CENTO COSE DA SAPERE SU NUTRIZIONE, BELLEZZA E SALUTE


 

 

 

PARTE PRIMA

 

LA SALUTE DELLE OSSA

 

 

 

 

 


 

Come viene prodotta nel corpo, come circola e come agisce la vitamina D?

 

La vitamina D3 viene prodotta nella pelle tramite fotolisi e successiva isomerizzazione ad opera della luce ultravioletta UV-A della provitamina D 7-deidrocolesterolo. Da lì si diffonde lentamente per i tessuti e infine entra nel sangue.

La vitamina D3 assunta oralmente viene assorbita nell'intestino e attraverso i chilomicroni, delle lipoproteine deputate principalmente alla raccolta dei trigliceridi alimentari, entra nel sangue

La vitamina D nel sangue e si lega alla proteina di trasporto DBP (D-Binding Protein) e viene trasportata nel fegato.

Nel fegato viene trasformata in calcidiolo o 25(OH)D ad opera principalmente dell'enzima CYP2R1, e in misura minore da altri enzimi, alcuni non ancora identificati.

Dal fegato viene trasportata dalla DBP nei reni.

Nei reni, il calcidiolo viene trasformato in calcitriolo o 1,25(OH)2D ad opera dell'enzima mitocondriale CYP27B1. Il calcitriolo è la forma attiva della vitamina D

La produzione di 1,25OH2D è stimolata da ipocalcemia, ipofosfatemia e dall'ormone PTH.

 

 

PTH induce e FGF23 sopprime l'espressione dell'enzima CYP27B1, che trasforma 25(OH)D in 1,25(OH)2D. PTH è sensibile ai livelli di calcio, mentre FGF23 è sensibile ai livelli di fosforo (275)

1,25(OH)2D, attraverso meccanismi di feedback, sopprime l'espressione del gene di CYP27B1 nei reni, e per diminuire PTH e per incrementare FGF23. Anche FGF23 fa parte di meccanismi di feedback attraverso i quali agisce per diminuire CYP27B1 e forse per diminuire PTH. Altri fattori che regolano CYP27B1 sono gli ormoni sessuali e l'adrenalina, la prolattina e l'ormone della crescita. (275)

Recenti studi suggeriscono che CYP27B1 può essere espresso anche in cellule non appartenenti ai reni, e quindi i livelli di 25(OH)D regolano di fatto l'espressione locale autocrina o esocrina di 1,25(OH)2D (276). Questo avviene ad esempio nella pelle. (275)

La degradazione di 1,25(OH)2D avviene ad opera dell'enzima CYP24A1, che è prodotto nei reni e in tutti i tessuti che hanno recettori VDR, su stimolo di 1,25(OH)2D tramite un altro meccanismo di feedback. CYP24A1 agisce, oltre che idrossilando 1,25(OH)2D, anche tramite idrossilazione di 25(OH)D. CYP24A1 è stimolato da 1,25(OH)2D e soppresso da PTH. Anche FGF23, in unione con Klotho, stimolano la sua espressione. CYP24A1, come CYP27B1, viene prodotto localmente in tutte le cellule bersaglio di 1,25(OH)2D e serve per la regolazione della sua produzione locale. (275)

 

 

L'ormone PTH viene prodotto dalle ghiandole paratiroidi. La produzione di ormone PTH dipende da:

  Calcemia (solo i livelli di calcio libero o ionizzato)

  1,25(OH)2D

  Fosfatemia (alti livelli ne aumentano la produzione)

Una iperfosfatemia può addirittura provocare iperparatiroidismo con iperplasia delle ghiandole paratiroidi, attraverso tre meccanismi: a) Stabilizzando il mRNA del PTH; b) attraverso la combinazione del fosforo in eccesso col calcio ionizzato che ne diminuisce la concentrazione plasmatica, stimolando le ghiandole ad aumentare la produzione dell'ormone; c) rendendo più sensibili i recettori del calcio situati sulla superficie delle cellule delle paratiroidi.

 

 

L'ormone PTH ha le seguenti azioni:

  Promuove la secrezione di 1,25(OH)2D nei reni

  Promuove la secrezione di FGF23

  Stimola il riassorbimento di calcio nei tubuli renali

  Inibisce il riassorbimento di fosforo nei tubuli renali, provocando fosfaturia

 

 

La proteina FGF23 viene prodotta dagli osteociti e dagli osteoblasti.

Per poter attivare i recettori, FGF23 ha bisogno che questi siano preattivati dall'enzima Klotho.

La produzione di FGF23 dipende da:

  Fosfatemia cronica. Quanto ad un innalzamento temporaneo della fosfatemia esso non sembra stimolarlo, anche se la somministrazione di una dose orale di fosforo lo fa aumentare. Il principale agente che ne promuove l'incremento è la concentrazione plasmatica di 1,25(OH)2D

  1,25(OH)2D

 

 

La proteina FGF23 ha le seguenti azioni:

  Inibisce la produzione di CYP27B1, l'enzima che serve per produrre 1,25OH2D nei reni.

  Inibisce il riassorbimento renale del fosforo (fosfaturia)

  Promuove la produzione di CYP24, che degrada 1,25(OH)D2

Un eccesso di FGF23 provoca ipofosfatemia e abbassamento di 1,25(OH)D2 mentre un difetto provoca iperfosfatemia, con alti livelli di 1,25(OH)2D.

 

 

Le principali funzioni di 1,25(OH)2D sono:

  Aumentare FGF23

  Diminuire PTH

  Aumentare l'assorbimento del calcio intestinale: legandosi ai recettori situati principalmente nei nuclei cellulari, il calcitriolo promuove l'espressione di geni che producono varie proteine di trasporto del calcio, coinvolte nell'assorbimento del calcio nell'intestino.

  Aumentare l'assorbimento del magnesio intestinale

  Aumentare l'assorbimento del fosforo intestinale

  Promuovere il riassorbimento di fosfati nei reni

  Rimane controverso se stimoli direttamente il riassorbimento di calcio nei tubuli renali

  Promuovere il turnover osseo, stimolando, a seconda del dosaggio, osteoclasti (attività catabolica) o osteoblasti (attività catabolica).

In condizioni di riserve normali o a dosi moderate, la vitamina D stimola direttamente gli osteoblasti e la ricostruzione dell'osso. In condizioni di riserve depauperate o ad alte dosi la vitamina D stimola l'attività demolitrice degli osteoclasti.

La vitamina D promuove il rilascio di calcio e fosfati dall'osso, aumentando il numero di osteoclasti. Questo in caso di deficienza severa con ipocalcemia, allo scopo di far risalire velocemente il livello di calcio nel sangue.

È incerto quale dei due meccanismi sia prevalente nel metabolismo dello scheletro: l'azione diretta di 1,25(OH)2D su osteoblasti e osteoclasti oppure l'azione indiretta sull'assorbimento del calcio.

Recentemente si è scoperto che il metabolita ha anche un effetto anabolico (stimola la formazione ossea): 1 anno di somministrazione di 1,25(OH)2D provoca un aumento di massa ossea dell'1-2% (251).

  Oltre ad elevare i livelli plasmatici di calcio, il metabolita attivo della vitamina D, 1,25OH2D eleva anche i livelli plasmatici di fosforo, che sono necessari anch'essi per la mineralizzazione, perché le ossa sono formate da fosfato di calcio.

 

 

25(OH)D e 1,25(OH)2D sono legati da una curva a duplice andamento: sotto i 16 ng/mL la relazione è inversa: la scarsità del metabolita 25(OH)D attiva l'ormone PTH, che fa aumentare 1,25(OH)2D tanto più quanto più basso è il livello di 25(OH)D. Al disopra di 16 ng/mL la relazione è diretta: all'aumentare di 25(OH)D aumenta 1,25(OH)D (238).

I livelli di 25(OH)D sono scarsamente correlati con l'assorbimento di calcio, che è invece fortemente collegato ai livelli di 1,25(OH)2D (238).

 

 

Esistono dei meccanismi di feedback negativo che contribuiscono a controllare i livelli dei vari ormoni:

  1,25OH2D promuove la diminuzione della secrezione di ormone PTH, che è quello che favorisce la sua sintesi nei reni.

1,25(OH)2D attiva i geni che producono l'enzima CYP24A1, che lo degrada.

1,25OH2D  incrementa la produzione di FGF23, che a sua volta inibisce l'espressioni dei geni che producono l'enzima CYP27B1.

1,25OH2D inibisce la produzione di CYP27B1, l'enzima che serve per produrre 1,25OH2D nei reni.

1,25(OH)2D fa aumentare la fosfatemia, che a sua volta deprime la produzione di 1,25(OH)2D

  FGF23 diminuisce la produzione di 1,25OH2D, che a sua volta fa aumentare FGF23

FGF23 fa diminuire PTH, che a sua volta fa aumentare FGF23

FGF23 fa diminuire la fosfatemia, che a sua volta fa aumentare FGF23

  PTH promuove la produzione di 1,25(OH)2D che a sua volta diminuisce la produzione di PTH

PTH diminuisce la fosfatemia, e a sua volta la fosfatemia, all'aumentare, aumenta la secrezione di PTH

PTH fa aumentare FGF23 e a sua volta FGF23 fa diminuire PTH

PTH innesca una cascata di eventi che fa aumentare i livelli di calcio plasmatico, e questi a loro volta diminuiscono la secrezione di PTH.

 

 

 

Come variano nel tempo, nel corso della vita e nel corso dell'anno, la massa ossea e i livelli degli ormoni calciotropi?

 

Il ciclo di vita del nostro scheletro raggiunge il picco di massa ossea intorno ai 30 anni. A 18 anni (donne) e 20 anni (uomini) viene già raggiunto il 90% di questa massa ossea. Negli anni successivi, fino alla menopausa, le donne non sperimentano nessuna diminuzione della massa ossea. Relativamente alle donne anziane, gli uomini perdono solo la metà della massa ossea e il rischio di fratture è un terzo di quello delle donne (280).

Recenti studi però suggeriscono che in certi distretti ossei la perdita di massa ossea inizi dopo i 30 anni (291).

La perdita di massa ossea a seguito del deflusso del calcio è più pronunciata nell'osso trabecolare, perché le strutture trabecolari immerse nel midollo osseo presentano una superficie molto ampia. È questa la ragione per cui le fratture negli anziani, nelle donne in menopausa e nei soggetti osteoporotici, oltre che nei punti tipici di impatto da caduta, sono più frequenti in punti come le vertebre e la parte distale dell'avambraccio (285).

Un adeguato apporto di calcio con la dieta è quindi un requisito indispensabile per massimizzare il picco di massa ossea ottenuto nei primi 30 anni di vita e minimizzare la successiva perdita ossea. La strategia per ridurre il rischio di osteoporosi richiede anche esercizi con i pesi e adeguati ormoni steroidei sessuali insieme ad una buona nutrizione. Il calcio, tra tutti i nutrienti, richiede più attenzione, perché è più facilmente quello di cui si verifica deficienza.

 

 

Alle latitudini di 51° (Canada meridionale) i valori di 25(OH)D di adulti sani variano con le stagioni: intorno ai 22 ng/mL durante l'autunno e l'inverno; intorno ai 25 ng/mL in primavera e intorno ai 29 ng/mL d'estate. (213).

Di fronte a questa situazione Reinhold Vieth ritiene necessaria una supplementazione di 1000 UI a tempo indeterminato.

Ma alcuni notano che non è detto che i livelli di 25(OH)D debbano essere eguali in inverno e in estate. Forse, come esiste un ritmo circadiano per molte funzioni fisiologiche del corpo, esiste un ciclo annuale per i livelli di vitamina D, e livelli di 20 ng/mL potrebbero essere perfettamente normali d'inverno. Di fatto, si sa, sin dai primi studi sulla vitamina D, che i livelli stagionali non sono influenzati da una blanda supplementazione (100 UI) (225). Viene pure osservato che questi livelli vengono misurati in adulti sani, che non presentano cioè alcuna patologia, in particolare ossea, e che trattarli con supplementi di vitamina D pare inutile. Viene infine fatto notare che

 

 

 

La vitamina D svolge altre azioni sul metabolismo osseo, oltre che favorire l'assorbimento intestinale di calcio?

 

1,25 interviene a regolare l'omeostasi del fosforo (505).

1,25 interviene a vari livelli nel metabolismo osseo, oltre che nell'assorbimento intestinale del calcio (495).

1,25 controlla, insieme ad altri fattori di crescita, l'espressione e la regolazione dei geni degli osteoblasti. La vitamina D con i suoi metaboliti influenza non solo le funzioni degli osteociti/osteoblasti, ma anche la maturazioni dei vari tipi di cellule

Gli osteoblasti sono raggiunti da un insieme di segnali di riassorbimento che includono 1,25 e PTH e secernono RANKL, che attraverso una serie di pathways promuove l'osteoclastogenesi (495).

L'espressione del gene RANKL è regolata anche tramite recettori di 1,25 e PTH (495).

1,25 e PTH regolano indirettamente anche l'omeostasi del fosforo, che viene regolata direttamente da FGF23. 1,25 promuove l'uptake intestinale degli ioni di fosforo e inibisce insieme a PTH il riassorbimento renale del fosforo. I livelli di FGF23 aumentano a seguito dell'aumento dei livelli plasmatici di fosforo e dell'aumento dei livelli di 1,25 (495).

1,25 regola i livelli di FGF23, innalzandoli, non direttamente (non ci sono recettori VDR nel sito genomico di FGF23) ma in modo ancora poco chiarito, probabilmente inibendo DMP1 e PHEX, due proteine inibitrici di FGF23 (495).

La risposta del tessuto osseo a stress meccanico è modulata da fattori ormonali tra cui 1,25 e PTH, anche se non si conoscono con precisione i meccanismi (495).

A seconda del momento del processo di differenziazione degli osteoblasti e dalla durata dell'esposizione, 1,25 può stimolare o inibire l'espressione dell'osteocalcina, del collagene e della fosfatasi alcalina negli osteoblasti. Così, 1,25 pare stimolare lo sviluppo e la moltiplicazione degli osteoblasti immaturi mentre sembra inibire gli osteoblasti maturi (495).

È noto da tempo che anche in mancanza di vitamina D si può avere uno sviluppo scheletrico pressoché normale negli animali di laboratorio grazie ad un abbondante apporto di calcio, specie se insieme a lattosio, che ne favorisce l'assorbimento per vie extracellulari nell'intestino (495).

Le cellule MSC (Mesenchimal Stem Cells) del midollo osseo possono differenziarsi in osteoblasti o adipociti. Questo secondo processo si incrementa con l'età ed è responsabile dell'accumulo di grasso nel midollo osseo che è correlato ad una ridotta massa ossea e ad osteoporosi. 1,25 contrasta la trasformazione delle cellule MSC in adipociti (495).

In determinate condizioni, come severa deficienza di calcio, 1,25 favorisce l'espressione di un gene che rallenta la mineralizzazione dello scheletro per preservare l'omeostasi del calcio (494) (496).

 

 

 

Quali sono i parametri fisiologici che interessano il metabolismo osseo, e quali di essi andrebbero tenuti d'occhio?

 

Una serie di esami consente di stabilire se esista un eccessivo turnover osseo, che può provocare un eccessivo rimodellamento con fragilità ossea.

I marker della demolizione o dell'aumentato turnover osseo da tenere d'occhio sono: fosfatasi alcalina, calcio ionico, PTH, idrossiprolina urinaria, piridinolina urinaria, dossipiridinolina urinaria corretti in rapporto alla creatinina (OHPr/Cr, Pyd/Cr, Dpd/Cr).

I livelli di 1,25OH2D sono meno significativi: da un lato, per rilevare il turnover osseo e la calcemia che un eccesso di questo metabolita potrebbe provocare sono sufficienti i marker citati sopra; dall'altro perché i suoi livelli non sono legati ad una deficienza di vitamina D nell'organismo ma fluttuano in dipendenza di altri fattori.

 

 

Ad un turnover anomalo si accompagna una patologia che può presentarsi anche in sua assenza, e cioè il disequilibrio tra fase distruttiva (ad opera degli osteoclasti) e fase ricostruttiva (ad opera degli osteoblasti) del processo di rimodellamento osseo.

L'osteocalcina è un buon biomarker dei processi ossei anabolici e viene utilizzato per stabilire l'efficacia delle cure dell'osteoporosi. In alcuni protocolli viene confrontata con l'osteocalcina del paziente prima della cura.

 

 

Un'altra serie di esami consente di scoprire una ipotivaminosi D: elevato PTH, basso calcio plasmatico, bassa albumina, oltre che il dosaggio di 25(=H)D sono tutti segni di ipovitaminosi.

 

 

Può essere utile testare la deficienza di FGF23, un ormone prodotto dagli osteociti e dagli osteoblasti che agisce sui reni per promuovere l'escrezione del fosforo nelle urine, inibendone il riassorbimento nei tubuli renali, e contrasta anche la sintesi di calcitriolo e l'assorbimento intestinale di fosforo.

La deficienza di FGF23 ha drammatici effetti, dovuti al fatto che esso regola e contiene l'azione del calcitriolo e il bilancio del fosforo: aumento del prodotto calcio-fosforo plasmatico, aumento dei livelli di vitamina D in forma attiva, accorciamento della vita, ritardo della crescita, ipogonadismo, danni cognitivi, perdita di udito, calcificazione vascolare, ipertrofia cardiaca, osteopenia, diradamento dello spazio tra i capelli, atrofia del timo e dei muscoli scheletrici.

 

 

Uno degli effetti avversi più temuti della deficienza di vitamina D è l'iperparatiroidismo. Testare l'ormone PTH serve a determinare se si sia a rischio iperparatiroidismo.

 

 

La calcemia va tenuta d'occhio perché se i valori superano il range si possono avere calcificazioni dei tessuti molli con aumentato rischio cardiovascolare.

Il prodotto calcio-fosforo, vale a dire la moltiplicazione tra i valori ematici del calcio e di quelli del fosforo, è pure un buon predittore del rischio di calcificazioni, e non deve superare il valore di 70.

 

 

 

Quali sono i valori della vitamina D che rivelano deficienza? Quali sono i valori che rivelano insufficienza? Quali sono i valori ottimali della vitamina D?

 

Il concetto di insufficienza di vitamina D va distinto da quello di deficienza. Si parla di deficienza quando si è in presenza di patologie gravi come osteomalacia e rachitismo, e di "insufficienza" quando si ha una alterazione del metabolismo del calcio e della sua omeostasi, per mantenere la quale l'organismo entra in una situazione di sofferenza che fa aumentare l'ormone PTH e la produzione di 1,25(OH)2D e può condurre a fragilità ossea e a maggior rischio di fratture a causa dell'aumentato turnover osseo. In questa situazione c'è leggero iperparatiroidismo, assorbimento sub-ottimale del calcio, riduzione della densità ossea e forse miopatia subclinica.

Due sono stati i metodi per stabilire il livello di sufficienza del metabolita 25(OH)D: a) il livello al quale è massimo l'assorbimento intestinale; b) il livello al quale la secrezione di ormone PTH è minima. Il primo metodo è stato abbandonato quando ci si è resi conto che i livelli di 25(OH)D non sono correlati con l'assorbimento intestinale (240), e quindi attualmente il metodo utilizzato è quello di stabilire la soglia minima di 25(OH)D al disotto della quale i livelli di PTH e i markers della sofferenza ossea (c.d. bone resorption) iniziano a salire. Normalmente i gruppi di ricerca incaricati dai governi di fissare i livelli di insufficienza stabiliscono la linea di discrimine tra sufficienza e insufficienza a quei livelli di 25(OH)D a cui i livelli sierici di PTH iniziano ad aumentare (230). Questo anche perché si è notato che anche piccoli incrementi dei livelli di PTH possono avere effetti seri sulla densità ossea e il rischio di fratture (230).

 

 

Non c'è completo accordo tra gli esperti sui livelli ottimali di 25(OH)D. Ecco un prospetto dei livelli consigliati da varie autorità:

 

 

Il valore di 20 ng/mL è oggetto di acceso dibattito. I ricercatori più cauti fissano i valori di soglia del metabolita 25(OH)D al disotto dei quali vi è deficienza a 12 ng/dL e i valori al disotto dei quali vi è insufficienza a 20 ng/mL, mentre un'altra parte propone 20 ng/mL come soglia della deficienza e 30 ng/mL come soglia della insufficienza. Anche se esistono studi che supportano il secondo punto di vista, al riguardo manca un sufficiente mole di ricerca, e l'Institute of Medicine americano ritiene a tutt'oggi che 20 ng/mL sia un valore sicuro. Mentre in Europa è spesso utilizzata una soglia di 20 ng/mL per individuare l'insufficienza, negli USA è usata una soglia di 30 ng/mL.

 

 

Il valore di 20 ng/mL è quello corrispondente, per molti individui, alla RDA consigliata correntemente di 600 UI di vitamina D3, ed è quello al quale la maggior parte degli individui ha una riduzione a livelli normali dell'ormone PTH in circolazione. Livelli troppo elevati possono provocare iperparatiroidismo con iperplasia delle ghiandole paratiroidi.

Ecco invece le raccomandazioni della Endocrine Society e di Michael Holick, che è uno dei maggiori esperti mondiali di vitamina D:

 

< 20 ng/mL à Deficienza

 

21 - 29 ng/mL à Insufficienza

 

≥ 30 ng/mL à Livello adeguato

 

 

L'Institute of Medicine, che da sempre ha una posizione cauta riguardo la supplementazione e i pericoli di tossicità della vitamina D, e i National Institutes of Health USA, propongono la seguente tabella:

 

< 12 ng/mL à Deficienza di vitamina D, che può condurre a rachitismo nei bambini e osteomalacia negli adulti

 

≥ 20 ng/mL à Livello generalmente considerato adeguato per la salute generale e delle ossa; questo è il livello che copre le necessità del 97,5% della popolazione

 

> 50 ng/mL à Un certo numero di studi collega questo livello, a potenziali effetti avversi, specie oltre i 60 ng/mL

 

 

Uno studio di Chapuy e colleghi su 1569 adulti mostrerebbe che i livelli di PTH cominciano a salire quando la concentrazione di 25(OH)D scende al disotto di 31 ng/mL (230), mentre Heaney e colleghi hanno stabilito che si ha un assorbimento ottimale di calcio con livelli di 25(OH)D superiori a 32 ng/mL (500). Quando la concentrazione di 25(OH)D arriva a 31 ng/mL i valori dell'ormone PTH (che quando sono fuori range indicano una deficienza di vitamina D) raggiungono il valore minimo di 36 pg/mL (230). L'ormone PTH non va tuttavia fuori range (55 pg/mL, il limite superiore del range normale) se non quando il livello di 25(OH)D raggiunge valori molto bassi (4,6 ng/mL).

Altri studi mostrano che si possono avere casi di rachitismo fino a 20 ng/mL. Secondo molti ricercatori il livello che mostra la massima soppressione di PTH, l'assorbimento intestinale ottimale del calcio e la prevenzione delle fratture è di 30 ng/mL (498).

Secondo Robert Heaney, essendosi l'uomo primordiale sviluppato ai tropici, i livelli di 25(OH)D delle popolazioni che fanno una vita arcaica, come i Masai e gli Hadza dovrebbero essere quelli naturali per l'uomo, ed essi si aggirano intorno ai 46 ng/mL (494).

Secondo Durup e colleghi, che fanno riferimento al CopD Study, livelli di 25(OH)D inferiori a 20 nanogrammi fanno innalzare l'ormone PTH e aumentano il rischio di iperparatitoidismo secondario. Il 10,5% dei soggetti in questa condizione hanno sviluppato iperparatiroidismo secondario (133).

Il dosaggio di 25(OH)D di soggetti che svolgevano lavori all'aperto in paesi con alta esposizione solare mostrano livelli che vanno da 42 ng/mL a 65 ng/mL e si trova anche qualche soggetto con 80 e persino 90 ng/mL.

I lavoratori agricoli di pelle scura dei tropici hanno livelli di 25OHD di 60 ng/mL (189).

 

 

Si noti tuttavia una cosa: per ottenere una concentrazione di 30 ng/mL in assenza di esposizione solare occorrono circa 2.600 UI di vitamina D al giorno, che a molti pare una quantità eccessiva, che potrebbe dare effetti avversi. Per arrivare a 50 ng/mL occorrono 4.000 UI di vitamina D al giorno (189), che è il limite della dose sicura e sembra a chi scrive troppo alto.

Da ciò deduciamo che per raggiungere livelli di 30 ng/mL, l'esposizione solare è ineliminabile, a meno di non voler arrivare a livelli di vitamina D che possono provocare intossicazione.

 

 

Una volta determinato il livello che mette al sicuro dagli effetti avversi dell'insufficienza, un altro dibattito infuria sull'opportunità di superare tale livello per ottenere i supposti benefici aggiuntivi di un dosaggio della vitamina D superiore alla RDA: prevenzione e cura dell'osteoporosi (mantenimento e aumento della massa ossea e prevenzione delle cadute), prevenzione del diabete, protezione dalle infiammazioni del colon, protezione nei confronti di malatie cardiovascolari, cancro e patologie autoimmuni. Su questo argomento vedi il quesito specifico.

 

 

Poiché la variabilità individuale è molto grande, la prima cosa da fare se si ha un livello al limite dell'insufficienza (es. 20 ng/mL), invece di correre subito agli integratori di vitamina D, è determinare il valore dei markers del turnover osseo e del PTH compreso. Se non compaiono segni di alterato turnover e i livelli di calcio e vitamina D sono tali da non far alzare i valori di PTH (che è il criterio corrente seguito dagli studiosi per determinare la soglia di insufficienza), allora è verosimile considerare l'insufficienza inesistente o comunque non grave.

Per confermare individualmente i livelli ottimali sarebbe forse opportuno dosare il paratormone (PTH), perché valori superiori a 50 pg/mL sono associati a deflusso di calcio dallo scheletro promosso dall'azione del PTH. Livelli intorno a 30 ng/mL sono sufficienti perché la produzione di PTH scenda a 36 pg/mL nella maggior parte degli individui, ma un certo numero di soggetti può neessitare di 35 ng/mL o più per mantenere i livelli di PTH sotto la soglia critica dei 50 pg/mL (206).

 

 

Gli studiosi che raccomandano cautela nella supplementazione fanno presente che, dal momento che sono necessari 15 minuti di esposizione al sole a settimana per acquisire la quantità necessaria di vitamina D, il medico dovrebbe intervenire solo dopo aver fatto il dosaggio della vitamina D del paziente, e non prescrivere una supplementazione "a puro scopo profilattico o precauzionale" (213).

 

 

Anche il dosaggio dell'ormone PTH è consigliato, per stabilire se occorra supplementazione, perché valori fuori range indicano una carenza di calcio, mentre valori in range sono stati utilizzati da molti studi per fissare il livello ottimale di vitamina D.

 

 

Secondo Reinhold Vieth ed altri, la concentrazione desiderabile di 25(OH)D sarebbe tra 30 e 40 ng/mL, perché questa è la concentrazione che ottiene i più bassi valori sierici dell'ormone PTH (228). Chapuy e collaboratori concordano con questa valutazione, ritoccandola lievemente al ribasso: il loro studio su una popolazione francese sana ha mostrato che livelli minimi di PTH sono raggiunti già con valori intorno a 31 ng/mL. Tuttavia si deve tenere conto che per arrivare a 40 ng/mL occorre una supplementazione di ben 4.000 UI (228), il che, secondo il parere di chi scrive, rende sconsigliabile cercare di ottenere tale livello con la sola supplementazione, e consigliabile invece ricorrere all'esposizione alla luce solare.

Secondo Reinhold Vieth un livello di 40 ng/mL permette di ottenere il massimo del beneficio preventivo rispetto a cadute e fratture e che dosaggi da 40 a 65 ng/mL, tipici di persone che vivono all'aria aperta in paesi soleggiati sono probabilmente ottimali per la salute umana (220). Poiché livelli intorno a 40 ng/mL si ottengono solo con l'assunzione giornaliera di 4.000 UI, egli non esita a consigliarle come ottimali (228).

 

 

Altri studi invece sono più cauti. In base a questi studi alcuni ricercatori, come Lips e collabortori, fissano la linea di discrimine a 12 ng/mL (230), laddove altri parlano di deficienza.

Uno studio del 2002 ha misurato i markers di sofferenza ossea per stabilire il livello minimo di 25(OH)D raccomandabile, ed è arrivato alla conclusione che non dovrebbe essere inferiore a 24 ng/mL (235), perché al disotto di questo livello i markers iniziano a salire (i livelli di PTH non appaiono salire fino a che non si è scesi a 20 ng/mL, ma essi appaiono più collegati ai valori della calcemia, che sono relativamente indipendenti da quelli di 25(OH)D).

Il Primer on the metabolic bone diseases and disorders of mineral metabolism - edizione 2013, che è una pubblicazione ufficiale dell'American Society for Bone and Mineral Research, propone come livelli sicuri di 25(OH)D quelli superiori a 20 ng/mL, come risulta dalla seguente tabella:

 

 

25(OH)D

(ng/ml)

1,25(OH)2D pmol/l (pg/ml)

PTH Increase

Bone Histology

Severe deficiency

<  5

(relatively) low

> 30% *

incipient or overt osteomalacia

Deficiency

5–10

normal

15–30%

high turnover

Insufficiency

10–20

normal

5–15%

normal or high turnover

Replete

> 20

normal

normal

*Often accompanied by low serum calcium and phosphate, increased alkaline phosphatase, and low 24-hour urinary calcium excretion.

 

 

In un articolo recente un gruppo di ricercatori dell'Università del Wisconsin ha contestato la fissazione da parte di molti esperti della soglia di (in)sufficienza della vitamina D a 30 ng/mL in base all'osservazione che alcuni soggetti con 25(OH)D al disotto di 30 ng/mL sperimentano un aumento dei valori dell'ormone PTH, notando che solo il 16-33% dei soggetti con 25(OHD) inferiore a 30 ng/mL mostra un incremento dei valori del PTH (247). Inoltre, una ricerca recente che ha misurato il livello di 25(OH) dei surfer hawaiani ha trovato che metà di loro era sotto i 30 ng/mL (248).

Gli stessi ricercatori hanno somministrato 50.000 UI di vitamina D2 a 18 donne di età compresa tra 50 e 66 anni per 15 giorni e poi hanno misurato la variazione dell'assorbimento intestinale del calcio. A differenza di studi precedenti che si valevano di sistemi di misura meno sofisticati, hanno trovato un incremento di solo il 3% nell'assorbimento di calcio (22 mg di calcio assorbiti in più giornalmente), questo perché il livello di 1,25(OH)2D e la calcemia sono rimasti invariati durante tutto il corso dell'esperimento (247).

Un altro studio di Aloia e colleghi del 2010 conferma l'inesistenza di una relazione tra livelli di 25(OH)D e assorbimento intestinale del calcio (250).

Si ritiene correntemente che un insufficiente assorbimento del calcio sia legato al rischio di frattura, in base ad uno studio del 2000 che mostrerebbe che per per ogni 8% di decremento dell'assorbimento del calcio il rischio di frattura aumenta del 24%. Una più attenta analisi mostra però che questo è vero solo per soggetti di età maggiore di 70 anni e che non assumono almeno 400 mg di calcio al giorno. Quanto alla correlazione tra assorbimento di calcio e massa ossea i risultati degli studi sono contrastanti e non conclusivi (247).

Hansen e collaboratori fanno notare che il livello di 25(OH)D necessario per l'assorbimento ottimale del calcio non può essere un valore fisso e unico, perché età, dieta, razza, quantità di calcio assunto giocano un ruolo nello stabilire il livello di 25(OH)D necessario per un assorbimento ottimale (247).

In uno studio australiano del 2002 su malati di fibrosi cistica, il gruppo di controllo di soggetti sani (bambini, adolescenti e adulti) mostrava livelli di 25(OH)D che oscillavano tra i 20 ng/mL e i 32 ng/mL (207).

Livelli di 25(OH)D superiori a 30 ng/mL vengono raccomandati principalmente per ottenere "gli altri vantaggi della vitamina D" diversi dalla salute del tessuto osseo, che comprendono: a) decremento dei casi di cadute con frattura; d) decremento del rischio cardiovascolare; c) diminuzione dei casi di depressione; d) diminuzione di alcuni tipi di cancro; e) potenziamento del sistema immunitario.

 

 

Secondo chi scrive, un livello di 25(OH)D compreso tra 20 e 30 ng/mL può essere considerato sufficiente.

 

 

 

Come viene accertata la deficienza di vitamina D? Quanto è diffusa la deficienza di vitamina D? Il dosaggio del metabolita 25(OH)D è un indicatore affidabile?

 

Oggi il dosaggio della 25(OH)D è un esame ragionevolmente affidabile. Si tengano tuttavia presenti le seguenti considerazioni.

Pochi laboratori usano la gascromatografia, che è considerato il gold standard per il dosaggio della vitamina D. La maggior parte utilizza la chemioluminiscenza, che può portare a scarti fino al 20% tra due campioni prelevati dalla stessa persona a distanza di pochi minuti. Quando si leggono le analisi va quindi tenuto conto di questo margine di tolleranza.

Molti laboratori non fanno il dosaggio della 25(OH)D totale, che comprende la 25(OH)D2 e la 25(OH)D3, ma si limitano solo a quest'ultima. Per correggere questi valori si tenga presente che soggetti con 25-30 ng/mL di 25(OH)D3 hanno normalmente livelli di 25(OH)D2 pari a 4-5 ng/mL.

Uno studio scandinavo che ha seguito 187 individui per 5 anni ha mostrato come nell'arco di questo periodo i valori di 25(OH)D possano variare di anno in anno, e una consistente percentuale (fino al 40%) di coloro che inizialmente si trovavano in stato di deficienza può passare allo stato di sufficienza e viceversa. Gli autori ne concludono che una singola misurazione di 25(OH)D non è un predittore affidabile dello stato delle riserve di vitamina D negli anni successivi. Gli autori concludono che un soggetto diagnosticato come deficiente ha il 50% di probabilità di vedere il suo status ribaltato negli anni successivi (486).

 

 

Invece, dosare il calcitriolo, cioè il metabolita 1,25(OH)2D, non è un esame affidabile. I livelli di 1,25(OH)2D non si abbassano finché la deficienza diviene talmente severa che la quantità a disposizione di 25(OH)D non è più sufficiente per sintetizzarla. Quindi un livello normale di 1,25(OH)2D non è un buon indice di deficienza

 

 

 

Quali sono gli effetti della deficienza di vitamina D?

 

In mancanza di vitamina D, l'organismo non può utilizzare il calcio assunto per via alimentare. Di fatto, se si è deficienti di vitamina D, non si riesce ad utilizzare più del 10-15% del calcio assunto con la dieta o i supplementi. Nel caso meno grave di insufficienza, non si riesce ad utilizzarne più del 30%.

Ecco i principali effetti avversi di bassi livelli di 25(OH)D:

  Un alto turnover osseo, che è associato a fragilità ossea e in diversi studi anche ad un raddoppio del rischio cardiovascolare dovuto a calcificazioni (41) (571).

  Osteoporosi da deficienza di calcio

  Iperparatiroidismo secondario. Un importante studio recente ha mostrato che al disotto di 20 ng/mL c'è rischio di iperparatiroidismo secondario, caratterizzato da alti livelli sierici di ormone PTH (405). Diversi studi mostrano che un elevato PTH è associato ad una maggiore mortalità e morbilità (408). L'iperparatiroidismo, a sua volta, può condurre a ipercalcemia cronica e a calcificazione dei tessuti molli.

  Due recenti studi hanno trovato un chiaro rapporto tra deficienza di vitamina D e l'aterosclerosi delle carotidi (509). Questo è confermato anche da studi su animali di laboratorio (510).

  Uno studio pubblicato nel 2018 ha monitorato 900 soggetti per 12 anni e ha documentato come quelli che avevano livelli di 25(OH)D superiori a 30 ng/mL avevano un rischio di diabete pari a un terzo di quelli con livelli inferiori e coloro che avevano un livello pari o superiore a 50 ng/mL avevano un rischio ridotto di un quinto (410). Il problema, come ben sanno gli statistici, è che "correlazione non implica causazione"; in altre parole, bassi livelli di vitamina D potrebbero essere la conseguenza di una sindrome diabetica in via di sviluppo o di una predisposizione individuale al diabete, e non la causa. Per stabilire quale di queste possibilità è vera occorrerebbero studi in doppio cieco con somministrazione di vitamina D per vedere se previene il diabete. Gli stessi autori della ricerca ritengono che siano necessari studi ulteriori.

  La deficienza di vitamina D provoca inoltre debolezza muscolare, che per gli anziani si traduce in un rischio aumentato di cadute e conseguenti fratture.

  L'osservazione che durante l'inverno le persone registrano una lieve perdita della massa ossea va a confermare che anche piccole variazioni di vitamina D possono portare a conseguenze scheletriche e che tale vitamina è coinvolta non solo nel trasporto del calcio dall'intestino al sangue, ma anche nel rimodellamento osseo (230).

  Una bassa concentrazone di vitamina D nel sangue è associata a un maggior rischio di cancro del colon, soprattutto se abbinata ad un basso consumo di calcio (253) (254). Ma la più grande sperimentazione clinica che ha somministrato calcio e vitamina D allo scopo di prevenire i tumori intestinali non ha dimostrato alcun effatto (254) (255).

  La deficienza di vitamina D ha effetti importanti sullo sviluppo del cervello e la salute mentale. In uno studio si è visto che i topolini con bassi livelli di vitamina D hanno una corteccia cerebrale sensibilmente meno sviluppata (254) (256).

 

 

Qual è l'incidenza della deficienza di vitamina D in una popolazione apparentemente sana? Uno studio del 1997 che ha riguardato 1569 francesi provenienti da località situate tra il 43° e il 51° parallelo (230), ha mostrato che il 14% aveva livelli inferiori a 12 ng/mL, con una prevalenza maggiore mano a mano che si saliva più a nord. I campioni di sangue sono stati prelevati tra Novembre e Aprile, quando i livelli di 25(OH)D sono più bassi. Ecco la tabella risultante dallo studio:

 

Region

n

s.25(OH)D (ng/mL)

Sunshine (h/day)

% Hypovitaminosis D

s.PTH

(pg/mL)

North

200

17,2±8,4

1.06

29

42±15

Center

85

18±10

0.80

31

40±15

North East

199

20,8±10,4

1.16

18

42±16

North West

300

23,2±11,6

0.78

14

38±17

Paris

98

23,6±10

1.72

13

46±24

Rhone-Alpes

200

24,8±10,8

2.71

9

40±15

Mediterranean Coast

299

27,2±10,8

2.83

7

35±13

South

89

32,4±10,8

2.19

6

40±11

South West

100

37,6±15,2

2.00

0

37±11

 

 

Men

Women

All

Age (years)

52±5

47±7

50±6

Ca intake (mg/day)

910±503

793±465

849±481

Vitamin D intake (UI)

160±352

112±256

136±304

Calorie intake (kcal/day)

2378±961

1760±920

2057±940

Serum calcium (mg/dL)

9,44±0,28

9,32±0,32

9,4±0,32

Serum albumin (g/l)

47±3

46±3

46±3

25(OH)D (ng/dL)

24,8±12

24±12

24,4±12

iPTH (pg/ml)

40±15

39±16

40±16

 

25(OH)D (ng/dL)

n

Mean iPTH ± SD

(pg/ml)

< 1,2

171

47±19

4,8–23,6

689

41±15

24–35,6

449

37±14

36–48

179

36±12

>48

81

36±11

 

Una ricerca condotta pure essa nel periodo ottobre-giugno mostra che nella popolazione svizzera il 6% è deficiente con 25(OH)D inferiore a 8 ng/mL; il 34% ha una concentrazione inferiore al 15,2% e che il 95% ha una concentrazione inferiore a 38 ng/mL (231).

 

 

 

Quali sono i fattori di rischio per la deficienza di vitamina D, che dovrebbero essere tenuti presenti nella terapia?

 

  Assunzione di corticosteroidi

Chi assume questi farmaci antinfiammatori, subisce uno svuotamento delle riserve di vitamina D3. Livelli elevati di cortisolo, provocati dallo stress, hanno lo stesso effetto.

  Uno stato cronico di infiammazione (proteina C reattiva elevata), come ad es. può aversi nell'obesità, fa sì che il sistema immunitario attinga alle riserve di vitamina D dell'organismo, e quindi che queste si depauperino.

  Terapia farmacologica contro l'epilessia (fenobarbitale, fenitoina).

  Farmaci che limitano l'assorbimento di grassi, come Orlistat.

  La colesteramina, un farmaco per abbassare il colesterolo, può ridurre l'assorbimento di vitamina D e altre vitamine liposolubili (A, E, K).

  Scarsa esposizione alla luce solare.

  Dialisi renale

  Ipertensione

  Diabete mellito

  Periodo invernale, latitudini settentrionali in cui primavera ed estate sono brevi.

  Una dieta low-fat a bassissimo tenore di grassi, come quella che viene consigliata da taluni dottori ai cardiopatici, rende difficile assorbire le vitamine liposolubili, come la vitamina D3 e la vitamina K2 e può diminuire le riserve di vitamina nel corpo.

  Una colesterolemia troppo bassa, come per es. può essere per l'assunzione di statine, rende minore la sintesi della vitamina D3. Per produrre vitamina D il corpo necessita di colesterolo, perché la molecola precursore, il 7-diidrocolesterolo fa parte dello stesso pathway metabolico del colesterolo. Più alto è il livello del vostro colesterolo, maggiore è la quantità di vitamina D che il vostro corpo produce. L'uso delle statine, riducendo il colesterolo, può influenzare negativamente la capacità di produrre vitamina D3 (43).

  L'insufficienza tiroidea può far diminuire i valori di 25(OH)D

Invece, non sussiste alcuna relazione tra deficienza di vitamina D e ipotiroidismo.

  Ricovero ospedaliero o in istituzioni per anziani

Duole dirlo, ma gli studi mostrano che la deficienza di vitamina D è molto comune nella popolazione anziana ospedalizzata o ospitata in istituzioni, raggiungendo percentuali fino al 70-100 % (230) (236).

  Insufficienza renale Un cattivo funzionamento dei reni può impedire l'attivazione del calcidiolo, che è la forma inattiva prodotta nel fegato, all'interno dei tubuli renali, e quindi la sua trasformazione in 1,25(OH)2D, la 1,25 diidrossivitamina D, che è la forma attiva, capace di promuovere l'assorbimento del calcio intestinale. 

Livelli anche minimi di impairment renale hanno effetto sui livelli di 1,25(OH)2D.

C'è una chiara prova del fatto che l'insufficienza renale cronica - ad esempio quella risultante dal rene policistico - si accompagna a gravi disordini del metabolismo osseo. Questo perché la funzione renale compromessa non riesce a trasformare efficientemente 25(OH)D in 1,25(OH)2D. La vitamina D agisce tramite recettori posti sulle ghiandole paratiroidi e 1,25(OH)2D svolge una funzione essenziale nel sopprimere la proliferazione delle cellule delle partiroidi e l'espressione del gene preproparatiroide, che sintetizza il precursore del PTH. Senza la vitamina D, quando il livello di PTH si alza, si innesca una cascata di eventi che porta ad osteodistrofia (calcificazione dei reni) e iperparatiroidismo (251).

Secondo la ricostruzione più verosimile di questi eventi, quando la funzionalità renale diminuisce, diminuisce anche la capacità di escrezione dei fosfati, e così la fostatemia aumenta, provocando un calo della calcemia. Questo stimola la secrezione dell'ormone PTH e porta a iperparatiroidismo. Inoltre, il malfunzionamento renale provoca una diminuita produzione di 1,25(OH)2D, con diminuito assorbimento intestinale di calcio, che accentua l'ipocalcemia e la secrezione dell'ormone PTH.

  Le persone con un Body Mass Index superiore a 30 necessitano da 2 a 3 volte più vitamina D3 rispetto alle persone con BMI nella norma 

  I soggetti afroamericani, olivastri, o soliti abbronzarsi eccessivamente, assimilano poca vitamina D dal sole.  

  Fumo (486).  

  Alcol

  Malassorbimento intestinale

  Alterazioni della flora intestinale (ad es. per assunzione di antibiotici).

La vitamina D modula il microbioma presente nel tratto gastro-intestinale superiore. Alterazioni in questo microbioma, secondo alcuni ricercatori, giocano un ruolo nella genesi di disordini metabolici e la composizione del microbioma è fortemente influenzata dalla dieta. I microbi influenzano la motilità e l'assorbimento di nutrienti, perciò un microbioma alterato può causare un ridotto assorbimento di vitamina D. Il microbioma gioca un ruolo importante anche nello sviluppo e mantenimento del sistema immunitario e una alterazione può provocare per questa via una deficienza di vitamina D, come spiegato più sopra.

  Una ricerca pubblicata nel 2017 ha mostrato che le persone che svolgevano una attività fisica agonistica, rispetto a persone sedentarie, avevano livelli più bassi di 25(OH)D (491)

  Elevati livelli di 1,25(OH)2D e PTH, che si riscontrano ad es. nell'iperparatiroidismo primario e secondario possono aumentare la clearance di 25(OH)2D (490).

  Età

Questo è un punto controverso. Secondo Michael Holick, l'età non altera l'assorbimento della vitamina D somministrata per via orale (118). Tuttavia è opinione concorde che la capacità di sintetizzare vitamina D attraverso la pelle diminuisce con l'età.

 

 

 

I benefici di una extra-supplementazione della vitamina D per prevenire e curare l'osteoporosi esistono davvero? È vero che è stata individuata una forma di osteoporosi refrattaria alla vitamina D?

 

Una parte degli studiosi è fermamente convinta che una supplementazione con vitamina D e calcio superiore rispetto alle RDA possa prevenire e curare i tre principali effetti dell'osteoporosi: a) decremento di massa ossea; b) dolori muscolari; c) cadute, con conseguenti fratture. Altri, invece, rimangono scettici, mentre i risultati delle sperimentazioni cliniche sono contrastanti.

Secondo Reinhold Vieth un livello di 40 ng/mL permette di ottenere il massimo del beneficio preventivo rispetto a cadute e fratture e che dosaggi da 40 a 65 ng/mL (220). Poiché livelli intorno a 40 ng/mL si ottengono solo con l'assunzione giornaliera di 4.000 UI, egli non esita a consigliarle come ottimali (228).

Robert Heaney osserva intanto che la vitamina D può fare ben poco se i livelli di calcio sono deficienti, e quindi una eventuale terapia anti-osteoporosi deve abbinare le due supplementazioni (494).

Altri studiosi invece, ritengono vitamina D e calcio utili contro l'osteoporosi. Michael Holick tratta i pazienti con osteopenia con 50.000 UI di vitamina D ogni 2 settimane, più 1000-1200 mg di calcio. La cura va avanti per uno-due anni prima di un riesame. Quando la densità ossea risulta ridotta di più del 5% allora Holick inizia una cura (aggressiva) contro l'osteoporosi.

 

 

Non ci sono studi a dimostrazione che la cura per l'osteoporosi o per la prevenzione delle fratture richieda anche calcio in aggiunta alla vitamina D. Gli studi con i bifosfonati indicano il contrario (433).

 

 

Gli studi di Bolland e collaboratori sui rischi cardiovascolari dei supplementi di calcio mostra che il gruppo più a rischio di ipercalcemia a seguito della somministrazione di supplementi di calcio appare essere proprio quello dei pazienti anziani con osteoporosi. Ma indipendentemente da questa condizione, Bolland e collaboratori sostengono che tutti gli studi che hanno visionato sulla supplementazione di calcio in soggetti adulti mostrano un aumentato rischio di infarto del miocardio con aumenti dell'ordine del 27% (317).

 

 

A fronte dei possibili danni di un eccesso di calcio, si deve notare che, come nota lo stesso Robert Heaney (452) non esistono studi che confermano una relazione tra calcio e massa ossea in modo univoco, quando il consumo di calcio giornaliero è adeguato. Garn e colleghi (461) in parecchi studi attentamente condotti, non sono stati capaci di trovare una relazione apprezzabile tra il consumo corrente di calcio e la massa ossea, in persone con un vasto arco di età. Allo stesso modo, Smith e Rizek (462) non hanno trovato una relazione significativa  tra consumo attuale e massa ossea attuale. Smith e Frame (463) non hanno trovato una relazione tra  lo spessore corticale, metacarpale o la densità vertebrale e il consumo di calcio, studiando 220 donne il cui consumo di calcio andava da 150 a 2100 mg al giorno. Hurxtal e Vose (464) hanno misurato la densità ossea delle vertebre lombari con una tecnica radiodensitometrica in 404 soggetti. L'introito di calcio di tutto l'arco della vita è stato calcolato mediante una storia della dieta. C'era una debole ma significativa correlazione della densità ossea con il consumo di calcio. Più recentemente, una analisi della relazione tra consumo di calcio e l'area corticale metacarpale e la percent cortical area è stata condotta sui dati del Ten-State Nutrition Survey USA (465) ed è stata trovata una lieve ma significativa correlazione.  Uno studio svizzero (466) non ha trovato alcuna differenza nella massa ossea tra 3000 soggetti in Ginevra e 1200 soggetti in due villaggi montani, sebbene i consumi di calcio giornalieri fossero differenti (pr i maschi 1100 mg a Ginevra e 2150 nei villaggi, per le femmine 870 mg a GInevra e 1270 nei villaggi). Invece, Matkovic e colleghi (467)  hanno trovato chiare differenze di massa ossea in due comunità yogoslave che si differenziavano principalmente per un consumo doppio di calcio in una di esse rispetto all'altra. La massa ossea era più alta in tutte le età e in entrambi i sessi tra i membri della comunità che consumava più calcio. La apparente perdita di calcio con l'età però era la stessa e Heaney opina che la differenza nella massa ossea è dovuta ad una maggiore assunzione di calcio nel momento della formazione del picco di massa ossea (452).

 

 

Warensjo ed altri, in uno studio sulle donne svedesi, hanno trovato indizi che una supplementazione di calcio superiore a 1137 mg al giorno aumenta il rischio di fratture del bacino (445).  Gli autori notano che l'uso di supplementi di calcio è stato associato con percentuali più alte di fratture sia in uno studio epidemiologico (446) che in tre studi a controllo randomizzato (447). Gli autori ipotizzano che un alto introito di calcio può ridurre l'allargamento delle ossa appendicolari che avviene in genere con l'età come compensazione mettanica per il declino nella densità minerale (8). Alte dosi di calcio possono rallentare il turnover osseo e ridurre il numero dei siti attivi di rimodellamento. Questa situazione può condurre a un ritardo nella riparazione dei danni ossei causati da stress meccanico incrementando il rischio di fratture (448). In queste condizioni essi raccomandano di aumentare la dose di calcio solo a soggetti con carenze nell'apporto di questo nutriente, e di non aumentare la dose in soggetti osteoporotici che già consumano la RDA raccomandata di calcio per gli anziani (1200 mg) (450).

 

 

Reid et al., in uno studio randomizzato che ha interessato 1471 donne sane a cui è stato somministrato 1 g giornaliero di calcio, hanno trovato incrementi di massa ossea nell'arco di 5 anni ma non riduzione di fratture (327).  Jackson et al. ha analizzato i dati relativi a 36.282 donne monitorate per 7 anni dal Women's Health Initiative, uno studio a controllo randomizzato sulla somministrazione di 400 UI di vitamina D e 1 gr. di calcio giornalieri, e ha trovato un piccolo ma significativo miglioramento per quanto riguarda la densità ossea del bacino, ma nessun effetto sul rischio di fratture e un incremento dei calcoli renali (330).

 

 

Uno studio apparso su JAMA mostra che donne che prendono alte o basse dosi di vitamina D non ne hanno alcun beneficio riguardo la densità ossea o la forza muscolare (138).

 

 

Un articolo del 2009 di LaCroix e colleghi che prende in esame i risultati del Woman's Health Initiative, che ha monitorato 36.282 donne di età compresa tra 51 e 82 anni a cui sono stati somministrati vitamina D (400 UI) e calcio (1 gr.) o un placebo per 7 anni non ha riscontrato nessuna significativa riduzione della mortalità generale e per nessuna causa specifica (332). Cauley e collaboratori, che hanno esaminato la salute delle donne 5 anni dopo la fine dello studio hanno notato che dopo 11 anni non c'è stata diminuzione delle fratture del bacino né del cancro al colon-retto. Le fratture vertebrali si sono ridotte del 13% e alcuni casi di cancro al seno, mentre per le persone che assumevano più di 500 UI di vitamina D si è riscontrato un incremento del cancro al seno del 28% (333).

 

 

Uno studio in doppio cieco del 2006 pubblicato sul New England Journal of Medicine che ha preso in esame 36.282 donne in post-menopausa di età compresa tra 50 e 79 anni (età media 62 anni) ha riscontrato che la supplementazione con 400 UI di vitamina D e 1000 mg di calcio nell'arco di 7 anni aumentava la densità ossea del bacino dello 0,2%. Il rischio di fratture del bacino si riduceva del 12%, ma non aveva significatività statistica. Non c'è stata riduzione significativa dell'incidenza clinica di fratture vertebrali, dell'avambraccio o del polso. Il rischio di calcoli renali è aumentato del 17% (330)

 

 

Uno studio di Bischoff-Ferrari e colleghi del 2012 mostrerebbe che 700-800 UI di vitamina D riducono del 25% il rischio di fratture (501). Tuttavia uno studio successivo dimistrerebbe che senza 1000-1200 mg giornalieri di calcio il rischio non diminuisce (pare anzi aumenti lievemente). Con la supplementazione, invece, il rischio si riduce del 25% (498).

 

 

Recentissimamente, sulla prestigiosa rivista JAMA, i ricercatori della US Preventive Service Task Force hanno gettato acqua sul fuoco: dalla loro analisi degli studi sull'impiego della vitamina D per la prevenzione delle fratture emerge che "non esistono prove adeguate che una supplementazione oltre 400 UI abbia effetto sulle fratture" mentre una supplementazione fino a 400 UI di vitamina D e 1000 mg di calcio non ha alcun effetto sulle fratture. Essi, invece, hanno trovato "adeguate prove" che tale supplementazione di vitamina D e calcio (ma non del solo calcio) aumenta i calcoli renali del 18%, sia pure in soggetti con alto consumo di supplementi di calcio (fino a 2000 mg al giorno). La loro conclusione è che gli studi che mostrano qualche effetto della supplementazione sulle fratture riguardano soggetti osteoporotici o a rischio di osteoporosi, o con deficienza di vitamina D, mentre in soggetti anziani sani i possibili pericoli di una tale supplementazione superino i vantaggi (502).

 

 

Per contro, due meta-analisi del 2009 hanno concluso che diversi studi in doppio cieco mostrano che una supplementazione di vitamina D ridurrebbe il rischio di cadute e di fratture non-vertebrali, incluse quelle dell'anca di circa il 20%.

 

 

Nel 2010 l'Institute of Medicine statunitense concludeva una meta-analisi giudicando le prove della efficacia anti-frattura come "inconsistente". Ma quasi contemporaneamente l'Agency for Healthcare Research and Quality for the U.S. Preventive Services Task Force e l'American Geriatric Society e la British Geriatric Society, nelle loro linee-guida e l'IOF, prendendo in esame gli stessi dati, hanno concluso per l'efficacia della vitamina D e criticato l'Institute of Medicine per essersi basato su quattro studi di bassa qualità. (251).

Tuttavia altri studi mostrano che l'effetto anti-fratture potrebbe essere dovuto a svariate cause che non hanno nulla a che fare con la densità ossea, tra cui un miglioramento dell'equilibrio (la vitamina D rafforza il tono muscolare e l'abbassamento del rischio di ospedalizzazione. In uno studio più recente, una supplementazione di vitamina D di 2.000 UI contro 800 UI non riduceva il rischio di fratture, ma riduceva l'ospedalizzazione, conducendo ad una diminuzione del 60% di fratture da caduta (251).

 

 

È vero che in un serio studio a controllo randomizzato del 2002, che ha seguito per ben 2 anni 583 donne anziane a una parte delle quali è stato somministrato calcio (1200 mg/die) e vitamina D (800 UI/die) hanno mostrato rispetto al gruppo di controllo che la densità minerale della testa del femore è rimasta invariata (219), ma questo studio non è in grado di discriminare gli effetti della sola supplementazione con calcio rispetto a quella con vitamina D. Altri studi, che hanno preso in esame i soli livelli di 25(OH)D hanno mostrato che di per sé il loro aumento a seguito della supplementazione non riduce il rischio di fratture.

 

 

Uno studio di Anderson e altri del 2001 mostra come come un introito di calcio al disopra della RDA, che normalmente può essere ottenuto solo con supplementi, non ha alcuna influenza sulla massa ossea (BMD), e sembra addirittura che al disopra di un consumo medio di 412-438 mg di calcio al giorno non si abbia alcun rilevante incremento di massa ossea nel bacino e nella colonna vertebrale (451).

 

 

Warensjo ed altri, in uno studio sulle donne svedesi, hanno trovato indizi che una supplementazione di calcio superiore a 1137 mg al giorno aumenta il rischio di fratture del bacino (445).  Gli autori notano che l'uso di supplementi di calcio è stato associato con percentuali più alte di fratture sia in uno studio epidemiologico (446) che in tre studi a controllo randomizzato (447). Gli autori ipotizzano che un alto introito di calcio può ridurre l'allargamento delle ossa appendicolari che avviene in genere con l'età come compensazione mettanica per il declino nella densità minerale (8). Alte dosi di calcio possono rallentare il turnover osseo e ridurre il numero dei siti attivi di rimodellamento. Questa situazione può condurre a un ritardo nella riparazione dei danni ossei causati da stress meccanico incrementando il rischio di fratture (448). In queste condizioni essi raccomandano di aumentare la dose di calcio solo a soggetti con carenze nell'apporto di questo nutriente, e di non aumentare la dose in soggetti osteoporotici che già consumano la RDA raccomandata di calcio per gli anziani (1200 mg) (450).

 

 

Esiste una controversia sul ruolo del calcio nella cura dell'osteoporosi. Alcuni medici e ricercatori sostengono che non è stata dimostrata l'utilità del suo uso (341). Una meta-analisi del 2014, basata su 100 studi clinici riguardanti la supplementazione di calcio non ha trovato alcuna prova di un effetto nei confronti dell'osteoporosi. Per provare i benefici del calcio alimentare sull'osteoporosi sarebbe necessario richiederebbe uno studio a lunghissimo termine di migliaia di persone, che per ora manca.

 

 

Esistono prove che la somministrazione di calcio, anche senza vitamina D, può effettivamente incrementare la massa ossea (327). Reid et al., in uno studio randomizzato che ha interessato 1471 donne sane a cui è stato somministrato 1 g giornaliero di calcio, hanno trovato incrementi di massa ossea nell'arco di 5 anni (1,8% del rachide, 1,6% del bacino, 1,2% dell'intero scheletro). Uno studio di Larsen et al. riguardante 9605 soggetti anziani che vivevano in strutture di cura e riposo che hanno ricevuto 1 g di calcio e 400 UI di vitamina D al giorno ha rilevato una riduzione del 16% delle fratture (328).

 

 

Da tempo i ricercatori hanno notato come la progressione dell'osteoporosi nelle donne si accompagna a patologie aterosclerotiche: ad una densità ossea più bassa si accompagna una più avanzata calcificazione di vasi come l'aorta (387). Questo costituisce in qualche modo un paradosso: si ritiene che l'osteoporosi sia dovuta ad eccesso di calcio, mentre l'aterosclerosi ad eccesso di calcio. La calcificazione nei soggetti osteoporotici avviene anche in assenza di eccesso di calcio, e quindi non pare dovuta alla supplementazione che spesso prescrivono loro i medici. Sembra piuttosto che il calcio, per una perturbazione dei meccanismi che ne reggono il metabolismo, piuttosto che sulle ossa vada a depositarsi sui tessuti molli. Questo potrebbe essere dovuto ad alto PTH a causa del rapporto troppo basso tra calcio e fosforo assunti con la dieta. Il fosforo potrebbe segnalare alle cellule dei vasi di convertirsi in osteoblasti e questi successivamente attirano il calcio lontano dalle ossa, sulla parete vascolare. Tuttavia questo meccanismo è puramente ipotetico (310). La somministrazione di calcio ad alte dosi a soggetti osteoporotici potrebbe comunque avere una parte nella calcificazione delle arterie, e in genere non è una buona idea, secondo alcuni ricercatori (310).

 

 

A soggetti osteoporotici normalmente si somministrano supplementi addizionali di calcio e vitamina D. Piuttosto che incrementare la massa ossea, un eccessivo consumo di calcio può contribuire alla calcificazione cardiovascolare, in particolare delle cellule della muscolatura liscia (385) (388).

 

 

Il gruppo più a rischio di ipercalcemia a seguito della somministrazione di supplementi di calcio appare essere quello dei pazienti anziani con osteoporosi. Ma indipendentemente da questa condizione, Bolland e collaboratori sostengono che tutti gli studi che hanno visionato sulla supplementazione di calcio in soggetti adulti mostrano un aumentato rischio di infarto del miocardio con aumenti dell'ordine del 27% (317).

 

 

Nel 1982 Heaney non riteneva di poter trarre conclusioni certe sull'effetto dei supplementi di calcio. Certamente diversi studi mostrano un miglioramento rispetto a soggetti di controllo, ma il follow-up è limitato, e non si sa per quanto tempo durino questi effetti, e che in generale "gli effetti a lungo termine sul bilancio del calcio sono largamente sconosciuti" (452). È comunque da notare che non si parla di iper-supplementazione, ma sempre di supplementi che variano da 750 a 1200 mg al giorno. Gli studi sembrano suggerire che il rapporto tra carenza di calcio e massa scheletrica è forte nel periodo dello sviluppo, quando un bilancio neutro di calcio è ancora segno di sofferenza ossea. La variabilità individuale è notevole, accentuata dai fattori che possono far variare il fabbisogno di calcio (malattia, immobilità, vecchiaia, alcol, malassorbimento ecc.). Heaney e altri notano che la relazione tra calcio e massa ossea è significativa per il peak bone mass (cita lo studio yugoslavo), ma concordano nel notare che l'introito di calcio non è particolarmente legato alla perdita di massa ossea che avviene dopo i 30-40 anni.

 

 

A soggetti osteoporotici normalmente si somministrano supplementi addizionali di calcio e vitamina D. Piuttosto che incrementare la massa ossea, un eccessivo consumo di calcio può contribuire alla calcificazione cardiovascolare, in particolare delle cellule della muscolatura liscia (385) (388).

 

 

C'è una forma di osteoporosi refrattaria alla vitamina D: donne con fratture osteoporotiche alla colonna vertebrale recuperano/mantengono massa ossea solo a seguito della somministrazione di 1,25(OH)2D (241). Troppo 1,25(OH)2D è comunque nocivo, perché è noto promuovere demolizione ossea.

 

 

 

Quali sono le azioni della vitamina D che non interessano il metabolismo osseo? Quali sono le prove scientifiche circa i benefici extra-scheletrici di una supplementaizone di vitamina D oltre la RDA raccomandata per le ossa?

 

Gli studi recenti sui benefici della supplementazione con vitamina D mostrano un paradosso. Da un lato, come argomentano Michael Holick e altri esperti sulla vitamina D, è ragionevole pensare che esseri umani geneticamente programmati per produrre fino a 10.000 UI di vitamina D al giorno in condizioni di vita all’aperto che oggi sono completamente sparite dovrebbero assumere alte dosi di questa vitamina. Gli stessi autori notano anche che la presenza di recettori della vitamina D in moltissimi organi e tipi di cellule corporee. Esistono recettori del calcitriolo (detti VDR) in tutto l'organismo, tra cui sulle cellule della muscolatura liscia dei vasi sanguigni. Questo fa sospettare che la vitamina D abbia un ruolo che va oltre quello della salute delle ossa e dell'assorbimento del calcio.

Dall’altro - ecco il paradosso - non pochi studi mostrano che la supplementazione sembra non avere alcun effetto su di essi.

Anche qui si ripete quello che potremmo chiamare il "paradosso delle megavitamine", in riferimento allo scienziato che per primo, citando studi epidemiologici e considerazioni evoluzionistiche, ha proposto di aumentare considerevolmente i livelli di vitamine assunti giornalmente: il premio Nobel Linus Pauling, appunto.

Forte della sua autorità (Linus Pauling è stato due volte premio Nobel e in predicato di riceverne un terzo per la scoperta del DNA se Crick e Watson non l'avessero battuto sul tempo) questo grande scienziato notava già negli anni '60 come i livelli di vitamina C nei tessuti, specie cerebrali degli animali selvatici, sono di diverse volte superiori a quelli che si riscontrano negli esseri umani. Egli argomentava che le condizioni di vita artificiali dell'uomo moderno creano un deficit vitaminico che conduce alla malattia, anzi, ne è il principale agente causale.

Ma susseguenti grandi studi epidemiologici, con supplementazione di vitamina A, E, betacarotene non hanno mostrato alcuno dei benefici sperati. Neanche gli studi sui presunti effetti di un iperdosaggio di vitamina C contro le malattie infettive hanno ricevuto conferma, anzi, si è scoperto che il corpo si libera invariabilmente della vitamina C in eccesso rispetto al suo fabbisogno, che si aggira sui 500 mg giornalieri al massimo.

 

 

Esattamente come quella delle megavitamine, la saga della sperimentazione sui benefici di un extra-dosaggio di vitamina D rispetto alla RDA probabilmente insegna una grande verità: che la somministrazione di vitamine e sali minerali mediante supplementi è estremamente efficace per evitare i (notevoli) danni da carenza, ma è spesso inefficace quando si tratta di ottenere dei presunti benefici aggiuntivi. A conferma di questo si possono citare gli studi di Bruce Ames.

Bruce Ames ha ridato nuovo smalto alla teoria di Linus Pauling, correggendola nel senso da noi indicato con la sua "Triage Theory", che tra le altre cose sostiene che una delle cause principali di invecchiamento siano le carenze di vitamine e micronutrienti che il nostro corpo riesce a mantenere asintomatiche finché non è troppo tardi per rimediare al danno.

Sembra quindi che le idee di Pauling riguardo la vitamina C, la vitamina A e la vitamina E siano destinate ad essere riconfermate anche per la vitamina D e la vitamina K, ma siano destinate al medesimo fallimento sperimentale.

 

 

Questo paradosso ha portato alcuni studiosi ad ipotizzare che il rapporto causale tra vitamina D e patologie sia invertito: potrebbe essere che siano le patologie a provocare una deficienza di vitamina D e non viceversa.

Sebbene gli effetti della deficienza su una varietà di patologie sembri emergere dagli studi epidemiologici, le evidenze circa gli effetti positivi di una supplementazione sono state dichiarate da recenti ricercatori “inesistenti” o “ancora non conclusive”. Tra questi ultimi Howard Sesso, della Harvard T.H. Chan School of Public Health, che pure è uno dei ricercatori impegnati nello studio dei benefici della vitamina (136).

Ci sono ancora troppi studi, anche recentissimi, che riportano effetti nulli o negativi della supplementazione con vitamina D su varie patologie per prendere una posizione conclusiva (137). Uno studio apparso su JAMA mostra che donne che prendono alte o basse dosi di vitamina D non ne hanno alcun beneficio riguardo la densità ossea o la forza muscolare (138). Uno studio pubblicato sul British Journal of Nutrition non ha evidenziato alcun beneficio della vitamina D sui markers dell’infiammazione (139). Un altro studio su adolescenti obesi non ha trovato alcun effetto sulle dislipidemie (140). Uno studio del 2015 ha mostrato che soggetti a cui venivano date alte dosi di vitamina D ogni due mesi, corrispondenti a 2.000 UI giornaliere per un anno sperimentavano un aumentato rischio di infezioni respiratorie rispetto a coloro che ricevevano una dose di 400 UI al giorno e le loro infezioni duravano più a lungo (141). Un articolo del 2009 di LaCroix e colleghi che prende in esame i risultati del Woman's Health Initiative, che ha monitorato 36.282 donne di età compresa tra 51 e 82 anni a cui sono stati somministrati vitamina D (400 UI) e calcio (1 gr.) o un placebo per 7 anni non ha riscontrato nessuna significativa riduzione della mortalità generale e per nessuna causa specifica (332). Cauley e collaboratori, che hanno esaminato la salute delle donne 5 anni dopo la fine dello studio hanno notato che dopo 11 anni non c'è stata diminuzione delle fratture del bacino né del cancro al colon-retto. Le fratture vertebrali si sono ridotte del 13% e alcuni casi di cancro al seno, mentre per le persone che assumevano più di 500 UI di vitamina D si è riscontrato un incremento del cancro al seno del 28% (333). De Boer e collaboratori non hanno riscontrato tra le donne interessate allo studio nessuna diminuzione del rischio di diabete, anche se notano che questo può dipendere dalla bassa dose di supplemento utilizzata (400 UI).

 

 

Ma gli studi su queste azioni extra-scheletriche sono solo agli inizi e non hanno ancora chiarito i meccanismi di queste presunte altre azioni. Gli esiti delle ricerche epidemiologiche sembrerebbero confermare una azione extra-scheletrica, ma mancano studi randomizzati e le evidenze sono alquanto contrastanti.

 

 

Molti studi considerano insieme la supplementazione di calcio e vitamina D, e quindi le loro indicazioni sui benefici della vitamina D sono alquanto viziati. Studi che hanno preso in esame i soli livelli di 25(OH)D hanno mostrato che di per sé il loro aumento a seguito della supplementazione non riduce il rischio di fratture (213) (219). Ci sono studi epidemiologici che mostrano una correlazione inversa tra livelli di 25(OH)D e cancro del colon-retto, delle ovaie, della mammella, alla prostata, sclerosi multipla e ipertensione (220), ma essi non discriminano tra vitamina D ottenuta per via orale o per via di esposizione al sole (213). Secondo questi autori, gli studi epidemiologici devono essere confermati da una serie di studi randomizzati, prima di assumere qualsiasi posizione riguardo la supplementazione con vitamina D, e inoltre vanno meglio chiariti i differenti effetti e percorsi fisiologici della vitamina D assunta oralmente o tramite esposizione solare (213).

 

 

Livelli di 25(OH)D superiori a 30 ng/mL vengono raccomandati principalmente per ottenere "gli altri vantaggi della vitamina D" diversi dalla salute del tessuto osseo, che comprendono: a) decremento dei casi di cadute con frattura; d) decremento del rischio cardiovascolare; c) diminuzione dei casi di depressione; d) diminuzione di alcuni tipi di cancro; e) potenziamento del sistema immunitario.

In una recente meta-analisi, tuttavia, i vantaggi di una supplementazione con vitamina D riguardo tali patologie sono stati seriamente revocati in dubbio. Al punto che gli autori sospettano che negli studi epidemiologici dove si evidenzia una correlazione inversa tra rischio delle patologie e livelli corporei di vitamina D, questo secondo dato sia piuttosto una conseguenza che una causa della patologia.

Con tutta probabilità, un livello pari o superiore a 20 ng/mL mette già al riparo da tutte le patologie da deficienza e un livello compreso tra 25 e 30 ng/mL consente di ottenere la maggior parte dei benefici della vitamina D. Si dovrebbe cercare di ottenere livelli superiori a 30 ng/mL solo in caso di patologie ossee come osteoporosi oppure tramite esposizione al sole eventualmente con aggiunta di supplementi invernali non superiori a 200-400 UI giornaliere.

Nella maggior parte degli studi i benefici si sono avuti correggendo una deficienza di vitamina D. Supplementazione oltre la RDA ha raramente mostrato un miglioramento delle varie condizioni patologiche.

 

 

Due analisi, una condotta da Autier e colleghi, dell’International Prevention Research Institute di Lione e un’altra condotta da studiosi dell’Università di Alberta, in Canada (144), hanno preso in esame le prove dell'efficacia della vitamina D nei confronti di molteplici disturbi extra-scheletrici, incluse patologie cardiache, sovrappeso, disturbi dell'umore, sclerosi multipla e disordini metabolici.

Essi concludono che, riguardo le patologie diverse da quelle ossee il rapporto causale tra vitamina D e patologie sembra invertito, e che nel complesso “l’entusiasmo per la vitamina D andrebbe temperato”. Ad esempio, una supplementazione per dieci anni ad alte dosi di vitamina D insieme a calcio avrebbe il potere di prevenire solo una frattura su 50. Gli autori notano anche come il testing della vitamina D è ancora impreciso e può variare del 10-20% nella stessa persona e con due diversi prelievi immediatamente successivi. In una intervista televisiva, uno degli studiosi dell’Università di Alberta ha affermato che “è altamente improbabile che un quarantenne benefici di una supplementazione di vitamina D”.

La meta-analisi dell’Università di Alberta non si occupava dei benefici riguardo l’osteoporosi, ma un altro studio, che prende in esame proprio questo aspetto, ritiene che i vantaggi sussistano solo per chi ha una deficienza di vitamina D, e conclude che “la somministrazione di supplementi di vitamina D ad anziani che non hanno fattori di rischio per una deficienza di vitamina D appare inappropriata” (145).

Nello stesso articolo in cui mettono in dubbio l’efficacia della vitamina D per patologie diverse dall’osteoporosi, gli studiosi dell’Università di Alberta giungono ad affermare che dosi cumulative annuali superiori a 300.000 UI (anche frazionate in dosi giornaliere) possono avere l’effetto di aumentare il rischio di cadute e fratture (si tenga conto che una complementazione di 1.000 UI al giorno arriverebbe a 360.000 UI annuali, che supererebbero questa soglia).

