Cohn Processo e morte di Gesù |
Prefazione di Gustavo Zagrebelsky
Capitolo secondo: Il Sommo Sacerdote, gli Anziani, i
Dottori della legge e il Gran Sinedrio
Capitolo quinto: In casa del Sommo Sacerdote
Capitolo settimo: La flagellazione
Capitolo ottavo: La crocifissione
Capitolo decimo: “Il suo sangue ricada sopra di noi e
sopra i nostri figli”
Capitolo undicesimo: Gli atti di Pilato
Capitolo dodicesimo: Fonti non cristiane
Capitolo tredicesimo: La perversione del diritto
Postfazione di Christian Wiese
PREFAZIONE DI GUSTAVO ZAGREBELSKY
La opinione comune degli storici cattolici
si può esprimere così: si è trattato di una condanna di un uomo che si era
dichiarato innocente, ma non di un errore giudiziario o di un processo
ingiusto.
Il procedimento davanti al Sinedrio e
quello davanti al governatore romano sono distinti, riguardando materie
diverse. Nel primo la accusa è di blasfemia ed esaurisce i suoi effetti
nell'ambito religioso, potendo condurre solo a una dichiarazione di
colpevolezza, perché la condanna e l'esecuzione capitale sono riservate
all'autorità romana.
Davanti a Pilato, l'unica accusa rilevante
è quella di sedizione, secondo la legge romana, ma il governatore non la
considera fondata su prove sufficienti.
Il processo che conduce presenta aspetti
non consueti, ma non sfavorevoli all'imputato: prima della condanna, Gesù è
rinviato alla giurisdizione di Erode; il popolo è messo di fronte alla scelta
tra Gesù e Barabba nella speranza che la scelta cada sul primo e, infine, con
la flagellazione si cerca di commuoverlo, per indurlo a recedere dalla
richiesta della crocifissione. Ma il ricorso demagogico al popolo e al re, cioè
alla politica, si ritorce contro Pilato, il quale, minacciato e rimproverato di
non agire da amico di Cesare, se non condannerà un sedizioso che ha attentato
all'ordine romano in Giudea, alla fine deve cedere alle pressioni, essendo
costretto a pronunciare la sentenza di morte e a disporre l'esecuzione tramite
la crocifissione, una pena romana e non ebraica.
Ci sono alcune divergenze su punti
particolari, per esempio, l'interpretazione del processo di fronte al Sinedrio
come processo giusto è contestata alla luce sia delle narrazione evangeliche di
un precedente complotto ordito per far morire Gesù sia delle conoscenze che
possediamo circa la legge processuale fra risalita del tempo, legge che si
presume - ma non da tutti - essere quella loro applicabile.
Taluno, poi, nega che si sia trattato di un
processo, ritenendo piuttosto che il Sinedrio abbia condotto un'indagine
preliminare al fine di raccogliere prove e per alimentare il processo davanti a
Pilato. Da altri si dubita della esistenza del privilegio che consentiva di
sostituire Barabba a Gesù.
Ma c'è un largo consenso su punti seguenti;
ci furono due processi: uno, ebraico e l'altro, romano aventi due soggetti
distinti, la blasfemia e la ribellione. Entrambi si conclusero con una sentenza
di morte. Il processo romano però, non fu indipendente, derivando da quello
ebraico: gli Ebrei essendo a quell'epoca privi del potere di eseguire la
condanna che avevano pronunciato, dovettero per questo rivolgersi all'autorità
romana di occupazione per ottenere una sua pronuncia. Il procedimento romano fu
perciò messo in moto dagli Ebrei che avevano deciso che Gesù dovesse morire e
quindi, senza l'iniziativa ebraica, non ci sarebbe stato. Pilato agì a favore
di Gesù, essendo convinto della sua innocenza, e, per salvarlo o per evitare la
responsabilità di condannarlo, tentò vari espedienti, tutti falliti, come la
flagellazione per muovere a pietà gli Ebrei, il trasferimento del processo
presso il re Erode, la scelta tra Gesù e Barabba. La condanna, alla fine, fu
strappata Pilato con un argomento che non era una prova giudiziaria ma un
ricatto politico: se liberi costui, non sei amico di Cesare.
L'autore esamina l'attendibilità come
documenti storici del materiale a disposizione. Le discrepanze e contraddizioni
non vengono attutite, col metodo della concordanza, vengono invece messe in
risalto al fine della selezione delle tradizioni plausibili, di quelle
implausibili o di quelle più plausibili di altre.
Trova poi applicazione il metodo della
contestualizzazione, consistente nell'incentrare l'analisi dei materiali di
informazione storica sulla loro attendibilità alla luce dell'ambiente
culturale, religioso e politico nel quale e per il quale i i Vangeli sono stati
iscritti, e sulle finalità che muovevano gli Evangelisti. Questo porta a
rigettare come prive di attendibilità sul piano storico quelle tradizioni che,
nel contesto in cui sono venute a formarsi, appaiono dettate da cause o da fini
esterni sopravvenuti, che alterano il carattere dei Vangeli come documentazione
storicamente attendibile.
La rivalutazione di un Gesù ebreo
praticante può portare a una riappropriazione ebraica. Gesù non sarebbe un
soggetto cristiano e i cristiani non potrebbero dirsi credenti nella religione
di Gesù. Le basi del cristianesimo sarebbero state poste dopo la morte di Gesù,
per creare una religione monoteistica universale e diffonderla nel mondo
ellenistico dei Gentili, secondo il progetto della predicazione di Paolo di
Tarso. Il cristianesimo non sarebbe stata la religione di Cristo, ma una
religione attribuitagli e affermatasi come una religione che parla di lui.
Una minoranza di ebrei ritiene che Cristo
abbia significato per l'ebraismo stesso, alla luce della sua concezione del
ruolo di Dio nella storia del suo popolo, che una fede come quella cristiana
sia sorta dal suo interno, come da una sua costola, propagatasi nel mondo.
Secondo alcuni teologi cristiani l'Antica
Alleanza non è mai stata revocata. Da ciò consegue che la nuova alleanza
stabilita da Cristo non scalza quella precedente con Israele, come era
sostenuta invece dalla tradizionale “teologia della sostituzione” o della
“disgregazione” o del “ripuDio", secondo la quale l'elezione di Israele
sarebbe passata alla Chiesa. Due sono dunque i popoli eletti, e ciascuno di
essi deve trovare il posto che gli compete nell'unico disegno provvidenziale.
L'immagine di San Paolo dei rapporti tra la Chiesa e l'ebraismo è quella
dell'olivastro (la Chiesa) innestato sull'ulivo della fede ebraica: senza
questa radice viva, nemmeno la chiesa di Cristo vivrebbe. Di frequente si fa
valere il "mistero", indicato da Paolo (Romani 11.25), che avvolge il
rapporto tra Israele e il Cristo e: la sua soluzione sta nel grembo di Dio che
non è dato all'uomo di penetrare e appartiene “al tempo della fine e coinciderà
con qualcosa di paragonabile a una resurrezione dei morti (Romani 11.15)
Secondo l'opinione tradizionale, Gesù è
“sasso di inciampo”e “pietra di scandalo” in Sion.
La ragione per cui i cristiani di oggi e si
sentono responsabili di atti compiuti da altri cristiani in epoche lontane
(persecuzioni antiebraiche) è la dottrina del corpo mistico, una tipica
dottrina organica, basata sulle affermazioni di San Paolo, il quale si esprime
con immagini usuali nell'antichità (l'apologo di Menenio Agrippa contiene
espressioni simili). Anche per la fede ebraica il principio generale è che il
patto venne stabilito non tra Dio e alcuni soggetti (Abramo...) ma tra Dio e
tutte le generazioni successive, di modo che la colpa del deicidio ricade su
tutti gli Ebrei. Basterebbe un solo ebreo a rendere colpevole tutte le
generazioni successive. Nel momento in cui la Chiesa assolve gli Ebrei
perché le colpe dei padri non possono
ricadere sui figli, essa disconosce un punto fondamentale della propria
teologia.
Dopo l'eccidio degli Ebrei durante la
seconda guerra mondiale si riconosce che esistono fondamenti teologici e che
sono corresponsabili della formazione nel l'Europa cristiana dell'humus sul
quale la persecuzione degli Ebrei, fino al genociDio, ha potuto attecchire.
Nessuno ormai contesta seriamente che gli
autori dei Vangeli non disponevano di dichiarazioni rese da testimoni oculari
presenti alle singole tappe della cattura, del processo e della crocifissione
di Gesù, i quali abbiano lasciato un resoconto diretto. All'inizio del Vangelo
di Luca è scritto che gli avvenimenti sono narrati “come ce li hanno trasmessi
coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della
parola ". Giovanni afferma “chi ha visto né dà testimonianza e la sua
testimonianza è vera e egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate
".
Ma secondo l'autore queste attestazioni
sono troppo imprecise per avere una qualsiasi forza probante. Pietro, avendo
rinnegato Gesù, non può essere preso in considerazione come testimone. Del
processo non si fece alcun verbale ufficiale e, anche se una qualche
documentazione fu compilata, nulla né è rimasto. Non solo non esiste alcuna
somiglianza tra i racconti evangelici e le dichiarazioni di testimoni, ma essi
non possono nemmeno pretendere la credibilità che al giorno d'oggi si assegna
normalmente alla versione dei fatti di un cronista giudiziario presente
processo . Scrivendo il loro racconto sul processo di Gesù gli Evangelisti non
volevano offrire un materiale storico, ma trasmettere un messaggio religioso.
C'è motivo di supporre che perseguissero uno scopo non solo teologico ma anche
apologetico.
Il vangelo più antico, quello di Marco, fu
redatto tra il 70 e il 72 della nostra era, circa quarant'anni dopo il processo
e la crocifissione. Quello successivo, il Vangelo di Luca, fu scritto attorno
all'85, mentre il Vangelo di Matteo è generalmente datato attorno all'anno 90 e
quello Di Giovanni attorno al 110.
Le prime comunità cristiane lottavano
disperatamente per farsi accettare dai Romani. I cristiani erano malvisti perché
si rifiutavano di adorare l'imperatore; perché adoravano un Dio invisibile;
perché adoravano un malfattore condannato dai tribunali Romani. Se si fosse
potuto dimostrare che il governatore romano a Gerusalemme si era persuaso della
fedeltà alla legge e del carattere inoffensivo dell'opera e della dottrina di
Gesù, non si sarebbe potuto dare alcuna ragionevole giustificazione alla
persecuzione dei cristiani. Solo gli ebrei-cristiani potevano accettare la
gloria del martirio di un uomo condannato da tribunali Romani. I
pagani-cristiani sarebbero rimasti perplessi. Così, per riguardo ai
pagani-cristiani era necessario lavare da ogni colpa il governatore romano e
rappresentare la fede in Cristo come del tutto compatibile con la lealtà nei
confronti di Roma e con la fiducia nella giustizia romana. È possibile che gli
Evangelisti sentissero che il loro compito era di far di tutto per preservare
la loro fede dall'annientamento.
L'autore ammette che agli Evangelisti i
fatti fossero stati raccontati o essi li avessero ricopiati da testi anteriori.
Gli Evangelisti descrissero in realtà
l'atteggiamento dei rabbini del loro tempo nei confronti del cristianesimo,
quando questo era diventato una dottrina in pericolosa concorrenza e di
crescente popolarità, che stava precisando i propri presupposti teologici in
contrasto con quelli dell'ebraismo. Al tempo di Cristo un simile atteggiamento
non era verosimile.
Gli stuDiosi hanno cercato a lungo
tradizioni orali o scritte che siano state alla base delle narrazione evangeliche.
Oggi appare “abbastanza sicuro” che i Vangeli siano stati preceduti da “alcuni
resoconti scritti, più o meno frammentari, della tradizione evangelica ".
Luca attesta che “molti hanno posto mano a stendere un racconto degli
avvenimenti successi tra di noi ". Ma, secondo l'autore, dei diversi
resoconti si sono conservati solo quelli dei quattro Evangelisti e non sappiamo
se gli altri furono precedenti a quelli e si abbiano fornito loro materiale
documentario autentico. Generalmente si accetta l'idea che sia esistita una
raccolta di detti di Gesù (la cosiddetta “logia ") e che essa fosse a
disposizione quanto meno di Luca e Matteo. Si anche tentato di ricostruirlo,
tuttavia le massime che in essa furono recepite non poterono essere poste in
alcun rapporto con i racconti del processo di Gesù e della crocifissione. Per
quel che riguarda il processo, l'esistenza e i contenuti di una qualche
letteratura anteriore all'anno 70 restano una pura supposizione.
Il metodo di ritenere basati su materiale
autentico i resoconti concordanti o i resoconti e gli avvenimenti presentati in
circostanze date e conosciute può essere ribaltato, cioè usato per provare che
resoconti discordanti o avvenimenti presentati nel quadro di circostanze
implausibili non sono autentici. Comunque i contrasti tra gli Evangelisti,
molto numerosi nel caso della morte e del processo di Gesù, rendono difficile
l'applicazione del primo criterio.
Esegeti biblici ed esperti di critica
testuale pretendono di essere in grado di distinguere ciò che è attendibile da
ciò che non lo è, rigettando interpretazioni che ritengono falsificazioni
testuali e interpolazioni. L'autore, invece di fare affidamento su questa o
quella teoria esegetica trae vantaggio piuttosto dal beneficio del
non-specialismo e si sforza di esaminare obiettivamente ogni versione, in modo
da non trascurarne alcuna, anche se contestabile.
I fatti sui quali gli Evangelisti
concordano sono i seguenti: Gesù fu arrestato di notte; alcuni ebrei erano
presenti all'arresto e vi hanno collaborato; dopo l'arresto, Gesù fu condotto
nella casa del Sommo Sacerdote; il mattino seguente, gli Ebrei lo consegnarono
a Ponzio Pilato; alla domanda di Pilato: “sei tu il re degli Ebrei ", egli
rispose: “tu lo dici” (oppure: “Tu dici che io sono un re "); Pilato lo
“consegnò” per la crocifissione; egli fu crocifisso da soldati Romani insieme
ad altri due condannati e un'iscrizione con le parole “Re dei giudei” fu
affissa alla croce. La nostra indagine mostrerà che queste tradizioni
rispondono anche al secondo criterio: ciò che narrano è obiettivamente
plausibile.
Accettare la storicità di Gesù non è in
contraddizione con l'idea dell'insufficienza e perfino dell'inattendibilità di
una gran parte delle fonti. All'autore non interessa tanto la questione della
storicità degli avvenimenti, quanto quella della forza probante della
tradizione. Analogamente, credere nella non storicità non è una conseguenza
necessaria o inevitabile della ammissione che le fonti con le quali abbiamo a
che fare non sono autentiche e attendibili.
