IL PENSIERO DI JULIUS EVOLA
3.
l'avvento
del "quinto stato"
5.
giovinezza biologica e
giovinezza politica
6.
il
problema della decadenza
10.
orientamenti
sulla massoneria
12.
dioniso
e la "via della mano sinistra"
13.
il
mito della regalità futura
17.
note
sui misteri di mithra
18.
sulla
"via della mano sinistra"
21.
il
doppio volto dell'epicureismo
23.
l'occidente
ha una sua idea?
25.
la
potenza e l'infantilismo
27.
metternich
28.
donoso cortés
30.
vilfredo pareto,
anticonformista e antidemocratico
32.
papini
34.
il
caso di giovanni gentile
35.
rené guénon e il
"tradizionalismo integrale"
38.
prospettive della cultura di destra
Preso
in un senso ampliato, il termine «umanismo» è forse il più atto a
caratterizzare l'orientamento principale e il fondo ultimo della civiltà
dell'èra moderna. Infatti come umanismo si può designare, in genere, quello
spostamento per via del quale dell'uomo in quanto tale è stato fatto il centro
della visione della vita, dell'attività e del sistema dei valori. Si sa che in
Occidente tale orientamento ha preso inizio nel periodo della Rinascenza,
associandosi ai primi spunti di una scienza profana della natura, alla
prorompenza di un genere speciale della creatività artistica, a mutamenti del
costume e ad una particolare linea di studi rifacentisi all'antichità, la
parola generale d'ordine usata a tale riguardo essendo il superamento
dell'oscuro Medioevo, la rivelazione della vita, la scoperta dell'Uomo e della
sua «dignità» e «libertà », l'aperturà delle vie verso il dominio del mondo.
Considerando
il suo aspetto più precipuo vale, per tutto questo movimento, ciò che ebbe a
dire René Guénon: l'uomo si è staccato dal cielo con la scusa di conquistare la
terra. In termini più concreti si può dire che il mutamento è consistito nello
spostamento del centro dell'essere da quella che nell'uomo rappresenta la
dimensione della trascendenza a ciò che è puramente umano, in uno sviluppo
unilaterale, anormale e alla fine teratologico di questo ultimo aspetto, a
scapito del primo, fino a determinarne l'atrofia e la tacitazione: laddove
proprio tale aspetto - la dimensione della trascendenza - stava a
caratterizzare la vera dignità dell'uomo.
Solamente
come un fenomeno particolare in un insieme più vasto, va considerato l'umanismo
nel senso corrente del termine, I'umanismo definito come una linea di studi
riferentisi all'arte e alle lettere dell'antichità. A tale riguardo devesi però
rilevare l'aspetto «a tendenza» di tali studi: l'antichità che si ebbe
particolarmente in vista fu quella che più o meno apparve congeniale col nuovo
clima; gli aspetti sacrali e metafisici dell'antichità, i contenuti simbolici e
evocatori «non umani» presenti anche in molte opere dell'arte antica vennero
più o meno trascurati; una ripresa o « riscoperta » di quanto nell'antichità
poté avere il significato di una varietà di quella che, in genere, si può
chiamare la visione « tradizionale» del mondo, può considerarsi inesistente
nell'umanesimo erudito del periodo della Rinascenza. In esso cominciarono
piuttosto a delinearsi gli ideali di una semplice «cultura» la quale per un
certo tempo si associò all'idea di una « formazione della personalità », che in
questi termini non poteva evidentemente riferirsi che ad un dominio parziale o
periferico.
È
su questo piano della « cultura» e della « personalità umana» che qualche
secolo dopo si doveva avere un rilancio dell'« umanesimo » nei termini del
cosidetto neo-umanesimo difeso da Wilhelm von Humboldt e da altri. E qui si è
presentata una situazione assai caratteristica. Per una naturale concatenazione
di cause e di effetti, colui che si « era staccato dai cieli con la scusa di
conquistare la terra» doveva finire col pagare lo scotto della sua conquista
via via che dalla nuova scienza profana della natura presero forma la tecnica e
l'industrializzazione, con l'asservimento dell'uomo al lavoro produttivo presso
al declino dell'artigianato tradizionale. In uno dei suoi aspetti precipui qui
il neo-umanesimo ora accennato è stato un tentativo di reazione contro questo
rivolgimento: esso difese i valori della «cultura» pura quale fondamento della
formazione della personalità contro le prime invadenze del mondo del lavoro. E
le esigenze da esso formulate in tal senso continuarono ad essere affermate da
coloro che hanno considerato la civiltà nuova non come una Kultur ma come una
Zivilisation - termini tedeschi usati dallo Spengler per caratterizzare
l'opposizione ad un tipo spurio e materiale di civiltà, ritenuto deleterio per
i valori della personalità e dello spirito. Purtroppo di rado per tali valori
ci si seppe riferire a qualcosa di più - appunto - del semplice mondo della «
cultura » e di un «pensiero» il cui limite estremo fu visto nella speculazione
filosofica. Lettere, pensiero e filosofia opposti a scienza naturale, tecnica e
industrialismo - tale è stata la posizione del neo-umanesimo.
Posizione
abbastanza labile e precaria di fronte alle correnti obbedienti al cosidetto «
senso della storia », il quale altro non ha significato che il realizzarsi, con
un ritmo accelerato, di un completo « terre strizzar si » dell'uomo e la
liquidazione di ciò che può ancora valere residualmente come personalità di
fronte al collettivo e al « sociale », allo standardizzato,
all'uniformisticamente unificato. Già nel campo neo-umanistico si doveva, del
resto, verificare una defezione. In Germania, come « umanismo classico» venendo
inteso quello difeso da un von Humboldt, ad esso è stato contrapposto un
neo-umanesimo da scrittori e pedagogisti, quali ad esempio T. Litt e E.
Spranger, i quali con argomenti speciosi hanno cercato di eliminare l'antitesi
affermata all'urnanismo humboldtiano e di dimostrare che l'applicarsi alla
natura, l'inserirsi dell'uomo nel mondo moderno del lavoro e della tecnica,
l'addestramento tecnico-professionale e via dicendo sono tanti mezzi per una
formazione « aggiornata» della vera personalità. Ma queste in fondo non sono
state che fievoli voci rispetto alle forme più sfacciate e concrete della
ideologia maggiormente conforme al « senso della storia ». Il termine « umanismo
», in piena conformità al senso ampliato ad esso dato all'inizio di queste
note, è stato ripreso dal marxismo e dal comunismo sovietico, i quali hanno
preteso di rappresentare e di realizzare 1'« umanesimo integrale », il «nuovo
umanesimo », stigmatizzando nei termini di una forma parassitaria e di una
oziosa divagazione borghese e individualistica tutto ciò a cui il precedente
«umanismo aristocratico della cultura» poteva rifarsi. L'« umanesimo del
lavoro» è un'altra formula dei nostri giorni, indicativa del livello in cui han
finito con lo scendere le esigenze di coloro che avevano preteso di celebrare
la « scoperta dell'uomo », la sua dignità, 1'« infinità» del suo spirito: tutta
retorica a cui è dunque subentrato il culto dell'uomo collettivizzato, animale
di lavoro. Davvero, vi è di che far sorridere gli Olimpici, se essi ancora si
curassero di dare uno sguardo alle vicende dei mortali ...
Manifestazioni
dello stesso orientamento purtroppo non sono mancate nella stessa Italia, ad
opera di alcuni intellettuali di casa nostra.
Per
dare un senso del piano in cui essi si muovono, vogliamo riferirci ad un libro
capitatoci fra le mani di Ugo Spirito, e il cui titolo è - appunto - Nuovo
Umanesimo. Ugo Spirito è una vecchia conoscenza, già seguace dell'« attualismo»
gentiliano. Successivamente lo Spirito si era discostato alquanto dal Maestro
per quel che riguarda soprattutto alcune sue applicazioni politico-sociali
della dottrina, le quali già preannunciavano la successiva « apertura a
sinistra» di essa. Infatti fu lo Spirito insieme ad Arnaldo Volpicelli che al
Convegno di Studi Corporativi tenutosi a Ferrara nel 1932 difese una
interpretazione comunisticheggiante del corporativismo fascista (la
«corporazione proprietaria» statizzata) riflettente la tesi, che il comunismo
sarebbe soltanto un « corporativismo impaziente », un .corporativismo che va
troppo in fretta, il che stava a significare che di differenze sostanziali non
ve ne erano, che in fondo si trattava soltanto di diversi tempi o di diverse
tecniche per la realizzazione dello stesso obiettivo: tesi, questa, che provocò
violente reazioni da parte di coloro che avevano un senso delle superiori
valenze del movimento fascista (ci ricordiamo di un ottimo libretto polemico di
Guido Cavallucci: Il fascismo sta sulla via di Mosca?).
Gli
sviluppi successivi dovevano mostrare però che a tale riguardo il discepolo
precorreva il Maestro perché nel periodo successivo lo stesso Gentile doveva
seguire una analoga linea sinistrorsa bandendo un cosidetto « umanesimo del
lavoro » di là dal precedente «umanesimo della cultura », giudicato ormai
inadeguato e sorpassato.
A
questo proposito nel campo ideologico si poté osservare una curiosa inversione
degli atteggiamenti dei «due fratelli della discordia », esponenti del
neo-hegelianismo italiano, di Croce e di Gentile. Partendo da un liberalismo di
destra, Croce, dopo alcuni primi studi su queste ideologie, mantenne un
atteggiamento costantemente negativo rispetto a marxismo e a comunismo. Se egli
fin( con lo schierarsi contro il fascismo, ciò fu dovuto più alla sua equazione
personale che non ad una vera coerenza con le sue teorie originarie, secondo le
quali la categoria della politica veniva nettamente staccata da quella
dell'etica, tanto che Croce aveva riconoscluto il diritto di uno « Stato forte
», aveva respinto ogni « astratto morali Imo ,. in politica, aveva ironizzato
sulla «Dea Giustizia» e la "Dea Umanità"; subito dopo la prima guerra
mondiale si era schierato contro le forze della sovversione riconoscendo che non
era con le discussioni che si poteva venire a capo di esse. La carenza
dell'autorità dello Stato a tale riguardo fu da Croce, a quel tempo,
stigmatizzata, come lo fece il fascismo della prima ora. Poi Croce scopri che
il « senso della storia» (il famoso « senso della storia» a tutto fare) stava
nel segno di una libertà che non si accordava con quella che il fascismo-regime
poteva ammettere e passò ad una decisa opposizione antifascista.
Senonché
in Croce, come in Gentile, si ebbe una incongruenza - dovuta, di nuovo, ad un
semplice fattore personale - rispetto alla premessa dottrinale comune ad
entrambi quali « storicisti assoluti ». Infatti lo storicismo assoluto nega
ogni differenza fra 1'« essere» e il «dover essere», il che equivale a dire che
esso in ciò che riesce a realizzarsi storicamente vede la misura di tutto ciò
che è giusto, razionale, che ha diritto ad essere. A tale stregua, Croce
avrebbe dovuto riconoscere il fascismo, dato che esso aveva vinto la partita, e
relegare fra le fisime di ciò che codesti filosofi chiamano la «volontà
astratta », 1'« astratto moralismo », ogni atteggiamento di velleitaria
opposizione. Gentile, staccandosi da Croce e aderendo al fascismo vittorioso,
fu più coerente, almeno nel ventennio, ma non dopo: quando il corso della
seconda guerra mondiale provocò la crisi del fascismo e apparve che esso era
ormai irrimediabilmente la parte perdente, che il «senso della storia» si era
spostato dalla parte opposta, da quella degli Alleati, perché essi vincevano,
Gentile, in quanto storicista assoluto, avrebbe dovuto cambiar bandiera.
Invece, nobilmente, non lo fece e ciò gli costò la vita. Però, prima, quasi
presentendo gli ulteriori svio luppi del «senso della storia », bandi
l'anzidetto « umanesimo del lavoro » nel suo libro « Genesi e struttura della
società» (1943), circa il quale ecco che dice il suo discepolo, Ugo Spirito:
«Forse è il suo libro piu bello... in cui tutta la speculazione di Gentile si
raccoglie in forma di esigenza avveniristica. È il libro in cui è teorizzato
quello che può senz' altro definirsi il comunismo di Giovanni Gentile [sic - il
corsivo è dello Spirito J. Il comunismo, infatti, gli apparve come il regime
dell'avvenire [sic], un regime che non si può raggiungere, secondo lui,
attraverso una rivoluzione immediata ma che, sia pure attraverso una lenta
evoluzione, deve rappresentare il fine da realizzare» - il che corrisponde
esattamente alla subdola tattica usata, tenendo fermo l'obiettivo strategico
finale, dai comunisti nei paesi ancora democratici, e in prima linea in Italia,
essendo assecondati da politicanti ebeti e irresponsabili.
Questo
è il quadro in cui nel libro dello Spirito prendeva forma il « nuovo umanesimo
» rivoluzionario che sarebbe anche un umanesimo « scientifico », liquidatore di
quello culturale e individualistlco di origine rinascimentale e poi anche
ottocentesco.
Ma
torniamo allo Spirito per vedere più da presso in che consisterebbe l'auspicato
nuovo umanesimo, a parte il suo orientamento comunista o comunisteggiante. A
dire il vero, il suo libro è composto di scritti sparsi usciti già altrove, dei
quali solamente un paio ha una vera attinenza col tema.
Orbene,
viene di nuovo ripresa la problematica che si lega all'antitesi fra filosofia e
scienza, antitesi che avrebbe dato origine «al concetto tradizionale di cultura
». Ma già questo punto di partenza è inficiato dal fatto che si prendono le
mosse da due termini i quali altro non sono che i prodotti di un processo .il
dissociazione e di degradazione rispetto a qualcosa di anteriore e di superiore
ad entrambi.
Come
tali debbono infatti considerarsi da un lato la semplice speculazione
filosofica priva di radici, opera della mera ragione umana divenuta estrema
istanza a se stessa, dall'altro quel conoscere che riguarda unicamente il mondo
dei fenomeni quali si presentano nell'esperienza sensoriale e quali vengono
ordinati dalla scienza di tipo moderno, che ha imposto la credenza che
nessun'altra forma di conoscere sia possibile e concepibile.
A
dire il vero, lo Spirito fa cenno « ad una terza forma di sapere che ha
preceduto lo stesso sapere filosofico prima ancora di quello scientifico », ma
non si tratta che di un accenno fuggevole e irrilevante, ed egli a tale
riguardo non sa riferirsi che alla « religione» quale viene volgarmente concepita,
come un semplice sistema di fede che il dubbio doveva attaccare, per cui la
fase successiva sarebbe stata appunto la filosofia e la «metafisica» (nel senso
degradato dato dalla filosofia corrente a tale termine). In realtà, li vero
punto di riferimento avrebbe dovuto essere costituito da quel che ~ stato
proprio alle civiltà che noi sogliamo chiamare "tradizionali". nelle
quali non si trattava di semplice religione, fede o devozione ma nelle quali
una unica forza formatrice, in un certo modo trascendente, era in atto nei vari
domini della conoscenza, dell'azione e della esistenza umana, dando luogo ad un
ordine generale e onnicomprensivo organico e gerarchico.
Ma
la problematica considerata da Ugo Spirito, non avendo un qualche senso di tali
orizzonti, risulta del tutto sfasata e la via congenialmente scelta per venirne
a capo porta sempre più in basso. Infatti in ultima analisi la soluzione
dell'antitesi fra pensiero filosofico e scienza viene conseguita con la
soppressione virtuale del primo termine. Lo Spirito, il quale era già convinto
che nella filosofia «attualistica» gentiliana si «riassume tutta la storia del
pensiero occidentale» (!!!), ora fa uno scrutinio negativo di ciò che presenta
il pensiero filosofico contemporaneo: non vi si trovano, secondo lui, che
«filosofie spurie ». In ciò, in parte, ha ragione, anche se gli sfuggono alcuni
spunti positivi che, da uno speciale punto di vista, non semplicemente
filosofico, presentano l'esistenzialismo e la cosidetta «fenomenologia ». Ma,
nel complesso, oggi si può effettivamente parlare di un processo interno di
autodissoluzione della filosofia, lasciata indietro da altri orientamenti e da
altri interessi dell'uomo moderno, allo stesso modo che appare essere
abbastanza scontato il semplice ideale dell'umanesimo culturale da letterati.
Poi
lo Spirito riprende un vecchio argomento (usato già da Kant per giustificare
l'assunto della sua filosofia critica), cioè la molteplice discordante varietà
dei sistemi filosofici in palese antitesi rispetto all'univocità, al consenso
generale e alla certezza che esisterebbero nel campo scientifico. Cosi la
situazione appare critica, per un doppio riguardo: se non si deve finire in una
pura negazione, se si riconosce, in via di principio, l'insopprimibilità di una
esigenza metafisica, altra via non vi sarebbe fuor di cercare una sua
soddisfazione nell'ambito della scienza. In secondo luogo, vi è chi ammette che
«per quanto grande sia il mondo della scienza e della tecnica, al di sopra di
esso esiste un altro mondo che è propriamente il mondo dei valori, in relazione
al quale la scienza non può servire che come strumento, come mezzo pel
raggiungimento di ideali che non sono della stessa scienza », Ebbene, anche
questa posizione deve essere superata, si dovrebbe mostrare che il mondo della
scienza e della tecnica ha già valenze d'ordine etico e spirituale.
Lo
Spirito crede di poter venire a capo sia del primo che del secondo punto, per
cui il suo nuovo umanesimo va ad assumere caratteri apertamente scientisti.
Pel
primo punto, lo Spirito viene a dirci che non c'è bisogno di cercare una
sintesi fra «metafisica» e scienza moderna perché la scienza moderna contiene
già una metafisica. Quale sarebbe tale metafisica? Non già quella
corrispondente a certe velleità speculative estemporanee di alcuni veri
scienziati di oggi i quali, effettivamente, appena escono dal loro dominio
specialistico, sanno dar prova soltanto di una commovente ingenuità e
sprovvedutezza. Essa consisterebbe in ciò, che lo scienziato, dopo essersi saldamente
stabilito sul terreno dei «fatti », della «realtà », crede a priori nella
intelligibilità di essa e elaborando la conoscenza scientifica, con le sue
leggi e i suoi determinismi, dimostra la « razionalità del reale », SI che
nella scienza troverebbe «la sua formulazione e la sua realizzazione effettiva
la metafisica immanentistica hegeliana» (per intenderei, quella del famoso
principio « Tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è
reale»). Ora, ciò significa ignorare del tutto i principi della epistemologia
scientifica, la natura sia dei procedimenti che delle «conoscenze» della
scienza di tipo moderno. Dopo il fallimento delle cosidette «filosofie della
natura» dello Schelling e dello stesso Hegel (a cui tuttavia si deve riconoscere
almeno il merito di aver visto il vero compito), in tutto ciò che è stato
raccolto dalla scienza moderna, di «razionalità» non è affatto il caso di
parlare, a meno di distorcere completamente il senso della parola « razionalità
»,
Come
primo punto, tutti i procedimenti scientifici, anche i più astratti e
teoretici, hanno un carattere pratico e pragmatico, e sembra che lo Spirito non
abbia alcun sospetto di quel che già da tempo è stato scritto non da critici
estemporanei della scienza ma da competenti in questo campo, a partire dal
Poincaré, dal Duheim, dal Brunschwicgs, dal Meyerson ecc., per giungere ai più
. moderni, fino allo stesso Heisenberg. A prescindere che quella che è stata
giustamente chiamata « la superstizione scientifica del fatto» è stata ormai
superata, la scienza può dimostrare non la «razionalità» dei fenomeni naturali
ma semplicemente la loro «matematizzabilità », ossia la loro suscettibilità ad
essere ordinati usando formule matematiche, sempreché - e questo è importante -
di essi si considerino unicamente certi aspetti che a ciò si prestano e se ne
trascurino altri (ad esempio, le cosidette «qualità secon-
de»).
Il sistema della scienza moderna ha un mero carattere « ipotetico-deduttivo »,
comporta una progressiva unificazione delle relazioni, ma presupponendo alcuni
dati che restano assolutamente impenetrabili, che vengono semplicemente
constatati e registrati. Se si prende una qualsiasi formula delle scienze della
natura - fino alla famosa equazione einsteiniana riguardante la materia e
l'energia, o la legge della produzione discontinua dei «quanti» -, si può
sempre chiedere: perché cOSI, e non altrimenti? - e lo scienziato non può
rispondere nulla, ci si trova di fronte all'irrazionale, a qualcosa di
puramente «dato »,
Croce
aveva ogni ragione di chiamare «pseudoconcetti» i concetti scientifici: essi
non hanno nessun carattere «noetico », cioè conoscitivo, sono puri strumenti
pratici, «ipotesi di lavoro », e l'onestà scientifica consiste nell'esser
pronti ad abbandonarli e a cambiarli non appena interviene, come guastafeste,
un qualche fenomeno non osservato o non bene osservato, l'unico scopo essendo
ia massima presa pratica (sperimentale e tecnica) sulla realtà fenomenica. In
genere, anche uno studente delle medie sa poi che a tutte le leggi della
scienza viene attribuito un mero carattere «statistico »; esse hanno dunque
solo un carattere di «probabilità », si definiscono in base all'assommarsi
quantitativo di fenomeni più o meno costanti, e non a nessi logici e razionali
- a tacere delle più recenti teorie sulla « improbabilità» formulate nel corso
delle ricerche che hanno cercato di penetrare fin negli strati più profondi
della « realtà ». È chiaro perciò che non c'è nessuna «metafisica» nella
scienza moderna.
Tutto
ciò, per quel che riguarda le scienze della natura in senso proprio. Circa poi
l'affermazione dello Spirito, che in particolare il «conosci te stesso» delfico
ormai «si converte nella conoscenza di un soggetto divenuto oggetto di ricerca
scientifica », per cui non ci si dovrebbe più rivolgere al maestro spirituale,
a colui che avviava verso il mondo della contemplazione, della gnosi o
dell'alta ascesi, bensi al fisiologo, al neurologo, al biologo, allo
psicanalista e via dicendo, non solo, ma che nel quadro del nuovo umanesimo
questa conoscenza di sé già affidata ad un centro sacro e iniziatico sarebbe
non più un compito individuale ma qualcosa di collettivo, dato il carattere
sempre più collettivo delle ricerche scientifiche moderne - su ciò, crediamo,
ogni commento guasterebbe. Rileviamo soltanto che l'uomo che, come dicemmo
all'inizio di questo scritto, si è sforzato di tacitare e oscurare
sistematicamente la dimensione della trascendenza, dell'« essere» in lui
gettandosi nella «storia» e nel «progresso», si sta riducendo davvero, in;
moltissimi casi, ad un essere per la conoscenza adeguata e esclusiva del quale
sono competenti tutte le scienze profane indicate dallo Spirito.
Quanto
all'ultimo punto, ossia alle prospettive nelle quali il mondo di scienza e
tecnica non sarebbe quello di mezzi materiali ordinati a istanze trascendenti
la scienza, ma soddisfarebbero anche l'esigenza etica e spirituale, darebbero
una soluzione al problema dei fini, ecco che cosa udiamo dire dall'apostolo del
nuovo umanesimo: « ideologie politiche, religioni, filosofie diverse hanno
finora diviso gli uomini e i popoli, ponendoli gli uni contro gli altri.
Scienza e tecnica, al contrario, vanno instaurando dappertutto unità e consenso
». In più, i mezzi nuovi di comunicazione, la velocità, stampa, radio,
televisione, cinema e cosi via portano fuori da mondi chiusi unificano sempre
più le menti e i costumi, ampliano gli orizzonti:
Si
va cosi verso l'unità e l'unitarietà - e questo sarebbe il potenziale etico e
il messaggio di scienza e tecnica, indicatrici di un superiore ideale umano.
Anche qui, l'equivoco non potrebbe essere maggiore, e vi è da restare
stupefatti. Ciò che hanno portato scienza e tecnica è solamente una
unificazione esteriore, la quale ha avuto per controparte uno svuotamento interno,
uno sradicamento, l'attacco contro tutto quel che è qualità, vera differenza e
personalità, la standardizzazione, il mondo della quantità e delle masse dal
quale esula sempre più ogni interesse superiore presso a tutte le facilities
moderne e tutti gli anestetici e gli stupefacenti fabbricati per nascondere
all'individuo di oggi il vuoto, la mancanza di ogni senso vero dell'esistenza.
È la completa inversione dell'ideale vero, tradizionale, dell'umanità, l'unità
non essendo distruttiva solo se realizzata al vertice, gerarchicamente, presso
a ben determinate articolazioni e differenziazioni. E lo Spirito riprende le
viete utopie scientiste ottocentesche attribuendo alla scienza il potere di
eliminare ogni motivazione più profonda, superiore oppure inferiore,
irrazionale o demonica che sia, dell'attività umana, di portare ad uno stato in
cui tutti sono in armonia e in collaborazione come si pretende che lo siano gli
scienziati. Ciò, peraltro, non sarà mai possibile senza un «lavaggio» in grande
stile delle menti e degli animi, cosa in cui in fondo conviene lo stesso
Spirito quando
dice
che se vi sono ostacoli per la realizzazione .di quel che egli ritiene la
condizione ideale, se non si ha ancora «la possibilità di credere a questo
domani », « la ragione non la cercheremo certamente nel mondo della scienza ma
nel mondo della politica, della religione, della metafisica», là dove
sussistono «contrapposizioni di tradizioni, di storia, di mentalità». Dunque,
come logica inferenza, tabula rasa, via con tutto ciò.
Ecco,
dunque, gli orizzonti del nuovo umanesimo di cui lo Spirito vorrebbe
gratificarci: «umanesimo del lavoro» con in piti scientismo, livellamento
generale, unificazione svuotata e grigia dell'umanità. Non c'è che dire, la
conformità al «senso della storia» di chi fu fervente adepto di quell'«
attualismo» che celebrava 1'« indomabile creatività dello spirito assoluto» è
perfetta. Pour la bonne bouche, finiremo con queste due citazioni testuali dal
libro in quistione: «Soprattutto al di là della cortina di ferro e in
particolare nell' esperienza cinese, quasi del tutto libera dalle tradizioni
occidentali, possiamo già vedere i segni precursori della società di domani».
«A questo nuovo ideale umanistico vanno informati l'educazione e gli
ordinamenti scolastici del futuro ».
Una
carattenstica generale dei tempi ultimi è l'urgenza, la spinta e l'azione di
rottura esercitata partendo dal basso, e in funzione del basso, sulle strutture
esistenti: il che corrisponde al solo significato proprio e legittimo del
termine «sovversione ».
Questa
situazione ha per evidente presupposto la crisi dell'insieme delle strutture di
cui si tratta: siano esse strutture politicosociali che culturali e intellettuali.
Cosi essa si accompagna ad un processo contro il mondo moderno, la società
borghese e il capitalismo, contro un ordine ridottosi ad essere un disordine
esteriormente frenato, contro forme di esistenza divenute prive di ogni
significato superiore, disumanizzanti, creatrici - per usare un termine ormai
abusato - di « alienazioni ».
La
rivolta contro tutti questi aspetti di una civiltà problematica può essere
legittima. Ma ciò che caratterizza i tempi ultimi è la carenza di ogni azione
rettificatrice, liberatrice o restauratrice dall'alto: è il fatto che si
permette che l'iniziativa e l'azione, spesso necessaria, di rottura, avvengano
appunto partendo dal basso: dal basso, inteso sia con riferimento a strati
sociali inferiori, sia a valori inferiori. Cosi la conseguenza quasi
inevitabile è lo spostarsi del centro di gravità verso un livello che sta ancor
più giù di quello delle strutture entrate in crisi e divenute quasi prive di
ogni contenuto vitale.
Nel
campo politico-sociale il fenomeno presenta forme cOSI precise che è quasi
superfluo soffermarvisi. Nessuno è cosi miope da non capire, ormai, che cosa
voglia propriamente dire per esempio la famosa « giustizia sociale ». Essa non
è per nulla la vera giustizia, quella distributiva del suum cuique, basata su
di un principio di diseguaglianza e già difesa dai classici, partendo da un
Aristotile e da un Cicerone. È invece una pseudo-giustizia partigiana,
esclusivamente al servigio degli interessi dei ceti più bassi, dei cosidetti
«lavoratori », a scapito degli altri, nel segno di miti che servono solo a
spianare a poco a poco la via alla scalata dello Stato da parte delle forze di
sinistra.
Contro
questa azione - ormai organizzatissima e quasi marginabile, che parte dal
basso, e che si lega alla fandonia che solo nei bassi ceti si potrebbe trovare
l'uomo naturale, sano, generoso, ecc. e che quindi il fine ultimo del movimento
sovversivo sarebbe anche un nuovo, effettivo « umanismo » - contro tale azione
non vi è quasi chi sia capace di reagire con energia. E il principio della
reazione dovrebbe essere questo: che si possono denunciare gli errori, i
difetti e le degenerazioni di un sistema, si può essere, ad esempio,
decisamente contro la borghesia e contro il capitalismo, però partendo da un
piano situato al disopra e non al disotto di esso, in nome non dei valori
«proletari », cosidetti «sociali» o collettivistici, bensf di quelli
aristocratici, qualitativi e spirituali: i quali valori potrebbero dar luogo ad
un'azione rettificatrice perfino più radicale, qualora si trovassero uomini
veramente alla loro altezza, muniti di sufficiente autorità e potere, tanto da
prevenire o stroncare con una rivoluzione dall' alto qualsiasi velleità o
principio di rivoluzione dal basso.
Ma,
purtroppo, si vede sempre più chiaro quanto simili prospettive esulino dagli
orizzonti intellettuali dei nostri contemporanei. Invece si può constatare come
anche coloro che presumono di combattere contro il «disordine stabilito» del
mondo moderno muovendo giuste (ma ormai ovvie e quasi scontate) accuse contro
l'attuale società e mettendo avanti perfino i valori della personalità e del
cristianesimo, non nascondono le loro simpatie elettive per il basso, per le «
rivendicazioni » dal basso e per lo pseudo-umanismo di sinistra, mostrando
altrettanta insofferenza e incomprensione per ogni soluzione possibile nel
quadro di un sistema poggiante su di un principio di autorità e sovranità, di
vero ordine e di vera giustizia. Come esempi tipici si possono indicare il
Maritain e il Mounier, ma anche un tradizionalista come L. Ziegler.
È
assai interessante riconoscere la precisa solidarietà di questo orientamento
con altri constatabili in domini propriamente culturali. Il cosidetto
«neo-realismo» e altre tendenze similari non sono forse caratterizzati dal
presentare abusivamente come « reale» soltanto gli aspetti più bassi,
miserabili, equivoci e spesso perfino laidi e volgari dell'esistenza? Mentre il
resto non avrebbe nulla a che fare con ciò che è autentico, sincero e « reale»?
Un
caso ancor più significativo, che indica il vasto raggio di azione della
diffusione della tendenza in parola, è costituito sia dalla psicanalisi che dal
moderno irrazionalismo. Si è partiti da una critica, in sé legittima, contro il
feticismo della « ragione» e della intellettualità astratta, contro le
superstrutture dell'Io cosciente. Ma da ciò si è passati subito ad una apertura
dell'uomo non verso l'alto ma verso il basso. Contro il « razionale », si è
fatto valere il semplice irrazionale, la «vita »; contro il conscio,
l'inconscio, e solamente in questo si è voluto vedere la vera forza motrice
della psiche. Così anche qui il risultato è stato una regressione, una
traslazione del centro di gravità umano verso il basso. La causa è analoga a
quella indicata nel campo politico-sociale: si è fatto come se fuor dal «
razionale» e delle sue eventuali prevaricazioni esistesse solo il sub-razionale
(l'inconscio, il vitale, l'istintivo, ecc.), e non anche il saper-razionale: il
super-razionale, attestato da tutto ciò che nella storia della civiltà si è
legato alla vera grandezza umana.
Considerazioni
analoghe potrebbero essere svolte per indicare altri parallelismi, nei riguardi
di ulteriori fenomeni culturali contemporanei - per esempio, nei riguardi
dell'esistenzialismo e di molte varietà del cosidetto neo-spiritualismo, Non
possiamo soffermarci su ciò. Basterà aver brevemente mostrato l'identica
tendenzialità di tutto un gruppo di fenomeni e ciò che, purtroppo, essi con la
loro presenza, segnalatrice del volto dei tempi, indicano: l'inesistenza, oggi,
di chi tenga le posizioni e sappia agire non dal basso ma dall'alto, in tutti i
domini.
3. l'avvento del
"quinto stato"
Un
merito incontestabile della storiografia marxista è il suo tentativo di
individuare una direttiva generale di marcia della storia in funzione di fasi
ben precise, considerando l'insieme degli avvenimenti sui quali di solito le
altre storiografie portano tutta l'attenzione, guerra, rivolgimenti nazionali,
sviluppi e mutamenti dell'uno o dell'altro genere, non come l'essenziale ma
come il secondario e l'episodico rispetto al movimento complessivo.
Quasi
nessun tentativo del genere è stato fatto dalla parte opposta, ossia dalla
parte della Destra. Naturalmente l'interpretazione rnarxista del « senso della
storia» (come una concatenazione di determinismi economici che condurrebbe
fatalmente al dominio della cosidetta classe lavoratrice) va recisamente
respinta; ma essa dovrebbe essere respinta ponendosi metodologicamente allo
stesso livello, ossia riconoscendo la necessità di inquadrare gli avvenimenti
storici in uno schema di non minore ampiezza, sebbene in una chiave assai
diversa, conforme a punti di vista superiori, non a quelli grossolani e
primitivistici del materialismo storico.
Da
Piero Operti è stata ricordata la concezione generale su cui si potrebbe basare
una storiografia antimarxista. Essa è stata tracciata, con una significativa
concordanza e contemporaneità, da alcuni scrittori tradizionalisti, in prima
linea da René Guénon, poi da V. Vezzani e da H. Berl, parzialmente dallo stesso
Spengler (le considerazioni del quale si sono però limitate agli sviluppi
propri a singoli cicli di civiltà), a prescindere dal contributo da noi stessi
dato a questo riguardo. L'argomento che vogliamo propriamente trattare nel
presente capitolo è il fenomeno dell'« avvento del Quinto Stato ». Per
comprenderlo, bisogna anzitutto dare un breve ragguaglio sulla concezione ora
accennata, che s'impernia sull'idea di una regressione o discesa del potere
politico, del tipo di civiltà e, in genere, dei valori predominanti lungo i
quattro piani che ogni organizzazione sociale completa e, possiamo pur dire,
«normale », comprendeva secondo un sistema gerarchico. Al sommo, stavano capi rivestiti
da una autorità spirituale e sacra, poi veniva l'aristocrazia guerriera, in
terzo luogo la borghesia possidente e coloro che concentravano i loro interessi
sul piano economico (i « mercanti », la casta vaiçya indii), infine venivano i
lavoratori, il «popolo».
Ebbene,
è abbastanza evidente che nella storia a noi nota questa piramide è franata,
che si è avuta una discesa dall'uno all'altro di questi quattro livelli. Da
civiltà improntate dal sacro dove il capo o la classe dominante esercitava un
diritto dall'alto su basi prevalentemente spirituali e un « diritto divino» si
è passati a società rette soltanto da aristocrazie guerriere; fase, questa, che
doveva concludersi col ciclo delle grandi dinastie europee. Con la Rivoluzione
Francese, la democrazia, il liberalismo e l'industrialismo è stato il Terzo
Stato ad assumere, fattualmente, il potere come borghesia capitalista e
plutocrazia, i capi effettivi essendo ora i signori del danaro, i vari « re »
del carbone, dell'acciaio, del petrolio, ecc. I movimenti socialisti e
proletari, che si concludono col comunismo e col sovietismo, preludono
all'evento dell'ultimo strato, del Quarto Stato, che cerca di scalzare le
civiltà del Terzo Stato (in via di principio, è sotto questa luce che si deve
essenzialmente vedere lo scontro fra «Oriente» e «Occidente », fra gli Stati
comunisti e gli Stati Uniti, coi loro satelliti) e di assicurarsi il dominio
mondiale: Quarto Stato contro ciò che sussiste del mondo del Terzo Stato.
Dal
punto di vista della Destra, è in questi termini che si presenta il «senso
della storia », il quale, quanto a significato, si dovrebbe piuttosto chiamare
il non-senso della storia. Il processo regressivo si arresta al Quarto Stato?
Fra le due guerre mondiali a Karlsruhe usci un singolare libretto il cui
autore, H. Berl, era andato un passo più avanti. Il libro si intitolava
L'avvento del Quinto Stato (Die Heraufkunft des Fiinften Standes). A parte il
contenuto teorico con l'interpretazione della storia in chiave regressiva esso
era saturo di forti cariche emotive. Il Berl lo aveva scritto in un sanatorio,
come in una ossessione (« Vi è febbre in ogni pagina », aveva detto lui
stesso). Prescindendo da ciò e da alcune esagerazioni, la tesi sostenuta non è
priva di un certo interesse per chi vuoI rendersi conto di alcuni aspetti dei
tempi.
La
caduta lungo la storia non si fermerebbe, dunque, al Quarto Stato, ossia al
mondo collettivizzato marxista e comunista; essa tenderebbe a continuarsi nella
emergenza di un Quinto Stato. Che sarebbe questo Quinto Stato? Qui bisogna
riferirsi soprattutto all'idea, che ogni organizzazione comprende due principi
elementari, forze di ordine da un lato, forze di caos dall'altro. Essa sorge da
un'azione formatrice che vincola e frena in determinate strutture (entro le
quali esse possono manifestarsi creativamente come un fattore dinamico) le
seconde. Ebbene, quando un ciclo volge al termine, questo substrato elementare,
il fondo sub-personale e quasi si potrebbe dire goethianamente «demonico» che
nelle civiltà tradizionali era stato piegato, tenuto a freno e elevato da una
legge superiore e dal naturale prestigio che rivestivano i valori spirituali,
eroici e aristocratici e i rappresentanti di essi, tende .a tornare allo stato
libero, ad agire in modo distruttivo, a prendere Il sopravvento. Questo è il
limite e ciò che può corrispondere all'avvento del Quinto Stato.
In
ogni fenomeno « rivoluzionario» in quanto tale vi è sempre una emergenza di
questo substrato informe, più o meno contenuto nei successivi sviluppi, ma nella
prima fase sempre caratterizzato da qualcosa di selvaggio, dal piacere per la
distruzione e l'eversione, da una regressione dell'individuo nel collettivo,
dalla « demonia del collettivo ». Le pagine scritte da Joseph de Maistre sulla
Rivoluzione Francese sono, a tale riguardo, di un valore perenne. D'altr.a
parte, il Quarto Stato lo si può concepire in genere come l'antiStato se lo
Stato lo si intende nel senso tradizionale, come una realtà sopraelevata e come
l'incarnazione di una idea e di un superiore potere ordinatore. Il Berl aveva
creduto di ricono~cere, su tale linea, un valore sintomatico al fenomeno
moderno dì una delinquenza organizzata e endemica, il primo esempio tipico del
quale è stato il gangsterismo americano. Il caratteristico, pertanto, nei tempi
recenti è appunto il fatto «organizzazione ». Con un paradosso, si potrebbe
dire che «il caos si organizza». In effetti le stesse forze spesso si celano
anche dentro al sistemi politici creati dal Quarto Stato, dal comunismo e dal
marxismo, perché per una naturale legge di gravitazione è difficile che in un
processo di caduta uno stadio non finisca con l'aprirsi a ciò che appartiene ad
un livello ancor più basso.
A questo riguardo va considerato non solamente
quanto ha attinenza col piano sociale e politico, ma anche quanto riguarda la
stessa personalità, la distruzione della personalità. Nella storia ci sono
sempre state crudeltà e atrocità, ma l'elemento caratteristico che può entrare
in quistione nella diagnosi dei tempi ultimi riguarda sinistri metodi
razionalmente studiati di degradazione intesi a ridurre gli esseri a cui
vengono applicati a fantocci senza volontà, a degradarli ai loro stessi occhi
(alcune considerazioni valide a questo riguardo, sia pure con riferimenti
tendenziosamente unilaterali, sono state svolte dall'esistenzialista cattolico
Gabriel Marcel). Si può pensare qui ai retroscena di certi processi
d'oltrecortina di ferro e a un certo regime di campi di concentramento e di «
rieducazione ». L'attacco si porta anche contro quella «forma» in senso
eminente che è la personalità. I piani sono naturalmente diversi, ma la
convergenza della direzione, la «sigla », è ben riconoscibile.
Dal
tempo in cui usci il libro del Berl, nel mondo moderno si sono delineati in
altri campi fenomeni che in parte potrebbero venir riportati alle «emergenze»
dianzi accennate. Sarebbero da menzionare, ad esempio, certi aspetti della
cosidetta «generazione in rivolta ». La rivolta può essere legittima quando si
porta contro una civiltà in cui quasi nulla ha più una giustificazione
superiore, che è vuota e assurda, che, meccanizzata e standardizzata, tende
essa stessa verso il sub-personale in un mondo amorfo della quantità. Ma quando
si tratta di «ribelli senza bandiera », quando la rivolta è, per cosi dire,
scopo a se stessa, il resto facendo da pretesto, quando si accompagna a forme
di scatenamento, di primitivismo, di abbandono a quel che è elementare in senso
inferiore (sesso, jazz negro, ebrezza, violenza gratuita e spesso criminosa,
esaltazione compiaciuta del volgare e dell'anarchico), allora non è azzardato
stabilire un certo nesso fra questi fenomeni e gli altri che su un piano
diverso attestano l'azione di forze del caos affioranti dal basso attraverso
le' crepe sempre più visibili dell'ordine sussistente, forze da cui sono
posseduti elementi gettatisi allo sbaraglio e più o meno traumatizzati.
Non
vogliamo cedere alla tentazione di indicare altri fenomeni concomitanti,
attestanti parimenti, benché per un altro verso, un attacco contro la personalità.
Ad esempio, che altro rappresenta la psicanalisi se non una apertura del
diaframma che chiude, spesso provvidenzialmente, un sottosuolo sub-personale
costituito da forze oscure, e l'inversione per via della quale tale sotto suolo
viene presentato come l'elemento primario dell'uomo, come la forza veramente
motrice della psiche? La similarità di questi fenomeni con quanto dalla
ideologia di sinistra viene presentato come una ascesa sul piano sociale e
storico è evidente, alle strutture politiche dall'alto travolte ed esautorate
da questa ascesa facendo da riscontro l'attacco che si muove contro quel che il
pensiero antico aveva chiamato l'egemonikon, ossia il sovrano nell'uomo,
ridotto parimenti ad una mera sovrastruttura.
Però
l'interesse maggiore dell'ordine di idee qui brevemente esposto riguarda forse
quel che negli aspetti propriamente sociali e esistenziali del fenomeno va
riportato al vero « senso della storia », a sintomi precorri tori che rientrano
nella logica di esso. Ci si deve mettere in guardia dalle esagerazioni e da
ogni «apocalittismo », ma molte cose, nel contesto ora accennato, dovrebbero
far riflettere coloro che sono ancora narcotizzati dai miti della democrazia
progressista e che si dimostrano incapaci di cogliere i rigidi nessi di causa
ed effetto presentati da un ormai secolare corso degli avvenimenti, La discesa
quadripartita del livello della civiltà e delle organizzazioni sociali è una
realtà; lo è parimenti l'affiorare, quando l'ultimo gradino sta per essere
raggiunto, di forze infere, di forze del caos, che in certo senso si può dire
non appartengono più al mondo propriamente umano, la formula dell'avvento del
Quinto Stato potendo forse far da cornice ad essa proprio in una gerarchia
normale. Nei gradi superiori ed essenziali di questa gerarchia né «lavoro» né
«lavoratori» possono avere qualcosa da fare. Se vogliamo dare spunti per utili
riflessioni e discussioni alla gioventù ancora sana, è in base a queste visuali
che bisogna darli. Ci sono già abbastanza «aperture a sinistra» altrove perché
anche in campo «nazionale» ci si debba mettere quasi a fare la concorrenza
sullo stesso piano, anche se l'intento fosse solo «profilattico », come
nell'infelice avventura e nel pretesto accampato dal «centro-sinistra» attuale.
L'appello ad un coraggio intellettuale e ad un vero spirito rivoluzionario (più
esattamente: controrivoluzionario, perché la vera rivoluzione oggi può essere
solo rivolta contro il sistema politico e ideologico dove imperano proprio le
idee qui stigmatizzate) è, a tale riguardo, una esigenza veramente categorica.
5. giovinezza biologica e giovinezza politica
Una
delle quistioni su cui spesso si torna negli ambienti di Destra è quella che
riguarda la nuova generazione, nei suoi rapporti con la precedente; la gioventù
« rivoluzionaria» nelle sue relazioni con gli uomini e con le idee del
Ventennio. Vi sono alcuni che, a tale proposito, credono di riconoscere, qui,
ciò che si constata più in genere: la nuova generazione non capisce più la
precedente, il ritmo accelerato degli avvenimenti avendo frapposto fra l'una e
l'altra una distanza ideale assai più grande di quella che in altri tempi
normalmente le separava.
Tuttavia
in questa impostazione si può spesso rilevare una certa superficialità e
tendenziosità. E già i concetti di «giovinezza », di nuova generazione, di «
vocazione rivoluzionaria» non sono, essi stessi, privi di ambiguità?
In
effetti, bisognerebbe cominciare col precisare il piano su cui si vogliono
propriamente far valere simili nozioni: se si tratta del piano biologico,
ovvero di un piano più alto, come nel nostro caso si dovrebbe ben supporre. Se
si vogliono considerare le cose spiritualmente, bisogna badare, perché vi sono
dei casi in cui i valori possono invertirsi, quanto al significato che spetta a
ciò che è « nuovo », che è giovane, che è venuto per ultimo. Cosi, in generale,
se consideriamo le generazioni che si succedono all'interno di un dato ciclo di
civiltà, nei casi accennati si può enunciare addirittura un paradosso, perché
davvero giovane è da dirsi quel che sta alle origini, mentre le generazioni
ultime, cronologicamente più giovani, sono le più vecchie, le senescenti, le
crepuscolari, anche se talvolta ciò che è solo infantilismo e pnrruttvismo può
essere scambiato erroneamente per giovinezza. Per citare un esempio, la
cosidetta «giovinezza» delle razze nord-americane, col loro «mondo nuovo» e il
loro primitivismo, per noi dice proprio dell'infantilismo proprio non a
generazioni «giovani» ma alle generazioni ultime, a quelle che si trovano
involutivamente verso la fine di un ciclo - del ciclo della civiltà occidentale
in genere.
Si
è accennato a ciò perché cosa analoga vale anche in un dominio più concreto.
Cosi, volgendoci d'intorno, possiamo davvero chiamar giovane, altrimenti che in
senso biologico ed anagrafico, una parte purtroppo considerevole dei «giovani»
dell'Italia di oggi? Quella gioventù indifferente ed agnostica, presa da un
materialismo e un edonismo spicciolo, incapace di un qualunque slancio,
incapace di una qualunque linea, animantesi al massimo a delle partite di
calcio e al Giro d'Italia? Questa «gioventti» noi piuttosto la diremmo morta
ancor prima di esser nata. Chiunque oggi non si lasci andare, chiunque viva una
idea, chiunque sappia tenersi in piedi secondo una dirittura e disdegni tutto
ciò che è fiacco, obliquo, ritorto, vile, qualunque sia la sua età, è
infinitamente più « giovane» di codesta particolare «gioventti ».
Proprio
su tale linea devesi intendere ciò che è gioventù in un senso non soltanto
biologico e si definisce un comune denominatore, per il superamento di antitesi
artificiali. Se dovessimo indicare il carattere fondamentale di una giovinezza
intesa in questo senso superiore, noi la indicheremmo nella volontà per l'incondizionato.
In effetti, a non diverso fattore può ricondursi, da un lato, tutto ciò che è
idealismo in senso positivo, dall'altro, ogni specie di coraggio, di slancio,
di iniziativa creativa, di attitudine a portarsi risolutamente su posizioni
nuove, tenendo in poco conto la propria persona. In particolare, fisicamente,
la gioventù vera ha in proprio appunto la disposizione quasi paradossale di una
vita in crescenza, che, invece di esser attaccata a se stessa, sa spendersi
senza riguardo e può tenere in non conto la stessa morte.
È
opportuno distinguere fra la fase più elementare, in cui le qualità ora
indicate si manifestano solo in forma spontanea, disordinata e transitoria,
spesso come in un fuoco di paglia, e la fase, in cui esse sono convalidate e
stabilizzate. Il primo è di frequente il caso della gioventù vera e propria,
che poi a poco a poco si « normalizza », «mette la testa a posto », si convince
che « l'idealismo è una cosa, la vita un'altra », abdicando a quella volontà
per l'incondizionato, che cOSI si palesa aver avuto, in essa, un a base
prevalentemente fisica. Il secondo caso si verifica invece quando si abbiano
dovute affrontare delle prove, dure prove, e queste prove le si siano superate
senza venir meno.
Ciò
vale sia nel dominio interiore che in quello politico. Con il che si può
tornare al problema da cui si è partiti. Quale è la generazione di ieri che
quella di oggi non potrebbe più comprendere? Esiste, di fatto, un ricorso:
anche ieri (dopo la prima guerra mondiale) vi è stata una «generazione del
fronte »; anche ieri si presentarono condizioni politiche, sociali e morali
insopportabili e per una insofferenza, un idealismo e un virilismo enucleatisi
attraverso una vita di pericolo e di combattimento, si formarono le premesse
per il movimento fascista. Oggi le cose si ripresentano negli stessi termini;
in più, vi è la circostanza di una prova più dura, oggi trattandosi di una
«generazione del fronte» superstite non di una vittoria, ma di una disfatta e
di un generale disfacimento.
In
questi termini dovrebbe solo esistere una fondamentale continuità. Siffatta
continuità di una « giovinezza» non biologica ma politica, cessa solo quando si
tratti di uomini di ieri che nel fascismo venuto al potere si perdettero, che
non furono più capaci di mantenere la loro intransigenza, la loro volontà per
l'incondizionato, il loro radicalismo, vendendo la loro primogenitura per un
piatto di lenticchie: per questa o quella carica semi-burocratica nei quadri di
un deprecabile, scenografico «gerarchismo» e nuovo conformismo.
Sarebbe
però davvero ingiusto fare di ogni erba un fascio e disconoscere che nel
fascismo vi son pure stati uomini che sono rimasti in piedi, spesso ostacolati
in ogni modo dall'una o dall'altra cricca ufficiosa. Il ricongiungersi di essi
con la nuova ondata, con la nuova gioventù e la nuova «generazione del fronte
», dovrebbe esser naturale, per congenialità: come in una stessa corrente che,
superata l'ostruzione, l'ingorgo, riprende il suo corso.
Sia
accennato ancora un punto. Non è sempre facile - specie nel caso di .Italiani,
di Mediterranei - dare a se stessi un valore autonomo. Per sentire la propria
individualità, la propria importanza, molti han bisogno di agitarsi, di
contrapporsi a tutti i costi a qualcosa o a qualcuno. È a questa luce che
bisogna giudicare certi aspetti della «vocazione rivoluzionaria» ed anche di un
certo individualismo della « giovenni », quando essa in ogni caso vuol
differenziarsi e sposa indiscriminatamente idee nuove solo perché nuove. A base
di ciò, spesso vi è, dunque, semplicemente un «complesso d'inferiorità »: il
bisogno, appunto, di valere in modo indiretto, per antitesi e contrasto, non
sentendosi abbastanza sicuri di se stessi. È, questo, un atteggiamento che la
giovenni politica, e non semplicemente biologica, dovrebbe rettificare.
L'ambizione più alta non dovrebbe essere quella di fare i rivoluzionari ad ogni
costo, ma piuttosto di esser gli esponenti di una tradizione, i portatori di
una forza trasmessa che va accresciuta e potenziata con tutto ciò che può
assicurarle una direzione inflessibile. Il che concerne anche il dominio delle
idee, e una delle prove della freschezza interna è intendere che quelle giuste
sovrastano ogni contingenza e che con esse acquista valore la vera personalità:
non in un confuso impulso rivoluzionario, non in una diffidenza preconcetta per
il passato, non in un dinamismo disordinato che solo accusa la mancanza di una
vera forma interna. Senza venire a particolari deduzioni, perché questa non ne
è la sede si potrà facilmente riconoscere, da ciò, quel che nella gioventù
politica di oggi va rettificando come attitudine generale affinché in una unità
di forze, possa esser perseguito un ideaÌe politico preciso: l'ideale del vero
Stato organico.
6. il problema della decadenza
Chi
respinge il mito, peraltro orma! In gran parte scontato, del progressismo e
dell'evoluzionismo e in una interpretazione almeno della storia più recente e
con riferimento a valori superiori, va invece a constatare come senso di detta
storia una involuzione, si trova di fronte al «problema della decadenza ». Se
l'evoluzionismo poggia su di una impossibilità logica, il più non potendo
derivare dal meno e il superiore dall'inferiore, una analoga difficoltà sembra
presentarsi a voler spiegare l'involuzione. Come è possibile che ciò che è
superiore degeneri, che un dato livello spirituale e di civiltà vada perduto?
La
soluzione non sarebbe difficile se ci si potesse accontentare di semplici
analogie: l'uomo sano può ammalarsi, il virtuoso può divenire vizioso, una
legge naturale che non desta sorpresa in nessuno, fa si che ogni organismo,
dopo nascita, sviluppo e pienezza di vita s'invecchi, s'indebolisca, muoia. Ma
questo è un constatare, non uno spiegare, anche ad ammettere che fra i due
ordini esista una analogia completa: cosa dubbia, quando si tratta delle
civiltà e delle organizzazioni politico-sociali, dato che qui la volontà umana
e la sua libertà hanno una parte assai diversa che non in quei fenomeni naturalistici.
Pertanto,
questa obiezione incontra anche la teoria di Oswald Spengler, la quale riprende
proprio l'analogia offerta dalla fattualità organica, assumendo che, al pari di
ogni organismo, ogni civiltà ha una fase aurorale, una fase di pieno dispiegamento,
poi un invecchiamento autunnale, una sclerosi e, infine, la morte e la
dissoluzione.
Il
ciclo andrebbe dalle forme originarie organiche, spirituali ed eroiche di
quella che lo Spengler chiama Kultur, alle forme materializzate, inorganiche,
massificate e disanimate di ciò che egli chiama Zivilisation. Una tale teoria
ripete in parte quella, a carattere tradizionale, riguardante le cosidette
«leggi cicliche », riferite, peraltro, ad un dominio assai piri vasto, anche
metafisico, e che può portarci un po' più oltre nell'approfondimento del nostro
problema. Essa offre, effettivamente, un inizio di spiegazione perché qui ci si
riferisce alla manifestazione di una forza la quale, a poco a poco, si
esaurisce - con una banale ma acconcia imagine, come la forza immessa in uno
stantuffo la quale provoca un movimento espansivo che gradatamente si rallenta
e finisce, a meno che si verifichi una nuova immissione (che darebbe luogo, nel
nostro caso, ad un nuovo ciclo). In particolare, è da raccogliere la specificazione
che sul piano della realtà umana la forma in quistione sarebbe essenzialmente
da intendere come una superiore forza organizzatrice la quale lega forze
inferiori, ad esse imprimendo una forma. Quando la tensione originaria si
indebolisce tali forze si svincolano e gradatamente prendono il sopravvento,
dando luogo a fenomeni dissolutivi.