 

 

equilibrio e tono neuromuscolare

Efficacia della extra-supplementazione

Sebbene una deficienza severa di vitamina D provochi una miopatia che può causare cadute e fratture, non è ancora certo il valore di una extra-supplementazione per quanto riguarda il rischio di fratture. In un recente studio in doppio cieco, la somministrazion di 2.000 UI giornaliere di vitamina D rispetto alla RDA di 800 UI non riduceva il rischio di fratture, ma riduceva la percentuale di riammissioni ospedaliere, diminuendo di fatto del 39% il rischio di fratture per questa via.

 

 

malattie infettive

In risposta ad uno stimolo esterno, come una invasione batterica, il sistema intracrino della vitamina D, cioè la conversione locale di 25(OH)D in 1,25(OH)2D ad opera delle cellule epiteliali e di vari altri tessuti attiva risposte cellulari che includono la generazione di peptidi anti-microbici che stimolano l'attività di distruzione dei batteri da parte dei monociti. La deficienza di vitamina D è statisticamente associata ad una maggiore frequenza delle infezioni. Si riscontra deficienza di vitamina D nella tubercolosi e in altre patologie infettive (579).

Efficacia della extra-supplementazione

Da lungo tempo è documentata la relazione tra esposizione alla luce solare e tubercolosi. Studi più recenti indicano che la vitamina D potrebbe essere utile. Particolarmente interessante la scoperta che 1,25(OH)2D induce la sintesi di catelicidine e altri peptidi che forniscono immunità cellulare, anche se occorrono altri studi clinici. Sinora si ha solo uno studio che mostra che la deficienza di vitamina D aumenta la velocità di progressione della tubercolosi, mentre sono privi di evidenze gli studi sulla vitamina D e le infezioni del tratto respiratorio superiore.

 

 

metabolismo renale

C'è una chiara prova del fatto che l'insufficienza renale cronica - ad esempio quella risultante dal rene policistico - si accompagna a gravi disordini del metabolismo osseo. Questo perché la funzione renale compromessa non riesce a trasformare efficientemente 25(OH)D in 1,25(OH)2D. La vitamina D agisce tramite recettori posti sulle ghiandole paratiroidi e 1,25(OH)2D svolge una funzione essenziale nel sopprimere la proliferazione delle cellule delle partiroidi e l'espressione del gene preproparatiroide, che sintetizza il precursore del PTH. Senza la vitamina D, quando il livello di PTH si alza, si innesca una cascata di eventi che porta ad osteodistrofia (calcificazione dei reni) e iperparatiroidismo (251).

Poiché 1,25(OH)2D è anche un soppressore dei livelli di renina, un enzima che innesca la produzione di aldosterone, un potente ormone ipertensivo e il riassorbimento di sodio e acqua nei tubuli renali, la vitamina D risulta efficace nel contrastare le gravi complicanze cardiovascolari che sono la principale causa di morte dei malati di insufficienza renale (251).

Efficacia della extra-supplementazione

Non esistono studi sufficienti circa l'efficacia di una supplementazione oltre la RDA.

 

 

ipertensione

1,25(OH)2D abbassa i livelli di renina. La renina è fondamentale nel sistema di regolazione pressoria RAAS (Renin-Angiotensin-Aldosterone System). È un enzima prodotto nei tubuli renali in risposta ad un abbassamento della pressione rilevato da bariocettori delle cellule e converte nel sangue l'angiotensinogeno in angiotensina I, la quale è convertita a sua volta nei polmoni in angiotensina II, un potente peptide che aumenta la pressione provocando vasocostrizione e stimola la produzione surrenale di aldosterone, un ormone che aumenta il riassorbimento renale di sodio e acqua nel sangue (251).

Efficacia della extra-supplementazione

Stranamente, però i diversi studi randomizzati fatti per accertare gli effetti della supplementazione con vitamina D sulla pressione non hanno dato risultati conclusivi, e quindi a tutt'oggi i benefici cardiovascolari richiedono ulteriore ricerca per essere confermati (251).

 

 

patologie cardiovascolari

Non tutti i ricercatori sono d'accordo sulla esistenza di recettori della vitamina D nel muscolo cardiaco. Però in topi che mancano dell'idrossilasi necessaria per formare 1,25(OH)2D e in ratti nefrotomizzati si ha una ipertrofia ventricolare sinistra, simile a quella che si riscontra in pazienti in dialisi. Studi recenti mostrano una correlazione negativa tra livelli di 25(OH)D e ictus. Si tratta però di correlazioni, non di relazioni causa-effetto confermate (251).

Efficacia della extra-supplementazione

Il fatto che secondo studi epidemiologici somministrando dei composti della vitamina D, tra cui 1,25(OH)2D allunghi l'aspettativa di vita dei malati renali, per i quali la principale causa di morte è cardiovascolare, dovrebbe implicare una azione positiva della vitamina D sulla saluta cardiovascolare, almeno in casi specifici.

Nel Dietary Reference Advice dell’Institute of Medicine USA sono riportati studi secondo cui soggetti con livelli di 25(OH)D pari o superiori a 40 ng/mL hanno un maggiore rischio cardiovascolare, di cancro e di morte nel corso dello studio, se paragonati a persone con livelli moderati.

Una meta-analisi del 2011 ad opera di Melamin e colleghi non ha riscontrato una correlazione singificativa tra vitamina D e riduzione del rischio cardiovascolare (508).

Sebbene diversi studi abbiano collegato la deficienza di vitamina D con una aumentata pressione sistolica, l'unico studio randomizzato ad oggi disponibile, il Womens' Health Initiative non ha riscontrato alcuna correlazione tra supplementazione di vitamina D e calcio da un lato e aumento di rischio cardiovascolare o cerebrovascolare (251). Tuttavia una meta-analisi più recente basata su 18 studi randomizzati ha trovato che una supplementazione di circa 600 UI giornaliere riduce del 7% tali rischi. Ma - lo ripetiamo - stiamo sempre parlando di deficienza, non dei presunti vantaggi della extra-supplementazione.

 

 

epidermide

1,25(OH)2D regola la differenziazione delle cellule dell'epidermide e il ciclo dei follicoli (280).

Efficacia della extra-supplementazione

1,25(OH)2D si è dimostrato molto efficace contro la psoriasi, sia pure a dosi giornaliere ripetute che hanno sollevato preoccupazione per possibile ipercalcemia. Alcuni derivati sintetici di 1,25(OH)2D si sono dimostrati promettenti contro l'acne negli esperimenti con animali da laboratorio (251).

 

 

sistema immunitario e patologie autoimmuni

Recettori VDR per la vitamina D sono stati trovati in diversi tipi di cellule del sistema immunitario, tra cui le cellule APC, che attivano i linfociti T-helper, i macrofagi e le cellule T attivate. I risultati di esperimenti in vitro in cui il calcitriolo stimola o sopprime la proliferazione di linfociti T sono di difficile interpretazione. Un derivato del calcitriolo ha mostrato una marcata azione soppressiva delle infiammazioni dovute ai linfociti T.

Il metabolita 1,25(OH)2D ha mostrato di essere implicato nella modulazione della risposta immunitaria, ma mentre stimola quella innata, inibisce quella adattiva; quanto ai benefici di una somministrazione di vitamina D o di un aumento dei livelli di 25(OH)D sono ancora tutti da dimostrare.

Efficacia della extra-supplementazione

In una recente rassegna dei benefici extra-scheletrici della vitamina D, Khazai e collaboratori non hanno riscontrato effetti significativi sulle patologie autoimmuni. In particolare, il Nurses' Health Study, che ha riguardato 186.389 donne seguite per 22 anni non ha mostrato diminuzione dei casi di sclerosi bilaterale amiotrofica o di artrite reumatoide con supplementi di vitamina D. Essi citano però uno studio recente che mostra una incidenza significativamente più bassa della sclerosi multipla in soggetti con livelli di 25(OH)D superiori a 41 ng/mL.

 

 

sclerosi multipla

Alcuni studi su animali di laboratorio mostrano che il calcitriolo potrebbe contrastare la sclerosi multipla, ma a costo di innalzare la calcemia. Altri studi hanno mostrato che l'esposizione alla luce solare e alla luce ultravioletta migliora la sclerosi multipla, ma forse questo non è dovuto alla formazione di vitamina D.

Efficacia della extra-supplementazione

Michael Holick è cauto sulle prove scientifiche che la vitamina D possa essere utile contro la sclerosi multipla. Rileva solo che tutti i suoi pazienti con sclerosi hanno una deficienza di vitamina D e che poiché la deficienza di vitamina D provoca debolezza muscolare, è comunque opportuno che tali pazienti assumano la vitamina D.

 

 

diabete di tipo I

Topi con diabete di tipo I hanno avuto una riduzione dei sintomi dopo somministrazione di vitamina D, mentre una deficienza di tale vitamina aggrava i sintomi. Alcuni studi hanno mostrato una relazione tra esposizione alla luce solare e diabete di tipo I.

Efficacia della extra-supplementazione

Due studi osservazionali riguardanti soggetti viventi in Nord Europa sembrerebbero mostrare che una supplementazione di vitamina D riduce l'incidenza del diabete di tipo I nei bimbi piccoli, ma sono necessari ulteriori studi, a controllo randomizzato.

Il Womens' Health Initiative, che è un importante studio a controllo randomizzato di una grande coorte di donne, ha mostrato che 1000 mg di calcio insieme a 400 UI di vitamina D al giorno non riducono in alcun modo l'incidenza del diabete (334).

 

 

malattie infiammatorie croniche intestinali

Per quanto riguarda le malattie infiammatorie croniche intestinali, che comprendono il morbo di Crohn e la colite ulcerosa, lavori sperimentali suggeriscono che le varie molecole della vitamina D possono essere utili nel ridurre i sintomi, ma non è chiaro se possano essere utilizzate senza provocare ipercalcemia.

 

 

lupus eritematoso

Lavori epidemiologici e preclinici suggeriscono che un analogo della vitamina D può essere utilizzato con vantaggio nella cura del lupus, in particolare in quello con complicanze nefritiche, ma non sussiste ancora nessuna evidenza clinica al riguardo.

 

 

artrite reumatoide

Questa patologia sembra rispondere ad una cura con 1,25(OH)2D in modelli animali, ma non sono stati ancora sviluppate sostanze per iniziare a sperimentare questa cura. Storicamente sono state utilizzae grandi dosi di vitamina D3 o D2, ma non si sono dimostrate di alcun valore e presentavano il danno di intossicazione da vitamina D.

 

 

le prospettive di cura dei disturbi autoimmuni con vitamina D

L'argomento dei possibili usi delle molecole della vitamina D per trattare i disturbi autoimmuni non ha ricevuto ancora risposte definitive. Sebbene è diventato chiaro che la vitamina D da sola non spiega la relazione tra patologie autoimmuni ed esposizione solare, le prove sinora disponibili sul fatto che la deficienza di vitamina D aumenta l'incidenza dei sintomi e che le molecole della vitamina D possono alleviarli o ritardarli in modelli murini di diabete di tipo I e di malattie infiammatorie intestinali suggeriscono che tale vitamina gioca un ruolo in queste patologie. I l fatto che recettori VDR sono stati trovati anche nelle isole di Langerhans del pancreas e nelle cellule del sistema immunitario è un'altra ragione per credere che terapie a base di vitamina D possano essere utili in questi disordini. È già stato condotto un certo numero di studi su come la vitamina D potrebbe sopprimere i disordini autoimmuni, ma finché non si troverà il modo di eliminare l'effetto collaterale dell'ipercalcemia rimarranno di interesse accademico.

 

 

fibrosi cistica

In uno studio australiano del 2002 su malati di fibrosi cistica, il gruppo di controllo di soggetti sani (bambini, adolescenti e adulti) mostrava livelli di 25(OH)D che oscillavano tra i 20 ng/mL e i 32 ng/mL (207).

 

 

smaltimento di sostanze tossiche per l'organismo

I geni regolati dalla vitamina D non sono solo quelli che prendono parte alla omeostasi minerale, ma anche quelli legati a numerosi processi biologici, incluso il metabolismo di sostanze estranee introdotte nell'organismo (es. inquinanti) e a numerosi altri processi cellulari (275).

 

 

ipertrofia cardiaca e prevenzione cardiovascolare

In quanto regolatore della moltiplicazione e differenziazione cellulare, la deficienza di recettori della vitamina D in vivo in animali di laboratorio è legata allo sviluppo di ipertrofia cardiaca (275).

Efficacia della extra-supplementazione

Studi recenti sembrano concordi nel mostrare che il livello sierico di 25(OH)D legato alla minor mortalità cardiovascolare è compreso tra 30 e 50 ng/mL (133).

 

 

infiammazione croniche intestinali

Pare che la vitamina D protegga il colon dalle infiammazioni che possono provenire dalla flora batterica sopprimendo i segnali di apoptosi delle cellule epiteliali intestinali (497).

In quanto regolatore della moltiplicazione e differenziazione cellulare, la deficienza di recettori della vitamina D in vivo in animali di laboratorio è legata alle infiammazione croniche intestinali (275).

 

 

cancro

In quanto regolatore della moltiplicazione e differenziazione cellulare, la deficienza di recettori della vitamina D in vivo in animali di laboratorio è legata ad una maggiore sensibilità a sostanze chimiche carcinogeniche, allo sviluppo di una varietà di tumori inclusi tumori della pelle, ai linfonodi e ai recettori degli estrogeni (275).

Esiste una vasta messe di studi epidemiologici che documentano una correlazione inversa tra livelli di 25(OH)D, latitudine, livelli di assunzione di vitamina D e incidenza di cancro, in particolare al seno, al colon e alla prostata.

Uno studio di entità limitata ha mostrato una riduzione del 77% dell'incidenza di questi tipi di cancro dopo solo un anno di supplementazione con 1.100 UI di vitamina D giornaliere e 1.400-1.500 mg di calcio, ma dovrebbe essere confermato da studi più ampi (280).

Studio in vitro hanno mostrato che 1,25(OH)2D inibiscono la proliferazione e promuovono la differenziazione di cellule con melanoma e leucemia. Molti studi epidemiologici mostrano una relazione inversa tra l'incidenza di cantro e radiazione ultravioletta, assunzione di vitamina D e/o livelli di 25(OH)D. Altre correlazioni che potrebbero legare il cancro e la vitamina D includono la stagione della diagnosi, l'obesità e il colore della pelle, con percentuali di sopravvivenza minori.

Efficacia della extra-supplementazione

25(OH)D e 1,25(OH)D hanno mostrato di rallentare la degenerazione neoplasica in vitro (499)

Gli studi su animali per confermare l'azione anticancro della vitamina D hanno avuto esiti contrastanti. Sono pochissimi gli studi di interventi di prevenzione e trattamento con la vitamina D e non hanno prodotto risultati rilevanti. In un gruppo di 36.282 pazienti la somministrazione di dosi molto alte di vitamina D ha mostrato di ridurre il rischio di cancro, ma non dosi minori. Il più grande studio condotto sinora sull'uso contro il cancro al seno non ha mostrato alcun risultato, come pure altri due studi minori.

Altri tipi di cancro, come quello al pancreas, alla pelle, il linfoma e il cancro ovarico sono stati indicati come potenzialmente trattabili con vitamina D, ma non è stato effettuato alcun trial clinico. Due trials in pazienti con linfoma non-Hodgkin trattati con 1,25(OH)2D si sono mostrati moderatamente promettenti. Due pazienti con carcinoma epatocellulare hanno riscontrato completa remissione, un evento raro in questa intrattabile forma di cancro.

In generale, molti degli studi sperimentali su vitamina D e cancro presentano problemi per quanto riguarda l'affidabilità del metodo di misura della vitamina D e al fatto che molti supplementi di vitamina D non contengono l'ammontare preciso indicato nella confezione. Quanto agli studi su modelli animali, che hanno una validità limitata per gli esseri umani, essi non sono stati sempre positivi. Molti degli studi riguardavano stadi avanzati della malattia e dosi moderate. Forse con dosi maggiori si può avere più successo con un cancro allo stato iniziale.

Una bassa concentrazone di vitamina D nel sangue è associata a un maggior rischio di cancro del colon, soprattutto se abbinata ad un basso consumo di calcio (253) (254). Ma la più grande sperimentazione clinica che ha somministrato calcio e vitamina D allo scopo di prevenire i tumori intestinali non ha dimostrato alcun effatto (254) (255).

Un foglio divulgativo della Mayo Clinic asserisce che "Some studies suggest that vitamin D may protect against colon cancer and perhaps even cancers of the prostate and breast. But higher levels of vitamin D in the blood have also been linked to higher rates of pancreatic cancer. At this time, it’s too early to say whether low vitamin D status increases cancer risk and whether higher levels protect or even increase risk in some people".

Tuttavia uno studio recente che ha seguito 1179 donne in post-menopausa per 4 anni ha riscontrato che con 1.100 UI di vitamina D al giorno e calcio, e livelli di 25(OH)D superiori a 32 ng/mL, si è avuta una significativa riduzione dell'incidenza di cancro (499).

 

 

diabete, pancreas e metabolismo del glucosio

Il pancreas è uno dei primi organi in cui sono stati individuati dei recettori della vitamina D (calcitriolo). Sebbene alcuni studi indicano un ruolo del calcitriolo nella secrezione di insulina, il meccanismo non è chiaro. Pare che i composti che la vitamina D crea possano proteggere le cellule-beta del pancreas dalla distruzione ad opera delle citochine infiammatorie. I livelli di 25(OH)D sono inversamente associati al diabete di tipo II e alla sindrome metabolica.

Efficacia della extra-supplementazione

Alcuni studi da confermare hanno riportato miglioramenti nella secrezione e azione dell'insulina con una supplementazione di vitamina D.

Il Womens' Health Initiative, che è un importante studio a controllo randomizzato di una grande coorte di donne, ha mostrato che 1000 mg di calcio insieme a 400 UI di vitamina D al giorno non riducono in alcun modo l'incidenza del diabete (334).

Khazai e collaboratori, in una rassegna sui benefici extra-scheletrici della vitamina D (499) riferiscono di studi randomizzati in cui una supplementazione con vitamina D nei bambini si è mostrata protettiva nei confronti dell'insorgenza di diabete di tipo I più tardi nella vita e che diversi studi basati su gruppi di controllo hanno mostrato una migliore sensibilità all'insulina con la supplementazione, ma non è chiaro se si tratta di correzione di una deficienza o di un reale extra-dosaggio.

 

 

 

Quali sono i sintomi di iperdosaggio della vitamina D?

 

I sintomi soggettivi da iperdosaggio della vitamina D sono del tutto generici (nausea, vomito, perdita di appetito, perdita di peso, costipazione, debolezza muscolare e generale, confusione, aritmie cardiache, problemi renali, capogiro), il che rende poco sicura la diagnosi. Per confermarla occorre che insieme ad essi compaia ipercalcemia, spesso accompagnata da iperfosfatemia.

 

 

 

Quali sono i rischi di iperdosaggio della vitamina D? Quali sono le dosi tossiche di vitamina D?

 

i principali effetti tossici dell’ipercalcemia

 

Il principale effetto di iperdosaggio da vitamina D è l'ipercalcemia, che a sua volta provoca calcificazione dei tessuti molli (tunica interna dei vasi sanguigni e delle arterie del cuore, epidermide, reni, polmoni) con aumento del rischio renale e cardiovascolare.

 

I principali effetti tossici sono:

  Alcuni studi degli anni '50 indicavano come meccanismo dell'ipervitaminosi D l'osteoporosi indotta da una eccessiva mobilitazione del calcio nello scheletro, esattamente ciò che avviene con l'ipovitaminosi (237) (243).

  Uno dei rischi che si temono con una eccessiva supplementazione di vitamina D è quello di calcoli renali, e l'aumento anche minimo della calciuria viene considerato un grave effetto avverso.

  Intorpidimento muscolare e neurologico dovuto all'eccessiva quantità di calcio che filtra all'interno delle cellule.

  L'ipercalcemia agisce direttamente sui nefroni impedendo loro il riassorbimento dell'acqua, e provocando sintomi simili a quelli del diabete: sete e minzione eccessiva.

  Calcoli, eccessiva escrezione di liquido, nefrocalcinosi e altri effetti dell'ipercalcemia possono danneggiare i reni e provocare collasso renale.

  Precipitazione di sali di calcio con calcificazione di tessuti molli: reni (nefrocalcinosi), vasi sanguigni incluse le coronarie, cornea, mucosa gastrica.

  Anomalie della depolarizzazione del muscolo cardiaco.

  Negli ultimi anni sono stati individuati però altri altri effetti diretti dei metaboliti della vitamina D, come 25(OH)D e 1,25(OH)2D i cui danni non sono mediati dall'ipercalcemia.

 

 

Reinhold Vieth ammette che i suoi esperimenti mostrano che con livelli di 25(OH)D superiori a 30 ng/mL può verificarsi un moderato incremento della calciuria, ma ritiene che questo non sia un fattore di rischio per i calcoli renali (228). Secondo lui, in assenza di ipercalcemia, un aumento modesto della calciuria e del rapporto calcio/creatinina è improbabile conduca alla formazione di calcoli renali. L'escrezione di calcio dai reni è un fattore minore ed è un segnale che va tenuto d'occhio solo in pazienti che hanno una storia di calcoli renali. Fattori più importanti da tenere d'occhio sono un basso volume di urine, l'iperoxaluria, l'ipercitraturia.

 

 

Non è ancora ben chiaro se il ruolo principale nella tossicità della vitamina D è dovuto a 1,25(OH)2D o se anche 25(OH)D possiede un suo effetto diretto (112). Mano a mano che la dose aumenta, si ritiene che gli effetti tossici (ipercalcemia) siano dovuti a 3 meccanismi: a) una possibile conversione della vitamina D3 in 5,6-trans-vitamina D3 che contiene un gruppo pseudo-alfa; b) un'azione diretta di 25(OH)D sui recettori di 1,25(OH)2D; c) una produzione non regolata di 1,25(OH)2D con eccessivi livelli di calcitriolo libero per l'incapacità della proteina DBP di legare tutto quello prodotto.

 

 

Un eccessivo aumento dei livelli di 1,25(OH)D può provocare danni da demolizione ossea.

 

 

I livelli tossici possono essere stabiliti sia in riferimento all'assunzione orale di vitamina D3 che in riferimento ai livelli plasmatici di 25(OH)D.

 

 

Nel Dietary Reference Advice dell’Institute of Medicine USA sono riportati studi secondo cui soggetti con livelli di 25(OH)D pari o superiori a 40 ng/mL hanno un maggiore rischio cardiovascolare, di cancro e di morte nel corso dello studio, se paragonati a persone con livelli moderati.

 

 

L'Institute of Medicine ritiene che al disopra di 4000 UI al giorno e di livelli di 25(OH)D pari a 30 ng/mL non è nota la sicurezza e che dosi al disopra di 50 ng/mL possono aumentare la mortalità. L'Endocrine Society sostiene che l'assunzione fino a 10.000 UI e livelli di 25(OH)D fino a 100 ng/mL non sono associate ad alcuna alterazione significativa del metabolismo del calcio e che la tossicità si osserva al disopra di 150 ng/mL. Holick concorda con questi limiti (92). L'Endocrine Society raccomanda livelli di 25(OH)D di almeno 30 ng/mL e preferibilmente tra 40 e 60 ng/mL per la salute ottimale di ossa e muscoli (92).

 

 

Holick e colleghi hanno seguito per un anno e mezzo soggetti che assumevano dosi giornaliere di vitamina D variabili tra 1000 e 15000 UI, e mostravano livelli di 25(OH)D fino a 120 ng/mL, e non hanno riscontrato effetti tossici di ipercalcemia e ipercalciuria (92). Holick nota che la somministrazione di 15000 UI e l'obiettivo di 40 ng/mL stanno diventando piuttosto diffusi, nonostante ben al disopra della soglia considerata sicura dall'Institute of Medicine (4000 UI).

 

 

Secondo Reinhold Vieth, il limite di 56 ng/mL può essere considerato più che cauto. Per ottenere un livello di 56 ng/mL occorre una supplementazione prolungata di 10.000 UI al giorno (112). Tutti i casi riportati di provata ipercalcemia sono associati a livelli ben al disopra di 80 ng/mL. Per ottenere un tale livello occorre una supplementazione giornaliera di 40.000 UI.

 

 

Le raccomandazioni dell'Institute of Medicine USA del 1997 indicavano in 2.000 UI giornaliere il limite di sicurezza da non superare, ma in base a studi che Vieth considera poco convincenti (112). Un articolo di Narang e collaboratori (227) riferisce di sei casi di ipercalcemia (>11 mg/dL) a seguito della somministrazione di 3800 UI di vitamina D, ma è l'unico resoconto del genere. Altri resoconti  mostrano che la stessa dose provoca un aumento trascurabile di calcemia e calciuria (297). Altri studi mostrano che la somministrazione di 100.000 UI per 4 giorni non produce effetti apprezzabili sulla calcemia

 

 

Tutti i casi di tossicità riportati, a parte un gruppo di casi riferito da Adams e Lee sul quale Vieth esprime le sue perplessità, si accompagnano a livelli di 25(OH)D superiori a 80 ng/mL (112).

 

 

La vitamina D ha una emivita di circa 2 mesi e si trova distribuita nel grasso corporeo. 1,25(OH)2D ha una emivita di 15 ore. 25(OH)D ha una emivita di 15 giorni. Secondo alcuni studi, 25OHD deve salire sopra 300 ng/mL per avere effetti tossici, ma altri consigliano il limite più sicuro di 100 ng/mL (252).

 

 

L'ipercalcemia non si manifesta che a livelli sierici di 25(OH)D superiori a 88 ng/mL.

 

 

I casi di ipercalcemia segnalati a seguito di assunzione di vitamina D si verificano a dosi molto elevate, da 80.000 a 200.000 al giorno, somministrate per un tempo variabile da 2 a 10 anni, per la cura di rachitismo e osteomalacia refrattari alla vitamina D. I livelli di 25(OH)D in questi soggetti sono molto elevati, tipicamente da 149 ng/mL a 336 ng/mL (222) (223). Secondo Reinhold Vieth il rischio di effetti tossici inizi con una somministrazione giornaliera di 40.000 UI, ma le raccomandazioni ufficiali consigliano di non superare 4.000 UI.

L'ipercalcemia che si sviluppa ha tre fattori: a) aumentato riassorbimento del calcio renale; b) mobilizzazione del calcio dello scheletro; c) aumentato assorbimento del calcio intestinale (119) (222) (223). È dibattuto tra i ricercatori quale di questi meccanismi sia prevalente (222), ma è noto che sia il metabolita 1,25(OH)2D (calcitriolo) che il metabolita 25(OH)D (calcidiolo) sono capaci di mobilizzare il calcio dallo scheletro (221). In particolare, livelli elevati di 25(OH)D possono promuovere decalcificazione dello scheletro.

 

 

Reinhold Vieth rileva nella sua revisione critica che a tutt'oggi, nonostante avvisi allarmistici emanati da alcune istituzioni, non sussiste alcun caso di tossicità conclamata di somministrazionie di 10.000 UI giornaliere di vitamina D.

 

 

In tutti i casi segnalati di tossicità potenziale (ipercalcemia) il livello di 25(OH)D non era mai inferiore a 80 ng/mL (220). Secondo Reinhold Vieth livelli di 88 ng/mL, sebbene si riscontrino solo in ambienti particolari, con alta esposizione solare, dovrebbero essere considerati come un range fisiologico per gli esseri umani (220). Adams e Lee hanno riscontrato in uno studio ipercalciuria già con 50 ng/mL e pertanto raccomandano di evitare livelli superiori a 56 ng/mL, ma Vieth non è d'accordo, e ritiene lo studio mal concepito.

 

 

Tutti i casi noti di ipercalcemia, secondo Reinhold Vieth, a parte quelli di ipersensibilità, si verificano a partire da dosi giornaliere di 40.000 UI (220).

 

 

Dosi di 10.000 UI giornaliere non divengono tossiche se non dopo più di sei mesi di assunzione.

 

 

Le raccomandazioni correnti dell'Institute of Medicine USA ritengono che 3800 UI sono il Lowest Observed Adverse Effect Level (LOAEL), cioè il livello più basso a cui sono stati osservati effetti avversi. Questi effetti sono stati riportati in alcuni articoli (227) in cui vengono descritti casi di ipercalcemia in soggetti che avevano consumato 3800 UI di vitamina D al giorno per tre mesi e in alcuni soggetti che consumavano non più di 1200 UI al giorno. La metodologia dello studio di Narang et al., che ha riguardato i soggetti che consumavano 3.800 UI al giorno è stato revocato in dubbio, tra l'altro perché non è stato misurato il livello di 25(OH)D per escludere la presenza di altre fonti occulte di vitamina D. Recentemente questo limite è stato contestato da Reinhold Vieth che ha mostrato, con un esperimento che ha coinvolto 61 soggetti sani di età tra i 32 e i 60 anni, che dosi di 3800 UI non alzano assolutamente la calcemia. Alcuni dei partecipanti hanno mostrato una aumento della calciuria e del rapporto calcio/creatinina, ma non tali da essere significativi. I livelli di 25(OH)D sono rimasti intorno ai 30 ng/mL (228). C'è però da dire, riguardo il suo esperimento, che i soggetti sono stati seguiti solo per la durata di 2-5 mesi, e che quindi non sono esclusi effetti avversi a seguito di un consumo più prolungato.

 

 

tossicità della somministrazione diretta del calcitriolo

 

La somministrazione diretta di 1,25(OH)D2, è noto provochi facilmente ipercalcemia. Ad es. nei malati di iperparatiroidismo a cui viene somministrato di routine calcitriolo, si riscontra spesso ipercalcemia, iperfosfatemia e calcificazione dei tessuti molli (252).

1,25(OH)2D produce incontestabilmente ipercalcemia, ma quando è prodotto dall'organismo e non assunto dall'esterno, è strettamente regolato dall'ormone PTH ed è difficile che si elevi a livelli di guardia solo per un alto dosaggio di vitamina D.

 

 

La tossicità di alti livelli di 1,25(OH)2D è dimostrata in topi in cui è stato cancellato il gene che esprime l'enzima CYP24A1, responsabile dell'inattivazione dell'eccesso di 1,25(OH)2D. Ne risultano ipercalcemia, ipercalciuria, calcificazione renale e anomalie scheletriche.

Esperimenti sui topi mostrano che 1,25(OH)2D e PTH stimolano anche gli osteociti a demolire le superfici dei canali ossei in cui sono contenuti allo scopo di liberare calcio in situazione di ipocalcemia o di aumentata richiesta di calcio (es. durante l'allattamento) (278). Altri studi mostrano che nelle medesime condizioni 1,25(OH)2D può anche inibire la (ri)mineralizzazione dello scheletro (279) (275).

 

condizioni che aggravano gli effetti tossici

 

La tossicità può variare in relazione alle condizioni personali: una deficienza renale o una maggior propensione individuale ad assimilare il calcio possono far sì che non tutto il calcio in eccesso sia escreto, e si sviluppi ipercalcemia, laddove in soggetti sani e normali questo non avverrebbe. Dosi elevate di calcio potrebbero recar danno se gli individui assumono direttamente calcitriolo e non vitamina D, perché questo metabolita blocca il controllo del calcio da parte dell'organismo.

L'insufficienza renale, in particolare, anche lieve, è un fattore che dovrebbe spingere a tenere d'occhio la calcemia a chi assume supplementi di vitamina D.

 

 

Ecco i fattori di rischio della calcificazione in soggetti con insufficienza renale grave in dialisi (271):

Età avanzata

Razza

Diabete

Calcio sierico

Fosforo sierico

Prodotto calcio-fosforo

Iperparatiroidismo e ipoparatiroidismo

Alto dosaggio di metaboliti della vitamina D

Dislipidemia

Iperfibrinogemia

Alta CRP

Bassa albumina

Ipertensione

Alcol

Fumo

Questi fattori potrebbero giocare un ruolo anche nello sviluppo di aterosclerosi in persone senza insufficienza renale e andrebbero quindi tenuti sotto controllo.

 

 

I soggetti con insufficienza renale seria sono particolarmente vulnerabili alla calcificazione, che nei soggetti in dialisi è rapidissima.

 

 

Gli studi di laboratorio, oltre a mostrare che la vitamina D ad iper-dosi può provocare o eccessiva calcificazione dello scheletro o scarsa calcificazione e calcificazioni cardiovascolari con lipidi che circondano la zona calcificata, mostrano che una concomitanza di eccesso di colesterolo, di nicotina e di deficienza di magnesio accelerano questi effetti negli animali di laboratorio, e probabilmente nell'uomo aumentano il rischio di danni da iperdosaggio da vitamina D. Negli animali da laboratorio una moderata ipervitaminosi D, che da sola non produce calcificazioni né lesioni aterosclerotiche avanzate, insieme a dosi di nicotina e a livelli elevati di colesterolo che anch'essi di per sé non producono lesioni gravi, produce subito lesioni aterosclerotiche avanzate negli animali da laboratorio  (525).

La deficienza di magnesio induce calcificazioni delle arterie e dei reni (525) (527)

 

 

Reinhold Vieth, dell'Università di Toronto, nota come molte segnalazioni di tossicità della vitamina D a dosi relativamente basse (Adams e Lee riportano un caso di blanda intossicazione con 1200 UI al giorno e altri casi con 50 ng/mL di 25(OH)D), possono essere dovuti a ipersensibilità individuale. Soggetti con iperparatiroidismo primario, che hanno livelli di PTH e 1,25(OH)2D cronicamente elevati sviluppano ipercalcemia quando viene fornita vitamina D addizionale, come pure soggetti con sarcoidosi, tubercolosi, linfoma, insufficienza renale (112).

 

 

In certe condizioni patologiche, come l'insufficienza renale, le cellule della muscolatura liscia possono mutare in osteociti e osteoblasti e depositare collagene e altre proteine nelle arterie, mineralizzandole (272).

 

tossicità acuta rilevata a basse dosi

 

Sono stati segnalati casi di ipercalcemia anche a dosi più basse di quelle considerate sicure.

 

 

Sono giunte alcune segnalazioni di effetti (blandamente) tossici con una assunzione di sole 1200 UI, ma secondo alcuni studiosi queste segnalazioni non tengono in conto la quantità di vitamina D assunta col sole e quella assunta con la supplementazione di molti cibi in commercio nei paesi anglosassoni, che possono spostare di molto la soglia tossica (220). Inoltre è pure da considerare che una minoranza di soggetti hanno una ipersensibilità genetica alla vitamina D, e ciò li pone a rischio di intossicazione ben prima della popolazione normale.

 

 

Holick, che come Vieth contesta i limiti di sicurezza correnti come troppo restrittivi, nota tuttavia come gli effetti avversi a taluni dosaggi possono essere mascherati da fattori che limitano l'assorbimento della vitamina D, come obesità, malassorbimento, alterazioni della flora intestinale, molto diffusi tra i pazienti anziani e istituzionalizzati che sono i soggetti di molti studi. Inoltre c'è da considerare che ci sono non pochi soggetti che in realtà non si attengono al protocollo di cura ed assumono meno della dose loro assegnata. Se si tiene conto di questo, i casi di ipercalcemia a certi dosaggi potrebbero essere più numerosi (92).

 

 

Reinhold Vieth, dell'Università di Toronto, nota come molte segnalazioni di tossicità della vitamina D a dosi relativamente basse (Adams e Lee riportano un caso di blanda intossicazione con 1200 UI al giorno e altri casi con 50 ng/mL di 25(OH)D), possono essere dovuti a ipersensibilità individuale. Soggetti con iperparatiroidismo primario, che hanno livelli di PTH e 1,25(OH)2D cronicamente elevati sviluppano ipercalcemia quando viene fornita vitamina D addizionale, come pure soggetti con sarcoidosi, tubercolosi, linfoma, insufficienza renale (112).

 

 

Somministrare vitamina D in presenza di carenza di calcio può far sì che 1,25(OH)2D scateni la decalcificazione dello scheletro: il cosiddetto "effetto calcemico", che innalza la calcemia anche a spese dello scheletro (237) (238). Ma in presenza di calcio, aumentando le dosi di vitamina D, l'effetto calcemico, affermano Carlsson e Lindquist, va a vantaggio dell'accrescimento osseo (237).

 

tossicità sub-acuta da assunzione protratta

 

Accanto ai livelli considerati pericolosi, perché conducono ad una intossicazione acuta, esistono però altri allarmi, nella letteratura medica, riguardo veri o presunti danni da assunzione protratta nel tempo di dosi che non producono effetti immediati e/o acuti.

 

 

Recentissimamente, sulla prestigiosa rivista JAMA, i ricercatori della US Preventive Service Task Force hanno trovato "adeguate prove" che una supplementazione di 400 UI di vitamina D e 1000 mg di calcio (ma non del solo calcio) aumenta i calcoli renali del 18%, sia pure in soggetti con alto consumo di supplementi di calcio (fino a 2000 mg al giorno) (502).

 

 

Recentemente Melamed et al., in uno studio che ha interessato 247.574 soggetti danesi seguiti per 3 anni ha mostrato che coloro che avevano un livello di 25(OH)D superiore a 55 ng/mL avevano un incremento del 42% del rischio di morte rispetto a coloro che avevano un livello di 20 ng/mL (405). Il rischio mostra una curva a "U", con coloro che hanno livelli inferiori a 4 ng/mL che hanno un rischio aumentato del 13%.

 

 

Che bassi livelli aumentino il rischio come alti livelli è confermato da uno studio di Melamed e colleghi, che mostra come livelli intorno ai 17,8 ng/mL comportano un rischio aumentato del 26% rispetto a coloro che hanno livelli superiori a 32 ng/mL (406).

 

 

Da questo e da un'altra serie di studi sembra emergere che il livello sierico di 25(OH)D legato alla minor mortalità cardiovascolare è compreso tra 30 e 50 ng/mL (133). Altri studi pongono tale livello intorno ai 20-24 ng/mL (405).

 

 

Un articolo del 2013 comparso sulla rivista dell'UCLA (University of California a Los Angeles), si fa portatore di voci di cautela. (213). Secondo alcuni studiosi, da quando è iniziata la supplementazione con vitamina D del latte, della pasta, dei cereali per la colazione, della carne, del pollame, del pane, del riso, delle margarine e con i preparati multivitaminici, a partire dagli anni '40, nei paesi dove questo è avvenuto (Canada, USA, Israele, Inghilterra, Svezia) si è assistito ad una epidemia di ipercalcemia nei bambini e di osteoporosi e aterosclerosi negli adulti, che potrebbe essere dovuta a questa pratica (214). Gli autori di questo studio fanno presente che sin dal 1945 è noto che alte dosi di vitamina D possono portare ad effetti cardiovascolari e scheletrici simili ad osteoporosi e aterosclerosi in animali da laboratorio - va però detto che nella questione in oggetto si sta parlando di dosi notevolmente più basse.

 

forme tossiche della vitamina d

 

Secondo alcuni autori, particolari forme di vitamina D e/o di assunzione della medesima potrebbero risultare (più) tossiche.

 

 

Questi autori fanno presente che mentre la vitamina D prodotta nella pelle a seguito di esposizione solare è trasportata nel flusso sanguigno da una proteina specifica, la DBP (Vitamin D Binding Protein), la vitamina D somministrata oralmente è assorbita nell'intestino dai chilomicroni e trasportata nel sangue dalle lipoproteine VLDL e LDL, con rischio di andare a finire nella parete delle arterie (216).

 

l’effetto calcemico

 

L'effetto calcemico mostra che i livelli di 25(OH)D hanno il potere di mobilizzare il calcio scheletrico, ma anche di attingere al calcio che viene trattenuto dalle superfici quiescenti delle ossa (cioè le superfici non interessate dal processo di rimodellamento/accrescimento ad opera di osteoclasti e osteoblasti), comprese le trabecole interne, creando flussi che sono almeno 1000 volte più consistenti di quelli ottenuti con la mobilizzazione del calcio dello scheletro. Questo effetto mobilizzatore di 25(OH)D ad alte dosi non è ancora ben compreso e va aggiungersi all'altro effetto di 25(OH)D noto in vitro di produrre bone resorption sulle culture di cellule ossee (238) (245).

 

effetti avversi che non passano per l’ipercalcemia

 

In passato si riteneva che il rischio di calcificazione non fosse opera diretta della vitamina D, ma fosse causato dall'ipercalcemia indotta dall'eccesso di vitamina attraverso 3 meccanismi: 1) aumentato assorbimento di calcio intestinale; 2) aumentato riassorbimento del calcio da parte dei tubuli renali; 3) deflusso di calcio dallo scheletro. In tale condizone si ha rischio di calcificazione, specie quando all'ipercalcemia si accompagna - come spesso accade - l'iperfosfatemia.

Tenere d'occhio la calcemia perché non superi il range normale (8,5-10,7 mg/dL) e il prodotto calcio-fosforo perché non superi il valore di 70 (valore normale 50) è dunque importante e in teoria dovrebbe mettere al riparo dalla maggior parte dei rischi da iperdosaggio di vitamina D, ma non da tutti.

Questo perché esistono altri meccanismi che, anche in presenza di valori sierici normali di calcio e fosforo possono portare a calcificazione. Gli studi su animali mostrano chiaramente che effetti come anoressia, letargia, ritardo nella crescita, perdita di massa ossea, calcificazione dei tessuti molli e morte possono verificarsi anche in presenza di calcemia normale (167).

Negli ultimi anni sono stati individuati però altri altri effetti diretti dei metaboliti della vitamina D, come 25(OH)D e 1,25(OH)2D i cui danni non sono mediati dall'ipercalcemia.

Il sospetto che esistano meccanismi diversi dall'ipercalcemia all'opera nell'ipervitaminosi D è suggerito da diversi dati: a) Il Warfarin è un farmaco che produce calcificazioni identiche a quelle dovute ad eccesso di vitamina D, ma senza aumentare la calcemia; b) Sia la somministrazione di vitamina A che di ibandronato (un inibitore della demolizione ossea) riducono o eliminano la calcificazione dei tessuti senza ridurre l'ipercalcemia; c) La vitamina D può indurre calcificazione renale in polli (229) e perdita di massa ossea in esseri umani (224) a dosi che non producono ipercalcemia.

 

 

Secondo alcuni ricercatori, la tossicità è dovuta a 25OHD piuttosto che a 1,25OH2D: il primo, in quantità eccessive riuscirebbe ad attivare i recettodi di 1,25OH2D oppure, legandosi alla proteina di trasporto DBP aumenta la concentrazione plasmatica di 1,25OH2D in forma libera (252).

 

 

In uno studio del 2002, il calcitriolo, il metabolita attivo della vitamina D, è mostrato promuovere, in vitro, in culture di cellule aortiche di ratto, la migrazione delle cellule muscolari dalla tunica media alla tunica intima. Questa migrazione costituisce la terza fase del processo aterosclerotico, dopo il deposito di colesterolo, l'infiammazione con infiltrazione di linfociti e macrofagi. Le cellule che sono migrate producono matrice extracellulare che funge da impalcatura strutturale della placca aterosclerotica. Nello studio si è osservato che la migrazione veniva promossa da concentrazioni di 1,25(OH)2D superiori a 40 ng/L, concentrazione che è paragonabile a quella che si misura nel sangue normalmente (17-75 ng/L) (217).

 

 

Un altro studio ha mostrato che coppie di ratti la cui dieta era stata supplementata con vitamina D hanno partorito una prole in cui il contenuto di elastina dell'aorta era diminuito (218). Questo è particolarmente allarmante, visto che è stato osservato che la riduzione di elastina e l'irrigidimento dell'aorta possono predisporre ad aneurisma e ipertensione (213). Reinhold Vieth, del Mount Sinai Hospital di Toronto, confuta le implicazioni che si vogliono trarre da questo studio riguardo gli esseri umani, perché ai ratti non è stata somministrata vitamina D3 (colecalciferolo), ma calcitriolo, la forma attiva, molto più potente. Nota come nessun studio con ratti nutriti con colecalciferolo ha mostrato questi risultati né hanno mai prodotto ipercalcemia (215).

 

 

Il calcitriolo a dosi molto elevate mostra in vitro una potente azione di mobilizzazione della massa ossea (bone resorption), circa 100 volte più potente di quella del metabolita 25(OH)D, ma in vivo la sua azione è più modesta (221).

1,25OH2D, a dosi superiori a quelle fisiologicamente normali, promuove la perdita di massa ossea, in vivo e in vitro, in particolare aumentando l'espressione della proteina RANKL che stimola la nascita e l'attività degli osteoclasti, e diminuendo l'espressione di OPG, una proteina che modula e modera l'azione di RANKL.

 

 

Esistono indizi che è la parte di 1,25OH2D libera nel plasma (cioè non legata a proteine DBP) ad essere responsabile degli effetti avversi: è noto che uno degli effetti della menopausa è l'abbassamento delle DBP circolanti (

 

 

I meccanismi di azione tossici dell'eccesso di vitamina D3 non sono ancora ben noti. Ne sono stati proposti almeno tre: 1) La vitamina D3 viene convertita in 5,6 trans-vitamina D2; 2) Azione di 25(OH)D sui recettori VDR della vitamina D, in particolare su quelli della proteina DBP che trasporta 1,25(OH)2D, il lascia una quantità eccessiva di 1,25(OH)2D in forma libera nel sangue; 3) Superproduzione di 1,25(OH)2D, anche mediante conversione extra-renale di 25(OH)D nell'intestino e nel tessuto osseo, che supera la capacità delle proteine che la veicolano, e ne lascia una quantità nel sangue.

 

 

Il metabolita 1,25(OH)2D agisce tramite recettori nucleari (VDR) che regolano la trascrizione di numerosi geni in una varietà di cellule-bersaglio della vitamina D, che sono principalmente coinvolte nell'omeostasi del calcio e nella differenziazione cellulare. Una serie di proteine coadiuva queste azioni: DBP (Vitamin D Binding Protein), la famiglia del citocromo P450 (CYP2R1, CYP27A1, CYP27B1), il citocromo catabolico P450 (CYP24A1). CYP24A1 ha un ruolo critico nella degradazioe di 25(OH)D e 1,25(OH)2D: topi privati della espressione di questo enzima non sono in grado di degradare i metaboliti della vitamina D e sviluppano ipercalcinosi, nefrocalcinosi e muoiono nel 50% dei casi. Questa sintomatologia (ipercalcemia) è sorprendentemente simile a quella dovuta a dosi tossiche della vitamina D. È possibile che uno dei meccanismi della tossicità della vitamina D sia l'incapacità di CYP24A1 di tenere il passo con la quantità di metaboliti che sono espressi dalle cellule bersaglio. I ricercatori hanno sviluppato diverse varianti di questa ipotesi, ciascuna focalizzata su un particolare metabolita o particolare gruppo di metaboliti che sarebbero responsabili dell'effetto tossico.

 

 

Nel fegato la vitamina D viene convertita in 25(OH)D da CYP2R1 o da citocromo mitocondriale CYP27A1, che non sono soggetti a stretta regolazione. 25(OH)D entra velocemente nel plasma. Poiché 25(OH)D ha una affinità molto maggiore della vitamina D con DBP la sua emivita è di 15 giorni. Il livello normale è di 10-80 ng/mL. Contemporaneamente si formano altri metaboliti, di alcuni dei quali non sono stati ancora identificati gli enzimi produttori, tra cui: 24,25(OH)2D3, 25(OH)D3-25,23-lactone e l'acido calcitroico.

Mentre in condizioni normali solo 1,25(OH)2D attiva i recettori VDR, e i circuiti metabolici implicati tengono nel plasma, lontano da questi recettori, gli altri metaboliti inattivi, in condizioni di ipervitaminosi questi metaboliti possono interferire con l'invio e l'azione di 1,25(OH)D alle cellule bersaglio ed avere anche effetti loro propri.

Sono stati condotti studi estesi sulla tossicità della vitamina D su molte specie differenti, inclusi ratti, bovini, suini, conigli, cani e cavalli. Si è riscontrato un incremento plasmatico dei metaboliti 25(OH)D3, 24,25(OH2D3, 25,26(OH)2D3, e è ormai assodato che l'azione catabolica dell'enzima renale CYP27B1 è disattivata. Invece i livelli di 1,25(OH)2D raramente si elevano, anche in presenza di dosi tossiche di vitamina D.

Sembra quindi che la tossicità della vitamina D e in particolare l'ipercalcemia sia dovuta a livelli eccessivi di 25(OH)D e forse degli altri metaboliti, che gli esperimenti di Shephard e DeLuca mostrano incrementarsi notevolmente nei ratti sottoposti a megadosi di vitamina D.

 

 

Sono state proposte tre principali teorie per spiegare il meccanismo della tossicità. Tutte ipotizzano che l'incremento di concentrazione di un metabolita della vitamina D raggiunga i recettori VDR nel nucleo delle cellule-bersaglio e causi una iperespressione dei geni. La discussione riguarda il metabolita incriminato e il meccanismo della sua azione.

Una prima teoria ipotizza che si abbia una superproduzione di 1,25(OH)2D, la cui eccessiva concentrazione è noto provocare, ad es. nei malati di iperparatiroidismo a cui viene somministrato calcitriolo, ipercalcemia, iperfosfatemia e calcificazione dei tessuti molli. Tuttavia gli studi sugli animali e i casi riguardanti esseri umani non supportano questa ipotesi: anche in presenza di alte dosi di vitamina D i livelli di 1,25(OH)2D rimangono nella norma.

Una seconda teoria ipotizza che gli aumentati livelli di 25(OH)D saturino la capacità delle DBP di legarsi con tale metabolita, lasciandone una quantità maggiore del normale nel sangue, da cui entra nelle celle, dove attiva i recettori VDR. È però in dubbio che i livelli di 25(OH)D riscontrati nell'ipervitaminosi siano in grado di saturare le DBP ed entrare in forma libera nelle cellule.

Una terza e più verosimile ipotesi è che, saturando le DBP, gli anomali livelli di 25(OH)D impediscono a queste proteine di legare 1,25(OH)2D, la cui forma libera nel sangue aumenterebbe. Poiché il dosaggio di 1,25(OH)2D riporta i valori totali, comprensivi della forma legata alle DBP e della forma libera, questo spiegherebbe perché nel caso dell'ipervitaminosi i livelli di 1,25(OH)2D sembrano normali. In realtà, studi in vitro hanno mostrato che con l'elevarsi di 25(OH)D i livelli di 1,25(OH)2D raddoppiano. Per quanto questa teoria sia suggestiva, tuttavia abbiamo ancora troppo pochi dati per poterla considerare provata.

Indipendentemente da quale sia la teoria giusta, tutti gli studi e i casi riportati indicano che 25(OH)D è un efficace biomarker della tossicità. e che la soglia di tossicità è intorno a 300 ng/mL. Questi dati implicano che il livello di 100 ng/mL fissato da diverse commissioni di esperti come il livello di sicurezza, è effettivamente un livello del tutto sicuro.

 

 

Un altro meccanismo di azione tossico della vitamina D si ha a causa della sovrapproduzione di proteina di matrice GLA (MGP), una molecola proteica la cui funzione è ripulire dal calcio i tessuti molli e in particolare i vasi sanguigni. Per poter svolgere la loro funzione, le molecole di MGP inattive che vengono create dietro stimolo della vitamina D, devono essere attivate mediante carbossilazione dalla vitamina K2 (menaquinone). Altrimenti, come mostrano alcuni studi, circolano inattivate nel flusso sanguigno, e si possono riempire di materiale di scarto per andare infine a depositarsi nella placca ateriosclerotica. Quando viene prodotta troppa MGP i livelli di vitamina K2 si depauperano rapidamente, con la conseguenza che troppa MGP inattivata circola nel sangue e anche l'osteocalcina non può essere attivata. Assumere vitamina A, che diminuisce la produzione di MGP, e vitamina K2, che ne promuove la carbossilazione, costituisce un antidoto a questa forma di tossicità della vitamina D.

 

 

Un altro meccanismo di azione tossico della vitamina D si ha a causa dello stimolo all'iperattività degli osteoclasti, che sono le cellule che demoliscono il tessuto osseo per promuoverne il rinnovamento. Se la loro attività non viene bilanciata da quella susseguente degli osteoblasti, che promuovono il deposito di nuovo tessuto, ne può risultare una perdita di massa ossea. Per evitare questo è opportuno assumere, insieme alla vitamina D, vitamina A e vitamina K2, che promuove l'attivazione (carbossilazione) dell'osteocalcina, una proteina che veicola il calcio in eccesso verso le ossa anziché verso i tessuti molli.

La vitamina D nella sua forma attiva, 1,25(OH)2D promuove la migrazione delle cellule muscolari dalla tunica media alla tunica intima dei vasi sanguigni, dove queste secernono materiale che forma la struttura per la placca aterosclerotica. In uno studio del 2002, il calcitriolo, il metabolita attivo della vitamina D, è mostrato promuovere, in vitro, in culture di cellule aortiche di ratto, la migrazione delle cellule muscolari dalla tunica media alla tunica intima. Questa migrazione costituisce la terza fase del processo aterosclerotico, dopo il deposito di colesterolo, l'infiammazione con infiltrazione di linfociti e macrofagi. Le cellule che sono migrate producono matrice extracellulare che funge da impalcatura strutturale della placca aterosclerotica. Nello studio si è osservato che la migrazione veniva promossa da concentrazioni di 1,25(OH)2D superiori a 40 ng/L, concentrazione che è paragonabile a quella che si misura nel sangue normalmente (17-75 ng/L) (217).

 

 

Un'altra spiegazione degli effetti avversi in assenza di ipercalcemia è stata offerta recentemente da Chris Masterjohn. Secondo lui eccesso di vitamina D agirebbe promuovendo una superproduzione di proteine che richiedono la carbossilazione da parte della vitamina K2 dell'organismo, e provocando per tal via un azzeramento delle scorte di tale vitamina, essenziale per proteggere dalla calcificazione dei tessuti molli e dalla perdita di massa ossea (167).

 

 

A livello statistico, tuttavia, gli studi mostrano che questi rischi di calcificazione si concretizzano solo a dosi estremamente elevate, dell'ordine di 50.000-100.000 UI al giorno assunte per mesi o addirittura anni, oppure in casi rarissimi di ipersensibilità, che alcuni studi mostrano non superiori allo 0,4% dei soggetti, o in condizioni patologiche, come diabete, dislipidemia, sindrome metabolica, l'insufficienza renale seria, iperparatiroidismo primario, ipercalcemia ereditaria.

 

 

Tutti i casi noti di ipercalcemia, secondo Reinhold Vieth, a parte quelli di ipersensibilità, si verificano a partire da dosi giornaliere di 40.000 UI (220). In tutti i casi segnalati di tossicità potenziale (ipercalcemia) il livello di 25(OH)D non era mai inferiore a 80 ng/mL (220). Secondo Reinhold Vieth livelli di 88 ng/mL, sebbene si riscontrino solo in ambienti particolari, con alta esposizione solare, dovrebbero essere considerati come un range fisiologico per gli esseri umani (220). Adams e Lee hanno riscontrato in uno studio ipercalciuria già con 50 ng/mL e pertanto raccomandano di evitare livelli superiori a 56 ng/mL, ma Vieth non è d'accordo, e ritiene lo studio mal concepito.

 

 

Dosi fino a 4.000 UI sono state giudicate assolutamente sicure per una somministrazione quotidiana terapeutica (es. in caso di osteoporosi) a tempo indefinito e dosi di 10.000 UI protratte per diversi mesi sono state parimenti giudicate non tossiche, anche in considerazione del fatto che questa è la precisa quantità di vitamina D che giornalmente produce il corpo delle persone a seguito di normale esposizione solare (30-60 minuti) e che questa vitamina prodotta dalla pelle ha una emivita addirittura doppia della vitamina D3 somministrata oralmente.

I protocolli terapeutici noti come "cura Stoss", dalla parola tedesca "stossen", "spingere" che nella forma più moderata prevedono la somministrazione di 50.000 UI ogni 7 giorni per almeno 8 settimane a soggetti con deficit di vitamina D, non hanno parimenti fatto riscontrare che rari casi di ipercalcemia, peraltro rapidamente reversibile, e sono considerati sicuri anche nell'uso pediatrico.

 

 

 

E' possibile sviluppare un'ipervitaminosi da eccessiva esposizione solare?

 

In nessun caso la vitamina D3 prodotta nella pelle per irradiazione solare raggiunge dosi tossiche (252).

 

 

 

Quali sono i fattori che possono promuovere la calcificazione dei tessuti molli? Quali sono i rischi dell'ipercalcemia e i fattori che possono provocarla? È vero che esistono farmaci che promuovono la calcificazione delle arterie?

 

Tenere d'occhio la calcemia perché non superi il range normale (8,5-10,7 mg/dL) e il prodotto calcio-fosforo perché non superi il valore di 70 (valore normale 50) è importante per evitare il deposito del calcio nei tessuti molli.

Nelle arterie coronarie la misura della calcificazione tramite tomografia (CAC, Coronary Artery Calcium) è positivamente correlata alla entità della placca aterosclerotica, all'aumento di rischio dell'infarto del miocardio e all'aumentato rischio di rottura a seguito di angioplastica (511).

Troppo calcio, come poco calcio, possono provocare ipercalcemia. Poco calcio stimola l'ormone PTH, che provoca demolizione ossea ed eccessivo deflusso di calcio dallo scheletro al plasma. L'iperparatiroidismo primario o secondario è una delle prime cause di ipercalcemia (506).

In alcuni casi si verifica una "falsa calcemia", perché sebbene il calcio plasmatico sia elevato, il calcio in forma ionica è nel range normale. Questo può verificarsi in caso di disidratazione severa che può provocare un aumento della concentrazione di albumina e del componente del calcio sierico legato all'albumina.

 

 

Quali sono i fattori che possono favorire l'ipercalcemia?

 

 

I diuretici a base di Thazide sono farmaci per abbassare la pressione che possono far diminuire l'escrezione di calcio e, se si assume anche vitamina D, possono portare a ipercalcemia.

 

 

L’insufficienza renale è una delle cause note di calcificazioe a seguito di assunzione di supplementi di calcio o di calcemia anche lievemente elevata.

 

 

Nel Womans' Health Initiative il gruppo che assumeva 400 UI di vitamina D e 1.000 mg di calcio al giorno ha riportato un numero significativamente maggiore di calcoli renali nell'arco dei 7 anni monitorati (37).

 

 

L'immobilità totale dei malati cronici confinati a letto, specie in associazione con un alto turnover osseo può provocare ipercalcemia. L'immobilizzazione sopprime l'attività costruttiva degli osteoblasti e incrementa quella distruttiva degli osteoclasti, squilibrando i due processi fondamentali del rimodellamento osseo.

 

 

L'ipercalcemia si può manifestare quando i livelli sierici di 25(OH)D sono superiori a 88 ng/mL.

 

 

Ci sono individui che sviluppano più facilmente ipercalcemia perché il loro assorbimento intestinale di calcio non diminuisce all'aumentare della dose assunta, mentre altri sono protetti dal fatto che maggiore è il carico intestinale di calcio, minore diviene il suo assorbimento (411).

Coloro che hanno ipercalciuria idiopatica rappresentano il 6-8% della popolazione e hanno una probabilità molto maggiore di sviluppare calcoli a seguito dell'uso di supplementi. In ogni caso, è importante misurare la calciuria all'inizio della cura con supplementi di calcio, perché una calciuria in range ma alta è un buon predittore di ipercalciuria. Le analisi andrebbero ripetute nel corso della cura, ogni tre mesi (315).

Ci sono alcuni bambini che hanno una sensibilità accentuata al calcio e/o una accresciuta capacità di metabolizzarlo, per i quali la somministrazione di integratori di vitamina D andrebbe assolutamente vietata. Ci si è accorti di questo quando negli anni '40, a seguito della fortificazione dei cibi con vitamina D, si è notato che alcuni bambini sviluppavano la stessa sintomatologia di quelli con ipercalcemia idiopatica.

 

 

Negli anni '40 c'è stata effettivamente un'epidemia di ipercalcemia infantile, ma la causa non fu mai scoperta né ci sono studi a provare che sia stata una conseguenza dell'aumentato consumo di vitamina D nella forma – che alcuni ritengono nociva – della vitamina D2 anziché della vitamina D3 (215).

 

 

Tutti i casi noti di ipercalcemia, secondo Reinhold Vieth, a parte quelli di ipersensibilità, si verificano a partire da dosi giornaliere di 40.000 UI (220). In tutti i casi segnalati di tossicità potenziale (ipercalcemia) il livello di 25(OH)D non era mai inferiore a 80 ng/mL (220). Secondo Reinhold Vieth livelli di 88 ng/mL, sebbene si riscontrino solo in ambienti particolari, con alta esposizione solare, dovrebbero essere considerati come un range fisiologico per gli esseri umani (220). Tuttavia Adams e Lee hanno riscontrato in uno studio ipercalciuria già con 50 ng/mL e pertanto raccomandano di evitare livelli superiori a 56 ng/mL, ma Vieth non è d'accordo, e ritiene lo studio mal concepito.

 

 

Un caso in cui i supplementi di calcio sono dannosi si ha quando vengono assunti insieme a sostanze alcalinizzanti come bicarbonato di sodio. Sono stati registrati casi di soggetti che hanno sviluppato severa ipercalcemia con soli 2 gr. di supplementi di calcio carbonato al giorno perché contemporaneamente prendevano degli antiacidi a base di bicarbonato o che contenevano altri alcali assorbibili. In questa situazione, un'alta assunzione di calcio fa calare i livelli di ormone PTH che causa ritenzione renale di bicarbonato e alcalosi. L'alcalosi a sua volta diminuisce ulteriormente la produzione di PTH e causa aumento del riassorbimento di calcio, con ipercalcemia (411). L'uso di diuretici, specie tiazidici, può produrre/aggravare l'alcalosi mediante riduzione del volume del plasma, aggravando la situazione.

 

 

Il limite superiore raccomandato per i supplementi di calcio è 2000 mg al giorno (315), ma già a livelli compresi tra 1000-2000 mg si possono verificare casi di ipercalcemia

 

 

Beall et al. hanno studiato i casi di ipercalcemia che si verificavano presso l'University of Oklahoma Medical Center. Nel solo anno 1993 il 38% dei ricoveri per ipercalcemia erano dovuti a eccessiva ingestione di supplementi di calcio, normalmente sotto forma di carbonato, con dosi che andavano da 2000 a 12000 mg al giorno, talvolta con aggiunta di alti quantitativi di latte. Un periodo di un mese di simile regime era sufficiente a scatenare ipercalcemia. L'ipercalcemia da ingestione di carbonato era la terza più frequente causa di ricoveri nel periodo considerato. È interessante notare che nessun paziente sviluppa ipercalcemia con la sola ingestione di bicarbonato e latte, ma l'ipercalcemia sopravviene prontamente con un eccesso di supplementi di calcio. Uno degli effetti di questa ipercalcemia è una insufficienza renale, normalmente lieve e reversibile, ma esistono casi di insufficienza accentuata e irreversibile. Gli autori escludono che i supplementi di vitamina D ingeriti possano avere avuto un ruolo nello sviluppo dell'ipercalcemia. L'ipercalcemia variava da 11,1 a 19,7 mg/dL

 

 

Casi di ipercalcemia sono oggi numerosi per l'eccessivo uso di antiacidi a base di carbonato di calcio contro il reflusso esofageo o la dispepsia o quando viene somministrato calcio in grande quantità per compensare la perdita ossea a seguito dell'uso di antinfiammatori steroidei, in particolare nel caso di trapianti cardiaci, o per l'uso combinato di calcio e vitamina D. Attualmente è la terza principale causa di ricoveri per ipercalcemia.

In una parte di questi casi è la contemporanea assunzione di sostanze alcalinizzanti che scatena la calcemia, ed è stata coniata la definizione CAS, Calcium-Alkali Syndrome. La dose che scatena l'ipercalcemia, con creazione di calcoli, è compresa tra 4 e 60 g di calcio al giorno. Questa ampia variabilità indica che anche altri fattori possono favorire gli effetti avversi dei supplementi di calcio. La contemporanea alta assunzione di latte peggiora la sindrome.  L'ipercalcemia è favorita da una diminuita funzionalità renale, che rende più difficile all'organismo espellere il calcio in eccesso.  L'ipercalcemia induce alcalosi metabolica, che a sua volta studi sui cani hanno mostrato stimolare il riassorbimento del calcio. L'ipercalcemia da alcalosi (o calcium-alkali syndrome, che viene più frequentemente chiamata milk-alkali syndrome) si sviluppa senza che i livelli di PTH e 1,25OH2D aumentino. Un ammontare di calcio superiore a 4 g/die giorno prolungato nel tempo ha mostrato di poter provocare ipercalcemia, ma si sono registrati casi isolati di ipercalcemia con dosi di 1-1,5 g. La digestione delle proteine può produrre L-aminoacidi, che possono promuovere un maggiore assorbimento di calcio nell'intestino (439).

 

 

Pazienti anziani, in cui il calcio non si fissa più bene nelle ossa e il flusso netto è negativo (calcio va fuori dallo scheletro) non sono in grado di utilizzare lo scheletro come buffer del calcio, e pertanto sono più soggetti alla milki-alkali syndrome. Quando si ha un eccesso di calcio nell'intestino, il calcio non ha più bisogno della vitamina D per essere assimilato, ma passa in forma passiva attraverso gli spazi intracellulari della barriera intestinale grazie al gradiente chimico. L'ipercalcemia tende a mantenersi attraverso un circolo vizioso: l'eccesso di calcio causa vasocostrizione renale, diminuendo la velocità di filtrazione e quindi di escrezione del calcio.

Una riduzione del volume del plasma, che si può avere con eccessiva escrezione di sodio, può portare ad ipercalcemia. Secondo Patel e collaboratori, bisognerebbe evitare di ingerire più di 1-1,5 g di calcio al giorno ed evitare di ingerire alcali per il rischio di sviluppare alkalemia (440).

 

 

Altri studi mostrerebbero che l'ipercalcemia non è tuttavia molto frequente. Uno studio francese in doppio cieco durato 4 anni, con somministrazione di 2000 mg giornalieri di calcio contro un placebo ha riscontrato solo un caso di ipercalcemia (412). Però in pressoché tutti i casi di alto introito di calcio la calciuria si incrementa, ed è noto come fattore di rischio di calcoli renali (415), anche se la variabilità individuale (predisposizione genetica alla formazione di calcoli) gioca un ruolo preminente. Nel Women Health Initiative il gruppo a cui era stato somministrato un supplemento di calcio di 1000 mg al giorno, per un totale (compreso il calcio assunto con la dieta) di 2200 mg al giorno ha avuto una ricorrenza di calcoli superiore del 17% (416).

 

 

Esistono farmaci per il cuore la cui assunzione con o senza vitamina D può causare ipercalcemia, con pericolo di calcificazione dei tessuti molli:

  Statine: gli studi mostrano incontrovertibilmente calcificazione della placca aterosclerotica. Questo è tuttavia interpretato nella letteratura medica come un effetto positivo, in quanto "stabilizza" la placca impedendo che se ne stacchino dei coaguli che entrando nella circolazione sanguigna potrebbero provocare ictus.

Il mercato delle statine muove miliardi di dollari l'anno. È probabile che qualcosa venga taciuto riguardo i loro effetti avversi.

A prescindere da tutto questo ci sono studi che mostrano che le statine non migliorano l'aspettativa di vita di coloro che le assumono.

Inoltre, le statine abbassano il colesterolo, ma questo per molti individui potrebbe non essere un fattore di rischio. Invece di sparare alla cieca, e affidarsi ai protocolli collaudati che prescrivono questi farmaci in caso di aumentato colesterolo per mettersi al riparo da possibili cause giudiziarie, il medico dovrebbe ricorrere alle metodologie più avanzate oggi disponibili, come una TAC dinamica delle coronarie.

  Digoxin (Lagoxin): questo farmaco contro l'ipertensione, se assunto con vitamina D ad alte dosi, può provocare ipercalcemia

  Diltiazem (Cardizem, Tiazac): questo farmaco contro l'ipertensione, se assunto con vitamina D ad alte dosi, può provocare ipercalcemia

  Verapamil (Verelan, Calan): questo farmaco contro l'ipertensione, se assunto con vitamina D ad alte dosi, può provocare ipercalcemia.

  Thiazide: i diuretici a base di questa molecola sono farmaci per abbassare la pressione che possono far diminuire l'escrezione di calcio e, se si assume anche vitamina D, possono portare a ipercalcemia

  Warfarin: Questo farmaco anticoagulazione produce calcificazione dei tessuti molli anche in assenza di consumo di vitamina D e andrebbe evitato ad ogni costo.

 

 

Nei mammiferi la concentrazione plasmatica di calcio e fosforo eccede di parecchie volte la solubilità. Il rischio di precipitazione di cristalli con calcificazione dei tessuti è scongiurato da inibitori della calcificazione, che sono a loro volta controbilanciati da promotori della calcificazione. Un alterato metabolismo dei primi porta a calcificazione (271).

 

 

Ecco i fattori di rischio della calcificazione in soggetti con insufficienza renale grave in dialisi (271):

Età avanzata

Razza

Diabete

Calcio sierico

Fosforo sierico

Prodotto calcio-fosforo

Iperparatiroidismo e ipoparatiroidismo

Alto dosaggio di metaboliti della vitamina D

Dislipidemia

Iperfibrinogemia

Alta CRP

Bassa albumina

Ipertensione

Alcol

Fumo

Questi fattori potrebbero giocare un ruolo anche nello sviluppo di aterosclerosi in persone senza insufficienza renale e andrebbero quindi tenuti sotto controllo.

 

 

Ai fattori che contribuiscono alla calcificazione si sono aggiunti recentemente i livelli sierici di Klotho (relazione inversa) e FGF23 (relazione diretta). FGF23, mano a mano che la funzionalità renale e la capacità di filtrare il fosforo declina aumenta per promuovere un superlavoro dei nefroni, e il suo aumento è correlato con ipertrofia ventricolare sinistra e ad una aumentata mortalità cardiovascolare. Però si ignora tuttora se FGF23 sia semplicemente un marker di una patologia cardiaca che ha altre cause oppure se sia una tossina responsabile del suo manifestarsi (273). (257)

L'intossicazione da vitamina A può produrre ipercalcemia.

 

 

 

È preferibile assumere vitamina D3 o vitamina D2?

 

La vitamina D3 (colecalciferolo) è preferibile alla vitamina D2 (ergocalciferolo) per due motivi:

a) la sua azione, in particolare nel promuovere l'assorbimento del calcio, è da due a cinque volte maggiore della vitamina D2;

b) la vitamina D2, una volta nel sangue, non viene facilmente trasportata nel fegato (dove viene pre-attivata) dalle proteine di trasporto, che hanno una maggiore affinità con la vitamina D3. Come conseguenza, una maggiore quantità di vitamina D2 circola libera nel sangue e potrebbe dare luogo a fenomeni di tossicità.

Per le ossa pare che la vitamina D2 sia efficiente come la D3, ma non è efficiente nel mantenere i livelli di 25(OH)D e quindi non pare efficiente per i benefici extra-scheletrici

 

 

 

Quali vitamine e sali minerali e nutrienti occorre assumere per garantire la salute delle ossa?

 

Le ricerche suggeriscono un ruolo nella salute ossea anche per nutrienti diversi da vitamina A, D, calcio e fosforo. Zinco, vitamina B12, folati, boro, silicio, manganese e rame. Sono stati descritti casi di bestiame che pascolava in pascoli poveri di rame e che, a dispetto di una sufficiente presenza di calcio e fosforo nella loro dieta, avevano sviluppato rachitismo e osteomalacia, che sono sparite con la somministrazione di rame. Sembra che il rame costituisca la colla che lega i cristalli di idrossiapatite, contenenti calcio e fosforo, alla matrice di collagene delle ossa (189).

 

 

 

Quali sono i sintomi dell'ipocalcemia?

 

Crampi addominali e muscolari, formicolio alle dita, alterata motilità addominale potrebbero essere sintomi di ipocalcemia

 

 

 

Qual è il ruolo del calcio nella salute delle ossa? Qual è la dose giornaliera raccomandata? Quali sono i rischi della deficienza di calcio?

 

effetti favorevoli del calcio

In situazioni di deficienza di vitamina D gli studi su modelli animali hanno mostrato che alti livelli di assunzione di calcio possano compensare questa deficienza, soprattutto se il calcio è assorbito con latte, che contiene lattosio, che può favorire l'assorbimento passivo.

In topi con recettori VDR geneticamente cancellati, che però sono nutriti con una dieta ricca di calcio non si sono riscontrate anomalie scheletriche. Questo vuol dire che riguardo le ossa 1,25(OH)2D agisce principalmente favorendo l'assorbimento intestinale del calcio. 

Sono sufficienti 20 UI di vitamina D per massimizzare l'assorbimento di calcio dall'intestino. Studi col radiocarbonio mostrano che moltiplicando la dose di vitamina D non aumenta l'assorbimento intestinale di calcio. 

Una meta-analisi di 15 studi ha riscontrato che il calcio, da solo (cioè non in combinazione con la vitamina D) ha prodotto incrementi della densità ossea nei vari siti scheletrici (292).

 

 

Il calcio è importante. Studi recenti mostrano che in vitro il calcio stimola la nascita di proto-osteoblasti, promuove la maturazione degli osteoblasti, incrementa la loro capacità di mineralizzazione e inibisce l'attività demolitrice degli osteoclasti.

 

 

In anni recenti si è ipotizzato un ruolo protettivo del calcio nei confronti del cancro e delle patologie cardiovascolari, attraverso meccanismi che influenzano il colesterolo, la pressione, la secrezione di insulina e l'insulino-resistenza. Molti studi, epidemiologici, ma anche a controllo randomizzato, hanno indagato questo rapporto, ma nel complesso sono risultati poco conclusivi, con alcuni che suggeriscono addirittura un effetto avverso. Il fatto che nella gran parte degli studi la somministrazione di calcio avvenga insieme a quella della vitamina D rende ancora più difficile farsi un'idea precisa (431).