La forza probatoria delle scritture deve
derivare non solo dalla sezione di un evento ma anche del perché
Dopo la morte di Erode gli Ebrei non videro
di buon occhio il fatto che, mentre altri territori vennero dati a Re ebrei
vassalli di Roma, la Giudea fu sottoposta a un comandante romano, probabilmente
in quanto focolaio di continue agitazioni. Essi considerarono questo fatto come
una intollerabile profanazione del territorio sacro di Gerusalemme.
I governatori Romani si preoccuparono di
reprimere rivolte e di sfruttare spietatamente la popolazione per il proprio
arricchimento tramite tasse esose. I Romani non erano solo considerati impuri e
ignoranti delle leggi sulla purificazione; essi erano piuttosto l'incarnazione
vivente dell'idolatria, della dissolutezza, del materialismo, della sensualità,
della violenza e della tirannia: di tutto ciò che era contrario allo spirito
ebraico. Nei confronti dei pubblicani ebrei e dei funzionari Romani c'era
l'ostracismo e la paura di contaminarsi.
Le fonti descrivono Pilato come brutale,
crudele, abituato a ricorrere a stratagemmi, avente in odio e in dispregio gli
Ebrei.
La politica romana nei confronti di
Gerusalemme fu spietata: Tiberio soppresse il culto ebraico, obbligò tutti gli
appartenenti al culto a bruciare i loro paramenti sacri e gli altri arredi
rituali; col pretesto del servizio
militare disperse i giovani ebrei in province dal clima insalubre e allontanò
da Roma gli Ebrei. In realtà questo atteggiamento fu tenuto contro altri culti
stranieri. Per arricchire se stesso Tiberio fece espropriare gli uomini
eminenti della Gallia e della Spagna e, della Siria e della Grecia. Tiberio si
distinse nell'applicazione della legge sulla offesa alla maestà imperiale (crimen
laesae maiestatis), là dove era in gioco il proprio onore. Chi criticava
una dichiarazione o una azione dell'imperatore veniva giustiziato. Secondo
l'autore testimonianze storiche mostrano che Seiano, onnipotente ministro di
Tiberio, mandò Pilato allo scopo di distruggere il popolo ebraico. Pilato seguì
fedelmente i principi politici di Tiberio in relazione al crimine di lesa
maestà imperiale.
Certamente le colpe non erano tutte da un
lato o dall’altro: l'atteggiamento degli Ebrei esasperava il governatore e di
riflesso il comportamento del governatore esasperava ulteriormente gli Ebrei.
Tutto ciò che noi sappiamo di Pilato e del
suo imperatore conferma che un ebreo che avesse osato ricordare al governatore
i suoi doveri dichiarandosi più patriottico di lui, come il Vangelo dice che
fecero i capi dei sacerdoti chiedendo la morte di Gesù, non avrebbe avuto altre
ore di vita. Del resto, questo è affermato solo dal Vangelo Di Giovanni, e non
dai Vangeli Sinottici.
Nei Vangeli nulla indica che
l'atteggiamento di Gesù nei confronti dei Romani si differenzia da quello della
generalità degli Ebrei: la sua risposta “date a Cesare quel che è di Cesare...”
sembra all'autore quella di un ebreo di buonsenso, ammirata dagli altri Ebrei
che gli avevano posto la domanda.
Dice l'autore “in realtà le sue profezie
messianiche sul regno di Dio erano solo una risposta ai sospiri e agli aneliti
di un popolo duramente provato “
CAPITOLO SECONDO: IL SOMMO SACERDOTE, GLI ANZIANI, I DOTTORI
DELLA LEGGE E IL GRAN SINEDRIO
I Romani si arrogarono ben presto il
diritto di nominare i sommi sacerdoti e di revocarli. E’ molto probabile che in
queste condizioni I sommi sacerdoti pagassero la loro carica. Essi appartenevano
alle ricche famiglie dei Sadducei, erano odiati dalla gran parte del popolo,
erano purtuttavia gli unici intermediari con cui i Romani trattavano.
Come capo religioso, era inconcepibile che
il Sommo Sacerdote non presiedesse il Sinedrio
Alcuni stuDiosi negano che quello convocato
da Caifa fosse il gran Sinedrio dei 71, composto da tutti i capi dei sacerdoti,
dagli anziani e dagli scribi, “dal quale promanava la scienza del diritto per
l'intero Israele”
Nel Sinedrio c'erano tre gruppi: i capi dei
sacerdoti, principalmente Sadducei, il cui prestigio era in declino; i
rappresentanti delle famiglie aristocratiche; gli scribi o “saggi ", che
erano Farisei, il cui prestigio era in crescita. L'opinione pubblica era
antiromana e profarisaica. I Farisei complicavano molto la lettera della legge
con interminabili discussioni, ma erano poveri, prudenti, retti, e soprattutto
ben voluti in quanto ritenuti veri patrioti ebraici.
Il Sommo Sacerdote doveva conquistare la
collaborazione della maggioranza dei Farisei e nei Sinedrio. Per prima cosa
egli non poteva giuridicamente andare contro le decisioni della maggioranza; in
secondo luogo i Romani si aspettavano che lui avesse influenza tra la sua gente
e lui era consapevole che i Farisei godevano della stima del popolo; in terzo
luogo era fiducioso di poter corrompere i Sadducei, e considerava che in realtà
la difficoltà stesse nel convincere i Farisei.
Farisei e Sadducei erano certamente
d'accordo nel difendere le attribuzioni del Sinedrio e nell'impedire che i
Romani le riducessero ancora. Il Sinedrio era pienamente sovrano su questioni
religiose e sulla polizia del Tempio.
Non è vero che i Romani avessero sottratto
completamente la giurisdizione penale agli Ebrei. La giurisdizione non era
esercitata dal grande Sinedrio dei 71, ma dal piccolo Sinedrio dei 23; il
grande Sinedrio aveva legislazione completa civile penale e religiosa, e in più
si riuniva per gli affari politici di grande importanza. La riunione nel caso
di Gesù sembra una riunione per affari politici di grande importanza. Il
piccolo Sinedrio poteva condannare per delitti previsti dalla legge ebraica, i
quali i normalmente non erano delitti per la legge romana, come idolatria e
profanazione del Tempio. I magistrati Romani potevano giudicare e condannare
per delitti previsti dalla legge romana come sedizione e crimine di lesa
maestà, che erano delitti non contemplati dalla legge ebraica. Delitti come
omicidio e furto, contemplati dalle due leggi erano normalmente puniti dal
giudice della nazionalità dell'interessato, ma, come mostra la storia di San
Paolo e questi si poteva sempre rivolgere al magistrato romano, o dal giudice
ebreo, se il magistrato romano decideva di lasciargli il caso. I giudici
ebraici, nell’esercizio delle loro funzioni,
potevano legittimamente condannare ed eseguire la condanna a morte.
Queste argomentazioni sono contestate dai
chi afferma che i Sinedrio e i sommi sacerdoti fossero simili a criminali
comuni, e quindi riferirsi a regole giuridiche per ricostruire la storia non è corretto.
In realtà le fonti che dimostrerebbero la corruzione e la brutalità dei capi
ebraici nei confronti della loro stessa gente risalgono all'anno 60, in cui la
situazione era del tutto diversa da quella esistente durante il tempo in cui
Pilato era in carica. È necessaria cautela nel vagliare le fonti che
dimostrerebbero queste affermazioni, per l'ovvia situazione di disprezzo, da
parte del popolo, dei capi dei sacerdoti nominati da Roma. Come in tutti i
paesi occupati da una potenza nemica in tutte le epoche della storia, in quel
tempo anche in Giudea c'erano traditori e collaboratori. Non c'è nessuna
traccia di una prova per incolpare Caifa di essere stato un traditore come pure
nessuno degli ebrei coinvolti nella storia della Passione di essere stato
agente di Roma. In realtà nei Vangeli ci sono alcuni accenni di segno opposto.
Caifa e il Sinedrio dovevano trovarsi
d’accordo nel preservare l’autonomia e le istanze nazionali e religiose
ebraiche
Non c’era alcun motivo di contrasto coi
Farisei; Gesù insegnava in loro presenza nelle sinagoghe. Episodi come quello
della g guarigione di sabato, o del fatto che i discepoli non digiunassero mostrano che i Farisei si aspettano che
Cristo segua la legge farisaica e rimangono convinti dalle sue argomentazioni,
condotte sulla base della legge farisaica. L’”ira” e il “complotto” dei Farisei
per la guarigione dell’idropico sono fantasie degli evangelisti. Le mancate
repliche da parte dei Farisei rivelano piuttosto che essi erano d’accordo con
le risposte date da Cristo alle loro osservazioni o domande.
In realtà molti detti di biasimo di Cristo,
che secondo gli evangelisti erano rivolti ai Farisei erano rivolti
genericamente al popolo, e un pio fariseo non avrebbe fatto a meno di
sottoscriverli.
I Farisei avevano una certa invidia per le
guarigioni di Cristo, ma nessuno si sarebbe sognato di mettere in dubbio la
legittimità di una guarigione di persone che avevano malattie non naturali,
mandate da Dio: guarirle equivaleva a mostrarsi strumento del perdono di Dio.
“Ti sono rimessi i peccati“ sarebbe la asserzione che Dio ha revocato la pena e
perdonato il peccatore
Quando Cristo afferma che non resterà
pietra su pietra del Tempio si allinea alle lamentazioni dei profeti nei
momenti in cui il popolo ebraico è punito da Dio con la servitù per la sua
malvagità
Il “Tempio” in cui Gesù rovesciò i banchi
era una vasta area che comprendeva un bazar fuori del Tempio. Nel bazar
dovevano vendersi animali e materiali senza difetto per i sacrifici; Gesù può
aver visto un affare illecito o un mercante che contrattava fin nel recinto del
Tempio, dove era vietato introdursi se non per scopi di culto e ben purificati.
Il suo sdegno può essere stato approvato dai sacerdoti e dai clienti. Non ha
fondamento dire che i sacerdoti avevano paura di perdere i loro “traffici”,
perché non è plausibile che avessero una percentuale o coinvolgimento nei
traffici. Del resto Gesù era normalmente ammesso al Tempio come rabbi
(maestro).
Le autorità del Tempio sono preoccupate per
il fatto che per “insegnare con autorità” Cristo avrebbe dovuto avere una
investitura da uno che era a sua volta maestro, ma non l’aveva. Egli potrebbe
aver rivendicato una successione da Giovanni Battista e come quello una
autorità proveniente dal Cielo. Ma neanche questo poteva scandalizzare le
gerarchie ecclesiastiche. Era tradizione nelle dispute farisaiche che si
invocasse un segno o voce dal Cielo. Non era raro che farisei ostinati
rifiutassero il segno celeste dicendo che “la
parola di Dio è nella bocca e nel cuore degli uomini e non nei Cieli”.
Il fatto che i Farisei gli chiedessero un segno dal Cielo mostra che essi non
erano attaccabrighe né negavano l’evidenza. Chiunque volesse parlare con
autorità di fatto diceva che la sua interpretazione della volontà di Dio era
l’unica vera., autentica. Ogni maestro asseriva o riteneva di essere assistito
dall’”autorità divina”. Ai tempi di Cristo il rapporto con Dio era diretto.
Ognuno poteva asserire di essere stato guidato o ispirato da Dio.
Al tempo di Gesù sorsero moltissimi messia
e consolatori. Sia per le condizioni di servaggio, sia perché il tempo
messianico era atteso per circa la metà del secolo
Giovanni, che è più tardo, crede quindi
erroneamente di mettere in bocca a Gesù parole scandalose sulla propria
autorità, mentre non sono affatto scandalose per l’epoca e il contesto storico
in cui furono pronunciate.
Quanto al dire che egli era figlio di Dio,
solo Giovanni lo afferma, mentre nei sinottici non vi è traccia. Inutile dire
che testimoni o documentazioni avessero affermato una cosa del genere essa non
avrebbe potuto essere passata sotto silenzio in tal modo Nessuno lo accusa di
questo.
Il Vangelo di Giovanni tratteggia
decisamente uno scenario di conflitto aperto tra Cristo e gli Ebrei che
rispecchia la situazione dell’inizio del II secolo, quando i cristiani venivano
scacciati dalle sinagoghe e erano in pericolo di essere perseguitati dai
Romani, tutte cose che ai tempi di Cristo non capitavano. Alcuni avvenimenti in
cui Cristo sta per essere lapidato perché si dichiara figlio di Dio sono
raccontati solo da Giovanni; ma tutto questo è contraddetto dalla popolarità di
Cristo. Anche Giovanni riporta incongruamente l’episodio di Nicodemo, fariseo
che lo va a trovare di notte e lo riconosce come maestro.
Le profezie: “sarò messo a morte dagli
scribi e Farisei” sono apocrife e successive.
[95} Anche se “gli scribi etc.” avessero
tramato contro di lui (e non vengono menzionati i Farisei, ma questo non è
concludente, perché “scribi” può significare Farisei) altri Farisei debbono
essere appartenuti al suo enorme seguito. In un passo addirittura dei Farisei
lo mettono in guardia contro Erode.
Passiamo ora ad analizzare la descrizione
della cattura. Nessuna folla si sarebbe fatta aizzare contro Gesù. Gli stuDiosi
concordano sul fatto che vi fosse una unità romana col suo comandante. E’
probabile che si tratti di una centuria. Nessun anziano avrebbe preso parte ad
un arresto. E’ invece probabile che vi fosse anche un distaccamento di polizia
del Tempio sotto il comando dei “seganim” o vicesacerdoti e non dei “capi dei
sacerdoti” che, al pari degli anziani, non prendevano mai parte materialmente
ad una cattura.
Forse Giuda non è una figura storica ma una
figura teologica introdotta per illustrare il concetto teologico che nessuno è
immune dalla tentazione e dalla rovina spirituale. Si dice che complotta con i
capi dei sacerdoti. Ma quando Cristo torna dal suo nascondiglio a Gerusalemme
lo fa pubblicamente e anche la notte tutti sanno che dimora frequentemente
nell’orto del Getsemani. Non c’era alcun bisogno di identificarlo con un bacio
né di ricorrere ad un informatore. Alcuni stuDiosi parlano di rapimento da una
banda di criminai assoldati dai sacerdoti, ma questo è inverosimile. Dice
l’autore che occorre infine arrendersi alle incongruenze e presumere che giuda
non strinse alcun accordo per cospirare né con i Romani né con gli Ebrei e che
gli episodi narrati dai vangeli non offrono alcuna soluzione alla domanda su
chi ordino l’arresto di Gesù. I tribunali ebraici potevano arrestare. A Cristo
non venne contestato alcun reato, ma è certo che almeno un indizio e una
notizia di reato dovessero esserci, anche per la legge ebraica. Se i Romani
parteciparono e l’indomani, ad un’ora insolitamente mattiniera Pilato fosse già
alzato per il processo vuol dire che Gesù fu arrestato per iniziativa romana e per ordine personale del
governatore. Niente giustifica la supposizione che Pilato si sia mosso sulla
base di una richiesta ebraica. Dobbiamo concludere che la polizia ebraica
chiese di poter assistere alla cattura col proposito di chiedere che il reo le
fose dato in custodia fino alla mattina, cosa che il governatore accordò perché
i governatori Romani erano soliti di servirsi delle prigioni ebraiche. Lo scopo
era in realtà di portarlo dal Sommo Sacerdote. Se il Sommo Sacerdote avesse
voluto fare un processo per eresia avrebbe imprigionato anche tutti i discepoli.