Questa veduta appare utilizzabile nel quadro
specifico in cui qui vogliamo limitare il problema della decadenza. Il punto di
partenza, in parte simile a quello dello Spengler, è un dualismo di tipi di
civiltà, conseguentemente anche di Stato. Da un lato vi sono le civiltà
tradizionali, diverse nella forma e in tutto ciò che è dovuto a fattori
contingenti, ma identiche nel loro principio: sono le civiltà nelle quali forze
e valori spirituali e superindividuali costituiscono l'asse e il punto supremo
di riferimento per l'organizzazione generale, per la formazione e per la
giustificazione di ogni realtà subordinata.
Dall'altro
lato vi è la civiltà di tipo moderno, identica alla antitradizione, costruita
ad opera di fattori soltanto umani, terrestri, individualistici e
collettivistici, completo sviluppo di tutto ciò che può una vita dissociatasi
dalla supervita. La decadenza appare come il senso della storia, per il fatto
che si constata il venir meno in essa delle civiltà di tipo « tradizionale» e
l'avvento sempre più preciso, generale, planetario di una nuova civiltà comune
di tipo « moderno ».
Il
problema specifico è, dunque, in genere, come ciò sia stato possibile.
Restringiamo ulteriormente il campo dell'indagine e consideriamo quel che ha
propriamente attinenza con una struttura gerarchica e col principio
dell'autorità, perché, in fondo, ciò costituisce anche la: chiave di tutto il
resto. Nel caso delle gerarchie tradizionali e di quell'azione formatrice di
cui si è detto or ora con riferimento alle leggi cicliche, come premessa si
deve contestare l'idea che il fattore fondamentale ed esclusivo di esse sia
stato una specie di imposizione, di controllo diretto e di dominio violento,
sia pure di ciò che si considera superiore, su ciò che è inferiore. A parte
tutto questo, va dato un peso essenziale ad un'azione spirituale. Cosi
tradizionalmente si è potuto parlare di un «agire senza agire », si è usato il
simbolismo del «motore immobile» (nel senso aristotelico) e del «polo »,
dell'asse immutabile intorno al quale si svolge ogni moto ordinato delle forze
soggette; è stato sottolineato l'attributo «olimpico» della vera autorità e
sovranità e il suo modo di affermarsi direttamente, non per violenza ma per
presenza: infine, talvolta è stata usata l'imagine del magnete che, come
vedremo, dà la chiave di tutto il problema qui in esame. La concezione
dell'origine violenta di ogni ordinamento gerarchico e statale, cara alla storiografia
e alla ideologia di sinistra, è da rigettare perché primitiva, falsa o almeno
incompleta.
In
genere, è assurdo credere che i rappresentanti di una vera autorità spirituale
e della tradizione si mettessero a correre dietro agli uomini per afferrarli e
legarli ognuno al proprio posto avendo un interesse diretto a creare e a
mantenere quei rapporti gerarchici in virtù dei quali essi anche visibilmente
potevano apparire come dei capi. Non la semplice sottomissione ma l'adesione e
il riconoscimento da parte dell'inferiore sono, invece, la base fondamentale di
ogni gerarchia normale e tradizionale. Non è il superiore che ha bisogno
dell'inferiore, ma è l'inferiore che ha bisogno del superiore; non è il capo
che ha bisogno dei gregari ma è il gregario che ha bisogno di un capo.
L'essenza
della gerarchia sta nel fatto che in alcuni esseri vive, in forma di presenza e
di realtà attuata, ciò che negli altri esiste solo come aspirazione confusa,
come presentimento, come tendenza, per cui questi sono fatalmente attratti dai
primi, naturalmente ad essi si subordinano, in ciò subordinandosi meno a
qualcosa di esteriore che non ad un loro più vero « io ». Qui sta il segreto di
ogni prontezza al sacrificio, di ogni eroismo lucido, di ogni libera virile
dedizione nel mondo delle antiche gerarchie - e, d'altra parte, di un
prestigio, di una autorità, di una calma potenza e di una influenza che nemmeno
il tiranno più armato avrebbe mai potuto assicurarsi.
Riconoscere
questo, significa anche vedere sotto un'altra luce non solo il problema della
decadenza ma anche quello della possibilità, in genere, di ogni rivolgimento
sovvertitore. Non si è forse sentito ripetere che, se una rivoluzione ha
trionfato, è segno che i capi antichi erano fiacchi e che gli antichi ceti dirigenti
erano degeneri? Ciò può essere vero, ma è unilaterale. Si dovrebbe certamente
pensare a ciò, qualora si avessero come dei cani selvaggi alla catena, che alla
fine prendono la mano: ciò evidentemente proverebbe che le mani che tenevano
fermi quegli animali non sono, o non sono più, abbastanza forti. Ma le cose
stanno altrimenti se si contesta l'origine esclusivamente violenta del vero
Stato e quando il punto di partenza è la gerarchia di cui abbiamo or ora
indicato il fondamento più essenziale. Una tale gerarchia può venire rovesciata
in un solo caso: quando il singolo decade, quando egli usa della sua
fondamentale libertà per privare la sua vita di ogni superiore riferimento e
costituirsi a sé quasi come troncone. Allora i contatti vengono fatalmente
interrotti, la tensione che unificava l'organismo tradizionale e che del
processo politico faceva la controparte di un processo di elevazione e di
integrazione del singolo, di realizzazione di possibilità superiori latenti, si
allenta; allora ogni forza vacilla nella sua orbita, e alla fine - dopo un
eventuale vano tentativo di sostituire con costruzioni razionalistiche o
utilitarie la tradizione perduta - se ne svincola: gli àpici possono anche
rimanere puri e intatti in alto, ma il resto, che prima stava come sospeso ad
essi, sarà simile ad una valanga che con un moto dapprima impercettibile e poi
accelerato, perduta la stabilità precipita giù, sino in fondo, sino al
livellamento della valle: liberalismo, socialismo, collettivismo di massa,
comunismo.
Questo
è il mistero della decadenza nell'àmbito ristretto al quale abbiamo limitato le
nostre considerazioni; questo è il mistero di ogni rivoluzione sovvertitrice.
Il rivoluzionario ha cominciato con l'uccidere in sé la gerarchia mutilandosi
di quelle possibilità alle quali corrispondeva il fondamento interiore
dell'ordine, che egli, poi, va ad abbattere anche esteriormente. Senza una
preliminare distruzione interiore non vi è rivoluzione - nel senso di
sovvertimento antigerarchico e antitradizionale - che sia possibile. E poiché
questa fase preliminare sfugge all'osservatore superficiale, al miope che non
sa vedere e valutare che i « fatti », così si è usi a considerare le
rivoluzioni come fenomeni irrazionali o a spiegarle unicamente con fattori
materialistici e sociali, i quali in ogni civiltà normale non hanno avuto che
una funzione secondaria e subordinata.
Quando
la mitologia cattolica riferisce la caduta dell'uomo primordiale e la stessa
«rivolta degli angeli» al libero arbitrio, in fondo essa si riporta allo stesso
principio esplicativo. Si tratta del temibile potere, insito nell'uomo, di
usare la libertà nel senso di una distruzione spirituale, per respingere tutto
ciò che può assicurargli una più alta dignità. È, questa, una decisione
metafisica, della quale tutta la corrente che serpeggia nella storia, nelle
varie forme di apparire dello spirito antitradizionale, rivoluzionario,
individualistico, umanistico, laicistico e infine «moderno », non è che la
manifestazione e, per così dire, la fenomenologia. Questa decisione è la causa
prima attiva e determinante nel mistero della decadenza, della distruzione
tradizionale.
Compreso
ciò, si è anche vicini a penetrare il senso di antiche tradizioni, di natura
alquanto enigmatica, relativa a dei capi che, in un certo senso, già esistono,
non avendo mai cessato di essere, e che possono essere ritrovati (essi stessi,
o le loro « sedi») mediante azioni descritte in vario modo ma sempre a
carattere simbolico; la loro ricerca equivale infatti ad un reintegrarsi, al
creare un dato atteggiamento la cui virtù è analoga alle qualità essenziali per
le quali un dato metallo subitamente sente (per così dire) il magnete, scopre
il magnete e si orienta e muove irresistibilmente verso il magnete. Ci
limitiamo a questo accenno, che chi vuole può sviluppare.
Ma
guardando ai tempi attuali la controparte è un profondo pessimismo. Quand'anche
apparissero dei veri capi, oggi essi non verrebbero riconosciuti, a meno che
non nascondessero questa loro qualità e non si presentassero essenzialmente
sotto le specie di demagoghi e di agitatori di miti sociali. È anche per questo
che l'epoca delle monarchie si è chiusa, mentre in precedenza, a che l'ordine
sussistesse, poteva bastare perfino il semplice simbolo, non occorreva che chi
lo incarnava fosse sempre, come uomo all'altezza di esso.
All'opposto
di quel che pensano i seguaci del mito del progresso, i movimenti rivoluzionari
dell'epoca moderna, lungi dal rappresentare qualcosa di positivo e di aver dato
vita a forme autonome e originali, hanno essenzialmente agito per inversione,
sovversione, usurpazione e degradazione dei principi, delle forme e dei simboli
dei regimi e delle civiltà precedenti, a carattere tradizionale. Ciò potrebbe
venir facilmente illustrato con esempi tipici presi da vari domini, cominciando
con una considerazione degli stessi «immortali principi» della Rivoluzione
Francese. Ma per ora vogliamo soffermarci solo su alcuni termini e alcuni. simboli
caratteristici.
Anzitutto
il colore rosso. Tale colore, divenuto l'emblema della sovversione, è quello
che in precedenza, come porpora, ha avuto ricorrentemente relazione con la
funzione regale e imperiale: ciò, non senza relazione col carattere sacro ad
essa riconosciuto. La tradizione potrebbe riportarci fino all'antichità
classica, ove tale colore, avente corrispondenza col fuoco concepito come il
più alto fra tutti gli elementi (è quello che, secondo gli Antichi, sostanziava
il cielo più alto, detto perciò l'empireo), si associò anche al simbolismo
trionfale. Nel rito romano del « trionfo» avente un carattere più religioso che
non militare, l'imperatore, il vincitore, non solo rivestiva la porpora, ma in
origine si tingeva dello stesso colore, nel senso di rappresentare Giove, il re
degli dei, che si pensava avesse agito attraverso la sua persona tanto da esser
lui il vero artefice della vittoria. È superfluo citare esempi delle tradizioni
successive per quel che riguarda il rosso come colore della regalità: .nello
stesso cattolicesimo i « porporati» sono i « principi della Chiesa ». Ora, noi
oggi vediamo questo colore degradato nella bandiera rossa marxista e nella
rossa stella dei Soviet.
Ma prendiamo la stessa parola « rivoluzione ».
Pochi si rendono conto della perversione del significato originario proprio
all'uso moderno di essa. Rivoluzione in senso primario non vuoI dire
sovvertimento e rivolta, ma proprio l'opposto, cioè ritorno ad un punto di
partenza e moto ordinario intorno ad un centro per cui nel linguaggio
astronomico la rivoluzione di un astro è appunto il movimento che esso compie
gravitando intorno ad un centro, che ne vincola la forza centrifuga per via
della quale esso si perderebbe nell'infinito.
Ma
questo concetto ha anche parte importante nella dottrina e nel simbolismo della
regalità. Ha avuto un carattere pressoché universale il simbolismo del polo
applicato al Sovrano, punto fermo e stabile intorno a cui si ordinano le varie
attività politicosociali. Ecco un detto caratteristico della tradizione
estremoorientale: « Colui che regna mediante la virtù del Cielo (o mandato
divino) rassomiglia alla stella polare: essa resta ferma al suo posto, ma tutte
le altre stelle le volgono d'intorno ». Nel vicino Oriente il termine Qutb, « polo
», ha designato non solo il sovrano ma phi in genere, colui che dà legge ed è
il capo della tradizione di un dato periodo storico. Si può rilevare, del
resto, che l'insegna regia e . imperiale dello scettro in origine non ha avuto
un significato diverso, Lo scettro incorpora il concetto di « asse », analogo
al concetto di «polo ». E questo è l'attributo essenziale della regalità, la
base dell'idea stessa di «ordine ». Quando esso è reale, sussiste sempre, in un
organismo politico, qualcosa di saldo e di. calmo, malgrado ogni agitazione o
sconvolgimento dovuto alle contingenze storiche: si potrebbe usare, a tal
proposito, l'imagine del cardine di una porta, che resta immobile e tiene ferma
la porta anche quando essa sbatte.
La «rivoluzione» nel senso moderno, con tutto
ciò che ha creato, equivale invece allo scardinamento della porta, all'opposto
del significato tradizionale del termine: le forze sociali e poIitiche si
sciolgono dalla loro orbita naturale, declinano, non conoscono più un centro né
un ordine che sia diverso da una forma malamente e temporaneamente arginata di
disordine.
Si
è accennato alla stella dei Soviet. È la stella a cinque punte.
Per
essa possono valere considerazioni analoghe. Ci limiteremo a ricordare che tale
segno - come il cosidetto «pentagramma» - ancor dopo la Rinascenza valse come
un simbolo esoterico del « microcosmo », cioè dell'uomo concepito come imagine
del mondo e di Dio, dominatore di tutti gli elementi grazie alla sua dignità e
alla sua destinazione sovrannaturale. Cosi anche nelle leggende e nelle storie
di magia (si ricordi il Faust di Goethe) quella stella appare come il segno
consacrato al quale S~1t1t1 ed elementi obbediscono. Ebbene, attraverso un
processo di degradazione di cui sarebbe interessante seguire le fasi, la stella
pentagrammata da quel simbolo dell'uomo come essere spiritualmente integrato e
sovrannaturalmente sovrano, che era, è passato ad esser il simbolo dell'uomo
terretrizzato e collettivizzato, del mondo delle masse proletarie volte al
dominio del mondo nel. segno di un messianismo esso stesso invertito, ateo,
distruttore di ogni valore superiore e di ogni dignità umana.
Questa
degradazione dei simboli è, per ogni sguardo attento, un segno quanto mai
significativo ed eloquente dei tempi.
Si
racconta che in una terra non europea, ma di antica civiltà, una impresa
americana, lamentando il poco concorso degli abitanti del luogo assunti pei
lavori pensò di aver trovato il mezzo adatto per spronarli: ne raddoppiò le
paghe orarie. Insuccesso: gran parte degli operai si presentò ai lavori per la
metà delle ore di prima. Ritenendo la mercede originaria sufficiente per i
bisogni naturali della loro vita, essi ora pensavano del tutto assurdo doversi
applicare più di quel che, in base al nuovo criterio, bastava per procurarsela.
È,
questa, l'antitesi di ciò che recentemente da noi è stato chiamato lo
stakhanovismo. Questo aneddoto può valere come la pietra di paragone per due
mondi, due mentalità, due civiltà, da giudicarsi l'una sana e normale, l'altra
deviata e psicotica.
Per
esserci riferiti a una ragione non-europea non si adducano qui i luoghi comuni
circa l'inerzia o l'indolenza di razze che non sono quella « attivista» e «
dinamica» occidentale. In questo, come in altri domini, tali obbiezioni non
hanno ragion d'essere: basta distogliersi dalla civiltà «moderna» per ritrovare
anche da noi, in Occidente, le stesse concezioni della vita, la stessa
attitudine, lo stesso apprezzamento del lucro e del lavoro.
Prima
dell'avvento in Europa di quella che ufficialmente e significativamente è stata
chiamata 1'« economia mercantile» (significativamente, perché si sa in che
conto nella gerarchia sociale tradizionale fossero tenuti i tipi del «mercante»
e del prestatore di danaro), dalla quale doveva rapidamente svilupparsi il
capitalismo moderno, era criterio fondamentale nella economia che i beni
esteriori debbono esser soggetti ad una certa misura, che la ricerca del
guadagno è scusata e lecita solo se serve ad assicurarsi una sussistenza
corrispondente al proprio stato. Di conseguenza come economia normale, valeva
essenzialmente una economia di consumo. Questa era anche la concezione
tomistica e, più tardi, la stessa concezione luterana. L'importante era che il
singolo riconoscesse la sua appartenenza ad un dato gruppo e l'esistenza di
determinati quadri fissi o limiti, entro cui sviluppare le sue possibilità,
realizzare la sua vocazione, tendere ad una parziale specifica perfezione. Non
diversa, anche, l'antica etica corporativa, ove avevano risalto i valori della
personalità e della qualità, ove, in ogni caso, la quantità del lavoro era
sempre in funzione di un livello determinato dei bisogni naturali. In genere,
il concetto di progresso veniva allora applicato ad un piano essenzialmente
interiore, non all'uscire dal proprio rango a cercare il lucro ed a
moltiplicare la quantità di lavoro per raggiungere una posizione esteriore,
economica e sociale, che non fosse la propria.
Tutte queste, dunque, furono vedute
perfettamente occidentali: dell'uomo europeo, quand'era ancora sano, non ancora
morso' dalla tarantola, non ancora succube deIl'insana agitazione e dell'ipnosi
dell'«economia», che dovevano condurlo fino ai disordini, alle crisi e ai parossismi
dell'attuale civiltà. Ed oggi si bandisce questo o quel sistema, si cerca
questo o quel palliativo, ma nessuno si riporta all'origine. Il riconoscere che
anche in economia i fattori primari sono i fattori spirituali, che un
cambiamento di attitudine, una vera metanoia è il solo mezzo efficace se si
deve ancora concepire un arresto sulla china, ciò va al di là dell'intelletto
dei tecnici, giunti a proclamare ormai che «la economia è il nostro destino».
Ma
dove conduca la via, ove l'uomo tradisca se stesso, sovverta ogni giusta
gerarchia di valori e di interessi, si concentri nell'esteriorità e della
ricerca del guadagno, della «produzione », del fattore economico in genere
faccia il motivo predominante della sua anima, lo si sa. Forse il Sombart è
colui che meglio di ogni altro ha analizzato tutto il processo. Esso sbocca
fatalmente in quelle forme dell'alto capitalismo industriale, in cui si è
condannati ad una corsa senza tregua e ad una espansione illimitata del
produrre, perché ogni arresto significherebbe immediatamente arretrare, spesso
essere scalzati o travolti. Donde dei processi economici a catena che prendono
il grande imprenditore anima e corpo, che lo. legano più dell'ultimo suo
operaio, mentre la corrente, resasi quasì autonoma: trascina con sé migliaia di
esseri e finisce col dettar legge a genti o governi. Fiat productio, pereat homo, come già scrisse appunto il Sombart.
Ciò
svela, fra l'altro, gli stessi retroscena dell'opera di «bbera: zione» e di
aiuto americano al mondo. Siamo al quarto punto di Truman che, traboccante di
disinteressato amore, vuole «l'elevamento economico delle zone meno progredite
della terra»: in altri termini: il condurre a termine le nuove tnva.slom.
barba: riche, l'abbrutimento nei trivi dell'economia anche di quel paesi che un
felice incontro di circostanze ha ancora preservato dal morso della tarantola,
ha ancora conservato in un tenore tradlzionale dì vita ha ancora trattenuto
dallo sfruttamento economico e «produttivo» ad oltranza di ogni possibilità
dell'uomo e. della natura. Mutatis
mutandis, si continua il sistema di quelle prime: compagnie commerciali che
si facevano accompagnare dal cannoni per «persuadere» al commercio chi a ciò
non aveva alcun interesse…
Occidentale
è stata l'etica compendiantesi nel principio «abstine et substine», come
occidentale è stato il tradlmento di essa in una concezione della vita che,
invece di mantenere il blsogno entro i limiti naturali in vista del
perseguimento di ciò che e veramente degno di umano sforzo, ha per ideale l'accrescimento
e la moltiplicazione artificiale del bisogno stesso, epperò anche dei mezzi per
soddisfarlo, senza riguardo alla schiavitù crescente che ciò va a costituire,
prima per il singolo e poi per le collettività, in forza di una ineluttabile
legge. Che, su tale base non vi sia più stabilità alcuna, che tutto frani e la
cosidetta «quistione socale»: già pregiudicata in partenza da premesse impossibili,
si esasperi fin là dove comunismo e bolscevismo lo desiderano, ciò non deve far
meraviglia. . .
Peraltro,
oggi si è giunti a tanto, ogni diversa veduta appare "anacronistica",
"antistorica". Belle, impagabili parole! Ma dovunque si tornasse alla
nromalità si renderebbe evidente che, per il singolo, non vi è accrescimento
esteriore, "economico", il quale valga la pena, e alla cui lusinga
egli non debba assolutamente resistere quando la controparte sia la menomazione
essenziale della sua libertà; che nessun prezzo è tale da poter pagare uno
spazio libero, un libero respiro, tanto da permettere il ritrovare se stessi,
l'essere se stessi, il raggiungere ciò che ad ognuno è possibile di là dalla
sfera condizionata dalla materia e dai bisogni della vita ordinaria.
Né
cosa diversa vale per le nazioni, specie quando le loro risorse sono limitate.
Qui la «autarchia» è un principio etico, perché identico deve essere, per un
singolo e per uno Stato, ciò che pesa di più sulla bilancia dei valori: meglio
rinunciare al fantasma di un illusorio miglioramento delle condizioni generali
ed adottare, ove occorra, un sistema di «austerity», che non aggiogarsi al
carro di interessi stranieri, lasciarsi coinvolgere in processi mondiali di una
egemonia e di una produttività economica lanciata a vuoto, che alla fine,
quando non trovino più presa, si ritorceranno contro quelli stessi che li hanno
destati a vita.
Non
meno di tutto ciò si rende evidente a chi rifletta sulla « morale» insita nel
semplice aneddoto riferito al principio. Due mondi, due mentalità, due destini.
Di contro ai « morsi della tarantola» stanno coloro che ancora sanno ricordarsi
di ciò che è giusta attività, retto sforzo, cosa degna di esser perseguita,
fedeltà a se stessi. «Realizzatori» ed esseri che stanno davvero in piedi, sono
solo essi.
A
chi si darà a considerare la storia segreta dell'antica romanità, l'esame dei
cosidetti Libri Sibillini costituirà un compito di una importanza, che non
potrebbe essere esagerata. Per rendersene conto, naturalmente, occorre avere
degli adeguati principi e in prima linea bisogna rifarsi all'idea, che la
romanità non costitui qualcosa di omogeneo; forze opposte in essa
s'incrociarono e scontrarono. Traendosi enigmaticamente da civiltà e razze che
facevano essenzialmente parte del ciclo mediterraneo pelasgico pre-ariano, Roma
va a manifestare un principio opposto. Con essa, l'elemento virile, apollineo e
solare si oppone, in forme varie, a quello prorniscuo-feminile, tellurico,
lunare del mondo precedente che, alla fine, era riuscito a travolgere la stessa
Ellade olimpica e eroica. Solo questo inquadramento permette di comprendere il
senso profondo di tutti i rivolgimenti più importanti dell'antica vita e
dell'antica storia romana. Ciò che Roma ebbe di specificatamente romano si
costituì attraverso una lotta incessante del principio virile e solare
dell'Imperium contro un oscuro substrato di elementi etnici, religiosi e anche
mistici ove la presenza di una forte componente semitico-pelasgica è
incontestabile e dove il culto tellurico-lunare delle grandi Dee Madri della
natura aveva una parte importantissima. Questa lotta ebbe alterne vicende.
L'elemento pre-romano, soggiogato in un primo tempo, passò successivamente alla
riscossa, in forme phi sottili, e in stretta dipendenza con culti e forme di vita
decisamente asiaticomeridionali. È in questo insieme che bisogna studiare
l'essenza e l'influenza dei Libri Sibillini in Roma antica: essi costituirono
un importantissimo punto di riferimento per una sotterranea azione di
corrosione e di snaturamento della romanità aria, nell'ultima fase della quale,
nel punto, cioè, in cui la controffensiva si sentiva vicina allo scopo sognato,
vediamo entrare significativamente in giuoco, quasi senza maschera, non solo il
generico elemento di decomposizione asiatico-semitico, ma anche quello
propriamente e coscientemente giudaico.
La
tradizione riferisce l'origine dei Libri Sibillini ad una figura feminile e ad
un re della dinastia straniera: si tratterebbe di una parte dei testi offerti
da una vecchia a Tarquinio il Superbo, cioè all'ultimo dominatore dell'epoca
romana prisca derivato dal ceppo pre-romano e pelasgico degli Etruschi. Questi
libri furono accolti nello stesso tempio di Giove Capitolino. Affidati ad uno
speciale collegio - i duumviri che poi divennero i quindicemviri sacris
faciundis - essi divennero una specie di oracolo a cui il Senato chiedeva i
responsi. Nell'83 essi andarono perduti nell'incendio che distrusse il
Campidoglio. Si cercò di ricostituirli facendo delle ricerche nei luoghi sacri più
noti della religione sibillina e il nuovo testo fu oggetto di successive
revisioni. Naturalmente, in questa nuova fase, attraverso il materiale piti o
meno spurio raccolto, le infiltrazioni dovettero esser assai facili. I testi
eran tenuti segretissimi. Solo il collegio anzidetto poteva vederli e
direttamente consultarli. Come lo sappiamo attraverso la fine orribile di M.
Attilio, comunicare qualcosa di essi ad estranei era considerato un misfatto
che attirava un castigo inesorabile.
Se
si prescinde da quelli che comunemente sono chiamati i libri sibillini ebraici
(Orac. Sibyll., III, IV, V), non si sa dunque nulla di preciso sul loro
contenuto: si sa solo degli effetti che essi produssero, cosa che però può
fornirci l'essenziale. La base materiale, «oggettiva », di un «oracolo »,
infatti è ciò che meno importa: essa, appunto, non è che base, che appoggio: è
uno strumento il quale, in circostanze speciali, permette a certe «influenze»
di esprimersi cosi come, su di un altro piano, fenomeni vari sono propiziati dalla
presenza di un medium e dal suo stato di transe. Perciò, nei riguardi dei primi
Libri Sibillini, non interessa sapere quali fossero le formule e le sentenze
che contenevano, bensi la « linea» che si tradisce attraverso la serie dei
responsi a cui essi dettero luogo attraverso interpretazioni spesso varie, caso
per caso, degli identici testi. È questa linea che ci fa conoscere con
esattezza la vera natura dell'influenza connessa all'oracolo.
Ora,
noi vediamo che questo oracolo quasi sempre agi nel senso di allontanare Roma
dalle proprie tradizioni, di introdurre elementi esotici e altera tori, culti
che andavano sovversivamente incontro soprattutto alla plebe, cioè all'elemento
che in Roma si manteneva in una inconscia coalescenza con le precedenti civiltà
italico-pelasgiche, opposte al nucleo solare e ariano. Usati soprattutto in
momenti di pericolo, di calamità e di incertezza per calmare il popolo, i Libri
Sibillini con i loro responsi dovevano indicare i mezzi più atti per
assicurarsi la benevolenza e il concorso di forze superne, divine. Ebbene, mai
le risposte ebbero per conseguenza il rafforzare il popolo romano nelle sue
antiche tradizioni e nei culti che più caratterizzavano il suo patriziato
sacrale; esse sempre ordinarono di introdurre o adottare divinità esotiche, la
relazione delle quali col ciclo della civiltà preromana e antiromana della
Madre è, nella grandissima maggioranza dei casi, visibilissima.
Il
contenuto di uno dei più antichi responsi sibillini, quello dato nel 399 in
occasione di una peste, può considerarsi come un simbolo complessivo del senso
dello snaturamento che doveva poi gradatamente operarsi. L'oracolo volle che
Roma introducesse il lettisternio e la supplicatio a questo correlativa. La
supplicatio consisteva nell'inginocchiarsi o prostrarsi dinanzi alle divinità,
per abbracciarne e baciarne le ginocchia o i piedi. Tanto può sembrare naturale
o, almeno, appena un po' esagerato questo rito a chi si sia assuefatto alle
forme di religione subentrate all'antica paganità, altrettanto questa usanza
era sconosciuta al romano antico: che non conosceva servilismi semitici dinanzi
al divino, che virilmente, in piedi, pregava, invocava o sacrificava. È già
l'indice di una trasformazione profonda, del passaggio da una mentalità ad
un'altra.
Nel
258, dai Libri Sibillini furono introdotti in Roma Demetra, Dioniso e Core. È
la prima grande fase dell'offensiva spirituale: essa conduce le due grandi Dee
telluriche della natura con il loro compagno orgiastico, simbolo di ogni
confuso e antivirile misticismo, all'interno del mondo che la romanità prisca
aveva costruito distruggendo con le armi razze e centri di potenza i quali già
avevano incarnato forme affini, promiscue di spiritualità. Nel 249 entrano a
Roma, sempre per volontà dei Libri Sibillini, Dispater e Proserpina, cioè
addirittura le divinità tellurico-infere, le personificazioni più tipiche di
ciò che è opposto agli ideali olimpici e apollinei; ad esse fa seguito, nel
217, una divinità afroditica, la Venus Ericina e infine, nel 205, nel momento più
critico delle guerre puniche, entra, per cosi dire, la Sovrana di tutto questo
ciclo, colei che può dirsi la personificazione dell'intero spirito
pelasgico-asiatico preromano, Cibele, la Magna Mater. Tutte queste divinità
erano affatto sconosciute ai Romani: e se la plebe, rigalvanizzata nel suo
substrato più spurio, era presa da un entusiasmo spesso frenetico per esse, il
senato e il patriziato in un primo tempo non mancarono di dar segni della loro
ripugnanza e della loro coscienza del pericolo. Donde la strana incongruenza
propria al fatto, che mentre Roma con ogni sfarzo andò a prendere il simulacro
di Cibele da PeSS1- nunte, pure proibi ai cittadini romani di prender parte
alle cerimonie e alle feste orgiastiche, presiedute da preti frigi eunuchi, di
questa dea. Ma, naturalmente, questa resistenza non fu che di breve durata.
Ebbe lo stesso destino della proibizione del dionisismo e del pitagorismo. E di
nuovo nel 140 i Libri Sibillini introducono ancora un'altra figura del ciclo
femineo tellurico, la Venus Verticordia o Afrodite Apostropha.
La
trasformazione collettiva procedente da tutto ciò la notava già Livio (XXV, 1)
che, riferendosi al periodo intorno all'anno 213, scrisse testualmente: «Forme
religiose, in gran parte venute da fuori, agitavano in tal modo la
cittadinanza, che o gli uomini, o gli dei parvero di un tratto divenuti
diversi. I riti romani erano ormai aboliti non solo nelle forme segrete o nel
culto domestico, ma anche in pubblico; e nel foro capitolino vi era una turba
di donne che non sacrificavano né pregavano più secondo la tradizione patria ».
È cosi che per quanto più si estendeva la potenza romana, le stesse forze da
questa vinte all'esterno andavano a svolgere su di un piano invisibile,
attraverso una simile opera di corrosione e di snaturamento, una seconda
guerra, ove riportavano dei successi sempre più visibili e clamorosi.
Si
giunge cosi al periodo dei cosidetti Libri Sibillini Ebraici, che sembrano
esser stati compilati fra il primo e il terzo secolo e buona parte del testo
dei quali ci è noto. Nel riguardo, lo Schììhrer usa l'espressione: «Propaganda
ebraica sotto maschera pagana - iiidiscbe Propaganda unter heidnischer Maske »;
opinione condivisa da uno studioso ebreo, Alberto Pincherle, che riconosce nei
testi in quistione una esplosione di odio ebraico contro le razze italiche e
contro Roma. Qui si ripete, in una forma già tangibile e indiscutibile, una
manovra mistificatrice che già si applicò agli antichi oracoli per il fatto che
essi, attraverso le Sibille, cercarono di giustificarsi in funzione di Apollo.
Per le relazioni - tutt'altro che limpide - della religione sibillina col culto
apollineo, gli oracoli introdotti a Roma dal re etrusco si accaparravano,. per
cosi dire, un superiore titolo di autorità, vezzeggiando la vocazione apollinea
della razza di Roma: e ciò, fino ad Augusto, Il. quale, nel senso di essere
l'iniziatore di una nuova èra apollinea e solare ordinò una revisione dei testi
sibillini per allontanare da essi gli apporti spuri. Naturalmente, le cose
stavano in tutt'alt~o modo e l'albero si dava a conoscer dai frutti: è
esattamente la serie delle divinità più antisolari che da quell'oracolo furono
introdotte a Roma. Lo stesso alibi fu tentato dai nuovi Libri Sibillini: qui è
il puro ebraismo che riveste le sue idee in modo da farle apparire profezia
autentica di una antichissima sibill~ pagana e .da. otte~er per esse, in Roma,
un corrispondente credito. Per cui SI arnva al paradosso incredibile, che molti
ambienti romani considerarono come sapienza della loro stessa tradizione delle
imagini apocalittiche, le quali erano esclusivamente espressioni dell'odio
ebraico contro la città romulea e contro le genti italiche.
Questi
oracoli possono infatti concepirsi come un pendant dell'Apocalissi giovannea.
Ma l'Apocalissi, nella religione cristiana, è stata interpretata su di un piano
universalistico, simbolico e teologico, di modo che la tesi ebraica, che originariamente
vi stava al centro, è rimasta pressoché cancellata. Negli Oracoli Sibillini
essa e invece rimasta allo stato originario, La profezia della pseudo-sibilla
si volge contro le razze dei gentili: essa predice la vendetta che l'Asia
trarrà di Roma e la punizione che, più severa della legge del taglione, colpirà
la città signora del mondo. Vale la pena riprodurre qualche passo
caratteristico per quest'odio antiromano: «Quante ricchezze Roma ha ricevuto
dall'Asia tributaria, tre volte tante ne riceverà l'Asia da Roma e le si farà
scontare il fio delle violenze fatte; e quanti uomini d'Asia diverranno servi
nella residenza degli Italici, venti volte tanti italici miserabili lavoreranno
per salario in Asia e ognuno sarà debitore per decine» (III, 350). «O Italia, a
te non verrà nessun Marte straniero (a soccorrerti), il sangue tanto sciagurato
e non facile a distruggere del tuo stesso popolo devasterà te, celebre e
svergognata. E tu, giacendo presso le ceneri ancor calde, impreveggente
nell'animo tuo, ti darai la morte. Sarai madre di uomini senza bontà, sarai la
nutrice di belve» (III, 460- 470). E qui fa seguito tutto un film di sciagure e
di catastrofi, descritte con sàdica compiacenza. I riferimenti all'ebraismo si
fanno sempre più distinti verso la fine del III libro e sul principio del IV.
La profezia diviene storia in IV, 115: «Anche a Gerusalemme verrà una malvagia
tempesta di guerra dall'Italia e abbatterà il gran tempio di Dio ». Ma da
catastrofi di ogni genere «essi dovranno riconoscere l'ira del Dio celeste,
perché distrussero l'innocente popolo di Dio ». Che la Babilonia di cui, in
relazione a ciò, con tinte granguignolesche simili a quelle dell'Apocalissi
giovannea, si descrive il crollo agognato, perché essa, insieme all'Italia,
fece perire di fra gli ebrei molti santi fedeli e il popolo verace (cioè
Israele); forse Roma, anche agli antichi era perfettamente chiaro. Lattanzio,
per es., scrive (Div. Inst., VII, 15, 18): «Sibyllae tamen aperte interitum
esse Romam locuntur et quidem iudicio dei quod nomen eius habuerit inuisum et
inimica iustitiae alumnum ueritatis populum trudidarit ». In IV, 167 segg. si
continua: «Ahi, o città tutta impura della terra latina, ménade che ama le
vipere, vedova ti sederai sulle alture e il fiume Tevere piangerà te, la sua
consorte, che hai cuore omicida e animo impuro. Non sai che cosa può Dio e che
cosa egli ti prepara? Ma tu dici: lo sola sono e nessuno mi distruggerà. Ed ora
te e tutti i tuoi distruggerà invece il Dio imperituro, e non vi sarà traccia
di re in quella terra, come prima, quando il gran Dio inventò le tue glorie.
Rimani sola, o iniqua; immersa nel fuoco divampante, abita la tua iniqua
regione tartarea di Ade », Di contro alla città romulea e alla terra italica
condannate sta invece la «razza divina dei celesti beati giudei» (248). Nel
libro III (703-5) si ripete: «Ma gli uomini del gran Dio tutti quanti vivranno
intorno al tempio rallegrandosi di quelle cose che ad essi darà il creatore,
giudice solo sovrano ... e tutte le città esclameranno: Quanto ama questi
uomini, l'Immortale! ». I passi 779 segg. riproducono quasi alla lettera le
note profezie di Isaia, vi prende forma il sogno messianico e imperialista
ebraico, che per centro ha il Tempio: i «profeti del Gran Dio» terranno, dopo
il ciclo delle catastrofi e delle distruzioni, la spada, e saranno re e
giustizieri delle genti. Questi nuovi profeti, tutti discendenti da Israele,
son destinati di essere «guide di vita per l'intero genere umano» (580).
È
singolare il contrasto proprio al fatto che, mentre da una parte, come si è
accennato, gli autori di questi scritti tentano un alibi pagano, vogliono cioè
dare alle loro espressioni profetiche l'autorità procedente dall'antica
tradizione sibillina romana, nel libro quarto (l-IO) essi vanno a tradire
completamente le loro vere posizioni. In questo passo i Libri Sibillini
contengono infatti una viva polemica contro le sibille pagane rivali e colei,
nella bocca della quale si mette l'espressione delle speranze d'odio e di
vendetta del popolo eletto, dice di esser profetessa non del «bugiardo Febo »,
del dio apollineo «che uomini sciocchi dissero un dio e chiamarono a torto
profeta, ma di Dio grande »; del Dio, che non tollera imagini; cosa che vuol
palesemente dire ]ehova, il dio del Mosaismo.
Con
ciò - si direbbe in linguaggio hegeliano - la negazione va a negare la
negazione, epperò a mettere in luce il fatto essenziale di tutta questa
«tradizione ». Il «bugiardo Febo» che il Dio d'Israele vuole soppiantare è in
realtà il falso Apollo, poiché, anche se la religione sibillina ha riferimenti
ad Apollo, non si tratta qui, della pura divinità della luce, del simbolo del
culto solare d'origine iperborea (nordico-aria), bensì dell'Apollo
dionisizzato, che si associa all'elemento feminile e soprattutto questo prende
ad organo delle sue rivelazioni, riesumando il principio dell'antica
ginecocrazia demetrico-pelasgica. Ciò che rimane, è dunque la continuità di una
influenza antiromana che sempre più si precisa e che nel periodo fra il I e il
III secolo va incontestabilmente a far capo o, almeno, a far causa comune con
l'elemento semitico-giudaico, in relazione al quale essa assume le sue forme
più estremistiche e, per così dire, rivela finalmente il terminus ad quem , lo
scopo finale di tutta questa fonte d'ispirazione: «O città tutta impura della
terra latina, ménade che ama le vipere, immersa nel fuoco divampante raggiungi
la tua iniqua regione tartarea di Ade».
10. orientamenti sulla
massoneria
Chi
vuol rendersi conto delle influenze a cui l'epoca moderna deve la sua forma,
non può trascurare uno studio avente per oggetto la massoneria. Fino a ieri,
per molti, un tale studio presentò un carattere particolarmente attuale e da
esso furono tratte conseguenze anche pratiche e politiche. Una volta constatata
la parte che la massoneria ha avuto come potenza storica, non si poteva infatti
non prendere posizione di fronte ad essa, in modo conforme ai principi che si
difendevano. Come è noto, fin dalle origini il fascismo si schierò contro la
massoneria (e qui nessuno vorrà avanzare ciò che si pretende che sia accaduto col
razzismo e l'antisemitismo nel fascismo, ossia che tale presa di posizione sia
avvenuta quasi coercitivamente, per influenze esterne). È egualmente nota la
campagna antimassonica intrapresa da tempo da ambienti cattolici ufficiali,
specie dai Gesuiti, e fino a ieri in scritti, come per es. quelli di Padre
Gemelli, si potevano trovare espressioni, come «consorterie ebraico-massoniche
», usate per accusare le forze che nell'ombra continuavano la lotta già
secolare contro la Chiesa e i valori tradizionali.
Però
su tutta questa materia non si hanno, in genere, idee chiare e ben fondate. I
giudizi sulla massoneria oscillano fra quelli abbastanza superficiali di chi,
riferendosi alla situazione più recente, non vede in essa che una combutta di
individualità le quali si appoggiano a vicenda per delle utilità materiali e
affatto profane, senza nessuna finalità trascendente, titoli e cerimonie
simboliche essendo un mero orpello, e i giudizi di coloro che in essa vedono
invece una potenza occulta avente i suoi capi segreti e dei piani ad ampio
raggio. Sarà dunque utile venire ad una breve messa a punto, per orientamento
di quei lettori della Destra, che si interessano al problema.
Accenneremo
anzitutto alle origini effettive della massoneria. Non solo i nemici di essa,
ma anche molti eminenti massoni hanno, a tale riguardo, delle nozioni assai
vaghe e approssimative, credendo, in genere, che la massoneria sia stata sempre
ciò che oggi si è trovata ad essere; in particolare, essi pensano che le
origini positive della massoneria risalgano al 1717, anno in cui si costitui la
Grande Loggia di Londra. Le cose stanno in modo alquanto diverso. La massoneria
preesistette a tale data, che non fu la data della sua nascita ma quella di una
crisi profonda e di una specie di secolarizzazione e di inversione di polarità
subita da una precedente tradizione.
Ciò che, in realtà, a partire da quel periodo
si organizzò e si diffuse in modo sempre più vasto in Europa, fu la cosidetta
massoneria speculativa, la quale negli stessi ambienti massonici moderni viene
distinta dalla massoneria operativa. Non è facile dire brevemente circa
l'essenza di quest'ultima, perché bisognerebbe entrare in un dominio che, pei
più, è inusitato. Secondo l'interpretazione più superficiale e profana, la
massoneria operativa sarebbe stata quella delle corporazioni di veri massoni,
alle quali si aggiunsero in séguito elementi vari: operativa, dunque, perché
essi svolgevano una attività materiale reale come costruttori di edifici, forse
anche di cattedrali. L'antica massoneria ebbe di certo intime relazioni con
tradizioni corporative di tale genere, risalenti al Medioevo e forse ancor più
oltre. Ma il fatto è che a queste era anche propria una tradizione interna,
basata sulla trasposizione simbolica sul piano spirituale dei concetti, dei
principi e dei procedimenti dell'arte del costruire. La costruzione materiale
divenne cioè una semplice allegoria per un'opera creativa interna e segreta; il
tempio esteriore fu simbolo per quello interno; la pietra grezza da squadrare
era la comune individualità umana, da rettificare affinché fosse qualificata
per l'opus transjormationis, cioè per un superamento della caducità umana e per
l'acquisizione di un sapere e di una libertà superiori, i gradi di tale
realizzazione corrispondendo a quelli originari della vera gerarchia della «
massoneria operativa », e non ancora « speculativa ».
In
organizzazioni sparse, dove l'arte e 1'« operatività» avevano avuto questo
speciale significato, non avendo dunque nulla a che fare col piano politico,
sociale e ideologico, fra la fine del Seicento e il principio del Settecento
deve essersi realizzato un processo di degenerescenza il quale permise l'azione
di forze oscure e l'mflltrazione di elementi che andarono gradatamente a
controllare quelle organizzazioni infondendo ad esse un diverso spirito e
portando la loro azione sul piano ideologico e rivoluzionario attraverso la
distorsione di alcune idee fondamentali. Benché sia essenzialissimo, su
quest'ultimo punto qui, di nuovo, dobbiamo limitarci ad un accenno. In quelle
antiche organizzazioni l'ideale centrale era una superiore libertà basata su
una effettiva superiorità, nei seguenti termini: tutto ciò che è dogma e
autorità veniva considerato come un semplice espediente legittimante si solo in
vista dell'individualismo e della limitazione intellettuale dei più. Affinché
certe verità di ordine trascendente venissero riconosciute e protette da ogni
attacco o critica, era necessario presentarle nella forma di dogmi e
appoggiarle ad una categorica autorità: forma, che però è del tutto inutile per
chi avesse una illuminazione, perché questi sarà capace di riconoscerle
direttamente , senza nessuna coercizione, tanto da porsi al disopra del dogma e
di ogni particolare vincolo tradizionale estrinseco. In più al livello della
conoscenza vera si giunge a qualche cosa di universale, anteriore e superiore a
tutte le particolariforme dogmatiche vriamente condizionate. Ebbene, una delle
principali distorsioni cui abbiamo accennato fu il riferire quel che è proprio
a questo superiore, non comune, superpersonale livello di conoscenza e di
coscienza, alla semplice ragione umana, facendo di essa il giudice supremo e
trasformando quel che era l'impulso a portarsi integrativamente più in alto di
ogni dogma e di ogni autorità esteriore, in un atteggiamento critico e
distruttivo nei riguardi dei valori tradizionali, atteggiamento proposto
democraticamente ad una umanità "emancipata" da liberare da ogni
"oscurantismo" e da ogni "tirannide". Questo sposamento
appare già nel mutamento di significato del termine "illuminismo".
Esso in origine si riferiva agli "illuminati", a gruppi segreti che
tendevano a conseguire l'illuminazione spirituale e superrazionale di cui si è
detto; ma esso presto passò ad applicarsi a tutto quell'orientamento di cinca
antitradizionale e razionalistica, negatrice di ogni principio di autorità, il
quale corrisponde appunto al senso corrente e storico del termine «illuminismo
», riferito al movimento ideologico che preparò la Rivoluzione Francese e, in
genere, quella del Terzo Stato.
Dopo
la costituzione della Grande Loggia di Londra la massoneria «speculativa» andò
ad agire sempre più in questo senso abbandonando il campo spirituale,
concentrandosi su quello politico, sociale e ideologico, e, quanto a tattica,
usando l'azione coperta, sottile e indiretta. Questa trasformazione interna e
degenerativa risulta peraltro nel modo più chiaro dalla contradizione esistente
fra la struttura interna rigorosamente gerarchica della massoneria con tutto un
insieme di gradi e di dignità altisonanti (anche se messe insieme in modo
inorganico e sincretistico, specie nel Rito Scozzese) e l'ideologia esterna
egualitaria, democratica, anti-autoritaria e umanitaria da essa professata. Il
contrasto appare anche confrontando alcune antiche costituzioni massoniche che
statuivano il dovere della fedeltà non solo ai sovrani del paese ma anche alla
stessa Chiesa cattolica, con l'orientamento che si tradisce in alcuni rituali
dei cosidetti gradi templari della massoneria scozzese, dove il neofita, per
consacrare con un atto simbolico il suo solenne impegno di combattere la
«doppia tirannide» (cioè il principio di autorità sia nel campo politico che in
quello religioso) deve colpire con un pugnale la corona e la tiara, emblemi di quella
duplice autorità.
Già
da tempo tutto ciò non rimase semplice teoria, perché risulta di fatto (fra
l'altro, da incartamenti del S. Uflizio) che in un convegno segreto di massoni,
di Illuminati e di pseudo-rosacroce tenutosi vicino a Francoforte alla vigilia
della Rivoluzione Francese (lo descrive anche, in forma romanzata, A. Dumas,
anche lui massone, nel suo «Giuseppe Balsamo»), il programma annunciato fu
proprio di abbattere per primo la casa di Francia, come principio di un
incendio che avrebbe successivamente dovuto appiccarsi a tutta l'Europa, e poi
di portare il colpo contro la Chiesa. In tale senso, più o meno da dietro le
quinte, la massoneria ha anche agito in tutti i movimenti rivoluzionari che
continuarono in Europa la Rivoluzione Francese (dopo che una parte
essenzialissima essa l'ebbe nella costituzione degli Stati Uniti e della
corrispondente democrazia), specie in quelli del 1848-1849, il fine essendo
l'abbattere tutto ciò che sussisteva dell'Europa tradizionale, dei regimi del
Primo e del Secondo Stato, cioè di quelli a base autoritaria, spirituale,
dinastica e aristocratica, e l'alimentare la rivoluzione del Terzo Stato col
liberalismo, la democrazia, il laicismo, I'anticattolicesimo, il
costituzionalismo, presso ad un tendenziale internazionalismo. Da qui, la presa
di posizione della Chiesa e la sua condanna della massoneria: condanna da
riferirsi - è bene sottolinearlo - a quell'orientamento della Chiesa che molti
cattolici di oggi non esitano a chiamare « anacronistico» o « medievalistico »,
per cui essa allora apparve come una potenza « reazionaria» alleata all'antico
regime e considerante già il liberalismo negli stessi termini in cui i liberali
di oggi considerano per es. il comunismo.
In
realtà, dovunque si parla di « immortali principi », di « libertà» di «
democrazia », di egualitarismo a base umanitaria e internazionalistica, e via
dicendo, si hanno tante propaggini di quella religione antitradizionale del
Terzo Stato, di cui la massoneria è stata la principale banditrice. È ben nota
la parte che essa, specie nelle sue promanazioni come carboneria, ebbe nello
stesso Risorgimento italiano negli aspetti non patriottici ma
ideologico-rivoluzionari di esso. Meno nota, ma non meno reale, è stata la
parte da essa avuta nella prima guerra mondiale nel suo presentarla come una
crociata democratica contro gli Imperi centrali, i quali, a parte la Russia
(che doveva venire egualmente travolta attraverso un giuoco di azioni e di
reazioni concordanti) costituivano la parte dell'Europa rimasta più immune
dalla rivoluzione del Terzo Stato. Cosi una parte essa l'ebbe anche in Italia,
nella crisi della Triplice Alleanza e nello stesso interventismo (anche qui, di
là dalla vernice del patriottismo, usato come mezzo a fine). Ancor prima che
finisse quella guerra, un convegno internazionale di massoni a Parigi ne chiari
le vere, non confessate finalità (« far fare un nuovo grande passo avanti alle
idee della Rivoluzione Francese »), come pure quelle della Società delle
Nazioni, di cui già allora tracciò il progetto. Negli Stati Uniti la massoneria
e l'ebraismo spesso si trovarono intimamente e tatticamente con· nessi, e alla
loro influenza è certamente da attribuirsi l'aspetto ideologico di « crociata»
e il .radicalismo degli interventi americani in Europa, anche nella seconda
guerra mondiale, e, in genere, molto di ciò che definisce le pretese degli
Stati Uniti come nazione-guida paladina della democrazia, del « progresso» e
della « civiltà ».
Talvolta
nella massoneria sono sussistiti ambienti in cui in parte si conservò la
tradizione dell'antica massoneria «operativa », specie in Germania, in
Inghilterra e nei paesi nordici. Un caso tipico è quello di Joseph de Maistre,
massimo esponente cattolico del principio della pura autorità dall'alto, del
diritto divino, che fu anche un massone - appartenne alla loggia «La parjaite
sincérité» di Chambery del Regime Scozzese rettificato col nome di Eques a
floribus. Massoni furono anche Federico il Grande (tanto che al suo nome si
lega, arbitrariamente, ma non per questo meno significativamente, una delle
principali costituzioni massoniche) e numerosi principi inglesi del sangue; in
certe circostanze la Chiesa accusò di massoneria perfino alcune personalità
molto vicine a Metternich, la bestia nera dei liberali e dei democratici del
tempo. Ma nello sviluppo delle grandi forze storiche e della corrente
rivoluzionaria, tutto ciò non ebbe un qualsiasi peso, e nulla ne risulta che
possa modificare il significato essenziale. D'altra parte, non si sa di nessun
caso di dignitari riconosciuti di questa sopravvivente massoneria operativa che
abbia comunque sconfessato e condannato. l'ideologia e l'azione della
massoneria speculativa, che in realtà è stata l'unica ad esercitare
un'influenza sensibile nel periodo che qui consideriamo.
In
vista di tale azione, era naturale che il fascismo prendesse posizione contro
la massoneria e procedesse alla soppressione delle logge. Sta di fatto che in
un primo tempo la massoneria (propriamente quella di Rito Scozzese) aveva
cercato di ripetere col fascismo della prima ora il giuoco di «mezzo a fine»
che cosi spesso le era riuscito coi movimenti « patriottici ». Senza averne
l'aria, gli dette degli aiuti nel periodo insurrezionale, perché contava su
certe tendenzialità rivoluzionarie, laiche e repubblicane che invece lo Stato
mussoliniano seppe subito superare. L'incompatibilità fra essere fascisti e
essere massoni fu dichiarata in base alla tesi moderata di chi accusava
l'internazionalismo massonico: uno Stato nazionale sovrano non può ammettere
che suoi membri siano legati da un giuramento di obbedienza a una
organizzazione segreta o semisegreta internazionale e supernazionale. La tesi
radicale, cioè quella della lotta contro la massoneria come una delle potenze
occulte che, in stretta connessione con l'ebraismo secolarizzato e con la
finanza internazionale, controllano il mondo, nel fascismo fu difesa solo da
alcuni gruppi di studi, soprattutto dal gruppo degli scrittori facenti capo a
Giuseppe Preziosi. L'attentato contro Mussolini di cui il generale Capello,
massone, fu l'istigatore, e non pochi altri fatti non molto noti, dimostrano
come la massoneria avesse cercato di colpire il fascismo, divenuto
inaspettatamente il principale ostacolo alla sua azione d'insieme in un paese
dove, pei precedenti risorgimentali, le sue posizioni erano cosi forti, come
nell'Italia.
Dopo
questo sguardo retrospettivo sulla genesi, la natura e la direzione dell'azione
della massoneria moderna, si può accennare a ciò che essa può ancora
significare nel giuoco delle forze oggi in moto. In genere, si può dire che
l'ora della massoneria è passata. Nella nuova Italia democratica, è naturale
che essa abbia avuto una ripresa, ma la sua influenza politica è limitata a
partiti minori, ai partiti repubblicano, liberale, radicale e
socialdemocratico: cosi non può dirsi che essa abbia e possa avere una qualche
parte determinante. In Francia le sue posizioni sono tuttora salde, e sembra
che si debba attribuire alla sua azione nascosta l'infrenamento del recente
movimento nazionale e militare di destra. Parimenti immutate sono le posizioni
della massoneria americana. Ma, in genere, ciò che deve far pensare che la
massoneria non abbia un futuro, sono delle considerazioni di carattere generale
circa il senso complessivo della storia. Come in molte occasioni l'abbiamo
rilevato, e come la stessa storiografia marxista lo ha presentito dando però un
significato di progresso a ciò che invece è regresso e involuzione, secondo un
ritmo abbastanza preciso, generale e uniforme, da civiltà, sistemi politici e
società controllati dal Primo Stato, cioè basati sulla pura autorità spirituale
e sacrale, si è passati a civiltà e regimi aristocratici, feudali e monarchici
(Secondo Stato). Con la crisi di questa epoca, è il Terzo Stato che è venuto al
potere, col ciclo delle democrazie, con la società borghese e col capitalismo
quale controparte economica. Ma la tendenza già da tempo delineatasi è verso
un'ulteriore discesa di livello, verso la rivoluzione del Quarto Stato nel
segno di marxismo e di comunismo e, come forme più attenuate di transizione,
con tutto ciò in cui predomina l'elemento collettivistico e « sociale ».