 

 

Esiste una controversia sul ruolo del calcio nella cura dell'osteoporosi. Alcuni medici e ricercatori sostengono che non è stata dimostrata l'utilità del suo uso (341). Una meta-analisi del 2014, basata su 100 studi clinici riguardanti la supplementazione di calcio non ha trovato alcuna prova di un effetto nei confronti dell'osteoporosi. Per provare i benefici del calcio alimentare sull'osteoporosi sarebbe necessario richiederebbe uno studio a lunghissimo termine di migliaia di persone, che per ora manca.

 

 

Esistono prove che la somministrazione di calcio, anche senza vitamina D, può effettivamente incrementare la massa ossea (327). Reid et al., in uno studio randomizzato che ha interessato 1471 donne sane a cui è stato somministrato 1 g giornaliero di calcio, hanno trovato incrementi di massa ossea nell'arco di 5 anni (1,8% del rachide, 1,6% del bacino, 1,2% dell'intero scheletro). Uno studio di Larsen et al. riguardante 9605 soggetti anziani che vivevano in strutture di cura e riposo che hanno ricevuto 1 g di calcio e 400 UI di vitamina D al giorno ha rilevato una riduzione del 16% delle fratture (328).

 

effetti della deficienza di calcio

Numerosi studi mostrano che una deficienza di calcio e/o un eccesso di fosforo, con o senza uremia, provocano rapidamente iperplasia della tiroide negli animali di laboratorio (503).

 

 

Un livello di calcio troppo basso stimola eccessivamente la secrezione di PTH, che promuove un eccessivo turnover osseo, che è un fattore di fragilità ossea (481).

 

 

La mancanza di calcio danneggia le ossa in due modi: a) limita l'accrescimento osseo; b) i bassi livelli di calcio nel sangue stimolano la secrezione dell'ormone PTH che fa aumentare il turnover osseo, che porta a sua volta ad una maggiore fragilità ossea.

 

 

La relazione tra bassa assunzione di calcio e ipertensione è controversa. Molti studi hanno riscontrato un legame inverso tra calcio e ipertensione, ma non mancano grandi studi epidemiologici, come il Women's Health Randomized Trial, che ha monitorato 36.282 donne che hanno ricevuto 400 UI + 1000 mg di calcio al giorno o un placebo per 7 anni, i quali non hanno riscontrato alcun legame (392). Molti studi epidemiologici hanno mostrato che a parità di assunzione di altri nutrienti-chiave (sodio, potassio) all'ipertensione si associa spesse una bassa assunzione di calcio e che esiste una correlazione inversa tra calcio e pressione sistolica (393)

Degli studi hanno trovato che il rapporto tra calcio e pressione è più complesso, e coinvolge anche altri nutrienti. Di fatto, consumo di calcio, potassio, sodio e proteine sono così fortemente correlati che è difficile separare l'effetto statistico di un solo componente (395). Gruchow e colleghi hanno trovato che l'ipertensione è legata al rapporto calcio/sodio più che al solo calcio. Altri hanno indagato il rapporto tra ipertensione e sodio-potassio. Al disopra di una soglia limite di calcio, la pressione non risulta influenzata ulteriormente né dai livelli di calcio, né da quelli di potassio, né di sodio  (394). In altre parole, il sodio sembra positivamente correlato all'ipertensione solo se gli individui non hanno adeguate riserve di calcio. Molti ricercatori concordano comunque sul fatto che la deficienza di calcio è una causa "potenziale" di ipertensione.

In uno studio del 1992, Harnet e collaboratori hanno mostrato come il calcio si dimostra in grado di abbassare la pressione di soggetti che hanno un alto consumo di sale (2500 mg/1000 cal./die), ma non di soggetti che hanno uno scarso consumo di sale (390).

 

 

Somministrare vitamina D in presenza di carenza di calcio può far sì che 1,25(OH)2D scateni la decalcificazione dello scheletro: il cosiddetto "effetto calcemico", che innalza la calcemia anche a spese dello scheletro (237) (238). Ma in presenza di calcio, aumentando le dosi di vitamina D, l'effetto calcemico, affermano Carlsson e Lindquist, va a vantaggio dell'accrescimento osseo (237).

 

la dose giornaliera raccomandata di calcio

Uno studio recente di Hunt e colleghi (469) che ha calcolato il bilancio del calcio di 114 soggetti ritiene che la stima della necessità di calcio (il punto in cui il bilancio è in pareggio) vada ritoccata al ribasso: 750 mg al giorno o equivalentemente 9,4 mg per kg di peso corporeo.

 

 

Uno studio di Anderson e altri del 201 mostra come come un introito di calcio al disopra della RDA, che normalmente può essere ottenuto solo con supplementi, non ha alcuna influenza sulla massa ossea (BMD), e sembra addirittura che al disopra di un consumo medio di 412-438 mg di calcio al giorno non si abbia alcun rilevante incremento di massa ossea nel bacino e nella colonna vertebrale (451).

 

 

Uno studio di Warensjo e altri sulle donne svedesi mostra che incrementi di calcio possono avere un effetto protettivo contro le fratture, con una diminuzione del 18%, ma che oltre i 1137 mg al giorno il miglioramento cessa, e anzi pare manifestarsi un effetto avverso (445).

 

 

Ecco la dose giornaliera raccomandata dal Ministero della Salute in conformità delle direttive dell'Unione Europea:

 

lattanti < 1 anno

600 mg

da 1 a 6anni

800 mg

da 7 a 10anni

1000 mg

da 11 a 17 anni

1200 mg

da 18 a 29 anni

1000 mg

uomini da 30 a 59anni

800 mg

donne da 30 a 49anni

800 mg

uomini 60+ anni

1000 mg

donne 50+ anni

1200-1500 mg

 

In soggetti anziani di entrambi i sessi, e particolarmente dopo i 70 anni di età, l'assorbimento di calcio intestinale subisce un significativo declino (239).

 

 

La dose giornaliera raccomandata varia ampiamente da paese a paese nel mondo. Le raccomandazioni dell'Institute of Medicine USA prevedono 800 mg al giorno per i maschi adulti e 1000 mg per le donne adulte e 1000 mg per uomini e donne oltre i 70 anni.

 

 

La dose giornaliera andrebbe aumentata se si assumono molte proteine e molto sale, perché questo provoca una aumentata escrezione di calcio con le urine.

 

 

 

Quali sono le strategie migliori per raggiungere la RDA raccomandata di calcio?

 

Raggiungere la dose giornaliera raccomandata di calcio esclusivamente tramite una dieta vegana è poco pratico, perché richiede un ammontare di consumi che pochi sarebbero disposti a fare. Molti vegani ricorrono a cibi fortificati con calcio.

La biodisponibilità del calcio proveniente dai latticini è identica, sia che si tratti di yogurt, latte o formaggi.

La biodisponibilità del calcio contenuto nei vegetali è condizionata dal loro contenuto di ossalati e fitati, che sono inibitori dell'assorbimento di calcio. In uno studio su 835 donne cinesi il consumo di calcio da latticini era correlato più significativamente con la massa ossea rispetto al caso del consumo da fonti vegetali. In generale la biodisponibilità di calcio è inversamente legata al contenuto di ossalati dei vegetali. Essa è bassa per spinaci e rabarbaro, media per patate dolci e alta per vegetali con basso contenuto di ossalati come broccoli, cavoli e bok choy (cavoli cinesi). Una eccezione è costituita dai prodotti di soia che sebbene ricchi di ossalati e fitati mostrano una buona biodisponibilità di calcio. Invece i legumi secchi, ricchi di fitati, hanno una biodisponibilità di calcio assai minore.

I vegetali consumati in cina (senape bruna, spinaci cinesi, verza cinese) e il tofu prodotto con metodi che lo arricchiscono di calcio sono fonti insolitamente ricche di calcio biodisponibile. L'alta biodisponibilità di calcio nei vegetali poveri di ossalati rivela che il contenuto di fibre non ostacola l'assorbimento di calcio. Si è ipotizzato che questi vegetali contengano sostanze non ancora identificate che favoriscono l'assorbimento di calcio.

Molte fonti vegetali comunemente consumate, come i cereali, la maggior parte dei vegetali e frutta rendono difficile raggiungere la RDA col loro solo apporto, anche se alcuni vegetali hanno un'alta biodisponibilità e le porzioni consumate dai vegetariani sono abbondanti. Pertanto Robert Heaney consiglia ai vegetariani e ai vegani di consumare cibi fortificati con calcio o supplementi di calcio, con la possibile eccezione dei pochi individui che sono in grado di pianificare una dieta vegetale molto accurata.

I sali di calcio nei supplementi hanno una biodisponibilità simile a quella del latte, con l'eccezione del citrato-malato, che ha una biodisponibilità lievemente maggiore. 300 mg di supplementi forniscono l'ammontare di un bicchiere di latte (240 ml).

Se si utilizzano supplementi di calcio invece di fonti alimentari, va fatta attenzione alla possibile carenza nell'apporto di altri nutrienti necessari per le ossa, come magnesio e numerose vitamine, incluse riboflavina, B6, B12 e tiamina.

La perdita urinaria di calcio è responsabile per il 50% della variabilità dell'assimilazione del calcio da parte del nostro organismo. I fattori nutrizionali che la influenzano maggiormente sono sodio, proteine e caffè. Il sodio è il fattore più rilevante: ogni 2300 mg di sodio escreto producono l'escrezione di 40-60 mg di calcio. Nelle donne adulte, per ogni grammo in più di sodio si ha un aumento dell'1% l'anno di perdita di massa ossea, supponendo che il calcio provenga dallo scheletro.

Va tenuto sempre presente che, oltre che con l'età, la RDA varia in accordo con numerosi fattori (malattia e immobilità, alcol, malassorbimento ecc.)

Per quanto riguarda il contenuto di calcio del tofu, che viene definito dai vegani "una miniera di calcio"; occorre distinguere: Per il tofu cinese, più morbido, vengono usati cloruro di calcio o solfato di calcio (anidrite). Per il tofu giapponese viene utilizzato il nigari, composto principalmente di cloruro di magnesio, ottenuto dopo la rimozione del cloruro di sodio e l'eliminazione dell'acqua. Il nigari può contenere piccole quantità di solfato di magnesio, cloruro di potassio, cloruro di calcio e altri sali di origine naturale. Un terzo tipo di tofu viene prodotto con il Glucono delta-lattone (GDL), un acido organico naturale usato anche per produrre il formaggio. Può essere usato il succo di limone.

 

 

Ecco un prospetto delle varie fonti di calcio con l'indicazione della biodisponibilità:

 

 

 

 

Quale marca di supplementi di calcio è migliore? In che modo vanno assunti?

 

La biodisponibilità dei vari sali di calcio utilizzati nei supplementi è pressoché identica e simile a quella del calcio contenuto nel latte e nei latticini, con l'eccezione del citrato-malato di calcio, che ha una biodisponibilità lievemente più alta (580).

La percentuale di calcio contenuta nel citrato è più bassa di quella contenuta nel carbonato, per cui la quantità di citrato di assumere è maggiore e le compresse sono più grandi, ciò che per certe persone può risultare poco gradito.

È opportuno frazionare le assunzioni di calcio giornaliere, perché questo ne migliora la biodisponibilit

Per stabilire se un dato prodotto è valido, è opportuno mettere la compressa in un bicchiere di acqua calda per vedere che si scioglie. Evitate i supplementi che non si sciolgono facilmente, perché con tutta probabilità il calcio in essi contenuto andrà perso con le feci.

Per una migliore assimilazione si possono spezzare o frantumare le compresse di calcio.

Tenere presente che gli antiacidi riducono l'assorbimento del calcio.

Secondo due studi del 1999, preparati a base di citrato di calcio come Citracal della Bayer, assunti ai pasti, hanno mostrato un assorbimento più efficiente del 40% rispetto a quelli basati sul carbonato (437).

Il carbonato di calcio va preso ai pasti, perché richiede un ambiente acido per essere assimilato. Il citrato di calcio invece può essere preso anche fuori dei pasti. Le singole dosi non dovrebbero superare i 500 mg per ottimizzare l'assorbimento.

Studi recenti mostrano che esiste un serio rischio di inquinamento da piombo per la quasi totalità dei supplementi a base di carbonato di calcio.

Ciò detto, chi vuole essere sicuro, può assumere l'altra forma comunemente utilizzata, il citrato di calcio.

Un altro modo per garantirsi che il supplemento è sicuro è ricorrere a ditte note, come Bayer e Pfizer, che producono rispettivamente Citracal e Caltrate, a base di citrato di calcio e vitamina D.

Un altro modo è ricorrere a supplementi che abbiano la certificazione dei principali laboratori che in USA svolgono un importante e riconosciuto controllo di qualità. In particolare la United States Farmacopeia Convention è una organizzazione no-profit di assoluta serietà, che certifica col marchio "USP-verified" i supplementi che seguono le linee-guida di produzione e confezionamento che la FDA ha emanato nel 1995. Altri laboratori del genere sono il ConsumerLab. L'elenco dei produttori di supplementi che hanno richiesto la certificazion USP per i loro prodotti è consultabile in rete sul sito di queste organizzazioni.

Le differenze tra il citrato e il carbonato di calcio sono le seguenti:

  La biodisponibilità del calcio in forma di citrato è inferiore a quella del carbonato (10-15% contro 30-35%), il che richiede l'ingestione di un maggior numero di compresse. Secondo alcuni, questo ha l'effetto di lasciare nel plasma un maggior numero di alcali, dopo che i citrati sono stati scissi dal calcio, con effetti a lungo termine non prevedibili sul bilancio acido-base e sulla funzionalità renale.

  Mentre il citrato può essere assunto fuori dei pasti, perché non richiede un ambiente acido per essere assorbito, il carbonato deve essere assunto ai pasti. Questo, in persone con scarsa produzione di succhi acidi, potrebbe rallentare la digestione. D'altro canto, assumere il calcio ai pasti limita il picco di calcio nel sangue, che alcuni ricercatori hanno associato, in studi a lungo termine, addirittura ad una maggiore mortalità cardiovascolare.

I livelli di PTH hanno un ritmo circadiano, che decresce durante il giorno. Questo forse suggerisce che dovremmo assumere calcio nella prima metà della giornata? Purtroppo, gli studi sinora condotti sull'assorbimento del calcio, non mostrano che esso varia durante la giornata.

 

 

 

La supplementazione di calcio può avere effetti collaterali dannosi?

 

Il calcio plasmatico è in tre forme: a) legato a proteine, in particolare albumina (45%); b) legato ad anioni come fosfati e citrati (10%); c) allo stato libero o ionizzato (45%). I recettori delle paratiroidi sono sensibili solo ai livelli di calcio ionizzato, che è l'unico calcio disponibile per essere portato dentro le cellule ed attivare i processi cellulari. Tuttavia i laboratori riportano quasi sempre il calcio totale. Il range normale del calcio totale è 8,5-10,5 mg/dL; il range del calcio ionizzato è 4,65-5,25 mg/dL.

 

 

Uno studio di Mark Bolland e collaboratori, pubblicato sul prestigioso British Medical Journal nel 2011 rivela che supplementi di calcio o calcio e vitamina D possono portare ad un modesto incremento di patologie cardiovascolari, specie di infarto del miocardio (3). Lo studio conferma ciò che era già emerso da altre precedenti ricerche (5). La probabilità di avere un infarto o ictus aumenta del 15%, mentre quella di avere un infarto del miocardio aumenta del 24% (3).

Gli autori sostengono che la probabile causa di mortalità è l'aumento del livello plasmatico di calcio, di cui è stata dimostrata da tempo una correlazione con la formazione di placche ateriosclerotiche nella carotide, e con la calcificazione dell'aorta, oltreché direttamente con l'infarto del miocardio. È stata osservata da tempo la correlazione tra iperparatiroidismo (che produce elevata calcemia) e infarto. Culture di cellule della muscolatura liscia esposte a concentrazioni crescenti di calcio mostrano un aumento della mineralizzazione. Inoltre, nei ratti l'ipercalcemia aumenta anche il rischio di formazione di trombi.

Uno studio del 2006 indicherebbe che l'uso di calcio a dosi di 1000 mg al giorno e vitamina D a dosi di 400 UI al giorno in supplementi da parte di donne dopo la menopausa erano associati a un incremento del 17% del rischio di calcoli renali nell'arco di 7 anni nello studio WHI (37). Ad un livello puramente statistico si è pure notato che paesi dove il consumo di vitamina D ha avuto un aumento come supplemento nei cibi o in integratori si è registrato un aumento delle malattie cardiovascolari (56). Uno studio ha notato una correlazione tra ingestione di vitamina D e morte per ischemia cardiaca (57).

Secondo lo studio di Bolland, se 1000 donne assumono integratori di calcio per 5 anni, alla fine del periodo in quel gruppo ci saranno tre fratture ossee in meno e sei episodi cardiovascolari in più (infarto o ictus).

Sembra che l'evento cardiovascolare su cui influisca di più il consumo di supplementi di calcio sia l'infarto del miocardio.

Un dato interessante che emerge, è che non c'è un nesso tra la frequenza degli infarti e la dose assunta: persino dosi giornaliere di calcio inferiori a 500 mg possono portare ad effetti avversi, per il brusco innalzamento del calcio plasmatico - così almeno ipotizzano i ricercatori - dovuto all'ingestione dell'integratore (3) (58).

I meccanismi attraverso cui l'assunzione di supplementi potrebbe aumentare il rischio coronarico sono ancora da determinare con certezza. Il meccanismo di azione nocivo ipotizzato da Bolland e colleghi, come già detto, è legato all'aumento improvviso a seguito della somministrazione di calcio che a seconda delle dosi può andare da 0,36 mg/dL per una dose di 250 mg a 0,64 mg/dL per una dose di 1000 mg. I livelli di calcemia non ritornano al livello precedente se non 5-8 ore dopo. Se vengono assunte più dosi nell'arco della giornata, essi rimangono quindi più elevati per una buona parte delle 24 ore. L'uso continuato di supplementi di calcio non attenua questa reazione. Il rapporto dose-aumento non è lineare, con basse dosi che possono provocare incrementi in proporzione più consistenti delle dosi più alte, il che spiegherebbe il fatto che gli studi mostrano che quelli che aumentano le dosi non vedono aumentare il rischio cardiovascolare. E' noto che soggetti con livelli di calcio nella parte superiore del range normale mostrano segni di placca aterosclerotica della carotide.

Bolland suggerisce che una eccessiva riduzione dell'ormone PTH per sovrabbondanza di calcio può avere effetti negativi. Il calcio potrebbe agire legando il pirofosfato plasmatico e diminuendo la quantità di pirofosfato libero, che ha una nota azione inibitrice della calcificazione dei tessuti molli (433).

Un'altra possibile causa degli effetti negativi degli integratori è l'alta quantità di ioni negativi che viene assunta con il calcio in questi prodotti. Carbonato di calcio, citrato di calcio, fosfato di calcio, producono ioni negativi, i cui effetti nel lungo periodo sono ignoti (67). Questi composti possono provocare una eccessiva alcalinizzazione con effetti nocivi.

Uno degli effetti collaterali dannosi della eccessiva supplementazione con calcio è la (eccessiva) soppressione del turnover osseo (314), dovuta alla diminuzione che l'aumentata calcemia provoca nei livelli degli ormoni calciotropi (PTH e 1,25OH2D) che promuovono il rimodellamento osseo, col risultato che il processo di riparazione delle ossa diviene più lento e non riesce a tenere dietro ai danni che si accumulano. Uno studio del 1986 mostra che entro 4 ore dalla ingestione di un supplemento di calcio di 1000 mg si nota una riduzione di PTH (da 0,16 mcg a 0,10 mcg) e e del rapporto idrossiprolina/creatinina da 20 a 17, il che mostra che i supplementi di calcio hanno un effetto immediato nell'abbassare il turnover osseo (436).

Quando invece il calcio è assunto col cibo, non si verifica questa maggiore mortalità cardiovascolare (58), né aumenta il rischio di calcoli renali, e pare addirittura che il calcio alimentare riduca il rischio di nefrolitiasi (294).

In conclusione, Bolland e collaboratori affermano che gli effetti avversi dei supplementi di calcio, che includono anche costipazione, sintomi gastrointestinali acuti, calcoli renali e ipercalcemia, superano i modesti effetti della supplementazione sul rischio di fratture. Essi concludono che la sola fonte di calcio deve essere una dieta bilanciata.

La questione rimane tuttavia incerta. Studi successivi hanno confermato questo legame, per alte dosi di calcio (21), mentre altri non lo hanno riscontrato (293) e altri ancora lo hanno recisamente negato e hanno messo in dubbio la significatività statistica di questa correlazione con analisi più approfondite (22). In una rassegna del 2013 Spence e Weaver giudicano le prove troppo incerte e ritengono che siano necessari altri studi e la chiarificazione del possibile meccanismo causale (475).

Va notato che la maggior parte degli studi che rilevano effetti avversi dei supplementi di calcio prendono in esame soggetti anziani o molto anziani.

Importanti voci discordanti si sono avute di recente. Samelson e collaboratori , si sono basati sui dati relativi a 690 uomini e 588 donne che facevano parte della coorte del Framingham Study, che sono stati esaminati tra il 1988 e il 2001 e sottoposti ad una tomografia coronarica 4 anni più tardi. Gli autori dichiarano che non hanno trovato dati a supporto dell'ipotesi che un alto consumo di calcio aumenti la calcificazione delle coronarie (41). Paik e collaboratori hanno seguito 74.245 donne per 24 anni con esami ogni 4 anni, ed è stata indagato il rapporto tra supplementi di calcio e malattie cardiovascolari. Una volta operati gli aggiustamenti statistici per escludere gli altri fattori, le donne che consumavano più di 1000 mg di supplementi di calcio al giorno avevano un rischio più basso del 18%. Pertanto i risultati della ricerca non supportano l'idea di un effetto dannoso dei supplementi, ma anzi di un loro ruolo protettivo (424). 36282 donne di età tra 50 e 79 anni hanno ricevuto un placebo o 1000 mg di calcio e 400 UI di vitamina D e sono state seguite da Hsia e collaboratori per 7 anni. Lo studio non ha trovato alcuna influenza significativa in un senso o nell'altro dei supplementi di calcio sul rischio coronarico o cerebrovascolare (425).

 

 

Le analisi di Bolland e collaboratori tenderebbero a mostrare che con una supplementazione di 500-700 g non si verificherebbero effetti avversi (317).

Si ignora se la concomitante somministrazione di vitamina D possa diminuire la mortalità dei supplementi di calcio attraverso un effetto protettivo ancora da chiarire (317).

Sami Rautiainen, che insieme ad altri ha condotto qualche anno fa una rassegna sul ruolo del calcio in relazione al rischio cardiovascolare, rtiene che solo grandi studi epidemiologici, che abbiano come scopo primario e non secondario, come nella ricerca di Bolland, l'individuazione del legame tra consumo di supplementi di calcio e patologie cardiovascolari riusciranno a far luce in merito (383). Tutto quello che implica attualmente il lavoro di Bolland è collaboratori è invitare alla cautela, a non assumere più calcio di quanto non sia necessario e ad assumerlo preferibilmente in forma alimentare.

 

 

La raccomandazione quindi è di fissare una ragionevole RDA di calcio, pari o inferiore a 1000-1200 mg al giorno o anche meno, tralasciando le raccomandazioni più eccessive, e di cercare di assumere la maggior quantità possibile di calcio da fonti alimentari, ricorrendo ai supplementi solo per raggiungere il livello raccomandato.

Gli effetti calcificanti sulle coronarie dei supplementi di calcio e di una ipercalcemia anche lieve in soggetti con insufficienza renale è ben documentato (433). Pertanto, è consigliabile fare sempre una analisi del GFR per determinare la capacità di filtrazione dei reni, prima di intraprendere una cura col calcio.

Quando si assumono supplementi di calcio, occorre determinare con cura quanto calcio aggiuntivo si assume con la dieta, perché in caso contrario si può verificare una assunzione più alta di quella necessaria. Tra le fonti occulte di calcio ci sono le acque dure: se siamo abituati a bere acqua potabile imbottigliata ad una fonte o l'acqua del rubinetto, potremmo avere facilmente un eccesso di calcio. Un soggetto che in un giorno abbia mangiato 2 vasetti di yogurt, una manciata di mandorle, 150 gr. di merluzzo, una abbondante insalata, un bicchiere di latte, 50 gr. di cioccolato e abbia condito la pasta con il parmigiano arriva già a 900 mg di calcio giornaliero. Con un supplemento di 1000 mg si arriva vicino ai 2000 mg, e, come già detto in altro punto, nel Women Health Initiative il gruppo che assumeva 2200 mg al giorno aveva un aumento del 17% dei calcoli renali (416).

Se non si conosce con precisione la quantità di calcio che si assume con la dieta, il calcio assunto con i supplementi può elevare eccessivamente l'introito quotidiano, con pericolo di effetti cardiovascoari avversi (385). Si tenga presente che è sufficiente assumere due vasetti di yogurt, una tazza di latte e due abbondanti insalate per arrivare già a quasi 700 mg di calcio.

 

 

Il gruppo più a rischio di ipercalcemia a seguito della somministrazione di supplementi di calcio appare essere quello dei pazienti anziani con osteoporosi. Ma indipendentemente da questa condizione, Bolland e collaboratori sostengono che tutti gli studi che hanno visionato sulla supplementazione di calcio in soggetti adulti mostrano un aumentato rischio di infarto del miocardio con aumenti dell'ordine del 27% (317).

 

 

Lo studio più importante che ha fatto seguito a quello di Bolland e collaboratori è stato pubblicato nel 2016 da un team condotto da John Anderson dell'Università del North Carolina a Chapel Hill e da Erin Michos, della John Hopkins University, che hanno seguito 5448 adulti per 10 anni allo scopo di indagare sulla correlazione tra consumo di calcio e calcificazione delle coronarie (CAC) (310).

I risultati mostrano che il consumo di calcio è protettivo, in quanto inversamente legato alla calcificazione delle coronarie: il gruppo che consuma più calcio (2157 mg al giorno in media) ha un rischio coronarico diminuito del 27% rispetto al gruppo col consumo più basso (313,3 mg al giorno in media). Tuttavia, i consumatori di supplementi di calcio hanno un rischio del 22% maggiore di coloro che assumono calcio solo con la dieta.

Ecco la tabella dei rischi riscontrati da Anderson e colleghi:

 

consumo medio

di calcio (mg)

calcio

da dieta

calcio

da supplementi

306

0

+41%

491

-4%

+22%

670

+0,8%

+22%

870

-10%

+0,6%

1280

-26%

-9%

 

In una meta-anaisi del 2014 che prendeva in esame i dati di 12 coorti indipendenti, per un totale di 757.304 soggetti, Wang e collaboratori hanno ricontrato che la dose assunta di calcio è legata alla mortalità cardiovascolare da una curva a "U": intorno a 800 mg al giorno si nota la mortalità più bassa, mentre scendendo o salendo rispetto a queste dosi la mortalità ricomincia ad aumentare (385). I soggetti che assumevano 500 mg avevano un rischio superiore dell'8% rispetto a quelli che ne assumevano 800, i soggetti che ne assumevano 1000 mg avevano un rischio superiore dell'1%, quelli che ne assumevano 1200 avevano un rischio superiore del 5%, quelli che ne assumevano1400 avevano un rischio superiore del 10%. Livelli di calcio troppo basso (sotto i 400 mg. al giorno) possono anch'essi portare a calcificazioni. Uno dei meccanismi attraverso i quali ciò si verifica è l'alterazione del rapporto tra assunzione giornaliera di calcio e quella di fosforo (che deve essere 1,5:1 ma che in media è 0,7:1 nei soggetti osservati). Si può creare un eccesso di calcio sierico che può portare a un eccesso di PTH che a sua volta può portare a fenomeni di decalcificazioe dello scheletro. L'eccesso post-pasto di fosforo può innescare un processo di calcificazione delle cellule nelle arterie e nelle valvole cardiache (386). Invece la mortalità generale si riduce al crescere del calcio giornaliero, fino a 900 mg al giorno, dopodiché rimane costante. Il che vuol dire che ridurre le proprie dosi giornaliere di calcio al disotto di 900 mg aumenta la mortalità (385).

 

 

Il Women Health Initiative prende in esame gli incidenti cardiovascolari della supplementazione non solo con calcio, ma anche con vitamina D, e mostra, contrariamente agli studi di Bolland e collaboratori, un rischio solo moderato (1,08) con un indice di probabilità al limite del significativo. Bolland nota solo che "despite the investigators’ conclusions, these findings were not entirely reassuring" (317). Bolland ammette che i partecipanti del WHI sono più giovani di 10 anni rispetto a quelli degli studi che il suo gruppo ha analizzato. Questo potrebbe indicare che i risultati della sua analisi valgono solo per soggetti anziani e molto anziani (317).

 

 

Non ci sono invece prove che il calcio alimentare sia legato a disturbi cardiovascolari. Ma questa affermazione è basata su studi epidemiologici i cui risultati sono in contrasto con i risultati della analisi di Bolland, che è basata invece su esperimenti a controllo randomizzato. Perdipiù, sono studi che forniscono dati per introiti generalmente inferiori a quelli degli studi considerati da Bolland (> 1800 mg al giorno) (433).

 

 

È noto che la somministrazione di supplementi di calcio abbasa i livelli di PTH e il turnover osseo, già entro 4 ore dalla somministrazione, il che può essere un bene se per la carenza di calcio questo implica un deflusso di calcio dalle ossa, ma in soggetti anziani può rallentare i processi di riparazione scheletrica (436).

 

 

Livelli elevati di calcio sierico sono associati a livelli più alti di FGF23 in uno studio condotto da Vervloet e colleghi nel 2011. Passando da 280 a 1700 mg di calcio il Fibroblast Growth Factor-23 aumenta nel siero. Livelli più elevati del normale di FGF23 sono associati ad una maggiore mortalità cardiovascolare, anche se l'aumento di rischio non è elevatissimo (471). Altri studiosi hanno ipotizzato che una acidosi metabolica possa provocare questa condizione (472).

 

 

A fronte dei possibili danni di un eccesso di calcio, si deve notare che, come nota lo stesso Robert Heaney (452) non esistono studi che confermano una relazione tra calcio e massa ossea in modo univoco, quando il consumo di calcio giornaliero è adeguato. Garn e colleghi (461) in parecchi studi attentamente condotti, non sono stati capaci di trovare una relazione apprezzabile tra il consumo corrente di calcio e la massa ossea, in persone con un vasto arco di età. Allo stesso modo, Smith e Rizek (462) non hanno trovato una relazione significativa  tra consumo attuale e massa ossea attuale. Smith e Frame (463) non hanno trovato una relazione tra  lo spessore corticale, metacarpale o la densità vertebrale e il consumo di calcio, studiando 220 donne il cui consumo di calcio andava da 150 a 2100 mg al giorno. Hurxtal e Vose (464) hanno misurato la densità ossea delle vertebre lombari con una tecnica radiodensitometrica in 404 soggetti. L'introito di calcio di tutto l'arco della vita è stato calcolato mediante una storia della dieta. C'era una debole ma significativa correlazione della densità ossea con il consumo di calcio. Più recentemente, una analisi della relazione tra consumo di calcio e l'area corticale metacarpale e la percent cortical area è stata condotta sui dati del Ten-State Nutrition Survey USA (465) ed è stata trovata una lieve ma significativa correlazione.  Uno studio svizzero (466) non ha trovato alcuna differenza nella massa ossea tra 3000 soggetti in Ginevra e 1200 soggetti in due villaggi montani, sebbene i consumi di calcio giornalieri fossero differenti (pr i maschi 1100 mg a Ginevra e 2150 nei villaggi, per le femmine 870 mg a GInevra e 1270 nei villaggi). Invece, Matkovic e colleghi (467)  hanno trovato chiare differenze di massa ossea in due comunità yogoslave che si differenziavano principalmente per un consumo doppio di calcio in una di esse rispetto all'altra. La massa ossea era più alta in tutte le età e in entrambi i sessi tra i membri della comunità che consumava più calcio. La apparente perdita di calcio con l'età però era la stessa e Heaney opina che la differenza nella massa ossea è dovuta ad una maggiore assunzione di calcio nel momento della formazione del picco di massa ossea (452).

 

 

Sebbene riguardo l'effetto dei supplementi di calcio sul rischio cardiovascolare la comunità scientifica si sia spaccata in due. Altri studi mostrano comunque che un livello elevato di calcio plasmatico è associato ad un maggior grado di calcificazione delle arterie carotidi e/o ad un maggiore rischio cardiovascolare, anche se rientra nel range normale. Un indizio era fornito dal fatto noto che i soggetti con iperparatiroidismo primario, caratterizzato da elevata calcemia, hanno una aumentata mortalità cardiovascolare. Già all'inizio degli anni '80 le autopsie di soggetti con ipercalcemia cronica di durata variabile da 1 a nove anni mostravano anomali depositi di calcio nelle coronarie e nelle valvole cardiache (420). In un articolo del 1991 Stephen Seely ipotizzava che fosse il basso consumo di calcio rispetto all'occidente che spiegava i bassi tassi di ipertensione dei paesi in via di sviluppo (476). Uno studio di Rubin et al., del 2007 ha mostrato che coloro avevano la placca più sviluppata avevano il 64% di probabilità in più di trovarsi nela fascia più alta di tale range. Coloro che erano nel quintile più alto dei valori di calcio (9,1-10,39 mg(dL) avevano una placca del 40% maggiore rispetto a quelli nel primo quintile (8,2-8,49 mg/dL) (318) (474). Secondo due studi del 2010 di Bolland e colleghi, il livello totale di calcio sierico è un predittore della calcificazione dell'aorta. Per ogni 0,4 mg/dL di aumento del calcio sierico si ha un incremento del 23% della probabilità di calcificazione dell'aorta addominale. Inoltre, le persone che sono ai livelli più alti di calcio sierico sono anche ai livelli più alti della calcificazione dell'aorta addominale (319). Uno studio pubblicato nel 2014 da Kwak e collaboratori mostra come i valori della CAC (Coronary Artery Calcification) sono positivamente associati con il calcio sierico, il fosforo sierico e il prodotto calcio-fosforo. Il quintile più alto di valori ematici di calcio (> 9,7) ha valori CAC 2,9 volte più alti del quintile più basso (<9,3). Per il fosforo sono 3,4 volte più alti e per il prodotto calcio-fosforo sono 4,07 volte più alti (320). Anche qui, però, non mancano voci contrarie: Samelson e colleghi, in uno studio del 2012 che prendeva in esame i dati del Framingham Study non rilevava però alcuna correlazione tra supplementi di calcio e aumentata calcificazione delle coronarie (41).

 

 

Lo studio di Kwak e collaboratori mostra che forse, più che tenere d'occhio la sola calcemia come fattore di rischio, è opportuno tenere d'occhio il prodotto calcio-fosforo.

Uno studio di Shin e collaboratori del 2012, che ha interessato 7553 partecipanti, ha riscontrato una indubbia correlazione tra elevati livelli di calcio, fosforo e del prodotto calcio-fosforo e la presenza di placche aterosclerotiche calcificate nelle coronarie, anche se la relazione causale non è chiara (421). La tabella pubblicata nel medesimo articolo mostra impressionanti aumenti di rischio cardiovascolare:

 

Per 1 mg/dL of Ca by Ca quartile

1.22 (1.03–1.43)

0.019

1.19 (1.08–1.31)

<0.001

I (8.6 mg/dL)

1

..

1

..

II (8.7–8.9 mg/dL)

1.19 (0.86–1.64)

0.308

1.21 (1.01–1.44)

0.040

III (9.0–9.3 mg/dL)

1.68 (1.20–2.33)

0.002

1.33 (1.10–1.61)

0.003

IV (9.4 mg/dL)

1.43 (1.04–1.96)

0.029

1.35 (1.13–1.61)

0.001

Per 1 mg/dL of P by P quartile

1.28 (1.12–1.45)

< 0.001

1.05 (0.97–1.13)

0.242

I (3.2 mg/dL)

1

..

1

..

II (3.3–3.6 mg/dL)

1.12 (0.83–1.52)

0.455

1.03 (0.86–1.24)

0.721

III (3.74.0 mg/dL)

1.41 (1.071.85)

0.015

1.28 (1.081.51)

0.004

IV (4.1 mg/dL)

1.76 (1.29–2.38)

< 0.001

1.17 (0.98–1.40)

0.079

Per 1 mg2/dL2 of CPP by CPP quartile

1.03 (1.02–1.05)

< 0.001

1.01 (1.00–1.02)

0.045

I (29.4 mg2/dL2)

1

..

1

..

II (29.5–33.2 mg2/dL2)

1.37 (1.02–1.85)

0.036

1.12 (0.94–1.33)

0.205

III (33.3–37.7 mg2/dL2)

1.68 (1.25–2.27)

0.001

1.31 (1.10–1.56)

0.002

IV (37.5 mg2/dL2)

1.92 (1.41–2.62)

< 0.001

1.28 (1.07–1.53)

0.006

 

Uno studio di Lind e collaboratori del 1997 ha seguito 2.322 persone per 18 anni per indagare la correlazione tra livelli elevati di calcemia iniziali e successivi accidenti cardiovascolari. Risulta che i livelli di coloro che hanno avuto tali accidenti erano più elevati all'ingresso. Il rischio di infarto delle persone con più alto livello di calcio sierico è più che doppio rispetto a quelle con i livelli più bassi. Calcio, Body Mass Index, pressione sanguigna e indice aterogenico sono risultati gli unici predittori indipendenti del rischio cardiovascolare (25).

Un altro studio, dovuto a Slinin e collaboratori ha esaminato 7.659 donne confrontando i livelli di calcio e fosforo all'inizio del trial con gli eventi cardiovascolari nei 4 anni successivi. Lo studio ha trovato una correlazione positiva tra calcio sierico e mortalità cardiovascolare, ma non per il fosforo. I quartili erano costituiti in base alle medie del calcio sierico: 8,57 - 8,85 - 9,09 - 9,49. Il rischio di eventi cardiovascolari rispetto al primo quartile era aumentato rispettivamente di 43%, 43%, 50% negli altri quartili dopo aggiustamenti multivariati (422).

Uno studio di Foley e collaboratori del 2008 riporta i dati di 15.372 residenti anziani in istituti di cura per 12 anni, mostra un aumento di rischio legato ai livelli di calcio, di fosforo e dei valori del prodotto calcio-fosforo (438).

Lutsey e collaboratori ha condotto una ricerca durante la quale 14.709 uomini di età tra 45 e 64 anni sono stati seguiti per 20 anni (1989-2009). Il gruppo dei soggetti con il più alto livello di calcio sierico (10,4 mg/dL in media) avevano un rischio del 40% superiore rispetto a quelli del gruppo con i valori più bassi (9,4 mg/dL in media) (322). I ricercatori hanno costatato che oltre un certo livello di fosforo sierico (passando da una media di 3,7 ad una media di 4,1) il rischio cardiovascolare aumenta del 34%.

Nel 1996 Leifsson e collaboratori hanno pubblicato un altro importante studio. 33.346 persone sono state sottoposte ad un esame medico completo iniziale e seguite per un periodo di 18 anni (323). Il rapporto tra gruppi con diverso range di calcio sierico e rischio cardiovascolare è il seguente: 1 (9,25-9,82); 1,3 (9,82-10); 1,5 (10-10,2); 1,7 (10,2-10,42); 2,2 (> 10,42)

Jorde e collaboratori hanno condotto un altro studio, pubblicato nel 1999. 12.865 uomini e 14.923 donne sono state sottoposte ad esami clinici approfonditi. Si è indagato sulla correlazione tra i livelli sierici di calcio e gli eventi cardiovascolari presenti nella anamnesi dei soggetti. In tutti i gruppi di età i livelli di calcio sierico erano più alti in coloro che avevano avuto infarti del miocardio. Dopo gli aggiustamenti statistici, è risultato che per ogni 0,4 mg/dL di incremento del calcio sierico si registrava un incremento del 20% del rischio di infarto (423).

Uno studio a controllo randomizzato ha mostrato che coloro che assumevano latte fortificato con calcio, nell'arco di due anni registravano un incremento della calcificazione dell'aorta rispetto al gruppo di controllo (443). Un altro studio a controllo randomizzato ha mostrato recentemente come supplementi di calcio abbiano aumentato lo spessore della placca delle carotidi rispetto al gruppo di controllo (444).

 

 

Nel Nurses Health Study il calcio assunto con gli alimenti ha mostrato di svolgere un ruolo preventivo dei calcoli (417), mentre quello assunto con supplementi incrementava la frequenza dei calcoli del 20%: si tratta del primo studio che documenta l'effetto avverso dei supplementi sui calcoli renali (418).

 

 

Prima dello studio di Anderson mancavano studi sulla frequenza di episodi di ipercalcemia e ipercalciuria in soggetti che assumevano i supplementi. In un articolo pubblicato nel 2014, Gallagher e colleghi hanno hanno recentemente riscontrato ipercalciuria nel 9% delle donne che assumevano supplementi di calcio e ipercalcemia nel 31% di esse a seguito della assunzione di 1200 mg di calcio giornaliere, alimentare o da supplementi (315). Lo studio a controllo randomizzato ha interessato 163 donne in menopausa per un anno. Ai soggetti sono state somministrate dosi di vitamina D variabili da 400 a 4800 UI giornaliere, ma non si è riscontrata alcuna variazione nella frequenza degli episodi, che appaiono legati alla sola somministrazione di calcio. Persino donne del gruppo di controllo (600 UI) hanno avuto degli episodi di ipercalcemia. Questo sembra in accordo con i risultati del gruppo di Bolland, che notava come l'incremento di incidenti cardiovascolari tra consumatori di supplementi non fosse legato all'entità della dose giornaliera. Gli autori concludono che "ipercalcemia e ipercalciuria ricorrono comunemente durante la supplementazione di calcio e vitamina D". Gli episodi di ipercalcemia riscontrati sono transitori e spariscono da soli proseguendo la somministrazione. Per l'ipercalciuria valgono le stesse osservazioni che per la calcemia.

Altri studi mostrerebbero che l'ipercalcemia non è tuttavia molto frequente. Uno studio francese in doppio cieco durato 4 anni, con somministrazione di 2000 mg giornalieri di calcio contro un placebo ha riscontrato solo un caso di ipercalcemia (412). Però in pressoché tutti i casi di alto introito di calcio la calciuria si incrementa, ed è noto come fattore di rischio di calcoli renali (415), anche se la variabilità individuale (predisposizione genetica alla formazione di calcoli) gioca un ruolo preminente. Nel Women Health Initiative il gruppo a cui era stato somministrato un supplemento di calcio di 1000 mg al giorno, per un totale (compreso il calcio assunto con la dieta) di 2200 mg al giorno ha avuto una ricorrenza di calcoli superiore del 17% (416).

 

 

Prima dello studio di Anderson mancavano studi sulla frequenza di episodi di ipercalcemia e ipercalciuria in soggetti che assumevano i supplementi. In un articolo pubblicato nel 2014, Gallagher e colleghi hanno hanno recentemente riscontrato ipercalciuria nel 9% delle donne che assumevano supplementi di calcio e ipercalcemia nel 31% di esse a seguito della assunzione di 1200 mg di calcio giornaliere, alimentare o da supplementi (315). Lo studio a controllo randomizzato ha interessato 163 donne in menopausa per un anno. Ai soggetti sono state somministrate dosi di vitamina D variabili da 400 a 4800 UI giornaliere, ma non si è riscontrata alcuna variazione nella frequenza degli episodi, che appaiono legati alla sola somministrazione di calcio. Persino donne del gruppo di controllo (600 UI) hanno avuto degli episodi di ipercalcemia. Questo sembra in accordo con i risultati del gruppo di Bolland, che notava come l'incremento di incidenti cardiovascolari tra consumatori di supplementi non fosse legato all'entità della dose giornaliera. Gli autori concludono che "ipercalcemia e ipercalciuria ricorrono comunemente durante la supplementazione di calcio e vitamina D". Gli episodi di ipercalcemia riscontrati sono transitori e spariscono da soli proseguendo la somministrazione. Per l'ipercalciuria valgono le stesse osservazioni che per la calcemia.

 

 

Un fattore di rischio per la calcificazione non è solo l'elevato calcio sierico, ma anche l'elevato fosforo sierico, che è stato dimostrato, in vivo e in vitro, produrre calcificazione nei tessuti di coltura e negli animali di laboratorio (385) (388).

 

 

A parte i presunti effetti cardiovascolari avversi, la somministrazione di supplementi di calcio provoca un incremento del 43% di costipazione (327) e sintomi gastrointestinali acuti (diarrea, crampi, dolori intestinali) (329), calcoli renali (330) e ipercalcemia (331). Jackson et al. ha analizzato i dati relativi a 36.282 donne monitorate per 7 anni dal Women's Health Initiative, uno studio a controllo randomizzato sulla somministrazione di 400 UI di vitamina D e 1 gr. di calcio giornalieri, e hanno trovato un incremento del 17% dei calcoli renali (330). (317)

 

 

Per quanto riguarda il legame tra i supplementi di calcio e calcoli renali, uno studio epidemiologico pubblicato nel 1997 da Gary Curhan, che ha seguito 91.732 donne per 12 anni ha riscontrato una diminuzione dei calcoli nelle donne che consumavano più calcio alimentare, con un abbassamento di rischio del 35% per il gruppo a consumo più alto rispetto a quello a consumo più basso, mentre coloro che avevano la più alta assunzione di supplementi vedevano il proprio rischio di calcoli aumentato del 20% (384).

 

 

Un altro effetto avverso dell'eccesso di calcio può essere l'eccessiva riduzione della secrezione dell'ormone PTH, e per questa via del calcitriolo, il metabolita attiva della vitamina D. Sia PTH che calcitriolo promuovono il turnover osseo che si incarica di rinnovare il nostro scheletro riparando le micro lesioni quotidiane. Se questo turnover diviene troppo basso, il ritmo delle riparazioni non riesce a tenere dietro a quello dei danni e delle micro-fratture e lo scheletro si deteriora (310).

 

 

 

È vero che assumere calcio dai latticini fa decalcificare lo scheletro? È vero che una dieta ricca di proteine animali fa decalcificare lo scheletro? Dovremmo abbassare la quantità di proteine assunte giornalmente?

 

Non è vero che assumere la quantità consigliata di proteine giornaliere da fonti animali, e in particolare dai latticini, faccia decalcificare lo scheletro. Robert Heaney, una autorità mondiale (direi una leggenda) nel campo dell'Osteologia, di cui è stato pubblicato in Italia il libro "Come farsi le ossa nella vita" (che consiglio di leggere) considera questa affermazione una vera bufala (Heaney, "Protein intake and bone health: the influence of belief systems on the conduct of nutritional science",The American Journal of Clinical Nutrition, 2001) e con lui, per buona misura, il professor Eugenio del Toma, uno dei più autorevoli nutrizionisti italiani.

Gli studi mostrano chiaramente che in una dieta con adeguate quantità di frutta e verdura e con adeguato apporto di calcio proveniente da latticini, la perdita di calcio nelle urine, che innegabilmente si verifica quando si assumono proteine, è diminuita dagli alcali della frutta e più che compensata dal maggiore apporto di calcio e dal maggiore assorbimento del calcio intestinale.

In uno studio del 2002 (Dawson-Hughes et al., "Calcium intake influences the association of protein intake with rates of bone loss in elderly men and women", The American Journal of Clinical Nutrition, 2002) è mostrato che l’assunzione di proteine da parte di un gruppo che assumeva supplementi di calcio conduceva ad un guadagno di massa ossea, laddove il gruppo di controllo senza supplementi la perdeva. Di più: quelli con il più basso consumo di proteine avevano perso massa ossea, mentre quelli col più alto consumo di proteine avevano guadagnato massa ossea. Questo studio prova che il calcio non è sufficiente a proteggere lo scheletro quando l’assunzione di proteine è bassa, e confuta l’idea che un’alta assunzione di proteine danneggia lo scheletro. Lo studio mostra che l’escrezione urinaria di calcio aumenta leggermente, ma non in modo significativo, quando si assumono proteine, sfatando un’altra idea diffusa da certi ricercatori troppo influenzati dal pensiero vegano radicale.

(Per inciso: l'affermazione che la caseina dei latticini faccia venire il cancro, propalata da Colin Campbell, è un'altra bufala: vedi in proposito quanto ne scrive l'ottimo Dario Bressanini (biologo) nel suo blog "Scienza in cucina" nel post "China Study: Bibbia o bufala?")

(Per chi non conoscesse il blog del biologo Dario Bressanini e il suo livello di serietà dirò solo che è il blog ufficiale di "Le Scienze", l'edizione italiana della prestigiosa rivista "Scientific American")

Pensare che le proteine non sono necessarie per le ossa (come un lettore ingenuo potrebbe essere portato a supporre leggendo Berrino) è una vera eresia. Le proteine costituiscono il 50% del volume delle ossa e circa 1/3 della sua massa. La matrice proteica è sottoposta ad un continuo turnover e rimodellamento. Molto del collagene rilasciato durante questi processi non può essere riutilizzato per costruire nuova matrice ossea, e quindi un supplemento giornaliero di proteine è necessario per la conservazione delle ossa.

Heaney rincara la dose affermando che la dose raccomandata di proteine è probabilmente più bassa di quella richiesta per la saluta delle ossa, in particolare negli anziani (Heaney et al., “Amount and type of proteine influences bone health”, The American Journal of Clinical Nutrition, 2008). Anche gli studi di Valerio Longo e dei suoi collaboratori mostrano che dopo i 65 anni una maggior assunzione di proteine è benefica.

Uno studio su un gruppo di donne latto-ovo-vegetariane, il cui consumo di latticini è presumibilmente alquanto elevato, mostra che la salute delle loro ossa è addirittura superiore a quella delle donne onnivore e sicuramente superiore a quella dei vegani.

E per finire, citerò, accanto agli studi clinici che ho indicato, una "comunicazione personale": non più tardi di due anni fa, un medico che lavora al prestigioso CTO di Torino ha confidato allo scrivente che vede in soggetti vegani di 40 fratture e deficienze ossee che di solito riscontra in soggetti onnivori pù anziani di 20 anni.

Ci sono studi che dimostrano chiaramente che uno scarso consumo di latte nell'adolescenza è pregiudizievole per lo sviluppo scheletrico (290).

 

 

 

È vero che una dieta ricca di sale fa decalcificare lo scheletro? È vero che occorre seguire una dieta iposodica?

 

In uno studio del 1992, Harnet e collaboratori hanno mostrato come il calcio ha l'effetto di abbassare la pressione in forti consumatori di sale (2500 mg/1000 cal./die). Un alto consumo di sale (alcuni studiosi utilizzano il rapporto sodio/potassio) non alza la pressione di soggetti maschi che consumano più di 400 mg di calcio al giorno e femmine che consumano più di 800 mg di calcio al giorno. Nessun effetto pressorio si verifica in soggetti maschi che consumano quantità significativamente superiori di calcio rispetto a questo limite (390) (391).

Grouchow e collaboratori in uno studio del 1988 hanno mostrato che con bassi livelli di calcio (< 400 mg/die per gli uomini e < 800 mg/die per le donne) la pressione è sensibile al rapporto sodio/potassio, mentre con dosi superiori di calcio nessun nutriente appare significativamente legato alla pressione sistolica o diastolica (391).

 

Il calcio si dimostra in grado di abbassare la pressione di soggetti che hanno un alto consumo di sale (390), ma non di soggetti che hanno uno scarso consumo di sale.

A sorpresa si è scoperto che un aumento del consumo di sale in individui con basso apporto di calcio può abbassare la pressione, e il migliore profilo pressorio si ha con un alto consumo di sale unito ad un alto consumo di calcio (390). Il secondo migliore profilo pressorio si ha con un basso consumo di sodio accompagnato con un alto consumo di calcio (390). Una assunzione di calcio media (331-458 mg/1000 kcal, che per una persona che consuma 1900 calorie equivale a 628-870 mg) insieme ad una assunzione di sodio media (1237-1595 mg/1000 kcal, che per un soggetto che consuma 1900 calori eequivale a 2350-3030 mg) è il terzo miglior risultato. Il rapporto tra calcio, sodio e pressione sistolica è mostrato nella figura:

 

 

 

 

Qual è il ruolo della vitamina K2 per la salute delle ossa?

 

Assumere calcio senza vitamina K2 può condurre a calcificazione delle arterie. La vitamina K2 influenza il metabolismo del calcio attraverso la carbossilazione di una proteina chiamata osteocalcina. L’osteocalcina carbossilata aiuta a dirigere il calcio verso le ossa e i denti anziché verso i vasi sanguigni e i tessuti molli, con conseguente aterosclerosi o nelle articolazioni, con conseguente artrite.

Attraverso la carbossilazione di un’altra proteina, la proteina di matrica GLA (MGP) responsabile della pulizia del calcio dalle arterie, in particolare dai depositi sulle placche ateriosclerotiche, la vitamina K2 può persino ridurre la calcificazione in atto. In uno degli studi effettuati al riguardo si è riscontrata una riduzione del 37-50% della calcificazione in sole 6 settimane (581).

 

 

 

Quali supplementi assumere per la vitamina K2?

 

Le fonti del menaquinone (vitamina K2) sono la dieta e la sintesi da parte della flora batterica a partire dalla vitamina K1. Sfortunatamente, mentre animali come i bovini sono capaci di produrla nell’intestino molto efficientemente  molto poca vitamina viene prodotta nell’intestino umano in quest’ultimo modo. La quantità varia da individuo a individuo ed è probabile che coloro che hanno una storia clinica di uso intensivo di antibiotici o la flora batterica danneggiata in altro modo non ne producano nessuna. Sembra in definitiva che l’organismo umano produca ben poca vitamina K2, probabilmente perché si è evoluto in un ambiente che gli forniva abbondanti fonti alimentari di tale vitamina.

Ecco un prospetto del contenuto di menaquinone (microgrammi per 100 grammi) in una serie di alimenti:

 

Natto 1103,4 (90% MK-7, 10% altri MK) 

Paté di fegato d’oca 369,0 (100% MK-4) 

Formaggio duro (tipo Gouda Olandese) 76,3 (6% MK-4, 94% altri MK) 

Formaggio morbido (tipo Brie francese) 56,5 (6,5% MK-4, 93.5% altri MK) 

Tuorlo d’uovo (origine Olanda) 32,1 (98% MK-4, 2% altri MK) 

Zampa d’oca 31,0 (100% MK-4) 

Tuorlo d’uovo (origine USA) 15,5 (100% MK-4) 

Burro 15,0 (100% MK-4) 

Fegato di pollo (crudo) 14,1 (100% MK-4) 

Fegato di pollo (fritto in padella) 12,6 (100% MK-4) 

Cheddar cheese (USA) 10,2 (6% MK-4, 94% other MK) 

Salsiccia di carne 9,8 (100% MK-4) 

Petto di pollo 8,9 (100% MK-4) 

Coscia di pollo 8,5 (100% MK-4) 

Carne bovina macinata (contenuto di grasso medio) 8,1 (100% MK-4) 

Fegato di pollo, brasato 6,7 (100% MK-4) 

Hot dog 5,7 (100% MK-4) 

Bacon 5,6 (100% MK-4) 

Fegato di vitello, fritto in padella  6.0 (100% MK-4) 

Sauerkraut 4,8 (100% vari MK) 

Latte intero 1,0 (100% MK-4) 

Salmone selvaggio (Alasksa, Coho, Sockeye, Chum and King wild)  0,5 (100% MK-4) 

Fegato di bovino adulto, fritto in padella 0,4 (100% MK-4) 

Albume d’uovo 0,4 (100% MK-4) 

Latte scremato 0,0

 

I supplementi di vitamina K2 sono di due tipi: quelli a base di menaquinone-4 (MK-4) e quelli a base di menaquinone-7 (MK-7) che sono due forme della vitamina.

Il menaquinone-4 ha un effetto migliore sulle ossa e il vantaggio addizionale che può aumentare le cellule beta del pancreas, cosicché dovrebbe essere preferito per i diabetici alle altre forme della vitamina K2, incluso il menaquinone-7 (MK-7) (5).

Comunque, l’MK-7 è più facile da assumere perché la sua emivita è più lunga del MK-4, il che significa che può essere assunto un’unica volta al giorno. L’emivita è il tempo che il tempo impiega a liberarsi di metà della sostanza assunta.

La forma MK-7 si accumula nel corpo, mentre la MK-4 non ne ha la capacità, data la sua breve emivita di 3-4 ore, di contro all’emivita di 3,5 giorni della MK-7.

Il MK-7 è più cardioprotettivo contro le calcificazioni, visto che attiva di più MGP, la proteina che ripulisce il calcio dalle arterie.

Tutti gli studi sinora condotti sulla prevenzione delle fratture hanno preso in considerazione la MK-4, non la MK-7, e di conseguenza non sappiamo se quest’ultima possa essere un accettabile sostituto della prima riguardo il rafforzamento delle ossa. Gli studi mostrano che MK-7 può carbossilare l’osteocalcina (OC), ma si ignora se fa lo stesso per la proteina di matrice GLA (MGP).

Due degli studi più recenti suggeriscono che lo faccia, dal momento che la somministrazione di MK-7 fa diminuire i livelli di MGP non carbossilata esattamente come quelli dell’osteocalcina non carbossilata (13).

Uno studio del 2013 ha mostrato che MK-7 aumenta la densità minerale delle ossa e le rafforza (14).

Ecco una tabella con le differenze tra MK-4 e MK-7:

 

..

Menaquinone-4 (MK-4)

Menaquinone-7 (MK-7) 

Fonte

Sintetica

Naturale (natto)

Dose raccomandata

45 mg (4.500 mcg)

120 mcg o più

Frequenza delle dosi

Tre assunzioni giornaliere

Una assunzione giornaliera

Emivita

Qualche ora

Qualche giorno

 

 

Assumere sia MK-7 che MK-4 sarebbe la cosa ideale se esiste una deficienza di vitamina K2, dal momento che attivano geni diversi e hanno alcuni effetti differenti l’una dall’altra, con MK-4 che ha migliori effetti sulle ossa e può stimolare le cellule beta nel pancreas a vantaggio dei pazienti diabetici, mentre MK-7 ha un effetto più potente sulla salute cardiovascolare grazie ad una migliore inibizione della calcificazione, sebbene prenderne anche solo uno è già meglio che non assumerne per niente.

 

 

 

Quali sono le dosi di vitamina D da assumere giornalmente? In che modo possiamo ottenerla?

 

Normalmente, quando si parla di livelli di vitamina D da assumere, gli studiosi non fanno differenza tra vitamina D2 (ergocalciferolo) e vitamina D3 (colecalciferolo) che per il momento considereremo perfettamente equivalenti, salvo poi dedicare un apposito quesito a questo argomento.

Va preliminarmente avvertito che al momento attuale ci sono notevoli divergenze di vedute tra gli esperti. Dopo anni di entusiasmo crescente per la vitamina D e di proposte al rialzo della RDA (dose giornaliera raccomandata), è ora in corso una revisione critica dell’utilità della supplementazione con vitamina D. Vedi in proposito, in questo documento, il quesito "Quali sono le prove scientifiche sinora raccolte circa i benefici della supplementazione di vitamina D diversi dalla salute delle ossa?".

Una posizione ragionevole sull’argomento di fronte a questi dati potrebbe essere quella di ritenere che il massimo dei benefici della vitamina D si ottiene correggendone la deficienza, che dovrebbe essere fissata al disotto dei 20 ng/mL e non al disotto dei 30 ng/mL, e non raggiungendo una overdose di 40, 50 e più ng/mL. Un recente studio, che mostra che soggetti con livelli di 25(OH)D inferiori a 20 ng/mL sperimentavano un declino cognitivo lievemente accelerato (142), esemplifica questa posizione.

Persino gli autori più scettici, i ricercatori dell’Università di Alberta,  affermano che una supplementazione giornaliera allo scopo di correggere la deficienza (che essi pongono a 20 ng/mL) quale quella proposta dall’Institute of Medicine (600 UI al giorno) è “sicura”, e può anche essere somministrata senza testare troppo frequentemente i livelli di 25(OH)D (147).

Sempre secondo questi autori, si registra un apparente diminuzione di fratture quando la vitamina D è somministrata a basse dosi di 800 UI o superiori insieme a supplementi di calcio a dosi basse o moderata (500 mg al giorno).

Ciò detto, ecco la RDA raccomandata dall'Institute of Medicine, dalla Mayo Clinic, dalla Endocrine Society e dai National Institutes of Health USA:

0–12 mesi: 400 UI

1–13 anni: 600 UI

14–18 anni: 600 UI

19–50 anni: 600 UI

51–70 anni: 600 UI

Più di 70 anni: 800 UI

Si tratta della "Recommended Daily Allowance" che viene definita come il livello di assunzione media necessario per evitare la malattia al 97-98% della popolazione.

Come afferma la Endocrine Society, si ignora tuttora se livelli maggiori potrebbero apportare benefici aggiuntivi, in particolare per altri dipartimenti e sistemi fisiologici del corpo, diversi da quello scheletrico (129).

Ecco invece quanto propone Michael Holick, esperto mondiale sulla vitamina D, per ottenere tutti i benefici della vitamina D, nessuno escluso:

Fino ad un anno: 400-100 UI

Da 1 a 12 anni: 1.000-2.000 UI

Da 13 anni in su: 1.500-2.000 UI

Individui obesi: da 2 a 3 volte le dosi sopra riportate.

Il Dr. Holick afferma che d'estate, se si ha la costanza di esporsi per 30-40 minuti al sole ogni giorno, la supplementazione può essere interrotta, ma nota che questo non è strettamente necessario: 1.000-2.000 UI possono essere prese tutto l’anno anche da coloro che d’estate prendono sufficiente sole.

Per coloro che sono avversi ai supplementi vitaminici e vogliono mantenersi cauti, ecco i dati sulle quantità minime che andrebbero comunque assunte. Nel periodo da dicembre-gennaio a giugno-luglio la densità ossea decresce, per poi aumentare  nel periodo da giugno-luglio a dicembre-gennaio, con un bilancio netto pari a zero. Per alcuni, però, il bilancio è negativo. Se si vuole evitare di perdere massa ossea durante l'inverno, è sufficiente assumere un supplemento di 400 UI di vitamina D e 477 mg di calcio al giorno. In questo modo, in un anno la massa ossea si incrementa lievemente (+0,85%). Se si aumenta il supplemento quotidiano di calcio a 800 mg sono sufficienti solo 200 UI di vitamina D per mantenere la massa ossea invariata. Per una persona che ha acquisito adeguati livelli di vitamina D durante l'estate, 200 UI (la quantità di vitamina D contenuta nei supplementi vitaminici in commercio), e 500 mg di calcio sono sufficienti a mantenere la massa ossea invariata. In persone anziane, questa quantità di vitamina D è sufficiente anche ad evitare che durante l'inverno i livelli di PTH diventino elevati ed aumenti il turnover osseo. Tuttavia, altri studi hanno riscontrato che con queste dosi, pur rimanendo invariata la massa totale, tra le donne in menopausa si verifica una lieve perdita ossea della testa del femore. In conclusione, 200 UI durante il periodo invernale e 500 mg di calcio, che può benissimo essere assunto con la dieta, sembrano mettere sufficientemente al riparo dalle perdite invernali i soggetti, anche relativamente anziani, meno a rischio, mentre dosi di 400-600 UI sembrano necessarie per mettere completamente al riparo dalla perdita ossea le persone più anziane e/o maggiormente a rischio.

 

 

 

L'olio di fegato di merluzzo è consigliabile come integratore di vitamina D?

 

Secondo Michael Holick, l'olio di fegato di merluzzo è una fonte di vitamina D troppo ricco di vitamina A e si rischia l'intossicazione di questa vitamina.

 

 

 

La vitamina D assunta oralmente è esattamente uguale a quella assunta con l'esposizione solare? È vero che alcuni sostengono che in nessun caso la vitamina D3 dovrebbe essere assunta oralmente?

 

No, la vitamina D assunta col sole è decisamente superiore e per svariate ragioni:

  Si tratta della vitamina D3, che è una fonte più potente della vitamina D2 che si trova nei cibi

  La vitamina D assunta oralmente insieme ai grassi viene assorbita nell'intestino dai chilomicroni e trasportata nel fegato, mentre invece la vitamina D prodotta col sole, dalla pelle si diffonde lentamente nella circolazione sanguigna, in modo che arriva al fegato in modo più graduale e la trasformazione in 25(OH)D da parte del fegato è più graduale. La maggior parte della vitamina D che si forma nella pelle rimane al difuori del fegato, e sfugge alla inattivazione da parte del metabolismo epatico.

  Poiché la vitamina D arriva gradualmente al fegato, i suoi livelli non cambiano molto anche nei periodi di mancanza di esposizione solare, cioè di mancata assunzione, mentre la vitamina D assunta oralmente può avere maggiori oscillazioni.

  Quando il fegato è riempito di vitamina D assunta oralmente, la attività di trasformazione della vitamina in 25(OH)D diventa meno efficiente, perché l'efficienza della trasformazione della vitamina D in 25(OH)D aumenta con il diminuire dei livelli di tale vitamina presenti nel fegato.

  Il fegato distrugge abbastanza velocemente la vitamina D che gli arriva per via orale, veicolata dai grassi del sangue. La sua emivita è di soli 1-2 giorni contro quella di 1-2 mesi della vitamina D ottenuta per irradiazione solare.

  La vitamina D prodotta nella pelle è meno sensibile alle variazioni e alle patologie del metabolismo epatico. È possibile che una quantità minore di  vitamina D venga degradata dal metabolismo epatico quando arriva legata alle proteine di trasporto piuttosto che per mezzo dei lipidi di trasporto formatisi nei chilomicroni. Ad esempio, è stato notato che i cereali promuovono, nell'uomo e in specie come i volatili da cortile, un maggiore abbattimento dei grassi epatici (226) e di conseguenza della vitamina D che arriva per tal via.

  La vitamina D prodotta da irradiazione solare non supera mai le 10.000 UI giornaliere e i livelli di 25(OH)D non superano mai gli 80 ng/mL, mentre invece grosse dose orali possono far salire innaturalmente i livelli di 25(OH) anche fino a 400 ng/mL. In altre parole la vitamina D assunta oralmente è in grado di bypassare il meccanismo protettivo che limita i livelli dei metaboliti della vitamina D prodotti dall'irradiazione solare, con conseguenze secondo alcuni studiosi non prevedibili. Il fatto che il fegato elimina velocemente le basse dosi orali potrebbe essere rivelatore del fatto che le considera tossiche e che considera la vitamina D che gli arriva via i lipidi del sangue come una sostanza estranea da espellere.

  Alla luce di quanto detto, alcuni studiosi ipotizzano che la supplementazione orale sia potenzialmente pericolosa in confronto alla assunzione per irradiazione. Il prof Fraser di Cambridge afferma senza mezzi termini che "la somministrazione orale è inefficace, innaturale, e potenzialmente pericolosa". Altri, come il suo allievo Reinhold Vieth, dell'Università di Toronto, una autorità nel campo della vitamina D, ritengono questi timori infondati.

 

 

Reinhold Vieth qualifica come "puramente ipotetiche e prive di prove" le considerazioni basate sul diverso pathway metabolico della vitamina D assunta oralmente rispetto a quella prodotta nella pelle (215), anche se ammette che anche se "è ragionevole supporre che i livelli di 25(OH)D sono regolati più finemente nel caso di vitamina prodotta nella pelle", la differenza tra l'una e l'altra regolazione non sono sensibilmente apprezzabili.

 

 

 

Che tipo di vitamina viene prodotta a livello della cute mediante irradiazione solare, la vitamina D2 o la D3?

 

Viene prodotta esclusivamente vitamina D3. La vitamina D2 è di provenienza esclusivamente vegetale.

 

 

 

Assumere latticini e integratori di calcio durante la terapia per la deficienza di vitamina D, con dosi che partono da 50.000 UI a settimana è pericoloso? Può provocare ipercalcemia?

 

I supplementi di calcio durante una terapia per il ripristino dei livelli di vitamina D né aiutano né danneggiano tale terapia.

Si può quindi tranquillamente interromperli, ma si può anche decidere di continuare ad assumere calcio alimentare e supplementi, nei limiti dei 1200 mg/die raccomandati come RDA, perché è raro che compaiano effetti avversi. Il controllo periodico della calcemia può comunque aiutare a fugare eventuali dubbi o timori.

Se si verifica un aumento eccessivo del calcio e/o del fosforo sierico è il caso di interrompere l'assunzione di supplementi di calcio e latticini, in particolare di formaggi, che sono ricchi di fosforo, ma va sempre sentito il parere del medico, perché una situazione iniziale di ipercalcemia con elevato PTH potrebbe denotare carenza anziché eccesso di calcio, che viene mobilizzato dallo scheletro e non escreto dalle urine per l'azione congiunta della vitamina D e dell'ormone PTH. Una tale calcemia dovrebbe risolversi continuando ad assumere la RDA di calcio e aumentando le riserve di vitamina D. Il medico può quindi decidere di aspettare ad interrompere i supplementi di calcio finché i livelli di PTH non ritornino nel range normale (inferiore a 50 pg/mL), nel timore che altrimenti venga utilizzato il calcio dello scheletro.

 

 

 

Qual è il protocollo per la cura della deficienza di vitamina D? La somministrazione di megadosi (cosiddetta "Cura Stoss") è sicura? Quali alternative esistono alla cura con megadosi? Sono egualmente valide?

 

Ci sono due possibilità: a) dosi giornaliere aumentate di diverse volte rispetto alla RDA; b) dosi settimanali o mensili ancora più elevate della somma settimanale o mensile delle dosi giornaliere (tipicamente da 50.000 UI in su).

Quanto al primo protocollo, Michael Holick ritiene che la dose giornaliera possa essere aumentata in sicurezza fino a 5.000-6.400 UI al giorno per due o tre mesi che equivalgono a un totale compreso tra 300.000 e 576.000 UI.

Quanto alla seconda alternativa, nota come "cura Stoss", il protocollo consigliato da Holick e dal panel di studiosi da lui coordinato, prevede la somministrazione di 50.000 UI a settimana per 8 settimane, per un totale di 400.000 UI.

Le dosi da 50.000 UI sono le più utilizzate nella cura intensiva della deficienza, con i protocolli che variano semmai riguardo la frequenza settimanale, da una volta a tre volte la settimana, a seconda di quanto si voglia accelerare il processo di ripristino.

Se non sono ripristinati livelli sufficienti di 25(OH)D (almeno 30 ng/mL) si possono continuare le somministrazioni settimanali - aumentandone o meno la frequenza - fino a totalizzare 600.000 UI o 800.000 UI senza pericolo apprezzabile di tossicità (il rischio di intossicazione per la somministrazione protratta di dosi da 100.000 UI settimanali in su, è dello 0,8%).

Dopo la terapia d’urto si raccomanda una terapia di mantenimento di 600-800 UI al giorno (la RDA è di 600 UI), ma alcuni consigliano 1.500-2.000 UI, che si possono assumere per parecchi mesi senza problemi.

 

 

Talaal e colleghi hanno provato diversi protocolli terapeutici con 637 adolescenti. Quelli che hanno ricevuto 45.000 UI settimanali per due mesi (384.000 UI complessive), ma la dose di mantenimento di 400 UI giornaliere non è riuscita ad assicurare il mantenimento dei livelli raggiunti di 25(OH)D, che si sono dimezzati. Invece il gruppo che ha ricevuto 2000 UI giornaliere per 3 mesi e poi una dose di mantenimento di 1000 UI ha continuato ad incrementare i propri livelli di 25(OH)D. Il primo gruppo ha raggiunto dopo la cura d'attacco un livello medio di 25(OH)D 47,7 ng/mL mentre il secondo ha raggiunto un livello di 36,24 ng/mL. Nel primo gruppo si sono avuti 2 casi di ipercalcemia. Il calcio plasmatico è passato da 9,379 mg/dL a 9,859 mg/dL, mentre nel secondo gruppo il calcio è diminuito. Ad un terzo gruppo sono state somministrate 400 UI giornaliere per tutto il tempo dell'esperimento, e i livelli iniziali di 25(OH)D sono scesi durante tutto il periodo (497).

 

 

Il protocollo Stoss è ragionevolmente sicuro e collaudato, anche con dosi singole di 100.000-200.000 unità. Con il protocollo Stoss di 50.000 UI a settimana non si sono notati che occasionali affaticamenti.

 

 

 

A quale categoria di medici è meglio rivolgersi per il monitoraggio e la cura dell'osteoporosi e della deficienza di vitamina D?

 

Contrariamente a quanto si ritiene, gli ortopedici non sono i medici più qualificati per occuparsi di dosaggi ormonali, in quanto la loro preparazione è prettamente clinica e di intervento su traumi.

Secondo Michael Heaney, uno dei maggiori osteologi mondiali, è preferibile rivolgersi ad un gerontologo, un endocrinologo, o un medico internista di medicina generale. Il medico di famiglia, se capace e informato, potrebbe pure costituire una valida alternativa all'ortopedico.

 

 

 

Quali controlli preliminari deve effettuare una persona che voglia intraprendere una cura per la deficienza di vitamina D?

 

Una volta che sia accertata la carenza di vitamina D, tra le analisi da effettuare prima di iniziare la cura vi sono:

 

Calcemia

Fosfatemia

GFR

Il glomerular filtration rate è la indispensabile misura della funzionalità renale. Se i reni sono anche lievemente compromessi aumenta in modo piuttosto consistente il pericolo di calcificazioni.