Nel palazzo, Gesù incontro il Sommo Sacerdote, i capi dei sacerdoti e gli
anziano di Israele.
CAPITOLO QUINTO: IN CASA DEL SOMMO SACERDOTE
Si trattò di un processo ebraico che
precedette un processo romano? Certamente non di un processo ebraico affidato
per l’eecuzione della condanna ai Romani, perché i Romani avrebbero rifiutato e
per molte altre ragioni [128]. La maggioranza degli stuDiosi moderni ha
rigettato la tesi del processo ebraico per blasfemia. Numerosissime
consuetudini ebraiche vietavano però un simile processo [130]. Si è sostenuto
che si trattasse non del diritto fariseo, ma del diritto sadduceo, di cui ora
si conosce molto poco, e che rispettava solo i precetti scritti nellaTorah e
non anche quelli orali. Ma la Bibbia mostra di richiedere un testimone e di non
considerare sufficiente la confessione del reo. Pare si trattasse del delitto
di bestemmia mediante pronuncia del nome YHVH (“Da questo momento starà il
figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza di Dio”), l’unico che
conducesse alla pena capitale e non di un diverso delitto di bestemmia. Ma si è
già mostrato che le affermazioni di Gesù di essere ispirato dal Cielo non
costituivano blasfemia agli occhi degli ebrei osservanti. Una condanna per
bestemmia non sarebbe stata possibile neanche da parte di un tribunale
sadduceo.
Si è affermato che si fossero invocate le
circostanza di emergenza per poter perseguire un reato di apostasia al di fuori
delle regole. Ma c’è un unico episodio nella tradizione ebraica, che non è la
prova di una vera consuetudine. I Farisei, poi, erano fanatici legalisti.
In realtà il rito fu fariseo. I Farisei
erano descritti come nemici di Cristo, e quindi non avrebbero rinunciato a
partecipare e meno che mai delegati ai Sadducei, che consideravano eretici. Ma
allora il processo non ci fu, perché sarebbe stato troppo irregolare agli occhi
dei Farisei.
Fu un’istruttoria preliminare non per
incriminare di un delitto, ma per cercare testimoni di un qualche delitto? Si è
detto che la tradizione autorizzava le “discussioni notturne” dei giudici su un
processo, ma questo avveniva a casa loro e non in una sede ufficiale, col
Sinedrio, e meno che mai violando il diritto al riposo dell’accusato.
Da nessuna parte si trova un solo esempio
di interrogatorio condotto dal Sinedrio su commissione dei Romani.
Secondo la legge romana il Sinedrio non
poteva fungere neanche da accusatore, perché l’accusatore doveva essere un
privato. Il tribunale romano non si occupava delle prove: era l’accusatore a
doverle fornire e a pagare ammenda se non riusciva.
Il Gran Sinedrio non si sarebbe mai abbassato a riunirsi
privatamente e segretamente. Se ne deve concludere che il corso degli
avvenimenti era stato imposto al Sinedrio dai Romani. Il processo di Pasqua
poteva essere stato fissato solo da un governatore romano.
“La dirigenza ebrea può avere avuto un
interesse vitale solo a una cosa: a impedire la crocifissione di un ebreo a
opera dei Romani e in particolare la crocifissione di un ebreo che godeva
dell’amore del popolo”.. Ciò avvenne per
realismo politico: se il Sommo Sacerdote non avesse fatto nulla il suo
prestigio nei confronti del popolo avrebbe vacillato. In una tale faccenda “la
dottrina di Cristo era l’ultimo dei fattori rilevanti”.
“L’unica via per cui il Sinedrio poteva
forse impedire che Gesù fosse condotto a
morte consisteva nell’ottenere un ‘assoluzione o una sospensione della pena
sotto riserva della sua buona condotta… Era necessario convincere Gesù a non
riconoscesi colpevole secondo l’accusa, e quindi cercare testimoni che
potessero provarne l’innocenza… Lo si doveva convincere a promettere che non si
sarebbe più immischiato in attività che costituivano tradimento”.
Una intromissione nella giustizia romana
era una cosa grave, per cui il Sommo Sacerdote aveva pensato bene di
coinvolgere tutto il Sinedrio. Ciò che al Sinedrio serviva era poter dimostrare
che i testimoni contro Gesù erano falsi, discordanti. Essi dovevano, di fronte
ai Romani essere indicati formalmente come falsi testimoni. Il Sinedrio voleva
presentare al Governatore romano una pronuncia che i testimoni erano falsi e
inattendibili.
Ma il diritto romano, a differenza
dell’ebraico, accettava anche confessioni: era importante convincere Gesù a non
confessare.
Secondo la versione più attendibile Gesù
dichiarò al Sinedrio “… Da questo momento starà il Figlio dell’uomo seduto alla
destra della potenza di Dio”. Secondo i teologi cattolici questa è affermazione
che Cristo è Dio come il padre e per gli Ebrei è una blasfema negazione del
monoteismo, ma per l’autore la definizione di “figlio” ha significato puramente
allegorico e non biologico: Cristo era eletto da Dio come suo messaggero o come
suo profeta. Secondo l’autore sono aggiunte o interpolazioni tarde quelle che affermano
che Cristo si sarebbe proclamato “figlio di Dio”. L’unica volta che risponde in
Marco alla domanda “sei figlio di Dio?”
pare negarlo (“voi lo dite”). E nelle sue predicazioni la parola “figlio
di Dio” significa appunto “ispirato da Dio”… etc.
Per quanto riguarda l’espressione “figlio
dell’uomo” potrebbe essere stata una traduzione dell’ebraico “ben Adam”
(letteralmente “figlio di Adamo”) che in ebraico significa semplicemente
“essere umano”, oppure il titolo che Dio concesse a qualcuno dei suoi Profeti,
come Ezechiele. E’ anche possibile che si tratti di un’allusione a Daniele che
parla del figlio dell’uomo che doveva venire sulle nubi del Cielo e fondare un
“regno” imperituro. E questo indicherebbe che Cristo voleva essere riconosciuto
come figlio di un uomo: non poteva esserci più chiaro e inequivocabile rifiuto
di una discendenza divina. L’appellativo “figlio dell’uomo” in sé e quando
Gesù lo adoperava per parlare di sé in terza persona, fa intendere che egli
concepiva se stesso non semplicemente come un comune appartenente al genere
umano, ma come l’eletto, il “designato” da Dio “a regnare sul mondo”. E’
possibile che Gesù abbia preso come
punto d’appoggio analogico le parole del salmista: “che cosa è l’uomo perché te
ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco
meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere
sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi!” (Salmi 8.5-7)…
Il significato dell’espressione “figlio dell’uomo” è semplicemente
un’espressione ebraica (o più precisamente aramaica) di origine biblica la cui
utilizzazione – perfino in riferimento a se stessi – non era affatto vietata e
non comportava alcuna infrazione, analogamente a quanto avviene nell’odierna
lingua ebraica parlata. Anche l’associazione del messia alle “nuvole del Cielo”
e al seggio alla destra di Dio non era nuova e nessuno che si fosse servito di
una simile metafora fu mai sospettato o accusato di bestemmia. Mosè “entrò in
mezzo alla nube”; perfino il nemico saliva “come nubi”; “oracolo del Signore al
mio signore: ‘ siedi alla mia destra
finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi’”. Nel talmud uno
di due rabbini che discutono dice che nella visione di Daniele il trono
dell’uomo vecchissimo era vicino a quello di Dio, il trono di Davide. L’altro
si scandalizza perché l’uomo non può sedere accanto al trono del Signore, ma si
vede che era questione di opinioni. Perciò, anche ad ammettere che Gesù si
sia proclamato figlio di Dio perfino di fronte al Sinedrio e che abbia
affermato che si sarebbe seduto alla destra del Signore e sarebbe venuto sulle
nuvole del Cielo, nulla che potesse rappresentare un atto illecito secondo la
legge ebraica stava nelle sue parole o nelle sue affermazioni o pretese
messianiche. Bickermann afferma che la parola “blasphemia” pronunciata da Caifa
che si traccia le vesti non significa
“bestemmia” nel senso giuridico formale del diritto ebraico, ma sarebbe stata
usata nel sensori “enormité”, “indecenza”, “grande sparata”.Effettivamente,
secondo la legge ebraica, i testimoni, udendo che il nome del Signore veniva
profanato, dovevano stracciarsi le vesti. Secondo il diritto ebraico il
reato di bestemmia non si commette senza che il bestemmiatore pronunci
espressamente il santo e impronunciabile nome
YHWH
Neanche può essere incolpato di oltraggio
di Dio senza profanazione del nome
E’ estremamente significativo che nel caso
di Pietro Rabbi Gamaliele dice di lasciarlo andare, perché affermare che egli
dice il falso vuol dire avere la presunzione di penetrare le vie del Signore, e
solo il tempo è legittimato a rivelare la falsità delle sue affermazioni.
Questo argomento coinvolge numerosi problemi (Gamaliele era presente anche la
notte in cui fu convocato Gesù? La sua pronuncia nel caso di Pietro stabiliva
in realtà un nuovo precedente?), ma pare nel complesso reggere, soprattutto
perché Gamaliele, nel caso di Pietro, pare dare voce ad una opinione non
personale, ma generale e condivisa.
Il Sommo Sacerdote si stracciò le vesti in
segno di afflizione per la sorte di Gesù.
Le percosse a Gesù non andavano al di fuori
della norma, nel caso di persone sottoposte a forte pressione, esasperate e
preoccupate in tempi turbolenti.
Alcuni (non tutti) gli evangelisti dicono
che ci fu una condanna a morte. Ma è poi incongruo che di fronte a Pilato essi,
invece di richiederne l’esecuzione, dichiarano che “rifiutano di giudicarlo”.
Il grido “è reo di morte” allude al fatto che Cristo, con le sue affermazioni,
si sarebbe trovato nei guai di fronte all’autorità romana.
Gli evangelisti non avevano alcuna
conoscenza del diritto ebraico vigente in Gerusalemme. La loro cattiva
conoscenza delle due leggi è mostrata dal fatto che il diritto romano inizia
con l’interrogazione senza testimoni (che appaiono solo se il reo non confessa)
mentre quello ebraico non prevede la confessione
I Vangeli sinottici dicono che “venuto il
mattino” “tutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio
contro Gesù per farlo morire”, e non si capisce se sia un consiglio diverso da
quello tenuto nella notte. Alcuni dicono che sia lo stesso consiglio e che si
sia attesa l’alba perché il Sinedrio poteva pronunciare verdetti solo di
giorno. Secondo l’autore, l’evangelista, per spiegare perché un verdetto di condanna
non sia stato eseguito, inventò che gli Ebrei, avendo condannato Gesù, tennero
un secondo consiglio per stabilire se dovessero eseguire essi la condanna o
portarlo da Pilato.
Gesù fu tradotto al palazzo del Governatore
dallo stesso contingente di polizia del Tempio che lo aveva preso in consegna
la notte precedente.
I sinottici dicono che i sommi sacerdoti,
gli anziani e gli scribi furono presenti al processo romano “con una moltitudine
di gente del popolo” e che “mossero molte accuse”.
Secondo Cohn, nessun ebreo e nemmeno nessun
altro estraneo può essere stato presente al processo poiché avendolo il
governatore celebrato “in camera”, non era ammessa alcuna pubblicità.
I Vangeli dicono che Cristo fu tradotto nel
“Praetorium” che è il termine che designa la residenza del Governaore; quindi
si trattò di un processo nella residenza e non nel “formu” (quest’ultimo tipo
di processo era effettivamente raro), come tale privato. Il processo romano è
pubblico, ma Cohn sostiene che le competenze del Governatore erano
amministrative: “i governatori, come anche l’Imperatore, esercitavano
essenzialmente il potere esecutivo e non erano affatto organi di giustizia”. Le
loro competenze giudiziarie erano limitate al diritto penale. Il suo potere
derivava dal “ius gladii”, iil potere della spada che aveva quale occupante, un
potere di governo: le regole applicate nei suoi procedimenti giudiziari non
erano quelle di un giudice, ma quelle di un soggetto governante. Il Codex Theodosianum, in epoca tarda,
statuisce che i governatori non debbano più tenere processi sullo status e gli
averi delle persone nelle loro stanze private, ma questo sembrerebbe indicare
che fino a quel momento essi avessero estesamene usato tale privilegio. A
Gerusalemme il Governatore risiedeva nel palazzo del re che era dunque il
Praetorium.
Giovanni conferma la tesi di Cohn dicendo
che gli Ebrei non entrarono per paura di contaminarsi: ma nel palazzo non vi
era niente di impuro.
Secondo Giovanni il governatore uscì
ripetutamente a parlare col popolo nel cortile anteriore al palazzo, che era
aperto al pubblico, dava sulla strada e dove si era radunata la folla. Ivi
infine annunciò la sentenza. In camera avvenne invece l’assunzione delle prove
e l’audizione delle diverse ragioni, mentre la decisione venne pronunciata nel
cortile. Le uscite di Pilato sono un’invenzinoe di Giovanni, per conciliare il
processo “in camera” col fatto che la folla degli Ebrei prese parte attiva alla
condanna di Gesù da parte di Pilato stesso. Inverosimile è che Pilato non
conoscesse già l’accusa e uscisse per sentirla dal popolo.
Potrebbe però darsi che il governatore,
trovata poco convincente l’accusa fosse uscito per sentire dagli Ebrei se ne
avessero delle altre. Essi risposero “non te l’avremmo consegnato se non fosse
un malfattore”, che Cohn interpreta come: “non te lo avremmo portato se non
avessimo prove e testimoni certi”; alla logica domanda di Pilato:”ma allora
perché non lo avete ucciso voi?” (così Cohn interpreta la sua affermazione
“prendetelo e giudicatelo secondo la vostra legge”) essi affermarono “a noi non è consentito
mettere a morte nessuno”: Cohn pensa che questo non vuol dire che non avessero
giurisdizione penale, ma che aborrivano lo spargimento di sangue (precetto “non
uccidere”).
Ammettiamo pure che essi volessero dire che
il tribunale ebraico non aveva competenza, perché si trattava di reati
configurati come tali solo nella legge romana.