In
tutto questo giuoco di forze, come abbiamo detto, la parte della .massoneria è
stata di preparare la rivoluzione del Terzo Stato, di contribuire attivamente
alla crisi e alla distruzione dei sussistenti sistemi della civiltà del Primo e
del Secondo Stato e di sviluppare tutte le conseguenze dell'ideologia degli
«immortali principi» in sede nazionale e internazionale. Ma nel compiere
quest'opera, lungi da condurre, come secondo la sua utopia, verso uno stadio
definitivo, la massoneria ha semplicemente e fatalmente spianato il terreno
alla successiva ondata, al mondo del Quarto Stato: è la dialettica ben
riconosciuta dalla storiografia marxista, per cui la rivoluzione borghese e
liberale fa da semplice apritrice di breccia a quella socialista. In parte, ciò
vale anche per l'ebraismo nel suo aspetto di potenza internazionale
strettamente connessa al capitalismo, quindi alla civiltà del Terzo Stato: non
si potrà più contarlo fra le potenze determinanti al chiudersi del ciclo.
Pertanto, vediamo che la massoneria, dopo aver assolto il suo compito, nei
tempi più recenti è stata sempre più scalzata e soppiantata; le forze da essa'
liberate sono passate o stanno passando in altre mani nella lotta per la
conquista del mondo. A parte le aree marxistizzate e comuniste, dove massoneria
e ebraismo sono stati messi al bando, anche nell'« Occidente» si sono
organizzate delle forze che praticamente si sono sciolte in larga misura
dall'obbedienza massonica (se a tale riguardo si pensa di un vero e proprio
piano sopraordinato), e per le quali l'ideologia illuministica e democratica
delle origini è solo una cornice e un accessorio. Così il vero pericolo ormai
non sta più là dove la polemica antimassonica (e in parte anche antiebraica)
aveva creduto di individuarlo nel periodo della crisi dell'Europa tradizionale.
Qui non è il caso di parlare di alcuni
tentativi sporadici di ricondurre la massoneria alla sua tradizione « operativa
», cioè spirituale. A prescindere da qualche gruppo di studi, gli appelli in
tal senso che alcuni, rifacendosi soprattutto alle idee di René Guénon, hanno
lanciato in tal senso, sembra che nelle grandi logge abbiano avuto COS1 poca
eco, quanta nelle alte gerarchie cattoliche ne hanno avuta quella di uomini
della Destra, che vorrebbero che il cattolicesimo scendesse in campo
risolutamente e senza compromessi contro tutte le forze della sovversione
moderna. Certe tendenze cattoliche di «mettersi al passo », certe combutte del
cattolicesimo politico dei partiti con massoni, o almeno con ideologie la cui
origine massonica e antitradizionale è evidentissima, vanno annoverate fra i
segni, non certo edificanti, dei tempi.
Che
il prestigio e l'egemonia della razza bianca siano ormai in piena crisi, è cosa
che non fa più dubbio a nessuno. È l'Oriente che, per primo, sta destandosi e
passando anzi all'attacco. I rivolgimenti recenti che hanno avuto per ora per
epicentro soprattutto le razze gialle, non possono logicamente esser
considerati che come precursori di un moto più vasto e generale, di uno
scatenamento, destinato a render ancor più problematico il nostro futuro. Di
tutto ciò è interessante indagare sia l'origine, sia il significato più profondo.
In
primo luogo vi è da riconoscere che le razze bianche, a tale riguardo, stanno
solo raccogliendo i frutti di quel che esse hanno seminato. Se la loro egemonia
sta riducendosi ad un mito, se negli spazi già coloniali stanno prendendo forma
forze ritorcentisi contro di esse, in ciò non vi è nulla più dell'effetto di
una specie di Nemesi storica.
Le
razze bianche se la sono voluta
Risaliamo
un momento alle origini. Il fatto che per secoli un certo gruppo di popoli sia
riuscito ad assoggettare il proprio volere tutto il resto del mondo appare
unico nella storia uruversale, specie quando si tengano presenti tutti i casi
in. cui non fu in alcun modo presente, per una tale egemonia del bianchi, la
controparte di una superiorità vera, cioè spirituale. Agli inizi della
conquista, verso l'epoca della Rinascenza, potettero sì agire uno spirito di
avventura, un ardimento, una volontà decisa, una durezza di carattere, e poi
doti di organizzazione; ma quella della « superiorità di civiltà» fu, specie
nei riguardi dell'Oriente, una mera presunzione delle razze bianche, come lo fu
il convincimento che il cristianesimo le facesse portatrici della vera fede
autorizzandole ad un distacco superbo dal resto dell'umanità, considerato come
«pagano» e barbarico.
Ma
questi stessi fattori eroico-religiosi dovevano rapidamente venir meno. Al
periodo dei conquistadores subentrò uno sfruttamento economico da parte delle
varie compagnie commerciali, con forze armate per imporre lo scambio delle
merci e il «libero commercio» anche a chi non ne sentiva affatto il bisogno. Il
mito della superiorità che alla fine giustificò ogni sorta di abusi e di
sopraffazioni, si appoggiò alla superstizione progressistica, cioè alla idea
che scienza e civilizzazione tecnica costituiscano l'ultima parola della storia
del mondo ed assicurino agli Europei il diritto mondiale per un'opera generale
di «incivilimento ». Sviluppandosi l'èra del nazionalismo, del capitalismo e
della democrazia, questo sistema doveva esser colpito nelle sue stesse
fondamenta, la prima guerra mondiale con la sua ideologia costituendo il punto
decisivo di svolta. Le incoerenze di quella civiltà, di cui ancora diversi
nostri contemporanei sono fieri, si toccano qui con mano.
Per
primo, diffondere il vangelo dei «diritti dell'uomo », proclamare il dogma
della fondamentale eguaglianza di ogni essere avente sembianze umane, significa
distruggere virtualmente il presupposto di ogni egemonia che non si riduca a
pura e semplice sopraffazione. Se gli uomini - almeno di diritto - sono uguali,
è « ingiusto» che un popolo domini un altro, qualunque esso sia, ed è da
mentecatti pensare che il colore bianco della epidermide voglia dire qualcosa
di più di un qualsiasi altro colore.
Versailles
ha seminato, l'Oriente raccoglie
Viene
poi il contributo proprio al cosidetto «princIpIo delle nazionalità» o della
«autodecisione dei popoli ». Impugnato dalle democrazie occidentali a
Versailles per abbattere ciò che l'Europa presentava ancora di rifacentesi ad
un'idea aristocratica e imperiale, esso è un demone che sfugge ai suoi
evocatori. Non si vede come possa esser limitato, nella sua validità, ai popoli
occidentali, come ogni popolo coloniale non debba parimenti rivendicarlo. Per
cui gli Occidentali, con una specie di autosadismo, dovevano ridursi alla fine
a predicare l'anticolonialismo, ad assumere - per salvare ancora qualcosa ed
anche la faccia - la parte del lacché che ha solo dei «mandati» sugli altri
popoli, che è al loro servizio per « educarli» e « civilizzarli », ossia per
condurli allo stato di consapevolezza e di efficienza tecnica che alla fine li
porrà in grado di metterlo alla porta.
Si
aggiunge, come apice, la contradizione interna accusata dal leninismo in ciò
che esso chiama il «capitalismo morente ». È il capitalismo che dal suo proprio
ingorgo finanziario è spinto ad « industrializzare» ogni residua area del
mondo, con l'effetto di crearvi il fenomeno nuovo di un proletariato locale pronto
ad aggregarsi al fronte internazionale del comunismo. Uno dei cavalli di
battaglia del comunismo, come è noto, è appunto l'equiparare i popoli non
europei al proletariato oppresso e sfruttato dalla borghesia e
dall'imperialismo, che sarebbero rappresentati dai popoli bianchi già signori
del mondo.
Questo,
quanto alle cause. In pochi casi come in questo, si vede dunque ben chiaro
l'effetto di una giustizia immanente, di una Nemesi storica. La civiltà
materialistica e plebea che l'Occidente ha eletto produce, come di rimbalzo, i
suoi frutti.
Senonché
va ora messo in risalto l'altro punto, relativo al significato che per
continenti, come soprattutto l'Asia, ha il «risvegliarsi ». Tale significato è
chiaro: per essi significa imboccare la stessa via discendente, spiritualmente
involutiva, che noi abbiamo presa. Specie l'Oriente sorge come antagonista e
pericolo per l'Occidente solo nel punto di assimilare, di questo, le ideologie
più pervertitrici, di venir meno alle sue tradizioni, di dirigere verso l'esterno
tutta quella tensione spirituale che in precedenza - secondo ciò che è proprio
ad ogni civiltà incentrata in valori sovramondani e metafisici - era raccolta
soprattutto verso l'interno e verso l'alto. A tale stregua il risveglio
dell'Oriente equivale esattamente al tramonto dell'Oriente, nello stesso senso
per cui Spengler poté già parlare di «tramonto dell'Occidente ».
Della
portata e della pericolosità dello scatenamento da attendersi nel punto in cui
l'Oriente già ascetico e spirituale si getti interamente in questa direzione,
non può rendersi conto chi non abbia appunto il senso di tutto il potenziale,
di tutta la forza espansiva, esplosiva, travolgente, a cui dà luogo una
intensità spirituale quando essa si distolga dal suo oggetto naturale, non terreno,
e si espanda verso l'esterno, come forza materiale, politico-sociale ed anche
militare.
Concorrenza
attivistica tra America e Asia
Gli
anticipi di ciò si sono già avuti. Vorremmo sapere dove son finiti tutti quelli
che consideravano gli Orientali come apatici, passivi, contemplativi. Scioltisi
dalle loro tradizioni, si vede come questi, non appena familiarizzatisi con la
tecnica, sono stati capaci di dar delle lezioni agli Americani, «attivisti» per
eccellenza. Nel combattere, si vede anzi come a queste forze siano propri un
impeto, un fanatismo, un disprezzo assoluto per la morte, che lascia spesso
stabilire dei confronti poco edificanti coi soldati delle democrazie
occidentali.
Non
si dimentichi il fattore inestimabile che, a tale riguardo, rappresenta una
visione tradizionale della vita la quale, come quella predominante in Oriente,
non considera il nascere in terra come il principio, né il morire come la fine,
ma tutta questa esistenza intende invece come un mero episodio, SI che ogni
tragedia si relativizza ed è presente la disposizione ad uno slancio o
sacrificio assoluto, in incuranza di vita e di morte.
Tutto
questo dovrà essere considerato nel «potenziale» dell'Oriente che si libera -
cioè che l'Occidente ha liberato - e che ora la sovversione rossa sta
mobilitando ed organizzando, spesso realizzandosi (vedi il caso della Cina) in
un piccolo gruppo di anni quel 'passaggio a frana dagli Imperi al marxismo, per
il quale in Europa occorsero tappe di secoli.
Siffatto
orizzonte potrà anche non essere quello dell'immediato domani. Ma è la
direzione che conta. Soluzioni politiche ed economiche, secondo noi, non sono
che bagattelle. L'unica impostazione radicale la si deve, se mai, appoggiare
alle leggi cicliche che regolano lo sviluppo delle civiltà. In forza di esse,
le forme ultime di ogni civiltà perdono il loro originario carattere
spirituale, si materializzano, s'inspessiscono ed infine si dissolvono
disordinatamente e « attivisticamente », fino al prorompere di un nuovo
principio animatore ed organizzatore.
È
visibile che l'Occidente si trova verso la fine di un ciclo del genere, ma per
ciò stesso anche piti vicino, eventualmente, al nuovo principio: più vicino di
quei popoli che solo ora, ad~ttando la civiltà moderna e «liberandosi», stanno
imboccando la via. che, dopo i miraggi della civilizzazione tecnico-sociale e
dei suoi derivati, li condurrà fatalmente verso le stesse crisi fra di noi già
in atto da tempo. Così se queste crisi a noi sarà .dato di . superarle, an.a
posizione di testa potrà esserci di nuovo assicurata rispetto ad essi, e in
termini ben diversi di quelli con cui gia si pensò dì legittimare la supremazia
ed ogni violenza dei bianchi.
Per
problematica che sia, questa, secondo noi, è l'unica prospettiva che resta
aperta, se i problemi qui accennati si ha il coraggio di pensarli sino in
fondo.
12. dioniso e la
"via della mano sinistra"
Quali
sono tratteggiati nell'esposizione di una delle prime opere, assai suggestiva,
di Federico Nietzsche - La nascita della Tragedia _ i concetti di Dioniso e di
Apollo hanno una scarsa corrispondenza col significato che queste entità ebbero
nell'antichità, specie in una loro comprensione esoterica. Ciò nondimeno qui ci
rifaremo proprio a quella loro assunzione nietzschiana come punto di partenza,
al fine di definire degli orientamenti esistenziali fondamentali.
Cominceremo
col presentare un mito.
Immerso
nella luminosità e nell'innocenza favolosa dell'Eden l'uomo era un beato e un
immortale. In lui fioriva l'Albero della Vita e lui stesso era questa vita
luminosa. Ma ora sorge una nuova, inaudita vocazione: la volontà di un dominio
sulla vita, il superamento dell'essere, per il potere di essere e non essere,
del Si e del No. A ciò si può riferire 1'« Albero del Bene e del Male ». In
nome di esso l'uomo si stacca dall'Albero della Vita, il che comporta il crollo
di tutto un mondo, nel lampeggiamento di un valore che dischiude il regno di
colui che, secondo un detto ermetico, è superiore agli stessi dèi in quanto con
la natura immortale, a cui questi sono astretti, ha in suo potere anche la
natura mortale, epperò con l'infinito anche il finito, con l'affermazione anche
la negazione (tale condizione fu contrassegnata dall' espressione di «Signore
delle Due Nature»).
Ma
a questo atto l'uomo non fu sufficiente; lo prese un terrore, da cui fu
travolto e spezzato. Come lampada sotto uno splendore troppo intenso - è detto
in un testo cabbalistico -, come un circuito percosso da un potenziale troppo
alto, le essenze si incrinarono. A ciò va rapportato il significato della
«caduta» e della stessa «colpa », Allora, scatenate da questo terrore, le
potenze spirituali che dovevano essere serve, immediatamente si precipitarono e
ghiacciarono in forma di esistenze oggettive autonome, fatali. Sofferta, resa
esterna e fuggente a se stessa, la potenza prese le specie di una esistenza
oggettiva autonoma, e la libertà - l'àpice vertiginoso che avrebbe instaurata
la gloria di un vivere superdivino - si fece la contingenza indomabile dei
fenomeni fra i quali l'uomo vaga, trepida e misera ombra di se stesso. Si può
dire che questa fu la maledizione scagliata dal «Dio ucciso» contro colui che
fu incapace di assumere l'eredità.
Con
Apollo, inteso sempre in termini nietzschiani, si sviluppa ciò che deriva da
questo venir meno. Nella sua funzione elementare, deve essergli riferita la
volontà che si scarica di se stessa che non vive più se stessa come volontà,
sibbene come «occhio >: e come «forma» - come visione, rappresentazione,
conoscenza. È appunto l'artefice del mondo oggettivo, il fondamento
trascendentale della «categoria dello spazio ». Lo spazio, inteso come il modo
dell'« esser fuori », come ciò per cui le cose non sono più vissute in funzione
di volontà bensf sotto le specie di imagini e di visività, è l'oggettivazione
primordiale della paura, dell'incrinarsi e dello scaricarsi della volontà:
trascendentalmente la visione di una cosa è la paura e la sofferenza
riguardanti quella cosa. E il «molteplice », l'indefinita divisibilità proprie
alla forma spaziale ne riconfermano il significato, riflettendo appunto il
venir meno della tensione, il disgregarsi dell'unità dell'atto assoluto.
Ma
come l'occhio non ha coscienza di sé se non in funzione di ciò che esso vede,
del pari l'essere, reso oggettivo ed esteriore a se stesso dalla funzione «
apollinea» dello spazio, è essenzialmente dipendente, legato: è un «essere che
si appoggia », che trae da altro la propria consistenza. Questo bisogno di
appoggio genera la «categoria del limite »: la tangibilità e solidità delle
cose materiali ne sono l 'incorporazione , quasi la sincope stessa della paura
che arresta l'essere insufficiente sul limitare del mondo «dionisiaco». Perciò
la si potrebbe chiamare il «fatto» di questa paura, di cui lo spazio è 1'« atto
». Come caso particolare del limite, si ha la legge. Mentre colui che è da se
stesso non ha paura dell'infinito, del caos, di ciò che i Greci chiamavano
l'apeiron, perché anzi vi vede riflessa la propria natura più profonda di «ente
sostanziato di libertà », colui che trascendentalmente viene meno ha un orrore
per l'infinito, fugge da esso e cerca nella legge, nella costanza delle
sequenze causali, nel prevedibile e nell'ordinato un surrogato di quella
certezza e di quel possesso da cui è decaduto. La scienza positiva e ogni
morale potrebbero, in un certo senso, rientrare in una non diversa direzione.
La
terza creatura di «Apollo» è la finalità. Per un dio, il fine non può avere
alcun senso, dato che egli fuori di sé non ha nulla - né un buono, né un vero,
né un razionale, piacevole o giusto - da cui trarre norma ed essere mosso, ma
buono, vero, razionale, piacevole e giusto si identificano con ciò che egli
vuole, semplicemente in quanto lo vuole. In termini filosofici, si può dire che
della sua affermazione, la «ragion sufficiente» è l'affermazione stessa.
Invece
gli esseri esteriori a se stessi per agire hanno bisogno di una correlazione,
di un movente dell'azione o, per meglio dire, della parvenza di un movente
dell'azione. Infatti in casi decisivi, fuori da contesti banalmente empirici,
l'uomo non vuole una cosa perché la trova, ad esempio, giusta o razionale, ma
la trova giusta e razionale semplicemente perché la vuole (la stessa
psicanalisi ha dato, a tale riguardo, alcuni contributi validi). Ma di scendere
nelle profondità in cui il volere o l'impulso nudamente si afferma, egli ha
paura. Ed ecco che la prudenza « apollinea» preserva dalla vertigine di
qualcosa che possa accadere senza avere una causa e uno scopo, ossia unicamente
per se stessa, e secondo lo stesso movimento con cui liberò la volontà in una
visività, fa ora apparire, attraverso le categorie della «causalità» e della
cosidetta «ragion sufficiente », le affermazioni profonde in funzione di scopi,
di utilità pratiche, di motivi ideali e morali che le giustifichino, su cui si
appoggino.
Cosi
tutta la vita della gran massa degli uomini prende il senso di un fuggire dal
centro, di una volontà di stordirsi e di ignorare il fuoco che arde in loro e
che essi non sanno sopportare. Tagliati fuori dall'essere, essi parlano, si
agitano, si cercano, si amano e si accoppiano in richiesta reciproca di
conferma. Moltiplicano le illusioni e cosi erigono una grande piramide di
idoli: è la costituzione della società, delle moralità, delle idealità, delle
finalità metafisiche, del regno degli dèi o di una tranquillizzante
provvidenza, per supplire all'inesistenza di una ragione centrale, di un
significato fondamentale. Tutte «macchie luminose a soccorso dell'occhio offeso
per aver fissato nell'orribile tenebra» - per usare le parole di Nietzsche.
Ora
1'«altro» - l'oggetto, la causa, la ragione, ecc. - non esistendo in sé,
essendo soltanto una apparizione simbolica del deficiere della volontà a se
stessa, con l'atto in cui questa chiede ad altro la sua conferma, in realtà va
solo a confermare la sua stessa deficienza. Cosi l'uomo vaga, simile a colui
che insegue la propria ombra, eternamente assetato e eternamente deluso,
creando e divorando incessantemente forme che «sono e non sono» (Plotino). Cosi
la « solidità» delle cose, il limite apollineo, è ambiguo; esso viene meno alla
presa e rimette ricorrentemente ad un punto successivo la consistenza che esso
sembrava garantire e con cui lusingava il desiderio e il bisogno. Donde, oltre
quella dello spazio, la categoria del tempo, la legge di un divenire di forme
che sorgono e si dissolvono - indefinitamente -, perché per un solo istante di
arresto, per un solo istante in cui non agisse, non parlasse, non desiderasse,
l'uomo sentirebbe crollare tutto. Cosi la sua sicurezza fra le cose, le forme e
gli idoli è spettrale quanto quella di un sonnambulo che va sull'orlo di un
abisso.
Tuttavia
questo mondo può non essere l'ultima istanza. Non avendo infatti radice in
altro, essendone soltanto l'Io il responsabile e tenendone egli entro di sé le
cause, egli ha in via di principio la possibilità di operarne la risoluzione.
Cosi è attestata una tradizione riguardante la « grande Opera », la creazione
di un « secondo Albero di Vita ». Questa è l'espressione usata da Cesare della
Riviera, nel suo libro Il mondo magico de
gli Heroi (2a ed. Milano, 1605), dove tale compito viene associato alla «
magia» e in genere alla tradizione ermetica e magica. Ma in questo contesto è
interessante considerare ciò che è proprio alla cosidetta « Via della Mano
Sinistra ». Essa comporta il coraggio di strappar via i veli e le maschere con
cui « Apollo» nasconde la realtà originaria, di trascendere la forma per
mettersi in contatto con l'elementarità di un mondo in cui bene e male, divino
e umano, razionale e irrazionale, giusto e ingiusto non hanno più alcun senso.
Nel contempo, essa comporta il saper portare all'àpice tutto ciò da cui il
terrore originario è esasperato e che il nostro essere naturalistico e
istintivo non vuole; saper rompere il limite e scavare sempre più
profondamente, alimentando la sensazione di un abisso vertiginoso, e
consistere, mantenersi nel trapasso, in cui altri sarebbero spezzati. Da qui la
possibilità di stabilire una connessione anche col dionisismo storico, a tale
riguardo entrando in quistione non quello « mistico» e « orfico », bensi quello
tracio, che ebbe alcuni aspetti frenetici, orgiastici e distruttivi. E se
Dioniso si rivela nei momenti di crisi e di crollo della legge, anche la
«colpa» può rientrare in questo campo: esistenziale; in essa il velo apollineo
si squarcia e, messo di faccia alla forza primordiale, l'uomo giuoca la partita
della sua perdizione o del suo farsi superiore a vita e a morte. È interessante
che il termine tedesco per delitto comprenda il significato di uno spezzare
(ver-brechen). Un atto lo si può continuare a chiamare colpevole in quanto è un
atto di cui si ha paura, che non ci si sente di poter assumere assolutamente,
per cui si viene meno ad esso, che incoscientemente giudichiamo essere qualcosa
di troppo forte per noi. Ma una colpa attiva, positiva, ha qualcosa di
trascendente - Novalis ebbe a scrivere. Quando l'uomo volle divenire Dio, egli
peccò, quasi che questa ne fosse la condizione. Nei misteri mithriaci la capacità
di uccidere o di assistere impassibili ad una uccisione (eventualmente
simulata) costituiva una prova iniziatica. Allo stesso contesto potrebbero
essere riportati certi aspetti dei riti sacrificali, quando la vittima veniva
identificata con la stessa divinità, eppure il sacrificatore doveva abbatterla
affinché, superiore alla maledizione e alla catastrofe, in lui - ma anche nella
comunità che in lui magicamente convergeva - si liberasse l'assoluto: la
trascendenza, nella tragicità del sacrificio e della colpa.
Ma l'atto può anche portarsi su se stessi, in
alcune varietà della «morte iniziatica ». Far violenza alla vita in sé,
nell'evocazione di qualcosa di elementare. Cosi la via che in alcune forme
dello yoga tantrico si apre a «kundalini»
viene chiamata quella in cui «divampa il fuoco della morte ». L'atto tragico
del sacrificatore qui si interiorizza e diviene la pratica con la quale la
stessa vita organica nella sua radice viene privata d'ogni appoggio, viene
sospesa e trascinata di là da sé lungo la «Via Regia» della cosidetta sushumna, «divoratrice del tempo».
È
noto che storicamente il dionisismo ha potuto associarsi a form~ di
sc~tenamento frenetico, distruttivo e orgiastico, come nel tipo classico della
baccante e del baccante (Dioniso = Bacco), della menade e del coribante. Ma qui
è difficile separare ciò che può rifarsi alle esperienze dianzi accennate, da
fenomeni di possessione, di invasamento, specie quando non si tratta di forme
istituzionalizzate e legantesi ad una tradizione. Comunque è sempre da
ricordare che qui ci si trova sulla linea della «Via della Mano Sinistra », la
quale costeggia gli abissi, e andar sulla quale, è detto in alcuni testi,
rassomiglia all'andare su di un fil di spada. Il presupposto, sia nel campo
della visione (aprovvidenziale) della vita, sia di questi comportamenti è la
conoscenza del mistero della trasformazione del veleno in farmaco, la quale
costituisce la forma più alta dell'alchimia.
13. il mito della
regalità futura
In
un precedente scritto abbiamo riferito alcune prognosi che filosofi, come il
Vico e lo Spengler, hanno formulato sul corso della storia. Questi pensa tori
hanno riconosciuto che il punto più critico del terminarsi di un ciclo storico
può essere anche quello del riprendere vigore di un principio di autorità e di
una « monarchia» nel senso letterale di «dominio di un solo ». Mentre
accusavamo i Iati sospetti che presenta questa veduta, appunto perché non si
tratterebbe di un potere avente un superiore crisma di legittimità, notavamo
che quei filosofi hanno ripreso a loro modo un motivo avente un carattere di
universalità nelle tradizioni e nei miti di moltissimi popoli.
È
su ciò che - se si vuole, a semplice titolo di curiosità - vogliamo ora portare
l'attenzione, scegliendo fra un materiale vastissimo. Si può parlare, a tale
riguardo, di un « mito dell'avvento ». Si tratta parimenti di una progno si
della storia. L'idea-base è la stessa: quasi per una brusca inversione, nel
punto massimo del disordine si manifesta un nuovo principio che talvolta ha
tratti sovrannaturali e sacrali, tal altra però anche tratti eroici e regali.
Questa è per esempio la nota teoria indù degli auatdra, «discese» o
manifestazioni periodiche di una forza dall'alto, quando in una società la
legge è violata, le caste più non esistono, l'empietà, il disordine e
l'ingiustizia prevalgono. Così per un periodo del genere è atteso, nel futuro,
il cosidetto Kalki-avatàra, che insieme ai re della « dinastia solare» e di
quella «lunare », darà la battaglia alle forze del caos.
A
ciò fa riscontro l'antico mito persiano dell'avvento di Shaoshyant. Nell'eterna
vicenda della lotta fra il dio luminoso Ahuramadza e l'antidio Arimane, questa
sarà l'apparizione di un sovrano inviato dal primo per instaurare un nuovo,
trionfale regno dei fedeli al principio dell'ordine, della luce e della verità.
Ora, è interessante notare che gli Ebrei proprio da tale più antica concezione
irà?ica trassero l~ loro. idea del Messia, la quale solo nel tardo profetIsmo
assunse 1 tratti soltanto mistici e religiosi che anticiparono la teoria
cristiana dell'avvento del regnum sovraterreno. Nell'antica concezione ebraica
il Messia era invece colui che, promanazione del «Dio degli eserciti », avrebbe
assicurato al «popolo eletto» il potere su questo mondo e il dominio su tutti i
suoi nemici.
Cosa poco nota, il mito dell'avvento ebbe una
particolare forza nel periodo imperiale romano. Proprio come adventus venne
designata l'ascesa al trono di ogni nuovo Cesare. Se già un Virgilio nella nota
ecloga aveva preannunciata, in relazione all'avvento di Augusto, la fine
dell'età del ferro, il sorgere di una nuova età aurea, cosi anche
successivamente si diffuse il clima di una specie di attesa messianica intorno
alla figura di ogni nuovo imperatore, che veniva salutato con la formula
liturgica: «Vieni, tu che noi aspettiamo! ». In una interessante opera
(Christus und die Caesaren) lo Staufer mette in luce appunto questi aspetti
della mistica romana del Regnum, che in una certa misura hanno
involontariamente preparato il terreno all'idea cristiana.
Ma forse è il Medioevo che presenta le
formulazioni più suggesnve del tema di cui parliamo. La restauratio imperii
romanogermanica e ghibellina si associò ad un gruppo di leggende e di miti nei
quali essa si potenziava in un significato superiore trascendente, universale.
Qui entrano in prima linea le leggende del GraaI. Come abbiamo mostrato in un
nostro libro, il nucleo centrale di esse ha poco da fare con le divagazioni
mistico-cristiane e romantiche di Wagner. Qui si tratta essenzialmente
dell'attesa di colui, in virtù del quale un regno decaduto risorge a nuovo
splendore.
Molte altre varianti ebbe il mito imperiale
del Medioevo ghibellino, Il tema dantesco del rifiorire dell'Albero dell'Impero
vi si riferisce. Ancor piti interessante è però il motivo dell'« ultima
battaglia ». Esso si associa all'idea dell'interregnum, della latenza della
funzione regale. Una figura regale o imperiale - identificata nella saga con
l'uno o l'altro personaggio storico - in realtà non sarebbe mai morta. Si
sarebbe ritirata in un soggiorno inaccessibile (per es. Federico Barbarossa nel
Kyffhauser) ed. attenderebbe l'ora
per ridestarsi e rimanifestarsi, per combattere insieme a tutti coloro che gli
sono rimasti fedeli una battaglia decisiva contro le forze del disordine,
dell'ingiustizia e delle tenebre.
È
interessante che in una variante della saga quest ora coinciderebbe col tempo
del prorompere delle genti di Gog e Magog alle quali Alessandro Magno aveva già
sbarrato la via mediante una muraglia di ferro. Queste genti demoniache possono
ben simboleggiare il mondo in rivolta delle masse materializzate e senza Dio,
ed è interessante il dettaglio, che il loro scatenamento avverrebbe nel punto
in cui ci si accorgerà che nessuno più suona le trombe poste al sommo della
muraglia, che è solo il vento a suonarle. Cioè: quando ci si accorgerà che non
esiste più nessuno dietro le apparenti difese di un mondo in crisi a dare ad
esse consistenza e vera legittimità, è allora che si produce lo scatenamento
delle forze del basso. Giunte che siano al loro limite estremo l'usurpazione e
il conseguente disordine, si ha la crisi. e il momento decisivo: l'ultima
battaglia, dall'esito della quale dipenderà la poossibilità, o meno,
dell'iniziarsi di un nuovo ciclo positivo e del rimanifestarsi del Regnum.
È
cosi che forse un significato non peregrino è chiuso in tutte queste variazioni
del «mito dell'avvento», a convalidare con le verità di una tradizione quasi
perenne la fede di coloro che oggI non sono ancora spezzati.
Diversi
anni fa, prima della guerra, Julien Benda scrisse un libro che ebbe notevoli
risonanze per accusare un fenomeno caratteristico dei tempi ultimi, pel quale
egli usò la designazione trahison des cleres. Prendendo il termine clere nel
suo senso antico, il Benda con esso si riferi essenzialmente al tipo
dell'intellettuale e pensatore ad orientamento etico, la cui funzione in altri
tempi era stata la difesa e la testimonianza di valori OPposti al materialismo
delle masse, alle passioni di parte, agli interessi della mera esistenza umana.
Il Benda rilevò che se i clercs non si illudevano di poter realizzare i valori
ideali da essi difesi (nel che si palesava un certo orientamento dualistico e
pessimistico, il quale non gli fece riconoscere civiltà del passato in cui quei
valori stettero effettivamente al centro di organismi tradizionali), pure
impedivano che di tutto ciò che è materiale, inferiore e soltanto umano si
facesse una religione e gli si attribuisse usurpatoriamente un significato
superiore.
Ebbene,
i tempi ultimi ci hanno offerto lo spettacolo della diserzione e del tradimento
dei cleres; questi - come osservò il Benda - hanno abbandonato le loro
posizioni e sono andati a mettere l'intellettualità, il pensiero e la loro
stessa autorità al servigio della realtà materiale e dei processi e delle forze
che si affermano nel mondo moderno, dando loro una giustificazione, un diritto,
un valore. Il che non ha potuto non portare ad una accelerazione e ad un
potenziamento senza precedenti di quelle forze e di quei processi.
Dal
tempo in cui il Benda scrisse il suo libro il fenomeno accusato si è solo
esteso, e noi abbiamo creduto bene, qui, farvi cenno pel fatto che esso ormai
sembra investire i rappresentanti della stessa religione venuta a predominare
in Occidente, cioè del cattolicesimo. Infatti non si tratta più dei soli
intellettuali cosidetti « impegnati », dei « progressisti » e degli «storicisti
», non si tratta degli ideologi al servigio degli interessi di partito e dei
banditori del «nuovo umanismo », ma anche dei clercs nel senso proprio del
termine; una parte del clero, fino alle supreme gerarchie, sembra incline al «
tradimento» accusato dal Benda.
Il
cattolicesimo sta prendendo, in effetti, un orientamento tale che coloro che
difendono valori veramente tradizionali, e per ciò stesso di Destra, debbono
chiedersi fino a che punto su di esso si può ancora contare come su di un fattore
per questa difesa, fino a che punto, invece, una nuova scelta delle vocazioni e
delle tradizioni conduce potenzialmente la Chiesa sulla stessa direzione delle
forze e delle ideologie sovvertitrici predominanti nel mondo moderno.
La
popolazione dell'Italia essendo prevalentemente cattolica, il cattolicesimo
avendo tuttora radice in larghi strati di essa, esso costituisce anche una
forza politica. COSI nelle campagne elettorali spesso si è cercato di
guadagnarsi una parte delle masse col rifarsi ostentatamente al cattolicesimo e
ai « valori morali cattolici », anche quando ciò si riduceva a mere parole o
addirittura ad una ipocrita menzogna. Ma oggi si sta arrivando ad un punto in
cui perfino questa giustificazione tattica e opportunistica sembra venir meno,
in cui vi è da chiedersi dove la Chiesa va e vuole andare, per potersi
orientare coraggiosamente di conseguenza.
Che
il cattolicesimo da tempo abbia accantonato o messo in terzo piano i valori
della vera trascendenza, dell'alta ascesi e della contemplazione (tanto che
tutti gli Ordini veramente contemplativi vivono di una vita grama e rischiano
di estinguersi), che esso si sia preoccupato, invece e soprattutto, di un
moralismo di tipo parrocchiano e borghese, concentrandosi sempre più sul piano
comunitario, ciò è ben noto. Però si profila una fase ulteriore, in questa
regressione: quella della politicizzazione e del crescente «progressismo » del
cattolicesimo.
Bisogna
dire senza mezzi termini che una parte non indifferente dell'esito disastroso
delle ultime elezioni politiche in Italia, con l'avanzata del marxismo e del
comunismo, ricade proprio su questo nuovo corso della Chiesa. La sua tacita
consacrazione della democrazia cristiana non è stata in nessun modo revocata
nel punto del famoso centro-sinistra messo su da tale partito. AI contrario:
Papa
Roncalli non ha perduto occasione per professare il. suo « pr?gressismo », la
sua ansia pel « progresso sociale» concepito proprI~ nei termini materiali e
immanenti che in precedenza erano propn alle ideologie laiche. La solenne
condanna del marxismo da parte del suo predecessore è valsa praticamente come
non esistente; invece è stata avanzata la pericolosa tesi, che bisogna
dissociare l'ideologia dai suoi possibili effetti pratici, e che se questi effetti
sono buoni (secondo l'accennato metro), sull'ideologia si può anche transigere
- qui il riferimento al marxismo, se non perfino al comunismo essendo
sufficientemente visibile. Il criterio etico fondamentale, 'secondo cui ciò che
veramente conta non sono i fatti e le utilità bensi le intenzioni, il fondo
spirituale, così viene disinvoltamente accantonato.
Abbiamo
parlato, nei riguardi della Chiesa attuale, di una nuova scelta delle sue
tradizioni, la quale oggi presenta un estremo pericolo. Infatti nella storia
del cristianesimo figurano anche forme di una «spiritualità» che - non si può
disconoscerlo - potrebbe proprio andar incontro alle attuali teorie «sociali»
sovvertitrici. Dal punto di vista sociologico il cristianesimo delle ongini fu
effettivamente un socialismo avant la lettre; rispetto al mondo e alla civiltà
classica esso rappresentò un fermento rivoluzionario egualitario, fece leva
sullo stato d'animo e sui bisogni delle masse della plebe, dei diseredati e dei
senza-tradizione dell'Impero; la sua "buona novella" era quella
dell'inversione di tutti i valori stabiliti.
Questo
sottofondo del cristianesimo delle origini è stato in varia misura contenuto e
rettificato col prender forma del cattolicesimo, grazie, in gran parte, ad una
influenza «romana ». Il .superamento si manifestò anche nella struttura
gerarchica della Chiesa; storicamente esso ebbe il suo apogeo nel Medioevo, ma
l'orientamento non venne meno nemmeno nel periodo della Controriforma e,
infine, con quella che fu chiamata "l'alleanza del trono con
l'altare" col crisma dato dal cattolicesimo alla autorità legittima
dall'alto, secondo la dottrina rigorosa di un Joseph de Maistre e di un Donoso
Cortés, e con la condanna esplicita, da parte della Chiesa, di liberalismo,
democrazia e socialismo - e per ultimo, nel nostro secolo, del modernismo.
Ebbene, tutta questa superstruttura valida del
cattolicesimo sembra. sgretolarsi per far riemergere proprio il substrato
promiscuo, antigerarchico, « sociale » e antiaristocratico del cristianesimo primitivo.
Il ritorno a tale substrato è, peraltro, ciò che vi è' di meglio per «mettersi
al passo coi tempi », per aggiornarsi col « progresso» e con la «civiltà
moderna », mentre la linea da seguire, da parte di una organizzazione veramente
tradizionale, oggi dovrebbe essere assolutamente l'opposta, ossia quella di una
triplicata, inflessibile intransigenza, di una messa in primo piano dei veri,
puri valori spirituali di contro a tutto il mondo «in progresso ».
Abbiamo
udito cattolici, come il Maritain e il Mounier, affermare che il vero spirito
cristiano oggi vive nei movimenti «sociali» e socialistici operai, lo stesso De
Gasperi, in un antico discorso fino a ieri poco volentieri ricordato, avendo
riaffermato una tale idea, oltre a quella dell'assoluta concordanza fra spirito
cristi~no e spirito democratico. Con un gergo autenticamente progressista alti
esponenti della Chiesa hanno parlato dei «residui medievalistici» di cui il
cattolicesimo deve sbarazzarsi (naturalmente proprio a tali presunti «residui»
si legano i valori veramente trascendenti, spirituali e sacrali). Se la Chiesa
ieri si ingegnò di costruire piti o meno artificiosamente il simbolo del
«Cristo Re », oggi essa ha messo su quello del « Cristo operaio» (con
riferimento al periodo in cui Gesù avrebbe lavorato da falegname presso il
padre putativo, quasi che ciò avesse una qualsiasi connessione sensata con la
sua missione salutifera), per supina adesione al mito dominante (1'« operaio» è
sacrosanto - guai a chi lo tocca!). Le teorie del gesuita Teilhard de Chardin,
che ha accordato il cattolicesimo con lo scientismo, l'evoluzionismo e il mito
del progresso, sebbene i suoi . libri non abbiano (ancora) l'imprimatur hanno
un largo seguito fra i cattolici (altro sintomo significativo: per la diffusione
del pensiero di questo gesuita assai «moderno» si è costituito un comitato
internazionale, sotto il patronato di Maria Josè, la moglie di Umberto II). Si
è visto papa Roncalli accogliere cordialmente in udienza la figlia di Krusciev
col suo degno marito, dimenticando il mondo di cui costoro sono gli esponenti
(mentre si piagnucola e «si prega» per la sorte della «Chiesa del silenzio» nei
paesi a regime comunista). Se a tutto ciò, come degno coronamento, si aggiunge
l'enciclica Pacem in terris e il non sconfessato centro-sinistra del maggiore
partito cattolico italiano, vi è forse da stupirsi che molti cattolici si siano
sentiti liberati da molti scrupoli e, « allineandosi », abbiano agevolato
l'avanzata delle sinistre?
L'apoteosi
che, alla sua morte, è stata fatta da tutte le parti di Giovanni XXIII è
significativa; è deplorevole che ad essa si sia associata conformisticamente la
stessa stampa ad orientamento nazionale e filofascista. A questa stampa noi non
avremmo naturalmente chiesto di parlare aspramente di un morto; ma delle
precise riserve avrebbero dovuto esser fatte, a rompere l'uniformità del coro
di inni, che non è stata, naturalmente, priva di influenza sulla decisione del
conclave, sull'elezione del cardinale Montini. Le buone intenzioni, la bontà e
l'umanitarismo del papa avrebbero potuto essere riconosciuti, senza però che
ciò impedisse di accusare l'ingenuità quasi infantile di una mente imbevuta di
idee democratiche e progressiste (il defunto papa ai suoi tempi era stato, fra
l'altro, molto amico di Ernesto Buonaiuti, sacerdote spretato di idee
moderniste e socializzanti, naturalmente antifascista). Cosi il motivo
dominante della sua ultima enciclica è stato un ottimismo che ha portato a
giudizi inverosimili e pericolosissimi sul carattere positivo di un gruppo di «
segni dei tempi », In più, delle iniziative, a rettificare gli effetti deleteri
delle quali, a detta di un cardinale, «occorreranno dei decenni ».
È
trapelato il fatto che nel concilio fu presentato uno schema circa le Sacre Scritture
e la Tradizione a carattere apertamente conservatore; per poter respingere tale
schema, secondo la procedura, mancava un centinaio di voti. Il papa, di propria
iniziativa, lo fece egualmente respingere e fece elaborare un nuovo schema.
All'inizio del concilio egli si era dichiarato «contro tutti questi profeti di
sventura che dicono che tutto va di male in peggio ... come se ci avvicinassimo
alla fine del mondo ».
Abbiamo
ricevuto un libretto di un gruppo di cattolici francesi che esprimono le loro
più serie preoccupazioni nel caso che nel concilio la linea patrocinata da papa
Roncalli sia mantenuta (il titolo del libretto è addirittura «S.O.S. Concile»). Questo gruppo ha
potuto procurarsi uno dei nuovi schemi circa la materia del concilio, l'ha tradotto
dal latino e l'ha commentato per mostrare le stridenti contradizioni di molte
idee in esso esposte rispetto a quelle dei Vangeli. Proprio nei riguardi dei
tempi ultimi i Vangeli, ad esempio, sono espliciti: essi parlano del periodo
dei falsi profeti, della seduzione delle masse, addirittura della venuta
dell'Anticristo e della separazione definitiva fra due parti dell'umanità. È
esattamente il contrario della concezione progressistica dell'attuale umanità
che si avvierebbe in modo continuo verso un mondo migliore. Peraltro, a parte
le pitture mitologico-apocalittiche a forti tinte dei Vangeli, una ben diversa
interpretazione dei « segni» dei tempi dell'epoca attuale come «età oscura»
malgrado tutti i suoi splendori, è comune ad una intera serie di scrittori
attuali dallo sguardo acuto. Si può andare dall'esistenzialista cattolico
Gabriel Marcel (L'homme contre l'humain) fino ad un René Guénon (Le règne de la
quantité et les signes des tempsi. La maggior luce che, teoricamente, ad un
pontefice dovrebbe esser infusa dallo Spirito Santo, in un caso del genere
sembra dunque aver servito a ben poco.
L'idea
che il benessere e il progresso materiale e sociale - come è affermato in
quello schema e come ha preteso lo stesso papa Roncalli - agevolino il vero
progresso morale e spirituale, non può trovare base alcuna nei Vangeli e il
livello spirituale effettivo dei popoli più «progrediti» (per es., gli Stati
Uniti o la Germania occidentale) lo conferma. Il «segno dei tempi », giudicato
positivo, dell'ascesa della classe lavoratrice (oltre che della donna), è
un'altra pura concessione alla mentalità socialista, se non addirittura
proletaria. In quella critica dei cattolici francesi viene ricordato
opportunamente che secondo la concezione cattolica il lavoro è solo una specie
di oscuro castigo, conseguenza della « caduta », e che nella teologia morale
cattolica tradizionale viene approvato solo quel lavoro che corrisponde ad una
vera vocazione e alle pure necessità del proprio stato, fuori da ogni smania di
uscire da tale stato a tutti i costi e di « ascendere» - è proprio l'opposto
delle attuali concezioni.
Gravissime
sono state, nella enciclica Pacem in terris, le conseguenze di quello che
bisogna ben chiamare (in un senso quasi psicanalitico) il «complesso della pace
», e proprio il posto ad esso accordato andando incontro all'umana debolezza è
stato una delle cause della grande popolarità acquistata da papa Roncalli (« il
papa della pace»). Ma qui bisogna mettere a posto le cose. Il punto di partenza
è, naturalmente, lo spettro della guerra atomica con una completa
autodistruzione dell'umanità. È ovvio che se questo spettro potesse venire
esorcizzato in modo positivo, ciò sarebbe confortante (ma non è nemmeno da
escludere la possibilità di una guerra non atomica, allo stesso modo che
nemmeno negli estremi frangenti dell'ultima guerra mondiale nessuna delle
nazioni belligeranti è ricorsa alla guerra chimica). Però quando sono in giuoco
i valori supremi, proprio i rappresentanti dell'autorità spirituale dovrebbero
formulare un non possumus perfino in casi estremi. In effetti, circa la pace,
bisogna pur chiedersi a che cosa deve servire la pace: se per rendere le cose
più facili ai milioni di esseri collettivizzati che penano nel paradiso
terrestre marx-Ieninista o, dall'altra parte, ad altri milioni che pensano
soltanto a nutrirsi, a bere, a prolificare, ad accumulare elettrodomestici e ad
abbrutirsi in vario modo nel clima della prosperity « occidentale ».
Ci
vengono ricordate le parole del Cristo: «lo vi lascio la mia pace, vi do la mia
pace» però senza dar lo stesso risalto al resto della frase, anzi tacendola:
«Ma non ve la do come il mondo la dà, ecc. ». L'idea vera, qui, è quella di una
pace sinonimo di calma e di fermezza interiore, da mantenersi perfino in mezzo a
catastrofi.
È
su essa che avremmo preferito udir parlare di più, in alto loco, invece del
«complesso della pace» che, in uno spirito tutto profano (la pace che «il
mondo» può dare), può far indulgere a compromessi, accomodamenti, transazioni e
illusorie distensioni: quasi che la distanza che separa le posizioni di una
dottrina politico-sociale con fondamenti veramente spirituali e con
riconoscimento dei veri valori della persona, e quelle, ad esempio, delle
ideologie atee e antireligiose dell'« Oriente» e degli accoliti del- 1'«
Oriente» non fosse maggiore della distanza che in altri casi e in altri tempi
fece SI che la Chiesa opponesse, perfino a costo di persecuzioni, il suo deciso
non possumus. COSI non si dimentichi che del Cristo è parimenti il detto, di
essere venuto in terra a portare non la pace ben SI la guerra [« la spada » ) e
la divisione, perfino fra coloro che hanno lo stesso sangue, con riferimento a
precisi fronti spirituali (Matt., X, 34-35; Luc., XII, 49, 52). E il gesto del
Cristo, che scaccia a frustate i mercanti dal tempio (dovremmo aggiungere: «e
dalle prossimità del tempio»), oggi sembrerebbe attuale più che mai, con
riguardo ai partiti che si proclamano cattolici ma che vanno a braccetto con
massoni e con radicali, che si «aprono a sinistra» e prosperano nel clima di
inaudita corruzione del regime parlamentare democratico dei politicanti
profittatori.
Non
è ancora chiaro l'orientamento che, a parte certi suoi precedenti sospetti, il
cardinale Montini, in quanto papa, sceglierà: se egli seguirà, o no, le orme
del suo predecessore tanto acclamato. Quo uadis, ecclesia? L'alternativa è
appunto l'andar incontro il più possibile al «mondo moderno », col
disconoscimento (tipico in papa Roncalli) del lato negativo delle sue correnti
predominanti e determinanti, le quali non fanno indulgere a nessun ottimismo -
trascurando la lezione tante volte impartita dalla storia, cioè che chi si è
illuso di poter dirigere le forze della sovversione flettendo o assecondandone
in un certo modo il corso ha sempre finito con l'esser travolto da esse: oppure
una energica reazione, una intransigente presa di posizione nel segno dei
valori spirituali, sacrali e trascendenti, il che non potrebbe non condurre,
anche, ad una revisione radicale dei rapporti con quel partito di maggioranza
che in Italia abusa della qualifica di «cattolico» e che sta facendo di tutto,
irresponsabilmente, per preparare le vie al comunismo. Ne seguirebbe, forse
anche, la possibilità di un nuovo concentramento delle forze veramente anticomuniste.
Purtroppo
non vi sono molti motivi per essere ottimisti nei riguardi non solo di una
scelta positiva di fronte a questa alternativa, ossia di un coraggioso
mutamento di corso della Chiesa, ma anche della volontà di riconoscere e
affrontare decisamente il problema, non obbedendo a nessuna suggestione dei
tempi. Cosi stando le cose, penseremmo che alle forze di Destra s'imponga il
mantenere una precisa distanza, per disagevole che ciò possa essere. Come noi
non possiamo approvare l'ormai inutile appello tattico ai valori cattolici
nelle campagne elettorali, dato il piano in cui essi sono scesi e la facilità,
da parte delle forze opposte, di far leva invece sul cattolicesimo
«progressista », democratico e « sociale» - cosi noi non sapremmo nemmeno approvare
certi piccoli gruppi «tradizionalisti» che si ostinano a valorizzazioni
stentate che sono invero prive di ogni senso quando di esse non viene presa
l'iniziativa nelle alte gerarchie, da coloro che nella Chiesa rivestono una
autorità.
Chi
conosce le nostre opere sa anche la posizione che, dal punto di vista
dottrinale e di filosofia della storia, abbiamo, in genere, di fronte al
cattolicesimo. Abbiamo anche avuto occasione di scrivere che « chi è
tradizionale essendo cattolico, non è tradizionale che a metà ». Tuttavia nel
nostro abbastanza recente libro « Gli Uomini e le Rovine» avevamo detto: «Se
oggi il cattolicesimo sentendo che tempi decisivi si avvicinano, avesse la
forza di staccarsi davvero dal piano contingente e di seguire una linea di alta
ascesi, se esso, appunto su tale base, quasi in una ripresa dello spirito del
migliore Medioevo crociato, facesse della fede l'anima di un blocco armato di
forze, compatto e irresistibile, diretto contro le correnti del caos, del
cedimento, della sovversione e del materialismo politico del mondo attuale,
certo, in tal caso per una scelta (da parte nostra) non potrebbero esservi
dubbi. Ma le cose purtroppo non stanno COSl ». Se dunque non si verificherà un
mutamento sostanziale, se lo sviluppo involutivo di cui in queste nostre note
abbiamo indicato alcuni aspetti, continuerà il suo corso, bisognerà pur
regolarsi di conseguenza, rinunciare ad uno dei fattori che altrimenti avrebbe
potuto avere una parte non trascurabile (date le tradizioni sussistenti in vari
strati del popolo italiano) e decidersi a seguire una linea indipendente (ci
riferiamo ai partiti «nazionali» o di Destra): linea più difficile, ma almeno
chiara e senza compromessi.
Nel
campo delle reazioni interiori e di quella che, con un neologismo, è stata
chiamata l'etologia, si possono distinguere due forme fondamentali,
contrassegnabili rispettivamente con le formule «amore pe1 vicino» e «amore pel
lontano» (il quale è la nietzschiana Liebe der Ferne). Nell'un caso si è
attratti da ciò che ci è vicino, nel secondo da ciò che ci è lontano. Il primo
ha attinenza con la «democrazia» nel suo senso più ampio e soprattutto
esistenziale; il secondo ha relazione con un più alto tipo umano, reperibile
prevalentemente nel mondo della Tradizione.
Nel
primo caso, affinché una persona, un capo, sia seguito occorre che lo si senta
come «uno di noi ». Cosi qualcuno a tale riguardo ha coniato una felice
formula, il «nostrismo », Le relazioni di esso con la «popolarità », con 1'«
andare verso il popolo» o «fra il popolo », come pure, dall'altra parte, con
l'insofferenza per ogni differenza qualitativa, sono evidenti. Recenti aspetti
di tale orientamento sono noti a tutti; vi si può includere anche l'insipido
circolare e « viaggiare» degli stessi Pontefici, laddove normale sarebbe invece
il curare una quasi-inaccessibilità, quella stessa per cui certi sovrani
apparvero al popolo come «altezze solitarie ». È da sottolineare, qui, il
pathos della situazione, perché può esservi una vicinanza fisica la quale non
esclude ma mantiene la distanza interiore.
Si
sa della parte rilevante che il «nostrismo» ha avuto anche nei regimi
totalitari di ieri e di oggi. Sono patetiche le scene, che non si è mancato di
ritrarre e diffondere, di dittatori che si compiacciono di figurare fra «il
popolo ». Se la base del potere è più o meno demagogica, ciò, del resto, è
quasi una necessità. Il « Grande Compagno» (Stalin) non ha cessato di essere il
compagno. Tutto questo corrisponde ad un preciso clima collettivo. Già più di
un secolo e mezzo fa Donoso Cortés, filosofo e uomo di Stato spagnolo, ebbe a
scrivere, con amarezza, che non vi sono sovrani i quali intendano veramente
presentarsi come tali; se lo facessero, forse quasi nessuno li seguirebbe. Cosi
sembra imporsi una specie di prostituzione, messa in risalto dal Weininger nel
mondo della politica. Non è azzardato affermare che se oggi vi fossero dei capi
in un autentico senso aristocratico, essi spesso sarebbero costretti a celare
la loro natura e a presentarsi in veste di agitatori democratici di masse se
intendono esercitare una influenza. L'unico settore che in parte è restato
ancora immune da tale contaminazione è quello dell'esercito, anche se non è
facile ritrovarvi sempre lo stile severo e impersonale che caratterizzò ad
esempio il prussianesimo.
Al
« nostrismo » corrisponde un tipo umano essenzialmente plebeo. Il tipo opposto
è quello al quale si può riferire la formula dell'« amore pel lontano », Non la
vicinanza «umana» ma la distanza suscita in lui un sentimento che in fondo lo
innalza e, nel contempo, lo spinge a seguire e ad obbedire, in termini assai
diversi dall'altro tipo. Anticamente si poté parlare della magia o fascinazione
della «superiorità olimpica ». Qui vibrano altre corde dell'anima. In un
diverso dominio, noi non possiamo di certo vedere un progresso nel passaggio
dall'uomo-dio del mondo classico (simbolo o ideale che fosse) al dio-uomo del
cristianesimo, al dio che si fa uomo e fonda una religione a fondo umano, con
un amore che dovrebbe accomunare tutti gli uomini epperò farli vicini gli uni
agli altri. Non a torto Nietzsche in ciò accusò l'opposto di quel che designò
con la parola vornehmen, traducibile con « distinto» o «aristocratico ».
Il
cielo notturno stellato al disopra di lui esaltava Kant per la sua indicibile
lontananza, e questo sentimento viene provato da molti esseri non volgari, in
via del tutto naturale. Qui siamo al limite. Tuttavia un riflesso può essere
rilevato anche su piani infinitamente più condizionati. Alla distanza
«anagogica» (ossia alla distanza che innalza), si può opporre quel che invece
non di rado si cela sotto le vesti di certa umiltà. È di Seneca il detto che
non vi è orgoglio più detestabile di quello degli umili. Questo detto deriva da
una analisi acuta del fondo dell'umiltà ostentata da persone che, alla fin
fine, si compiacciono di se stesse, essendo intimamente insofferenti per chi ad
esse è superiore. Il sentirsi insieme, in costoro, è naturale e riporta a quel
che abbiamo detto più sopra.