PTH

 

Se il medico, prima di iniziare la cura, vuole valutare in che misura alla deficienza di vitamina D corrisponda una deficienza di calcio, con conseguente aumentato turnover osseo, sofferenza ossea e decalcificazione, può prescrivere le seguenti analisi dei marker specifici del rimodellamento osseo:

Fosfatasi alcalina

La fosfatasi alcalina ossea è un marker più sensibile della fosfatasi alcalina totale, anche se possono essere utilizzate entrambe.

PTH

Un elevato PTH, sia pure in presenza di una calcemia normale, può rivelare un aumentato turnover osseo con demolizione di massa ossea per ovviare al deficit di calcio sierico. Livelli elevati forniscono una misura della gravità della deficienza di vitamina D e/o di calcio.

Valori superiori a 50 pg/mL indicano che le paratiroidi sono state attivate da una carenza di calcio nel plasma e hanno aumentato la loro secrezione di questo ormone allo scopo di normalizzarne i livelli. Valori superiori a 65 pg/mL sono casi di iperparatiroidismo conclamato, con pericolo di iperplasia irreversibile delle paratiroidi.

Piridinolina e Deossipiridinolina

Deossipiridinolina, Piridinolina e idrossiprolina sono aminoacidi di cui è particolarmente ricco il collagene.

La deossipiridinolina è presente solo nell'osso e nella dentina. Nell'osso avviene un processo metabolico continuo chiamato rimodellamento, composto da un processo di degradazione o riassorbimento della matrice ossea ad opera di cellule chiamate osteoclasti, e da un processo di formazione ad opera degli osteoblasti.

In condizioni normali i due processi sono in equilibrio. Poichè la piridinolina viene incorporata nel collagene solo al momento della sua stabilizzazione e non viene metabolizzata prima della sua eliminazione nelle urine, la quantità presente nelle urine dà un'indicazione della velocità con cui avviene il processo di riassorbimento dell'osso.

Quantità aumentate si riscontrano nell'osteoporosi in fase di riassorbimento attivo, nel morbo di Paget, nell'ipercalcemia associata a neoplasie o a iperparatiroidismo.

Telopeptide-N-teminale (NTX)

È un marcatore molto sensibile dell'aumentato turnover osseo che si utilizza per monitorare le donne in peri-menopausa e gli effetti della terapia anti-riassorbitiva dell'osteoporosi.

Altri esami potrebbero comprendere:

Rapporto calcio/creatinina a digiuno

Idrossiprolina libera e totale (Pyd)

Deossipiridinolina libera e totale (Dpd)

Glicosidi dell’idrossilisina

Telopeptide aminoterminale del collagene di tipo I (NTx)

Telopeptide carbossiterminale del collagene di tipo I (aCTx, bCTX)

Fosfatasi acida tartrato resistente (TRAP)

 

 

 

Quali precauzioni possono essere prese durante la cura per la deficienza di vitamina D per minimizzare la possibilità di effetti tossici?

 

Evitare i cibi ricchi di ossalati, perché possono far precipitare il calcio delle urine in calcoli di ossalato di calcio

Bere una sufficiente quantità di acqua per evitare calcoli.

Evitare assolutamente di assumere statine o peggio warfarin.

Tenere d'occhio la calcemia perché non superi il range normale (8,5-10,7 mg/dL) e il prodotto calcio-fosforo perché non superi il valore di 70 (valore normale 50) è dunque importante e in teoria dovrebbe mettere al riparo dalla maggior parte dei rischi da iperdosaggio di vitamina D, ma non da tutti.

Oltre alla calcemia andrebbero tenuti d'occhio i livelli del metabolita 25(OH)D, 25-idrossivitamina D (calcidiolo), che è sospettato di provocare danni già quando i suoi valori superano i 50 ng/mL, e a valori superiori ad 80 ng/mL è considerato tossico. Questa molecola, sebbene non attiva (non promuove l'assorbimento di calcio) ha mostrato, in vivo e in vitro una spiccata azione calcificante sui tessuti.

Durante la terapia è opportuno assumere, insieme alla vitamina D, anche vitamina A e vitamina K2. Questo perché la vitamina D stimola la produzione di proteine di matrice GLA (MGP), che necessitano di essere attivate mediante carbossilazione da parte della vitamina K2 per svolgere il loro ruolo di spazzine del calcio nelle arterie. Una sovrapproduzione di MGP, specie in condizione di deficienza di vitamina K2 (che è molto comune) lascia le molecole inattive circolare nel sangue, dove possono raccogliere materiali di scarto, compreso calcio, per andare poi a depositarsi nella placca ateriosclerotica. Inoltre la vitamina D può stimolare una eccessiva attività degli osteoclasti, con demolizione di massa ossea e potenziale ipercalcemia. La vitamina A contrasta l'eccessiva proliferazione di MGP e stimola gli osteoblasti, le cellule che depongono calcio nella matrice ossea, in modo che l'attività costruttiva bilanci quella distruttiva. In questo gli osteoblasti sono aiutati dall'osteocalcina, che è una proteina attivata dalla vitamina K2 che aiuta a convogliare il calcio assorbito nell'intestino verso il tessuto osseo che ha bisogno di riparazione.

Durante la cura è opportuno non eccedere col consumo di proteine oltre la quantità raccomandata dalle linee-guida nutrizionali (0,66-0,8 g/kg di peso corporeo), perché affaticano i reni e fanno aumentare la calcemia.

Per la stessa ragione è opportuno non esagerare col consumo di sale.

 

 

 

Assumere magnesio insieme alla vitamina D aiuta a ripristinarne più velocemente i livelli?

 

Nonostante si trova spesso scritto che il magnesio aiuta l'assimilazione della vitamina D, Michael Holick dichiara senza mezzi termini che esso non ha alcun effetto in tal senso.

Il magnesio può far diminuire la mobilizzazione di calcio dallo scheletro, fornendo ioni che svolgono la stessa azione stabilizzante del PH del siero di quelli di calcio, evitando così che questi ultimi siano sottratti alle ossa, ma non ha particolari indicazioni per la cura della deficienza di vitamina D.

 

 

 

In che modo vanno assunti i supplementi giornalieri di vitamina D? Quali sono i tipi di supplementi migliori?

 

La vitamina D si può assumere tranquillamente per via orale. La somministrazione endovena non ha alcun apprezzabile vantaggio.

Frazionare le dosi durante la giornata non ha alcun apprezzabile vantaggio.

Contrariamente a quanto si pensa, la vitamina D può essere assunta anche a stomaco vuoto. Non richiede grassi per essere assorbita.

Un risultato sorprendente che è emerso da alcuni studi, e che è da confermare, è che alcuni grassi possono inibire in qualche misura l'assorbimento di vitamina D. Una recente ricerca suggerisce che acidi grassi monoinsaturi possono migliorare l'efficacia dei supplementi di vitamina D3 negli anziani, mentre acidi grassi polinsaturi possono diminuirla (298), ma sono necessari altri studi per confermare questi risultati.

Il magnesio, secondo Michael Holick, non aiuta l'assorbimento della vitamina D.

Occorre stare attenti alla qualità dei supplementi. Supplementi di vitamina D di ditte poco note possono contenere una quantità di vitamina molto superiore a quanto dichiarata. Questa può essere una delle ragioni per cui vi sono casi segnalati di tossicità a seguito di assunzione di quantità nominali di 1.200 UI (224).

Le caramelle gommose e i softgel, secondo il parere di ConsumerLab, uno dei principali laboratori indipendenti USA, sono meno consigliati delle capsule, perché è difficile il dosaggio delle vitamine, che potrebbe risultare troppo alto o troppo basso (242).

 

 

 

È preferibile assumere la vitamina D2 o la vitamina D3? È vero che alcuni ricercatori sostengono che la vitamina D2 sintetica è tossica?

 

Non sussistono differenze significative riguardo all'assorbimento intestinale tra la vitamina D2 e la vitamina D3 (296).

Tuttavia, secondo Reinhold Vieth, la vitamina D2 andrebbe evitata perché, a parte il fatto che normalmente contiene più impurità da lavorazione, è decisamente tossica (228). Questo è dovuto anzitutto al fatto che 25(OH)D2 e 1,25(OH)2D2 si legano meno facilmente degli analoghi metaboliti della vitamina D3 con la proteina di trasporto DBP (Vitamin D Binding Protein), e quindi una maggiore quantità rimane in forma libera nel sangue, dove può risultare dannosa. In secondo luogo, la vitamina D2 produce nel corpo umano dei metaboliti che non sono stati osservati per la vitamina D3 prodotta naturalmente nella cute, e che potrebbero essere tossici. Dalle evidenze cliniche della letteratura scientifica si evince inoltre che, soprattutto ad alte dosi, la vitamina D2 è maggiormente tossica della vitamina D3. Se a questo aggiungiamo che è ormai provato che la vitamina D3 ha una maggiore efficacia nell'elevare i livelli di 25(OH)D, l'uso della vitamina D2 è decisamente da abbandonare.

L'esistenza di una differente efficacia delle due vitamine nell'elevare i livelli plasmatici di 25(OH)D è tuttora oggetto di dibattito. Diversi studi, di cui uno del 2004 a firma di Robert Heaney e collaboratori, mostrano che la vitamina D3 è almeno tre volte più efficace nell'elevare i livelli plasmatici di 25(OH)D (297).

 

 

È utile affiancare un preparato multivitaminico, accanto ai supplementi di vitamina D, per la salute delle ossa? Quali altre vitamine e micronutrienti sono necessari a questo fine?

 

Michael Holick raccomanda sempre di prendere un preparato multivitaminico insieme alle dosi prescritte per la insufficienze, le deficienze e anche insieme alle dosi di mantenimento per le persone sane.

La vitamina D e il calcio non sono gli unici nutrienti che vanno assunti per garantire la salute delle ossa. Ecco la lista completa:

 

  Vitamina D

Preferibilmente sotto forma di vitamina D3

  Calcio

La biodisponibilità è simile per tutti i tipi di sali di calcio utilizzati nei supplementi (citrato, carbonato, fosfato, ecc.)

  Magnesio

  Fosforo

Sebbene il fosforo aiuti l'assorbimento del calcio, la dieta occidentale è così ricca di fosforo che in linea di principio non occorre preoccuparsi di eventuali carenze di questo nutriente, il cui apporto andrebbe anzi ridotto nel caso di consumi eccessivi di cibi ricchi di tale nutriente.

  Proteine

Le ossa sono costituite da una matrice proteica (collagene) riempita di sali di calcio, pertanto un adeguato apporto proteico è necessario per la loro salute

  Vitamina A

Un adeguato apporto di vitamina A agisce in modo sinergico con la vitamina D, in particolare diminuendone il rischio di tossicità e ipercalcemia

  Vitamina K2

 

 

 

Una dieta ad alto contenuto di fibre e con fitati provenienti da cereali integrali e legumi può limitare l'assorbimento di calcio e di vitamina D?

 

Una dieta ad alto contenuto di fibre non pare ostacolare, secondo gli studi citati da Robert Heaney, l'assorbimento del calcio, né della vitamina D. Tuttavia studi degli anni '50 fatti da Mellanby (uno dei grandi scopritori della vitamina D) mostravano come gli animali nutriti con cereali integrali avevano gli stessi sintomi di una deficienza di vitamina D.

Cosa pensare di questa discrepanza? Forse gli studi citati da Heaney, condotti su fibre purificate, non hanno tenuto in conto altri principi attivi contenuti nei cereali.  Borel e collaboratori, in una recente rassegna sulla biodisponibilità della vitamina D, notano come in proposito esistano solo due studi, uno dei quali ha riscontrato che un alto apporto di fibra diminuisce significativamente i livelli di 25(OH)D a parità di vitamina D assunta, mentre l'altro non mostra risultati concludenti. In pratica, tutto quello che si può dire attualmente è che un eccesso di fibre, tipico dei vegani entusiasti, è - come tutti gli eccessi - da evitare.

 

 

 

È possibile assumere la RDA giornaliera di vitamina D dagli alimenti?

 

Non è possibile assumere la vitamina D unicamente dagli alimenti, perché il contenuto di tale vitamina, anche in quelli più ricchi, è decisamente insufficiente. È per questo che il nostro corpo è attrezzato per produrla in modo molto efficiente nella pelle attraverso l'irradiazione solare. L'unica altra alternativa è la supplementazione con integratori vitaminici.

Alcuni dietologi continuano a ripetere che il latte "è ricco di vitamina D", copiando pari pari le affermazioni dei colleghi anglosassoni, senza rendersi conto che il latte, in Inghilterra e negli USA è arricchito di vitamina D, mentre questa pratica è vietata in Italia e negli altri paesi europei. Il contenuto di vitamina D di 100 gr. di latte intero non arricchito è di sole 52 UI, il che vuol dire che una tazza  (325 gr. circa) ne apporta solo 169 UI.

Ecco un elenco del contenuto di vitamina D degli alimenti che ne sono più ricchi:

 

Sanguinaccio bovino o suino (1 tazza) 4.000 UI

Olio di fegato di merluzzo (1 cucchiaio): 1360 UI

Anguilla (100 gr) 1330-3700 UI

Salmone selvaggio (100 gr.): 600-1000 UI (Holick)

Uovo d’oca 720 UI

Aringa (100 gr.): 680 UI

Pescespada (85 gr.): 566 UI

Sgombro al naturale (100 gr.): 345 UI

Sardine in scatola (100 gr.): 300 UI (Holick)

Salmone d’allevamento (100 gr.) 100-250 UI (Holick)

Tonno al naturale (85 gr.): 154 UI

Sardine sott'olio sgocciolate (due sardine): 46 UI

Latte intero (100 mL): 52 UI

Burro (100 gr.): 52 UI

Fegato bovino (85 gr.): 42 UI

Tuorlo d'uovo: 20-41 UI

Parmigiano reggiano (100 gr.): 20 UI

Formaggio svizzero (85 gr.): 6 UI

 

Tuttavia nei cibi è contenuta, oltre che vitamina D3, anche una certa quantità di 25(OH)D, che deve essere tenuta in conto. Recentemente, Taylor e colleghi hanno pubblicato una ricerca in cui si mostra che tenendo conto di questo fatto l'apporto di vitamina D del cibo può arrivare al 15-30% del fabbisogno quotidiano stimato di vitamina D (114). Questo spiegherebbe in parte perché soggetti che non hanno alcuna esposizione solare presentano livelli di 25(OH)D più alti di quelli che logicamente ci si sarebbe dovuto attendere. Ecco una tabella del contenuto di vitamina D dei cibi corretta secondo le valutazioni di Taylor e colleghi:

 

Food

nm-Vitamin D

25(OH)D

Potency-adjusted 25(OH)D

Recalculated vitamin D

 

mg/100 g

mg/100 g

mg/100 g

mg/100 g

Beef

Rib eye steak/roast, meat only, cooked

(n = 5)

0.10 ± 0.003

0.26 ± 0.009

1.3

1.4

Rib eye steak/roast, meat only, raw

(n = 5)

0.09 ± 0.01

0.21 ± 0.01

1.0

1.09

Chuck steak, meat only, cooked

(n = 1)

0.08

0.28

1.4

1.48

Chuck steak, meat only, raw

(n = 1)

0.07

0.22

1.1

1.17

Beef fat, cooked

(n = 4)

0.32 ± 0.03

0.39 ± 0.02

1.9

2.22

Beef fat, raw

(n = 4)

0.30 ± 0.04

0.38 ± 0.01

1.9

2.2

Pork

Loin chops, meat only, cooked

(n = 2)

0.77

0.25

1.25

2.02

Loin chops, meat only, raw

(n = 2)

0.50

0.17

0.85

1.35

Chicken and turkey

Chicken dark meat, meat only, cooked

(n = 3)

0.18 ± 0.07

0.22 ± 0.04

1.1

1.28

Chicken dark meat, meat only, raw

(n = 3)

0.09 ± 0.03

0.14 ± 0.04

0.7

0.79

Chicken skin, cooked

(n = 2)

0.31

0.39

1.95

2.26

Chicken skin, raw

(n = 2)

0.30

0.37

1.85

2.15

Turkey dark and light meat, meat only, cooked

(n = 2)

0.40

0.07

0.35

0.75

Turkey dark and light meat, meat only, raw

(n = 6)

0.34 ± 0.07

0.07 ± 0.01

0.35

0.69

Turkey skin, cooked

(n = 1)

1.35

0.28

1.4

2.75

Turkey skin, raw

(n = 1)

1.14

0.25

1.25

2.39

Egg

Egg, whole, large, raw

(n = 12)

2.50 ± 0.7

0.65 ± 0.08

3.25

5.75

 

 

 

Quanto sole occorre prendere per assumere la quantità ottimale di vitamina D?

 

Esporre l'intero corpo ad una MED (Minimal Erythema Dose: la dose minima di radiazioni solari che provoca arrossamento della pelle ) produce 15.000 UI (92). Questo è anche l'ammontare massimo che il corpo produce in una singola seduta: arrivato a questa quantità, dopo 30 minuti, la sintesi di vitamina D si interrompe per 3-4 ore, ed è inutile continuare a prendere sole a questo scopo.

Il foglio di calcolo dell'Istituto Norvegese per la Ricerca Atmosferica, messo a punto per determinare la quantità di vitamina D prodotta tramite esposizione al sole (https://fastrt.nilu.no/VitD_quartMED.html), mostra che a mezzogiorno, per ottenere 10000 UI alla latitudine di Torino in costume da bagno sono necessari solo 23 minuti e per ottenerne 20.000 ne sono necessari 47 minuti.

Se non si può andare al mare o mettersi in costume, qualcosa è meglio di niente: nei mesi di sole, esporre occasionalmente il 5% della superficie corporea (viso e braccia) può garantire 200-400 UI di vitamina D al giorno.

Quali sono le ore del giorno in cui ci si dovrebbe esporre al sole per formare vitamina D? Michael Holick afferma che anche d'estate, al difuori della finestra 12.00 - 14.00 potrebbe essere difficile ottenere l'ammontare richiesto di vitamina D.

 

 

 

È vero che l'assunzione di vitamina D col sole presenta fortissimi rischi di cancro alla pelle?

 

Il Dr. Holick afferma che se dopo 15 minuti di esposizione poniamo un filtro solare sulla pelle, siamo ragionevolmente protetti, e possiamo acquisire i benefici della vitamina D senza pericoli per la pelle.

 

 

Cos'è l'osteoporosi?

 

Esistono diversi tipi di osteoporosi, che possono avere cause e richiedere cure differenti:

  Osteoporosi da menopausa

  Osteoporosi senile

  Osteoporosi secondaria ad un'altra patologia, tra cui:

  Osteoporosi da glucocorticoidi

  Osteoporosi da malattie che immobilizzano la persona

  Osteoporosi che si accompagna ad insufficienza renale grave

  Osteoporosi che si accompagna a manifestazioni della sindrome metabolica (in particolare aterosclerosi)

 

La DXA è il metodo accreditato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità per effettuare la diagnosi di osteoporosi, secondo il criterio del T-Score: un individuo con BMD (Bone Mass Density) del rachide, del collo del femore o dell'intero scheletro inferiore di 2,5 deviazioni standard rispetto ai valori di individui sani della stessa fascia di età, sesso ed etnia è da definirsi interessato da osteoporosi.

Gli effetti negativi dell'osteoporosi sono di quattro tipi: a) Aumentato rischio di fratture; b) Dolori ossei; c) Deformazione della postura; d) Aumentato rischio cardiovascolare e di aterosclerosi

 

osteoporosi postmenopausale

L'osteoporosi postmenopausale è dovuta al declino del livello di estrogeni e dal cambiamento dei livelli dell'ormone FSH, che porta ad un aumento dei processi di demolizione ossea: il turnover è aumentato nelle donne in menopausa, ma c'è una prevalenza dei processi catabolici su quelli anabolici. Gli estrogeni svolgono un ruolo protettivo sopprimendo alcune delle citochine e altre molecole che promuovono la maturazione e attività degli osteoclasti: IL-1 (interleuchina-1) e TNF (Tumor Necrosis Factor) e per loro via anche IL-6.

Gli estrogeni proteggono anche modulando il pathway RANK/RANKL/OPG, dove RANK/RANKL stimolano la formazione e l'attività degli osteoclasti, mentre OPG la inibisce. Gli estrogeni agiscono aumentando l'espressione di OPG e quindi limitando l'eccessiva attività di demolizione ossea che altrimenti avrebbe luogo. Inoltre inibiscono il pathway JNK, che è una delle vie attraverso cui passano i segnali del complesso RANK/RANKL. Infine, gli estrogeni provocano direttamente l'apoptosi degli osteoclasti maturi attraverso il sistema Fas/Fas e regolano la durata della vita degli osteoclasti attraverso la regolazione di TGF-β.

Un declino del livello di estrogeni porta ad un aumento di IL-1 e TNF, che promuovono un incremento dell'osteoclastogenesi aumentando i livelli di IL-6 e aumentano l'epressione dei geni RANKL.

L'osteoporosi da menopausa potrebbe derivare dall'aumento di frequenza di attivazione dei siti di rimodellamento (aumento del turnover osseo).

Recentemente è stato scoperto che anche l'ormone pituitario FSH gioca un ruolo nel regolare i processi che portano all'osteoporosi.

La cura dell'osteoporosi mira a inibire o limitare il processo di demolizione ossea. Oggi non si ricorre più solo a vitamina D e calcio, che costituiscono la terapia di primo impiego, che viene rimpiazzata da altri farmaci quando inefficace. Vengono utilizzati farmaci che inibiscono la formazione e/o l'azione degli osteoclasti: a) estrogeni; b) modulatori selettivi dei recettori degli estrogeni; c) bifosfonati; d) calcitonina. I bifosfonati accorciano la durata di vita degli osteoclasti. Recentemente è stato crato un anticorpo monoclonale del RANKL. Tutti questi farmaci agiscono inibendo il processo di demolizione. Altri invece aumentano il processo di formazione ossea: analoghi del PTH somministrati giornalmente aumentano la densità ossea.

 

osteoporosi senile

La perdita ossea trabecolare inizia già nel secondo decennio di vita. Essa, a parte il periodo post-menopausale nelle donne, è dovuta ad una alterazione riguardante gli osteoblasti e il processo di formazione ossea.

I radicali liberi sono formati nei mitocondri come sottoprodotti della respirazione e dell'attività degli enzimi ossidasi o in risposta a stimoli esterni, che vanno dalle citochine infiammatorie alle radiazioni ionizzanti. La quantità di radicali liberi aumenta con l'età, dovuta ad una aumentata produzione di radicali liberi nei mitocondri e ad un deterioramento dei meccanismi antiossodanti della cellula.

Lo stress ossidativo colpisce il pathway attivato dalle proteine Wnt, che è importante per la maturazione e funzionamento degli osteoblasti, come pure colpisce il pathway iniziato dal calcio che al suo ingresso nella cellula si lega alla calmodulina.

Il declino della produzione di IGF-1 (Insulin-like Growth Factor), che stimola la moltiplicazione e attività degli osteoblasti, con l'avanzare dell'età, è un'altra causa di osteoporosi. I soggetti osteoporotici hanno livelli più bassi di IGF-1.

Un aumento dei livelli plasmatici di PTH associato all'età è implicato nella perdita ossea. Esso è dovuto a deficienza di vitamina D e compromesso riassorbimento renale, che comportano una deficienza di calcio che mantiene costantemente elevati i livelli di PTH. Livelli costantemente elevati sono nocivi per la salute ossea, in contrasto con aumenti intermittenti, che sono anabolici.

Anche un calo degli ormoni sessuali, estrogeni e androgeni, negli uomini similmente alle donne, è responsabile di una aumentata attività degli osteoclasti e di processi di demolizione ossea.

 

osteoporosi indotta da glucocorticoidi

 

osteoporosi indotta da immobilizzazione

 

 

 

È vero che all'osteoporosi si accompagna un aumentato rischio cardiovascolare e di aterosclerosi?

 

Esiste una relazione non ancora ben chiarita tra osteoporosi e arteriosclerosi (272). A quanto pare il calcio non viene diretto verso lo scheletro ma verso i tessuti molli.

Gli studiosi hanno notato da tempo una correlazione tra osteoporosi e malattie cardiovascolari. Le persone con minore massa ossea o con maggiore perdita in menopausa hanno un rischio quasi doppio di eventi cardiovascolari. Si sono fatte molte ipotesi per spiegare questo fenomeno: sembra quasi che il calcio che lo scheletro rifiuta vada a finire nella tunica interna dei vasi sanguigni (41).

Da tempo i ricercatori hanno notato come la progressione dell'osteoporosi nelle donne si accompagna a patologie aterosclerotiche: ad una densità ossea più bassa si accompagna una più avanzata calcificazione di vasi come l'aorta (387). Questo costituisce in qualche modo un paradosso: si ritiene che l'osteoporosi sia dovuta ad eccesso di calcio, mentre l'aterosclerosi ad eccesso di calcio. La calcificazione nei soggetti osteoporotici avviene anche in assenza di eccesso di calcio, e quindi non pare dovuta alla supplementazione che spesso prescrivono loro i medici. Sembra piuttosto che il calcio, per una perturbazione dei meccanismi che ne reggono il metabolismo, piuttosto che sulle ossa vada a depositarsi sui tessuti molli. Questo potrebbe essere dovuto ad alto PTH a causa del rapporto troppo basso tra calcio e fosforo assunti con la dieta. Il fosforo potrebbe segnalare alle cellule dei vasi di convertirsi in osteoblasti e questi successivamente attirano il calcio lontano dalle ossa, sulla parete vascolare. Tuttavia questo meccanismo è puramente ipotetico (310). La somministrazione di calcio ad alte dosi a soggetti osteoporotici potrebbe comunque avere una parte nella calcificazione delle arterie, e in genere non è una buona idea, secondo alcuni ricercatori (310).

Con l'avanzare dell'età i livelli di calcio nello scheletro diminuiscono e il deposito di calcio nei tessuti molli diminuisce. Nell'aterosclerosi la calcificazione della lamina elastica interna delle arterie precede di circa un decennio la formazione della placca. Calcificazione sono osservate nei bambini prima che compaiano le fatty streakes (525).

Le calcificazioni includono aterosclerosi, sclerosi calcificativa valvolare, tendinite calcificativa, osteoartrite per deposizione di apatite, timpanosclerosi, cute calcinosa, calcificazione tumorale, placca dentale e calcificazione di impianti cardiovascolari, cuori artificiali e dispositivi contraccettivi intrauterini (525).

I difosfonati e i calcio-antagonisti ritardano anche l'aterosclerosi. I bloccanti dei canali di calcio parrebbero esercitare un effetto protettivo contro la deposione di calcio nell'aorta. Il magnesio è un bloccante dei canali si calcio che potrebbe esercitare un effetto positivo (525).

È un fatto noto che all'osteoporosi si accompagna una misura maggiore di calcificazione vascolare, tra cui dell'aorta e un indice CAC superiore. La calcificazione dell'aorta, in generale, è un forte predittore di una bassa densità ossea e di suscettibilità alle fratture: è come se il calcio non prenda la strada dello scheletro ma quella dei tessuti molli (522) (524).

Numerosi studi epidemiologici hanno trovato che la calcificazione vascolare coesiste con la perdita di massa ossea, e hanno suggerito una relazione tra osteoporosi e aterosclerosi. Un basso contenuto minerale alla menopausa è un fattore di rischio per la mortalità cardiovascolare successivamente nella vita. Nel Framingham Study donne con la massa ossea più bassa, determinata però con la tecnica datata della radiografia metacarpale, avevano la più alta incidenza di coronaropatie nel corso di 30 anni. Una bassa densità ossea è stata anche associata  con calcificazione dell'aorta rilevata dalla CT e con markers di patologia vascolare subclinica. Tuttavia si ignora se l'associazione sia causale. La calcificazione dei vasi potrebbe portare a scarsa irrorazione anche del tessuto osseo a livello periferico, oppure l'aterosclerosi potrebbe limitare l'attività fisica, conducendo a perdita ossea. Osteoporosi e calcificazione aumentano entrambe con l'età, e quando si aggiustano i dati epidemiologici riguardo l'età la correlazione sparisce. Perdipiù il fenomeno riguarda quasi esclusivamente donne (524).

Come possibili spiegazioni sono state proposte l'eccesso di supplementazione di vitamina D, i lipidi ossidati (LDL), che in vitro mostrano di stimolare la maturazione degli osteoblasti nell'arteria e deprimerla nello scheletro, soprattutto in mancanza degli effetti protettivi di HDL contro la calcificazione cardiaca. Anche la molecola RANKL è stata dimostrata pro-calcificante (524).

Alcuni studi mostrano che in soggetti osteoporotici i livelli di PTH sono normali o bassi, e sembrerebbero suggerire che sia questa la causa dei bassi livelli di 1,25(OH)D, dovuti ad una minore stimolazione dell'idrossilasi renale da parte dell'ormone PTH, a sua volta responsabile del malassorbimento di calcio che costituisce una delle cause dell'osteoporosi (239).

 

 

 

Qual è la terapia per l'osteoporosi?

 

I soggetti osteoporotici, sebbene non è sicuro che beneficino di una super-supplementazione di calcio, però, secondo gli studi citati da Robert Heaney, mostrerebbero invariabilmente un introito di calcio più basso dei soggetti senza osteoporosi (468)

Se l'osteopenia si accompagna a deficienza, si rimanda al trattamento della deficienza.

Michael Holick tratta i pazienti con osteopenia con 50.000 UI di vitamina D ogni 2 settimane, più 1000-1200 mg di calcio. La cura va avanti per uno-due anni prima di un riesame.

Ecco le raccomandazioni del ministero della salute per prevenire l'osteoporosi e mantenere la salute ossea (470).

 

1. Bevi ogni giorno almeno una tazza di latte (200ml), meglio se parzialmente scremato.

2. Fai ogni giorno uno spuntino ricco di calcio: uno yogurt naturale o alla frutta  (125 gr) o un frullato difrutta e latte.

3. Bevi ogni giorno almeno 1,5 litri di acqua,meglio se ricca di calcio.

4. Consuma 1 porzione diformaggio alla settimana (100gr. diformaggio fresco comemozzarella, crescenza, quartirolo,  ecc. o60gr. diformaggio stagionato come grana, parmigiano,fontina,  provolone, ecc.).

5. Mangia pesciricchi di calcio 3 volte alla settimana (alici, calamari, polpi,  crostacei omolluschi ecc.).

Attenzione. Non basta integrare il proprio regime alimentare con alimenti ricchi di calcio,  bisogna adottare anche alcuni accorgimenti per assimilare meglio questo fondamentale micronutriente ed evitare gli errori che ne provocano la dispersione.  Controlla alimenti e combinazioni che limitano l’assimilazione del calcio o ne favoriscono l’eliminazione

1. Evita l’assunzione di alimentiricchi di calcio insieme ad alimentiricchi di ossalati come spinaci,rape, legumi,  prezzemolo, pomodori, uva, caffè,tè perché queste sostanze ne impedirebbero l’assorbimento.Ad es.  abbinare formaggio e spinaci, significa sprecare una parte del calcio contenuta nel latticino.

2. Riducil'uso del sale da cucina e di cibi ricchi di sodio (insaccati, dadi da brodo,  alimentiin scatola o in salamoia):il sodio in eccesso fa aumentare la perdita di calcio con l'urina.

3. Evita di consumare un’elevata quantità di proteine perché aumentano l'eliminazione di calcio con le urine

4. Non eccedere con gli alimentiintegrali o ricchi difibre perché un giusto apporto è salutare,ma possono ridurre l’assorbimento di calcio.

5. Limita gli alcolici perché diminuiscono l'assorbimento di calcio e riducono l'attività delle cellule che "costruiscono l'osso".  Il calcio proviene principalmente dal cibo, in particolare si trova nei seguenti alimenti

• latte e altri prodottilattierocaseari come yogurt e formaggi.

• tofu,il cosiddetto “formaggio di soia”

• pesce, come quello azzurro,i polpi,i calamari e i gamberi

• molte verdure verdi come la rucola,il cavolo riccio, le cime dirapa,i broccoli,i carciofi, gli spinaci,i cardi. Tuttavia,il calcio delle verdure èmoltomeno assimilabile di quello deilatticini

• frutta secca (mandorle, arachidi, pistacchi, noci, nocciole) non bisogna però esagerare con le quantità perché è molto calorica

• legumi,in particolare i ceci, le lenticchie,i fagioli cannellini, borlotti e occhio nero

• Anche una buona spremuta d’arancia, oltre a tanta vitamina C, potassio e beta carotene, può fornircila giusta quantità di calcio

 

 

Per quanto riguarda l'efficiacia di supplementi di calcio e vitamina D nei confronti dell'osteoporosi, su cui alcuni studiosi nutrono dubbi, vedi il quesito specifico.

 

 

 

Cos'è la densitometria ossea? Quali sono i suoi pregi e i suoi limiti?

 

La DXA è il metodo accreditato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità per effettuare la diagnosi di osteoporosi, secondo il criterio del T-Score: un individuo con BMD (Bone Mass Density) del rachide, del collo del femore o dell'intero scheletro inferiore di 2,5 deviazioni standard rispetto ai valori di individui sani della stessa fascia di età, sesso ed etnia è da definirsi interessato da osteoporosi.

Uno dei pregi della DXA è che si è mostrata in grado di predire bene il rischio di fratture (280).

Quali sono i pregi e i limiti della DXA? (280)

pregi

Consensus that BMD a results can be interpreted using

T-scores

Proven ability to predict fracture risk

Used in FRAX algorithm for predicting 10-year fracture

risk

Proven for effective targeting of anti-fracture treatments

Good precision

Effective at monitoring response to treatment

Widely available

Stable calibration

Effective instrument quality control procedures

Short scan times

Rapid patient set up

Low ionizing radiation dose

Reliable reference ranges

limiti

2D projection measurement affected by bone size and

shape

Measurement errors caused by heterogeneity in soft tissue

composition

Discordant fi ndings between different measurement sites

Degenerative disease affects spine BMD a in older patients

Measurements for fracture and non-fracture populations

overlap

Will not differentiate low bone calcium that is due to

osteomalacia or osteoporosis

 

 

 

Ci sono altre metodologie di valutazione della massa ossea che in futuro potranno affiancare o sostituire la DXA?

 

La tomografia computerizzata quantitativa (QCT) è una potenziale alternativa per il futuro, perché, oltre che alla densità volumetrica, permette di analizzare la microstruttura delle ossa e di calcolare la forza totale dell'osso.

La tomografia computerizzata a raggi X (CT) fornisce una informazione tridimensionale, morfologica e composizionale.

Tecniche di 3D-imaging in grado di rivelare la struttura ossea stanno emergendo come alternative. Tecniche come la tomografia micro-computerizzata (μCT) sono state sviluppate di recente e forniscono immagini ad alta risuluzione della micro e macro-architettura dell'osso trabecolare. La risonanza magnetica (MR) è stato usato in aggiunta ai raggi X, alla tomografia computerizzata e alla scintigrafia ossea  per rilevare fratture da stress, fratture da insufficienza e fratture metastasiche. Recenti sviluppi della metodologia MR consentono di  valutare la struttura traberolare e corticale di un osso ottenendo biopsie non invasive in molteplici siti anatomici.

L'immagine mediante radionuclidi rimane la metodologia più usata per rilevare alterazioni metastatiche benigne dello scheletro. Più recentemente la CT a emissione di singolo fotone (SPECT) è diventata disponibile nell'ambito della medicine nucleare e consente di approfondire l'analisi delle lesioni che emergono dai dati tomografici. Attualmente le metodologie ibride SPECT/CT e PET/CT sono le aggiunte più recenti all'armamentario diagnostico (251).

 

 

 

Quali sono i fattori di rischio per l'osteoporosi e in generale per la salute ossea?

 

  L'immobilità completa a letto fa perdere fino al 2% della massa ossea al mese

  Alcol

  Ipogonadismo

  Scarsa attività fisica

La massa ossea diminuisce laddove l'attività fisica è ridotta. Questo è mostrato chiaramente in studi su individui immobilizzati. Le prove disponibili suggeriscono che la perdita inizia mmediatamente o quantomeno molto presto dopo l'inizio dell'immobilizzazione. Quando il soggetto è a letto per tutta la giornata, la perdita di calcio giornaliero è dell'ordine di 200-300 mg. La perdita ha due componenti: aumentata calciuria e diminuito assorbimento dalla dieta. L'aumento del consumo di calcio da solo non altera apprezzabilmente questo quadro, ma quando è somministrato con una quantità extr di fosforo in qualche modo la perdita rallenta. Soggetti che hanno ripreso l'attività fisica hanno mostrato che il loro scheletro recupera minerale. Durante questo periodo occorre fornire pertanto extra calcio (452).

I dati disponibili sugli effetti dell'immobilizzazione sono essenzialmente limitati agli astronauti, a pazienti paralizzati e a volontari che si pongono a letto. Pochi dati sono disponibili riguardo gli effetti di altre patologie mediche che costringono all'immobilità. Tuttavia, appare sicuro concludere che in tutte queste situazion si ha un bilancio negativo del calcio, non legato a fattori dietetici. Esso sarebbe dovuto agli effetti catabolici dell'attività fisica (452).

Aloia e Whedon hanno recentemente analizzato gli effetti dell'esercizio sulla massa ossea nella letteratura medica. Le prove indicano che l'esercizio aumenta la massa ossea durante il recupero da una forzata immobilizzazione. L'esercizio agisce principalmente rallentando il ritmo della perdita. Persino in pazienti anziani e con osteoporosi regimi di esercizio fisico hanno fatti segnalare aumenti di massa ossea (452).

I supplementi di calcio, da soli, non prevengono la perdita di massa ossea, che non è legata a fattori dietetici. Sembra che la ridotta attività fisica conduca a una diminuita efficienza nell'utilizzazione del calcio ingerito con la dieta, mentre l'attività fisica promuove una maggiore dfficienza (452).

Gli studi hanno dimostrato che persino un viaggio aereo intercontinentale diminuisce la massa ossea.

  L'eccessiva esposizione ai raggi X danneggia i processi di riparazione ossea

  Deficienza o insufficienza di vitamina D

  Deficienza o insufficienza di calcio

  Scarsa o nulla esposizione alla luce solare

  Dialisi renale

  Insufficienza renale

Con l'età il peggioramento della funzione renale può portare a iperparatiroidismo secondario, per la perdita parziale di capacità dei reni di riassorbire il calcio (112).

Una deficiente funzionalità renale è un grave e importante fattore di rischio per la salute ossea e anche cardiovascolare. L'insufficienza renale provoca uno sconvolgimento dei meccanismi di omeostasi del calcio e del fosforo nel plasma sanguigno, che conduce a calcificazione dei tessuti molli dei muscoli e dei vasi sanguigni e a un rischio grandemente aumentato di morte per accidenti cardiovascolari.

  BMI troppo elevato

  Basso turnover osseo.

Un alto turnover osseo si traduce in una maggiore fragilità ossea. Esso può essere dovuto ad es. a carenza di calcio, che stimola eccessivi livelli di PTH, un ormone che promuove l'attività degli osteoclasti e l'incremento del ritmo di rimodellamento osseo. Un alto turnover osseo può provocare ipercalcemia.

  Alto turnover osseo

  Ipertensione

  Diabete mellito

  Stagione invernale o latitudini fredde

  Eccessiva secrezione di ormone PTH e iperparatiroidismo

Un aumento dei livelli plasmatici di PTH associato all'età è implicato nella perdita ossea. Esso è dovuto a deficienza di vitamina D e compromesso riassorbimento renale, che comportano una deficienza di calcio che mantiene costantemente elevati i livelli di PTH. Livelli costantemente elevati sono nocivi per la salute ossea, in contrasto con aumenti intermittenti, che sono anabolici.

Con l'età c'è rischio che si sviluppi iperparatiroidismo secondario con elevato PTH che provoca una elevazione permanente del turnover che danneggia la salute ossea. Poiché questa patologia è più sensibile ai livelli di 25(OH)D che al declino della funzione renale, Vieth propone una supplementazione che faccia raggiungere almeno 40 ng/mL negli anziani (112).

  Eccesso di proteine, di sodio e di caffè

La perdita urinaria di calcio è responsabile per il 50% della variabilità dell'assimilazione del calcio da parte del nostro organismo. I fattori nutrizionali che la influenzano maggiormente sono sodio, proteine e caffè. Il sodio è il fattore più rilevante: ogni 2300 mg di sodio escreto producono l'escrezione di 40-60 mg di calcio. Nelle donne adulte, per ogni grammo in più di sodio si ha un aumento dell'1% l'anno di perdita di massa ossea, supponendo che il calcio provenga dallo scheletro. Uno studio longitudinale su donne in post-menopausa ha mostrato una correlazione significativa tra escrezione urinaria di sodio e densità ossea del bacino (580). Occorrerebbe ridurre l'apporto di sale ad almeno 2,3 gr. al giorno, poiché questo studio ha mostrato che una escrezione urinaria di 2110 mg di sodio al giorno non era correlata con perdita di massa ossea del bacino.

Un eccesso di proteine rispetto alle necessità dell'organismo è un fattore di rischio, in quanto fa aumentare l'escrezione di calcio nelle urine (vedi quesito specifico).

  Morbo celiaco

Uno studio durato 15 anni pubblicato nel 2014 ha mostrato che più della metà dei pazienti celiaci avevano problemi alle ossa (65). Un altro studio del 2014 ha misurato la BMD in individui diagnosticati di celiachia e di nuovo dopo un anno di una dieta priva di glutine, con un miglioramento significativo dopo l'eliminazione del glutine (66).

  Morbo di Cushing

  Malattie autoimmuni come artrite reumatoide, colite ulcerosa, sclerosi multipla

  Intolleranza al lattosio

  Leucemia

  Broncopneumopatia ostruttiva cronica

  Bypass gastrico

  Linfoma

  Raggi X

Coloro che si sottopongono a radioterapia possono facilmente sviluppare osteoporosi. Da qui si può dedurre che l'irradiadiazione con radiazioni ionizzanti inibisce i processi ricostruttivi dell'osso.

  Ictus

  Anoressia

  Cirrosi biliare primaria

  Eccessivo introito di fibre alimentari

Un eccessivo introito di fibre può diminuire l'assorbimento del calcio e degli altri nutrienti. Un consumo enormemente alto di fibre nella dieta sembra comportare pericolo di perdita eccessive di minerali nelle feci che produce. Si pensa che  le fibre naturali abbiano un effetto chelante sul calcio. McCance e Widdowson (453) hanno mostrato nel 1942 che l'assorbimento di calcio, magnesio e fosforo diminuise quando la farina bianca è sosituita da farinameno raffinata e che gli individui sviluppano un bilancio negativo del calcio quando il pane integrale costituisce una parte consistente della dieta. Quando a soggetti con una dieta a basso contenuto di fibre sono stati somministrati 10 g di cellulosa, l'escrezione di zinco e calcio è aumentata (454). Lo stesso gruppo ha studiato il bilancio del calcio per 20 giorni nel caso di un'alto consumo di dibra sotto forma di pane fatto in parte di pane integrale di frumento. C'è stato un incremento di escrezione fecale di calcio nei pazienti studiati, in contrasto con le ricerche sul pane raffinato. Il pane Bazari in Iran, sebbene contenente più calcio, ha mostrato un valore nutrizionale inferiore per il suo alto contenuto di fibre e fitati (455). Altri studi hanno mostrato che i prodotti a base di cereali non raffinati possono interferirei con l'assorbimento di calcio e zinco (456). Studi più recenti da parte di Cummings e altri (457) hanno mostrato che aggiungendo 31 g di fibre di cereali alla dieta aumenta significativamente il peso delle feci, abbrevia il transito intestinale e aumenta l'escrezione degli acidi biliari. Alcuni soggetti studiati, con una dieta ad elevato contenuto di proteine hanno sviluppato un bilancio più negativo del calcio quando è stata aggiunta fibra. Negli studi portati avanti da Kelsey e colleghi (458) 12 uomini sono stati studiati con diete controllate contenenti frutta e verdura (dieta ad alto contenuto di fibra) oppure frutta e succhi vegetali (dieta a basso contenuto di fibre) per un periodo di 26 giorni. Il bilancio del calcio era positivo (+72 mg al giorno) nella dieta a basso contenuto di fibre e negativo (-122 mg al giorno) nella dieta ad alto contenuto di fibre. Sandstead e collaboratori (459) hanno mostrato anch'essi che l'aggiunta di fibre rende il bilancio negativo. Essi hanno calcolato che un aumento di 26 g giornalieri di fibra aumenta il fabbisogno di calcio di 150 mg al giorno. (452)

  Iperparatiroidismo primario, sarcoidosi, tubercolosi, linfoma.

Fattori di rischio (ipersensibilità alla vitamina D, sono iperparatiroidismo primario. Pazienti con sarcoidosi, tubercolosi, linfoma possono sviluppare ipercalcemia a seguito della somministrazione di vitamina D (220).

  Ipotiroidisimo ed ipertiroidsmo

Nell'ipertiroidismo e nell'ipotiroidismo i livelli di equilibrio della calcemia sono rispettivamente più alti e più bassi del livello normale di 10 mg/dL.

  Antiacidi, che possono contrastare l'assorbimento dei supplementi di carbonato di calcio, che richiedono un ambiente acido

  Glucocorticoidi, che è ben noto possono provocare da soli osteoporosi.

 

Ecco una lista di farmaci/sostanze che possono interagire negativamente con la assunzione di vitamina D:

  Anticonvulsivanti (phenobarbital e phenytoin): aumentano il breakdown di vitamina D e riducono l'assorbimento del calcio

  Atorvastatina (Lipitor): la vitamina D può interferire con il modo in cui l'organismo metabolizza questo farmaco anticolesterolo.

  Calcipotriene (Dovonex): Assumere vitamina D insieme a questo farmaco contro la psoriasi può indurre ipercalcemia

  Colesteramina: Assumere questo farmaco per la perdita di peso può ridurre l'assorbimento di vitamina D

  Farmaci prodotti con gli enzimi CYP3A4 (Cytochrome P450): possono ridurre l'assorbimento di vitamina D

  Digoxin (Lanoxin): assumere alte dosi di vitamina D insieme a questo farmaco per la pressione può causare ipercalcemia, con aumento di problemi cardiaci fatali

  Diltiazem (Cardizem, Tiazac): evitate di assumere alte dosi di vitamina D con questi farmaci contro la pressione

  Orlistat (Xenical, Alli): un prodotto per perdere peso che inibisce l'assorbimento di grassi e potrebbe inibire l'assorbimento della vitamina D.

  Diuretici a base di Thazide: sono farmaci per abbassare la pressione che possono far diminuire l'escrezione di calcio e, se si assume anche vitamina D, possono portare a ipercalcemia.

  Steroidi come Prednisone possono ridurre l'assorbimento di calcio e interferire negativamente col metabolismo della vitamina D

  Verapamil (Verelan, Calan): questi farmaci contro la pressione, assunti con alte dosi di vitamina D, possono provocare ipercalcemia.

  Paracetamolo

A sorpresa, diversi studi collegano l'uso di questo farmaco ad un aumentato rischio di fratture

  Antiacidi che contengono alluminio.

 

 

 

Come si svolge il rimodellamento dello scheletro e quali sono i fattori che possono perturbarlo?

 

Il processo di rimodellamento procede attraverso 4 fasi (vedi figura): a) attivazione di un sito specifico; b) demolizione ossea e contemporaneo reclutamento di cellule staminali del mesenchima e di osteoprogenitori; c) maturazione degli osteoblasti e loro sintesi dell'osteina (fibre di collagene destinate ad essere riempite di minerale); d) mineralizzazione delle fibre di collagene.

 

 

Uno scheletro umano tipico ha in ogni momento circa un milione di BMU (siti di rimodellamento attivi). Il risultato netto dei processi di demolizione e di quelli di ricostruzione deve essere zero: è importante che essi siano strettamente collegati nel tempo, e questo avviene ad opera di tutta una serie di molecole che sono rilasciate durante la demolizione e promuovono l'attività successiva degli osteoblasti; alcuni di questi fattori di ricrescita sono prodotti dagli stessi osteoclasti.

 

 

Il turnover o rimodellamento osseo è forse il fattore più critico per la salute delle ossa e lo sviluppi di disturbi come l'osteoporosi, e può essere influenzato da molteplici fattori (487). Un basso turnover osseo è pericoloso. Un alto turnover osseo si traduce in una maggiore fragilità ossea. Esso può essere dovuto ad es. a carenza di calcio, che stimola eccessivi livelli di PTH, un ormone che promuove l'attività degli osteoclasti e l'incremento del ritmo di rimodellamento osseo. Un alto turnover osseo può provocare ipercalcemia. L'osteoporosi da menopausa potrebbe derivare dall'aumento di frequenza di attivazione dei siti di rimodellamento (aumento del turnover osseo).

 

 

 

Un calo degli ormoni sessuali può avere effetti sullo scheletro anche per gli uomini?

 

Estrogeni ed androgeni influenzano lo sviluppo dello scheletro durante la crescita e la sua conservazione in età adulta. L'assenza o disfunzione delle ghiandole sessuali è associata con alterazioni scheletriche. I meccanismi cellulari e molecolari responsabili di questi effetti avversi non sono ancora ben compresi, né sono ben compresi i meccanismi in base ai quali gli estrogeni contribuiscono alla conservazione dello scheletro maschile.

Sia gli estrogeni che gli androgeni derivano dai metaboliti C19 del colesterolo, i cui livelli potrebbero risultare importanti per il mantenimento delle ossa.

La deficienza di estrogeni o androgeni causa una perdita assia associata ad un aumentato rimodellamento, aumentato numero di osteoclasti e osteoblasti e aumentato riassorbimento e formazione ossea, sebbene sbilanciati. Per contro, estrogeni e androgeni diminuiscono il riassorbimento osseo, tengono a freno il ritmo del rimodellamento e aiutano a matnenere un equilibrio essenziale tra la formazione e la demolizione ossea. Questi effetti sono evidentemente il risultato di influenze ormonali sul ritmo di creazione dei progenitori degli osteoclasti e osteoblasti nel midollo osseo, come pure dell'effetto pro-apoptosi sugli osteoclasti e anti-apoptosi sugli osteoclasti e osteociti maturi.

Negli ultimi 30 anni un grosso numero di studi su culture cellulari e roditori gonadectomizzati hanno suggerito diversi meccanismi responsabili dell'effetto protettivo degli steroidi sessuali sull'omeostasi dello scheletro. Numerose prove puntano all'incremento dell'ossigeno reattivo dei radicali liberi come causa della diminuzione di formazione ossea associata con l'età. L'aumentato riassorbimento associato a deficienza di estrogeni incrementa la generazione di radicali e l'attività dei fattori di soppressione tumorale p53 e p66 Shc, che svolgono un ruolo crucialeriguardo i radicali liberi, l'apoptosi e l'invecchiamento nello scheletro del topo. Questo suggerisce che l'effetto acuto di perdita ossea dovuto a declino della funzion testicolare o delle ovaie può essere contrastato con antiossidanti.

Come la deficienza di ormoni sessuali steroidei accelera l'effetto dell'età sullo scheletro, di contro estrogeni o androgeni non aromatici diminuiscono i radicali liberi e l'attivazion di p66 e antagonizzano l'apoptosi degli osteoblasti dovuta ai radicali liberi oltre che l'attivazione di NF-kβ e la produzione di citochine attenuando l'espressione della cascata di segnali PKC β/p66 Shc negli osteoblasti. Diminuiscono pure la produzione di radicali liberi nel midollo osseo. Dall'altro lato attenuano l'effetto pro-sopravvivenza di RANKL sugli osteoclasti attraverso meccanismi antiossidanti (589).

Sia gli uomini che le donne perdono massa ossea con l'età, ma gli uomini hanno una minore probabilità di osteoporosi per due ragioni: a) gli uomini guadagnano maggiore massa ossea durante la pubertà; b) gli uomini perdono meno massa ossea invecchiando perché a differenza delle donne non sperimentano una brusca cessazione degli estrogeni.

D'altro canto, il ruolo importante degli androgeni e dei loro recettori nell'omeostasi dello scheletro maschile negli esseri umani è dimostrato dalla bassa massa ossea di individui con ipogonadismo o sindrome da insensibilità agli androgeni. La cancellazione dei recettori degli androgeni nel topo conduce ad un alto turnover osseo, aumentato riassorbimento e diminuzione del volume corticale e trabecolare delle ossa.

Per concludere, rimane ancora da chiarire quanto dell'effetto di mantenimento delle ossa degli androgeni per lo scheletro maschile adulto proviene dagli effetti del testosterone o del diidrotestosterone (DHT) che agiscono attraverso i recettori degli androgeni e quanto invece proviene dalla conversione degli androgeni in estrogeni e dalla azione di questi sui recettori degli estrogeni. Rimane pure da chiarire fino a che punto l'effetto di conservazione osseo degli androgeni risulta da una autonoma azione cellulare su osteoclasti, osteoblasti o altri tipi di cellule e se il loro effetto protettivo sullo scheletro adulto proviene da meccanismi simili o differenti da quelli responsabili della crescita scheletrica.

Sebbene entrambi siano importanti, i ruoli rispettivi di androgeni e estrogeni sulla fisiologia scheletrica negli uomini non sono chiari. Gli estrogeni sono essenziali per il normale sviluppo osseo nei giovani maschi, ciò che è evidenziato dal ritardo di sviluppo e dalla bassa massa ossea in uomini con deficienza di aromatase e la pronta risoluzione dopo la somministrazione di estrogeni. Perdipiù, gli estrogeni sono collegati al rimodellamento osseo, alla densità ossea e al ritmo di perdita di massa ossea negli uomini più anziani, apparentemente più del testosterone. Però il testosterone è collegato in modo indipendente a indici di riassorbimento e formazione ossea e potrebbero avere una azione stimolante sul periostio. Bassi livelli di estradiolo sono stati chiaramente collegati ad un aumentato rischio di fratture in uomini anziani. I livelli di testosterone appaiono meno fortemente correlati alle fratture, ma potrebbero avere un effetto, in particolare a concentrazioni molto basse. Alte concentrazioni di globulina legante degli ormoni sessuali (SHBG) sono state collegate a una maggiore propensione alle fratture. In futuro i ruoli di estrogeni, androgeni, e SHBG saranno meglio compresi, e la loro misura potrà trovare applicazione clinica (589).

 

 

 

I raggi X provocano osteoporosi?

 

Coloro che si sottopongono a radioterapia possono facilmente sviluppare osteoporosi (582). Secondo Robert Heaney, l'irradiadiazione con radiazioni ionizzanti inibisce i processi ricostruttivi dell'osso, per cui lo scheletro comincia a mostrare fratture ed erosioni da osteoclasti a cui non segue deposito di nuova massa ossea (588).

 

 

 

Quali sono i consigli per mantenere la salute delle ossa?

 

Le ricerche suggeriscono un ruolo nella salute ossea anche per nutrienti diversi da vitamina A, D, calcio e fosforo. Zinco, vitamina B12, folati, boro, silicio, manganese e rame. Sono stati descritti casi di bestiame che pascolava in pascoli poveri di rame e che, a dispetto di una sufficiente presenza di calcio e fosforo nella loro dieta, avevano sviluppato rachitismo e osteomalacia, che sono sparite con la somministrazione di rame. Sembra che il rame costituisca la colla che lega i cristalli di idrossiapatite, contenenti calcio e fosforo, alla matrice di collagene delle ossa (189).

Somministrare vitamina D in presenza di carenza di calcio può far sì che 1,25(OH)2D scateni la decalcificazione dello scheletro: il cosiddetto "effetto calcemico", che innalza la calcemia anche a spese dello scheletro (237) (238). Ma in presenza di calcio, aumentando le dosi di vitamina D, l'effetto calcemico, affermano Carlsson e Lindquist, va a vantaggio dell'accrescimento osseo (237).

Un consiglio importantissimo per mantenere la saluta delle ossa, ma quasi mai dato, è: mantenete a tutti costi la funzionalità dei vostri reni. Una diminuita funzionalità renale si accompagna immancabilmente a perturbazione del metabolismo osseo, con calcificazioni e complicazioni cardiovascolari conseguenti. I reni regolano i livelli di fosforo nell'organismo, e questi ultimi sono direttamente legati al metabolismo osseo. Un eccesso di fosforo può danneggiare seriamente i reni. Leggete in questo documento il quesito riguardante il fosforo.

Tenete sotto controllo la calcemia. L'ipercalcemia è sempre indice di alterato metabolismo osseo e in sé può causare danni all'organismo.

È vero che una dieta ricca di latticini e proteine fa decalcificare lo scheletro? Robert Heaney e i maggiori esperti mondiali lo negano. Per un approfondimento in proposito, vedi il quesito specifico.

Bere coca-cola potrebbe portare ad una diminuzione di massa ossea e ad un aumentato rischio di fratture. Questo, almeno, è quanto provoca in bambini ed adolescenti. Responsabile è probabilmente l'alto contenuto di fosforo inorganico di questa bevanda, che è rapidamente assimilabile dall'organismo e al cui eccesso studi recenti collegano ad effetti avversi sul metabolismo osseo (284).

Diversi ricercatori segnalano che una supplementazione di potassio può avere gli stessi effetti di una supplementazione con vitamina D per la salute e il rafforzamento delle ossa, tra l'altro limitando la perdita di calcio con le urine (281) (282).

Alcuni studi su soggetti adulti hanno mostrato che negli adulti la somministrazione di potassio (di cui sono ricche frutta e verdura) sotto forma di citrato diminuiva l'escrezione di calcio (281).

Il consumo di frutta e di verdura potrebbe aiutare a mantenere la massa ossea. Studi effettuati su bambini e adolescenti mostrano che quelli che consumano molta frutta e verdura hanno un incremento significativo della massa ossea (283).

Studi sugli adolescenti mostrano che esiste una correlazione positiva tra quantità di frutta e verdura consumata e massa ossea (280).

Il grado di turnover osseo influenza la salute delle nostre ossa: troppo o troppo poco può portare a perdita di struttura e massa dello scheletro. Per sapere quali sono le analisi cliniche che misurano i marker del turnover, vedi la risposta al quesito: "Quali controlli preliminari deve effettuare una persona che voglia intraprendere una cura per la deficienza di vitamina D?".

La perdita di massa ossea a seguito del deflusso del calcio è più pronunciata nell'osso trabecolare, perché le strutture trabecolari immerse nel midollo osseo presentano una superficie molto ampia. È questa la ragione per cui le fratture negli anziani, nelle donne in menopausa e nei soggetti osteoporotici, oltre che nei punti tipici di impatto da caduta, sono più frequenti in punti come le vertebre e la parte distale dell'avambraccio (285).

Il moto fisico è fondamentale. Le persone anziane che si muovono poco, le persone che una malattia costringe ad una lunga permanenza a letto, perdono massa ossea. Si ha persino perdita di massa ossea durante un volo intercontinentale. In uno studio a controllo randomizzato che ha interessato 40 donne in menopausa di  età compresa tra 50 e 70 anni, due sedute settimanali di esercizi (295).

Pare che consumare cipolle aiuti la fissazione del calcio nelle ossa.

Occorre dormire a sufficienza, almeno 6 ore per notte. Esperimenti con gli esseri umani e gli animali da laboratorio hanno mostrato che la carenza di sonno e i disturbi come l'apnea ostruttiva notturna possono portare ad anomalie nelle formazione del tessuto e del midollo osseo.

Evitare i dentifrici con il fluoro e l'acqua ricca di fluoro

Gli ormoni sessuali, estrogeni ed androgeni, attraverso meccanismo poco studiati, assicurano la salute delle ossa e la conservazione della massa scheletrica. La loro deficienza provoca osteoporosi nelle donne (menopausa: mancanza di estrogeni) e calo di massa ossea negli uomini con bassa produzione delle gonadi.

 

 

 

Cosa bisogna sapere riguardo la prevenzione delle fratture?

 

In anni recenti c'è stato un incremento dell'attenzione sulla qualità delle ossa accanto all'attenzione sulla quantità. Le componenti della qualità ossea stanno continuando ad essere definite, ma includono le proprietà materiali sia della matrice proteica che dell'elemento minerale come pure l'architettura delle ossa. Grosse perturbazioni della matrice, come in una osteogenesi imperfetta chiaramente hanno un effetto importante sulla fragilità scheletrica ma ora è evidente che il cross-linking del collagene, lo stato della isomerizzazione del cross-linking e i livelli della glicazione avanzata con i suoi prodotti hanno un impatto sulla forza scheletrica. Questi aspetti della biologia della matrice ossea si ritiene siano influenzati dal turn-over osseo, che a sua volta è influenzato dagli ormoni sessuali dalle citochine come pure da fattori genetici. Inoltre i prodotti della glicazione avanzata sono influenzati dalle concentrazioni locali di glucosio e aumentano in presenza di diabete. Questo probabilmente contribuisce al più alto indice di fratture dei diabetici, indipendentemente dalla massa ossea. Alcuni studi hanno suggerito che la presenza di micro fratture nelle ossa potrebbe anche compromettere la forza dello scheletro e che queste micro fratture sono collegate a un basso turn-over delle ossa. Cambiamenti avversi in questi indici contribuiscono secondo alcuni ricercatori al deterioramento della forza dello scheletro dimostrabile in alcuni studi animali con uso di alte dosi di bifosfonati di studi umani recenti tuttavia hanno suggerito che questi fattori apportano solo piccoli contributi alla forza delle ossa che è principalmente determinata dal volume dell'osso trabecolare.

Il turn-over osseo è caratterizzato da due attività opposte: formazione delle ossa e riassorbimento delle ossa. Durante il rimodellamento delle ossa (dopo l'arresto della crescita e durante l'invecchiamento), la formazione delle ossa è preceduta dal riassorbimento delle ossa. Entrambe le attività sono accoppiate all'interno di una unità di base multicellulare (BMU). Durante il riassorbimento osseo la dissoluzione del minerale delle ossa e il catabolismo della matrice ossea ad opera degli osteoclasti produce la formazione di cavità da riassorbimento e il rilascio dei componenti della matrice ossea. Successivamente, durante la formazione delle ossa gli osteoblasti sintetizzano matrice ossea che riempie le cavità da riassorbimento e subisce una mineralizzazione.

Alcuni, anche se non tutti gli studi prospettivi e gli studi di casi suggeriscono che un aumento dei marker del turn-over osseo predice le fratture indipendentemente dall'età dalla densità ossea e da precedenti episodi di frattura. Questa associazione è stata riscontrata in donne dopo la menopausa e donne anziane, ma non in uomini o anziani caratterizzati da fragilità. Per di più, i marker di turn-over osseo sono associati a fratture di maggiore entità, come quelle delle vertebre, del bacino, e quelle multiple.

Un alto turn-over osseo e associato con una densità ossea più bassa, una perdita ossea più veloce, e una peggiore micro architettura dell'osso trabecolare e dell'osso corticale. Di conseguenza l'osso rimasto subisce un maggiore stress e conduce a maggiore affaticamento del tessuto osseo e a ulteriore deterioramento delle sue proprietà meccaniche.

Un alto turn-over osseo e anche associato ad una percentuale più alta di parti di recente mineralizzazione che potrebbero non avere proprietà meccaniche ottimali di resistenza. Periodi più corti tre cicli di rimodellamento lasciano meno tempo per gli assestamenti della matrice proteica che seguono il rimodellamento.

Le circostanze e la direzione di una caduta determinano il tipo di frattura, laddove la densità ossea e i fattori che attenuano la caduta, come una migliore forza o un migliore passo, determinano criticamente se una frattura avrà luogo quando chi cade atterra su un certo osso. Per di più, la caduta può influenzare la densità ossea attraverso un'aumentata immobilità o attraverso una diminuzione delle attività volontaria da parte del soggetto. È ben noto che le cadute possono condurre a traumi psicologici e a paura di cadere, che rallentano o inibiscono la motilità dell'individuo. Dopo la loro prima caduta, circa il 30% degli individui sviluppa una paura di cadere che produce una auto restrizione delle attività e una diminuita qualità della vita.

Le cadute sono una caratteristica dell'età e del divenire fragili e sono spesso annunciate dall'arrivo di una instabilità del passo, una diminuzione dell'acutezza visiva o la sua correzione con occhiali molti focali, trattamento con antidepressivi, anticonvulsivanti o benzodiazepine, debolezza difficoltà cognitive, deficienza di vitamina D, povera salute mentale, o una combinazione di questi diversi fattori. Alcuni studi indicano che le cadute dovute alla neve e al ghiaccio potrebbero giocare un importante ruolo nella frequenza stagionale delle fratture. Una causa dell'aumentato rischio di fratture in inverno rispetto all'estate potrebbe consistere nel fatto che gli anziani scivolano e cadono sulla neve e sul ghiaccio. D'altro lato, le fratture al bacino capitano principalmente in casa e possono essere meno influenzati dalla neve e dal ghiaccio con una piccola variazione stagionale comparata a quella delle fratture degli avambracci, dell'omero e del collo del piede.

Sono state attuate diverse strategie per prevenire il rischio di caduta, come ad esempio terapia occupazionale, modifica dei farmaci, istruzioni di comportamento, programmi gli esercizi.

Molti studi dimostrano che semplicemente facendo ginnastica con i pesi migliora la velocità del passo, la forza muscolare e l'equilibrio in persone che vivono in comunità per anziani, il che si traduce in una riduzione delle cadute tra il 25% e il 50%.

Anche esercizi correlati alla musica ed esercizi di arti marziali orientali si sono dimostrati utili.

 

 

 

La valutazione del rischio di fratture

 

Esiste un sofisticato calcolatore messo online dall'università di Sheffield e sponsorizzato dall'OMS per determinare il rischio di fratture a dieci anni, al seguente indirizzo:

 https://www.sheffield.ac.uk/FRAX/tool.aspx?country=1

La sarcopenia (perdita di massa muscolare) va di pari passo con la perdita di massa ossea nelle persone anziane, e si ritiene che, poiché compromette la motilità dell'anziano, sia un buon predittore del rischio delle fratture.

 

 

 

Quali sono i farmaci utilizzati nella cura dell'osteoporosi e quali saranno disponibili in un prossimo futuro?

 

La cura dell'osteoporosi mira a inibire o limitare il processo di demolizione ossea. Oggi non si ricorre più solo a vitamina D e calcio, che costituiscono la terapia di primo impiego, che viene rimpiazzata da altri farmaci quando inefficace. Vengono utilizzati farmaci che inibiscono la formazione e/o l'azione degli osteoclasti: a) estrogeni; b) modulatori selettivi dei recettori degli estrogeni; c) bifosfonati; d) calcitonina. I bifosfonati accorciano la durata di vita degli osteoclasti. Recentemente è stato creato un anticorpo monoclonale del RANKL. Tutti questi farmaci agiscono inibendo il processo di demolizione. Altri invece aumentano il processo di formazione ossea: analoghi del PTH somministrati giornalmente aumentano la densità ossea.

 

 

Ecco un elenco dei farmaci più usati o promettenti per la cura dell'osteoporosi

 

vitamina d3 o vitamina d2

È il farmaco di primo utilizzo in caso di osteoporosi non grave e di deficienza di 25OHD

 

denosumab

È il primo inibitore del fattore RANKL disponibile per il trattamento dell'osteoporosi e altre patologie ossee. Il legame di RANKL col recettore RANK posto sulla superficie dei pro-osteoclasti è necessario per la loro maturazione e sopravvienza. L'osteoprotogerina (OPG), una forma solubile di RANK, è un falso ligando per RANK, che interferisce con l'associazione RANK/RANKL e inibisce l'attivazione degli osteoclasti. La somministrazione di OPG diminuisce il riassorbimento osseo e aumenta la massa ossea nei ratti e nelle scimmie.

 

bifosfonati

Sono i farmaci riservati ai casi gravi, a cui si ricorre se la densità ossea e i livelli di vitamina D rimangono bassi. Circa i loro non trascurabili effetti collaterali, vedi il quesito specifico.

 

calcitriolo

Alcuni ricercatori hanno attirato l'attenzione sul fatto che ci sono forme di osteoporosi resistenti al trattamento con la vitamina D, e hanno riscontrato invece un notevole effetto sulle ossa del calcitriolo, che è il metabolita attivo della vitamina D. Usando questo farmaco occorre tuttavia fare attenzione al rischio di ipercalcemia.

 

teriparatide e pth(1-84)

Il teraparatide (TPTD) è PTH ricombinante e, come l'altro potente preparato creato di recente, il PTH ricombinante umano PTH(1-34), induce un rapido incremento nella formazione ossea, seguito da un aumento nel riassorbimento osseo. Nella fase inizale della cura, la formazione ossea è aumentata, e il riassorbimento rimane basso. È durante questa fase, chiamata la "finestra anabolica", che la massa ossea aumenta più rapidamente, principalmente nell'osso trabecolare (280).

In donne trattate con TPTD si è riscontrato nell'arco di 10 mesi un aumento di massa ossea del 10,3% in confronto al 5,5% di un bifosfonato come l'aledronato.

Teriparatide e PTH si sono mostrati capaci di diminuire significativamente il tempo di guarigione delle fratture (280).

Teriparatide e PTH(1-34) sono promettenti alternative ai bifosfonati in soggetti con osteoporosi avanzata. Si sta provando a neutralizzare l'effetto catabolico che segue quello anabolico utilizzando agenti anticatabolizzanti insieme o successivamente al Teriparatide o al PTH(1-34). Infatti una serie di studi ha mostrato che si perde l'effetto anabolizzante di TPTD e di PTH(1-34) se non si fa seguito con una terapia anti-riassorbimento.

Black e colleghi hanno distribuito i soggetti dopo un anno di trattamento con PTH(1-84) tra quelli che ricevevano aledronato e quelli che ricevevano un placebo per un altro anno. Nell'arco dei due anni dell'esperimento le donne che avevano assunto aledronato avevano un incremento della densita spinale del 12,1% rispetto al 4,1% del gruppo di controllo. L'osso trabecolare mostrava un incremento del 31% contro il 14%.

 

anticorpo monoclonale umano per la sclerostina

Dati recenti mostrano che in soggetti sani, questo anticorpo induce un rapido incremento, dipendente dalla dose, nella foramzione ossea e un più blando, transitorio, decremento del CTX sierico (C-Terminal-Telopeptide: un marker del riassorbimento osseo) (280).

 

ranelato di stronzio

Purtroppo uno studio recente (590) mostra che la somministrazione di ranelato di stronzio aumenta il rischio di infarto del miocardio di ben il 60%  (317).

 

raloxifene

Il raloxifene è un farmaco della categoria dei modulatori selettivi del recettore degli estrogeni, utilizzato nella pratica clinica per contrastare, nella donna in postmenopausa, gli effetti negativi della carenza di estrogeni sul metabolismo osseo. Trova applicazione nella prevenzione di fratture osteoporotiche. Sono in corso (2018) studi per la sua approvazione come trattamento per la prevenzione del tumore alla mammella.

 

 

 

È vero che i bifosfonati, farmaci utilizzati per la cura dei casi seri di osteoporosi, hanno gravi effetti negativi?

 

La prevalenza della patologia di osteonecrosi della mascella in una popolazione oncologica è stata stimata tra il due e l'11%, anche se le previsioni più recenti dei dati hanno mostrato che la vera incidenza è più vicina alle due-3%. Il numero di coloro che sviluppano osteonecrosi tra chi prende bifosfonati per via orale è di 1/2260 come Massimo e di 1/8470 come minimo, cioè tra lo 01 e lo 0,5%. Il rischio di dover ricorrere alla chirurgia della mascella e di sviluppo di infiammazioni o osteomielite è del 3,15% superiore in coloro che assumono bifosfonati di per la chirurgia e dell'11,48% per la patologia infiammatoria. Il rischio per i pazienti trattati con bifosfonati orali rispetto a bifosfonati via endovena è compreso tra lo 0,65 e il 4,01 e per quelli che hanno sviluppato casi gravi che richiedono la chirurgia della mascella e tra lo 0,86 e il 7,8 (593).

I bifosfonati di si sono dimostrati utili per mantenere la massa ossea dopo la cura con il teriparatide o il PTH sintetico (593).

I bifosfonati ti sono assimilati solo all'1% e sono rapidamente tolti di mezzo dalla circolazione, ma almeno il 50% della dose si concentra nello scheletro, principalmente nei siti di rimodellamento attivi, mentre il resto è escreto dalle urine. Sulla superficie delle ossa i bifosfonati inibiscono il riassorbimento delle ossa e sono successivamente incorporati nell'osso dove rimangono per lungo tempo e sono farmacologicamente inattivi. L'eliminazione dei bifosfonati dal corpo è multiesponenziale e molto lenta: per eliminare la metà dei bifosfonati ti sono necessari 10 anni e un bifosfonati è stato trovato nelle urine dei pazienti fino a otto anni dopo la cessazione della cura (593).

Tutti i bifosfonati che sono somministrati in adeguata dose giornaliera riducono significativamente il rischio di fratture vertebrali di una percentuale compresa tra i 35 e i 65%. Il rischio si riduce, per le fratture vertebrali già dopo un anno di trattamento. L'efficacia dei bifosfonati nel ridurre il rischio di fratture non vertebrali è attestato in un certo numero di studi a controllo randomizzato: il rischio totale in donne con osteoporosi senza fratture vertebrali si riduce del 23% o del 20% a seconda del tipo di medicinale e addirittura del 90% con un altro medicinale. La riduzione delle fratture dell'anca è stata del 53% con un tipo di medicinale e del 26% con un altro tipo di medicinale con un tipo di medicinale è stato riferito una riduzione del 69% del rischio di fratture non vertebrali (593).