Ma Cohn ritiene entrambe le ipotesi
inverosimili. Secondo lui è del tutto insostenibile che un governatore consapevole delle sue responsabilità abbia
interpellato la popolazione locale circa
i limiti della competenza propria e di quella dei giudici ebraici. Altrettanto
impensabile è che abbia inteso la loro risposta come un’attestazione giuridica
vincolante e conclusiva, meno che mai nel caso di una risposta così falsa e
imprecisa. Su questioni di competenza avrebbe pur sempre potuto interpellare
gli “apparitores”
E’ inammissibile che Pilato, anche ammesso
(ed è inverosimile) che avesse ascoltato o conferito col popolo, si sia
lasciato influenzare dalle grida isteriche di una folla. A tacer d’altro
sarebbe stato una condanna senza prove, un omicidio, che incorreva nelle
sanzioni che le leggi romane comminavano ai magistrati corrotti o incapaci. Si
è affermato che era prassi dei governatori delle province interrogare la popolazione indigena su cosa
dovesse fare del malfattore che gli era stato portato. Ma una legge romana
successiva, che pare codificare un principio antico dice che “vanae voces
populi non sunt audiendae”. Si potrebbe pensare che anche nel caso di Gesù si
sia trattato del procedimento romano della “provocatio”, secondo il quale tutte
le sentenze di morte inflitte a cittadini Romani dovevano o potevano essere
sottoposte al popolo riunito per il suo assenso. Tuttavia la provocatio non
valeva né in riferimento alle decisioni pronunciate dall’imperatore o da un
governatore né per le decisioni contro non cittadini: e inoltre non erano grida
scomposte, ma votazioni o manifestazioni ordinate.
Anche la condotta degli Ebrei è
implausibile: la folla che lo lodava il mattino, la notte voleva la sua morte.
Si è detto che erano delusi del fatto che si fosse fatto incarcerare. Ma nel
giorno della festa Pasquale avevano tutti di meglio da fare, e una condanna
romana avrebbe piuttosto suscitato simpatia per il reo. Inoltre la folla era
“istigata dai capi dei sacerdoti”: la folla avrebbe fatto anche un voltafaccia
rispetto alla sua avversione alle corrotte gerarchie ecclesiastiche del Tempio:
molto più realisticamente un sacerdote che si fosse levato contro Gesù sarebbe
stato identificato con l’oppressore romano.
Se la folla vociante fosse stata composta
da sfaccendati usi a frequentare il tribunale per godere degli spettacoli delle
condanne, l’ascolto di essa da parte di Pilato è implausibile. E’ vero che
Barabba era dipinto in Matteo come zelota che aveva ucciso un uomo, ma non
abbiamo prove che fosse un personaggio noto e amato come Gesù
Il privilegium
paschalis solleva molti dubbi: a) perché Pilato non concesse la grazia,
tanto più che riteneva Cristo innocente?; Quale “popolo” poteva chiedere tale
privilegio: la plebaglia del cortile del governatore?; Barabba era uno zelota e
Pilato non lo avrebbe mai liberato; Pilato poteva ben vedere che il popolo,
senza istigazione, preferiva Gesù e non sia intervenuto contro gli schiamazzi
del sacerdoti.
Del privilegium
non v’è traccia nella legge ebraica, ma solo disposizioni che accordano a
condannati liberati in quel giorno la possibilità di compiere alcuni atti che
non avevano potuto compiere durante la prigionia. Nelle leggi romane non ve ne
è traccia, né nel resoconto di Giuseppe Flavio; solo nel tardo impero a Pasqua
c’era amnistia generale, ma non per i crimini più gravi, tra cui quello di lesa
maestà
La grazia era esclusiva prerogativa
dell’imperatore. Un governatore che avesse graziato si sarebbe reso
responsabile di tradimento nei confronti dell’imperatore.
Altra implausibilità e la rappresentazione
della personalità di Pilato come debole e influenzabile. Il fatto che si fosse
comportato da galantuomo è meno implausibile, perché un magistrato normalmente
tiene ad avere uan certa dignità nell’esercizio delle sue funzioni.
Che il crimine di Gesù fosse l’autoproclamazione
di re dei giudei, una carica che poteva venire solo dall’imperatore, è
affermato dal cartello posto sulla croce. Un governatore romano aveva l’obbligo
cogente di procedere una volta che si fosse accusato un soggetto di lesa maestà
di fronte a lui. Il crimine di lesa maestà divenne estesissimo per capriccio
degli imperatori. Veniva allegato correntemente nei processi penali più
disparati, come l’adulterio. Derivava dalla divinizzazione dell’imperatore
romano, che identificandosi con una divinità si assicurava la stessa ubbidienza
e rispetto a lei dovuta. Paradossalmente gli insulti alla divinità erano
trattati lievemente, perché si riteneva che essa si sarebbe potuta difendere.
La risposta di Cristo alla domanda di
Pilato: “sei il re dei giudei?” fu “tu lo dici”. Alcuni pensano che significhi
negazione ma Cohn riferisce che è un modo tipicamente ebraico di assentire
circa punti imbarazzanti.
Agli occhi dei Romani questa era
usurpazione dell’autorità imperiale. Tanto più grave quando Cristo aggiunge che
il suo regno è spirituale e universale, perché i Romani non distinguono come
gli Ebrei due regalità, quella terrena di David che è di fronte a Dio un servo
come gli altri e quella di Dio. Gli imperatori Romani sono dei. Un romano
avrebbe considerato le affermazioni di Cristo come pretesa ad una regalità
universale come quella dell’imperatore. La seconda domanda di conferma di
Pilato: “sei dunque re degli Ebrei?” (“tu lo dici”) conferma a Pilato la
gravità dell’atteggiamento di Cristo.
Il sogno della moglie di Pilato gli fu
comunicato in piena udienza (abbastanza implausibile). I sogni funesti erano
presi molto sul serio. Perché Pilato non libera subito Gesù ma propone la
liberazione di Barabba? In realtà pare che molti narratori Romani inserissero
un sogno in ogni episodio, come quello di Calpurnia, moglie di Giulio Cesare.
Giovanni deve aver prediletto i sogni, perché gli altri evangelisti non lo
inseriscono.
Il lavaggio delle mani potrebbe essere
plausibile, se Pilato pensava che Cristo era innocente ma era costretto a
condannarlo (secondo la legge romana doveva procedere per tradimento e se il
reo confessava doveva giustiziarlo): si sarebbe allora voluto salvare dalla
collera degli dei.
Il fatto che inviò Gesù ad Erode ha aspetti
plausibili (far ricadere la responsabilità dell’esecuzione su Erode; rispettare
la giurisdizione di Erode; vedere se vi fossero ancora altri crimini) ma nel
complesso è implausibile (Pilato non avrebbe mandato assolto un sedizioso da un
suo nemico, perdipiù vicino all’imperatore romano; Erode non avrebbe rimandato
Cristo che voleva “ardentemente vedere”; il computo temporale non consente di
porre nella stessa giornata l’esecuzione di Cristo). Pare che sia stata una
invenzione di Luca: Noi già sappiamo che per gli evangelisti non bastava che Ponzio Pilato portasse la
responsabilità della morte di Gesù; per Luca o i suoi contemporanei, o per il
pubblico per il quale egli scriveva, non bastavano nemmeno gli Ebrei; dovevano
aggiungersi i “gentili”, e al signore pagano doveva accompagnarsi il re
ebraico, affinché si potesse dire che il mondo intero aveva cospirato contro
Gesù.
Da Erode vengono precisate le accuse valide
di fronte alla legge romana: istigazione a non pagare le tasse; sobillazione
del popolo; affermazione di essere re. Per queste accuse Pilato lo giudicò, e
l’allusione al fatto che “non lo trovò colpevole” può riguardare le prime due,
ma certamente non la prima.
L’autore del quarto vangelo deve scagionare
un governatore romano non scagionabile agli occhi dei lettori Romani, che
conoscono la suscettibilità dell’imperatore in caso di lesa maestà e la
ineluttabilità della condanna. Perciò cerca di accollare la colpa agli Ebrei,
perché parallelamente deve mostrare che la colpa della uccisione di Cristo non
è dei Romani, e che anzi il saggio e scrupoloso governatore poteva essere
presentato agli occhi delle successive generazioni di Romani come colui che
aveva riconosciuto la sua innocenza I lettori Romani, non conoscendo che
gli Ebrei non avevano l’usanza di crocifiggere, potevano prendere per buona la storia.
Comunque sia, lo scopo dell'Evangelista non
è raggiunto, perché colpevole della morte di Cristo risulta sempre Pilato, il
quale avrebbe consegnato Cristo ad una folla sanguinaria.
Giovanni afferma che Cristo fu giustiziato
dagli Ebrei, nelle cui mani Pilato lo abbandonò.
Ma Luca, invece, dice semplicemente
“abbandonò Gesù alla loro volontà ", che può ben essere interpretato nel
senso che Pilato emise un verdetto di condanna nel senso desiderato dagli
Ebrei. Si noti la malizia di Luca: non osa asserire il falso (che Cristo fu
giustiziato dagli Ebrei), ma con questa formula cerca di insinuare che la morte
di Cristo fu provocata tuttavia dagli Ebrei.
L'esecuzione da parte degli Ebrei risulta
del tutto implausibile. In realtà, furono soldati Romani a crocifiggerlo. Si
può notare lo sforzo degli Evangelisti di non registrare la pronuncia di una
condanna capitale da parte del governatore romano attraverso vari giri di
parole: “fu consegnato per essere crocifisso” eccetera.
CAPITOLO SETTIMO: LA FLAGELLAZIONE
Di Evangelisti sono abbastanza discordanti
sul momento della flagellazione. Secondo Giovanni, avvenne prima della
sentenza. Sappiamo che le leggi romane prevedevano la flagellazione prima della
esecuzione della pena capitale. Secondo gli stuDiosi cattolici la flagellazione
precedette la sentenza perché fu una misura indipendente, tesa a suscitare la
compassione della folla. Ma questo è implausibile: nessun governatore romano avrebbe
fatto torturare un uomo questo scopo e nemmeno avrebbe esposto al pubblico la
sua vittima per destare un simile sentimento. L'avrebbe semmai fatto solo a
scopo di intimidazione. Secondo Luca la flagellazione aveva la funzione di
sostituire la pena di morte e quindi salvare Gesù.
Anche l'idea che la flagellazione sia
servita per poter salvare Cristo è troppo implausibile.
È possibile che la flagellazione servisse a
far ritrattare Gesù. In questo caso la confessione sarebbe stata annullata e
sarebbero state valutate le fragili prove testimoniali. In relazione anche al
fatto che Cristo aveva solo annunciato l'intenzione di fondare il regno e egli
poteva così scampare la pena capitale. Poteva essere interesse della politica
romana non uccidere ma far ritrattare i capi popolo. C'è anche la possibilità
che gli Evangelisti avessero descritto una usanza molto diffusa nei loro tempo:
quella di torturare il cristiano per convincerlo ad abiurare ed evitargli la
pena capitale.
Non è tuttavia impossibile che la flagellazione
sia stata disposta a prima della condanna e durante il procedimento come
abitudine di routine comune a molti processi Romani. In sostanza, nei
procedimenti per lesa maestà, la tortura poteva essere usata sia come pena sia
come misura nel corso del procedimento. Nella tarda età imperiale la tortura
inflitta sia come misura legata all'interrogatorio che come pena. Il
condannato, condotto dalla prigione al luogo dell'esecuzione, era picchiato e
schernito lungo tutta la strada, sia per coinvolgere l'opinione pubblica nella
messa in atto dell'esecuzione, sia per accrescere la forza intimidatrice della
pena. Normalmente, il condannato, nudo o al più col capo coperto, doveva
trasportare sulle spalle lungo tutta la strada la sua croce con le mani incatenate
alla trave trasversale. Pare fondata la notizia che Cristo non fu incatenato
con le mani alla croce e che la croce fu portata da un altro, probabilmente
perché i soldati furono impietositi e pensavano di averlo già sufficientemente
percosso.
Gli Evangelisti, comunque, a sono concordi
nell'ammettere la descrizione della figura di Gesù flagellato. Parlano solo di
Gesù percosso con una canna e vilipeso. Questo indicherebbe che in realtà non
flagellato. Se Gesù apparve intatto, la flagellazione deve essere stata così
leggera superficiale da non lasciare nessun segno esteriore. Forse furono gli
stessi soldati a flagellarlo e a schernirlo.
Giovanni dice che Gesù portò da se stesso
la croce, mentre i Vangeli sinottici dichiarano che fu portata da Simone.
Il fatto che Cristo non fu incatenato alla
croce trasversale (e talvolta il condannato vi veniva inchiodato prima di
arrivare al luogo del supplizio) è già una grazia.
Secondo una opinione generale a la
esortazione “chi mi vuole seguire rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi
segua” sembra essere stata attribuita Gesù dagli Evangelisti, che scrivevano
sotto l'impressione della sua crocifissione. L'idea del trasporto della croce
come segno o condizione di appartenenza al cristianesimo non è che unico della
crocifissione di Gesù che non può esser stata diffusa da lui già al tempo in
cui era vivo.
Secondo l'autore la notizia che Simone
portò la croce e attendibile, e Giovanni l'avrebbe omessa per motivi teologici
(avveramento della profezia).
CAPITOLO OTTAVO: LA CROCIFISSIONE
Recenti studiosi hanno sostenuto che la
crocifissione fosse in uso in Israele nell'antichità, ad imitazione dei
persiani. A sostegno di questa tesi si mostra il fatto che la parola ebraica
per “crocifiggere” è, nell'ebraico moderno, "slov", e in aramaico
antico "slov" significa “impiccare ". Ma i due verbi hanno
radice diversa: quello ebraico deriva dall'assiro, e non dall'aramaico.
Inoltre, l'ebraico antico non conosce la parola "slov” (“crocifiggere
"), ma solo quella per “impiccare” ("taloh "). Non poteva
esserci stata crocifissione in Israele per che attendere il corpo di un
vivente, crucifiggendolo o appendendolo in altro modo, dal punto di vista
ebraico e secondo la più antica tradizione ebraica equivaleva ad una “offesa
contro Dio” e a una profanazione della terra santa.
Se anche ci furono episodi crocifissione
nella storia di Israele l'enfasi delle cronache mostra la loro eccezionalità. i
metodi delle esecuzioni capitali prescritte o descritte nella bibbia sono la
l'applicazione, è rovo, l'impiccagione la spada. Successivamente si abbandonò
l'impiccagione e si aggiunse lo strangolamento. Come precetto giuridico, sembra
che l'impiccagione sia stata utilizzata principalmente nei confronti della
persona già giustiziata. E tuttavia fu infine riservata soltanto agli idolatri
e ai bestemmiatori, e perché suscitava nella mentalità ebraica una notevole
avversione. Quando troviamo ebrei che impiccano uomini viventi non abbiamo casi
giudiziari, ma guerre o imprese di guerra. L'impiccagione serviva solo ad
esporre il condannato morto per pubblica intimidazione e non come esecuzione.
Il un episodio della storia ebraica un
giudice ebraico fece il giustiziare in un solo giorno senza processo 80 streghe.