Come
in molti altri casi, le considerazioni qui esposte sono intese a stabilire
criteri discriminanti di misura e sono naturalmente controcorrente.
Circa
la mania per la popolarità dei grandi, non resistiamo alla tentazione di
riferire un episodio personale. Anni fa facemmo pervenire uno dei nostri libri
ad un certo sovrano rispettando le normali regole di etichetta, ossia non
direttamente ma pel tramite di un intermediario. Ebbene, noi diciamo la pura
verità se affermiamo di aver provato quasi uno shock nel ricevere una lettera
di ringraziamento che cominciava con le parole «Caro (!) Evola », senza che io
avessi mai conosciuto di persona quel personaggio o gli avessi mai parlato.
Questa «democraticità» sembra far buon tono. Invece disgusta chi ha ancora una
sensibilità per gli antichi valori.
In
un dominio banalissimo, si potrebbe ricordare, come indice sulla stessa linea,
una usanza diffusissima negli Stati Uniti, il Paese più plebeo del mondo.
Specie nella nuova generazione, là non si possono fare quattro chiacchiere con
qualcuno senza che questi vi inviti a dargli del tu ed a chiamarlo col nome
proprio, Al, Joe, ecc. Per contro, ci viene di ricordare dei figli che davano
del «lei» ai loro stessi genitori e di una certa persona, a noi assai vicina,
la quale continuava a dare del «lei» a ragazze (a ragazze perbene) anche dopo
esser stato a letto con loro, mentre film che sicuramente rispecchiano il
costume d'oltreoceano ci presentano lo stereotipo di «lui» che dopo un semplice,
insipido bacio dà subito del « tu » alla donna.
Un
fenomeno dei nostri giorni che è degno di nota, è costituito dal gran parlare
che si fa intorno alla « magia ». La magia è quasi di moda, e riferimenti ad
essa sono rilevabili non pure in una letteratura varia ma anche in altri
domini, il cinema non escluso. I libri sulla magia si moltiplicano. Non si
tratta di ciò che attrae il popolino, quegli strati più bassi della popolazione
creduli e inclini alla superstizione, che forniscono la clientela ai « maghi »,
veggenti e simili da annunci pubblicitari. Si tratta invece quasi di un
fenomeno, come oggi si dice, « culturale» il quale merita una certa attenzione.
Per
una interpretazione generale, in parte ci si potrebbe riferire alle stesse
cause che hanno generato il neo-spiritualismo nelle sue molteplici varietà
teosofiche, orientaleggianti, « occultistiche », eccetera. Qui si tratta di un
impulso dell'uomo all'evasione nel segno dello strano e dell'inusitato e presso
ad un atteggiamento incapace, per mancanza di principi, di discriminare quel
che in codesto « spiritualismo» vi è di positivo e quel che vi è di negativo,
la sua maschera apparentemente luminosa e il suo vero volto che in molti casi
non lo è affatto. (Una tale disamina noi l'abbiamo intrapresa in un libro, che
s'intitola appunto Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo). Agli
inizi, due cause fondamentali hanno propiziato il fenomeno « spirituali sta »:
da una parte, la soffocante concezione del mondo propria al materialismo e allo
scientismo; dall'altra, il fatto che la religione dominante, si è mostrata
sempre meno capace di dare qualcosa di più, qualcosa di trascendente, di là da
ciò che è semplice dogma, liturgia, devozione, pratica confessionale. Cosi si è
cercato altrove.
Ma
nel caso dell'interesse per la «magia» vi è qualcosa di specifico perché essa
ha un aspetto maggiormente attivo, fa pensare ad un possibile uso di forze
sovrasensibili per conseguire risultati concreti. Mentre lo «spiritualismo»
sfaldato e misticheggiante ha tratti feminili, la «magia» ha tratti
indubbiamente maschili. Ciò non impedisce che a tale riguardo ci si facciano
delle illusioni.
Se
nel titolo delle presenti note abbiamo parlato della «fisima» della magia, non
è che con questo vogliamo significare che la magia è una pura superstizione. Si
potrebbe già rilevare che, di fatto, le ricerche della cosidetta « metapsichica
» moderna hanno accertato, sotto severi controlli scientifici, la realtà
oggettiva di una serie di fenomeni estranormali. Ciò basterebbe per fondare la
« magia », solo che le corrispondenti condizioni fossero diverse, ossia che
tali fenomeni non fossero sporadici e cosi spesso 'legati a stati di una
coscienza ridotta, come quelli dei medium, ma fossero suscettibili ad essere
prodotti anche secondo un metodo e in una perfetta lucidità mentale. Ma proprio
in vista di questo essenziale spostamento vi è pericolo che per la magia si
debba appunto parlare, praticamente, di una fisima.
Potrà
interessare anche per un lettore non specializzato una indicazione sommaria dei
presupposti richiesti per la realtà della magia. Questi presupposti hanno un
carattere essenzialmente esistenziale. Non si tratta di « arcani» e di speciali
operazioni occulte che chiunque possa compiere. Si tratta invece di vedere in
chi e in quale misura è possibile far rivivere uno stato interiore e rapporti
fra uomo e mondo che appartengono in gran parte al passato, a civiltà e ad un
ambiente radicalmente diversi da quelli dell'uomo di oggi.
Per
l'uomo di oggi, fra l'Io e la realtà, o natura, esiste una barriera. La realtà
e la natura sono qualcosa che esiste a sé, in una esteriorità spaziale (come
tali li considera anche, essenzialmente, la scienza positiva). Di ciò non era
il caso, o non ne era in egual misura il caso, nel mondo di cui la magia faceva
parte organicamente. Quella barriera era allora labile, con la controparte di
una percezione non semplicemente « fisica» della realtà. Da ogni eventuale rimozione
o attenuazione di quella barriera derivava peraltro una duplice possibilità. Da
un lato, era possibile che forze invisibili della realtà invadessero l'uomo
dall'esterno ledendo la sua personalità (donde quelli che il Frazer ha chiamato
the perils 01 the soul, ossia i «pericoli dell'anima », e donde la ragion
d'essere di tanti riti di protezione nelle civiltà antiche ed anche fra le
popolazioni primitive). Dall'altro lato, era possibile un movimento nel senso
opposto, ossia che l'uomo, rimossa quella barriera, penetrasse nella natura e
su essa agisse appunto in termini di « magia ». Condizioni analoghe valevano
anche per l'azione su altri esseri.
Questa
è la condizione oggettiva affinché la magia non sia mera superstizione o
suggestione, ma una cosa seria. Se riferendoci ai tempi attuali, circa la magia
abbiamo parlato di una «fisima », lo abbiamo fatto perché in una società
civilizzata di tipo moderno la struttura esistenziale dell'uomo e l'ambiente
sono ormai essenzialmente diversi da quelli or ora indicati. È cosi che
possibilità magiche, oltre che fra popolazioni esotiche rimaste ancora
«primitive », possono rilevarsi, se mai, nelle nostre campagne, fra persone
nelle quali l'immaginazione ha ancora una potenza particolare, una veemenza, ed
essa non è stata paralizzata dall'intellettualismo ipertrofico che caratterizza
l'uomo moderno civilizzato, specie quello vivente in grandi complessi urbani
nei quali, in più, come qualcuno ha giustamente rilevato, è constatabile una
specie di ulteriore « pietrificazione » dell'aspetto esterioristico della
realtà naturale, che la rende ancor più impenetrabile.
A
prescindere da casi eccezionali di persone da considerarsi sopravvivenze di
quel precedente tipo umano, occorrerebbe pertanto essere in grado di riattivare
lo stato non duale di cui si è detto. È ciò che i rituali magici in tempi meno
remoti hanno cercato di fare, producendo forme di esaltazione e di estasi
capaci di « aprire », di ristabilire i contatti. Oggi vi è chi si arrischia in
tale avventura, tentando talvolta colpi di mano senza escludere l'uso eventuale
di droghe, ma avendo raramente idee precise e collegamenti con una tradizione.
La via più limpida, che richiederebbe forme particolari di preparazione, di
disciplina interiore e di concentrazione mentale (su una linea simile, in
parte, allo yoga), viene battuta assai più raramente ed essa attrae di meno,
per essere vicina ad una vera, non comoda ascesi, e inoltre per condurre
raramente agli scopi precipui della magia .
Ecco,
perché, nel considerare le cose secondo realtà, la magia oggi puo servire quasi
esclusivamente per divagare, oppure come un ingrediente (associato di frequente
al sesso) a cui ricorre chi va in caccia di esperienze tanto «intense », quanto
torbide: il significato delle: quali è quasi sempre quello di un surrogato per
supplire ad un inesistente senso profondo e saldamente radicato dell'esistenza.
Il t~tto, peraltro, porta raramente di là dal campo soltanto soggettivo, mentre
è reale il pericolo di finire in forme spiritualmente regressive, tanto da
aprirsi talvolta inconsideratamente a forze «infere », ripresentandosi così i
«pericoli dell'anima» di altri tempi, senza però che quasi di essi ci si
accorga.
17. note sui misteri di
mithra
E.
Renan ebbe a scrivere: «Se il cristianesimo fosse stato arrestato da una
qualche malattia mortale, il mondo si sarebbe mithracizzato », ossia avrebbe
seguito la religione di Mithra. In genere, viene riconosciuto che il
mithracismo fu l'antagonista più temibile del cristianesimo. Penetrato a Roma
verso la metà del primo secolo avanti Cristo, esso conobbe il suo apogeo verso
il terzo secolo, diffondendosi fino alle più lontane province dell'Impero,
attirando soprattutto i legionari e i veterani colonizzatori, i quali lo
sentivano congeniale per il suo orientamento combattivo e virile. Imperatori,
come Adriano, Commodo e Aureliano si fecero iniziare ai suoi Misteri. Il
mithracismo verso la fine del secondo secolo fu riconosciuto ufficialmente come
una religione dell'Impero, Mithra venendo concepito come il protettore e il
fautore di esso. Il suo culto si era fuso, peraltro, con quello del Sole,
Helios, quale potenza divina sovrana e invincibile. La data di una delle sue
feste più importanti, con la quale si celebrava il suo risorgere (die natalis
Solis in vieti Mithra) fu fissata il 25 dicembre (solstizio d'inverno). Nel
loro lavoro soppiantatore, i cristiani la ripresero per il loro Natale. Si
vuole che lo stesso Costantino avesse esitato fra cristianesimo e mithracismo,
mentre un iniziato ai misteri di Mithra fu Giuliano imperatore, il quale, come
si può leggere in un successivo saggio del presente volume, dedicato a tale
sovrano, insieme alla metafisica neoplatonica e a tradizioni mistèriche
considerò particolarmente il mithracismo nel suo ardito e nobile tentativo di
restaurare i culti romani di contro al dilagare della credenza cristiana.
Sulla
tesi, che il mondo antico avrebbe potuto essere mithracizzato, invece che
cristianizzato, vanno fatte, tuttavia, alcune riserve. Per competere
vantaggiosamente col cristianesimo il rnithracismo avrebbe dovuto scendere di
livello; restando integro, esso difficilmente avrebbe potuto guadagnarsi nella
stessa misura quelle masse popolari promiscue fra le quali prese essenzialmente
piede la religione di Gesù quale dottrina della salvazione a base sentimentale
aperta a tutti. Promanazione dell'antico mazdeismo irànico, il mithracismo ne
riprendeva il tema centrale di una lotta fra le potenze della luce e quelle
delle tenebre e del male. Esso poteva anche avere forme religiose, exoteriche,
ma il suo nucleo centrale era costituito dai suoi Misteri, ossia da una
iniziazione nel senso proprio. Ciò costituiva un limite, anche se di esso
faceva una più completa forma tradizionale. Successivamente, si doveva peraltro
assistere ad una sempre più decisa separazione della religione dalla
iniziazione.
Del
mithracismo, nelle presenti note considereremo appunto i Misteri, cercando di
indicarne la natura, in base alle testimonianze pervenuteci, consistenti da un
lato da notizie degli scrittori antichi, dall'altro dai monumenti figurati
rinvenuti nei luoghi che furono dei centri di quel culto e di quei Misteri.
Oltre a tali testimonianze, raccolte da Franz Cumont in sue opere classiche, potrà
venir considerato il «Rituale mithriaco del Gran Papiro magico di Parigi », che
si intitola Apatbanatismos; il suo testo, tradotto e commentato, lo si può
trovare nel primo volume dell'opera Introduzione alla Magia (1).
Anzitutto,
per lo scopo che ci siamo proposto, vi è da considerare, nel suo senso interno,
il mito di Mithra nei vari: episodi ritratti da una quantità di sculture e di
bassorilievi, alcuni di magnifica fattura. Infatti si deve ricordare che miti
del genere valevano come drammatizzazioni delle stesse esperienze che
l'iniziando doveva attraversare, quasi identificandosi col dio, ripetendone le
gesta.
Nel
mito, Mithra nasce da una pietra (theos ek pétras, petrogenos Mithra), è
generato da una pietra (petra genitrix), come una manifestazione della luce
uranica originaria, presso ad un « fiume »: nascita miracolosa notata solo dai
«guardiani» celati in cima a delle alture. Circa questi ultimi, ci si potrebbe
riferire ai « Maestri Invisibili », non privi di relazione con quegli esseri
delle origini che, secondo Esiodo, non sarebbero mai morti ma come i
«Veglianti» continuerebbero a vivere nelle successive età.
Le
«acque» da una parte, la «pietra» dall'altra potrebbero alludere alla dualità
costituita dalla corrente del divenire e dal principio che la domina. Della «
pietra », sono possibili varie interpretazioni; si sa che essa figura in
molteplici tradizioni. Si sarebbe tentati, fra l'altro, di stabilire una
analogia fra questa genesi di Mithra e un tema del ciclo arturiano, dove figura
una spada da estrarre da una pietra che galleggia sulle acque. Peraltro, nel
sorgere dalla pietra Mithra tiene in una mano una spada, nell'.altra una
fiaccola, simboli l'una della forza, l'altra della luce, d! un potere
illuminante.
Nella
«pietra» si potrebbe anche vedere il simbolo di una incrollabilità e di una
saldezza interiori, qualità richieste nell'iniziando a fondamento della sua
rinascita.
In
effetti, dalle notizie antiche, specie da quelle trasmesseci da Nonno il
Grammatico, risulta che nei misteri di Mithra i neofiti dovevano affrontare
delle prove, dovevano passare intrepidamente attraverso il fuoco e l'acqua,
dovevano resistere al freddo, alla fame e alla sete. Secondo un'altra notizia,
per mettere alla prova la sua impassibilità si faceva prender parte al neofita
all'uccisione simulata di un uomo. E si vuole che l'imperatore Commodo, il
quale aveva voluto farsi iniziare, suscitasse l'indignazione del suo ambiente
per aver preso sul serio quella uccisione simulata causando la morte di un
uomo. Può darsi che tutto ciò - che una qualificazione del genere - abbia una
relazione col simbolo della «pietra generatrice», con una delle condizioni
della rinascita iniziatica.
Comunque,
le qualità ora accennate appaiono esser richieste negli sviluppi successivi del
mito di Mithra, giacché questi deve resistere ad un vento furioso che subito
l'investe e che flagella il suo corpo nudo; però Mithra va dritto verso un
albero, si fa una veste con le sue foglie e si nutre dei suoi frutti. Dato il
significato iniziatico dell'albero, qui si potrebbe pensare ad un albero non
diverso da quello sul quale Adamo avrebbe voluto mettere mano per divenire
«simile a uno di noi» (a un dio), ma l'accesso al quale gli venne sbarrato
dallo Jehova dell'Antico Testamento.
Questo significato potrebbe trovar conferma in
un episodio successivo del mito, il quale sembra riguardare un confronto fra
Mithra e il Sole, l'Eone fiammeggiante. Questo episodio si conclude tuttavia
con una alleanza fra l'uno e l'altro, tale da fare di Mithra il portatore della
forza sovrana di quella divinità. Si tratta del boarenà dell'antica tradizione
mazdea (irànica), della « Gloria» concepita come un fuoco sovrannaturale
proprio anzitutto alle divinità celesti ma che scende anche ad illuminare i
sovrani, a consacrarli e ad attestarli con la vittoria. Il sovrano su cui
scendeva questa « Gloria» era innalzato al disopra degli uomini e considerato
dai suoi sudditi come un immortale. Ed è a questa stregua che, presso ad una
assimilazione di Mithra col Sole sempre di nuovo vittorioso sulle tenebre, lo
stesso Mithra, come si è detto, valse come il protettore e il fautore
dell'impero romano.
Ma questa dignità di Mithra ha anche una
relazione con l'episodio centrale del suo mito, con quello dell'uccisione del
toro. Mithra spia il toro; non appena esso esce da una «caverna », gli salta
addosso, lo cavalca afferrandosi alle sue corna. Il quadrupede prende il
galoppo, trasportando Mithra in una corsa furiosa. Mithra non lascia la presa,
si lascia trasportare senza farsi scavalcare finché l'animale, spossato,
rientra nella caverna donde era uscito. Allora Mithra lo uccide con la sua
spada.
Si tratta qui, del confronto con la forza
elementare «infera» della vita e della trasformazione di essa ad opera di chi
l'ha assunta al suo affiorare (il cavalcare) e l'ha anche vinta. In effetti, il
sangue che sgorga dalla ferita del toro si trasforma in « spighe »; cadendo per
terra, produce delle « vegetazioni », Vi è solo da impedire che animali immondi
accorsi bevano di quel sangue (li si vedono nelle figurazioni del mito) - il
che ha parimenti un significato esoterico: ove l'eroe o l'iniziando non fosse
«puro », ciò che in lui fosse rimasto della natura inferiore si potenzierebbe
grazie all'energia liberata, e non solo non avverrebbe la trasfigurazionemail
risultato potrebbe essere esiziale (è un pericolo, questo, che usando un
diverso simbolismo spesso è stato anche indicato nei testi dell'ermetismo
alchemico). Secondo una variante del mito, il sangue del toro si trasforma in
vino: possibile allusione all'effetto costituito da una specie di magica
ebrezza.
Questo
episodio del mito rivesti una tale importanza da dar luogo ad un rito preciso
dell'iniziazione dei. misteri i Mithra: consistente in un battesimo di sangue.
I mitrei, ossia l luoghi dove si celebravano tali Misteri, erano cosi costruiti
da comprendere una parte superiore e una parte inferiore (quasi sempre erano
sotterranei cosa che aveva un suo significato). Nel locale m basso si trovava
'il neofita che aveva superato le prove preliminari; nudo .. riceveva il sangue
di un toro ucciso ritualmente dallo ierofante nella parte superiore del
sacello, sangue che colava su di lui. Esperienze particolari, propiziate da
tutto l'insieme, dovevano. legarsi ad un simile battesimo di sangue, che
prendeva il posto di quello cristiano.
In
genere, per le esperienze dell'iniziato mithriaco ci si potrebbe riferire, in
parte, all'accennato rituale, Apathanatismos, sebbene in esso con gli elementi
mithriaci si trovino frammisti elementi propri allo gnosticismo e a tradizioni
magiche. Il Dieterich, che ha pubblicato per primo una traduzione di questo
testo suggestivo (nel 1903), lo ha chiamato una «liturgia ». La designazione
non è esatta, perché non si tratta di una cerimonia con inni e simili bensi di
un rituale con istruzioni, formule magiche e invocazioni insieme
all'indicazione delle corrispondenti esperienze. Il rituale sembra presupporre
una iniziazione preliminare, in quanto il soggetto nella sua prima invocazione
dichiara di esser stato purtficato da «sacre cerimonie» e di esser stato
rialzato dalla «forza forte delle forze» e dalla «incorruttibile Destra »,
tanto da poter aspirare alla «nascita immortale », da sottrarsi alla legge
della necessità che regna nel mondo inferiore, e contemplare gli dei e l'Eone,
«signore delle corone di fuoco », Si parla di porte che. si aprono, dei «Sette»
visti prima nel loro aspetto femminile, poi in quello maschile di « Signori del
Polo celeste ». L'azione teurgica conduce visibilmente di là dai Sette, fino a
che, fra bagliori e fulmini, appare una figura la quale è lo stesso
Sole-Mithra, che il miste deve saper fissare e poi, con un comando, far si che
non si diparta più da lui, per trasformarsi in lui (per assumerne la natura)
tanto da «morire integrato nella palingenesi, e nella integrazione raggiungere
il compimento».
Il
rituale comprende molti altri dettagli suì quali qui non ci si può fermare. Il
lettore può riandare al testo che, come si e detto, è stato riprodotto tradotto
dal greco e commentato nel primo volume dell'opera Introduzione alla Magia.
Qui
aggiungeremo soltanto che anche il mithracismo conosceva il viaggio attraverso
le sette sfere planetarie, a ritroso, ossia non pru nella discesa in cui
l'anima è ripresa via via nelle «sfere della necessità », cioè subisce graduali
condizionamenti fino allo stato di un uomo mortale, ma in una riascesa che
oltrepassa tali sfere, in un «denudamento », fino a raggiungere il Principio
l'Incondizionato.
Il « sette» s'incontra anche nel numero dei
gradi dell'iniziazione mithriaca nella sua forma, per cosi dire,
istituzionalizzata, gradi che avevano questi nomi: Corvo (Corax), Occulto (Cryphies),
Soldato (Miles), Leone (Leo), Persiano (Perses), Messo del Sole (Heliodromos),
Padre (Pater).
Come
interpretazione, si sarebbe portati a pensare ad una preliminare
«mortificazione» della natura inferiore (con il che si stabilirebbe, fra
l'altro, una corrispondenza col simbolismo alchemico-ermetico del Corvo,
frequentemente usato per alludere alla fase della nigredo, all'« Opera al
Nero»). Dopo di ciò il miste ha una esistenza occulta (secondo grado); nel
terzo grado è un soldato della schiera degli iniziati mithriaci che,
conformemente allo spirito guerriero di tale tradizione, veniva concepita come
una militia. Il grado successivo rappresentava un potenziamento di tale
qualità, mentre il grado di «Persiano» statuiva verosimilmente il collegamento
col ceppo di origine del mithracismo, con quello della religione iranrca della
Luce. Circa il grado di miles, Tertulliano riferisce che all'atto di
conferirglielo, al neofita si porgevano una spada e una corona. Egli prendeva
la spada ma respingeva la corona dicendo: «La mia corona è Mithra ».
Come«
Messo o Compagno del Sole» (sesto grado) l'iniziato rifletteva la stessa qualità
attribuita nel mito a Mithra, dopo il suo confronto con Helios. Infine il Pater
corrispondeva alla dignità di rruziatore (paternità iniziatica) e di capo di
una comunità mithriaca (pater sacrorum, pater patrum).
Da
tutto .ciò appare che qualora il mithracismo fosse prevalso sul cristianesimo
mantenendo il suo nucleo centrale, la conseguenza sarebbe stata anche il
mantenersi di una tradizione iniziatica regolare, costituita da tale nucleo,
nella successiva storia dell'Occidente, mentre per il lato più esteriore,
religioso, avrebbe potuto valere la qualità di Soter (il Salvatore, Colui che dà la salute) talvolta attribuita a
Mithra. In più, vi era l'aspetto che aveva fatto del «dio invitto» - Invictus
Mithra - il patrono solare dell'impero romano, per cui in lui si vedeva il
dispensatore del hvareno mazdeico che conferiva la vittoria, in una confluenza
con l'antica tradizione romana della Fortuna Regia (traduzione latina di tùke
basiléos) esprimendosi anche in quella Vietoria quale oggetto di culto la cui statua
si ergeva nel senato romano.
Tuttavia
da ciò si vede che il mithracismo costituiva un complesso cultuale, sacrale e
iniziatico che per la sua stessa natura non poteva non esser tagliato fuori nel
processo involutivo che ha trasportato l'Occidente, allontanandolo sempre più
da orizzonti di gloria e di potenza luminosa, fino a che, per ultimo, a
prescindere da una iniziazione che non fu più parte integrante e centrale di un
sistema ma solo una vena sotterranea con sporadiche riemergenze malgrado il cristianesimo,
ogni contatto reale col sovrasensibile fu interrotto.
18. sulla "via della
mano sinistra"
Per
formarsi un'idea della natura della Divinità e delle sue relazioni col mondò si
possono seguire due vie: la via deduttiva e la via induttiva.
Chi
sceglie la prima via, parte da una concezione a priori della Divinità desunta
da una Rivelazione o da un dogma, e cerca di vedere come essa può accordarsi
con la fattualità della realtà mondana. Il problema presenta diverse difficoltà
quando, come il cristianesimo, la Divinità viene concepita con attributi
«morali », ossia sotto le specie di un Creatore, Dio della luce, dell'amore e
della provvidenza. Infatti vi sono aspetti del mondo e della vita che sono innegabilmente
oscuri e problematici, tali quindi da non accordarsi senz'altro con quella
concezione teologica. La teodicea è la parte della teologia teistica che cerca
di venir a capo di tale antitesi. L'esempio più noto di teodicea cristiana è
quella di Leibniz, il quale con argomenti speculativi ha voluto dimostrare che
il nostro è «il migliore dei mondi possibili ». Tale formula, tuttavia, è
ambigua, perché il « possibile» lo si può anche interpretare come « tutto ciò
che si poteva fare », ossia, più o meno, come un «non si poteva far di meglio
».
A
tale stregua si imporrebbe però un ridimensionamento della concezione «morale»
della Divinità. Nell'antichità, essa fu intrapresa nel modo più drastico da
Marcione, il quale batté l'altra via, quella « induttiva ». Si afferma - egli
disse - che Dio è saggio, buono e onnipotente. Ma questi attributi sono fra
loro inconcìliabili perché, considerando il mondo così come è, se ne deve
dedurre o che Dio è saggio e buono, ma non onnipotente (si torna al «tutto ciò
che si poteva fare creando »), o è buono e onnipotente, ma non saggio, o è
saggio e onnipotente, ma non buono. De Sade, il «divino marchese », andò ancor
più oltre in questa direzione. Come lo ha messo ben in luce Mario Praz, De Sade
non era un ateo; credeva nell'esistenza di Dio, però di un Dio malvagio. Per
lui, ciò era provato dal prevalere, nel mondo, del male e della distruzione. De
Sade trasse da tale idea conseguenze pratiche come base di una etica alla
rovescia: se il male è la forza predominante nell'universo e l'espressione
della natura divina, il male, il vizio e la corruzione per essere conformi alla
legge universale saranno sempre felici e prosperosi (vedi il titolo del suo
romanzo: Justine ou les prosperités du
vice), il bene e la virtù saranno invece sempre infelici e sventurati, per
non dire maledetti.
Queste
difficoltà, questo aporìe e queste antinomie derivano dal tenersi, malgrado
tutto, ad un punto di vista assai limitato, oltreché dal considerare delle
rigide categorie morali (come bene e male) anziché delle categorie ontologiche.
È soprattutto l'Oriente ad offrirei orizzonti più vasti e più liberi.
Ci
si può riferire anzitutto alla dottrina di un Principio supremo che comprende,
riunisce e trascende tutti gli opposti (questa idea, peraltro, è stata anche
adombrata sporadicamente in Occidente da alcune mistiche e da alcune
metafisiche, - si cfr. la coincidentia oppositorum, fino alle «nozze del
paradiso con l'inferno» di William Blake). In secondo luogo, e soprattutto, si
può ricordare la dottrina induista ortodossa del triplice aspetto della
Divinità. Tale dottrina è visibilmente ottenuta applicando il metodo da noi
detto «induttivo », ossia desumendo dall'esperienza concreta il concetto che si
deve avere della Divinità. Fattualmente, nel mondo si rilevano sia processi
creativi, sia forme sussistenti, sia processi distruttivi. Corrispondentemente
alla divinità vengono attribuiti tre volti: quello del Dio che crea, quello del
Dio che conserva e quello del Dio che distrugge, le corrispondenti ipostasi
religiose essendo Brahmà, Vishnu e Civa, Questi iddii hanno fatto da punti di
riferimento per un culto differenziato, ma anche per vie dell'azione, vie
distinte ma, in ultima analisi, equivalenti.
È
in questo quadro che si definiscono propriamente i concetti di Via della Mano
Destra e Via della Mano Sinistra. La prima via ha un riferimento coi due primi
aspetti del Principio (Brahmà e Vishnu) e sul piano dei comportamenti,
dell'etica e del culto è caratterizzata dall'affermazione dell'esistente, dalla
sua sacralizzazione, dalla conformità alla legge (Dharma) e ai precetti
positivi di un dato ordinamento tradizionale della vita terrena. Invece la Via
della Mano Sinistra - Vàrnàcara - sta essenzialmente sotto il segno di Civa (o
delle sue çakti - per es. Durgà e Kàli), cioè dell'aspetto distruttivo della
divinità, e può comportare non solo il distacco e lo svincolamento da ogni
ordine e norma esistente e una «anomia» (= adbarma, il non aver un nomos = una
legge). Così Civa ha potuto essere sia il dio degli asceti che si sottraggono
ai vincoli del mondo, sia addirittura dei fuori-legge.
A
tale riguardo possono però nascere (e sono effettivamente nati) tanto degli
equivoci, quanto delle deviazioni. Si è che in questo ambito il concetto di
«distruzione» va associato a quello di «trascendenza»: dunque, non distruggere
per distruggere ma distruggere per trascendere (l'etimologia della parola
«trascendere» è: superare innalzandosi). Poi, ovviamente, non tanto è quistione
di distruzioni materiali quanto, e soprattutto, di esperienze distruttive,
perché qui si tratta sempre di vie della realizzazione spirituale. Il
riferimento ora fatto alla «trascendenza» è essenzialissimo; l'orientamento
verso l'alto è il presupposto costante e imprescindibile. Esso distingue inequivocabilmente
il mondo di cui stiamo parlando da quello sinistro, dianzi accennato. di De
Sade e simili, malgrado le oscure estasi che questo può anche suscitare.
È
naturale che chi segue la Via della Mano Sinistra ne faccia l'apologia; cOSI in
un testo si legge che essa sta alla Via della Mano Destra come il vino sta al
latte, e che da essa sono attratti coloro che hanno una qualificazione o
vocazione da Vira (= un orientamento virile o eroico). Ma può esservi anche un
titolo positivo per questa rivendicata preminenza, ove si metta in risalto
appunto la dimensione della «trascendenza »: perché è necessariamente
distruttivo (distruttivo rispetto al finito) quel che ha un carattere di
trascendenza, e tale carattere è stato attribuito, oltre che a Civa, allo
stesso Principio Supremo. Ciò risulta da un testo ortodosso avente in India
quasi la stessa popolarità che in Occidente ha la Bibbia, la Bhagavad-gita. Nel
capitolo undicesimo di questo testo, come «forma suprema» della Divinità viene
indicata quella di una forza distruttiva e travolgente, e si esorta il
guerriero Arjuna a divenirne l'incarnazione umana vincendo ogni angoscia e ogni
debolezza dell'anima. Si può far rientrare senz'altro nella Via della Mano
Sinistra questo orientamento: combattimento, morte, distruzione ricevono un
crisma metafisico se il loro fondo è l'impulso alla trascendenza,
nell'adombramento di un attributo divino essenziale.
Però
abitualmente la Via della Mano Sinistra non viene riferita alla «Via del
Guerriero» (malgrado le evidenti convergenze), sibbene ad esperienze
particolari nelle quali, come nel dionisismo occidentale, figura anche
l'elemento orgiastico in genere, ovvero quello specificamente sessuale.
In
tali esperienze si cerca qualcosa di distruttivo in vista della sua virni
«decondizionalizzante ». Cosi sarebbe un grave errore pensare che, ad esempio,
quando in quella Via vengono usati il sesso e la donna, si miri al « piacere»
quale comunemente lo si intende: la «voluttà» valendo anzi come uno sfaldamento
che porta verso la direzione opposta. Nella Via della Mano Destra le unioni
sessuali vengono ritualizzate, vengono fatte delle imagini dello ieros gamos,
dell'amplesso di una coppia divina o mitologica archetipa. Invece nella Via
della Mano Sinistra le unioni sessuali debbono «uccidere» realizzando l'antica
formula amore = morte. Si può rilevare che l'ermetismo alchemico occidentale ha
annoverato l'uso della donna fra quelle che nel suo gergo cifrato polivalente
ha chiamato le « acque corrosive» o i « veleni filosofali».
Un
eminente studioso indii, il Das Gupta, ha indicato connessioni fra la Via della
Mano Sinistra e certi « oscuri culti religiosi ». Poco sopra noi abbiamo detto
che se esistono equivoci molto diffusi a carattere moralizzante nei riguardi
dell'essenza di quella Via, si debbono però anche rilevare alcune forme
degradate e degeneri di essa. In effetti, qui ci si trova su di un terreno
assai infido, specie se si passa a vere e proprie « evocazioni », Esistono
pratiche, il significato ultimo delle quali potrebbe venire riassunto cosi:
attivare (o evocare) ciò che sta al disotto della forma per portarsi al disopra
della forma. Per « forma» qui si deve intendere tutto ciò che è variamente
condizionato e ordinato nell'essere umano o in una data struttura, con una sua
fissità. Ogni ordine si definisce come una forma che soggioga e lega l'informe
e l'elementare - se si vuole, il « demonico» nel senso antico e non cristiano
morale del termine. Questo informe o elementare viene ora liberato; emergendo,
esso non può non agire distruttivamente sulla forma. Se tutto finisce qui, si è
nel campo di riti oscuri, stregonici. Forme di invasamento (eventualmente, non
avvertite come tali) possono esserne il risultato. Se invece la distruzione
della forma porta al di là, al disopra, della forma, il tutto può acquistare un
carattere a suo modo positivo. A tale riguardo, si potrebbe perfino parlare di
una «strumentalizzazione bianca della magia nera» (giungendo ad includere le
stesse cosidette «messe nere » ), e questo può essere un aspetto della Via
della Mano Sinistra. Donde, i riferimenti fatti dal Das Gupta. Ognuno vede i
rischi che si incontrano in simili pratiche. È importante rilevare, d'altra
parte, che in India la Via della Mano Sinistra non è battuta da individui
isolati, attratti dall'uno o dall'altro aspetto di essa, ma che ad essa
corrispondono delle tradizioni con dei maestri spirituali (guru) e che essa
spesso comporta anche delle iniziazioni. L'iniziazione, nell'aspetto da
considerare in questo contesto, è tenuta a suscitare nel singolo un potere che
se non lo immunizza completamente da ogni pericolo (a tanto, non si dovrebbe
più esser degli uomini), almeno lo aiuta a tenersi in piedi, naturalmente se
egli sa vedere ben chiaro in se stesso, se conosce le proprie possibilità, se
il fine ultimo viene tenuto costantemente presente.
Si
sa dell'interesse che il cosidetto Zen ha suscitato anche fuor dagli ambienti
specialistici, da quando D. T. Suzuki lo ha fatto conoscere nei suoi libri Introduction to Zen Buddhism, Essays in Zen Buddhism, successivamente
tradotti anche in francese. Questo interesse deriva da una specie di incontro
paradossale. Per l'Occidentale in crisi lo Zen presenta infatti qualcosa di
«esistenzialistico» e di surrealistico. Anche la concezione Zen di una
realizzazione spirituale libera da qualsiasi fede e da qualsiasi vincolo e, in
più, il miraggio di una « rottura di livello» istantanea e, in un certo modo,
gratuita, tale, tuttavia, da risolvere ogni angoscia dell'esistenza, non hanno
potuto non esercitare su molti una attrazione particolare. Però tutto questo
riguarda, in buona misura, soltanto le apparenze: la «filosofia della crisi» in
Occidente, che è la conseguenza di tutto uno sviluppo materialistico e
nìchilistico, e lo Zen, che per antecedente ha sempre la spiritualità della
tradizione buddhista, presentano dimensioni spirituali ben distinte, per cui
ogni autentico incontro presuppone, in un Occidentale, o una predisposizione eccezionale,
ovvero la capacità di quella metanoia, di quel rivolgimento interno, che
riguarda meno « atteggiamenti» intellettuali, che non ciò che in ogni tempo e
luogo è stato concepito come qualcosa di assai più profondo.
Lo
Zen vale come la dottrina segreta trasmessa, al di fuori delle scritture, dallo
stesso Buddha al suo discepolo Mahàkàçyapa: introdotta in Cina verso il VI
secolo da Bodhidaarma e poi continuatasi attraverso una successione di Maestri
e di «patriarchi» sia in Cina che in Giappone, ove ancor viva, ha i suoi
rappresentanti e i suoi Zendo (le «Sale della Meditazione»).
Quanto
a spirito, lo Zen può venir considerato come una ripresa dello stesso buddhismo
delle origini. Il buddhismo nacque come una energica reazione contro lo
speculare teologizzante e il vuoto ritualismo in cui era finita l'antica casta
sacerdotale indri, già detentrice di una sapienza sacra e viva. Il Buddha fece
tabula rasa di tutto questo; pose invece il problema pratico del superamento di
ciò che nelle esposizioni popolari viene presentato come « il dolore
dell'esistenza» ma che nell'insegnamento interno appare essere, più in genere,
lo stato di caducità, di agitazione, di « sete» e di oblio degli esseri comuni.
Avendola lui stesso percorsa senza l'aiuto di nessuno, egli indicò a chi ne
sentiva la vocazione la via del risveglio, della immortalità. Buddha, come si
sa, non è un nome, ma un attributo, un titolo; significa «lo Svegliato »,
«colui che ha conseguito il risveglio» o 1'« illuminazione ». Quanto al
contenuto della sua esperienza, il Buddha tacque, ad impedire che, di nuovo,
invece di agire ci si desse a speculare e a filosofare. Cosi egli non parlò,
come i suoi predecessori, del Brahman (dell'Assoluto), né dell'Atmà (l'Io
trascendentale) ma usò il solo termine negativo di nirvàna, anche a rischio di
fornire appigli a coloro che, nella loro incomprensione, nel nirvàna dovevano
vedere il « nulla », una ineffabile e evanescente trascendenza quasi al limite
dell'inconscio e di un cieco non-essere.
Orbene,
nello sviluppo successivo del buddhismo si ripeté mutatis mutandis, proprio la
situazione contro cui il Buddha aveva reagito; il buddhismo divenne una
religione coi suoi dogmi, con suoi rituali, con una sua scolastica, con una sua
mitologia. Esso si differenziò in due scuole, l'una - il Mahàyàna - più ricca
di metafisica e compiacentesi di un astruso simbolismo, l'altra _ I'Hinayàna -
più severa e nuda nei suoi insegnamenti, ma troppo preoccupata della semplice
disciplina morale portata su di una linea più o meno monastica. Il nucleo
essenziale e originario, ossia la dottrina esoterica dell'illuminazione, andò
quasi perduto.
Ed
ecco che interviene lo Zen, a far daccapo tabula rasa, a dichiarare l'inutilità
di tutti questi sottoprodotti, a proclamare la dottrina del satori. Il satori è
un avvenimento interiore fondamentale, una brusca rottura di livello
esistenziale, in essenza corrispondente a ciò che abbiamo chiamato il
«risveglio». Però la formulazione fu nuova, originale, presso ad una specie di
capovolgimento. Lo stato di nirvàna - il presunto nulla, l'estinzione, già
lontano termine finale di uno sforzo di liberazione che secondo alcuni potrebbe
richiedere perfino più di una esistenza - viene ora indicato come lo stato
normale dell'uomo. Ogni uomo ha natura di Buddha. Ogni uomo è già un «liberato
», superiore a nascita e a morte. Si tratta solo di accorgersene, di
realizzarlo, di «vedere nella propria natura », formula fondamentale dello Zeno
Come uno spalancamento senza tempo - questo è il satori. Per un lato, il salari
è qualcosa di improvviso e di radicalmente diverso da tutti gli stati a cui
sono abituati gli uomini, è come un trauma catastrofico della coscienza
ordinaria; nel contempo è ciò che riconduce appunto a quel che, in un senso
superiore, va considerato come normale e naturale; quindi è il contrario di una
estasi o di una transe. È il ritrovamento e la presa di possesso della propria
natura: illuminazione, o luce, che trae fuor dall'ignoranza o dalla
subcoscienza la realtà profonda di ciò che, da sempre, si fu e che mai si
cesserà di essere, qualunque sia la propria condizione.
La
conseguenza del salari sarebbe una visione completamente nuova del mondo e
della vita. Per chi lo ha avuto, tutto è lo stesso - le cose, gli altri esseri,
sé medesimo, «il cielo, i fiumi e la vasta terra» - eppure tutto è
fondamentalmente diverso: come se una dimensione nuova si fosse aggiunta alla
realtà e ne avesse trasformato completamente il significato e il valore.
Secondo quanto dicono i maestri dello Zen, il tratto essenziale della nuova
esperienza è il superamento di ogni dualismo: dualismo fra dentro e fuori, fra
lo e non-Io, fra finito e infinito, fra essere e non-essere, fra apparenza e
realtà, fra «vuoto» e «pieno », fra sostanza e accidenti - e altre SI
indiscernibilità di ogni valore posto dualisticamente dalla coscienza finita e
offuscata del singolo, sino a dei limiti paradossali: sono una stessa cosa il
liberato e il nonliberato l'illuminato e il non-illuminato, questo mondo e
l'altro mondo,' colpa e virtù, Lo, Zen riprende effettivamente l'equazione
paradossale del buddhismo Mahàyàna: nirvana = samsara, e qu.ella del taoismo:
«l'infinitamente lontano è il ritorno », È come dire: la liberazione non è da
cercarsi in un aldilà; questo stesso mondo è l'aldilà, è la liberazione, nulla
ha bisogno di essere liberato.
Il
punto di vista del satori, della
illuminazione perfetta, della «sapienza trascendente» (prajiiaparamila), è questo.
In
essenza, si tratta di uno spostamento del centro di sé. In qualsiasi situazione
e in qualsiasi avvenimento della vita ordinaria, anche nei più banali, il posto
del senso comune, dualizzante e intellettualistico di sé, viene preso da un
essere che non conosce più un lo contrapposto a un non-Io, che trascende e
riprende i termini di ogni antitesi, tanto da godere di una perfetta libertà e
incoercibilità: come quella del vento, che soffia dove vuole, ed anche
dell'essere nudo che, proprio perché «ha lasciato la presa », (altra
espressione tecnica), perché ha abbandonato tutto [« povertà »), è tutto e
possiede tutto.
Lo
Zen - almeno la corrente predominante dello Zen - insiste sul carattere
discontinuo, improvviso, imprevedibile della dischiusura del satori. Con
riferimento a ciò, il Suzuki era andato oltre il segno nel polemizzare contro
le tecniche in uso nelle scuole indu, nel Sàrnkhya e nello Voga, ma contemplate
anche in alcuni dei testi originari del buddhismo. La similitudine è quella
dell'acqua che ad un dato momento si tramuta in ghiaccio. Viene anche data
l'imagine di una soneria che ad un dato punto, per una qualche scossa, scatta.
Non vi sarebbero sforzi, discipline o tecniche che da per sé possano condurre
al satori. Si dice, anzi, che talvolta esso interviene ad un tratto, quando
abbiamo esaurito tutte le risorse del nostro essere, soprattutto del nostro
intelletto e della nostra capacità logica di comprensione. Altre volte
sensazioni violente, perfino un dolore fisico, possono propiziarlo. Ma la causa
può essere anche la semplice percezione di un oggetto, un fatto qualunque
dell'esistenza ordinaria, data una certa disposizione latente dell'animo.
A
tale riguardo, possono però nascere degli equivoci. Si è che, come riconobbe lo
stesso Suzuki, «in genere non sono state date indicazioni sul lavoro interiore
che precede il satori ». Egli, comunque, parla della necessità di passare,
prima, per un «vero battesimo del fuoco ». Del resto, la stessa istituzione
delle cosidette «Sale di Meditazione» dove coloro che vogliono raggiungere il
satori si assoggettano ad un regime di vita analogo, in parte, a quello di
alcuni Ordini cattolici, indica la necessità di una preparazione preliminare,
la quale anzi può prendere un periodo di molti anni. L'essenziale sembrerebbe
consistere in un processo di maturazione, identico a quello dell'avvicinarsi ad
uno stato di estrema instabilità esistenziale, dato il quale basta un minimo
urto per produrre il cambiamento di stato, la rottura di livello, l'apertura
che conduce alla «visione folgorante della propria natura ». I Maestri
conoscono il momento in cui la mente del discepolo è matura e l'apertura è sul
punto di prodursi; allora essi danno, eventualmente, la spinta decisiva.
Talvolta può essere un semplice gesto, una esclamazione, qualcosa di
apparentemente irrilevante, perfino di illogico, di assurdo. Ciò basta a
produrre il crollo di tutta la falsa individualità e, col satori, subentra lo
«stato normale », si assume il «volto originario », «quello che si aveva prima
della creazione ». Non si è più dei «cacciatori di echi» e degli «inseguitori
di ombre ». Viene di pensare, in alcuni casi, ad un analogo del motivo
esistenzialista del « fallimento» o « naufragio» (das Scbeitern - Kierkegaard,
jaspers). Infatti, come si è accennato, spesso l'apertura avviene appunto
quando si sono esaurite tutte le risorse del proprio essere e, per cOSI dire,
si è messi con le spalle al muro. Lo si può vedere in relazione ad alcuni
metodi pratici di insegnamento dello Zeno Gli strumenti più usati sul piano
intellettuale sono i kàan e i mondo; il discepolo viene messo dinanzi a dei
detti o a delle risposte di un genere paradossale, assurdo, talvolta grottesco
o « surrealistico ». Vi deve logorare la mente, se necessario per anni interi,
fino al limite estremo di ogni facoltà normale di comprensione. Se, allora, si
osa fare ancora un passo avanti, può prodursi la catastrofe, il capovolgimento,
la metanoia. Si ha il satori.
In
pari tempo, la norma dello Zen è quella di una autonomia assoluta. Niente dèi,
niente culti, niente idoli. Svuotarsi di tutto, perfino di Dio. « Se sulla tua
via incontri il Buddha, uccidilo » - dice un Maestro. Occorre abbandonare
tutto, non appoggiarsi a nulla, andare avanti, con la sola essenza, fino al
punto della crisi. Dire qualcosa di più sul satori e fare un confronto fra esso
e le varie forme di esperienza mistica e iniziatica d'Oriente e d'Occidente, è
molto difficile. Avendo accennato ai monasteri Zen, vale rilevare che in essi
si trascorre solo il periodo della preparazione. Chi ha conseguito il satori,
lascia il convento e la «Sala della Meditazione », torna al mondo scegliendo si
la via che più gli conviene. Si potrebbe pensare che il satori sia una specie
di trascendenza che allora si porta nell'immanenza, come stato naturale, in
ogni forma della vita.
Dalla
nuova dimensione che, come si è detto, in seguito al satori si aggiunge alla
realtà, procede un comportamento per il quale potrebbe valere la massima di
Lao-tze: «Essere interi nel frammento ». In relazione a ciò, è stata rilevata
l'influenza che lo Zen ha esercitato sulla vita estremo-orientale. Fra l'altro,
lo Zen è stato chiamato «la filosofia del Sarnuraj » e si è potuto affermare:
«la via dello Zen è identica alla via dell'arco» o «della spada ». Si vuoI
significare che ogni attività della vita può essere compenetrata di Zen e cosi
elevata ad un significato superiore, ad una « interezza » e ad una «
impersonalità attiva », Un senso di irrilevanza dell'individuo che non
paralizza ma assicura una calma e un distacco che permette una assunzione
assoluta e « pura» della vita, in dati casi sino a forme estreme e tipiche di
eroismo e di sacrificio, che per la maggioranza degli Occidentali sono quasi
inconcepibili (vedi il caso dei Kamikazé nell 'ultima guerra mondiale).
È
uno scherzo ciò che dice lo Jung, ossia che, più di qualsiasi corrente occidentale,
è la psicanalisi che potrebbe capire lo Zen, perché, secondo lui, l'effetto del
satori sarebbe la stessa interezza priva di complessi e di scissioni a cui
presume di giungere il trattamento psicanalitico quando rimuove le ostruzioni
dell'intelletto e le sue pretese di supremazia, e ricongiunge la parte
cosciente dell'anima con l'inconscio e con la «Vita ». Lo Jung non si è accorto
che nello Zen, sia il metodo che i presupposti stanno all'opposto dei suoi: non
esiste 1'« inconscio» come una entità a sé, a cui il conscio debba aprirsi, ma
si tratta di una visione supercosciente (l'illuminazione, la bodbi o «
risveglio ») che porta in atto la « natura originaria» luminosa e distrugge,
con ciò, l'inconscio. Tuttavia ci si può tenere al sentimento di una « totalità»
e libertà dell'essere che va a manifestarsi in ogni atto dell'esistenza. Un
punto particolare è però di precisare il livello a cui ci si riferisce.
In
effetti, specie nella sua esportazione fra noi, si sono avute delle tendenze ad
« addomesticare» o moralizzare lo Zen velandone, anche sul piano della semplice
condotta di vita, le possibili conseguenze radicaliste e «antinomistiche» (= di
antitesi alle norme vigenti) e insistendo invece sugli ingredienti obbligatori
degli « spiritualisti », sull'amore e sul servizio al prossimo, sia pure
purificati in una forma impersonale e asentimentale. In genere, sulla
«praticabilità» dello Zen non possono non nascere dei dubbi, in relazione al
fatto che la «dottrina del risveglio» ha un carattere essenzialmente
iniziatico. Cosi essa non potrà mai riguardare che una minoranza, in opposto al
buddhismo più tardo il quale prese la forma di una religione aperta a tutti
oppure di un codice di semplice moralità. Come ristabilimento dello spirito del
buddhismo originario, lo Zen avrebbe dovuto tenersi ad un esoterismo.
In
parte, lo ha fatto: basta riandare alla leggenda delle sue origini. Tuttavia
vediamo che lo stesso Suzuki è stato incline a presentare in modo diverso le
cose e ha valorizzato quegli aspetti del Mahàyàna che «democraticizzano » il
buddhismo (del resto, la denominazione «Mahayana» è stata interpretata come il
«Grande Veicolo» anche nel senso che sarebbe adatto per ampie cerchia, non per
pochi). Se si dovesse seguirlo, nascerebbero delle perplessità sulla natura e
sulla portata dello stesso satori; sarebbe cioè da chiedersi se una tale
esperienza riguardi semplicemente il dominio psicologico, morale o mentale o se
investa quello ontologico, come ne è il caso per ogni iniziazione autentica,
della quale può però esser quistione solo per un assai piccolo numero.
Già
nel 1927 l'Oxford University Press aveva pubblicato un testo tibetano, il
«Bardo Todol », in una traduzione inglese curata da W. Y. Evans-Wentz e dal
Lama Kazi Dawa Samdup. Questo testo, a cui è stato dato il titolo di «Libro
tibetano del morto» attirò subito l'attenzione non solo degli storici della
religione ma anche di un pubblico assai più vasto.
Da
molti questo testo è stato ravvicinato al « Libro dei Morti» egiziano; ma, come
subito diremo, si potrebbero stabilire dei confronti anche con antichi
insegnamenti sapienziali occidentali.
A
chi non è un materialista ma ha familiari solo le concezioni dell'oltretomba
proprie al cristianesimo, tali testi offrono prospettive alquanto conturbanti.
La concezione cristiana ha infatti un carattere statico e stereotipo. Anzitutto
essa postula come un dogma l'immortalità quale attributo di qualsiasi anima,
non distinguendo poi un eventuale semplice e precario sopravvivere
dall'immortalità vera. In secondo luogo, per l'aldilà viene considerato un
processo quasi automatico nel senso che il passare negli stati chiamati di
paradiso, di inferno e di purgatorio sarebbe determinato solo dal genere di
vita condotto dall'individuo su questa terra, giudicato in termini di moralità
religiosa. Invece dai testi or ora citati l'aldilà viene presentato in termini
assai più dinamici e drammatici, con alternative molteplici e destini non del
tutto prede termina ti.
Circa
alcuni dei temi fondamentali già noti anche all'antichità occidentale
precristiana, ci si può riferire a ciò che Plutarco riferisce nel trattato «De facie in orbe lunae». Egli dice che
vi sono due morti. La prima è la morte che avviene sulla terra e nel regno di
Demetra; è quella in cui il corpo si decompone e ritorna, come cadavere, alla
Madre Terra, di cui Demetra è la dea. A tale morte sopravvive però il complesso
anima-spirito, per «anima» intendendosi l'insieme delle facoltà psichiche,
affettive, istintive, con ricordi, impulsi, ecc.; per « spirito », invece, il
principio sovrannaturale della personalità, che però di rado affiora nella vita
ordinaria tanto da potersi dire che l'uomo comune sa bensi di una sua «anima»,
ma quasi ignora che cosa è lo «spirito» in senso eminente.
Ora
- continua Plutarco - in una fase successiva alla morte del corpo fisico questo
stesso complesso si dissocia, e tale è la «seconda morte », che non sopravviene
sulla terra ma, simbolicamente, nella Luna e nel segno della dea Proserpina.
Allora l'anima si stacca a sua volta dal principio più alto dell'essere, e
viene riassorbita nella sostanza vitale cosmica, da intendersi propriamente
come quella che è la radice inesausta delle esistenze caduche ripullulanti nel
«circolo della generazione »,
Si
può notare, qui, una corrispondenza esatta con l'antico insegnamento
tradizionale indii, che parla delle «due vie »: due vie, perché a questo punto
si presenterebbe un'alternativa essenziale, a cui è da riferirsi il senso sia
dell'augurio: «Che tu possa scampare alla seconda morte », sia la maledizione:
«Che tu possa morire della seconda morte ». La nozione della « seconda morte»
era nota anche nell'antico Egitto, da dove una eco passò nello stesso Antico
Testamento. Del resto, il termine ebraico corrispondente all'« inferno»
cristiano, la «geenna del fuoco », era anche quello designante il luogo dove si
distruggevano i rifiuti di una città; comprende dunque l'idea fondamentale di
una distruzione (non di un luogo di pena) ed allude pertanto al possibile esito
negativo delle vicende d'oltretomba, al caso in cui, dopo un'esistenza
intermedia effimera, ossia dopo un sopravvivere più o meno lungo
nell'oltretomba, col dissolversi e il venir riassorbita dell'« anima» nulla rimarrebbe
dell'essere personale cosciente: sarebbe un effettivo estinguersi. Di ciò -
dice Plutarco - è il caso per coloro che furono completamente attaccati alla
terra, che identificarono del tutto il proprio essere con la materialità, con
la vita delle sensazioni, degli istinti e delle passioni, senza mai «svegliarsi
», senza mai portare in alto lo sguardo. La concezione classica dell'Ade, luogo
dove non sopravvivono che delle «ombre », può venire ricondotta ad un analogo
ordine di idee.
