al Medioevo e forse ancor più oltre. Ma il fatto è che a queste era anche propria una tradizione interna, basata sulla trasposizione simbolica sul piano spirituale dei concetti, dei principi e dei procedimenti dell'arte del costruire. La costruzione materiale divenne cioè una semplice allegoria per un'opera creativa interna e segreta; il tempio esteriore fu simbolo per quello interno; la pietra grezza da squadrare era la comune individualità umana, da rettificare affinché fosse qualificata per l'opus transjormationis, cioè per un superamento della caducità umana e per l'acquisizione di un sapere e di una libertà superiori, i gradi di tale realizzazione corrispondendo a quelli originari della vera gerarchia della « massoneria operativa », e non ancora « speculativa ».

In organizzazioni sparse, dove l'arte e 1'« operatività» avevano avuto questo speciale significato, non avendo dunque nulla a che fare col piano politico, sociale e ideologico, fra la fine del Seicento e il principio del Settecento deve essersi realizzato un processo di degenerescenza il quale permise l'azione di forze oscure e l'mflltrazione di elementi che andarono gradatamente a controllare quelle organizzazioni infondendo ad esse un diverso spirito e portando la loro azione sul piano ideologico e rivoluzionario attraverso la distorsione di alcune idee fondamentali. Benché sia essenzialissimo, su quest'ultimo punto qui, di nuovo, dobbiamo limitarci ad un accenno. In quelle antiche organizzazioni l'ideale centrale era una superiore libertà basata su una effettiva superiorità, nei seguenti termini: tutto ciò che è dogma e autorità veniva considerato come un semplice espediente legittimante si solo in vista dell'individualismo e della limitazione intellettuale dei più. Affinché certe verità di ordine trascendente venissero riconosciute e protette da ogni attacco o critica, era necessario presentarle nella forma di dogmi e appoggiarle ad una categorica autorità: forma, che però è del tutto inutile per chi avesse una illuminazione, perché questi sarà capace di riconoscerle direttamente , senza nessuna coercizione, tanto da porsi al disopra del dogma e di ogni particolare vincolo tradizionale estrinseco. In più al livello della conoscenza vera si giunge a qualche cosa di universale, anteriore e superiore a tutte le particolariforme dogmatiche vriamente condizionate. Ebbene, una delle principali distorsioni cui abbiamo accennato fu il riferire quel che è proprio a questo superiore, non comune, superpersonale livello di conoscenza e di coscienza, alla semplice ragione umana, facendo di essa il giudice supremo e trasformando quel che era l'impulso a portarsi integrativamente più in alto di ogni dogma e di ogni autorità esteriore, in un atteggiamento critico e distruttivo nei riguardi dei valori tradizionali, atteggiamento proposto democraticamente ad una umanità "emancipata" da liberare da ogni "oscurantismo" e da ogni "tirannide". Questo sposamento appare già nel mutamento di significato del termine "illuminismo". Esso in origine si riferiva agli "illuminati", a gruppi segreti che tendevano a conseguire l'illuminazione spirituale e superrazionale di cui si è detto; ma esso presto passò ad applicarsi a tutto quell'orientamento di cinca antitradizionale e razionalistica, negatrice di ogni principio di autorità, il quale corrisponde appunto al senso corrente e storico del termine «illuminismo », riferito al movimento ideologico che preparò la Rivoluzione Francese e, in genere, quella del Terzo Stato.

Dopo la costituzione della Grande Loggia di Londra la massoneria «speculativa» andò ad agire sempre più in questo senso abbandonando il campo spirituale, concentrandosi su quello politico, sociale e ideologico, e, quanto a tattica, usando l'azione coperta, sottile e indiretta. Questa trasformazione interna e degenerativa risulta peraltro nel modo più chiaro dalla contradizione esistente fra la struttura interna rigorosamente gerarchica della massoneria con tutto un insieme di gradi e di dignità altisonanti (anche se messe insieme in modo inorganico e sincretistico, specie nel Rito Scozzese) e l'ideologia esterna egualitaria, democratica, anti-autoritaria e umanitaria da essa professata. Il contrasto appare anche confrontando alcune antiche costituzioni massoniche che statuivano il dovere della fedeltà non solo ai sovrani del paese ma anche alla stessa Chiesa cattolica, con l'orientamento che si tradisce in alcuni rituali dei cosidetti gradi templari della massoneria scozzese, dove il neofita, per consacrare con un atto simbolico il suo solenne impegno di combattere la «doppia tirannide» (cioè il principio di autorità sia nel campo politico che in quello religioso) deve colpire con un pugnale la corona e la tiara, emblemi di quella duplice autorità.

Già da tempo tutto ciò non rimase semplice teoria, perché risulta di fatto (fra l'altro, da incartamenti del S. Uflizio) che in un convegno segreto di massoni, di Illuminati e di pseudo-rosacroce tenutosi vicino a Francoforte alla vigilia della Rivoluzione Francese (lo descrive anche, in forma romanzata, A. Dumas, anche lui massone, nel suo «Giuseppe Balsamo»), il programma annunciato fu proprio di abbattere per primo la casa di Francia, come principio di un incendio che avrebbe successivamente dovuto appiccarsi a tutta l'Europa, e poi di portare il colpo contro la Chiesa. In tale senso, più o meno da dietro le quinte, la massoneria ha anche agito in tutti i movimenti rivoluzionari che continuarono in Europa la Rivoluzione Francese (dopo che una parte essenzialissima essa l'ebbe nella costituzione degli Stati Uniti e della corrispondente democrazia), specie in quelli del 1848-1849, il fine essendo l'abbattere tutto ciò che sussisteva dell'Europa tradizionale, dei regimi del Primo e del Secondo Stato, cioè di quelli a base autoritaria, spirituale, dinastica e aristocratica, e l'alimentare la rivoluzione del Terzo Stato col liberalismo, la democrazia, il laicismo, I'anticattolicesimo, il costituzionalismo, presso ad un tendenziale internazionalismo. Da qui, la presa di posizione della Chiesa e la sua condanna della massoneria: condanna da riferirsi - è bene sottolinearlo - a quell'orientamento della Chiesa che molti cattolici di oggi non esitano a chiamare « anacronistico» o « medievalistico », per cui essa allora apparve come una potenza « reazionaria» alleata all'antico regime e considerante già il liberalismo negli stessi termini in cui i liberali di oggi considerano per es. il comunismo.

In realtà, dovunque si parla di « immortali principi », di « libertà» di « democrazia », di egualitarismo a base umanitaria e internazionalistica, e via dicendo, si hanno tante propaggini di quella religione antitradizionale del Terzo Stato, di cui la massoneria è stata la principale banditrice. È ben nota la parte che essa, specie nelle sue promanazioni come carboneria, ebbe nello stesso Risorgimento italiano negli aspetti non patriottici ma ideologico-rivoluzionari di esso. Meno nota, ma non meno reale, è stata la parte da essa avuta nella prima guerra mondiale nel suo presentarla come una crociata democratica contro gli Imperi centrali, i quali, a parte la Russia (che doveva venire egualmente travolta attraverso un giuoco di azioni e di reazioni concordanti) costituivano la parte dell'Europa rimasta più immune dalla rivoluzione del Terzo Stato. Cosi una parte essa l'ebbe anche in Italia, nella crisi della Triplice Alleanza e nello stesso interventismo (anche qui, di là dalla vernice del patriottismo, usato come mezzo a fine). Ancor prima che finisse quella guerra, un convegno internazionale di massoni a Parigi ne chiari le vere, non confessate finalità (« far fare un nuovo grande passo avanti alle idee della Rivoluzione Francese »), come pure quelle della Società delle Nazioni, di cui già allora tracciò il progetto. Negli Stati Uniti la massoneria e l'ebraismo spesso si trovarono intimamente e tatticamente con· nessi, e alla loro influenza è certamente da attribuirsi l'aspetto ideologico di « crociata» e il .radicalismo degli interventi americani in Europa, anche nella seconda guerra mondiale, e, in genere, molto di ciò che definisce le pretese degli Stati Uniti come nazione-guida paladina della democrazia, del « progresso» e della « civiltà ».

Talvolta nella massoneria sono sussistiti ambienti in cui in parte si conservò la tradizione dell'antica massoneria «operativa », specie in Germania, in Inghilterra e nei paesi nordici. Un caso tipico è quello di Joseph de Maistre, massimo esponente cattolico del principio della pura autorità dall'alto, del diritto divino, che fu anche un massone - appartenne alla loggia «La parjaite sincérité» di Chambery del Regime Scozzese rettificato col nome di Eques a floribus. Massoni furono anche Federico il Grande (tanto che al suo nome si lega, arbitrariamente, ma non per questo meno significativamente, una delle principali costituzioni massoniche) e numerosi principi inglesi del sangue; in certe circostanze la Chiesa accusò di massoneria perfino alcune personalità molto vicine a Metternich, la bestia nera dei liberali e dei democratici del tempo. Ma nello sviluppo delle grandi forze storiche e della corrente rivoluzionaria, tutto ciò non ebbe un qualsiasi peso, e nulla ne risulta che possa modificare il significato essenziale. D'altra parte, non si sa di nessun caso di dignitari riconosciuti di questa sopravvivente massoneria operativa che abbia comunque sconfessato e condannato. l'ideologia e l'azione della massoneria speculativa, che in realtà è stata l'unica ad esercitare un'influenza sensibile nel periodo che qui consideriamo.

In vista di tale azione, era naturale che il fascismo prendesse posizione contro la massoneria e procedesse alla soppressione delle logge. Sta di fatto che in un primo tempo la massoneria (propriamente quella di Rito Scozzese) aveva cercato di ripetere col fascismo della prima ora il giuoco di «mezzo a fine» che cosi spesso le era riuscito coi movimenti « patriottici ». Senza averne l'aria, gli dette degli aiuti nel periodo insurrezionale, perché contava su certe tendenzialità rivoluzionarie, laiche e repubblicane che invece lo Stato mussoliniano seppe subito superare. L'incompatibilità fra essere fascisti e essere massoni fu dichiarata in base alla tesi moderata di chi accusava l'internazionalismo massonico: uno Stato nazionale sovrano non può ammettere che suoi membri siano legati da un giuramento di obbedienza a una organizzazione segreta o semisegreta internazionale e supernazionale. La tesi radicale, cioè quella della lotta contro la massoneria come una delle potenze occulte che, in stretta connessione con l'ebraismo secolarizzato e con la finanza internazionale, controllano il mondo, nel fascismo fu difesa solo da alcuni gruppi di studi, soprattutto dal gruppo degli scrittori facenti capo a Giuseppe Preziosi. L'attentato contro Mussolini di cui il generale Capello, massone, fu l'istigatore, e non pochi altri fatti non molto noti, dimostrano come la massoneria avesse cercato di colpire il fascismo, divenuto inaspettatamente il principale ostacolo alla sua azione d'insieme in un paese dove, pei precedenti risorgimentali, le sue posizioni erano cosi forti, come nell'Italia.

Dopo questo sguardo retrospettivo sulla genesi, la natura e la direzione dell'azione della massoneria moderna, si può accennare a ciò che essa può ancora significare nel giuoco delle forze oggi in moto. In genere, si può dire che l'ora della massoneria è passata. Nella nuova Italia democratica, è naturale che essa abbia avuto una ripresa, ma la sua influenza politica è limitata a partiti minori, ai partiti repubblicano, liberale, radicale e socialdemocratico: cosi non può dirsi che essa abbia e possa avere una qualche parte determinante. In Francia le sue posizioni sono tuttora salde, e sembra che si debba attribuire alla sua azione nascosta l'infrenamento del recente movimento nazionale e militare di destra. Parimenti immutate sono le posizioni della massoneria americana. Ma, in genere, ciò che deve far pensare che la massoneria non abbia un futuro, sono delle considerazioni di carattere generale circa il senso complessivo della storia. Come in molte occasioni l'abbiamo rilevato, e come la stessa storiografia marxista lo ha presentito dando però un significato di progresso a ciò che invece è regresso e involuzione, secondo un ritmo abbastanza preciso, generale e uniforme, da civiltà, sistemi politici e società controllati dal Primo Stato, cioè basati sulla pura autorità spirituale e sacrale, si è passati a civiltà e regimi aristocratici, feudali e monarchici (Secondo Stato). Con la crisi di questa epoca, è il Terzo Stato che è venuto al potere, col ciclo delle democrazie, con la società borghese e col capitalismo quale controparte economica. Ma la tendenza già da tempo delineatasi è verso un'ulteriore discesa di livello, verso la rivoluzione del Quarto Stato nel segno di marxismo e di comunismo e, come forme più attenuate di transizione, con tutto ciò in cui predomina l'elemento collettivistico e « sociale ».

In tutto questo giuoco di forze, come abbiamo detto, la parte della .massoneria è stata di preparare la rivoluzione del Terzo Stato, di contribuire attivamente alla crisi e alla distruzione dei sussistenti sistemi della civiltà del Primo e del Secondo Stato e di sviluppare tutte le conseguenze dell'ideologia degli «immortali principi» in sede nazionale e internazionale. Ma nel compiere quest'opera, lungi da condurre, come secondo la sua utopia, verso uno stadio definitivo, la massoneria ha semplicemente e fatalmente spianato il terreno alla successiva ondata, al mondo del Quarto Stato: è la dialettica ben riconosciuta dalla storiografia marxista, per cui la rivoluzione borghese e liberale fa da semplice apritrice di breccia a quella socialista. In parte, ciò vale anche per l'ebraismo nel suo aspetto di potenza internazionale strettamente connessa al capitalismo, quindi alla civiltà del Terzo Stato: non si potrà più contarlo fra le potenze determinanti al chiudersi del ciclo. Pertanto, vediamo che la massoneria, dopo aver assolto il suo compito, nei tempi più recenti è stata sempre più scalzata e soppiantata; le forze da essa' liberate sono passate o stanno passando in altre mani nella lotta per la conquista del mondo. A parte le aree marxistizzate e comuniste, dove massoneria e ebraismo sono stati messi al bando, anche nell'« Occidente» si sono organizzate delle forze che praticamente si sono sciolte in larga misura dall'obbedienza massonica (se a tale riguardo si pensa di un vero e proprio piano sopraordinato), e per le quali l'ideologia illuministica e democratica delle origini è solo una cornice e un accessorio. Così il vero pericolo ormai non sta più là dove la polemica antimassonica (e in parte anche antiebraica) aveva creduto di individuarlo nel periodo della crisi dell'Europa tradizionale.

 Qui non è il caso di parlare di alcuni tentativi sporadici di ricondurre la massoneria alla sua tradizione « operativa », cioè spirituale. A prescindere da qualche gruppo di studi, gli appelli in tal senso che alcuni, rifacendosi soprattutto alle idee di René Guénon, hanno lanciato in tal senso, sembra che nelle grandi logge abbiano avuto COS1 poca eco, quanta nelle alte gerarchie cattoliche ne hanno avuta quella di uomini della Destra, che vorrebbero che il cattolicesimo scendesse in campo risolutamente e senza compromessi contro tutte le forze della sovversione moderna. Certe tendenze cattoliche di «mettersi al passo », certe combutte del cattolicesimo politico dei partiti con massoni, o almeno con ideologie la cui origine massonica e antitradizionale è evidentissima, vanno annoverate fra i segni, non certo edificanti, dei tempi.

 

 

 

11. il tramonto dell'oriente

 

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Che il prestigio e l'egemonia della razza bianca siano ormai in piena crisi, è cosa che non fa più dubbio a nessuno. È l'Oriente che, per primo, sta destandosi e passando anzi all'attacco. I rivolgimenti recenti che hanno avuto per ora per epicentro soprattutto le razze gialle, non possono logicamente esser considerati che come precursori di un moto più vasto e generale, di uno scatenamento, destinato a render ancor più problematico il nostro futuro. Di tutto ciò è interessante indagare sia l'origine, sia il significato più profondo.

In primo luogo vi è da riconoscere che le razze bianche, a tale riguardo, stanno solo raccogliendo i frutti di quel che esse hanno seminato. Se la loro egemonia sta riducendosi ad un mito, se negli spazi già coloniali stanno prendendo forma forze ritorcentisi contro di esse, in ciò non vi è nulla più dell'effetto di una specie di Nemesi storica.

 

Le razze bianche se la sono voluta

 

 

Risaliamo un momento alle origini. Il fatto che per secoli un certo gruppo di popoli sia riuscito ad assoggettare il proprio volere tutto il resto del mondo appare unico nella storia uruversale, specie quando si tengano presenti tutti i casi in. cui non fu in alcun modo presente, per una tale egemonia del bianchi, la controparte di una superiorità vera, cioè spirituale. Agli inizi della conquista, verso l'epoca della Rinascenza, potettero sì agire uno spirito di avventura, un ardimento, una volontà decisa, una durezza di carattere, e poi doti di organizzazione; ma quella della « superiorità di civiltà» fu, specie nei riguardi dell'Oriente, una mera presunzione delle razze bianche, come lo fu il convincimento che il cristianesimo le facesse portatrici della vera fede autorizzandole ad un distacco superbo dal resto dell'umanità, considerato come «pagano» e barbarico.

Ma questi stessi fattori eroico-religiosi dovevano rapidamente venir meno. Al periodo dei conquistadores subentrò uno sfruttamento economico da parte delle varie compagnie commerciali, con forze armate per imporre lo scambio delle merci e il «libero commercio» anche a chi non ne sentiva affatto il bisogno. Il mito della superiorità che alla fine giustificò ogni sorta di abusi e di sopraffazioni, si appoggiò alla superstizione progressistica, cioè alla idea che scienza e civilizzazione tecnica costituiscano l'ultima parola della storia del mondo ed assicurino agli Europei il diritto mondiale per un'opera generale di «incivilimento ». Sviluppandosi l'èra del nazionalismo, del capitalismo e della democrazia, questo sistema doveva esser colpito nelle sue stesse fondamenta, la prima guerra mondiale con la sua ideologia costituendo il punto decisivo di svolta. Le incoerenze di quella civiltà, di cui ancora diversi nostri contemporanei sono fieri, si toccano qui con mano.

Per primo, diffondere il vangelo dei «diritti dell'uomo », proclamare il dogma della fondamentale eguaglianza di ogni essere avente sembianze umane, significa distruggere virtualmente il presupposto di ogni egemonia che non si riduca a pura e semplice sopraffazione. Se gli uomini - almeno di diritto - sono uguali, è « ingiusto» che un popolo domini un altro, qualunque esso sia, ed è da mentecatti pensare che il colore bianco della epidermide voglia dire qualcosa di più di un qualsiasi altro colore.

 

Versailles ha seminato, l'Oriente raccoglie

 

 

Viene poi il contributo proprio al cosidetto «princIpIo delle nazionalità» o della «autodecisione dei popoli ». Impugnato dalle democrazie occidentali a Versailles per abbattere ciò che l'Europa presentava ancora di rifacentesi ad un'idea aristocratica e imperiale, esso è un demone che sfugge ai suoi evocatori. Non si vede come possa esser limitato, nella sua validità, ai popoli occidentali, come ogni popolo coloniale non debba parimenti rivendicarlo. Per cui gli Occidentali, con una specie di autosadismo, dovevano ridursi alla fine a predicare l'anticolonialismo, ad assumere - per salvare ancora qualcosa ed anche la faccia - la parte del lacché che ha solo dei «mandati» sugli altri popoli, che è al loro servizio per « educarli» e « civilizzarli », ossia per condurli allo stato di consapevolezza e di efficienza tecnica che alla fine li porrà in grado di metterlo alla porta.

Si aggiunge, come apice, la contradizione interna accusata dal leninismo in ciò che esso chiama il «capitalismo morente ». È il capitalismo che dal suo proprio ingorgo finanziario è spinto ad « industrializzare» ogni residua area del mondo, con l'effetto di crearvi il fenomeno nuovo di un proletariato locale pronto ad aggregarsi al fronte internazionale del comunismo. Uno dei cavalli di battaglia del comunismo, come è noto, è appunto l'equiparare i popoli non europei al proletariato oppresso e sfruttato dalla borghesia e dall'imperialismo, che sarebbero rappresentati dai popoli bianchi già signori del mondo.

Questo, quanto alle cause. In pochi casi come in questo, si vede dunque ben chiaro l'effetto di una giustizia immanente, di una Nemesi storica. La civiltà materialistica e plebea che l'Occidente ha eletto produce, come di rimbalzo, i suoi frutti.

Senonché va ora messo in risalto l'altro punto, relativo al significato che per continenti, come soprattutto l'Asia, ha il «risvegliarsi ». Tale significato è chiaro: per essi significa imboccare la stessa via discendente, spiritualmente involutiva, che noi abbiamo presa. Specie l'Oriente sorge come antagonista e pericolo per l'Occidente solo nel punto di assimilare, di questo, le ideologie più pervertitrici, di venir meno alle sue tradizioni, di dirigere verso l'esterno tutta quella tensione spirituale che in precedenza - secondo ciò che è proprio ad ogni civiltà incentrata in valori sovramondani e metafisici - era raccolta soprattutto verso l'interno e verso l'alto. A tale stregua il risveglio dell'Oriente equivale esattamente al tramonto dell'Oriente, nello stesso senso per cui Spengler poté già parlare di «tramonto dell'Occidente ».

Della portata e della pericolosità dello scatenamento da attendersi nel punto in cui l'Oriente già ascetico e spirituale si getti interamente in questa direzione, non può rendersi conto chi non abbia appunto il senso di tutto il potenziale, di tutta la forza espansiva, esplosiva, travolgente, a cui dà luogo una intensità spirituale quando essa si distolga dal suo oggetto naturale, non terreno, e si espanda verso l'esterno, come forza materiale, politico-sociale ed anche militare.

 

Concorrenza attivistica tra America e Asia

 

 

Gli anticipi di ciò si sono già avuti. Vorremmo sapere dove son finiti tutti quelli che consideravano gli Orientali come apatici, passivi, contemplativi. Scioltisi dalle loro tradizioni, si vede come questi, non appena familiarizzatisi con la tecnica, sono stati capaci di dar delle lezioni agli Americani, «attivisti» per eccellenza. Nel combattere, si vede anzi come a queste forze siano propri un impeto, un fanatismo, un disprezzo assoluto per la morte, che lascia spesso stabilire dei confronti poco edificanti coi soldati delle democrazie occidentali.

Non si dimentichi il fattore inestimabile che, a tale riguardo, rappresenta una visione tradizionale della vita la quale, come quella predominante in Oriente, non considera il nascere in terra come il principio, né il morire come la fine, ma tutta questa esistenza intende invece come un mero episodio, SI che ogni tragedia si relativizza ed è presente la disposizione ad uno slancio o sacrificio assoluto, in incuranza di vita e di morte.

Tutto questo dovrà essere considerato nel «potenziale» dell'Oriente che si libera - cioè che l'Occidente ha liberato - e che ora la sovversione rossa sta mobilitando ed organizzando, spesso realizzandosi (vedi il caso della Cina) in un piccolo gruppo di anni quel 'passaggio a frana dagli Imperi al marxismo, per il quale in Europa occorsero tappe di secoli.

Siffatto orizzonte potrà anche non essere quello dell'immediato domani. Ma è la direzione che conta. Soluzioni politiche ed economiche, secondo noi, non sono che bagattelle. L'unica impostazione radicale la si deve, se mai, appoggiare alle leggi cicliche che regolano lo sviluppo delle civiltà. In forza di esse, le forme ultime di ogni civiltà perdono il loro originario carattere spirituale, si materializzano, s'inspessiscono ed infine si dissolvono disordinatamente e « attivisticamente », fino al prorompere di un nuovo principio animatore ed organizzatore.

È visibile che l'Occidente si trova verso la fine di un ciclo del genere, ma per ciò stesso anche piti vicino, eventualmente, al nuovo principio: più vicino di quei popoli che solo ora, ad~ttando la civiltà moderna e «liberandosi», stanno imboccando la via. che, dopo i miraggi della civilizzazione tecnico-sociale e dei suoi derivati, li condurrà fatalmente verso le stesse crisi fra di noi già in atto da tempo. Così se queste crisi a noi sarà .dato di . superarle, an.a posizione di testa potrà esserci di nuovo assicurata rispetto ad essi, e in termini ben diversi di quelli con cui gia si pensò dì legittimare la supremazia ed ogni violenza dei bianchi.

Per problematica che sia, questa, secondo noi, è l'unica prospettiva che resta aperta, se i problemi qui accennati si ha il coraggio di pensarli sino in fondo.

 

 

 

12. dioniso e la "via della mano sinistra"

 

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Quali sono tratteggiati nell'esposizione di una delle prime opere, assai suggestiva, di Federico Nietzsche - La nascita della Tragedia _ i concetti di Dioniso e di Apollo hanno una scarsa corrispondenza col significato che queste entità ebbero nell'antichità, specie in una loro comprensione esoterica. Ciò nondimeno qui ci rifaremo proprio a quella loro assunzione nietzschiana come punto di partenza, al fine di definire degli orientamenti esistenziali fondamentali.

Cominceremo col presentare un mito.

Immerso nella luminosità e nell'innocenza favolosa dell'Eden l'uomo era un beato e un immortale. In lui fioriva l'Albero della Vita e lui stesso era questa vita luminosa. Ma ora sorge una nuova, inaudita vocazione: la volontà di un dominio sulla vita, il superamento dell'essere, per il potere di essere e non essere, del Si e del No. A ciò si può riferire 1'« Albero del Bene e del Male ». In nome di esso l'uomo si stacca dall'Albero della Vita, il che comporta il crollo di tutto un mondo, nel lampeggiamento di un valore che dischiude il regno di colui che, secondo un detto ermetico, è superiore agli stessi dèi in quanto con la natura immortale, a cui questi sono astretti, ha in suo potere anche la natura mortale, epperò con l'infinito anche il finito, con l'affermazione anche la negazione (tale condizione fu contrassegnata dall' espressione di «Signore delle Due Nature»).

Ma a questo atto l'uomo non fu sufficiente; lo prese un terrore, da cui fu travolto e spezzato. Come lampada sotto uno splendore troppo intenso - è detto in un testo cabbalistico -, come un circuito percosso da un potenziale troppo alto, le essenze si incrinarono. A ciò va rapportato il significato della «caduta» e della stessa «colpa », Allora, scatenate da questo terrore, le potenze spirituali che dovevano essere serve, immediatamente si precipitarono e ghiacciarono in forma di esistenze oggettive autonome, fatali. Sofferta, resa esterna e fuggente a se stessa, la potenza prese le specie di una esistenza oggettiva autonoma, e la libertà - l'àpice vertiginoso che avrebbe instaurata la gloria di un vivere superdivino - si fece la contingenza indomabile dei fenomeni fra i quali l'uomo vaga, trepida e misera ombra di se stesso. Si può dire che questa fu la maledizione scagliata dal «Dio ucciso» contro colui che fu incapace di assumere l'eredità.

Con Apollo, inteso sempre in termini nietzschiani, si sviluppa ciò che deriva da questo venir meno. Nella sua funzione elementare, deve essergli riferita la volontà che si scarica di se stessa che non vive più se stessa come volontà, sibbene come «occhio >: e come «forma» - come visione, rappresentazione, conoscenza. È appunto l'artefice del mondo oggettivo, il fondamento trascendentale della «categoria dello spazio ». Lo spazio, inteso come il modo dell'« esser fuori », come ciò per cui le cose non sono più vissute in funzione di volontà bensf sotto le specie di imagini e di visività, è l'oggettivazione primordiale della paura, dell'incrinarsi e dello scaricarsi della volontà: trascendentalmente la visione di una cosa è la paura e la sofferenza riguardanti quella cosa. E il «molteplice », l'indefinita divisibilità proprie alla forma spaziale ne riconfermano il significato, riflettendo appunto il venir meno della tensione, il disgregarsi dell'unità dell'atto assoluto.

Ma come l'occhio non ha coscienza di sé se non in funzione di ciò che esso vede, del pari l'essere, reso oggettivo ed esteriore a se stesso dalla funzione « apollinea» dello spazio, è essenzialmente dipendente, legato: è un «essere che si appoggia », che trae da altro la propria consistenza. Questo bisogno di appoggio genera la «categoria del limite »: la tangibilità e solidità delle cose materiali ne sono l 'incorporazione , quasi la sincope stessa della paura che arresta l'essere insufficiente sul limitare del mondo «dionisiaco». Perciò la si potrebbe chiamare il «fatto» di questa paura, di cui lo spazio è 1'« atto ». Come caso particolare del limite, si ha la legge. Mentre colui che è da se stesso non ha paura dell'infinito, del caos, di ciò che i Greci chiamavano l'apeiron, perché anzi vi vede riflessa la propria natura più profonda di «ente sostanziato di libertà », colui che trascendentalmente viene meno ha un orrore per l'infinito, fugge da esso e cerca nella legge, nella costanza delle sequenze causali, nel prevedibile e nell'ordinato un surrogato di quella certezza e di quel possesso da cui è decaduto. La scienza positiva e ogni morale potrebbero, in un certo senso, rientrare in una non diversa direzione.

La terza creatura di «Apollo» è la finalità. Per un dio, il fine non può avere alcun senso, dato che egli fuori di sé non ha nulla - né un buono, né un vero, né un razionale, piacevole o giusto - da cui trarre norma ed essere mosso, ma buono, vero, razionale, piacevole e giusto si identificano con ciò che egli vuole, semplicemente in quanto lo vuole. In termini filosofici, si può dire che della sua affermazione, la «ragion sufficiente» è l'affermazione stessa.

Invece gli esseri esteriori a se stessi per agire hanno bisogno di una correlazione, di un movente dell'azione o, per meglio dire, della parvenza di un movente dell'azione. Infatti in casi decisivi, fuori da contesti banalmente empirici, l'uomo non vuole una cosa perché la trova, ad esempio, giusta o razionale, ma la trova giusta e razionale semplicemente perché la vuole (la stessa psicanalisi ha dato, a tale riguardo, alcuni contributi validi). Ma di scendere nelle profondità in cui il volere o l'impulso nudamente si afferma, egli ha paura. Ed ecco che la prudenza « apollinea» preserva dalla vertigine di qualcosa che possa accadere senza avere una causa e uno scopo, ossia unicamente per se stessa, e secondo lo stesso movimento con cui liberò la volontà in una visività, fa ora apparire, attraverso le categorie della «causalità» e della cosidetta «ragion sufficiente », le affermazioni profonde in funzione di scopi, di utilità pratiche, di motivi ideali e morali che le giustifichino, su cui si appoggino.

Cosi tutta la vita della gran massa degli uomini prende il senso di un fuggire dal centro, di una volontà di stordirsi e di ignorare il fuoco che arde in loro e che essi non sanno sopportare. Tagliati fuori dall'essere, essi parlano, si agitano, si cercano, si amano e si accoppiano in richiesta reciproca di conferma. Moltiplicano le illusioni e cosi erigono una grande piramide di idoli: è la costituzione della società, delle moralità, delle idealità, delle finalità metafisiche, del regno degli dèi o di una tranquillizzante provvidenza, per supplire all'inesistenza di una ragione centrale, di un significato fondamentale. Tutte «macchie luminose a soccorso dell'occhio offeso per aver fissato nell'orribile tenebra» - per usare le parole di Nietzsche.

Ora 1'«altro» - l'oggetto, la causa, la ragione, ecc. - non esistendo in sé, essendo soltanto una apparizione simbolica del deficiere della volontà a se stessa, con l'atto in cui questa chiede ad altro la sua conferma, in realtà va solo a confermare la sua stessa deficienza. Cosi l'uomo vaga, simile a colui che insegue la propria ombra, eternamente assetato e eternamente deluso, creando e divorando incessantemente forme che «sono e non sono» (Plotino). Cosi la « solidità» delle cose, il limite apollineo, è ambiguo; esso viene meno alla presa e rimette ricorrentemente ad un punto successivo la consistenza che esso sembrava garantire e con cui lusingava il desiderio e il bisogno. Donde, oltre quella dello spazio, la categoria del tempo, la legge di un divenire di forme che sorgono e si dissolvono - indefinitamente -, perché per un solo istante di arresto, per un solo istante in cui non agisse, non parlasse, non desiderasse, l'uomo sentirebbe crollare tutto. Cosi la sua sicurezza fra le cose, le forme e gli idoli è spettrale quanto quella di un sonnambulo che va sull'orlo di un abisso.

Tuttavia questo mondo può non essere l'ultima istanza. Non avendo infatti radice in altro, essendone soltanto l'Io il responsabile e tenendone egli entro di sé le cause, egli ha in via di principio la possibilità di operarne la risoluzione. Cosi è attestata una tradizione riguardante la « grande Opera », la creazione di un « secondo Albero di Vita ». Questa è l'espressione usata da Cesare della Riviera, nel suo libro Il mondo magico de gli Heroi (2a ed. Milano, 1605), dove tale compito viene associato alla « magia» e in genere alla tradizione ermetica e magica. Ma in questo contesto è interessante considerare ciò che è proprio alla cosidetta « Via della Mano Sinistra ». Essa comporta il coraggio di strappar via i veli e le maschere con cui « Apollo» nasconde la realtà originaria, di trascendere la forma per mettersi in contatto con l'elementarità di un mondo in cui bene e male, divino e umano, razionale e irrazionale, giusto e ingiusto non hanno più alcun senso. Nel contempo, essa comporta il saper portare all'àpice tutto ciò da cui il terrore originario è esasperato e che il nostro essere naturalistico e istintivo non vuole; saper rompere il limite e scavare sempre più profondamente, alimentando la sensazione di un abisso vertiginoso, e consistere, mantenersi nel trapasso, in cui altri sarebbero spezzati. Da qui la possibilità di stabilire una connessione anche col dionisismo storico, a tale riguardo entrando in quistione non quello « mistico» e « orfico », bensi quello tracio, che ebbe alcuni aspetti frenetici, orgiastici e distruttivi. E se Dioniso si rivela nei momenti di crisi e di crollo della legge, anche la «colpa» può rientrare in questo campo: esistenziale; in essa il velo apollineo si squarcia e, messo di faccia alla forza primordiale, l'uomo giuoca la partita della sua perdizione o del suo farsi superiore a vita e a morte. È interessante che il termine tedesco per delitto comprenda il significato di uno spezzare (ver-brechen). Un atto lo si può continuare a chiamare colpevole in quanto è un atto di cui si ha paura, che non ci si sente di poter assumere assolutamente, per cui si viene meno ad esso, che incoscientemente giudichiamo essere qualcosa di troppo forte per noi. Ma una colpa attiva, positiva, ha qualcosa di trascendente - Novalis ebbe a scrivere. Quando l'uomo volle divenire Dio, egli peccò, quasi che questa ne fosse la condizione. Nei misteri mithriaci la capacità di uccidere o di assistere impassibili ad una uccisione (eventualmente simulata) costituiva una prova iniziatica. Allo stesso contesto potrebbero essere riportati certi aspetti dei riti sacrificali, quando la vittima veniva identificata con la stessa divinità, eppure il sacrificatore doveva abbatterla affinché, superiore alla maledizione e alla catastrofe, in lui - ma anche nella comunità che in lui magicamente convergeva - si liberasse l'assoluto: la trascendenza, nella tragicità del sacrificio e della colpa.

 Ma l'atto può anche portarsi su se stessi, in alcune varietà della «morte iniziatica ». Far violenza alla vita in sé, nell'evocazione di qualcosa di elementare. Cosi la via che in alcune forme dello yoga tantrico si apre a «kundalini» viene chiamata quella in cui «divampa il fuoco della morte ». L'atto tragico del sacrificatore qui si interiorizza e diviene la pratica con la quale la stessa vita organica nella sua radice viene privata d'ogni appoggio, viene sospesa e trascinata di là da sé lungo la «Via Regia» della cosidetta sushumna, «divoratrice del tempo».

È noto che storicamente il dionisismo ha potuto associarsi a form~ di sc~tenamento frenetico, distruttivo e orgiastico, come nel tipo classico della baccante e del baccante (Dioniso = Bacco), della menade e del coribante. Ma qui è difficile separare ciò che può rifarsi alle esperienze dianzi accennate, da fenomeni di possessione, di invasamento, specie quando non si tratta di forme istituzionalizzate e legantesi ad una tradizione. Comunque è sempre da ricordare che qui ci si trova sulla linea della «Via della Mano Sinistra », la quale costeggia gli abissi, e andar sulla quale, è detto in alcuni testi, rassomiglia all'andare su di un fil di spada. Il presupposto, sia nel campo della visione (aprovvidenziale) della vita, sia di questi comportamenti è la conoscenza del mistero della trasformazione del veleno in farmaco, la quale costituisce la forma più alta dell'alchimia.

 

 

 

13. il mito della regalità futura

 

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In un precedente scritto abbiamo riferito alcune prognosi che filosofi, come il Vico e lo Spengler, hanno formulato sul corso della storia. Questi pensa tori hanno riconosciuto che il punto più critico del terminarsi di un ciclo storico può essere anche quello del riprendere vigore di un principio di autorità e di una « monarchia» nel senso letterale di «dominio di un solo ». Mentre accusavamo i Iati sospetti che presenta questa veduta, appunto perché non si tratterebbe di un potere avente un superiore crisma di legittimità, notavamo che quei filosofi hanno ripreso a loro modo un motivo avente un carattere di universalità nelle tradizioni e nei miti di moltissimi popoli.

È su ciò che - se si vuole, a semplice titolo di curiosità - vogliamo ora portare l'attenzione, scegliendo fra un materiale vastissimo. Si può parlare, a tale riguardo, di un « mito dell'avvento ». Si tratta parimenti di una progno si della storia. L'idea-base è la stessa: quasi per una brusca inversione, nel punto massimo del disordine si manifesta un nuovo principio che talvolta ha tratti sovrannaturali e sacrali, tal altra però anche tratti eroici e regali. Questa è per esempio la nota teoria indù degli auatdra, «discese» o manifestazioni periodiche di una forza dall'alto, quando in una società la legge è violata, le caste più non esistono, l'empietà, il disordine e l'ingiustizia prevalgono. Così per un periodo del genere è atteso, nel futuro, il cosidetto Kalki-avatàra, che insieme ai re della « dinastia solare» e di quella «lunare », darà la battaglia alle forze del caos.

A ciò fa riscontro l'antico mito persiano dell'avvento di Shaoshyant. Nell'eterna vicenda della lotta fra il dio luminoso Ahuramadza e l'antidio Arimane, questa sarà l'apparizione di un sovrano inviato dal primo per instaurare un nuovo, trionfale regno dei fedeli al principio dell'ordine, della luce e della verità. Ora, è interessante notare che gli Ebrei proprio da tale più antica concezione irà?ica trassero l~ loro. idea del Messia, la quale solo nel tardo profetIsmo assunse 1 tratti soltanto mistici e religiosi che anticiparono la teoria cristiana dell'avvento del regnum sovraterreno. Nell'antica concezione ebraica il Messia era invece colui che, promanazione del «Dio degli eserciti », avrebbe assicurato al «popolo eletto» il potere su questo mondo e il dominio su tutti i suoi nemici.

 Cosa poco nota, il mito dell'avvento ebbe una particolare forza nel periodo imperiale romano. Proprio come adventus venne designata l'ascesa al trono di ogni nuovo Cesare. Se già un Virgilio nella nota ecloga aveva preannunciata, in relazione all'avvento di Augusto, la fine dell'età del ferro, il sorgere di una nuova età aurea, cosi anche successivamente si diffuse il clima di una specie di attesa messianica intorno alla figura di ogni nuovo imperatore, che veniva salutato con la formula liturgica: «Vieni, tu che noi aspettiamo! ». In una interessante opera (Christus und die Caesaren) lo Staufer mette in luce appunto questi aspetti della mistica romana del Regnum, che in una certa misura hanno involontariamente preparato il terreno all'idea cristiana.

 Ma forse è il Medioevo che presenta le formulazioni più suggesnve del tema di cui parliamo. La restauratio imperii romanogermanica e ghibellina si associò ad un gruppo di leggende e di miti nei quali essa si potenziava in un significato superiore trascendente, universale. Qui entrano in prima linea le leggende del GraaI. Come abbiamo mostrato in un nostro libro, il nucleo centrale di esse ha poco da fare con le divagazioni mistico-cristiane e romantiche di Wagner. Qui si tratta essenzialmente dell'attesa di colui, in virtù del quale un regno decaduto risorge a nuovo splendore.

 Molte altre varianti ebbe il mito imperiale del Medioevo ghibellino, Il tema dantesco del rifiorire dell'Albero dell'Impero vi si riferisce. Ancor piti interessante è però il motivo dell'« ultima battaglia ». Esso si associa all'idea dell'interregnum, della latenza della funzione regale. Una figura regale o imperiale - identificata nella saga con l'uno o l'altro personaggio storico - in realtà non sarebbe mai morta. Si sarebbe ritirata in un soggiorno inaccessibile (per es. Federico Barbarossa nel Kyffhauser) ed. attenderebbe l'ora per ridestarsi e rimanifestarsi, per combattere insieme a tutti coloro che gli sono rimasti fedeli una battaglia decisiva contro le forze del disordine, dell'ingiustizia e delle tenebre.

È interessante che in una variante della saga quest ora coinciderebbe col tempo del prorompere delle genti di Gog e Magog alle quali Alessandro Magno aveva già sbarrato la via mediante una muraglia di ferro. Queste genti demoniache possono ben simboleggiare il mondo in rivolta delle masse materializzate e senza Dio, ed è interessante il dettaglio, che il loro scatenamento avverrebbe nel punto in cui ci si accorgerà che nessuno più suona le trombe poste al sommo della muraglia, che è solo il vento a suonarle. Cioè: quando ci si accorgerà che non esiste più nessuno dietro le apparenti difese di un mondo in crisi a dare ad esse consistenza e vera legittimità, è allora che si produce lo scatenamento delle forze del basso. Giunte che siano al loro limite estremo l'usurpazione e il conseguente disordine, si ha la crisi. e il momento decisivo: l'ultima battaglia, dall'esito della quale dipenderà la poossibilità, o meno, dell'iniziarsi di un nuovo ciclo positivo e del rimanifestarsi del Regnum.