Una tale eliminazione per via non giudiziaria poteva essere giustificata in
base al comando divino “non lascerei vivere colei che pratica la magia ".
Tuttavia si ritiene che una simile azione
non abbia potuto creare un precedente giuridico.
La possibilità di mettere a morte senza un
regolare processo giudiziario era legislativamente prevista anche per
determinati idolatri e profanatori del Tempio colti in flagrante, e anche per
chi era arrestato con l'accusa di istigazione all'idolatria.
Il fatto che Gesù morì già sei ore circa
dopo essere stato preso in croce rafforza la tradizione che parla di chiodi e
non di corde; con le corde avrebbe potuto resistere anche diversi giorni
La crocifissione era l'unico metodo di
esecuzione capitale praticato dall'autorità romana in Giudea e se ne faceva un
uso smodato.
E’ assolutamente implausibile che i
sacerdoti, dottori della legge, autorità o chiunque altro possano aver
dileggiato e maledetto un compatriota appeso alla croce romana, quale che ne
fosse la colpa.
Tre Evangelisti, ad esclusione di Luca,
narrano che a Cristo fu fatto bere dell'aceto. Tradizionalmente, si è sempre
pensato che questa fosse una forma di dileggio, ma nella letteratura antica e
medievale l'aceto era in realtà una sostanza che accelera la morte del
suppliziato. Questo depone a favore delle intenzioni non ostili della folla. Le
discrepanze tra gli Evangelisti circa le parole pronunciate da Cristo dagli
astanti nell'episodio dell'aceto le rendono del tutto inattendibili.
Nei Vangeli e riportato l'episodio di un
gruppo di ebrei che andò a chiedere a Pilato che ai condannati fossero rotte le
gambe per poterli far morire e portarli via prima della notte. ciò rappresenta
una ulteriore incongruenza: gli ebrei che chiesero la crocifissione dovevano
sapere che questa sarebbe durata anche per giorni e avrebbe potuto contaminate
la festa della purificazione Pasquale. Esiste un'altra incongruenza: gli stessi
ebrei che si rifiutarono di entrare da Pilato per non contaminarsi, erano
pronti a prendere un cadavere e seppellirlo. Come potevano in tal modo essere
mondi per la cena rituale? Questo riconferma la ipotesi che non entrarono da
Pilato per che non erano ammessi ad assistere al giudizio.
Secondo l'autore, se è corretta la tesi che
gli Ebrei amavano Gesù e si identificavano con lui, che loro amore, in
considerazione dei pentimenti che l'aspettavano quel giorno poteva soltanto
diventare ancora più profondo e che né loro né qualcuno dei loro capi avevano
avuto voce in capitolo nel suo processo e nella condanna, diventa allora
comprensibile che essi, vedendolo in agonia sulla croce, siano corsi dal
governatore implorandolo di dare un ordine ai suoi ufficiali, col pretesto che
il cadavere doveva essere rimosso per la Pasqua. Se invece si parte dal presupposto
che la mattina gli Ebrei chiesero ferocemente la crocifissione e la sera
piamente di abbreviare sofferenze del reo Pilato sarebbe semplicemente andato
su tutte le furie.
C'è anche la possibilità che l'episodio
delle gambe e l'episodio della trafittura da parte della lancia del centurione
siano stati inseriti per far avverare delle profezie.
Ulteriore conferma del fatto che Cristo e
fu messo a morte dai Romani proviene dalla consuetudine romana secondo cui i
carnefici avevano il diritto di prendersi le vesti dei condannati.
Il fatto che Giuseppe di Arimatea fosse
indicato come membro del Sinedrio, è mostra che i sentimenti del Sinedrio, o
almeno di alcuni membri, erano amichevoli nei confronti di Gesù.
Esiste una incongruenza nella richiesta da
parte di Giuseppe di Arimatea che il corpo gli fosse consegnato: se già Pilato
aveva consegnato Gesù agli Ebrei non c'era bisogno che consegnasse il corpo.
Il fatto che Cristo potè essere seppellito
nel sepolcro di Giuseppe di Arimatea è una prova ulteriore che Cristo non fu
condannato dal Sinedrio, perché i delinquenti giustiziati per disposizione di
un giudice ebraico dovevano essere seppelliti in un cimitero destinato a questo
scopo, conosciuto come cimitero giudiziario.
L'autore degli atti degli apostoli, anche
lui di nome Luca, fa dire a Pietro parole di rimprovero ai giudei per aver
voluto e provocato la morte di Cristo. L'autore degli atti degli apostoli si
pone dunque sulla stessa linea degli Evangelisti.
Pietro è descritto come uno che utilizza
abilmente la crocifissione di Gesù per suscitare il senso di colpa delle masse,
riuscendo a penetrare nei loro cuori.
Diversamente da Gesù, gli apostoli
sostenevano come punto di partenza della fede il Cristo risorto, quale
redentore dei peccati e delle colpe. I Sadducei, che non credevano nella vita
dopo la morte si irritarono. Anche molti Farisei ritenevano incredibile la
storia, e anche potenzialmente pericolosa dal punto di vista della ortodossia
ebraica.
Pietro fu chiamato di fronte ad una
assemblea che sembra essere lo stesso gran Sinedrio di fronte a cui fu chiamato
Cristo. La sua risposta implica una deificazione di Gesù e la attribuzione a
Gesù e al suo nome di una potenza salvifica universale ed esclusiva (“in nessun
altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il Cielo
nel quale è stabilito che possiamo essere Salvati; il paralitico è stato
guarito nel nome di Gesù Cristo il Nazareno ") che si avvicinavano
pericolosamente all'apostasia. In quel tempo non mancavano a Gerusalemme coloro
che compivano miracoli, specialmente in campo medico, ed essi erano in grado di
attrarre molti seguaci e ammiratori. Vietare a tali taumaturghi di di operare o
perseguitarli avrebbe significato irritare il popolo e questa era l'ultima cosa
che il Sinedrio si proponeva Il Sinedrio aveva paura di irritare il popolo,
dunque li si lasciò fare "a causa del popolo", perché non trovavano
"motivi per punirli", ma "ordinarono loro di non parlare
assolutamente né di insegnare nel nome di Gesù". Ma essi continuarono a
predicare con grande forza e molto seguito. Ciò provoca l'ira del Sommo
Sacerdote e dei Sadducei (forse i Farisei non sono nominati perché Gamaliele
dimostrerà poi di essere dalla loro parte). Dice Cohn: "possiamo tuttavia ammettere con una certa sicurezza
che la "collera" che li aveva investiti non riguardasse
necessariamente solo la cerchia dei Sadducei. Il Sommo Sacerdote,
presumibilmente nella sua veste di presidente del Sinedrio li fece
imprigionare. Dopo la loro miracolosa liberazione lì si ritrovò nel Tempio,
dove insegnavano al popolo. Furono allora condotti dinanzi al consiglio
probabilmente il piccolo Sinedrio convocato per celebrare un processo sotto la
presidenza del Sommo Sacerdote. Nell'apertura di questo Sinedrio il Sommo
Sacerdote muove ad essi l'accusa di fare di Gesù un Dio e di rinfacciare agli
Ebrei il sangue di Cristo. Pietro si giustifica affermando che esse vi è un
precetto di Dio bisogna seguire il precetto di Dio senza badare agli ordini
degli uomini (cioè del Sinedrio ) e rinfaccia nuovamente la morte del Cristo:
“voi avete ucciso appendendolo alla croce ". La prima giustificazione non
può irritare Sinedrio; la seconda, ripetuta dovunque, mina indiscutibilmente la
autorità del Sinedrio e provoca irritazione. I membri del Sinedrio erano
infatti gli stessi presenti la notte dell'arresto di Gesù, e sapevano come
erano andate le cose. Inoltre erano irritati per il disprezzo palese dei
Sinedrio e dei suoi ordini. Tuttavia, minare l'autorità del Sinedrio, per gli
apostoli, era indispensabile per giustificare la propria missione. Poiché il
punto cruciale della nuova fede che annunciavano stava nella crocifissione e
nella resurrezione di Gesù, essi, per indurre la gente a odiare il Sinedrio e
con questo tutte le autorità costituite, non avrebbero potuto escogitare arma
migliore e più efficace che la calunnia che essi fossero responsabili della
crocifissione di Gesù.
Il precetto che si deve ubbidire Dio piuttosto
che i re e le altre autorità terrene è troppo radicato nella coscienza
giuridica ebraica perché lo si sia potuto ritenere una scusa ambigua o
irritante, da rigettare alla leggera. In un primo momento il Sinedrio voleva
mettere a morte Pietro e i suoi seguaci. Ma esso diede prova di equilibrio:
secondo il diritto ebraico non costituiva un delitto meritevole di morte
calunniare il Sinedrio e i suoi membri o incolparli di assassinio, nemmeno se
ciò avveniva pubblicamente. Una calunnia falsa diventava un crimine capitale
soltanto se pronunciata da un testimone in un processo contro un accusato e se
questo ne determinava la condanna. La pena più grave che potesse essere
comminata era la fustigazione. Come abbiamo già detto, durante la prima fase
della discussione, quando ancora si considerava la possibilità della pena di
morte, il rabbino Gamaliele, eminente autorità giuridica e religiosa del suo
tempo, che in caso di assenza del Sommo Sacerdote assumeva la presidenza del
Sinedrio e abitualmente era il primo e principale curatore della maggioranza
dei Farisei. Egli prese la parola ricordando la vicenda di Teuda e di Giuda il
Galileo, che fecero molti seguaci, ma vennero uccisi dalla autorità romana con
la conseguenza che i seguaci si dispersero. Secondo Gamaliele, il sostegno di
Dio sarebbe stato rivelato dal fatto che i seguaci non si sarebbero dispersi i
ma avrebbero continuato ad aumentare. L'allusione a questi due uomini sembra
apocrifa, perché le loro vicende si svolsero in epoca successiva alla riunione del
Sinedrio. Inoltre l'autore degli atti degli apostoli sbaglia circa la sorte dei
seguaci di Giuda il Galileo, zeloti che continuarono ad aumentare di numero. Se
invece il discorso è stato realmente fatto da Gamaliele è rilevante il fatto
che in entrambi i casi la condanna proveniva dall'autorità romana e non dal
Sinedrio. L'opinione di Gamaliele, accettata dal Sinedrio fu che, se il
movimento sarebbe sopravvissuto e si fosse sviluppato questo sarebbe stato
segno sufficiente che esso corrispondeva alla volontà del Signore e godeva
della sua benedizione, ogni sforzo umano di “toglierlo di mezzo” dimostrandosi
vano. Se invece il movimento non avesse corrisposto alla volontà del Signore,
avrebbe rappresentato un'offesa nei suoi confronti ed egli non avrebbe permesso
che durasse e prosperasse. Le dottrine di Pietro e dei suoi seguaci, secondo il
rabbino, se false ed eretiche sarebbero state disapprovate e abbandonate
all'oblio da Dio. “In sostanza - egli
dice -che per quanto possano non essere
ortodosse, non c'è nulla in esse che sia punibile secondo la legge, perciò
nemmeno con la più lieve pena della frusta ". Dicono gli atti degli
apostoli che “ordinarono loro di non continuare a parlare nel nome di Gesù;
quindi li rimisero e libertà ". Furono tuttavia fustigati. La fustigazione
univa invece il delitto di calunnia contro il Sinedrio riguarda il suo ruolo
nella condanna di Gesù. Una antica prescrizione morale ebraica afferma che, se
si è offesi, non si deve ricambiare l'offesa e si deve tacere perfino quando sia
e risultati. Precisamente questo fece il Sinedrio quando Pietro fece la sua
scandalosa calunnia che esso avesse appeso e ammazzato Gesù.
Si noti che l'affermazione che il Sinedrio
aveva appeso e ucciso un delinquente che era stato condannato a morte dal
Sinedrio non avrebbe costituito un oltraggio, ma sarebbe stata una forma di
apprezzamento. Una volta che Gesù fosse regolarmente comparso davanti al
giudice fosse stato condannato per un delitto capitale, il Sinedrio doveva
provvedere alla sua esecuzione, altrimenti avrebbe violato la legge.
Esiste una possibilità che queste
affermazioni siano state attribuite a Pietro infondatamente. Nelle lettere
attribuite a Pietro non c'è nessuna allusione a questa faccenda.
Neanche Giacomo, il fratello più anziano di
Gesù, descritto da Paolo come una colonna della fede nella sua lettera non fa
cenno alla responsabilità del Sinedrio. Il silenzio di Pietro e Giacomo può
esser una prova a favore della tesi dell'autore.
Giuseppe, che definiva il Farisei come “i
più scrupolosi osservanti della legge ", racconta che essi protestarono
veementemente presso le autorità romane, e quando nell'anno 62 un Sommo
Sacerdote sadduceo “dal carattere violento e arrogante” riunì il Sinedrio e
mise sotto processo Giacomo e altri per violazione della legge; essi furono
condannati e lapidati per la loro intransigenza. Questa è una ulteriore prova
che per i Farisei Giacomo, al pari di Pietro, non poteva o non doveva essere
condannato.
Tuttavia i Sadducei e Sommo Sacerdote
sadduceo mostrarono di aver sviluppato -
per un motivo allo sconosciuto - un
profondo rancore contro Giacomo, tanto che decisero di sbarazzarsi di lui. È
plausibile che le maledizione di Giacomo contro i ricchi avessero provocato la
loro collera. Il fatto che si sia spinto fino ad incolpare questi ricchi di
aver condannato e ucciso il giusto potrebbe essere stata la goccia che fece
traboccare il vaso.
Esiste la possibilità che Giacomo pensasse
ai Romani, e non ai Sadducei, dicendo che i corrotti vivevano nella crapula e
nella dissolutezza e che la sua accusa di aver fatto morire Gesù fosse rivolta
ai Romani.
San Paolo scrive le sue lettere due o tre
decenni dopo la morte di Gesù. Egli non era Gerusalemme al tempo della morte di
Gesù, ma probabilmente ha ricevuto informazioni di prima mano da chi vi aveva
assistito. È molto probabile che le sue lettere, verosimilmente un secolo dopo,
prima della loro inserzione nel canone neotestamentario, furono sottoposte a
modifiche redazionali. La stessa sorte tuttavia toccò ad altri libri del nuovo
testamento e nondimeno si ammette che tra essi siano rimaste delle
contraddizioni. In base alle sue lettere sembra che non disponesse di
informazioni attendibili o di testimonianze di prima mano che parlassero di una
iniziativa ebraica o di una partecipazione al processo o alla crocifissione di
Gesù. Nondimeno, nella lettera ai cristiani di Tessalonica, egli sostiene che
gli Ebrei hanno messo a morte Cristo e loro profeti e hanno perseguitati
cristiani e hanno persino cercato di distogliere i cristiani dal predicare ai
non ebrei.