Ma
per altri la « seconda morte» può significare la liberazione o la possibilità
della liberazione. Proprio lo staccarsi dell'anima (dopo il morire del corpo
fisico) diviene la condizione per «andar oltre », per un'effettiva
trasfigurazione immortalante, per un «rinascere in alto» in un'integrazione
dello «spirito ». E coloro ai quali è dato partecipare a questo destino, da
Plutarco vengono chiamati i «vincitori »; ad essi è propria «la corona degli
iniziati e dei trionfatori »,
Queste
prospettive dell'aldilà si fanno più complesse se ci si riferisce ai testi
orientali citati al principio del presente capitolo e soprattutto al «Libro
tibetano del morto », perché in essi sono presentate alternative più
differenziate, a decidere delle quali sono richiesti dati atteggiamenti e date
azioni (o reazioni) dell'anima. Anche tutto quel che in una certa misura vi è
di automatico nei processi di cui parla Plutarco qui viene superato. Se il «
Libro dei morti» egiziano si tiene ad un piano quasi magico con le formule e
gli scongiuri forniti, quasi come un viatico, al morto per scampare alla
«seconda morte », per sussistere e riaffermarsi nell'oltretomba, negli
insegnamenti tibetani si dà risalto, piuttosto, alla capacità di dissolvere una
fantasmagoria di apparizioni e di visioni che sono solo proiezioni del
contenuto degli strati più profondi inconsci del proprio essere, legati anche
all'una o all'altra potenza cosmica. Tale capacità determinerebbe una varietà
di destini. La phi alta possibilità, quella di una liberazione veramente immortalante,
corrisponderebbe al momento in cui all'anima si rivela dopo la morte la « pura
Luce» nella sua trascendenza; tutto dipendendo dal suo riuscire ad
identificarsi attivamente e intrepidamente con essa. Nello schema riferito da
Plutarco ciò equivarrebbe all'integrarsi dello «spirito» nella sua vera
origine, nel momento in cui esso si scioglie dal complesso «anima» o, per
meglio dire, in cui tale complesso lo abbandona, cessa di offrirgli un
sostegno, ma anche un ultimo vincolo.
È
sintomatico il fatto, che simile veduta, inusitata per i più, oggi oltre a
suscitare un vivo interesse nel campo degli studi spirituali, ha trovato chi
l'ha ritenuta suscettibile anche di applicazioni pratiche sperimentali. Lo
dimostra il libro, uscito già in quattro edizioni presso la University Press di
New York, avente per titolo «The Psychedelic Esperience » e per sottotitolo
«Manuale basato sul Libro tibetano dei Morti». Gli autori - T. Leary, R.
Metzner e R. Albert - credono che l'interpretazione del testo tibetano come un
insieme di insegnamenti riguardanti esclusivamente stati ed azioni
dell'oltretomba, sia unilaterale e poco «profonda». Il tutto potrebbe valere
anche per chi vive, pel conseguimento degli stessi fini. Viene ricordato come
fin dall'antichità sia stata riconosciuta la corrispondenza fra gli stati
provocati dalla morte e quelli che si attraversano con l'iniziazione e con la
«morte iniziatica». Da qui, un'interpretazione ad hoc del testo tibetano, in un
quadro di evocazioni «psichedeliche», cioè di proiezioni del proprio essere più
profondo, da rendere possibile soprattutto con l'aiuto di droghe. È chiaro il
carattere problematico e avventuroso di tali assunzioni. Peraltro, esso è stato
anche la causa di un infortunio del primo dei tre autori del libro or ora citato,
del prof. Leary, il quale si è visto estromettere dall'insegnamento dalle
autorità accademiche per aver incoraggiato i suoi studenti ad usare l'LSD ed
altre droghe per i fini dianzi accennati.
21. il doppio volto
dell'epicureismo
La
fortuna che le dottrine di Epicuro e della sua scuola ebbero a Roma è un fatto
che di solito viene interpretato come una prova della poca elevatezza del
pensiero romano. L'epicureismo viene infatti concepito come un sinonimo di
materialismo, di ateismo e di glorificazione del piacere. Proprio quel che ci
voleva - si dice - per la decadenza romana, per dei patrizi sfaccendati o per
dei soldati che, fuor dalle armi, non sapevano interessarsi a nulla di
superiore. Attraverso Epicuro e il suo fervente apostolo romano, Lucrezio, si
confermerebbe la tendenza spiccatamente antimetafisica e antispeculativa
dell'antico Romano. Questa opinione, ripresa negli stessi testi facenti da base
alla comune educazione giovanile, in parte è unilaterale, in parte è falsa.
Alcune brevi considerazioni in proposito non saranno prive di interesse.
Cominciamo
col mettere nella giusta luce il significato che, in se stessa, ha la dottrina
di Epicuro. Essa si compone di una fisica e di una etica, l'una in stretta
dipendenza dall'altra. La « fisica» per Epicuro doveva essere una introduzione
o propedeutica all'etica. Ciò può sembrare strano, se si considera che la
fisica di Epicuro si stacca nettamente dalle precedenti interpretazioni
metafisiche e religiose della natura, mentre ha diversi tratti in comune, come
orientamento, con la fisica moderna. Essa intende spiegare i fenomeni sia
fisici, sia psichici mediante pure cause naturali. Esclude ogni agente
sovrannaturale, la stessa anima viene considerata cosi come si può considerare
una cosa, senza nulla di mistico e di romantico. Gli dèi e la provvidenza sono
banditi dalla trama delle cose. La sopravvivenza dell'anima viene messa in
discussione. Si chiederà dunque: una simile concezione, come può avere un
valore etico?
Epicuro
risponde: per la liberazione interiore, per lo schiarìmento dello sguardo che
essa, nel suo realismo, produce. Epicuro esprime senza reticenze la sua
intenzione di voler distruggere, con la sua fisica, tutte quelle angosce per la
morte e per l'aldilà, tutto l'insano pathos dell'anelare, dello sperare e
dell'implorare che già in Grecia corrispose ad un periodo di decadenza, ad una
alterazione della originaria spiritualità eroica e olimpica, e che purtroppo
anche a Roma doveva rivestire il significato di un'alterazione dell'antica etica
e dell'antico ritualismo. La fisica di Epicuro mira dunque a ricondurre l'uomo
a se stesso, a staccarlo dalle imaginazioni disordinate, ad addestrare ad un
realismo e a creare in sé una calma interiore. Dopo di che, può subentrare una
disciplina della vita, i dettagli della quale qui non possono venire esaminati
ma che in ogni caso ha poco da fare con una ricerca del « piacere» quale oggi
comunemente lo si intende, soprattutto quando si dà a qualcuno la qualifica di
«epicureo ».
A
tale riguardo basterebbe già rilevare la simiglianza che in molti punti, e
nella stessa terminologia, l'etica di Epicuro ha con l'etica stoica, la quale,
come si sa, è una delle più severe. Come negli stoici, del pari in Epicuro uno
degli scopi della disciplina interiore è 1'« autarchia », ossia la sufficienza
a se stessi, il dominio del proprio animo, da sottrarre alla contingenza delle
impressioni, degli impulsi, dei movimenti irrazionali. È a tale punto che
Epicuro, a differenza degli stoici, parla del « piacere ». Egli non crede, come
gli stoici, in una « virtù » arida, in un freddo irrigidimento di fronte alle
passioni umane. Egli ritiene che ad un animo giunto a possedere se stesso
inerisca una intima felicità, un godimento inalterabile, quasi una calma luce
che dà gioia, che nulla può turbare e di fronte alla quale ogni inclinazione
volgare per una fuggevole felicità o voluttà si dimostra spregevole. Questo è
il piacere «positivo », che Epicuro pone come meta, distinguendolo dal piacere
« negativo », ossia dal piacere da realizzare sottraendosi ad ogni causa di
agitazione o sofferenza del corpo e dell'animo: piacere, il secondo, che
Epicuro considera solo come un mezzo a che il manifestarsi del primo non sia
ostacolato. Ed egli giunge al punto di dire che chi realizza il «piacere» quale
egli l'intende non viene meno ad esso nemmeno di fronte ai piu atroci tormenti,
nemmeno trovandosi nel « toro di Falaride », cioè nella prigione di bronzo a
forma di toro entro la quale si faceva morire a fuoco lento il condannato: dal
che si vede quanto poco l'epicureismo autentico ha da fare col concetto volgare
che se ne ha. Epicuro nega, si, gli dèi quali entità che intervengano ad
arbitrio nelle vicende del mondo o che si invocano nelle piccole faccende
dell'anima umana, o, ancora, che servono solo da spauracchio per degli spiriti
deboli - ma li ammette in sede etica e, invero, proprio secondo l'antica
concezione olimpica ellenica: come essenze distaccate, perfette, senza
passione, che al Saggio debbono valere come supremi ideali.
Se
nei suoi aspetti migliori ed essenziali l'epicurismo incorpora tali
significati, la sua accettazione da parte dei Romani ci si pre: senta
evidentemente sotto una luce assai diversa da quella a CUI di solito si pensa.
A dire il vero, già per la spiritualità, dovuta al fatto che i più hanno una
idea preconcetta e unilaterale circa quel che dovrebbe essere «spirituale »,
con essa pretendono misurare ogni cosa e fuori di essa non riescono a vedere
null'altro. Ora, è da tener presente che se in origine il Romano fu
antispeculativo ed antimistico, ciò non lo fu per una sua inferiorità, bensi,
in fondo, per una sua superiorità. Si è che egli possedeva uno stile di vita
congenito, rifuggente da misticismi puri e da effusioni sentimentali; aveva una
intuizione superrazionale del sacro, strettamente connessa a norme di azione, a
riti e a simboli precisi, ad un mos e ad un fas e ad un particolare realismo.
Non conosceva evasioni. Non temeva la morte. Possedeva un significato immanente
del vivere. Ignorava gli spaventi dell'oltretomba. Come sopravviventi al sonno
eterno dell'Ade concepiva soltanto i suoi capi e i suoi eroi divinificati. . Le
successive forme speculative, pseudoreligiose o estettzzanti che attraverso
elementi esotici o preromani presero piede a Roma, rispetto a tutto ciò hanno
solo un significato di degenerescenza. È per un istintivo reagire dell'antica
anima romana che l'epicureismo fu accettato. L'epicureismo conteneva i germi di
una semplificazione di una liberazione dal superfluo: una fisica come una visione
chiara e realisti ca del mondo, una etica come disciplina immanente di vita,
grazie alla quale dalla misura, dall'autarchia, dalla calma dell'animo affiora
il bene di una felicità inalterabile e onnipresente, quasi come crisma di una
compiutezza che, secondo un detto dello stesso Epicuro, « rende simili agli
Olimpici »,
Il
fatto che questi germi in parte fruttificarono, e ricondussero a sé l'antica
anima romana, in parte degenerarono a causa di un terreno già alterato, è cosa
già secondaria. Qui volevamo soltanto mettere in luce, come causa vera del
successo dell'epicureismo a Roma, una certa corrispondenza di motivi: motivi,
riferentisi a qualcosa di superiore tanto ad ogni volgare edonismo o
materialismo, quanto ad ogni informe, agitato e divagante misticismo.
Uno
degli episodi che più caratterizzano lo spirito del bolscevismo si riferisce al
cosidetto caso Vasilloff. Il professor Vasilloff è un biologo russo che,
insieme ad altri suoi colleghi, è finito in Siberia non per motivi propriamente
politici, ma per il semplice fatto di essere un esponente della teoria «
genetica ». Il genetismo è quella corrente della biologia, che ammette
nell'uomo una preformazione, cioè disposizioni e caratteri che sono suoi,
congeniti (basati sui cosidetti «geneti»), e non derivano dall'esterno.
Questa
teoria è stata dichiarata «contro-rivoluzionaria ». Il marxismo vuole infatti
che tutto ciò che l'uomo è sia il risultato dell'ambiente e, in particolare,
delle forze e delle condizioni economico-sociali. È in base a tale veduta che
il comunismo pensa seriamente di poter dare vita ad un essere umano nuovo,
all'uomo collettivo proletario, liberato «dagli accidenti individualistici
dell'èra borghese », Un tale assunto sarebbe invece frustrato ammettendo che l'uomo
abbia una sua forma interna, che esistano delle persone, con una loro natura
propria, una loro qualità e, se si vuole, un loro destino, anziché gli atomi di
una massa pronta a subire un'azione meccanica esterna ed a produrre, di
conseguenza, il tipo collettivo desiderato. Una opportuna campagna, condotta da
un biologo d'indirizzo marxista, il Lysenko, mise dunque in luce il pericoloso
germe di eresia contenuto nella teoria - sia pure semplicemente antropologica -
del genetismo e al professor Vasilloff fu fatta prendere la via della Siberia,
luogo ove oggi in Russia si « rieducano» gli spiriti.
Una
teoria fra le più espressive per la mentalità nordamericana è il «behaviorismo
», unitamente alle vedute del Dawey. Questa teoria vuole che ognuno possa
divenire quel che vuole alla sola stregua di un congruo processo pedagogico e
tecnico. Se una data persona è quella che è, se ha date doti, se è, mettiamo,
un pensatore, o un artista, o un uomo di stato, ciò non dipenderebbe da una sua
natura propria, e non dice di una qualche reale differenza. Chiunque può esser
cosi, solo che lo voglia e sappia « allenarvisi ». Questa è, evidentemente, la
verità del self-made man, dell'uomo che si è fatto da sé, la quale dal piano
del successo pratico e dell'arrivismo sociale va ad estendersi ad ogni dominio,
corroborando il dogma egualitario della democrazia. Infatti se simile teoria è
vera, non si può più parlare di differenze reali, di diversità di natura e di
dignità. Ognuno può presumersi di possedere virtualmente tutto quello che un
altro è, i termini superiore e inferiore perdono il loro significato, ogni
sentimento di distanza e di rispetto diviene ingiustificato, tutte le vie sono
aperte a tutti, si è davvero in regime di «libertà ».
Cosi
noi ci troviamo di fronte ad una veduta fondamentale, in ordine alla quale
bolscevismo e americanismo si incontrano in modo significativo. Come quella
bolscevico-marxista, la teoria americana esprime l'insofferenza verso tutto ciò
che nell'uomo ha un volto, una forma interna, una qualità propria e
inconfondibile. Ad una concezione organica va a contrapporsi parimenti una
concezione meccanicistica: perché tutto ciò che si può metter su partendo quasi
dal nulla non potrà mai presentare che il carattere di qualcosa di «costruito
».
Vi
è, si, nella veduta americana, un'apparenza di attivismo e di individualismo
che può trarre in inganno. Ma, praticamente, se ne vede il significato, negli
Americani. Essi sono la confutazione vivente dell'assioma cartesiano «Penso,
dunque sono », perché «essi non pensano, eppure sono ». Infantilistica e
diventata « naturale » come può esserlo un ortaggio, la psiche americana è
forse ancor più informe di quella slava, aperta ad ogni forma di
standardizzazione, da quella della cultura tipo Reader's Digest fino alle
varietà legate al conformismo, all'opinione pubblica manovrata, alla
pubblicità, alle idee fisse del progresso democratico. È in base a questo
sfondo che devesi capire la teoria sopra accennata. La controparte del « posso
essere quello che chiunque è» e della pedagogia in funzione equalitaria, è una
regressione qualitativa, l'uomo divenuto interiormente informe.
Quest'uomo,
dunque, è ciò che vuole sia il comunismo sia l'americanismo - a parte
differenze, che non toccano l'essenziale. Le due vedute, di cui abbiamo detto,
hanno pertanto sia un valore simbolico, sia una direzione aggressiva di
efficacia. Sono la recisa contradizione dell'ideale tradizionale della
personalità e attaccano alla base ciò in cui l'uomo di oggi può ancor trovare
una difesa e un reattivo contro il caos della sua civiltà.
In effetti, in un'epoca in cui non solo gli
idoli sono croll~ti, ma anche molte idee e molti valori sono pregiudicati da
una retorica e da una interna insincerità, resta aperta una via sola: cercare
in se stessi quell'ordine e quella legge, che al di fuori si sono resi
problematici. Ma ciò vuol dire anche: poter r.itrovare in se stessi una forma
ed una verità, ed imporsela, realizzarla. «Conoscer se stessi per essere se
stessi» - questa fu già parola d'ordine della civiltà classica. « Che i nostri
pensieri e le nostre azioni siano nostre che le azioni di ciascuno gli
appartengano» - scrisse Plotino, e dal mondo romano-germanico fino ad un
Nietzsche si mantiene l'ideale della forma interna, della differenza, della fedeltà
a ciò che si è, in opposto ad ogni tendenza disordinata.
Tutto
ciò rientra forse nel solo dominio dell'etica individuale? Non diremmo. Se
cerchiamo le cause prime del disordine attuale, a partir da quello che
imperversa nel campo economico-sociale fino a precludere quasi ogni possibilità
di sano equilibrio, noi le troviamo in un tradimento in massa di quell'ideale
tradizionale. Non si sa e non si vuol sapere più ciò che uno è, quindi nemmeno
il posto che gli conviene nel tutto, i quadri fissi entro i quali egli, senza
lasciarsi distrarre, può sviluppare il suo essere e le sue possibilità e
realizzare la propria perfezione, tanto da conferire davvero un senso ed una
interiorità alla propria vita e da attuare in pari tempo la parte che gli
corrisponde in un mondo gerarchicamente ordinato. Non è forse per questa via
che si e determinata l'«èra economica» sino, da un lato, al parossismo del più
sfrenato capitalismo, e dall'altro al livido odio di classe? Non è forse così
che si è giunti ad un mondo composto prevalentemente da agitan e da spostati,
ove non 1'« essere », ma l'arrivare a questa o quella posizione è quel che
importa?
Ma
se cosi è - e per poco che si voglia riflettere non si può non riconoscerlo -
non è forse un illudersi e un illudere sperare nel potere di un sistema o
dell'altro prima che si proceda ad una disintossicazione e ad una
rettificazione nell'ambito interno degli atteggiamenti, degli interessi e del
senso della vita?
Certo,
questo ormai non lo si può pretendere dai più e di colpo. Orientare i migliori
è però sempre possibile. È possibile mostrare che nel punto di non aver più una
propria via, di cedere alla fascinazione delle forme esterne di accrescimento,
di affermazione e di produzione, ci si apre alle forze che fanno vera, perfino
sul piano biologico, la dottrina marxista e quella democratica, la dottrina
dell'essere informe, di un mondo di atomi, di massa e di poltiglia anziché di
uomini e di volti. Arrestarsi, ritrovarsi nel proprio modo d'essere e nel
proprio equilibrio, la base per una giusta forza, oppure - pur credendo di far
tutt'altro - dar nuova esca ad un processo collettivizzante che avvampa ormai
per ogni dove, è ciò che ognuno deve decidere da sé, ma è anche la premessa,
affinché quel che egli può rappresentare nelle stesse lotte politiche acquisti
una base reale, una forma e un prestigio e, finalmente, si determinino le
strutture che debbono esistere fra uomini e capi di uomini.
23. l'occidente ha una
sua idea?
Il
problema che si lega alla domanda: l'Occidente ha una sua idea? è, invero,
fondamentale per tutta la nostra civiltà. Sarebbe presuntuoso cercare di
approfondirlo in un breve saggio. Cosi, qui, fisseremo soltanto alcuni punti
essenziali di riferimento, e lo faremo attraverso la disamina di uno scritto
che reca proprio questo titolo (Hat der Westen eine Idee?), di cui è autore
Walter Heinrich.
L'Heinrich
è uno dei principali scrittori tradizionalisti viventi, a cui si debbono varie
opere di sociologia, storia delle religioni e critica dei tempi. Le sue idee si
riallacciano a quelle della scuola del filosofo austriaco Othmar Spann, noto
assertore di una concezione organica e antindividualistica, da lui formulata in
molteplici domini. Ciò che l'Heinrich dice nel suo breve, ma denso saggio,
tocca l'essenza dell'argomento, ed è fuori dai luoghi comuni e dalle facili
formule della maggior parte di coloro che su di esso scrivono.
L'Heinrich
inquadra nei seguenti termini la quistione: il mondo, non ancora ben unito, che
si contrappone all'« Oriente» sul piano delle forze politiche, non può sperare
in un successo se non saprà rifarsi ad una propria idea, vera e specifica, se
non saprà assumere seriamente tale idea - e non già semplicemente discorrerne -
e seguirla fedelmente nello sforzo di realizzarla.
Il
mondo occidentale, quale pur sia la superiorità eventuale che esso può
assicurarsi, specie sul piano tecnico-industriale, di fronte all'Oriente senza
una tale idea non potrà tenergli realmente testa. Esiste, si, un principio di
organizzazione difensiva superstatale economico-militare fra le nazioni
occidentali, nel segno dell'atlantismo. Ma questo incipiente ordine ha un
carattere soltanto esteriore e formale, manca ad esso la controparte di una
idea. Se qui si parla di ordine e di libertà, non si dice per che cosa
quest'ordine e questa libertà debbano alla fine servire; e quando si parla del
valore dell'uomo, non si indica in che quadro non semplicemente materiale
questo valore deve definirsi.
L'Heinrich
si associa ad un altro scrittore, A. von Schelting, che seguendo lo stesso
ordine di idee ha concluso dicendo che se il mondo dell'« Occidente» non saprà
riprendere la sua idea storica, quel che può chiamarsi il contenuto spirituale
eterno dell'Europa, se nelle sue nazioni non ridesterà tale idea, tanto da
unificarle nel suo segno senza confonderle, difficilmente esso riuscirà a
mantenere per molto ancora il posto che gli compete nella storia, ed anzi
difendere la sua stessa esistenza.
Un
altro punto importante è stato messo in rilievo da H. Freyer, dicendo che oggi
l'Europa non deve più proteggersi da invasioni straniere, come al tempo dei
Persiani, dei Cartaginesi, dei Saraceni e dei Tartari, ma contro derivati
degradati della sua stessa civiltà, quali sono appunto Russia e America. Ci si
trova di fronte a nemici esterni, solo perché ne esiste una all'interno.
La
stessa idea fu espressa da noi, già da tempo, da Francesco Coppola, in
occasione del Congresso Volta, parlando della «cattiva coscienza dell'Europa »:
nel punto di tradire se stessa, proprio l'Europa si è resa responsabile della
creazione di quelle ideologie e di quelle forme di vita che oggi, assunte e
sviluppate sino in fondo da blocchi di potenze non europee, le costituiscono la
più grave minaccia: minaccia tanto maggiore, proprio perché l'Europa continua a
portare in sé i germi dello stesso male. L'Heinrich non vede diversamente le
cose. Rileva però, a ragione, che forse è un bene che il nemico interno si sia,
per COS1 dire, oggettivato e macroscopizzato in un nemico esterno, perché, in
caso diverso, vi sarebbe stato il pericolo di non riconoscerlo all'interno e di
non poter quindi prender posizione di fronte ad esso.
Una
volta chiarito tutto ciò, il problema che si presenta in via naturale è di
individuare il punto della frattura, il punto, cioè, in cui è cominciata la
deviazione all'interno della stessa Europa. Ciò richiederebbe un'ampia disamina
storica, di cui l'Heinrich ha creduto di indicare soltanto i termini più
essenziali.
Secondo
lui, l'idea europea corrispondeva ad un ordine organico, a quello di una
civiltà e di una società articolate in corpi o unità particolari ben
differenziate e gerarchizzate, a cui il singolo apparteneva in modo vivo e
diretto, il tutto mantenendo dei riferimenti trascendenti, perché esisteva un
collegamento vario della realtà temporale con lo spirituale, col sacro, col
sovramondano, nelle forme positive di una grande tradizione, una nell'essenza,
ricca e variopinta nelle sue diverse espressioni.
L'Heinrich
ritiene che il punto di crisi dell'idea europea si sia manifestato quando
questo ordinamento organico entrò in crisi, e in primo piano venne sempre più
il semplice individuo, il singolo sciolto dalle connessioni proprie alle unità
particolari e ben differenziate nelle quali prima si svolgevano la sua vita e
le sue attività. È, questo, il principio dissolutivo dell'individualismo, nel
suo senso più lato: individualismo che, alla fine, doveva far nascere di contro
a sé il suo opposto. Cessato il regime delle unità particolari, doveva cioè
prender forma una nuova potenza, il cosidetto Stato moderno, il quale conosce
solo la massa amorfa e più o meno livellata dei cittadini che esso cerca di
tener insieme e di controllare con un apparato centralistico basato sui poteri
pubblici, sulla burocrazia, sul regime di polizia e COS1 via sino alle forme
ultime rigide, disanimate e ipertrofiche della statolatria o del totalitarismo.
I cosidetti Stati nazionali - rileva giustamente l'Heinrich - hanno proprio
questa origine storica, sorsero nel corso di un processo dissolutivo del
precedente sistema organico. E il concetto delle sovranità nazionali è l'esatta
controparte sul piano internazionale del principio individualistico all'interno
di uno Stato: con esso viene negata ogni idea superiore, atta a propiziare un
ordine pieno di senso, una unità organica di popoli diversi, in ciò che può
chiamarsi un ecumene europeo.
A
questa negazione di tutto quel che trascende il particolare è parallelo il
materialismo, una visione antimetafisica dell'esistenza, negatrice di ogni
interesse superiore, di ogni forma spirituale di autorità, di qualsiasi
sensibilità per quanto trascende la realtà concreta e il regno delle
realizzazioni materiali.
Lungo
codesta direzione l'Europa ha tradito se stessa, e l'individualismo
disgregatore ha prodotto, attraverso una precisa dialettica, proprio quelle
correnti - « sociali» nelle loro forme mitigate, collettivistiche e
comunistiche nelle loro forme radicali - che, come si è detto più sopra,
caratterizzano le potenze mondiali che oggi sul piano internazionale piu
minacciano la stessa Europa e quanto in essa resta di un ordine sano e normale.
Sarebbe
difficile contestare la giustezza di codeste idee. Noi stessi abbiamo avuto
occasione più volte di darvi risalto, rilevando come nulla di serio possa
essere raggiunto se ci si ferma a mezza strada assumendo come rimedio principi
e ideologie presentanti lo stesso male, solo in una forma più diluita e meno
visibile. Questa è anche l'illusione di coloro che si lasciano sedurre da certe
fiacche appendici ideologiche dell'atlantismo, ossia da quei principi
democratici e liberali che, geneticamente e storicamente, sono derivati proprio
dall'individualismo e che malgrado tutto il parlare di valori della personalità
e dell'« umanità », in realtà hanno per unico sfondo una visione
materialistica, empirica e praticistica dell'esistenza.
Su
questo piano, 1'« Occidente» è effettivamente privo di una qualsiasi idea degna
di tale nome, capace di fare appello a qualcosa di superindividuale, capace di
davvero animare e unire di là da ogni interesse inferiore e dalla semplice
paura fisica del peggio. Ed è anche giusto quel che, citando il Caneval, dice
l'Heinrich, quanto a differenza di clima collettivo fra «Oriente» e «Occidente
»: il materialismo pratico dell'« Occidente» porta ad una condizione di
inferiorità, per via dei suoi aspetti individualistici, edonistici e borghesi.
Per contro, il materialismo ideologico proprio a marxismo e a comunismo ha il carattere
- anche se distorto - di una idea o di un ideale superindividuale, e Mosca ha
il potere di usare sinistramente un potenziale di fanatismo e di dedizione per
qualunque suo scopo, in una misura di cui nessuna democrazia di tipo
occidentale, liberale o sociale, è capace.
Chiarito
tutto ciò, la via per una reintegrazione europea, in teoria apparirebbe
abbastanza chiara: in ogni dominio, includendo quello dell'economia, ci si
dovrebbe portare di là dal regime sia dell'individualismo, che di tutto ciò che
è massa amorfa e collettivizzata. Quanto alle idee dell'Heinrich, vi sono da
fare delle riserve circa un punto particolare, là dove egli, seguendo lo Spann,
pone come principio, che l'uomo può esser persona solo in funzione di una data
collettività o comunità, da intendersi come una realtà preesistente, a lui
anteriore e superiore. Questa è una idea pericolosa, per via della quale la
concezione organica può finire in un naturalismo e fornire una giustificazione
a forme collettivizzanti. La persona umana va considerata come l'elemento
primario nell'essere in sé formato. Ciò che può portarla di là da sé, in un
ordine e in unità d'azione più vasti, può essere solo una idea liberamente
scelta, non il vincolo di una comunità data. È in questi termini, cioè nei
termini di una essenziale libertà interna, che debbono anche intendersi le
esigenze fondamentali formulate dall'Heinrich per una reazione contro il
materialismo pratico attuale, e cioè che la professione si faccia vocazione,
l'economia divenga servizio, la proprietà abbia quella funzionalità
condizionata, che in altri tempi si legava all'idea di feudo.
In
più, quattro sono i principi che l'Heinrich pone a base di una « rivoluzione
conservatrice» nel segno dell'idea europea. Anzitutto una libertà non individualistica
ma obbediente ad una legge interna. In secondo luogo un ordine organico con un
largo margine di decentralizzazione e di parziali autonomie, tanto da favorire
la formazione di nuove unità intermedie atte a riarticolare ciò che nelle
società moderne ha preso caratteri atomistici, livellati e meccanici. In terzo
luogo, ristabilire nettamente la personalità in tutte le funzioni direttive,
con una ripresa del principio della vera autorità e della responsabilità
diretta. Infine, e, anzi, propriamente, come sfondo del resto, una saldezza
interiore, una incrollabilità e l'eliminazione di ogni paura nei riguardi del
mondo d'intorno, disposizione da chiedersi ad un ricollegamento della persona
alla realtà sovramondana, a ciò che nei termini più severi, virili e positivi
può chiamarsi spiritualità.
È
su questa base che, secondo l'Heinrich, potrà parlarsi di una idea dell'«
Occidente ». Compito delle forze vive europee sarebbe lavorare in tale senso.
Su tutto ciò, vi è poco da obiettare, e si può riconoscere l'opportunità che
simili idee siano messe in rilievo. L'Heinrich è riuscito a raccogliere intorno
a sé un gruppo di elementi validi, che si tengono su tali posizioni svolgendo
una attività interessante per molti lati. Tuttavia, quanto alle possibilità pratiche
presenti, non si deve indugiare in un ottimismo.
Dopo
il crollo europeo con cui si è conclusa la seconda guerra mondiale, non si vede
nessuna base importante su cui si possa far leva per produrre modificazioni di
un certo rilievo nella situazione generale. Politicamente, continua, in Europa,
il giuoco di una democrazia parolaia, capace solo di creare forme instabili di
un disordine malamente organizzato; democrazia che, in Italia, cede sempre più
terreno di fronte alla pressione delle sinistre per la vigliaccheria,
l'irresponsabilità e l'insipienza del governanti.
Che
cosa possa venire dall'esperimento francese, non è ancora chiaro. La Germania
occidentale è, sì, riuscita a rimettersi in piedi economicamente e
materialmente, ma la sua caduta in fatto di tensione e di livello spirituali,
la sua insofferenza per qualsiasi idea degna di tale nome, il suo gettare
indiscriminatamente a mare tutto il suo più recente passato, sono sintomi
preoccupanti.
Dall'Inghilterra
è difficile attendersi proprio oggi una coscienza europea, dato che in tutta la
sua storia è nel senso opposto ch~ essa ha agito, obbedendo al suo semplice
tornaconto. Il campo di forza della Spagna è assai limitato. In genere, in
tutto l'Occidente europeo l'americanizzazione pratica è, invece, in pieno corso
con effetti deleteri e spesso irreversibili, ed è la controparte del suo
gravitare finanziariamente e militarmente sugli Stati Uniti in misura non
irrilevante.
Infine
le monarchie sono scomparse, o hanno perduto prestigio, e dalla stessa religione
predominante in Occidente difficilmente ci si può attendere una decisa presa di
posizrone controcorrente, nello stesso senso per cui in altri tempi essa poté
offrire elementi validi all'idea organica e gerarchica europea.
COSI
non si deve disconoscere tutta la distanza esistente fra esigenze, come quelle
di cui l'Heinrich si è fatto il portavoce, e che è difficile non condividere, e
ogni possibilità pratica per una azione efficace di là da piccoli gruppi. Ciò
non impedisce che è bene che esista chi mantenga una coscienza precisa dei
compiti superiori, e faccia quel che gli è dato di fare: con quell'animo libero
e in quella impersonalità che non lasciano dipendere tutto dagli effetti
immediati e tangibili.
Ernst
Jünger viene considerato come uno dei maggion scrittori tedeschi viventi e in
Italia sono già uscite traduzioni di diverse sue opere presso editori che vanno
per la maggiore [« Sulle scogliere di marmo» presso Mondadori, «Giardini e
strade» presso Bompiani, «Radianze » presso Longanesi). Tuttavia da noi sono
state soprattutto le note cricche di critici letterari e di intellettuali
dilettanti ad interessarsi di lui, avendo in vista gli aspetti delle opere
dello Jünger che rientrano nei loro orizzonti e che vanno incontro ai loro
gusti, aspetti, che per noi sono invece i meno rilevanti.
Da
tempo, ad attirare la nostra attenzione non è stato lo Jünger letterato, il
saggista, lo scrittore di uno stile forbito personalissimo, bensì l'autore
delle prime opere che riflettevano direttamente l'esperienza vissuta della vita
del fronte in guerra. Lo Jünger aveva appena finito le scuole medie quando,
insofferente del clima borghese e stagnante dell'ambiente in cui viveva, fuggi
dalla casa paterna per entrare nella Legione Straniera. Scoppiata la prima
guerra mondiale, si arruolò volontario, fu molte volte ferito ed ebbe le
massime decorazioni al valore. I suoi libri del primo periodo trattano appunto
della guerra. Si è potuto chiamare lo Jünger 1'« anti-Remarque »: in contrasto
con la letteratura disfattistica e pacifista del primo dopoguerra, egli mise in
risalto le dimensioni spirituali, anzi trascendenti, che la guerra può
presentare nelle sue stesse forme moderne «totali» tecnicizzate più distruttive
per un determinato tipo umano.
Dopo
i libri di guerra, venne l'opera che per noi resta quella più importante del
nostro autore, «L'operaio - la sua figura, la sua sovranità ». Essa ebbe una
vasta eco e, in realtà, è fondamentale pel problema della visione e del senso
della vita nell'epoca moderna. Daremo un cenno del suo contenuto: solo un
cenno, anche perché su di esso è uscito un nostro saggio, che tiene il luogo di
una traduzione del libro (apparsa non possibile per vari motivi), al quale
rimandiamo il lettore.
Vi
è una continuità fra i libri di guerra e «L'operaio », in questi termini: nella
guerra moderna l'uomo deve tener test~ non tanto all'uomo (al nemico) quanto
allo scatenamento del mezzi tecnici (le «battaglie del materiale », la «morte
meccanica ») e con essi di forze distruttive di un carattere non-umano,
«elementare» (l'«emergenza dell' elementare », come le forze di natura sono
«elementari»). Può tenersi in piedi, può sopravvivere non solo fisicamente ma
soprattutto spiritualmente nelle vicende in cui ci si trova gettati, solo un
nuovo tipo umano, che sa lasciare dietro di sé tutto ciò che si lega alla sua
particolare persona e ai suoi stessi istinti, al modo di pensare e di agire,
agli «idealismi» e ai valori della vita borghese: un tipo capace di un impegno
assoluto e impersonale, amante l'azione per se stessa, lucido e freddo e,
insieme, pronto ad uno slancio elementare, tale infine da saper presentire e
cogliere un significato superiore dell'esistenza nel connubio fra vita e
pericolo, fra vita e distruzione. Lo Ji.inger ha creduto di constatare
l'apparire incipiente del tipo di una nuova umanità, quasi di una nuova razza,
riconoscibile negli stessi tratti fisici, in coloro che dall'esperienza della
guerra moderna non SOi:iO stati spezzati, che sono stati, interiormente, i
vincitori di essa, di là dall'opposizione dei fronti e delle ideologie, come
pure dall'esito della guerra.
L'«
Operaio» sviluppa analoghi motivi in relazione al clima generale dell'ultima
civiltà. La scelta del termine «operaio» è infelice. Come lo concepisce lo
Ji.inger, 1'« Operaio» non corrisponde ad una classe sociale. È un nuovo tipo
umano capace di adeguarsi attivamente a tutto ciò che nel mondo moderno ha un
carattere distruttivo dal punto di vista della precedente civiltà. Non solo in
guerra ma anche in pace le forze messe in moto dal~ l'uomo con la tecnica e la
meccanizzazione si ritorcono contro di lui. Esse distruggono gli antichi
ordinamenti e gli antichi valori, e soprattutto quel che l'epoca borghese aveva
cercato di creare con la sua concezione della « società », col culto
dell'individuo, della ragione, della « umanità ». Tutto ciò è entrato in crisi
per l'apparire, anche qui, di forze «elementari» in forme meccaniche, in
processi oggettivi generali, in una «mobilitazione totale» della esistenza.
Come in guerra, all'uomo moderno non è dato sottrarsi alla corrispondente
situazione. Cosi gli si pone la stessa alternativa: di venire distrutto - non
fisicamente ma interiormente (nichilismo moderno, «morte di Dio »,
materializzazione, livellamento, regime delle masse) ovvero di trasformarsi, di
divenire un nuovo essere.
L'«
Operaio» dello Jünger è un simbolo e corrisponde a questo nuovo tipo. La
tecnica è lo strumento con cui egli « mobilita» il mondo, desta, attiva e
domina forze elementari. Egli affronta tutti i processi che col colpire
l'individuo, col distruggere tutto ciò che sussiste del mondo borghese,
tradizionale, «da museo », col dissolvere gli antichi nessi sociali e le
antiche abitudini, con l'abolire sempre più tutto quel che è colore, varietà,
particolarità, soggettività, dando invece risalto al meccanico, al matematico,
all'oggettivo, sembra comportare un mortale impoverimento, una disanimazione
dell'intera esistenza. L'« Operaio» assume tutto ciò ai fini, per cosi dire, di
una essenzializzazione o purificazione (<< la via della salamandra, che
passa attraverso il fuoco»). È una sfida esistenziale che lo mette alla prova e
che, se la prova è superata, lo porta ad affermarsi in una dimensione nuova
dell'essere.
E
anche in questo ambito lo Jünger crede al preannunciarsi di un nuovo tipo, con
caratteristiche uniformi riconoscibili perfino fisicamente. Ad esso sono propri
l'impersonalità, la lucida, attiva adeguazione al fine, il disprezzo per tutto
ciò che è soltanto individuale, il taglio netto coi valori del passato, la
disposizione naturale al comando o all'obbedienza, ad un «realismo eroico », a
una nuova positiva anonifnia (simbolo del «milite ignoto », però da integrarsi
con quello del «capo ignoto»). Lo Jünger qui aveva parlato di uno stile che può
dirsi tanto « spartano» che «prussiano» o «bolscevico» (con riferimento al tipo
«ascetico» del primo comunismo). Aveva preconizzato gerarchie nuove
stabilentisi di fatto, essenzialmente col differenziarsi di coloro che
subiscono i processi di dissoluzione insiti in una fase di transizione e coloro
che invece li assumono in modo attivo. In particolare (e questo è un
interessante motivo specifico) aveva parlato di una « metafisica» chiusa dentro
il mondo meccanizzato. Nei gradi supremi della nuova gerarchia 1'« Operaio»
incarnerebbe tale metafisica nelle forme di una nuova unità esistenziale, di là
dalle antitesi di sangue e spirito, di potenza e diritto, di libertà e
necessità, di servizio e comando. Su tale base, si riproponeva l'ideale degli
Ordini: come quelle unità differenziate di vita ave una disciplina severa
imprimeva una forma precisa all'essere e all'azione del singolo. Su degli
Ordini dovrebbe basarsi il nuovo Stato, lo Stato dell' « Operaio ». Infine, di
là dalla fase di transizione, dalla fase dinamica, rivoluzionaria e distruttiva
nel mondo mobilitato e trasformato dalla tecnica, veniva prospettata una fase,
per cOSI dire, « classica », con forme compiute e stabili, simboliche, quasi
come nelle civiltà impersonali e sacrali delle origini, però, ora, con una
estensione planetaria. Perché come la tecnica abbraccia irresistibilmente tutto
il mondo, di là da ogni frontiera, cOSI come stadio finale non può essere
concepito che un sistema abbracciante parimenti tutto il mondo, in cui si
affermerebbero la figura e la sovranità dell' « Operaio », dopo gli ultimi urti
eventuali fra blocchi antagonistici di potenze.
In
sintesi (e per il resto dobbiamo rimandare ad un nostro saggio) queste erano le
vedute de «L'Operaio ». Esse esercitarono una notevole influenza sulle correnti
nazionaliste e combattentistiche tedesche del primo dopoguerra e anticipavano
alcuni orientamenti essenziali della corrispondente rivoluzione, e poi del
nazionalsocialismo. Senonché proprio all'avvento di questo regime, nello Jünger
si ebbe un improvviso cambiamento di orientamento e di livello. Sembra che egli
abbia visto in molti aspetti del nazionalsocialismo una specie di distorsione o
di riduzione all'assurdo di varie posizioni de « L'Operaio ». Personalmente, si
tenne in disparte (nella seconda guerra mondiale, richiamato, non si fece
particolarmente notare). Come scrittore, la sua nuova produzione, quando non ha
avuto un carattere di semplice letteratura e di spigolatura (appunti,
osservazioni psicologiche, saggistica, il romanzo fantasioso avveniristico «
Eliopoli » - ad un livello più alto, con un contenuto simbolico, « Sulle
scogliere di marmo»), ha presentato un sensibile sfaldamento spirituale. Ciò
vale soprattutto per alcuni scritti minori a pretese ideologiche, per lo
«Scritto sulla pace », « Il nodo gordiano» e « La via del bosco ». Quasi si
direbbe che, come non pochi suoi connazionali, la disfatta abbia in lui
provocato uno shock e lo abbia aperto sorprendentemente perfino a motivi non
lontani dalla rieducazione «democratica» o, almeno, « umanistica» condotta in
Germania nel nuovo dopoguerra, in aperto contrasto con quelli già da lui difesi
nel precedente periodo. Basti dire che mentre egli aveva coniato la parola
d'ordine di portarsi non sui settori in cui ci si difende ma su quelli in cui
si attacca, e quella della sfida dell'« elementare », « La Via del bosco»
nell'edizione francese la si è potuta definire come una specie di manuale «
dell'uomo della resistenza », al quale sono indicati i mezzi per celarsi e
sottrarsi nell'èra dei « totalitarismi ». Anche « Il nodo gordiano », in cui si
vorrebbe trattare dei rapporti fra ideali « europei» e «Oriente », risente
sotto più di un riguardo delle parole d'ordine politiche del nuovo clima
tedesco.
Il
libro nuovo dello Jünger, «Al muro del tempo» (An der Zeitmauer, Klett-Verlag,
Stuttgart, 1959), segna daccapo un cambiamento di rotta e riporta in una certa
misura al campo dei problemi trattati ne «L'Operaio ». Spiritualmente, rispetto
alla produzione or ora accennata, rappresenta dunque un risollevamento. Dal
punto di vista oggettivo, non aggiunge però molto a quel che nelle precedenti
posizioni era valido e che a noi più interessava. La trattazione non è
sistematica; e invece di approfondire i problemi immanenti della formazione
interiore e dei significati sovraordinati dell'esistenza nell'« èra
dell'Operaio », essa in gran parte si porta in un dominio diverso, in quello
della escatologia e della metafisica della storia.
Ora,
quando si vuole entrare in tale dominio, non si può più procedere con
intuizioni personali, ma bisogna rifarsi a precisi insegnamenti tradizionali,
come per es. l'han fatto René Guénon e la sua scuola, e come noi stessi abbiamo
cercato di fare. Allo Jünger mancano tali riferimenti; egli va da solo, oppure
si rifà alla cultura corrente, per cui le cose giuste da lui sono colte qua e
là, quasi per caso, e sono mescolate a molte divagazioni e scorie.
L'espressione
«muro del tempo» va presa in un senso analogo di «muro del suono »: un limite,
superando il quale subentrano forme nuove di movimento. La sensazione confusa
di un mondo che sta per finire è anche quella di un limite analogo, da
oltrepassare. Vi è un certo riferimento alla «civiltà dell'Operaio », che ora è
presentata come una «civiltà cosmica », nel senso che in essa le forze
dell'uomo cominciano ad incidere profondamente sul 'substrato della realtà e
della natura, e ad attivarlo (èra atomica, nuovi orizzonti della tecnica). In
più, secondo lo Jünger, qualcosa comincerebbe a muoversi anche in quel fondo
dell'universo, di là dall'uomo, quasi nella gestazione dolorosa e, per ora,
distruttiva di una realtà nuova. Tornano le idee dell'« Operaio », nel senso
che delle potenze «metafisiche» sono presenti te dietro la facciata di tutto il
mondo moderno meccanizzato e disanimato. E tutte le sofferenze, le crisi, i
sacrifici dell'ultima umanità (in «numero maggiore di quanti un Moloch ne abbia
mai richiesti e di quante vittime l'Inquisizione abbia mai mietute») sarebbero
oscuramente ordinati allo sbocco in questa èra nuova, di là dal «muro del tempo».
A
dire il vero, più che di « tempo» qui sarebbe da parlare, in un senso
particolare, di «epoca storica ». Infatti lo Jünger parte dalla osservazione,
in sé giusta (oltre che negli scrittori della scuola «tradizionale» e nella
stessa etnologia, la si ritrova già nello Schelling), che ciò che abitualmente
viene chiamato tempo della preistoria, o tempo «mitico» (per intendersi, prima
di Erodoto), non corrispondeva ad una semplice porzione dello stesso «tempo
storico» che noi conosciamo, ma ad un tempo diverso, ad un clima spirituale,
umano e esistenziale differente, a noi non più noto. Dopo, è venuta 1'« epoca
storica» in senso proprio come un ciclo che, con tutti i suoi valori, le sue
istituzioni e le sue idee sta per esaurirsi: donde il senso del «muro del tempo
», di là dal quale, come di là da uno iato o una « soluzione di continuità »,
riprenderanno ad agire poteri e processi che non sono semplicemente umani, che
in un certo senso sono «metafisici », come nell'età «mitica» (« mondo
trans-storico »), In questa sede, non possiamo soffermarci su simili idee, che
sono di un campo tutto speciale. Comunque, l'importante sarebbe superare
attivamente quel limite, qui intervenendo una alternativa analoga a quella già
considerata in altri campi, per la guerra, pel mondo dell'« Operaio ». Di là
dal limite, qualunque cosa accada, almeno alcuni dovrebbero salvare la «libertà
umana ».
Prima
che il nuovo libro uscisse, nell'esaminare «L'Operaio» avevamo già indicato la
necessità di considerare due possibilità dell'esito di tutto il processo della
civiltà ultima, positiva l'una, negativa l'altra. Infatti per quella emergenza
dell'« elementare» e per tutto il mondo tecnico, meccanico, disanimato e nemico
dell'individuo e dell'umano si può anche concepire uno sbocco negativo,
regressivo, barbarico (« arimanico ») - e negli stessi riguardi del tipo nuovo,
come abbiamo visto, lo Jünger aveva potuto accostare tipo spartano, tipo
prussiano e tipo «bolscevico» nel segno di un unico realismo attivo e
antipersonalistico: il che era già significativo. Nel nuovo libro anche lo
Jünger viene a riconoscere il pericolo di questo sbocco negativo, che
condurrebbe verso «ordinamenti zoologici, magici o titanici ». In
corrispondenza alle note angosce che nei nostri contemporanei, nell'eventualità
di una guerra, fanno da contrappeso all'euforia dell'èra atomica con la
incipiente «seconda rivoluzione industriale» che dovrebbe apportare ogni bene e
ogni felicità, non mancano nemmeno accenni a una possibile catastrofe di
proporzioni planetarie. Ma il tono prevalente del libro sembra essere
ottimistico. La fase nichilistica può essere superata. Le dissoluzioni e il
livellamento sono paragonati alla mano di calce che si dà alle pareti di una
abitazione che aspetta altri inquilini. Si constata il vuoto; si pensa però che
esso sia quello di una forma nuova, o stampo, creata da una più alta forza per
essere riempita. L'antico motivo riappare, come una specie di fede, con
riferimento al tipo dell'« Operaio ». Considerando tutto ciò che accade e che
potrà ancora accadere, lo Jünger dice: «Da quell'incendio, vediamo innalzarsi
soltanto la figura dell'Operaio, divenuta più possente. Ciò fa supporre che gli
elementi più ignei sono celati in lui e che essi non hanno ancora avuto una
pura fusione. Vi sono ancora molti stampi vuoti ».
Ma
con questo s'incontra anche il problema essenziale, che non si risolve con una
semplice imagine. Anzi i problemi, propriamente, sono due. Anzitutto è da
chiedersi se di là dall'èra borghese e dal nichilismo successivo si verrà
davvero al clima di alta tensione (di «temperature estreme» ) che caratterizza
gli orizzonti del mondo dell'« Operaio» e del «realismo eroico» : perché a molti
tale mondo potrà anche sembrare anacronistico e fanatico, dati gli ideali di
una vita, invece, più sicura, più facile, «sociale », con scienza e tecnica al
servigio dell'animale umano debitamente imbrigliato e normalizzato: sono gli
ideali oggi prevalentemente coltivati in varie aree del mondo, specie
nell'Occidente democratico e nella società consumistica. In secondo luogo,
nell'ipotesi che si formi il mondo dell'« Operaio », il problema riguarda un
necessario, essenziale mutamento interno, il quale faccia apparire come
qualcosa di più che come una vuota parola e come una ottimistica assunzione la
«metafisica» a cui COSl spesso lo Jünger si riferisce come alla controparte
invisibile e alla giustificazione di quel mondo, quindi anche del nuovo tipo o,
almeno, degli esponenti superiori di esso.
Già
in precedenza egli aveva avvertito sia la lacuna che il problema, col
paragonare il tipo dell'« Operaio» ad una moneta che su di una faccia è
fortemente coniata ma che nel retro è informe. E qui, per ipotesi (cioè per il
fatto che il nichilismo della fase di transizione esclude l'apporto che
potrebbero dare valori della precedente tradizione) tutto resta allo stato
fluido e, problematico; nulla di esterno può indicare una direzione e fornire
un appoggio. Pel problema della « spiritualizzazione » del nuovo tipo
(spiritualizzazione in un senso profondo, antologico, esistenziale, di là dalle
teorie, dalle morali e dalle confessioni religiose) e quindi anche di tutta la
nuova civiltà e della terra controllata dall'« Operaio », lo Jünger nell'ultimo
suo libro accenna a due possibilità. La prima, è che ciò avvenga per via di un
processo cosmico, il quale si serva dell'uomo come di un mezzo e di un
collaboratore munito di una responsabilità e di una facoltà di direzione. Ma
qui si resta nel campo di una pura ipotesi, e a noi non sembra che tale ipotesi
oggi sia confortata da qualcosa di positivo e di tangibile, sia pure solo come
un lontano indizio. La seconda possibilità è che dall'uomo stesso parta
l'iniziativa, che egli con una sempre più precisa coscienza penetri in strati
sempre più profondi della realtà, di là da quello «storico» (non si sa bene che
cosa lo Jünger qui voglia dire), mobilitandoli e spiritualizzandoli. Ma questo
è evidentemente un circolo vizioso, perché per spiritualizzare e trasformare
occorre cominciare con lo spiritualizzare e trasformare sé stessi. Occorrerebbe
cioè quella «mutazione» (si intenda «mutazione » proprio nel senso che il
termine ha nella biologia e nella genetica, ave designa l'origine brusca e
indeducibile di specie o forme nuove) che, appunto, costituisce il problema.
Invece a tale riguardo non si hanno, nello Jünger, che le vaghe e ottimistiche
prospettive «cosmiche », cioè di un processo generale, nel senso ad esso
attribuito dalla sua interpretazione. Ora, il centro di gravitazione e la
giustificazione di tutto l'insieme si connettono proprio a questo punto.
Dato
l'accennato carattere asistematico de «Al muro del tempo », qui non è il caso
di sviluppare una analisi più dettagliata del suo contenuto. Già dai
riferimenti fatti si potrà notare come, rispetto all'« Operaio », il piano
risulti sensibilmente spostato, in una direzione dove, ripetiamolo, è difficile
non divagare con idee semplicemente personali quando non ci si rifaccia ad una
salda dottrina tradizionale. Invece alle posizioni valide del primo libro, che
a noi possono interessare, quasi nulla è stato aggiunto. Come abbiamo detto,
questa parte valida e importante si riferisce alla problematica relativa ad un
nuovo tipo umano che, congenialmente affine a quello dell'uomo non spezzato
formatosi per selezione nella grande guerra, sia capace di capovolgere i
processi più dissolutivi e nichilistici dell'epoca attuale tecnicizzata e
spesso portata da nuove forze elementari, e di farli servire ad una sua
formazione spirituale, di là da tutto ciò che appartiene al mondo borghese, ma
anche alla fase disanimata e caotica di transizione: per degli sviluppi
positivi, i quali però presuppongono un mutamento interno della sostanza umana,
il possesso di un nucleo spirituale perché esistenzialmente connesso a qualcosa
di trascendente (ci esprimiamo approssimativamente, perché il discorso qui
sarebbe lungo). A tale riguardo, noi spesso abbiamo usato la formula e il
simbolo del «cavalcare la tigre».
25. la potenza e
l'infantilismo
Un
autore meritevole di essere studiato da noi più di quel che non accada è Werner
Sombart. Dal Sombart si potrebbe trarre l'esempio di un serio metodo d'indagine
dei fenomeni economicosociali lontano dalle unilateralezze e dalle deformazioni
della sociologia materialistica, specie marxista. Per il Sombart la stessa vita
economica si compone di un corpo e di un'anima. Esiste cioè uno spirito
economico distinto dalle forme di produzione, distribuzione ed organizzazione,
spirito, che può variare tanto da dare a tali forme una direzione, un senso ed
un fondamento diversi caso per caso, epoca per epoca. Nelle sue opere, fra le
quali è classica quella sul capitalismo moderno, il Sombart ha dato rilievo
appunto alla ricerca dei fattori spirituali della vita economica e al
significato che essi alla fine le hanno conferito in Occidente.
Non
è nostro intento dare qui un quadro di una ricerca del genere. È solo ad un
punto particolare che accenneremo, messo in risalto dal Sombart in un libro
uscito anche in italiano.
Si
tratta della forma che ha assunto il processo economico nel periodo dell'alto
capitalismo, per il quale ci si deve riferire essenzialmente all'America. È uno
sviluppo che tende all'espansione illimitata, perché ogni fermarsi o rallentare
significa andar indietro o esser scalzati. Gli scopi immediati e naturali del
processo produttivo passano in sott'ordine. Fiat productio et pereat homo! E
ciò da cui egli non può più staccarsi e che lo prende anima e corpo, il grande
imprenditore capitalista finisce con l'amarlo, col volerlo in sé e per sé, col
costituirlo a senso di una esistenza, che « non ha tempo» per altro. Abbiamo
pertanto un tipo che non si chiede più nemmeno il perché di ciò che è una corsa
all'infinito, un'agitazione febbrile con strutture a catena che spesso
trascinano masse e dettano leggi alla politica mondiale, mentre in esse i capi
non sono più liberi dell'ultimo dei loro operai. Una simile situazione finisce
con l'apparire naturale, evidente. Si pensa che lo esiga la prosperità della
vita economica stessa, il progresso della civiltà moderna.