Ci possono essere effetti gastrointestinali avverse che riducono l'adesione delle persone al trattamento. La cura con i bifosfonati di riduce inizialmente riassorbimento osseo e successivamente a riduce in modo più lento il tasso di formazione di nuove ossa, dato l'accoppiamento dei due processi e entro tre-sei mesi dopo l'inizio della cura si raggiunge un punto di turn over più basso rispetto a quello iniziale. Questo livello di turn over osseo rimane costante durante l'intero periodo del trattamento dimostrando che l'accumulo di bifosfonati di nello scheletro non è associato ad un effetto cumulativo sul turn over osseo. Sembra che i bifosfonati possano anche migliorare l'architettura trabecolare e corticale dell'osso (593).

Sono state manifestate preoccupazioni circa il fatto che la diminuzione di lungo termine del ritmo di rimodellamento osseo provocata dai bifosfonati possa compromettere l'integrità ossea conducendo ad un aumento di fragilità. Numerosi studi in differenti modelli animali e con un ampio ventaglio di dosi ed intervalli di tempo hanno mostrato in maniera consistente che la forza delle ossa è mantenuta o migliorata. Solo in uno studio con alte dosi di un tipo di bifosfonati in cani si è avuto un incremento dell'incidenza di fratture. C'è stata una segnalazione di rilevamento di micro danni accumulati in ossa di cani sottoposti a biopsie, ma questo non è stato confermato in successivi studi animali. Negli studi controllati sugli esseri umani l'incidenza di fratture non vertebrali non è aumentata con la terapia a lungo termine con i bifosfonati e i marker di turn over osseo sono aumentati dopo la cessazione della cura, che dimostra che l'osso si mantiene metabolica mente attivo anche dopo la cura con i bifosfonati. Soggetti che sono stati trattati con teriparatide dopo essere stati trattati con bifosfonati di hanno mostrato una pronta ripresa dei marker del turn over osseo (593).

In anni recenti sono state manifestate preoccupazioni riguardo una possibile relazione tra fratture insolite a bassa energia del femore e del bacino di uso a lungo termine di bifosfonati di. Queste fratture atipiche del femore sono spesso precedute da dolore, possono essere bilaterali e la guarigione può avvenire in ritardo. Queste fratture sono rare, e ricorrono in una percentuale di circa l'1% in tutte le fratture del femore e occorrono più frequentemente in pazienti trattati con bifosfonati di rispetto a pazienti che non sono stati trattati. Tuttavia un'associazione causale tra bifosfonati di fratture atipiche non è stata ancora provato, comunque sembra che il rischio aumenti con l'aumento della durata della esposizione ai bifosfonati (593).

La osteonecrosi della mascella è rara in soggetti con osteoporosi trattata con bifosfonati e ha un'incidenza compresa tra 1/10000 soggetti e meno di 1/100000 soggetti per anno e appare comunque aumentare con la durata della cura. In due studi clinici che monitorare vanno gli effetti di infusioni annuali di bifosfonati di fino a tre anni si sono avuti solo due casi di osteonecrosi su 9892 pazienti con osteoporosi ed uno era nel gruppo di controllo (593).

Secondo molti ricercatori, i bifosfonati di sono molecole relativamente sicure e i loro benefici sicuramente superano i rischi potenziali. Effetti avversi specifici dei bifosfonati di nella cura dell'osteoporosi includono tossicità gastrointestinale assicurata associata con l'uso orale, in particolare con l'uso giornaliero. I sintomi sono più acuti all'inizio della esposizione al medicinale. I reni sono la principale via di eliminazione dei bifosfonati di e l'uso dei bifosfonati di è controindicato in pazienti con grave insufficienza renale. La tossicità renale dei bifosfonati di somministrati endovena non costituisce motivo di preoccupazione purché le istruzioni per la somministrazione siano seguite strettamente. Uno studio ha rilevato un incremento significativo della fibrillazione atriale, ma un altro studio non l'ha confermato (593).

 

 

 

I supplementi di vitamina A danneggiano le ossa?

 

Comunemente si ritiene che la vitamina A favorisca l'osteoporosi anche a livelli molto al disotto di quelli considerati tossici. Per questa ragione alcuni autori si spingono a sconsigliare di assumere vitamina D dall'olio di pesce, perché esso è anche ricco di vitamina A, che potrebbe interferire con l'azione della vitamina D.

L'intossicazione da vitamina a può causare ipercalcemia. Questo può succedere grazie all'uso eccessivo di supplementi o di preparati dermatologici a base di vitamina A (189).

Sono state avanzate diverse ipotesi per spiegare gli effetti avversi della vitamina A sulla salute delle ossa:

  La vitamina A potrebbe legarsi ai recettori RXR, che sono sensibili anche dalla vitamina D, impedendo quindi a quest'ultima di attivarli.

  L'acido retinoico, la forma attiva della vitamina A, può far sì che la vitamina D venga idrossilata nella forma inattiva 24(OH)D anziché nella forma attiva 25(OH)D

  La vitamina A può contrastare l'assorbimento di calcio intestinale promosso dalla vitamina D

Un serio studio scandinavo del 2001 in doppio cieco mostra incontrovertibilmente che mentre la vitamina A abbassa i livelli sierici di calcio, la vitamina D li innalza (212). Gli autori dello studio ipotizzano che la vitamina A antagonizzi l'assorbimento del calcio intestinale ad opera della vitamina D. Gli studi mostrano tuttavia che è sufficiente una quantità di 900 UI di vitamina D per eliminare del tutto gli effetti avversi della vitamina A.

La maggioranza degli studiosi ritiene che il beta-carotene sia più sicuro perché viene trasformato quando necessario.

La vitamina A non ha effetto sull'ormone PTH.

Era già noto sin dal 1925, anno della scoperta della vitamina A, che ad altissime dosi, pari a 10.000 volte la RDA, la vitamina A è tossica per le ossa, provoca fratture spontanee e lesioni scheletriche negli animali da laboratorio, nessuno escluso (conigli, ratti, maiali, cani, polli).

Nel 1998 un gruppo di ricercatori svedesi ha scoperto che andando dal sud al nord Europa il rischio di frattura si moltiplica di 7 volte. In Scandinavia si registra una assunzione di supplementi di vitamina A ben 6 volte superiore a quella del resto dell'Europa. Lo studio ha rilevato che nei paesi scandinavi una assunzione di retinolo sopra le 5.000 UI, rispetto ad una assunzione di 1.700 UI comportava una diminuzione del 6% nella BMD (Body Mass Density), con un decremento del 10% nell'anca, e un raddoppio del rischio di frattura (208). Fu notato, però, da altri ricercatori, che la Scandinavia, sebbene l'assunzione di supplementi di vitamina A è molto elevata, c'è anche un deficit diffuso di vitamina D a causa della scarsa irradiazione solare, e quindi la correlazione tra vitamina A e patologie ossee rimase in dubbio, potendo queste essere invece attribuite alla deficienza di vitamina D.

A partire da questa prima ricerca, sono stati pubblicati numerosi altri studi, con risultati contrastanti circa il rapporto tra vitamina A e danno osseo:

Nel 2001 Ballew et al. non trovarono alcuna correlazione nella coorte del Third National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES III)

Nel 2002 Feskanich et al. riscontrarono che dosi superiori a 6.700 UI al giorno di retinolo, ma non di beta-carotene, erano associate ad un consistente aumento del rischio di frattura.

Nel 2002 Promislow et al., notò una "curva ad U": dosi di 2.000-2.800 UI producevano la più grande BMD, mentre con dosi inferiori o superiori la BMD diminuiva. L'associazione era più forte per le donne in menopausa che per gli uomini.

Nel 2003 Michaelsson et al. riscontrarono una curva simile tra gli anziani di Uppsala relativamente al rischio di fratture con un rischio aumentato del 167% rispetto dei soggetti a più alto consumo di vitamina A rispetto a quelli che erano nella media.

Nel 2004 Opotowsky et al., riscontrarono anch'essi una curva che associava a livelli superiori e inferiori al range 1,9-2,13 nMol/L un raddoppio del rischio di fratture.

Nel 2004 Lim et al., studiando 41 donne dell'Iowa in menopausa, scoprirono che il gruppo che assumeva supplementi di vitamina A aveva il doppio delle fratture del gruppo che non li utilizzava, ma, sorprendentemente, non hanno trovato alcuna correlazione statistica tra le dosi assunte e il livello del rischio.

Nel 2005 Barker et al. non hanno trovato alcun legame tra i livelli di vitamina A delle donne britanniche ultrasettancinquenni e il numero di fratture.

Alcune di queste ricerche hanno mostrato che coloro che ottenevano la vitamina A dal cibo - normalmente in forma di provitamina betacarotene - non mostravano una correlazione significativa con patologie ossee: vuol questo dire che il colpevole è solo la vitamina A sintetica (retinolo)? Non necessariamente, asseriscono altri ricercatori, perché questo potrebbe spiegarsi con i più bassi livelli di vitamina A ottenuti da coloro che la assumono dai cibi. Se si aggiustano al ribasso i valori per coloro che assumono vitamina A alimentare, appare ancora una curva ad "U" rovesciata del rischio di fratture e decalcificazione del rachide, del femore e dell'anca.

Nel 2003 Myhre et al. hanno riscontrato che quando somministrata insieme a vitamina D, la tossicità della vitamina A si riduce notevolmente (209).

Uno studio del 2003 ha mostrato che in un campione di donne delle province di Uppsala e Vastmanland ha mostrato che esse assumono da un ventesimo a un qarantesimo della RDA raccomandata. Il ricercatore Chris Masterjohn ha quindi ipotizzato che la tossicità della vitamina A può avere a che fare con un concomitante bassissimo introito di vitamina D. In effetti, lo studio di Feskanich et al., quando i risultati sono stati aggiustati per tenere conto dei diversi introiti di vitamina D, hanno mostrato una correlazione tra livelli di vitamina A e fratture ancora esistente, ma molto meno pronunciata.

Lo studio di Feskanich suggerisce inoltre che il legame tra vitamina A e fratture è molto più pronunciato in donne in menopausa che non ricorrono a terapia ormonale sostitutiva, mentre diviene statisticamente non significativa in quelle che assumono ormoni durante la menopausa.

Sembra ragionevole concludere, quantomeno, come alcuni ricercatori scandinavi coinvolti in questi studi hanno ipotizzato, che alte dosi di vitamina A aggravano l'effetto dell'ipovitaminosi D sull'assorbimento del calcio (211).

Gli studi mostrano che mentre la vitamina D principalmente diminuisce la demolizione ossea, la vitamina A principalmente la stimola. In un certo numero di casi, la vitamina A ha mostrato di poter produrre ipercalcemia stimolando la demolizione ossea. Tuttavia normalmente prevale l'effetto inibitore dell'assorbimento di calcio intestinale e quindi l'effetto netto è ipocalcemia (189).

Le forme attive di vitamina a e D, acido retinoico e calcitriolo rispettivamente, sono entrambi ormoni, che sono segnali che causano cambiamenti nelle cellule alterando l'espressione di geni o attivando uno o un altro enzima dentro la cellula che porta avanti qualche funzione. L'acido retinoico attiva il riassorbimento osseo aumentando il numero è l'attività degli osteoclasti. Inoltre diminuisce la crescita degli osteoblasti. Il ruolo tradizionalmente attribuito al calcitriolo è di inibire il riassorbimento osseo, ma topi che non hanno recettori della vitamina D hanno un alterato riassorbimento osseo, e questo indica che il calcitriolo svolge un ruolo anche nello stimolare il riassorbimento osseo (189).

L'attività di stimolazione del riassorbimento osseo della vitamina a è importante per la salute delle ossa Opotowski e colleghi hanno trovato che bassi livelli di vitamina a, esattamente come alti livelli di vitamina a hanno l'effetto di abbassare la densità ossea, il che suggerisce che la deficienza di vitamina a può contribuire ad aumentare il rischio di fratture facendo sì che la matrice ossea cresca più velocemente rispetto a quanto può essere mineralizzata (189).

L'effetto netto della vitamina a è di stimolare gli osteoclasti e di rallentare la crescita degli osteoblasti. La vitamina a causa anche la secrezione, da parte degli osteoblasti, di una varietà di enzimi e di altre proteine che sono importanti per la mineralizzazione dell'osso, inclusa l'osteocalcina, che è una proteina che gioca un ruolo diretto nell'attrarre e vincolare il calcio nella matrice ossea. Rallentando la crescita della matrice ossea ma incrementando il ritmo al quale mineralizzata, un adeguato apporto di vitamina a aiuta ad assicurare una sufficiente densità ossea (189).

Sia nei ratti che negli umani, la vitamina a ant agonizza la crescita del calcio nel plasma del sangue che è indotta dalla vitamina D. Nei ratti, la diminuzione del calcio era seguita da un aumento del fosforo, ma misurazioni simili non sono state fatte negli esseri umani.

Sebbene l'effetto netto delle vitamina a sia di promuovere il riassorbimento, mentre l'effetto netto della vitamina D è di inibire il riassorbimento, ciascuna vitamina gioca un ruolo nel processo opposto: i topi che non hanno recettori della vitamina D perdono la loro abilità di avere riassorbimento osseo e uno studio ha mostrato che la vitamina A inibisce il riassorbimento osseo. La vitamina aumenta anche la produzione di fattori di crescita alcuni dei quali stimolano i osteoclasti e dunque la crescita ossea. Quindi è semplicistico dire che le due vitamine sono semplicemente "antagonistiche" (189).

Sebbene è vero che quando la vitamina a e la vitamina D sono amministrate insieme la vitamina D tende ad abbassare il fosforo e ad alzare il calcio, mentre la vitamina a tende ad abbassare il calcio e ad aumentare il fosforo, i meccanismi molecolari non sono ancora stati compresi. La vitamina D è necessaria per l'assorbimento di entrambi i minerali dall'intestino, e potrebbe essere che la vitamina A agisce come un modulatore della vitamina D, controllando il grado di promozione di tale assorbimento, controllando il grado di assorbimento di un minerale rispetto all'altro.

Livelli plasmatici di retinolo sono considerati deficienti al di sotto di 0,7 micromole e insufficienti tra 1,05 e 1,1 micromole. Criteri più accurati hanno mostrato che livelli di 1,4 micromole sono necessari per attingere la sufficienza (189).

 

 

 

Esiste un calcolatore online che indichi i tempi di esposizione per una data latitudine, stato del cielo (sereno, poco nuvoloso etc.), superficie corporea esposta e un dato giorno dell'anno?

 

L'istituto norvegese per la ricerca atmosferica ha creato una pagina internet dove i tempi di esposizione per ricavare un dato ammontare di vitamina D sono calcolati con estrema precisione, sulla base dei dati di rigorosi studi scientifici:

 

https://fastrt.nilu.no/VitD_quartMED.html

 

 

 

Come si forma il tessuto osseo?

 

L'osso è un tessuto vivo che comprende per il 90-95% una matrice di collagene, un assortimento di altri tipi le proteine e cristalli di idrossiapatite, che sono composti principalmente da sali di calcio e di fosforo. All'interno dell'osso ci sono tre tipi di cellule: osteociti, che scavano canali e producono vasi sanguigni attraverso l'osso per fornire supporto nutritivo; osteoclasti, che secernono acidi ed enzimi che digeriscono le proteine i quali dissolvono l'osso; e osteoblasti, che supportano la crescita di nuovo osso secernendo la matrice a base di collagene, che poi attrae la deposizione di sali minerali. I precursori di osteoblasti ed osteoclasti giacciono sulla superficie dell'osso, e si sviluppano in cellule mature quando giunge loro l'ordine da certe molecole che fungono da segnali. Quando gli osteoclasti secernono nuova matrice ossea, alcuni di loro rimangono intrappolati nella loro stessa matrice e diventano osteociti (189).

Il riassorbimento osseo, attuato dagli osteoclasti, e la crescita ossea, attuato dagli osteoblasti, sono complementari e insieme compongono il processo di rimodellamento osseo, che consente alle ossa di ottimizzare la loro forma in risposta a stimoli ambientali, per far fronte alla riparazione di lesioni e per consentire al corpo di regolare strettamente i livelli di calcio. Durante l'infanzia e l'adolescenza il bilancio tra i due favorisce la crescita, finché non è raggiunto il picco di massa ossea tra i 25 e i 30 anni. Idealmente, la persistenza di un bilanciato rimodellamento osseo prosegue oltre questo punto, ma tipicamente, in età avanzata capita uno squilibrio a favore del riassorbimento osseo che contribuisce alla decrescita della densità ossea minerale e dunque all'osteoporosi (189).

I due processi di demolizione di ricostruzione ossea sono complementari. Osteoblasti e osteoclasti le regolano sinergicamente l'uno con l'altro. Sebbene gli osteoclasti attuino il riassorbimento dell'osso sono gli osteoblasti che iniziano questo processo, con la secrezione di segnali che causano lo sviluppo di osteoclasti maturi a partire dai precursori. Dopo che gli osteoclasti hanno demolito all'osso, vari fattori di crescita sono rilasciati dall'osso che a loro volta stimolano la maturazione degli osteoblasti. Quando gli osteoblasti maturano essi fanno sì che progressivamente vengano prodotti sempre meno segnali di attivazione degli osteoclasti e sempre più segnali di inibizione degli osteoclasti così che il riassorbimento osseo gradualmente rallenta e alla fine si arresta proprio all'inizio della ricrescita ossea (189).

L'osteocita, la cellula più abbondante nel tessuto osseo, è un ex-osteoblasto, il quale dopo aver secreto la matrice extracellulare rimane intrappolato nella lacuna ossea e diventa una cellula quiescente. Gli osteociti rimangono comunque collegati tra loro tramite prolungamenti che giungono fino al canale di Havers che ne consente il nutrimento. L'ex-osteoblasto in caso di trauma o frattura ossea può riprendere la sua attività sintetica (perché liberato) ritrasformandosi quindi in un osteoblasto. L'osteocita è contenuto in spazi di forma lenticolare dette lacune o osteoplasti. Al contempo, i suoi prolungamenti citoplasmatici sono alloggiati in canali o tunnel scavati nella matrice che prendono il nome di canalicoli, i quali sfociano nel canale di Havers, contenente i vasi sanguigni. I canali di Havers sono canali vascolari che percorrono il tessuto osseo lamellare compatto delle ossa piatte e nelle diafisi delle ossa lunghe. Essi differiscono dai canali di Volkmann a causa del diverso orientamento rispetto all'asse maggiore dell'osso, i primi infatti hanno un andamento parallelo mentre i secondi seguono un decorso trasversale. Il canale di Havers è la parte più interna dell'osteone ed è circondato da lamelle concentriche in numero variabile fra 8 e 15, con un minimo di 4 e un massimo di 24. Hanno la funzione di trasportare sostanze nutritive. Lungo i Canali di Havers decorrono fibre nervose, vasi sanguigni e vasi linfatici (592).

 

 

 

Che ruolo gioca il fosforo nel metabolismo osseo?

 

Il ruolo principale della vitamina D nella salute ossea non è di agire direttamente sulle cellule ossee, ma di aumentare l'assorbimento intestinale del calcio. Topi che hanno i recettori della vitamina D (VDR) cancellati sviluppano rachitismo e osteomalacia quando ricevono una dieta che contiene 1% calcio e 0,67% fosforo. Ma quando l'ammontare di calcio e fosforo è raddoppiato, si sviluppano normalmente (591).

Oltre agli ormoni calciotropi (PTH, FGF23, calcitriolo) il fosforo è sensibile ai glucocorticoidi (soppressione del riassorbimento renale) e all'ormone della crescita (stimolo del riassorbimento renale). Ma il fosfato plasmatico può variare indipendentemente da questi processi regolatori, ad esempio assumendo una elevata quantità di alimenti contenenti fosforo che viene acquisito tramite la via paracellulare. Anche il danneggiamento dei tubuli prossimali può provocare fosfaturia e ipofosfatemia (591).

 

 

 

Che ruolo gioca il magnesio nel metabolismo osseo?

 

Il magnesio è vitale per un cuore sano; aiuta a stabilizzare il ritmo cardiaco e gioca un ruolo chiave nel prevenire coagulazioni anomale del sangue nel cuore. Aiuta anche a mantenere normali livelli di pressione. Le ricerche hanno mostrato che il magnesio è altamente efficace nel ridurre la frequenza di attacchi cardiaci e ictus. È possibile che questa ridotta mortalità cardiovalscolare legata all'assunzione di magnesio sia dovuta al fatto che il magnesio contrasta gli effetti del calcio sul rischio cardiovascolare (385)

Il magnesio è necessario per la salute delle ossa, tuttavia, a differenza del calcio, il magnesio si trova in tutti i gruppi di alimenti ed è particolarmente ricco nei cibi di origine cellulare. Dunque, la deficienza di magnesio dovuta ad un inadeguato apporto non si verifica normalmente in mancanza di severe patologie intestinali o renali. L'assorbimento intestinale di magnesio è direttamente proporzionale alla assunzione con la dieta. Esperimenti hanno mostrato che quando l'introito di magnesio supera i 28 mg l'assorbimento supera l'escrezione e il bilancio del magnesio diventa positivo. Il magnesio viene assorbito con una efficacia tra il 35% e il 40% e la normale assunzione è tra 168 e 720 mg al giorno. L'assunzione netta di magnesio varia anche in relazione agli altri costituenti della dieta, come i fosfati che formano con il magnesio complessi insolubili e quindi riducono l'assorbimento del magnesio. In contrasto con la sua azione sull'assorbimento del calcio del fosforo, il calcitriolo non stimola l'assorbimento del magnesio (280).

Il magnesio è un naturale bloccante del calcio, che aiuta a modulare l'entrata del calcio attraverso i canali di calcio e il rilascio del calcio dalle riserve intracellulari, in particolare durante le fasi di attività elettrica delle fibre contrattili, che utilizzano gli spostamenti di calcio tra l'ambiente extracellulare e quello intracellulare per alterare le differenze di potenziale attraverso la membrana. La deficienza di magnesio è stata associata ad aritmie e i tessuti colpiti da infarto mostrano una deficienza di magnesio (526).

 

 

 

Che ruolo gioca il potassio nel metabolismo osseo? Assumere molta frutta e verdura migliora la salute delle ossa?

 

Due altri gruppi di alimenti sono stati pure associati alla salute delle ossa perché influenzano l'equilibrio acido-base: frutta e verdura, che lo influenzano positivamente, e carne, pesce e pollame, che lo influenzano negativamente. Amminoacidi solforati dal gruppo di alimenti della carne favoriscono un residuo acido che aumenta la calciuria, mentre la frutta e la verdura favorisce un residuo alcalino principalmente a causa del contenuto di potassio, che ha un effetto protettivo contro la perdita di calcio nelle urine. Tuttavia, studi recenti hanno contestato questo paradigma. Una meta analisi degli studi sul bilancio di queste sostanze non ha trovato prove per la ipotesi che le proteine nella dieta conducono a un bilancio negativo del calcio a dispetto dell'aumento della calciuria. La ipercalciuria è compensata dall'aumentato assorbimento di calcio o dalla diminuita secrezione endogena. L'introito delle proteine è collegato negativamente alla perdita ossea legata all'età, e i supplementi di proteine diminuiscono la frequenza delle fratture negli anziani. Una interazione tra proteine calcio è stata identificata in uno studio a controllo randomizzato. I soggetti del Framingham Study situati nel terzile più alto di assunzione di proteine che consumavano meno di 800 mg giornalieri di calcio avevano un rischio aumentato di 2,8 volte di frattura del bacino rispetto a quelli che erano nel terzile più basso di consumo di proteine, ma l'assunzione più elevata di proteine era associata con una diminuzione dell'incidenza di fratture quando l'assunzione di calcio era superiore 800 mg al giorno. A somiglianza delle proteine della dieta, il potassio riduce la calciuria, ma è compensato da un diminuito assorbimento di calcio così che non c'è alcun mutamento nel bilancio del calcio. Alcune verdure ed erbe hanno l'abilità di diminuire il riassorbimento osseo, ma l'effetto è indipendente dal carico alcalino o dal contenuto di potassio (481).

Altri indici di salute delle ossa, ad esempio la densità ossea e il turn over osseo variano direttamente col consumo di frutta e verdura. Un'alta assunzione di frutta nel passato è stata associata significativamente con un'alta densità ossea del collo del femore nelle donne in menopausa e con una più alta densità ossea della colonna vertebrale e del trocantere in questi soggetti. In modo simile, i componenti della dieta che producono residui alcalini, frutta e verdura, hanno mostrato, negli studi osservazionali, di contribuire alla conservazione della densità ossea in bambini sani che non soffrivano di deficienza di calcio (481).

Una significativa riduzione del turn over delle ossa è stata rilevata in risposta all'assunzione di potassio (481).

Heaney non ha trovato che il bilancio dell'escrezione urinaria del calcio venga migliorato dal potassio, perché questo provoca contemporaneamente un minor assorbimento intestinale di calcio. Ma forse - nota Heaney - questo è dovuto al fatto che nel loro esperimento il potassio proveniva da latticini e non da frutta e verdura (480).

Le patate sono eccellenti fonti di potassio e in generale sono un cibo fortemente rimineralizzante.

Sia la supplementazione di potassio che quella di calcio possono avere effetti benefici sulle ossa attraverso meccanismi separati. Il potassio, nella forma di citrato o di bicarbonato influenza le ossa neutralizzando il carico acido prodotto da un'alta assunzione di proteine o da un basso introito di cibi alcalini, come frutta e verdura. Il calcio è noto per fare diminuire l'ormone paratiroideo e il conseguente riassorbimento osseo. In un esperimento sono stati confrontati gli effetti di carbonato di calcio, citrato di calcio di citrato di potassio sui marke del calcio e del metabolismo osseo  in giovani donne Il citrato  di potassio diminuisce il riassorbimento osseo e aumenta la ritenzione di calcio. Solo il calcio carbonato ha mostrato di far diminuire il riassorbimento osseo. Questo studio suggerisce che il citrato di potassio un effetto positivo sul riassorbimento osseo nonostante un basso introito di calcio (596).

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

PARTE SECONDA

 

LA SALUTE IN GENERALE

 

 

 

 

 


 

È vero che le statine provocano la calcificazione delle arterie, aumentando la placca ateriosclerotica?

 

Le statine non vanno usate indiscriminatamente quando il colesterolo supera certi livelli, come prescrivono i protocolli clinici obsoleti ancora utilizzati da molti cardiologi. Infatti, nei soggetti non a rischio di accidenti cardiovascolari le statine non modificano minimamente la mortalità generale e solo di poco quella cardiovascolare (solo 1-2 pazienti apparentemente sani su 100 ottengono un beneficio dal farmaco), a fronte di pesanti effetti collaterali, e quindi sono perfettamente inutili. La clinica cardiologica più avanzata suggerisce oggi di riservare l'uso delle statine a coloro che hanno un profilo di rischio elevato, derivato da tutti i fattori rilevanti, escluso il colesterolo LDL e/o un indice di calcificazione coronarica (CAC), misurato con con la CT (tomografia computerizzata a singolo raggio) (351).

In base ai risultati delle attuali ricerche, citati dal dr. Eric Topol, solo 1-2 pazienti senza una preesistente patologia cardiaca beneficiano dell'uso di statine. 67 persone dovrebbero assumere una statina inutilmente per 5 anni perché un'altra eviti un attacco cardiaco. 267 persone dovrebbero assumere inutilmente una statina per 5 anni perché un'altra eviti un attacco cardiaco. E se il vostro profilo di rischio è più basso della media, le probabilità di un simile evento le probabilità che una statina vi sia utile sono ancora più remote (429).

Formulato in altri termini, un soggetto di 65 anni senza alcun segno di patologia cardiovascolare ma con colesterolo sopra i valori normali dovrebbe assumere statine per 10 anni, con tutti gli effetti collaterali connessi, con la prospettiva di diminuire il proprio rischio dall'11% al 9%. Si tratta chiaramente di una idea assurda.

Una analisi del 2011, considerando questi dati, e paragonandoli con i seri effetti collaterali delle statine, conclude che "non si è riscontrato un beneficio complessivo delle statine per pazienti senza una preesistente storia di patologia cardiovascolare" (354).

La valutazione più ottimistica dei vantaggi delle statine è quella della US Preventive Services Task Force, che a seguito di una meta-analisi degli studi clinici randomizzati riguardo le statine impiegate nella prevenzione primaria (cioè in soggetti che non hanno avuto incidenti cardiovascolari) ha concluso che esistono benefici nell'uso delle statine al disotto dei 75 anni di età (382). Su 10.000 pazienti si hanno 500 incidenti cardiovascolari in meno nell'arco di 5 anni, pari a 5 episodi ogni 100 persone, che potrebbe pur sempre essere considerato un vantaggio troppo basso per far assumere inutilmente statine alle rimanenti 95 persone. Lo stesso studio ammette che sono chiari i benefici per il trattamento sopra i 75 anni, considerando anche che l'uso delle statine accentua produce 75 nuovi casi di diabete mellito, 1 nuova rabdomiolisi e 5 nuove miopatie nello stesso gruppo di pazienti (344).

 

 

L'uso delle statine per la prevenzione primaria (relativa cioè a soggetti che non hanno già patologie cardiovascolari) in persone di età oltre i 65 anni ha modesti benefici riguardo gli accidenti cardiovascolari, e nessun beneficio riguardo la mortalità generale (336). Secondo il dottor Ross Walker, le statine andrebbero prescritte solo a soggetti che hanno già una patologia cardiovascolare, come un precedente attacco cardiaco, un bypass o uno stent o che abbiano una consistente placca aterosclerotica rivelata da una scansione ultrasonica delle carotidi o da una tomografia delle coronarie con CAC score superiore a 300 unità Agatston o maggiore del 75° percentile relativo alla propria fascia di età, sesso ed etnia) o un indice di pressione sistolica (indice tibio-brachiale) inferiore a 0,9 (339) (352) (353).

 

 

In tempi recenti, il colesterolo totale è stato depennato da primo fattore predittivo a fattore predittivo debole o sostituibile con altri (354). Il colesterolo totale diviene sempre meno predittivo di rischio cardiovascolare con l'avanzare dell'età (345). Il colesterolo LDL, che sembrava un forte predittore, è stato recentemente messo in dubbio da uno studio di Ravnskov e colleghi apparso nel 2016 sul prestigioso British Medical Journal. Lo studio è una meta-analisi basata su 19 studi di coorte su pazienti anziani, per un totale di 68.094 persone. In 16 coorti esiste una correlazione inversa tra LDL e mortalità cardiovascolare e in 14 di esse questo legame è statisticamente significativo. In 7 coorti non si è notata nessuna relazione significativa tra LDL e mortalità cardiovascolare. Solo in 2 coorti LDL era significativamente associato ad una più alta mortalità. Nel più vasto degli studi presi in esame, coloro che avevano un colesterolo LDL più alto vivevano persino più a lungo di coloro che assumevano statine (346), il che concorda con i risultati di un recente studio USA secondo cui coloro che assumono statine senza avere una anamnesi di patologie cardiovascolari vivono meno di coloro che le assumono (342). I ricercatori hanno concluso che "un alto colesterolo LDL è associato ad una più bassa mortalità nella maggior parte delle persone di età superiore ai 60 anni" e che "questi dati mettono in dubbio l'ipotesi del colesterolo come fattore aterogeno" (345). Due grossi studi del 2008 mostrano che l'abbassamento del colesterolo LDL non si traduce sempre in un abbasamento del rischio cardiovascolare e che persino alzare il colesterolo HDL non sempre si traduce in una riduzione di attacchi cardiaci (358).

 

 

Mentre un abbassamento del colesterolo potrebbe non essere una mossa significativa per ridurre il rischio cardiovascolare, in un editoriale del 2011 sul Journal of American Geriatric Society, John E. Morley, della St. Louis University, ricorda che esistono numerosi studi sugli effetti negativi, persino una incrementata mortalità, di un colesterolo basso. Newson e colleghi hanno riscontrato che un colesterolo totale e HDL più alti nelle persone anziane è associato con un rischio più basso di mortalità totale e non-cardiovascolare, dovuto in parte ad un minor rischio di cancro (360). Morley ammette però che la relazione causale non è accertata, e questa correlazione potrebbe non essere significativa. Una delle ragioni per cui il colesterolo basso è statisticamente associato ad una maggior mortalità è che si riscontra spesso un abbassamento del colesterolo in coloro che perdono peso, e la perdita intenzionale o non intenzionale di peso è associata statisticamente ad una maggior mortalità (361). Tra le ragioni suggerite per spiegare questo legame, ci sono la presenza di una patologia occulta legata alla perdita di peso, la perdita di massa muscolare e ossea, la perdita di cellule staminali adipose, e il rilascio di tossine liposolubili nel flusso sanguigno (360). La correlazione tra salute precaria e basso colesterolo può aiutare a spiegare la relazione inversa tra livelli del colesterolo con la mortalità nelle persone più anziane. Una ricerca epidemiologica italiana ha mostrato che le persone con colesterolo più basso erano quelle che non vivevano con i familiari, più anziane, più alta disabilità, più bassa salute generale o malnutrizione e difficoltà cognitive (362). Questa situazione è associata ad alti livelli di citochine e perdita di peso, che sono due condizioni che abbassano il colesterolo (361).

Sempre secondo gli stessi ricercatori, da tempo è noto che persone che lavorano, rispetto a persone anziane, che sono in pensione, hanno un livello di stress che alza il colesterolo e la viscosità del sangue (347), e questo potrebbe spiegare perché negli studi esaminati il colesterolo non possiede un grande valore predittivo per le persone anziane.

Uno studio recentissimo, che ha preso in esame i dati relativi a 300.000 individui in Asia, Austrialia e Nuova Zelanda, ha trovato che il colesterolo totale non era un fattore di rischio per coloro che non avevano altri fattori di rischio (348). Questo risultato concorda col fatto ben noto che il colesterolo LDL ha il massimo potere predittivo di incidenti cardiovascolari in individui con storia familiare di ipercolesterolemia. Tuttavia anche in questo caso esistono sicuramente altri fattori di rischio, perché gli studi mostrano che all'interno del gruppo di soggetti con alta colesterolemia familiare non c'è nessuna differenza nei livelli di LDL tra coloro che hanno avuto e coloro che non hanno avuto un incidente cardiovascolare, persino tra gemelli eterozigoti (349) e in tutti i (limitati) studi a controllo randomizzato sugli effetti dell'abbassamento farmacologico del colesterolo LDL in soggetti con ipercolesterolemia familiare non si è rilevato nessun abbassamento di rischio cardiovascolare e si è persino avuto un incremento di mortalità laddove il colesterolo LDL è risultato maggiormente abbassato (350).

 

 

John E. Morley, della St. Louis University, rileva che comunque, dato che un forte abbassamento del colesterolo totale non sembra avere effetti significativi sul rischio cardiovascolare, probabilmente i benefici della somministrazione delle statine possono essere ottenuti con basse dosi e moderati decrementi della colesterolemia (359). Altri, come il giornalista scientifico Gary Taubes, fanno notare come con tutta probabilità le statine influenzano la salute cardiovascolare con meccanismi di azione diversi dall'abbassamento del colesterolo, poiché esperimenti con altri tipi di molecole che abbassano pure esse il colesterolo, come Vytoril e Torcetrapib, non hanno parimenti fornito risultati positivi (369). Le statine potrebbero agire riducendo i processi infiammatori, mantenendo l'integrità della parete dei vasi sanguigni, riducendo il numero totale di VLDL (Very Low Density Lipoproteins), in particolare le particelle di dimensioni più piccole del colesterolo LDL e HDL. Se questo è vero, confermerebbe l'idea di Morley che non è necessario assumere le statine a dosi tali da provocare forti abbassamenti del colesterolo per beneficiare dei loro effetti.

 

 

Un elevato livello di colesterolo LDL, che viene considerato una delle indicazioni delle statine, potrebbe essere addirittura protettivo e non costituire un affidabile indice di rischio cardiovascolare. Molte persone a cui viene diagnosticata una malattia cardiaca non hanno un colesterolo LDL alto (427).

La American Heart Association ha abbandonato i criteri di valutazione del rischio cardiovascolare basati su LDL perché studi clinici negli ultimi tre anni non hanno riscontrato un consistente beneficio nel cercare di abbassare il colesterolo LDL a valori di 70 o 100. Le attuali linee-guida dell'American Heart Association, aggiornate nel 2013, indicano che le statine vanno prescritte solo a persone che rientrano in almeno una delle seguenti categorie: a) soggetti con colesterolo LDL sopra 190; b) soggetti con anamnesi di patologia cardiaca; c) soggetti diabetici di età compresa tra 40 e 75 anni; d) soggetti che hanno un rischio cardiaco a 10 anni superiore al 7,5% (429).

Può darsi che alcune componenti del colesterolo LDL siano protettive. Il colesterolo LDL contiene particelle piccole arricchite con trigliceridi  che le arterie captano e ossidano facilmente, e particelle grandi, che non sono aterogene e sono tra i fattori che alcuni studi mostrano associati ad  una eccezionale longevità (362). Un incremento di questa componente è associato a livelli più bassi della proteina CETP (Cholestryl Ester  Transfer Protein) e a una maggiore frequenza del fenomeno dell'omozigosi (due forme dello stesso gene ereditate dai due genitori) dell'allele valina 1405 della CETP (361). Ricerche recenti mostrebbero che è la dimensione delle lipoproteine che lo compongono che costituisce la migliore indicazione di rischio: un colesterolo LDL con lipoproteine più grandi è in realtà benefico (342) (359). Sia il colesterolo HDL che quello LDL hanno componenti di dimensioni più grandi e più piccole. Secondo diversi ricercatori, più grandi sono le dimensioni delle particelle del colesterolo, maggiore è l'effetto protettivo, non solo per il cuore, ma anche per il cancro e altre patologie diffuse. Un colesterolo LDL con componenti più grandi probabilmente aiuta a costruire migliori membrane cellulari, favorisce una migliore comunicazione intercellulare e contribuisce a formare una migliore barriera ematica cerebrale; è l'anello base del metabolismo degli steroidi ed è di vitale importanza per il metabolismo dei sali biliari e della vitamina D. Sono il colesterolo LDL fatto di particelle piccole e dense e il colesterolo HDL fatto di piccole particelle che sono aterogeni. Il primo veicola grassi nelle pareti delle arterie, mentre il secondo promuove infiammazione (342).

 

 

Gli studi per verificare questa ipotesi sono tutt'ora in corso. Hulthe e collaboratori hanno studiato 5.391 uomini clinicamente sani per indagare la relazione tra dimensione delle particelle del colesterolo LDL e la salute cardiovascolare. Hanno trovato una relazione significativa ma debole tra la dimensione delle particelle, la misura dell'ispessimento aterosclerotico della carotide e delle arterie femorali e una relazione negativa tra la dimensione delle particelle con le dimensioni e l'occorrenza della placca aterosclerotica in queste arterie (426).

Oggi esistono test lipidici avanzati come il Vertical Auto Profile (VAP), disponibile negli USA, che non permette solo di valutare il colesterolo totale, le lipoproteine HDL e le lipoproteine LDL, ma tutti i lipidi e le relative sottoclassi circolanti, incluse VLDL, IDL e lipoproteina A, per un totale di 15 componenti lipidiche ben distinte contro le 4 dei metodi tradizionali. In particolare vengono fornite anche le misure in nanometri delle particelle lipidiche (Particle Size Pattern). Nella Harvard Health Letter del maggio 2014 si afferma che in una certa percentuale di casi analisi come il VAP possono aiutare a stabilire l'esistenza (e presumibilmente l'inesistenza) di un rischio più alto (427).

In attesa che test avanzati come VAP arrivino anche in Italia, Boizel e collaboratori hanno proposto un metodo molto semplice per stabilire la presumibile dimensione delle particelle LDL (428). Il suo gruppo ha studiato 60 pazienti diabetici, e ha trovato che le dimensioni delle particelle LDL sono correlate negativamente al livello dei trigliceridi (indice di correlazione 0,52), e correlate ancora più fortemente (indice di correlazione 0,59) con il rapporto trigliceridi/HDL Nel 90% dei pazienti con particelle LDL di piccole dimensioni e nel 16,5% di quelli con LDL di dimensioni più grandi questo rapporto era di 1,33. Questo, insieme ad un valore di trigliceridi di 128 mg/dL sono i valori di discrimine tra LDL con particelle di piccole dimensioni e di dimensioni più grandi.

 

 

Accanto al profilo lipidico, oggi c'è un'altra misurazione che viene considerata un predittore molto migliore di rischio cardiovascolare: il CAC (Coronary Artery Calcium Score),

 

 

Le statine possono danneggiare la memoria a breve termine (368). Il meccanismo di azione non è noto. Potrebbe essere legato al fatto che promuovono aggressivamente una diminuzione del colesterolo nel sangue, e il colesterolo è essenziale per la formazione delle membrane cerebrali. Il 25% del colesterolo del nostro corpo si trova nel cervello, dove gioca un ruolo cruciale nella formazione delle connessioni tra neuroni, che sono alla base dei processi di apprendimento e memoria. Alcuni scienziati, come Ralph Edwards, che è stato dirigente del centro di monitoraggio dei farmaci OMS di Uppsala, si meravigliano che farmaci che attaccano in modo così violento una sostanza essenziale per il metabolismo cerebrale non hanno effetti drammatici sui processi cognitivi. C'è da notare tuttavia che non tutti gli studi mostrano un tale effetto. Larry Sparks, del Sun Health Research Institute in Arizona è scettico, e nota che un individuo ha più probabilità di vincere una lotteria o di essere colpito da un fulmine uscendo di casa che di sviluppare una compromissione cognitiva utilizzando statine". Molti ricercatori ritengono che per certe categorie di persone, ancora da identificare con precisione, il rischio sia concreto e alcuni ritengono che sia il loro profilo genetico che li rende vulnerabili. Se i mitocondri delle loro cellule cerebrali non funzionano correttamente, allora le statine potrebbero peggiorare la situazione. Uno studio del 2006 del genetista Giorgirene Vladutiu mostra che negli utilizzatori che denunciano dolori muscolo-scheletrici c'è una percentuale più alta di soggetti con difetti genetici legati alla produzione cellulare di energia. Questo può spiegare perché certi studi mostrano invece che in altri soggetti le statine sembrano migliorare la memoria e contrastare l'insorgere di demenza, anche questo attende conferma da ulteriori studi (370). Uno studio mostra anche che gli effetti avversi riguardano coloro che usano le statine più potenti.

 

 

Le statine promuovono alterazioni muscolo-scheletriche che insieme alle difficoltà di memoria possono compromettere la vita di relazione di una persona (335). Queste includono mialgie, miopatie, debolezza muscolare, dovute in parte all'elevazione dei livelli di CPK (Creatine Phosphokinase) (359), spossatezza, patologie della schiena e artropatie, danni da cadute (336) (337) (354). Questi sintomi sono più accentuati in soggetti con carenze di vitamina D (359). Gli studi volti a provare un effetto positivo delle statine sulla demenza senile non hanno riscontrato miglioramenti e in alcuni casi peggioramenti (363). Uno studio a controllo randomizzato ha addirittura mostrato che si registrano cambiamenti negativi nei processi affettivi (367). Le statine potrebbero danneggiare i muscolo o comunque interferire con la abilità del corpo di riparare gli insulti che ha subito durante l'esercizio fisico, nota il dott. Paul Thompson, cardiologo presso l'Hartford Hospital nel Connecticut, come suggeriscono uno studio del 2005 uno studio del 2012 di scienziati francesi (354).

 

 

Le statine possono provocare - in rari casi - danni al fegato (354) (358). Essendo comunque medicinali, è indubbio che affaticano fegato e reni specie se presi ad alte dosi.

 

 

Le statine possono provocare danni renali. Un grosso studio epidemiologico Condotto dalla UCLA a San Francisco su 43.438 soggetti seguiti da 4 a 6 anni, pubblicato nel 2015 sull'American Journal of Cardiology, mostra un incremento dal 30 al 36% di patologie renali tra coloro che utilizzavano statine rispetto al gruppo di controllo (371). Questi dati, se confermati da altri studi, sono preoccupanti.

 

 

Le prove che le statine promuovono il morbo di Parkinson sono ancora insufficienti. Qualche anno fa, uno studio condotto a Taiwan suggeriva che la percentuale di malati di Parkinson fosse più bassa tra coloro che assumevano statine. Più di recente, un nuovo studio, pubblicato sul Journal Movement Disorders ha riscontrato invece un incremento di questa malattia in coloro che assumono statine, in particolare statine liposolubili (atorvastatina, simvastatina) rispetto a statine idrosolubili (rosuvastatina, pravastatina) (340).

 

 

Le statine ad alte dosi promuovono calcificazione della placca arteriosa, specie delle carotidi, ma questo non si accompagna ad una aumentata frequenza di accidenti cardiovascolari . Questo apparente paradosso è spiegato dai medici col fatto che in realtà le dimensioni della placca paiono regredire: la calcificazione rende la placca più rigida, ma anche più piccola e più stabile, diminuendo le componenti necrotiche e ricche di lipidi ossidati che la rendono instabile e a rischio di rottura e produzione di un trombo (377). Pare che le statine, abbassando il colesterolo LDL, ne provochino una diminuzione entro la placca, e per lo stesso motivo pare provochino anche un rallentamento della progressione della stenosi delle coronarie (378). Per contro, non esistono dati sugli effetti delle statine in individui che non hanno placca ateriosclerotica: si producono egualmente calcificazioni? È del tutto evidente che necessitano altri sudi sull'argomento (ad esempio: le statine hanno effetto calcificante anche su individui che non hanno placca ateriosclerotica?) e che fino a quel momento occorre assumerle solo se è assolutamente necessario farlo.

 

 

Le statine provocano diabete. Questo è stato alla fine riconosciuto dall FDA che nel febbraio 2012 ha emanato un avvertimento e ha imposto la menzione di questo rischio nei foglietti illustrativi delle statine (354). Numerose meta-analisi condotte in anni recenti hanno stabilito senza ombra di dubbio un legame tra diabete e statine, anche se il rapporto causale non è ancora stato provato. La FDA ha emanato nel febbraio del 2012 un avvertimento circa il rischio di aumento dell'emoglobina glicata e della glicemia in pazienti che assumono statine. Le categorie più a rischio appaiono essere gli anziani e le donne (356). Uno degli studi condotti ha trovato un incremento del 27% del rischio di diabete con le statine più potenti come resurvastatina (357). Uno studio canadese che ha preso in esame 471.250 pazienti sani nel corso di 14 anni ha concluso che rispetto a coloro che assumono statine meno potenti (pravastatina, fluvastatina, lovastatina) coloro che assumono le statine più potenti (simvastatina, atorvastatina) hanno un aumentato rischio di diabete (31-34 casi di diabete in più ogni 1000 persone) (355)

 

 

Ci sono alcuni che esprimono preoccupazione riguardo il fatto che le statine, abbassando aggressivamente il colesterolo, possono interferire con la sintesi della vitamina D3 nella pelle, che avviene per irradiazione del 7-deidrocolesterolo, una forma di questa molecola (47), ma questo non è stato ancora provato.

5 persone su 100 tra quelle che assumono statine accusa dolori e/o debolezza muscolare, una persona su 167 sviluppa diabete nell'arco di 5 anni.

 

 

Prima di considerare la possibilità di prendere statine una persona dovrebbe modificare lo stile di vita eliminando alcuni fattori di rischio (fumo, sedentarietà, obesità addominale, cattive scelte dietetiche) e attenuare l'effetto di patologie che possono essere tenute sotto controllo, come ipertensione e diabete: gli studi mostrano che con semplici cambiamenti si può abbassare il rischio del diabete del 58%. Può provare ad elevare il proprio colesterolo HDL, ad esempio assumendo niacina, una delle vitamine del gruppo B. Le statine non si rivelano particolarmente utili in soggetti con demenzia o salute molto precaria con più processi patologici in corso o persone che registrano un elevato numero di cadute o persone che sono già gravate dalla assunzione di numerosi farmaci (359).

 

 

Per quanto riguarda la prevenzione secondaria (di persone che hanno già avuto un incidente cardiovascolare, gli studi epidemiologici mostrano invece una notevole efficacia delle statine. In uno studio che ha riguardato 19.569 persone anziane di età compresa tra 65 e 82 anni, si è riscontrata una diminuzione della mortalità generale del 22%, della mortalità coronarica del 30% e della mortalità per ictus del 23% (364). Un altro studio epidemiologico di pazienti di età compresa tra 65 e 80 anni con compromissione coronarica accertata ha mostrato addirittura una riduzione del 50% della mortalità generale in quelli più anziani e del 30% in quelli più giovani (366). Altri studi, a controllo randomizzato mostrano risultati positivi meno accentuati ma indiscutibilmente positivi (365).

Non esistono tuttavia prove di qualche beneficio delle statine a persone di età superiore a 80 anni. Esse dovrebbero essere somministrate solo a pazienti con compromissione coronarica accertata e/o alti livelli di colesterolo LDL con una dimensione piccola delle particelle che lo compongono (359).

 

 

Coerentemente con i risultati dello studio di Ravnskov e colleghi, le linee-guida più avanzate per la prevenzione cardiovascolare avevano già abbandonato il colesterolo totale e il colesterolo LDL come criteri per la somministrazione di farmaci, sebbene alti livelli di LDL siano fortemente associati ad un più alto rischio cardiovascolare. Di fatto, come notano alcuni l'obesità e il profilo lipidico sono tra i predittori associati alle percentuali di rischio più basse (344). L'indicazione fornita dal colesterolo LDL deve essere inquadrata in un profilo di rischio alto, ottenuto da altri indicatori, come il Body Mass Index, lo stile di vita, l'anamnesi personale e familiare. Questo profilo è oggi ottenuto con QRISK, un calcolatore, disponibile anche online (https://qrisk.org/2017/index.php), che indica il rischio percentuale di un attacco cardiaco nei 10 anni successivi, confrontandolo con quello di individui sani della stessa fascia di età e sesso. QRISK è stato messo a punto nel Regno Unito ed è basato su vasti studi epidemiologici, come il celebre Framingham Study o studi su coorti di pazienti inglesi. Per coloro che non hanno una storia familiare di dislipidemia, patologie cardiovascolari in atto, diabete di tipo I o con insufficienza renale, le linee-guida dell'UK National Institute for Health and Care Excellence (NICE) raccomandano di iniziare il trattamento farmacologico solo quando la percentuale di rischio ottenuta con tale calcolatore supera il 10% (344).

 

 

Esistono diversi calcolatori del rischio cardiovascolare a 10 anni che vengono utilizzati dai cardiologi per stabilire se utilizzare le statine o no, che sono disponibili anche online:

  QRISK

Disponibile online (www.qrisk.org/2017/)

È utilizzato dai cardiologi inglesi, da cui è stato messo a punto, e l'indicazione per il trattamento con le statine si ha quando il rischio supera il 10%

  CVRISKCALCULATOR

Disponibile online (www. cvriskcalculator.com)

È stato messo a punto dall'American Heart Association e l'indicazione per il trattamento con le statine si ha quando il rischio supera il 7,5% (379).

  MESA Risk Score Calculator

È un calcolatore basato sui risultati dello studio MESA (Multi-Ethnic Study of Atherosclerosis), uno studio iniziato nel 2000-2002 che riguarda 6.814 soggetti inizialmente asintomatici negli USA e che è tuttora in corso e che monitora i loro parametri cardiovascolari, confrontandoli con i fattori di rischio.

È un calcolatore che a differenza degli altri si basa su studi rigorosi volti ad integrare in fattori tradizionali con il CAC score per migliorare ulteriormente la previsione del rischio a 10 anni (381).

Disponibile online (www.mesa-nhlbi.org/MESACHDRisk/MesaRiskScore/RiskScore.aspx)

  MDCalc

È un calcolatore online basato sul Framingham Heart Study (www.mdcalc.com)

  HeartScore

È il calcolatore online dell'European Association of Preventive Cardiology (www.heartscore.escardio.org)

  Progetto CUORE risk score

Disponibile online (http://www.cuore.iss.it/sopra/calc-rischio_en.asp)

  National Cholesterol Education Program (NCEP) calculator (http://www.globalrph.com/atp_calc.htm)

È un calcolatore che a differenza di altri include nel calcolo trigliceridi, LDL accanto agli altri fattori.

 

 

Qual è il calcolatore migliore? Amir A. Mahabadi e colleghi, dell'Università di Disburse-Essen, in Germania, hanno seguito per dieci anni 3.475 soggetti di età media 59 anni senza patologie cardiovascolari (372), stabilendo quali di essi sarebbero stati considerati a rischio secondo le indicazioni dell'American Heart Association/American College of Cardiology e quali sarebbero stati considerati a rischio secondo le indicazioni della European Society of Cardiology e hanno confrontato queste valutazioni con i dati riguardanti la CAC (Coronary Artery Calcification) dei soggetti ottenuti con la tomografia computerizzata a raggio elettronico (CT). Solo 1288 (34,4%) erano da considerare a rischio tale da raccomandare la terapia con statine seocndo i criteri dell'ESC, mentre ben 2101 (59,8%) erano quelli da trattare con le statine secondo l'AHA. 60 soggetti che nei dieci anni successivi hanno avuto un incidente cardiovascolare non rientravano nei criteri ESC, mentre solo 19 erano sfuggiti ai criteri AHA. I soggetti con un punteggio Agatston di 400 o più avevano una probabilità 10 volte maggiore di incidenti cardiovascolari rispetto a quelli con un punteggio pari a zero. La frequenza di soggetti con CAC bassa o pari a zero era alta tra coloro per cui AHA e ESC raccomandavano statine. Lo studio di Mahabadi e colleghi mostra che oggi il cardiologo deve integrare l'analisi dei tradizionali fattori di rischio con le risultanze della CAC: solo così può evitare di prescrivere le statine a persone che non ne hanno bisogno. Purtroppo questa misura non è implementata nella pratica corrente: solo uno dei calcolatori indicati sopra incorpora l'indice CAC (MESA Risk Score Calculator). I cardiologi dissuadono i soggetti che giudicano a basso rischio in base a valutazioni spesso ancora meno rigorose di quelle basate sui calcolatori di rischio dall'intraprendere una CT per misurare la CAC, e questo secondo chi scrive va giudicato negativamente.

 

 

I risultati del calcolatore vanno integrati tenendo conto di altre condizioni. Alcuni pazienti potrebbero non superare la soglia del 10% o del 7,5% del rischio ma vanno inclusi nel trattamento con statine:

  Persone con una anamnesi di incidenti cardiovascolari (attacco cardiaco, ictus, angina stabile o instabile, una patologia ischemica periferica, un attacco ischemico transitorio o un intervento di rivascolarizzazione coronarica o di altre arterie.

  Persone di età pari o superiore a 21 anni che hanno un livello di colesterolo LDL pari o superiore a 190 mg/dL

  Persone che diabete di tipo I o di tipo II di età compresa tra 40 e 75 anni

  Persone con un indice di calcificazione coronarica (CAC) stabilito con la tomografia a raggio elettronico pari o superiore a 400 punti Agatston.

 

 

Altri fattori o marker di rischio, detti fattori di rischio emergenti, diversi da quelli tradizionali, e che per questo non sono considerati dalla maggior parte dei calcolatori ma che potrebbero essere considerati sono (380):

  hs-CRP (High-Sensitivity C-Reactive Protein) ( ≥ 2 mg/dL) e in genere marcatori di infiammazione.

  ApoB (Apolipoprotein B)

  GFR (Glomerular Filtration Rate)

  Microalbuminuria

  Storia familiare

  Salute cardiorespiratoria

  ABI (Ankle-Brachial Index) ( < 0,9)

  CIMT (Carotid Intima-Media Thickness)

  CAC score (Coronary Artery Calcium Score) ( ≥ 300 unità Agatston o 75° percetile della stessa categoria di età, sesso ed etnia)

  Alterazioni della coagulazione del sangue e della fibrinolisi

  Sindrome metabolica

  Omocisteina

  Rigidità arteriosa

  Calcificazioni Mitro-aortiche

  Emoglobina glicosilata

Per alcuni di essi sono forniti i valori che giustificano una revisione al rialzo della probabilità calcolata, secondo le linee-guida dell'American Heart Association.

 

 

 

È vero che il Warfarin provoca la calcificazione delle arterie, aumentando la placca aterosclerotica?

 

Il Warfarin (nome commerciale: Coumadin) provoca una deficienza di vitamina K2 e causa calcificazione arteriosa. Molti medici non sanno quanto sia nocivo l’uso a lungo termine di Coumadin (più di 6 mesi) per le ossa e per il cuore (374):

  Il Coumadin impedisce la normale formazione di tessuto osseo per il suo effetto depressore sui livelli della vitamina K2 (ciò è dovuto al suo meccanismo farmacodinamico, che impedisce l’azione dell’enzima vitamina K epossido reduttasi al fine di ridurre la formazione dei fattori di coagulazione normalmente prodotti nel fegato e bloccando anche in tal modo la capacità di questo organo di riciclare la vitamina K.

  Il Coumadin contemporaneamente aggrava i rischi di rottura dellaparte arteriosa (dal momento che dalla deficienza di vitamina K2 può conseguire calcificazione delle arterie, specialmente se si assumono supplementi di calcio).

I dottori prescrivono il Warfarin perché è un vecchio e familiare farmaco senza nessuna alternativa fino a tempi recenti. Ma così facendo non tengono conto che adeguati livelli di vitamina K2 sono vitali sia per il normale funzionamento della costruzione ossea, sia per la salute cardiovascolare.

Nel 2004 e nel 2005 studi su oltre 100 soggetti hanno mostrato che quelli che assumevano anticoagulanti che bloccavano la vitamina K avevano due volte il grado di calcificazione di quelli che non li assumevano (375).

A molti pazienti con una storia clinica di fibrillazione atriale, attacco ischemico transitorio (c.d. mini-ictus) o accidenti cerebrovascolari come ictus sono prescritti farmaci anticoagulanti nel tentativo di prevenire ulteriori episodi. Alla maggior parte vengono prescritti farmaci che provocano un deficit di vitamina K, come il Warfarin (Coumadin) perché è ben noto ed è stato usato per lungo tempo. Ma in realtà non è necessario utilizzare questo tipo di anticoagulante, perché altri tipi di farmaci sono ora disponibili.

Molti anticoagulanti inibiscono l’attivitò del fattore Xa (activated coagulant Factor X). Alcuni di essi lo fanno indirettamente legando l’antitrombina in circolo, e sono noti come AT III. Ci sono gli anticoagulanti assunti per via endovenosa, come l’eparina non frazionata (UFH), l’eparina a basso peso molecolare (LMWH) e il fondaparinux.

Altri anticoagulanti, i cosiddetti VKA (Vitamin K Antagonists) riducono la sintesi nel fegato di molti fattori di coagulazione, incluso il fattore Xa. In questa classe rientrano farmaci popolari come il warfarin (Coumadin), il phenprocoumone, acenocumarolo che sono efficaci anche quando assunti oralmente. Si tenga conto che il warfarin è venduto anche come topicida.

Il Warfarin (Coumadin) provoca una deficienza di vitamina K2 e causa un assottigliamento delle ossa (376).

Nuovi farmaci orali che agiscono come diretti inibitori del fattore Xa sono entrati nella fase di sviluppo clinico e alcuni sono già disponibili. Essi includono rivaroxaban (Xarelto), apixaban, betrixaban, LY517717, darexaban (YM150), DU176b edoxaban. Dabigatran è un inibitore diretto della trombina. Sostituendo il Coumadin con Pradaxa, Xarelto (rivaroxaban) o una combinazione di Lovenox e aspirina è l’opzione migliore.

Fatto questo, i pazienti possono reintegrare le proprie riserve di vitamina K2 in modo da riparare in modo potenzialmente completo al danno, iniziando ad assumere vitamina K2, preferibilmente menaquinone-4, noto con la sigla MK-4.

 

 

 

Qual è la genesi dell'artrite reumatoide?

 

Nell’artrite reumatoide e nel lupus eritematoso sistemico il rivestimento sinoviale è il sito iniziale del processo di infiammazione. In condizioni fisiologiche, il sinovio forma una sottile membrana che riveste la superficie delle cavità delle giunture ed è responsabile per la produzione di fluido sinoviale e contribuisce alla lubrificazione delle giunture e alla nutrizione dei condrociti e popolano la cartilagine della articolazione. In pazienti con artrite reumatoide e lupus eritematoso sistemico, il sinovio diviene il sito di un intenso processo infiammatorio mediato dal sistema immunitario che produce una proliferazione sinoviale e la produzione di potenti citochine infiammatorie e di mediatori solubili che sono responsabili per i segni clinici della infiammazione delle giunture. In pazienti con artrite reumatoide questo processo infiammatorio alla fine porta alla distruzione del tessuto delle giunture (280).

La propensione della lesione sinoviale nell'artrite reumatoide ad indurre riassorbimento osseo ad opera degli osteoclasti può essere attribuita alla produzione da parte delle cellule all'interno del tessuto infiammato di una vasta varietà di molecole con la capacità di reclutare osteoclasti a partire dai precursori ed indurre la loro maturazione. Queste molecole includono un vasto spettro di chemiochine, come pure del fattore RANKL, dell'interleuchina-1, dell'interleuchina-1 11, dell'interleuchina 15, dell'interleuchina 17, del fattore di stimolazione delle colonie di monociti del fattore di  necrosi tumorale, di prostaglandine e del peptide legato all'ormone paratiroideo. Tra queste molecole, particolare attenzione è stata dedicata al RANKL, che è prodotto sia dai fibroblastisinoviali che dallee cellule di all'interno del tessuto sinoviale. Il ruolo critico di questa citochina nella patogenesi della erosione ossea è suggerito dalla osservazione che bloccando le attività di RANKL in modellianimali si ha come conseguenza una marcata attenuazione della erosione articolare. Il ruolo fondamentale di RANKL nel processo di riassorbimento osseo è ulteriormente provato dai risultati ottenuti in modelli genetici di animali con cancellazione di RANKL. I bifosfonati hanno il potere di ridurre la distruzione delle giunture negli esperimenti finora fatti, con l'unica eccezione di uno studio che ha dato risultati negativi. L'uso di bifosfonati, sia pure con tutte le limitazioni del caso può essere adottato per curare prevenire la perdita sistemica di osso. Numerosi studi recenti hanno mostrato l'efficacia del denosumab e ha come bersaglio la molecola RANKL nella prevenzione della perdita di osso in pazienti con artrite reumatoide, compresi quelli che sono trattati con glucocorticoidi (280).

La caratteristica finale dell'artrite reumatoide e la presenza di osteoporosi generalizzata. Numerosi studi hanno documentato che pazienti con artrite reumatoide hanno una densità minerale più bassa e un rischio aumentato di fratture confrontato con i gruppi di controllo.

L'artrite reumatoide è una patologia cronica degenerativa che colpisce sia i bambini che gli adulti e che è caratterizzata da un'infiammazione distruttiva delle giunture e del tessuto circostante, incluso l'osso. Cosa causa esattamente questo tipo di artrite non è ben conosciuto, ma si pensa che sia un disturbo autoimmune. È possibile che la deficienza di vitamina K2 possa essere un fattore di rischio per l'artrite reumatoide.

La classica distruzione dell'osso e dell'articolazione e si osserva nell'artrite reumatoide è causata dalla attivazione degli osteoclasti. Il sinovio, lo spazio pieno di liquido all'interno delle articolazioni contiene le stesse cellule che dissolvono le ossa come parte del processo di rimodellamento. Nell'artrite reumatoide, le cellule causano più distruzione di quanto il corpo possa riparare, conducendo al decadimento dell'articolazioni. Studi clinici hanno mostrato che la vitamina K2, da sola o in combinazione con medicamenti per l'osteoporosi tiene a bada i osteoclasti e previene il danno alle articolazioni in pazienti con artrite reumatoide. Studi in vitro hanno mostrato che la vitamina K2 inibisce la proliferazione gli altri cellule malate che si osserva nell'artrite reumatoide. Questo rende tale vitamina un nuovo promettente agente per la cura dell'artrite reumatoide, da solo o insieme ad altri farmaci antinfiammatori (280.

 

 

 

Ancora un po’ di fosforo? No, grazie.

 

Una tipica dieta occidentale contiene 1500 mg di fosforo; negli USA soggetti sani tra i 30 e i 49 anni consumano 1400 mg giornalieri di fosforo (473).

Alcuni studi mostrerebbero che sebbene il fosforo sia necessario per il bilancio osseo, un eccesso può portare a difetti scheletrici, ma gli studi riguardano animali a crescita veloce (es. ratti) e altri studi mostrano che variazioni anche notevoli  nelle dosi di fosforo gionraliero o nel rapporto dietetico calcio/fosforo non hanno influenza sull'utilizzazione netta del calcio o sul bilancio osseo. Quel che si può ragionevolmente dire, secondo Robert Heaney, è il fosforo nella dieta e la calciuria sono correlati inversamente, e che quando il fosforo aumenta il calcio plasmatico diminuisce lievemente, il fosforo plasmatico aumenta e i livelli di PTH aumentano e la superficie di deflusso osseo aumenta. Tuttavia gli studi sugli esseri umani non hanno mostrato un deterioramento nel bilancio del calcio. Alcuni studiosi vorrebbero trarre da questi fatti l'idea che un aumento dell'introito di fosforo porti all'effetto indesiderato di un deflusso osseo. Secondo Heaney il fosforo non lega apprezzabilmente il calcio plasmatico. Secondo Heaney il fosforo inibisce l'effetto di attivazione degli osteoclasti del PTH. L'apporto di fosforo può anche triplicare senza che il bilancio del calcio si deteriori. Né è vero che una lieve iperfosfatemia provoca la precipitazione di fosfato di calcio nei tessuti molli. Si è inoltre visto che con l'aumento di fosforo diminuisce la calciuria, ma aumenta l'escrezione intestinale del calcio, con effetto netto nullo. Robert Heaney cita diversi studi che mostrano come l'equilibtio del calcio non venga mutato assumendo dosi di fosforo giornaliere che vanno da 0,8 a 2 g (452). Numerosi studi mostrano che una deficienza di calcio e/o un eccesso di fosforo, con o senza uremia, provocano rapidamente iperplasia della tiroide negli animali di laboratorio (503).

 

Il potenziale nefrotossico di un eccessivo carico enterale di fosforo è stato inequivocabilmente dimostrato in animali. Mackay e Oliver, somministrando ai ratti una dieta con vari composti di fosforo inorganico hanno notato già dal terzo giorno incipienti lesioni renali. Il quindicesimo giorno le lesioni erano già macroscopiche, con necrosi dei tubuli convoluti seguita da una ricrescita anomala con calcificazione, e i reni avevano aumentato di peso (258). Il fosforo, a seconda della forma, può rendere una dieta acida o alcalina, ma questo non si è dimostrato rilevante: tutte le forme di fosforo inorganico producono questo risultato. (257)

Haut e collaboratori hanno mostrato che l'insufficienza renale aumenta i danni di un eccesso di fosforo (259) e che si verifica deposizione di fosfato di calcio nei reni. Una dieta povera di fosforo previene la calcificazione e il deterioramento funzionale e istologico dei reni di animali con insufficienza renale. Sia nel caso di insufficienza renale che di eccesso di fosforo si verifica un superlavoro dei nefroni per filtrare il fosforo, e questo può indurre calcificazione anche in assenza di aumentata fosfatemia. (259)

La nefrocalcinosi è una patologia associata alla deposizione di calcio e fosforo nei tubuli renali e ad acidosi dei tubuli distali, che si manifesta in vari stati ipercalcemici (iperparatiroidismo primario, neoplasie, sarcoidosi, intossicazione da vitamina D). (270)

C'è una incontrovertibile evidenza epidemiologica che l'iperfosfatemia, tipica di pazienti con insufficienza renale cronica agli ultimi stadi, aumenta la mortalità cardiovascolare e generale tra i soggetti in dialisi (265). In questi pazienti l'iperfosfatemia provoca iperparatiroidismo secondario e una predisposizione alla calcificazioe quando il prodotto calcio-fosforo è elevato (265). Questo potrebbe far sospettare che l'iperfosfatemia non sia semplicemente un marker della insufficienza renale, ma una vera causa di mortalità e di aggravamento della patologia renale. Di recente ci si è resi conto che l'insufficienza renale può essere un possibile effetto collaterale della somministrazione di fosfato di sodio in ambito ospedaliero. Decine di casi di danno grave e acuto sono stati segnalati a seguito di una sola somministrazione di fosfato di sodio (11,5 gr. di fosforo inorganico), una soluzione utilizzata come lassativo per la pulizia degli intestini nel caso di colonscopia e chirurgia addominale. Si tratta di una sindrome caratterizzata da insufficienza renale con deposito irreversibile di fosfato di calcio nei tubuli renali. Uno studio di Ori e collaboratori del 2008 cita ben 30 casi del genere riportati (270). In pazienti anziani, disidratati e con insufficienza renale cronica gli effetti della somministrazione di questo lassativo possono essere drammatici: acuta iperfosfatemia, gravissima ipocalcemia e danno renale (260). I pazienti assumono in due dosi, nell'arco di una giornata, una quantità di fosforo che è circa il 1200% della dose giornaliera. Circa il 43% di questa quantità di fosforo è assorbito nell'intestino e solo il 15% viene escreto dalle urine. Il danno renale è favorito dal fatto che questo lassativo agisce attirando acqua nell'intestino e deprivandone il plasma. Una bassa idratazione aumenta la sofferenza renale. Altri fattori aggravanti sono l'assunzione di sostanze che affaticano i reni come antinfiammatori non steroidei, ACE inibitori, ARB (Angiotensin Receptor Blockers) e diuretici. La disidratazione è un altro fattore che aumenta il rischio di danno renale. Un dato non spiegato è l'alta prevalenza di pazienti donne tra coloro che subiscono il danno renale da somministrazione di fosfato. Nel 2006 la FDA ha emanato un avviso circa i rischi di sviluppare una sindrome renale acuta a seguito della somministrazione di tale lassativo. In qualche caso, la somministrazione ha portato il soggetto agli stadi 3-5 della insufficienza renale nel corso di diversi mesi, indicando che un sovraccarico enterico di fosforo può creare ex novo insufficienza renale cronica.

A parte questi casi, non sappiamo se un cronico sovraccarico di fosforo nella dieta a dosi più basse può aumentare l'incidenza delle patologie croniche renali o aggravarle. Gli studi epidemiologici mostrano che l'iperfosfatemia è un fattore di rischio che aumenta la mortalità. Tonelli et al. hanno mostrato che tra i pazienti con precedente infarto, un aumento di 1 mg/dL dei livelli di fosforo comporta un aumento della mortalità generale pari al 27%. Pazienti con livelli superiori a 3,5 mg/dL avevano un rischio superiore del 27% (261), mentre Ganesh et al. hanno mostrato che tra i pazienti con insufficienza renale cronica esiste una correlazioe tra un elevato fosforo sierico, un elevato prodotto calcio-fosforo e un elevato PTH e mortalità per infarto coronarico, arresto cardiaco, infezione (262). Nei pazienti con insufficienza renale cronica le terapie di abbassamento della fosfatemia hanno migliorato gli indici di mortalità.

Il consumo pro-capite di fosforo negli USA è aumentato costantemente negli ultimi 40 anni, superando il 260% della dose giornaliera raccomandata (263). Non sono stati sinora condotti studi epidemiologici su vasta scala  per accertare se esista un legame tra assunzione di fosforo e prevalenza/progressione della patologia renale.

La stima della quantità giornaliera assunta è inaccurata nei rilevamenti ufficiali, che non tengono conto della quantità notevole, scarsamente specificata e variabile, di fosforo addizionato (principalmente come fosforo inorganico) negli alimenti lavorati (carni, formaggi, condimenti, bibite tipo coca-cola, prodotti da forno, cibo pronto ecc.) per la conservazione, la lievitazione, il tamponamento, l'emulsificazione, il mantenimento del colore, il miglioramento del gusto e la crioprotezione (264).

In generale, i cibi con alto contenuto proteico come le carni, il latte, le uova e i cereali hanno anche un alto contenuto di fosforo.

Il contenuto totale di fosforo del corpo di un uomo di 70 kg è approssimativamente 700 gr. Circa l'85% di questo fosforo è nelle ossa e nei denti (sotto forma di idrossiapatite), il 14% nei tessuti molli e solo l'1% nello spazio extracellulare. Il fosforo nelle cellule è presente principalmente nella forma di composti organici come il fosfato di creatinina, l'ATP, gli acidi nucleici, i fosfolipidi e le fosfoproteine. Nel plasma, il fosforo si presenta sia in forma organica che inorganica, ma nel laboratorio clinico è solo il "fosfato inorganico" che è misurato, con un range normale di 3-4,5 mg/dL. Meno del 20% del fosfato inorganico è legato a proteine. Inoltre, sebbene il laboratorio clinico normalmente esprime il fosforo misurato come "fosfato", è considerato solo il peso del fosforo elementare.

La concentrazione del fosforo extracellulare non è controllata strettamente quanto quella del calcio, e può variare ampiamente nel corso della giornata, con valori più bassi di prima mattina e valori massimi verso le 8 di sera; i livelli sono più alti nei mesi estivi rispetto a quelli invernali.

La concentrazione di fosforo nello spazio extracellulare è determinata dalle interazioni tra l'assorbimento intestinale, l'escrezione renale e gli scambi con le ossa e lo spazio intracellulare.

 

assorbimento intestinale

Il fosfato è assorbito nell'intestino tenue sia per diffuzione paracellulare passiva secondo un gradiente elettrochimico sia attivamente attraverso le cellule per mezzo del sodio-fosfato cotrasportatore di tipo 2b. Questo vettore è molto simile a sodio-fosfato cotrasportatori che si trovano nei tubuli renali e è stimolato anche dal calcitriolo, il metabolita attivo 1,25(OH)2D della vitamina D. Il nicotinamide è un ben noto inibitore di questi vettori e la somministrazione orale a pazienti in emodialisi produce una significativa riduzione dei livelli di fosforo sierico. Lo stesso effetto ha l'acido nicotinico, che nel corpo viene convertito in nicotinamide.