In un'altra lettera Paolo dice che Cristo è
stato ucciso dai “principi di questo mondo ", espressione che si
adatterebbe meglio su piuttosto che agli Ebrei. Ma probabilmente la parola
greca "archontes” è da interpretare nel senso di signori non terreni ma
spirituali: demoni cattivi che agivano gli ordini di Satana, secondo una scuola
di pensiero, e, secondo un'altra, invece, spiriti Benigni che facevano la
volontà di Dio. Va notato comunque, che questi spiriti avrebbero guidato le
persone senza lasciare loro possibilità di scelta, e quindi l'espressione di
Paolo sarebbe liberatoria di chi agì. In una lettera precedente Paolo afferma
che Dio stesso avrebbe condannato a morte Gesù considerandolo come colui che
aveva preso il peccato sulla sua persona. Per mezzo della morte di Gesù Dio
aveva liberato il mondo dal peccato. Nessuna colpa poteva pesare sugli
strumenti che Dio aveva prescelto per realizzare i suoi progetti. Inoltre la
croce è strumento e simbolo di vita eterna: la morte di Gesù, invece di
rappresentare la tragica conseguenza di un assassinio legale, assume il
carattere salvifico della remissione dei peccati e della fede nella giustizia.
Le parole che l'autore degli atti degli
apostoli attribuisce a Paolo sono in contraddizione con le affermazioni delle
sue lettere. Paolo inveisce contro i giudei per la morte di Cristo. Paolo
avrebbe parlato degli “abitanti di Gerusalemme e i loro capi ". Inoltre la
affermazione che costoro condannarono Gesù per che non lo riconobbero è meno
grave, perché implica che se avessero conosciuto meglio le profezie, non
avrebbero condannato Gesù. In totale contraddizione con quanto Luca afferma nel
suo racconto evangelico, negli dei atti degli apostoli si dice che gli Ebrei
avrebbero fatto la richiesta a Pilato di mettere a morte Gesù non perché
ritenevano che se lo fosse meritato ma, al contrario - sebbene apparisse immeritevole di
morire - perché solo così la volontà
divina si sarebbe potuta adempiere. Paolo afferma, negli atti degli apostoli,
che dopo che gli Ebrei avevano compiuto ciò cui erano stati eletti e
predestinati (la morte di Cristo) essi lo deposero dalla croce e gli diedero
sepoltura. In totale contraddizione con quanto Luca afferma nel racconto
evangelico, qui si dice che avrebbero fatto la richiesta a Pilato di mettere a
morte Gesù non perché ritenevano che se lo fosse meritato ma, al contrario,
sebbene apparisse immeritevole di morire, perché solo così la volontà divina si
sarebbe potuta compiere. È notevole il fatto che solo nel discorso tenuto
brevemente nella sinagoga di Antiochia Paolo accenna alla causa della morte di
Gesù. È ugualmente notevole che quando si trovò a difendere la propria causa
davanti al governatore e il Sinedrio era suo avversario non disse parola circa
la responsabilità di quest'ultimo nella morte di Gesù, anche se questo avrebbe
potuto spiegare il perché della condanna capitale, fatto grave agli occhi del
governatore. Probabilmente l'autore degli atti degli apostoli era al corrente
di tradizione riguardanti il reale contenuto del discorso di Paolo; altrimenti
avrebbe fatto dire a Paolo le stesse cose che diceva Pietro.
Tutti gli ammonimenti di Paolo agli Ebrei
sono segnati dall'amore e dal sentimento di appartenenza (Fratelli, io sono
Farisei, figlia di Farisei "). Se avesse davvero pensato che gli Ebrei
erano stati gli assassini di Gesù, questo sarebbe inspiegabile.
Certamente Paolo ha svolto un ruolo
capitale nella rottura finale e irrimediabile tra Ebrei e cristiani. Ma egli
mantiene sentimenti di amore e benedizione e perdono dei peccati e di invito a
salvarsi nei confronti degli Ebrei. Gli Ebrei che non abbracciavano la
religione di Cristo erano semplicemente da commiserare e nei loro confronti era
da implorare la grazia del Signore, ma la loro cecità e la loro ostinazione non
giustificavano l'odio. Se nel corso della storia l'atteggiamento generale e
ufficiale cristiano nei confronti degli Ebrei venne a divergere da quello nei
confronti di altri non cristiani, ciò non fu il riflesso di contrasti
ideologici o dottrinali, ma soltanto la conseguenza dell'ottusità e del
pregiudizio che si erano impadroniti dei cuori dei cristiani attraverso il
ritratto che i Vangeli avevano abbozzato degli Ebrei, quale uccisori di Gesù e
autori della sua crocifissione. Questo ritratto è opera degli Evangelisti ed
essi iniziarono a progettarlo non prima di quattro decenni dalla morte di Gesù.
Gli apostoli importanti che erano venuti prima degli Evangelisti non sapevano
nulla di un simile assassinio ed erano ben lontani dall'instillare l'idea di
una simile perversa volontà.
CAPITOLO DECIMO: IL SUO SANGUE RICADA SOPRA DI NOI E SOPRA I
NOSTRI FIGLI
La grande guerra giudaica degli anni 66-70
si era conclusa con la distruzione del Tempio e della città di Gerusalemme da
parte dei Romani. Quando iniziò, la maggior parte dei cristiani lasciò
Gerusalemme. Marco visse e scrisse Roma; Matteo, invece, ad Alessandria. Marco
aveva già incondizionatamente condannato gli Ebrei per la loro responsabilità
per la morte di Gesù. Anche Matteo accettò questa tradizione.
Ad Alessandria esisteva probabilmente la
più grande comunità ebraica dell'epoca. Cresceva la tensione tra gli Ebrei da
un lato e i greci e Romani dall'altro, ma anche tra Ebrei e cristiani. Gli
Ebrei rimproverava ai cristiani di avere abbandonato la Giudea all'inizio della
guerra, mostrandosi poco patriottici; erano anche sdegnati dalle opinioni dei
cristiani, che affermavano che la distruzione del Tempio rivelava che lo scettro
di popolo eletto era passato ai cristiani e che sugli Ebrei si era abbattuta la
maledizione divina per l'uccisione di Cristo e l'unica loro salvezza era
diventare cristiani. Matteo si dedicò ad esporre questo punto di vista. Per
sostenerlo era necessario che la colpa fosse di tutto il popolo ebraico e uno
solo dei capi; inoltre era necessario che essi avessero avuto un ruolo attivo
nella condanna romana; occorreva fabbricare dei “fatti ".
Arriviamo al famoso passo in cui Pilato
dice: “non sono responsabile di questo sangue; vedetevela voi”. E tutto il
popolo risponde: “E il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli!
".
Secondo una prima teoria, in realtà la
esclamazione “il suo sangue ricada su di noi” era tipica dei testimoni d'accusa
nei processi criminali. Secondo la legge, prima di essere escussi, i testimoni
erano ammoniti dal giudice in questo modo: sappi che la procedura criminale si
differenzia da quella civile, perché nelle cause civili uno che abbia
eventualmente causato un danno, può risarcirlo con denaro; invece nelle cause
criminali il suo sangue e quello dei suoi figli ricadrà in perpetuo su di te.
Sembra quindi che il sangue di un condannato a morte si dicesse in ogni caso
“ricadere” su colui che aveva reso la testimonianza in base alla quale il primo
era stato giudicato colpevole, e indipendentemente dal fatto che essa fosse
vera o falsa. Se fosse stata vera, non sarebbe stato nulla di grave se il
sangue del condannato fosse ricaduto su di lui. Solo se fosse stata falsa
questo sangue, sparso ingiustamente, avrebbe gridato vendetta a Dio. Nel caso
di Gesù, poiché gli Ebrei erano fermamente convinti che a sua colpa fosse
definitivamente accertata, potevano esclamare senza esitazione che suo sangue
fosse ricaduto su di loro, come dei testimoni che testimoniavano contro di lui.
Secondo un'altra teoria esegetica, la frase
è al presente, e va interpretata come se dicesse “fermo, non condannarlo, tu
versi sangue innocente, se tu versi questo sangue, noi non ci riteniamo in
alcun modo responsabili ".
Ma questi sono tentativi esegetici
disperati e inconsistenti di eliminare la maliziosità degli Evangelisti.
Il vero significato dell'espressione è
quello tradizionalmente attribuito a essa. Gli Ebrei affermano nel passo di
Matteo che Dio in Cielo è testimone che essi in quel momento prendono su di sé
il sangue di Cristo e che se dovesse essere sangue innocente Dio scoprirà il
loro misfatto e lo rovescerà loro addosso. l'espressione “il suo sangue ricada
su di noi” è un modo di dire che si incontra sovente nell'ebraico biblico per
indicare l'assunzione di responsabilità in caso di morte provocata.
Il rito del lavaggio delle mani era
tipicamente ebraico e non romano, utilizzato per dichiararsi Innocenti di
fronte a una morte di autore ignoto. esistono qui due incongruenze: la prima
che è che questa cerimonia è ebraica; la seconda e che essa si faceva dopo
l'uccisione e non prima dell'uccisione. A Roma un simile comportamento di un
governatore doveva sembrare assurdo ai lettori del Vangelo, perciò gli autori
dei Vangeli di Luca e Giovanni hanno lasciato cadere questa storia.
Poiché Marco, il primo evangelista non fa
parola del lavaggio delle mani e questo è assente in Luca e Giovanni, si può
presumere che dietro la narrazione di Matteo non vi sia nessuna tradizione
degna di fede.
[316] L’autoincriminazione ebraica era, da
un punto di vista giuridico e politico, completamente priva di valore e di
influenza.
Chi erano gli ebrei che si presero questa
responsabilità? Matteo dice che fosse tutto il popolo. Ma il cortile del
Praetorium non poteva dare spazio a più di mille persone. I presenti gridarono
tutti all’unisono? A quale autorità potevano appellarsi per assumersi tale
responsabilità? Erano stati inviati da qualcuno ed erano stati autorizzati a
prendere il suo sangue sulla loro testa e su quella dei loro figli? Se erano
stati i capi dei sacerdoti e gli anziani ad aizzare il popolo, perché non si
erano assunti direttamente loro tale responsabilità? E in tal caso con quale
autorità? Anche a concedere che tale grido sia risuonato sulla bocca di qualche
centinaio di ebrei durante l’udienza davanti a Pilato, ciò non giustificherebbe
in alcun modo che lo si trasformi in quell’autoaccusa non richiesta di tutto il
popolo ebraico che vincolava ed esponeva all’esecrazione le sue generazioni
fino alla fine dei tempi.
Infine, una responsabilità non si
attribuisce in base ad una dichiarazione, ma a criteri oggettivi. Le parole
degli Ebrei non possono, automaticamente, essere considerate una confessione
probante di aver intenzionalmente e premeditatamente fatto morire Gesù.
Dice Tertulliano che proprio come il sangue
di Abele che dalla terra gridava a Dio, era ricaduto su Caino, e la pena di
questi era consistita nell’andare “ramingo e fuggiasco sulla Terra”, così anche
il popolo ebraico, sul capo del quale pesava il sangue di Gesù, doveva vagare
inquieto sulla Terra e dovunque arrivasse, doveva portare il marchio di Caino,
il marchio dell’assassino.
Le conseguenze di tale attribuzione di
responsabilità da parte cristiana sono gravi. Alcuni padri della Chiesa si
limitarono a dire che la loro missione era solo quella “di predicare agli Ebrei
con spirito d’amore” invece di “vantarsi di fronte a loro come gemme
dell’albero”; i credenti senza trionfalismo dovevano dire loro: “Venite…
camminiamo nella luce del Signore”. Molti altri invece ritenevano che Dio non
fosse stato abbastanza severo e, come se fosse dovere della Chiesa compensare
la sua mitezza, perseguitavano gli Ebrei in tutti i modi possibili e
immaginabili: “poiché voi avete ucciso il Cristo, d’ora in avanti non ci sarà
alcuna emissione, alcun perdono, alcuna giustificazione”; gli Ebrei vivranno
sempre sotto il giogo della schiavitù. In quanto rei confessi di deicidio non
ci voleva molto a considerarli la feccia dell’umanità.
CAPITOLO UNDICESIMO: GLI ATTI DI PILATO
Gli Atti di Pilato che costituiscono
gran parte dell’apocrifo Vangelo di Nicodemo sarebbero, secondo la
dichiarazione dello stesso Vangelo, gli atti scritti all’epoca sulla vicenda di
Gesù e raccolti da Nicodemo, successivamente persi e poi ritrovati e pubblicati
nel Vangelo in esame da un certo Anania, “ufficiale dei pretoriani ed esperto
delle Scritture”. Questa versione, che Anania stesso colloca nell’anno 425, fu
scoperta circa cento anni fa. Sembrerebbe che scritti del 150 e del 375 ne
riecheggino il contenuto. Tuttavia esperti di diritto asseriscono che in realtà
Anania mostra una deplorevole ignoranza del diritto romano in generale, e
quindi anche di quello del suo tempo.
Tralasciando la questione dell’autenticità
dell’apocrifo, notiamo che esso tenta di raddrizzare le incongruenze dei
vangeli canonici circa il processo e la morte di Gesù.
La pretesa di regalità di Cristo, anche se
nei sinottici non arriva alla affermazione che egli e il figlio unigenito di
Dio, però implica, agli occhi dei Romani, la sua natura divina o semidivina.
Inoltre, Se egli fosse un vero re si tratterebbe di liti tra satrapi rivali,
che dovrebbero essere sottoposte all’Imperatore piuttosto che a un semplice
governatore. E’ forse per questa ragione che Pilato chiede ripetutamente a
Cristo della sua regalità e procede con particolare circospezione.
Essendo ignorante della legge e delle
consuetudini religiose ebraiche l’autore dell’apocrifo fa incriminare Gesù per violazione del sabato
con delle guarigioni e per ripetuta violazione delle leggi e delle consuetudini
ebraiche. In realtà Cohn ha mostrato più sopra che le risposte di Gesù che su
tali punti riportano i Vangeli mostrano che egli non si allontani dalle
argomentazioni dei Farisei, riuscendo a convincerli della ortodossia delle
proprie posizioni. Ignorava poi la prescrizione del diritto romano che l’accusa
dovesse essere mossa non da un gruppo ma da singole persone.
Secondo la narrazione di questo vangelo,
non appena Cristo entrò nella stanza di Pilato le figure sugli stendardi si
inchinarono a lui. Pilato era sulle spine: condannare un uomo che faceva simili
prodigi voleva dire offendere un Dio, ma secondo i suoi accusatori un simile
potere aveva fonte diabolica, e non condannare poteva dire lasciar libero un
demone.
Egli interpella Cristo. Gli accusatori
affermano la nascita illegittima di Cristo. Per gli Ebrei un simile fatto è
incompatibile con la regalità. Una delle calunnie che i saggi ebrei dei secoli
III e IV avevano escogitato per screditare Gesù era che egli era figlio
adulterino.