Il
Sombart ritiene tuttavia che mai un simile stato di cose si sarebbe consolidato
se nell'epoca attuale non avessero preso il sopravvento dei fattori interni
che, più che non ad un uomo vero, appartengono alla psiche infantile; per cui
l'anima nascosta di tutto questo processo non è, in fondo, che una regressione.
Le corrispondenze vengono indicate in ordine ad alcuni punti caratteristici.
In
primo luogo, la suggestione esercitata da tutto ciò che è grande nel senso di
grandiosità materiale, di cosa gigantesca, di grande quantità. Il fascino che
ciò esercita sul bambino non è diverso da quello, tipico, che esso ha anche sui
grandi imprenditori di un'economia americanizzata. In genere, è divenuta quasi
contrassegno di tutta una civiltà la tendenza - come disse il Bryce - lo
mistake bigness for greatness, ossia a confondere ciò che è grandezza vera,
interiore, con la grandezza esterna. Il che, appunto, altro non è se non un
primitivismo.
In
ultima analisi, la stessa mania dei records in ogni dominio riconduce allo
stesso punto: è la ricerca di qualcosa che in termini tangibili, misurabili,
quindi soltanto quantitativi, batte un'altra, senza riguardo a nessun diverso e
più sottile fattore o' carattere. In pari tempo questa è, secondo il Sombart,
una delle forme nelle quali si esplica un'altra caratteristica infantile, il
piacere per la velocità delle cose, dalla trottola al carosello. Esso qui
cambia piano e proporzioni, ma non è che per il suo esasperarsi e moltiplicarsi
nel mondo della tecnica e in tanti altri domini della vita moderna
materializzata esso perda il suo carattere originario puerile.
In
terzo luogo vi è da considerare l'amore per la novità. Come il bambino è subito
attratto da ciò che gli si presenta come nuovo, abbandona subito il giocattolo
che conosce per entusiasmarsi ad un altro e lascia a metà una cosa quando
un'altra lo attrae, del pari l'uomo moderno è attirato dalla novità come
semplicemente tale, da tutto ciò che ha carattere di cosa non ancora vista. La
sensazione si riduce, in essenza, all'impressione che si prova nel vedere una
novità. Ma appunto l'avidità per la sensazione è uno dei tratti più
caratteristici dell'epoca attuale.
Viene
infine, per il Sombart, il sentimento della potenza, nelle situazioni che
psicanaliticamente si chiamerebbero di «supercompensazione ». È la gioia, in
fondo di nuovo puerile, che si prova nel sentirsi superiori agli altri su un
piano affatto esteriore. Dice giustamente il nostro autore: «Analizzando questo
sentimento, si constata che, in fondo, esso altro non è se non una confessione
involontaria ed incosciente di debolezza: per il che esso costituisce anche uno
degli attributi dell'anima infantile. Un uomo veramente grande, naturalmente e
interiormente, non attribuisce mai uno speciale valore alla potenza esteriore».
Il
Sombart, a tale riguardo, considera ancora un dominio più vasto, con
considerazioni, che vale riportare: «Un imprenditore capitalista - egli dice - che
comanda a 10 mila uomini e gode di questa sua potenza rassomiglia al bambino,
felice di vedere il suo cane obbedirgli al minimo cenno. E quando non è più il
danaro o una costrizione esteriore che ci assicurano un potere diretto sugli
uomini, noi ci sentiamo fieri di aver asservito gli elementi della natura.
Donde la gioia che ci provocano le "grandi" invenzioni o scoperte ».
Il nostro autore soggiunge: «Un uomo dotato di sentimenti profondi ed elevati,
una generazione davvero grande, alle prese coi problemi più gravi dell'anima
umana, non si sente accresciuta pel fatto della riuscita di qualche invenzione
tecnica. Essa non annetterà che una importanza secondaria a questi strumenti di
potenza esteriore. Ma la nostra epoca, inaccessibile a tutto ciò che è veramente
grande, non apprezza proprio che siffatta potenza esteriore, ne gioisce come un
bambino, dedica un vero culto a coloro che la posseggono. Ecco perché gli
inventori e i miliardari inspirano alle masse una ammirazione illimitata ».
Questi
fattori, come è evidente, hanno efficienza nel mondo moderno in genere; essi
tuttavia hanno particolari manifestazioni nel campo economico-produttivo, che,
in fondo, è quello che ha costituito il punto di partenza. Ed è facile seguirne
lo sviluppo non solo nell'àmbito delle grandi strutture capitalistiche, ma di
là da esse, quando allo stesso Stato si tende a conferire il carattere
degradante di una specie di trust, di un puro sistema centralizzato del lavoro
e della produzione ad oltranza.
Quanto
alle ultime considerazioni del Sombart, esse naturalmente verrebbero capite
male se si volesse interpretarle come un attacco contro gli ideali
dell'attività e dell'affermazione umana in genere, in nome di un idealismo
astratto. Non è l'attività che si attacca, ma l'agitazione, non l'affermazione
vera, ma quella sbagliata. Vi è un limite, oltre il quale l'uomo rivolto solo
verso l'esterno perde ogni controllo delle forze e dei processi cui ha dato
vita, ed egli si trova di fronte ad un ingranaggio su cui può esercitare un certo
qual potere di direzione solo restandovi incatenato ed accrescendo giorno per
giorno la sua dipendenza, nel tempo stesso che egli coinvolge delle masse e,
infine, perfino delle nazioni nel moto a vortice e a catena. Il senso di ciò
che appunto il Sombart ha chiamato 1'« èra economica» non è diverso.
Varrà
aggiungere che, quanto alla potenza in particolare, può pur esservene una che
non si riduce alla grandezza esteriore e al record, che non mira alla materia e
alla quantità, ma si presenta come segno e sigillo di una grandezza interiore,
di una superiorità effettiva. Di tale potenza oggi sembra perdersi sempre di
più la traccia, anzi la stessa nozione. La si ritroverà, forse, proprio quando
per primo si guarderà verso l'interno, si smetterà l'agitazione, la febbre
dell'andar sempre piiì oltre, senza un senso preciso né del che, né del perché,
di ciò che vale veramente la pena di uno sforzo umano e di ciò che non lo vale.
Forse sarà in tale punto che tutto quello che l'uomo moderno ha creato troverà
chi davvero lo domina, anche se a tutt'oggi restano imperscrutabili le vie per
le quali si potrà giungere a tanto.
Se
rallegra ogni Incontro con studiosi capaci di portarsi di là dai pregiudizi e
dalle deformazioni di molte vedute storiche correnti, ciò accade per Raffaello
Prati, che ha tradotto e presentato gli scritti speculativi dell'imperatore
Giuliano Flavio, aventi per titolo « Sugli dèi e sugli uomini »,
È
già significativo che Prati abbia usato il termine «Giuliano Imperatore », e
non quello corrente di «Giuliano l'Apostata », il quale è poco acconcio, perché
di rigore se qualcuno dovesse venire chiamato «apostata », questo dovrebbe
essere il caso per coloro che abbandonarono le tradizioni sacre e i culti già
facenti da anima alla grandezza di Roma antica per accettare la nuova fede la
quale non era di ceppo romano né latino, ma asiatico e giudaico; non ne
dovrebbe essere il caso, invece, per chi ebbe il coraggio di essere
tradizionale e di tentare di riaffermare l'ideale «solare» e sacrale
dell'impero, come fu l'intento di Giuliano Flavio.
La
lettura dei testi accennati, scritti da Giuliano sotto la tenda, fra una marcia
e una battaglia, quasi a trarre dallo spirito forze nuove per affrontare aspre
vicende, serve anche per coloro i quali seguono l'opinione corrente, secondo la
quale la paganità nei suoi aspetti religiosi sarebbe più o meno sinonimo di
superstizione. Infatti, ciò che Giuliano oppose al cristianesimo nel suo
tentativo di restaurazione tradizionale fu una visione metafisica. Egli ci fa
riconoscere dietro ai rivestimenti allegorici dei miti pagani un contenuto di
carattere superiore.
Egli
indica un punto fondamentale nello scrivere: «Quando i miti di soggetto sacro
si presentano irrazionali nel loro contenuto, appunto per questo è come se ci
dicessero ad alta voce di non tenerci alle parole ma di investigare e indagare
il senso riposto ... Col travestimento dell'assurdo vi è la speranza che,
sorpassando il significato corrente e palese delle parole, si possa giungere a
percepire la sostanza assoluta degli dèi e la loro pura intelligenza che
trascende tutte le cose esistenti quaggiù ».
Peraltro,
questa è la norma che si dovrebbe seguire, in genere, quando ci si avvicina ad
antiche mitologie e teologie; parlare senz'altro di superstizioni e di
idolatria, è sinonimo di ottusità mentale o di malafede.
Cosi
nella rivalutazione, tentata da Giuliano, dell'antica tradizione sacra romana,
è l'idea « esoterica» della natura degli « dèi » e della « conoscenza » di essi
che si fa valere. Una tale conoscenza significa realizzazione interiore. In
tale prospettiva gli dèi appaiono non come finzioni poetiche o come astrazioni
di teologi filosofanti, bensì come simboli e proiezioni di stati trascendenti
della coscienza.
Cosi
Giuliano, egli stesso iniziato ai Misteri di Mithra, associa strettamente una
superiore conoscenza di sé alla via che conduce alla «conoscenza degli dèi »:
fine così alto, che egli non esita a dire che nulla è, in confronto, il dominio
su tutte le terre, sia romane sia barbare.
Egli
ci riporta alla tradizione di una disciplina segreta, grazie alla quale
anzitutto preparandosi con una vita di purezza e di ascesi, poi affrontando
esperienze speciali determinate dai riti iniziatici, la coscienza di sé è
radicalmente trasmutata, nuove potenze e nuovi stati interiori vanno a
costituirla: appunto quelli, che l'antica teologia adombrava nella figura
simbolica dei vari Numi.
La
potenza a cui principalmente Giuliano scioglie il suo inno - quello stesso che
egli ripeté con le ultime parole della sua vita, spirando all'aurora su un
campo di battaglia - è Helios. Helios è il Sole, non come astro fisico
divinificato ma come simbolo di luce metafisica e di potenza in un senso
trascendente, manifestantesi nell'uomo e nei rigenerati come mente sovrana e
come quella mistica forza « dall'alto » che nell'antichità, e nella stessa Roma
per via di una influenza irànica, stava in intimo rapporto con la dignità da
sovrano.
È
in questo quadro che si definisce il significato del culto imperiale romano che
Giuliano voleva restaurare istituzionalmente contro il cristianesimo. L'idea
centrale è appunto che vero, legittimo capo è solo chi possiede una superiorità
quasi sovrannaturale, ed è quasi una imagine dello stesso Helios, il re del
cielo. Solo allora l'autorità e la gerarchia sono giustificate, il Regnum è
santificato, esiste un centro luminoso di gravità per un complesso di forze
umane e naturali.
Giuliano
vagheggiava la realizzazione di questo ideale « pagano » in una salda gerarchia
imperiale unitaria fornita di un fondamento dogmatico, con sue discipline e sue
leggi, con una casta sacerdotale avente al sommo l'imperatore come colui che,
rigenerata e fatto piri che un semplice uomo dai Misteri, incarna
simultaneamente l'autorità spirituale e il potere temporale, ed è Pontifex
Maximus, antica dignità che Augusto aveva ripristinato. Il presupposto doveva
essere il senso della natura come un tutto armonioso compenetrato da forze
invisibili viventi; poi un monoteismo di Stato con un gruppo di « filosofi »
(sarebbe meglio dire: di « sapienti ») capaci di penetrare intellettualmente e,
nella misura del possibile, di realizzare iniziaticamente la teologia
tradizionale della romanità.
L'antitesi
rispetto al dualismo deI cristianesimo delle origini, col suo «date a Cesare
ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio », col conseguente rifiuto di
rendere omaggio all'imperatore altrimenti che come un capo temporale (rifiuto,
che giudicato come una manifestazione di anarchia e di sovversione, portò alle
persecuzioni statali contro i cristiani), è evidente.
Ma
l'epoca era ormai tale da impedire la realizzazione dell'ideale di Giuliano.
Per tale realizzazione sarebbe occorsa una aderenza viva e una sinergia dei
vari strati sociali, il sussistere dell'antica concezione deI mondo in termini
sempre vivi. Invece, era irrimediabilmente avvenuta una scissione fra contenuto
e forma nella società pagana.
Lo
stesso successo ottenuto dal cristianesimo si presentava come un sintomo
fatale. Per i più, il parlare ancora degli dèi come di esperienze interiori e
il considerare gli accennati presupposti trascendenti e « solari » per la vera
sovranità non poteva essere che una finzione o una semplice «filosofia », In
altri termini, la base « esistenziale » era assente. Peraltro, Giuliano si era
illuso di poter tradurre in forze formatrici sul piano politico, culturale e
sociale insegnamenti che per la loro stessa natura erano destinati quanto mai
ad essere di sola pertinenza di ambienti assai ristretti.
Non
che, in via di principio, vi fosse una contradizione fra l'assunto di Giuliano
e l'ideale di una applicazione statale di quei contenuti spirituali e, in una
certa misura, trascendenti. La stessa realtà storica di tutta una serie di
civiltà centrate su una spiritualità « solare» - dall'antico Egitto e dall'Iran
fino a quel che il Giappone è stato fino a ieri - dimostra che questa
contradizione non esiste. Piuttosto, nella romanità del tempo di Giuliano era
ormai inesistente una sostanza umana e spirituale capace di costruire i nessi e
i rapporti di partecipazione propri ad una nuova gerarchia viva nel senso di un
organismo imperiale totalitario sacralmente orientato su base « pagana ».
Un
noto libro di Demetrio Merenshkowkij « La morte degli dèi » dà in modo mirabile
e quanto mai suggestivo il clima del mondo in cui visse Giuliano Imperatore,
con le ombre di un vero «crepuscolo degli dèi ».
Dopo
una lunga parentesi, qualcosa dell'antica tradizione doveva risorgere quando,
con l'affacciarsi delle stirpi germaniche sulle scene della grande storia
europea, si poté parlare di una «Restauratio Imperii » sotto le specie del
Sacro Romano Impero Medievale. Ciò, soprattutto se si considera la tradizione
ghibellina, intesa a rivendicare per l'Impero, contro le pretese egemonistiche
della Chiesa, una dignità sovrannaturale non minore di quella della stessa
Chiesa.
A
tale riguardo è importante considerare anche ciò che fu contenuto in forme
quasi nascoste nella letteratura cavalleresca, nella cosidetta « leggenda
imperiale» e in altri documenti.
Noi
abbiamo cercato di raccogliere e di interpretare adeguatamente tutta questa
materia in una nostra opera che s'intitola «Il mistero del Graal e la
tradizione ghibellina dell'Impero ».
Per
un adeguato apprezzamento della figura di Metternich le cose, oggi, in Italia,
non stanno naturalmente bene: Metternich fu la bestia nera del Risorgimento e
si vuole che l'Italia oggi sia risorta dopo un nuovo «Risorgimento », con riferimento
agli aspetti più dubbi di tale movimento. Ma anche per chi oggi non sta proprio
su tale linea non è agevole superare alcuni pregiudizi irradicati e far propria
quella libertà di sguardo di cui si sono già resi capaci alcuni storici
stranieri e, a dir vero, non senza riferimento ai problemi e alle crisi
dell'Europa contemporanea.
Come
primi fra essi, si possono citare il Malinsky e il De Poncis, che nel loro
interessantissimo libro «La guerre occulte» (uscito anche in italiano nel 1938)
hanno presentato Metternich come 1'« ultimo grande Europeo », come colui che,
elevandosi di là da ogni punto di vista particolaristico, seppe riconoscere il
male che minacciava tutta la civiltà europea intendendosi a prevenirlo nel
segno di una solidarietà delle forze tradizionali e dinastiche così
supernazionale, quanto a lui appariva già essere supernazionale la solidarietà
delle forze della sovversione.
Una
più recente opera è quella di A. Cecil, «Metternich », ed essa è interessante
non solo per la nazionalità dell'autore - inglese - ma anche perché nell'ultima
redazione del libro il Cecil, reagendo contro coloro che avevano voluto
considerarlo come una provocazione, mette in risalto il significato
dell'intenzione e dell'azione europea di Metternich presso ad un bilancio di
ciò che è accaduto dopo i suoi tempi e fino alla seconda guerra mondiale.
Il
Cecil può scrivere: «I metodi di Metternich meritano oggi uno studio più serio
da parte di tutti coloro che hanno interesse ad evitare la completa
disintegrazione europea ». Cosi è soprattutto l'idea europea, che Cecil
considera. Interessante è che egli in Metternich vede riaffermarsi una
tradizione che nel suo spirito è classica, romana (p. 466): la tradizione che
s'intese a comporre in una unità supernazionale genti diverse, rispettandole;
quella che seppe riconoscere che la libertà vera si realizza nel segno di una
sopraelevata legge d'ordine e dell'idea gerarchica, non in quello delle
ideologie democratiche e giacobine. Ed è di Metternich - proprio di lui - il
detto che « ogni dispotismo è segno di debolezza ».
Il
Cecil dice giustamente che «quando si firmò la sentenza di morte contro
l'antica Austria si pose anche in essere la formula per la distruzione
dell'Europa»: ciò, perché almeno in linea di principio l'Austria incorporava
ancora l'idea del Sacro Romano Impero: quella di un regime che sa comprendere
nazionalità varie e diverse senza opprimerle e snaturalizzarle. Ora, senza la
ripresa di una formula del genere, sussistendo un mondo di nazionalismi
esasperati e di internazionalismi devastatori, non è possibile pensare che
l'Europa ritrovi un giorno quell'unità che appare ormai essere condizione
essenziale per la sua stessa esistenza come civiltà autonoma.
Metternich
seppe giustamente vedere nella democrazia e nel nazionalismo le principali
forze che, senza un'azione radicale, avrebbero travolto l'Europa tradizionale.
Seppe riconoscere il nesso interno delle varie forme della sovversione che,
partendo da liberalismo e da costituzionalismo, conducono fino a collettivismo
e a comunismo. E pensò che, a tale riguardo, ogni concessione sarebbe stata
fatale. Il Cecil qui dice giustamente che come Robespierre porta nella sua scia
un Napoleone, questi, a sua volta, porta nella sua scia uno Stalin: perché lo
stesso bonapartismo e lo stesso totalitarismo non sono l'antitesi della
democrazia ma piuttosto - come un Michels e un Burnham l'hanno ben dimostrato -
le estreme conseguenze di essa.
Per
Metternich il rimedio era l'idea dello Stato come una realtà sopraelevata
fondata sul principio di una vera sovranità ed autorità, e non come mera
espressione del demos. Alle «nazioni» egli non credette, vedendo in esse solo
una maschera della rivoluzione, un mito antidinastico. Quanto alla sua
creatura, la Santa Alleanza, essa fu un estremo tentativo il quale, anche se
seppe assicurare all'Europa per tutta una generazione una pace feconda, pure
non fu all'altezza del suo principio informatore. Ad essa, in fondo, mancò una
vera idea, qualcosa che la facesse davvero sacra e, inoltre, che la facesse una
unità costruttiva più che soltanto difensiva. Tuttavia il Cecil ricorda come
già un De Maistre avesse indicato il punto giusto, dicendo che si tratta di
fare non una « controrivoluzione », bensì «il contrario di una rivoluzione »,
vale a dire di procedere ad un'azione politica positiva, partendo da salde basi
spirituali e tradizionali e solo come naturale conseguenza spazzando via tutto
ciò che è sovversione e usurpazione da parte di forze dal basso.
Ora,
non v'è dubbio che solo una idea del genere, associata a quella di una
solidarietà combattiva di tutte le forze che nella nostra Europa ancora tengono
fermo e fanno reagire contro il virus dei cosidetti «immortali principi» (il
«male francese », ora non più fisico ma spirituale, come lo chiama il Cecil), è
la sola che, ave trovi uomini - e, se possibile, essenzialmente sovrani - alla
sua altezza, può salvare ciò che nella nostra civiltà può ancora essere
salvato.
Insieme
al conte de Maistre e al visconte De Bonald, Donoso Cortés marchese di
Valdegamas costituisce la triade dei grandi pensatori controrivoluzionari
dell'Ottocento, il messaggio dei quali ancor oggi non ha perduto la sua
attualità. In Italia Donoso Cortés non è molto conosciuto negli aspetti delle
sue dottrine che a noi sembrano i più importanti. Recente è la ristampa della
traduzione italiana del suo Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il
socialismo. Benché questo saggio sia stato considerato come la sua opera
principale, non è in esso che si debbono cercare i punti di riferimento più
validi; il libro è troppo pieno di considerazioni, spesso noiose, di un
«teologo laico» che si appoggia pesantemente ai dogmi, alle idee e ai miti
della religione cattolica, tanto da pregiudicare la validità che varie sue
posizioni potrebbero avere in un quadro più vasto, «tradizionale» in un senso
superiore. Da raccogliere, in questo libro, è essenzialmente l'idea di una
«teologia delle correnti politiche »; viene, cioè, affermata l'inevitabile
presenza di un fondo religioso (o antireligioso, «diabolico ») delle varie
ideologie, al di là dagli aspetti esteriori, soltanto sociali, che oggi hanno
una specie di primato nella considerazione generale.
A
parte quel che dice sul cattolicesimo, Donoso Cortés parlando del liberalismo
riproduce più o meno ciò che gli uomini della Destra conservatrice e
controrivoluzionaria, con Metternich alla testa (Metternich era un ammiratore
di Cortés), avevano scorto, riguardo ad una inevitabile concatenazione di cause
e di effetti.
Il
liberalismo del tempo, bestia nera di tutti regimi conservatori del continente,
era lo spianatore delle vie; pertanto già Marx ed Engels ne applaudirono la
funzione strumentale di distruzione delle precedenti istituzioni tradizionali,
avvertendo tuttavia, cinicamente, che «la corda gli era misurata », che «il
carnefice stava ad aspettare dietro la porta ». Il carnefice corrispondeva alla
fase successiva della sovversione, al socialismo e al comunismo che,
soppiantato il liberalismo, avrebbero continuato e portato a termine l'opera.
Del socialismo, Cortés riconobbe l'aspetto di una religione invertita; la sua
forza - egli scrisse - sta nel suo contenere una teologia, ed è distruttivo perché
si tratta di una «teologia satanica ».
Ma
quel che si può raccogliere dall'opera che abbiamo segnalato è meno importante
di ciò che si trova in scritti vari di Cortés e soprattutto nei due famosi
discorsi da lui pronunciati al Parlamento spagnolo, contenenti una diagnosi ed
una prognosi storiche di una lucidità quasi visionaria. I moti rivoluzionari
del 1848 e del 1849 erano suonati per Cortés come un allarme. Ed egli previde
il fatale processo di livellamento e di massificazione della società, propiziati
dal progresso della tecnica e dallo sviluppo delle comunicazioni. Una
previsione singolare - se si pensa al periodo in cui fu formulata - fu che non
l'Inghilterra (cui si imputava l'importazione del sovvertimento inerente al
liberalismo) ben si la Russia (che allora era zarista) sarebbe stata il centro
della sovversione, in una connessione del socialismo rivoluzionario con la
politica russa (come doveva accadere nella nostra epoca, con l'avvento del
comunismo sovietico). In ciò Cortés si incontrava con il grande storico Alexis
de Tocqueville che nel suo saggio sulla Démocratie en Amérique aveva visto
nella Russia e, solidarmente con essa, nell' America, i focolai principali di
tali processi sovvertitori.
Cortés
avvertiva l'accelerarsi dei ritmi, l'avvicinarsi del momento delle «negazioni
radicali o delle affermazioni sovrane (llega el dia de las negaciones radicales
y de las afirmaciones sobranas) »; momento che tutto quanto viene considerato
come progresso nel campo tecnologico e sociale avrebbe solo avvicinato. Egli
previde che la massificazione e la distruzione delle precedenti articolazioni
organiche avrebbe condotto a forme di centralizzazione totalitaria.
La
situazione, per lui, era tale da far scorgere ben poche vie di uscita. Donoso
Cortés riconobbe che l'epoca del legittimismo monarchico era al tramonto perché
« non esistono più dei re, nessuno di loro avrebbe il coraggio di essere re
altrimenti che per volontà del popolo ». D'altra parte, con De Maistre, egli
riconosceva che l'essenziale della sovranità, dell'autorità statale, è la
decisione assoluta, senza una superiore istanza, quasi in termini analoghi
all'infallibilità papale. Perciò egli prese posizione contro il parlamentarismo
e il liberalismo borghese, contro la «classe che discute » - la quale non
sarebbe stata all'altezza della situazione nel momento decisivo.
In
tale contesto, Cortés riconobbe però anche il pericolo di un nuovo cesarismo,
nel senso deteriore di un potere informe nelle mani di individui privi di ogni
crisma superiore, ed esercitato non su popoli ma su semplici grigie masse. Egli
parlò di «plebei di una grandezza satanica» che sembrano agire in nome e per
conto di un sovrano che non è di questo mondo. Dato però che ogni
conservatorismo legittimistico gli sembrava ormai svuotato di ogni forza
vitale, egli cercò un surrogato che servisse a sbarrare la via a forze e
potenze che salgono dal basso. Cosi difese la dittatura come idea
controrivoluzionaria e antitesi dell'anarchia, del caos e della sovversione -
se non altro, come un pis aller o un [aute de mieux. Ma egli parlò anche di una
dictadura coronada. L'espressione è certamente suggestiva; essa comprende
l'idea «decisionistica» antidemocratica, riconosce la necessità di un potere
che decida assolutamente (come quello che per De Maistre valeva come
l'attributo essenziale dello Stato), ma ad un livello di una dignità superiore,
indicata dall'aggettivo coronada.
Solo
che ogni concretizzazione della formula incontra palesi difficoltà. Ai tempi di
Cortés sul suolo europeo esistevano ancora tradizioni dinastiche, e la formula
avrebbe potuto essere realizzata solo che un loro rappresentante avesse fatto
propria l'antica massima rex est qui nihil metuit (è re chi nulla teme). Come
approssimazioni, avrebbero potuto valere alcune forme del cosidetto
costituzionalismo autoritario; segnatamente quella che in Germania fu
realizzata da Bismarck. Ma in un sistema dove le tradizioni dinastiche siano
decadute o siano sparite, non è facile trovare un punto concreto di riferimento
per l'attributo dignificante della dictadura
decisamente patrocinata dal Cortés come soluzione politica.
Ciò,
poi, oggi appare molto chiaro, perché sono effettivamente sorti dei regimi
autoritari per arginare il disordine e l'anarchia. ma sul genere dei cosidetti
«regimi dei colonnelli» nei quali, di massima, manca l'accennata dimensione
superiore della controrivoluzione.
Donoso
Cortés ha saputo impostare in modo pregnante una problematica di un'importanza
fondamentale, con una previsione esatta delle situazioni che si sarebbero
maturate: problematica che però il corso dei tempi fa apparire sempre meno
suscettibile di vere soluzioni, corrispondenti alle affirmaciones sobranas
opposte alle negaciones radicales. Cortés mori a soli quarantaquattro anni, nel
1853. Dei segni precursori nefasti, costituiti dalle prime crisi del mondo
europeo manifestatesi nel 1848 e nel 1849, egli però seppe già cogliere tutto
il significato, prima che le loro conseguenze generali si rendessero ben
visibili.
Nonostante
l'interesse da lui destato, pochi anni dopo il 1848 Donos Cortés in Europa fu
quasi dimenticato e il suo nome passò nella schiera superba degli isolati,
degli ignorati, di coloro che subirono la congiura del silenzio del XIX secolo.
Solo gli avvenimenti più recenti dovevano attirare nuovamente su lui
l'attenzione. In un ottimo saggio (Donoso Cortés in gesamteuropdischer
Interpretation) Carl Schmitt rilevava che delle due correnti antagoniste,
quella rivoluzionaria socialista e quella controrivoluzionaria dei tempi di
Cortés, la prima ha avuto successivamente sviluppi sistematici mentre la
seconda ha subito un arresto. Lo Schmitt scrisse queste parole nel 1950. Ma nel
frattempo la situazione è fortunatamente mutata, con la formazione di un
pensiero di Destra e con la ripresa dell'idea di Tradizione. COSI ai nostri
giorni Donoso Cortés può essere annoverato fra coloro da cui si possono trarre
sempre degli utili spunti, proprio nell'eventualità di quel momento di una
assoluta decisione, di cui egli aveva parlato.
Nella
galleria delle figure rappresentative del nostro tempo, a quella di Henry
Miller è stato attribuito un particolare significato. Il Miller gode ormai di
un riconoscimento quasi unanime nel mondo letterario internazionale, pur
conservando per molti la nomèa di essere uno scrittore pornografico, scandaloso
e anarchico. Per lui, noi stessi avevamo avuto un certo interesse, soprattutto
in base alla lettura di libri del suo periodo più antico, come Tropico del
Cancro e Tropico del Capricorno, proibiti in vari paesi. Opere del genere
potevano infatti esser fatte rientrare fra le testimonianze di un mondo in
dissoluzione, disperato e in rivolta. COSI certe generazioni ultime allo
sbaraglio, soprattutto d'oltre oceano, bipsters, beats e simili, hanno potuto
vedere in Miller un loro maestro e vessillifero.
Per
conto nostro, l'aspetto valido di Miller è proprio quello negativo: è il Miller
che attacca tutto ciò che è civiltà moderna (« foresta pietrificata entro cui
si muove il caos ») e, in specie, americana (l'America, «che raccoglie ciò che
di più degenere vi è in Europa » ) e la sua cultura [« che scorre come una
fogna scoperchiata »); il Miller anticonformista che scrive: «Chi, fra quanti
hanno lo sguardo avido e disperato, può avere il minimo rispetto pei governi
esistenti, per queste leggi, codici, principi, ideali, idee, tabù » e che parla
di situazioni esistenziali tali «che nessuna soluzione sembra possibile,
restando soltanto l'assassinio o il suicidio: o tutti e due - se falliscono
tutti e due, si diventa dei buffoni ».
In
genere, in gran parte i libri di Miller si presentano come una continuata
autobiografia (più o meno manipolata) costellata di riflessioni, di descrizioni
dei personaggi più vari e di ogni specie di episodi. Inoltre sono interessanti
punti in cui, quasi per trauma, in mezzo ad una vicenda caotica e scombinata,
ci vengono presentati momenti quasi di illuminazione o di superiore lucidità:
quasi il balenare di certezze più alte fra un caos estremo, la percezione
dell'evidenza quasi magica di una realtà delle cose esistenti nella loro
essenza e purità («tutto era significativo, giustificabile, eternamente reale -
niente da dimostrare niente da raggiungere»), squarciandosi quella specie di
transe, di tramortimento, in cui gli uomini moderni vivono abitualmente senza
rendersene conto. In mezzo allo sconquasso e alle situazioni più assurde,
agisce quasi la tendenza confusa verso una autoliberazione, la ricerca della
«propria autenticità» («Essere voi stessi -. E se non siete niente? Allora
siate niente, ma siatelo assolutamente» - o anche: «Divenire marcio di
conoscenza, capire l'irrilevanza di tutto; sfasciare tutto, divenire disperato,
poi umile, poi cancellarsi dalla lavagna allo scopo di recuperare la propria autenticità»).
Sono gli stessi motivi di un certo esistenzialismo, Però la linea, se
seriamente approfondita, potrebbe non essere priva di analogie con quella dello
Zen, antica scuola estremo-orientale di cui del resto anche Miller aveva avuto
conoscenza (confusamente: egli ha letto ogni sorta di cose) e che per questo
receritemente ha attirato l'attenzione di generazioni «bruciate ».
Però
rintracciare tale linea nei libri di Miller è piuttosto arduo, tanta è
l'affluenza disordinata di motivi divergenti, di impressioni contradittorie e
anche - anzi in notevole misura - di divagazioni ora letterarie, ora
filosofeggianti e introspettive. Quanto alla deprecata « oscenità» di Miller, a
tale stregua essa è ancora il meno. Essa anzitutto è confinata quasi per intero
nei primi libri, Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno, venendo meno
sempre più negli altri suoi scritti. Poi da essa esula un qualsiasi aspetto
eccitante; delle cose del sesso fra le più scabrose si parla come di puri
fatti, senza una qualsiasi atmosfera erotizzante atta ad accendere
l'imaginazione del lettore o della lettrice: piuttosto con crudezze quasi
grottesche. Se mai, è la trivialità delle espressioni a infastidire. Purtroppo
Miller è fra coloro che si compiacciono di un linguaggio volgare, fino a ieri
prerogativa della plebe, oggi mala usanza che ha preso piede sia nella
letteratura, sia nel parlare di persone che con ciò vorrebbero mostrarsi «
spregiudicate », mentre sono solo stupide: del che, il fondo è poi una
autocontaminazione che uno psicanalista ricondurrebbe ad un « complesso di
colpa» ovvero a una deviata compensazione di un «complesso d'inferiorità », Può
dirsi che anche per questo la «oscenità» di Miller perde ogni mordente ed è
banale; si riduce a un cattivo gusto. Ci viene di ricordare, invece, come il
noto poeta Alfred De Musset vincesse una scommessa con lo scrivere un libro
assolutamente «pornografico» - Gamiani - senza usare una sola parola triviale.
Ma
lasciando da parte ciò, il valore di testimonianza dell'opera di Miller nei
termini indicati più sopra è risultata, per noi, assai diminuita via via che
abbiamo constatato la parte che in lui ha un orientamento diverso, in fondo
poco interessante: non il nichilismo e lo sforzo di cogliere qualcosa di
assoluto di là dal «punto zero dei valori », ma piuttosto una primitivistica
adesione alla « vita» in tutti i suoi aspetti, non priva, anche, di fede e di
entusiasmo (sono i momenti «euforici» che in Miller si alternano con quelli
depressivi). Per questo, tutto sommato, Miller risulta abbastanza lontano
dall'essere un tipo davvero «bruciato ». Nei suoi libri lo vediamo fin troppo
spesso entusiasmarsi nel modo più infantile e passeggero per l'una o l'altra
idea, l'uno o l'altro autore. Di Dostojevskij egli dice addirittura che «il mondo
dopo di lui è cambiato », Egli « scopre» Spengler (!!). Esalta H.D. Lawrence,
con la sua sospetta filosofia della vita e della carne. È affascinato da Joyce.
Si sente in debito profondo verso Swami Vivekananda, mediocre divulgatore
fortemente europeizzato di dottrine orientali. Va in estasi per uno storico
dell'arte, come Elie Faure. Si compiace del riconoscimento tributatogli dal
filosofo narcisista da salotto H. Keyserling. Del dadaismo si accorge con oltre
quindici anni di ritardo. E tutto ciò, mentre scrive anche parole come queste:
«Sta fermo e aspetta la venuta del Signore, spogliandoti dall'ossessionante
ammirazione per autori viventi e morti, le cui parole sbarrano la tua via ».
Nel complesso, nell'interminabile monologo narrativo si alternano gli alti e i
bassi (la fase maniaca e la fase depressiva, direbbe uno psichiatra), e nulla
acquista una forma precisa.
Dal
punto di vista umano personale, le cose non vanno diversamente. Miller
confessa: «Ciò che agognavo era ammirare e adorare », Esprime una disperazione
da romantico per la partenza di « Mona » (una delle sue mogli). Non rifugge da
speranze utopistiche per una civiltà a venire (nella quale, fra l'altro, una
parte essenziale l'avrebbe 1'« oscuro fondo feminile» o «materno»
dell'esistenza - la controparte, in altro punto, sembra essere la sua accusa
contro 1'« aspetto criminale della mente », cioè dell'Io razionale - vedi
Klages (in parte Bergson, Spengler e simili), e per un'arte del futuro. È
capace delle forme di ammirazione più ingenue e, per noi europei, più
provinciali (per esempio, per tutto ciò che è cultura francese). Accusa gli
uomini di non conoscere l'amore, «l'amore che non chiede », in esso vedendo una
specie di rimedio universale, con l'aggiunta di temi pacifistici e della deprecazione
di tutto quel che è guerra e combattimento. Sono altrettanti sfaldamenti che
rivelano nel nichilista Miller un fondo addirittura da « brav'uomo »,
tutt'altro che «bruciato », solo deluso.
Del
resto, anche nella vita pratica l'uomo Miller sembra essersi a poco a poco
normalizzato. Il suo antiamericanismo e la sua irrequietezza esistenziale
debbono essersi attenuati se egli ha finito con lo stabilirsi in California,
con un ordinato ménage. Ha pagato non da oggi il suo scotto al conformismo,
dato che si è sposato - e sposato quattro volte: il che accentua il lato
puramente esterioristico e frivolo della cosa.
In
una lettera inviata al tribunale di Oslo in occasione del processo fatto ad un
suo libro, egli scrive: «Farebbe piacere alla Corte sapere che non sono
considerato come un maniaco, come un pervertito e nemmeno come un nevrotico?
Che come marito, padre e vicino sono considerato un esempio per la comunità?
Sono un po' ridicolo, vero? » - per cui, lui stesso si chiede se l'autore di
quei libri scabrosi a fondo autobiografico e questo uomo Miller siano la stessa
persona. Lui dice di sf, Allora o si deve pensare a un rimbambimento dovuto
all'età e al successo letterario, ovvero vi è da constatare una struttura
contradittoria che menoma assai il valore simbolico e rappresentativo della
figura di Miller. Con tutti gli altri aspetti che abbiamo indicato, si perde,
peraltro, assai quota, e si deve riconoscere che come testimonianza dell'epoca
e di esperienze liminali dell'epoca, soltanto il Miller «negativo» è
interessante.
Circa
i suoi libri, usciti anche in traduzione italiana, su Nexus, finito di scrivere
nel 1959, vi è ben poco di particolare da dire.
In
esso a tutta prima ci viene presentato un simpatico ménage a tre, con Miller,
Mona (che sembra essere la sua seconda moglie) e Stasia, amica lesbica di Mona
(la convivenza e la combinazione sono spiegate da queste parole di Mona: « Phi
amo te (Miller), più amo Stasia ». Si tratta del periodo in cui Miller faceva
quasi la fame, in cui egli si diceva scrittore facendo però solo dei tentativi
di scrivere, per cui nel frattempo era soprattutto Mona a mantenerlo, non
avendo troppi scrupoli, a tal fine, a mostrarsi «compiacente» in un locale
notturno del villaggio degli artisti dove lavorava. Stasia è una artista russa
con lo sfasamento tipico degli slavi. Mentre in una pagina la vediamo sulla
stessa linea di Miller, nella sua rivolta contro il mondo pietrificato e vuoto
dei grattacieli «dove non vi sono più né poeti né uomini» e «tutti saltellano
come pazzi» e nel suo cercare la verità della natura «dove tutto è perfetto,
terribilmente reale e basta a se stesso », due pagine dopo la vediamo dire che
una volta ella aveva cercato di farsi montare da un cane, e confessare: «È
stato' cosi buffo! Alla fine mi ha morsicato una coscia ». Ma dopo questi
allettanti inizi nel libro si passa al carosello dei vari personaggi, delle
varie impressioni e meditazioni secondo l'alternanza confusa di motivi dianzi
accennata.
«
Il meglio di Miller» è il .titolo della traduzione di una scelta « epurata »,
curata da L. Durrell, di passi dei suoi scritti e saggi. Sono cioè presentati
aspetti dell'opera di Miller accettabili anche dal pubblico corrente e
puritano: Miller essenzialmente come letterato, descrittore di tipi, uomo di una
particolare sensibilità, scrittore di un ottimo stile. Quasi un terzo della
scelta è occupato da saggi o stralci di semplice critica letteraria, o simili:
tutte cose che possono interessare molti, ma che a noi sembrano secondarie e di
corrente consumo, quindi non rientranti propriamente nel « meglio ». A tale
riguardo, noi stessi, per un giudizio, dovremmo però metterei a fare della
critica letteraria, il che ci è estraneo. Qui noi abbiamo voluto portare
l'attenzione soprattutto sul «fenomeno Miller », non tanto come artista, quanto
come espressione dei tempi.
30. vilfredo pareto, anticonformista e
antidemocratico
Anche
a prescindere dal suo sistema di sociologia, il giudizio sul quale può essere
vario, Vilfredo Pareto è un autore che si legge o si rilegge sempre con
piacere, oltre che per il suo stile chiaro e vivace, per un anticonformismo,
per un coraggioso amore per la verità e per una insofferenza per le ideologie,
i miti, e le menzogne di quel mondo borghese e democratico prefascista,
nell'epoca del quale egli aveva concepito le sue opere principali. Tale mondo
essendo risuscitato, ancor più virulento, ai nostri giorni, molte
considerazioni del Pareto mantengono un carattere di sorprendente attualità.
A
parte la sua avversione congenita per ogni democrazia, nel campo della
sociologia positiva il Pareto ha dato un contributo importante al principio
antidemocratico col dimostrare la legge della «circolazione delle élites », la
quale va a convalidarlo su un piano generale. Il Pareto ha, cioè, accertato che
in qualsiasi società il fenomeno dell'esistenza di una élite, di una minoranza
che domina, è costante. Cosi una gerarchia più o meno elaborata è un dato
sociologico sempre presente, anche nei casi in cui a parole essa viene negata.
Solo che le élites possono darsi il cambio, gruppi sociali diversi possono,
«circolando », sostituirsi l'uno all'altro, eventualmente scalzare l'uno
l'altro, nel loro formare 1'élite. Il Pareto si è limitato a dimostrare il
fenomeno strutturale sociologico generale della élite; non ha svolto una
filosofia della storia per scoprire quali qualità di élites si sono successe
nel corso dei tempi a noi noti. Dal punto di vista tradizionale, vi è
naturalmente da constatare un processo di regressione che ai nostri giorni sta
raggiungendo il limite.
Il
Pareto non risparmia strali quando incontra i miti di quelle che egli chiama
«le religioni laiche del mondo borghese », sostituitesi alle verità e ai valori
di altri tempi: Umanità, Democrazia, Progresso, Libertà, Volontà del Popolo,
Uguaglianza, moralismo puritano e via dicendo: tutte parole spesso scritte con
la maiuscola come prima si scriveva soltanto il nome di Dio, e oggetti di un
nuovo culto e di un nuovo fanatismo. Potrà interessare qualche citazione fatta
spigolando soprattutto nell'opera principale del Pareto, Trattato di Sociologia
generale (2a ed.).
Cominciamo
con l'egualitarismo. Oggettivamente ogni eguaglianza è un assurdo. Il Pareto (§
1227) dice che se talvolta i sentimenti di eguaglianza possono avere una forza,
ciò si deve al fatto che essi con l'eguaglianza vera non hanno nulla a che
fare, perché si riferiscono non «ad un valore astratto, come ancora credono
certi ingenui intellettuali, bensi agli interessi diretti di persone che
vogliono sottrarsi a diseguaglianze ad esse contrarie e istituirne di nuove a
loro favorevoli, quest'ultimo scopo essendo, per loro, il principale ». In
altre parole, ognI ideologia egualitaria è soltanto uno strumento, usato
ipocritamente per un fine eversivo. Dopo un analogo rilievo fatto già da
Tacito, il Vico aveva notato che si esalta e si bandisce l'eguaglianza prima
per rovesciare i superiori, poi per affiancarsi ad essi, infine per metterli
sotto agli inferiori, istituendo nuove diseguaglianze con una gerarchia alla
rovescia. Riferendosi a Sparta, agli antichi ceppi nordici ed anche all'Inghilterra,
il Pareto ricorda che come effettivamente «uguali» o «pari» (in greco: omoioi)
valsero di fatto soltanto i membri di una aristocrazia ristrettissima ai quali
si imponeva la rigorosa osservanza di difficili doveri di casta. Nulla, dunque,
che corrisponda all'egualitarismo livellatore.
Fra
l'altro, il Pareto attacca l'interpretazione diffamatrice del regime feudale,
presentato dalla storiografia «progressista» come un regime di violenza e di
sopraffazione. Egli scrive (§ 1154); «È cosa assurda il figurarsi che l'antica
feudalità zn Europa fosse imposta esclusivamente con la forza; invece si
manteneva in parte per sentimenti di vicendevole affetto, i quali si osservano
in altri Paesi, ave esisteva la feudalità, come ad esempio in Giappone ... In
generale, ciò si verifica in tutti gli ordinamenti sociali dove esiste una
gerarchia, la quale solo quando sta per sparire e per dar luogo ad un'altra
cessa di essere spontanea, per essere imposta esclusivamente, o in modo
predominante, dalla forza ». Il Pareto ricorda giustamente la parte che nei
sistemi tradizionali ha il principio della «fedeltà », concepita in termini
tali che il giurarla equivaleva ad un sacramento, facendo «dei martiri di
coloro che sacrificavano la propria vita per mantenerla, dei maledetti di
coloro che la violavano ». Varie interessanti citazioni vengono fatte, a tale
riguardo.
Il
realismo del Pareto risulta dal seguente passo (§ 2183): « Tutti i Governi
usano la forza e tutti asseriscono di aver fondamento nella ragione. Nei fatti,
con o senza suffragio universale, è sempre una oligarchia a governare e a saper
dare alla " volontà del popolo" l'espressione che desidera ... fino
ai voti della maggioranza di una assemblea eletta in modo vario, al plebiscito
che diede l'impero a Napoleone III e via di seguito, per terminare col
suffragio universale sapientemente guidato, comprato e manipolato dai nostri
politicanti. Chi è questo nuovo dio che ha nome "suffragio
universale"? Non è meglio definito, meno misterioso, meno fuor dalla realtà
delle cose di tante altre divinità: né mancano, nella sua teologia, come nelle
altre, contraddizioni patenti ».
Circa
le nuove ipocrisie, il Pareto rileva (§ 1462): «In tempi barbari un popolo
muoveva guerra ad un altro, ne saccheggiava le terre, ne spillava i quattrini,
senza tanti discorsi; nei tempi nostri ciò lo si fa ancora, ma si dice di agire
solo in nome dei " vitali interessi" e questo sarebbe un immenso
progresso ». Su una non diversa via, si mette mano agli ideali, ai valori
morali, al « diritto» per mascherare i veri scopi. Vien citato il caso della
guerra dei Boxer in Cina al principio del secolo, in realtà combattuta dagli
europei per imporre il commercio dell'oppio. Pertanto non vi è dubbio sul modo
in cui il Pareto avrebbe giudicato casi più perspicui: l'etichetta di «Crociata
in Europa» applicata dagli americani (e propriamente da Eisenhower) al loro
intervento nella seconda guerra mondiale, e la macabra farsa del processo di
Norimberga celebrato in nome dell'« umanità» e della «civiltà ». Quanto era
migliore la cruda franchezza di chi si limitava a dichiarare: Vae victis!
Il
Pareto si inviperisce addirittura quando sente parlare della cosi detta
«volontà popolare» e rileva la servile adulazione demagogica del «popolo »,
Egli dice, per esempio (§ 1713), che, in altri tempi, perfino i re potevano
essere aspramente attaccati dalla loro stessa nobiltà o dai papi, «mentre oggi
nessuno è di tanto animo da biasimare il "popolo" e meno che mai da
resistere apertamente ad esso; il che non toglie che lo rigirino, lo ingannino,
lo sfruttino come già un tempo sicofanti e demagoghi sfruttavano il demos ad
Atene, e come in tempi a noi meno lontani, i cortigiani operavano coi loro
padroni », È ovvio che tutto ciò può valere in ancor maggiore misura per il più
recente, sacrosanto tabù costituito dalla «classe lavoratrice »,
Il
Pareto rileva anche che la conclamata «libertà di pensiero» dei « tempi
progrediti» viene in realtà cosi intesa che la si rivendica soltanto per sé e
la si nega agli avversari. Ciò, non solo sul piano sociale ma anche su quello
religioso: gli ortodossi e i tradizionalisti in nome di quella libertà
dovrebbero tollerare gli eretici e i rivoluzionari, ma questi non pensano
affatto a riconoscere ai primi la libertà di pensare come vogliono e di difendere
la loro tradizione: non ne hanno il diritto, perché sono degli «oscurantisti»
(§ 1852). E di una intolleranza si può parlare negli stessi riguardi della
«libera democrazia »; viene osservato che poche società sono cosi fanatiche
come quelle che proclamano appunto la libertà (vedi, ad esempio, gli Stati
Uniti). Si potrebbe aggiungere il caso di più recenti vicende nelle quali la
«libertà» è stata imposta a popoli che non la chiedevano per nulla. È superfluo
ricordare poi le mene e gli interventi armati delle potenze comuniste per
«liberare» altre nazioni. Come in un nuovo manicheismo, alla democrazia si
associano l'umanitarismo e il pacifismo come gli angeli della luce che si
oppongono alle entità dette retrive e che dalle insidie di queste salvano e difendono
la misera umanità (§ 1891).
Circa
le idee umanitarie, il Pareto rileva che la presa che esse possono avere sugli
animi è di solito segno dell'indebolirsi d; impulsi che tendono alla
conservazione dell'individuo, delle società e dello Stato. «I parolai si
figurano che le loro dichiarazioni possano venir sostituite ai sentimenti che
mantengono l'equilibrio sociale e politico» (§ 2741). Per cui il Pareto affermò
sempre la necessità di uno Stato forte, dello Stato che agisce sul piano delle
realtà e non con finzioni di cui non appare il vero sottofondo. Di conseguenza,
egli riconobbe il significato che ebbe lo Stato prussiano e non poté non
simpatizzare col fascismo.
Su
tale linea egli combatté il mito antitedesco e quello di una falsificata
«latinità ». Contro quei cattolici settari che vogliono vedere nel
cattolicesimo latino il principio di ogni ordine e di ogni disciplina, nel
protestantesimo la matrice di ogni anarchia (di simili antitesi si dilettarono
più tardi ad esempio Guido Manacorda e Francesco Orestano nello stesso periodo
fascista), il Pareto rilevava (§ 1856) che, sebbene l'Italia sia cattolica, «i
sentimenti di disciplina vi sono molto meno potenti che in Prussia »; si è che
in Germania vigevano impulsi assai più concreti ed efficaci, cioè «la fede
monarcbica, lo spirito militare, la sottomissione all'autorità, debolissimi in
Italia ».
Proprio
in un confronto con l'atteggiamento che predominava in Germania, il Pareto fa
delle osservazioni che oggi in Italia si dovrebbero condividere pienamente: «Si
pretende che se le forze rivoluzionarie o anche soltanto popolari che si
scontrano con le forze dell'ordine le prime abbiano ogni diritto, le seconde
ogni dovere, principalmente il dovere di tutto sopportare prima di far uso
delle armi: ingiurie, percosse, sassate, tutto è scusato se viene dal popolo.:
mentre la forza pubblica deve avere una pazienza inesauribile, percossa su una
guancia ha da porgere l'altra, i soldati (ci si riferisce al periodo in cui
l'esercito fu impiegato in occasione di disordini) hanno da essere tanti santi
asceti; non si capisce perché si ponga loro in mano un fucile o una daga invece
di un rosario del Santo Progresso ». Il Pareto a ciò contrapponeva la veduta
prussiana, che ogni vero Stato dovrebbe far propria, ossia che « reagire contro
gli insulti e alle percosse è non solo concesso bensi imposto alla forza
pubblica; un ufficiale è disonorato se si lascia sfiorare impunemente dalla piu
lieve percossa» (§ 2147).
Il
Pareto fu anche un anticonformista precorritore nel dominio del sesso.
Egli
scrisse un libretto, uscito dapprima in francese, Le virtuisme, in cui
stigmatizzava il puritanismo sessuofobo. Egli ~ise in rilievo che il moderno
«virtuismo» sessuale non trova riscontro in nessuna grande civiltà del passato.
Roma antica l'ignorò, in prima linea essa mise la dignità e la misura. Il
Pareto riferisce due esempi riferentisi al famoso Catone censore. Questi si
trovava presente alle Floralia, festa
romana in cui sulle scene ad un dato momento una ragazza doveva venire completamente
spogliata. La regia, accortasi della presenza di Catone fra il pubblico,
esitava ad offrire quella scena. Allora Catone se ne andò, per non privare il
pubblico di quel divertimento. Un'altra volta Catone vide un suo giovane
discepolo uscire da una «casa chiusa» del tempo. Non gli disse nulla. Soltanto
quando la cosa si ripeté più volte, egli gli disse che in quelle visite non
c'era nulla di male, ma che egli non doveva scambiare il postribolo con la sua
abitazione.
Ecco
una spiritosa battuta del Pareto (§ 1890): «Se si ha la smania di proteggere}
perché occuparsi solo della seduzione delle donne e trascurare quella degli
uomini? Perché non si inventa qualche altra espressione, come quella di "tratta
delle bianche" che valga pure per i "bianchi"? ».
Ed
ancora: «Fra i dogmi della presente religione sessuale (il
"virtuismo" borghese) c'è quello che la prostituzione è un "male
assoluto", ed esso non si discute ... come non si discute alcun dogma
religioso; ma sotto l'aspetto sperimentale rimane di sapere se la prostituzione
è, o non è, il mestiere che meglio si confà all'indole di certe donne, a cui,
piu che altri mestieri ai quali potrebbero attendere, riesce gradito, e se è, o
non è, entro certi limiti, utile all'intera società» (§ 1382). Ed egli mette in
rilievo il carattere « onesto» della prostituzione della donna, la quale in
fondo fa commercio di ciò che le appartiene, il corpo, rispetto alla
prostituzione accusabile in tanti uomini politici di oggi, che commerciano
indegnamente con beni collettivi e altrui, tradendo la fiducia ottenuta
seducendo le masse ...
Recentemente
è stata pubblicata una nuova edizione delle Serate di Pietroburgo di Joseph De
Maistre, curata da Alfredo Cattabiani. È, questa, l'opera più conosciuta di De
Maistre. In essa, però, i riferimenti diretti al dominio politico, nel quale De
Maistre vale come un « reazionario », sono più scarsi che non in altri suoi
scritti. Infatti vi si trovano soprattutto considerazioni su problemi morali e
religiosi, e lo stesso sottotitolo del libro « Colloqui sul governo temporale
della Provvidenza» indica questa linea di pensiero, che per noi non presenta
troppo interesse. Presupponendo appunto l'esistenza di una Provvidenza
concepita in termini moraleggianti, De Maistre affronta il problema di
conciliarla con lo spettacolo che il mondo e la storia nella loro fattualità ci
presentano: malvagità che non sono punite, virtù che non hanno avuto nessuna
ricompensa, e così via.
Non
si può dire che le soluzioni di tale problema, proposte da De Maistre, siano
del tutto convincenti. Comunque De Maistre non è portato ad un
ridimensionamento e ad un ampliamento del concetto della divinità nei termini
da noi indicati nel precedente saggio, parlando della Via della Mano Sinistra.
Ci sembra un ripiego l'idea di una giustizia divina che procrastinerebbe
soltanto le sue sanzioni (come appoggio, in appendice al suo libro De Maistre
ha tradotto un trattato di Plutarco che s'intitola appunte De sera numinis
vindicta). Però lo stesso De Maistre giunge ad una veduta più libera e
soddisfacente quando paragona i mali e le contingenze che piovono su tutto il
genere umano alle pallottole che in guerra colpiscono un esercito, senza far
distinzione fra il buono e il malvagio. Si deve cioè pensare che l'essere,
assumendo lo stato umano di esistenza (volendolo, o inconsideratamente, o per
una temerità, come è detto in un trattato ermetico), non può non trovarsi
esposto alle contingenze proprie a tale stato. Cercar nessi morali trascendenti
nell'uno o nell'altro caso, è cosa a cui si può esser portati naturalmente, ma
che mantiene sempre il carattere di una avventata ipotetizzazione.