È cosi che forse un significato non peregrino è chiuso in tutte queste variazioni del «mito dell'avvento», a convalidare con le verità di una tradizione quasi perenne la fede di coloro che oggI non sono ancora spezzati.

 

 

 

14. quo vadis, ecclesia?

 

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Diversi anni fa, prima della guerra, Julien Benda scrisse un libro che ebbe notevoli risonanze per accusare un fenomeno caratteristico dei tempi ultimi, pel quale egli usò la designazione trahison des cleres. Prendendo il termine clere nel suo senso antico, il Benda con esso si riferi essenzialmente al tipo dell'intellettuale e pensatore ad orientamento etico, la cui funzione in altri tempi era stata la difesa e la testimonianza di valori OPposti al materialismo delle masse, alle passioni di parte, agli interessi della mera esistenza umana. Il Benda rilevò che se i clercs non si illudevano di poter realizzare i valori ideali da essi difesi (nel che si palesava un certo orientamento dualistico e pessimistico, il quale non gli fece riconoscere civiltà del passato in cui quei valori stettero effettivamente al centro di organismi tradizionali), pure impedivano che di tutto ciò che è materiale, inferiore e soltanto umano si facesse una religione e gli si attribuisse usurpatoriamente un significato superiore.

Ebbene, i tempi ultimi ci hanno offerto lo spettacolo della diserzione e del tradimento dei cleres; questi - come osservò il Benda - hanno abbandonato le loro posizioni e sono andati a mettere l'intellettualità, il pensiero e la loro stessa autorità al servigio della realtà materiale e dei processi e delle forze che si affermano nel mondo moderno, dando loro una giustificazione, un diritto, un valore. Il che non ha potuto non portare ad una accelerazione e ad un potenziamento senza precedenti di quelle forze e di quei processi.

Dal tempo in cui il Benda scrisse il suo libro il fenomeno accusato si è solo esteso, e noi abbiamo creduto bene, qui, farvi cenno pel fatto che esso ormai sembra investire i rappresentanti della stessa religione venuta a predominare in Occidente, cioè del cattolicesimo. Infatti non si tratta più dei soli intellettuali cosidetti « impegnati », dei « progressisti » e degli «storicisti », non si tratta degli ideologi al servigio degli interessi di partito e dei banditori del «nuovo umanismo », ma anche dei clercs nel senso proprio del termine; una parte del clero, fino alle supreme gerarchie, sembra incline al « tradimento» accusato dal Benda.

Il cattolicesimo sta prendendo, in effetti, un orientamento tale che coloro che difendono valori veramente tradizionali, e per ciò stesso di Destra, debbono chiedersi fino a che punto su di esso si può ancora contare come su di un fattore per questa difesa, fino a che punto, invece, una nuova scelta delle vocazioni e delle tradizioni conduce potenzialmente la Chiesa sulla stessa direzione delle forze e delle ideologie sovvertitrici predominanti nel mondo moderno.

La popolazione dell'Italia essendo prevalentemente cattolica, il cattolicesimo avendo tuttora radice in larghi strati di essa, esso costituisce anche una forza politica. COSI nelle campagne elettorali spesso si è cercato di guadagnarsi una parte delle masse col rifarsi ostentatamente al cattolicesimo e ai « valori morali cattolici », anche quando ciò si riduceva a mere parole o addirittura ad una ipocrita menzogna. Ma oggi si sta arrivando ad un punto in cui perfino questa giustificazione tattica e opportunistica sembra venir meno, in cui vi è da chiedersi dove la Chiesa va e vuole andare, per potersi orientare coraggiosamente di conseguenza.

Che il cattolicesimo da tempo abbia accantonato o messo in terzo piano i valori della vera trascendenza, dell'alta ascesi e della contemplazione (tanto che tutti gli Ordini veramente contemplativi vivono di una vita grama e rischiano di estinguersi), che esso si sia preoccupato, invece e soprattutto, di un moralismo di tipo parrocchiano e borghese, concentrandosi sempre più sul piano comunitario, ciò è ben noto. Però si profila una fase ulteriore, in questa regressione: quella della politicizzazione e del crescente «progressismo » del cattolicesimo.

Bisogna dire senza mezzi termini che una parte non indifferente dell'esito disastroso delle ultime elezioni politiche in Italia, con l'avanzata del marxismo e del comunismo, ricade proprio su questo nuovo corso della Chiesa. La sua tacita consacrazione della democrazia cristiana non è stata in nessun modo revocata nel punto del famoso centro-sinistra messo su da tale partito. AI contrario:

Papa Roncalli non ha perduto occasione per professare il. suo « pr?gressismo », la sua ansia pel « progresso sociale» concepito proprI~ nei termini materiali e immanenti che in precedenza erano propn alle ideologie laiche. La solenne condanna del marxismo da parte del suo predecessore è valsa praticamente come non esistente; invece è stata avanzata la pericolosa tesi, che bisogna dissociare l'ideologia dai suoi possibili effetti pratici, e che se questi effetti sono buoni (secondo l'accennato metro), sull'ideologia si può anche transigere - qui il riferimento al marxismo, se non perfino al comunismo essendo sufficientemente visibile. Il criterio etico fondamentale, 'secondo cui ciò che veramente conta non sono i fatti e le utilità bensi le intenzioni, il fondo spirituale, così viene disinvoltamente accantonato.

Abbiamo parlato, nei riguardi della Chiesa attuale, di una nuova scelta delle sue tradizioni, la quale oggi presenta un estremo pericolo. Infatti nella storia del cristianesimo figurano anche forme di una «spiritualità» che - non si può disconoscerlo - potrebbe proprio andar incontro alle attuali teorie «sociali» sovvertitrici. Dal punto di vista sociologico il cristianesimo delle ongini fu effettivamente un socialismo avant la lettre; rispetto al mondo e alla civiltà classica esso rappresentò un fermento rivoluzionario egualitario, fece leva sullo stato d'animo e sui bisogni delle masse della plebe, dei diseredati e dei senza-tradizione dell'Impero; la sua "buona novella" era quella dell'inversione di tutti i valori stabiliti.

Questo sottofondo del cristianesimo delle origini è stato in varia misura contenuto e rettificato col prender forma del cattolicesimo, grazie, in gran parte, ad una influenza «romana ». Il .superamento si manifestò anche nella struttura gerarchica della Chiesa; storicamente esso ebbe il suo apogeo nel Medioevo, ma l'orientamento non venne meno nemmeno nel periodo della Controriforma e, infine, con quella che fu chiamata "l'alleanza del trono con l'altare" col crisma dato dal cattolicesimo alla autorità legittima dall'alto, secondo la dottrina rigorosa di un Joseph de Maistre e di un Donoso Cortés, e con la condanna esplicita, da parte della Chiesa, di liberalismo, democrazia e socialismo - e per ultimo, nel nostro secolo, del modernismo.

 Ebbene, tutta questa superstruttura valida del cattolicesimo sembra. sgretolarsi per far riemergere proprio il substrato promiscuo, antigerarchico, « sociale » e antiaristocratico del cristianesimo primitivo. Il ritorno a tale substrato è, peraltro, ciò che vi è' di meglio per «mettersi al passo coi tempi », per aggiornarsi col « progresso» e con la «civiltà moderna », mentre la linea da seguire, da parte di una organizzazione veramente tradizionale, oggi dovrebbe essere assolutamente l'opposta, ossia quella di una triplicata, inflessibile intransigenza, di una messa in primo piano dei veri, puri valori spirituali di contro a tutto il mondo «in progresso ».

Abbiamo udito cattolici, come il Maritain e il Mounier, affermare che il vero spirito cristiano oggi vive nei movimenti «sociali» e socialistici operai, lo stesso De Gasperi, in un antico discorso fino a ieri poco volentieri ricordato, avendo riaffermato una tale idea, oltre a quella dell'assoluta concordanza fra spirito cristi~no e spirito democratico. Con un gergo autenticamente progressista alti esponenti della Chiesa hanno parlato dei «residui medievalistici» di cui il cattolicesimo deve sbarazzarsi (naturalmente proprio a tali presunti «residui» si legano i valori veramente trascendenti, spirituali e sacrali). Se la Chiesa ieri si ingegnò di costruire piti o meno artificiosamente il simbolo del «Cristo Re », oggi essa ha messo su quello del « Cristo operaio» (con riferimento al periodo in cui Gesù avrebbe lavorato da falegname presso il padre putativo, quasi che ciò avesse una qualsiasi connessione sensata con la sua missione salutifera), per supina adesione al mito dominante (1'« operaio» è sacrosanto - guai a chi lo tocca!). Le teorie del gesuita Teilhard de Chardin, che ha accordato il cattolicesimo con lo scientismo, l'evoluzionismo e il mito del progresso, sebbene i suoi . libri non abbiano (ancora) l'imprimatur hanno un largo seguito fra i cattolici (altro sintomo significativo: per la diffusione del pensiero di questo gesuita assai «moderno» si è costituito un comitato internazionale, sotto il patronato di Maria Josè, la moglie di Umberto II). Si è visto papa Roncalli accogliere cordialmente in udienza la figlia di Krusciev col suo degno marito, dimenticando il mondo di cui costoro sono gli esponenti (mentre si piagnucola e «si prega» per la sorte della «Chiesa del silenzio» nei paesi a regime comunista). Se a tutto ciò, come degno coronamento, si aggiunge l'enciclica Pacem in terris e il non sconfessato centro-sinistra del maggiore partito cattolico italiano, vi è forse da stupirsi che molti cattolici si siano sentiti liberati da molti scrupoli e, « allineandosi », abbiano agevolato l'avanzata delle sinistre?

L'apoteosi che, alla sua morte, è stata fatta da tutte le parti di Giovanni XXIII è significativa; è deplorevole che ad essa si sia associata conformisticamente la stessa stampa ad orientamento nazionale e filofascista. A questa stampa noi non avremmo naturalmente chiesto di parlare aspramente di un morto; ma delle precise riserve avrebbero dovuto esser fatte, a rompere l'uniformità del coro di inni, che non è stata, naturalmente, priva di influenza sulla decisione del conclave, sull'elezione del cardinale Montini. Le buone intenzioni, la bontà e l'umanitarismo del papa avrebbero potuto essere riconosciuti, senza però che ciò impedisse di accusare l'ingenuità quasi infantile di una mente imbevuta di idee democratiche e progressiste (il defunto papa ai suoi tempi era stato, fra l'altro, molto amico di Ernesto Buonaiuti, sacerdote spretato di idee moderniste e socializzanti, naturalmente antifascista). Cosi il motivo dominante della sua ultima enciclica è stato un ottimismo che ha portato a giudizi inverosimili e pericolosissimi sul carattere positivo di un gruppo di « segni dei tempi », In più, delle iniziative, a rettificare gli effetti deleteri delle quali, a detta di un cardinale, «occorreranno dei decenni ».

È trapelato il fatto che nel concilio fu presentato uno schema circa le Sacre Scritture e la Tradizione a carattere apertamente conservatore; per poter respingere tale schema, secondo la procedura, mancava un centinaio di voti. Il papa, di propria iniziativa, lo fece egualmente respingere e fece elaborare un nuovo schema. All'inizio del concilio egli si era dichiarato «contro tutti questi profeti di sventura che dicono che tutto va di male in peggio ... come se ci avvicinassimo alla fine del mondo ».

Abbiamo ricevuto un libretto di un gruppo di cattolici francesi che esprimono le loro più serie preoccupazioni nel caso che nel concilio la linea patrocinata da papa Roncalli sia mantenuta (il titolo del libretto è addirittura «S.O.S. Concile»). Questo gruppo ha potuto procurarsi uno dei nuovi schemi circa la materia del concilio, l'ha tradotto dal latino e l'ha commentato per mostrare le stridenti contradizioni di molte idee in esso esposte rispetto a quelle dei Vangeli. Proprio nei riguardi dei tempi ultimi i Vangeli, ad esempio, sono espliciti: essi parlano del periodo dei falsi profeti, della seduzione delle masse, addirittura della venuta dell'Anticristo e della separazione definitiva fra due parti dell'umanità. È esattamente il contrario della concezione progressistica dell'attuale umanità che si avvierebbe in modo continuo verso un mondo migliore. Peraltro, a parte le pitture mitologico-apocalittiche a forti tinte dei Vangeli, una ben diversa interpretazione dei « segni» dei tempi dell'epoca attuale come «età oscura» malgrado tutti i suoi splendori, è comune ad una intera serie di scrittori attuali dallo sguardo acuto. Si può andare dall'esistenzialista cattolico Gabriel Marcel (L'homme contre l'humain) fino ad un René Guénon (Le règne de la quantité et les signes des tempsi. La maggior luce che, teoricamente, ad un pontefice dovrebbe esser infusa dallo Spirito Santo, in un caso del genere sembra dunque aver servito a ben poco.

L'idea che il benessere e il progresso materiale e sociale - come è affermato in quello schema e come ha preteso lo stesso papa Roncalli - agevolino il vero progresso morale e spirituale, non può trovare base alcuna nei Vangeli e il livello spirituale effettivo dei popoli più «progrediti» (per es., gli Stati Uniti o la Germania occidentale) lo conferma. Il «segno dei tempi », giudicato positivo, dell'ascesa della classe lavoratrice (oltre che della donna), è un'altra pura concessione alla mentalità socialista, se non addirittura proletaria. In quella critica dei cattolici francesi viene ricordato opportunamente che secondo la concezione cattolica il lavoro è solo una specie di oscuro castigo, conseguenza della « caduta », e che nella teologia morale cattolica tradizionale viene approvato solo quel lavoro che corrisponde ad una vera vocazione e alle pure necessità del proprio stato, fuori da ogni smania di uscire da tale stato a tutti i costi e di « ascendere» - è proprio l'opposto delle attuali concezioni.

Gravissime sono state, nella enciclica Pacem in terris, le conseguenze di quello che bisogna ben chiamare (in un senso quasi psicanalitico) il «complesso della pace », e proprio il posto ad esso accordato andando incontro all'umana debolezza è stato una delle cause della grande popolarità acquistata da papa Roncalli (« il papa della pace»). Ma qui bisogna mettere a posto le cose. Il punto di partenza è, naturalmente, lo spettro della guerra atomica con una completa autodistruzione dell'umanità. È ovvio che se questo spettro potesse venire esorcizzato in modo positivo, ciò sarebbe confortante (ma non è nemmeno da escludere la possibilità di una guerra non atomica, allo stesso modo che nemmeno negli estremi frangenti dell'ultima guerra mondiale nessuna delle nazioni belligeranti è ricorsa alla guerra chimica). Però quando sono in giuoco i valori supremi, proprio i rappresentanti dell'autorità spirituale dovrebbero formulare un non possumus perfino in casi estremi. In effetti, circa la pace, bisogna pur chiedersi a che cosa deve servire la pace: se per rendere le cose più facili ai milioni di esseri collettivizzati che penano nel paradiso terrestre marx-Ieninista o, dall'altra parte, ad altri milioni che pensano soltanto a nutrirsi, a bere, a prolificare, ad accumulare elettrodomestici e ad abbrutirsi in vario modo nel clima della prosperity « occidentale ».

Ci vengono ricordate le parole del Cristo: «lo vi lascio la mia pace, vi do la mia pace» però senza dar lo stesso risalto al resto della frase, anzi tacendola: «Ma non ve la do come il mondo la dà, ecc. ». L'idea vera, qui, è quella di una pace sinonimo di calma e di fermezza interiore, da mantenersi perfino in mezzo a catastrofi.

È su essa che avremmo preferito udir parlare di più, in alto loco, invece del «complesso della pace» che, in uno spirito tutto profano (la pace che «il mondo» può dare), può far indulgere a compromessi, accomodamenti, transazioni e illusorie distensioni: quasi che la distanza che separa le posizioni di una dottrina politico-sociale con fondamenti veramente spirituali e con riconoscimento dei veri valori della persona, e quelle, ad esempio, delle ideologie atee e antireligiose dell'« Oriente» e degli accoliti del- 1'« Oriente» non fosse maggiore della distanza che in altri casi e in altri tempi fece SI che la Chiesa opponesse, perfino a costo di persecuzioni, il suo deciso non possumus. COSI non si dimentichi che del Cristo è parimenti il detto, di essere venuto in terra a portare non la pace ben SI la guerra [« la spada » ) e la divisione, perfino fra coloro che hanno lo stesso sangue, con riferimento a precisi fronti spirituali (Matt., X, 34-35; Luc., XII, 49, 52). E il gesto del Cristo, che scaccia a frustate i mercanti dal tempio (dovremmo aggiungere: «e dalle prossimità del tempio»), oggi sembrerebbe attuale più che mai, con riguardo ai partiti che si proclamano cattolici ma che vanno a braccetto con massoni e con radicali, che si «aprono a sinistra» e prosperano nel clima di inaudita corruzione del regime parlamentare democratico dei politicanti profittatori.

Non è ancora chiaro l'orientamento che, a parte certi suoi precedenti sospetti, il cardinale Montini, in quanto papa, sceglierà: se egli seguirà, o no, le orme del suo predecessore tanto acclamato. Quo uadis, ecclesia? L'alternativa è appunto l'andar incontro il più possibile al «mondo moderno », col disconoscimento (tipico in papa Roncalli) del lato negativo delle sue correnti predominanti e determinanti, le quali non fanno indulgere a nessun ottimismo - trascurando la lezione tante volte impartita dalla storia, cioè che chi si è illuso di poter dirigere le forze della sovversione flettendo o assecondandone in un certo modo il corso ha sempre finito con l'esser travolto da esse: oppure una energica reazione, una intransigente presa di posizione nel segno dei valori spirituali, sacrali e trascendenti, il che non potrebbe non condurre, anche, ad una revisione radicale dei rapporti con quel partito di maggioranza che in Italia abusa della qualifica di «cattolico» e che sta facendo di tutto, irresponsabilmente, per preparare le vie al comunismo. Ne seguirebbe, forse anche, la possibilità di un nuovo concentramento delle forze veramente anticomuniste.

Purtroppo non vi sono molti motivi per essere ottimisti nei riguardi non solo di una scelta positiva di fronte a questa alternativa, ossia di un coraggioso mutamento di corso della Chiesa, ma anche della volontà di riconoscere e affrontare decisamente il problema, non obbedendo a nessuna suggestione dei tempi. Cosi stando le cose, penseremmo che alle forze di Destra s'imponga il mantenere una precisa distanza, per disagevole che ciò possa essere. Come noi non possiamo approvare l'ormai inutile appello tattico ai valori cattolici nelle campagne elettorali, dato il piano in cui essi sono scesi e la facilità, da parte delle forze opposte, di far leva invece sul cattolicesimo «progressista », democratico e « sociale» - cosi noi non sapremmo nemmeno approvare certi piccoli gruppi «tradizionalisti» che si ostinano a valorizzazioni stentate che sono invero prive di ogni senso quando di esse non viene presa l'iniziativa nelle alte gerarchie, da coloro che nella Chiesa rivestono una autorità.

Chi conosce le nostre opere sa anche la posizione che, dal punto di vista dottrinale e di filosofia della storia, abbiamo, in genere, di fronte al cattolicesimo. Abbiamo anche avuto occasione di scrivere che « chi è tradizionale essendo cattolico, non è tradizionale che a metà ». Tuttavia nel nostro abbastanza recente libro « Gli Uomini e le Rovine» avevamo detto: «Se oggi il cattolicesimo sentendo che tempi decisivi si avvicinano, avesse la forza di staccarsi davvero dal piano contingente e di seguire una linea di alta ascesi, se esso, appunto su tale base, quasi in una ripresa dello spirito del migliore Medioevo crociato, facesse della fede l'anima di un blocco armato di forze, compatto e irresistibile, diretto contro le correnti del caos, del cedimento, della sovversione e del materialismo politico del mondo attuale, certo, in tal caso per una scelta (da parte nostra) non potrebbero esservi dubbi. Ma le cose purtroppo non stanno COSl ». Se dunque non si verificherà un mutamento sostanziale, se lo sviluppo involutivo di cui in queste nostre note abbiamo indicato alcuni aspetti, continuerà il suo corso, bisognerà pur regolarsi di conseguenza, rinunciare ad uno dei fattori che altrimenti avrebbe potuto avere una parte non trascurabile (date le tradizioni sussistenti in vari strati del popolo italiano) e decidersi a seguire una linea indipendente (ci riferiamo ai partiti «nazionali» o di Destra): linea più difficile, ma almeno chiara e senza compromessi.

 

 

 

15. l' "amore del lontano"

 

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Nel campo delle reazioni interiori e di quella che, con un neologismo, è stata chiamata l'etologia, si possono distinguere due forme fondamentali, contrassegnabili rispettivamente con le formule «amore pe1 vicino» e «amore pel lontano» (il quale è la nietzschiana Liebe der Ferne). Nell'un caso si è attratti da ciò che ci è vicino, nel secondo da ciò che ci è lontano. Il primo ha attinenza con la «democrazia» nel suo senso più ampio e soprattutto esistenziale; il secondo ha relazione con un più alto tipo umano, reperibile prevalentemente nel mondo della Tradizione.

Nel primo caso, affinché una persona, un capo, sia seguito occorre che lo si senta come «uno di noi ». Cosi qualcuno a tale riguardo ha coniato una felice formula, il «nostrismo », Le relazioni di esso con la «popolarità », con 1'« andare verso il popolo» o «fra il popolo », come pure, dall'altra parte, con l'insofferenza per ogni differenza qualitativa, sono evidenti. Recenti aspetti di tale orientamento sono noti a tutti; vi si può includere anche l'insipido circolare e « viaggiare» degli stessi Pontefici, laddove normale sarebbe invece il curare una quasi-inaccessibilità, quella stessa per cui certi sovrani apparvero al popolo come «altezze solitarie ». È da sottolineare, qui, il pathos della situazione, perché può esservi una vicinanza fisica la quale non esclude ma mantiene la distanza interiore.

Si sa della parte rilevante che il «nostrismo» ha avuto anche nei regimi totalitari di ieri e di oggi. Sono patetiche le scene, che non si è mancato di ritrarre e diffondere, di dittatori che si compiacciono di figurare fra «il popolo ». Se la base del potere è più o meno demagogica, ciò, del resto, è quasi una necessità. Il « Grande Compagno» (Stalin) non ha cessato di essere il compagno. Tutto questo corrisponde ad un preciso clima collettivo. Già più di un secolo e mezzo fa Donoso Cortés, filosofo e uomo di Stato spagnolo, ebbe a scrivere, con amarezza, che non vi sono sovrani i quali intendano veramente presentarsi come tali; se lo facessero, forse quasi nessuno li seguirebbe. Cosi sembra imporsi una specie di prostituzione, messa in risalto dal Weininger nel mondo della politica. Non è azzardato affermare che se oggi vi fossero dei capi in un autentico senso aristocratico, essi spesso sarebbero costretti a celare la loro natura e a presentarsi in veste di agitatori democratici di masse se intendono esercitare una influenza. L'unico settore che in parte è restato ancora immune da tale contaminazione è quello dell'esercito, anche se non è facile ritrovarvi sempre lo stile severo e impersonale che caratterizzò ad esempio il prussianesimo.

Al « nostrismo » corrisponde un tipo umano essenzialmente plebeo. Il tipo opposto è quello al quale si può riferire la formula dell'« amore pel lontano », Non la vicinanza «umana» ma la distanza suscita in lui un sentimento che in fondo lo innalza e, nel contempo, lo spinge a seguire e ad obbedire, in termini assai diversi dall'altro tipo. Anticamente si poté parlare della magia o fascinazione della «superiorità olimpica ». Qui vibrano altre corde dell'anima. In un diverso dominio, noi non possiamo di certo vedere un progresso nel passaggio dall'uomo-dio del mondo classico (simbolo o ideale che fosse) al dio-uomo del cristianesimo, al dio che si fa uomo e fonda una religione a fondo umano, con un amore che dovrebbe accomunare tutti gli uomini epperò farli vicini gli uni agli altri. Non a torto Nietzsche in ciò accusò l'opposto di quel che designò con la parola vornehmen, traducibile con « distinto» o «aristocratico ».

Il cielo notturno stellato al disopra di lui esaltava Kant per la sua indicibile lontananza, e questo sentimento viene provato da molti esseri non volgari, in via del tutto naturale. Qui siamo al limite. Tuttavia un riflesso può essere rilevato anche su piani infinitamente più condizionati. Alla distanza «anagogica» (ossia alla distanza che innalza), si può opporre quel che invece non di rado si cela sotto le vesti di certa umiltà. È di Seneca il detto che non vi è orgoglio più detestabile di quello degli umili. Questo detto deriva da una analisi acuta del fondo dell'umiltà ostentata da persone che, alla fin fine, si compiacciono di se stesse, essendo intimamente insofferenti per chi ad esse è superiore. Il sentirsi insieme, in costoro, è naturale e riporta a quel che abbiamo detto più sopra.

Come in molti altri casi, le considerazioni qui esposte sono intese a stabilire criteri discriminanti di misura e sono naturalmente controcorrente.

Circa la mania per la popolarità dei grandi, non resistiamo alla tentazione di riferire un episodio personale. Anni fa facemmo pervenire uno dei nostri libri ad un certo sovrano rispettando le normali regole di etichetta, ossia non direttamente ma pel tramite di un intermediario. Ebbene, noi diciamo la pura verità se affermiamo di aver provato quasi uno shock nel ricevere una lettera di ringraziamento che cominciava con le parole «Caro (!) Evola », senza che io avessi mai conosciuto di persona quel personaggio o gli avessi mai parlato. Questa «democraticità» sembra far buon tono. Invece disgusta chi ha ancora una sensibilità per gli antichi valori.

In un dominio banalissimo, si potrebbe ricordare, come indice sulla stessa linea, una usanza diffusissima negli Stati Uniti, il Paese più plebeo del mondo. Specie nella nuova generazione, là non si possono fare quattro chiacchiere con qualcuno senza che questi vi inviti a dargli del tu ed a chiamarlo col nome proprio, Al, Joe, ecc. Per contro, ci viene di ricordare dei figli che davano del «lei» ai loro stessi genitori e di una certa persona, a noi assai vicina, la quale continuava a dare del «lei» a ragazze (a ragazze perbene) anche dopo esser stato a letto con loro, mentre film che sicuramente rispecchiano il costume d'oltreoceano ci presentano lo stereotipo di «lui» che dopo un semplice, insipido bacio dà subito del « tu » alla donna.

 

 

 

16. la fisima della magia

 

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Un fenomeno dei nostri giorni che è degno di nota, è costituito dal gran parlare che si fa intorno alla « magia ». La magia è quasi di moda, e riferimenti ad essa sono rilevabili non pure in una letteratura varia ma anche in altri domini, il cinema non escluso. I libri sulla magia si moltiplicano. Non si tratta di ciò che attrae il popolino, quegli strati più bassi della popolazione creduli e inclini alla superstizione, che forniscono la clientela ai « maghi », veggenti e simili da annunci pubblicitari. Si tratta invece quasi di un fenomeno, come oggi si dice, « culturale» il quale merita una certa attenzione.

Per una interpretazione generale, in parte ci si potrebbe riferire alle stesse cause che hanno generato il neo-spiritualismo nelle sue molteplici varietà teosofiche, orientaleggianti, « occultistiche », eccetera. Qui si tratta di un impulso dell'uomo all'evasione nel segno dello strano e dell'inusitato e presso ad un atteggiamento incapace, per mancanza di principi, di discriminare quel che in codesto « spiritualismo» vi è di positivo e quel che vi è di negativo, la sua maschera apparentemente luminosa e il suo vero volto che in molti casi non lo è affatto. (Una tale disamina noi l'abbiamo intrapresa in un libro, che s'intitola appunto Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo). Agli inizi, due cause fondamentali hanno propiziato il fenomeno « spirituali sta »: da una parte, la soffocante concezione del mondo propria al materialismo e allo scientismo; dall'altra, il fatto che la religione dominante, si è mostrata sempre meno capace di dare qualcosa di più, qualcosa di trascendente, di là da ciò che è semplice dogma, liturgia, devozione, pratica confessionale. Cosi si è cercato altrove.

Ma nel caso dell'interesse per la «magia» vi è qualcosa di specifico perché essa ha un aspetto maggiormente attivo, fa pensare ad un possibile uso di forze sovrasensibili per conseguire risultati concreti. Mentre lo «spiritualismo» sfaldato e misticheggiante ha tratti feminili, la «magia» ha tratti indubbiamente maschili. Ciò non impedisce che a tale riguardo ci si facciano delle illusioni.

Se nel titolo delle presenti note abbiamo parlato della «fisima» della magia, non è che con questo vogliamo significare che la magia è una pura superstizione. Si potrebbe già rilevare che, di fatto, le ricerche della cosidetta « metapsichica » moderna hanno accertato, sotto severi controlli scientifici, la realtà oggettiva di una serie di fenomeni estranormali. Ciò basterebbe per fondare la « magia », solo che le corrispondenti condizioni fossero diverse, ossia che tali fenomeni non fossero sporadici e cosi spesso 'legati a stati di una coscienza ridotta, come quelli dei medium, ma fossero suscettibili ad essere prodotti anche secondo un metodo e in una perfetta lucidità mentale. Ma proprio in vista di questo essenziale spostamento vi è pericolo che per la magia si debba appunto parlare, praticamente, di una fisima.

Potrà interessare anche per un lettore non specializzato una indicazione sommaria dei presupposti richiesti per la realtà della magia. Questi presupposti hanno un carattere essenzialmente esistenziale. Non si tratta di « arcani» e di speciali operazioni occulte che chiunque possa compiere. Si tratta invece di vedere in chi e in quale misura è possibile far rivivere uno stato interiore e rapporti fra uomo e mondo che appartengono in gran parte al passato, a civiltà e ad un ambiente radicalmente diversi da quelli dell'uomo di oggi.

Per l'uomo di oggi, fra l'Io e la realtà, o natura, esiste una barriera. La realtà e la natura sono qualcosa che esiste a sé, in una esteriorità spaziale (come tali li considera anche, essenzialmente, la scienza positiva). Di ciò non era il caso, o non ne era in egual misura il caso, nel mondo di cui la magia faceva parte organicamente. Quella barriera era allora labile, con la controparte di una percezione non semplicemente « fisica» della realtà. Da ogni eventuale rimozione o attenuazione di quella barriera derivava peraltro una duplice possibilità. Da un lato, era possibile che forze invisibili della realtà invadessero l'uomo dall'esterno ledendo la sua personalità (donde quelli che il Frazer ha chiamato the perils 01 the soul, ossia i «pericoli dell'anima », e donde la ragion d'essere di tanti riti di protezione nelle civiltà antiche ed anche fra le popolazioni primitive). Dall'altro lato, era possibile un movimento nel senso opposto, ossia che l'uomo, rimossa quella barriera, penetrasse nella natura e su essa agisse appunto in termini di « magia ». Condizioni analoghe valevano anche per l'azione su altri esseri.

Questa è la condizione oggettiva affinché la magia non sia mera superstizione o suggestione, ma una cosa seria. Se riferendoci ai tempi attuali, circa la magia abbiamo parlato di una «fisima », lo abbiamo fatto perché in una società civilizzata di tipo moderno la struttura esistenziale dell'uomo e l'ambiente sono ormai essenzialmente diversi da quelli or ora indicati. È cosi che possibilità magiche, oltre che fra popolazioni esotiche rimaste ancora «primitive », possono rilevarsi, se mai, nelle nostre campagne, fra persone nelle quali l'immaginazione ha ancora una potenza particolare, una veemenza, ed essa non è stata paralizzata dall'intellettualismo ipertrofico che caratterizza l'uomo moderno civilizzato, specie quello vivente in grandi complessi urbani nei quali, in più, come qualcuno ha giustamente rilevato, è constatabile una specie di ulteriore « pietrificazione » dell'aspetto esterioristico della realtà naturale, che la rende ancor più impenetrabile.

A prescindere da casi eccezionali di persone da considerarsi sopravvivenze di quel precedente tipo umano, occorrerebbe pertanto essere in grado di riattivare lo stato non duale di cui si è detto. È ciò che i rituali magici in tempi meno remoti hanno cercato di fare, producendo forme di esaltazione e di estasi capaci di « aprire », di ristabilire i contatti. Oggi vi è chi si arrischia in tale avventura, tentando talvolta colpi di mano senza escludere l'uso eventuale di droghe, ma avendo raramente idee precise e collegamenti con una tradizione. La via più limpida, che richiederebbe forme particolari di preparazione, di disciplina interiore e di concentrazione mentale (su una linea simile, in parte, allo yoga), viene battuta assai più raramente ed essa attrae di meno, per essere vicina ad una vera, non comoda ascesi, e inoltre per condurre raramente agli scopi precipui della magia .

Ecco, perché, nel considerare le cose secondo realtà, la magia oggi puo servire quasi esclusivamente per divagare, oppure come un ingrediente (associato di frequente al sesso) a cui ricorre chi va in caccia di esperienze tanto «intense », quanto torbide: il significato delle: quali è quasi sempre quello di un surrogato per supplire ad un inesistente senso profondo e saldamente radicato dell'esistenza. Il t~tto, peraltro, porta raramente di là dal campo soltanto soggettivo, mentre è reale il pericolo di finire in forme spiritualmente regressive, tanto da aprirsi talvolta inconsideratamente a forze «infere », ripresentandosi così i «pericoli dell'anima» di altri tempi, senza però che quasi di essi ci si accorga.

 

 

 

17. note sui misteri di mithra

 

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E. Renan ebbe a scrivere: «Se il cristianesimo fosse stato arrestato da una qualche malattia mortale, il mondo si sarebbe mithracizzato », ossia avrebbe seguito la religione di Mithra. In genere, viene riconosciuto che il mithracismo fu l'antagonista più temibile del cristianesimo. Penetrato a Roma verso la metà del primo secolo avanti Cristo, esso conobbe il suo apogeo verso il terzo secolo, diffondendosi fino alle più lontane province dell'Impero, attirando soprattutto i legionari e i veterani colonizzatori, i quali lo sentivano congeniale per il suo orientamento combattivo e virile. Imperatori, come Adriano, Commodo e Aureliano si fecero iniziare ai suoi Misteri. Il mithracismo verso la fine del secondo secolo fu riconosciuto ufficialmente come una religione dell'Impero, Mithra venendo concepito come il protettore e il fautore di esso. Il suo culto si era fuso, peraltro, con quello del Sole, Helios, quale potenza divina sovrana e invincibile. La data di una delle sue feste più importanti, con la quale si celebrava il suo risorgere (die natalis Solis in vieti Mithra) fu fissata il 25 dicembre (solstizio d'inverno). Nel loro lavoro soppiantatore, i cristiani la ripresero per il loro Natale. Si vuole che lo stesso Costantino avesse esitato fra cristianesimo e mithracismo, mentre un iniziato ai misteri di Mithra fu Giuliano imperatore, il quale, come si può leggere in un successivo saggio del presente volume, dedicato a tale sovrano, insieme alla metafisica neoplatonica e a tradizioni mistèriche considerò particolarmente il mithracismo nel suo ardito e nobile tentativo di restaurare i culti romani di contro al dilagare della credenza cristiana.

Sulla tesi, che il mondo antico avrebbe potuto essere mithracizzato, invece che cristianizzato, vanno fatte, tuttavia, alcune riserve. Per competere vantaggiosamente col cristianesimo il rnithracismo avrebbe dovuto scendere di livello; restando integro, esso difficilmente avrebbe potuto guadagnarsi nella stessa misura quelle masse popolari promiscue fra le quali prese essenzialmente piede la religione di Gesù quale dottrina della salvazione a base sentimentale aperta a tutti. Promanazione dell'antico mazdeismo irànico, il mithracismo ne riprendeva il tema centrale di una lotta fra le potenze della luce e quelle delle tenebre e del male. Esso poteva anche avere forme religiose, exoteriche, ma il suo nucleo centrale era costituito dai suoi Misteri, ossia da una iniziazione nel senso proprio. Ciò costituiva un limite, anche se di esso faceva una più completa forma tradizionale. Successivamente, si doveva peraltro assistere ad una sempre più decisa separazione della religione dalla iniziazione.

Del mithracismo, nelle presenti note considereremo appunto i Misteri, cercando di indicarne la natura, in base alle testimonianze pervenuteci, consistenti da un lato da notizie degli scrittori antichi, dall'altro dai monumenti figurati rinvenuti nei luoghi che furono dei centri di quel culto e di quei Misteri. Oltre a tali testimonianze, raccolte da Franz Cumont in sue opere classiche, potrà venir considerato il «Rituale mithriaco del Gran Papiro magico di Parigi », che si intitola Apatbanatismos; il suo testo, tradotto e commentato, lo si può trovare nel primo volume dell'opera Introduzione alla Magia (1).

Anzitutto, per lo scopo che ci siamo proposto, vi è da considerare, nel suo senso interno, il mito di Mithra nei vari: episodi ritratti da una quantità di sculture e di bassorilievi, alcuni di magnifica fattura. Infatti si deve ricordare che miti del genere valevano come drammatizzazioni delle stesse esperienze che l'iniziando doveva attraversare, quasi identificandosi col dio, ripetendone le gesta.

Nel mito, Mithra nasce da una pietra (theos ek pétras, petrogenos Mithra), è generato da una pietra (petra genitrix), come una manifestazione della luce uranica originaria, presso ad un « fiume »: nascita miracolosa notata solo dai «guardiani» celati in cima a delle alture. Circa questi ultimi, ci si potrebbe riferire ai « Maestri Invisibili », non privi di relazione con quegli esseri delle origini che, secondo Esiodo, non sarebbero mai morti ma come i «Veglianti» continuerebbero a vivere nelle successive età.

Le «acque» da una parte, la «pietra» dall'altra potrebbero alludere alla dualità costituita dalla corrente del divenire e dal principio che la domina. Della « pietra », sono possibili varie interpretazioni; si sa che essa figura in molteplici tradizioni. Si sarebbe tentati, fra l'altro, di stabilire una analogia fra questa genesi di Mithra e un tema del ciclo arturiano, dove figura una spada da estrarre da una pietra che galleggia sulle acque. Peraltro, nel sorgere dalla pietra Mithra tiene in una mano una spada, nell'.altra una fiaccola, simboli l'una della forza, l'altra della luce, d! un potere illuminante.

Nella «pietra» si potrebbe anche vedere il simbolo di una incrollabilità e di una saldezza interiori, qualità richieste nell'iniziando a fondamento della sua rinascita.

In effetti, dalle notizie antiche, specie da quelle trasmesseci da Nonno il Grammatico, risulta che nei misteri di Mithra i neofiti dovevano affrontare delle prove, dovevano passare intrepidamente attraverso il fuoco e l'acqua, dovevano resistere al freddo, alla fame e alla sete. Secondo un'altra notizia, per mettere alla prova la sua impassibilità si faceva prender parte al neofita all'uccisione simulata di un uomo. E si vuole che l'imperatore Commodo, il quale aveva voluto farsi iniziare, suscitasse l'indignazione del suo ambiente per aver preso sul serio quella uccisione simulata causando la morte di un uomo. Può darsi che tutto ciò - che una qualificazione del genere - abbia una relazione col simbolo della «pietra generatrice», con una delle condizioni della rinascita iniziatica.

Comunque, le qualità ora accennate appaiono esser richieste negli sviluppi successivi del mito di Mithra, giacché questi deve resistere ad un vento furioso che subito l'investe e che flagella il suo corpo nudo; però Mithra va dritto verso un albero, si fa una veste con le sue foglie e si nutre dei suoi frutti. Dato il significato iniziatico dell'albero, qui si potrebbe pensare ad un albero non diverso da quello sul quale Adamo avrebbe voluto mettere mano per divenire «simile a uno di noi» (a un dio), ma l'accesso al quale gli venne sbarrato dallo Jehova dell'Antico Testamento.

 Questo significato potrebbe trovar conferma in un episodio successivo del mito, il quale sembra riguardare un confronto fra Mithra e il Sole, l'Eone fiammeggiante. Questo episodio si conclude tuttavia con una alleanza fra l'uno e l'altro, tale da fare di Mithra il portatore della forza sovrana di quella divinità. Si tratta del boarenà dell'antica tradizione mazdea (irànica), della « Gloria» concepita come un fuoco sovrannaturale proprio anzitutto alle divinità celesti ma che scende anche ad illuminare i sovrani, a consacrarli e ad attestarli con la vittoria. Il sovrano su cui scendeva questa « Gloria» era innalzato al disopra degli uomini e considerato dai suoi sudditi come un immortale. Ed è a questa stregua che, presso ad una assimilazione di Mithra col Sole sempre di nuovo vittorioso sulle tenebre, lo stesso Mithra, come si è detto, valse come il protettore e il fautore dell'impero romano.

 Ma questa dignità di Mithra ha anche una relazione con l'episodio centrale del suo mito, con quello dell'uccisione del toro. Mithra spia il toro; non appena esso esce da una «caverna », gli salta addosso, lo cavalca afferrandosi alle sue corna. Il quadrupede prende il galoppo, trasportando Mithra in una corsa furiosa. Mithra non lascia la presa, si lascia trasportare senza farsi scavalcare finché l'animale, spossato, rientra nella caverna donde era uscito. Allora Mithra lo uccide con la sua spada.

 Si tratta qui, del confronto con la forza elementare «infera» della vita e della trasformazione di essa ad opera di chi l'ha assunta al suo affiorare (il cavalcare) e l'ha anche vinta. In effetti, il sangue che sgorga dalla ferita del toro si trasforma in « spighe »; cadendo per terra, produce delle « vegetazioni », Vi è solo da impedire che animali immondi accorsi bevano di quel sangue (li si vedono nelle figurazioni del mito) - il che ha parimenti un significato esoterico: ove l'eroe o l'iniziando non fosse «puro », ciò che in lui fosse rimasto della natura inferiore si potenzierebbe grazie all'energia liberata, e non solo non avverrebbe la trasfigurazionemail risultato potrebbe essere esiziale (è un pericolo, questo, che usando un diverso simbolismo spesso è stato anche indicato nei testi dell'ermetismo alchemico). Secondo una variante del mito, il sangue del toro si trasforma in vino: possibile allusione all'effetto costituito da una specie di magica ebrezza.