E’ significativo il fatto che l’autore
degli Atti di Pilato faccia dire a Cristo che la esecuzione da parte di
Pilato avrebbe compiuto la profezia sulla sua morte e risurrezione. Forse
Cristo pronunciò realmente queste parole, ma gli evangelisti canonici evitarono
di riferirle, perché la colpa degli Ebrei ne sarebbe uscita quasi annullata,
apparendo essi come strumenti di ciò che Cristo voleva che avvenisse, e
inoltre, dice Cohn, essi sapevano che
Pilato difficilmente avrebbe ceduto a un tale grottesco desiderio,
morire per risorgere, e avrebbe mandato via Gesù.
CAPITOLO DODICESIMO: FONTI NON CRISTIANE
Perché un Sinedrio straordinario convocato
per salvare un Rabbi caro al popolo e una esecuzione così eclatante come quella
di Cristo non sono riportate nelle fonti ebraiche, nel Talmud o in
qualche Midraš?
In realtà le fonti talmudiche di
quest’epoca di grandi rivolgimenti, spesso si concentrano su alcuni fatti,
trascurandone altre: anche la rivolta dei Maccabei è nominata solo
superficialmente.
Comunque fonti talmudiche, sia pure scarse,
esistono. La principale è una barayta , cioè un insegnamento o dictum del periodo
mishnadico non incluso nella Mišnah (la Mišnah è la parte più
antica del Talmud, completata entro il 200 d.C.) che dice: La vigilia della
Pasqua Gesù (il Nazareno) fu impiccato. In precedenza, per quaranta giorni,
l’araldo aveva annunciato: egli viene condotto alla lapidazione perché ha
praticato la stregoneria e ha traviato e sedotto Israele; chi ha qualcosa da
dire a sua difesa,venga e lo esponga. Poiché però nulla fu addotto a sua
difesa, venne appeso la vigilia della Pasqua. Ula replicò: tu credi poi che per
lui fosse auspicabile una difesa? Non era egli un corruttore al quale si
applicava il comandamento divino: e il misericorDioso dice: “il tuo occhio non
lo compianga, non coprire la sua colpa”? Ma (risposero), con Gesù le cose
stavano diversamene, perché era vicino al governo.
Si accenna qui ad accuse di stregoneria da
parte degli Ebrei, ma questa tradizione è infondata (nessun malato guarito
avrebbe testimoniato contro di lui), tanto da essere stata lasciata cadere
anche dagli evangelisti, che se pure parlano di accuse di combutta con Belzebù
però non ne fanno cenno tra le accuse del Sinedrio. Forse la barayta si
riferisce ad un altro Gesù, che è stato effettivamente condannato per
stregoneria.
L’accusa di “aver sedotto Israele, inducendolo
in errore” è la più grave delle accuse ebraiche, quella di aver istigato a
servire altri dei. Ma Gesù non predicò mai l’idolatria. Tutto il suo
insegnamento e tutte le sue opere furono nel nome di un Dio unico che ta in
Cielo, il Dio degli Ebrei, e la sua esclusiva preoccupazione fu di rendere
intelleggibile agli uomini questo unico, vero Dio. Di nuovo, potrebbe trattarsi
di un suo omonimo condannato per idolatria.
Elementi contraddittori della barayta
sono il fatto che l’araldo annuncia la lapidazione, ma poi Gesù è detto essere
stato impiccato, e il fatto che si attendono 40 giorni perché si presentino
testimoni a scagionarlo, mentre normalmente il tempo concesso ai testimoni per
farsi avanti è quello del tragitto dal tribunale, dove è stata pronunciata la
sentenza, al luogo dell’esecuzione. Secondo il diritto ebraico, invece, nel
caso di delitto di idolatria nessun testimone sarebbe stato ascoltato,
facendosi luogo immediatamente alla esecuzione della sentenza. L’unica
concordanza della barayta è con la narrazione Giovannea, che parla di
una riunione del Sinedrio in un tempo “prossimo alla Pasqua” durante la quale i
giudici avevano concordemente deciso di uccidere Gesù. Uno di questi racconti
potrebbe aver influenzato l’altro (quale, non è dato sapere), e deporrebbero
per l’esistenza di un lasso di tempo anormalmente lungo tra la risoluzione del
Sinedrio e la condanna di Gesù. Ma vi sono notevoli discrepanze. Giovanni parla
di una riunione informale, mentre la procedura mediante araldo nella barayta
segue una condanna formale. La barayta riporta il commento del rabbino
Ula (280-300 ca.) secondo cui un lasso di tempo così lungo per la presentazione
dei testimoni fu dovuto al fatto che Gesù era vicino al “governo” (che nel
gergo talmudico vuol dire “Roma”). A parte la oscurità di tale “vicinanza a
Roma”, se così realmente fosse stato, il Sinedrio avrebbe avuto molte altre
alternative, secondo Cohn (mitigazione della pena etc.) invece che seguire una
macchinosa procedura di ricerca di testimoni.
Esiste un altro passo del Talmud che parla
di un’impiccagione la vigilia della Pasqua, riferito ad un certo Ben
Saţda’ reo di idolatria, il quale, proprio come Gesù, fu “appeso” anziché
lapidato.
Non è implausibile che anche la barayta
in realtà narri il caso di Ben Saţda’ e non di Gesù
Esiste anche la possibilità che la vicenda
di Ben Saţda’ sia stata interpolata per renderla simile a quella di Gesù,
esistendo una versione della storia che non parla di esecuzione in tempo
Pasquale e dice che Ben Saţda’ fu lapidato e non appiccato.
Che Ben Saţda’ non fosse Gesù risulta
comunque da altri elementi (il fatto che fu processato a Lod e non a
Gerusalemme e il fatto che fu fatto oggetto di una regolare procedura di
condanna ebraica).
Le fonti ebraiche informano su un altro Gesù
vissuto tre o quattro generazioni prima di Gesù Cristo, che divenne apostata e
fu respinto dal suo maestro. In alcuni manoscritti egli è indicato come “Gesù
di Nazareth”, come avviene anche per il Gesù della Barayta. Pare che
l’appellativo “di Nazareth” fosse stato inserito dagli autori ebraici per
equiparare i due personaggi.
Il Talmud, per essere pubblicato, doveva
avere l’imprimatur delle autorità censorie cristiane, e non è dato
sapere se il materiale su Cristo che certamente deve essere esistito nella
tradizione orale o manoscritta ebraica sia andato perduto ad opera del censore
o ad opera degli stessi Ebrei timorosi della censura.
Probabilmente il materiale della barayta
fu rimosso dai censori cattolici per gli accenni al fatto che Cristo fu
considerato mago e idolatra, anche se la barayta appoggiava la tesi
cristiana della condanna formale di Cristo da parte del Sinedrio.
L’accusa di idolatria riportata nella barayta
è completamente fuori luogo e non compare in altre fonti talmudiche
pervenuteci, dove gli ebrei convertiti al cristianesimo sono chiamati
“apostati” ma non “idolatri”.
Secondo Cohn, gli apologeti ebraici, per
screditare la religione cristiana, riferirono sia la cronaca della barayta
che quella relativa a Ben Saţda’ a Gesù di Nazareth, mentre con tutta
probabilità si trattava di personaggi diversi, tra i tanti accusati di
idolatria.
Se tanto la barayta quanto il
racconto su Ben Saţda’ non rivestono alcuna importanza in relazione al
processo di Gesù, dobbiamo concludere che non esistono testimonianze talmudiche
al riguardo, il che significa o che non fu messo per iscritto niente oppure che
i redattori del Talmud o una censura esterna operarono soppressioni con
tanta efficacia che tutte le tracce in proposito sparirono.
Passando alla fonte costituita dalle Antichità
Giudaiche di Giuseppe Flavio, ivi Cristo viene descritto come “saggio – se
pure lo si può considerare uomo – che compì opere sorprendenti, ed era il
Cristo e che, accusato dai principali giudei, fu giustiziato per questo da
Pilato, morì e risorse”. Si è notato giustamente da parte degli stuDiosi, che
questo è un passo che può essere stato scritto solo da un cristiano. Poiché
sappiamo che Giuseppe non fu mai cristiano, come attestato tra l’altro da
Origene, è probabile che si tratti di una interpolazione. A questo punto
diviene impossibile ricostruire il testo originario di Giuseppe, come pure
ritengono di voler fare alcuni filologi. E’ persino possibile che il passo
originario in Giuseppe Flavio non si facesse alcuna menzione a Gesù. In ogni
caso, il valore probatorio dell’intero testo risulta contaminato e inquinato.
Del passo interpolato si servì Eusebio
contro Porfirio, autore di quindici libri contro i cristiani nei quali
affermava che Gesù non era mai vissuto, e le storie della sua passione e
risurrezione erano dottrine insostenibili, in contraddizione con ogni vera
concezione di Dio, e aveva predetto che la nuova religione sarebbe presto
andata in rovina, perché non era “costruita su basi ragionevoli” ma
presupponeva una “fede cieca”.
Giuseppe Flavio, che scriveva a Roma e era
interessato a mettere in buona luce gli Ebrei di fronte ai Romani, avrebbe
piuttosto taciuto che dalla Giudea proveniva la “superstizione” cristiana o ne
avrebbe piuttosto parlato sprezzantemente. Lo stesso fatto dell’interpolazione
potrebbe essere un indizio di una valutazione sprezzante del cristianesimo che
abbia attirato l’attenzione degli interpolatori cristiani e li abbia indotti ad
inserire il passo laudativo testé riportato. Si può anche argomentare che se
gli interpolatori avessero trovato in Giuseppe una attestazione che Cristo
fosse stato condannato dal Sinedrio non avrebbero sentito il bisogno di
interpolare il passo.
Nella versione russo-antica o slava delle Antichità
Giudaiche Gesù è descritto in modo più sottilmente neutrale come un
taumaturgo che risiedeva di là dal Giordano, sul monte degli Ulivi, che aveva
radunato centocinquanta seguati e che per due volte fu accusato davanti a
Pilato, vuoi per invidia, vuoi perché i giudei temevano l’ira di Pilato
nell’apprendere che esisteva un taumaturgo con seguaci turbolenti che avevano
propensioni alla lotta armata. Alla fine Pilato fu convinto a “consegnarlo agli
Ebrei”per trenta “talenti”. Il passo sembra anche qui grossolanamente
interpolato, data la presenza delle solite incongruenze circa la crocifissione
per mano ebraica. Si noti che questa versione mostra una maggior preoccupazione
di verosimiglianza: un magistrato romano non avrebbe mai condannato un
innocente su pressione degli astanti. La condanna ingiusta di Pilato viene
quindi sottilmente ricondotta alla corruzione operata dagli Ebrei. Si è
sostenuto che l’interpolazione è ebraica. Ma nessun ebreo avrebbe sostenuto la
colpa degli Ebrei nella condanna di Gesù.
Svetonio (69-140) racconta che durante il
regno di Claudio (41-54), Gesù incitò gil Ebrei a ribellarsi continuamente, al
che vennero cacciati da Roma. E durante il regno di Nerone (54-68) furono prese
misure punitive contro i cristiani, “questo gruppo di persone attaccate a una
nuova e scellerata superstizione”. Il “Cristo” che sobillò gli Ebrei non poteva
però essere Gesù, che era già morto. Forse Svetonio si riferiva ad un altro
uomo di nome Gesù o, impersonalmente, alle dottrine di Gesù (tanto più che
questi era affermato essere risorto).
Tacito scrive: Per troncare ogni
mormorazione Nerone trovò i colpevoli e con pene raffinatissime uccise quei
tali scellerati che il volgo chiama odiosamente cristiani. Essi derivavano il
nome da Cristo, mandato al supplizio, regnando Tiberio, dal procuratore Ponzio
Pilato. La superstizione funesta, momentaneamente repressa, irrompeva di nuovo,
non soltanto nella Giudea, luogo di origine di quella sventura, ma anche in
Roma, dove confluiscono da ogni parte tutte le cose atroci e turpi e vengono
celebrate. Per primi furono presi quelli che confessavano; poi, su loro
denuncia, una moltitudine immensa di colpevoli non tanto dell’incenDio quanto
di odio contro l’umanità
Seri dubbi sono sorti sull’autenticità di
questo passo di Tacito. Egli è l’unico scrittore pagano in assoluto che menzioni il nome di
Pilato e che parli del ruolo di Pilato nella vicenda di Gesù. Ma essendo stato
egli governatore, come l’amico Plinio, in una provincia dove vivevano molti
cristiani, può aver appreso questo dagli interrogatori. Comunque sia, le
informazioni di Tacito non aggiungono nulla a ciò che noi sappiamo.
Il risultato complessivo al quale portano
le fonti non cristiane sul processo e sulla crocifissione di Gesù è dunque
nullo.
CAPITOLO TREDICESIMO: LA PERVERSIONE DEL DIRITTO
La distruzione del Tempio è per i cristiani
una forte prova della colpevolezza degli Ebrei: essa si abbatté tra l’altro su tutto il popolo ebraico, convalidando
l’idea che tutto il popolo fosse responsabile della morte di Cristo. Le
traversie successive mostrerebbero poi che la maledizione riguardava anche i
figli dei figli, fino alla fine dei tempi.
Gli Ebrei condivisero la convinzione che le
rovine di Gerusalemme e del suo Tempio e la dispersione del loro popolo sotto la dominazione
straniera erano punizioni del Signore. Se egli aveva inviato sciagure, dovevano
essersele meritate.
Essi non hanno tuttavia mai ricollegato
tali sciagure al deicidio di Cristo. In proposito hanno sempre risposto che se
un tribunale ebraico di quel tempo aveva davvero giudicato Gesù colpevole di un
delitto capitale, si deve presumere che la condanna fosse giusta e che il
tribunale avesse fatto del suo meglio, agendo in buona fede giudicando secondo
la legge. Essi effettivamente negarono lo svolgimento di quel processo, spingendosi
fino ad affermare che, già quaranta anni prima della distruzione del Tempio, i
tribunali ebraici non erano più autorizzato a celebrare processi capitali, e
che quindi negli anni trenta non avrebbero potuto celebrare un processo contro
Gesù in base a un’accusa per un delitto punito con la pena di morte. Gli Ebrei
non intrapresero mai una critica testuale dei vangeli perché già dal periodo
talmudico le scritture sacre dei cristiani (Sifre minim) erano
rigorosamente tabù e la loro lectio vietata. In alcuni ambienti tali
letture erano considerate materia pericolosissima.
Già negli apocrifi del secolo I gli Ebrei
sono accusati dell’uccisione di Anania e di Cleopa, descritti come due amici di
Gesù. Avrebbero imprigionato e ucciso anche Giuseppe di Arimatea. Anche
Longino, che esclamò “veramente quest’uomo era giusto” sarebbe stato condotto a
Roma da Pilato, per corruzione da parte degli Ebrei, per essere messo a morte.
Maria, la madre di Gesù sarebbe stata messa al rogo dagli Ebrei; Marta e
Lazzaro sarebbero stati annegati. Simone di Cirene sarebbe stato croficisso.