Ma
lasciando da parte quest'ordine di problemi, accenniamo ad alcune idee di De
Maistre che sono interessanti dal punto di vista tradizionale. Per primo, si
può indicare quella di una Tradizione Primordiale. Può darsi che De Maistre ne
sia debitore a Claude de Saint-Martin, che egli conobbe e che era esponente di
dottrine esoteriche (nel quadro della massoneria, la quale a quel tempo era
assai diversa da quella più recente, tanto che lo stesso De Maistre ne fece
parte). Poi vi è la tesi, che lo stato naturale originario dell'umanità non è
stato quello di una barbarie. Al contrario, esso sarebbe stato di luce e di conoscenza,
mentre il selvaggio, il presunto «primitivo », sarebbe soltanto «il discendente
di un uomo staccatosi dal grande albero della civiltà in séguito ad una
prevaricazione che non si può ripetere ». Ma per altri riguardi l'uomo si trova
a risentire degli effetti di una prevaricazione e di una conseguente
degradazione, causa della sua vulnerabilità non solo spirituale e
intellettuale, ma anche fisica. Una tale idea è evidentemente simile a quella
del «peccato originale» della mitologia cristiana, il quadro essendo però più
vasto ed accettabile. Quanto all'accennata tesi sulla vera natura dei
«primitivi », essa sarebbe tale da portare ad un più alto livello la ricerca
etnologica e da impedirle di prendere molte cantonate.
De
Maistre accusa i savants, scientisti e simili, i quali, come in una congiura,
non ammettono che si sappia più di loro o in un modo diverso dal loro. «Si
giudica un tempo in cui gli uomini vedevano gli effetti nelle cause con la
mentalità di un tempo in cui gli uomini a fatica risalgono dagli effetti alle
cause, o si dice che è inutile occuparsi delle cause, o non si sa quasi più che
cosa sia una causa ». Egli aggiunge: «Si odono mille amenità sulla ignoranza
degli antichi che vedevano gli spiriti dappertutto: a me pare che noi siamo molto
più sciocchi di loro perché non ne vediamo in alcuna parte. Sentiamo sempre
parlare di cause fisiche.
Ma
che cosa è, insomma, una causa fisica? ». Per lui è nefasto, e tale da
promuovere una fondamentale superficialità, l'assioma: «Nessun avvenimento fisico
riguardante l'uomo può avere una causa superiore».
L'idea
del progresso viene negata. Quella di una involuzione appare assai più
plausibile. De Maistre rileva che tradizioni molteplici attestano che «gli
uomini hanno cominciato con la scienza, ma con una scienza diversa dalla nostra
e ad essa superiore, perché partiva da un punto più alto, il che la rendeva
anche molto pericolosa. E questo vi spiega come mai la scienza, ai suoi inizi,
fu sempre misteriosa e restò chiusa nell'àmbito dei templi, dove infine si
spense quando questa fiamma non poté servire ad altro che a bruciare».
De
Maistre era portato a dare un grande rilievo alla preghiera e al suo potere.
Scrisse perfino: «Nessuno può provare che una nazione che prega non sia stata
esaudita », ma, propriamente, è l'opposto che si sarebbe tenuti a dimostrare,
il che non è facile. Ci si trova di fronte all'antitesi fra la preghiera nella
virtù che le si attribuisce, e l'immutabilità delle leggi di natura, antitesi
di cui De Maistre cerca di venire a capo, però in modo poco convincente. Egli
ritiene che se delle preghiere non vengono esaudite, ciò sarebbe dovuto
soltanto ad una superiore saggezza divina.
Spesso
viene citata, con scandalo, l'apologia del carnefice quale strumento di Dio,
fatta da De Maistre, ed anche la sua concezione del carattere divino della
guerra. Purtroppo a quest'ultimo riguardo non vie n considerato ciò che la
guerra può propizi a re in fatto di eroismo, di azioni superindividuali, ma la
si vede nei termini tetri di una espiazione che colpisce una umanità
fondamentale colpevole e degradata. La differenza fra guerra giusta e non
giusta, fra guerra di difesa e di conquista, fra guerra vinta e perduta, non
viene considerata. Sono vedute, queste, che poco si accordano con un orientamento
positivamente «reazionario ».
In
un'altra sua opera, Considérations sur la France, De Maistre, dichiarandosi per
una restaurazione, enuncia un concetto importante dicendo che la
controrivoluzione non deve essere una «rivoluzione contraria », bensi « il contrario
della rivoluzione ». A lui si deve una specie di teologia della rivoluzione;
egli mette in luce quel che di « demoniaco» si cela, in genere, nel fenomeno
rivoluzionario. Tale aspetto è rilevabile anche per il fatto che la rivoluzione
trasporta i suoi artefici, piti che non si lasci guidare veramente da essi, e
spesso li travolge. Solo nell'epoca moderna doveva aversi il fenomeno di una «
rivoluzione permanente» più o meno istituzionalizzata, coi suoi tecnici e i
suoi lucidi manipolatori.
Nelle'
Serate di Pietroburgo, spigolando e lasciando da parte certe disquisizioni
(come ad esempio quella, prolissa, su Locke), il lettore potrà trovare molti
altri spunti interessanti. Non resistiamo alla tentazione di riferire ciò che
De Maistre dice sulla donna: «La donna non può essere superiore che come donna,
ma dal momento in cui vuole emulare l'uomo, non è che una scimmia ». Pura
verità, piaccia o non piaccia ai vari « movimenti feminili» contemporanei.
È
con intenzione che queste note sul caso Papini non le abbiamo fatte
immediatamente seguire alla sua morte. Questa ha naturalmente provocato i molti
articoli commemorativi che si sogliono scrivere in occasioni del genere.
Dopo
questo doveroso riserbo, non sarà però inutile mettere le cose a punto per quel
che riguarda il caso Papini, seguendo una visuale diversa da quella della
letteratura e dei criteri letterari. Il valore che Papini, scrittore assai
brillante e vivo, ha in questo campo, resti qui impregiudicato. Ciò che Papini
ha significato nell'insieme della vita intellettuale italiana e soprattutto in
relazione con la crisi spirituale di tutta una generazione, costituisce però un
molto diverso problema e, a tal riguardo, quadra assai poco ciò che i più hanno
scritto di lui. Papini può essere valorizzato in questo stesso quadro dalla
nostra borghesia « benpensante» conformista, specie se democristianamente
orientata; non però da chi sente a fondo la crisi del pensiero e della società
moderna.
Premettiamo
che chi scrive ha seguito l'opera di Papini fin dagli inizi. Adolescenti, vi fu
un tempo in cui Papini era davvero il nostro simbolo. Fu il periodo dell'unico
Sturm und Drang che l'Italia abbia mai conosciuto, quello dell'urgenza di forze
insofferenti del clima soffocante dell'Italietta borghese del primo novecento.
Fu il periodo del « Leonardo» e di « Lacerba ». Invertendo decisamente il
giudizio corrente, un vero significato Papini l'ebbe proprio e soltanto in quel
periodo. Egli fu allora un apritore di brecce. A lui e al suo gruppo si deve
che in Italia venissero conosciute le correnti straniere più interessanti del
pensiero e dell'arte d'avanguardia, con effetti rinnovatori e amplificatori di
orizzonti. Non si tratta solo delle riviste ora citate, ma anche di iniziative,
come la collana « Cultura dell'anima» che, diretta da Papini, portò a
conoscenza dei giovani di allora una serie di scritti antichi e moderni di
particolare significato. Ma ancor più ci interessava, a quel tempo, il Papini
paradossale, polemico, iconoclasta, anticonformista, rivoluzionario: perché
credevamo che, malgrado la brillante facciata scandalistica, egli facesse sul
serio. Nell'attacco contro la cultura ufficiale accademica, contro il
servilismo intellettuale, contro le fame fatte, contro i valori della società e
della morale borghese, eravamo entusiasticamente con lui, anche se ci
infastidiva un certo suo stile neo-realista avant la lettre e certi andare da
monellaccio fiorentino trasposti sul piano intellettuale. E qui, come d'inciso,
poiché si è messo a titolo di merito per Papini «l'aver detto male di Croce »,
conviene fare una osservazione: se Papini attaccò e demolì Croce, egli non fece
la stessa cosa con Gentile solo perché Gentile a quel tempo culturalmente era
quasi inesistente, era un semplice discepolo di Croce. Di fronte a Gentile
l'atteggiamento di Papini sarebbe stato lo stesso, le dosi sarebbero state anzi
raddoppiate, se nel periodo in cui Gentile venne in primo piano Papini fosse
stato quello di prima.
È
con l'interventismo e con l'associarsi, in parte per questo, di Papini ai
futuristi che noi cominciammo a non veder più le cose chiare. Allora eravamo
dei giovani: pure non capivamo come si potessero prendere sul serio i vieti
luoghi comuni «latini» e antigermanici per portare l'Italia ad una guerra che,
secondo noi, se mai, doveva essere combattuta in fedeltà alla Triplice Alleanza
o, al massimo, affermando contro la Germania una uguale volontà d'impero: non
in base ad un banale e sentimentalistico irredentismo. Capivamo che Marinetti,
a cui dicemmo queste cose incontrandoci al fronte, dichiarasse che mi sentisse
lontano da lui «piti di un esquimese ». Non capivamo però come Papini,
intellettuale anticonformista, finisse in questa linea patriottarda. Naturalmente,
per certi ambienti attuali di un nazionalismo generico, privi di veri principi,
la cosa si presenterà altrimenti e potrà tradursi perfino in un titolo
patriottico per Papini.
Sul
piano della cultura, la prima seria doccia fredda ai nostri entusiasmi doveva
darla l'autobiografico Un uomo finito di Papini. Non era il bilancio di un
fallimento spirituale, ma peggio ancora: questo fallimento veniva utilizzato e
quasi commercializzato su di un piano esibizionistico per trarne fuori un libro
brillante. La linea iniziale papiniana, certo, non poteva che condurre a un «
punto zero di tutti i valori », Era l'esperienza anticipata da Nietzsche e
Stirner, era quella che doveva ripresentarsi con la «generazione bruciata »,
col primo Jünger, con un certo esistenzialismo. Capivamo 1'« uomo finito »; ma
l'uomo finito sul serio smette di scrivere e ne ha abbastanza
delI'intellettualismo; fa come fece un Rimbaud, taglia tutti i ponti, cambia
essenzialmente di piano. Magari si uccide.
La
conferma definitiva non si fece molto attendere. Fu la « conversione» di Papini
al cattolicesimo. Intendiamoci: se un anticlericale socialista o un ateo passa
al cattolicesimo, non possiamo che lodarlo, e per noi resta ben fermo che il
più umile sacerdote regolarmente ordinato sta assai più su di qualsiasi
professore universitario e di qualsiasi intellettualoide. Ma per Papini il caso
era diverso. Le sue esperienze culturali non avevano soltanto attinenza col
dominio della cultura profana. Facendo parte del cenacolo fiorentino della
«Biblioteca filosofica », non gli erano ignote correnti dell'alta mistica e
perfino delI'iniziazione, a tal segno, che per le suggestioni ricevute da un
cultore fiorentino di studi esoterici di non comune statura, Arturo Reghini,
aveva tentato perfino, in un ritiro, esperienze trascendenti (frivolmente date
nel- 1'Uo:no finito, come un tentativo di «divenire un dio»). Ora, se con tali
precedenti si finisce nel cattolicesimo, bisogna pensare che nulla di serio vi
era stato in tutte quelle passate esperienze.
La
nostra impressione più immediata fu effettivamente che Papini, non sapendo più
come scandalizzare, seguendo il consiglio di Chesterton, avesse scelto
l'espediente proprio al mettersi paradossalmente sulla linea della normalità
conformista. Solo assai tardi leggemmo, in un ospedale, la V ita di Cristo.
Ebbene, rimanemmo sbalorditi del fatto, che un libro del genere avesse potuto
essere un «successo» e, ancor più, che la Chiesa avesse potuto tanto
valorizzarlo e raccomandarlo. Esso ci sembra costituire la prova più evidente
che nessuna vera, profonda crisi spirituale sia stata alla base della
«conversione» di Papini, che al massimo in essa può aver agito una rinuncia
interiore, il bisogno di pacificarsi e di rendersi le cose più facili traendo
da un corpo fisso di credenze quelle certezze che non aveva saputo trovare dopo
la fase iconoclasta. Perché, in questo libro, nulla vi è di trasfigurante e di
trasfigurato, non si avverte il minimo mutamento di sostanza umana, uguale è lo
stile, nulla vien colto o dato come dimensione più profonda del cattolicesimo e
dei suoi miti: è una banale apologetica in base ai dati più esteriori,
catechistici e sentimentali del cristianesimo. Che Del Massa abbia potuto
associare Papini alle «origini di un cammino che potrebbe essere definito il
cammino italiano per la tradizione », ciò è cosa che ci lascia di stucco,
sempreché di tradizione in senso superiore, e non di vieto tradizionalismo, si
tratti.
Ebbene,
se è da allora - dal periodo della «conversione» - che Papini ha sempre più
ottenuto riconoscimento ed ha acquistato fama, è anche da allora che egli per
noi è stato davvero 1'« uomo finito» e ha cessato di aver un qualsiasi
significato per i problemi più vivi di coloro che si tengono spiritualmente
sulla breccia. Egli è il simbolo non di una conquista, ma di una abdicazione.
Resta lo scrittore brillante, interessante, che fino agli ultimi istanti ha
sentito il bisogno di dettare articoli e aforismi. Nulla di male tributare, a
questa stregua, a Papini, il debito riconoscimento, o lo stesso riconoscimento
che (politica a parte) non si mancherà di concedere, alla loro morte, a un
Malaparte, a un Baldini, a un Soffici, a un Moravia e a molti altri esponenti
di quella che noi vorremmo chiamare la «ben scrivente stupidità intelligente»
nostrana. Ma per tutto il resto è bene non confondere le carte. Ci si limiti a
quel che è umanamente doveroso di fronte a chi ha finalmente posto termine al
suo itinerario terreno.
Carlo
Michelstaedter è uno degli scrittori che nell'epoca moderna hanno affermato
esigenza dell'individuo di assurgere ad un essere, ad un valore assoluto
mettendo fine a tutti i compromessi con cui si maschera un abios bios, una vita
che non è vita, portandosi a ciò di cui l'uomo ha paura più che di ogni altra
cosa: a mettersi di fronte a se stesso, a misurarsi, appunto, in funzione di «
essere ». Lo stato di essere è chiamato, dal Michelstaedter, quello della
«persuasione », e vien definito essenzialmente come una negazione delle
correlazioni. Dove l'Io non in se stesso, ma in « altro» ripone il principio
del proprio consistere, dove la vita gli è condizionata da cose e da relazioni,
dove vi è soggiacenza a dipendenze e a bisogno - non v'è «persuasione », bensì
privazione del valore. Valore, è soltanto l'esistere in se stesso, il non
chiedere ad altro il principio ultimo e il senso della propria vita: è 1'«
autarchia », nel senso ellenico. Cosi non solo l'insieme di una esistenza fatta
di bisogni, di affetti, di «socialità », di orpelli intellettualistici e
simili, ma anche l'organismo corporeo e lo stesso sistema della natura (il
quale, quale esperienza, viene inteso come generato, nel suo indefinito
sviluppo spazio-temporale, dalla incessante gravitazione con cui la deficienza
persegue l'essere, che però, in quanto cercato fuor di sé, non si riuscirà mai
a possedere, rientra nella sfera del non-valore.
L'Io
che pensa di essere in quanto continua, cioè in quanto ignora la pienezza di un
possesso attuale e rimette la sua «persuasione» ad un momento successivo da
cui, pertanto, si fa dipendente; l'Io che in ogni presente fugge a se stesso,
che non si ha ma si cerca, e desidera, che però in nessun futuro potrà mai
essere, il futuro essendo il simbolo stesso della sua privazione, l'ombra che
corre insieme a colui che fugge, in una distanza dal corpo della sua realtà che
in ogni punto si mantiene immutata ~ tale è, per il Michelstaedter, il senso
della vita quotidiana, ma anche il «non valore », ciò che «non-deve-essere ».
Di contro ad una tale situazione, il postulato della « persuasione» è:
consistere, con tutta la propria vita resistere in ogni punto alla deficienza
esistenziale, non cedere alla vita che manca a se stessa cercando al di fuori o
nel futuro - non chiedere, ma tenere nel proprio pugno 1'« essere »: non
«andare» ma permanere. Mentre la deficienza esistenziale accelera il tempo
ansioso sempre del futuro e mutua un presente vuoto col successivo, la
stabilità dell'individuo pre-occupa infinito tempo nell'attualità e arresta il
tempo. La sua fermezza è una scìa vertiginosa per gli altri, che sono nella
corrente. Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri - finché egli
faccia di se stesso fiamma e giunga a consistere nell'ultimo presente». Per
chiarire questo punto, è importante comprendere la natura della correlazione
che è contenuta nelle premesse: dato che il mondo viene inteso come generato
dalla direzione propria alla deficienza, di cui esso è quasi la tangibile incarnazione,
è una illusione pensare che la «persuasione» possa venire realizzata mediante
un consistere astratto e soggettivo in un valore che, come nello stoicismo,
abbia di contro a sé un essere (la natura sperimentata) tale che, pur non
avendo valore, è. Colui che tende alla persuasione assoluta dovrebbe invece
assurgere ad una responsabilità cosmica. Ossia: non debbo fuggire alla mia
deficienza - che il mondo rispecchia - ma prenderla su me, adeguarmi al suo
peso e riscattarla. Pertanto il Michelstaedter dice: « Tu non puoi dirti
persuaso finché qualcosa sia, che non sia persuasa », ed accenna alla
persuasione come «all'estrema coscienza di chi è uno con le cose, ha in sé
tutte le cose: ε ουνεχες.
Per
chiarire il problema centrale del Michelstaedter si può riconnettere il
concetto di insufficienza a quello aristotelico dell'atto imperfetto. Atto
imperfetto o «impuro» è quello delle potenze che non giungono da sé (K6:9' oòro
) all'atto ma a dò abbisognano del concorso di altro. Tale è, ad esempio, il
caso per la percezione sensoriale, in essa la potenza del percepire non essendo
sufficiente a se stessa, non producendo da sé la percezione, ma a ciò avendo
bisogno della correlazione all'oggetto. Ora, il punto fondamentale a cui si
connette la posizione del Michelstaedter è questo: che in sede trascendentale
l'atto imperfetto non risolve la privazione dell'Io se non apparentemente; in
realtà, esso la riconferma. Ad esempio, per usare un paragone, l'Io ha sete.
Finché egli beve confermerà lo stato di colui che non è sufficiente alla
propria vita ma che per vivere ha bisogno di «altro »; l'acqua e il resto non
sono che i simboli della sua deficienza (su questo punto si deve fissare
l'attenzione: non si desidera perché vi è una privazione dell'essere, ma vi è
una privazione dell'essere perché si desidera - e, in secondo luogo: non vi è
un desiderio, ad esempio quello di bere, perché vi sono determinate cose, ad
esempio l'acqua, ma le cose desiderate al pari della privazione dell'essere che
spinge verso di esse sono create in uno stesso punto dal desiderio ad esso
relativo, il quale è, perciò, il prius che crea la correlazione cosi come i
suoi due termini, ossia privazione e oggetto corrispondente, nel nostro esempio
sete e acqua) e in quanto si pasce di essa e ad essa chiede la vita, l'Io si
pasce soltanto della propria privazione e permane in essa, fuggendo da quell'«
atto puro» o perfetto, da quell'acqua eterna, per il quale si potrebbero citare
le stesse parole del Cristo (5), onde ogni sete, al pari di ogni altra
privazione, sarebbe per sempre vinta. Questa brama, questo conato oscuro che
porta l'Io verso l'esterno - verso 1'« altro» - è ciò che genera
nell'esperienza il sistema della realtà finita e contingente. La persuasione,
che va ad ardere nello stato dell'assoluto consistere, del puro esser-in-sé, un
tale conato, ha quindi anche il senso di una «consumazione» chi mondo che a me
si rivela.
Il
senso di tale consumazione va chiarito venendo a cOle seguenze che il
Michelstaedter non ha completamente svolte.
Anzitutto
dire che io non debba fuggire alla mia deficienza significa, fra l'altro, che
io debbo riconoscermi come la funzione creatrice del mondo sperimentato.
Potrebbe seguire, da ciò, la giustificazione del cosidetto idealismo
trascendentale (ossia del sistema filosofico secondo il quale il mondo è posto
dall'Io) in base ad un imperativo morale. Ma secondo la premessa il mondo viene
considerato come una negazione del valore. Dal postulato generale di riscattare
il mondo, di assumerne la deficienza, procede allora, sempre come un postulato
morale, ma anche in sede pratica, un secondo punto, ossia che la stessa
negazione del valore deve essere riconosciuta, in un certo modo, come un valore.
Ciò è importante. Infatti se io considero l'impulso che ha generato il mondo
come un puro, irrazionale dato, è evidente che la persuasione, in quanto
concepita come negazione di esso, va a dipendere da esso, quindi non è
assolutamente sufficiente a sé ma dipende da un «altro », la negazione del
quale le permette di affermarsi. In tal caso, ossia nel caso in cui lo stesso
brama non venga ripreso nell'ordine dell'affermazione del valore ma resti
completamente un dato, la persuasione non sarebbe dunque affatto persuasione -
il mistero iniziale ne ridurrebbe inevitabilmente la perfezione in una
illusione. Perciò come postulato morale occorre ammettere che la stessa
antitesi partecipi, in un certo modo, del valore. Ma in che modo? Tale problema
porta ad includere nel concetto di persuasione un dinamismo. Infatti è ovvio
che se la persuasione non si riduce ad una pura, irrelata sufficienza - cioè ad
uno stato - bensi è sufficienza in quanto negazione di una insufficienza - cioè
un atto, una relazione - l'antitesi ha certamente un valore ed è spiegata: l'Io
deve, cioè, porre in un primo momento la privazione, il non-valore, sia pure
sotto la condizione che esso è posto solamente affinché venga negato, perché
questo atto di negazione, ed esso soltanto, genera il valore della persuasione.
Senonché che cosa significa negare l'antitesi - che in questo contesto vale
quanto dire la natura? Si ricordi che per il Michelstaedter la natura è
non-valore in quanto simbolo e incarnazione della fuga dell'Io dal possesso
attuale di sé, in quanto correlativo di un atto imperfetto o « impuro» nel
senso dianzi accennato. Non si tratta dunque di negare questa o quella
determinazione dell'esistente, perché con ciò si colpirebbe soltanto l'effetto,
la conseguenza, non la radice trascendentale del non-valore; nemmeno di
eliminare in generale ogni azione, perché l'antitesi non è l'azione in genere,
bensi l'azione in quanto fuga da sé, in quanto «andare» - e non è detto che
ogni azione abbia necessariamente questo senso. Quel che occorre risolvere è
piuttosto il modo passivo, eteronomo, estravertito di azione. Ora la negazione
di un tale modo è costituita da quello dell'azione sufficiente a sé, la quale è
anche potenza. Vivere in un possesso perfetto ogni atto e quindi trasfigurare
l'insieme delle forme fino a che esse non esprimano che il corpo stesso di una
infinita potestas, possiamo dire dell'Individuo assoluto fatto di potenza, tale
è dunque il senso del riscatto cosmico e, ad un tempo, esistenziale. Come la
concretizzazione della « retorica» è lo sviluppo del mondo della dipendenza e
della necessità, cosi la concretizzazione della persuasione è lo sviluppo di un
mondo di autarchia e di dominio, e il punto della pura negazione è solo il
punto neutro fra le due fasi.
Lo
sviluppo delle vedute del Michelstaedter in quello che si potrebbe chiamare un
«idealismo magico» risulta cosi secondo una logica continuità. Invece il
Michelstaedter in un certo modo è restato fermo in una negazione indeterminata,
e questo, in gran parte, per non aver considerato sufficientemente che il
finito e l'infinito non vanno riferiti ad un oggetto o ad una azione
particolare, ma sono due modi di vivere un oggetto o un'azione qualsiasi. Il
vero Signore non ha in generale bisogno di negare (nel senso di annullare) e, col
pretesto di renderla assoluta, ridurre la vita ad una unità indifferenziata,
quasi, se si vuole, in una specie di folgorazione: l'atto di potenza - il quale
non è atto di desiderio o di violenza - anziché distruggere il perfetto
possesso, lo attesta e lo conferma. È che il Michelstaedter, per l'intensità
stessa in cui visse l'esigenza del valore assoluto, non seppe dare a questa un
corpo concreto epperò svilupparla nella dottrina della potenza; il che forse
potrebbe non esser privo di relazione con la fine tragica della sua esistenza
mortale.
Tuttavia
proprio il Michelstaedter ha affermato che «noi non vogliamo sapere in rapporto
a quali cose si è determinato l'uomo, bensi come si è determinato », vale a
dire, di là dall'atto, si tratta della forma o valore, secondo cui esso viene
vissuto dall'individuo. Di fatto ogni relazione logica è, in un certo modo,
indeterminata, e il valore è una dimensione superiore in cui essa si specifica.
Un merito del Michelstaedter è di aver riaffermata la considerazione secondo
valore nell'ordine metafisica: infatti la «retorica» e la « via alla
persuasione» sono distinguibili non da un punto di vista puramente logico, ma
dal punto di vista del valore. In tale contesto è assai importante che il
Michelstaedter riconosca in un certo modo che vi sono due vie. Questa duplicità
è essa stessa un valore: perché l'affermazione della persuasione non può valere
come affermazione di una libertà quando non si abbia la coscienza della
possibilità dell'affermazione come valore dello stesso nonvalore, secondo
indifferenza: libero ed infinito essendo soltanto il «Signore del Si e del No»
(su questa problematica, dr. la nostra Teoria dell'Individuo assoluto, I, §§
1-5). L'altra giustificazione dell'antitesi, di cui sopra, ha evidentemente per
presupposto l'opzione positiva per la « persuasione ».
34. il caso di giovanni
gentile
Negli
ambienti che vengono definiti neo-fascisti spesso si fa riferimento a Giovanni
Gentile, esaltandone la figura e vedendo in lui il «filosofo del fascismo ». È
vero che in genere tutto si riduce a riferimenti vaghi e che di certo nessuno
si è preso la pena di leggere i libri di filosofia del Gentile e di
approfondire le idee. Ciò non impedisce che ciò dia luogo ad equivoci, e
proprio due formule che si vogliono riesumare dal Gentile, quella dello « Stato
etico» e quella dell'« umanesimo del lavoro», indicano dove si vada a finire,
per una mancanza di discernimento. Quali possano pur essere stati i rapporti
fattuali del Gentile col fascismo, e la circostanza che egli nel Ventennio
occupò cariche di rilievo (le quali, peraltro, gli diedero modo di affermare
spesso in modo poco simpatico la sua filosofia), non toglie che una vera Destra
col Gentile può avere ben poco da fare.
La
critica del pensiero puramente filosofico gentiliano, del cosidetto «attualismo
», già da noi fatta in altra sede, qui non può interessare. Può interessare
solamente il campo delle applicazioni pratiche ed anche politiche di esso.
L'equazione personale e sociale del Gentile è, a quest'ultimo riguardo,
determinante. II Gentile proveniva da certa borghesia intellettuale a tinte
patriottarde e, nel contempo, illuministiche, quindi antitradizionali. Non per
nulla egli ha esaltato « i Profeti (sic) del Risorgimento », e nel suo ultimo
libro Genesi e struttura della società ha professato le stesse tesi della
storiografia non solo massonico-illuminista ma addirittura marxista. Cosi
leggiamo: «All'umanesimo della cultura, che fu tappa gloriosa (!) della
liberazione dell'uomo (!!), succede oggi, o succederà domani, l'umanesimo del
lavoro» - è esattamente la tesi della storiografia «progressista» marxista:
prima la rivoluzione liberale borghese antitradizionale, poi la rivoluzione
socialista. «Nessun dubbio », continua il Gentile, «che i moti sociali e i
paralleli moti socialisti del XX secolo abbiano creato un nuovo umanismo, la
cui instaurazione come attualità e concretezza politica è l'opera e il compito
del nostro secolo ». È al cosidetto «umanismo del lavoro », che si allude. E
ancora, nel Discorso agli Italiani (1943): «Chi oggi parla di comunismo» in
Italia, è un corporativista impaziente delle more necessarie di sviluppo di una
idea ». Già in precedenza due gentiliani di stretta osservanza, Arnaldo
Volpicelli e Ugo Spirito, avevano bandito la teoria del «corporativismo
integrale », miscuglio fra statalismo totalitario e sindacalismo radicalista
collettivizzante. E oggi Ugo Spirito, ritenendo evidentemente scontate le «more
necessarie di sviluppo dell'idea », è dichiaratamente comunista, anzi, a quanto
sembra, addirittura maoista. Traguardo invero curioso, questo, per lo «Spirito
come atto puro» e «Soggetto Assoluto» creatore, esaltato dalla fumosa filosofia
«idealistica» gentiliana!
Ma
oltre ad accusare queste prospettive di una storiografia decisamente di
sinistra del «filosofo del fascismo », è contro lo stesso «storicismo» da lui
professato che si deve prender posizione. Qui bisognerebbe partire abbastanza
da lontano, dalla teoria della conoscenza, o gnoseologia, del cosidetto
«idealismo assoluto ». Per limitarsi ad un cenno fuggevolissimo, il punto di partenza
è stato il principio di Berkeley esse est percipi, ossia che concretamente
posso parlare solo dell'essere che io percepisco, penso o sperimento.
Schopenhauer, integrando la tesi, parlò del «mondo come (mia) rappresentazione
». I filosofi idealisti posthegeliani, come Gentile, non si sono fermati qui,
hanno affermato che il mondo è « posto» dall'Io, esso non esisterebbe che
nell'atto che lo pone per l'Io. Ma qui è sorta la noiosa difficoltà, che_ se io
posso anche dire che il percepito o il rappresentato non esiste fuor dall'atto
del mio percepirlo o rappresentarme10 (il che è quasi delapalissiano), quanto
però a dire che quel che percepisco l'ho anche «posto» (fuor dai ristrettissimi
limiti di certi domini mentali e intellettuali) liberamente e volontariamente,
tanto da fare dell'Io quasi un dio creatore dei contenuti della sua esperienza,
ciò è evidentemente tutt'altra cosa.
Il
Gentile se l'è cavata con la teoria della cosidetta «volontà concreta» e della
«storicità dello spirito», la quale è una autentica mistificazione. Di fronte a
tutto ciò che accade ma che io non voglio né desidero per nulla, di cui non
sono affatto l'autore, ci si viene a dire che esso non lo si vuole solo come
«soggetto empirico» e «volontà astratta» - ma lo si vorrebbe perfettamente in
quanto « Io-atto-puro» nella cui «volontà concreta» e nella cui « storicità »
il reale e il voluto, l'atto e il fatto, la realtà e la razionalità farebbero
tutt'uno.
Ad
un tale lo fantasticato, io quale « soggetto empirico» (ossia come quello che
veramente sono) dovrei adeguarmi. Il risultato è questo: che per poter «
immanentizzare », ossia per poter ricondurre ad un ipotetico lo trascendentale
il contenuto di tutto ciò che sperimento, sono condannato a riconoscere come
«mio» e « voluto da me» anche ciò che meno voglio e che semplicemente subisco.
Cosi l'unica etica coerentemente deducibile da tale filosofia è quella pronta a
sanzionare ogni capitolazione interiore, ogni conformismo, ogni accettazione
del fatto compiuto, però con una uguale prontezza ad accordare lo stesso
riconoscimento ad un fatto compiuto opposto di domani ove esso riuscisse a
scalzare quello di oggi. Questa è, in ultima analisi, l'origine e l'essenza
dello « storicismo ». Di rigore, è la filosofia di coloro che non hanno una spina
dorsale, in opposto a coloro che si impongono e fanno veramente la storia.
Da
ascrivere in merito al Gentile è però il fattu del suo esser restato fascista
anche quando la «storia», evidentemente, stava rendendo « antistorico» il
fascismo, perché reale - quindi giusto, vero e razionale - essa, con l'aiuto
degli Alleati, stava facendo divenire l'antifascismo. Questa dimostrazione di
carattere e di coraggio civile, comportante tuttavia una incoerenza dottrinale,
costò al Gentile la vita.
Date
le premesse or ora indicate, può sorprendere che il Gentile abbia propugnato un
autoritarismo. È, questa, un'altra fonte di equivoco, come lo è la concezione
gentiliana dello « Stato etico " che, come si è detto, si vorrebbe ancora
propugnare. I! fatto è che esistono diversi tipi di autorità, e ancor una volta
qui si è fatta valere l'equazione personale del Gentile, proveniente dalla
pedagogia. Bisogna tener presente che gli Stati forti e tradizionali
riconobbero valori gerarchici, eroici e spirituali, non valori « etici » e
ancor meno preoccupazioni moralizzatrici. Non un canone di morale ma il
prestigio naturale di capi e di sovrani, di nature superiori (le quali spesso
dal punto di vista moralistico e «virtuistico » lasciavano molto da desiderare)
costituiva la base. Ecco che invece con lo « Stato etico» la morale viene messa
al fastigio dello Stato, pensando di assicurare cOSI ad esso una dignità
superiore a quella propria alla concezione agnostica, neutra e giuridicistica
della cosa pubblica.
Ciò
che ne deriva è un deprecabile autoritarismo (quello che il Croce chiamò della
«morale governativa») e totalitarismo. Il totalitarismo in veste di «Stato
etico» lo si può paragonare al pedagogo con la frusta in mano che s'immischia
dappertutto, persuaso di avere non solo il diritto ma anche il dovere di «
educare» e «perfezionare» gli individui, trattandoli quasi come bambini, senza
alcun rispetto per l'altrui libertà e personalità. È l'ideale politico che può
vagheggiare un preside di liceo con velleità paternalistico-autoritarie (qui si
tradisce appunto 1'« equazione personale » del Gentile) o un sergente
istruttore. È lo Stato che si può ben dire « seccatore », perché non conosce
limiti in una petulante ingerenza del pubblico nel privato, per un
insopportabile controllo «virtuistico» e riformistico, ove ha anche parte
essenziale la fisima, che il popolo possa divenire diverso da quello che sempre
è stato e che fondamentalmente sempre sarà. Purtroppo anche nel fascismo furono
presenti aspetti poco simpatici di questo genere, che la teoria gentiliana in
discorso andò a sanzionare.
Circa
l'opposizione fra lo Stato etico e l'ideale organico e aristocratico dello
Stato, vale appena dire. Nel secondo non si tratta di rapporti pedagogici da
educatorio, ma di relazioni spontanee e naturali da inferiore a superiore. Non
si tratta di conformarsi a valori «morali» astratti fatti valere d'autorità ma
di obbedire a capi che si pongono come il centro di relazioni di lealismo e di
fedeltà, che lasciano larghi margini di autonomia, che desiderano che ognuno ed
ogni gruppo sviluppino il proprio naturale modo d'essere, curando che tutto si
armonizzi in una specie di sinergia, procedendo ad interventi - ad energici
interventi ammonitori - soltanto in casi di emergenza o di palese prevaricazione:
anche in tali congiunture facendo ben apparire una naturale autorità come
controparte del potere assoluto. Ciò vuoI dire vero rispetto umano, all'opposto
di quella degradazione dello Stato in una scuola-caserma che è propria alla
teoria dello « Stato etico» totalitario: nel quale, peraltro, con un singolare
capovolgimento, chi era partito dalla premessa di obbedire solo ad una sua
legge interna (la societas siue status in interiore hominis, lo Stato il quale,
secondo la concezione gentiliana, è «interiore» e come tutto il resto non
esiste se io non lo «pongo» per me, anche se dopo aver fatto i conti con la «
storicità ») finisce col non aver più che la parte dello scolaretto o al più
del «primo della classe »: in attesa che dalla fase pedagogico-etica si passi a
quella, ancor più luminosa, di un disciplinamento da fabbrica: vera
conclusione, a parte i residui patrio ttardi e a parte le mere frasi,
dell'ultimo pensiero gentiliano, di quello dell'« umanesimo del lavoro» e della
«eticità del nuovo Stato del lavoro ». E qui una ulteriore manipolazione
dialettica permette di dare un crisma filosofico alla «socialità ».
Dimenticando quasi il teorizzato lo quale atto puro assoluto, il Gentile scopre
la legge in forza della quale l'Io per aver coscienza di sé deve « porre»
l'altro da sé (gli altri individui) per poi riconoscersi in questi altri: donde
la sua struttura intrinsecamente « sociale » ...
Possiamo
concludere. A parte il fatto che nella fumosa filosofia del Gentile, che ha
ridotto all'assurdo il pensiero del precedente idealismo trascendentale
classico, invano si cercherebbe qualcosa che si rifaccia ad un piano superiore,
non diciamo di spiritualità ma nemmeno di austera speculazione, nelle
concezioni politiche del filosofo di Castelvetrano non vi è nulla che possa
avere un qualche valore per un vero orientamento di Destra. L'epilogo comunista
del già gentiliano Ugo Spirito indica piuttosto la tendenzialità immanente.
I
« nostalgici» contemporanei, che non si limitano a tributare un doveroso
omaggio all'uomo Gentile per il suo comportamento dopo il 25 Luglio, ma
vogliano riproporre, nel quadro di un movimento ricostruttore, le concezioni
gentiliane fondamentali dianzi analizzate e criticate, dimostrano una mancanza
di capacità discriminativa, la quale, peraltro, purtroppo spesso è rilevahile
anche in altri aspetti delle loro rievocazioni.
35. rené guénon e il
"tradizionalismo integrale"
In
altra sede (ne La Destra, maggio 1972), abbiamo rilevato la necessaria
relazione del concetto di una Destra autentica e non improvvisata con quello di
Tradizione. Cosi dei riferimenti ad autori ad orientamento tradizionale possono
essere utili, per affrontare una complessa problematica. Per intanto, vogliamo
dare un ragguaglio sulle idee di René Guénon (1886- 1951), che è stato
considerato come il propugnatore del «Tradizionalismo integrale ».
Il
Guénon è già abbastanza conosciuto anche in Italia. Suoi libri sono stati
tradotti prima della guerra, altri sono stati ripubblicati recentemente e a
Torino esiste un gruppo guénoniano con una rivista che è un fac-simile della
francese Études Traditionnelles, di cui il Guénon è stato pars magna e che esce
tuttora a cura di guénoniani di stretta osservanza. Oggi il Guénon viene
considerato come un maestro e un capo-scuola, e in Francia ha finito con
l'essere accettato anche dalla cultura ufficiale e accademica, seppure con
varie riserve.
L'opera
del Guénon è complessa ma anche organica. Anzitutto è da considerare una
critica radicale del mondo moderno, la quale si differenzia da quella di vari
autori di ieri e di oggi per il suo avere un punto di riferimento positivo, che
è il «mondo della Tradizione », mondo di cui quello moderno è l'antitesi. Come
«tradizionale» viene descritto un tipo universale di civiltà che, in forme
varie ma omologabili, si è realizzato più o meno compiutamente sia in Oriente
che in Occidente.
La
civiltà tradizionale - afferma il Guénon - ha punti di riferimento metafisici.
È caratterizzata dal riconoscimento di un ordine superiore a tutto ciò che è
umano e contingente, dalla presenza e dalla autorità di élites che traggono da
questo piano trascendente i principi e i valori necessari per fondare una
organizzazione sociale ben articolata, per aprire le vie verso una conoscenza
superiore, infine per conferire alla vita un vero significato. Al polo opposto
sta la civiltà moderna alla quale sono proprie una desacralizzazione in grande,
il disconoscimento sistematico di tutto ciò che è superiore all'uomo, come
individuo o come collettività, il materialismo, l'impulso a realizzazioni del
tutto profane e temporali, un insano attivismo. I due libri del Guénon, La
crise du monde moderne e Le règne de la quantité et les signes des temps,
contengono l'essenziale di tale critica, ove temi già accennati da vari autori
di ieri e di oggi acquistano un particolare mordente e un piu saldo fondamento.
Essa è svolta anche nel libro Orient et Occident, ma associata ad assunzioni
che nel frattempo sono divenute impugnabili. Infatti, se il Guénon riconosce -
e non può non riconoscere - che civiltà di tipo tradizionale sono esistite sia
in Oriente che in Occidente, nel libro ora accennato afferma che esse sono
ormai reperibili nel solo Oriente (avendo in vista soprattutto l'India) e che
un riferimento ad esse può essere efficace per una reintegrazione occidentale.
Ora, questa tesi può essere valida al massimo pel retaggio sapienziale
orientale, non certo per la fattualità dell'Oriente. Il Guénon era convinto del
sussistere in Oriente, malgrado tutto, di gruppi tuttora depositari della
Tradizione. Praticamente egli ebbe rapporti diretti propriamente col mondo
islamico, dove vene iniziatiche (sufi e ismaelite) esistono tuttora accanto
alla tradizione exoterica (cioè religiosa). Ed egli si « islamizzò» ad
oltranza. Stabilito si in Egitto, aveva ricevuto il nome di sheikh Abdel Wahid
Yasha ed anche la cittadinanza egiziana. In seconde nozze, sposò un'araba.
Il
Guénon non fa misteri del fatto che dopo varie esperienze deludenti in ambienti
« occultistici » francesi, grazie ad esponenti dell'Oriente riuscì a trovare la
giusta via, quella della «conoscenza iniziatica» o «metafisica».
Tale
sapienza fa da fondamento, dichiarato o implicito. alle dottrine esposte dal
Guénon in vari libri, segnatamente in Le
symbolisme de la Croix, Les états
multiples de l'étre e L'homme et son
de venir selon le Vedanta. Una riserva che qui s'impone, è che spesso quel
che il Guénon presenta come una «metafisica» in un senso speciale trascendente,
a parte la terminologia, in fondo poco si differenzia da quel che ha tale nome
nella storia della filosofia profana occidentale e spesso si esaurisce in astrazioni
piuttosto tediose, come ad esempio nel caso di tutte le dissertazioni sulla
«Possibilità Universale» e simili. Purtuttavia resta valido ciò che il Guénon
afferma, ossia che il razionale non è il limite noetico estremo dell'uomo e che
la normale condizione umana può essere rimossa, l'uomo «non rappresentando, in
realtà, che una manifestazione transitoria e contingente dell'essere vero ».
Cosi, in via di principio, gli sarebbe possibile tendere verso un piano
superiore in cui significando il conoscere essere la cosa conosciuta, con il
conoscere l'individuo si trasforma e si integra. Analoga era l'antica
concezione della «gnosi ». L'iniziazione sarebbe la via più diretta e regolare
per una tale realizzazione. Il Guénon la distingue nettamente da tutto ciò che
è semplice misticismo.
La
Tradizione, in un primo senso, concerne l'insieme di questa conoscenza d'ordine
«metafisico» e non semplicemente umano. Essa ammette una varietà di forme, pur
restando una nella essenza. In relazione a tale unità il Guénon parla anche di
una «Tradizione primordiale », Un concetto del genere era stato formulato prima
di lui. Se ne trovano accenni nello stesso De Maistre, in un Fabre d'Olivet, ed
in un certo modo di recente esso è stato accettato anche dal cattolico Padre Schmidt
nella sua poderosa opera sull'« idea di Dio ». Propriamente, in questo concetto
si deve però distinguere un aspetto metafisico da un aspetto storico. Per il
primo aspetto, bisogna riferirsi a forme l'affinità delle quali non deriva da
trasmissioni materiali e storicamente accertabili; una stessa legge può dar
luogo a forme distinte ma corrispondenti e omologabili, come in diversi punti
di una corrente possono formarsi vortici distinti aventi una stessa forma per
effetto di una stessa legge e di una stessa situazione. Per il secondo aspetto,
ci si deve riferire all'origine concreta comune e prima di un complesso di
tradizioni, per il che il Guénon accetta l'idea di una «tradizione iperborea »
situata all'inizio del presente ciclo di civiltà (segnatamente delle civiltà di
ceppo indoeuropeo). Tale idea era stata già affermata da altri autori ad
orientamento esoterico (ma anche nel campo profano. Herman Wirth nella sua
grossa opera, di diseguale valore. Der Aufgang der Menschheit, aveva cercato di
fondare tale idea). Tutto ciò porta alla tesi dell' « unità trascendente delle
forme tradizionali» (in particolare, sull' « unità trascendente delle
religioni» ha scritto in un libro F. Schuon, discepolo del Guénon). Una delle
capacità attribuite a colui che si è innalzato fio no al sapere superiore di
cui si è detto poco sopra, sarebbe quel. la di scorgere tale unità, come pure,
per converso, quella di esprimere un dato contenuto nei termini dell'una o
dell'altra tradìzione, cOSI come si può esprimere un concetto con parole della
una o dell'altra lingua (simbolicamente, questo sarebbe il «dono delle lingue
», e per un altro verso il fondamento di un « ecumenismo» essenziale, ben
diverso da quello squallido e velleitario affacciatosi nel clima
post-conciliare cattolico). Il Guénon ha dato prove concrete di possedere
quella capacità, di là da quanto è proprio ad una mera erudizione.
Per
la critica del mondo moderno il Guénon utilizza parimenti idee tradizionali.
Per lui non fa dubbio che oggi ci si - trovi vicino alla fine di un ciclo, nel
Kali-yuga o « età oscura» preconizzato dalle antiche dottrine indii ma previsto
anche da altre tradizioni (per es. 1'« età del ferro» esiodea). Negazione,
dunque di ogni fisima progressistica. Fuor dal campo materiale (dove, peraltro,
esso esige spesso un altro prezzo), pel Guénon il progresso non è che una
superstizione dell'uomo occidentale. Il Guénon è uno degli autori che hanno
interpretato in un senso involutivo e decisamente antimarxista il corso della
storia, indicandone propriamente il significato nei termini della cosidetta «
regressione delle caste ». Il punto di riferimento qui è l'articolazione
tradizionale della società in quattro caste o « classi funzionali »: al sommo,
gli esponenti dell'autorità spirituale e sacrale, poi l'aristocrazia guerriera,
poi la borghesia, infine le masse lavoratrici. Ebbene, una società retta dalla
prima casta retrocede ormai in lontananze quasi mitiche. Il successivo regno
della seconda casta si chiude col declino delle grandi monarchie. Subentra il
regno del Terzo Stato, della borghesia, dell'industrialismo e del capitalismo.
Infine l'emergenza della corrispondenza della quarta casta e la sua lotta pel
dominio del mondo: marxismo e comunismo. Ogni interpretazione di Destra,
antimarxista, del corso della storia dovrebbe far proprio questo schema
essenziale, da noi stessi sviluppato in più occasioni.
Una
delle tesi del Guénon è che una civiltà normale, ossia tradizionale, sarebbe
caratterizzata dal primato della contemplazione e della conoscenza pura
sull'azione, e tale è anche uno dei fondamenti della sua critica al mondo
occidentale moderno, dove egli constata l'opposto, ossia la preminenza
dell'azione. Questo è però proprio il punto in cui bisogna cominciare ad
avanzare delle riserve. La contestazione può prender le mosse dall'indicazione
della natura elettiva del potere che stava al vertice o al centro delle civiltà
tradizionali. Non è esatto che esso fosse tenuto da élites che coltivassero la
«contemplazione» o la «pura conoscenza» in termini più o meno sacerdotali.
Storicamente, ciò non si verificò nemmeno nell'India, perché, pur avendo una
civiltà prevalentemente brahmanica, essa conobbe dinastie regali e esponenti
della casta guerriera in possesso del sapere tradizionale. In realtà, l'accennato
vertice è caratterizzato piuttosto da una unità indivisa di sacralità e di
regalità, di autorità spirituale e di potere temporale. A parte l'antica Cina e
tutta una serie di altre civiltà antiche, quasi fino ad oggi il Giappone ha
mantenuto tale livello, ed è significativo, per quel che riguarda le
idiosincrasie del Guénon, che egli non si è mai riferito al Giappone e alla sua
specifica « tradizionalità », perché non corrispondeva al suo schema.
La
constatazione del carattere completamente desacralizzato e deviato
dell'Occidente moderno non ha impedito al Guénon di considerare il problema di
una sua possibile rettificazione, di un suo redressement. Partendo dalla
convinzione, che se I'Occidente ha avuto una tradizione, essa ha corrisposto al
cattolicesimo, egli a tale riguardo aveva visto come punto di partenza una
integrazione «tradizionale» dello stesso cattolicesimo, per il che non aveva
escluso l'opportunità di contatti anche con elementi orientali. Ma ancor prima
che i recenti orientamenti post- conciliari del cattolicesimo indicassero lo
stato di fatto (e qui sarà bene rilevare che 1'«ecumenismo» velleitario di tale
cattolicesimo post-conciliare non ha nulla in comune con ciò che il «tra·
dizionalismo integrale» aveva in vista), egli a tale proposito non si era fatte
troppe illusioni; lo dichiarò anche in una lettera che ci scrisse, confessando
che per principio si era sentito in dovere di non escludere certe possibilità,
senza però attendersi dei risultati. Di fronte ad istanze del genere il cattolicesimo
è rimasto insensibile, come lo era stato di fronte a quelle che, sia pure ad un
livello assai più basso, a suo tempo aveva avanzato lo abbé Constant (alias
Éliphas Lévi). L'unico risultato è che proprio attraverso il Guénon diversi
cattolici sono giunti a penetrare il senso più profondo del cattolicesimo, dei
suoi simboli e dei suoi dogmi. Purtroppo, non si tratta di persone che abbiano
peso nelle gerarchie ufficiali e che quindi possano esercitare un'influenza di
rilievo. D'altra parte un teologo cattolico rileverebbe probabilmente delle
incompatibilità fra le verità della ortodossia e ciò che deriva dalla
«metafisica» cui il Guénon si rifà, tanto da opporre une fin de non recevoir al
«tradizionalismo integrale ».
Il
Guénon era allergico per tutto ciò che è politica in senso stretto, ritenendo
che non vi sia nessun movimento attuale a cui potesse aderire (acconsenti,
però, eccezionalmente, che estratti di suoi scritti con la sua firma venissero
pubblicati come articoli in una pagina speciale culturale da noi organizzata,
unica nel suo genere, nel 19.34-1943, il «Diorama », del giornale Regime
fascista di Cremona). Tuttavia, egli appartiene di pieno diritto alla cultura
di Destra. Nel Guénon la negazione di tutto ciò che è democrazia, socialismo e individualismo
disgregatore è radicale. Egli va anche più oltre, si porta in domini appena
toccati dall'attuale contestazione di Destra; oppone alla scienza moderna e
allo scientismo la conoscenza tradizionale e le «scienze tradizionali », non ha
paura di rivalorizzare queste ultime dopo averne segnalato il vero senso,
indicando non solo i limiti della conoscenza scientifica profana ma anche le
devastazioni derivanti inevitabilmente dalla corrispondente visione del mondo e
dalle applicazioni di essa. Una frase del Guénon riassume lapidariamente il
senso dell'avventura a cui si è dato l'uomo occidentale a partire dal
Rinascimento: «Si è staccato dai cieli con la scusa di conquistare la terra ».
E si può citare qui il detto estremoorientale: «La rete del Cielo ha larghe
maglie ma nessuno vi passa attraverso », quando egli indica il giuoco delle
azioni e delle reazioni concordanti che ha condotto fino all'attuale «età
oscura» (oscura, malgrado i suoi «putrescenti splendori », come dice H.
Miller).
A
parte ciò che riteneva possibile partendo da un cattolicesimo
"integrato", per un'azione rettificatrice il Guénon si era riferito a
quella che potrebbero esercitare delle élites intellectuelles. E' possibile che
qui egli abbia avuto in mente il genere di quelle che già esercitarono - però
in un senso opposto, sovvertitore - le cosiddette societés de pensée, fino alla
Rivoluzione Francese e in margine alla massoneria. Ma anche se
"intellettuale" nel Guénon non ha il senso corrente ed anche. se egli
non si riferisce agli intellettuali di oggi, bensì ad una intellettualità
d'impronta conservatrice e. tradizionale" pure quel concetto nelle
condizioni attuali mantiene alcunche di astratto. Se mai, a noi sembrerebbe più
adeguata la concezione. di. una specie di Ordine, riunente personalità fedeli a
determinati principi, radicate nella spiritualità tradizionale ma anche in un
più diretto contatto e confronto con la realtà e con le correnti storiche.
Peraltro, quest'Ordine costituirebbe la spina dorsale di una vera Destra, e se
i suoi membri, non tenuti ad ostentare questa loro qualità riuscissero a poco a
poco ad occupare alcune posìzionì chiave nella società e nella cultura
contemporanea, un'azione rettificatrice sarebbe possibile.
Tutto
ciò, in via di principio, perché l'ambiente e gli uomini oggi sono tali da
lasciare scarse possibilità a iniziative, di tal genere. Come ripiego, resta
più o meno quel che Il Guenon ,aveva in vista ossia la formazione di centri di
una intellettuahta. tradìzionale con un'azione da considerare realisticamente
limitata al solo dominio culturale. Anche una tale azione non sareb~e da
sottovalutare. Oggi è venuto abbastanza in voga parlare di una «cultura di
Destra », senza però che risulti chiaro che cosa essa dovrebbe essere e senza
che si possa evitare la sensazione di qualcosa di improvvisato. Comunque un
suolo favorevole sembra essere presente, e varie iniziative editoriali lo
.confermano. In questo contesto, una utilizzazione (però non pedissequa) del
Guénon è auspicabile. Data la varietà e la molteplicità del. soggetti da lui
trattati, sarà bene però lasciare da parte quelli che hanno una particolare
relazione con l'esoterismo, la «metaflsica» e l'iniziazione. Benché in lui essi
siano il fondamento ';llumo di tutto il resto, non vi è bisogno che, col
metterli in primo piano, data la loro inusitatezza, si allarmi una certa
cerchia di lettori e si forniscano pretesti per un ostracismo.
Certo,
a parte il lato intellettuale vi è il lato esistenziale. Il sapere
tradizionale, come si è detto, di rigore è anche realizzazione. L'assioma
nietzschiano: «L'uomo è qualcosa che può essere superato », è anche il
postulato della conoscenza superiore e - lo si è rilevato - parte dall'idea che
lo stato umano della esistenza non va ipostatizzato, che esso è solo uno degli
stati multipli dell'essere. Solo che si deve indicare quanto occorre per
prevenire ogni distorta, sbagliata o rischiosa sua applicazione.
Delle
considerazioni particolari su questo dominio realizzativo, con un esame del
libro del Guénon Aperçus sur l'initiation, questa non è la sede più adatta.