Questo episodio del mito rivesti una tale importanza da dar luogo ad un rito preciso dell'iniziazione dei. misteri i Mithra: consistente in un battesimo di sangue. I mitrei, ossia l luoghi dove si celebravano tali Misteri, erano cosi costruiti da comprendere una parte superiore e una parte inferiore (quasi sempre erano sotterranei cosa che aveva un suo significato). Nel locale m basso si trovava 'il neofita che aveva superato le prove preliminari; nudo .. riceveva il sangue di un toro ucciso ritualmente dallo ierofante nella parte superiore del sacello, sangue che colava su di lui. Esperienze particolari, propiziate da tutto l'insieme, dovevano. legarsi ad un simile battesimo di sangue, che prendeva il posto di quello cristiano.

In genere, per le esperienze dell'iniziato mithriaco ci si potrebbe riferire, in parte, all'accennato rituale, Apathanatismos, sebbene in esso con gli elementi mithriaci si trovino frammisti elementi propri allo gnosticismo e a tradizioni magiche. Il Dieterich, che ha pubblicato per primo una traduzione di questo testo suggestivo (nel 1903), lo ha chiamato una «liturgia ». La designazione non è esatta, perché non si tratta di una cerimonia con inni e simili bensi di un rituale con istruzioni, formule magiche e invocazioni insieme all'indicazione delle corrispondenti esperienze. Il rituale sembra presupporre una iniziazione preliminare, in quanto il soggetto nella sua prima invocazione dichiara di esser stato purtficato da «sacre cerimonie» e di esser stato rialzato dalla «forza forte delle forze» e dalla «incorruttibile Destra », tanto da poter aspirare alla «nascita immortale », da sottrarsi alla legge della necessità che regna nel mondo inferiore, e contemplare gli dei e l'Eone, «signore delle corone di fuoco », Si parla di porte che. si aprono, dei «Sette» visti prima nel loro aspetto femminile, poi in quello maschile di « Signori del Polo celeste ». L'azione teurgica conduce visibilmente di là dai Sette, fino a che, fra bagliori e fulmini, appare una figura la quale è lo stesso Sole-Mithra, che il miste deve saper fissare e poi, con un comando, far si che non si diparta più da lui, per trasformarsi in lui (per assumerne la natura) tanto da «morire integrato nella palingenesi, e nella integrazione raggiungere il compimento».

Il rituale comprende molti altri dettagli suì quali qui non ci si può fermare. Il lettore può riandare al testo che, come si e detto, è stato riprodotto tradotto dal greco e commentato nel primo volume dell'opera Introduzione alla Magia.

Qui aggiungeremo soltanto che anche il mithracismo conosceva il viaggio attraverso le sette sfere planetarie, a ritroso, ossia non pru nella discesa in cui l'anima è ripresa via via nelle «sfere della necessità », cioè subisce graduali condizionamenti fino allo stato di un uomo mortale, ma in una riascesa che oltrepassa tali sfere, in un «denudamento », fino a raggiungere il Principio l'Incondizionato.

 Il « sette» s'incontra anche nel numero dei gradi dell'iniziazione mithriaca nella sua forma, per cosi dire, istituzionalizzata, gradi che avevano questi nomi: Corvo (Corax), Occulto (Cryphies), Soldato (Miles), Leone (Leo), Persiano (Perses), Messo del Sole (Heliodromos), Padre (Pater).

Come interpretazione, si sarebbe portati a pensare ad una preliminare «mortificazione» della natura inferiore (con il che si stabilirebbe, fra l'altro, una corrispondenza col simbolismo alchemico-ermetico del Corvo, frequentemente usato per alludere alla fase della nigredo, all'« Opera al Nero»). Dopo di ciò il miste ha una esistenza occulta (secondo grado); nel terzo grado è un soldato della schiera degli iniziati mithriaci che, conformemente allo spirito guerriero di tale tradizione, veniva concepita come una militia. Il grado successivo rappresentava un potenziamento di tale qualità, mentre il grado di «Persiano» statuiva verosimilmente il collegamento col ceppo di origine del mithracismo, con quello della religione iranrca della Luce. Circa il grado di miles, Tertulliano riferisce che all'atto di conferirglielo, al neofita si porgevano una spada e una corona. Egli prendeva la spada ma respingeva la corona dicendo: «La mia corona è Mithra ».

Come« Messo o Compagno del Sole» (sesto grado) l'iniziato rifletteva la stessa qualità attribuita nel mito a Mithra, dopo il suo confronto con Helios. Infine il Pater corrispondeva alla dignità di rruziatore (paternità iniziatica) e di capo di una comunità mithriaca (pater sacrorum, pater patrum).

Da tutto .ciò appare che qualora il mithracismo fosse prevalso sul cristianesimo mantenendo il suo nucleo centrale, la conseguenza sarebbe stata anche il mantenersi di una tradizione iniziatica regolare, costituita da tale nucleo, nella successiva storia dell'Occidente, mentre per il lato più esteriore, religioso, avrebbe potuto valere la qualità di Soter (il Salvatore, Colui che dà la salute) talvolta attribuita a Mithra. In più, vi era l'aspetto che aveva fatto del «dio invitto» - Invictus Mithra - il patrono solare dell'impero romano, per cui in lui si vedeva il dispensatore del hvareno mazdeico che conferiva la vittoria, in una confluenza con l'antica tradizione romana della Fortuna Regia (traduzione latina di tùke basiléos) esprimendosi anche in quella Vietoria quale oggetto di culto la cui statua si ergeva nel senato romano.

Tuttavia da ciò si vede che il mithracismo costituiva un complesso cultuale, sacrale e iniziatico che per la sua stessa natura non poteva non esser tagliato fuori nel processo involutivo che ha trasportato l'Occidente, allontanandolo sempre più da orizzonti di gloria e di potenza luminosa, fino a che, per ultimo, a prescindere da una iniziazione che non fu più parte integrante e centrale di un sistema ma solo una vena sotterranea con sporadiche riemergenze malgrado il cristianesimo, ogni contatto reale col sovrasensibile fu interrotto.

 

 

 

18. sulla "via della mano sinistra"

 

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Per formarsi un'idea della natura della Divinità e delle sue relazioni col mondò si possono seguire due vie: la via deduttiva e la via induttiva.

Chi sceglie la prima via, parte da una concezione a priori della Divinità desunta da una Rivelazione o da un dogma, e cerca di vedere come essa può accordarsi con la fattualità della realtà mondana. Il problema presenta diverse difficoltà quando, come il cristianesimo, la Divinità viene concepita con attributi «morali », ossia sotto le specie di un Creatore, Dio della luce, dell'amore e della provvidenza. Infatti vi sono aspetti del mondo e della vita che sono innegabilmente oscuri e problematici, tali quindi da non accordarsi senz'altro con quella concezione teologica. La teodicea è la parte della teologia teistica che cerca di venir a capo di tale antitesi. L'esempio più noto di teodicea cristiana è quella di Leibniz, il quale con argomenti speculativi ha voluto dimostrare che il nostro è «il migliore dei mondi possibili ». Tale formula, tuttavia, è ambigua, perché il « possibile» lo si può anche interpretare come « tutto ciò che si poteva fare », ossia, più o meno, come un «non si poteva far di meglio ».

A tale stregua si imporrebbe però un ridimensionamento della concezione «morale» della Divinità. Nell'antichità, essa fu intrapresa nel modo più drastico da Marcione, il quale batté l'altra via, quella « induttiva ». Si afferma - egli disse - che Dio è saggio, buono e onnipotente. Ma questi attributi sono fra loro inconcìliabili perché, considerando il mondo così come è, se ne deve dedurre o che Dio è saggio e buono, ma non onnipotente (si torna al «tutto ciò che si poteva fare creando »), o è buono e onnipotente, ma non saggio, o è saggio e onnipotente, ma non buono. De Sade, il «divino marchese », andò ancor più oltre in questa direzione. Come lo ha messo ben in luce Mario Praz, De Sade non era un ateo; credeva nell'esistenza di Dio, però di un Dio malvagio. Per lui, ciò era provato dal prevalere, nel mondo, del male e della distruzione. De Sade trasse da tale idea conseguenze pratiche come base di una etica alla rovescia: se il male è la forza predominante nell'universo e l'espressione della natura divina, il male, il vizio e la corruzione per essere conformi alla legge universale saranno sempre felici e prosperosi (vedi il titolo del suo romanzo: Justine ou les prosperités du vice), il bene e la virtù saranno invece sempre infelici e sventurati, per non dire maledetti.

Queste difficoltà, questo aporìe e queste antinomie derivano dal tenersi, malgrado tutto, ad un punto di vista assai limitato, oltreché dal considerare delle rigide categorie morali (come bene e male) anziché delle categorie ontologiche. È soprattutto l'Oriente ad offrirei orizzonti più vasti e più liberi.

Ci si può riferire anzitutto alla dottrina di un Principio supremo che comprende, riunisce e trascende tutti gli opposti (questa idea, peraltro, è stata anche adombrata sporadicamente in Occidente da alcune mistiche e da alcune metafisiche, - si cfr. la coincidentia oppositorum, fino alle «nozze del paradiso con l'inferno» di William Blake). In secondo luogo, e soprattutto, si può ricordare la dottrina induista ortodossa del triplice aspetto della Divinità. Tale dottrina è visibilmente ottenuta applicando il metodo da noi detto «induttivo », ossia desumendo dall'esperienza concreta il concetto che si deve avere della Divinità. Fattualmente, nel mondo si rilevano sia processi creativi, sia forme sussistenti, sia processi distruttivi. Corrispondentemente alla divinità vengono attribuiti tre volti: quello del Dio che crea, quello del Dio che conserva e quello del Dio che distrugge, le corrispondenti ipostasi religiose essendo Brahmà, Vishnu e Civa, Questi iddii hanno fatto da punti di riferimento per un culto differenziato, ma anche per vie dell'azione, vie distinte ma, in ultima analisi, equivalenti.

È in questo quadro che si definiscono propriamente i concetti di Via della Mano Destra e Via della Mano Sinistra. La prima via ha un riferimento coi due primi aspetti del Principio (Brahmà e Vishnu) e sul piano dei comportamenti, dell'etica e del culto è caratterizzata dall'affermazione dell'esistente, dalla sua sacralizzazione, dalla conformità alla legge (Dharma) e ai precetti positivi di un dato ordinamento tradizionale della vita terrena. Invece la Via della Mano Sinistra - Vàrnàcara - sta essenzialmente sotto il segno di Civa (o delle sue çakti - per es. Durgà e Kàli), cioè dell'aspetto distruttivo della divinità, e può comportare non solo il distacco e lo svincolamento da ogni ordine e norma esistente e una «anomia» (= adbarma, il non aver un nomos = una legge). Così Civa ha potuto essere sia il dio degli asceti che si sottraggono ai vincoli del mondo, sia addirittura dei fuori-legge.

A tale riguardo possono però nascere (e sono effettivamente nati) tanto degli equivoci, quanto delle deviazioni. Si è che in questo ambito il concetto di «distruzione» va associato a quello di «trascendenza»: dunque, non distruggere per distruggere ma distruggere per trascendere (l'etimologia della parola «trascendere» è: superare innalzandosi). Poi, ovviamente, non tanto è quistione di distruzioni materiali quanto, e soprattutto, di esperienze distruttive, perché qui si tratta sempre di vie della realizzazione spirituale. Il riferimento ora fatto alla «trascendenza» è essenzialissimo; l'orientamento verso l'alto è il presupposto costante e imprescindibile. Esso distingue inequivocabilmente il mondo di cui stiamo parlando da quello sinistro, dianzi accennato. di De Sade e simili, malgrado le oscure estasi che questo può anche suscitare.

È naturale che chi segue la Via della Mano Sinistra ne faccia l'apologia; cOSI in un testo si legge che essa sta alla Via della Mano Destra come il vino sta al latte, e che da essa sono attratti coloro che hanno una qualificazione o vocazione da Vira (= un orientamento virile o eroico). Ma può esservi anche un titolo positivo per questa rivendicata preminenza, ove si metta in risalto appunto la dimensione della «trascendenza »: perché è necessariamente distruttivo (distruttivo rispetto al finito) quel che ha un carattere di trascendenza, e tale carattere è stato attribuito, oltre che a Civa, allo stesso Principio Supremo. Ciò risulta da un testo ortodosso avente in India quasi la stessa popolarità che in Occidente ha la Bibbia, la Bhagavad-gita. Nel capitolo undicesimo di questo testo, come «forma suprema» della Divinità viene indicata quella di una forza distruttiva e travolgente, e si esorta il guerriero Arjuna a divenirne l'incarnazione umana vincendo ogni angoscia e ogni debolezza dell'anima. Si può far rientrare senz'altro nella Via della Mano Sinistra questo orientamento: combattimento, morte, distruzione ricevono un crisma metafisico se il loro fondo è l'impulso alla trascendenza, nell'adombramento di un attributo divino essenziale.

Però abitualmente la Via della Mano Sinistra non viene riferita alla «Via del Guerriero» (malgrado le evidenti convergenze), sibbene ad esperienze particolari nelle quali, come nel dionisismo occidentale, figura anche l'elemento orgiastico in genere, ovvero quello specificamente sessuale.

In tali esperienze si cerca qualcosa di distruttivo in vista della sua virni «decondizionalizzante ». Cosi sarebbe un grave errore pensare che, ad esempio, quando in quella Via vengono usati il sesso e la donna, si miri al « piacere» quale comunemente lo si intende: la «voluttà» valendo anzi come uno sfaldamento che porta verso la direzione opposta. Nella Via della Mano Destra le unioni sessuali vengono ritualizzate, vengono fatte delle imagini dello ieros gamos, dell'amplesso di una coppia divina o mitologica archetipa. Invece nella Via della Mano Sinistra le unioni sessuali debbono «uccidere» realizzando l'antica formula amore = morte. Si può rilevare che l'ermetismo alchemico occidentale ha annoverato l'uso della donna fra quelle che nel suo gergo cifrato polivalente ha chiamato le « acque corrosive» o i « veleni filosofali».

Un eminente studioso indii, il Das Gupta, ha indicato connessioni fra la Via della Mano Sinistra e certi « oscuri culti religiosi ». Poco sopra noi abbiamo detto che se esistono equivoci molto diffusi a carattere moralizzante nei riguardi dell'essenza di quella Via, si debbono però anche rilevare alcune forme degradate e degeneri di essa. In effetti, qui ci si trova su di un terreno assai infido, specie se si passa a vere e proprie « evocazioni », Esistono pratiche, il significato ultimo delle quali potrebbe venire riassunto cosi: attivare (o evocare) ciò che sta al disotto della forma per portarsi al disopra della forma. Per « forma» qui si deve intendere tutto ciò che è variamente condizionato e ordinato nell'essere umano o in una data struttura, con una sua fissità. Ogni ordine si definisce come una forma che soggioga e lega l'informe e l'elementare - se si vuole, il « demonico» nel senso antico e non cristiano morale del termine. Questo informe o elementare viene ora liberato; emergendo, esso non può non agire distruttivamente sulla forma. Se tutto finisce qui, si è nel campo di riti oscuri, stregonici. Forme di invasamento (eventualmente, non avvertite come tali) possono esserne il risultato. Se invece la distruzione della forma porta al di là, al disopra, della forma, il tutto può acquistare un carattere a suo modo positivo. A tale riguardo, si potrebbe perfino parlare di una «strumentalizzazione bianca della magia nera» (giungendo ad includere le stesse cosidette «messe nere » ), e questo può essere un aspetto della Via della Mano Sinistra. Donde, i riferimenti fatti dal Das Gupta. Ognuno vede i rischi che si incontrano in simili pratiche. È importante rilevare, d'altra parte, che in India la Via della Mano Sinistra non è battuta da individui isolati, attratti dall'uno o dall'altro aspetto di essa, ma che ad essa corrispondono delle tradizioni con dei maestri spirituali (guru) e che essa spesso comporta anche delle iniziazioni. L'iniziazione, nell'aspetto da considerare in questo contesto, è tenuta a suscitare nel singolo un potere che se non lo immunizza completamente da ogni pericolo (a tanto, non si dovrebbe più esser degli uomini), almeno lo aiuta a tenersi in piedi, naturalmente se egli sa vedere ben chiaro in se stesso, se conosce le proprie possibilità, se il fine ultimo viene tenuto costantemente presente.

 

 

 

19. senso e clima dello zen

 

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Si sa dell'interesse che il cosidetto Zen ha suscitato anche fuor dagli ambienti specialistici, da quando D. T. Suzuki lo ha fatto conoscere nei suoi libri Introduction to Zen Buddhism, Essays in Zen Buddhism, successivamente tradotti anche in francese. Questo interesse deriva da una specie di incontro paradossale. Per l'Occidentale in crisi lo Zen presenta infatti qualcosa di «esistenzialistico» e di surrealistico. Anche la concezione Zen di una realizzazione spirituale libera da qualsiasi fede e da qualsiasi vincolo e, in più, il miraggio di una « rottura di livello» istantanea e, in un certo modo, gratuita, tale, tuttavia, da risolvere ogni angoscia dell'esistenza, non hanno potuto non esercitare su molti una attrazione particolare. Però tutto questo riguarda, in buona misura, soltanto le apparenze: la «filosofia della crisi» in Occidente, che è la conseguenza di tutto uno sviluppo materialistico e nìchilistico, e lo Zen, che per antecedente ha sempre la spiritualità della tradizione buddhista, presentano dimensioni spirituali ben distinte, per cui ogni autentico incontro presuppone, in un Occidentale, o una predisposizione eccezionale, ovvero la capacità di quella metanoia, di quel rivolgimento interno, che riguarda meno « atteggiamenti» intellettuali, che non ciò che in ogni tempo e luogo è stato concepito come qualcosa di assai più profondo.

Lo Zen vale come la dottrina segreta trasmessa, al di fuori delle scritture, dallo stesso Buddha al suo discepolo Mahàkàçyapa: introdotta in Cina verso il VI secolo da Bodhidaarma e poi continuatasi attraverso una successione di Maestri e di «patriarchi» sia in Cina che in Giappone, ove ancor viva, ha i suoi rappresentanti e i suoi Zendo (le «Sale della Meditazione»).

Quanto a spirito, lo Zen può venir considerato come una ripresa dello stesso buddhismo delle origini. Il buddhismo nacque come una energica reazione contro lo speculare teologizzante e il vuoto ritualismo in cui era finita l'antica casta sacerdotale indri, già detentrice di una sapienza sacra e viva. Il Buddha fece tabula rasa di tutto questo; pose invece il problema pratico del superamento di ciò che nelle esposizioni popolari viene presentato come « il dolore dell'esistenza» ma che nell'insegnamento interno appare essere, più in genere, lo stato di caducità, di agitazione, di « sete» e di oblio degli esseri comuni. Avendola lui stesso percorsa senza l'aiuto di nessuno, egli indicò a chi ne sentiva la vocazione la via del risveglio, della immortalità. Buddha, come si sa, non è un nome, ma un attributo, un titolo; significa «lo Svegliato », «colui che ha conseguito il risveglio» o 1'« illuminazione ». Quanto al contenuto della sua esperienza, il Buddha tacque, ad impedire che, di nuovo, invece di agire ci si desse a speculare e a filosofare. Cosi egli non parlò, come i suoi predecessori, del Brahman (dell'Assoluto), né dell'Atmà (l'Io trascendentale) ma usò il solo termine negativo di nirvàna, anche a rischio di fornire appigli a coloro che, nella loro incomprensione, nel nirvàna dovevano vedere il « nulla », una ineffabile e evanescente trascendenza quasi al limite dell'inconscio e di un cieco non-essere.

Orbene, nello sviluppo successivo del buddhismo si ripeté mutatis mutandis, proprio la situazione contro cui il Buddha aveva reagito; il buddhismo divenne una religione coi suoi dogmi, con suoi rituali, con una sua scolastica, con una sua mitologia. Esso si differenziò in due scuole, l'una - il Mahàyàna - più ricca di metafisica e compiacentesi di un astruso simbolismo, l'altra _ I'Hinayàna - più severa e nuda nei suoi insegnamenti, ma troppo preoccupata della semplice disciplina morale portata su di una linea più o meno monastica. Il nucleo essenziale e originario, ossia la dottrina esoterica dell'illuminazione, andò quasi perduto.

Ed ecco che interviene lo Zen, a far daccapo tabula rasa, a dichiarare l'inutilità di tutti questi sottoprodotti, a proclamare la dottrina del satori. Il satori è un avvenimento interiore fondamentale, una brusca rottura di livello esistenziale, in essenza corrispondente a ciò che abbiamo chiamato il «risveglio». Però la formulazione fu nuova, originale, presso ad una specie di capovolgimento. Lo stato di nirvàna - il presunto nulla, l'estinzione, già lontano termine finale di uno sforzo di liberazione che secondo alcuni potrebbe richiedere perfino più di una esistenza - viene ora indicato come lo stato normale dell'uomo. Ogni uomo ha natura di Buddha. Ogni uomo è già un «liberato », superiore a nascita e a morte. Si tratta solo di accorgersene, di realizzarlo, di «vedere nella propria natura », formula fondamentale dello Zeno Come uno spalancamento senza tempo - questo è il satori. Per un lato, il salari è qualcosa di improvviso e di radicalmente diverso da tutti gli stati a cui sono abituati gli uomini, è come un trauma catastrofico della coscienza ordinaria; nel contempo è ciò che riconduce appunto a quel che, in un senso superiore, va considerato come normale e naturale; quindi è il contrario di una estasi o di una transe. È il ritrovamento e la presa di possesso della propria natura: illuminazione, o luce, che trae fuor dall'ignoranza o dalla subcoscienza la realtà profonda di ciò che, da sempre, si fu e che mai si cesserà di essere, qualunque sia la propria condizione.

La conseguenza del salari sarebbe una visione completamente nuova del mondo e della vita. Per chi lo ha avuto, tutto è lo stesso - le cose, gli altri esseri, sé medesimo, «il cielo, i fiumi e la vasta terra» - eppure tutto è fondamentalmente diverso: come se una dimensione nuova si fosse aggiunta alla realtà e ne avesse trasformato completamente il significato e il valore. Secondo quanto dicono i maestri dello Zen, il tratto essenziale della nuova esperienza è il superamento di ogni dualismo: dualismo fra dentro e fuori, fra lo e non-Io, fra finito e infinito, fra essere e non-essere, fra apparenza e realtà, fra «vuoto» e «pieno », fra sostanza e accidenti - e altre SI indiscernibilità di ogni valore posto dualisticamente dalla coscienza finita e offuscata del singolo, sino a dei limiti paradossali: sono una stessa cosa il liberato e il nonliberato l'illuminato e il non-illuminato, questo mondo e l'altro mondo,' colpa e virtù, Lo, Zen riprende effettivamente l'equazione paradossale del buddhismo Mahàyàna: nirvana = samsara, e qu.ella del taoismo: «l'infinitamente lontano è il ritorno », È come dire: la liberazione non è da cercarsi in un aldilà; questo stesso mondo è l'aldilà, è la liberazione, nulla ha bisogno di essere liberato.

Il punto di vista del satori, della illuminazione perfetta, della «sapienza trascendente» (prajiiaparamila), è questo.

In essenza, si tratta di uno spostamento del centro di sé. In qualsiasi situazione e in qualsiasi avvenimento della vita ordinaria, anche nei più banali, il posto del senso comune, dualizzante e intellettualistico di sé, viene preso da un essere che non conosce più un lo contrapposto a un non-Io, che trascende e riprende i termini di ogni antitesi, tanto da godere di una perfetta libertà e incoercibilità: come quella del vento, che soffia dove vuole, ed anche dell'essere nudo che, proprio perché «ha lasciato la presa », (altra espressione tecnica), perché ha abbandonato tutto [« povertà »), è tutto e possiede tutto.

Lo Zen - almeno la corrente predominante dello Zen - insiste sul carattere discontinuo, improvviso, imprevedibile della dischiusura del satori. Con riferimento a ciò, il Suzuki era andato oltre il segno nel polemizzare contro le tecniche in uso nelle scuole indu, nel Sàrnkhya e nello Voga, ma contemplate anche in alcuni dei testi originari del buddhismo. La similitudine è quella dell'acqua che ad un dato momento si tramuta in ghiaccio. Viene anche data l'imagine di una soneria che ad un dato punto, per una qualche scossa, scatta. Non vi sarebbero sforzi, discipline o tecniche che da per sé possano condurre al satori. Si dice, anzi, che talvolta esso interviene ad un tratto, quando abbiamo esaurito tutte le risorse del nostro essere, soprattutto del nostro intelletto e della nostra capacità logica di comprensione. Altre volte sensazioni violente, perfino un dolore fisico, possono propiziarlo. Ma la causa può essere anche la semplice percezione di un oggetto, un fatto qualunque dell'esistenza ordinaria, data una certa disposizione latente dell'animo.

A tale riguardo, possono però nascere degli equivoci. Si è che, come riconobbe lo stesso Suzuki, «in genere non sono state date indicazioni sul lavoro interiore che precede il satori ». Egli, comunque, parla della necessità di passare, prima, per un «vero battesimo del fuoco ». Del resto, la stessa istituzione delle cosidette «Sale di Meditazione» dove coloro che vogliono raggiungere il satori si assoggettano ad un regime di vita analogo, in parte, a quello di alcuni Ordini cattolici, indica la necessità di una preparazione preliminare, la quale anzi può prendere un periodo di molti anni. L'essenziale sembrerebbe consistere in un processo di maturazione, identico a quello dell'avvicinarsi ad uno stato di estrema instabilità esistenziale, dato il quale basta un minimo urto per produrre il cambiamento di stato, la rottura di livello, l'apertura che conduce alla «visione folgorante della propria natura ». I Maestri conoscono il momento in cui la mente del discepolo è matura e l'apertura è sul punto di prodursi; allora essi danno, eventualmente, la spinta decisiva. Talvolta può essere un semplice gesto, una esclamazione, qualcosa di apparentemente irrilevante, perfino di illogico, di assurdo. Ciò basta a produrre il crollo di tutta la falsa individualità e, col satori, subentra lo «stato normale », si assume il «volto originario », «quello che si aveva prima della creazione ». Non si è più dei «cacciatori di echi» e degli «inseguitori di ombre ». Viene di pensare, in alcuni casi, ad un analogo del motivo esistenzialista del « fallimento» o « naufragio» (das Scbeitern - Kierkegaard, jaspers). Infatti, come si è accennato, spesso l'apertura avviene appunto quando si sono esaurite tutte le risorse del proprio essere e, per cOSI dire, si è messi con le spalle al muro. Lo si può vedere in relazione ad alcuni metodi pratici di insegnamento dello Zeno Gli strumenti più usati sul piano intellettuale sono i kàan e i mondo; il discepolo viene messo dinanzi a dei detti o a delle risposte di un genere paradossale, assurdo, talvolta grottesco o « surrealistico ». Vi deve logorare la mente, se necessario per anni interi, fino al limite estremo di ogni facoltà normale di comprensione. Se, allora, si osa fare ancora un passo avanti, può prodursi la catastrofe, il capovolgimento, la metanoia. Si ha il satori.

In pari tempo, la norma dello Zen è quella di una autonomia assoluta. Niente dèi, niente culti, niente idoli. Svuotarsi di tutto, perfino di Dio. « Se sulla tua via incontri il Buddha, uccidilo » - dice un Maestro. Occorre abbandonare tutto, non appoggiarsi a nulla, andare avanti, con la sola essenza, fino al punto della crisi. Dire qualcosa di più sul satori e fare un confronto fra esso e le varie forme di esperienza mistica e iniziatica d'Oriente e d'Occidente, è molto difficile. Avendo accennato ai monasteri Zen, vale rilevare che in essi si trascorre solo il periodo della preparazione. Chi ha conseguito il satori, lascia il convento e la «Sala della Meditazione », torna al mondo scegliendo si la via che più gli conviene. Si potrebbe pensare che il satori sia una specie di trascendenza che allora si porta nell'immanenza, come stato naturale, in ogni forma della vita.

Dalla nuova dimensione che, come si è detto, in seguito al satori si aggiunge alla realtà, procede un comportamento per il quale potrebbe valere la massima di Lao-tze: «Essere interi nel frammento ». In relazione a ciò, è stata rilevata l'influenza che lo Zen ha esercitato sulla vita estremo-orientale. Fra l'altro, lo Zen è stato chiamato «la filosofia del Sarnuraj » e si è potuto affermare: «la via dello Zen è identica alla via dell'arco» o «della spada ». Si vuoI significare che ogni attività della vita può essere compenetrata di Zen e cosi elevata ad un significato superiore, ad una « interezza » e ad una « impersonalità attiva », Un senso di irrilevanza dell'individuo che non paralizza ma assicura una calma e un distacco che permette una assunzione assoluta e « pura» della vita, in dati casi sino a forme estreme e tipiche di eroismo e di sacrificio, che per la maggioranza degli Occidentali sono quasi inconcepibili (vedi il caso dei Kamikazé nell 'ultima guerra mondiale).

È uno scherzo ciò che dice lo Jung, ossia che, più di qualsiasi corrente occidentale, è la psicanalisi che potrebbe capire lo Zen, perché, secondo lui, l'effetto del satori sarebbe la stessa interezza priva di complessi e di scissioni a cui presume di giungere il trattamento psicanalitico quando rimuove le ostruzioni dell'intelletto e le sue pretese di supremazia, e ricongiunge la parte cosciente dell'anima con l'inconscio e con la «Vita ». Lo Jung non si è accorto che nello Zen, sia il metodo che i presupposti stanno all'opposto dei suoi: non esiste 1'« inconscio» come una entità a sé, a cui il conscio debba aprirsi, ma si tratta di una visione supercosciente (l'illuminazione, la bodbi o « risveglio ») che porta in atto la « natura originaria» luminosa e distrugge, con ciò, l'inconscio. Tuttavia ci si può tenere al sentimento di una « totalità» e libertà dell'essere che va a manifestarsi in ogni atto dell'esistenza. Un punto particolare è però di precisare il livello a cui ci si riferisce.

In effetti, specie nella sua esportazione fra noi, si sono avute delle tendenze ad « addomesticare» o moralizzare lo Zen velandone, anche sul piano della semplice condotta di vita, le possibili conseguenze radicaliste e «antinomistiche» (= di antitesi alle norme vigenti) e insistendo invece sugli ingredienti obbligatori degli « spiritualisti », sull'amore e sul servizio al prossimo, sia pure purificati in una forma impersonale e asentimentale. In genere, sulla «praticabilità» dello Zen non possono non nascere dei dubbi, in relazione al fatto che la «dottrina del risveglio» ha un carattere essenzialmente iniziatico. Cosi essa non potrà mai riguardare che una minoranza, in opposto al buddhismo più tardo il quale prese la forma di una religione aperta a tutti oppure di un codice di semplice moralità. Come ristabilimento dello spirito del buddhismo originario, lo Zen avrebbe dovuto tenersi ad un esoterismo.

In parte, lo ha fatto: basta riandare alla leggenda delle sue origini. Tuttavia vediamo che lo stesso Suzuki è stato incline a presentare in modo diverso le cose e ha valorizzato quegli aspetti del Mahàyàna che «democraticizzano » il buddhismo (del resto, la denominazione «Mahayana» è stata interpretata come il «Grande Veicolo» anche nel senso che sarebbe adatto per ampie cerchia, non per pochi). Se si dovesse seguirlo, nascerebbero delle perplessità sulla natura e sulla portata dello stesso satori; sarebbe cioè da chiedersi se una tale esperienza riguardi semplicemente il dominio psicologico, morale o mentale o se investa quello ontologico, come ne è il caso per ogni iniziazione autentica, della quale può però esser quistione solo per un assai piccolo numero.

 

 

 

20. prospettive dell'aldilà

 

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Già nel 1927 l'Oxford University Press aveva pubblicato un testo tibetano, il «Bardo Todol », in una traduzione inglese curata da W. Y. Evans-Wentz e dal Lama Kazi Dawa Samdup. Questo testo, a cui è stato dato il titolo di «Libro tibetano del morto» attirò subito l'attenzione non solo degli storici della religione ma anche di un pubblico assai più vasto.

Da molti questo testo è stato ravvicinato al « Libro dei Morti» egiziano; ma, come subito diremo, si potrebbero stabilire dei confronti anche con antichi insegnamenti sapienziali occidentali.

A chi non è un materialista ma ha familiari solo le concezioni dell'oltretomba proprie al cristianesimo, tali testi offrono prospettive alquanto conturbanti. La concezione cristiana ha infatti un carattere statico e stereotipo. Anzitutto essa postula come un dogma l'immortalità quale attributo di qualsiasi anima, non distinguendo poi un eventuale semplice e precario sopravvivere dall'immortalità vera. In secondo luogo, per l'aldilà viene considerato un processo quasi automatico nel senso che il passare negli stati chiamati di paradiso, di inferno e di purgatorio sarebbe determinato solo dal genere di vita condotto dall'individuo su questa terra, giudicato in termini di moralità religiosa. Invece dai testi or ora citati l'aldilà viene presentato in termini assai più dinamici e drammatici, con alternative molteplici e destini non del tutto prede termina ti.

Circa alcuni dei temi fondamentali già noti anche all'antichità occidentale precristiana, ci si può riferire a ciò che Plutarco riferisce nel trattato «De facie in orbe lunae». Egli dice che vi sono due morti. La prima è la morte che avviene sulla terra e nel regno di Demetra; è quella in cui il corpo si decompone e ritorna, come cadavere, alla Madre Terra, di cui Demetra è la dea. A tale morte sopravvive però il complesso anima-spirito, per «anima» intendendosi l'insieme delle facoltà psichiche, affettive, istintive, con ricordi, impulsi, ecc.; per « spirito », invece, il principio sovrannaturale della personalità, che però di rado affiora nella vita ordinaria tanto da potersi dire che l'uomo comune sa bensi di una sua «anima», ma quasi ignora che cosa è lo «spirito» in senso eminente.

Ora - continua Plutarco - in una fase successiva alla morte del corpo fisico questo stesso complesso si dissocia, e tale è la «seconda morte », che non sopravviene sulla terra ma, simbolicamente, nella Luna e nel segno della dea Proserpina. Allora l'anima si stacca a sua volta dal principio più alto dell'essere, e viene riassorbita nella sostanza vitale cosmica, da intendersi propriamente come quella che è la radice inesausta delle esistenze caduche ripullulanti nel «circolo della generazione »,

Si può notare, qui, una corrispondenza esatta con l'antico insegnamento tradizionale indii, che parla delle «due vie »: due vie, perché a questo punto si presenterebbe un'alternativa essenziale, a cui è da riferirsi il senso sia dell'augurio: «Che tu possa scampare alla seconda morte », sia la maledizione: «Che tu possa morire della seconda morte ». La nozione della « seconda morte» era nota anche nell'antico Egitto, da dove una eco passò nello stesso Antico Testamento. Del resto, il termine ebraico corrispondente all'« inferno» cristiano, la «geenna del fuoco », era anche quello designante il luogo dove si distruggevano i rifiuti di una città; comprende dunque l'idea fondamentale di una distruzione (non di un luogo di pena) ed allude pertanto al possibile esito negativo delle vicende d'oltretomba, al caso in cui, dopo un'esistenza intermedia effimera, ossia dopo un sopravvivere più o meno lungo nell'oltretomba, col dissolversi e il venir riassorbita dell'« anima» nulla rimarrebbe dell'essere personale cosciente: sarebbe un effettivo estinguersi. Di ciò - dice Plutarco - è il caso per coloro che furono completamente attaccati alla terra, che identificarono del tutto il proprio essere con la materialità, con la vita delle sensazioni, degli istinti e delle passioni, senza mai «svegliarsi », senza mai portare in alto lo sguardo. La concezione classica dell'Ade, luogo dove non sopravvivono che delle «ombre », può venire ricondotta ad un analogo ordine di idee.

Ma per altri la « seconda morte» può significare la liberazione o la possibilità della liberazione. Proprio lo staccarsi dell'anima (dopo il morire del corpo fisico) diviene la condizione per «andar oltre », per un'effettiva trasfigurazione immortalante, per un «rinascere in alto» in un'integrazione dello «spirito ». E coloro ai quali è dato partecipare a questo destino, da Plutarco vengono chiamati i «vincitori »; ad essi è propria «la corona degli iniziati e dei trionfatori »,

Queste prospettive dell'aldilà si fanno più complesse se ci si riferisce ai testi orientali citati al principio del presente capitolo e soprattutto al «Libro tibetano del morto », perché in essi sono presentate alternative più differenziate, a decidere delle quali sono richiesti dati atteggiamenti e date azioni (o reazioni) dell'anima. Anche tutto quel che in una certa misura vi è di automatico nei processi di cui parla Plutarco qui viene superato. Se il « Libro dei morti» egiziano si tiene ad un piano quasi magico con le formule e gli scongiuri forniti, quasi come un viatico, al morto per scampare alla «seconda morte », per sussistere e riaffermarsi nell'oltretomba, negli insegnamenti tibetani si dà risalto, piuttosto, alla capacità di dissolvere una fantasmagoria di apparizioni e di visioni che sono solo proiezioni del contenuto degli strati più profondi inconsci del proprio essere, legati anche all'una o all'altra potenza cosmica. Tale capacità determinerebbe una varietà di destini. La phi alta possibilità, quella di una liberazione veramente immortalante, corrisponderebbe al momento in cui all'anima si rivela dopo la morte la « pura Luce» nella sua trascendenza; tutto dipendendo dal suo riuscire ad identificarsi attivamente e intrepidamente con essa. Nello schema riferito da Plutarco ciò equivarrebbe all'integrarsi dello «spirito» nella sua vera origine, nel momento in cui esso si scioglie dal complesso «anima» o, per meglio dire, in cui tale complesso lo abbandona, cessa di offrirgli un sostegno, ma anche un ultimo vincolo.

È sintomatico il fatto, che simile veduta, inusitata per i più, oggi oltre a suscitare un vivo interesse nel campo degli studi spirituali, ha trovato chi l'ha ritenuta suscettibile anche di applicazioni pratiche sperimentali. Lo dimostra il libro, uscito già in quattro edizioni presso la University Press di New York, avente per titolo «The Psychedelic Esperience » e per sottotitolo «Manuale basato sul Libro tibetano dei Morti». Gli autori - T. Leary, R. Metzner e R. Albert - credono che l'interpretazione del testo tibetano come un insieme di insegnamenti riguardanti esclusivamente stati ed azioni dell'oltretomba, sia unilaterale e poco «profonda». Il tutto potrebbe valere anche per chi vive, pel conseguimento degli stessi fini. Viene ricordato come fin dall'antichità sia stata riconosciuta la corrispondenza fra gli stati provocati dalla morte e quelli che si attraversano con l'iniziazione e con la «morte iniziatica». Da qui, un'interpretazione ad hoc del testo tibetano, in un quadro di evocazioni «psichedeliche», cioè di proiezioni del proprio essere più profondo, da rendere possibile soprattutto con l'aiuto di droghe. È chiaro il carattere problematico e avventuroso di tali assunzioni. Peraltro, esso è stato anche la causa di un infortunio del primo dei tre autori del libro or ora citato, del prof. Leary, il quale si è visto estromettere dall'insegnamento dalle autorità accademiche per aver incoraggiato i suoi studenti ad usare l'LSD ed altre droghe per i fini dianzi accennati.

 

 

 

21. il doppio volto dell'epicureismo

 

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La fortuna che le dottrine di Epicuro e della sua scuola ebbero a Roma è un fatto che di solito viene interpretato come una prova della poca elevatezza del pensiero romano. L'epicureismo viene infatti concepito come un sinonimo di materialismo, di ateismo e di glorificazione del piacere. Proprio quel che ci voleva - si dice - per la decadenza romana, per dei patrizi sfaccendati o per dei soldati che, fuor dalle armi, non sapevano interessarsi a nulla di superiore. Attraverso Epicuro e il suo fervente apostolo romano, Lucrezio, si confermerebbe la tendenza spiccatamente antimetafisica e antispeculativa dell'antico Romano. Questa opinione, ripresa negli stessi testi facenti da base alla comune educazione giovanile, in parte è unilaterale, in parte è falsa. Alcune brevi considerazioni in proposito non saranno prive di interesse.

Cominciamo col mettere nella giusta luce il significato che, in se stessa, ha la dottrina di Epicuro. Essa si compone di una fisica e di una etica, l'una in stretta dipendenza dall'altra. La « fisica» per Epicuro doveva essere una introduzione o propedeutica all'etica. Ciò può sembrare strano, se si considera che la fisica di Epicuro si stacca nettamente dalle precedenti interpretazioni metafisiche e religiose della natura, mentre ha diversi tratti in comune, come orientamento, con la fisica moderna. Essa intende spiegare i fenomeni sia fisici, sia psichici mediante pure cause naturali. Esclude ogni agente sovrannaturale, la stessa anima viene considerata cosi come si può considerare una cosa, senza nulla di mistico e di romantico. Gli dèi e la provvidenza sono banditi dalla trama delle cose. La sopravvivenza dell'anima viene messa in discussione. Si chiederà dunque: una simile concezione, come può avere un valore etico?