Nacque l’idea che gli Ebrei, per i loro riti, avessero bisogno pressantemente
di sangue cristiano innocente. Alla fine vennero considerati responsabili per ogni catastrofe e ogni
disgrazia che accadesse al mondo dei cristiani: epidemie, pestilenze, ecc. che
essi provocavano come untori o facendo combutta con i demoni. Essi furono
ritenuti in ogni tempo coinvolti in magie, omicidi, veleni, incantesimi, sangue
e rituali, specie quelli che miravano all’annientamento della cristianità.
Queste basi teologiche fornirono un fertile
humus per l’antisemitismo radicale dell’epoca moderna, anche perché esse,
basandosi su argomenti storici e religiosi, erano refrattarie ad ogni
confutazione razionale. Ogni contestazione del presupposto antisemita
costituiva agli occhi dei cristiani un tentativo di contestare i Vangeli, e
dunque un ulteriore sacrilegio degli Ebrei.
Gli effetti di un processo non dipendono
tanto dalla sua natura o da ciò che è effettivamente accaduto nel corso del suo
svolgimento, ma piuttosto dal tipo di cronaca e dagli scopi che questa si
propone. Per quel che concerne l’opinione pubblica per avere una propria
giustificazione, i resoconti su processi storici di altri tempi debbono sempre
trovare un qualche significato extragiuridico, devono dare un contributo alla
storia della cultura politica, sociale o religiosa. Così è anche per il
processo a Socrate, narrato da Platone per mostrare Socrate come un esemplare
esponente della filosofia platonica. Non necessariamente in questi casi i fatti
sono alterati, ma questo può succedere, come anche può capitare che alcuni
fatti siano dimenticati e altri enfatizzati. Per poter svolgere una valutazione
adeguata della validità e dell’attendibilità della narrazione, l’osservatore
critico deve costantemente sottoporla ad un esame minuzioso, innanzitutto per
quanto riguarda i suoi scopiere sue propensioni, e poi con riguardo ai mezzi e
alle fonti che erano a disposizione del cronista. Spesso l’opinione pubblica tende
inconsciamente ad attribuire maggiore validità alle fonti “ufficiali”,
provenienti da “autorità”, in confronto a quelle “ufficiose” o “meno
ufficiali”: ad un quotidiano nazionale piuttosto che ad uno provinciale; ad un
resoconto dell’autorità giudiziaria piuttosto che ad uno di un cronista privato
ecc. Ma non sempre questo risponde al vero. Facilmente nei resoconti dei
processi viene esagerato il ruolo svolto dagli astanti o dall’opinione
pubblica. Il lettore dei resoconti è molto attento e bendisposto di fronte alle
opinioni e reazioni dell’opinione pubblica, tra l’altro perché egli stesso ne è
parte. Ma all’opinione pubblica non interessa
normalmente la legge come tale e neppure il significato che l’uno o
l’altro modo di procedere assume in vista del risultato finale. Di solito la
gente si fa impressionare dalla personalità dell’imputato, da una rivelazione
sensazionale di fatti fino a quel momento sconosciuti o non provati oppure da
un dettaglio del processo che, date le circostanze, assume un particolare
significato politico o di altro tipo.
Tutto questo è accaduto nel processo a
Gesù. Se si prescinde, come è d’obbligo, dalle scarse e ambigue affermazioni
attribuite a Pietro e a Paolo, i primi resoconti furono quelli degli
evangelisti. Né questi né i loro lettori si preoccuparono dei dettagli
giuridici e tecnici del processo o della sostanza giuridica degli avvenimenti
descritti. Il loro fine era di natura religiosa e missionaria e le loro
narrazioni miravano ad assolvere il governatore romano da ogni responsabilità
per la crocifissione, pur non essendoci alcuna possibilità di eludere
l’iniziale premessa che l’ordine dell’esecuzione era venuto da lui, e a
cucire saldamente e incontestabilmente
questa responsabilità, invece, addosso agli Ebrei.
E’ ben possibile che il processo dinanzi a
Pilato sia stato ingiusto, ma non si deve dimenticare il ruolo dell’autoaccusa
di Gesù. Un motivo di tale autoaccusa avrebbe potuto consistere nel voler vedere adempiute le sue profezie.
Ma quale che fosse la ragione che lo spingeva, la sua consapevole ammissione di
colpa era sufficiente, dal punto di vista giuridico, a giustificare la sua
condanna. Non c’è bisogno di affermare, come fanno teorie recenti, che Gesù sia
stato effettivamente un ribelle, per sostenere che la condanna sia stata
giusta. E’ persino possibile che Gesù sia stato mal consigliato dal punto di
vista morale e tattico. Inoltre, la perversione della verità operata dagli
evangelisti, con la serie inaudita di persecuzioni che ha avuto come
conseguenza, ha qualcosa in comune con un “assassinio giudiziario” (qualifica
che i cristiani danno correntemente al processo a Gesù).
POSTFAZIONE DI CHRISTIAN WIESE
Secondo molti dei teologi attuali, “presso
la croce di Cristo noi siamo tutti corresponsabili. Perciò alla Chiesa non è
consentito bollare gli Ebrei come i soli colpevoli per la croce di Cristo.
Tuttavia, ancora nel 1948, all’indomani
della fine della guerra, il Consiglio dei Fratelli dell’Unione delle Chiese
Evangeliche Tedesche Rifondate riteneva che la Shoah fosse un disegno del
“paziente” tribunale di Dio che attende il ravvedimento degli Ebrei.
H. Conzelmann, Historie und Teologie in
den synoptischen Passionberichten, in F. Viering (a cura di), Zur
Bedeutung des Todes Jesu, ritiene che “L’ambito dei dati che possiamo
ritenere sicuri è minimo. Il nucleo certo è che Gesù è stato crocifisso. Da ciò
si può concludere che venne arrestato e ne seguì una procedura giudiziaria, e
che tale procedura fu certamente romana. Ciò perché la crocifissione è una pena
capitale romana, non ebraica. Sullo svolgimento degli avvenimenti, tutto il
resto è dubbio”.
La ricerca ebraica e cristiana successiva
all’apparizione del libro di Chaim Cohn non ha illuminato in maniera decisiva
gli avvenimenti reali e non ha raggiunto alcuna chiarificazione generalmente
accettata, ma tenta di perfezionare le diverse ipotesi attraverso innumerevoli
varianti. Rimangono oggetto di discussione tanto i problemi principali
(storicità di un processo o di un interrogatorio davanti al Sinedrio, esistenza
di una giurisdizione penale capitale ebraica, natura religiosa e politica dei
motivi di una partecipazione ebraica alla condanna di Gesù), quanto le
questioni di dettaglio (storicità dell’amnistia Pasquale o dell’iscrizione
sulla croce). Dipendono non raramente da ciò i differenti accenti con cui di
volta in volta si valuta la persona di Gesù e si interpreta l’immagine che
diede di se stesso, la sua posizione all’interno dell’ebraismo del suo tempo o
il suo atteggiamento sulla Torah. Chi colloca Gesù entro i confini della
discussione interna all’ebraismo sull’interpretazione della Torah e
sulla sua pratica, difficilmente prenderà in considerazione l’esistenza di una
ostilità mortale da parte dei Farisei, chi al contrario assume che Gesù abbia
sottoposto la Torah a una critica radicale la penserà diversamente.
Secondo Wiese (teologo cristiano) il punto
più convincente dell’analisi di Cohn è l’idea secondo la quale nessuna delle
molteplici tendenze dell’ebraismo aveva un motivo sufficientemente plausibile
per chiedere la morte di Gesù e che l’iniziativa e la causa di essa furono
inequivocabilmente di parte romana.
La rappresentazione della storia della
passione nei Vangeli, secondi l’opinione generale degli esegeti, necessita di
una critica storica; non vi è infatti dubbio che numerosi motivi influirono
sulla stilizzazione antiebraica della storia della passione, come i conflitti
religiosi manifestatisi in occasione della separazione del cristianesimo delle
origini dall’ebraismo rabbinico, o l’interesse politico delle comunità
cristiane a esonerare i Romani dalla colpa per la morte di Gesù e ad
allontanare dal cristianesimo l’accusa che il suo fondatore fosse stato
giustiziato dai Romani come agitatore politico.
Lo stuDioso ebraico Davis Flusser ritiene
che Cohn sia esasperatamente scettico riguardo le fonti e che è probabile che
Gesù si attirò l’odio del clero sadduceo il quale, dopo un interrogatorio
davanti al consiglio del Tempio, lo consegnò a Pilato. Secondo Flusser non c’è
stato un ordinario processo dinanzi al Sinedrio né una condanna a morte,
essendo stata invece una casta conservatrice di ricchi aristocratici Sadducei,
senza partecipazione e contro la volontà dei Farisei, a consegnare Gesù ai
Romani, ai quali spettò senza dubbio “la maggiore o l’intera responsabilità
della morte di Cristo”. Secondo Flusser come secondo Cohn “Gesù visse e morì da
ebreo osservante”
Sul versante non ebraico, Weddig Fricke
sostiene che Gesù, essendo stato frainteso il carattere pacifico del suo
movimento messianico, fu condannato come presunto sedizioso dal regime di
occupazione romano in un procedimento militare sommario e crocifisso a scopo
intimidatorio. Egli non esclude certo la possibilità che i Sadducei abbiano
colto l’occasione di liberarsi, con Gesù, di un profeta Galileo secondo loro
eretico e che quindi, sotto la responsabilità di Caifa, ci possa essere stato
un contributo ebraico ufficiale alla condanna di Gesù: però “Gesù fu ucciso non
dagli Ebrei ma dai Romani”. I teologi cristiani, con poche eccezioni, non hanno
voluto accettare una così totale discolpa storica degli Ebrei, non ritenendola
conforme alle fonti neotestamentarie. Dominano, invece, due modelli
fondamentali di ricostruzione storica e di interpretazione degli avvenimenti
che con tutte le possibili differenze nelle rispettive concrete argomentazioni
si possono descrivere come segue:
1. Il
modello dell’armonizzazione dei testi biblici:
è quello di coloro che ritengono che il Sinedrio condannò Gesù in base
all’accusa di bestemmia, consegnandolo poi all’autorità romana. Esso enfatizza
il conflitto di Gesù con l’ebraismo e l’irrimediabile ostilità delle principali
correnti religiose ebraiche, la cui ultima conseguenza sarebbe stata la morte
di Gesù. Secondo teologi di questo orientamento, come August Strobel,
contestare la grande forza di testimonianza storica della narrazione evangelica significa
compromettere seriamente l’identità cristiana nel dialogo ebraico-cristiano.
Motivo della condotta ebraica contro Gesù è, secondo Strobel, l’inaudita
rivendicazione di onnipotenza, giunta a manifestarsi nel suo comportamento in
occasione della “purificazione del Tempio”, rivendicazione che costituì una
provocazione specialmente per la nobiltà sacerdotale sadducea. Gesù sarebbe
stato condannato a morte dal Sinedrio per motivi religiosi, non come aspirante
messia, ma come cattivo maestro, falso profeta, seduttore del popolo o
bestemmiatore (conformemente a Deuteronomio, 13 e 17). Il processo davanti a
Pilato, il quale agì “contro la sua convinzione e in mala fede” si svolse in
modo da “trasformare l’accusa ebraica, formulata in termini di colpa religiosa,
in accusa di alto tradimento”. Caifa e il popolo ebraico sono perciò
tragicamente e colpevolmente coinvolti nella morte di Gesù. Però non si può
parlare di assassinio giudiziario, perché questi fatti dipendono dalla
incondizionato legame e dalla fedeltà degli Ebrei alla legge, che doveva essere
eseguita anche contro Gesù. Per Peter Stuhlmacher “Gesù doveva morire perché il
suo comportamento pubblico, la sua dottrina e la sua pretesa (messianica) di
onnipotenza contravvenivano in modo intollerabile alla tradizione religiosa
dominante del suo popolo”. Queste interpretazioni presuppongono una valutazione
profondamente negativa della cosiddetta “legalità” ebraica, che Gesù si sarebbe
lasciato alle spalle. Secondo H. Weder, Neutestamentliche Hermeneutik,
“L’esistenza terrena di Gesù fu caratterizzata dall’amore smisurato nel quale
egli portò a compimento e sottopose a critica la legge. C’erano i manutengoli
della legge, cioè quelli per i quali la legge era ragione di esistenza, e
furono essi a mettere Gesù in croce. La realtà storica potrebbe essere stata
che Gesù fu condotto alla morte in croce per il suo conflitto con la concezione
dominante della legge […] Nella morte di Gesù la legge si è compiuta e perciò
essa, d’ora in poi, non è più in vigore. Con la sua autorealizzazione nel
crocifisso, la legge è giunta alla sua fine”.
2. Il
modello di comprensione aperto ai dati storici del tempo: si distingue dal precedente per il tentativo
più o meno differenziato e prudente di decifrare i motivi che possono rendere
plausibile la partecipazione di una piccola élite politica ebraica al destino
di Gesù, senza presupporre un contrasto religioso radicale e senza condannare
gli Ebrei che vi parteciparono; il loro comportamento viene considerato
piuttosto dal punto di vista dei reali rapporti di forza e dei vincoli
politici. Questo punto di vista è vicino in molti punti a quello di Flusser e
di altri stuDiosi ebraici. Molti stuDiosi contestano l’esistenza di un processo
ebraico o di un “preinterrogatorio”, mentre non escludono categoricamente una
partecipazione di autorità ebraiche sotto forma di una denuncia di Gesù presso
i magistrati Romani, sottolineando tuttavia che l’iniziativa e la celebrazione
del processo e l’esecuzione della crocifissione sono cose che
inequivocabilmente riguardano i Romani. In primo piano è la tesi che non fu il
rapporto di Gesù con la Torah, ma la sua critica politicamente esplosiva
del governo del Tempio – compresa la clamorosa denuncia nel Tempio stesso – a
spingere la “aristocrazia locale di Gerusalemme” ad abbandonarlo in balia dei
Romani, come potenziale agitatore politico. Secondo Jurgen Moltmann, Der Weg
Jesu Christi, i Sadducei consegnarono spontaneamente Gesù a Pilato perché
temevano la distruzione di Gerusalemme e del Tempio, come conseguenza di
un’utopistica politica messianica contro i Romani. Il coinvolgimento ebraico
era quindi motivato dalla sopravvivenza politica dei Sadducei sotto la
dominazione romana. La condanna a morte fu tuttavia pronunciata da Pilato in
nome dell’imperium romanum. Secondo Clemens Thoma, è possibile che Gesù
abbia attirato su di sé l’attenzione dei Romani col suo comportamento al Tempio
e che quindi non sia rimasta alle autorità ebraiche altra scelta che
consegnarlo. Le esatte circostanze storiche restano incerte, con la conseguenza
che “l’indiretto contributo ebraico alla condanna non può essere verificato”