Noteremo solo che vi sono delle riserve da fare circa le possibilità che il
Guénon quasi esclusivamente considera. Egli insiste sulla necessità del
collegamento con una data «catena », con una data «organizzazione regolare »,
trasmettitrice di una influenza spirituale. Per un chiarimento, una analogia
può essere offerta dalla consacrazione di un sacerdote da parte di un vescovo,
amministratore delle influenze spirituali di cui la Chiesa si ritiene sia la
depositaria. Nel caso del Guénon, quel collegamento deve essersi principalmente
realizzato - come abbiamo detto - con «catene» islamiche. Ma a chi non se la
sente di rimettersi a musulmani e ad Orientali, il Guénon offre assai poco. Chi
ha letto, ne La Destra (marzo 1972), gli estratti di una corrispondenza che
avremmo con lui, ricorderà che noi non abbiamo potuto seguire il Guénon
nell'idea che la massoneria attuale, malgrado la sua degenerescenza (da lui
ammessa), in via di principio resti una organizzazione dispensatrice di una
iniziazione reale e non soltanto simbolica e rituale. Vi sono personalità in
Occidente che hanno avuto di certo un rango di Maestri, quali ad esempio il
Gurdjieff e, sulla cosidetta «Via della Mano Sinistra », Aleister Crowley.
Oppure bisognerebbe cercare qualche sopravvivente ramo del cabbalismo
operativo, che di nuovo non può considerarsi una tradizione occidentale.
Naturalmente, le sette e le conventicole occultistiche, teosofiche,
pseudo-rosicruciane, ecc., pullulanti ai nostri giorni rappresentano qualcosa
di spurio e di inautentico, e non possono in alcun modo entrare in quistione.
Così la situazione è dìfficile, il il problema per i più resta aperto e forse
deve essere riformulato in termini diversi da quelli indicati dal Guénon.
Però
il tema del "tradizionalismo integrale" può venir staccato da tale
problematica ed essere utilizzato nello schieramento di una cultura di Destra.
Recentemente
vi sono state delle discussioni circa la «libertà della cultura »; argomento,
questo, che ha la sua importanza ma che richiede alcune precisazioni.
In
primo luogo, si dovrebbe precisare che cosa propriamente s'intende per «cultura
». Vi è stato chi, opportunamente, ha ricordato che nell'antichità il termine
«cultura» ha significato prevalentemente la formazione di sé ed anche lo
sviluppo delle proprie possibilità, in analogia con lo scopo di ogni
«coltivazione ». Ciò, ovviamente, è cosa assai diversa dal «formarsi una
cultura» o dall'avere una cultura, in tale caso potendo anche trattarsi di un
fatto soltanto intellettualistico, senza nessuna incidenza esistenziale. Quando
si tratta di una formazione di sé, per essa quasi sempre si è avuto un modello
legato ad un dato tipo di civiltà, ad una tradizione, eventualmente ad una
dottrina. In questo caso il margine di libertà, nel senso di arbitrarietà, è
piccolo. È stato cosi, se consideriamo il tipo o ideale, ad esempio, del civis
romanus, del saggio antico (specie del saggio stoico), del samurai, del
cavaliere medievale, dello Junker prussiano e, se si vuole, del gentleman
inglese. In tutti questi casi la formazione di sé ha avuto una direzione ben
determinata.
Passando
a considerare la cultura nel suo senso più corrente e ad esaminare la «libertà
della cultura», bisognerebbe riprendere anzitutto la nota distinzione fra
libertà «da qualcosa» e libertà «per che cosa». La prima è una libertà negativa
e, in genere, il problema ha per presupposto l'esistenza di una coercizione O
limitazione. Ad esempio, e In uno Stato totalitario che si può avanzare,
protestando, l'esigenza di una cultura libera. Bisogna però riconoscere che
tale Stato ha tutto il diritto di difendersi. Anzi la riserva la si potrebbe
estendere. In clima di democrazia tutto è, in via di principio, lecito, non vi è
una autorità che condanni o combatta una cultura, la quale può essere libera
anche per agire in modo deprecabile e distruttivo. Beninteso, non si tratta di
auspicare, di fronte a ciò, un regime di censura. Si tratta piuttosto di
deplorare lo stato di fatto nel quale in certi casi potrebbe essere opportuno,
malgrado tutto, perfino un tale regime sempreché sia adottato con intelligenza,
con misura e con discernimento.
La cosa più importante è però l'opporre al
clima della democrazia, quello di una civiltà di tipo organico. Una tale
civiltà non conosce la dissociazione del particolare. Un autore tedesco,
Christof Steding, in una sua opera notevole intitolata Das Reich und die
Krankheit der europdiscben Kultur (Il Reich e la malattia della cultura
europea) ha indicato partitamente il processo di degenerescenza verificatosi
quando domini particolari, in precedenza ripresi in un ordine unitario o
riflettenti tutti un unico impulso, si sono autonomizzati dissociativamente,
divenendo, per cosi dire, tante zone «neutre ». Nel riguardo, egli ha potuto
parlare di una specie di «svizzerizzazione» dell'Europa e della sua cultura. Il
punto fondamentale è rilevare, in tale stadio, l'inesistenza di un centro al
quale potrebbe anche corrispondere l'idea di «impero» (Reich), anche se non
inteso in un senso politico e materiale ma almeno nei termini di un centro di
animazione e di gravitazione in una data realtà storica: cosi come poté
accadere, in una certa misura, nell'ecumene medievale occidentale.
Qualora
tale sistema organico esistesse, la libertà della cultura presenterebbe un
carattere peculiare: il carattere, dianzi accennato, di «libertà per qualcosa
». Si può condividere perfino, in parte, ciò che un marxista, il Lucàks, dice,
quando stigmatizza una cultura superficiale, inconsistente, «invertebrata », ad
uso e consumo del bravo borghese, poco piti che nei termini di un passatempo
che serva anche per «dignificarlo» e renderlo «distinto ». Per formulare una
simile accusa non è necessario essere un marxista. La si può avanzare anche
come uomo della Destra ed è una idiozia pretendere che si possa essere «
impegnati); nella cultura nel solo senso, squallido e triviale, del marxismo,
che non si possa esserlo anche nel senso opposto.
Ebbene
la cultura in questa diversa prospettiva dovrebbe essere libera in termini
creativi ed organici. Dovrebbe, cioè, assumere e sviluppare i contenuti di una
civiltà organica, naturalmente senza una qualsiasi determinazione estrinseca,
ossia senza una determinazione che non sia quella, quasi insensibile, dovuta
soltanto ad una generale sintonia. Per un paragone, ci si potrebbe riferire ad
un processo di crescenza, il quale non ha nulla di arbitrario. Ci si è abituati
troppo a confondere ciò che è libero con ciò che è arbitrario in un senso individualistico:
con ciò che è privo di radici profonde. La mentalità moderna è fin troppo
proclive ad una tale deprecabile confusione, la quale, tuttavia, è propiziata
dalla stessa situazione generale nella quale ci si trova al giorno d'oggi.
Peraltro, per posìziont dì tipo opposto si dovrebbe considerare come un
presupposto un tipo umano che conoscesse anzitutto la «cultura» nel senso
indicato al principio, ossia nel senso di autoformazione,. di disciplina,
perché è solamente in lui che la libertà può acquistare un carattere positivo.
Una
cultura anarchicamente libera può essere l'origine di quasi altrettante
calamità, di quante. ne è stata la famigerata «libertà di stampa », con un
giornalismo capace di tutto, invadente impertinente, sobillatore, partigiano.
Naturalmente, qui si dovrebbero distinguere diversi settori. È evidente che nel
settore della narrativa e della saggistica il problema non si pone, se non nel
campo pratico: non in quello della composisione. ma in quello della
pubblicazione, perché, come si sa, nella critica e nell'editoria esistono delle
combriccole ben organizzate e pootenti le quali possono rendere effimera la
conclamata libertà degli autori bloccandone le sue estrinsecazioni,
l'espressione e la diffusione. Tuttavia, considerando certa cultura
consumìstica, si può constatare che essa di libertà ne ha finché vuole e che
essa se ne prende sempre di più non riconoscendo limiti né convenzioni valide
di sorta. Cosi vi è una cultura che in fondo non meriterebbe nemmeno tale nome.
Esiste poi una cultura a carattere informativo, la quale serve, come si suol
dire, .per «arricchire la mente », e vi è una cultura a carattere specialistico
la quale, naturalmente, non deve conoscere vincoli. Per la prima, tuttavia,
potrebbe porsi sia il problema di ciò che è veramente degno di essere
conosciuto, sia il problema di ciò che è pericoloso che sia conosciuto. Se ben
ricordiamo, è il De Maistre che, sia pure riferendosi ad un contesto diverso,
ha parlato del «ritirarsi» di certe conoscenze dopo che esse rivestirono, per
1a maggioranza, il carattere di un fuoco che serviva più a bruciare che non ad
illuminare. Ma oggi vige la strana superstizione che l'umanità sia divenuta
«adulta », e quindi che tutto deve essere accessibile a tutti, mentre solo che
si pensi al potere che nel nostro mondo hanno la pubblicità, gli slogan, le
parole d'ordine, appare evidente che i nostri contemporanei dimostrano una
notevole passività, che essi hanno una scarsissima capacità di discriminazione
e di vera reazione. A che cosa possa condurre, a questa stregua, la «libertà»
anche nel campo intellettuale e culturale, non è necessario specificarlo.
La conclusione di queste nostre brevi
considerazioni rimanda a quanto abbiamo detto al principio: il problema
dovrebbe essere impostato in termini assai più ampi, ossia in relazione ad un
dato tipo di civiltà e di società, tipo che purtroppo oggi può dirsi pressoché
inesistente, perché dò che oggi regna o predomina è il massificato, non ciò che
è organico e differenziato, che abbia una forma interna nel senso vivente
goethiano. Tutto essendo collegato, tale stato -di fatto si ripercuote
inevitabilmente anche sul problema della libertà e della libertà della cultura.
È facile capire che noi riteniamo che quando un «sistema» esiste (e si lascia
che esista), affermazioni sporadiche di libertà, malgrado un certo loro valore
morale dimostrativo, sono inconcludenti e inoltre vi è pericolo che esse siano
dettate solo dalla smania di spiccare e di autovalorizzarsi di certe
individualità, il che le priva di ogni serio significato. Di ciò crediamo che
sia il caso per certi inalberamenti anticonformistici di «intellettuali» e di
letterati nell'Unione Sovietica, cui non ci sentiamo di dare troppa importanza,
come invece nel mondo occidentale «libero» generalmente si fa. Giungeremmo a
dire che vi è perfino qualcosa di isterico, in queste manifestazioni di
insofferenza. Esse non hanno che un carattere periferico. È invece ad un'azione
d'insieme sul piano del reale, che si dovrebbe dare la parola.
Se
un rivolgimento, oggi non prevedibile, andasse a cambiare la situazione
spirituale e intellettuale, anche la problematica su cui qui abbiamo portato
l'attenzione si presenterebbe in moassai diverso e non vi sarebbero dubbi circa
quel che, per ciò che riguarda la cultura, può rivestire un carattere di
normalità: di normalità, naturalmente, in un senso superiore.
Oggi
si parla abbastanza spesso di una «cultura di Destra », tanto che sul fronte
opposto vi è stato un certo allarme. D'altra parte, vi sono degli autori i
quali agiscono e parlano come se questa cultura fosse qualcosa che loro stessi
hanno oggi fabbricato o inventato. Ora una vera cultura di Destra noi non
sapremmo concepirla senza un qualche riferimento ad una tradizione, e in una
opportuna distanza dall'individualismo. È proprio all'uomo della sinistra, al
rivoluzionario e al « progressista », il valorizzare il nuovo senza una qualche
continuità o connessione organica.
Se
non si vede chiaro questo punto, vi è pericolo che la cultura di Destra di cui
si sta parlando in Italia, almeno in parte si riduca ad una semplice formula.
Cosi vi è chi ha ritenuto che il fenomeno sia stato sopravvalutato, e che le
apprensioni dimostrate dalla cultura predominante, che è di sinistra e che
dispone di una ideologia abbastanza precisa, siano ingiustificate. Ora,
mettendo da parte quegli autori che oggi prospettano le cose quasi come se la
cultura di Destra fosse una loro invenzione lanciata sul mercato delle idee, il
compito di dare ad essa un contenuto positivo uscendo dalle generalità non è di
facile soluzione. Abbiamo detto «positivo », perché una definizione basata
solamente su ciò che si respinge, si critica e si avversa, non può bastare.
Del
resto, questo compito e questa difficoltà si presentano egualmente nei riguardi
non solo della «cultura» di Destra, ma anche della Destra in genere come
schieramento politico e visione del mondo (la Destra economica si deve
ovviamente lasciarla da parte: nel presente contesto essa non presenta alcun
interesse). Infatti, per la Destra politica, a che cosa ci si può riferire in
Italia, come antecedente? È esistita, SI, la cosidetta «Destra storica »: ma se
giustamente si deve tributare un riconoscimento alla figura e all'attività di
un Crispi, di un Di Rodinò, e di altri pur degni personaggi del tempo, si deve
anche convenire che questa Destra, per il clima stesso in cui si trovò l'Italia
post-risorgimentale, non era da paragonarsi in alcun modo con ciò che è stata
la Destra conservatrice, ad esempio, dell'Europa centrale, dove essa poté
riferirsi a precise tradizioni e a non meno precise articolazioni sociali, dato
che le influenze ideologiche derivanti dalla Rivoluzione Francese avevano preso
in tali paesi ben poco piede. Ancor oggi in Italia, per una Destra integrale e
tradizionale mancano purtroppo i presupposti. Infatti il suolo ad essa
congeniale non può essere quello della democrazia e, di rigore, nemmeno quello
di una repubblica. A noi riesce assai difficile concepire una vera Destra se
non esiste una monarchia e, solidale con essa, una aristocrazia come classe
politica. Una Destra che si riduca ad un nazionalismo generico e alla difesa
dei valori propri ad una società borghese - cattolica o meno - non è che una
Destra assai approssimativa.
Quanto
ad una cultura di Destra, anch'essa non può non risentire, in Italia, della
situazione generale culturale, politica e sociale. Per respingere l'accusa o
l'insinuazione che ciò che oggi viene presentato come cultura di Destra sia un
fenomeno di congiuntura, occorrerebbe indicare degli antecedenti, i quali però
sono sporadici. Per alcuni sembrerebbe naturale riferirsi al periodo fascista.
Però allora sarebbe d'uopo fare delle distinzioni, perché resta da vedere in
quale misura il fascismo, complessivamente, può venir considerato come un puro
movimento di Destra; circa questo punto, potremmo rimandare al contributo
costituito da un nostro studio, che si intitola appunto Il Fascismo visto dalla
destra, edito da Volpe. Se nella cultura del precedente periodo cerchiamo
qualche antecedente, si potrebbe considerare, ad esempio, lo storico Gioacchino
Volpe, e resta sempre una figura di primissimo piano l'anticonformista e
antidemocratico Vilfredo Pareto. La corrente corradiniana vorremmo invece
metterla da parte, il nazionalismo politico essendo il suo tratto predominante
(un certo nazionalismo può essere perfino l'antitesi della Destra). Nel campo
della pubblicistica posizioni abbastanza precise erano st~te difese più di
recente da G.A. Fanelli, vivace scrittore monarchico e tradizionalista,
direttore di una rivista e autore di un libro dal titolo Vighiaccherie del XX
secolo. Intorno a lui si era formato un piccolo gruppo abbastanza affiatato,
del quale facevano parte, tra gli altri, Nino Serventi e Nino Guglielmi.
Malvolentieri dovremmo poi menzionare la nostra personale attività svolta in
quel periodo (il nostro libro Rivolta contro il mondo moderno, decisamente di
Destra, usci in prima edizione nel 1933). Il gruppo dei collaboratori della
pagina speciale di Regime Fascista, che s'intitolava «Diorama », era certamente
formato da esponenti di una vera e propria cultura di Destra, ed è degno di
rilievo che ad essi si fossero uniti collaboratori stranieri aventi lo stesso
orientamento. Oggi Giuseppe Prezzolini ha cercato di far valere il suo passato
di conservatore, ed ha anche recen.temente pubblicat.o un volumetto ave sono
enunciate le sue tesr sul conservatorismo; ma sinceramente non ci sentiamo di
prenderlo troppo sul serio. Diversi altri riferimenti ad una autentica
tradizione culturale di Destra potrebbero comunque essere indicati.
Per
quel che riguarda l'attualità, sarebbe opportuno verificare da presso le
«credenziali» di coloro che vengono generalmente considerati come esponenti
della cultura di Destra, perché è facile applicare delle etichette senza
esaminar troppo il contenuto. Si sa che quando si ha il senso che qualcosa
guadagna terreno, sono frequenti le aggregazioni e perfino le « conversioni ».
Come un ese~pio perspicuo ricordiamo quello che accadde al momento del rivolgimento
«razzista» del fascismo: tutta una serie di pubbjicisti si accorse
improvvisamente, dall'oggi al domani, di essere «razzista». E il bello è,
occorre aggiungere, che questi stessi signori sono oggi fra i democratici e gli
antifascisti. .
Oggi
occorre ancora, in un intellettuale, un certo coraggio per dirsi di Destra:
riconoscimento doveroso, che però non tocca la quistione specifica, oggettiva,
di merito. Noi poi chiederemmo che si partisse da una visione generale, dai
tratti precisi, della vita e della stessa storia, venendo a tutto il resto solo
consequenzialmente. Non è quel che si può sempre rilevare nella pretesa cultura
di Destra di oggi, mentre, come si è detto, i collegamenti con degli
antecedenti sono pressoché inesistenti. Non si può non riconoscere che certi
atteggiamenti non fanno apparire del tutto ingiustificata l'accusa che il tutto
si riduca a qualcosa di fabbricato ei di improvvisato. La circostanza, che il
clima culturale prevalente in Italia non è stato tale da fornire appoggi
consistenti, può valere solo come una attenuante. Lo stato di fatto è che vi è
un vasto campo di lavoro: l'avere un giusto e serio orientamento,il rifuggire
dalle improvvisazioni, saranno a tale riguardo i fattori decisivi.
38. prospettive della
cultura di destra
Parlare
di «cultura di Destra », oggi è abbastanza in voga. Non riesce però facile
bandire il sospetto, che tutto si riduca ad un «fenomeno di congiuntura ». Data
l'avanzata che nel campo politico la Destra ha registrato, evidentemente si
cerca di mettere su come che sia una sua controparte culturale. Tuttavia ciò fa
sorgere diversi problemi.
Come
osservazione preliminare, l'introdurre un concetto politico, come quello di
Destra, nel campo della cultura non ci sembra molto acconcio. È sul terreno,
più concreto ed oggettivo, di una morfologia della cultura che ci si dovrebbe
muovere, definendo poi l'orientamento e i compiti propri ad un dato tipo di
cultura. Ciò, tanto più, che per l'Italia sarebbe difficile rifarsi ad una
tradizione e che non è certo il caso di pensare che nell'attuale clima
repubblicano e democratico l'auspicata cultura possa avere i caratteri di
qualcosa di cresciuto organicamente.
Inoltre
è sul concetto stesso di cultura che bisognerebbe intendersi. Qui si dovrebbero
distinguere tre domini: quello della formazione spirituale, quello della
creatività (letteratura, romanzi, teatro, in parte film) e quello delle idee e
della dottrina. Al che si aggiunge il problema di precisare la funzione della
cultura che si ha in vista e i rapporti di essa con strati sufficientemente
estesi della popolazione.
Circa
il primo dominio, ossia quello creativo, esso è tale da non sopportare formule
e ricette, ogni produzione autentica e valida dipendendo essenzialmente dalla
esistenza di un clima corrispondente. L'inconsistenza di una creatività arnsnca
«su misura» o comandata, è risultata, ad esempio, dalla nullità della
produzione nel quadro del cosidetto «realismo marxista» o «social~sta ».
Potrebbe però venir sempre incoraggiata una certa produzione avente un
carattere intrinsecamente contestatore. Cosi i segni SI mvertono: mentre finora
la contestazione è stata prevalentemente una prerogativa di elementi di
sinistra, oggi essa dovrebbe esser condotta dalla Destra. Né si dovrebbero
dimenticare - come invece oggi si fa - i grandi contestatori aristocratici di
ieri, a partire da Federico Nietzsche, in quelle sue idee che in questo
contesto possono essere sempre valide.
La
«cultura» classicamente (vedi Cicerone o Seneca) non ebbe il senso né di
erudizione, né di intellettualismo ma di formazione spirituale e caratteriale
della persona. A riprendere tale significato, in un dominio particolare si
profilerebbe, per una cultura di Destra, il compito di indicare modelli o
ideali umani in una formulazione che assicuri loro un valore normativo e una
reale forza suggestiva. Oggi vi è veramente un gran bisogno di persone che non
chiacchierino, «scrivano », discutano, ma comincino con l'essere. Una loro
autorità e un loro prestigio ne sarebbe la naturale conseguenza, con effetti
altrimenti difficilmente raggiungibili.
Nel
secondo dominio, quello delle idee e delle dottrine, precisare per settori il
contenuto di una cultura di Destra è necessario ed è possibile. A parte
l'appellativo congiunturale «di Destra », nell'essenza ci si dovrebbe riferire
ad orientamenti intellettuali e critici preesistenti che si tratterebbe di
riprendere e di sviluppare ulteriormente. L'attacco contro il marxismo sarebbe
ovvio ma in una certa misura può dirsi scontato. Sono rari coloro che si
teng.on? ancora ai logori dogmi del marxismo: il quale, se oggi cosntuisce un
pericolo, non lo è sul piano culturale ma essenzialmente su quello politico
pratico, dove per combatterlo è richiesta non la polemica ma un'azione
risoluta. Comunque l'esistenza di una specie di sottobosco marxisteggiante non
può essere ignorata; esso va decisamente smascherato e denunciato.
In
una cultura di Destra può rientrare una critica della scienza e dello
scientismo, le collusioni dei quali col marxismo sono note. La «smitizzazione»
della scienza è un compito assai importante, e in una prospettiva più vasta
bisognerebbe soppesare, da una parte, l'apporto positivo della scienza nel
campo materiale, dall'altro la controparte, rappresentata dalle distruzioni
spirituali derivanti dalla visione scientifica del mondo.
Uno
dei campi più importanti di lavoro per una cultura di Destra è quello della
storiografia. È un fatto che da noi la storiografia è stata scritta, quasi
senza eccezione, in chiave antitradizionale, massonico-liberale e più o meno
«progressista ». La cosidetta «storia patria », e non soltanto la più
stereotipa, è caratterizzata dal mettere in risalto e dall'esaltare come
«nostra» storia tutto ciò che nel passato ha avuto un carattere prevalentemente
antitradizionale: ciò, partendo dalla stessa rivolta dei Comuni contro
l'autorità imperiale, fino a quegli aspetti del Risorgimento che ebbero
innegabili relazioni con le idee dell'89 e, per ultimo, all'intervento nella
prima guerra mondiale. Qualcosa del genere va detto non solo per la «storia
patria» ma anche per la storia in genere.
Qui
purtroppo manca una nostra tradizione, mancano antecedenti nostri da riprendere
e sviluppare. Inutile sforzarsi per trovarne. Vi è chi ha fatto i nomi di
Machiavelli e di Vico, che non sappiamo per che cosa essi possono rientrare in
questo contesto, mentre il materiale di cui disponevano era diverso e limitato.
Da Vico si può desumere al massimo l'interpretazione in senso involutivo della
storia, la discesa delle civiltà dal livello già proprio a quelle che egli
chiamava le «genti eroiche », verso una barbarie. Però in Vico ciò si connette
con la teoria dei cicli e dei «corsi e ricorsi» storici, alcunché di analogo
valendo anche per le teorie, più aggiornate, di Oswald Spengler, col suo
«tramonto dell'Occidente »,
Da
Machiavelli, non sappiamo proprio che cosa mai si possa prendere, per una
storiografia di Destra. E contro alcuni, i quali, a parte la storiografia,
vorrebbero far rientrare in genere Machiavelli fra «i nostri », fra i pensatori
di Destra, noi dobbiamo avanzare precise riserve. Non per caso Machiavelli ha dato
il suo nome al «machiavellismo », ed anche a lasciar da parte l'aspetto piti
triviale di esso, ossia l'uso spregiudicato dei mezzi pur di raggiungere un
dato fine, prenderemo questa occasione per dire che non ce la sentiamo per
nulla di definire come di Destra la semplice «maniera forte », un potere che si
afferma recisamente, quando codesto potere sia informe, privo di un crisma e di
una superiore legittimazione: altrimenti vi sarebbe pericolo di dover includere
non pochi regimi d'oltre cortina. Qui andrebbe considerato, in genere, il
fenomeno della dittatura con pieni poteri. A tale riguardo il punto di vista
giusto ci sembra essere quello dell'anti~a Roma la quale considerò la dittatura
solo per situazioni di emergenza e non come una istituzione permanente:
altrimenti essa si sarebbe confusa con le tiranni di della Magna Grecia.
Riferendoci all'attualità, in termini analoghi possono venir considerati i «regimi
forti» e autoritari della Spagna e della Grecia, pur riconoscendo pienamente la
loro contingente ragion d'essere.
Per
una considerazione di Destra della storia in genere, a parte spunti reperibili
in un Burke, in un Butler, in un De Tocqueville e in un De Maistre - spunti che
però si dovrebbero sviluppare in vista di un mondo diverso - l'unico contributo
valido che noi conosciamo è il libro di L. de Poncins e di E. Malinski,
intitolato La Guerre Occulte e tradotto anche in italiano. Esso è illuminante
nell'indicare i processi, spesso svoltisi dietro le quinte della storia, che
hanno portato alla disgregazione del mondo tradizionale europeo. Purtroppo
l'esposizione si arresta all'avvento del bolscevismo. Per giungere fino ad
oggi, resta pertanto un periodo abbastanza lungo, particolarmente denso di
avvenimenti, nel quale l'analisi dovrebbe venir continuata con lo stesso
spirito conservatore, tradizionale e di Destra di quei due autori.
Anche
la sociologia offre al pensiero di Destra un importante campo di lavoro.
Infatti tale disciplina, anche quando non è svolta in chiave apertamente
marxista, ha sempre una componente pervertitrice, la riduzione del superiore
all'inferiore, e le correnti sociologiche d'Oltre Oceano di ciò danno esempi
precipui. La stessa antropologia, nel senso di teoria generale dell'essere
umano, dovrebbe valere come un ulteriore, importante oggetto. Ad esempio, qui
si dovrebbe studiare l'orientamento, purtroppo assai diffuso e acriticamente
accettato, che è proprio della psicanalisi, per rilevarne e contestarne la
concezione mutila e distorta dell'uomo che ne costituisce il fondamento.
Possiamo
considerare altri due campi. In primo luogo, si tratta di una adeguata
considerazione del mondo della preistoria e della protostoria, del mondo antico
e «mitico », da sottrarre ai pregiudizi e all'incomprensione della gran parte
della cultura accademica. È qui che Vico, in parte, può indicare la via. Un
infinitamente più valido contributo l'ha però dato, nel secolo scorso, lo
svizzero J. J. Bachofen con i suoi studi sulle religioni antiche e i simboli
primordiali. Tali studi del Bachofen hanno una importanza particolare, perché
vengono anche considerate le connessioni del mondo sociale e politico con
quello del sacro e del mitologico (un altro contributo nello stesso senso è ~a
nota opera di Fustel de Coulanges La Cité
Antique). Uno studio comparato delle religioni e delle civiltà potrà
inquadrare ricerche del genere, e a tale riguardo basi valide potrebbero esser
fornite anche dal cosidetto «tradizionalismo integrale» della scuola di René
Guénon.
Nel
secondo dei campi dianzi indicati, non privo di relazione con ciò che abbiamo
or ora considerato, va presa posizione contro coloro che, per una male intesa
esigenza di realismo. e di chiare~za, se la prendono con tutto ciò che è
esoterismo, ssimbolo e mito, facendo di ogni erba un fascio e praticamente
finendo m una specie di illuminismo o razionalismo piatto e scialbo. Si è che
la ristrettezza della mentalità e degli orizzonti di costoro impediscono loro
di riconoscere che esiste anche una chiarezza sovrarazionale e la possibilità
di svestire simboli e miti fino a farne risultare contenuti reali, seppure di
un ordine superiore. Essi credono di sgombrare il campo, invece creano
deprecabili confusioni, col discredito che essi pensano di spargere su una
certa Iinea di pensiero; chi li seguisse sul serio, si ritroverebbe solo nello
squallore proprio ad un mondo privo della terza dimensione, ossia della
dimensione della profondità.
Veniamo
all'altro dei punti dianzi accennati, cioè alla posizione che di fronte ad un
vasto pubblico dovrebbero assumere la cultura di Destra - quale pur ne sia la
precipua definizione - e i rappresentanti di essa. È stato affermato che tale
cultura dovrebbe aprirsi ad ampi strati della popolazione, ~on essere
es~l~sivista e «aristocratica ». Secondo nOI, questa e una assurdità, quasi una
contra dizione in termini. Non. pensiamo. a .ch~usure artificiali, ma
escludiamo qualsiasi concessione che implichi una caduta di livello. Le
preoccupazioni «sociali» debbono essere estranee ad una vera cultura di Destra,
il che non equivale affatto a chiudersi in un individualismo sul tipo di quello
fin de siècle. Certe posizioni debbono essere mantenute, nel senso di «presenze»
e di testimonianze. La loro possibile influenza non dipende da chi le difende -
da un loro «darsi da fare» - ma dagli altri. Come secondo la funzione
attribuita da Iulien Benda ai clercs prima del loro «tradimento », si tratta
essenzialmente di stabilire delle distanze, dovessero pur essere distanze da
«convitati di pietra ». La prima distanza è quella fra «essere» e « benessere»
e quella fra la cultura nel senso caratteriale e esistenziale dianzi indicato,
t! il vivere alla giornata, sbandati, alla mercè delle suggestioni, delle
ideologie politico-sociali del momento e dei condizionamenti alienanti
dell'ambiente in genere. I! contrasto deve esser fatto risultare mediante la
posizione di un ordine superiore di valori, assai diversi da quelli che il
Marcuse ha saputo proporre ispirandosi pesantemente a Freud, dopo la sua
critica al vigente sistema.
Il
resto, non è affar nostro. Si tratta della sensibilità e della capacità di una
reazione positiva di cui eventualmente lo strato più vasto del pubblico può
ancora essere capace o che in esso può ridestarsi, Un effetto potrebbe essere
la percezione della distanza fra ciò che « è » e ciò che avrebbe diritto ad
essere· se non altro essa varrà ad impedire che non solo si aderisca alla'
realtà di oggi: ma se ne faccia anche l'apologia, la si consideri come ciò che
« deve essere ». Se poi, partendo da questa coscienza - potremmo anche dire: da
questo risveglio - si reagirà, avverrà automaticamente l'apertura a quanto una
cultura di Destra negli altri vari suoi aspetti può offrire. L'azione di questa
azione «anagogica» sarà naturale, diversa da quella diretta di chi fa propria
la formula dell'« impegno» in un senso esteriore, sociale, che finisce con lo
stare sullo stesso piano della democrazia. Essa non comporterà nessuna
menomazione della dignità degli esponenti della cultura in quistione.
L'ambiente
attuale non rende facile concepire tutto ciò. Si può solo aspettare un
cambiamento graduale, pel beneficio non proprio ma degli altri.
Per
ultimo, e non senza una certa relazione con ciò vi è da contestare di nuovo il
carattere di «individualismo» che si vorrebbe attribuire, in questo contesto,
ad una posizione «aristocratica », designazione, questa, che comunque non ci
impaurisce per nulla. Qui non si tratta del campo delle lettere e delle arti,
nel quale, del resto, 1'« ermetismo» a parte, l'individualismo è stato più
creativo di ogni orientamento socialeggiante. Nel campo che invece qui entra in
quistione 1'«aristocraticità» non ha a che fare con l'individualismo, si basa
invece sulla personaltà nelle forme più alte della sua realizzazione e della
sua esplicazione. È curioso che una simile confusione sembra che si sia voluta
farla anche nei confronti delle nostre idee, l'unica scusante a tanto potendo
essere, al massimo, un riferimento in acconcio alla problematica e alla
terminologia di nostre opere abbastanza lontane aventi un carattere assai
tecnico e specializzato, di « gnoseologia ». Ma se si considera tutta la parte
che in quelle nostre opere,. che nel presente contesto possono entrare
sensatamente in acquisizione: è stata data alle idee di autorità e di
gerarchia, e evidente che ci trova fuori da qualsiasi individualismo.
Nello
svolgere alcune considerazioni sul significato europeo che si può attribuire a
Donoso Cortés, interessante figura di uomo politico e di pensatore spagnolo,
che sviluppò la sua attività nel periodo dei primi moti rivoluzionari e
socialisti europei, un noto storico tedesco, Carlo Shmitt, ha rilevato che
mentre da allora le sinistre hanno elaborato sistematicamente e perfezionato
una loro storiografia come sfondo generale per la loro azione distruttiva,
nulla di simile si è verificato nel campo opposto, in quello della Destra, qui
il tutto riducendosi a qualche saggio sporadico in nessun modo paragonabile,
per coerenza, radicalismo e ampiezza di orizzonti, a ciò che in tale dominio il
marxismo e la sinistra da tempo posseggono.
In
gran parte, questo è giusto. In effetti, l'unica storia nota ai più e che fa
testo, esclusa quella d'intonazione marxista, è essenzialmente d'impostazione e
di origine liberali, illuministiche e massoniche. Essa si rifà a quelle
ideologie del Terzo Stato che hanno solo servito a preparare il terreno ai
movimenti radicalisti di sinistra, avendo esse stesse un fondo essenzialmente
antitradizionale. Una storiografia di Destra aspetta ancora di essere scritta,
e ciò costituisce un nostro titolo d'inferiorità rispetto alle ideologie e
all'azione di agitazione delle sinistre. In particolare, alla lacuna non può
supplire nemmeno la cosidetta «storia patria» corrente, perché a parte certe
sue eventuali colorature nazionali e le rievocazioni commosse di avvenimenti e
di figure eroiche, risente essa stessa, in larga misura, delle suggestioni di
un pensiero che non è di vera Destra e, soprattutto, perché non può stare a
confronto, quanto ad ampiezza di orizzonti, con la storiografia di sinistra.
Questo
è il punto fondamentale. Di fatto, si deve riconoscere che la storiografia di
sinistra ha saputo portare lo sguardo sulle dimensioni essenziali della storia;
di là dai conflitti e dai rivolgimenti politici episodici, di là dalla storia
delle nazioni, essa ha saputo scorgere il processo generale e essenziale
realizzatosi negli ultimi secoli, nel senso del trapasso di un tipo di civiltà
e di società ad un altro. Che la base dell'interpretazione sia stata, a tale
riguardo, economicistica e classista, ciò non toglie nulla all'ampiezza del
quadro d'insieme tracciato da detta storiografia. La quale, come realtà
essenziale di là da quella contingente e particolare, ci indica, nel corso
della storia, la fine della civiltà feudale e aristocratica, l'avvento di
quella borghese, liberale, capitalistica e industriale e, dopo di questa,
l'annunciarsi e l'incipiente realizzarsi di una civiltà socialista, marxista e
infine comunista. Qui la rivoluzione del Terzo Stato e quella del Quarto Stato
vengono riconosciute nella loro naturale concatenazione causale e tattica.
L'idea di processi sovraordinati ai quali, senza volerlo né saperlo, hanno
servito gli egoismi più o meno «sacri» dei popoli, le rivalità e le ambizioni
di coloro che hanno creduto di « fare la storia» senza uscire dal campo del
particolare, tale idea viene senz'altro considerata. Si studiano appunto le
trasformazioni d'insieme della struttura sociale e della civiltà che sono
l'effetto diretto del giuoco delle forze storiche, relegando giustamente la
storia delle nazioni nella semplice fase «borghese» dello sviluppo generale.
(In effetti, le «nazioni» non si sono affacciate nella storia come soggetti di
essa che a partire dalla rivoluzione del Terzo Stato e come conseguenza di
essa).
Misurata
con la storiografia di sinistra, quella propria ad altre tendenze appare dunque
superficiale, episodica, bidimensionale, talvolta perfino frivola. Una
storiografia di Destra dovrebbe abbracciare gli stessi orizzonti della
storiografia marxista, con la volontà di cogliere il reale e l'essenziale del
processo storico svoltosi negli ultimi secoli, fuor dai miti, dalle
sovrastrutture ed anche della piatta cronaca. Ciò, naturalmente, invertendo i
segni e le prospettive, vedendo cioè nei processi essenziali e convergenti
della storia ultima non le fasi di un progresso politico e sociale bensì quelle
di un generale sovvertimento. Come è logico, anche la premessa
economico-materialista andrebbe eliminata, riconoscendo come mere finzioni
l'homo oeconomicus e il presunto determinismo inesorabile dei vari sistemi
della produzione.
Forze
ben più vaste, profonde e complesse sono state e sono in azione nella storia.
E, quanto ai particolari, anche il mito del cosidetto «comunismo primordiale»
va respinto, e ad esso va contrapposto, per le civiltà che precedettero quelle
di tipo feudale e aristocratico, l'idea di organizzazioni basate
prevalentemente su un principio di autorità spirituale, sacrale e tradizionale.
Ma, a parte questo, ripetiamolo, una storiografia di Destra riconoscerà, non
meno di quella di sinistra, la successione o concatenazione di fasi distinte
generali, supernazionali, le quali hanno condotto regressivamente fino al
disordine e ai sovvertimenti attuali: e questa sarà, per essa, la base per
l'interpretazione dei singoli fatti e rivolgimenti, sempre attenta all'effetto
da essi prodotti nel quadro complessivo.
Qui
è impossibile indicare, nemmeno con qualche esempio, tutta la fecondità di tale
metodo, la luce insospettata che esso getterebbe su una quantità di vicende. I
conflitti politico-religiosi del Medioevo imperiale, l'azione scismatica
costante della Francia, i rapporti fra Inghilterra e Europa, il vero senso
delle « conquiste» della Rivoluzione Francese e via via fino ad episodi che a
noi interessano particolarmente, come il volto effettivo della rivolta dei
Comuni, il doppio aspetto del Risorgimento quale movimento nazionale, azionato
però da ideologie del Terzo Stato, il significato della Santa Alleanza e degli
sforzi di Metternich - l'ultimo grande europeo -, poi quello della prima guerra
mondiale con l'azione di rimbalzo delle sue ideologie, la discriminazione del
positivo e del negativo nelle rivoluzioni nazionali che ieri si affermarono in
Italia e in Germania, e via dicendo, per giungere infine ad una visione
conforme alla nuda realtà delle vere forze oggi in lotta per il controllo del
mondo - ecco una scelta di argomenti suggestivi, fra i tanti, a cui potrebbe
applicarsi la storiografia di Destra, rivoluzionando le vedute che i più sono
abituati ad avere su tutto ciò per effetto della storiografia di opposto
orientamento, ed agendo in modo illuminante.
Una
storiografia cosi impostata, guardante dunque all'universale, sarebbe poi
particolarmente all'altezza dei tempi se è vero che, per effetto di processi
oggettivi irreversibili, oggi si profilano sempre più schieramenti che non sono
di sole unità etniche e politiche particolari e chiuse. Solo che purtroppo
dall'auspicata storiografia varrebbe unicamente un accrescimento delle conoscenze.
Difficilmente ci si potrebbe aspettare, allo stato attuale delle cose, una sua
efficacia anche pratica ai fini di una azione recisa, di una lotta globale e
inesorabile contro le forze che stanno per travolgere quel poco che ancora
resta della vera tradizione europea. Infatti a tanto occorrerebbe che, come
controparte, esistesse una internazionale della Destra organizzata e munita di
potenza come quella comunista. Ora, purtroppo si sa che per la carenza di
uomini di alta levatura e di sufficiente autorità, per il prevalere di
interessi di parte e di piccole ambizioni, per la mancanza di veri principi e
non per ultimo di coraggio intellettuale, uno schieramento unitario di Destra
finora non è stato possibile costituirlo nemmeno nella sola nostra Italia e che
solo recentemente si sono annunciate iniziative in questo senso.
L'idea
della Destra sta oggi destando un interesse in ambienti abbastanza ampi e vari.
Dato il marasma politico e culturale dell'Italia attuale, ciò è certamente un
sintomo positivo. Però quando un'idea trova un maggiore suolo di risonanza
accade quasi sempre che essa perda la sua determinatezza, e valga più la
formula che non un contenuto preciso. Ciò può dirsi anche per l'idea della
Destra, specie quando essa viene riferita ad un piano che non è solamente
quello originario, ossia il piano politico, ma viene considerato un
atteggiamento generale.
In
questo contesto un problema che può rivestire un interesse speciale è quello
dei rapporti fra il concetto di Destra e il concetto di Tradizione. Su di esso
è necessario portare l'attenzione se alla Destra si vuol dare un contenuto
positivo e non soltanto polemico o oppositivo.
Il
contenuto soltanto polemico della Destra fu implicito nelle origini. Infatti si
sa che la Destra fu cosi chiamata in relazione al posto che nel Parlamento
andarono ad occupare i rappresentanti schieratisi contro gli elementi
rivoluzionari i quali per ciò stesso si trovarono ad essere caratterizzati come
la «Sinistra ». Riferendosi alle assemblee degli antichi regimi, questa
opposizione non era però fra elementi equiparabili. Infatti in genere si
trattava di regimi monarchici, e la Destra non agiva per una causa propria ma
assumeva la difesa dei superiori principi di autorità e di ordine ìnsedìati
eminentemente al vertice stesso dello Stato. Peraltro, in origine, anche la
cosidetta «opposizione» ebbe un carattere funzionale perché nei rappresentanti
di essa era presupposto un lealismo e un cooperativismo - idea, questa,
caratteristicamente espressa dalla formula inglese: His Majesty's most loyal opposition. Solo all'apparire di ideologie
e movimenti rivoluzionari si venne alla definizione di Destra e Sinistra come
schieramenti interamente contrapposti. In questa situazione, alla Destra fu
naturalmente proprio l'assumere un orientamento conservatore.
Con
ciò si delineano già dei concetti essenziali per la problematica complessiva
che qui intendiamo considerare. Col tramonto dell'« antico regime », in parte è
anche venuto meno, o si è fatto incerto, un superiore principio positivo di
riferimento. Già sul piano politico è più facile dire ciò che la Destra non
vuole e combatte, che ciò che essa vuole e vuoI difendere, a tale riguardo
potendosi perfino verificare divergenze di contenuto di non poco momento.
Anche
quando, per estensione, si parla di un orientamento culturale e di una visione
di Destra della vita, la definizione in termini soltanto negativi è la più
agevole, ma essa è evidentemente incompleta. È necessaria l'introduzione di
principi positivi, per dar forza ad una vera antitesi: principi, i quali in ultima
istanza non possono che avere un carattere «tradizionale ». Solo che è d'uopo
precisare come occorra, allora, rifarsi ad un concetto della tradizione,
particolare ed eminente, in relazione al quale non è per un mero risalto
retorico che è divenuto abbastanza d'uso, col delinearsi di una corrispondente
corrente di pensiero, scrivere la parola Tradizione con la maiuscola.
Infatti,
un tradizionalismo generico a carattere empirico o soltanto storico non basta.
Ma spesso non è di altro che si tratta, nelle Destre politiche. Abbiamo
accennato esser naturale che queste siano «conservatrici », e come tali sono
anche «tradizionali », rifacentisi, cioè, ad un sistema dato di principi e di
istituzioni che si vuole mantenere o tutelare. A questo livello si resta
evidentemente nel campo della fattualità ed anche della relatività, il
riferimento essendo caso per caso a quel che si è avuto semplicemente in
retaggio ed a cui solamente in quanto tale si attribuisce un valore, la qualità
di cosa da conservare e da preservare.
Però
è possibile una concezione più ampia ed elevata, prendendo come riferimento
valori costanti di natura universale. Sono tali valori a poter fornire un
contenuto positivo ad una vera Destra. In tale accezione il concetto di
Tradizione si applica ad un sistema in cui «tutte le attività sono ordinate, in
via di principio, dall'alto e verso l'alto».
Di
conseguenza, per una Destra «tradizionale» il presupposto naturale e
fondamentale appare essere l'ammissione della realtà di un ordine superiore avente
anche un carattere deontologico, ossia normativo. Anticamente, si poté parlare
di un sovramondo opposto al mondo del divenire e della contingenza. In seguito,
la base poté essere la religione. In questo caso si presenta, però,
l'eventualità di condizionamenti limitatori, quando esista una religione
positiva istituzionalizzata, una Chiesa, col pericolo pratico che essa allora
si monopolizzi l'autorità spirituale (è l'orientamento che storicamente provocò
la «contestazione» ghibellina). COSl è preferibile tenersi ad un piano più
neutro, far vedere solo subordinatamente riferimenti di un carattere
strettamente religioso e usare piuttosto il concetto di una « trascendenza ».
Una trascendenza, rispetto a tutto ciò che è semplicemente umano, fisico,
naturalistico e materialistico, ma non per questo equivalente a qualcosa di
distaccato e di astratto, tanto che, quasi paradossalmente, si potrebbe parlar
di una «trascendenza immanente », perché .ci si deve riferire anche ad una
forza reale formatrice, energizzatrice e organizzatrice appunto «dall'alto» e
verso l'alto. In ciò si potrebbe indicare il punto di riferimento ultimo
dell'orientamento tradizionale, di là da ogni sua espressione e
concretizzazione particolare.
Conseguentemente,
lo sfondo per una Destra avente anche un contenuto «tradizionale », e per ogni
corrispondente visione del mondo e della vita, dovrebbe avere un analogo
carattere: dovrebbe essere uno sfondo spirituale. Comunque, solo tenendosi a
questo piano si può dare un fondamento ed una legittimazione superiori ad ogni
particolare posizione di una Destra tradizionale. Questa non potrà essere che
gerarchica e aristocratica, non potrà non porre ben differenziate gerarchie di
valori e non affermare il principio dell'autorità, non potrà non opporsi al
mondo della quantità, della massa, della democrazia, dell'economia sovrana, non
potrà non dare risalto a ciò per cui merita veramente impegnarsi e subordinare
assolutamente il proprio interesse particolare per avere una virtù anagogica,
ossia indirizzante verso l'alto (il «verso l'alto» come controparte del
«dall'alto»): appunto in base ad un ancoramento nell'« altro », in quella
realtà sovraordinata. È stato giustamente osservato che la personalità in senso
eminente non esiste quando essa non sia aperta al sovrapersonale, e proprio
questo corrisponde allo spirito e al clima della Tradizione.
Certo,
per la formazione di una Destra che abbia tali valenze, che dunque non si
esaurisca in mere posizioni politico-sociali, perché queste dovrebbero
definirsi e valere solo in via consequenziale, sarebbe richiesto un grande
lavoro di demolizione e occorrerebbero vocazioni e qualificazioni oggi non
facili da trovare. È anche necessario del coraggio, in alcuni casi non soltanto
intellettuale. A tale stregua potrà verificarsi perfino una convergenza
paradossale, la convergenza di tradizionalità e rivoluzione. Del resto,
«rivoluzione conservatrice» non è un termine nuovo; questa è stata anche la
designazione di una interessante corrente politico-culturale della Germania
pre-nazista, la conservazione qui non essendo stata riferita a nulla di
fattuale bensf a idee di base aventi una perenne attualità (Moller van den
Bruck). Rispetto a ciò che oggi esiste come civilizzazione e società moderne,
si può effettivamente dire che nulla abbia un carattere rivoluzionario quanto
la Tradizione, a tale riguardo trattandosi, propriamente e hegelianamente, di
una «negazione della negazione », la seconda essendo quella che, grazie al
«progresso », dissacrando tutto, sovvertendo ogni ordine normale, ci ha
condotti dove oggi ci troviamo. Questa negazione è da negare. Cosi per la
Destra tradizionale potrebbe anche valere una ulteriore parola d'ordine:
«rivoluzione dall'alto» - è l'opposto di tutte le velleità contestatarie
anarcoidi di oggi le quali si risolvono in un'agitazione vana o insana perché
manca una controparte positiva, che i loro esponenti sono incapaci perfino di
concepire, quand'anche non si trovino, apertamente o inconsciamente,
nell'orbita delle ideologie di sinistra o dalla sinistra non vengano
strumentalizzati.
Portando
lo sguardo su ciò che riceve o che ha ricevuto la designazione di Destra, in
base a quanto si è detto appaiono necessarie alcune messe a punto. Si è potuto
parlare di una Destra nei termini di uno schieramento economico pru o meno
associato al capitalismo, il che ha servito da comodo bersaglio al marxismo e ad
altre forze della sovversione. È evidente, a questo riguardo, una deprecabile
caduta di livello, anche se si deve riconoscere che in questo stesso dominio
materiale esistono delle strutture da conservare e da difendere. Più in
generale, vi è una Destra definita prevalentemente dall'orientamento
conservatore di una cIasse media borghese, del che è stato particolarmente il
caso in Italia. Invece, in altre nazioni, i punti di riferimento riconducono,
in parte, al più alto livello dianzi accennato. La Destra tradizionale francese
è stata essenzialmente cattolica e monarchiea, sebbene vi siano state delle
riserve nei riguardi di certo cattolicesimo, sul genere di quello di uno
Charles Maurras, quando ci si è riferiti a tale religione per quel che riguarda
lo sfondo non soltanto politico della Destra.
Una
specie di mistica della monarchia è implicita nella Destra dei Paesi
anglosassoni, nel qual caso risultando inoltre la non necessità di riferirsi al
solo cattolicesimo, il protestantesimo ha potuto parimenti valere come punto di
riferimento. Il protestante Bismarck fu un esponente precipuo della vera Destra
non meno del cattolico Metternich e dei cattolici De Maistre e Donoso Cortés.
Sulla linea del prussianesimo devesi però rilevare una certa involuzione secolare,
nel senso che il riferimento a qualcosa di trascendente è velato; qui, in primo
piano, si trova una specie di . etica autonoma, una tradizionale, congenita
formazione caratteriale avente in apparenza una forza propria, ma che in fondo
- nel risalto dato a ciò che è superpersonale - non saprebbe davvero
giustificarsi se non fosse, per cosi dire, un derivato di un precedente
orientamento non privo di uno sfondo spirituale (si può ricordare che il
prussianesimo con la sua etica è nato come una secolarizzazione dell'ordine dei
Cavalieri Teutonici).
Di
Destra, talvolta, si parla anche riferendosi a sistemi politici di tipo
«fascista ». Però a tale riguardo si debbono formulare delle riserve.
Giustamente in un gruppo di saggi dedicati alle Destre europee (The European
Rigbt, a cura di H. Rogger e E. Weber, University of California Press, 1966) è
stato rilevato che questi sistemi non possono venir chiamati di Destra nel
senso antico e tradizionale del termine, che essi sono piuttosto caratterizzati
da una mescolanza della Destra con la Sinistra perché, se da un lato hanno
difeso il principio dell'autorità, dall'altro si sono basati su partiti di
massa ed hanno incorporato istanze «sociali » e rivoluzionarie proprie alla
Sinistra, istanze contro le quali gli uomini di una vera Destra avrebbero preso
certamente posizione. Più in generale, è una distorsione attribuire il
carattere di una Destra a una dittatura, una dittatura come tale non avendo una
tradizione, essendo una costellazione informe della potenza in una data
individualità (qui si ha in vista la dittatura come tipo di costituzione, non
già come qualcosa di transitorio imposto da situazioni di crisi o di
emergenza). Il Principe di Machiavelli non incarna nulla che si possa dire di
Destra, in lui avendosi anzi una inversione dei rapporti perché se il capo
machiavellico può anche rifarsi a valori spirituali o religiosi, egli lo fa
unicamente assumendoli come semplici mezzi utili al suo governo, senza nessun
intrinseco riconoscimento. Cosi il discorso potrebbe estendersi a quei
principi, eventualmente d'ordine superiore, che nel quadro dei totalitarismi
dittatoriali possono tuttavia venire usati sotto le specie di semplici «miti »,
ossia avendo esclusivamente in vista formulazioni che li rendano atti a
suscitare o canalizzare le forze irrazionali delle masse. Che Destra e
demagogia siano inconciliabili, ciò non occorre sottolinearlo.
Tutte
queste osservazioni confermano l'importanza della connessione, in precedenza
indicata, fra la vera Destra e la Tradizione.
Dopo
quanto si è detto, se si dovesse concepire una «cultura di Destra », essa
dovrebbe riconoscere come uno dei suoi compiti precipui il mettere in evidenza
i valori della Tradizione, prendendo distanza, nel contempo, da ogni
orientamento soltanto « tradizionalistico », cioè, in fondo, conformistico. Il
campo della cultura di Destra sarebbe assai ampio. La storiografia e la
morfologia delle civiltà dovrebbero avervi una parte importante, perché,
respinta ogni storiografia a tendenza liberale, marxista e progressista, si
tratterebbe di evidenziare sistematicamente tutto ciò che in precedenti periodi
ha incarnato principi tradizionali e, a dir vero, cosi che ne risulti in prima
Iinea il carattere paradigmatico. In questo senso contributi validi sono stati
già forniti soprattutto dalla corrente facente capo a René Guénon, vero maestro
dei tempi moderni. Nei limiti delle nostre possibilità, noi stessi ci siamo
dedicati a un non diverso compito, in quanto nella prima parte della nostra
opera Rivolta contro il mondo moderno (1934; 3a ed. 1969) abbiamo abbozzato, in
base ad una ricerca comparativa, una specie di «dottrina delle categorie» del «Mondo
della Tradizione».
Una
volta fissati saldi punti di riferimento assiologici, il compito di una cultura
di Destra sarebbe anche lo studiarne possibili applicazioni con riferimento
allo stato attuale delle cose. Il pericolo di un conservatorismo sclerotico
dovrebbe essere superato con l'adottare il principio dell'omologia. Omologia
non significa identità ma corrispondenza, non riproduzione puntuale ma
trasposizione e riaffermazione di stessi principi formali da un livello ad un
altro, da un complesso situazionale ad un altro - a voler usare una imagine,
come in una corrente, obbedendo ad una stessa legge, un vortice sparito ad un
dato punto di essa torna a formarsi in un altro punto: uguale e nel contempo
diverso, appunto perché è in qualcosa che fluisce - come il tempo, come la
storia - che questi vortici prendono forma.
Questa
indicazione metodologica generale può venire concretizzata nella considerazione
dei diversi campi dei problemi che una cultura di Destra dovrebbe affrontare,
in modo da costruire un insieme di schemi validi anche per la prassi.
L'importante, qui, è mantenere la linea, non cedere alla tentazione di posizioni
accomodanti, come tali atte ad assicurare un più ampio, ma meno selezionato,
suolo di risonanza - ricordando che non si lavora solo per l'oggi ma anche e
soprattutto per il domani, qui potendocisi riferire allo stesso detto di Hegel:
«L'Idea non ha fretta ».
Queste
considerazioni non sono superflue perché una certa voga che, come rilevammo al
principio, oggi sembra avere l'idea della Destra, ha spesso portato ad
etichettare come di Destra atteggiamenti assai diversi e perfino spuri, in ogni
caso attestanti assai poco una linea rigorosa e coerente di pensiero; linea,
che è necessaria quando non si tratta di improvvisazioni e nemmeno ci si limita
a posizioni politiche ma si vuol definire anche un orientamento esistenziale e
culturale generale.