Epicuro risponde: per la liberazione interiore, per lo schiarìmento dello sguardo che essa, nel suo realismo, produce. Epicuro esprime senza reticenze la sua intenzione di voler distruggere, con la sua fisica, tutte quelle angosce per la morte e per l'aldilà, tutto l'insano pathos dell'anelare, dello sperare e dell'implorare che già in Grecia corrispose ad un periodo di decadenza, ad una alterazione della originaria spiritualità eroica e olimpica, e che purtroppo anche a Roma doveva rivestire il significato di un'alterazione dell'antica etica e dell'antico ritualismo. La fisica di Epicuro mira dunque a ricondurre l'uomo a se stesso, a staccarlo dalle imaginazioni disordinate, ad addestrare ad un realismo e a creare in sé una calma interiore. Dopo di che, può subentrare una disciplina della vita, i dettagli della quale qui non possono venire esaminati ma che in ogni caso ha poco da fare con una ricerca del « piacere» quale oggi comunemente lo si intende, soprattutto quando si dà a qualcuno la qualifica di «epicureo ».

A tale riguardo basterebbe già rilevare la simiglianza che in molti punti, e nella stessa terminologia, l'etica di Epicuro ha con l'etica stoica, la quale, come si sa, è una delle più severe. Come negli stoici, del pari in Epicuro uno degli scopi della disciplina interiore è 1'« autarchia », ossia la sufficienza a se stessi, il dominio del proprio animo, da sottrarre alla contingenza delle impressioni, degli impulsi, dei movimenti irrazionali. È a tale punto che Epicuro, a differenza degli stoici, parla del « piacere ». Egli non crede, come gli stoici, in una « virtù » arida, in un freddo irrigidimento di fronte alle passioni umane. Egli ritiene che ad un animo giunto a possedere se stesso inerisca una intima felicità, un godimento inalterabile, quasi una calma luce che dà gioia, che nulla può turbare e di fronte alla quale ogni inclinazione volgare per una fuggevole felicità o voluttà si dimostra spregevole. Questo è il piacere «positivo », che Epicuro pone come meta, distinguendolo dal piacere « negativo », ossia dal piacere da realizzare sottraendosi ad ogni causa di agitazione o sofferenza del corpo e dell'animo: piacere, il secondo, che Epicuro considera solo come un mezzo a che il manifestarsi del primo non sia ostacolato. Ed egli giunge al punto di dire che chi realizza il «piacere» quale egli l'intende non viene meno ad esso nemmeno di fronte ai piu atroci tormenti, nemmeno trovandosi nel « toro di Falaride », cioè nella prigione di bronzo a forma di toro entro la quale si faceva morire a fuoco lento il condannato: dal che si vede quanto poco l'epicureismo autentico ha da fare col concetto volgare che se ne ha. Epicuro nega, si, gli dèi quali entità che intervengano ad arbitrio nelle vicende del mondo o che si invocano nelle piccole faccende dell'anima umana, o, ancora, che servono solo da spauracchio per degli spiriti deboli - ma li ammette in sede etica e, invero, proprio secondo l'antica concezione olimpica ellenica: come essenze distaccate, perfette, senza passione, che al Saggio debbono valere come supremi ideali.

Se nei suoi aspetti migliori ed essenziali l'epicurismo incorpora tali significati, la sua accettazione da parte dei Romani ci si pre: senta evidentemente sotto una luce assai diversa da quella a CUI di solito si pensa. A dire il vero, già per la spiritualità, dovuta al fatto che i più hanno una idea preconcetta e unilaterale circa quel che dovrebbe essere «spirituale », con essa pretendono misurare ogni cosa e fuori di essa non riescono a vedere null'altro. Ora, è da tener presente che se in origine il Romano fu antispeculativo ed antimistico, ciò non lo fu per una sua inferiorità, bensi, in fondo, per una sua superiorità. Si è che egli possedeva uno stile di vita congenito, rifuggente da misticismi puri e da effusioni sentimentali; aveva una intuizione superrazionale del sacro, strettamente connessa a norme di azione, a riti e a simboli precisi, ad un mos e ad un fas e ad un particolare realismo. Non conosceva evasioni. Non temeva la morte. Possedeva un significato immanente del vivere. Ignorava gli spaventi dell'oltretomba. Come sopravviventi al sonno eterno dell'Ade concepiva soltanto i suoi capi e i suoi eroi divinificati. . Le successive forme speculative, pseudoreligiose o estettzzanti che attraverso elementi esotici o preromani presero piede a Roma, rispetto a tutto ciò hanno solo un significato di degenerescenza. È per un istintivo reagire dell'antica anima romana che l'epicureismo fu accettato. L'epicureismo conteneva i germi di una semplificazione di una liberazione dal superfluo: una fisica come una visione chiara e realisti ca del mondo, una etica come disciplina immanente di vita, grazie alla quale dalla misura, dall'autarchia, dalla calma dell'animo affiora il bene di una felicità inalterabile e onnipresente, quasi come crisma di una compiutezza che, secondo un detto dello stesso Epicuro, « rende simili agli Olimpici »,

Il fatto che questi germi in parte fruttificarono, e ricondussero a sé l'antica anima romana, in parte degenerarono a causa di un terreno già alterato, è cosa già secondaria. Qui volevamo soltanto mettere in luce, come causa vera del successo dell'epicureismo a Roma, una certa corrispondenza di motivi: motivi, riferentisi a qualcosa di superiore tanto ad ogni volgare edonismo o materialismo, quanto ad ogni informe, agitato e divagante misticismo.

 

 

 

22. volti e poltiglia

 

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Uno degli episodi che più caratterizzano lo spirito del bolscevismo si riferisce al cosidetto caso Vasilloff. Il professor Vasilloff è un biologo russo che, insieme ad altri suoi colleghi, è finito in Siberia non per motivi propriamente politici, ma per il semplice fatto di essere un esponente della teoria « genetica ». Il genetismo è quella corrente della biologia, che ammette nell'uomo una preformazione, cioè disposizioni e caratteri che sono suoi, congeniti (basati sui cosidetti «geneti»), e non derivano dall'esterno.

Questa teoria è stata dichiarata «contro-rivoluzionaria ». Il marxismo vuole infatti che tutto ciò che l'uomo è sia il risultato dell'ambiente e, in particolare, delle forze e delle condizioni economico-sociali. È in base a tale veduta che il comunismo pensa seriamente di poter dare vita ad un essere umano nuovo, all'uomo collettivo proletario, liberato «dagli accidenti individualistici dell'èra borghese », Un tale assunto sarebbe invece frustrato ammettendo che l'uomo abbia una sua forma interna, che esistano delle persone, con una loro natura propria, una loro qualità e, se si vuole, un loro destino, anziché gli atomi di una massa pronta a subire un'azione meccanica esterna ed a produrre, di conseguenza, il tipo collettivo desiderato. Una opportuna campagna, condotta da un biologo d'indirizzo marxista, il Lysenko, mise dunque in luce il pericoloso germe di eresia contenuto nella teoria - sia pure semplicemente antropologica - del genetismo e al professor Vasilloff fu fatta prendere la via della Siberia, luogo ove oggi in Russia si « rieducano» gli spiriti.

Una teoria fra le più espressive per la mentalità nordamericana è il «behaviorismo », unitamente alle vedute del Dawey. Questa teoria vuole che ognuno possa divenire quel che vuole alla sola stregua di un congruo processo pedagogico e tecnico. Se una data persona è quella che è, se ha date doti, se è, mettiamo, un pensatore, o un artista, o un uomo di stato, ciò non dipenderebbe da una sua natura propria, e non dice di una qualche reale differenza. Chiunque può esser cosi, solo che lo voglia e sappia « allenarvisi ». Questa è, evidentemente, la verità del self-made man, dell'uomo che si è fatto da sé, la quale dal piano del successo pratico e dell'arrivismo sociale va ad estendersi ad ogni dominio, corroborando il dogma egualitario della democrazia. Infatti se simile teoria è vera, non si può più parlare di differenze reali, di diversità di natura e di dignità. Ognuno può presumersi di possedere virtualmente tutto quello che un altro è, i termini superiore e inferiore perdono il loro significato, ogni sentimento di distanza e di rispetto diviene ingiustificato, tutte le vie sono aperte a tutti, si è davvero in regime di «libertà ».

Cosi noi ci troviamo di fronte ad una veduta fondamentale, in ordine alla quale bolscevismo e americanismo si incontrano in modo significativo. Come quella bolscevico-marxista, la teoria americana esprime l'insofferenza verso tutto ciò che nell'uomo ha un volto, una forma interna, una qualità propria e inconfondibile. Ad una concezione organica va a contrapporsi parimenti una concezione meccanicistica: perché tutto ciò che si può metter su partendo quasi dal nulla non potrà mai presentare che il carattere di qualcosa di «costruito ».

Vi è, si, nella veduta americana, un'apparenza di attivismo e di individualismo che può trarre in inganno. Ma, praticamente, se ne vede il significato, negli Americani. Essi sono la confutazione vivente dell'assioma cartesiano «Penso, dunque sono », perché «essi non pensano, eppure sono ». Infantilistica e diventata « naturale » come può esserlo un ortaggio, la psiche americana è forse ancor più informe di quella slava, aperta ad ogni forma di standardizzazione, da quella della cultura tipo Reader's Digest fino alle varietà legate al conformismo, all'opinione pubblica manovrata, alla pubblicità, alle idee fisse del progresso democratico. È in base a questo sfondo che devesi capire la teoria sopra accennata. La controparte del « posso essere quello che chiunque è» e della pedagogia in funzione equalitaria, è una regressione qualitativa, l'uomo divenuto interiormente informe.

Quest'uomo, dunque, è ciò che vuole sia il comunismo sia l'americanismo - a parte differenze, che non toccano l'essenziale. Le due vedute, di cui abbiamo detto, hanno pertanto sia un valore simbolico, sia una direzione aggressiva di efficacia. Sono la recisa contradizione dell'ideale tradizionale della personalità e attaccano alla base ciò in cui l'uomo di oggi può ancor trovare una difesa e un reattivo contro il caos della sua civiltà.

 In effetti, in un'epoca in cui non solo gli idoli sono croll~ti, ma anche molte idee e molti valori sono pregiudicati da una retorica e da una interna insincerità, resta aperta una via sola: cercare in se stessi quell'ordine e quella legge, che al di fuori si sono resi problematici. Ma ciò vuol dire anche: poter r.itrovare in se stessi una forma ed una verità, ed imporsela, realizzarla. «Conoscer se stessi per essere se stessi» - questa fu già parola d'ordine della civiltà classica. « Che i nostri pensieri e le nostre azioni siano nostre che le azioni di ciascuno gli appartengano» - scrisse Plotino, e dal mondo romano-germanico fino ad un Nietzsche si mantiene l'ideale della forma interna, della differenza, della fedeltà a ciò che si è, in opposto ad ogni tendenza disordinata.

Tutto ciò rientra forse nel solo dominio dell'etica individuale? Non diremmo. Se cerchiamo le cause prime del disordine attuale, a partir da quello che imperversa nel campo economico-sociale fino a precludere quasi ogni possibilità di sano equilibrio, noi le troviamo in un tradimento in massa di quell'ideale tradizionale. Non si sa e non si vuol sapere più ciò che uno è, quindi nemmeno il posto che gli conviene nel tutto, i quadri fissi entro i quali egli, senza lasciarsi distrarre, può sviluppare il suo essere e le sue possibilità e realizzare la propria perfezione, tanto da conferire davvero un senso ed una interiorità alla propria vita e da attuare in pari tempo la parte che gli corrisponde in un mondo gerarchicamente ordinato. Non è forse per questa via che si e determinata l'«èra economica» sino, da un lato, al parossismo del più sfrenato capitalismo, e dall'altro al livido odio di classe? Non è forse così che si è giunti ad un mondo composto prevalentemente da agitan e da spostati, ove non 1'« essere », ma l'arrivare a questa o quella posizione è quel che importa?

Ma se cosi è - e per poco che si voglia riflettere non si può non riconoscerlo - non è forse un illudersi e un illudere sperare nel potere di un sistema o dell'altro prima che si proceda ad una disintossicazione e ad una rettificazione nell'ambito interno degli atteggiamenti, degli interessi e del senso della vita?

Certo, questo ormai non lo si può pretendere dai più e di colpo. Orientare i migliori è però sempre possibile. È possibile mostrare che nel punto di non aver più una propria via, di cedere alla fascinazione delle forme esterne di accrescimento, di affermazione e di produzione, ci si apre alle forze che fanno vera, perfino sul piano biologico, la dottrina marxista e quella democratica, la dottrina dell'essere informe, di un mondo di atomi, di massa e di poltiglia anziché di uomini e di volti. Arrestarsi, ritrovarsi nel proprio modo d'essere e nel proprio equilibrio, la base per una giusta forza, oppure - pur credendo di far tutt'altro - dar nuova esca ad un processo collettivizzante che avvampa ormai per ogni dove, è ciò che ognuno deve decidere da sé, ma è anche la premessa, affinché quel che egli può rappresentare nelle stesse lotte politiche acquisti una base reale, una forma e un prestigio e, finalmente, si determinino le strutture che debbono esistere fra uomini e capi di uomini.

 

 

 

23. l'occidente ha una sua idea?

 

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Il problema che si lega alla domanda: l'Occidente ha una sua idea? è, invero, fondamentale per tutta la nostra civiltà. Sarebbe presuntuoso cercare di approfondirlo in un breve saggio. Cosi, qui, fisseremo soltanto alcuni punti essenziali di riferimento, e lo faremo attraverso la disamina di uno scritto che reca proprio questo titolo (Hat der Westen eine Idee?), di cui è autore Walter Heinrich.

L'Heinrich è uno dei principali scrittori tradizionalisti viventi, a cui si debbono varie opere di sociologia, storia delle religioni e critica dei tempi. Le sue idee si riallacciano a quelle della scuola del filosofo austriaco Othmar Spann, noto assertore di una concezione organica e antindividualistica, da lui formulata in molteplici domini. Ciò che l'Heinrich dice nel suo breve, ma denso saggio, tocca l'essenza dell'argomento, ed è fuori dai luoghi comuni e dalle facili formule della maggior parte di coloro che su di esso scrivono.

L'Heinrich inquadra nei seguenti termini la quistione: il mondo, non ancora ben unito, che si contrappone all'« Oriente» sul piano delle forze politiche, non può sperare in un successo se non saprà rifarsi ad una propria idea, vera e specifica, se non saprà assumere seriamente tale idea - e non già semplicemente discorrerne - e seguirla fedelmente nello sforzo di realizzarla.

Il mondo occidentale, quale pur sia la superiorità eventuale che esso può assicurarsi, specie sul piano tecnico-industriale, di fronte all'Oriente senza una tale idea non potrà tenergli realmente testa. Esiste, si, un principio di organizzazione difensiva superstatale economico-militare fra le nazioni occidentali, nel segno dell'atlantismo. Ma questo incipiente ordine ha un carattere soltanto esteriore e formale, manca ad esso la controparte di una idea. Se qui si parla di ordine e di libertà, non si dice per che cosa quest'ordine e questa libertà debbano alla fine servire; e quando si parla del valore dell'uomo, non si indica in che quadro non semplicemente materiale questo valore deve definirsi.

L'Heinrich si associa ad un altro scrittore, A. von Schelting, che seguendo lo stesso ordine di idee ha concluso dicendo che se il mondo dell'« Occidente» non saprà riprendere la sua idea storica, quel che può chiamarsi il contenuto spirituale eterno dell'Europa, se nelle sue nazioni non ridesterà tale idea, tanto da unificarle nel suo segno senza confonderle, difficilmente esso riuscirà a mantenere per molto ancora il posto che gli compete nella storia, ed anzi difendere la sua stessa esistenza.

Un altro punto importante è stato messo in rilievo da H. Freyer, dicendo che oggi l'Europa non deve più proteggersi da invasioni straniere, come al tempo dei Persiani, dei Cartaginesi, dei Saraceni e dei Tartari, ma contro derivati degradati della sua stessa civiltà, quali sono appunto Russia e America. Ci si trova di fronte a nemici esterni, solo perché ne esiste una all'interno.

La stessa idea fu espressa da noi, già da tempo, da Francesco Coppola, in occasione del Congresso Volta, parlando della «cattiva coscienza dell'Europa »: nel punto di tradire se stessa, proprio l'Europa si è resa responsabile della creazione di quelle ideologie e di quelle forme di vita che oggi, assunte e sviluppate sino in fondo da blocchi di potenze non europee, le costituiscono la più grave minaccia: minaccia tanto maggiore, proprio perché l'Europa continua a portare in sé i germi dello stesso male. L'Heinrich non vede diversamente le cose. Rileva però, a ragione, che forse è un bene che il nemico interno si sia, per COS1 dire, oggettivato e macroscopizzato in un nemico esterno, perché, in caso diverso, vi sarebbe stato il pericolo di non riconoscerlo all'interno e di non poter quindi prender posizione di fronte ad esso.

Una volta chiarito tutto ciò, il problema che si presenta in via naturale è di individuare il punto della frattura, il punto, cioè, in cui è cominciata la deviazione all'interno della stessa Europa. Ciò richiederebbe un'ampia disamina storica, di cui l'Heinrich ha creduto di indicare soltanto i termini più essenziali.

Secondo lui, l'idea europea corrispondeva ad un ordine organico, a quello di una civiltà e di una società articolate in corpi o unità particolari ben differenziate e gerarchizzate, a cui il singolo apparteneva in modo vivo e diretto, il tutto mantenendo dei riferimenti trascendenti, perché esisteva un collegamento vario della realtà temporale con lo spirituale, col sacro, col sovramondano, nelle forme positive di una grande tradizione, una nell'essenza, ricca e variopinta nelle sue diverse espressioni.

L'Heinrich ritiene che il punto di crisi dell'idea europea si sia manifestato quando questo ordinamento organico entrò in crisi, e in primo piano venne sempre più il semplice individuo, il singolo sciolto dalle connessioni proprie alle unità particolari e ben differenziate nelle quali prima si svolgevano la sua vita e le sue attività. È, questo, il principio dissolutivo dell'individualismo, nel suo senso più lato: individualismo che, alla fine, doveva far nascere di contro a sé il suo opposto. Cessato il regime delle unità particolari, doveva cioè prender forma una nuova potenza, il cosidetto Stato moderno, il quale conosce solo la massa amorfa e più o meno livellata dei cittadini che esso cerca di tener insieme e di controllare con un apparato centralistico basato sui poteri pubblici, sulla burocrazia, sul regime di polizia e COS1 via sino alle forme ultime rigide, disanimate e ipertrofiche della statolatria o del totalitarismo. I cosidetti Stati nazionali - rileva giustamente l'Heinrich - hanno proprio questa origine storica, sorsero nel corso di un processo dissolutivo del precedente sistema organico. E il concetto delle sovranità nazionali è l'esatta controparte sul piano internazionale del principio individualistico all'interno di uno Stato: con esso viene negata ogni idea superiore, atta a propiziare un ordine pieno di senso, una unità organica di popoli diversi, in ciò che può chiamarsi un ecumene europeo.

A questa negazione di tutto quel che trascende il particolare è parallelo il materialismo, una visione antimetafisica dell'esistenza, negatrice di ogni interesse superiore, di ogni forma spirituale di autorità, di qualsiasi sensibilità per quanto trascende la realtà concreta e il regno delle realizzazioni materiali.

Lungo codesta direzione l'Europa ha tradito se stessa, e l'individualismo disgregatore ha prodotto, attraverso una precisa dialettica, proprio quelle correnti - « sociali» nelle loro forme mitigate, collettivistiche e comunistiche nelle loro forme radicali - che, come si è detto più sopra, caratterizzano le potenze mondiali che oggi sul piano internazionale piu minacciano la stessa Europa e quanto in essa resta di un ordine sano e normale.

Sarebbe difficile contestare la giustezza di codeste idee. Noi stessi abbiamo avuto occasione più volte di darvi risalto, rilevando come nulla di serio possa essere raggiunto se ci si ferma a mezza strada assumendo come rimedio principi e ideologie presentanti lo stesso male, solo in una forma più diluita e meno visibile. Questa è anche l'illusione di coloro che si lasciano sedurre da certe fiacche appendici ideologiche dell'atlantismo, ossia da quei principi democratici e liberali che, geneticamente e storicamente, sono derivati proprio dall'individualismo e che malgrado tutto il parlare di valori della personalità e dell'« umanità », in realtà hanno per unico sfondo una visione materialistica, empirica e praticistica dell'esistenza.

Su questo piano, 1'« Occidente» è effettivamente privo di una qualsiasi idea degna di tale nome, capace di fare appello a qualcosa di superindividuale, capace di davvero animare e unire di là da ogni interesse inferiore e dalla semplice paura fisica del peggio. Ed è anche giusto quel che, citando il Caneval, dice l'Heinrich, quanto a differenza di clima collettivo fra «Oriente» e «Occidente »: il materialismo pratico dell'« Occidente» porta ad una condizione di inferiorità, per via dei suoi aspetti individualistici, edonistici e borghesi. Per contro, il materialismo ideologico proprio a marxismo e a comunismo ha il carattere - anche se distorto - di una idea o di un ideale superindividuale, e Mosca ha il potere di usare sinistramente un potenziale di fanatismo e di dedizione per qualunque suo scopo, in una misura di cui nessuna democrazia di tipo occidentale, liberale o sociale, è capace.

Chiarito tutto ciò, la via per una reintegrazione europea, in teoria apparirebbe abbastanza chiara: in ogni dominio, includendo quello dell'economia, ci si dovrebbe portare di là dal regime sia dell'individualismo, che di tutto ciò che è massa amorfa e collettivizzata. Quanto alle idee dell'Heinrich, vi sono da fare delle riserve circa un punto particolare, là dove egli, seguendo lo Spann, pone come principio, che l'uomo può esser persona solo in funzione di una data collettività o comunità, da intendersi come una realtà preesistente, a lui anteriore e superiore. Questa è una idea pericolosa, per via della quale la concezione organica può finire in un naturalismo e fornire una giustificazione a forme collettivizzanti. La persona umana va considerata come l'elemento primario nell'essere in sé formato. Ciò che può portarla di là da sé, in un ordine e in unità d'azione più vasti, può essere solo una idea liberamente scelta, non il vincolo di una comunità data. È in questi termini, cioè nei termini di una essenziale libertà interna, che debbono anche intendersi le esigenze fondamentali formulate dall'Heinrich per una reazione contro il materialismo pratico attuale, e cioè che la professione si faccia vocazione, l'economia divenga servizio, la proprietà abbia quella funzionalità condizionata, che in altri tempi si legava all'idea di feudo.

In più, quattro sono i principi che l'Heinrich pone a base di una « rivoluzione conservatrice» nel segno dell'idea europea. Anzitutto una libertà non individualistica ma obbediente ad una legge interna. In secondo luogo un ordine organico con un largo margine di decentralizzazione e di parziali autonomie, tanto da favorire la formazione di nuove unità intermedie atte a riarticolare ciò che nelle società moderne ha preso caratteri atomistici, livellati e meccanici. In terzo luogo, ristabilire nettamente la personalità in tutte le funzioni direttive, con una ripresa del principio della vera autorità e della responsabilità diretta. Infine, e, anzi, propriamente, come sfondo del resto, una saldezza interiore, una incrollabilità e l'eliminazione di ogni paura nei riguardi del mondo d'intorno, disposizione da chiedersi ad un ricollegamento della persona alla realtà sovramondana, a ciò che nei termini più severi, virili e positivi può chiamarsi spiritualità.

È su questa base che, secondo l'Heinrich, potrà parlarsi di una idea dell'« Occidente ». Compito delle forze vive europee sarebbe lavorare in tale senso. Su tutto ciò, vi è poco da obiettare, e si può riconoscere l'opportunità che simili idee siano messe in rilievo. L'Heinrich è riuscito a raccogliere intorno a sé un gruppo di elementi validi, che si tengono su tali posizioni svolgendo una attività interessante per molti lati. Tuttavia, quanto alle possibilità pratiche presenti, non si deve indugiare in un ottimismo.

Dopo il crollo europeo con cui si è conclusa la seconda guerra mondiale, non si vede nessuna base importante su cui si possa far leva per produrre modificazioni di un certo rilievo nella situazione generale. Politicamente, continua, in Europa, il giuoco di una democrazia parolaia, capace solo di creare forme instabili di un disordine malamente organizzato; democrazia che, in Italia, cede sempre più terreno di fronte alla pressione delle sinistre per la vigliaccheria, l'irresponsabilità e l'insipienza del governanti.

Che cosa possa venire dall'esperimento francese, non è ancora chiaro. La Germania occidentale è, sì, riuscita a rimettersi in piedi economicamente e materialmente, ma la sua caduta in fatto di tensione e di livello spirituali, la sua insofferenza per qualsiasi idea degna di tale nome, il suo gettare indiscriminatamente a mare tutto il suo più recente passato, sono sintomi preoccupanti.

Dall'Inghilterra è difficile attendersi proprio oggi una coscienza europea, dato che in tutta la sua storia è nel senso opposto ch~ essa ha agito, obbedendo al suo semplice tornaconto. Il campo di forza della Spagna è assai limitato. In genere, in tutto l'Occidente europeo l'americanizzazione pratica è, invece, in pieno corso con effetti deleteri e spesso irreversibili, ed è la controparte del suo gravitare finanziariamente e militarmente sugli Stati Uniti in misura non irrilevante.

Infine le monarchie sono scomparse, o hanno perduto prestigio, e dalla stessa religione predominante in Occidente difficilmente ci si può attendere una decisa presa di posizrone controcorrente, nello stesso senso per cui in altri tempi essa poté offrire elementi validi all'idea organica e gerarchica europea.

COSI non si deve disconoscere tutta la distanza esistente fra esigenze, come quelle di cui l'Heinrich si è fatto il portavoce, e che è difficile non condividere, e ogni possibilità pratica per una azione efficace di là da piccoli gruppi. Ciò non impedisce che è bene che esista chi mantenga una coscienza precisa dei compiti superiori, e faccia quel che gli è dato di fare: con quell'animo libero e in quella impersonalità che non lasciano dipendere tutto dagli effetti immediati e tangibili.

 

 

 

24. al "muro del tempo"

 

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Ernst Jünger viene considerato come uno dei maggion scrittori tedeschi viventi e in Italia sono già uscite traduzioni di diverse sue opere presso editori che vanno per la maggiore [« Sulle scogliere di marmo» presso Mondadori, «Giardini e strade» presso Bompiani, «Radianze » presso Longanesi). Tuttavia da noi sono state soprattutto le note cricche di critici letterari e di intellettuali dilettanti ad interessarsi di lui, avendo in vista gli aspetti delle opere dello Jünger che rientrano nei loro orizzonti e che vanno incontro ai loro gusti, aspetti, che per noi sono invece i meno rilevanti.

Da tempo, ad attirare la nostra attenzione non è stato lo Jünger letterato, il saggista, lo scrittore di uno stile forbito personalissimo, bensì l'autore delle prime opere che riflettevano direttamente l'esperienza vissuta della vita del fronte in guerra. Lo Jünger aveva appena finito le scuole medie quando, insofferente del clima borghese e stagnante dell'ambiente in cui viveva, fuggi dalla casa paterna per entrare nella Legione Straniera. Scoppiata la prima guerra mondiale, si arruolò volontario, fu molte volte ferito ed ebbe le massime decorazioni al valore. I suoi libri del primo periodo trattano appunto della guerra. Si è potuto chiamare lo Jünger 1'« anti-Remarque »: in contrasto con la letteratura disfattistica e pacifista del primo dopoguerra, egli mise in risalto le dimensioni spirituali, anzi trascendenti, che la guerra può presentare nelle sue stesse forme moderne «totali» tecnicizzate più distruttive per un determinato tipo umano.

Dopo i libri di guerra, venne l'opera che per noi resta quella più importante del nostro autore, «L'operaio - la sua figura, la sua sovranità ». Essa ebbe una vasta eco e, in realtà, è fondamentale pel problema della visione e del senso della vita nell'epoca moderna. Daremo un cenno del suo contenuto: solo un cenno, anche perché su di esso è uscito un nostro saggio, che tiene il luogo di una traduzione del libro (apparsa non possibile per vari motivi), al quale rimandiamo il lettore.

Vi è una continuità fra i libri di guerra e «L'operaio », in questi termini: nella guerra moderna l'uomo deve tener test~ non tanto all'uomo (al nemico) quanto allo scatenamento del mezzi tecnici (le «battaglie del materiale », la «morte meccanica ») e con essi di forze distruttive di un carattere non-umano, «elementare» (l'«emergenza dell' elementare », come le forze di natura sono «elementari»). Può tenersi in piedi, può sopravvivere non solo fisicamente ma soprattutto spiritualmente nelle vicende in cui ci si trova gettati, solo un nuovo tipo umano, che sa lasciare dietro di sé tutto ciò che si lega alla sua particolare persona e ai suoi stessi istinti, al modo di pensare e di agire, agli «idealismi» e ai valori della vita borghese: un tipo capace di un impegno assoluto e impersonale, amante l'azione per se stessa, lucido e freddo e, insieme, pronto ad uno slancio elementare, tale infine da saper presentire e cogliere un significato superiore dell'esistenza nel connubio fra vita e pericolo, fra vita e distruzione. Lo Ji.inger ha creduto di constatare l'apparire incipiente del tipo di una nuova umanità, quasi di una nuova razza, riconoscibile negli stessi tratti fisici, in coloro che dall'esperienza della guerra moderna non SOi:iO stati spezzati, che sono stati, interiormente, i vincitori di essa, di là dall'opposizione dei fronti e delle ideologie, come pure dall'esito della guerra.

L'« Operaio» sviluppa analoghi motivi in relazione al clima generale dell'ultima civiltà. La scelta del termine «operaio» è infelice. Come lo concepisce lo Ji.inger, 1'« Operaio» non corrisponde ad una classe sociale. È un nuovo tipo umano capace di adeguarsi attivamente a tutto ciò che nel mondo moderno ha un carattere distruttivo dal punto di vista della precedente civiltà. Non solo in guerra ma anche in pace le forze messe in moto dal~ l'uomo con la tecnica e la meccanizzazione si ritorcono contro di lui. Esse distruggono gli antichi ordinamenti e gli antichi valori, e soprattutto quel che l'epoca borghese aveva cercato di creare con la sua concezione della « società », col culto dell'individuo, della ragione, della « umanità ». Tutto ciò è entrato in crisi per l'apparire, anche qui, di forze «elementari» in forme meccaniche, in processi oggettivi generali, in una «mobilitazione totale» della esistenza. Come in guerra, all'uomo moderno non è dato sottrarsi alla corrispondente situazione. Cosi gli si pone la stessa alternativa: di venire distrutto - non fisicamente ma interiormente (nichilismo moderno, «morte di Dio », materializzazione, livellamento, regime delle masse) ovvero di trasformarsi, di divenire un nuovo essere.

L'« Operaio» dello Jünger è un simbolo e corrisponde a questo nuovo tipo. La tecnica è lo strumento con cui egli « mobilita» il mondo, desta, attiva e domina forze elementari. Egli affronta tutti i processi che col colpire l'individuo, col distruggere tutto ciò che sussiste del mondo borghese, tradizionale, «da museo », col dissolvere gli antichi nessi sociali e le antiche abitudini, con l'abolire sempre più tutto quel che è colore, varietà, particolarità, soggettività, dando invece risalto al meccanico, al matematico, all'oggettivo, sembra comportare un mortale impoverimento, una disanimazione dell'intera esistenza. L'« Operaio» assume tutto ciò ai fini, per cosi dire, di una essenzializzazione o purificazione (<< la via della salamandra, che passa attraverso il fuoco»). È una sfida esistenziale che lo mette alla prova e che, se la prova è superata, lo porta ad affermarsi in una dimensione nuova dell'essere.

E anche in questo ambito lo Jünger crede al preannunciarsi di un nuovo tipo, con caratteristiche uniformi riconoscibili perfino fisicamente. Ad esso sono propri l'impersonalità, la lucida, attiva adeguazione al fine, il disprezzo per tutto ciò che è soltanto individuale, il taglio netto coi valori del passato, la disposizione naturale al comando o all'obbedienza, ad un «realismo eroico », a una nuova positiva anonifnia (simbolo del «milite ignoto », però da integrarsi con quello del «capo ignoto»). Lo Jünger qui aveva parlato di uno stile che può dirsi tanto « spartano» che «prussiano» o «bolscevico» (con riferimento al tipo «ascetico» del primo comunismo). Aveva preconizzato gerarchie nuove stabilentisi di fatto, essenzialmente col differenziarsi di coloro che subiscono i processi di dissoluzione insiti in una fase di transizione e coloro che invece li assumono in modo attivo. In particolare (e questo è un interessante motivo specifico) aveva parlato di una « metafisica» chiusa dentro il mondo meccanizzato. Nei gradi supremi della nuova gerarchia 1'« Operaio» incarnerebbe tale metafisica nelle forme di una nuova unità esistenziale, di là dalle antitesi di sangue e spirito, di potenza e diritto, di libertà e necessità, di servizio e comando. Su tale base, si riproponeva l'ideale degli Ordini: come quelle unità differenziate di vita ave una disciplina severa imprimeva una forma precisa all'essere e all'azione del singolo. Su degli Ordini dovrebbe basarsi il nuovo Stato, lo Stato dell' « Operaio ». Infine, di là dalla fase di transizione, dalla fase dinamica, rivoluzionaria e distruttiva nel mondo mobilitato e trasformato dalla tecnica, veniva prospettata una fase, per cOSI dire, « classica », con forme compiute e stabili, simboliche, quasi come nelle civiltà impersonali e sacrali delle origini, però, ora, con una estensione planetaria. Perché come la tecnica abbraccia irresistibilmente tutto il mondo, di là da ogni frontiera, cOSI come stadio finale non può essere concepito che un sistema abbracciante parimenti tutto il mondo, in cui si affermerebbero la figura e la sovranità dell' « Operaio », dopo gli ultimi urti eventuali fra blocchi antagonistici di potenze.

In sintesi (e per il resto dobbiamo rimandare ad un nostro saggio) queste erano le vedute de «L'Operaio ». Esse esercitarono una notevole influenza sulle correnti nazionaliste e combattentistiche tedesche del primo dopoguerra e anticipavano alcuni orientamenti essenziali della corrispondente rivoluzione, e poi del nazionalsocialismo. Senonché proprio all'avvento di questo regime, nello Jünger si ebbe un improvviso cambiamento di orientamento e di livello. Sembra che egli abbia visto in molti aspetti del nazionalsocialismo una specie di distorsione o di riduzione all'assurdo di varie posizioni de « L'Operaio ». Personalmente, si tenne in disparte (nella seconda guerra mondiale, richiamato, non si fece particolarmente notare). Come scrittore, la sua nuova produzione, quando non ha avuto un carattere di semplice letteratura e di spigolatura (appunti, osservazioni psicologiche, saggistica, il romanzo fantasioso avveniristico « Eliopoli » - ad un livello più alto, con un contenuto simbolico, « Sulle scogliere di marmo»), ha presentato un sensibile sfaldamento spirituale. Ciò vale soprattutto per alcuni scritti minori a pretese ideologiche, per lo «Scritto sulla pace », « Il nodo gordiano» e « La via del bosco ». Quasi si direbbe che, come non pochi suoi connazionali, la disfatta abbia in lui provocato uno shock e lo abbia aperto sorprendentemente perfino a motivi non lontani dalla rieducazione «democratica» o, almeno, « umanistica» condotta in Germania nel nuovo dopoguerra, in aperto contrasto con quelli già da lui difesi nel precedente periodo. Basti dire che mentre egli aveva coniato la parola d'ordine di portarsi non sui settori in cui ci si difende ma su quelli in cui si attacca, e quella della sfida dell'« elementare », « La Via del bosco» nell'edizione francese la si è potuta definire come una specie di manuale « dell'uomo della resistenza », al quale sono indicati i mezzi per celarsi e sottrarsi nell'èra dei « totalitarismi ». Anche « Il nodo gordiano », in cui si vorrebbe trattare dei rapporti fra ideali « europei» e «Oriente », risente sotto più di un riguardo delle parole d'ordine politiche del nuovo clima tedesco.

Il libro nuovo dello Jünger, «Al muro del tempo» (An der Zeitmauer, Klett-Verlag, Stuttgart, 1959), segna daccapo un cambiamento di rotta e riporta in una certa misura al campo dei problemi trattati ne «L'Operaio ». Spiritualmente, rispetto alla produzione or ora accennata, rappresenta dunque un risollevamento. Dal punto di vista oggettivo, non aggiunge però molto a quel che nelle precedenti posizioni era valido e che a noi più interessava. La trattazione non è sistematica; e invece di approfondire i problemi immanenti della formazione interiore e dei significati sovraordinati dell'esistenza nell'« èra dell'Operaio », essa in gran parte si porta in un dominio diverso, in quello della escatologia e della metafisica della storia.

Ora, quando si vuole entrare in tale dominio, non si può più procedere con intuizioni personali, ma bisogna rifarsi a precisi insegnamenti tradizionali, come per es. l'han fatto René Guénon e la sua scuola, e come noi stessi abbiamo cercato di fare. Allo Jünger mancano tali riferimenti; egli va da solo, oppure si rifà alla cultura corrente, per cui le cose giuste da lui sono colte qua e là, quasi per caso, e sono mescolate a molte divagazioni e scorie.

L'espressione «muro del tempo» va presa in un senso analogo di «muro del suono »: un limite, superando il quale subentrano forme nuove di movimento. La sensazione confusa di un mondo che sta per finire è anche quella di un limite analogo, da oltrepassare. Vi è un certo riferimento alla «civiltà dell'Operaio », che ora è presentata come una «civiltà cosmica », nel senso che in essa le forze dell'uomo cominciano ad incidere profondamente sul 'substrato della realtà e della natura, e ad attivarlo (èra atomica, nuovi orizzonti della tecnica). In più, secondo lo Jünger, qualcosa comincerebbe a muoversi anche in quel fondo dell'universo, di là dall'uomo, quasi nella gestazione dolorosa e, per ora, distruttiva di una realtà nuova. Tornano le idee dell'« Operaio », nel senso che delle potenze «metafisiche» sono presenti te dietro la facciata di tutto il mondo moderno meccanizzato e disanimato. E tutte le sofferenze, le crisi, i sacrifici dell'ultima umanità (in «numero maggiore di quanti un Moloch ne abbia mai richiesti e di quante vittime l'Inquisizione abbia mai mietute») sarebbero oscuramente ordinati allo sbocco in questa èra nuova, di là dal «muro del tempo».

A dire il vero, più che di « tempo» qui sarebbe da parlare, in un senso particolare, di «epoca storica ». Infatti lo Jünger parte dalla osservazione, in sé giusta (oltre che negli scrittori della scuola «tradizionale» e nella stessa etnologia, la si ritrova già nello Schelling), che ciò che abitualmente viene chiamato tempo della preistoria, o tempo «mitico» (per intendersi, prima di Erodoto), non corrispondeva ad una semplice porzione dello stesso «tempo storico» che noi conosciamo, ma ad un tempo diverso, ad un clima spirituale, umano e esistenziale differente, a noi non più noto. Dopo, è venuta 1'« epoca storica» in senso proprio come un ciclo che, con tutti i suoi valori, le sue istituzioni e le sue idee sta per esaurirsi: donde il senso del «muro del tempo », di là dal quale, come di là da uno iato o una « soluzione di continuità », riprenderanno ad agire poteri e processi che non sono semplicemente umani, che in un certo senso sono «metafisici », come nell'età «mitica» (« mondo trans-storico »), In questa sede, non possiamo soffermarci su simili idee, che sono di un campo tutto speciale. Comunque, l'importante sarebbe superare attivamente quel limite, qui intervenendo una alternativa analoga a quella già considerata in altri campi, per la guerra, pel mondo dell'« Operaio ». Di là dal limite, qualunque cosa accada, almeno alcuni dovrebbero salvare la «libertà umana ».

Prima che il nuovo libro uscisse, nell'esaminare «L'Operaio» avevamo già indicato la necessità di considerare due possibilità dell'esito di tutto il processo della civiltà ultima, positiva l'una, negativa l'altra. Infatti per quella emergenza dell'« elementare» e per tutto il mondo tecnico, meccanico, disanimato e nemico dell'individuo e dell'umano si può anche concepire uno sbocco negativo, regressivo, barbarico (« arimanico ») - e negli stessi riguardi del tipo nuovo, come abbiamo visto, lo Jünger aveva potuto accostare tipo spartano, tipo prussiano e tipo «bolscevico» nel segno di un unico realismo attivo e antipersonalistico: il che era già significativo. Nel nuovo libro anche lo Jünger viene a riconoscere il pericolo di questo sbocco negativo, che condurrebbe verso «ordinamenti zoologici, magici o titanici ». In corrispondenza alle note angosce che nei nostri contemporanei, nell'eventualità di una guerra, fanno da contrappeso all'euforia dell'èra atomica con la incipiente «seconda rivoluzione industriale» che dovrebbe apportare ogni bene e ogni felicità, non mancano nemmeno accenni a una possibile catastrofe di proporzioni planetarie. Ma il tono prevalente del libro sembra essere ottimistico. La fase nichilistica può essere superata. Le dissoluzioni e il livellamento sono paragonati alla mano di calce che si dà alle pareti di una abitazione che aspetta altri inquilini. Si constata il vuoto; si pensa però che esso sia quello di una forma nuova, o stampo, creata da una più alta forza per essere riempita. L'antico motivo riappare, come una specie di fede, con riferimento al tipo dell'« Operaio ». Considerando tutto ciò che accade e che potrà ancora accadere, lo Jünger dice: «Da quell'incendio, vediamo innalzarsi soltanto la figura dell'Operaio, divenuta più possente. Ciò fa supporre che gli elementi più ignei sono celati in lui e che essi non hanno ancora avuto una pura fusione. Vi sono ancora molti stampi vuoti ».