Sebbene la vitamina D aumenti l'assorbimento intestinale del fosforo di qualche misura, non è essenziale per il suo assorbimento gastrointestinale. In presenza di insufficienza renale, l'assorbimento di una dose standard di fosforo è del 60% in confronto all'80% nei soggetti di controllo. La somministrazione di calcitriolo ai pazienti con insufficienza renale si è mostrata in grado di aumentare l'assorbimento dal 60% all'86%.

Una dieta normale contiene approssimativamente 1500 mg di fosforo. L'assorbimento intestinale del fosforo, a differenza di quello del calcio, è legato da una relazione lineare all'introito di fosforo entro l'intervallo 4-30 mg/die. Perciò, il principale determinante della quantità di fosforo assorbita nell'intestino è l'ammontare di fosforo presente nella dieta, la sua biodisponibilità e la presenza di leganti naturali o farmacologici del fosforo.

 

escrezione renale del fosforo

Poiché il fosforo non è legato in quantità significative all'albumina, la maggior parte è filtrata nei glomeruli. Il tubulo prossimale riassorbe approssimativamente il 75% del fosforo filtrato, il tubulo distale approssimativamente il 10% e il 15% è perso nelle urine. Il principale trasportatore del fosforo nel lato luminale del tubulo prossimale è il 3Na-HPO4 cotrasportatore di tipo 2a (NPT-2a). L'attività di questo vettore è incrementata da bassi livelli sierici di fosforo e dal calcitriolo, e diminuita dall'ormone paratiroideo (PTH) e dalle fosfatonine. Ci sono due altri Na-P cotrasportatori, NPT-1 e NPT-3, che sembrano non essere fisiologicamente importanti. Il fosforo è trasportato fuori dalle cellule renali da uno scambiatore fosfato-anionico sito nella membrana basolaterale.

I principali fattori noti di incremento del riassorbimento tubulare dei fosforo includono il depauperamento del fosfato, il calcitriolo, la diminuzione di volume, l'alcalosi metabolica, l'ipocalcemia cronica e ormoni come insulina, estrogeno, ormone tiroideo e ormone della crescita. I fattori che diminuiscono il riassorbimento tubulare includono il PTH, le fosfatonine, l'acidosi, l'iperfosfatemia, l'ipercalcemia cronica e l'espansione di volume.

Il nome fosfatonina descrive un fattore osservato originariamente in pazienti con osteolamacia da tumore, che è responsabile dell'inibizione del riassorbimento renale del fosfato e dell'alterazione della regolazione della 25(OH)D-idrossilasi. Questo fattore, si è scoperto poi, è presente nel plasma anche in condizioni normali e i suoi livelli aumentano in una serie di circostanze associate con un alterato riassorbimento del fosforo. Sappiamo ora che ci sono numerose molecole che si qualificano come fosfotonine. Le prime due due ad essere descritte sono il FGF23 (Fibroblasg Growth Factor 23) e la proteina sFRP-4 (Frizzled Related Protein -4). FGF23 agisce direttamente sui reni per regolare la sintesi di calcitriolo e l'espressione sulla superficie delle cellule dei trasportatori NaP-2a e NaP-2c. Due fattori descritti recentemente, FGF7 e MEPE (Matrix Extracellular Phosphoglycoprotein) hanno dimostrato di inibire il trasporto del fosfato in culture di cellule spiteliali, e nel caso della MEPE, di indurre fosfaturia nei topi di laboratorio.

FGF23  si comporta come un ormone prodotto dagli osteoblasti e agisce sui tubuli renali inibendo il trasporto di fosforo e la sintesi del calcitriolo. Di recente si è scoperto che l'enzima klotho agisce come cofattore essrenziale per l'attivazione della segnalazione da parte di FGF23.

Le concentrazioni sieriche di FGF23 sono elevate nei pazienti con insufficienza renale cronica e in pazienti in emodialisi, ma lo stimolo che promuove questo aumento rimane incerto. È stato testato il potenziale effetto regolatore del PTH misurando i livelli di FGF23 in pazienti con iperparatiroidismo primario senza insufficienza renale cronica e non è stata trovata alcuna correlazione. Una ipotesi apprezzabile è che la sintesi di FGF23 è indotta dalla ritenzione di fosfato che ricorre in pazienti  mano a mano che la patologia renale progredisce. Esperimenti che tentano di dimostrare un effetto regolatorio diretto dei livelli di FGF23 di cambiamenti nei livelli sierici di fosforo in risposta a variazioni nell'assunzione di fosforo nella dieta di soggetti normali ha avallato questa idea tranne che in un caso.

 

scambio di fosforo con le ossa e con il compartimento intracellulare

Scambi tra il fosforo extracellulare e il fosforo osseo si verificano come conseguenza dell'omeostasi del calcio. Il deposito e il rilascio di fosforo nell'osso e dall'osso è accompagnato dal movimento del calcio nella stessa direzione, ma in un rapporto molare di circa 6:10 (in quanto il minerale di idrossiapatite contiene calcio e fosforo in tale rapporto). Questo rapporto molare è importante clinicamente, perché al rilascio di calcio segue il rilascio di fosforo in quantità molto minore. Ad esempio, in un paziene in dialisi con funzione renale totalmente compromessa, il rilascio giornaliero di 5 mmol di calcio (200 mg) porta ad un incremento potenziale del calcio sierico di 1,25 mg(dL (200 mg dissolti in 16 litri di spazio extracellulare), mentre il fosforo sierico aumenta solo di 0,58 mg/dL (2 mmol o 93 mg in 16 litri).

I fattori che regolano la ricaptazione di fosforo da parte delle fellule non sono stati ben delineati. È comunemente accettata l'idea che  il fosforo si muove passivamente verso l'interno delle cellule guidato dal gradiente chimico. L'assunzione di carboidrati e i cambiamenti nell'equilibrio acido-base possono causare rapidi e profondi cambiamenti nel fosforo sierico, spostando il fosforo dentro e fuori delle cellule.

lo scambio del fosforo in dialisi

Il fosforo è relativamente ben dializzato dai dializzatori maggiormente usati oggi. Le migliori apparecchiature sono teoricamente in grado, quando il livello sierico è di 6 mg/dL, 2898 mg in una seduta di 210 minuti. Tuttavia, dal momento che la concentrazione sierica di fosforo cala precipitosamente durante le prime 2 ore di emodialisi, il fosforo totale rimosso arriva solo a 800-1000 mg per sessione, equivalente a circa 200 mg/die. La situazione è lievemente migliore con la dialisi peritoneale, dove vengono rimossi 423 mg di fosforo da pazienti con livello medio di fosfatemia di 5,2 mg/dL. Per contro, livelli normali o bassi di fosforo sierico possono essere ottenuti con l'emodialisi notturna, che però attualmente viene praticata solo ad una minoranza di pazienti.

 

il contenuto di fosforo dei cibi

L'introito giornaliero di fosforo varia in modo significativo in relazione a ciò che si mangia. Con la tipica dieta americana, soggetti giovani e di mezza età consumano circa 1600 mg giornalieri, mentre donne della stessa età ne consumano circa 1000 mg. Queste stime riflettono il "naturale" contenuto di fosforo dei cibi. Una stima reale richiede di tene conto di tutte e tre le principali fonti di fosforo - il fosforo naturale contenuto nel cibo crudo o non lavorato come costituente delle cellule e delle proteine; il fosforo agiungo ai cibi durante la lavorazione; e il fosforo contenuto nei supplementi dietetici.

I cibi ricchi di proteine, come carne, latte, latticini, uova e cereali sono anche ricchi di fosforo e contribuiscono per la parte maggiore all'introito di fosforo. Di recente, tuttavia, l'uso crescente di pratiche di lavorazione dei cibi, che includoono l'addizione di fosforo, ha prodotto un incremento significativo nell'introito giornaliero. Nel 1990 gli additivi contenenti fosforo contribuivano per una quantità giornaliera stimata di 470 mg nella dieta di un adulto negli USA, ma questo apporto continuera a salire mano a mano che cresce la domanda di cibi pronti e fast food. Di fatto, in dipendenza di scelte alimentari, l'assunzione di fosforo può aumentare fino a 1000 mg al giorno semplicemente aumentando la percentuale di cibi lavorati nella dieta.

I fosfati utilizzati per addizionare i cibi sono prodotti da acido fosforico alimentare, che è preparato a partire dal fosforo elementare. L'acido fosforico è convertito in polifosfati di sodio e altre molecole, che sono usati nella lavorazione di molti cibi, inclusa la carne. Il fosforo degli additivi è assorbito molto più prontamente di quello contenuto naturalmente nei cibi. Mano a mano che i produttori di carne allevano animali sempre più magri che contengono significativamente meno grasso, sono sviluppati processi alternativi per rimpiazzare la perdita di gusto e morbidezza dovuta alla riduzione del grasso, e uno dei processi è quello di enhancing meat. La carne di qualsiasi tipo riceve una iniezione di soluzioni come acqua, sale e fosfato di sodio per stagionarla e impedire che si dissecchi. Sebbene le direttive federali richiedono che il produttore includa la dichiarazione di tale pratica, la maggior parte dei consumatori non si rendono conto che ciò che stanno acquistando è un prodotto alterato. La dichiarazione è normalmente scritta in piccolo, spesso non notata dall'acquirente. Se il prodotto è stato riconfezionato in porzioni individuali al dettaglio, il negozio è tenuto ad esporre l'etichetta nutrizionale fornita col prodotto su ogni singola confezione e questo passo può mancare. I sali di fosforo sono usati anche nel prodciutto e nel bacon per ridurre l'ossidazione, stabilizzare le proteine e migliorare il colore e il gusto. Quando il prosciutto è stagionato nel sale, l'acqua della soluzione è persa e il semplice riadizionarla rende il prosciutto molliccio. Aggiungendo il 5% di idrogenofosfato sodico alla sostanza utilizzata per stagionare previene la perdita di acqua e il prosciutto è più tenero e gustoso. Questo processo può elevare il contenuto di fosforo e potassio di 2 e 3 volte rispettivamente. I fosfati sono anche usati nel pesce in scatola per complementare gli ioni di magnesio, che altrimenti causerebbero col tempo la precipitazioe di cristalli di struvite nelle lattine. Il pesce surgelato è pure immerso in una soluzione al 12,5% di tripolifosfato di sodio e al 4% di sale per impedire la perdita di proteine durante lo scongelamento. I sali di fosforo svolgono innumerevoli altre funzioni nell'industria alimentare. L'industria della panificazione li usa per la lievitazione, e i produttori di bibite gassate aggiungono fosforo alle bevande a base di cola per migliorare il sapore. Una ragione per usare l'acido fosforico sta nel fatto che è più economico e produce una maggiore "asprezza" dell'acido citrico o tartarico. Questi operano come emulsionanti nei latticini, per mentenere liquido il latte condensato e come agenti tamponanti in molte differenti applicazioni . Molti dei cibi lavorati che acquistiamo oggi sarebbero meno graditi e avrebbero una data di scadenza  più breve senza l'uso dei fosfati da parte deiproduttori. Poiché i fosfati fanno già parte della nostra dieta naturale, aggiungerli ai cibi, teoricamente non dovrebbe causare problemi alla generalità delle persone, ma questo non è ovviamente il caso per i pazienti con insufficienza renale. Essi devono essere messi al corrente che i cibi lavorati sono significativamente più alti quanto al contenuto di sodio rispetto ai prodotti naturali.

Molti supplementi multivitaminici/multiminerali non contengono fosforo perché, per la maggior parte delle persone, una tale supplementazione non è necessaria. Ma alcuni contengono quantità significative di fosforo (ad esempio Multicentrum contiene 48 mg di fosforo, mentre Supradyn contiene 18,5 mg di fosforo).

L'importanza delle pratiche correnti di supplementazione è ben illustrata da un usperimento effettuato con 8 normali volontari (268). Nel corso di un periodo di 4 settimane, furono nutriti con una dieta libera di additivi al fosforo. Durante un secondo periodo di 4 settimane,  furono dati loro cibi in commercio simili a quelli precedenti, ma a differenza di quelli contenenti additivi (es. formaggio lavorato al posto di formaggio naturale, carni con fosfati invece di carne senza fosfati, coca-cola invece che bevande con acido citrico ecc.). Queste sostituzioni aumentarono l'introito di fosforo in media di 1154 mg al giorno senza che l'introito di proteine e calcio cambiasse. È interessante notare che all'inizio del secondo periodo tutti i soggetti sperimentarono una lieve diarrea, che per in due di loro persistette fino al termine dell'esperimento. L'effetto lassativo e purgante dei sali di fosforo è ben noto, ma è interessante che esso si manifesti anche con le quantità presenti nei moderni cibi lavorati. Una veloce scorsa ai principali marchi USA mostra che molti prodotti consumati su base regolare, come il salame Mayer's, la zuppa Campbell e molti altri contengono sali di fosforo come additivi. Ma non è possibile stimare il contenuto di fosforo, perché l'ammontare non è dichiarato.

 

biodisponibilità del fosforo

La biodisponibilità del fosforo contenuto in vari cibi è una considerazione veramente importante relativamente all'analisi dell'introito giornaliero di questo nutriente. Nei vegetali una grossa parte del fosforo (circa il 75%) è nella forma di fitati. Poiché l'intestino tenue degli esseri umani non secerne l'enzima fitase, che è necessario per degradare i fitati assunti con la dieta e rilasciare fosforo, il fosforo nei fitati non è biodisponibile negli esseri umani, a meno che il cibo non sia stato processato con fitasi come nella lievitazione delpane con lievito contenente fitase. Di contro, il fosforo della carne è ben assorbito e si trova principalmente informa di composti organici intracellulari, che sono facilmente idrolizzati nel tratto gastrointestinale e rilasciano fosforo inorganico per l'assorbimento. Il fosforo nel latte è presente in diverse frazioni, ciascuna delle quale con differente biodisponibilità. Il fosforo aggiunto durante la lavorazione del cibo è perlopiù nella forma di sali inorganici e dunque è quasi completamente assorbito e dunque rappresenta un carico di fosforo ancora maggiore.

La bassa biodispoinibilità del fosforo dei cereali è ben nota nell'industria dell'allevamento dei suini. Gli allevatori sanno che solo una frazione di questo fosforo sarà assorbita e perciò aggiungono fosforo alla dieta per ottenere la dose raccomandata per la crescita e lo sviluppo degli animali. Il letame prodotto da questi animali contiene una concentrazione più alta di fosforo di quella adatta a fertilizzare. Di conseguenza, il pericolo di inquinamento delle acque di superficie e in profondità con fosforo è un serio problema.

C'è da notare che tutti i dati sulla biodisponibilità del fosforo negli alimenti non è stata studiata negli esseri umani. Tutte le stime di biodisponibilità sono basate su estrapolazioni da dati riguardanti gli animali. Gli unici dati riguardanti esseri umani provengono dai notevoli esperimenti di Karp et al. che hanno studiato 16 volontarie di età tra i 20 e i 30 anni in cinque sessioni separate di 24 ore con differenti assunzioni di fosforo. Nella sessione di controllo l'assunzione di fosforo era bassa (500 mg al giorno), mentre nelle altre quattro sessioni era di 1500 mg ma 1000 mg proveniva da carne, formaggio, cereali integrali o un supplemento di fosforo rispettivamente. L'escrezione urinaria di fosforo è stata maggiore nel caso della carne e dei supplementi di fosforo, a paragone con i cereali e il formaggio.

Come risultato dei vari fattori citati, normalmente solo il 60% del fosforo da una tipica dieta variata è assorbito. Ovviamente, questa percentuale cambia a seconda del gruppo predominante di alimenti e del grado di lavorazione dei cibi presenti in una dieta.

 

fortificazione con calcio

L'uso crescente di prodotti fortificati con calcio può avere due effetti potenziali sull'introito giornaliero di fosforo. Da un lato, un sale comunemente usato è il fosfato di calcio, che ovviamente incrementa la provvista di fosforo intestinale. Dall'altro lato, quando la fortificazione avviene con sali di calcio diversi dai fosfati, come carbonato o citrato, questo extra-calcio può agire come legante del fosforo e diminuire la disponibilità del fosforo intestinale. Perdipiù, sebbene la maggior parte delle presone sanno che il latte e i latticini rappresentano una buona fonte di calcio, non è facile rendersi conto che cibi che normalmente non contengono calcio, come succo di arancia, pane e cereali in vendita nei supermarket sono ora fortificati con calcio.

 

insufficienza renale cronica e assunzione raccomandata di fosforo

I livelli di fosforo nei pazienti con insufficienza renale cronica rimangono nel range normale o anche lievemente al disotto fino a che il GFR (Glomerular Filtration Rate) non scende al disotto dei 30 ml/minuto (stadio 4 della malattia). Prima di quel momento sembrerebbe che la restrizione del fosforo alimentare non sia necessaria, ma la ritenzione di fosforo inizia a manifestarsi nello stadio 3, con elevazione del PTH, ed è pertanto opportuno iniziare a questo stadio la restrizione del fosforo alimentare.

In pratica tuttavia è difficile scendere al disotto di 1000 mg di fosforo al giorno, a causa dell'alto livello di proteine nella dieta e del fosforo contenuto nei cibi lavorati.

 

fosforo nella dieta e proteine

La stretta associazione tra fosforo e contenuto proteico dei cibi rende veramente difficile la restrizione del fosforo nella dieta senza contemporaneamente limitare l'assunzione di proteine, specialmente di origine animale. Una assunzione giornaliera di proteine di 1,2 g/kg/die, che è quella raccomandata per pazienti in dialisi, conduce quasi invariabilmente a iperfosfatemia. L'enfasi sulla necessità di proteine animali fa ridimensionata. Un piatto costituito da una tazza di riso bianco e una tazza d fagioli contiene 16 g di proteine e 257 mg di fosforo, di cui però solo il 25% (64 mg) è assorbito nell'intestino. Di contro, la stessa quantità di proteine animali della carne fornisce molto più fosforo plasmatico a causa della sua quasi totale biodisponibilità: pollame, carne bovina, pesce e carne suina forniscono rispettivamente 118, 122, 182 e 198 mg di fosforo ogni 16 gr. di proteine. È importante notare che tutti gli aminoacidi essenziali possono essere ottenuti da fonti vegetali e che persino le diete vegane sono in grado di soddisfare tutte le necessità in una dieta, sebbene diventi importante il monitoraggio dei livelli dei nutrienti, perché fattori limitanti diventano significativi quando non è presente carne nella dieta.

 

 

Rimane da chiarire se il fosforo sia solo un marker passivo di eventi avversi o una reale tossina. In anni recenti è stata riscontrata una relazione simile a quella dei pazienti dializzati tra alti livelli di fosforo sierico e aumento della mortalità cardiovascolare è stata rilevata anche tra pazienti con insufficienza renale non dializzati e nella popolazione generale. Uno studio di Dhingra e colleghi che ha seguito per 16 anni 564 soggetti inizialmente sani ha mostrato che un incremento nel livello di fosforo di 1 mg/dL era legato ad un aumento di rischio di insufficienza renale cronica del 31%. Un incremento del prodotto calcio-fosforo di un deviazione standard comporta un aumento del rischio del 12%. I livelli di calcio non sono invece significativamente legati ad un aumento di rischio renale (266).

Il fosforo nei cibi naturali esiste in varie forme come fosforo organico e la sua biodisponibilità varia dallo 0% al 60%. Di contro, il fosforo degli additivi è sempre inorganico e assimilabile al 100%. Con un bilancio in equilibrio, l'assorbimento del fosforo nell'intestino è pari all'escrezione delle urine nelle 24 ore, ma questo dato è raramente disponibile.

Il danno renale istologicamente evidente si verifica quando l'escrezione di fosforo supera per il singolo nefronte 1 mcg al giorno per parecchie settimane. Adulti normali che assumono la quantità di fosforo di una dieta normale hanno una escrezione di 0,8-1,5 g /die nelle urine. Con il numero dei nefroni intorno a 900.000-1.000.000 per rene (il numero in un rene sano è 2-2,5 milioni), l'escrezione di fosforo è stimata a 0,64 mcg al giorno per nefrone in giovani adulti sani. Una diminuzione del 36% nel numero dei nefroni aumenta l'escrezione di fosforo fino a 1 mcg al giorno, un livello che può produrre danno ai reni nei roditori. Una riduzione del 36% si verifica negli esseri umani con l'invecchiamento.

Il numero di nefroni di esseri umani di età superiore a 55 anni è inferiore del 30-46% a quello dei soggetti di età inferiore a 45 anni (267). È plausibile che l'escrezione del fosforo per nefrone in pazienti con insufficienza renale cronica sia più alta di 1 mcg al giorno. Il meccanismo attraverso il quale l'aumento di fosforo produce danno renale deve ancora essere determinato. Una ipotesi è che il fosforo nel fluido luminale dei tubuli renali provochi danni. In culture di callule, quando la concentrazione di fosforo è aumentata da 1 a 2-5 mmol, si attivano varie risposte cellulari, inclusa l'attivazione delle MAPK (Mitogen Activated Protein Kinase), aumento di molecole di ossigeno reattivo, calcificazione, arresto del ciclo cellulare e morte cellulare. In colture di cellule della muscolatura liscia dei vasi sanguigni, l'aumento della ricaptazione di fosforo quando la concentrazione di fosforo è alta produce calcificazione. Recenti studi hanno mostrato che il fosforo provoca calcificazione e morte cellulare solo quando forma nanocristalli insolubili con il calcio a causa della concentrazione calcio-fosforo che eccede la soglia di solubilità. Questi cristalli sono estremamente bioattivi: promuovono la calcificazione inducendo l'espressione di osteopontina e della BMP2 (Bone Morphogenic Protein 2). Questi cristalli possono entrare nei lisosomi dove rilasciano ioni di calcio che promuovono la morte della cellula. Nei tubuli renali la supersaturazione avviene nei tubuli prossimali, quando il ritmo di escrezione di fosforo aumenta, e producono ossigeno reattivo con danno ossidativo e espressione di MCP1 (Monocyte Chemotactic Protein-1) la quale promuove infiltrazione di leucociti e secrezione di citochine infiammatorie. Se la stessa cascata di eventi che si osserva in vitro avviene in vivo, essa può essere un fattore di fibrosi renale indotta da eccessiva filtrazione di fosforo. (257)

 

fosforo e invecchiamento

I livelli sierici di fosforo sono positivamente correlati con la mortalità generale anche quando sono nel range normale (261). I topo mancanti del gene del FGF23 o di Klotho soffrono di una sindrome che somiglia all'invecchiamento umano e ad un alterato metabolismo minerale caratterizzato da alti livelli plasmatici di P, Ca e vitamina D. La domanda è: quale di queste è la sostanza colpevole? Una dieta deficiente di vitamina D o il danno ai recettori VDR o al gene CYP27B1 eliminano molte delle manifestazioni negative in questi topi. Questo suggerisce che l'intossicazione da vitamina D potrebbe essere responsabile della sindrome in questi roditori. Ma questi interventi riducono anche il calcio e il fosforo ematico, il che solleva la possibilità che il vero colpevole sia il calcio e/o il fosforo. Una dieta povera di fosforo o il danneggiamento del gene NPT2A bloccano anch'essi i sintomi di invecchiamento, aumentando i livelli di vitamina D e di calcio: infatti la deficienza di fosforo causata da basso introito o aumentata escrezione aumenta la vitamina D, che aumenta l'assorbimento intestinale di calcio facendone aumentare i livelli sierici. Aggiungendo a questi interventi un nuovo aumento di fosforo fa ritornare i sintomi di invecchiamento. Queste osservazioni forniscono la prova inequivocabile che la ritenzione di fosforo può indurre nei topi una sindrome da invecchiamento prematuro e rivela un legame inaspettato tra fosforo e invecchiamento. Rimane da stabilire se un certo livello di calcio e/o vitamina D siano fattori necessari perché il fosforo induca questa sindrome. (257)

 

 

Il numero di nefroni varia notevolmente negli esseri umani normali. Il numero medio è 900.000-1.000.000 per rene, ma questo numero può variare da 200.000 a 2.500.000. Numerosi studi hanno confermato la perdita di nefroni con l'età dovuta a glomerulosclerosi da invecchiamento. Il tasso di riduzione del numero di nefroni varia da individuo a individuo, e dipende dalla pressione del sangue, dalle patologie che interessano il rene e da altri fattori. (269)

Dopo la 36a settimana di gestazione il feto ha sviluppato il numero massimo di nefroni. (269)

Il numero di nefroni è direttamente collegato al rischio di patologie cardiovascolari. Già è stato notato che i neonati che pesano di meno alla nascita hanno un minor numero di nefroni e hanno anche un aumentato rischio cardiovascolare, inclusa l'ipertensione. (269)

Brenner e collaboratori negli anni '80 hanno avanzato l'ipotesi che una minore area di filtrazione glomerulare, dovuta a un minor numero di nefroni è un fattore di rischio cardiovascolare. Numerosi studi successivi hanno indagato sulla relazione tra numero di nefroni e rischio cardiovascolare e di malattia renale, anche se principalmente su animali da laboratorio e non su esseri umani. (269)

Esiste una correlazione inversa tra numero di nefroni e ipertensione negli animali da laboratorio. I pochi studi sugli esseri umani hanno dato risultati alcune volte in accordo con quelli di laboratorio, altre volte in disaccordo (mancanza di correlazione), ma sono troppo pochi per verificare l'ipotesi. (269)

La dimensione dei glomeruli dei nefroni è legata positivamente al BMI, all'ipertensione, al peso alla nascita, al numero dei nefroni. (269)

Pochi studi hanno esaminato il rapporto tra numero di nefroni e patologie renali. Alcuni studi suggeriscono una relazione inversa tra numero dei glomeruli e glomerulosclerosi. (269)

Alcuni studi che confrontano reni di donatori sani di varie età rilevano che nell'arco temporale 55-68 anni si riscontra una diminuzione del 15% della GFR, un diminuito volume renocorticale e un diminuito numero di glomeruli funzionanti (267).

 

 

Alcuni studi, ancora poco numerosi su esseri umani suggeriscono che un eccessivo consumo di fosforo sia legato a calcificazione renale e albuminuria. Sebbene i livelli sierici di fosforo sono fortemente associati a malattie cardiovascolari, progressione della malattia renale e morte, esistono dati troppo limitati che legano un alto consumo di fosforo a questi effetti avversi. (274)

 

 

 

La placca aterosclerotica. Come e perché si forma.

 

Ecco una rassegna della più recente letteratura scientifica sulla placca e l'ateroma:

 

Badimon et al., "Pathogenesis of the acute coronary syndromes and therapeutic implications", Pathophysiol. Haemost. Thromb., 2002

I fattori di rischio per la disfunzione endoteliale sono elevato LDL, fumo, diabete, ipertensione, basso HDL.

Le lesioni aterosclerotiche tendono a svilupparsi in aree che sono sotto ripetuti cambiamenti di forze meccaniche, come forze di taglio oscillanti. L'endotelio in queste aree è caratterizzato da aumentata permeabilità che porta ad un influsso di LDL e altre proteine del plasma nell'intima.

La terapia con le statine ha rivoluzionato il trattamento dei pazienti con sindrome coronarica acuta. Oltre a ridurre LDL, le statine sembrano indurre regressione delle placche vulnerabili mediante meccanismi ancora sotto studio. Effetti positivi sono stati evidenziati persino in soggetti normolipidici. Recenti dati da MRI hanno evidenziato effetti stabilizzanti sulla placca extracoronarica.

I cambiamenti nello stile di vita che riducono la progressione del diabete si traducono in una riduzione delle rotture della placca.

Gli angiotensin-converting enzyme inhibitors hanno mostrato una riduzione di infarti del miocardio in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra. Lo studio HOPE ha mostrato una riduzione del 22% degli eventi cardiovascolari importanti per pazienti ad alto rischio trattati con rampril. Questi effetti sono largamente indipendenti dalla capacità del farmaco di abbassare la pressione mediante inibizione dell'enzima di conversione dell'angiotensina, e si è ipotizzato che vi siano altri effetti, diretti e indiretti, sulla stabilizzazione della placca.

La terapia antitrombotica è il pilastro della cura delle sindromi coronariche acute.

Fattori sistemici trombogenici sono:

Ipercolesterolemia

Catecolamine (fumo, cocaina, stress ecc.)

Fumo

Diabete

Omocisteina

Lipoproteina a

Infezioni (Clamidia pneumoniae, Helicobacter pilori, Citomegalovirus)

Stato ipercoagulabile (Fibrinogeno, vWF, TF, Fattore VII)

Deficiente stato fibrinolitico

Fattori di rischio emergenti

Le principali terapie antitrombotiche sono:

Agenti antipiastrine

Aspirina

Ticlopidin, Clopidogrel

GP Iib/IIIa Receptor Antagonists

Direct Thrombin Inhibitors

Anticoagulanti

Inibitori del pathway intrinseco

Eparina

Warfarin

Eparina a basso peso molecolare

Inibitori diretti della trombina

Inibitori del pathway del fattore tissutale

TFPL, TAP

Inibitori dei Fattori di coagulazione VIIa e/o Xa

Trombolitici

Nuovi trattamenti

P2T antagonisti (antipiastrine)

Antagonisti del tromboxano (antipiastrine)

Inibitori del Fattore X (anticoagulanti)

Pentasaccaridi (antipiastrine e anticoagulanti)

 

ENDOTHELIUM AND CARDIOVASCOLAR HOMEOSTASIS FACTORS

 

ATHEROGENIC

ATHEROPROTECTIVE

VASOCONSTRICTORS

VASODILATORS

Angiotensin II, Endothelin, Thromboxane, Serotonin, Thrombin, Nicotine

Nitric oxide, Prostacyclin, Histamine, Bradykinin, Serotonin, Substance P

 SMC PROMOTERS

SMC INHIBITORS

PDGF, bFGF, Endothelin, Angiotensin II

Nitric oxide, Prostacyclin, Bradykinin, TGFβ

PROTHROMBOTIC

ANTITHROMBOTIC

Thromboxane, Thrombin, vWF

Thrombomodulin, TFPI, tPA, PAI-1

PRO-INFLAMMATORY

ANTI-INFLAMMATORY

VCAMs, ICAMs, ELAMs, Selectins

Nitric oxide

 

 

Virmani et al., "The impact of calcification on the biomechanical stability of atherosclerotic plaques", Circulation, 2001 (519)

Il disfacimento della calotta fibrosa dell'ateroma con formazione di un trombo è una causa comune di infarto del miocardio. Calotte sottili e grossi depositi di lipidi  aumentano lo stress della calotta e sono caratteristiche comuni di rotture. Fattori che possono contribuire alla rottura includono l'aumentato stress biomeccanico all'interno della calotta fibrosa e l'indebolimento della matrice della calotta fibrosa ad opera di enzimi proteolitici e infiammazione.

Sebbene la calcificazione dell'arteria coronarica sia associata con una peggiore prognosi cardiovascolare, l'influenza della calcificazione sullo stress biomeccanico della placca non è chiara. È possibile che depositi rigidi di calcio stabiliscono una distribuzione sfavorevole dello stress, aumentando la suscettibilità alla rottura. Ma è anche possibile che la calcificazione sia un marker della estensione della patologia o per un altro processo come l'infiammazione o l'infezione; in questi casi, la calcificazione di una lesione individuale non ha necessariamente effetto sulla stabilità di tale lesione. Uno studio pubblicato sulla rivista Circulation nel 2001 ha esaminato un certo numero di placche provenienti da autopsie, digitalizzandole e sottoponendole ad un calcolo computerizzato dello stress con il metodo dell'analisi degli elementi finiti nello stato originario, oppure simulando uno stato calcificato oppure simulando uno stato con zero ammontare di lipidi nel nucleo (nucleo fibroso). Le simulazioni sono state condotte sia su placche integre che su placche che avevano subito rottura. L'estensione della calcificazione non era correlata con una maggiore frequenza di rotture. Le placche con rottura esibivano stress meccanici di punta superiori a quelle senza rottura, e gli stress erano maggiori in prossimità dei depositi lipidici o ai confini tra la placca e il lume del vaso. Gli stress massimali si riscontravano in piccole aree. Non è stata riscontrata alcuna correlazione significativa tra il livello di stress e l'area percentuale di calcificazione. In altre parole, una maggiore calcificazione non è indicatore di un maggiore stress nella lesione aterosclerotica. Invece i livelli di stress erano significativamente correlati con l'area percentuale dei lipidi. In altre parole, maggiore è il contenuto di lipidi della placca, maggiore è il suo stress interno, e quindi la sua instabilità. Ulteriori simulazioni hanno mostrato che la calcificazione non diminuisce la stabilità della placca.

Normalmente lo stato di calcificazione generale è associato con una prognosi peggiore. Però, l'impatto della calcificazione sulle singole lesioni non è chiaro. La calcificazione è una condizione avversa agli interventi di chirurgia cardiovascolare, essendo associata a meno successi e a un maggior numero di rotture. Tuttavia il fenomeno della rottura della placca è molto differente da quello della rottura nel corso di un intervento chirurgico. Lo studio del 2001 concludeva che la calcificazione delle arterie coronarie non ha un impatto negativo sulla stabilità dell'ateroma di contro all'instabilità associata ai lipidi.

Questi dati sono coerenti con i successi impressionanti che si ottengono con farmaci che abbassano i lipidi nel sangue: la diminuzionie del contenuto lipidico della placca abbassa drammaticamente i livelli di stress a cui è sottoposta.

Se la calcificazione di una placca ne diminuisce lievemente i livelli di stress meccanico, perché la calcificazione arteriosa è un indice prognostico di eventi cardiovascolari avversi? Forse, la calcificazione riflette piuttosto l'estensione degli ateromi o altri processi sistemici avversi, come una infiammazione.

 

Lee, "Atherosclerotic lesion mechanics versus biology", Z Kardiol., 2000 (518)

La caratteristica della placca è di essere anisotropa, cioè di esibire proprietà meccaniche diverse lungo direzioni diverse. La placca è soggetta a due sollecitazioni principali: a) una forza di compressione perpendicolare alla sua superficie operata dall'incremento della pressione sanguigna durante la sistole; b) una forza di trazione elastica nella direzione del flusso sanguigno.

La calcificazione aumenta la rigidezza rispetto alle sollecitazioni meccaniche: le calotte fibrose calcificate sono dieci volte più rigide di quelle di semplici aggregati di cellule, mentre le calotte fibrose non calcificate sono due volte più rigide. All'aumentare dello stress tensile longitudinale la rigidezza si incrementa. La rigidezza rispetto alle sollecitazioni longitudinali è 100 volte superiore a quelle pressorie normali alla superficie.

Una importante variabile che influenza lo stress meccanico è la composizione del deposito aterosclerotico al disotto della calotta. Un deposito liquido o semiliquido contribuisce grandemente allo stress. La rigidezza del deposito aumenta con la percentuale di colesterolo monoidrato, pur rimanendo parecchi ordini di grandezza inferiore a quella della calotta.

Il principale fattore che determina la stabilità della placca è lo spessore della calotta. La misura della stenosi del lume gioca un ruolo marginale nel determinare lo stress di picco della placca.

Gli stress trasversali (sforzo di taglio) sono i responsabili della rottura della placca. Nella placca vi sono numerosi punti di maggiore stress (gli studi ne hanno contato fino a 31) ed è qui che si ha la maggiore probabilità di rottura, che può peraltro avvenire anche nei punti di secondo o terzo maggiore stress. Questo rende la precisa localizzazione del punto di rottura non del tutto prevedibile, anche se esso si verifica immancabilmente nella cosiddetta shoulder region della placca.

Un fattore importante nel determinare la rottura è il cambiamento della composizione della capsula fibrosa. Le cellule della muscolatura liscia sintetizzano e organizzano la matrice extracellulare, e posseggono anche enzimi per degradarla. In circostanze normali probabilmente svolgono queste funzioni ad un basso ritmo di turnover. Ma l'infiammazione, particolarmente in presenza di grosso depositi di lipidi, porta ad una rapida accelerazione della degradazione della matrice. I macrofagi infiltrati possono secernere enzimi che degradano la matrie come le metalloproteinasi e anche citochine che attivano altre cellule stimolandole a degradare la matrice extracellulare. I fattori che promuovono l'infiammazione non sono chiari e possono includere stress ossidativi e infettivi.

La calcificazione cambia marcatamente la rigidezza complessiva delle lesioni aterosclerotiche. Comunque, sotto tensione, come nel senso circonferenziale, la calcificazione ha un minore effetto sulla rigidezza. Questo molto probabilmente perché le fibrille di collagene sopportano lo sforzo dello stress tensorio. Una componente critica della calcificazione può essere l'eterogeneità che conduce a diminuita resistenza del tessuto. I test meccanici del tessuto fibroso calcificato rivelano spesso dei salti nella tensione quando lo stress viene incrementato, che suggerisce lo sviluppo di micro-fratture che alla fine portano al cedimento completo del tessuto.

È difficile stabilire una regola generale riguardo gli effetti della alcificazione sulla stabilità complessiva della lesione. IN alcuni casi, la calcificazione estesa può condurre a una marcata riduzione dello stress nel rivestimento fibroso, cosicché, anche in presenza di un grosso deposito lipidico sottostante la calcificazione conduce ad un incremento di stabilità. Dall'altro lato, la calcificazione focale può condurre ad aumenti dello stress tensile e di taglio, in particolare vicino la shoulder region ad alto stress. Cosicché la cancificazione in sé può avere un effetto sia positivo che negativo sulla stabilità della lesione.

Poiché la calcificazione sembra verificarsi nel contesto dell'infiammazione, è possibile che, come indicatore di infiammazione possa essere considerato in futuro un predittore di futuri eventi coronarici.

 

Libby, "Molecular Bases of the Acute Coronary Syndromes", Circulation, 1995 (519)

Gran parte della cardiochirurgia e della chirurgia cardiologica contemporanea è basata sul dogma che tanto maggiore è la stenosi, tanto maggiore è il rischio di eventi avversi come infarto del miocardio o angina pectoris. Ma le ricerche degli ultimi decenni contraddicono questo assioma: le lesioni aterosclerotiche che davano origine ad un trombo occlusivo nella maggior parte dei casi non provocavano stenosi importanti. Le lesioni che con più probabilità potevano precipitare in un infarto spesso non appaiono fortemente stenotiche. Di fatto, gli ateromi più instabili sono quelli con minima stenosi. Altri studi hanno mostrato che i trattamenti farmacologici più efficaci nel ridurre il rischio di infarto non agiscono riducendo la stenosi, come si riteneva in precedenza.

Dall'altro lato le autopsie hanno mostrato che i cuori di molti pazienti morti per cause non cardiovascolari recavano tracce di rottura di placche senza infarto né sintomi rilevabili di patologia coronarica. Ma questi eventi subclinici di rottura della placca con conseguente attivazione locale della produzione di trombina e successiva guarigione sono una delle vie principali della progressione delle lesioni aterosclerotiche. La presenza di stenosi è stata così declassata a marker della presenza di altre placche invisibili, di minori dimensioni, e più pericolose.

Gli studi su animali e esseri umani mostrano che la crescita della placca avviene per una parte consistente del suo sviluppo, in senso abluminale, e questa fase può durare anni o perfino decenni, senza che si notino protrusioni nel lume dell'arteria. Solo quando la placa raggiunge dimensioni pari a metà del lume, essa protrude e diviene visibile all'angiografia, altera il flusso sanguigno e può provocare angina pectoris.

Le placche aterosclerotiche consistono in un nucleo ricco di lipidi nella porzione centrale di un ispessimento eccentrico dell'intima. Esso è compreso tra la cupola fibrosa verso il lume, la base della placca verso gli strati più esterni e la shoulder region ai lati. Il nucleo lipidico contiene numerose foam cells: macrofagi degenerati pieni di grassi che si sono sviluppati a partire dai moniciti del sangue. Queste cellule si impregnano di lipidi e producono grandi quantità di tromboplastina tissutale o fattore tissutale, una glicoproteina che attiva il pathway per la produzione del fattore di coagulazione VII e VIIa che stimolano la formazione del trombo una volta che il nucleo viene in contatto col sangue. Le placche vulnerabili sono presenti in un lume senza ostruzione, dal momento che inizialmente crescono verso l'esterno. Hanno un sostanziale nucleo lipidico e un sottile rivestimento fibroso che separa i macrofagi trombogenici che esprimono il TF dal sangue. Là dove c'è una lesione del rivestimento, le cellule muscolari lisce (SMC) sono spesso attivate, ciò che è mostrato dall'espressione dell'antigene HLA-DR. Invecel la placca stabile ha un rivestimento fibroso relativamente spesso che protegge il nucleo lipidico dal contatto col sangue. Le placche stabili provocano più spesso un restringimento del lume rilevabile dalla angiografia rispetto a quelle instabili. Le placche instabili tendono ad avere rivestimenti sottili e friabili, mentre quelle meno suscettibili di eventi cardiovascolari hanno rivestimenti fibrosi più spessi che proteggono dal contatto potenzialmente disastroso del nucleo col sangue.

L'analisi biomeccanica mostra che le forze meccaniche si concentrano sul rivestimento fibroso, che deve resistere a questi stress elevati per evitare la rottura.

Il rivestimento fibroso è caratterizzato da una matrice extracellulare densa e fibrosa (in passato chiamata tessuto connettivo) che contiene diverse ben distinte macromolecole che ne assicurano la resistenza. Il principale contenuto proteico di quetya matrice extracellulare include il collagene interstiziale e l'elastina. Varie classi di proteoglicani contribuiscono alla matrice extracellulare dell'ateroma ma probabilmente contribuiscono meno del collagene e dell'elastina alla resistenza alla rottura di questa matrice. Tra queste macromolecole il collagene occupa un posto importante per la sua abbondanza nel rivestimento fibroso e il suo contributo alla integrità strutturale di questa regione che è il "tallone d'Achille" della placca. Il collagene può avere varie forme, e quella che rileva per il rivestimento dell'ateroma è la forma interstiziale del collagene fibrillare. Matasse a tripla elica da precursori del collagene costituiscono il collagene di tipo I e III che si trova nelle fibre della placca. Le cellule vascolari della muscolatura liscia sono in grado di sintetizzare e assemblare queste macromolecole e fornire il grosso della matrice cellulare collagenosa e non collagenosa nelle arterie.

I dati di laboratorio mostrano la presenza di varie citochine durante differenti fasi dell'aterogenesi. Si è indagato se queste citochine e fattori di crescita implicate nel processo aterosclerotico potessero regolare la sintesi della forma interstiziale del collagene che regge l'integrità del rivestimento fibroso. Si è scoperto che il fattore di crescita trasformante beta e il fattore di crescita derivato dalle piastrine incrementano la sintesi dei precursori del collagene interstiziale di tipo II e III. Una citochina nota come ingerferone-gamma (IFN-gamma) diminuisce in modo consistente la capacità delle cellule muscolari lisce di esprimere i geni del collagene interstiziale, sia nello stato non-stimolato sia quando è stimolata da fattore di crescita trasformante beta, lo stimolo più potente per l'espressione del gene del collagene interstiziale in tali cellule. Tra le cellule all'interno della placca solo i linfociti T possono produrre la citochina IFN-gamma quando sono cronicamente attivate dall'infiammazione. Altri laboratori hanno trovato un collegamento tra linfociti T attivati e i loro prodotti e la rottura della placca. Si è scoperto che le cellule T e i macrofagi sono abbondanti nei siti di rottura e di erosione. Le cellule muscolari e i leucociti circostanti esprimono alti livelli di antigene HLA-DR-afa, che è un indicatore dello stato di "attivazione" delle cellule della muscolatura liscia. Tra tutte le citochine solo IFN-gamma può indurre le cellule muscolari ad esprimere HLA-DR-alfa in vitro. Se ne deduce la presenza di IFN-gamma nei siti di rottura/erosione. Sembra quindi che la stimolazione immunitaria all'interno dell'ateroma induca le cellule T a produrre IFN-gamma, che inibisce la sintesi del collagene nei futuri punti di rottura. IFN-gamma inibisce anche la proliferazione delle cellule della muscolatura liscia e contribuisce all'attivazione del programma di apoptosi in queste cellule. Questo spiega  come nei siti di lesione vi sia una scarsità di cellule muscolari lisce, che accentua la deficienza di produzione di collagene. IFN-gamma può anche attivare funzioni dei macrofagi che vanno ad accentuare la vulnerabilità della placca. Sebbene la proliferazione delle cellule muscolari contribuisca alle fasi iniziali di sviluppo della placca, successivamente la loro scarsità è un fattore di destabilizzazione di essa, come indicato sopra. Trattamenti farmacologici che mirano ad inibire la loro proliferazione potrebbero risultare addirittura dannosi per la stabilità dell'ateroma.

Oltre alla insufficiente sintesi del collagene, anche la degradazione accelerata di esso e di altre componenti della matrie pssono contribuire all'indebolirsi del rivsestimento fibroso. Le macromolecole che formano la matrice extracellulare, generalmente mostrano una considerevole stabilità metabolica. Il collagene normalmente ha un turnover molto lento nelle arterie e in altri tessuti. La struttura a tripla elica del collagene fibrillare è fortemente resistente ad attacchi da parte di molti tipi di enzimi proteolitici. Però, certi enzimi sono specializzati nel catabolismo della matrice extracellulare. Questi enzimi senza dubbio svolgono funzioni importanti in un ambito fisiologico normale, e guariscono lesioni consentendo alle cellule di migrare attraerso la onnipresente matrice extracellulare dei tessuti. Essi possono però contribuire a vari stati patologici, come la distruzione delle articolazioni nell'artrite reumatoide o la metastasi di cellule maligne.

In particolare, membri della superfamiglia di tali enzimi conosciuti come metallo proteinasi meritano considerazione a questo proposito. Di contro agli enzimi proteolitici intracellulari che si trovano in organelli chiamati lisosoli, le metalloproteinasi di matrie agiscono al difuori della cellula e con un pH fisiologico. La superfamiglia include il collagenase interstiziale, un enzime specializzato nella frammentazione del normalmente resistente collagene fibrillare che conferisce forza al rivestimento fibroso dell'ateroma. Altri membri della amiglia delle metalloproteinasi di matrice  (le gelatinasi) catalizzano ulteriori scomposizioni di frammenti di collagene. Le stromelisine possono attivare altri membri della famiglia delle metallo proteinasi di matrice e possono degradare un vasto spettro di costituenti della matrice, incluse le strutture proteiche portanti delle molecole dei proteiglicani. La stromelisina e una delle gelatinasi (gelatinasi B o 92-kD gelatinasi) può anche decomporre l'elastina, un importante componente strutturale addizionale della matrice extracellulare.

Due sono i punti importanti da tenere presenti nel considerare il ruolo potenziale delle metalloproteine di matrice nella disgregazione della placca aterosclerotica. Anitutto, queti enzimi richiedono l'attivazione da parte di proenzimi precursori per raggiungere l'attività enzimatica. Questo tipo di stretto controllo somiglia a quello che si trova in altri pathway critici regolatori di processi biologici chiave, come la coagulazione del sangue, la fibrinolisi e il complemento. Inoltre, in modo che ricorda quello di altri pathway di attivazione coinvolti nella regolazione di processi chiave, degli inibitori universalmente presenti chiamati inibitori tissutali delle metalloproteinasi (TIMPs) tengono sotto controllo l'attività di questi enzimi in circostanze normali.

Nel loro stato di equilibrio, le cellule lisce della muscolatura vascolare  esprimono entrambe le principali isoforme di TIMP (TIMP1 e TIMP2) e una forma di gelatinasi (gelatinasi A o 72-kD gelatinasi). Gli esperimenti mostrano che questa gelatinasi esiste in forma inattiva perché legata al suo inibitore TIMP 2. L'esposizione a citochine infiammatorie come interleuchina-1 o il fattore di necrosi tumorale (TNF) induce queste cellule ad esprimere collagenaze interstiziale, una forma di gelatinasi non espressa nello stato di equilibrio (gelatinasi B, la forma di gelatinasi che esibisce anche una considerevole attività elastolitica), e stromelisina. La somministrazione con queste citochine non altera l'espressioe di TIMP daparte delle cellule. In questa maniera, le citochine che si sa si localizzano nelle lesioni aterosclerotiche possono produrre un aumento netto nella capacità delle cellule lisce muscolari di degradare i costituenti della matrice arteriosa extracellulare.

Tuttavia va considerato che regioni del rivestimento particolarmente suscettibili di rottura contengono poche cellule muscolari ma abbondanti macrofagi e cellule T. Si può dimostrare in laboratorio che le foam cells esprimono stromelisina e collagenasi interstiziale sia in vivo che in vitro. Per contro, i macrofagi esposti all'iperlipidemia non mostrano una espressione autonoma di queste metalloproteinasi. Cos'è che attiva queste foam cells per sintetizzare queste proteinasi di degradazione della matrice? Come probabili candidati ci sono citochine come IFN-gamma, TNF, IL-1 o il fattore stimolante le colonie di granulociti e macrofagi.

Colture di cellule di arterie non danneggiatge esprimono TIMP 1 e 2 e gelatinasi A, probabilmente in un complesso inattivo col suo inibitore TIMP-2. Nelle colture di cellule di placche aterosclerotiche, le cellule muscolari lisce, le cellule T e i macrofagi  esprimono tutti gelatinasi B, collagenasi interstiziale e stromelisina. Le cellule endoteliali sopra l'ateroma, a differenza di quelle di vasi normali, contengono collagenase interstiziale. Le cellule epiteliali della micro-vascolatura della placca esprimono  questa metalloproteinase, che può facilitare la penetrazione dei capillari attraverso la densa matrice extracellulare della placca.

La semplice presenza di metalloproteine non dà la certezza che esse esistano in forma attiva, ma con adeguati esperimenti di laboratorio si può dimostrare che una tale attività esiste, e può contribuire con la sua eccessiva degradazione della matrice alla fragilità dell'ateroma.

Esistono altri fattori che possono contribuire alle sindromi instabili coronariche. Recenti ricerche hanno scoperto che una propensioie al vasospasmo può contribuire a compromettere il flusso in questi vasi, particolarmente in siti con stenosi. Sia l'infarto del miocardio che l'angina instabile coinvolgono tre distinti pathway discendenti proteasi-proteasi-inibitore: trombosi, fibrinolisi e proteasi di degradazione della matrice. Un esempio di questi processi è quello nel quale l'enzima fibrinolitico plasmina può tagliare la collagenase interstiziale in modo che si trasformi dalla sua forma latente di zimogeno alla sua forma attiva.

Le lesioni aterosclerotiche normalmente contengono abbondanti plessi di microvasi. Questi canali neovascolari possono essi stessi essere suscettibili di rottura nella placca, in modo molto simile ai neovasi nella retina dei diabetici che tendono a formare aneurismi ed emorragie. Alcuni episodi di improvvisa espansione della placca possono provocare una emorragia interna piuttosto che una distruzione della placca.

L'angioplastica e il bypass chirurgico, sebbene importanti, sono terapie non pensate per rimediare ai casi di placca non stenotica ma vulnerabile. Dopo quanto detto, non deve sorprendere che tra i benefici del bypass coronarico non c'è la prevenzione dell'infarto del miocardio, per la quale è necessaria invece la stabilizzazione delle lesioni per prevenire la loro rottura.

Questo obiettivo può essere raggiunto riducendo lo stimolo infiammatorio fornito da lipoproteine modificate che possono contribuire all'attivazione delle foam cells fonti di lesione e dei linfociti T la cui attività nociva è descritta più sopra. Diviene sempre più evidente che la terapia di abbassamento dei lipidi e/o antiossidante può migliorare la risposta vasomotoria a fattori vasodilatatori che dipendono dall'endotelio come l'acetilcolina. Una riduzione dell'infiammazione indotta da lipidi modificati può contribuire con questo effetto positivo dell'abbassamento farmacologico dei lipidi.

La recente dimostrazione che abbassando il colesterolo con un coenzima 3-idrossi-3-metilgluraril A reduttasi inibitore diminuisce la mortalità cardiaca e totale in condizioni in cui non ci si aspetta di ridurre una importante stenosi di alto grado illustra il potenziale di un intervento che può produrre stabilizzazione della placca.

In conclusione, l'aterosclerosi spartisce molte caratteristiche con i processi infiammatori cronici. Molti stimoli possono incitare questa reazione infiammatoria che va avanti nel tempo. Molti dati suggeriscono che le lipoproteine o i loro derivati (es. le lipoproteine ossidate) contribuiscono a rinfocolare l'infiammazione nelle placche aterosclerotiche. Altri stimoli potenziali possono includere agenti infettivi e autoantigeni come le proteine da shock termico tra gli altri. Le cellule T attivate  secernono IFN-gamma che può bloccare la sintesi di collagene. Macrofagi e cellule della muscolatura liscia vascolare attivate da mediatori dell'infiammazione come le citochine possono elaborare enzimi che indeboliscono la tessitura del tessuto connettivo del rivestimento fibroso della placca. La riduzione dell'infiammazione dovrebbe rendere più stabile la placca aterosclerotica. Quanto detto sinora potrebbe dar ragione della marcata riduzione di eventi coronarici acuti che si osserva con farmaci che abbassano i lipidi.

 

Libby et al., "Inflammation and its Resolution as Determinants of Acute Coronary Syndrome", Circ. Res., 2014

L'infiammazione contribuisce a molte delle caratteristiche della placca che conducono a sindromi coronariche acute. Due meccanismi provocano questi eventi: la rottura o l'erosione del rivestimento fibroso della placca. I pathways che conducono a questi eventi implicano indiscutibilmente processi infiammatori. I fattori di rischio includono un rivestimento fibroso sottile, una molteplicità di macrofagi, un grosso nucleo lipidico necrotico, calcificazioni punteggiate e il rimodellamento espansivo della placca. Ci sono prove consistenti che l'infiammazione è implicata in tutti questi fattori di rischio. Essa influenza anche le conseguenze di una rottura: se l'esito sia un trombo limitato che aderisce alla parete e non è clinicamente rilevabile oppure un duraturo trombo occlusivo che può condurre ad un infarto con elevazione del segmento ST dell'elettrocardiogramma.

 

infiammazione e rivestimento fibroso

Le placche che hanno subito rottura esibiscono un sottile rivestimento fibroso di circa 60-70 μm. L'infiammazione governa il metabolismo del collagene, uno dei principali costituenti del rivestimento fibroso. Segnali infiammatori come la T-helper-1-citochina-gamma-interferone danneggiano la capacità delle cellule muscolari lisce, la fonte della maggior parte del collagene interstiziale, di sintetizzare il nuovo collagene richiesto per la riparazione e il mantenimento della matrice extracellulare del rivestimento fibroso. Dati sperimentali e biochimici confermano il ruolo delle proteinasi specializzate nella degradazione della matrice, che sono strettamente regolate da mediatori dell'infiammazione nel dissolvere  il collagene in modo da assottigliare e indebolire il rivestimento fibroso. La morte delle cellule muscolari nell'ateroma infiammato può produrre lo stesso risultato.

 

il reclutamento delle cellule infiammatorie

Gli studi hanno appurato i pathways attraverso i quali i leucociti del sangue aderiscono alle cellule endoteliali nei siti favoriti per la formazione di ateromi, entrano nell'intima e subiscono una attivazione per sostenere e amplificare l'infiammazione locale. È stato messo in luce da recenti ricerche il ruolo delle citochine proinfiammatorie come induttori di molecole di adesione che catturano i leucociti del sangue, in particolare i monociti. Una serie di chemiochine che interagiscono con i recettori affini di varie classi di leucociti causano la loro diretta migrazione per penetrare nell'intima. Nei topi ipercolesterolemici un gruppo di leucociti pro-infiammatori, caratterizzati da alti livelli di espressione del marker di superficie Ly6c entrano ad uno stadio precoce di sviluppo della lesione aterosclerotica. Nella milza esiste una riserva di questi monociti pro-infiammatori che fornisce la maggior parte di questi Ly6c. Alcune chemochine (proteine del gruppo delle citochine deputate all'attivazione e reclutamento dei leucociti nei siti di flogosi) provvedono al reclutamento dei monotici con alto e basso Ly6c. I fagociti mononucleari (macrofagi: NDT) possono proliferare nella placca grazie, tra gli altri, al macrophage scavenger receptor A, che si lega a lipoproteine modificate. Il Macrophage Colony Stimulating Factor (CSF) favorisce la maturazione dei monociti in macrofagi, induce l'espressione di scavenger receptors che sono recettori che si legano a sostanze estranee che vengono fagocitate nella cellula e permettono l'accumulazione di lipoproteine modificate nei fagociti, provocando la formazione di foam cells.

Altri tipi di leucociti si ritrovano nella placca, compresi vari tipi di linfociti T, linfociti B, mastociti e cellule dendritiche. Particolari cellule B nella milza di topi ipercolesterolemici possono produrre CSF per granulociti/macrofagi, che, sempre nella milza, attivano cellule dendritiche, che a loro volta promuovono la maturazione di cellule TH1 capaci di produrre gamma-inferferone che migra nell'ateroma e attiva i macrofagi della placca. Inizialmente il reclutamento dei leucociti avviene con l'adesione alla parete del vaso, ma successivamente questo processo si replica nella microvascolarizzazione che l'ipossia della placca e l'espressione di fattori angiogenici di crescita prodotti dalle cellule infiammatorie stimolano.

 

grossi depositi lipidici e nucleo necrotico

All'interno della placca l'infiammazione promuove la morte delle cellule per apoptosi o oncosi (morte per rigonfiamento) senza che queste cellule siano eliminate, con la creazione di un nucleo necrotico. Questa necrosi, a sua volta, può peggiorare l'infiammazione in ateromi avanzati. Il nucleo necrotico contiene cellule morte e i loro detriti. Poiché molte di esse sono foam cells, abbondano i detriti lipidici. I nuclei necrotici contribuiscono alla rottura della placca, perché possiedono proprietà infiammatorie, proteolitiche e trombogeniche. Essi producono livelli di stress meccanico che possono compromettere l'integrità dell'ateroma.

Le cellule morte hanno due probabili origini: a) morte secondaria per clearance carente delle cellule morte per apoptosi; b) necrosi cellulare primaria (necroptosi o oncosi). In un primo stadio della lesione aterosclerotica una efficace attività dei fagociti macrofagi limita la necrosi secondaria, ma in prosieguo l'apoptosi cellulare aumenta per diverse ragioni, inclusi stimoli infiammatori e fattori che promuovono stress ossidativo e del reticolo endoplasmatio. Questi fattori lavorano insieme ad altri fattori di formazione della placca che attivano i Toll-like receptors, i death receptors e altri pathways mitocondriali di apoptosi. Con la progressione della placca gli efferociti cominciano a diventare inefficienti, promuovendo la necrosi secondaria delle cellule apoptotiche e la perdita di segnali anti-infiammatori mediati dagli efferociti, che producono IL-10 e Transforming Growth Factor-B, che sono anti-infiammatori. La produzione di DAMPs (Damage-Associated Molecular Pattern, molecole che iniziano e sostengono la risposta infiammatoria) da parte delle cellule necrotiche amplifica l'infiammazione della placca. Non è ben chiarito il meccanismo di deterioramento dell'efficienza degli efferociti nella placca infiammata. Quanto alla necrosi primaria, colture di macrofagi esposte a lipoproteine LDL ossidate e mancanti del recettore RIP3 subiscono un aumento della morte cellulare.

 

le placche associate a sindromi vascolari acute esibiscono calcificazioni non uniformi localizzate (spotty calcification)

Contrariamente a quanto si pensava qualche anno fa, il processo di calcificazione non è passivo, ma attivamente mediato dalle cellule e dai segnali infiammatori. Una deficienza di CSF (Colony Stimulating Factor) provoca accumulazione di calcio nelle placche di topi aterosclerotici. I mediatori dell'infiammazione istruiscono le cellule della muscolatura liscia dei vasi perché alterino le funzioni legate alla formazione di foci di calcificazione.

Grosse placche di calcio possono influenzare la stabilità delle placche. La calcificazione "a spot" può introdurre disomogeneità meccaniche implicate nella rottura della placca.

 

rimodellamento verso l'esterno

Il rimodellamento che accompagna l'espansione della placca è stato associato a rischio di rottura, perché tale rimodellamento richiede la degradazione della matrice cellulare e dell'elastina, le principali proteine delle lamine elastiche delle arterie. I mediatori dell'infiammazione, anche in questo caso, influiscono sull'espressione di proteinasi coinvolte nella collagenolisi, cosa che comporta un assottigliamento del rivestimento. Nei topi geneticamente modificati per l'aterosclerosi, l'inibizione di IL-1, uno dei più importanti tra questi mediatori, porta ad una incapacità del rimodellamento espansivo, come pure una ridotta stimolazione della metalloproteinasi-3.

 

trombogenicità

Le conseguenze della rottura della placca dipendono dall'equilibrio tra fattori procoagulanti e anticoagulanti e profibrinolitici e antifibrinolitici, sia nel tessuto che nella fase fluida (mediatori  di fase fluida, che si formano nel sangue a partire da precursori inattivi). All'interno dell'ateroma un subset di fagociti mononucleari e cellule della muscolatura liscia attivati esprimono in eccesso il potente procoagulante TF (Tissue Factor) in risposta a stimoli infiammatori, tra cui rilevante il ligando CD40. L'intima del vaso, in condizioni normali, seprime numerose funzioni che combattono l'accumulazioni di trombi. Normalmente esprimono trombomodulina e i mediatori endogeni fibrinolitici della famiglia delle urochinasi e il TPA (Tissue-Type Plasminogen Activator). L'intima in condizioni normali contiene anche i proteoglicani di solfato di eparano che hanno proprietà anticoagulanti. L'equilibrio tra questi fattori pro- e anti-coagulatori si sposta nel primo senso in risposta all'azione dei mediatori dell'infiammazione. Nelle cellule epiteliali e muscolari, a seguito di stimoli infiammatori, aumenta la produzione di inibitore dell'attivatore di plasminogeno 1, un importante sopressore della fibrinolisi.

Nel sangue c'è accumulazione di coaguli in risposta all'infiamazione sistemica. Gli epatociti aumentano la produzione di reagenti di fase acuta tra cui IL-6, una citochina proinfiammatoria fortemente implicata nella patogenesi delle sindromi cardiovascolari acute da recenti studi genetici. Tra i reagenti della fase acuta rilasciati dal fegato in risposta all'IL-6, il fibrinogeno partecipa direttamente alla formazione dei coaguli. Gli epatociti aumentano anche la produzione dell'inibitore dell'attivatore di plasminogeno quando sono esposte a IL-6. Le piastrine hanno un ruolo fondamentale nella formazione di trombi arteriosi e forniscono una fonte endogena di mediatori preformati che amplificano e sostengono le risposte infiammatorie locali. Una volta che la placca si è rotta, anche i neutrofili contribuiscoo all'infiammazion locale e allo stress ossidativo. Dunque, in risposta ad una infiammazione, sia la fase solida della placca che quella fluida del sangue cospirano per promuovere l'accumulazione di trombi attraverso una aumentata trombogenicità, diminuite proprietà anticoagulanti e capacità fibrinolitica compromessa.

 

interventi farmacologici anti-infiammatori

Le stratine hanno trasformato, negli scorsi decenni, la prevenzione cardiovascolare. Oltre il loro effetto di abbassamento del colesterolo LDL, hanno azioni anti-infiammatorie dirette, mediate dalla inibizione della prenilazione di piccole proteine G e dalla induzione di fattori di trascrizione come il Kruppel-Like Factor-2 che alterano i pathways infiammatori in modo concertato. Le statine riducono dunque gli eventi coronarici acuti  mediante queste e probabilmente altre proprietà anti-infiammatorie. Tra le strategie anti-infiammatorie, la colchicina ha dimostrato recentemente una promettente riduzione di eventi cardiovascolari, tramite inibizione del pathway degli inflammasomi nei macrofagi. Altri interventi anti-infiammatori diretti  che non riguardano l'LDL sono attualmente incorso di studio.

 

la risposta di risoluzione e la sua mancanza nell'aterosclerosi avanzata.

La risposta infiammatoria è collegata anche ad una fase di risoluzione che, dopo la lesione acuta o l'infezione, elimina l'infiammazione e ripristina l'omeostasi dei tessuti. Molti mediatori di derivazione lipidica e proteici promuovono la risoluzione bloccando l'entrata di cellule infiammatorie e stimolando la loro fuoriuscita; la eliminazione di patogeni, scarto cellulare, citochine infiammatorie e cellule morte (efferocitosi); la riparazione del danno ai tessuti. Le molecole che mediano questa risposta includono mediatori specializati SPM (Specializer Proresolving Mediators), limidi endogeni generati attivamente durante l'infiammaione. La famiglia delle SPM include le lipossine, le resolvine, le protectine e le maresine. Le lipossine derivano dall'acido omega-6 arachidonico, laddove le resolvine, protectine e maresine derivano dall'acido omega-3 eicosapentaenoico (EPA) e docosaexaenoico. I meccanismi di biosintesi delle SPM sono iniziati dalle lipogenasi e cicloossigenasi. Ciascuna SPM possiede distinte strutture che legano e attivano degli specifici recettori sulla superficie delle cellule.

Nei disturbi cronici, il persistere dello stimolo irritativo, come lipidi infiltrati nell'intima, può mutare la fase risolutiva, conducendo ad un circolo vizioso di persistente danno tissutale, che genera DAMP che propagano l'infiammazione. La mancata risoluzione dell'infiammazion può contribuire a molte delle caratteristiche della placca associate con eventi coronarici acuti, incluso il persistente ingresso e la mancata uscita di cellule mieloidi, l'accumulazione di DAMP; la netrosi secondaria delle cellule dell'intima per difettosa efferocitosi, l'aumento della formazione del nucleo necrotico; la defradazione della matrice extracellulare.

 

i meccanismi della de-regolazione degli spm che interessano la aterosclerosi avanzata e la sindrome coronarica acuta.

Oltre ad un persistente stimolo infiammatorio, come la ritenzione sub-endoteliale di apolipoproteine B, altri fattori possono impedire la fase di risoluzione nell'aterosclerosi avanzata. Lo studio mediante spettrometria di altre condizioni infiammatorie croniche come fibrosi cistica, asma, e periodontite aggressiva localizzata ha rivelato un decremento nelle SPM rispetto ai soggetti di controllo. Inoltre, livelli plasmatici più bassi di una specifica SPM chiamata aspirin-triggered lipoxin A4 è associata con un rischio aumentato di aterosclerosi periferica e coronarica. I meccanismi per cui le concentrazioni di SPM diminuiscono nelle patologie infiammatorie croniche devono ancora essere sufficientemente studiati. Le ipotesi includono una insufficiente disponibilità del substrato (cioè mancanza di acidi grassi omega-3 nella dieta); una deregolazione dei segnali forse a causa della soppressione dei recettori per le SPM; capacità di biosintesi compromessa, come può essere una diminuzione della espressione o funzione della lipossigenasi; o un catabolismo iperattivo delle SPM.

Studi osservazionali mostrano che le popolazioni con più alto consumo di omega3 in confronto a omega6 hanno migliori esiti cardiovascolari. Tuttavia gli studi sugli effetti della supplementazione con olio di pesce hanno mostrato risultati variabili. Questa discrepanza può essere dovuta alle differenze negli eventi con cui si voleva stabilire la correlazione (es. l'incidenza di patologie aterosclerotiche oppure le morti coronariche), al fatto che alcuni soggetti possono aver iniziato lo studio con sufficienti riserve di omega3, ad una mancanza di uniformità e qualità dei supplementi utilizzati o alla difficoltà di scoprire effetti in soggetti che già assumevano statine. Nei topi la supplementazione attenua l'aterogenesi e alte dosi di EPA causano una regressione della lesione. La manipolazione genetica del rapporto omega3/omega6 nel senso dell'aumento produce anch'essa nei topi meno aterosclerosi. La prostaglandina E2, per mezzo del recettore EP4 dei macrofagi  può anch'essa mitigare l'infiammazione vascolare.

SPM limitano l'aterosclerosi nei topi di laboratorio ma non in quelli nutriti con diete iperlipidiche e obesi: l'obesità è associata ad una risoluzione carente o manchevole. La dieta potrebbe giocare un ruolo nel modulare il rischio di ACS in parte influenzando la risoluzione dell'infiammazione.

 

potenzialità terapeutiche delle spm per le sindromi coronariche acute: soppressione dell'infiammazione senza compromettere le difese immunitarie

Le SPM limitano l'infiammazione senza provocare immunosoppressione, il che la pone su un piano a parte rispetto a molte altre correnti strategie anti-infiammatorie. Le SPM inducono efferocitosi. I topi obesi aterosclerotici che consumano olio di pesce contenente omega-3 che contiene l'EPA, il precursore delle SPM e DHA (acido docosaesaenoico) mostravano un miglioramento della efferocitosi danneggiata. La conversione di EPA e DHA in SPM nella vascolatura dell'ateroma può contribuire a questo beneficio. Allo stesso modo le resolvine RvD1 e RvD2 possono recare beneficio alle arterie con lesioni aterosclerotiche. L'ateroma, in vivo aumenta la generazione di resolvine della serie D e la somministrazionie terapeutica di resolvine riduce l'iperplasia dell'intima e il flusso dei leucociti nell'arteria lesa. Queste resolvine bloccano la migrazione, proliferazione e l'adesione dei monociti, e i segnali infiammatori nelle cellule muscolari lisce dei vasi.

 

possibile ruolo dell'aspirina a basse dosi per la protezione contro le sindromi coronariche acute

L'aspirina a basse dosi previene le recidive di ACS, un effetto tradizionalmente ricollegato alla sua azione anti-piastrinica mediata dall'inibizione della ciclo-ossigenasi. Tuttavia, l'aspirina ha anche azioni anti-infiammatorie, come quella di bloccare il flusso di leucociti verso i tessuti infiammati, che sono difficili da attribuire solo ad una ridotta biosintesi di prostanoidi. L'aspirina altera il sito attivo di COX-2 in un modo che permette la conversione dell'acido arachidonico in 15R-HETE (acido 15R-idrossieocosatetraenoico) nelle cellule muscolari lisce dei vasi, un precursore per la produzione da parte dei leucociti delle 15-epi-lipossine che hanno una azione pro-risolutiva. I soggetti che assumono aspirina a basse dosi formano queste lipossine, che limitano l'infiltrazione dei neutrofili nei siti di infiammazione e stimoilano la produzione di ossido nitrico. COX-2, acetilato dall'acido acetilsalicilico può anche processare EPA e DHA per favorire la produzione di altre resolvina. Così, gli effetti non mediati da prostanoidi di mediazione della risoluzione di aspirina a basse dosi potrebbero contribuire alla loro capacità di proteggere da ACS

prostanoidi

I prostanoidi sono una sottoclasse di eicosanoidi che consiste nelle prostaglandine (mediatori delle reazioni infiammatorie e anafilattiche), i tromboxani (mediatori della vasocostrizione), e le prostacicline (attivi nella fase di risoluzione dell’infiammazione).

La cicloossigenasi (COX) catalizza la conversione degli acidi grassi essenziali liberi in prostanoidi mediante un processo a due tempi.

La biosintesi dei prostanoidi avviene per azione della fosfolipasi A2 sui lipidi di membrana. L'enzima consente il rilascio di acido arachidonico che, per azione della ciclossigenasi avvia il processo a catena che porta alla formazione dei prostanoidi.

 

la immuno-modulazione adattiva può sopprimere l'infiammazione

Alcune funzioni delle cellule immunitarie innate e adattive possono controbilanciare i pathways pro-infiammatori implicati in ACS e mitigare l'infiammazione. Per esempio, i monociti con basso Lyc6 e i macrofagi M2 che sono attivati in alternativa possono modulare l'infiammaizone. Sebnene i linfociti B2 sembrano aggravare l'aterosclerosi, i linfociti B1 elaborano anticorpi naturali che possono far cessare l'aterogenesi. I linfociti T-Helper2 possono elaborare IL-4 e IL-10, che possono limitare l'infiammazione e spingere i macrofagi verso la polarizzazione di M2. Le cellule T di controllo, elaborando il TGF-beta (Transforming Growth Factor Beta) possono controbilanciare la cascata di mediatori pro-infiammatoria rilasciata dai linfociti TH1 e in tal modo modulare le risposte infiammatorie all'ateroma.

 

immuno-modulazione innata nell'aterosclerosi e sua rilevanza per le ACS

Il sistema immunitario innato rappresenta un sistema di difesa contro gli agenti patogeni - un primo meccanismo di risposta che può mobilitarsi rapidamente contro minacce senza precedente esposizione all'agente che provoca la reazione. Il sistema immunitario innato risponde anche alle lesioni tissutali per iniziare la risposta e il processo di riparazione. L'attivazione immunitaria innata ha un ruolo centrale nella patogenesi dell'aterosclerosi. Il metabolismo non-regolato dei lipidi, in particolare l'abbondanza di lipoproteine che contengono apolipoproteina B e la loro ritenzione nella parete arteriosa contribuiscono allo sviluppo delle foam cells. Questo processo anomalo e la produzione di lipoproteine modificate o native che si accumulano nelle placche può attivare i recettori dell'immunità innata espressi dai macrofagi, inclusi i recettori NOD-simili, i recettori spazzini e i recettori TLR, attivando in tal modo la risposta infiammatoria.