Ma con questo s'incontra anche il problema essenziale, che non si risolve con una semplice imagine. Anzi i problemi, propriamente, sono due. Anzitutto è da chiedersi se di là dall'èra borghese e dal nichilismo successivo si verrà davvero al clima di alta tensione (di «temperature estreme» ) che caratterizza gli orizzonti del mondo dell'« Operaio» e del «realismo eroico» : perché a molti tale mondo potrà anche sembrare anacronistico e fanatico, dati gli ideali di una vita, invece, più sicura, più facile, «sociale », con scienza e tecnica al servigio dell'animale umano debitamente imbrigliato e normalizzato: sono gli ideali oggi prevalentemente coltivati in varie aree del mondo, specie nell'Occidente democratico e nella società consumistica. In secondo luogo, nell'ipotesi che si formi il mondo dell'« Operaio », il problema riguarda un necessario, essenziale mutamento interno, il quale faccia apparire come qualcosa di più che come una vuota parola e come una ottimistica assunzione la «metafisica» a cui COSl spesso lo Jünger si riferisce come alla controparte invisibile e alla giustificazione di quel mondo, quindi anche del nuovo tipo o, almeno, degli esponenti superiori di esso.

Già in precedenza egli aveva avvertito sia la lacuna che il problema, col paragonare il tipo dell'« Operaio» ad una moneta che su di una faccia è fortemente coniata ma che nel retro è informe. E qui, per ipotesi (cioè per il fatto che il nichilismo della fase di transizione esclude l'apporto che potrebbero dare valori della precedente tradizione) tutto resta allo stato fluido e, problematico; nulla di esterno può indicare una direzione e fornire un appoggio. Pel problema della « spiritualizzazione » del nuovo tipo (spiritualizzazione in un senso profondo, antologico, esistenziale, di là dalle teorie, dalle morali e dalle confessioni religiose) e quindi anche di tutta la nuova civiltà e della terra controllata dall'« Operaio », lo Jünger nell'ultimo suo libro accenna a due possibilità. La prima, è che ciò avvenga per via di un processo cosmico, il quale si serva dell'uomo come di un mezzo e di un collaboratore munito di una responsabilità e di una facoltà di direzione. Ma qui si resta nel campo di una pura ipotesi, e a noi non sembra che tale ipotesi oggi sia confortata da qualcosa di positivo e di tangibile, sia pure solo come un lontano indizio. La seconda possibilità è che dall'uomo stesso parta l'iniziativa, che egli con una sempre più precisa coscienza penetri in strati sempre più profondi della realtà, di là da quello «storico» (non si sa bene che cosa lo Jünger qui voglia dire), mobilitandoli e spiritualizzandoli. Ma questo è evidentemente un circolo vizioso, perché per spiritualizzare e trasformare occorre cominciare con lo spiritualizzare e trasformare sé stessi. Occorrerebbe cioè quella «mutazione» (si intenda «mutazione » proprio nel senso che il termine ha nella biologia e nella genetica, ave designa l'origine brusca e indeducibile di specie o forme nuove) che, appunto, costituisce il problema. Invece a tale riguardo non si hanno, nello Jünger, che le vaghe e ottimistiche prospettive «cosmiche », cioè di un processo generale, nel senso ad esso attribuito dalla sua interpretazione. Ora, il centro di gravitazione e la giustificazione di tutto l'insieme si connettono proprio a questo punto.

Dato l'accennato carattere asistematico de «Al muro del tempo », qui non è il caso di sviluppare una analisi più dettagliata del suo contenuto. Già dai riferimenti fatti si potrà notare come, rispetto all'« Operaio », il piano risulti sensibilmente spostato, in una direzione dove, ripetiamolo, è difficile non divagare con idee semplicemente personali quando non ci si rifaccia ad una salda dottrina tradizionale. Invece alle posizioni valide del primo libro, che a noi possono interessare, quasi nulla è stato aggiunto. Come abbiamo detto, questa parte valida e importante si riferisce alla problematica relativa ad un nuovo tipo umano che, congenialmente affine a quello dell'uomo non spezzato formatosi per selezione nella grande guerra, sia capace di capovolgere i processi più dissolutivi e nichilistici dell'epoca attuale tecnicizzata e spesso portata da nuove forze elementari, e di farli servire ad una sua formazione spirituale, di là da tutto ciò che appartiene al mondo borghese, ma anche alla fase disanimata e caotica di transizione: per degli sviluppi positivi, i quali però presuppongono un mutamento interno della sostanza umana, il possesso di un nucleo spirituale perché esistenzialmente connesso a qualcosa di trascendente (ci esprimiamo approssimativamente, perché il discorso qui sarebbe lungo). A tale riguardo, noi spesso abbiamo usato la formula e il simbolo del «cavalcare la tigre».

 

 

 

25. la potenza e l'infantilismo

 

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Un autore meritevole di essere studiato da noi più di quel che non accada è Werner Sombart. Dal Sombart si potrebbe trarre l'esempio di un serio metodo d'indagine dei fenomeni economicosociali lontano dalle unilateralezze e dalle deformazioni della sociologia materialistica, specie marxista. Per il Sombart la stessa vita economica si compone di un corpo e di un'anima. Esiste cioè uno spirito economico distinto dalle forme di produzione, distribuzione ed organizzazione, spirito, che può variare tanto da dare a tali forme una direzione, un senso ed un fondamento diversi caso per caso, epoca per epoca. Nelle sue opere, fra le quali è classica quella sul capitalismo moderno, il Sombart ha dato rilievo appunto alla ricerca dei fattori spirituali della vita economica e al significato che essi alla fine le hanno conferito in Occidente.

Non è nostro intento dare qui un quadro di una ricerca del genere. È solo ad un punto particolare che accenneremo, messo in risalto dal Sombart in un libro uscito anche in italiano.

Si tratta della forma che ha assunto il processo economico nel periodo dell'alto capitalismo, per il quale ci si deve riferire essenzialmente all'America. È uno sviluppo che tende all'espansione illimitata, perché ogni fermarsi o rallentare significa andar indietro o esser scalzati. Gli scopi immediati e naturali del processo produttivo passano in sott'ordine. Fiat productio et pereat homo! E ciò da cui egli non può più staccarsi e che lo prende anima e corpo, il grande imprenditore capitalista finisce con l'amarlo, col volerlo in sé e per sé, col costituirlo a senso di una esistenza, che « non ha tempo» per altro. Abbiamo pertanto un tipo che non si chiede più nemmeno il perché di ciò che è una corsa all'infinito, un'agitazione febbrile con strutture a catena che spesso trascinano masse e dettano leggi alla politica mondiale, mentre in esse i capi non sono più liberi dell'ultimo dei loro operai. Una simile situazione finisce con l'apparire naturale, evidente. Si pensa che lo esiga la prosperità della vita economica stessa, il progresso della civiltà moderna.

Il Sombart ritiene tuttavia che mai un simile stato di cose si sarebbe consolidato se nell'epoca attuale non avessero preso il sopravvento dei fattori interni che, più che non ad un uomo vero, appartengono alla psiche infantile; per cui l'anima nascosta di tutto questo processo non è, in fondo, che una regressione. Le corrispondenze vengono indicate in ordine ad alcuni punti caratteristici.

In primo luogo, la suggestione esercitata da tutto ciò che è grande nel senso di grandiosità materiale, di cosa gigantesca, di grande quantità. Il fascino che ciò esercita sul bambino non è diverso da quello, tipico, che esso ha anche sui grandi imprenditori di un'economia americanizzata. In genere, è divenuta quasi contrassegno di tutta una civiltà la tendenza - come disse il Bryce - lo mistake bigness for greatness, ossia a confondere ciò che è grandezza vera, interiore, con la grandezza esterna. Il che, appunto, altro non è se non un primitivismo.

In ultima analisi, la stessa mania dei records in ogni dominio riconduce allo stesso punto: è la ricerca di qualcosa che in termini tangibili, misurabili, quindi soltanto quantitativi, batte un'altra, senza riguardo a nessun diverso e più sottile fattore o' carattere. In pari tempo questa è, secondo il Sombart, una delle forme nelle quali si esplica un'altra caratteristica infantile, il piacere per la velocità delle cose, dalla trottola al carosello. Esso qui cambia piano e proporzioni, ma non è che per il suo esasperarsi e moltiplicarsi nel mondo della tecnica e in tanti altri domini della vita moderna materializzata esso perda il suo carattere originario puerile.

In terzo luogo vi è da considerare l'amore per la novità. Come il bambino è subito attratto da ciò che gli si presenta come nuovo, abbandona subito il giocattolo che conosce per entusiasmarsi ad un altro e lascia a metà una cosa quando un'altra lo attrae, del pari l'uomo moderno è attirato dalla novità come semplicemente tale, da tutto ciò che ha carattere di cosa non ancora vista. La sensazione si riduce, in essenza, all'impressione che si prova nel vedere una novità. Ma appunto l'avidità per la sensazione è uno dei tratti più caratteristici dell'epoca attuale.

Viene infine, per il Sombart, il sentimento della potenza, nelle situazioni che psicanaliticamente si chiamerebbero di «supercompensazione ». È la gioia, in fondo di nuovo puerile, che si prova nel sentirsi superiori agli altri su un piano affatto esteriore. Dice giustamente il nostro autore: «Analizzando questo sentimento, si constata che, in fondo, esso altro non è se non una confessione involontaria ed incosciente di debolezza: per il che esso costituisce anche uno degli attributi dell'anima infantile. Un uomo veramente grande, naturalmente e interiormente, non attribuisce mai uno speciale valore alla potenza esteriore».

Il Sombart, a tale riguardo, considera ancora un dominio più vasto, con considerazioni, che vale riportare: «Un imprenditore capitalista - egli dice - che comanda a 10 mila uomini e gode di questa sua potenza rassomiglia al bambino, felice di vedere il suo cane obbedirgli al minimo cenno. E quando non è più il danaro o una costrizione esteriore che ci assicurano un potere diretto sugli uomini, noi ci sentiamo fieri di aver asservito gli elementi della natura. Donde la gioia che ci provocano le "grandi" invenzioni o scoperte ». Il nostro autore soggiunge: «Un uomo dotato di sentimenti profondi ed elevati, una generazione davvero grande, alle prese coi problemi più gravi dell'anima umana, non si sente accresciuta pel fatto della riuscita di qualche invenzione tecnica. Essa non annetterà che una importanza secondaria a questi strumenti di potenza esteriore. Ma la nostra epoca, inaccessibile a tutto ciò che è veramente grande, non apprezza proprio che siffatta potenza esteriore, ne gioisce come un bambino, dedica un vero culto a coloro che la posseggono. Ecco perché gli inventori e i miliardari inspirano alle masse una ammirazione illimitata ».

Questi fattori, come è evidente, hanno efficienza nel mondo moderno in genere; essi tuttavia hanno particolari manifestazioni nel campo economico-produttivo, che, in fondo, è quello che ha costituito il punto di partenza. Ed è facile seguirne lo sviluppo non solo nell'àmbito delle grandi strutture capitalistiche, ma di là da esse, quando allo stesso Stato si tende a conferire il carattere degradante di una specie di trust, di un puro sistema centralizzato del lavoro e della produzione ad oltranza.

Quanto alle ultime considerazioni del Sombart, esse naturalmente verrebbero capite male se si volesse interpretarle come un attacco contro gli ideali dell'attività e dell'affermazione umana in genere, in nome di un idealismo astratto. Non è l'attività che si attacca, ma l'agitazione, non l'affermazione vera, ma quella sbagliata. Vi è un limite, oltre il quale l'uomo rivolto solo verso l'esterno perde ogni controllo delle forze e dei processi cui ha dato vita, ed egli si trova di fronte ad un ingranaggio su cui può esercitare un certo qual potere di direzione solo restandovi incatenato ed accrescendo giorno per giorno la sua dipendenza, nel tempo stesso che egli coinvolge delle masse e, infine, perfino delle nazioni nel moto a vortice e a catena. Il senso di ciò che appunto il Sombart ha chiamato 1'« èra economica» non è diverso.

Varrà aggiungere che, quanto alla potenza in particolare, può pur esservene una che non si riduce alla grandezza esteriore e al record, che non mira alla materia e alla quantità, ma si presenta come segno e sigillo di una grandezza interiore, di una superiorità effettiva. Di tale potenza oggi sembra perdersi sempre di più la traccia, anzi la stessa nozione. La si ritroverà, forse, proprio quando per primo si guarderà verso l'interno, si smetterà l'agitazione, la febbre dell'andar sempre piiì oltre, senza un senso preciso né del che, né del perché, di ciò che vale veramente la pena di uno sforzo umano e di ciò che non lo vale. Forse sarà in tale punto che tutto quello che l'uomo moderno ha creato troverà chi davvero lo domina, anche se a tutt'oggi restano imperscrutabili le vie per le quali si potrà giungere a tanto.

 

 

 

26. giuliano imperatore

 

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Se rallegra ogni Incontro con studiosi capaci di portarsi di là dai pregiudizi e dalle deformazioni di molte vedute storiche correnti, ciò accade per Raffaello Prati, che ha tradotto e presentato gli scritti speculativi dell'imperatore Giuliano Flavio, aventi per titolo « Sugli dèi e sugli uomini »,

È già significativo che Prati abbia usato il termine «Giuliano Imperatore », e non quello corrente di «Giuliano l'Apostata », il quale è poco acconcio, perché di rigore se qualcuno dovesse venire chiamato «apostata », questo dovrebbe essere il caso per coloro che abbandonarono le tradizioni sacre e i culti già facenti da anima alla grandezza di Roma antica per accettare la nuova fede la quale non era di ceppo romano né latino, ma asiatico e giudaico; non ne dovrebbe essere il caso, invece, per chi ebbe il coraggio di essere tradizionale e di tentare di riaffermare l'ideale «solare» e sacrale dell'impero, come fu l'intento di Giuliano Flavio.

La lettura dei testi accennati, scritti da Giuliano sotto la tenda, fra una marcia e una battaglia, quasi a trarre dallo spirito forze nuove per affrontare aspre vicende, serve anche per coloro i quali seguono l'opinione corrente, secondo la quale la paganità nei suoi aspetti religiosi sarebbe più o meno sinonimo di superstizione. Infatti, ciò che Giuliano oppose al cristianesimo nel suo tentativo di restaurazione tradizionale fu una visione metafisica. Egli ci fa riconoscere dietro ai rivestimenti allegorici dei miti pagani un contenuto di carattere superiore.

Egli indica un punto fondamentale nello scrivere: «Quando i miti di soggetto sacro si presentano irrazionali nel loro contenuto, appunto per questo è come se ci dicessero ad alta voce di non tenerci alle parole ma di investigare e indagare il senso riposto ... Col travestimento dell'assurdo vi è la speranza che, sorpassando il significato corrente e palese delle parole, si possa giungere a percepire la sostanza assoluta degli dèi e la loro pura intelligenza che trascende tutte le cose esistenti quaggiù ».

Peraltro, questa è la norma che si dovrebbe seguire, in genere, quando ci si avvicina ad antiche mitologie e teologie; parlare senz'altro di superstizioni e di idolatria, è sinonimo di ottusità mentale o di malafede.

Cosi nella rivalutazione, tentata da Giuliano, dell'antica tradizione sacra romana, è l'idea « esoterica» della natura degli « dèi » e della « conoscenza » di essi che si fa valere. Una tale conoscenza significa realizzazione interiore. In tale prospettiva gli dèi appaiono non come finzioni poetiche o come astrazioni di teologi filosofanti, bensì come simboli e proiezioni di stati trascendenti della coscienza.

Cosi Giuliano, egli stesso iniziato ai Misteri di Mithra, associa strettamente una superiore conoscenza di sé alla via che conduce alla «conoscenza degli dèi »: fine così alto, che egli non esita a dire che nulla è, in confronto, il dominio su tutte le terre, sia romane sia barbare.

Egli ci riporta alla tradizione di una disciplina segreta, grazie alla quale anzitutto preparandosi con una vita di purezza e di ascesi, poi affrontando esperienze speciali determinate dai riti iniziatici, la coscienza di sé è radicalmente trasmutata, nuove potenze e nuovi stati interiori vanno a costituirla: appunto quelli, che l'antica teologia adombrava nella figura simbolica dei vari Numi.

La potenza a cui principalmente Giuliano scioglie il suo inno - quello stesso che egli ripeté con le ultime parole della sua vita, spirando all'aurora su un campo di battaglia - è Helios. Helios è il Sole, non come astro fisico divinificato ma come simbolo di luce metafisica e di potenza in un senso trascendente, manifestantesi nell'uomo e nei rigenerati come mente sovrana e come quella mistica forza « dall'alto » che nell'antichità, e nella stessa Roma per via di una influenza irànica, stava in intimo rapporto con la dignità da sovrano.

È in questo quadro che si definisce il significato del culto imperiale romano che Giuliano voleva restaurare istituzionalmente contro il cristianesimo. L'idea centrale è appunto che vero, legittimo capo è solo chi possiede una superiorità quasi sovrannaturale, ed è quasi una imagine dello stesso Helios, il re del cielo. Solo allora l'autorità e la gerarchia sono giustificate, il Regnum è santificato, esiste un centro luminoso di gravità per un complesso di forze umane e naturali.

Giuliano vagheggiava la realizzazione di questo ideale « pagano » in una salda gerarchia imperiale unitaria fornita di un fondamento dogmatico, con sue discipline e sue leggi, con una casta sacerdotale avente al sommo l'imperatore come colui che, rigenerata e fatto piri che un semplice uomo dai Misteri, incarna simultaneamente l'autorità spirituale e il potere temporale, ed è Pontifex Maximus, antica dignità che Augusto aveva ripristinato. Il presupposto doveva essere il senso della natura come un tutto armonioso compenetrato da forze invisibili viventi; poi un monoteismo di Stato con un gruppo di « filosofi » (sarebbe meglio dire: di « sapienti ») capaci di penetrare intellettualmente e, nella misura del possibile, di realizzare iniziaticamente la teologia tradizionale della romanità.

L'antitesi rispetto al dualismo deI cristianesimo delle origini, col suo «date a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio », col conseguente rifiuto di rendere omaggio all'imperatore altrimenti che come un capo temporale (rifiuto, che giudicato come una manifestazione di anarchia e di sovversione, portò alle persecuzioni statali contro i cristiani), è evidente.

Ma l'epoca era ormai tale da impedire la realizzazione dell'ideale di Giuliano. Per tale realizzazione sarebbe occorsa una aderenza viva e una sinergia dei vari strati sociali, il sussistere dell'antica concezione deI mondo in termini sempre vivi. Invece, era irrimediabilmente avvenuta una scissione fra contenuto e forma nella società pagana.

Lo stesso successo ottenuto dal cristianesimo si presentava come un sintomo fatale. Per i più, il parlare ancora degli dèi come di esperienze interiori e il considerare gli accennati presupposti trascendenti e « solari » per la vera sovranità non poteva essere che una finzione o una semplice «filosofia », In altri termini, la base « esistenziale » era assente. Peraltro, Giuliano si era illuso di poter tradurre in forze formatrici sul piano politico, culturale e sociale insegnamenti che per la loro stessa natura erano destinati quanto mai ad essere di sola pertinenza di ambienti assai ristretti.

Non che, in via di principio, vi fosse una contradizione fra l'assunto di Giuliano e l'ideale di una applicazione statale di quei contenuti spirituali e, in una certa misura, trascendenti. La stessa realtà storica di tutta una serie di civiltà centrate su una spiritualità « solare» - dall'antico Egitto e dall'Iran fino a quel che il Giappone è stato fino a ieri - dimostra che questa contradizione non esiste. Piuttosto, nella romanità del tempo di Giuliano era ormai inesistente una sostanza umana e spirituale capace di costruire i nessi e i rapporti di partecipazione propri ad una nuova gerarchia viva nel senso di un organismo imperiale totalitario sacralmente orientato su base « pagana ».

Un noto libro di Demetrio Merenshkowkij « La morte degli dèi » dà in modo mirabile e quanto mai suggestivo il clima del mondo in cui visse Giuliano Imperatore, con le ombre di un vero «crepuscolo degli dèi ».

Dopo una lunga parentesi, qualcosa dell'antica tradizione doveva risorgere quando, con l'affacciarsi delle stirpi germaniche sulle scene della grande storia europea, si poté parlare di una «Restauratio Imperii » sotto le specie del Sacro Romano Impero Medievale. Ciò, soprattutto se si considera la tradizione ghibellina, intesa a rivendicare per l'Impero, contro le pretese egemonistiche della Chiesa, una dignità sovrannaturale non minore di quella della stessa Chiesa.

A tale riguardo è importante considerare anche ciò che fu contenuto in forme quasi nascoste nella letteratura cavalleresca, nella cosidetta « leggenda imperiale» e in altri documenti.

Noi abbiamo cercato di raccogliere e di interpretare adeguatamente tutta questa materia in una nostra opera che s'intitola «Il mistero del Graal e la tradizione ghibellina dell'Impero ».

 

 

 

27. metternich

 

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Per un adeguato apprezzamento della figura di Metternich le cose, oggi, in Italia, non stanno naturalmente bene: Metternich fu la bestia nera del Risorgimento e si vuole che l'Italia oggi sia risorta dopo un nuovo «Risorgimento », con riferimento agli aspetti più dubbi di tale movimento. Ma anche per chi oggi non sta proprio su tale linea non è agevole superare alcuni pregiudizi irradicati e far propria quella libertà di sguardo di cui si sono già resi capaci alcuni storici stranieri e, a dir vero, non senza riferimento ai problemi e alle crisi dell'Europa contemporanea.

Come primi fra essi, si possono citare il Malinsky e il De Poncis, che nel loro interessantissimo libro «La guerre occulte» (uscito anche in italiano nel 1938) hanno presentato Metternich come 1'« ultimo grande Europeo », come colui che, elevandosi di là da ogni punto di vista particolaristico, seppe riconoscere il male che minacciava tutta la civiltà europea intendendosi a prevenirlo nel segno di una solidarietà delle forze tradizionali e dinastiche così supernazionale, quanto a lui appariva già essere supernazionale la solidarietà delle forze della sovversione.

Una più recente opera è quella di A. Cecil, «Metternich », ed essa è interessante non solo per la nazionalità dell'autore - inglese - ma anche perché nell'ultima redazione del libro il Cecil, reagendo contro coloro che avevano voluto considerarlo come una provocazione, mette in risalto il significato dell'intenzione e dell'azione europea di Metternich presso ad un bilancio di ciò che è accaduto dopo i suoi tempi e fino alla seconda guerra mondiale.

Il Cecil può scrivere: «I metodi di Metternich meritano oggi uno studio più serio da parte di tutti coloro che hanno interesse ad evitare la completa disintegrazione europea ». Cosi è soprattutto l'idea europea, che Cecil considera. Interessante è che egli in Metternich vede riaffermarsi una tradizione che nel suo spirito è classica, romana (p. 466): la tradizione che s'intese a comporre in una unità supernazionale genti diverse, rispettandole; quella che seppe riconoscere che la libertà vera si realizza nel segno di una sopraelevata legge d'ordine e dell'idea gerarchica, non in quello delle ideologie democratiche e giacobine. Ed è di Metternich - proprio di lui - il detto che « ogni dispotismo è segno di debolezza ».

Il Cecil dice giustamente che «quando si firmò la sentenza di morte contro l'antica Austria si pose anche in essere la formula per la distruzione dell'Europa»: ciò, perché almeno in linea di principio l'Austria incorporava ancora l'idea del Sacro Romano Impero: quella di un regime che sa comprendere nazionalità varie e diverse senza opprimerle e snaturalizzarle. Ora, senza la ripresa di una formula del genere, sussistendo un mondo di nazionalismi esasperati e di internazionalismi devastatori, non è possibile pensare che l'Europa ritrovi un giorno quell'unità che appare ormai essere condizione essenziale per la sua stessa esistenza come civiltà autonoma.

Metternich seppe giustamente vedere nella democrazia e nel nazionalismo le principali forze che, senza un'azione radicale, avrebbero travolto l'Europa tradizionale. Seppe riconoscere il nesso interno delle varie forme della sovversione che, partendo da liberalismo e da costituzionalismo, conducono fino a collettivismo e a comunismo. E pensò che, a tale riguardo, ogni concessione sarebbe stata fatale. Il Cecil qui dice giustamente che come Robespierre porta nella sua scia un Napoleone, questi, a sua volta, porta nella sua scia uno Stalin: perché lo stesso bonapartismo e lo stesso totalitarismo non sono l'antitesi della democrazia ma piuttosto - come un Michels e un Burnham l'hanno ben dimostrato - le estreme conseguenze di essa.

Per Metternich il rimedio era l'idea dello Stato come una realtà sopraelevata fondata sul principio di una vera sovranità ed autorità, e non come mera espressione del demos. Alle «nazioni» egli non credette, vedendo in esse solo una maschera della rivoluzione, un mito antidinastico. Quanto alla sua creatura, la Santa Alleanza, essa fu un estremo tentativo il quale, anche se seppe assicurare all'Europa per tutta una generazione una pace feconda, pure non fu all'altezza del suo principio informatore. Ad essa, in fondo, mancò una vera idea, qualcosa che la facesse davvero sacra e, inoltre, che la facesse una unità costruttiva più che soltanto difensiva. Tuttavia il Cecil ricorda come già un De Maistre avesse indicato il punto giusto, dicendo che si tratta di fare non una « controrivoluzione », bensì «il contrario di una rivoluzione », vale a dire di procedere ad un'azione politica positiva, partendo da salde basi spirituali e tradizionali e solo come naturale conseguenza spazzando via tutto ciò che è sovversione e usurpazione da parte di forze dal basso.

Ora, non v'è dubbio che solo una idea del genere, associata a quella di una solidarietà combattiva di tutte le forze che nella nostra Europa ancora tengono fermo e fanno reagire contro il virus dei cosidetti «immortali principi» (il «male francese », ora non più fisico ma spirituale, come lo chiama il Cecil), è la sola che, ave trovi uomini - e, se possibile, essenzialmente sovrani - alla sua altezza, può salvare ciò che nella nostra civiltà può ancora essere salvato.

 

 

 

28. donoso cortés

 

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Insieme al conte de Maistre e al visconte De Bonald, Donoso Cortés marchese di Valdegamas costituisce la triade dei grandi pensatori controrivoluzionari dell'Ottocento, il messaggio dei quali ancor oggi non ha perduto la sua attualità. In Italia Donoso Cortés non è molto conosciuto negli aspetti delle sue dottrine che a noi sembrano i più importanti. Recente è la ristampa della traduzione italiana del suo Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo. Benché questo saggio sia stato considerato come la sua opera principale, non è in esso che si debbono cercare i punti di riferimento più validi; il libro è troppo pieno di considerazioni, spesso noiose, di un «teologo laico» che si appoggia pesantemente ai dogmi, alle idee e ai miti della religione cattolica, tanto da pregiudicare la validità che varie sue posizioni potrebbero avere in un quadro più vasto, «tradizionale» in un senso superiore. Da raccogliere, in questo libro, è essenzialmente l'idea di una «teologia delle correnti politiche »; viene, cioè, affermata l'inevitabile presenza di un fondo religioso (o antireligioso, «diabolico ») delle varie ideologie, al di là dagli aspetti esteriori, soltanto sociali, che oggi hanno una specie di primato nella considerazione generale.

A parte quel che dice sul cattolicesimo, Donoso Cortés parlando del liberalismo riproduce più o meno ciò che gli uomini della Destra conservatrice e controrivoluzionaria, con Metternich alla testa (Metternich era un ammiratore di Cortés), avevano scorto, riguardo ad una inevitabile concatenazione di cause e di effetti.

Il liberalismo del tempo, bestia nera di tutti regimi conservatori del continente, era lo spianatore delle vie; pertanto già Marx ed Engels ne applaudirono la funzione strumentale di distruzione delle precedenti istituzioni tradizionali, avvertendo tuttavia, cinicamente, che «la corda gli era misurata », che «il carnefice stava ad aspettare dietro la porta ». Il carnefice corrispondeva alla fase successiva della sovversione, al socialismo e al comunismo che, soppiantato il liberalismo, avrebbero continuato e portato a termine l'opera. Del socialismo, Cortés riconobbe l'aspetto di una religione invertita; la sua forza - egli scrisse - sta nel suo contenere una teologia, ed è distruttivo perché si tratta di una «teologia satanica ».

Ma quel che si può raccogliere dall'opera che abbiamo segnalato è meno importante di ciò che si trova in scritti vari di Cortés e soprattutto nei due famosi discorsi da lui pronunciati al Parlamento spagnolo, contenenti una diagnosi ed una prognosi storiche di una lucidità quasi visionaria. I moti rivoluzionari del 1848 e del 1849 erano suonati per Cortés come un allarme. Ed egli previde il fatale processo di livellamento e di massificazione della società, propiziati dal progresso della tecnica e dallo sviluppo delle comunicazioni. Una previsione singolare - se si pensa al periodo in cui fu formulata - fu che non l'Inghilterra (cui si imputava l'importazione del sovvertimento inerente al liberalismo) ben si la Russia (che allora era zarista) sarebbe stata il centro della sovversione, in una connessione del socialismo rivoluzionario con la politica russa (come doveva accadere nella nostra epoca, con l'avvento del comunismo sovietico). In ciò Cortés si incontrava con il grande storico Alexis de Tocqueville che nel suo saggio sulla Démocratie en Amérique aveva visto nella Russia e, solidarmente con essa, nell' America, i focolai principali di tali processi sovvertitori.

Cortés avvertiva l'accelerarsi dei ritmi, l'avvicinarsi del momento delle «negazioni radicali o delle affermazioni sovrane (llega el dia de las negaciones radicales y de las afirmaciones sobranas) »; momento che tutto quanto viene considerato come progresso nel campo tecnologico e sociale avrebbe solo avvicinato. Egli previde che la massificazione e la distruzione delle precedenti articolazioni organiche avrebbe condotto a forme di centralizzazione totalitaria.

La situazione, per lui, era tale da far scorgere ben poche vie di uscita. Donoso Cortés riconobbe che l'epoca del legittimismo monarchico era al tramonto perché « non esistono più dei re, nessuno di loro avrebbe il coraggio di essere re altrimenti che per volontà del popolo ». D'altra parte, con De Maistre, egli riconosceva che l'essenziale della sovranità, dell'autorità statale, è la decisione assoluta, senza una superiore istanza, quasi in termini analoghi all'infallibilità papale. Perciò egli prese posizione contro il parlamentarismo e il liberalismo borghese, contro la «classe che discute » - la quale non sarebbe stata all'altezza della situazione nel momento decisivo.

In tale contesto, Cortés riconobbe però anche il pericolo di un nuovo cesarismo, nel senso deteriore di un potere informe nelle mani di individui privi di ogni crisma superiore, ed esercitato non su popoli ma su semplici grigie masse. Egli parlò di «plebei di una grandezza satanica» che sembrano agire in nome e per conto di un sovrano che non è di questo mondo. Dato però che ogni conservatorismo legittimistico gli sembrava ormai svuotato di ogni forza vitale, egli cercò un surrogato che servisse a sbarrare la via a forze e potenze che salgono dal basso. Cosi difese la dittatura come idea controrivoluzionaria e antitesi dell'anarchia, del caos e della sovversione - se non altro, come un pis aller o un [aute de mieux. Ma egli parlò anche di una dictadura coronada. L'espressione è certamente suggestiva; essa comprende l'idea «decisionistica» antidemocratica, riconosce la necessità di un potere che decida assolutamente (come quello che per De Maistre valeva come l'attributo essenziale dello Stato), ma ad un livello di una dignità superiore, indicata dall'aggettivo coronada.

Solo che ogni concretizzazione della formula incontra palesi difficoltà. Ai tempi di Cortés sul suolo europeo esistevano ancora tradizioni dinastiche, e la formula avrebbe potuto essere realizzata solo che un loro rappresentante avesse fatto propria l'antica massima rex est qui nihil metuit (è re chi nulla teme). Come approssimazioni, avrebbero potuto valere alcune forme del cosidetto costituzionalismo autoritario; segnatamente quella che in Germania fu realizzata da Bismarck. Ma in un sistema dove le tradizioni dinastiche siano decadute o siano sparite, non è facile trovare un punto concreto di riferimento per l'attributo dignificante della dictadura decisamente patrocinata dal Cortés come soluzione politica.

Ciò, poi, oggi appare molto chiaro, perché sono effettivamente sorti dei regimi autoritari per arginare il disordine e l'anarchia. ma sul genere dei cosidetti «regimi dei colonnelli» nei quali, di massima, manca l'accennata dimensione superiore della controrivoluzione.

Donoso Cortés ha saputo impostare in modo pregnante una problematica di un'importanza fondamentale, con una previsione esatta delle situazioni che si sarebbero maturate: problematica che però il corso dei tempi fa apparire sempre meno suscettibile di vere soluzioni, corrispondenti alle affirmaciones sobranas opposte alle negaciones radicales. Cortés mori a soli quarantaquattro anni, nel 1853. Dei segni precursori nefasti, costituiti dalle prime crisi del mondo europeo manifestatesi nel 1848 e nel 1849, egli però seppe già cogliere tutto il significato, prima che le loro conseguenze generali si rendessero ben visibili.

Nonostante l'interesse da lui destato, pochi anni dopo il 1848 Donos Cortés in Europa fu quasi dimenticato e il suo nome passò nella schiera superba degli isolati, degli ignorati, di coloro che subirono la congiura del silenzio del XIX secolo. Solo gli avvenimenti più recenti dovevano attirare nuovamente su lui l'attenzione. In un ottimo saggio (Donoso Cortés in gesamteuropdischer Interpretation) Carl Schmitt rilevava che delle due correnti antagoniste, quella rivoluzionaria socialista e quella controrivoluzionaria dei tempi di Cortés, la prima ha avuto successivamente sviluppi sistematici mentre la seconda ha subito un arresto. Lo Schmitt scrisse queste parole nel 1950. Ma nel frattempo la situazione è fortunatamente mutata, con la formazione di un pensiero di Destra e con la ripresa dell'idea di Tradizione. COSI ai nostri giorni Donoso Cortés può essere annoverato fra coloro da cui si possono trarre sempre degli utili spunti, proprio nell'eventualità di quel momento di una assoluta decisione, di cui egli aveva parlato.

 

 

 

29. il fenomeno henry miller

 

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Nella galleria delle figure rappresentative del nostro tempo, a quella di Henry Miller è stato attribuito un particolare significato. Il Miller gode ormai di un riconoscimento quasi unanime nel mondo letterario internazionale, pur conservando per molti la nomèa di essere uno scrittore pornografico, scandaloso e anarchico. Per lui, noi stessi avevamo avuto un certo interesse, soprattutto in base alla lettura di libri del suo periodo più antico, come Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno, proibiti in vari paesi. Opere del genere potevano infatti esser fatte rientrare fra le testimonianze di un mondo in dissoluzione, disperato e in rivolta. COSI certe generazioni ultime allo sbaraglio, soprattutto d'oltre oceano, bipsters, beats e simili, hanno potuto vedere in Miller un loro maestro e vessillifero.

Per conto nostro, l'aspetto valido di Miller è proprio quello negativo: è il Miller che attacca tutto ciò che è civiltà moderna (« foresta pietrificata entro cui si muove il caos ») e, in specie, americana (l'America, «che raccoglie ciò che di più degenere vi è in Europa » ) e la sua cultura [« che scorre come una fogna scoperchiata »); il Miller anticonformista che scrive: «Chi, fra quanti hanno lo sguardo avido e disperato, può avere il minimo rispetto pei governi esistenti, per queste leggi, codici, principi, ideali, idee, tabù » e che parla di situazioni esistenziali tali «che nessuna soluzione sembra possibile, restando soltanto l'assassinio o il suicidio: o tutti e due - se falliscono tutti e due, si diventa dei buffoni ».

In genere, in gran parte i libri di Miller si presentano come una continuata autobiografia (più o meno manipolata) costellata di riflessioni, di descrizioni dei personaggi più vari e di ogni specie di episodi. Inoltre sono interessanti punti in cui, quasi per trauma, in mezzo ad una vicenda caotica e scombinata, ci vengono presentati momenti quasi di illuminazione o di superiore lucidità: quasi il balenare di certezze più alte fra un caos estremo, la percezione dell'evidenza quasi magica di una realtà delle cose esistenti nella loro essenza e purità («tutto era significativo, giustificabile, eternamente reale - niente da dimostrare niente da raggiungere»), squarciandosi quella specie di transe, di tramortimento, in cui gli uomini moderni vivono abitualmente senza rendersene conto. In mezzo allo sconquasso e alle situazioni più assurde, agisce quasi la tendenza confusa verso una autoliberazione, la ricerca della «propria autenticità» («Essere voi stessi -. E se non siete niente? Allora siate niente, ma siatelo assolutamente» - o anche: «Divenire marcio di conoscenza, capire l'irrilevanza di tutto; sfasciare tutto, divenire disperato, poi umile, poi cancellarsi dalla lavagna allo scopo di recuperare la propria autenticità»). Sono gli stessi motivi di un certo esistenzialismo, Però la linea, se seriamente approfondita, potrebbe non essere priva di analogie con quella dello Zen, antica scuola estremo-orientale di cui del resto anche Miller aveva avuto conoscenza (confusamente: egli ha letto ogni sorta di cose) e che per questo receritemente ha attirato l'attenzione di generazioni «bruciate ».

Però rintracciare tale linea nei libri di Miller è piuttosto arduo, tanta è l'affluenza disordinata di motivi divergenti, di impressioni contradittorie e anche - anzi in notevole misura - di divagazioni ora letterarie, ora filosofeggianti e introspettive. Quanto alla deprecata « oscenità» di Miller, a tale stregua essa è ancora il meno. Essa anzitutto è confinata quasi per intero nei primi libri, Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno, venendo meno sempre più negli altri suoi scritti. Poi da essa esula un qualsiasi aspetto eccitante; delle cose del sesso fra le più scabrose si parla come di puri fatti, senza una qualsiasi atmosfera erotizzante atta ad accendere l'imaginazione del lettore o della lettrice: piuttosto con crudezze quasi grottesche. Se mai, è la trivialità delle espressioni a infastidire. Purtroppo Miller è fra coloro che si compiacciono di un linguaggio volgare, fino a ieri prerogativa della plebe, oggi mala usanza che ha preso piede sia nella letteratura, sia nel parlare di persone che con ciò vorrebbero mostrarsi « spregiudicate », mentre sono solo stupide: del che, il fondo è poi una autocontaminazione che uno psicanalista ricondurrebbe ad un « complesso di colpa» ovvero a una deviata compensazione di un «complesso d'inferiorità », Può dirsi che anche per questo la «oscenità» di Miller perde ogni mordente ed è banale; si riduce a un cattivo gusto. Ci viene di ricordare, invece, come il noto poeta Alfred De Musset vincesse una scommessa con lo scrivere un libro assolutamente «pornografico» - Gamiani - senza usare una sola parola triviale.

Ma lasciando da parte ciò, il valore di testimonianza dell'opera di Miller nei termini indicati più sopra è risultata, per noi, assai diminuita via via che abbiamo constatato la parte che in lui ha un orientamento diverso, in fondo poco interessante: non il nichilismo e lo sforzo di cogliere qualcosa di assoluto di là dal «punto zero dei valori », ma piuttosto una primitivistica adesione alla « vita» in tutti i suoi aspetti, non priva, anche, di fede e di entusiasmo (sono i momenti «euforici» che in Miller si alternano con quelli depressivi). Per questo, tutto sommato, Miller risulta abbastanza lontano dall'essere un tipo davvero «bruciato ». Nei suoi libri lo vediamo fin troppo spesso entusiasmarsi nel modo più infantile e passeggero per l'una o l'altra idea, l'uno o l'altro autore. Di Dostojevskij egli dice addirittura che «il mondo dopo di lui è cambiato », Egli « scopre» Spengler (!!). Esalta H.D. Lawrence, con la sua sospetta filosofia della vita e della carne. È affascinato da Joyce. Si sente in debito profondo verso Swami Vivekananda, mediocre divulgatore fortemente europeizzato di dottrine orientali. Va in estasi per uno storico dell'arte, come Elie Faure. Si compiace del riconoscimento tributatogli dal filosofo narcisista da salotto H. Keyserling. Del dadaismo si accorge con oltre quindici anni di ritardo. E tutto ciò, mentre scrive anche parole come queste: «Sta fermo e aspetta la venuta del Signore, spogliandoti dall'ossessionante ammirazione per autori viventi e morti, le cui parole sbarrano la tua via ». Nel complesso, nell'interminabile monologo narrativo si alternano gli alti e i bassi (la fase maniaca e la fase depressiva, direbbe uno psichiatra), e nulla acquista una forma precisa.

Dal punto di vista umano personale, le cose non vanno diversamente. Miller confessa: «Ciò che agognavo era ammirare e adorare », Esprime una disperazione da romantico per la partenza di « Mona » (una delle sue mogli). Non rifugge da speranze utopistiche per una civiltà a venire (nella quale, fra l'altro, una parte essenziale l'avrebbe 1'« oscuro fondo feminile» o «materno» dell'esistenza - la controparte, in altro punto, sembra essere la sua accusa contro 1'« aspetto criminale della mente », cioè dell'Io razionale - vedi Klages (in parte Bergson, Spengler e simili), e per un'arte del futuro. È capace delle forme di ammirazione più ingenue e, per noi europei, più provinciali (per esempio, per tutto ciò che è cultura francese). Accusa gli uomini di non conoscere l'amore, «l'amore che non chiede », in esso vedendo una specie di rimedio universale, con l'aggiunta di temi pacifistici e della deprecazione di tutto quel che è guerra e combattimento. Sono altrettanti sfaldamenti che rivelano nel nichilista Miller un fondo addirittura da « brav'uomo », tutt'altro che «bruciato », solo deluso.

Del resto, anche nella vita pratica l'uomo Miller sembra essersi a poco a poco normalizzato. Il suo antiamericanismo e la sua irrequietezza esistenziale debbono essersi attenuati se egli ha finito con lo stabilirsi in California, con un ordinato ménage. Ha pagato non da oggi il suo scotto al conformismo, dato che si è sposato - e sposato quattro volte: il che accentua il lato puramente esterioristico e frivolo della cosa.