 

recettori nod-simili e aterosclerosi

Le placche aterosclerotiche contengono cristalli di colesterolo, sia negli spazi extracellulari che entro i macrofagi contenuti nella placca. Sebbene questo fosse in passato considerata una caratteristica degli stadi avanzati, studi recenti mostrano la presenza di cristalli in lesioni allo stato iniziale nei topi. I macrofagi possono riempirsi di questi cristalli, ciò che risulta nell'attivazione dell'inflammasoma espresso grazie ai recettori NOD, LRR e pyrin domain-containing 3. Questo complesso intracellulare processa IL-1beta nella forma attiva, il bersaglio di uno studio clinico per prevenire le recidive di ACS. Oltre che la saturazione con cristalli pre-formati, anche quella dei macrofagi con colesterolo può portare alla formazione de novo di cristalli di colesterolo e all'innesco della cascata a partire dai recettori mediata in parte da CD36.

Sebbene non ancora indagati, altre sostanze cristalline o amiloidi nella placca, come fosfato di calcio o amiloide sierico A possono rappresentare DAMPS (Damage Activated Molecular Patterns) che possono scatenare la secrezione di inflammasoma e IL-1-beta. Oltre a inibire specificamente IL-1-beta il blocco dell'attivazione dell'inflammasoma offre un'altra strategia per prevenire ACS. La colchicina diminuisce la prevalenza di ACS in pazienti con gotta, e la recente somministrazione di colchicina a basse dosi nel quadro di un esperimento con pazienti senza gotta ma con patologie coronariche ribadisce il potenziale di questo approccio.

 

tlss (toll-like receptors) e aterosclerosi

Il ruolo del pathway di segnalazione TLR nel promuovere l'aterosclerosi ha ricevuto conferma da studi sui topi geneticamente modificati per bloccare la cascata di mediatori mostrano protezion nei confronti dell'aterosclerosi. Questi studi hanno iniziato la ricerca per l'individuazione di ligandi endogeni che si accumulano durante l'ipercolesterolemia e nelle placche e che possono attivare questi recettori che sono sensibili ai microbi nei macrofagi. Tra i candidati c'è l'LDL ossidato, estesamente studiato, ma numerosi fattori e pathways possono contribuire all'inizio e mantenimento della infiammazione da macrofagi indotta da TLR nelle placche aterosclerotiche. LDL ossidato è rimasto comunque nel mirino dei ricercatori con sforzi recenti per creare un vaccino per ridurre il rischio di ACS eliminando LDL man mano che si forma prima che possa stimolare il pathway collegato ai TLR. nei macrofagi.

 

polarizzazione dei macrofagi nella placca

Le analisi istologiche nei topi e negli esseri umani mostrano la presenza di macrofagi M1 e M2 nella placca. Gli M1 si localizzano in aree diverse dai meno infiammatori M2. Una prima ricostruzione, troppo semplicistica, ritiene che M1 promuovano mentre M2 contrastino l'infiammazione, ma questo trascura la varietà di segnali a cui sono esposte queste cellule nel micro-ambiente della placca e che attivano differenti programmi funzionali. Questi processi, detti di polarizzazione, rimangono tuttora incompiutamente delineati, ma senza dubbio oncludono interazioni con il sistema immune adattivo; per esempio TH1 e TH2 secernono potenti fattori di polarizzazione dei macrofagi (es. interferone-gamma e IL-4 rispettivamente). Sebbene lo spettro delle funzioni dei macrofagi in vivo sia più ampio di quello mostrato in vitro, la distinzione M1/M2 fornisce ancora un utile quadro di riferimento, sia pure ipersemplificato. Una notevole mole di dati conferma che esistono subset di macrofagi con proprietà differenti, alcuni infiammatorie altre di riparazione dei tessuti. I macrofagi M1 secernono citochine infiammatorie pro-aterosclerotiche come IL-6 e IL-12, come pure radicali liberi e azoto che peggiorano lo stress ossidativo entro la placca. Le cellule M2, al contrario, secernono bassi livelli di IL-6 e IL-12, ma alti livelli di una delle citochine endogene anti-infiammatorie, IL-10. I macrofagi M2 mostrano di essere spazzini di cellule necrotiche, sostenuta efferocitosi e ridotta produzione di specie reattive derivate dall'azoto (RNS, principalmente ossido nitrico e perossinitrito), che tutto considerato sono processi pro-risoluzione dell'infiammazione.

I topi aterosclerotici mostrano un equilibrio di M1 e M2 nella placca. Lesioni avanzate hanno una pertenguale più alta di macrofagi che esprimono markers dello stato M1. In vari modelli murini di regressione della patologia aterosclerotica l'equilibrio si sposta verso verso i markers delle funzioni di M2. Queste funzioni sono coerenti con i cambiamenti osservati nella regressione: la perdita di cellule infiammatorie e il rimodellamento del tessuto verso una morfologia con minor rischio di rottura, come una riduzione del nucleo necrotico.

Uno studio suggerisce che si può manipolare l'equilibrio M1/M2 a scopo preventivo o terapeutico. I pazienti hanno ricevuto infusione di HDL prima di aterectomie periferiche e hanno mostrato una diminuzione di mediatori delle infiammazione nelle loro placche asportate rispetto a quelle tolte nel gruppo di controllo. In topi in cui lo stato M2 è stato indotto con iniezioni di IL-13 (un forte polarizzatore in vitro che viene secreto insieme a IL-4 dai linfociti TH2) o antigeni di elminti riducevano la progressione dell'aterosclerosi e dell'infiammazione della placca.

Gli studi preclinici mostrano che le strategie di arricchimento del contenuto di M2 delle placche sono vie percorribili per prevenire il raggiungimento da parte della placca dello stadio ACS o per promuovere una rapida risoluzione dell'infiammazione in caso di ACS. Questo potrebbe essere ottenuto con somministrazione di molecole mediatrici di pathways collegati ai linfociti TH2, oppure regolatori indiretti della polarizzazione degli M2 come HDL o da invio mediante nanoparticelle di RNA interferente, RNA antisenso e peptidi.

 

ritenzione e eliminazione dei macrofagi nella placca

Come si è visto, l'arricchimento con macrofagi caratterizza le placche che provocano ACS fatali. I principali processi visti sono il reclutamento di monociti, la loro proliferazione in loco, la morte cellulare e l'efferocitosi. Ci sono indizi di un altro processo, la emigrazione di macrofagi dalla placca, che è tipica della rase di riparazione. La capacità dei macrofagi di lasciare la placca sembra dipendere da almeno 2 pathways: uno che regola la loro ritenzione (chemiostasi) e uno che regola la loro movimentazione (chemiotassi). Riguardo al primo si è scoperto che molecole neuronali di guida  mediano gran parte della ritenzione nelle placche aterosclerotiche. Una di tali molecole è la netrina-1, che inibisce le risposte chemiotattiche dei macrofagi a diverse citochine in vitro. Quando i topi geneticamente modificati in cui è stato cancellato il recettore LDL ricevono un trapiando di midollo con bassa espressione di netrina essi mostrano un rallentamento della placca rispetto a topi cui è trapiantato midollo normale. Test sensibili alla migrazione dei macrofagi hanno mostrato una emigrazione accresciuta in topi privi di netrina-1. Altri fattori che inibiscono lo spostamento delle cellule, come le molecole di adesione, che sono espresse maggiormente nei macrofagi di placche in progresso rispetto a quelli in placche in regresso, favoriscono pure la ritenzione.

I meccanismi di uscita dei linfociti, o ritornando nel lume o uscendo verso i vasi linfatici rimangono poco definiti. Dati provenienti dai casi di regressione a seguito di trapianto dell'aorta  hanno dimostrato l'implicazione di CCR7. Le cellule CD68+ che emigrano (prevalentemente macrofagi) hanno una aumentata espressione di CCR7, il recettore delle chemiochine CCL19 e CCL21. Inoltre, il blocco di questo pathway conduce a una significativa ritenzione nella placca. È ipotizzabile che uno sterolo sensibile ai livelli di colesterolo nel gene che esprime CCR7 si attivi maggiormente quando il colesterolo scende, in fase di regressione. Netrina-1 o semaforina-3E, un'altra molecola guida neuronale possono bloccare la chemiotassi dei macrofagi verso CCL19 o CCL21 e nelle placche in regresso i loro livelli scendono.

La manipolazione dei fattori di ritenzione e emigrazione può avere applicazioni terapeutiche riducendo il contenuto di cellule infiammatorie della placca. Di recente è stato mostrato che piccole molecole interferenti di RNA che hanno come bersagli l'infiammazione da monociti/macrofagi in vito possono essere veicolate da nanoparticelle e potrebbero essere adattate per inibire l'espressione di netrina-1. Le statine inducono l'espressione del gene CCR7 nei macrofagi della placca nei topi e producono emigrazione dei macrofagi. Lo stesso processo potrebbe aver luogo negli esseri umani

 

conclusioni

Il ruolo dell'infiammazione nell'erosione della placca rimane controverso e inesplorato. Sebbene il concetto di infiammazione pro-aterogena hanno trasformato la nostra comprensione della fisiopatologia delle sindromi coronariche acute, rimane da affiancare alle terapie esistenti nuove terapie basate su queste nuove scoperte.

 

Manfro, "L'efferocitosi difettiva dei fagociti presenti nelle lesioni aterosclerotiche avanzate dipende dal clivaggio del recettore Mertk da parte della metalloproteinasi ADAM17", IRIS Verona, 2011

L’aterosclerosi è un processo infiammatorio cronico caratterizzato da un progressivo accumulo di lipoproteine a bassa densità (LDL) nello spazio sottoendoteliale e da un coinvolgimento di numerose cellule attivate (cellule muscolari lisce, macrofagi e linfociti T). E’ responsabile di eventi clinici potenzialmente letali come la sindrome coronarica acuta e l’ictus, che avvengono quando si ha la rottura della placca. Nella placca aterosclerotica è presente un elevato grado di apoptosi delle cellule muscolari e dei macrofagi soprattutto evidente nei siti di rottura. L’apoptosi è un processo di morte programmata ordinato e geneticamente regolato e le cellule apoptotiche espongono segnali di riconoscimento (come la fosfatidilserina) per la loro rimozione ed eliminazione. In condizioni fisiologiche, esse sono rapidamente riconosciute ed internalizzate da macrofagi specializzati (fagociti o efferociti) attraverso un processo definito fagocitosi o efferocitosi. Una rapida clearance porta ad una soppressione della risposta proinfiammatoria con conseguente riduzione della componente cellulare anche nelle placche aterosclerotiche in fase iniziale. Sono coinvolti nel processo di riconoscimento delle cellule apoptotiche i recettori appartenenti alla famiglia TAM (Tyro3, Axl e Mertk) e la molecola ponte GAS6 (growth arrest-specific gene 6). Un difetto a livello di queste molecole può portare ad efferocitosi difettiva, ossia al mancato riconoscimento delle cellule apoptotiche le quali vanno poi incontro a necrosi secondaria e quindi nelle placche aterosclerotiche portare all’espansione del core necrotico. Studi in modelli animali hanno evidenziato come il recettore Mertk, maggiormente espresso nei macrofagi efferociti, venga clivato nella sua porzione extracellulare da una proteasi specifica, ADAM17. In questo modo si forma la proteina solubile s-Mer che verosimilmente potrebbe competere per il legame con la proteina ponte GAS6 portando ad efferocitosi difettiva.

Quindi i nostri risultati suggeriscono che ADAM17 clivando il dominio extracellulare di Mertk potrebbe determinare la riduzione della disponibilità di GAS6 e quindi favorire l’efferocitosi difettiva nelle placche carotidee umane.

 

Ajjan et al., "Coagulation and atherothrombotic disease", Atherosclerosis, 2006 (520)

Gli anticoagulanti agiscono come meccanismi anti-trombotici.

La disfunzione endoteliale è uno dei primi difetti che contribuiscono allo sviluppo della patologia cardiovascolare. L'aumentata permeabilità delle cellule endoteliali ha come conseguenza l'entrata di lipidi e la migrazione di cellule infiammatorie entro il vaso, con successiva formazione di macrofagi carichi di lipidi chiamati foam cells. Queste cellule, nel loro insieme formano strie di depositi di grasso (fatty streakes) che costituiscono la prima lesione visibile del processo aterosclerotico e può essere osservata già nell'infanzia in bambini obesi. La presenza di foam cells crea una condizione infiammatoria nella parete del vaso, che ha come conseguenza il rilascio di mediatori dell'infiammazione e la deposizione di matrice extracellulare, che dà vita alla placca aterosclerotica matura. Più tardi nella vita del soggetto, la placca diviene instabile e alla fine si rompe, esponendo un nucleo protrombotico, ciò che ha come conseguenza l'attivazione del processo coagulatorio e la formazione di un trombo. Durante il processo aterosclerotico la condizione patologica è spesso silente e diviene sintomatica solo una volta che la placca si rompe e viene attivata la coagulazione del trombo. In certi pazienti non vi è rottura, ma erosione della superficie della placca e la formazione del trombo in questi casi può essere secondaria ad uno stato trombogenico scatenato da un certo numero di fattori.

La formazione del trombo procede per due pathways. a) la via che coinvolge i fattori FXII, FXI, FIX e FVIII; b) la via estrinseca che vede coinvolto il fattore FVII attivato dal fattore tissutale. Queste due vie convergono in un pathway che comprende i fattori FX, FV, trombina e fibrinogeno.

La formazione del trombo avviene con la rottura della parete del vaso, che porta il plasma a contatto con il fattore tissutale (TF). Le piastrine aderiscono al sito della lesione, mediate in parte dalla interazione del fattore di von Willebrand (vWf) col collagene e vengono attivate. I pathways coagulatori portano alla produzione di trombina, che converte il fibrinogeno del plasma (una proteina plasmatica creata nel fegato) in fibrina dando così inizio alla formazione di un coagulo, che rimane limitato al sito della lesione. Le piastrine, stimolate da trombina e dal collagene cambiano forma e producono il fattore FV, che viene attivato da FX e trombina. La trombina. La trombina provoca in via mediata anche l'attivazione di FXI sulla superficie delle cellule. Alla fine si crea un "tappo" emostatico.

Coaguli composti da fibre sottili e piccoli pori sono associati ad un rischio cardiovascolare aumentato, perché sono più difficili da sciogliere da parte di molecole antitrombotiche.

L'infiammazione gioca un ruolo chiave nella formazione, progressione e rottura della placca. Le cellule endoteliali sane formano una barriera protettiva che impedisce alle cellule infiammatorie di migrare all'interno delle pareti del vaso. Ma le cellule endoteliali alterate esprimono diverse molecole di adesione che legano leucociti,che poi migrano nello spazio sub-endoteliale con l'aiuto della chemio-attrazione delle citochine. Oltre alle cellule infiammatorie, le cellule endoteliali alterate fanno filtrare colesterolo LDL, che nel luogo di deposito si trasforma in ox-LDL, una molecola ossidata fortemente aterogena con proprietà proinfiammatorie. Succesisvamente la risposta infiammatoria si intensifica e le cellule T sono attratte nel sito della lesione e producono, insieme alle cellule endoteliali, una varietà di citochine per assicurare la continuazione della reazione infiammatoria. I monotici che sono migrati nello spazio sub-endoteliale si trasformano in macrofagi, che assorbono lipidi e si trasformano in foam cells. L'accumulazione di foam cells porta alla formazione di un nucleo lipidico, ricco di fattore tissutale TR protrombotico. La reazione infiammatoria fa moltiplicare e migrare nel sito della lesione le cellule muscolari lisce (VSMC), e la secrezione di queste cellule contribuisce all'espansione della matrice extracellulare. Un sottile rivestimento separa il nucleo lipidico dal sangue che scorre nel lume del vaso, ma la produzione di collagene rafforza e stabilizza il rivestimento fibroso. I macrofagi producono la metalloproteinasi di matrice (MMP) che degrada il collagene rendendo il rivestimento debole e suscettibile di rottura. Una volta che la placca si rompe, permette il contatto tra il nucleo lipidico protrombotio e il sangue, e inizia il processo di formazione del trombo.

Le citochine favoriscono in molti modi il processo di coagulazione, ad esempio inibendo la produzione di ossido nitrico (anticoagulante) da parte delle cellule epiteliali, e promuovendo la moltiplicazione delle piastrine.

L'infiammazione agisce anche in modo generalizzato. I livelli plasmatici di un certo numero di molecole infiammatorie aumentano nei pazienti con patologie coronariche, inclusa IL-1, IL-6, CRP e il complemento. IL-6 stimola gli epatociti a produrre fibrinogeno, una glicoprogeina plasmatica che favorisce la coagulazione e PA-1 (Plasminogen activator inhibitor 1), il che induce un generale stato pro-trombotico. L'aumento dei livelli di CRP è associato ad aumento del fibrinogeno e riduzione della capacità fibrinolitica. Nell'aterosclerosi c'è quindi uno stato di ipercoagulabilità e una infiammazione sistemica. L'inibizione dei meccanismi anticoagulanti può propagare la risposta infiammatoria. La proteina C inibisce l'adesione dei neutrofili all'endotelio, mentre la trombomodulina  ha una diretta attività antinfiammatoria sulle cellule endoteliali e la inibizione di queste molecole può produrre una intensificazione della risposta infiammatoria. Le piastrine possono aumentare il proesso infiammatorio mediante rilascio di fattori chemiotattici e la modulazione delle proprietà dei leucociti e delle cellule endoteliali. Inoltre, l'attivazione del pathway della coagulazione può aumentare direttamente la risposta infiammatoria. Il dimero D di fibrina rappresenta un marker della formazione di fibrina intravascolare. Livelli di dimero D sono predittori di rischio coronarico e sono correlati con i livelli di PRC e IL-6 e confermano il legame tra trombosi e infiammazione, che potrebbe essere collegato alla stimolazione mediata dal dimero D del rilascio di IL-6 da parte dei monociti. Riassumendo, l'infiammazione è associata alla iper-regolazione di fattori procoagulanti, ipo-regolazione di fattori anticoagulanti e inibizione dell'attività fibrinolitica sia locale che sistemica. Questo si traduce in un maggiore rischio di formazione di trombi. A sua volta la diminuzione di attività anticoagulante  e la stimolazione del sistema coagulatorio sono associati con un aumento della risposta infiammatoria che crea un circolo vizioso che può essere interrotto solo smorzando la risposta infiammatoria e/o controllando la formazione di trombi.

 

 

anticorpi, antigeni, complemento

Gli antigeni sono sostanze in grado di essere riconosciute dal sistema immunitario come pericolose. Gli anticorpi sono proteine circolanti o esistenti sulla membrana dei linfociti T che si legano agli antigeni innescando meccanismi che portano alla loro eliminazione mendiante opsonizzazione, fagocitosi e lisi. Essenziali per questi meccanismi sono le proteine di complemento, che circolano in forma libera nel sangue oppure sono presenti sulle membrane dei linfociti. Il loro insieme viene detto complemento.

 

proteina c

La proteina C o autoprotrombina IIA o BCF XIV (Blood Coagulation Factor XIV)  regola l'anticoagulazione, l'infiammazione e la morte cellulare e mantiene la permeabilità delle pareti dei vasi. La proteina C attivata (APC) fa questo inattivando proteoliticamente il Fattore Va e il fattore VIIIa. La proteina C si attiva quando di lega alla trombina grazie alla trombomodulina ed ai recettori endoteliali (EPCRs). Essa svolge un ruolo cruciale come anticoagulante.

 

proteina c reattiva

La proteina C reattiva non ha niente a che fare con la proteina C. È prodotta dal fegato in risposta a livelli acuti di infiammazione, a seguito di secrezione di IL-1 da parte dei macrofagi, delle cellule T e degli adipociti. Il suo ruolo fisiologico è  legare la lisofosfatidilcolina espresa sulla superficie di cellule morte o morenti e alcuni tipi di batteri per attivare il sistema di complemento.

 

disfunzione endoteliale e aterotrombosi

L'endotelio rappresenta il più grande organo del corpo, che copre un'area di 1-7 mq. Le cellule endoteliali proteggono i vasi danguigni non solo fornendo un rivestimento meccanico ma anche controllando il tono vascolare mediante il rilascio di vasodilatatori come l'ossido nitrico (NO) e prostaciclina. Le cellule endoteliali giocano un ruolo nel processo di coagulazione seernendo un certo numero di agenti protrombotici, incluso il fattore di von Willebrand, FV, l'inibitore dell'attivatore di plasminogeno e il fattore tissutale. Queste cellule producono anche un certo numero di fattori anticoagulanti, incluso l'ossido nitrico, la prostaciclina, l'enzima ateplase (tPA - Tissue Plasminogen Activator), la proteina C, la proteina S e la trombomodulina. In più, le cellule epiteliali hanno un ruolo nell'infiammazione medante la produzione di molecole di adesione, NF-kB e diverse citochine. Alcuni agenti di derivazione endoteliale hanno più di un ruolo protettivo: ad es. l'ossido nitrico ha una attività vasodilatatoria, anti-infiammatoria e in più impedisce l'aggregazione piastrinica. In un ambiente normale c'è un equilibrio nella secrezione di questi prodotti che mantiene l'integrità della superficie, assicurando la protezione della parete del vaso e fornendo un normale flusso sanguigno. Il danno endoteliale altera questo equilibrio e dà il via a eventi che giocano un ruolo centrale nella progressione del processo aterosclerotico. Ipertensione, diabete, iperlipidemia e fumo possono produrre disfunzione endoteliale.

 

l'ossido nitrico

L'ossido nitrico prodotto dalle cellule endoteliali ha un certo numero di azioni sulla parete dei vasi, inclusa la vasodilatazione e l'nibizione dell'infiammazione e dell'aggregazione piastrinica. La ridotta produzione di ossido nitrico è stata associata a disfunzione endoteliale e potrebbe essere dovuta a una ridotta disponibilità del substrato (L-arginina), diminuita produzione attraverso l'inibizione della ossido-nitrico-sintasi (NOS) o diminuita biodisponibilità di ossido nitrico. L'infiammazione e lo stress ossidativo, che sono riscontrati comunemente nei vasi aterosclerotici, colpiscono entrambi la produzione di ossido nitrico. Questo conduce a insufficienza nella dilatazione dei vasi e conseguentemente aumenta lo stress fisico sulle cellule endoteliali, contribuendo alla disfunzione endoteliale. La diminuita produzione di ossido nitrico provoca anche la proliferazione delle cellule della muscolatura liscia (VSMC), lo stimolo dell'aggregazione piastrinica, l'aumentata adesione e infiltrazione dei leucociti, tutti fattori che contribuiscono allo sviluppo del processo aterosclerotico. Clinicamente, i pazienti con sindrome coronarica acuta producono meno ossido nitrico in confronto con pazienti con angina stabile, ciò che mostra come l'osido nitrico sia implicato nelle complicazioni trombotiche.

 

il fattore di von willebrand

vWF media l'adesione delle piastrine all'endotelio danneggiato e stabilizza il fattore FVIII. C'è una correlazione inversa tra la dilatazione provocata dal flusso sanguigno e i livelli plasmatici di vWf, che suggerisce che questa molecola rappresenta un buon marker della disfunzione endoteliale. Altri studi hanno mostrato una correlazione tra livelli plasmatici di vWf e patologie coronariche, anche se la correlazione talvolta sparisce con la correzione per altri fattori di rischio.

 

il fattore tissutale e il pathway inibitorio del fattore tissutale

TF non è rilevabile nelle normale cellule endoteliali ma può essere trovato nelle placche ateromatose, il che tradisce un ruolo nella genesi di questa patologia. Clinicamente, i livelli plasmatici di TF sono aumentati in individui con sindrome coronarica acuta rispetto a pazienti che hanno una angina stabile, il che suggerisce che questa molecola rappresenta un marker di rischio. D'altro canto, i livelli plasmatici di TFPI, l'inibitore della coagulazione TF-dipendente sono elevati nelle patologie cardiovascolari, sebbene non tutti gli studi confermino queto dato.

 

PAI-1 e tPA

PAI-1 è prodotto dalle cellule endoteliali, dagli adipociti, dalle cellule mononucleate, dai fibroblasti e dalle piastrine, mentre tPA è prodotto principalmente dalle cellule endoteliali. Il ruolo di queste molecole nei disordini aterotrombotici è discusso qui di seguito.

 

il ruolo dei fattori coagulanti nella patologia aterotrombotica

Sia il patrimonio genetico che l'ambiente giocano un ruolo nello sviluppo della patologia aterotrombotica. La storia familiare è un noto fattore di rischio per la trombosi aterocoronarica e studi sui gemelli hanno dimostrato una similarità di rischio maggiore per gli omozigoti rispetto ai dizigoti. Questi studi hanno mostrato, riguardo ai fattori di coagulazione e alla struttura dei coaguli che i fattori genetici contribuiscono a spiegare la variazione individuale sia degli zimogeni (proenzimi) della coagulazione sia dei loro prodotti attivati. Perdipiù, la struttura del coagulo è alterata nei parenti dei soggetti con patologia coronarica rispetto ai controlli, il che suggerisce una influenza genetica sulla struttura finale del coagulo. Un recente studio sui gemelli mostra che il 39% della variazione della struttura del coagulo è spiegata dalla genetica. Oltre i fattori genetici di rischio, un esteso corpo di prove indica che fattori ambientali hanno un ruolo centrale nello sviluppo della patologia coronarica. Questo è dimostrato chiaramente dagli studi sugli emigranti. Uno di questi ha analizzato la mortalità in finlandesi che sono emigrati in Svezia e ha riscontrato che i migranti acquisiscono il rischio del paese in cui migrano.

 

determinanti genetici e ambientali dei fattori di coagulazione

 

il fattore tissutale (tf)

Il fattore tissutale (TF) attiva il sistema della coagulazioe formando un complesso con il fattore FVII attivato. I livelli plasmatici di TF sono elevati in pazienti con patologia coronarica, con punte in coloro che hanno una sindrome acuta rispetto ai casi di angina stabile.

 

effetti di fattori genetici

Uno studio recente ha mostrato una associazione debole ma significativa tra il polimorfismo del gene -603 A/G promoter e l'infarto del miocardio, con una misura del rischio di 1,44 per l'allele G dopo le correzioni per età, sesso, ipercolesterolemia, diabete e fumo. Gli autori avanzano l'ipotesi che questo genotipo sia collegato a più elevati livelli basali di TF. Però i livelli di TF non sono stati misurati nello studio e i meccanismi della patogenesi rimangono da chiarire. Altri hanno trovato una associazione tra l'allele -603G e la patologia coronarica o i livelli plasmatici della proteina. I gemelli omozigoti con un allele D in posizione -1208 mostrano livelli di TF più bassi.

 

effetti di fattori ambientali

Sambola e colleghi hanno indagato sulla attività del TF di 36 soggetti diabetici, 10 fumatori e 10 con iperlipidemia rispetto a 10 soggetti di controllo. I diabetici avevano una maggiore attività di TF, che diminuiva significativamente migliorando il controllo glicemico. Stessa cosa per fumatori e soggetti con iperlipidemia. Non è chiaro se gli aumentati livelli di TF siano legati allo sviluppo di una patologia aterotrombotica.

 

il fattore fvii

FVII è uno zimogeno che sviluppa due forme quando attivato dal TF. Gioca un ruolo importante nell'inizio della formazioe del trombo. In individui senza tendenze emorragiche FVII può essere protrombotico. Tuttavia i dati riguardo FVII e CAD (Coronary Artery Disease) sono contraddittori, e rivelano sia un aumento che una diminuzione in pazienti con CAD. L'attività coagulatoria di FVII (FVIIc) è stata analizzata e si è rivelata associata ad eventi cardiaci ischemici fatali piuttosto che non fatali in uno dei primi lavori sull'argomento, ma studi prospettivi non l'hanno confermato.

 

effetti dei fattori genetici

Lo studio dei polimorfismi di FVII relativi a Arg353Gln e HVR4 mostrano che alcuni individui hanno un rischio significativamente più basso di infarto del miocardio e livelli più bassi dell'antigene FVII e FVIIc anche se altri studi non l'hanno confermato e non hanno riscontrato connessioni con eventi clinici, il che in definitiva mostra che tali polimorfismi giocano uno scarso ruolo. Il polimorfismo Arg353Gln però contribuisce per il 24-30% alle variazion del fattore FVIIa in donne con CAD e in soggetti di controllo, suggerendo un ruolo nell'aterotrombosi. Alcuni polimorfismi nella regione promoter di FVII sono associati con bassi livelli di FVII che potrebbero essere protettivi mentre altri sono associati a livelli più elevati e questi polimorfismi sono stati collegati ad eventi clinici rispettivamente favorevoli e avversi.

 

effetti di fattori ambientali

L'associazione dei livelli di FVIIc con BMI, diabete, iperlipidemia e menopausa suggeriscono che fattori ambientali possano influenzare questo fattore di coagulazione. Inoltre, la riduzione dei trigliceridi mediante la dieta o i farmaci produce una diminuzione dei livelli di FVII. Il fattore FVII potrebbe legare le VLDL il che potrebbe prolungare la loro emivita oppure potrebbe essere, al contrario, che le particelle lipidiche promuovono direttamente l'attivazione di FVII.

 

fibrinogeno

25 anni fa è stata riferita una associazione tra livelli plasmatici di fibrinogeno e CAD. I livelli sono stati ripetutamente mostrati  avere un valore prognostico in pazienti con CAD.

 

effetti di fattori genetici

[…]

 

effetti di fattori ambientali

Il diabete di tipo I e II mostra livelli aumentati di fibrinogeno, che potrebbe essere uno dei meccanismi responsabili dell'aumentato rischio cardiovascolare in questi soggetti. Inoltre, tali livelli sono collegati al grado di iperglicemia, anche se l'effetto di un migliore controllo glicemico sul fibrinogeno non è chiaro. Dieta mediterranea e regolare eserizio fisico sono associati ad una riduzione dei livelli di fibrinogeno e sono importanti fattori preventivi della CAD. I polifenoli del vino e di alcuni tipi di frutta e verdura, che sono essenziali in una dieta mediterranea, inferferiscono con il metabolismo dell'acido arachidonico e di conseguenza inibiscono l'aggregazione piastrinicae riducono la sintesi di mediatori pro-trombotici e pro-infiammatori. In più, i polifenoli possono inibire l'espressione dille molecole di adesione e dell'attività di TF. Invece il fumo e la stagione invernale sono associati ad un aumento del fibrinogeno e predispondono a CAD. Le infezioni polmonari deimesi invernali potrebbero essere responsabili di questo aumento.

 

il fattore xiii

Il fattore FXIII circola nel plasma e viene attivato dalla trombina e le sue sub-unità si legano al coagulo, rendendolo più resistente alla trombolisi. Tuttavia mancano dati sul rapporto tra livelli e attività di FXIII e aterotrombosi.

 

effetti dei fattori genetici.

[…]

 

effetti dei fattori ambientali

I lavori sugli effetti dei fattori ambientali su FXIII sono limitati. Fumo, ipertensione, diabete sono associati a maggiori livelli di sub-unità mentre altre sub-unità sono collegate al grado di sindrome metabolica.

 

pai-1 e tpa

La produzione di plasmina dal plasminogeno è mediata da tPA, che a sua volta è regolato dalla rapida azione di PAI-1. Solo una piccola percentuale di tPA è attiva e la maggior parte forma un complesso con PAI-1. I livelli di questi due fattori fibrinolitici sono stati collegati ad un maggiore rischio di infarto del miocardio, ma l'associazioe con CAD sparisce con gli aggiustamenti per altri fattori di rischio. PAI-1 non è quindi probabilmente un marker indipendente di rischio. Molti studi mostrano una correlazione tra livelli di PAI-1 e rischio di CAD, ma esiste pure una forte correlazione tra PAI-1 e altri fattori di rischio che potrebbe indicare che non è un marker indipendente. Lavori recenti hanno mostrato una correlazione dei livelli dei due fattori e infarto del miocardio

 

effetti dei fattori genetici

[…]

 

 

effetti dei fattori ambientali

I livelli di PAI-1 sono collegati ai marker della sindrome metabolica, incluso BMI, pressione del sangue e livelli plasmatici di TG. L'attività fisica è associata a diminuzione dei livelli, che potrebbe essere l'effetto di un migliorato BMI e profilo lipidico. Il consumo acuto e cronico di alcol eleva i livelli ma in vitro le cellule epiteliali reagiscono riducendone la produzione. I fumatori non hanno livelli più alti di PAI-1. I livelli di tPA sono influenzati da fumo, ipertrigliceridemia e sedentarietà.

 

piastrine

Studi preliminari suggeriscono che l'aggregabilità delle piastrine in risposta all'adenosin-fosfato non varia nei soggetti con CAD. Uno studio successivo ha mostrato una aumentata mortalità tra individui con alto conteggio delle piastrine e rapida aggregazione in risposta al fosfato di adenosina. Ma è stato contraddetto da un altro studio. Lavori recenti mostrano un'associazione tra l dimensioni delle piastrine, un marker di attivazione delle piastrine e CAD, ma vanno confermati. Gli studi epidemiologici non hanno confermato quelli in vitro riguardo la correlazione tra la funzione delle piastrine e CAD.

 

effetti dei fattori genetici

[…]

 

 

effetti di fattori ambientali

Il fumo protratto nel tempo aumenta l'aggregabilità delle piastrine, probabilmente per diminuita produzione di ossido nitrico. L'iperlipidemia è associata ad iperattività delle piastrine. L'obesità è associata a persistente attivazion delle piastrine, un effetto che sparisce con la perdita di peso. Questo è legato probabilmente, almeno in parte, con la insulino-resistenza. L'insulina antagonizza l'attivazione/aggregazione delle piastrine in vitro e in vivo in soggetti sensibili all'insulina. Ma nel caso di insulino-resistenza le piastrine sono resistenti all'azione dell'insulina, ma anche dell'ossido nitrico e di PGI2, ciò che indica una iper-regolazione dell'attività/aggregazione delle piastrine. Il meccanismo potrebbe essere un aumento sproporzionato del calcio all'interno delle piastrine (il calcio è il principale attivatore delle piastrine) in opposizione a cAMP e cGMP che sono inibitori, in individui insulino-resistenti. La perdita degli effetti regolatori dell'insulina sull'aggregazione piastrinica potrebbe spiegare la pù alta incidenza di trombosi in individui insulino-resistenti. L'esercizio ha un effetto complesso sulla funzionalità delle piastrine: l'attività intensa aumenta l'attivazione ed è controbilanciata da un aumentata produzione di PGI2 delle cellule endoteliali, che è un inibitore. L'esercizio regolare provoca una diminuzione dell'attivazione piastrinica e previene l'adesione.

 

struttura del coagulo

Coaguli composti di fibre sottili e pori piccoli sono più trombogeniche e associati a CAD prematuro. Alti livelli di fibrinogeno sono associati con un network di fibrina più fitto e serrato.

 

effetti di fattori genetici

[…]

 

effetti di fattori ambientali

Il fibrinogeno è glicato in soggetti diabetici e la glicazione è collegata al grado di controllo glicemico. I coaguli in diabetici con scarso controllo della patologia esibiscono una struttura meno porosa e quindi probabilmente la glicazione è protrombotica. Uno scarso controllo glicemico può avere altri effetti sulla molecola di fibrinogeno, come ad es. l'ossidazione, che può influenzare la struttura del coagulo. La dieta ha un certo numero di effetti sul sistema coagulatorio. La supplementazione con le fibre delle pectine produre un network di fibrina più permeabile e meno rigido, che potrebbe offrire protezione contro il CAD. Le molecole infiammatorie influenzano la struttura del coagulo. L'attivazione del complemento produce coaguli di fibrina con fibre sottili disposte in una rete fitta che sono resistenti alla fibrinolisi mentre c'è una correlazione inversa tra la porosità del gel di fibrina e i livelli plasmatici di orosomucoide, una proteina della fase acuta.

 

interventi medici per la modifica del rischio trombotico

 

aspirina e tienopiridine

La principale attività anti-trombotica di queste molecole è dovuta all'inibizione dell'aggregazione piastrinica lungo  due diversi pathways. Alcuni individui sono "aspirina-resistenti". L'aspirina, oltre all'attività anti-piastrinica pare avere una influenza sui fattori di coagulazione. Può acetilare il fibrinogeno, rendendo la fibrina più suscettibile di lisi e produce una maggiore porosità del gel di fibrina. Gli effetti sulla fibrinolisi possono essere dovuti  alla acetilazione di residui di lisina nella molecola di fibrinogeno. Questo è importante in soggetti diabetici, che possono avere fibrinogeno glicato nel residuo di lisina, il che spiega come costoro hanno un'alta resistenza all'aspirina. L'aspirina agisce anche nei confronti del fattore FXIII riducendone l'attivazione in vivo.

Il clopidogrel inattiva irreversibilmente il recettore dell'ADP P2Y12 delle piastrine, che è necessario per la loro piena attivazione e aggregazione. L'uso congiunto di clopidogrel e aspirina si è dimostrato superiore all'efficacia delle due molecole prese separatamente nell'impedire episodi trombotici. La resisenza al clopidogrel è più diffusa di quella all'aspirina. Circa il 50% delle persone hanno una bassa risposta al farmaco. L'azione delle tienopiridine non si limita a contrastare la funzione delle piastrine. Ticlopidina, il precursore del clopidogrel è stta associata ad una riduzione dei livelli di fibrinogeno. Tuttavia, un recente studio randomizzato non ha mostrato differenze nei livelli di fibrinogeno trapazienti trattati con clopidogrel o aspirina in un follow-up di 6 mesi.

 

inibitore dell'enzima di conversione dell'angiotensina (ACEI) e bloccante del recettore dell'angiotensina (ARB)

Il sistema renina-angiotensina è coinvolto nel controllo del tono vascolare e della funzione endoteliale. Angiotensina II può mediare la disfunzione endoteliale e contribuire allo sviluppo dell'aterosclerosi  stimolando l'uptake dell'LDL e l'ossidazione da parte dei macrofagi e promovendo l'infiammazione vascolare. AII facilita la rottura della placca attraverso la iper-regolazione della produzione di MMP e ha anche un ruolo nella trombosi/fibrinolisi mediante aumento dell'espressione di TF e lo stimolo della sintesi di PAI-1.

ACEI migliora la disfunzione endoteliale e può modulare l'attivazione delle piastrine. Studi in vitro mostrano una migliorata funzioe endoteliale anti-piastrine nella vena umbilicale. ACEI e ARB riducono il fibrinogeno. Il sistema fibrinolitico  è anch'esso modulato da questi agenti. Uno studio su diabetici mostra che la cura con ACEI riduce anche PAI-1.

 

beta-bloccanti

Sono agenti importanti per la cura del CAD. Possono inibire l'accumulazione piastrinica sulla parete dei vasi, forse migliorando la produzione endoteliale, con maggiore produzione di NO.

 

bloccanti dei canali di calcio

Sono agenti comunemente usati nel trattamendo del CAD ma i loro effetti sulla trombosi rimangono ampiamente sconosciuti. La stimolazione del NO indica che potrebbero avere una attività anti-piastrinica.

 

statine

Si ritiene comunemente che l'abbassamento dei livelli di colesterolo riduce la progressione dell'aterosclerosi. Tuttavia ci sono altri pathways attraverso cui le statine esercitano la loro azione anti-aterosclerotica. Le statine riducono il numero delle cellule infiammatorie intravascolari e inducono le cellule T a produrre citochine Th2, smorzando la reazioe infiammatoria. Le statine migliorano anche la disfunzione endoteliale e questo è dovuto, almeno in parte all'aumentata espressione di NOS e alla riduzione dello stress ossidativo. Le statine riducono la produzione delle citochine infiammatorie CD40 e CD40L da parte delle cellule epiteliali e sotto-regolano l'espressione delle molecole di adesione da parte di queste cellule. Le azioni sistemiche delle statine includono la riduzione della PRC e l'inibizione dell'attivazione delle cellule infiammatorie e della loro capacità di legarsi alle cellule epiteliali. Sebbene non vi siano prove dirette che legano l'iperlipidemia direttamente ad uno stato di ipercoagulabilità, i meccanismi ipotizzati includono l'attivazione delle piastrie da parte dell'iperlipidemia e un aumento di FVII associato con essa. L'ipercolesterolemia induce un eccesso di PAI-1 e un rilascio deficiente di tPA, causando ipofibrinolisi. Poiché normalmente si riscontra una forte correlazione tra PAI-1 e trigliceridi, un altro meccanismo potenziale può essere collegato agli effetti stimolatori delle VLDL sulla produzione endoteliale di PAI-1.

Le statine inibiscono l'espressione di TF da parte delle cellule epiteliali e il loro uso è associato alla riduzie della attività di FVII, della generazione di Fva e della attivazione di FXIII e Fva. Il sistema fibrinolitico può essere influenzato dalle statine  visto che questi agenti producono una iper-regolazione dell'espressione della trombomodulina da parte delle cellule epiteliali e una riduzioe dei livelli di PAI-1 in soggetti con CAD stabile. ebbene gli effetti delle statine sui fattori di coagulazione sembrano essere indipendenti dalla proprietà di abbassamento del colesterolo, l'inibizione della aggregazione piastrinica da parte delle statine può essere collegata al miglioramento del profilo lipidicoi.

 

ppar-agonisti (agonisti dei recettori attivati della proliferazione dei perossisomi)

I recettori attivati della proliferazione perossisomiale (PPAR) sono fattori di trascrizione attivati da ligandi appartenenti alla super-famiglia di recettori nucleari. PPAR consiste di tre membri, alfa, gamma e beta/gamma che sono coinvolti rispettivamente nel metabolismo dei lipidi e del glucosio.

PPAR-alfa giocano un ruolo nel processo aterosclerotico, e sono espresse dalle cellule epiteliali, dalle cellule VSMC e dalle cellule infiammatorie. I fibrati sono un gruppo di farmaci con proprietà di attivare i PPAR-alfa. L'effetto positivo sul rischio cardiovascolare nella prevenzione primaria e secondaria è stato ripetutamente confermato ed è dovuto in parte al miglioramento del profilo lipidico manifestato da un aumento di HDL e diminuzione dei livelli di TG. Altri meccanismi includono la soppressione delle molecole di adesione e dell'espressione di MMP nella parete vascolare, la sotto-regolazione della produzione della citochina Th1 e la stimolazione della sintesi dell'ossido nitrico. In più, i PPAR-alfa agonisti mediano l'efflusso del colesterolo dai macrofagi, che può favorire la regressione o almeno arrestare la progressione dell'aterosclerosi. I fibrati hanno esibito un certo numero di proprietà anti-trombotiche. Questi agenti riducono l'espressione di TF su monociti e macrofagi, proteggendo dalla formazione di trombi. Un altro effetto sulla coagulazione è collegato alla loro capacità, con l'eccezione del gemfibrozil, di ridurre i livelli di fibrinogeno. Anche i livelli di PAI-1 sono ridotti in pazienti iperlipidemici.

PPAR-gamma è espresso anch'esso dalle cellule epiteliali, dalle cellule VSMC e dalle cellule infiammatorie. L'uso di glitazoni, che sono attivatori di PPAR-gamma ha mostrato che questi recettori nucleari hanno un ruolo importante nella progressione del processo aterosclerotico. Un certo numero di studi clinici indica che la cura con glitazoni ferma la progressione del processo aterotrombotico, il che è probabilmente dovuto alle loroproprietà anti-infiammatorie, anti-aterogeniche e anti-trombotiche, in aggiunta ai loro effetti sul metabolismo del glucosio. Questi agenti modulano la produzioe di citochine pro-infiammatorie a inibiscono la produzione ei fattori di crescita, influenzando di conseguenza l'angiogenesi. Gli attivatori di PPAR-gamma stimolano l'ossido nitrico e inibiscono la produzioe di endotelina, il che produce vasodilatazione. Similmenta a quella di PPAR-alfa, l'attivazioine di PPAR-gamma favorisce l'efflusso del colesterolo dai macrofagi, prevenendo lo sviluppo delle lesioni aterosclerotiche e ridono anche i livelli di MMP (metalloproteinasi), il che stabilizza la placca e previene la sua rottura. I glitazoni provocano una riduzione dei livelli di sCD40L in pazienti con diabete e CAD, che è indipendente dagli effetti depressori del glucosio del farmaco. Inoltre, l'uso dei glitazoni è associato alla riduzione della PRC, il che suggerisce una azione generalizzata anti-infiammatoria del farmaco. Alcuni studi suggeriscono che i glitazoni hanno una azione anti-trombotica. Questi agenti possono abbassare i livelli di PAI-1, il che migliora la fibrinolisi. Lavori più recenti hanno mostrato che i glitazoni possono far diminuire l'aggregazione delle piastrine e ritardare la formazione intra-arteriosa del trombo mediante un meccanismo che è probabilmente collegato alla stimolazione del NOS e dell'espressione delle trombomodulina nella parete vascolare.

 

metormina

L'United Kingdom Prospective Diabetes Study (UKPDS) ha mostrato chiaramente che la metformina ha una attività cardioprotettiva superiore in confronto del gruppo delle solfaniluree. La Metformina provoca una riduzione sia del fattore FVII che del fibrinogeno, abbassando in tal modo il rischio di trombosi. I coaguli formati in presenza di metformina sono lisati più velocemente, il che può essere collegato alla loro struttura. Altri possibili meccanismi includono la modulazione dei livelli di FXIII e l'attività e/o riduzione dei livelli di PAI-1.

 

conclusione

La patologia aterotrombotica è altamente complessa, che si sviluppa come effetto di interazioni multiple tra numerosi fattori genetici e ambientali. Negli stadi iniziali, la patologia è clinicamente silente fino a che non si forma un trombo che provoca la parziale o completa occlusione del vaso, conducendo alle manifestazioni cliniche classiche.

 

www.mypersonaltrainer.it, "Ateroma o placca aterosclerotica - Come e perché si forma"

Cos'è un Ateroma?

L'ateroma, meglio conosciuto come placca aterosclerotica, è definibile come una degenerazione delle pareti arteriose dovuta al deposito di placche formate essenzialmente da grasso e tessuto cicatriziale.Ateroma

Complicanze Un'arteria infarcita di materiale lipidico e tessuto fibrotico perde elasticità e resistenza, risulta più suscettibile alla rottura e riduce il proprio lume interno ostacolando il flusso sanguigno. Inoltre, in caso di rottura dell'ateroma, si instaurano dei processi riparativi e coagulativi che possono portare alla rapida occlusione del vaso (trombosi), o generare embolie più o meno severe qualora un frammento dell'ateroma si stacchi e venga spinto - come una mina vagante - in periferia, con il rischio - se i fenomeni fibrinolitici non intervengono in tempo - di ostruire un vaso arterioso a valle.

Alla luce di questa descrizione ben si comprende come le placche aterosclerotiche - sebbene asintomatiche anche per decenni - diano spesso luogo a complicazioni, tipicamente a partire dalla tarda età adulta, come: angina pectoris, infarto del miocardio, ictus, cancrena.

 Cause di Morte - Aterosclerosi

L'ateroma è la tipica espressione di una malattia infiammatoria cronica chiamata aterosclerosi, causa principale delle malattie cardiovascolari che a loro volta - almeno nei paesi industrializzati - rappresentano la prima causa di morte tra la popolazione.

Struttura dei vasi arteriosi

E' noto ai più come una dieta ricca di grassi animali (saturi) e colesterolo - unitamente al sovrappeso e all'obesità, al fumo e alla sedentarietà - rappresenti uno dei principali fattori di rischio per la malattia aterosclerotica.

Per capire come si forma un ateroma è innanzitutto necessario rispolverare brevemente l'istologia delle pareti arteriose, che sono formate da tre strati:

  l'intima, con i sui 150-200 micrometri di diametro è lo strato più interno o profondo del vaso, quello a stretto contatto con il sangue; è costituito principalmente da cellule endoteliali, che delimitano il lume del vaso costituendo l'elemento di contatto tra sangue e parete arteriosa

  la tonaca media, di 150-350 micrometri di diametro è composta da cellule muscolari lisce, ma anche da elastina (che conferisce elasticità al vaso) e da collagene (componente strutturale)

  l'avventizia rappresenta lo strato più esterno dell'arteria; di 300-500 micrometri di diametro, contiene tessuto fibroso ed è circondata da tessuto connettivale perivascolare e grasso epicardico.

Le lesioni aterosclerotiche interessano principalmente le grandi e medie arterie, dove prevale il tessuto elastico (soprattutto nelle grandi arterie) e muscolare (soprattutto nelle arterie medie e piccole). Inoltre, tendono a svilupparsi in regioni predisposte, come i punti di ramificazione delle arterie caratterizzati da un flusso ematico turbolento, risparmiando i segmenti adiacenti. Il processo aterosclerotico inizia molto presto, sin dall'età adolescenziale (problema dell'obesità infantile) o dalla prima età adulta.

Biologia dell'ateroma

Il processo aterosclerotico inizia a partire dalle cellule endoteliali, quindi dallo strato più interno del vaso arterioso.

Considerare il tessuto endoteliale come un semplice rivestimento dei vasi è assai riduttivo, tanto che oggi l'endotelio è considerato un vero e proprio organo, capace di elaborare moltissime sostanze attive in grado di modulare l'attività, non solo delle varie strutture della parete vasale, ma anche delle cellule ematiche e delle proteine del sistema coagulativo che entrano a contatto con la superficie dell'endotelio. Queste sostanze attive vengono in parte rilasciate nelle immediate vicinanze (secrezione paracrina), esercitando i propri effetti sulla parete vasale, e in parte immesse nel circolo sanguigno (secrezione endocrina), per svolgere la loro azione a distanza (es. ossido nitrico ed endotelina); altre ancora rimangono adese alla superficie delle cellule endoteliali esplicando la propria azione per contatto diretto, come accade per le molecole di adesione per i leucociti o per quelle che influenzano la coagulazione. Non dobbiamo pensare all'arteria come un semplice condotto che garantisce il trasporto del sangue ove ve ne sia bisogno. Piuttosto, la dobbiamo immaginare come un organo dinamico e complesso, costituito da diversi attori cellulari e molecolari In sintesi, l'endotelio rappresenta il fulcro metabolico della parete vascolare, al punto da regolarne la proliferazione cellulare, i fenomeni infiammatori ed i processi trombotici. Per questo, il tessuto endoteliale gioca un ruolo critico nel regolare l'entrata, l'uscita ed il metabolismo delle lipoproteine e di altri agenti che possono partecipare alla formazione di lesioni aterosclerotiche.

Stadi di Formazione e crescita dell'ateroma

Il processo di formazione e crescita dell'ateroma, che come abbiamo visto si sviluppa nel corso di anni o addirittura decenni, si compone di vari stadi, che descriviamo in seguito:

Adesione, infiltrazione e deposito di particelle lipoproteiche LDL nell'intima dell'arteria; tale deposito prende il nome di stria lipidica ("fatty streak") ed è legato principalmente all'eccesso di lipoproteine LDL (ipercolesterolemia) e/o al difetto di lipoproteine HDL. L'ossidazione delle proteine LDL gioca un ruolo di primo piano nei processi inizali di formazione dell'ateroma

Ricordiamo come l'ossidazione delle LDL possa essere favorita dai radicali liberi formatisi in seguito al fumo di sigaretta (ridotta attività della glutatione perossidasi), all'ipertensione (per aumento della produzione di angiotensina II), al Diabete Mellito (prodotti di glicosilazione avanzata presenti nei diabetici), ad alterazioni genetiche e all'iperomocisteinemia; viceversa, le specie reattive dell'ossigeno vengono inattivate da antiossidanti assunti con la dieta, come le vitamine C ed E, e da enzimi cellulari come ad esempio la glutatione perossidasi

Il processo infiammatorio scatenato dall'intrappolamento e dall'ossidazione dei lipidi LDL, con conseguente danno endoteliale, porta all'espressione di molecole di adesione sulla membrana cellulare, e alla la secrezione di sostanze biologicamente attive e chemiotattiche (citochine, fattori di crescita, radicali liberi), che nell'insieme favoriscono il richiamo e la successiva infiltrazione di leucociti (globuli bianchi), con trasformazione dei monociti in macrofagi; ricordiamo come l'ossido nitrico (NO) prodotto dalle cellule endoteliali, oltre alle ben note proprietà vasodilatatrici, esibisca anche proprietà antinfiammatorie locali, limitando l'espressione di molecole di adesione; per questo è attualmente considerato un fattore protettivo nei confronti dell'aterosclerosi. Ebbene, l'attività fisica si è dimostrata in grado di aumentare la sintesi di ossido nitrico. In altri studi invece, in risposta ad un esercizio fisico acuto, si è dimostrata una riduzione dell'adesione endoteliale dei leucociti, mentre è noto ormai da tempo come l'esercizio fisico regolare si associ ad una più bassa concentrazione di proteina C reattiva (termometro dell'infiammazione) a riposo. Più in generale, l'esercizio fisico previene e corregge alcune condizioni che costituiscono un rischio per l'aterosclerosi, come l'ipertensione, l'iperglicemia e l'insulino-resistenza. Inoltre, aumenta i livelli delle HDL e potenzia i sistemi antiossidanti endogeni, prevenendo così l'ossidazione delle LDL ed il loro deposito nelle arterie.

I macrofagi fagocitano le LDL ossidate accumulando lipidi nel loro citoplasma e trasformandosi in cellule schiumose (foam cells), ricche di colesterolo. Fino a questo punto - pur rappresentando una lesione (puramente infiammatoria) precorritrice delle placche aterosclerotiche - la stria lipidica può dissolversi. Si è infatti verificato solo l'accumulo di lipidi, liberi o sotto forma di cellule schiumose. Nelle fasi successive, l'accumulo di tessuto fibrotico porta alla crescita irreversibile dell'ateroma vero e proprio.

Se la risposta infiammatoria non è in grado di neutralizzare efficacemente o di rimuovere gli agenti dannosi, può continuare indefinitivamente e stimolare la migrazione e la proliferazione delle cellule muscolari lisce, che migrano dalla tunica media all'intima producendo matrice extracellulare che funge da impalcatura strutturale della placca aterosclerotica (ateroma). Se queste risposte continuano ulteriormente, possono provocare un ispessimento della parete arteriosa: la lesione fibrolipidica va a sostituire il semplice accumulo lipidico delle fasi iniziali e diventa irreversibile. Il vaso, da parte sua, risponde con un processo detto di rimodellamento compensatorio, cercando di porre rimedio alla stenosi (restringimento indotto dalla placca), dilatandosi gradualmente in modo da mantenere inalterato il lume dei vasi.

La sintesi di citochine infiammatorie da parte delle cellule endoteliali funge da richiamo per cellule immunocompetenti come linfociti T, monociti e plasmacellule, che migrano dal sangue e si moltiplicano all'interno della lesione. A questo punto si ritiene che con l'ingrandirsi della lesione, a causa della carenza di sostanze nutritive e dell'ipossia, le cellule muscolari lisce e i macrofagi possano andare incontro ad apoptosi (morte cellulare), con deposito di calcio sui residui delle cellule morte e sui lipidi extracellulari. Nascono così le lesioni aterosclerotiche complicate.

Il risultato finale è la formazione di una lesione più o meno grande, costituita da un nucleo centrale lipidico (lipid core) avvolto da un cappuccio fibroso connettivale (fibrous cap), infiltrati di cellule immunocompetenti e noduli di calcio. È importante sottolineare come nelle lesioni possa esservi una grande variabilità nell'istologia del tessuto formatosi: alcune lesioni aterosclerotiche appaiono prevalentemente dense e fibrose, altre possono contenere grandi quantità di lipidi e residui necrotici, mentre la maggior parte presenta combinazioni e variazioni di ciascuna di queste caratteristiche. La distribuzione dei lipidi e del tessuto connettivo all'interno delle lesioni ne determina la stabilità, la facilità alla rottura e alla trombosi, con i conseguenti effetti clinici.

La patogenesi delle placche aterosclerotiche sopradescritta dimostra come l'aterosclerosi sia una patologia complessa, alla cui insorgenza partecipano diverse componenti del sistema vascolare, metabolico e del sistema immunitario. Ateroma ostruzione flusso sanguigno

Non si tratta, quindi, di un semplice accumulo passivo di lipidi all'interno della parete vascolare. Ad ogni modo, come anticipato, le placche aterosclerotiche possono occludere il lume vasale anche del 90% senza manifestare segni clinicamente evidenti. I problemi, piuttosto seri, iniziano in caso di rapida crescita di un coagulo di sangue (trombo) in seguito alla rottura della capsula fibrosa o della superficie endoteliale, o all'emorragia dei microvasi interni alla lesione. I trombi, formatisi sulla superficie o all'interno della lesione, possono causare eventi acuti in due modi:

1) possono ingrandirsi in situ fino ad occludere completamente il vaso bloccando il flusso sanguigno dal punto in cui si sviluppa la placca;

2) possono staccarsi dal sito della lesione e seguire il flusso sanguigno fino a bloccarsi in una ramificazione vasale di piccolo calibro, impedendo l'afflusso di sangue da quel punto in poi.

Entrambi questi eventi impediscono la corretta ossigenazione dei tessuti, inducendone la necrosi. L'occlusione del vaso può essere favorita anche dal vasospasmo indotto dalla liberazione di endoteline da parte delle cellule dell'endotelio.

Inoltre, l'indebolimento della parete vasale può portare ad una dilatazione generalizzata dell'arteria, che negli anni può condurre alla formazione di un aneurisma.

Per riassumere, semplificando al massimo il concetto, la formazione degli ateromi è la conseguenza di tre processi:

l'accumulo di lipidi, principalmente colesterolo libero ed esteri del colesterolo, nello spazio sub-endoteliale delle arterie;

l'instaurarsi di uno stato infiammatorio con infiltrazione di linfociti e di macrofagi che, fagocitando i lipidi accumulati, diventano cellule schiumose (foam cell);

migrazione e proliferazione di cellule muscolari lisce

 

 

 

Un bicchiere di vino al giorno?

 

Quando bevete qualcosa di alcolico, sul contenitore della bevanda è sempre indicata la percentuale in volume di alcol presente (la gradazione). Il consumatore viene così informato che quello che sta bevendo è costituito per una certa percentuale da alcol puro (volume di alcol sul volume totale).

Se si tratta ad esempio di birra (normale) i gradi sono intorno a 5, e sono indicati in genere con la scritta “alcol: 5% vol”.

Ricordando che un litro è pari a 1000 ml (millilitri), questo vuol dire che in un litro di tale birra ci sono 50 ml di alcol puro (ovvero, un ventesimo del volume di detta bevanda è costituito da alcol).

Ma, come detto, a noi interessa il peso dell’alcol contenuto nel prodotto.  Volendo conoscere quanti grammi di alcol ci siano in un litro di una certa bevanda, dobbiamo quindi passare dal volume al peso. Se si trattasse di acqua, il risultato sarebbe immediato: riferendoci all’esempio precedente, un centimetro cubico di acqua pesa un grammo; quindi 50ml di acqua pesano 50 grammi. Essendo l’alcol più leggero dell’acqua, dovremo moltiplicare il suo volume per il suo peso specifico, che è circa 0.8 (un ml di alcol, infatti, non pesa un grammo, ma un poco meno, circa 0.8 grammi).

Dunque, se beviamo un litro della detta birra, assumiamo 1000 x 5% = 1000 x 0.05 = 50 ml di alcol puro in volume (si osservi ancora che 50 ml sono il 5% di 1000 ml).  Il corrispondente peso in grammi di questo volume di alcol, in base al suo peso specifico, sarà quindi pari a 50 x 0.8 = 40 g di alcol puro.

Gli alcologi (ovvero, i medici che si occupano dei problemi di salute derivanti dal consumo di alcol), per concentrare l’attenzione di chi beve più sull’alcol che egli assume che non sulla specifica bevanda alcolica consumata, hanno creato un interessante concetto: quello di “Unità Alcolica” (U.A.). In altri termini,  definita una U.A. (in genere pari a 12 grammi di alcol), si rapportano a questa le consumazioni standard delle singole bevande, creando così una sorta di tabella di equivalenze. In questo ordine di idee, un bicchiere medio di vino (circa 150 ml), una lattina di birra (333 ml), un bicchierino di superalcolico (circa 40 ml),  equivalgono tutti e tre a circa una U.A. .

In questo modo di vedere le cose, le quantità raccomandate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per soggetti adulti in buona salute diventano 3 U.A. per i maschi e 1.5 U.A. per le femmine.  Questa proposta del mondo dell’alcologia appare di grande semplicità e ben praticabile per avere quel segnale di massima di cui si parlava all’inizio. Non a caso, le U.A. sono molto utilizzate in altri paesi dai consumatori di bevande alcoliche.

 

Volume

Vinello da 10%

Vino da 11.5%

Vino da 12%

Vino da 13%

Un litro (1000 ml)

80

92

96

104

3/4, 750 ml (bottiglia tipo vino)

60

69

72

78

2/3, 666 ml (bottiglia tipo birra)

53

61

64

69

Mezzo litro (500 ml)

40

46

48

52

1/3, 333 ml (lattina standard)

27

31

32

35

Un quarto (il quartino…, 250 ml)

20

23

24

26

200 ml (un bicchiere da acqua)

16

18

19

21

150 ml (un bicchiere da vino)

12

14

14

16

100 ml (un bicchiere piccolo)

8

9

10

10

30 ml (un bicchierino)

3

3

3

3

 

La relazione tra consumo di vino e diminuzione del rischio di attacco cardiaco non è tuttora ben compresa. Si ritiene che possa essere dovuta all'aumento del colesterolo HDL da parte dei polifenoli antiossidanti che contiene, resveratrolo in testa. Tuttavia diversi ricercatori ritengono che i benefici risiedano nell'alcol, e che vino rosso, vino bianco, birra o liquore siano equivalenti da questo punto di vista (531).

Alcune ricerche mostrano che il resveratrolo potrebbe essere legato ad un minor rischio di infiammazione e coaguli sanguigni, ma altri studi non hanno trovato alcun effetto del resveratrolo nella prevenzione delle patologie cardiovascolari. Sono necessarie ulteriori ricerche per stabilire i suoi reali benefici. Il resveratrolo è contenuto nella buccia dell'uva rossa, perciò mangiarne o bere succo d'uva non fermentato dovrebbe apportare gli stessi benefici. Altri cibi che contengono quantità di resveratrolo sono le noccioline, mirtilli, lamponi. Le ricerche hanno sinora mostrato che i supplementi di resveratrolo… non fanno male alla salute, ma pare che l'organismo non lo assorba molto facilmente (531).

L'alcol potrebbe promuovere la salute cardiovascolare in diversi modi: a) alzando il colesterolo HDL; b) riducendo la formazione di coaguli nel sangue; c) evitando il danno da colesterolo LDL; d) migliorando le funzioni delle cellule endoteliali dei vasi.

Coloro che bevono moderate quantità di alcol sembrano avere un più basso rischio cardiovascolare. Tuttavia gli studi che comparano bevitori con non-bevitori potrebbero sovrastimare questo vantaggio, perché i non-bevitori potrebbero aver fatto questa scelta perché la loro salute cardiaca è già compromessa (531).

Bere una quantità eccessiva di alcol può danneggiare l'organismo: a) condurre a patologie del fegato e del pancreas; b) condurre ad arresto cardiaco; c) alzare la pressione; d) provocare ictus; e) provocare aumento di peso e obesità; f) provocare comportamenti violenti e suicidio (531).

Bere in moderazione vuol dire bere fino a un drink al giorno (531).

Un drink corrisponde alla seguente quantità: 355 ml di birra; 148 ml di vino; 44 ml di liquore al 40% (531).

Uno grosso studio dell'Università della California, che ha seguito 13.988 uomini e donne di età media di 74 anni per ben 23 anni ha riscontrato che coloro che bevevano due o più bicchieri di vino al giorno avevano una riduzione del rischio di morte del 15%, e questo valeva per qualsiasi tipo di fonte di alcol (533).

Tuttavia gli studi compiuti mettono sempre più in guardia sul fatto che gli svantaggi di consumare vino potrebbero annullare e persino superare i benefici per la salute.

Finora, gli studi sugli effetti dell’alcol hanno mostrato risultati contrastanti. Per esempio, un recente studio pubblicato su Scientific Reports ha dimostrato che bere un equivalente di due bicchieri e mezzo di alcol al giorno, potrebbe aiutare a liberare il cervello (nei topi) dalle tossine, aumentando l'attività del sistema glinfatico, che nel cervello è deputato a questo compito, ma un consumo superiore lo danneggia seriamente (534). Ma, dall’altra parte, una sempre più crescente quantità di ricerche suggerisce che i benefici dell’alcol potrebbero non superare i rischi. Nel novembre del 2017, infatti, l’American Society of Clinical Oncology aveva rilasciato una dichiarazione in cui si avvertiva che qualsiasi consumo di alcol aumenterebbe le possibilità di sviluppare tumori del seno, del colon, dell’esofago e della laringe, del colon ed epatocarcinomi (535). E a gennaio scorso, i ricercatori inglesi del Medical Research Council di Cambridge avevano riportato su Nature una ricerca secondo cui l’alcol provocherebbe danni irreversibili al dna nelle cellule staminali degli animali (536).

Inoltre, secondo uno studio appena apparso sulle pagine di Lancet Public Health da un team di ricercatori del Campbell Family Mental Health Research Institute for Mental Health Policy Research di Toronto, il consumo di quantità significative di alcol tale da essere definito abuso di alcol è associato a una riduzione della vita media di circa 20 anni, all’insorgenza di malattie neurodegenerative e di demenza precoce (537).

Uno studio pubblicato da Nicola Orsini et al. nel 2014, che ha seguito 67.000 soggetti per 15 anni ha concluso che un consumo di una media di 1 bicchiere di vino al giorno per gli uomini e di mezzo bicchiere per le donne aumentava la vita di 1,3 anni per gli uomin e di 1,5 anni per le donne. Invece bere più di 2 bicchieri di vino al giorno aumenta la mortalità (538).

Uno studio pubblicato su JAMA da Ferrucci et al. ha seguito 1155 anziani consumatori di vino per 9 anni per stabilire se esiste una correlazione tra i livelli di resveratrolo assunti e mortalità generale, markers di infiammazione (proteina C reattiva, Interleuchina-6, Interleuchina-1-beta, Fattore di crescita tumorale), mortalità per cancro e mortalità cardiovascolare, non ha riscontrato alcuna correlazione (539). Se il resveratrolo ha una azione antiossodante e anti-età questo potrebbe avvenire a livelli molte volte superiori a quelli assunti col vino o con la dieta occidentale nel suo insieme.

Zhao e colleghi in un articolo del 2017 hanno riportato il risultato dell'analisi di 45 studi sui presunti benefici cardiovascolari del vino (540) e hanno effettivamente riscontrato che presi insieme gli studi suggeriscono una diminuzione della mortalità cardiovascolare del 20% per i bevitori moderati e del 12% per i bevitori rispetto ai non-bevitori, ma avvertono che molti studi hanno seri vizi metodologici, e che, al contrario, l'effetto per coloro che all'inizio degli studi hanno 55 anni o meno èavverso. Inoltre rilevano che questi risultati statistici spariscono una volta che si prendono in esame gli studi più rigorosi metodologicamente e gli studi mirati sulla saluta cardiaca. I ricercatori ipotizzano che vi sia una auto-selezione dei soggetti più sani che spiegherebbe i presunti risultati protettivi del vino. In sostanza accadrebbe questo: spesso i soggetti in salute, che bevono moderatamente, continuano a farlo per tutta la vita; mentre chi ha problemi di salute smette di bere perché per esempio assume medicine che interferiscono con l'alcol, o semplicemente perché non può più permettersi di bere a causa del suo stato cagionevole di salute. Dunque, potrebbe essere che il consumo moderato di alcol non sia la causa di un miglior stato di salute, ma l'effetto.

Il prof. Edoardo Casiglia, dell'Università di Padova, mette in guardia dall'alcol assunto tramite liquori, perché i liquori che si ottengono per distillazione contengono sostanze ancora più nocive dell'etanolo (alcol etilico), come ad es. il metanolo (541).

Uno studio dell'Università di Cambridge pubblicato su Lancet nel 2018 (542) ha preso in esame i dati di 599.912 consumatori di vino ricavati da tre grandi studi prospettici e ha trovato che per ogni 100 gr. di alcol in più a settimana (un bicchiere medio di vino da 145 gr. contiene circa 14-15 gr. di alcol, quindi si tratta di 6,6 bicchieri di vino a settimana, cioè circa un bicchiere al giorno) c'è un aumento del 14% di ictus, del 9% di arresto cardiaco, del 24% di morte per ipertensione, del 15% di morte per aneurisma dell'aorta. Gli scienziati hanno in pratica calcolato gli anni di vita che una persona potrebbe di perdere se bevesse le stesse quantità di alcol per il resto della sua vita a partire dai 40 anni. È risultato che la soglia limite di assunzione di alcol prima che si verifichi un aumento del rischio di morte è di circa 12,5 unità a settimana, l’equivalente di circa cinque pinte di birra o cinque bicchieri di vino. Questo contro una moderata diminuzione del rischio di infarto del 6%. In confronto a coloro che consumano fino a 100 g di alcol a settimana (cioè circa un bicchiere al giorno) coloro che consumano tra 100 e 200 gr. di alcol hanno una aspettativa di vita diminuita di 6 mesi, coloro che consumano tra 200 e 350 gr di vino hanno una aspettativa diminuita di 1-2 anni e coloro che consumano sopra 350 gr. di vino hanno una aspettativa diminuita di 6 anni. Pare quindi che la soglia da non superare sia quella di un consumo moderato (fino a 7 bicchieri a settimana).

Un gruppo di ricercatori italiani di IRCCS Ca' Granda Ospedale maggiore, Università di Padova e Università di Milano, ha individuato la relazione tra abuso di alcol, invecchiamento cellulare e rischio di tumori. In particolare, gli studiosi hanno evidenziato il legame tra consumo eccessivo di alcolici e accorciamento dei telomeri, una sequenza di Dna presente nei cromosomi che è essenziale per la stabilità genetica delle cellule (543). I ricercatori hanno analizzato il Dna del sangue di 59 soggetti con un consumo sregolato di alcol, anche se non ancora ascrivibili alla categoria degli alcolisti (il 22% consumava quattro bicchieri o più al giorno di vino o altra bevanda alcolica) e 197 volontari con un consumo di alcol nella media della popolazione italiana (soltanto il 4% consumava quattro bicchieri o più al giorno di vino o altro alcolico). La lunghezza dei telomeri era dimezzata nei forti bevitori rispetto ai bevitori moderati (0,41 unità nei primi contro 0,79 nei secondi). Un’ulteriore conferma è venuta analizzando il Dna di soggetti che, all’interno di entrambi i gruppi, erano portatori di una variante nel gene ADH1B che porta a metabolizzare l’alcol 20-30 volte più lentamente: queste persone, a causa della variante genetica, tendono a percepire molto meno il malessere da abuso di alcol, e sono quindi a maggior rischio di alcolismo. Si è accertato che i portatori di questa variante genetica avevano telomeri più corti. In sintesi, i ricercatori hanno dimostrato come l’accorciamento dei telomeri, favorito dall’abuso di alcol, si traduce in un invecchiamento precoce: di qui la maggiore probabilità di ammalarsi prima, e quindi vivere meno.

Uno studio dell'Università di Harvard e del Brigham and Women's Hospital pubblicato nel 2015 sul British Medical Journal ha riscontrato che anche chi beve due bicchieri e mezzo di vino a settimana ha un lieve aumento del rischio di cancro (2% per le donne e 3% per gli uomini). Chi beve da due bicchieri e mezzo a settimana a 7 bicchieri a settimana ha un aumento del 4% (donne) e del 5% (uomini). Chi beve da 7 a 14 bicchieri a settimana ha un rischio aumentato del 6% (uomini). Per le donne fumatrici che bevono da 2,5 a 7 bicchieri a settimana il rischio di cancro al seno aumenta del 13% (544). Sulla base di questi risultati, i ricercatori raccomandano a soggetti che hanno predisposizione familiare al cancro e specialmente le donne che hanno già avuto un cancro al seno, di ridurre o meglio abolire del tutto il consumo di vino.

Da parte di medici si fa notare che l’alcol è sempre un sovraccarico per il nostro corpo. Durante il processo di assorbimento si formano acidi grassi che non vengono degradati a causa dell’effetto tossico dell’alcol sui mitocondri; da ciò deriva l’eccessiva presenza di grassi nel fegato dei bevitori. Il processo è analogo a quello dell’aspartame, cioè la formazione di sostanze che devono essere espulse dal nostro organismo. Solo che la quantità di tali sostanze inquinanti in un mg di aspartame è un centesimo di quelle contenute in un bicchiere di vino.

Il vino contiene conservanti sospetti; il metabisolfito, il famigerato E223, è contenuto in vini eccellenti. Anche i vini “biologici” vengono spesso prodotti usando “pochissima anidride solforosa”. I derivati dell’anidride solforosa, fra cui il metabisolfito (di sodio o di potassio, E223 ed E224), irritano il tubo digerente e provocano alterazioni nel metabolismo di alcuni aminoacidi e della vitamina B1. La FDA americana ne ha proibito l’uso sui cibi da consumare freschi e alcuni solfiti non sono permessi in Svizzera e in Australia. Nella produzione enologica convenzionale si usano molti additivi (metabisolfito, carboni attivi, stabilizzanti, antiossidanti, sostanze illimpidenti ecc.) senza che la legge obblighi a esplicitare in etichetta cosa si è usato. Oltre che per motivi di lunga conservazione, l’uso degli additivi serve per standardizzare il prodotto e avere un vino che abbia ogni anno lo stesso sapore, aroma, odore. Anziché additivi, alcuni produttori usano il freddo come agente conservante durante il processo di vinificazione, ma non c'è modo di sapere come è stato prodotto un particolare vino. Durante la vinificazione il metabisolfito (di potassio) viene usato in ragione di almeno 0,1 g per litro (la dose massima fissata per legge è di 0,2 g/l di anidride solforosa). La dose è maggiore per uve poco sane e per uve con basso grado zuccherino.