In una lettera inviata al tribunale di Oslo in occasione del processo fatto ad un suo libro, egli scrive: «Farebbe piacere alla Corte sapere che non sono considerato come un maniaco, come un pervertito e nemmeno come un nevrotico? Che come marito, padre e vicino sono considerato un esempio per la comunità? Sono un po' ridicolo, vero? » - per cui, lui stesso si chiede se l'autore di quei libri scabrosi a fondo autobiografico e questo uomo Miller siano la stessa persona. Lui dice di sf, Allora o si deve pensare a un rimbambimento dovuto all'età e al successo letterario, ovvero vi è da constatare una struttura contradittoria che menoma assai il valore simbolico e rappresentativo della figura di Miller. Con tutti gli altri aspetti che abbiamo indicato, si perde, peraltro, assai quota, e si deve riconoscere che come testimonianza dell'epoca e di esperienze liminali dell'epoca, soltanto il Miller «negativo» è interessante.

Circa i suoi libri, usciti anche in traduzione italiana, su Nexus, finito di scrivere nel 1959, vi è ben poco di particolare da dire.

In esso a tutta prima ci viene presentato un simpatico ménage a tre, con Miller, Mona (che sembra essere la sua seconda moglie) e Stasia, amica lesbica di Mona (la convivenza e la combinazione sono spiegate da queste parole di Mona: « Phi amo te (Miller), più amo Stasia ». Si tratta del periodo in cui Miller faceva quasi la fame, in cui egli si diceva scrittore facendo però solo dei tentativi di scrivere, per cui nel frattempo era soprattutto Mona a mantenerlo, non avendo troppi scrupoli, a tal fine, a mostrarsi «compiacente» in un locale notturno del villaggio degli artisti dove lavorava. Stasia è una artista russa con lo sfasamento tipico degli slavi. Mentre in una pagina la vediamo sulla stessa linea di Miller, nella sua rivolta contro il mondo pietrificato e vuoto dei grattacieli «dove non vi sono più né poeti né uomini» e «tutti saltellano come pazzi» e nel suo cercare la verità della natura «dove tutto è perfetto, terribilmente reale e basta a se stesso », due pagine dopo la vediamo dire che una volta ella aveva cercato di farsi montare da un cane, e confessare: «È stato' cosi buffo! Alla fine mi ha morsicato una coscia ». Ma dopo questi allettanti inizi nel libro si passa al carosello dei vari personaggi, delle varie impressioni e meditazioni secondo l'alternanza confusa di motivi dianzi accennata.

« Il meglio di Miller» è il .titolo della traduzione di una scelta « epurata », curata da L. Durrell, di passi dei suoi scritti e saggi. Sono cioè presentati aspetti dell'opera di Miller accettabili anche dal pubblico corrente e puritano: Miller essenzialmente come letterato, descrittore di tipi, uomo di una particolare sensibilità, scrittore di un ottimo stile. Quasi un terzo della scelta è occupato da saggi o stralci di semplice critica letteraria, o simili: tutte cose che possono interessare molti, ma che a noi sembrano secondarie e di corrente consumo, quindi non rientranti propriamente nel « meglio ». A tale riguardo, noi stessi, per un giudizio, dovremmo però metterei a fare della critica letteraria, il che ci è estraneo. Qui noi abbiamo voluto portare l'attenzione soprattutto sul «fenomeno Miller », non tanto come artista, quanto come espressione dei tempi.

 

 

 

30. vilfredo pareto, anticonformista e antidemocratico

 

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Anche a prescindere dal suo sistema di sociologia, il giudizio sul quale può essere vario, Vilfredo Pareto è un autore che si legge o si rilegge sempre con piacere, oltre che per il suo stile chiaro e vivace, per un anticonformismo, per un coraggioso amore per la verità e per una insofferenza per le ideologie, i miti, e le menzogne di quel mondo borghese e democratico prefascista, nell'epoca del quale egli aveva concepito le sue opere principali. Tale mondo essendo risuscitato, ancor più virulento, ai nostri giorni, molte considerazioni del Pareto mantengono un carattere di sorprendente attualità.

A parte la sua avversione congenita per ogni democrazia, nel campo della sociologia positiva il Pareto ha dato un contributo importante al principio antidemocratico col dimostrare la legge della «circolazione delle élites », la quale va a convalidarlo su un piano generale. Il Pareto ha, cioè, accertato che in qualsiasi società il fenomeno dell'esistenza di una élite, di una minoranza che domina, è costante. Cosi una gerarchia più o meno elaborata è un dato sociologico sempre presente, anche nei casi in cui a parole essa viene negata. Solo che le élites possono darsi il cambio, gruppi sociali diversi possono, «circolando », sostituirsi l'uno all'altro, eventualmente scalzare l'uno l'altro, nel loro formare 1'élite. Il Pareto si è limitato a dimostrare il fenomeno strutturale sociologico generale della élite; non ha svolto una filosofia della storia per scoprire quali qualità di élites si sono successe nel corso dei tempi a noi noti. Dal punto di vista tradizionale, vi è naturalmente da constatare un processo di regressione che ai nostri giorni sta raggiungendo il limite.

Il Pareto non risparmia strali quando incontra i miti di quelle che egli chiama «le religioni laiche del mondo borghese », sostituitesi alle verità e ai valori di altri tempi: Umanità, Democrazia, Progresso, Libertà, Volontà del Popolo, Uguaglianza, moralismo puritano e via dicendo: tutte parole spesso scritte con la maiuscola come prima si scriveva soltanto il nome di Dio, e oggetti di un nuovo culto e di un nuovo fanatismo. Potrà interessare qualche citazione fatta spigolando soprattutto nell'opera principale del Pareto, Trattato di Sociologia generale (2a ed.).

Cominciamo con l'egualitarismo. Oggettivamente ogni eguaglianza è un assurdo. Il Pareto (§ 1227) dice che se talvolta i sentimenti di eguaglianza possono avere una forza, ciò si deve al fatto che essi con l'eguaglianza vera non hanno nulla a che fare, perché si riferiscono non «ad un valore astratto, come ancora credono certi ingenui intellettuali, bensi agli interessi diretti di persone che vogliono sottrarsi a diseguaglianze ad esse contrarie e istituirne di nuove a loro favorevoli, quest'ultimo scopo essendo, per loro, il principale ». In altre parole, ognI ideologia egualitaria è soltanto uno strumento, usato ipocritamente per un fine eversivo. Dopo un analogo rilievo fatto già da Tacito, il Vico aveva notato che si esalta e si bandisce l'eguaglianza prima per rovesciare i superiori, poi per affiancarsi ad essi, infine per metterli sotto agli inferiori, istituendo nuove diseguaglianze con una gerarchia alla rovescia. Riferendosi a Sparta, agli antichi ceppi nordici ed anche all'Inghilterra, il Pareto ricorda che come effettivamente «uguali» o «pari» (in greco: omoioi) valsero di fatto soltanto i membri di una aristocrazia ristrettissima ai quali si imponeva la rigorosa osservanza di difficili doveri di casta. Nulla, dunque, che corrisponda all'egualitarismo livellatore.

Fra l'altro, il Pareto attacca l'interpretazione diffamatrice del regime feudale, presentato dalla storiografia «progressista» come un regime di violenza e di sopraffazione. Egli scrive (§ 1154); «È cosa assurda il figurarsi che l'antica feudalità zn Europa fosse imposta esclusivamente con la forza; invece si manteneva in parte per sentimenti di vicendevole affetto, i quali si osservano in altri Paesi, ave esisteva la feudalità, come ad esempio in Giappone ... In generale, ciò si verifica in tutti gli ordinamenti sociali dove esiste una gerarchia, la quale solo quando sta per sparire e per dar luogo ad un'altra cessa di essere spontanea, per essere imposta esclusivamente, o in modo predominante, dalla forza ». Il Pareto ricorda giustamente la parte che nei sistemi tradizionali ha il principio della «fedeltà », concepita in termini tali che il giurarla equivaleva ad un sacramento, facendo «dei martiri di coloro che sacrificavano la propria vita per mantenerla, dei maledetti di coloro che la violavano ». Varie interessanti citazioni vengono fatte, a tale riguardo.

Il realismo del Pareto risulta dal seguente passo (§ 2183): « Tutti i Governi usano la forza e tutti asseriscono di aver fondamento nella ragione. Nei fatti, con o senza suffragio universale, è sempre una oligarchia a governare e a saper dare alla " volontà del popolo" l'espressione che desidera ... fino ai voti della maggioranza di una assemblea eletta in modo vario, al plebiscito che diede l'impero a Napoleone III e via di seguito, per terminare col suffragio universale sapientemente guidato, comprato e manipolato dai nostri politicanti. Chi è questo nuovo dio che ha nome "suffragio universale"? Non è meglio definito, meno misterioso, meno fuor dalla realtà delle cose di tante altre divinità: né mancano, nella sua teologia, come nelle altre, contraddizioni patenti ».

Circa le nuove ipocrisie, il Pareto rileva (§ 1462): «In tempi barbari un popolo muoveva guerra ad un altro, ne saccheggiava le terre, ne spillava i quattrini, senza tanti discorsi; nei tempi nostri ciò lo si fa ancora, ma si dice di agire solo in nome dei " vitali interessi" e questo sarebbe un immenso progresso ». Su una non diversa via, si mette mano agli ideali, ai valori morali, al « diritto» per mascherare i veri scopi. Vien citato il caso della guerra dei Boxer in Cina al principio del secolo, in realtà combattuta dagli europei per imporre il commercio dell'oppio. Pertanto non vi è dubbio sul modo in cui il Pareto avrebbe giudicato casi più perspicui: l'etichetta di «Crociata in Europa» applicata dagli americani (e propriamente da Eisenhower) al loro intervento nella seconda guerra mondiale, e la macabra farsa del processo di Norimberga celebrato in nome dell'« umanità» e della «civiltà ». Quanto era migliore la cruda franchezza di chi si limitava a dichiarare: Vae victis!

Il Pareto si inviperisce addirittura quando sente parlare della cosi detta «volontà popolare» e rileva la servile adulazione demagogica del «popolo », Egli dice, per esempio (§ 1713), che, in altri tempi, perfino i re potevano essere aspramente attaccati dalla loro stessa nobiltà o dai papi, «mentre oggi nessuno è di tanto animo da biasimare il "popolo" e meno che mai da resistere apertamente ad esso; il che non toglie che lo rigirino, lo ingannino, lo sfruttino come già un tempo sicofanti e demagoghi sfruttavano il demos ad Atene, e come in tempi a noi meno lontani, i cortigiani operavano coi loro padroni », È ovvio che tutto ciò può valere in ancor maggiore misura per il più recente, sacrosanto tabù costituito dalla «classe lavoratrice »,

Il Pareto rileva anche che la conclamata «libertà di pensiero» dei « tempi progrediti» viene in realtà cosi intesa che la si rivendica soltanto per sé e la si nega agli avversari. Ciò, non solo sul piano sociale ma anche su quello religioso: gli ortodossi e i tradizionalisti in nome di quella libertà dovrebbero tollerare gli eretici e i rivoluzionari, ma questi non pensano affatto a riconoscere ai primi la libertà di pensare come vogliono e di difendere la loro tradizione: non ne hanno il diritto, perché sono degli «oscurantisti» (§ 1852). E di una intolleranza si può parlare negli stessi riguardi della «libera democrazia »; viene osservato che poche società sono cosi fanatiche come quelle che proclamano appunto la libertà (vedi, ad esempio, gli Stati Uniti). Si potrebbe aggiungere il caso di più recenti vicende nelle quali la «libertà» è stata imposta a popoli che non la chiedevano per nulla. È superfluo ricordare poi le mene e gli interventi armati delle potenze comuniste per «liberare» altre nazioni. Come in un nuovo manicheismo, alla democrazia si associano l'umanitarismo e il pacifismo come gli angeli della luce che si oppongono alle entità dette retrive e che dalle insidie di queste salvano e difendono la misera umanità (§ 1891).

Circa le idee umanitarie, il Pareto rileva che la presa che esse possono avere sugli animi è di solito segno dell'indebolirsi d; impulsi che tendono alla conservazione dell'individuo, delle società e dello Stato. «I parolai si figurano che le loro dichiarazioni possano venir sostituite ai sentimenti che mantengono l'equilibrio sociale e politico» (§ 2741). Per cui il Pareto affermò sempre la necessità di uno Stato forte, dello Stato che agisce sul piano delle realtà e non con finzioni di cui non appare il vero sottofondo. Di conseguenza, egli riconobbe il significato che ebbe lo Stato prussiano e non poté non simpatizzare col fascismo.

Su tale linea egli combatté il mito antitedesco e quello di una falsificata «latinità ». Contro quei cattolici settari che vogliono vedere nel cattolicesimo latino il principio di ogni ordine e di ogni disciplina, nel protestantesimo la matrice di ogni anarchia (di simili antitesi si dilettarono più tardi ad esempio Guido Manacorda e Francesco Orestano nello stesso periodo fascista), il Pareto rilevava (§ 1856) che, sebbene l'Italia sia cattolica, «i sentimenti di disciplina vi sono molto meno potenti che in Prussia »; si è che in Germania vigevano impulsi assai più concreti ed efficaci, cioè «la fede monarcbica, lo spirito militare, la sottomissione all'autorità, debolissimi in Italia ».

Proprio in un confronto con l'atteggiamento che predominava in Germania, il Pareto fa delle osservazioni che oggi in Italia si dovrebbero condividere pienamente: «Si pretende che se le forze rivoluzionarie o anche soltanto popolari che si scontrano con le forze dell'ordine le prime abbiano ogni diritto, le seconde ogni dovere, principalmente il dovere di tutto sopportare prima di far uso delle armi: ingiurie, percosse, sassate, tutto è scusato se viene dal popolo.: mentre la forza pubblica deve avere una pazienza inesauribile, percossa su una guancia ha da porgere l'altra, i soldati (ci si riferisce al periodo in cui l'esercito fu impiegato in occasione di disordini) hanno da essere tanti santi asceti; non si capisce perché si ponga loro in mano un fucile o una daga invece di un rosario del Santo Progresso ». Il Pareto a ciò contrapponeva la veduta prussiana, che ogni vero Stato dovrebbe far propria, ossia che « reagire contro gli insulti e alle percosse è non solo concesso bensi imposto alla forza pubblica; un ufficiale è disonorato se si lascia sfiorare impunemente dalla piu lieve percossa» (§ 2147).

Il Pareto fu anche un anticonformista precorritore nel dominio del sesso.

Egli scrisse un libretto, uscito dapprima in francese, Le virtuisme, in cui stigmatizzava il puritanismo sessuofobo. Egli ~ise in rilievo che il moderno «virtuismo» sessuale non trova riscontro in nessuna grande civiltà del passato. Roma antica l'ignorò, in prima linea essa mise la dignità e la misura. Il Pareto riferisce due esempi riferentisi al famoso Catone censore. Questi si trovava presente alle Floralia, festa romana in cui sulle scene ad un dato momento una ragazza doveva venire completamente spogliata. La regia, accortasi della presenza di Catone fra il pubblico, esitava ad offrire quella scena. Allora Catone se ne andò, per non privare il pubblico di quel divertimento. Un'altra volta Catone vide un suo giovane discepolo uscire da una «casa chiusa» del tempo. Non gli disse nulla. Soltanto quando la cosa si ripeté più volte, egli gli disse che in quelle visite non c'era nulla di male, ma che egli non doveva scambiare il postribolo con la sua abitazione.

Ecco una spiritosa battuta del Pareto (§ 1890): «Se si ha la smania di proteggere} perché occuparsi solo della seduzione delle donne e trascurare quella degli uomini? Perché non si inventa qualche altra espressione, come quella di "tratta delle bianche" che valga pure per i "bianchi"? ».

Ed ancora: «Fra i dogmi della presente religione sessuale (il "virtuismo" borghese) c'è quello che la prostituzione è un "male assoluto", ed esso non si discute ... come non si discute alcun dogma religioso; ma sotto l'aspetto sperimentale rimane di sapere se la prostituzione è, o non è, il mestiere che meglio si confà all'indole di certe donne, a cui, piu che altri mestieri ai quali potrebbero attendere, riesce gradito, e se è, o non è, entro certi limiti, utile all'intera società» (§ 1382). Ed egli mette in rilievo il carattere « onesto» della prostituzione della donna, la quale in fondo fa commercio di ciò che le appartiene, il corpo, rispetto alla prostituzione accusabile in tanti uomini politici di oggi, che commerciano indegnamente con beni collettivi e altrui, tradendo la fiducia ottenuta seducendo le masse ...

 

 

 

31. joseph de maistre

 

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Recentemente è stata pubblicata una nuova edizione delle Serate di Pietroburgo di Joseph De Maistre, curata da Alfredo Cattabiani. È, questa, l'opera più conosciuta di De Maistre. In essa, però, i riferimenti diretti al dominio politico, nel quale De Maistre vale come un « reazionario », sono più scarsi che non in altri suoi scritti. Infatti vi si trovano soprattutto considerazioni su problemi morali e religiosi, e lo stesso sottotitolo del libro « Colloqui sul governo temporale della Provvidenza» indica questa linea di pensiero, che per noi non presenta troppo interesse. Presupponendo appunto l'esistenza di una Provvidenza concepita in termini moraleggianti, De Maistre affronta il problema di conciliarla con lo spettacolo che il mondo e la storia nella loro fattualità ci presentano: malvagità che non sono punite, virtù che non hanno avuto nessuna ricompensa, e così via.

Non si può dire che le soluzioni di tale problema, proposte da De Maistre, siano del tutto convincenti. Comunque De Maistre non è portato ad un ridimensionamento e ad un ampliamento del concetto della divinità nei termini da noi indicati nel precedente saggio, parlando della Via della Mano Sinistra. Ci sembra un ripiego l'idea di una giustizia divina che procrastinerebbe soltanto le sue sanzioni (come appoggio, in appendice al suo libro De Maistre ha tradotto un trattato di Plutarco che s'intitola appunte De sera numinis vindicta). Però lo stesso De Maistre giunge ad una veduta più libera e soddisfacente quando paragona i mali e le contingenze che piovono su tutto il genere umano alle pallottole che in guerra colpiscono un esercito, senza far distinzione fra il buono e il malvagio. Si deve cioè pensare che l'essere, assumendo lo stato umano di esistenza (volendolo, o inconsideratamente, o per una temerità, come è detto in un trattato ermetico), non può non trovarsi esposto alle contingenze proprie a tale stato. Cercar nessi morali trascendenti nell'uno o nell'altro caso, è cosa a cui si può esser portati naturalmente, ma che mantiene sempre il carattere di una avventata ipotetizzazione.

Ma lasciando da parte quest'ordine di problemi, accenniamo ad alcune idee di De Maistre che sono interessanti dal punto di vista tradizionale. Per primo, si può indicare quella di una Tradizione Primordiale. Può darsi che De Maistre ne sia debitore a Claude de Saint-Martin, che egli conobbe e che era esponente di dottrine esoteriche (nel quadro della massoneria, la quale a quel tempo era assai diversa da quella più recente, tanto che lo stesso De Maistre ne fece parte). Poi vi è la tesi, che lo stato naturale originario dell'umanità non è stato quello di una barbarie. Al contrario, esso sarebbe stato di luce e di conoscenza, mentre il selvaggio, il presunto «primitivo », sarebbe soltanto «il discendente di un uomo staccatosi dal grande albero della civiltà in séguito ad una prevaricazione che non si può ripetere ». Ma per altri riguardi l'uomo si trova a risentire degli effetti di una prevaricazione e di una conseguente degradazione, causa della sua vulnerabilità non solo spirituale e intellettuale, ma anche fisica. Una tale idea è evidentemente simile a quella del «peccato originale» della mitologia cristiana, il quadro essendo però più vasto ed accettabile. Quanto all'accennata tesi sulla vera natura dei «primitivi », essa sarebbe tale da portare ad un più alto livello la ricerca etnologica e da impedirle di prendere molte cantonate.

De Maistre accusa i savants, scientisti e simili, i quali, come in una congiura, non ammettono che si sappia più di loro o in un modo diverso dal loro. «Si giudica un tempo in cui gli uomini vedevano gli effetti nelle cause con la mentalità di un tempo in cui gli uomini a fatica risalgono dagli effetti alle cause, o si dice che è inutile occuparsi delle cause, o non si sa quasi più che cosa sia una causa ». Egli aggiunge: «Si odono mille amenità sulla ignoranza degli antichi che vedevano gli spiriti dappertutto: a me pare che noi siamo molto più sciocchi di loro perché non ne vediamo in alcuna parte. Sentiamo sempre parlare di cause fisiche.

Ma che cosa è, insomma, una causa fisica? ». Per lui è nefasto, e tale da promuovere una fondamentale superficialità, l'assioma: «Nessun avvenimento fisico riguardante l'uomo può avere una causa superiore».

L'idea del progresso viene negata. Quella di una involuzione appare assai più plausibile. De Maistre rileva che tradizioni molteplici attestano che «gli uomini hanno cominciato con la scienza, ma con una scienza diversa dalla nostra e ad essa superiore, perché partiva da un punto più alto, il che la rendeva anche molto pericolosa. E questo vi spiega come mai la scienza, ai suoi inizi, fu sempre misteriosa e restò chiusa nell'àmbito dei templi, dove infine si spense quando questa fiamma non poté servire ad altro che a bruciare».

De Maistre era portato a dare un grande rilievo alla preghiera e al suo potere. Scrisse perfino: «Nessuno può provare che una nazione che prega non sia stata esaudita », ma, propriamente, è l'opposto che si sarebbe tenuti a dimostrare, il che non è facile. Ci si trova di fronte all'antitesi fra la preghiera nella virtù che le si attribuisce, e l'immutabilità delle leggi di natura, antitesi di cui De Maistre cerca di venire a capo, però in modo poco convincente. Egli ritiene che se delle preghiere non vengono esaudite, ciò sarebbe dovuto soltanto ad una superiore saggezza divina.

Spesso viene citata, con scandalo, l'apologia del carnefice quale strumento di Dio, fatta da De Maistre, ed anche la sua concezione del carattere divino della guerra. Purtroppo a quest'ultimo riguardo non vie n considerato ciò che la guerra può propizi a re in fatto di eroismo, di azioni superindividuali, ma la si vede nei termini tetri di una espiazione che colpisce una umanità fondamentale colpevole e degradata. La differenza fra guerra giusta e non giusta, fra guerra di difesa e di conquista, fra guerra vinta e perduta, non viene considerata. Sono vedute, queste, che poco si accordano con un orientamento positivamente «reazionario ».

In un'altra sua opera, Considérations sur la France, De Maistre, dichiarandosi per una restaurazione, enuncia un concetto importante dicendo che la controrivoluzione non deve essere una «rivoluzione contraria », bensi « il contrario della rivoluzione ». A lui si deve una specie di teologia della rivoluzione; egli mette in luce quel che di « demoniaco» si cela, in genere, nel fenomeno rivoluzionario. Tale aspetto è rilevabile anche per il fatto che la rivoluzione trasporta i suoi artefici, piti che non si lasci guidare veramente da essi, e spesso li travolge. Solo nell'epoca moderna doveva aversi il fenomeno di una « rivoluzione permanente» più o meno istituzionalizzata, coi suoi tecnici e i suoi lucidi manipolatori.

Nelle' Serate di Pietroburgo, spigolando e lasciando da parte certe disquisizioni (come ad esempio quella, prolissa, su Locke), il lettore potrà trovare molti altri spunti interessanti. Non resistiamo alla tentazione di riferire ciò che De Maistre dice sulla donna: «La donna non può essere superiore che come donna, ma dal momento in cui vuole emulare l'uomo, non è che una scimmia ». Pura verità, piaccia o non piaccia ai vari « movimenti feminili» contemporanei.

 

 

 

32. papini

 

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È con intenzione che queste note sul caso Papini non le abbiamo fatte immediatamente seguire alla sua morte. Questa ha naturalmente provocato i molti articoli commemorativi che si sogliono scrivere in occasioni del genere.

Dopo questo doveroso riserbo, non sarà però inutile mettere le cose a punto per quel che riguarda il caso Papini, seguendo una visuale diversa da quella della letteratura e dei criteri letterari. Il valore che Papini, scrittore assai brillante e vivo, ha in questo campo, resti qui impregiudicato. Ciò che Papini ha significato nell'insieme della vita intellettuale italiana e soprattutto in relazione con la crisi spirituale di tutta una generazione, costituisce però un molto diverso problema e, a tal riguardo, quadra assai poco ciò che i più hanno scritto di lui. Papini può essere valorizzato in questo stesso quadro dalla nostra borghesia « benpensante» conformista, specie se democristianamente orientata; non però da chi sente a fondo la crisi del pensiero e della società moderna.

Premettiamo che chi scrive ha seguito l'opera di Papini fin dagli inizi. Adolescenti, vi fu un tempo in cui Papini era davvero il nostro simbolo. Fu il periodo dell'unico Sturm und Drang che l'Italia abbia mai conosciuto, quello dell'urgenza di forze insofferenti del clima soffocante dell'Italietta borghese del primo novecento. Fu il periodo del « Leonardo» e di « Lacerba ». Invertendo decisamente il giudizio corrente, un vero significato Papini l'ebbe proprio e soltanto in quel periodo. Egli fu allora un apritore di brecce. A lui e al suo gruppo si deve che in Italia venissero conosciute le correnti straniere più interessanti del pensiero e dell'arte d'avanguardia, con effetti rinnovatori e amplificatori di orizzonti. Non si tratta solo delle riviste ora citate, ma anche di iniziative, come la collana « Cultura dell'anima» che, diretta da Papini, portò a conoscenza dei giovani di allora una serie di scritti antichi e moderni di particolare significato. Ma ancor più ci interessava, a quel tempo, il Papini paradossale, polemico, iconoclasta, anticonformista, rivoluzionario: perché credevamo che, malgrado la brillante facciata scandalistica, egli facesse sul serio. Nell'attacco contro la cultura ufficiale accademica, contro il servilismo intellettuale, contro le fame fatte, contro i valori della società e della morale borghese, eravamo entusiasticamente con lui, anche se ci infastidiva un certo suo stile neo-realista avant la lettre e certi andare da monellaccio fiorentino trasposti sul piano intellettuale. E qui, come d'inciso, poiché si è messo a titolo di merito per Papini «l'aver detto male di Croce », conviene fare una osservazione: se Papini attaccò e demolì Croce, egli non fece la stessa cosa con Gentile solo perché Gentile a quel tempo culturalmente era quasi inesistente, era un semplice discepolo di Croce. Di fronte a Gentile l'atteggiamento di Papini sarebbe stato lo stesso, le dosi sarebbero state anzi raddoppiate, se nel periodo in cui Gentile venne in primo piano Papini fosse stato quello di prima.

È con l'interventismo e con l'associarsi, in parte per questo, di Papini ai futuristi che noi cominciammo a non veder più le cose chiare. Allora eravamo dei giovani: pure non capivamo come si potessero prendere sul serio i vieti luoghi comuni «latini» e antigermanici per portare l'Italia ad una guerra che, secondo noi, se mai, doveva essere combattuta in fedeltà alla Triplice Alleanza o, al massimo, affermando contro la Germania una uguale volontà d'impero: non in base ad un banale e sentimentalistico irredentismo. Capivamo che Marinetti, a cui dicemmo queste cose incontrandoci al fronte, dichiarasse che mi sentisse lontano da lui «piti di un esquimese ». Non capivamo però come Papini, intellettuale anticonformista, finisse in questa linea patriottarda. Naturalmente, per certi ambienti attuali di un nazionalismo generico, privi di veri principi, la cosa si presenterà altrimenti e potrà tradursi perfino in un titolo patriottico per Papini.

Sul piano della cultura, la prima seria doccia fredda ai nostri entusiasmi doveva darla l'autobiografico Un uomo finito di Papini. Non era il bilancio di un fallimento spirituale, ma peggio ancora: questo fallimento veniva utilizzato e quasi commercializzato su di un piano esibizionistico per trarne fuori un libro brillante. La linea iniziale papiniana, certo, non poteva che condurre a un « punto zero di tutti i valori », Era l'esperienza anticipata da Nietzsche e Stirner, era quella che doveva ripresentarsi con la «generazione bruciata », col primo Jünger, con un certo esistenzialismo. Capivamo 1'« uomo finito »; ma l'uomo finito sul serio smette di scrivere e ne ha abbastanza delI'intellettualismo; fa come fece un Rimbaud, taglia tutti i ponti, cambia essenzialmente di piano. Magari si uccide.

La conferma definitiva non si fece molto attendere. Fu la « conversione» di Papini al cattolicesimo. Intendiamoci: se un anticlericale socialista o un ateo passa al cattolicesimo, non possiamo che lodarlo, e per noi resta ben fermo che il più umile sacerdote regolarmente ordinato sta assai più su di qualsiasi professore universitario e di qualsiasi intellettualoide. Ma per Papini il caso era diverso. Le sue esperienze culturali non avevano soltanto attinenza col dominio della cultura profana. Facendo parte del cenacolo fiorentino della «Biblioteca filosofica », non gli erano ignote correnti dell'alta mistica e perfino delI'iniziazione, a tal segno, che per le suggestioni ricevute da un cultore fiorentino di studi esoterici di non comune statura, Arturo Reghini, aveva tentato perfino, in un ritiro, esperienze trascendenti (frivolmente date nel- 1'Uo:no finito, come un tentativo di «divenire un dio»). Ora, se con tali precedenti si finisce nel cattolicesimo, bisogna pensare che nulla di serio vi era stato in tutte quelle passate esperienze.

La nostra impressione più immediata fu effettivamente che Papini, non sapendo più come scandalizzare, seguendo il consiglio di Chesterton, avesse scelto l'espediente proprio al mettersi paradossalmente sulla linea della normalità conformista. Solo assai tardi leggemmo, in un ospedale, la V ita di Cristo. Ebbene, rimanemmo sbalorditi del fatto, che un libro del genere avesse potuto essere un «successo» e, ancor più, che la Chiesa avesse potuto tanto valorizzarlo e raccomandarlo. Esso ci sembra costituire la prova più evidente che nessuna vera, profonda crisi spirituale sia stata alla base della «conversione» di Papini, che al massimo in essa può aver agito una rinuncia interiore, il bisogno di pacificarsi e di rendersi le cose più facili traendo da un corpo fisso di credenze quelle certezze che non aveva saputo trovare dopo la fase iconoclasta. Perché, in questo libro, nulla vi è di trasfigurante e di trasfigurato, non si avverte il minimo mutamento di sostanza umana, uguale è lo stile, nulla vien colto o dato come dimensione più profonda del cattolicesimo e dei suoi miti: è una banale apologetica in base ai dati più esteriori, catechistici e sentimentali del cristianesimo. Che Del Massa abbia potuto associare Papini alle «origini di un cammino che potrebbe essere definito il cammino italiano per la tradizione », ciò è cosa che ci lascia di stucco, sempreché di tradizione in senso superiore, e non di vieto tradizionalismo, si tratti.

Ebbene, se è da allora - dal periodo della «conversione» - che Papini ha sempre più ottenuto riconoscimento ed ha acquistato fama, è anche da allora che egli per noi è stato davvero 1'« uomo finito» e ha cessato di aver un qualsiasi significato per i problemi più vivi di coloro che si tengono spiritualmente sulla breccia. Egli è il simbolo non di una conquista, ma di una abdicazione. Resta lo scrittore brillante, interessante, che fino agli ultimi istanti ha sentito il bisogno di dettare articoli e aforismi. Nulla di male tributare, a questa stregua, a Papini, il debito riconoscimento, o lo stesso riconoscimento che (politica a parte) non si mancherà di concedere, alla loro morte, a un Malaparte, a un Baldini, a un Soffici, a un Moravia e a molti altri esponenti di quella che noi vorremmo chiamare la «ben scrivente stupidità intelligente» nostrana. Ma per tutto il resto è bene non confondere le carte. Ci si limiti a quel che è umanamente doveroso di fronte a chi ha finalmente posto termine al suo itinerario terreno.

 

 

 

33. carlo michelstaedter

 

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Carlo Michelstaedter è uno degli scrittori che nell'epoca moderna hanno affermato esigenza dell'individuo di assurgere ad un essere, ad un valore assoluto mettendo fine a tutti i compromessi con cui si maschera un abios bios, una vita che non è vita, portandosi a ciò di cui l'uomo ha paura più che di ogni altra cosa: a mettersi di fronte a se stesso, a misurarsi, appunto, in funzione di « essere ». Lo stato di essere è chiamato, dal Michelstaedter, quello della «persuasione », e vien definito essenzialmente come una negazione delle correlazioni. Dove l'Io non in se stesso, ma in « altro» ripone il principio del proprio consistere, dove la vita gli è condizionata da cose e da relazioni, dove vi è soggiacenza a dipendenze e a bisogno - non v'è «persuasione », bensì privazione del valore. Valore, è soltanto l'esistere in se stesso, il non chiedere ad altro il principio ultimo e il senso della propria vita: è 1'« autarchia », nel senso ellenico. Cosi non solo l'insieme di una esistenza fatta di bisogni, di affetti, di «socialità », di orpelli intellettualistici e simili, ma anche l'organismo corporeo e lo stesso sistema della natura (il quale, quale esperienza, viene inteso come generato, nel suo indefinito sviluppo spazio-temporale, dalla incessante gravitazione con cui la deficienza persegue l'essere, che però, in quanto cercato fuor di sé, non si riuscirà mai a possedere, rientra nella sfera del non-valore.

L'Io che pensa di essere in quanto continua, cioè in quanto ignora la pienezza di un possesso attuale e rimette la sua «persuasione» ad un momento successivo da cui, pertanto, si fa dipendente; l'Io che in ogni presente fugge a se stesso, che non si ha ma si cerca, e desidera, che però in nessun futuro potrà mai essere, il futuro essendo il simbolo stesso della sua privazione, l'ombra che corre insieme a colui che fugge, in una distanza dal corpo della sua realtà che in ogni punto si mantiene immutata ~ tale è, per il Michelstaedter, il senso della vita quotidiana, ma anche il «non valore », ciò che «non-deve-essere ». Di contro ad una tale situazione, il postulato della « persuasione» è: consistere, con tutta la propria vita resistere in ogni punto alla deficienza esistenziale, non cedere alla vita che manca a se stessa cercando al di fuori o nel futuro - non chiedere, ma tenere nel proprio pugno 1'« essere »: non «andare» ma permanere. Mentre la deficienza esistenziale accelera il tempo ansioso sempre del futuro e mutua un presente vuoto col successivo, la stabilità dell'individuo pre-occupa infinito tempo nell'attualità e arresta il tempo. La sua fermezza è una scìa vertiginosa per gli altri, che sono nella corrente. Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri - finché egli faccia di se stesso fiamma e giunga a consistere nell'ultimo presente». Per chiarire questo punto, è importante comprendere la natura della correlazione che è contenuta nelle premesse: dato che il mondo viene inteso come generato dalla direzione propria alla deficienza, di cui esso è quasi la tangibile incarnazione, è una illusione pensare che la «persuasione» possa venire realizzata mediante un consistere astratto e soggettivo in un valore che, come nello stoicismo, abbia di contro a sé un essere (la natura sperimentata) tale che, pur non avendo valore, è. Colui che tende alla persuasione assoluta dovrebbe invece assurgere ad una responsabilità cosmica. Ossia: non debbo fuggire alla mia deficienza - che il mondo rispecchia - ma prenderla su me, adeguarmi al suo peso e riscattarla. Pertanto il Michelstaedter dice: « Tu non puoi dirti persuaso finché qualcosa sia, che non sia persuasa », ed accenna alla persuasione come «all'estrema coscienza di chi è uno con le cose, ha in sé tutte le cose: ε ουνεχες. 

Per chiarire il problema centrale del Michelstaedter si può riconnettere il concetto di insufficienza a quello aristotelico dell'atto imperfetto. Atto imperfetto o «impuro» è quello delle potenze che non giungono da sé (K6:9' oòro ) all'atto ma a dò abbisognano del concorso di altro. Tale è, ad esempio, il caso per la percezione sensoriale, in essa la potenza del percepire non essendo sufficiente a se stessa, non producendo da sé la percezione, ma a ciò avendo bisogno della correlazione all'oggetto. Ora, il punto fondamentale a cui si connette la posizione del Michelstaedter è questo: che in sede trascendentale l'atto imperfetto non risolve la privazione dell'Io se non apparentemente; in realtà, esso la riconferma. Ad esempio, per usare un paragone, l'Io ha sete. Finché egli beve confermerà lo stato di colui che non è sufficiente alla propria vita ma che per vivere ha bisogno di «altro »; l'acqua e il resto non sono che i simboli della sua deficienza (su questo punto si deve fissare l'attenzione: non si desidera perché vi è una privazione dell'essere, ma vi è una privazione dell'essere perché si desidera - e, in secondo luogo: non vi è un desiderio, ad esempio quello di bere, perché vi sono determinate cose, ad esempio l'acqua, ma le cose desiderate al pari della privazione dell'essere che spinge verso di esse sono create in uno stesso punto dal desiderio ad esso relativo, il quale è, perciò, il prius che crea la correlazione cosi come i suoi due termini, ossia privazione e oggetto corrispondente, nel nostro esempio sete e acqua) e in quanto si pasce di essa e ad essa chiede la vita, l'Io si pasce soltanto della propria privazione e permane in essa, fuggendo da quell'« atto puro» o perfetto, da quell'acqua eterna, per il quale si potrebbero citare le stesse parole del Cristo (5), onde ogni sete, al pari di ogni altra privazione, sarebbe per sempre vinta. Questa brama, questo conato oscuro che porta l'Io verso l'esterno - verso 1'« altro» - è ciò che genera nell'esperienza il sistema della realtà finita e contingente. La persuasione, che va ad ardere nello stato dell'assoluto consistere, del puro esser-in-sé, un tale conato, ha quindi anche il senso di una «consumazione» chi mondo che a me si rivela.

Il senso di tale consumazione va chiarito venendo a cOle seguenze che il Michelstaedter non ha completamente svolte.

Anzitutto dire che io non debba fuggire alla mia deficienza significa, fra l'altro, che io debbo riconoscermi come la funzione creatrice del mondo sperimentato. Potrebbe seguire, da ciò, la giustificazione del cosidetto idealismo trascendentale (ossia del sistema filosofico secondo il quale il mondo è posto dall'Io) in base ad un imperativo morale. Ma secondo la premessa il mondo viene considerato come una negazione del valore. Dal postulato generale di riscattare il mondo, di assumerne la deficienza, procede allora, sempre come un postulato morale, ma anche in sede pratica, un secondo punto, ossia che la stessa negazione del valore deve essere riconosciuta, in un certo modo, come un valore. Ciò è importante. Infatti se io considero l'impulso che ha generato il mondo come un puro, irrazionale dato, è evidente che la persuasione, in quanto concepita come negazione di esso, va a dipendere da esso, quindi non è assolutamente sufficiente a sé ma dipende da un «altro », la negazione del quale le permette di affermarsi. In tal caso, ossia nel caso in cui lo stesso brama non venga ripreso nell'ordine dell'affermazione del valore ma resti completamente un dato, la persuasione non sarebbe dunque affatto persuasione - il mistero iniziale ne ridurrebbe inevitabilmente la perfezione in una illusione. Perciò come postulato morale occorre ammettere che la stessa antitesi partecipi, in un certo modo, del valore. Ma in che modo? Tale problema porta ad includere nel concetto di persuasione un dinamismo. Infatti è ovvio che se la persuasione non si riduce ad una pura, irrelata sufficienza - cioè ad uno stato - bensi è sufficienza in quanto negazione di una insufficienza - cioè un atto, una relazione - l'antitesi ha certamente un valore ed è spiegata: l'Io deve, cioè, porre in un primo momento la privazione, il non-valore, sia pure sotto la condizione che esso è posto solamente affinché venga negato, perché questo atto di negazione, ed esso soltanto, genera il valore della persuasione. Senonché che cosa significa negare l'antitesi - che in questo contesto vale quanto dire la natura? Si ricordi che per il Michelstaedter la natura è non-valore in quanto simbolo e incarnazione della fuga dell'Io dal possesso attuale di sé, in quanto correlativo di un atto imperfetto o « impuro» nel senso dianzi accennato. Non si tratta dunque di negare questa o quella determinazione dell'esistente, perché con ciò si colpirebbe soltanto l'effetto, la conseguenza, non la radice trascendentale del non-valore; nemmeno di eliminare in generale ogni azione, perché l'antitesi non è l'azione in genere, bensi l'azione in quanto fuga da sé, in quanto «andare» - e non è detto che ogni azione abbia necessariamente questo senso. Quel che occorre risolvere è piuttosto il modo passivo, eteronomo, estravertito di azione. Ora la negazione di un tale modo è costituita da quello dell'azione sufficiente a sé, la quale è anche potenza. Vivere in un possesso perfetto ogni atto e quindi trasfigurare l'insieme delle forme fino a che esse non esprimano che il corpo stesso di una infinita potestas, possiamo dire dell'Individuo assoluto fatto di potenza, tale è dunque il senso del riscatto cosmico e, ad un tempo, esistenziale. Come la concretizzazione della « retorica» è lo sviluppo del mondo della dipendenza e della necessità, cosi la concretizzazione della persuasione è lo sviluppo di un mondo di autarchia e di dominio, e il punto della pura negazione è solo il punto neutro fra le due fasi.

Lo sviluppo delle vedute del Michelstaedter in quello che si potrebbe chiamare un «idealismo magico» risulta cosi secondo una logica continuità. Invece il Michelstaedter in un certo modo è restato fermo in una negazione indeterminata, e questo, in gran parte, per non aver considerato sufficientemente che il finito e l'infinito non vanno riferiti ad un oggetto o ad una azione particolare, ma sono due modi di vivere un oggetto o un'azione qualsiasi. Il vero Signore non ha in generale bisogno di negare (nel senso di annullare) e, col pretesto di renderla assoluta, ridurre la vita ad una unità indifferenziata, quasi, se si vuole, in una specie di folgorazione: l'atto di potenza - il quale non è atto di desiderio o di violenza - anziché distruggere il perfetto possesso, lo attesta e lo conferma. È che il Michelstaedter, per l'intensità stessa in cui visse l'esigenza del valore assoluto, non seppe dare a questa un corpo concreto epperò svilupparla nella dottrina della potenza; il che forse potrebbe non esser privo di relazione con la fine tragica della sua esistenza mortale.

Tuttavia proprio il Michelstaedter ha affermato che «noi non vogliamo sapere in rapporto a quali cose si è determinato l'uomo, bensi come si è determinato », vale a dire, di là dall'atto, si tratta della forma o valore, secondo cui esso viene vissuto dall'individuo. Di fatto ogni relazione logica è, in un certo modo, indeterminata, e il valore è una dimensione superiore in cui essa si specifica. Un merito del Michelstaedter è di aver riaffermata la considerazione secondo valore nell'ordine metafisica: infatti la «retorica» e la « via alla persuasione» sono distinguibili non da un punto di vista puramente logico, ma dal punto di vista del valore. In tale contesto è assai importante che il Michelstaedter riconosca in un certo modo che vi sono due vie. Questa duplicità è essa stessa un valore: perché l'affermazione della persuasione non può valere come affermazione di una libertà quando non si abbia la coscienza della possibilità dell'affermazione come valore dello stesso nonvalore, secondo indifferenza: libero ed infinito essendo soltanto il «Signore del Si e del No» (su questa problematica, dr. la nostra Teoria dell'Individuo assoluto, I, §§ 1-5). L'altra giustificazione dell'antitesi, di cui sopra, ha evidentemente per presupposto l'opzione positiva per la « persuasione ».

 

 

 

34. il caso di giovanni gentile

 

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Negli ambienti che vengono definiti neo-fascisti spesso si fa riferimento a Giovanni Gentile, esaltandone la figura e vedendo in lui il «filosofo del fascismo ». È vero che in genere tutto si riduce a riferimenti vaghi e che di certo nessuno si è preso la pena di leggere i libri di filosofia del Gentile e di approfondire le idee. Ciò non impedisce che ciò dia luogo ad equivoci, e proprio due formule che si vogliono riesumare dal Gentile, quella dello « Stato etico» e quella dell'« umanesimo del lavoro», indicano dove si vada a finire, per una mancanza di discernimento. Quali possano pur essere stati i rapporti fattuali del Gentile col fascismo, e la circostanza che egli nel Ventennio occupò cariche di rilievo (le quali, peraltro, gli diedero modo di affermare spesso in modo poco simpatico la sua filosofia), non toglie che una vera Destra col Gentile può avere ben poco da fare.

La critica del pensiero puramente filosofico gentiliano, del cosidetto «attualismo », già da noi fatta in altra sede, qui non può interessare. Può interessare solamente il campo delle applicazioni pratiche ed anche politiche di esso. L'equazione personale e sociale del Gentile è, a quest'ultimo riguardo, determinante. II Gentile proveniva da certa borghesia intellettuale a tinte patriottarde e, nel contempo, illuministiche, quindi antitradizionali. Non per nulla egli ha esaltato « i Profeti (sic) del Risorgimento », e nel suo ultimo libro Genesi e struttura della società ha professato le stesse tesi della storiografia non solo massonico-illuminista ma addirittura marxista. Cosi leggiamo: «All'umanesimo della cultura, che fu tappa gloriosa (!) della liberazione dell'uomo (!!), succede oggi, o succederà domani, l'umanesimo del lavoro» - è esattamente la tesi della storiografia «progressista» marxista: prima la rivoluzione liberale borghese antitradizionale, poi la rivoluzione socialista. «Nessun dubbio », continua il Gentile, «che i moti sociali e i paralleli moti socialisti del XX secolo abbiano creato un nuovo umanismo, la cui instaurazione come attualità e concretezza politica è l'opera e il compito del nostro secolo ». È al cosidetto «umanismo del lavoro », che si allude. E ancora, nel Discorso agli Italiani (1943): «Chi oggi parla di comunismo» in Italia, è un corporativista impaziente delle more necessarie di sviluppo di una idea ». Già in precedenza due gentiliani di stretta osservanza, Arnaldo Volpicelli e Ugo Spirito, avevano bandito la teoria del «corporativismo integrale », miscuglio fra statalismo totalitario e sindacalismo radicalista collettivizzante. E oggi Ugo Spirito, ritenendo evidentemente scontate le «more necessarie di sviluppo dell'idea », è dichiaratamente comunista, anzi, a quanto sembra, addirittura maoista. Traguardo invero curioso, questo, per lo «Spirito come atto puro» e «Soggetto Assoluto» creatore, esaltato dalla fumosa filosofia «idealistica» gentiliana!

Ma oltre ad accusare queste prospettive di una storiografia decisamente di sinistra del «filosofo del fascismo », è contro lo stesso «storicismo» da lui professato che si deve prender posizione. Qui bisognerebbe partire abbastanza da lontano, dalla teoria della conoscenza, o gnoseologia, del cosidetto «idealismo assoluto ». Per limitarsi ad un cenno fuggevolissimo, il punto di partenza è stato il principio di Berkeley esse est percipi, ossia che concretamente posso parlare solo dell'essere che io percepisco, penso o sperimento. Schopenhauer, integrando la tesi, parlò del «mondo come (mia) rappresentazione ». I filosofi idealisti posthegeliani, come Gentile, non si sono fermati qui, hanno affermato che il mondo è « posto» dall'Io, esso non esisterebbe che nell'atto che lo pone per l'Io. Ma qui è sorta la noiosa difficoltà, che_ se io posso anche dire che il percepito o il rappresentato non esiste fuor dall'atto del mio percepirlo o rappresentarme10 (il che è quasi delapalissiano), quanto però a dire che quel che percepisco l'ho anche «posto» (fuor dai ristrettissimi limiti di certi domini mentali e intellettuali) liberamente e volontariamente, tanto da fare dell'Io quasi un dio creatore dei contenuti della sua esperienza, ciò è evidentemente tutt'altra cosa.

Il Gentile se l'è cavata con la teoria della cosidetta «volontà concreta» e della «storicità dello spirito», la quale è una autentica mistificazione. Di fronte a tutto ciò che accade ma che io non voglio né desidero per nulla, di cui non sono affatto l'autore, ci si viene a dire che esso non lo si vuole solo come «soggetto empirico» e «volontà astratta» - ma lo si vorrebbe perfettamente in quanto « Io-atto-puro» nella cui «volontà concreta» e nella cui « storicità » il reale e il voluto, l'atto e il fatto, la realtà e la razionalità farebbero tutt'uno.

Ad un tale lo fantasticato, io quale « soggetto empirico» (ossia come quello che veramente sono) dovrei adeguarmi. Il risultato è questo: che per poter « immanentizzare », ossia per poter ricondurre ad un ipotetico lo trascendentale il contenuto di tutto ciò che sperimento, sono condannato a riconoscere come «mio» e « voluto da me» anche ciò che meno voglio e che semplicemente subisco. Cosi l'unica etica coerentemente deducibile da tale filosofia è quella pronta a sanzionare ogni capitolazione interiore, ogni conformismo, ogni accettazione del fatto compiuto, però con una uguale prontezza ad accordare lo stesso riconoscimento ad un fatto compiuto opposto di domani ove esso riuscisse a scalzare quello di oggi. Questa è, in ultima analisi, l'origine e l'essenza dello « storicismo ». Di rigore, è la filosofia di coloro che non hanno una spina dorsale, in opposto a coloro che si impongono e fanno veramente la storia.

Da ascrivere in merito al Gentile è però il fattu del suo esser restato fascista anche quando la «storia», evidentemente, stava rendendo « antistorico» il fascismo, perché reale - quindi giusto, vero e razionale - essa, con l'aiuto degli Alleati, stava facendo divenire l'antifascismo. Questa dimostrazione di carattere e di coraggio civile, comportante tuttavia una incoerenza dottrinale, costò al Gentile la vita.

Date le premesse or ora indicate, può sorprendere che il Gentile abbia propugnato un autoritarismo. È, questa, un'altra fonte di equivoco, come lo è la concezione gentiliana dello « Stato etico " che, come si è detto, si vorrebbe ancora propugnare. I! fatto è che esistono diversi tipi di autorità, e ancor una volta qui si è fatta valere l'equazione personale del Gentile, proveniente dalla pedagogia. Bisogna tener presente che gli Stati forti e tradizionali riconobbero valori gerarchici, eroici e spirituali, non valori « etici » e ancor meno preoccupazioni moralizzatrici. Non un canone di morale ma il prestigio naturale di capi e di sovrani, di nature superiori (le quali spesso dal punto di vista moralistico e «virtuistico » lasciavano molto da desiderare) costituiva la base. Ecco che invece con lo « Stato etico» la morale viene messa al fastigio dello Stato, pensando di assicurare cOSI ad esso una dignità superiore a quella propria alla concezione agnostica, neutra e giuridicistica della cosa pubblica.

Ciò che ne deriva è un deprecabile autoritarismo (quello che il Croce chiamò della «morale governativa») e totalitarismo. Il totalitarismo in veste di «Stato etico» lo si può paragonare al pedagogo con la frusta in mano che s'immischia dappertutto, persuaso di avere non solo il diritto ma anche il dovere di « educare» e «perfezionare» gli individui, trattandoli quasi come bambini, senza alcun rispetto per l'altrui libertà e personalità. È l'ideale politico che può vagheggiare un preside di liceo con velleità paternalistico-autoritarie (qui si tradisce appunto 1'« equazione personale » del Gentile) o un sergente istruttore. È lo Stato che si può ben dire « seccatore », perché non conosce limiti in una petulante ingerenza del pubblico nel privato, per un insopportabile controllo «virtuistico» e riformistico, ove ha anche parte essenziale la fisima, che il popolo possa divenire diverso da quello che sempre è stato e che fondamentalmente sempre sarà. Purtroppo anche nel fascismo furono presenti aspetti poco simpatici di questo genere, che la teoria gentiliana in discorso andò a sanzionare.

Circa l'opposizione fra lo Stato etico e l'ideale organico e aristocratico dello Stato, vale appena dire. Nel secondo non si tratta di rapporti pedagogici da educatorio, ma di relazioni spontanee e naturali da inferiore a superiore. Non si tratta di conformarsi a valori «morali» astratti fatti valere d'autorità ma di obbedire a capi che si pongono come il centro di relazioni di lealismo e di fedeltà, che lasciano larghi margini di autonomia, che desiderano che ognuno ed ogni gruppo sviluppino il proprio naturale modo d'essere, curando che tutto si armonizzi in una specie di sinergia, procedendo ad interventi - ad energici interventi ammonitori - soltanto in casi di emergenza o di palese prevaricazione: anche in tali congiunture facendo ben apparire una naturale autorità come controparte del potere assoluto. Ciò vuoI dire vero rispetto umano, all'opposto di quella degradazione dello Stato in una scuola-caserma che è propria alla teoria dello « Stato etico» totalitario: nel quale, peraltro, con un singolare capovolgimento, chi era partito dalla premessa di obbedire solo ad una sua legge interna (la societas siue status in interiore hominis, lo Stato il quale, secondo la concezione gentiliana, è «interiore» e come tutto il resto non esiste se io non lo «pongo» per me, anche se dopo aver fatto i conti con la « storicità ») finisce col non aver più che la parte dello scolaretto o al più del «primo della classe »: in attesa che dalla fase pedagogico-etica si passi a quella, ancor più luminosa, di un disciplinamento da fabbrica: vera conclusione, a parte i residui patrio ttardi e a parte le mere frasi, dell'ultimo pensiero gentiliano, di quello dell'« umanesimo del lavoro» e della «eticità del nuovo Stato del lavoro ». E qui una ulteriore manipolazione dialettica permette di dare un crisma filosofico alla «socialità ». Dimenticando quasi il teorizzato lo quale atto puro assoluto, il Gentile scopre la legge in forza della quale l'Io per aver coscienza di sé deve « porre» l'altro da sé (gli altri individui) per poi riconoscersi in questi altri: donde la sua struttura intrinsecamente « sociale » ...

Possiamo concludere. A parte il fatto che nella fumosa filosofia del Gentile, che ha ridotto all'assurdo il pensiero del precedente idealismo trascendentale classico, invano si cercherebbe qualcosa che si rifaccia ad un piano superiore, non diciamo di spiritualità ma nemmeno di austera speculazione, nelle concezioni politiche del filosofo di Castelvetrano non vi è nulla che possa avere un qualche valore per un vero orientamento di Destra. L'epilogo comunista del già gentiliano Ugo Spirito indica piuttosto la tendenzialità immanente.

I « nostalgici» contemporanei, che non si limitano a tributare un doveroso omaggio all'uomo Gentile per il suo comportamento dopo il 25 Luglio, ma vogliano riproporre, nel quadro di un movimento ricostruttore, le concezioni gentiliane fondamentali dianzi analizzate e criticate, dimostrano una mancanza di capacità discriminativa, la quale, peraltro, purtroppo spesso è rilevahile anche in altri aspetti delle loro rievocazioni.

 

 

 

35. rené guénon e il "tradizionalismo integrale"

 

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In altra sede (ne La Destra, maggio 1972), abbiamo rilevato la necessaria relazione del concetto di una Destra autentica e non improvvisata con quello di Tradizione. Cosi dei riferimenti ad autori ad orientamento tradizionale possono essere utili, per affrontare una complessa problematica. Per intanto, vogliamo dare un ragguaglio sulle idee di René Guénon (1886- 1951), che è stato considerato come il propugnatore del «Tradizionalismo integrale ».

Il Guénon è già abbastanza conosciuto anche in Italia. Suoi libri sono stati tradotti prima della guerra, altri sono stati ripubblicati recentemente e a Torino esiste un gruppo guénoniano con una rivista che è un fac-simile della francese Études Traditionnelles, di cui il Guénon è stato pars magna e che esce tuttora a cura di guénoniani di stretta osservanza. Oggi il Guénon viene considerato come un maestro e un capo-scuola, e in Francia ha finito con l'essere accettato anche dalla cultura ufficiale e accademica, seppure con varie riserve.

L'opera del Guénon è complessa ma anche organica. Anzitutto è da considerare una critica radicale del mondo moderno, la quale si differenzia da quella di vari autori di ieri e di oggi per il suo avere un punto di riferimento positivo, che è il «mondo della Tradizione », mondo di cui quello moderno è l'antitesi. Come «tradizionale» viene descritto un tipo universale di civiltà che, in forme varie ma omologabili, si è realizzato più o meno compiutamente sia in Oriente che in Occidente.

La civiltà tradizionale - afferma il Guénon - ha punti di riferimento metafisici. È caratterizzata dal riconoscimento di un ordine superiore a tutto ciò che è umano e contingente, dalla presenza e dalla autorità di élites che traggono da questo piano trascendente i principi e i valori necessari per fondare una organizzazione sociale ben articolata, per aprire le vie verso una conoscenza superiore, infine per conferire alla vita un vero significato. Al polo opposto sta la civiltà moderna alla quale sono proprie una desacralizzazione in grande, il disconoscimento sistematico di tutto ciò che è superiore all'uomo, come individuo o come collettività, il materialismo, l'impulso a realizzazioni del tutto profane e temporali, un insano attivismo. I due libri del Guénon, La crise du monde moderne e Le règne de la quantité et les signes des temps, contengono l'essenziale di tale critica, ove temi già accennati da vari autori di ieri e di oggi acquistano un particolare mordente e un piu saldo fondamento. Essa è svolta anche nel libro Orient et Occident, ma associata ad assunzioni che nel frattempo sono divenute impugnabili. Infatti, se il Guénon riconosce - e non può non riconoscere - che civiltà di tipo tradizionale sono esistite sia in Oriente che in Occidente, nel libro ora accennato afferma che esse sono ormai reperibili nel solo Oriente (avendo in vista soprattutto l'India) e che un riferimento ad esse può essere efficace per una reintegrazione occidentale. Ora, questa tesi può essere valida al massimo pel retaggio sapienziale orientale, non certo per la fattualità dell'Oriente. Il Guénon era convinto del sussistere in Oriente, malgrado tutto, di gruppi tuttora depositari della Tradizione. Praticamente egli ebbe rapporti diretti propriamente col mondo islamico, dove vene iniziatiche (sufi e ismaelite) esistono tuttora accanto alla tradizione exoterica (cioè religiosa). Ed egli si « islamizzò» ad oltranza. Stabilito si in Egitto, aveva ricevuto il nome di sheikh Abdel Wahid Yasha ed anche la cittadinanza egiziana. In seconde nozze, sposò un'araba.

Il Guénon non fa misteri del fatto che dopo varie esperienze deludenti in ambienti « occultistici » francesi, grazie ad esponenti dell'Oriente riuscì a trovare la giusta via, quella della «conoscenza iniziatica» o «metafisica».

Tale sapienza fa da fondamento, dichiarato o implicito. alle dottrine esposte dal Guénon in vari libri, segnatamente in Le symbolisme de la Croix, Les états multiples de l'étre e L'homme et son de venir selon le Vedanta. Una riserva che qui s'impone, è che spesso quel che il Guénon presenta come una «metafisica» in un senso speciale trascendente, a parte la terminologia, in fondo poco si differenzia da quel che ha tale nome nella storia della filosofia profana occidentale e spesso si esaurisce in astrazioni piuttosto tediose, come ad esempio nel caso di tutte le dissertazioni sulla «Possibilità Universale» e simili. Purtuttavia resta valido ciò che il Guénon afferma, ossia che il razionale non è il limite noetico estremo dell'uomo e che la normale condizione umana può essere rimossa, l'uomo «non rappresentando, in realtà, che una manifestazione transitoria e contingente dell'essere vero ». Cosi, in via di principio, gli sarebbe possibile tendere verso un piano superiore in cui significando il conoscere essere la cosa conosciuta, con il conoscere l'individuo si trasforma e si integra. Analoga era l'antica concezione della «gnosi ». L'iniziazione sarebbe la via più diretta e regolare per una tale realizzazione. Il Guénon la distingue nettamente da tutto ciò che è semplice misticismo.

La Tradizione, in un primo senso, concerne l'insieme di questa conoscenza d'ordine «metafisico» e non semplicemente umano. Essa ammette una varietà di forme, pur restando una nella essenza. In relazione a tale unità il Guénon parla anche di una «Tradizione primordiale », Un concetto del genere era stato formulato prima di lui. Se ne trovano accenni nello stesso De Maistre, in un Fabre d'Olivet, ed in un certo modo di recente esso è stato accettato anche dal cattolico Padre Schmidt nella sua poderosa opera sull'« idea di Dio ». Propriamente, in questo concetto si deve però distinguere un aspetto metafisico da un aspetto storico. Per il primo aspetto, bisogna riferirsi a forme l'affinità delle quali non deriva da trasmissioni materiali e storicamente accertabili; una stessa legge può dar luogo a forme distinte ma corrispondenti e omologabili, come in diversi punti di una corrente possono formarsi vortici distinti aventi una stessa forma per effetto di una stessa legge e di una stessa situazione. Per il secondo aspetto, ci si deve riferire all'origine concreta comune e prima di un complesso di tradizioni, per il che il Guénon accetta l'idea di una «tradizione iperborea » situata all'inizio del presente ciclo di civiltà (segnatamente delle civiltà di ceppo indoeuropeo). Tale idea era stata già affermata da altri autori ad orientamento esoterico (ma anche nel campo profano. Herman Wirth nella sua grossa opera, di diseguale valore. Der Aufgang der Menschheit, aveva cercato di fondare tale idea). Tutto ciò porta alla tesi dell' « unità trascendente delle forme tradizionali» (in particolare, sull' « unità trascendente delle religioni» ha scritto in un libro F. Schuon, discepolo del Guénon). Una delle capacità attribuite a colui che si è innalzato fio no al sapere superiore di cui si è detto poco sopra, sarebbe quel. la di scorgere tale unità, come pure, per converso, quella di esprimere un dato contenuto nei termini dell'una o dell'altra tradìzione, cOSI come si può esprimere un concetto con parole della una o dell'altra lingua (simbolicamente, questo sarebbe il «dono delle lingue », e per un altro verso il fondamento di un « ecumenismo» essenziale, ben diverso da quello squallido e velleitario affacciatosi nel clima post-conciliare cattolico). Il Guénon ha dato prove concrete di possedere quella capacità, di là da quanto è proprio ad una mera erudizione.

Per la critica del mondo moderno il Guénon utilizza parimenti idee tradizionali. Per lui non fa dubbio che oggi ci si - trovi vicino alla fine di un ciclo, nel Kali-yuga o « età oscura» preconizzato dalle antiche dottrine indii ma previsto anche da altre tradizioni (per es. 1'« età del ferro» esiodea). Negazione, dunque di ogni fisima progressistica. Fuor dal campo materiale (dove, peraltro, esso esige spesso un altro prezzo), pel Guénon il progresso non è che una superstizione dell'uomo occidentale. Il Guénon è uno degli autori che hanno interpretato in un senso involutivo e decisamente antimarxista il corso della storia, indicandone propriamente il significato nei termini della cosidetta « regressione delle caste ». Il punto di riferimento qui è l'articolazione tradizionale della società in quattro caste o « classi funzionali »: al sommo, gli esponenti dell'autorità spirituale e sacrale, poi l'aristocrazia guerriera, poi la borghesia, infine le masse lavoratrici. Ebbene, una società retta dalla prima casta retrocede ormai in lontananze quasi mitiche. Il successivo regno della seconda casta si chiude col declino delle grandi monarchie. Subentra il regno del Terzo Stato, della borghesia, dell'industrialismo e del capitalismo. Infine l'emergenza della corrispondenza della quarta casta e la sua lotta pel dominio del mondo: marxismo e comunismo. Ogni interpretazione di Destra, antimarxista, del corso della storia dovrebbe far proprio questo schema essenziale, da noi stessi sviluppato in più occasioni.

Una delle tesi del Guénon è che una civiltà normale, ossia tradizionale, sarebbe caratterizzata dal primato della contemplazione e della conoscenza pura sull'azione, e tale è anche uno dei fondamenti della sua critica al mondo occidentale moderno, dove egli constata l'opposto, ossia la preminenza dell'azione. Questo è però proprio il punto in cui bisogna cominciare ad avanzare delle riserve. La contestazione può prender le mosse dall'indicazione della natura elettiva del potere che stava al vertice o al centro delle civiltà tradizionali. Non è esatto che esso fosse tenuto da élites che coltivassero la «contemplazione» o la «pura conoscenza» in termini più o meno sacerdotali. Storicamente, ciò non si verificò nemmeno nell'India, perché, pur avendo una civiltà prevalentemente brahmanica, essa conobbe dinastie regali e esponenti della casta guerriera in possesso del sapere tradizionale. In realtà, l'accennato vertice è caratterizzato piuttosto da una unità indivisa di sacralità e di regalità, di autorità spirituale e di potere temporale. A parte l'antica Cina e tutta una serie di altre civiltà antiche, quasi fino ad oggi il Giappone ha mantenuto tale livello, ed è significativo, per quel che riguarda le idiosincrasie del Guénon, che egli non si è mai riferito al Giappone e alla sua specifica « tradizionalità », perché non corrispondeva al suo schema.

La constatazione del carattere completamente desacralizzato e deviato dell'Occidente moderno non ha impedito al Guénon di considerare il problema di una sua possibile rettificazione, di un suo redressement. Partendo dalla convinzione, che se I'Occidente ha avuto una tradizione, essa ha corrisposto al cattolicesimo, egli a tale riguardo aveva visto come punto di partenza una integrazione «tradizionale» dello stesso cattolicesimo, per il che non aveva escluso l'opportunità di contatti anche con elementi orientali. Ma ancor prima che i recenti orientamenti post- conciliari del cattolicesimo indicassero lo stato di fatto (e qui sarà bene rilevare che 1'«ecumenismo» velleitario di tale cattolicesimo post-conciliare non ha nulla in comune con ciò che il «tra· dizionalismo integrale» aveva in vista), egli a tale proposito non si era fatte troppe illusioni; lo dichiarò anche in una lettera che ci scrisse, confessando che per principio si era sentito in dovere di non escludere certe possibilità, senza però attendersi dei risultati. Di fronte ad istanze del genere il cattolicesimo è rimasto insensibile, come lo era stato di fronte a quelle che, sia pure ad un livello assai più basso, a suo tempo aveva avanzato lo abbé Constant (alias Éliphas Lévi). L'unico risultato è che proprio attraverso il Guénon diversi cattolici sono giunti a penetrare il senso più profondo del cattolicesimo, dei suoi simboli e dei suoi dogmi. Purtroppo, non si tratta di persone che abbiano peso nelle gerarchie ufficiali e che quindi possano esercitare un'influenza di rilievo. D'altra parte un teologo cattolico rileverebbe probabilmente delle incompatibilità fra le verità della ortodossia e ciò che deriva dalla «metafisica» cui il Guénon si rifà, tanto da opporre une fin de non recevoir al «tradizionalismo integrale ».

Il Guénon era allergico per tutto ciò che è politica in senso stretto, ritenendo che non vi sia nessun movimento attuale a cui potesse aderire (acconsenti, però, eccezionalmente, che estratti di suoi scritti con la sua firma venissero pubblicati come articoli in una pagina speciale culturale da noi organizzata, unica nel suo genere, nel 19.34-1943, il «Diorama », del giornale Regime fascista di Cremona). Tuttavia, egli appartiene di pieno diritto alla cultura di Destra. Nel Guénon la negazione di tutto ciò che è democrazia, socialismo e individualismo disgregatore è radicale. Egli va anche più oltre, si porta in domini appena toccati dall'attuale contestazione di Destra; oppone alla scienza moderna e allo scientismo la conoscenza tradizionale e le «scienze tradizionali », non ha paura di rivalorizzare queste ultime dopo averne segnalato il vero senso, indicando non solo i limiti della conoscenza scientifica profana ma anche le devastazioni derivanti inevitabilmente dalla corrispondente visione del mondo e dalle applicazioni di essa. Una frase del Guénon riassume lapidariamente il senso dell'avventura a cui si è dato l'uomo occidentale a partire dal Rinascimento: «Si è staccato dai cieli con la scusa di conquistare la terra ». E si può citare qui il detto estremoorientale: «La rete del Cielo ha larghe maglie ma nessuno vi passa attraverso », quando egli indica il giuoco delle azioni e delle reazioni concordanti che ha condotto fino all'attuale «età oscura» (oscura, malgrado i suoi «putrescenti splendori », come dice H. Miller).

A parte ciò che riteneva possibile partendo da un cattolicesimo "integrato", per un'azione rettificatrice il Guénon si era riferito a quella che potrebbero esercitare delle élites intellectuelles. E' possibile che qui egli abbia avuto in mente il genere di quelle che già esercitarono - però in un senso opposto, sovvertitore - le cosiddette societés de pensée, fino alla Rivoluzione Francese e in margine alla massoneria. Ma anche se "intellettuale" nel Guénon non ha il senso corrente ed anche. se egli non si riferisce agli intellettuali di oggi, bensì ad una intellettualità d'impronta conservatrice e. tradizionale" pure quel concetto nelle condizioni attuali mantiene alcunche di astratto. Se mai, a noi sembrerebbe più adeguata la concezione. di. una specie di Ordine, riunente personalità fedeli a determinati principi, radicate nella spiritualità tradizionale ma anche in un più diretto contatto e confronto con la realtà e con le correnti storiche. Peraltro, quest'Ordine costituirebbe la spina dorsale di una vera Destra, e se i suoi membri, non tenuti ad ostentare questa loro qualità riuscissero a poco a poco ad occupare alcune posìzionì chiave nella società e nella cultura contemporanea, un'azione rettificatrice sarebbe possibile.

Tutto ciò, in via di principio, perché l'ambiente e gli uomini oggi sono tali da lasciare scarse possibilità a iniziative, di tal genere. Come ripiego, resta più o meno quel che Il Guenon ,aveva in vista ossia la formazione di centri di una intellettuahta. tradìzionale con un'azione da considerare realisticamente limitata al solo dominio culturale. Anche una tale azione non sareb~e da sottovalutare. Oggi è venuto abbastanza in voga parlare di una «cultura di Destra », senza però che risulti chiaro che cosa essa dovrebbe essere e senza che si possa evitare la sensazione di qualcosa di improvvisato. Comunque un suolo favorevole sembra essere presente, e varie iniziative editoriali lo .confermano. In questo contesto, una utilizzazione (però non pedissequa) del Guénon è auspicabile. Data la varietà e la molteplicità del. soggetti da lui trattati, sarà bene però lasciare da parte quelli che hanno una particolare relazione con l'esoterismo, la «metaflsica» e l'iniziazione. Benché in lui essi siano il fondamento ';llumo di tutto il resto, non vi è bisogno che, col metterli in primo piano, data la loro inusitatezza, si allarmi una certa cerchia di lettori e si forniscano pretesti per un ostracismo.

Certo, a parte il lato intellettuale vi è il lato esistenziale. Il sapere tradizionale, come si è detto, di rigore è anche realizzazione. L'assioma nietzschiano: «L'uomo è qualcosa che può essere superato », è anche il postulato della conoscenza superiore e - lo si è rilevato - parte dall'idea che lo stato umano della esistenza non va ipostatizzato, che esso è solo uno degli stati multipli dell'essere. Solo che si deve indicare quanto occorre per prevenire ogni distorta, sbagliata o rischiosa sua applicazione.

Delle considerazioni particolari su questo dominio realizzativo, con un esame del libro del Guénon Aperçus sur l'initiation, questa non è la sede più adatta. Noteremo solo che vi sono delle riserve da fare circa le possibilità che il Guénon quasi esclusivamente considera. Egli insiste sulla necessità del collegamento con una data «catena », con una data «organizzazione regolare », trasmettitrice di una influenza spirituale. Per un chiarimento, una analogia può essere offerta dalla consacrazione di un sacerdote da parte di un vescovo, amministratore delle influenze spirituali di cui la Chiesa si ritiene sia la depositaria. Nel caso del Guénon, quel collegamento deve essersi principalmente realizzato - come abbiamo detto - con «catene» islamiche. Ma a chi non se la sente di rimettersi a musulmani e ad Orientali, il Guénon offre assai poco. Chi ha letto, ne La Destra (marzo 1972), gli estratti di una corrispondenza che avremmo con lui, ricorderà che noi non abbiamo potuto seguire il Guénon nell'idea che la massoneria attuale, malgrado la sua degenerescenza (da lui ammessa), in via di principio resti una organizzazione dispensatrice di una iniziazione reale e non soltanto simbolica e rituale. Vi sono personalità in Occidente che hanno avuto di certo un rango di Maestri, quali ad esempio il Gurdjieff e, sulla cosidetta «Via della Mano Sinistra », Aleister Crowley. Oppure bisognerebbe cercare qualche sopravvivente ramo del cabbalismo operativo, che di nuovo non può considerarsi una tradizione occidentale. Naturalmente, le sette e le conventicole occultistiche, teosofiche, pseudo-rosicruciane, ecc., pullulanti ai nostri giorni rappresentano qualcosa di spurio e di inautentico, e non possono in alcun modo entrare in quistione. Così la situazione è dìfficile, il il problema per i più resta aperto e forse deve essere riformulato in termini diversi da quelli indicati dal Guénon.

Però il tema del "tradizionalismo integrale" può venir staccato da tale problematica ed essere utilizzato nello schieramento di una cultura di Destra.

 

 

 

36. cultura e libertà

 

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Recentemente vi sono state delle discussioni circa la «libertà della cultura »; argomento, questo, che ha la sua importanza ma che richiede alcune precisazioni.

In primo luogo, si dovrebbe precisare che cosa propriamente s'intende per «cultura ». Vi è stato chi, opportunamente, ha ricordato che nell'antichità il termine «cultura» ha significato prevalentemente la formazione di sé ed anche lo sviluppo delle proprie possibilità, in analogia con lo scopo di ogni «coltivazione ». Ciò, ovviamente, è cosa assai diversa dal «formarsi una cultura» o dall'avere una cultura, in tale caso potendo anche trattarsi di un fatto soltanto intellettualistico, senza nessuna incidenza esistenziale. Quando si tratta di una formazione di sé, per essa quasi sempre si è avuto un modello legato ad un dato tipo di civiltà, ad una tradizione, eventualmente ad una dottrina. In questo caso il margine di libertà, nel senso di arbitrarietà, è piccolo. È stato cosi, se consideriamo il tipo o ideale, ad esempio, del civis romanus, del saggio antico (specie del saggio stoico), del samurai, del cavaliere medievale, dello Junker prussiano e, se si vuole, del gentleman inglese. In tutti questi casi la formazione di sé ha avuto una direzione ben determinata.

Passando a considerare la cultura nel suo senso più corrente e ad esaminare la «libertà della cultura», bisognerebbe riprendere anzitutto la nota distinzione fra libertà «da qualcosa» e libertà «per che cosa». La prima è una libertà negativa e, in genere, il problema ha per presupposto l'esistenza di una coercizione O limitazione. Ad esempio, e In uno Stato totalitario che si può avanzare, protestando, l'esigenza di una cultura libera. Bisogna però riconoscere che tale Stato ha tutto il diritto di difendersi. Anzi la riserva la si potrebbe estendere. In clima di democrazia tutto è, in via di principio, lecito, non vi è una autorità che condanni o combatta una cultura, la quale può essere libera anche per agire in modo deprecabile e distruttivo. Beninteso, non si tratta di auspicare, di fronte a ciò, un regime di censura. Si tratta piuttosto di deplorare lo stato di fatto nel quale in certi casi potrebbe essere opportuno, malgrado tutto, perfino un tale regime sempreché sia adottato con intelligenza, con misura e con discernimento.

 La cosa più importante è però l'opporre al clima della democrazia, quello di una civiltà di tipo organico. Una tale civiltà non conosce la dissociazione del particolare. Un autore tedesco, Christof Steding, in una sua opera notevole intitolata Das Reich und die Krankheit der europdiscben Kultur (Il Reich e la malattia della cultura europea) ha indicato partitamente il processo di degenerescenza verificatosi quando domini particolari, in precedenza ripresi in un ordine unitario o riflettenti tutti un unico impulso, si sono autonomizzati dissociativamente, divenendo, per cosi dire, tante zone «neutre ». Nel riguardo, egli ha potuto parlare di una specie di «svizzerizzazione» dell'Europa e della sua cultura. Il punto fondamentale è rilevare, in tale stadio, l'inesistenza di un centro al quale potrebbe anche corrispondere l'idea di «impero» (Reich), anche se non inteso in un senso politico e materiale ma almeno nei termini di un centro di animazione e di gravitazione in una data realtà storica: cosi come poté accadere, in una certa misura, nell'ecumene medievale occidentale.

Qualora tale sistema organico esistesse, la libertà della cultura presenterebbe un carattere peculiare: il carattere, dianzi accennato, di «libertà per qualcosa ». Si può condividere perfino, in parte, ciò che un marxista, il Lucàks, dice, quando stigmatizza una cultura superficiale, inconsistente, «invertebrata », ad uso e consumo del bravo borghese, poco piti che nei termini di un passatempo che serva anche per «dignificarlo» e renderlo «distinto ». Per formulare una simile accusa non è necessario essere un marxista. La si può avanzare anche come uomo della Destra ed è una idiozia pretendere che si possa essere « impegnati); nella cultura nel solo senso, squallido e triviale, del marxismo, che non si possa esserlo anche nel senso opposto.

Ebbene la cultura in questa diversa prospettiva dovrebbe essere libera in termini creativi ed organici. Dovrebbe, cioè, assumere e sviluppare i contenuti di una civiltà organica, naturalmente senza una qualsiasi determinazione estrinseca, ossia senza una determinazione che non sia quella, quasi insensibile, dovuta soltanto ad una generale sintonia. Per un paragone, ci si potrebbe riferire ad un processo di crescenza, il quale non ha nulla di arbitrario. Ci si è abituati troppo a confondere ciò che è libero con ciò che è arbitrario in un senso individualistico: con ciò che è privo di radici profonde. La mentalità moderna è fin troppo proclive ad una tale deprecabile confusione, la quale, tuttavia, è propiziata dalla stessa situazione generale nella quale ci si trova al giorno d'oggi. Peraltro, per posìziont dì tipo opposto si dovrebbe considerare come un presupposto un tipo umano che conoscesse anzitutto la «cultura» nel senso indicato al principio, ossia nel senso di autoformazione,. di disciplina, perché è solamente in lui che la libertà può acquistare un carattere positivo.

Una cultura anarchicamente libera può essere l'origine di quasi altrettante calamità, di quante. ne è stata la famigerata «libertà di stampa », con un giornalismo capace di tutto, invadente impertinente, sobillatore, partigiano. Naturalmente, qui si dovrebbero distinguere diversi settori. È evidente che nel settore della narrativa e della saggistica il problema non si pone, se non nel campo pratico: non in quello della composisione. ma in quello della pubblicazione, perché, come si sa, nella critica e nell'editoria esistono delle combriccole ben organizzate e pootenti le quali possono rendere effimera la conclamata libertà degli autori bloccandone le sue estrinsecazioni, l'espressione e la diffusione. Tuttavia, considerando certa cultura consumìstica, si può constatare che essa di libertà ne ha finché vuole e che essa se ne prende sempre di più non riconoscendo limiti né convenzioni valide di sorta. Cosi vi è una cultura che in fondo non meriterebbe nemmeno tale nome. Esiste poi una cultura a carattere informativo, la quale serve, come si suol dire, .per «arricchire la mente », e vi è una cultura a carattere specialistico la quale, naturalmente, non deve conoscere vincoli. Per la prima, tuttavia, potrebbe porsi sia il problema di ciò che è veramente degno di essere conosciuto, sia il problema di ciò che è pericoloso che sia conosciuto. Se ben ricordiamo, è il De Maistre che, sia pure riferendosi ad un contesto diverso, ha parlato del «ritirarsi» di certe conoscenze dopo che esse rivestirono, per 1a maggioranza, il carattere di un fuoco che serviva più a bruciare che non ad illuminare. Ma oggi vige la strana superstizione che l'umanità sia divenuta «adulta », e quindi che tutto deve essere accessibile a tutti, mentre solo che si pensi al potere che nel nostro mondo hanno la pubblicità, gli slogan, le parole d'ordine, appare evidente che i nostri contemporanei dimostrano una notevole passività, che essi hanno una scarsissima capacità di discriminazione e di vera reazione. A che cosa possa condurre, a questa stregua, la «libertà» anche nel campo intellettuale e culturale, non è necessario specificarlo.

 La conclusione di queste nostre brevi considerazioni rimanda a quanto abbiamo detto al principio: il problema dovrebbe essere impostato in termini assai più ampi, ossia in relazione ad un dato tipo di civiltà e di società, tipo che purtroppo oggi può dirsi pressoché inesistente, perché dò che oggi regna o predomina è il massificato, non ciò che è organico e differenziato, che abbia una forma interna nel senso vivente goethiano. Tutto essendo collegato, tale stato -di fatto si ripercuote inevitabilmente anche sul problema della libertà e della libertà della cultura. È facile capire che noi riteniamo che quando un «sistema» esiste (e si lascia che esista), affermazioni sporadiche di libertà, malgrado un certo loro valore morale dimostrativo, sono inconcludenti e inoltre vi è pericolo che esse siano dettate solo dalla smania di spiccare e di autovalorizzarsi di certe individualità, il che le priva di ogni serio significato. Di ciò crediamo che sia il caso per certi inalberamenti anticonformistici di «intellettuali» e di letterati nell'Unione Sovietica, cui non ci sentiamo di dare troppa importanza, come invece nel mondo occidentale «libero» generalmente si fa. Giungeremmo a dire che vi è perfino qualcosa di isterico, in queste manifestazioni di insofferenza. Esse non hanno che un carattere periferico. È invece ad un'azione d'insieme sul piano del reale, che si dovrebbe dare la parola.

Se un rivolgimento, oggi non prevedibile, andasse a cambiare la situazione spirituale e intellettuale, anche la problematica su cui qui abbiamo portato l'attenzione si presenterebbe in moassai diverso e non vi sarebbero dubbi circa quel che, per ciò che riguarda la cultura, può rivestire un carattere di normalità: di normalità, naturalmente, in un senso superiore.

 

 

 

37. la destra e la cultura

 

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Oggi si parla abbastanza spesso di una «cultura di Destra », tanto che sul fronte opposto vi è stato un certo allarme. D'altra parte, vi sono degli autori i quali agiscono e parlano come se questa cultura fosse qualcosa che loro stessi hanno oggi fabbricato o inventato. Ora una vera cultura di Destra noi non sapremmo concepirla senza un qualche riferimento ad una tradizione, e in una opportuna distanza dall'individualismo. È proprio all'uomo della sinistra, al rivoluzionario e al « progressista », il valorizzare il nuovo senza una qualche continuità o connessione organica.

Se non si vede chiaro questo punto, vi è pericolo che la cultura di Destra di cui si sta parlando in Italia, almeno in parte si riduca ad una semplice formula. Cosi vi è chi ha ritenuto che il fenomeno sia stato sopravvalutato, e che le apprensioni dimostrate dalla cultura predominante, che è di sinistra e che dispone di una ideologia abbastanza precisa, siano ingiustificate. Ora, mettendo da parte quegli autori che oggi prospettano le cose quasi come se la cultura di Destra fosse una loro invenzione lanciata sul mercato delle idee, il compito di dare ad essa un contenuto positivo uscendo dalle generalità non è di facile soluzione. Abbiamo detto «positivo », perché una definizione basata solamente su ciò che si respinge, si critica e si avversa, non può bastare.

Del resto, questo compito e questa difficoltà si presentano egualmente nei riguardi non solo della «cultura» di Destra, ma anche della Destra in genere come schieramento politico e visione del mondo (la Destra economica si deve ovviamente lasciarla da parte: nel presente contesto essa non presenta alcun interesse). Infatti, per la Destra politica, a che cosa ci si può riferire in Italia, come antecedente? È esistita, SI, la cosidetta «Destra storica »: ma se giustamente si deve tributare un riconoscimento alla figura e all'attività di un Crispi, di un Di Rodinò, e di altri pur degni personaggi del tempo, si deve anche convenire che questa Destra, per il clima stesso in cui si trovò l'Italia post-risorgimentale, non era da paragonarsi in alcun modo con ciò che è stata la Destra conservatrice, ad esempio, dell'Europa centrale, dove essa poté riferirsi a precise tradizioni e a non meno precise articolazioni sociali, dato che le influenze ideologiche derivanti dalla Rivoluzione Francese avevano preso in tali paesi ben poco piede. Ancor oggi in Italia, per una Destra integrale e tradizionale mancano purtroppo i presupposti. Infatti il suolo ad essa congeniale non può essere quello della democrazia e, di rigore, nemmeno quello di una repubblica. A noi riesce assai difficile concepire una vera Destra se non esiste una monarchia e, solidale con essa, una aristocrazia come classe politica. Una Destra che si riduca ad un nazionalismo generico e alla difesa dei valori propri ad una società borghese - cattolica o meno - non è che una Destra assai approssimativa.

Quanto ad una cultura di Destra, anch'essa non può non risentire, in Italia, della situazione generale culturale, politica e sociale. Per respingere l'accusa o l'insinuazione che ciò che oggi viene presentato come cultura di Destra sia un fenomeno di congiuntura, occorrerebbe indicare degli antecedenti, i quali però sono sporadici. Per alcuni sembrerebbe naturale riferirsi al periodo fascista. Però allora sarebbe d'uopo fare delle distinzioni, perché resta da vedere in quale misura il fascismo, complessivamente, può venir considerato come un puro movimento di Destra; circa questo punto, potremmo rimandare al contributo costituito da un nostro studio, che si intitola appunto Il Fascismo visto dalla destra, edito da Volpe. Se nella cultura del precedente periodo cerchiamo qualche antecedente, si potrebbe considerare, ad esempio, lo storico Gioacchino Volpe, e resta sempre una figura di primissimo piano l'anticonformista e antidemocratico Vilfredo Pareto. La corrente corradiniana vorremmo invece metterla da parte, il nazionalismo politico essendo il suo tratto predominante (un certo nazionalismo può essere perfino l'antitesi della Destra). Nel campo della pubblicistica posizioni abbastanza precise erano st~te difese più di recente da G.A. Fanelli, vivace scrittore monarchico e tradizionalista, direttore di una rivista e autore di un libro dal titolo Vighiaccherie del XX secolo. Intorno a lui si era formato un piccolo gruppo abbastanza affiatato, del quale facevano parte, tra gli altri, Nino Serventi e Nino Guglielmi. Malvolentieri dovremmo poi menzionare la nostra personale attività svolta in quel periodo (il nostro libro Rivolta contro il mondo moderno, decisamente di Destra, usci in prima edizione nel 1933). Il gruppo dei collaboratori della pagina speciale di Regime Fascista, che s'intitolava «Diorama », era certamente formato da esponenti di una vera e propria cultura di Destra, ed è degno di rilievo che ad essi si fossero uniti collaboratori stranieri aventi lo stesso orientamento. Oggi Giuseppe Prezzolini ha cercato di far valere il suo passato di conservatore, ed ha anche recen.temente pubblicat.o un volumetto ave sono enunciate le sue tesr sul conservatorismo; ma sinceramente non ci sentiamo di prenderlo troppo sul serio. Diversi altri riferimenti ad una autentica tradizione culturale di Destra potrebbero comunque essere indicati.

Per quel che riguarda l'attualità, sarebbe opportuno verificare da presso le «credenziali» di coloro che vengono generalmente considerati come esponenti della cultura di Destra, perché è facile applicare delle etichette senza esaminar troppo il contenuto. Si sa che quando si ha il senso che qualcosa guadagna terreno, sono frequenti le aggregazioni e perfino le « conversioni ». Come un ese~pio perspicuo ricordiamo quello che accadde al momento del rivolgimento «razzista» del fascismo: tutta una serie di pubbjicisti si accorse improvvisamente, dall'oggi al domani, di essere «razzista». E il bello è, occorre aggiungere, che questi stessi signori sono oggi fra i democratici e gli antifascisti. .

Oggi occorre ancora, in un intellettuale, un certo coraggio per dirsi di Destra: riconoscimento doveroso, che però non tocca la quistione specifica, oggettiva, di merito. Noi poi chiederemmo che si partisse da una visione generale, dai tratti precisi, della vita e della stessa storia, venendo a tutto il resto solo consequenzialmente. Non è quel che si può sempre rilevare nella pretesa cultura di Destra di oggi, mentre, come si è detto, i collegamenti con degli antecedenti sono pressoché inesistenti. Non si può non riconoscere che certi atteggiamenti non fanno apparire del tutto ingiustificata l'accusa che il tutto si riduca a qualcosa di fabbricato ei di improvvisato. La circostanza, che il clima culturale prevalente in Italia non è stato tale da fornire appoggi consistenti, può valere solo come una attenuante. Lo stato di fatto è che vi è un vasto campo di lavoro: l'avere un giusto e serio orientamento,il rifuggire dalle improvvisazioni, saranno a tale riguardo i fattori decisivi.

 

 

 

38. prospettive della cultura di destra

 

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Parlare di «cultura di Destra », oggi è abbastanza in voga. Non riesce però facile bandire il sospetto, che tutto si riduca ad un «fenomeno di congiuntura ». Data l'avanzata che nel campo politico la Destra ha registrato, evidentemente si cerca di mettere su come che sia una sua controparte culturale. Tuttavia ciò fa sorgere diversi problemi.

Come osservazione preliminare, l'introdurre un concetto politico, come quello di Destra, nel campo della cultura non ci sembra molto acconcio. È sul terreno, più concreto ed oggettivo, di una morfologia della cultura che ci si dovrebbe muovere, definendo poi l'orientamento e i compiti propri ad un dato tipo di cultura. Ciò, tanto più, che per l'Italia sarebbe difficile rifarsi ad una tradizione e che non è certo il caso di pensare che nell'attuale clima repubblicano e democratico l'auspicata cultura possa avere i caratteri di qualcosa di cresciuto organicamente.

Inoltre è sul concetto stesso di cultura che bisognerebbe intendersi. Qui si dovrebbero distinguere tre domini: quello della formazione spirituale, quello della creatività (letteratura, romanzi, teatro, in parte film) e quello delle idee e della dottrina. Al che si aggiunge il problema di precisare la funzione della cultura che si ha in vista e i rapporti di essa con strati sufficientemente estesi della popolazione.

Circa il primo dominio, ossia quello creativo, esso è tale da non sopportare formule e ricette, ogni produzione autentica e valida dipendendo essenzialmente dalla esistenza di un clima corrispondente. L'inconsistenza di una creatività arnsnca «su misura» o comandata, è risultata, ad esempio, dalla nullità della produzione nel quadro del cosidetto «realismo marxista» o «social~sta ». Potrebbe però venir sempre incoraggiata una certa produzione avente un carattere intrinsecamente contestatore. Cosi i segni SI mvertono: mentre finora la contestazione è stata prevalentemente una prerogativa di elementi di sinistra, oggi essa dovrebbe esser condotta dalla Destra. Né si dovrebbero dimenticare - come invece oggi si fa - i grandi contestatori aristocratici di ieri, a partire da Federico Nietzsche, in quelle sue idee che in questo contesto possono essere sempre valide.

La «cultura» classicamente (vedi Cicerone o Seneca) non ebbe il senso né di erudizione, né di intellettualismo ma di formazione spirituale e caratteriale della persona. A riprendere tale significato, in un dominio particolare si profilerebbe, per una cultura di Destra, il compito di indicare modelli o ideali umani in una formulazione che assicuri loro un valore normativo e una reale forza suggestiva. Oggi vi è veramente un gran bisogno di persone che non chiacchierino, «scrivano », discutano, ma comincino con l'essere. Una loro autorità e un loro prestigio ne sarebbe la naturale conseguenza, con effetti altrimenti difficilmente raggiungibili.

Nel secondo dominio, quello delle idee e delle dottrine, precisare per settori il contenuto di una cultura di Destra è necessario ed è possibile. A parte l'appellativo congiunturale «di Destra », nell'essenza ci si dovrebbe riferire ad orientamenti intellettuali e critici preesistenti che si tratterebbe di riprendere e di sviluppare ulteriormente. L'attacco contro il marxismo sarebbe ovvio ma in una certa misura può dirsi scontato. Sono rari coloro che si teng.on? ancora ai logori dogmi del marxismo: il quale, se oggi cosntuisce un pericolo, non lo è sul piano culturale ma essenzialmente su quello politico pratico, dove per combatterlo è richiesta non la polemica ma un'azione risoluta. Comunque l'esistenza di una specie di sottobosco marxisteggiante non può essere ignorata; esso va decisamente smascherato e denunciato.

In una cultura di Destra può rientrare una critica della scienza e dello scientismo, le collusioni dei quali col marxismo sono note. La «smitizzazione» della scienza è un compito assai importante, e in una prospettiva più vasta bisognerebbe soppesare, da una parte, l'apporto positivo della scienza nel campo materiale, dall'altro la controparte, rappresentata dalle distruzioni spirituali derivanti dalla visione scientifica del mondo.

Uno dei campi più importanti di lavoro per una cultura di Destra è quello della storiografia. È un fatto che da noi la storiografia è stata scritta, quasi senza eccezione, in chiave antitradizionale, massonico-liberale e più o meno «progressista ». La cosidetta «storia patria », e non soltanto la più stereotipa, è caratterizzata dal mettere in risalto e dall'esaltare come «nostra» storia tutto ciò che nel passato ha avuto un carattere prevalentemente antitradizionale: ciò, partendo dalla stessa rivolta dei Comuni contro l'autorità imperiale, fino a quegli aspetti del Risorgimento che ebbero innegabili relazioni con le idee dell'89 e, per ultimo, all'intervento nella prima guerra mondiale. Qualcosa del genere va detto non solo per la «storia patria» ma anche per la storia in genere.

Qui purtroppo manca una nostra tradizione, mancano antecedenti nostri da riprendere e sviluppare. Inutile sforzarsi per trovarne. Vi è chi ha fatto i nomi di Machiavelli e di Vico, che non sappiamo per che cosa essi possono rientrare in questo contesto, mentre il materiale di cui disponevano era diverso e limitato. Da Vico si può desumere al massimo l'interpretazione in senso involutivo della storia, la discesa delle civiltà dal livello già proprio a quelle che egli chiamava le «genti eroiche », verso una barbarie. Però in Vico ciò si connette con la teoria dei cicli e dei «corsi e ricorsi» storici, alcunché di analogo valendo anche per le teorie, più aggiornate, di Oswald Spengler, col suo «tramonto dell'Occidente »,

Da Machiavelli, non sappiamo proprio che cosa mai si possa prendere, per una storiografia di Destra. E contro alcuni, i quali, a parte la storiografia, vorrebbero far rientrare in genere Machiavelli fra «i nostri », fra i pensatori di Destra, noi dobbiamo avanzare precise riserve. Non per caso Machiavelli ha dato il suo nome al «machiavellismo », ed anche a lasciar da parte l'aspetto piti triviale di esso, ossia l'uso spregiudicato dei mezzi pur di raggiungere un dato fine, prenderemo questa occasione per dire che non ce la sentiamo per nulla di definire come di Destra la semplice «maniera forte », un potere che si afferma recisamente, quando codesto potere sia informe, privo di un crisma e di una superiore legittimazione: altrimenti vi sarebbe pericolo di dover includere non pochi regimi d'oltre cortina. Qui andrebbe considerato, in genere, il fenomeno della dittatura con pieni poteri. A tale riguardo il punto di vista giusto ci sembra essere quello dell'anti~a Roma la quale considerò la dittatura solo per situazioni di emergenza e non come una istituzione permanente: altrimenti essa si sarebbe confusa con le tiranni di della Magna Grecia. Riferendoci all'attualità, in termini analoghi possono venir considerati i «regimi forti» e autoritari della Spagna e della Grecia, pur riconoscendo pienamente la loro contingente ragion d'essere.

Per una considerazione di Destra della storia in genere, a parte spunti reperibili in un Burke, in un Butler, in un De Tocqueville e in un De Maistre - spunti che però si dovrebbero sviluppare in vista di un mondo diverso - l'unico contributo valido che noi conosciamo è il libro di L. de Poncins e di E. Malinski, intitolato La Guerre Occulte e tradotto anche in italiano. Esso è illuminante nell'indicare i processi, spesso svoltisi dietro le quinte della storia, che hanno portato alla disgregazione del mondo tradizionale europeo. Purtroppo l'esposizione si arresta all'avvento del bolscevismo. Per giungere fino ad oggi, resta pertanto un periodo abbastanza lungo, particolarmente denso di avvenimenti, nel quale l'analisi dovrebbe venir continuata con lo stesso spirito conservatore, tradizionale e di Destra di quei due autori.

Anche la sociologia offre al pensiero di Destra un importante campo di lavoro. Infatti tale disciplina, anche quando non è svolta in chiave apertamente marxista, ha sempre una componente pervertitrice, la riduzione del superiore all'inferiore, e le correnti sociologiche d'Oltre Oceano di ciò danno esempi precipui. La stessa antropologia, nel senso di teoria generale dell'essere umano, dovrebbe valere come un ulteriore, importante oggetto. Ad esempio, qui si dovrebbe studiare l'orientamento, purtroppo assai diffuso e acriticamente accettato, che è proprio della psicanalisi, per rilevarne e contestarne la concezione mutila e distorta dell'uomo che ne costituisce il fondamento.

Possiamo considerare altri due campi. In primo luogo, si tratta di una adeguata considerazione del mondo della preistoria e della protostoria, del mondo antico e «mitico », da sottrarre ai pregiudizi e all'incomprensione della gran parte della cultura accademica. È qui che Vico, in parte, può indicare la via. Un infinitamente più valido contributo l'ha però dato, nel secolo scorso, lo svizzero J. J. Bachofen con i suoi studi sulle religioni antiche e i simboli primordiali. Tali studi del Bachofen hanno una importanza particolare, perché vengono anche considerate le connessioni del mondo sociale e politico con quello del sacro e del mitologico (un altro contributo nello stesso senso è ~a nota opera di Fustel de Coulanges La Cité Antique). Uno studio comparato delle religioni e delle civiltà potrà inquadrare ricerche del genere, e a tale riguardo basi valide potrebbero esser fornite anche dal cosidetto «tradizionalismo integrale» della scuola di René Guénon.

Nel secondo dei campi dianzi indicati, non privo di relazione con ciò che abbiamo or ora considerato, va presa posizione contro coloro che, per una male intesa esigenza di realismo. e di chiare~za, se la prendono con tutto ciò che è esoterismo, ssimbolo e mito, facendo di ogni erba un fascio e praticamente finendo m una specie di illuminismo o razionalismo piatto e scialbo. Si è che la ristrettezza della mentalità e degli orizzonti di costoro impediscono loro di riconoscere che esiste anche una chiarezza sovrarazionale e la possibilità di svestire simboli e miti fino a farne risultare contenuti reali, seppure di un ordine superiore. Essi credono di sgombrare il campo, invece creano deprecabili confusioni, col discredito che essi pensano di spargere su una certa Iinea di pensiero; chi li seguisse sul serio, si ritroverebbe solo nello squallore proprio ad un mondo privo della terza dimensione, ossia della dimensione della profondità.

Veniamo all'altro dei punti dianzi accennati, cioè alla posizione che di fronte ad un vasto pubblico dovrebbero assumere la cultura di Destra - quale pur ne sia la precipua definizione - e i rappresentanti di essa. È stato affermato che tale cultura dovrebbe aprirsi ad ampi strati della popolazione, ~on essere es~l~sivista e «aristocratica ». Secondo nOI, questa e una assurdità, quasi una contra dizione in termini. Non. pensiamo. a .ch~usure artificiali, ma escludiamo qualsiasi concessione che implichi una caduta di livello. Le preoccupazioni «sociali» debbono essere estranee ad una vera cultura di Destra, il che non equivale affatto a chiudersi in un individualismo sul tipo di quello fin de siècle. Certe posizioni debbono essere mantenute, nel senso di «presenze» e di testimonianze. La loro possibile influenza non dipende da chi le difende - da un loro «darsi da fare» - ma dagli altri. Come secondo la funzione attribuita da Iulien Benda ai clercs prima del loro «tradimento », si tratta essenzialmente di stabilire delle distanze, dovessero pur essere distanze da «convitati di pietra ». La prima distanza è quella fra «essere» e « benessere» e quella fra la cultura nel senso caratteriale e esistenziale dianzi indicato, t! il vivere alla giornata, sbandati, alla mercè delle suggestioni, delle ideologie politico-sociali del momento e dei condizionamenti alienanti dell'ambiente in genere. I! contrasto deve esser fatto risultare mediante la posizione di un ordine superiore di valori, assai diversi da quelli che il Marcuse ha saputo proporre ispirandosi pesantemente a Freud, dopo la sua critica al vigente sistema.

Il resto, non è affar nostro. Si tratta della sensibilità e della capacità di una reazione positiva di cui eventualmente lo strato più vasto del pubblico può ancora essere capace o che in esso può ridestarsi, Un effetto potrebbe essere la percezione della distanza fra ciò che « è » e ciò che avrebbe diritto ad essere· se non altro essa varrà ad impedire che non solo si aderisca alla' realtà di oggi: ma se ne faccia anche l'apologia, la si consideri come ciò che « deve essere ». Se poi, partendo da questa coscienza - potremmo anche dire: da questo risveglio - si reagirà, avverrà automaticamente l'apertura a quanto una cultura di Destra negli altri vari suoi aspetti può offrire. L'azione di questa azione «anagogica» sarà naturale, diversa da quella diretta di chi fa propria la formula dell'« impegno» in un senso esteriore, sociale, che finisce con lo stare sullo stesso piano della democrazia. Essa non comporterà nessuna menomazione della dignità degli esponenti della cultura in quistione.

L'ambiente attuale non rende facile concepire tutto ciò. Si può solo aspettare un cambiamento graduale, pel beneficio non proprio ma degli altri.

Per ultimo, e non senza una certa relazione con ciò vi è da contestare di nuovo il carattere di «individualismo» che si vorrebbe attribuire, in questo contesto, ad una posizione «aristocratica », designazione, questa, che comunque non ci impaurisce per nulla. Qui non si tratta del campo delle lettere e delle arti, nel quale, del resto, 1'« ermetismo» a parte, l'individualismo è stato più creativo di ogni orientamento socialeggiante. Nel campo che invece qui entra in quistione 1'«aristocraticità» non ha a che fare con l'individualismo, si basa invece sulla personaltà nelle forme più alte della sua realizzazione e della sua esplicazione. È curioso che una simile confusione sembra che si sia voluta farla anche nei confronti delle nostre idee, l'unica scusante a tanto potendo essere, al massimo, un riferimento in acconcio alla problematica e alla terminologia di nostre opere abbastanza lontane aventi un carattere assai tecnico e specializzato, di « gnoseologia ». Ma se si considera tutta la parte che in quelle nostre opere,. che nel presente contesto possono entrare sensatamente in acquisizione: è stata data alle idee di autorità e di gerarchia, e evidente che ci trova fuori da qualsiasi individualismo.

 

 

 

39. storiografia di destra

 

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Nello svolgere alcune considerazioni sul significato europeo che si può attribuire a Donoso Cortés, interessante figura di uomo politico e di pensatore spagnolo, che sviluppò la sua attività nel periodo dei primi moti rivoluzionari e socialisti europei, un noto storico tedesco, Carlo Shmitt, ha rilevato che mentre da allora le sinistre hanno elaborato sistematicamente e perfezionato una loro storiografia come sfondo generale per la loro azione distruttiva, nulla di simile si è verificato nel campo opposto, in quello della Destra, qui il tutto riducendosi a qualche saggio sporadico in nessun modo paragonabile, per coerenza, radicalismo e ampiezza di orizzonti, a ciò che in tale dominio il marxismo e la sinistra da tempo posseggono.

In gran parte, questo è giusto. In effetti, l'unica storia nota ai più e che fa testo, esclusa quella d'intonazione marxista, è essenzialmente d'impostazione e di origine liberali, illuministiche e massoniche. Essa si rifà a quelle ideologie del Terzo Stato che hanno solo servito a preparare il terreno ai movimenti radicalisti di sinistra, avendo esse stesse un fondo essenzialmente antitradizionale. Una storiografia di Destra aspetta ancora di essere scritta, e ciò costituisce un nostro titolo d'inferiorità rispetto alle ideologie e all'azione di agitazione delle sinistre. In particolare, alla lacuna non può supplire nemmeno la cosidetta «storia patria» corrente, perché a parte certe sue eventuali colorature nazionali e le rievocazioni commosse di avvenimenti e di figure eroiche, risente essa stessa, in larga misura, delle suggestioni di un pensiero che non è di vera Destra e, soprattutto, perché non può stare a confronto, quanto ad ampiezza di orizzonti, con la storiografia di sinistra.

Questo è il punto fondamentale. Di fatto, si deve riconoscere che la storiografia di sinistra ha saputo portare lo sguardo sulle dimensioni essenziali della storia; di là dai conflitti e dai rivolgimenti politici episodici, di là dalla storia delle nazioni, essa ha saputo scorgere il processo generale e essenziale realizzatosi negli ultimi secoli, nel senso del trapasso di un tipo di civiltà e di società ad un altro. Che la base dell'interpretazione sia stata, a tale riguardo, economicistica e classista, ciò non toglie nulla all'ampiezza del quadro d'insieme tracciato da detta storiografia. La quale, come realtà essenziale di là da quella contingente e particolare, ci indica, nel corso della storia, la fine della civiltà feudale e aristocratica, l'avvento di quella borghese, liberale, capitalistica e industriale e, dopo di questa, l'annunciarsi e l'incipiente realizzarsi di una civiltà socialista, marxista e infine comunista. Qui la rivoluzione del Terzo Stato e quella del Quarto Stato vengono riconosciute nella loro naturale concatenazione causale e tattica. L'idea di processi sovraordinati ai quali, senza volerlo né saperlo, hanno servito gli egoismi più o meno «sacri» dei popoli, le rivalità e le ambizioni di coloro che hanno creduto di « fare la storia» senza uscire dal campo del particolare, tale idea viene senz'altro considerata. Si studiano appunto le trasformazioni d'insieme della struttura sociale e della civiltà che sono l'effetto diretto del giuoco delle forze storiche, relegando giustamente la storia delle nazioni nella semplice fase «borghese» dello sviluppo generale. (In effetti, le «nazioni» non si sono affacciate nella storia come soggetti di essa che a partire dalla rivoluzione del Terzo Stato e come conseguenza di essa).

Misurata con la storiografia di sinistra, quella propria ad altre tendenze appare dunque superficiale, episodica, bidimensionale, talvolta perfino frivola. Una storiografia di Destra dovrebbe abbracciare gli stessi orizzonti della storiografia marxista, con la volontà di cogliere il reale e l'essenziale del processo storico svoltosi negli ultimi secoli, fuor dai miti, dalle sovrastrutture ed anche della piatta cronaca. Ciò, naturalmente, invertendo i segni e le prospettive, vedendo cioè nei processi essenziali e convergenti della storia ultima non le fasi di un progresso politico e sociale bensì quelle di un generale sovvertimento. Come è logico, anche la premessa economico-materialista andrebbe eliminata, riconoscendo come mere finzioni l'homo oeconomicus e il presunto determinismo inesorabile dei vari sistemi della produzione.

Forze ben più vaste, profonde e complesse sono state e sono in azione nella storia. E, quanto ai particolari, anche il mito del cosidetto «comunismo primordiale» va respinto, e ad esso va contrapposto, per le civiltà che precedettero quelle di tipo feudale e aristocratico, l'idea di organizzazioni basate prevalentemente su un principio di autorità spirituale, sacrale e tradizionale. Ma, a parte questo, ripetiamolo, una storiografia di Destra riconoscerà, non meno di quella di sinistra, la successione o concatenazione di fasi distinte generali, supernazionali, le quali hanno condotto regressivamente fino al disordine e ai sovvertimenti attuali: e questa sarà, per essa, la base per l'interpretazione dei singoli fatti e rivolgimenti, sempre attenta all'effetto da essi prodotti nel quadro complessivo.

Qui è impossibile indicare, nemmeno con qualche esempio, tutta la fecondità di tale metodo, la luce insospettata che esso getterebbe su una quantità di vicende. I conflitti politico-religiosi del Medioevo imperiale, l'azione scismatica costante della Francia, i rapporti fra Inghilterra e Europa, il vero senso delle « conquiste» della Rivoluzione Francese e via via fino ad episodi che a noi interessano particolarmente, come il volto effettivo della rivolta dei Comuni, il doppio aspetto del Risorgimento quale movimento nazionale, azionato però da ideologie del Terzo Stato, il significato della Santa Alleanza e degli sforzi di Metternich - l'ultimo grande europeo -, poi quello della prima guerra mondiale con l'azione di rimbalzo delle sue ideologie, la discriminazione del positivo e del negativo nelle rivoluzioni nazionali che ieri si affermarono in Italia e in Germania, e via dicendo, per giungere infine ad una visione conforme alla nuda realtà delle vere forze oggi in lotta per il controllo del mondo - ecco una scelta di argomenti suggestivi, fra i tanti, a cui potrebbe applicarsi la storiografia di Destra, rivoluzionando le vedute che i più sono abituati ad avere su tutto ciò per effetto della storiografia di opposto orientamento, ed agendo in modo illuminante.

Una storiografia cosi impostata, guardante dunque all'universale, sarebbe poi particolarmente all'altezza dei tempi se è vero che, per effetto di processi oggettivi irreversibili, oggi si profilano sempre più schieramenti che non sono di sole unità etniche e politiche particolari e chiuse. Solo che purtroppo dall'auspicata storiografia varrebbe unicamente un accrescimento delle conoscenze. Difficilmente ci si potrebbe aspettare, allo stato attuale delle cose, una sua efficacia anche pratica ai fini di una azione recisa, di una lotta globale e inesorabile contro le forze che stanno per travolgere quel poco che ancora resta della vera tradizione europea. Infatti a tanto occorrerebbe che, come controparte, esistesse una internazionale della Destra organizzata e munita di potenza come quella comunista. Ora, purtroppo si sa che per la carenza di uomini di alta levatura e di sufficiente autorità, per il prevalere di interessi di parte e di piccole ambizioni, per la mancanza di veri principi e non per ultimo di coraggio intellettuale, uno schieramento unitario di Destra finora non è stato possibile costituirlo nemmeno nella sola nostra Italia e che solo recentemente si sono annunciate iniziative in questo senso.

 

 

 

40. la destra e la tradizione

 

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L'idea della Destra sta oggi destando un interesse in ambienti abbastanza ampi e vari. Dato il marasma politico e culturale dell'Italia attuale, ciò è certamente un sintomo positivo. Però quando un'idea trova un maggiore suolo di risonanza accade quasi sempre che essa perda la sua determinatezza, e valga più la formula che non un contenuto preciso. Ciò può dirsi anche per l'idea della Destra, specie quando essa viene riferita ad un piano che non è solamente quello originario, ossia il piano politico, ma viene considerato un atteggiamento generale.

In questo contesto un problema che può rivestire un interesse speciale è quello dei rapporti fra il concetto di Destra e il concetto di Tradizione. Su di esso è necessario portare l'attenzione se alla Destra si vuol dare un contenuto positivo e non soltanto polemico o oppositivo.

Il contenuto soltanto polemico della Destra fu implicito nelle origini. Infatti si sa che la Destra fu cosi chiamata in relazione al posto che nel Parlamento andarono ad occupare i rappresentanti schieratisi contro gli elementi rivoluzionari i quali per ciò stesso si trovarono ad essere caratterizzati come la «Sinistra ». Riferendosi alle assemblee degli antichi regimi, questa opposizione non era però fra elementi equiparabili. Infatti in genere si trattava di regimi monarchici, e la Destra non agiva per una causa propria ma assumeva la difesa dei superiori principi di autorità e di ordine ìnsedìati eminentemente al vertice stesso dello Stato. Peraltro, in origine, anche la cosidetta «opposizione» ebbe un carattere funzionale perché nei rappresentanti di essa era presupposto un lealismo e un cooperativismo - idea, questa, caratteristicamente espressa dalla formula inglese: His Majesty's most loyal opposition. Solo all'apparire di ideologie e movimenti rivoluzionari si venne alla definizione di Destra e Sinistra come schieramenti interamente contrapposti. In questa situazione, alla Destra fu naturalmente proprio l'assumere un orientamento conservatore.

Con ciò si delineano già dei concetti essenziali per la problematica complessiva che qui intendiamo considerare. Col tramonto dell'« antico regime », in parte è anche venuto meno, o si è fatto incerto, un superiore principio positivo di riferimento. Già sul piano politico è più facile dire ciò che la Destra non vuole e combatte, che ciò che essa vuole e vuoI difendere, a tale riguardo potendosi perfino verificare divergenze di contenuto di non poco momento.

Anche quando, per estensione, si parla di un orientamento culturale e di una visione di Destra della vita, la definizione in termini soltanto negativi è la più agevole, ma essa è evidentemente incompleta. È necessaria l'introduzione di principi positivi, per dar forza ad una vera antitesi: principi, i quali in ultima istanza non possono che avere un carattere «tradizionale ». Solo che è d'uopo precisare come occorra, allora, rifarsi ad un concetto della tradizione, particolare ed eminente, in relazione al quale non è per un mero risalto retorico che è divenuto abbastanza d'uso, col delinearsi di una corrispondente corrente di pensiero, scrivere la parola Tradizione con la maiuscola.

Infatti, un tradizionalismo generico a carattere empirico o soltanto storico non basta. Ma spesso non è di altro che si tratta, nelle Destre politiche. Abbiamo accennato esser naturale che queste siano «conservatrici », e come tali sono anche «tradizionali », rifacentisi, cioè, ad un sistema dato di principi e di istituzioni che si vuole mantenere o tutelare. A questo livello si resta evidentemente nel campo della fattualità ed anche della relatività, il riferimento essendo caso per caso a quel che si è avuto semplicemente in retaggio ed a cui solamente in quanto tale si attribuisce un valore, la qualità di cosa da conservare e da preservare.

Però è possibile una concezione più ampia ed elevata, prendendo come riferimento valori costanti di natura universale. Sono tali valori a poter fornire un contenuto positivo ad una vera Destra. In tale accezione il concetto di Tradizione si applica ad un sistema in cui «tutte le attività sono ordinate, in via di principio, dall'alto e verso l'alto».

Di conseguenza, per una Destra «tradizionale» il presupposto naturale e fondamentale appare essere l'ammissione della realtà di un ordine superiore avente anche un carattere deontologico, ossia normativo. Anticamente, si poté parlare di un sovramondo opposto al mondo del divenire e della contingenza. In seguito, la base poté essere la religione. In questo caso si presenta, però, l'eventualità di condizionamenti limitatori, quando esista una religione positiva istituzionalizzata, una Chiesa, col pericolo pratico che essa allora si monopolizzi l'autorità spirituale (è l'orientamento che storicamente provocò la «contestazione» ghibellina). COSl è preferibile tenersi ad un piano più neutro, far vedere solo subordinatamente riferimenti di un carattere strettamente religioso e usare piuttosto il concetto di una « trascendenza ». Una trascendenza, rispetto a tutto ciò che è semplicemente umano, fisico, naturalistico e materialistico, ma non per questo equivalente a qualcosa di distaccato e di astratto, tanto che, quasi paradossalmente, si potrebbe parlar di una «trascendenza immanente », perché .ci si deve riferire anche ad una forza reale formatrice, energizzatrice e organizzatrice appunto «dall'alto» e verso l'alto. In ciò si potrebbe indicare il punto di riferimento ultimo dell'orientamento tradizionale, di là da ogni sua espressione e concretizzazione particolare.

Conseguentemente, lo sfondo per una Destra avente anche un contenuto «tradizionale », e per ogni corrispondente visione del mondo e della vita, dovrebbe avere un analogo carattere: dovrebbe essere uno sfondo spirituale. Comunque, solo tenendosi a questo piano si può dare un fondamento ed una legittimazione superiori ad ogni particolare posizione di una Destra tradizionale. Questa non potrà essere che gerarchica e aristocratica, non potrà non porre ben differenziate gerarchie di valori e non affermare il principio dell'autorità, non potrà non opporsi al mondo della quantità, della massa, della democrazia, dell'economia sovrana, non potrà non dare risalto a ciò per cui merita veramente impegnarsi e subordinare assolutamente il proprio interesse particolare per avere una virtù anagogica, ossia indirizzante verso l'alto (il «verso l'alto» come controparte del «dall'alto»): appunto in base ad un ancoramento nell'« altro », in quella realtà sovraordinata. È stato giustamente osservato che la personalità in senso eminente non esiste quando essa non sia aperta al sovrapersonale, e proprio questo corrisponde allo spirito e al clima della Tradizione.

Certo, per la formazione di una Destra che abbia tali valenze, che dunque non si esaurisca in mere posizioni politico-sociali, perché queste dovrebbero definirsi e valere solo in via consequenziale, sarebbe richiesto un grande lavoro di demolizione e occorrerebbero vocazioni e qualificazioni oggi non facili da trovare. È anche necessario del coraggio, in alcuni casi non soltanto intellettuale. A tale stregua potrà verificarsi perfino una convergenza paradossale, la convergenza di tradizionalità e rivoluzione. Del resto, «rivoluzione conservatrice» non è un termine nuovo; questa è stata anche la designazione di una interessante corrente politico-culturale della Germania pre-nazista, la conservazione qui non essendo stata riferita a nulla di fattuale bensf a idee di base aventi una perenne attualità (Moller van den Bruck). Rispetto a ciò che oggi esiste come civilizzazione e società moderne, si può effettivamente dire che nulla abbia un carattere rivoluzionario quanto la Tradizione, a tale riguardo trattandosi, propriamente e hegelianamente, di una «negazione della negazione », la seconda essendo quella che, grazie al «progresso », dissacrando tutto, sovvertendo ogni ordine normale, ci ha condotti dove oggi ci troviamo. Questa negazione è da negare. Cosi per la Destra tradizionale potrebbe anche valere una ulteriore parola d'ordine: «rivoluzione dall'alto» - è l'opposto di tutte le velleità contestatarie anarcoidi di oggi le quali si risolvono in un'agitazione vana o insana perché manca una controparte positiva, che i loro esponenti sono incapaci perfino di concepire, quand'anche non si trovino, apertamente o inconsciamente, nell'orbita delle ideologie di sinistra o dalla sinistra non vengano strumentalizzati.

Portando lo sguardo su ciò che riceve o che ha ricevuto la designazione di Destra, in base a quanto si è detto appaiono necessarie alcune messe a punto. Si è potuto parlare di una Destra nei termini di uno schieramento economico pru o meno associato al capitalismo, il che ha servito da comodo bersaglio al marxismo e ad altre forze della sovversione. È evidente, a questo riguardo, una deprecabile caduta di livello, anche se si deve riconoscere che in questo stesso dominio materiale esistono delle strutture da conservare e da difendere. Più in generale, vi è una Destra definita prevalentemente dall'orientamento conservatore di una cIasse media borghese, del che è stato particolarmente il caso in Italia. Invece, in altre nazioni, i punti di riferimento riconducono, in parte, al più alto livello dianzi accennato. La Destra tradizionale francese è stata essenzialmente cattolica e monarchiea, sebbene vi siano state delle riserve nei riguardi di certo cattolicesimo, sul genere di quello di uno Charles Maurras, quando ci si è riferiti a tale religione per quel che riguarda lo sfondo non soltanto politico della Destra.

Una specie di mistica della monarchia è implicita nella Destra dei Paesi anglosassoni, nel qual caso risultando inoltre la non necessità di riferirsi al solo cattolicesimo, il protestantesimo ha potuto parimenti valere come punto di riferimento. Il protestante Bismarck fu un esponente precipuo della vera Destra non meno del cattolico Metternich e dei cattolici De Maistre e Donoso Cortés. Sulla linea del prussianesimo devesi però rilevare una certa involuzione secolare, nel senso che il riferimento a qualcosa di trascendente è velato; qui, in primo piano, si trova una specie di . etica autonoma, una tradizionale, congenita formazione caratteriale avente in apparenza una forza propria, ma che in fondo - nel risalto dato a ciò che è superpersonale - non saprebbe davvero giustificarsi se non fosse, per cosi dire, un derivato di un precedente orientamento non privo di uno sfondo spirituale (si può ricordare che il prussianesimo con la sua etica è nato come una secolarizzazione dell'ordine dei Cavalieri Teutonici).

Di Destra, talvolta, si parla anche riferendosi a sistemi politici di tipo «fascista ». Però a tale riguardo si debbono formulare delle riserve. Giustamente in un gruppo di saggi dedicati alle Destre europee (The European Rigbt, a cura di H. Rogger e E. Weber, University of California Press, 1966) è stato rilevato che questi sistemi non possono venir chiamati di Destra nel senso antico e tradizionale del termine, che essi sono piuttosto caratterizzati da una mescolanza della Destra con la Sinistra perché, se da un lato hanno difeso il principio dell'autorità, dall'altro si sono basati su partiti di massa ed hanno incorporato istanze «sociali » e rivoluzionarie proprie alla Sinistra, istanze contro le quali gli uomini di una vera Destra avrebbero preso certamente posizione. Più in generale, è una distorsione attribuire il carattere di una Destra a una dittatura, una dittatura come tale non avendo una tradizione, essendo una costellazione informe della potenza in una data individualità (qui si ha in vista la dittatura come tipo di costituzione, non già come qualcosa di transitorio imposto da situazioni di crisi o di emergenza). Il Principe di Machiavelli non incarna nulla che si possa dire di Destra, in lui avendosi anzi una inversione dei rapporti perché se il capo machiavellico può anche rifarsi a valori spirituali o religiosi, egli lo fa unicamente assumendoli come semplici mezzi utili al suo governo, senza nessun intrinseco riconoscimento. Cosi il discorso potrebbe estendersi a quei principi, eventualmente d'ordine superiore, che nel quadro dei totalitarismi dittatoriali possono tuttavia venire usati sotto le specie di semplici «miti », ossia avendo esclusivamente in vista formulazioni che li rendano atti a suscitare o canalizzare le forze irrazionali delle masse. Che Destra e demagogia siano inconciliabili, ciò non occorre sottolinearlo.

Tutte queste osservazioni confermano l'importanza della connessione, in precedenza indicata, fra la vera Destra e la Tradizione.

Dopo quanto si è detto, se si dovesse concepire una «cultura di Destra », essa dovrebbe riconoscere come uno dei suoi compiti precipui il mettere in evidenza i valori della Tradizione, prendendo distanza, nel contempo, da ogni orientamento soltanto « tradizionalistico », cioè, in fondo, conformistico. Il campo della cultura di Destra sarebbe assai ampio. La storiografia e la morfologia delle civiltà dovrebbero avervi una parte importante, perché, respinta ogni storiografia a tendenza liberale, marxista e progressista, si tratterebbe di evidenziare sistematicamente tutto ciò che in precedenti periodi ha incarnato principi tradizionali e, a dir vero, cosi che ne risulti in prima Iinea il carattere paradigmatico. In questo senso contributi validi sono stati già forniti soprattutto dalla corrente facente capo a René Guénon, vero maestro dei tempi moderni. Nei limiti delle nostre possibilità, noi stessi ci siamo dedicati a un non diverso compito, in quanto nella prima parte della nostra opera Rivolta contro il mondo moderno (1934; 3a ed. 1969) abbiamo abbozzato, in base ad una ricerca comparativa, una specie di «dottrina delle categorie» del «Mondo della Tradizione».

Una volta fissati saldi punti di riferimento assiologici, il compito di una cultura di Destra sarebbe anche lo studiarne possibili applicazioni con riferimento allo stato attuale delle cose. Il pericolo di un conservatorismo sclerotico dovrebbe essere superato con l'adottare il principio dell'omologia. Omologia non significa identità ma corrispondenza, non riproduzione puntuale ma trasposizione e riaffermazione di stessi principi formali da un livello ad un altro, da un complesso situazionale ad un altro - a voler usare una imagine, come in una corrente, obbedendo ad una stessa legge, un vortice sparito ad un dato punto di essa torna a formarsi in un altro punto: uguale e nel contempo diverso, appunto perché è in qualcosa che fluisce - come il tempo, come la storia - che questi vortici prendono forma.

Questa indicazione metodologica generale può venire concretizzata nella considerazione dei diversi campi dei problemi che una cultura di Destra dovrebbe affrontare, in modo da costruire un insieme di schemi validi anche per la prassi. L'importante, qui, è mantenere la linea, non cedere alla tentazione di posizioni accomodanti, come tali atte ad assicurare un più ampio, ma meno selezionato, suolo di risonanza - ricordando che non si lavora solo per l'oggi ma anche e soprattutto per il domani, qui potendocisi riferire allo stesso detto di Hegel: «L'Idea non ha fretta ».

Queste considerazioni non sono superflue perché una certa voga che, come rilevammo al principio, oggi sembra avere l'idea della Destra, ha spesso portato ad etichettare come di Destra atteggiamenti assai diversi e perfino spuri, in ogni caso attestanti assai poco una linea rigorosa e coerente di pensiero; linea, che è necessaria quando non si tratta di improvvisazioni e nemmeno ci si limita a posizioni politiche ma si vuol definire anche un orientamento esistenziale e culturale generale.