L'alcol in quantità consistenti nuoce al sistema immunitario e diversi studi mostrano che porta ad una maggiore incidenza di malattie infettive come tubercolosi, polmonite, e aggrava i sintomi dell'infezione da HIV (546), però da questo punto di vista i bevitori moderati non hanno una incidenza maggiore di infezioni rispetto ai non-bevitori.

Il rapporto tra consumo di alcol e diabete è "bifasico": un consumo fino a 2 bicchieri al giorno di vino (28 gr.) è protettivo, mentre da 4 bicchieri in poi (50-60 gr) inizia ad essere dannoso (547).

Per quanto riguarda le patologie psichiatriche, una analisi della letteratura clinica (che però è carente di studi epidemiologici e randomizzati) mostrerebbe un aumento di tutte le patologie legato all'abuso di alcol: attacchi d'ansia generalizzati (+2,6%), attacchi di panico (+1,6%), agorafobia (+5,1%), sociofobia (10,8%), fobie in generale (+5,9%), PTSD (+2,5%), Depressione (+9%), Distimia (+3,6%), mania (+0,3%), disordini del comportamento (25,3%), comportamento antisociale (AAB) (+8,8%), disordine antisociale della personalità (ASPD) (+6,1%). Esiste una forte associazione tra consumo di alcol e insorgenza di sindromi epilettiche o intensificazione di attacchi epilettici, che arriva fino ad un raddoppio del rischio (+109%) (551). Individui che consumano in media 4, 5, 8 bicchieri al giorno hanno un incremento di rischio dell'81%, del 144% e del 227% rispettivamente rispetto ai non-bevitori.

Il rapporto tra consumo di alcol e patologie cardiovascolari dipende dal tipo di patologia considerata. Per quanto riguarda l'ipertensione non vi è nessun beneficio nel suo consumo per gli uomini: la pressione inizia a salire - sia pur lievemente - già con un consumo di 5-10 gr. giornaliero. Le donne beneficiano di una modesta riduzione della pressione con un consumo intorno ai 5 gr. al giorno, ma a dosi superiore la pressione sale anche per loro (548).

L'alcol ha un effetto negativo sulla fibrillazione atriale. Donne che consumano 24, 60 e 120 gr. di alcol al giorno hanno un aumento di rischio di insorgenza della patologia del 7%, del 42% e del 102% rispettivamente. Per gli uomini l'aumento di rischio è 8%, 44% e 109% rispettivamente, anche se i ricercatori non escludono un limite al disotto del quale il rischio è basso (3 bicchieri al giorno per gli uomini e 2 bicchieri al giorno per le donne) (549).

Il consumo di alcol ha una relazione diretta con la cirrosi epatica, sia in termini di morbilità che di mortalità, con l'aumento di rischio che si manifesta già a basse dosi (+3% per chi consuma 12 g di alcol al giorno) e che si incrementa sempre più velocemente. Ad esempio, le donne che consumano 24 e 60 gr. di alcol al giorno hanno un rischio di morte per cirrosi aumentato rispettivamente di 4,9 volte e 12,5 volte e un rischio di morbilità di dk 3,2 e 6,2 volte (567).

Una meta-analisi del 2012 ha preso in considerazione sei studi, per un totale di 146.517 soggetti, e ha trovato una relazione lineare tra rischio di insorgenza di pancreatite e consumo di alcol sebbene al disotto di una certa sogia (4 bicchieri al giorno) il rischio non sia significativo (569)

È noto che l'alcol produce anche danni indiretti dovuti alla malnutrizione e al conseguente deficit di vitamine e minerali che accompagna l'alcolismo (556).

Numerosi studi hanno mostrato, sin dagli anni '70, che il consumo di alcol compromette acutamente la funzione ventricolare (556) ed aumenta il rischio di aritmia (557).

 

 

Per quanto riguarda l'alcol e le patologie coronariche esso pare essere protettivo, con una curva ad "U": il rischio è più elevato per gli astemi, ha i suoi minimi per i moderati bevitori, e si innalza di nuovo per consumi al disopra di quelli moderati. L'abbassamento della mortalità con un consumo moderato di alcol è dovuto principalmente ad una diminuzione della mortalità cardiovascolare (554). I possibili meccanismi sono l'aumento del colesterolo HDL, la diminuzione dell'aggregabilità piastrinica, la riduzione dei livelli di fibrinogeno (555) e l'effetto protettivo nei confronti del diabete, che notoriamente aggrava il rischio cardiovascolare (561). Una meta-analisi di Corrao e collaboratori che ha preso in esame 196 studi pubblicati tra il 1966 e il 1998 rivela come da 0 a 20 gr al giorno il rischio coronarico decresca del 20% e fino a 72 gr. al giorno esiste un effetto protettivo, sebbene si riduca al 4%. Sopra gli 89 gr. al giorno il rischio invece aumenta. Per le donne questi effetti positivi e negativi sono più attenuati (550). Il consumo irregolare di forti dosi, tuttavia, annulla completamente questi benefici: consumare anche solo una volta al mese 60 gr di alcol in unica soluzione annulla completamente tali benefici (552). Questi risultati sono confermati da altri studi biologici sull'effetto dell'alcol sulla coagulazione sanguigna e il profilo lipidico: anch'essi mostrano che 5-10 gr. di alcol al giorno consumati regolarmente diminuiscono le patologie coronariche. Per quanto riguarda l'ictus trombotico o emorragico questa azione protettiva si verifica fino a 10-20 gr. al giorno mentre scompare sopra i 40 gr. (553). Per quanto riguarda l'ictus, tuttavia, l'alcol è indicato da diversi studi come un fattore di rischio per l'ictus emorragico, con il rischio che in alcuni studi cresce velocemente anche a dosi relativamente modeste, aumentando addirittura di 4 volte per consumi di 5-14 gr. di alcol giornalieri. L'irregolarità del bere, con occasionali eccessi, peggiora anche questo rischio (554).

 

 

Lo schema seguito dal bevitore pare essere altrettanto importante della quantità assunta: come già detto, i forti bevitori occasionali, sebbene sulla carta consumino la stessa quantità di vino di bevitori moderati, non ricavano alcun effetto positivo, ma anzi effetti avversi da tale consumo. È noto che la differente incidenza di malattie cardiovascolari tra uomini e donne è anche associata al tipo di consumo - irregolare o regolare - che caratterizza i due sessi. Molti studi non discriminano tra un individuo che beve 2 bicchieri di vino al giorno e un individuo che beve 14 bicchieri nei fine settimana, perché il consumo non cambia. Molti "bevitori moderati" sono bevitori irregolari (non bevono una quantità fissa giornalmente) e molti "forti bevitori" sono invece bevitori regolari. Sembra che i bevitori regolari siano meno numerosi di quelli irregolari. Questo porta a sopravvalutare l'impatto positivo del consumo di vino sulla salute generale della popolazione e a consigli nutrizionali che potrebbero essere nocivi per una parte di essa (554). In un articolo del 1999 Puddey e colleghi hanno analizzato la letteratura e hanno mostrato in modo convincente che i bevitori irregolari, soprattutto coloro che bevono pesantemente in determinati giorni, come i fine-settimana, hanno un maggior rischio cardiovascolare di quelli moderati per quanto riguarda praticamente tutte le sindromi: ipertensione, morte cardiaca improvvisa, ictus emorragico (ma non ictus trombotico), coronaropatia, aritmie cardiache, dislipidemia e alterata coagulabilità, anche a dosi per le quali l'alcol risulta protettivo o non dannoso per i bevitori regolari (566).

 

 

Uno studio neozelandese su un campione di 355 soggetti, maschi e femmine, ha riportato che tra coloro che avevano avuto un evento cardiovascolare, fatale o non fatale, quelli che non avevano consumato vino nelle 24 ore precedenti erano più numerosi, con una diminuzione di rischio stimata per i bevitori che va dal 25% per l'infarto non-fatale negli uomini al 46% per gli infarti fatali nelle donne (555). Tuttavia coloro che bevevano in modo irregolare ed eccessivo (9 o più bicchieri in due giorni la settimana) avevano un rischio 2,36 volte maggiore, che diveniva 7 volte maggiore nei bevitori di birra che assumevano 72 gr di alcol in una sola seduta. Anche altri studi riportano casi clinici di soggetti che hanno sviluppato infarto a seguito di eccesso alcolico (564). Uno studio del 1982 su 526 uomini con occlusione coronarica ha trovato he la atologia era tanto più grave quanto più alta era la variabilità del consumo di alcol del soggetto.

 

 

Sebbene l'alcol migliori il profilo lipidico e sia anti-trombotico, esso, però, è una neurotossina, e peggiora l'aspetto elettrico della fisiologia cardiaca. È accertato un effetto negativo sulle aritmie (556) e sulla funzione ventricolare sinistra del cuore (558).

 

 

Il rovescio della medaglia è che gli astemi avrebbero un maggiore rischio di morte cardiovascolare rispetto ai moderati bevitori (558).

Una cosa è l'abbassamento della mortalità cardiovascolare, un'altra cosa l'abbassamento della mortalità generale. Cosa ci dicono sulla mortalità generale gli studi sull'alcol? È possibile che l'abbassamento della mortalità generale sia valido tra persone che hanno uno stile di vita occidentale e una dieta "americana", ma che non si verifichi tra coloro che hanno abitudini salutari? Nessuno studio sinora ha affrontato questo aspetto della questione.

 

 

Un fatto importante, da tenere comunque presente se si decide di consumare alcol, è che la generalità degli studi concorda sul fatto che un consumo moderato comporta, al più, un incremento di rischio modesto (560).

 

 

Non mancano voci scettiche sui benefici cardiovascolari e riguardo la mortalità in genere. Non mancano studi importanti, con metodologia rigorosa e che prendono in esame campioni ampi, che confutano la presunta riduzione di rischio cardiaco tra i moderati bevitori. Uno studio su 5576 scozzesi di età compresa tra 35 e 64 anni, seguiti per 21 anni, non ha riscontrato nessuna differenza nella mortalità generale, cardiaca e ischemica tra moderati bevitori e non-bevitori (559).

 

 

Alcuni ricercatori mettono in evidenza come normalmente, la composizione dei gruppi di controllo costituiti da non-bevitori possa subire l'influenza di una selezione negativa: non di rado i non-bevitori sono ex-bevitori la cui salute risulta danneggiata a seguito delle abitudini alcoliche oppure soggetti che hanno smesso di bere per ragioni di salute. Secondo questi ricercatori, se si utilizzassero come soggetti di controllo bevitori occasionali la relazione inversa tra consumo di alcol e certe patologie cardiovascolari risulterebbe attenuata (554).

Un recente studio ha evidenziato come i non-bevitori avevano il 90% in più dei fattori di rischio cardiovascolare dei moderati bevitori (568).

Molti "bevitori moderati" sono anziani che hanno diradato il loro consumo, ma che possono essere esposti per molto tempo all'alcol. Altri autori notano come in tarda età molti soggetti sono passati nella categoria di controllo degli astemi o dei moderati bevitori, mentre è probabile che da giovani una parte di loro siano stati forti bevitori, e negli studi sinora fatti non si è accertato né tenuto in alcun conto questo fatto (561).

 

 

Alcuni ricercatori notano che molti questionari sono mal-formulati e non permettono di stabilire se un soggetto è un bevitore "regolare" o no. Inoltre notano che il "consumo regolare moderato" è un consumo atipico nella società occidentale nel suo complesso, ed è concentrato nelle classi abbienti, che sono abituate a prendersi buona cura di sé, il che ricondurrebbe le differenze nei tassi di mortalità non al consumo di alcol ma alle abitudini salutistiche (562).

 

 

Altri autori ricordano come la correlazione tra moderato consumo di alcol e abbassamento del rischio cardiovascolare è provata quasi solo da studi epidemiologici e ricordano come ammonimento il fallimento clamoroso di tre legami "confermati" da studi epidemiologici e clamorosamente smentiti da esperimenti a controllo randomizzato: quello della terapia ormonale sostitutiva, della supplementazione con beta-carotene e della supplementazione con vitamina E, che non hanno rivelato alcun beneficio cardiovascolare (561).

 

 

Gli studi non danno una risposta soddisfacente al quesito riguardo il tempo necessario perché un consumo giornaliero di alcol produca i suoi effetti cardioprotettivi: mesi? anni? decenni?

 

 

Nella meta-analisi più aggiornata, ad opera di Roerecke e Rehm, il massimo vantaggio si ottiene con due bicchieri di vino al giorno, ma questa quantità è segnalata come limite della dose di rischio dagli studi (per gli uomini: per le donne è di un solo bicchiere al giorno), ed è pericolosamente vicina al punto in cui aumentano le probabilità di aritmie, cancro, pancreatite ecc.

 

 

Negli studi non c'è alcun aggiustamento statistico del tempo di esposizione all'alcol (561).

 

 

Tra i benefici del consumo moderato di alcol vi è anche una eutrofizzazione della flora batterica

 

 

 

I pericoli del veganesimo. Stop ai bimbi vegani

 

Ecco alcuni motivi per cui è irresponsabile imporre ai propri figli un’alimentazione vegana sin dalla nascita ed occorre invece attendere la fine dell’adolescenza

L’alimentazione vegana è l’alimentazione vegetariana più estrema, che bandisce, oltre alla carne e al pesce, anche le uova e i latticini.

Intendiamoci: chi scrive non è contrario per principio a tale alimentazione; secondo il famoso China Study essa sembrerebbe in grado di prevenire cancro, diabete e tutta una serie di malattie tipiche dell’iperalimentazione tradizionale.

Ma imporla sin dalla nascita ai vostri bambini può procurare loro seri deficit di sostanze nutritive.

Le proteine più pregiate e complete provengono da fonti animali, e il bambino, la cui massa corporea cresce rapidamente ha bisogno di una grande quantità di proteine. Le proteine si trovano nei muscoli, nelle ossa, nei capelli, nelle unghie e nella pelle e costituiscono il 20% del peso corporeo complessivo. Diverse proteine svolgono la funzione di enzimi, ormoni, neurotrasmettitori, anticorpi; esistono poi proteine specializzate come l’emoglobina e altre che «riparano» i tessuti del corpo per mantenerlo in buona salute. E’ ben noto che legumi e pasta sono fonti incomplete di aminoacidi (i “mattoni” con cui vengono costruite le proteine). La “complementazione” (legumi + pasta) in teoria, secondo i vegani, fornisce tutte le proteine disponibili, ma certamente con minore efficacia degli alimenti animali.

Per svilupparsi il cervello di bambini e adolescenti ha bisogno dei grassi omega-3 e del colesterolo (sì, proprio il tanto temuto colesterolo: le membrane delle cellule cerebrali sono fatte di colesterolo). E’ del tutto irrazionale privare un organismo in crescita del pesce, ricco di omega-3 (anch’esso necessario per la formazione del cervello) o delle uova, il cui albume contiene proteine di altissima qualità e tutti e 9 gli aminoacidi essenziali per il nostro organismo, e il cui tuorlo è ricco, oltre che di vitamina A, xantina e luteina, benefiche per gli occhi, di colina, un nutriente importante per il cervello, di vitamina D, necessaria per la fissazione del calcio nelle ossa, della vitamina B12, essenziale per il buon funzionamento del sistema nervoso.

E’ ben noto che gli alimenti di origine vegetale scarseggiano di vitamine del gruppo B, necessarie per lo sviluppo e il buon funzionamento del cervello.

Delle due categorie di acidi grassi essenziali, che il nostro organismo non è in grado di sintetizzare, e che sono indispenzabili alla crescita, quelli Omega-6 possono essere tranquillamente trovati nella frutta secca, ma quelli Omega-3 non possono essere facilmente trovati nelle fonti vegetali, mentre certi pesci (sgombro, salmone ecc.) ne sono estremamente ricchi.

Un discorso importante è poi quello del ferro. Il ferro, sebbene abbondante nei vegetali non è in forma biodisponibile per l’organismo umano (non più del 20% del ferro assunto da queste fonti viene assimilato). Il ferro biodisponibile è il ferro in forma “eme”, cioè legato ad una molecola di globina, precisamente quello che si ritrova nella carne e nel pesce.

Gli adolescenti sono particolarmente soggetti all’anemia da carenza di ferro, perché durante lo sviluppo aumentano il volume del sangue e la massa muscolare: la conseguenza è un fabbisogno maggiore di ferro per produrre emoglobina, il pigmento rosso del sangue che trasporta l’ossigeno, e mioglobina, la proteina correlata contenuta nei muscoli. Quando comincia l’adolescenza, nei ragazzi si verifica un accumulo più rapido della massa magra per ogni chilogrammo supplementare di peso corporeo guadagnato durante la crescita. Ciò comporta una quantità finale di massa muscolare magra che è doppia rispetto alle ragazze. Altri fattori che influenzano la necessità di ferro sono l’aumento del peso corporeo e l’inizio delle mestruazioni per le femmine.

Cosa dobbiamo consigliare agli adolescenti per la loro alimentazione? Una delle più importanti indicazioni è di non far mancare cibi ricchi di ferro in forma “eme”: uova, carne magra, anche sotto forma di affettati (la bresaola è ricchissima di ferro)  pesce, fegato bovino (straricco di ferro).

Parliamo poi del calcio. La maggioranza assoluta (il 99%) delle riserve di calcio è nelle ossa. L’adolescenza è appunto la fase della vita in cui il peso delle ossa aumenta di più: in pratica, il 45% circa dello scheletro dell’adulto si forma durante questo periodo, anche se la crescita prosegue oltre, quasi fino ai trent’anni. Tutto il calcio necessario per lo sviluppo dello scheletro deriva dall’alimentazione. Ma c’è un «ma»: il nostro corpo ha un’efficienza limitata nell’assorbire il calcio (ne assorbe il 30% circa rispetto alla quantità introdotta con gli alimenti) e quindi per raggiungere la giusta densità ossea se ne deve fornire un apporto adeguato. È molto importante raggiungere una quantità di massa ossea corretta nell’infanzia e nell’adolescenza, per ridurre il rischio di osteoporosi negli anni successivi. Consumando porzioni di latticini, per esempio latte, yogurt e formaggio, si raggiunge il livello raccomandato di calcio.

Oltre al calcio, per la crescita delle ossa sono necessari altri minerali e vitamine, come il fosforo e la vitamina D, di cui sono particolarmente ricche le fonti animali, mentre le fonti vegetali sono poverissime.

Il veganesimo richiede una notevole abilità dietologica per poter assumere tutti i nutrienti, e una adeguata assunzione di tutta una serie di supplementi non proprio a buon mercato, come calcio, vitamina B12.

Tra i vegani alcuni studi hanno riscontrato addirittura una deficienza di vitamina D3, facile in un mondo, come quello contemporaneo, dove si lavora e vive al chiuso e le occasioni di prendere il sole sono sempre più limitate (576).

Se non si vuole consumare quantità esagerate di cavolo cinese, è difficile trovare fonti vegetali di calcio, e i latticini magri rappresentano pur sempre l'alternativa più naturale, secondo Robert Heaney, una autorità mondiale nel campo dell'osteologia. A conferma di questo, un ortopedico che lavora presso l'Ospedale Traumatologico Ortopedico di Torino ha detto allo scrivente che ha riscontrato in soggetti vegani di 40 anni delle fratture e delle incrinature ossee che normalmente riscontra in soggetti ultrasessantenni.

I tipi di "latte" alternativo a cui ricorrono i vegani (latte di riso, latte di soia, latte di avena, latte di mandorle), sono poverissimi di calcio e, con l'eccezione del latte di soia, anche di proteine.

I vegani, consumando grandi quantità di frutta secca, ricca di omega-6 ma povera di omega-3, hanno anche uno squilibrio tra questi due tipi di grassi, che può promuovere infiammazione.

Lo stesso Franco Berrino, medico ed epidemiologo di fama, nel suo libro La grande via,  rileva che altre potenziali carenze a cui potrebbero andare incontro soprattutto i bambini vegani e le donne strettamente vegetariane in stato interessante o con mestruazioni abbondanti sono quelle da deficienza di ferro, zinco, calcio e occasionalmente riboflavina.

Non è del tutto provato che le proteine vegetali, in particolare quelle di soia, possono essere sostituite alla carne nello svezzamento dei bambini senza che si noti alcuna differenza nella loro crescita: studi effettuati sui piccoli di primati a cui sono state somministrate proteine di soia mostrano che il loro sviluppo scheletrico è più lento e che lo scheletro, sebbene ugualmente mineralizzato, è più piccolo (577). E' possibile che lo stesso effetto (bambini più bassi) si riscontri negli esseri umani, anche se le proteine di soia vengano complementate con altre proteine vegetali, perché le proteine vegetali (come mostrano Walter Longo e Luigi Fontana nei loro studi) stimolano in misura minore il fattore di crescita IGF-1. Studi recenti hanno trovato che i topi di laboratorio deficienti di questo fattore di crescita sviluppano una struttura muscolare più piccola, anche se più compatta (578)

Inoltre, le proteine di soia somministrate ai piccoli di primati limitano in maniera significativa l'assorbimento di ferro, e i piccoli sviluppano anemia nel giro di sei mesi, anche se il loro latte contiene supplementi di ferro. (577).

Ci sono poi aminoacidi, come la taurina, che non sono contenuti che in minima misura in cibi vegetali. Piccole scimmie nutrite con una preparazione per la nutrizione infantile umana a base di soia hanno mostrato seri disturbi metabolici e di sviluppo dell'apparato visivo a causa della deficienza di taurina (577).

Gli acidi grassi omega-3, essenziali per lo sviluppo del cervello del neonato e del bambino che si trovano nei vegetali sono in quantità minore e con biodisponibilità molto minore (20-30% solamente) rispetto ai cibi animali (pesce, crostacei, molluschi, tuorli di uova di galline allevate allo stato selvatico) (biodisponibilità 80%).

La vitamina B12, pure essenziale per lo sviluppo cerebrale, non si trova in cibi vegetali.

La dieta vegana potrebbe aumentare il rischio di danni neurologici per il neonato. Triplicano i casi di deficit materno di vitamina B12, una malattia rara, causata anche dalla dieta vegana, che può comportare danni neurologici gravi nel feto e nel neonato. Attenzione ad integrare l’alimentazione

Dieta vegetariana e vegana sono sotto il mirino dei neonatologi. Nel 2016, infatti, sono triplicati i casi di deficit materno di vitamina B12, fra le cui cause c’è proprio questo tipo di dieta, spesso non opportunamente integrata. E, nelle donne incinte, tale carenza è associata a un aumento del rischio di danni neurologici già in utero per il feto e dopo la nascita per il neonato. Questi dati sono stati appena pubblicati nell’ultimo rapporto tecnico della Società italiana per lo studio delle malattie metaboliche ereditarie e lo screening neonatale (Simmens), che ha analizzato i risultati dello screening neonatale esteso, uno screening reso obbligatorio dalla legge n. 167 del 2016 e che serve per la prevenzione delle malattie metaboliche ereditarie.

Nel 2016, i casi di deficit materno di B12 sono stati 126 contro i 42 del 2015. I numeri sono bassi, come hanno spiegato gli esperti dell’Osservatorio malattie rare (Omar), dato che si tratta di una malattia rara, ma è la crescita a destare preoccupazione.

“Questo dato”, si legge nel rapporto Simmens, “è rilevante in termini di salute pubblica e di estremo interesse per possibili futuri piani di prevenzione primaria in quanto i neonati necessitano di trattamento, anche se transitorio, associato in molti casi a necessità di contestuale trattamento materno”.

Sulla base di quanto riportato dalla Simmens, l’Osservatorio Omar ha interpellato alcuni esperti in materia di neonatologia per capire cause e rischi della patologia.

Intanto, la vitamina B12 o cobalamina è contenuta in gran parte in alimenti di origine animale, come carne, pesce, uova, formaggi, cibi esclusi dalla dieta vegana. E questo problema può diventare rilevante durante la gestazione. “Questa vitamina, infatti, ha un importante ruolo nello sviluppo del sistema nervoso centrale e il suo fabbisogno aumenta in gravidanza”, ha spiegato Carlo Dionisi Vici, responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Patologia Metabolica dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. “Se la madre non ne assume abbastanza, o peggio non ne assume affatto, può creare al neonato dei danni neurologici già in utero, che proseguono e peggiorano nei mesi successivi, con l’allattamento”.

In Italia, il deficit materno di vitamina B12 colpisce circa un neonato su 4000 ed in totale ci sono 100 casi all’anno, prosegue l’esperto. Oltre a particolari forme di gastrite atrofica che impedisce l’assorbimento della sostanza, questi casi si riscontrano spesso fra i figli di persone di origine asiatica, che hanno una dieta prevalentemente vegetariana, come riportano già evidenze di qualche anno fa. “Inoltre, oggi più di ieri”, continua Dionisi Vici, “il problema si rileva fra i bambini di donne italiane che anche in gravidanza seguono una dieta che elimina alimenti di origine animale”.

Così le donne in gravidanza devono essere ben informate su questi rischi, come ha sottolineato Giancarlo la Marca, presidente Simmens e direttore del Laboratorio Screening Neonatale Allargato dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Meyer di Firenze. “Le madri carenti di questa vitamina nella loro alimentazione“, rimarca l’esperto, “devono assumere degli integratori durante la gravidanza e l’allattamento, perché i loro figli sono gravemente a rischio di malattia“.

Si tratta di una malattia rara ma molto grave, che può comportare vari sintomi neurologici del sistema nervoso centrale, fra cui un ritardo nello sviluppo o nei casi più severi atrofia cerebrale. “In molti casi è anche facilmente evitabile”, conclude Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttore dell’Osservatorio malattie rare. “Ad assolvere a questo dovere devono essere i medici, i media e anche le istituzioni: una campagna di informazione seria e condivisa potrebbe salvare molte vite”.

E l'elenco di possibili deficienze nutritive potrebbe continuare.

Si ricorda che gli studi statistici non mostrano alcuna differenza di mortalità tra vegani, vegetariani e onnivori.

Il buonsenso, poi, suggerirebbe un certo numero di correzioni al nostro stile di vita che andrebbero fatte prima di darsi al veganesimo, alle proteine vegetali, alla restrizione calorica, alla macrobiotica, alla restrizione proteica e ai pellegrinaggi mariani per vedere se il cambiamento nelle vostre analisi è sufficiente: a) Eliminare il sale; b) Riportare il consumo di proteine al disotto di 1 grammo al giorno; c) Provare a mangiare quanto basta per non dimagrire, ma non di più; d) Eliminare i latticini grassi e le carni grasse, cioè gli alimenti ricchi di grassi saturi sostituendoli con le carni magre, il pollame e i latticini magri come lo yogurt e i fiocchi di latte (anche mozzarelle, in mancanza di maggior forza di volonta…); e) Prendere un supplemento di Omega-3; f) Aumentare la quantità di frutta e verdura nella dieta; f) Eliminare lo zucchero raffinato e tutti i cibi che lo contengono (comprese, ahimé, le marmellate); g) Riportare i BMI nella norma; h) Sostituire (almeno in parte) il pesce alla carne (almeno due porzioni settimanali di pesci ricchi di omega-3 come sgombri e sardine); i) Introdurre 4 noci al giorno nella dieta; j) Portare l'esercizio fisico a 150 minuti settimanali di esercizio moderato o a 75 minuti settimanali di esercizio vigoroso (tanto basta per l'American Cancer Society): cioè l'equivalente di parcheggiare ogni giorno la propria auto a un km di distanza dal posto di lavoro e fare il tratto rimanente a piedi; k) Eliminare il fumo; l) inserire un minestrone al giorno o ogni due giorni nella dieta; m) Eliminare tutti i cibi che contengono "calorie nude"; n) Eliminare tutti i cibi che contengono grassi idrogenati o che nell'etichetta riportano "grassi vegetali" senza specificarne il tipo, e se possibile non ricorrere a prodotti a base di olio di mais o di girasole; o) Eliminare la "carne vegana" a base di proteine isolate di soia, e passare agli altri prodotti di soia più tradizionali e più sani; p) Eliminare tutte le fonti di alluminio che provocano demenza, a cominciare da prodotti contro l'acidità di stomaco che contengono sali di alluminio; q) Assumere più liquidi per miglorare l'evacuazioen; r) assumere the verde; s) evacuare in posizione accosciata; f) Aumentare la quantità di calcio e vitamina D, con supplementi o esposizione alla luce solare; g) prendere un integratore (Valerio Longo lo consiglia).

Queste modifiche probabilmente produrranno più frutto del veganesimo, della restrizione calorica e di quant’altro, e produrranno almeno il 70% dei presunti risultati di queste, senza bisogno di affamarsi a vita inseguendo l'impossibile sogno dell'immortalità.

 

 

 

I due casi in cui la dieta vegana potrebbe essere l’alternativa giusta

La dieta vegana è una dieta eccellente per i cardiopatici. Bill Clinton, il cui terzo bypass si era ostruito nel giro di una settimana, è passato al veganesimo con ottimi risultati, e ha rilasciato su questo una intervista alla CNN. La spinta a cambiare dieta gli è venuta dalla lettura di libri sulla potenzialiti di una dieta completamente vegetale di far recedere la placca aterosclerotica. Nel 2007 il cardiologo Caldwell B. Esselstyn aveva pubblicato Prevent and Reverse Heart Disease, una dieta vegana con abolizione spinta dei grassi. Nel libro sono pubblicate immagini endoscopiche che mostrano una impressionante riduzione della placca aterosclerotica in persone che seguono tale dieta..

Anche coloro che soffrono di gravi infiammazioni sistemiche (lupus, artrite reumatoide ecc.) potrebbero forse beneficiarvi.

Una seconda indicazione per la dieta vegana si ha nel campo delle pratiche mistiche e spirituali. Giù San Girolamo raccomandava di digiunare lievemente e di assumere cibo vegetale, che è meno calorico e diminuisce la creazione di ormoni sessuali per chi voglia compiere un cammino spirituale. In questo caso, i potenziali danni del veganesimo vanno bilanciati con una condizione mentale migliore per affrontare un cammino spirituale.

 

 

 

Controinformazione: bufale che ci propinano riviste, industrie farmaceutiche e operatori sanitari

 

Non tutte le affermazioni in cui potreste imbattervi su media, blog e siti internet dedicati all'alimentazione o addirittura che potreste sentirvi dire da un operatore sanitario sono in realtà condivise da tutti. Ecco una lista di notizie sulle quali dovreste informarvi maggiormente o che dovreste guardare con sano scetticismo.

Molte notizie sono riportate solo per dovere di cronaca e senza commento, perché a giudizio di chi scrive non è ancora chiaro se le obiezioni alla loro validità siano solide oppure tendenziose: a questo scopo, Il rombo segnala che si tratta di notizie su cui chi scrive non prende posizione.

  I “grani antichi” contengono meno glutini e quindi sono migliori per la salute.

Non è vero che i "grani antichi" contengano meno glutine o facciano meno male alla salute dei "grani moderni". Vedi l'approfondita disamina della questione, con tanto di rassegna della letteratura scientifica più recente, nel blog di Dario Bressanini, “Scienza in cucina”, nel post "Grano antico fa buon glutine?” dove viene smontata scientificamente questa affermazione.

  "Mangiate tre porzioni di salmone a settimana per fare il pieno di grassi omega-3"

La maggior parte del salmone è di allevamento, e quindi non mangia il plancton, che è l'alimento da cui i pesci grassi traggono gli omega-3, quindi è estremamente povero di omega-3.

Inoltre, e per la gioia del vostro portafoglio, il pesce che contiene più omega-3 non è il salmone selvatico, che ne contiene solo 2,08 grammi ogni 100 grammi di prodotto, contro i ben 4,08 grammi delle sardine fresche e i 2,10 grammi delle aringhe fresche, che costano infinitamente meno. Al supermercato, saltate la scansia del salmone e prendete, se c'è, una confezione di aringa affumicata: stessa quantità di omega-3, prezzo ridotto di tre volte.

Infine, tre porzioni garantiscono solo pochi grammi di omega-3 a settimana, insufficienti in molti casi a produrre un qualsiasi beneficio e a bilanciare il rapporto sbilanciato con gli omega-6 che assumiamo da oli di semi, frutta secca e altre fonti alimentari. Se mangiate solo 3 porzioni di pesce a settimana, considerate la possibilità di integrare la vostra dieta con capsule di omega-3, che vi consentiranno di arrivare alla quantità di 1,5-2,5 grammi al giorno, da cui cominciano i benefici per il sistema circolatorio, il cervello e l'intero organismo.

  "I semi di Chia, i semi di canapa, le noci, sono straordinarie fonti vegetali di grassi omega-3"

Gli acidi grassi omega-3 da fonti vegetali (i tanto lodati semi di chia e di lino) non vengono trasformati dal corpo in modo efficiente in EPA e DHA, che sono la forma attiva e benefica di tali grassi: solo il 20% o meno degli acidi omega-3 assunti dai semi oleosi viene trasformata, senza contare l'enorme quantità di calorie che si assumono con questi semi: più di 500 calorie per etto. Meglio i grassi omega-3 del pesce.

  "Gli spinaci ed altre fonti vegetali sono ricchissimi di ferro e possono sostituire le fonti animali"

Il ferro più assimilabile è quello in forma "eme", cioè legato ad una molecola di globina (emoglobina), che si trova nel sangue e nei tessuti degli animali. L'assorbimento di ferro dai vegetali è ridottissimo, anche se, come raccomandano i vegani, assunti con vitamina C, che ne favorisce la metabolizzazione.

  "Il cioccolato, anche fondente, è estremamente grasso, e quindi fa aumentare il colesterolo"

Il cioccolato extrafondente contiene burro di cacao, che non è un grasso saturo, appartiene alla famiglia degli acidi stearici (quelli delle candele) e non viene metabolizzato dall'organismo.

Invece è vero che il cioccolato al latte è dannoso per le arterie, perché contiene i grassi del latte intero.

  "Il nuoto è il modo migliore per far sviluppare lo scheletro dei ragazzi, specie la colonna vertebrale"

Gli ortopedici più aggiornati vi diranno che il nuoto, essendo fatto in condizione di assenza di gravità, è il modo più lento per far rafforzare uno scheletro in crescita, e in particolare la colonna vertebrale.

Chi lo dice? Beh, tra gli altri Franco Berrino, medico, patologo, epidemiologo, già direttore del Dipartimento di Medicina Preventiva e Predittiva dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, che ha promosso lo sviluppo dei registri tumori in Italia e in Europa. A pagina 237 del suo recente libro (2015) Il cibo dell'uomo, parlando dell'attività fisica migliore per mantenere e sviluppare la densità del nostro scheletro consiglia "ginnastica con pesi o elastici, bicicletta, tennis, ballo" e termina dicendo: "il nuoto fa bene in generale ma non serve per le ossa, perché galleggiando non si esercita un peso sullo scheletro".

È vero che è stato dimostrato che l'attività fisica che fa muovere l'osso ne provoca comunque un rafforzamento, e nuotando intensivamente lo scheletro ne risulterà rafforzato, ma la NASA, per rimediare alla demineralizzazione dello scheletro degli astronauti che sono vissuti in assenza di gravità, utilizza una speciale pedana vibrante che crea sollecitazioni meccaniche per le ossa, specie della colonna vertebrale. Sono proprio le sollecitazioni meccaniche derivanti dalla pressione a spingere l'osso a rafforzarsi.

Fate fare ai vostri ragazzi delle escursioni in montagna, con un vestito leggero per prendere tanto sole e con uno zainetto di peso medio (sì, proprio il tanto aborrito zainetto, che fa venire la scoliosi!) e vedrete che il loro scheletro si svilupperà magnificamente. Da un milione di anni siamo cacciatori-raccoglitori, e camminare a lungo, magari con la preda sulle spalle, o portando il cibo e gli utensili durante gli spostamenti e le migrazioni, è stata la nostra principale occupazione sin da quando siamo diventati bipedi. Il nostro corpo è ingegnerizzato per camminare portando piccoli carichi, e ne ottiene grandi benefici.

E non scordatevi di mangiare cipolle: è stato provato che aumentano la mineralizzazione delle ossa!

  "Andare  a scuola con lo zainetto fa venire la scoliosi ai nostri ragazzi"

La scoliosi, come scritto più sopra in questo stesso articolo, ha principalmente fattori ereditari e di meccanica dello scheletro e dei tendini che sono largamente indipendenti dalla quantità di pesi che un individuo porta nell'infanzia e nell'adolescenza.

Come già detto in un altro punto di questo articolo, uno zainetto di medio peso e lunghe passeggiate, in realtà rafforzano lo scheletro più velocemente del nuoto!

  "Queste compresse a base di aglio non rovinano l'alito", oppure: "questo è un rimedio infallibile per evitare che l'alito puzzi di aglio dopo averlo assunto: mangiate questo o quello…"

Rassegnatevi: il principale e più benefico principio attivo dell'aglio è l'allicina, che viene espulsa dai polmoni attraverso la respirazione: non c'è modo di evitare che il vostro alito tradisca ciò che avete mangiato. Acquistate aglio dal fruttivendolo e non sprecate dei patrimoni in compresse inutili.

  "Lei ha la scoliosi: deve fare ginnastica correttiva intensiva per tutta la vita, altrimenti corre serissimi rischi; inoltre non deve sollevare mai alcun peso, neanche di qualche etto"

Vedi, in questo documento, l'articolo: Ho la scoliosi: devo andare in palestra a fare ginnastica correttiva? e regolatevi di conseguenza.

  "Questo preparato fornisce vitamina C naturale, perché è a base di estratti vegetali, ed è preferibile alla vitamina C di origine chimica"

Come rileva il biologo Dario Bressanini, che ha un ottimo blog di dietologia, la formula della vitamina C è sempre la stessa, sia che la si ricavi da un estratto vegetale, sia che la si produca con una sintesi chimica. Vi diranno che nell'estratto vegetale sono presenti componenti che ne favoriscono l'assorbimento e ne ottimizzano l'azione. Questo non è mai stato provato conclusivamente. Considerate poi che il prezzo delle compresse di vitamina C di sintesi è altissimo rispetto agli altri paesi europei: quello della della vitamina "naturale" è ancora superiore. Il preparato vegetale potrebbe poi non essere titolato: cioè non viene fatto un controllo per stabilire la quantità di vitamina C presente in un grammo di estratto.

  "Questo è un preparato antivirale a base di estratti naturali, che guarisce definitivamente dall'herpes labiale"

Dall'herpes labiale non si guarisce: il virus rimane annidato nello strato più superficiale della pelle per tutta la vita, come tutti i virus della famiglia dell'herpes (labiale, genitale ecc.). Quel che fa qualche medicinale è mitigare i sintomi, in modo che, passato il periodo di debolezza delle difese immunitarie che ha causato il riacutizzarsi dell'infezione, il virus ritorna quiescente.

Uno dei pochi preparati validi è quello a base di aciclovir. Non comprate sciocchezze erboristiche senza alcuna sperimentazione scientifica a supporto.

  "Questo preparato vegetale elimina i funghi alle unghie di mani e piedi"

Sarà. Ma il miglior preparato per eliminare le colonie fungine che possono essersi insinuate sotto le vostre unghie è "Trosyd" in preparazione ungueale, che contiene un potente agente chimico antimicotico.

  "I cibi biologici sono più ricchi di quelli non biologici. Occorre mangiare biologico per evitare di essere avvelenati da residui chimici di concimi e pesticidi"

Falso. Vedi in questo documento l'articolo: Mangiare cibi bio è meglio?

  "Più attività sportiva si fa, meglio si sta. Il runner, che corre per 10 chilometri al giorno o più, si mantiene in eccellente salute e si garantisce una vita longeva"

Non fraintendete. Fare sport, anche agonistico, è bello e appagante. Ma ricerche recenti rivelano che la quantità di attività fisica per mantenersi in buona salute è mezz'ora di camminata di buon passo al giorno, o dieci minuti di sforzo "cardio". Il 90% dei vantaggi si ottiene con queste attività. Sforzi ulteriori migliorano ben poco la situazione. Una attività sportiva troppo intensa accelera l'ossidazione dei tessuti, provoca stress all'organismo, eccessivo sforzo digestivo, può usurare articolazioni (anche se un moderato esercizio è necessario per mantenerle in buone condizioni). E non esistono studi conclusivi sull'effetto di una attività fisica intensa sulla longevità delle persone.

  "Questo preparato, a base di fosforo, aumenta la concentrazione e la prontezza intellettuale, favorisce la memorizzazione, ecc. ecc."

Lasciate il fosforo ai produttori di cerini e fiammiferi. Una cosa è la carenza di fosforo, che è molto rara in una dieta razionale, e che va curata. Un'altra un iperdosaggio di fosforo, che non ha nessun effetto.

  "Questo preparato contro la caduta dei capelli, la cui azione consiste nel rafforzare il bulbo pilifero e stimolare il fattore di ricrescita delle cellule del capello, ha una efficacia sperimentalmente provata". Oppure: "Questa prescrizione di vitamine (tipicamente: Rovigon) e minerali (tipicamente: zinco) rafforzerà i suoi capelli e ne eviterà la caduta". Oppure: "Questa lozione esfoliante, che si farà preparare in farmacia, rinnova il cuoio capelluto e rafforza i capelli". Oppure: "Tagliarsi i capelli a zero ne stimola la ricrescita; chi tiene i capelli lunghi li fa indebolire".

Tutto falso. Gli unici preparati efficaci contro la caduta di capelli degli uomini non sono quelli che rafforzano il capello o stimolano il fattore di ricrescita delle cellule, ma sono gli antiandrogeni, che contrastano l'azione del testosterone. Vedi in questo documento l'articolo Qual è il miglior preparato per prevenire la caduta dei capelli?

Ci sono ditte farmaceutiche e cosmetiche, anche di grande rinomanza, che hanno la sfacciataggine di inserire nella loro pubblicità dichiarazioni del tipo: "Effetto: miglioramento del 10% sperimentalmente provato(*)" con una nota in caratteri piccoli, contrassegnata dall'asterisco che dice: "basato su valutazioni soggettive dei soggetti dell'esperimento". Capito? Valutazioni soggettive! C'è di che rimanere allibiti.

Vitamine, sali minerali, esfolianti e quant'altro sono solo degli inutili placebo. La ragione per cui molti dermatologi prescrivono queste ricette anziché le cure ormonali è che sono restii a rivelare al paziente che una cura ormonale può provocare (ma solo in alcuni casi) calo della libido e (ma solo in rari casi) un principio di femminilizzazione (lieve ingrossamento dei pettorali, lieve aumento del'adipe in determinate zone). Questi aspetti della faccenda possono essere tranquillamente tenuti sotto controllo da un attento monitoraggio medico. Ma se vi preoccupano, non vi rimane che essere filosofi e accettare la caduta dei vostri capelli, senza farvi dissanguare da chi vi fa false promesse.

Radersi a zero né migliora né peggiora la situazione. Rivela solo a chi vi sta intorno che siete preoccupati per lo stato del vostro cuoio capelluto.

 

… TO BE CONTINUED

 

 

 

Una maratona vegana di soli 20 giorni integrata con capsule di omega-3 per vedere se per voi il China Study funziona: i risultati potrebbero sbalordirvi, e darvi la spinta (senza esagerare né abbracciare il veganesimo) a fare qualche correzione alla vostra dieta abituale.

 

La pratica è migliore della teoria. Perché continuare a leggere e a informarsi se poi non si passa all'azione?

Le polemiche sulle conclusioni che il prof. Colin Campbell ha tratto dal suo famoso China Study infuriano più che mai sul web. I suoi procedimenti di calcolo statistico sono messi in discussione. Il post di una una studentessa inglese appena ventitreenne, Denise Menger, che ha pubblicato una serie di critiche severe ai metodi di analisi dei dati del China Study è rapidamente diventato virale e ha infiammato il web nel 2010. Tra botta e risposta, ad oggi siamo ancora nel pieno delle discussioni: vedi il sito di Denise Menger, www.rawfoodsos.com . Senza considerare che quel che va bene per il fisico di uno di noi potrebbe non funzionare o non andar bene per il fisico di qualcun altro.

Cosa farebbe una persona di buon senso? Proverebbe la dieta vegana e confronterebbe le sue analisi (principalmente il profilo lipidico) prima e dopo.

Per quanto tempo? Chi scrive ha provato a fare una maratona, e vi dice che sono sufficienti venti giorni per osservare cambiamenti veramente notevoli - sempre, è chiaro, che al vostro fisico e alle vostre condizioni attuali si addica una tale dieta.

Quanto può essere difficile seguire una dieta vegana per venti giorni? Ricordate che qui non si parla di calorie e diete dimagranti: potete mangiare quanto volete (nei limiti del ragionevole).

Ecco il profilo lipidico di chi scrive prima della dieta:

 

Colesterolo totale: 190

Colesterolo HDL: 46

Colesterolo LDL : 129

Trigliceridi : 76

Rapporto LDL/HDL : 2,8

 

Ecco il profilo lipidico dopo venti giorni di completa dieta vegana integrata con capsule di omega-3 e tre tazze di the verde giornaliero:

 

Colesterolo totale: 154

Colesterolo HDL: 47

Colesterolo LDL : 96

Trigliceridi : 58

Rapporto LDL/HDL : 2,04

 

Alla dieta vegana sono state aggiunte, nei venti giorni in cui è stata praticata, 3 grammi di EPA+DHA al giorno (equivalenti a 12 capsule da 250 mg): ma voi potreste provare con 1-1,5 grammi (equivalenti a 4-6 capsule da 250 mg). Inoltre, sono state bevute tre tazze (3 bustine) di the verde al giorno e assunti tre cucchiaini di lecitina di soia al giorno.

La dieta vegana bandisce carne, latte, latticini, uova e ricava le sue proteine da soia, seitan, semi oleosi, cereali complementati con legumi.

Ecco l'elenco di alimenti che chi scrive ha utilizzato oltre la frutta e la verdura:

 

Patate

Legumi (ceci, lenticchie, piselli fagioli) complementati con cereali (riso integrale o pasta integrale)

Yoghurt di latte di soia

Tofu

Latte di soia

Tempeh (soia fermentata)

Lievito in polvere o compresse

Seitan (proteine del glutine del frumento)

Pane di segale integrale (ottimo quello prodotto da Pema per Loacker)

Semi oleosi ricchi di omega-6 (arachidi, girasole, mandorle)

Semi oleosi ricchi di omega-3 (semi di chia, semi di lino)

Semi oleosi con un contenuto bilanciato di omega-3 e omega-6 (noci, semi di canapa decorticati)

Ecco qualche esempio di piatti sostitutivi della carne:

Riso + Piselli lessati + tofu o tempeh + mandorle o arachidi

Zuppa di legumi e cereali (es. Zuppa del Casale Findus) + lievito in polvere + tofu o tempeh + semi di canapa o arachidi o semi di girasole

Noci + Pane di segale + Yoghurt di soia

 

Provare per credere.

 

 

 

E' provato: l'alcol nell'adolescenza distrugge il cervello

 

Uno studio pubblicato recentemente sulla rivista Alcoholism: Clinical & Experimental Research esamina la correlazione tra l'esposizione ripetuta all'alcol durante l'adolescenza e i suoi effetti su apprendimento e memoria.

Lo studio, condotto dal Dipartimento di psichiatria e scienze comportamentali della Duke University Medical School, ha sottoposto all'alcol dei roditori in fase adolescente per esplorarne l'impatto cellulare e sinaptico risultante. Il problema è il seguente: durante l'adolescenza il cervello non si è ancora completamente sviluppato e l'esposizione ripetuta all'alcol durante quel periodo può, in parole povere, bruciare diverse connessioni cerebrali che potrebbero tornare utili più avanti nel corso della vita.

Ma a chi si riferiscono esattamente i ricercatori quando parlano di "adolescenti"? "Per la legge, una volta raggiunti i 18 anni si viene considerati adulti, ma il cervello continua a maturare fino ai 25 anni circa", ha spiegato l'autrice e ricercatrice Mary-Louise Risher. Evitare l'alcol per tutto quel tempo?

Ecco com'è andato l'esperimento. I ricercatori hanno esposto i giovani roditori a un livello di alcol tale da "stordire, ma non sedare". Anche senza essee esposti ulteriormente all'alcol in età adulta, gli animali sono risultati più "stupidi" delle loro controparti astemie. "L'esposizione ripetuta all'alcol […] ha causato cambiamenti a lungo termine nelle regioni del cervello che controllano l'apprendimento e la memoria", scrivono i ricercatori.

La memoria e le funzioni cognitive nei topi sottoposti all'esperimento sono peggiorate a causa di un'eccessiva attività di potenziamento a lungo termine, o LTP, una forma di plasticità sinaptica del cervello. In breve, le sinapsi dei ratti che avevano sbevazzato erano sature e gli animali sono diventati incapaci di apprendere.

Inoltre, aggiungono gli scienziati, dopo aver assorbito l'equivalente di troppi white russian per topi, nelle povere cavie si è verificato un vero e proprio cambiamento strutturale. Le spine dendritiche - minuscole protrusioni che partono dalle ramificazioni delle cellule cerebrali - non sono naturate a causa dell'esposizione precoce all'alcol. Insomma, avvertono i ricercatori, "durante l'esposizione all'alcol in fase adolescenziale accade qualcosa che cambia il modo in cui funzionano l'ippocampo e altre regioni del cervello" e quel qualcosa non è niente di buono.

 

 

 

Le 6 tappe fatali nella genesi di un attacco cardiaco e come possiamo fare per evitarle

 

Di tutte le cause più comuni di morte prematura - attacco cardiaco, ictus, cancro, incidenti, diabete, malattie infettive - la probabilità più grande è che voi morirete di un attacco cardiaco o di un ictus. Questo è vero che voi siate un maschio o una femmina. Le persone tendono a pensare che i disturbi cardiovascolari sono una malattia maschile perché i sintomi si mostrano 10 anni prima negli uomini, ma le donne recuperano il terreno perduto dopo la menopausa. Di fatto, su base annuale, muoiono più donne che uomini. Cinque volte più donne muoiono di attacco cardiaco che di cancro alla mammella. Quale che sia il vostro sesso, seguire l'Omega Plan è uno dei passi più importanti che voi potete fare per salvaguardare la vostra salute.

Perché l’Omega Plan e così superiore alle altre diete per il cuore? La risposta è che si rivolge a bersagli multipli. Molte diete per il cuore hanno un unico scopo primario - abbassare i livelli di colesterolo. Ma abbassare i vostri livelli di colesterolo e solo una delle tante maniere per proteggere il vostro cuore, e sorprendentemente, potrebbe essere non la più importante se tutti gli adulti si dedicassero a una dieta che abbassa il colesterolo per il resto della loro vita aspettativa di vita negli Stati Uniti incrementerebbe di soli tre mesi per le donne ed i quattro mesi per gli uomini. Per la protezione più completa avete bisogno di ridurre anche altri fattori di rischio.

Per esempio un fattore di rischio di importanza critica e il vostro livello sanguigno di omocisteina, un aminoacido che può danneggiare le pareti delle vostre arterie coronariche. Alti livelli di omocisteina sono stati ritenuti responsabili fino al 30% degli attacchi di cuore e di ictus nei maschi americani. Potete ridurre i vostri livelli di omocisteina incrementando il vostro introito di acido folico, una vitamina che si trova nella frutta, nei vegetali a foglia verde e nei legumi. Il pesce, un altro componente chiave del piano, anch’esso abbassa i livelli di omocisteina.

È opportuno anche innalzare i livelli dei vostri antiossidanti, la riduzione del rischio di coaguli sanguigni e un aiuto per normalizzare la vostra pressione sanguigna e il battito cardiaco.

Ecco di seguito i sei passi nella genesi di un attacco cardiaco, dalla prima microscopica lesione alle vostre arterie coronariche al battito finale del cuore. Mano a mano che descriverò questa mortale progressione saranno evidenziati tutti i modi in cui una dieta corretta, con un apporto adeguato di antiossidanti e di acidi grassi omega-3 può bloccarla.

 

passo 1: una piccola lesione alle pareti delle arterie coronarie

 

Per molte persone, il dolore che annuncia un attacco di cuore sembra venire dal nulla. Un minuto prima stavano allacciando le scarpe o spalando la neve, il minuto successivo sono presi dalla morsa di un dolore lancinante; è come se un minuto prima fossero perfettamente sani, e il minuto dopo stessero bussando alla porta della morte. Potreste non rendervi conto che virtualmente tutto quanto questo prolungato dramma ha luogo nelle vostre arterie coronariche, non nel vostro cuore. Le vostre arterie coronariche sono i grandi vasi che provvedono il sangue per il vostro muscolo cardiaco famelico d'ossigeno. Sebbene il vostro cuore sia pieno di sangue, trae tutto il suo nutrimento dal sangue che fluisce attraverso queste arterie vitali. Se diventano bloccate, il vostro muscolo cardiaco diviene affamato l'ossigeno, e si scatena un attacco.

Il primo segno in assoluto di una malattia alle arterie coronariche è un piccolo danno al rivestimento delle pareti della vostra arteria. Alcuni danni sono inevitabili perché causati dal flusso del sangue attraverso questi vasi. Degli studi hanno dimostrato che anche persone di vent'anni mostrano segni di questo tipo di abrasione. Ma alcuni danni possono essere prevenuti, come quelli causati da una pressione alta. Quando avete una pressione alta il sangue fluisce attraverso i vostri vasi con più forza, come attraverso un tubo da giardino che collegate ad una bocca d’acqua ad alta pressione. Più alta è la vostra pressione sanguigna, più grande il danno potenziale per le vostre arterie e più grande rischio di attacco di cuore e di ictus. Una persona con pressione diastolica sopra 105 ha due volte il rischio normale di eventi coronarici e quattro volte il rischio di ictus

 

capire la lettura dei vostri valori della pressione

 

La vostra pressione è espressa da due numeri, per esempio "145/92". Il numero più alto, chiamata (pressione sistolica) è la pressione arteriosa mentre il muscolo del vostro cuore si sta contraendo. Il numero più basso, la "pressione diastolica" è la pressione quando il vostro cuore è a riposo tra due battiti.  Questi numeri sono espressi in termini di millimetri di mercurio.

La pressione normale è intorno a 120/80. L'ipertensione è comunemente definita come valori di pressione superiori a 140/90.

La buona notizia è che potete abbassare la vostra pressione sanguigna semplicemente scegliendo un certo tipo di olio per il vostro condimento piuttosto che un altro. L’olio d'oliva e oli omega-3 sono stati sperimentalmente accreditati dell'abbassamento della pressione del sangue. Per esempio degli studi hanno mostrato che prendendo giornalmente supplementi di olio di pesce che contengono anche solo 3 g di EPA e DHA, può abbassare la vostra pressione sistolica di cinque punti e la vostra pressione diastolica di tre punti. Un cambiamento anche di questa modesta entità potrebbe ridurre il numero di americani definiti "ipertesi" del 40%! L'acido alfa-linolenico (l'acido grasso omega-3 che si trova nell'olio di canola, nell'olio di noci e nell'olio di semi di lino) può passare anch’esso la vostra pressione sanguigna. Un incremento dell'1% nei livelli sanguigni di acido alfa-linolenico è collegato a una riduzione di 5 mm nella pressione del sangue.

Perfino l'olio d'oliva potrebbe aiutare a mantenere la vostra pressione bassa. In uno studio del 1996,16 donne con una pressione moderatamente alta passarono l'olio d'oliva per un mese. In media la loro pressione sanguigna scese da 161/94 a 151/85, una caduta di quasi 10 punti sia nella pressione diastolica che in quella sistolica.

Come abbassano gli acidi grassi omega-3 la vostra pressione sanguigna?

Il nostro fegato scinde i grassi della vostra dieta in acidi grassi individuali. Questi acidi grassi sono poi convertiti in sostanze simili ad ormoni chiamati eicosanoidi. Gli oli ricchi di omega-6 sono convertiti in un tipo di eicosanoidi chiamato tromboxano A2, che è un potente costrittore delle vostre arterie. Le arterie ristrette forzano il vostro cuore a lavorare più duramente per far circolare il sangue attraverso il vostro corpo, contribuendo a un'alta pressione del sangue. Oli ricchi di acidi grassi omega-3 al contrario sono convertiti in un eicosanoide affine chiamato tromboxano A3, che ha solo una frazione del potenziale vasocostrittore dell'altra sostanza.

Inoltre, nuovi studi mostrano che gli acidi grassi omega-3 possono aumentare la produzione di un'importante sostanza chimica chiamata ossido nitrico, che rilassa le vostre arterie. In uno studio recente uomini a cui stati dati supplementi di pesce avevano un incremento del 43% nella produzione di ossido nitrico.

 

passo 2: ridurre il vostro rischio di infiammazione arteriosa

 

Una volta che un’arteria diventa danneggiata, attrae l'attenzione della squadra di riparazione del corpo, incluse le piastrine e i globuli bianchi del sangue. Queste sostanze promuovono la guarigione, ma possono anche causare coagulazione e infiammazione. Prevenire l'infiammazione cronica si ritiene oggi che sia altrettanto efficace nell'abbassare il vostro rischio di attacco cardiaco e di ictus rispetto quanto ridurre i livelli di colesterolo LDL. Uno studio pubblicato nel 1997 nel New England Journal of Medicine ha rivelato che gli uomini con i più alti livelli di infiammazione erano tre volte più soggetti ad avere attacchi cardiaci e due volte ictus rispetto a uomini con i livelli più bassi.

Il fatto che l'aspirina aiuti a ridurre l'infiammazione potrebbe essere una delle ragioni per cui è così protettiva nei confronti di attacchi cardiaci. Sappiamo oggi che gli acidi grassi omega-3 hanno proprietà antinfiammatorie simili. Di fatto, funzionano quasi nella stessa maniera di un'aspirina, sebbene, a differenza dell'aspirina non danneggino il sensibile rivestimento dello stomaco. Questa è una delle ragioni per cui il pesce è un cibo così amico del cuore. In uno studio del 1996 uomini che mangiavano pesce grasso su base regolare avevano il 42% di probabilità in meno di morire di attacco di cuore rispetto a uomini che non mangiavano pesce.

 

passo 3: l’invasione del colesterolo

 

Il terzo passo nel processo che dura decenni per arrivare un attacco cardiaco è la graduale accumulazione di una placca nelle vostre arterie. In passato, gli sforzi per prevenire quest'accumulo di colesterolo si sono concentrati nell'abbassare i livelli di colesterolo LDL, il colesterolo cattivo che invade le arterie. Ora che abbiamo maggiori conoscenze riguardo i disturbi cardiovascolari, la strategia è diventata più sofisticata ed efficace. Una scoperta importante è stato il fatto che il colesterolo LDL è trasportato nelle vostre arterie attraverso speciali globuli bianchi chiamati macrofagi. Ma prima che macrofagi inglobino il colesterolo, il colesterolo deve essere danneggiato da un processo distruttivo chiamato ossidazione. Se voi mantenete il vostro colesterolo LDL al riparo dall'ossidazione, dunque, non sarà preso dai macrofagi e trasportato sulle pareti delle vostre arterie.

Una dieta sana rallenta l'ossidazione del vostro colesterolo LDL in due maniere chiave. Anzitutto nutre il vostro corpo con oli monoinsaturi come l'olio d'oliva, che sono naturalmente resistenti all'ossidazione. In secondo luogo, aumenta il vostro apporto di frutta e vegetali, aumentando i vostri livelli di antiossidanti. Gli studi hanno mostrato che più antiossidanti sono nel vostro flusso sanguigno più basso è il rischio di morire da disturbi cardiovascolari.

 

passo 4: l’accumulo della placca

 

Ora stiamo per arrivare al quarto passo nella genesi di un attacco cardiaco. In questo quarto critico passo, quantità significative di colesterolo ossidato hanno cominciato a prendere la via delle vostre arterie. Avere piccole quantità di placche causa poco danno. Di fatto, le autopsie mostrano che anche bambini di tre anni hanno i "fatty streaks", cioè delle strie di grasso nelle loro arterie, il primo segno visibile dell'invasione del colesterolo. Il danno consiste nell'avere un deposito così ampio da restringere a bloccare l'arteria coronarica. Più colesterolo LDL avete nel vostro flusso sanguigno, maggiore è la quantità a disposizione per l'ossidazione, e più grandi sono la possibilità che questo evento accada.

Un colesterolo al di sotto di 200 è considerato normale. Se il vostro colesterolo arriva a 250 avete due volte il rischio di un attacco coronarico. Se arriva a 300 il vostro rischio raddoppia di nuovo. Se arriva a 350 e oltre avete otto volte il normale rischio di avere arterie malate e ristrette.

Fortunatamente, il vostro corpo a un meccanismo interno per tenere i vostri livelli di LDL a bada - uno squadrone di colesterolo HDL. Il colesterolo HDL ha la forma di un pallone da football sgonfiato. Quando circola nel vostro flusso sanguigno rastrella il colesterolo LDL, riempiendosi gradualmente. Poi trasporta il colesterolo LDL al nostro fegato, dove esso è captato da particolari recettori LDL sulle vostre cellule epatiche, trascinato dentro le cellule e degradato in sostanze meno dannose. Più colesterolo HDL avete nella vostra squadra di cellule, meno colesterolo ossidato LDL avete nelle vostre arterie.

 

il vantaggio dell’olio di oliva

 

L'olio d'oliva vi dà un vantaggio ulteriore: contiene una sostanza chiamata "squalene" che abbassa il colesterolo. In uno studio recente, pazienti che hanno assunto supplementi di squalene per cinque mesi hanno avuto una diminuzione del 22% nel loro colesterolo LDL.

Una delle ragioni per cui la dieta mediterranea è così protettiva contro disturbi cardiaci è che è basata su oli monoinsaturi, oli che è stato provato abbassano il vostro colesterolo LDL mentre mantengono o addirittura aumentano il vostro colesterolo HDL, il meglio in entrambe le facce della medaglia. Nessun altro grasso ha quest'effetto. I grassi saturi, è noto da lungo tempo, aumentano il vostro colesterolo LDL. Gli acidi grassi trans aumentano il vostro colesterolo LDL e allo stesso tempo abbassano il vostro colesterolo HDL, spingendo entrambi questi grassi nella direzione sbagliata. Una ricerca di un gruppo di ricercatori di Boston ha trovato che persone con i più alti livelli di acidi grassi trans nella loro dieta hanno due volte e mezza il rischio di attacco cardiaco rispetto a coloro che ne mangiano un ammontare più basso. Gli oli omega-6 abbassano il vostro colesterolo LDL, ma al tempo stesso possono anche abbassare il vostro colesterolo protettivo HDL.

Sorprendentemente, voi potete anche squilibrare il colesterolo del vostro corpo mangiando una dieta a basso tenore di grasso ad alto tenore di carboidrati. Esattamente come gli omega-6, questo tipo di dieta abbassa il vostro colesterolo LDL e vostro colesterolo HDL, gettando via il bambino con l'acqua sporca. Questo è un altro esempio ancora di come la nostra attuale mania anti-grassi sia sbagliata. Invece di mangiare cibi a basso tenore di grassi o completamente magri, noi ci dobbiamo concentrare sul mangiare una moderata quantità di grassi buoni per la salute.

 

cosa vi dice il vostro livello di colesterolo rispetto al vostro rischio di attacco cardiovascolare

 

Un predittore affidabile del vostro rischio di attacco cardiaco è il rapporto fra il vostro colesterolo totale e il vostro colesterolo HDL. Più basso è questo rapporto meglio è. Se, per esempio il vostro colesterolo totale è 200 e il vostro colesterolo HDL è 50, il vostro rapporto e 200/50, ovvero 4, che è nella media. Idealmente sarebbe necessario avere un numero pari a 3,5 o più basso.

 

passo 5: il blocco dell’arteria coronarica

 

Supponiamo che tutto sia andato male e ora siete nel quinto passo di questo fosco dramma. A causa del fumo, dell'età, della genetica, di una dieta malsana, di uno stile di vita sedentario, o, più probabilmente, di qualche combinazione di questi fattori, le vostre arterie coronariche sono diventate così intasate di placca che stanno togliendo sangue alla provvista nutritiva del vostro cuore. Un processo mortale che è cominciato decenni prima ha raggiunto adesso la massa critica. Tutto quello che è necessario per un effettivo attacco cardiaco è che un coagulo si chiuda un'arteria già ristretta, bloccando il flusso sanguigno.

Tipicamente, un'arteria diventa bloccata a seguito della brusca rottura di una grossa area della placca. Un deposito di placca è più probabile che si rompa se è grande, cronicamente infiammato, e separato dal flusso sanguigno solo da un piccolo rivestimento di tessuto. Una volta che la placca esplode, spande i suoi detriti nel flusso del sangue e scatena la formazione di coaguli sanguigni. In pochi secondi, un coagulo e altri detriti possono essere portati nella corrente sanguigna e incunearsi in un'arteria coronarica. Un'area importante del vostro cuore è improvvisamente privata di sangue ossigenato e causa un attacco cardiaco potenzialmente mortale.

Come potete ben immaginare, uno degli obiettivi principali della prevenzione degli attacchi cardiaci e dell'ictus è impedire che i coaguli sanguigni blocchi non arteria critica. Questa è la ragione per cui le persone ad alto rischio assumono aspirina o agenti di fluidificazione ancora più potenti. Una scoperta fondamentale fatto all'inizio degli anni 70 e che gli acidi grassi omega-3 rallentano anche la formazione di coaguli sanguigni. Dobbiamo questa scoperta a due ricercatori danesi, H.O. Bang e Jorn Dyerberg, che furono affascinati dalla tradizionale dieta eschimese - sufficientemente affascinati di fatto da condurre una spedizione su slitta di 20 uomini nella Groenlandia del Nord. Bang e Dyerberg osservarono che gli eschimesi che mangiavano loro dieta tradizionale di pesce e mammiferi marini avevano un tasso estremamente basso di morte per accidenti cardiaci. Di fatto, quando analizzarono 10 anni di dati sanitari presso un ospedale della Groenlandia che serviva 2000 persone, non trovarono un singolo caso di morte causato da attacco cardiaco. Alla fine, Bang e Dyerberg furono in grado di dimostrare che una delle principali ragioni della salute cardiaca degli eschimesi era che la loro dieta aveva un alto tasso di acidi grassi omega-3, che, tra gli altri benefici, rallentavano la formazione dei coaguli sanguigni. Quando Bang e Dyerberg pubblicarono le loro scoperte, fecero la seguente profezia: " noi crediamo che mangiare più acidi grassi omega-3 possa essere efficace nella prevenzione dei disturbi cardiovascolari esattamente come l'uso su larga scala di medicinali".

 

in che modo gli acidi grassi omega-3 impediscono ai coaguli sanguigno di formarsi?

 

Un coagulo sanguigno può essere paragonato alla produzione di cartapesta. La "colla" è fornita dalle vostre piastrine, e i fogli di giornale sono forniti da "fibrinogeno" lunghe catene di proteine che si intrecciano con le piastrine e altri elementi creando un trombo o un coagulo. Una recente ricerca ha mostrato che persone con alti livelli di fibrinogeno hanno un rischio cinque volte maggiore di attacco cardiaco, di attacco cardiaco ricorrente e di morte prematura.

Gli oli omega-3 impediscono a coaguli indesiderati di formarsi in due maniere. Anzitutto, rendono le vostre piastrine meno "collose", rendendo meno probabile che si aggreghino insieme. In secondo luogo, diminuiscono la produzione di fibrinogeno. Il risultato finale è un rischio notevolmente ridotto di attacco cardiaco.

 

passo 6: un battito cardiaco caotico

 

Gli attacchi cardiaci sono eventi traumatici, ma non sono sempre letali: avete tre probabilità su cinque di sopravvivere. Che voi viviate o meno dipende in largo grado da come il vostro cuore risponde al trauma. Se comincia a battere in modo incontrollabile, una reazione purtroppo comune chiamata "aritmia maligna" o "aritmia ventricolare", le vostre possibilità di sopravvivenza sono scarse. Un cuore che si contrae selvaggiamente, non funziona più come una pompa efficace, bloccando la circolazione nel vostro intero corpo, non solo nel vostro cuore. Di tutti i vostri organi, il vostro cervello è il più vulnerabile alla mancanza di sangue. Se il flusso del sangue il vostro cervello è bloccato per meno di quattro minuti il probabile risultato è un severo danno cerebrale alla morte.

Il fatto che gli acidi grassi omega-3 prevengano l'aritmia è stato mostrato per la prima volta agli studi su animali condotti negli anni ‘80. In uno di questi esperimenti, otto animali di laboratorio sono stati soggetti a condizioni che mimano un attacco cardiaco. Tutti gli otto animali svilupparono prontamente delle aritmie che li avrebbero uccisi se l'esperimento fosse continuato. L'esperimento fu ripetuto ancora una volta usando un differente gruppo di animali a cui era stata dato un infuso di olio di pesce appena 60 minuti prima del test. Gli acidi grassi omega-3 abolirono completamente l'aritmia in sette animali su otto, mentre l’ottavo animale ebbe un evento di modesta gravità non letale.

Poiché gli acidi grassi omega-3 hanno il potenziale di bloccare tutti e sei i passi che portano a un attacco cardiaco, inclusi i due passi più pericolosi, il blocco finale dell'arteria coronarica e l'aritmia, essi possono salvare le vite delle persone con un avanzato stato di deterioramento coronarico. Ci sono prove dal Lyon Diet Heart Study e anche da un'influente studio inglese conosciuto come il Diet and Reinfarction Trial (DART). I partecipanti allo studio DART del 1989 erano 2000 uomini che si stavano riprendendo da recenti attacchi cardiaci. Essi vennero distribuiti tra tre differenti diete: 1) una dieta ricca di fibre; 2) una dieta con una percentuale bassa di grassi saturi e relativamente ricca di olio omega-6 (la dieta standard è per i malati di cuore); 3) una dieta ricca di acidi grassi omega-3 sia da pesci grassi sia da supplementi di omega-3. Relativamente agli altri due gruppi, i pazienti che avevano arricchito la loro dieta con acidi grassi omega-3 avevano un tasso di mortalità più basso del 29%, che a quel tempo rappresentava la più grande riduzione di mortalità per qualsiasi dieta per malati cardiaci.

Una dieta che fornisca una ricca provvista di antiossidanti naturali, acidi grassi monoinsaturi e acidi grassi omega-3, accoppiata con bassi livelli di grassi saturi, omega-6 e acidi grassi trans, è la prescrizione ideale per la salute del cuore.

Nello schema sottostante viene mostrata all'azione positiva o negativa dei vari tipi di grassi:

 

grassi saturi

Fonti: carne grassa, burro, uova, formaggio, latte intero

HDL: non lo bassa e potrebbe alzarlo

LDL: aumenta

Pressione del sangue: potrebbe aumentare

Rischio di coaguli sanguigni: potrebbe aumentare

Ossidazione del colesterolo LDL: invariata

 

grassi trans:

Fonti: margarina, grassi da cucina, cibi fritti nel grasso, pasticceria commerciale, snack

HDL: diminuisce

LDL: aumenta

Pressione: effetto sconosciuto

Rischio di coaguli sanguigni: invariato

Ossidazione LDL: effetto sconosciuto

 

oli omega-6:

Fonti: oli ricchi di acidi grassi omega-6, incluso l'olio di mais, di cartamo e di girasole.

HDL: diminuisce

LDL: diminuisce

Pressione del sangue: può aumentare

Rischio di coaguli sanguigni: può aumentare

Ossidazione LDL: aumenta

 

acidi grassi monoinsaturi

Fonti: olio di oliva, olio di canola, olio di girasole "high oleic", olio di cartamo "high oleic"

HDL: può aumentare

LDL: diminuisce

Pressione sanguigna: può diminuire

Rischio di coaguli sanguigni: invariato

Ossidazione LDL: diminuisce

 

acidi grassi omega-3

Fonti: olio di pesce, olio di canola, olio di semi di lino.

HDL: può aumentare

LDL: può diminuire uomo aumentare lievemente

Pressione sanguigna: diminuisce

Ossidazione LDL: invariata

 

 

 

Stampante wireless per la vostra salute.

 

Se dovete acquistare una nuova stampante e avete una rete Wi-Fi domestica, la cosa migliore che possiate fare acquistarne una wireless: potrete piazzarla dove volete e stamperà perfettamente qualsiasi documento dal computer posto sulla vostra scrivania.

Questo è particolarmente importante se volete acquistare stampanti laser con toner che potrebbe essere tossico e che andrebbero poste in una stanza diversa da quella in cui lavorate.

Quanto costa una stampante wireless?

Assolutamente quanto una stampante normale: esistono stampanti wireless inkjet della Epson del costo di 70 €.

 

 

 

Integratori alimentari: perché vi conviene assumere giornalmente un integratore di vitamine e minerali e lasciar perdere chi vi dice che è inutile e persino dannoso.

 

Chiariamo subito una questione che potrebbe costituire una remora alla assunzione di integratori per molte persone: assumere integratori multivitaminici e multiminerali è perfettamente sicuro e non fa alcun danno alla salute. Le notizie terroristiche sull’eccesso tossico di consumo di vitamina A sono assolutamente infondate, perché la dose tossica è stratosferica, ben al disopra di quella contenuta in un integratore. Vedi quanto si dice in proposito nell’articolo di questo documento “Gli occhi mi si arrossano per la lettura. Quali accorgimenti posso usare e quale medicinale utilizzare?”.

Sgombriamo il campo da un’altra idea assolutamente idiota: le vitamine contenute in frutta, verdura e altri alimenti della dieta sarebbero più “naturali” di quelle prodotte dalle industrie farmaceutiche e contenute negli integratori. Il bravissimo biologo e ricercatore Dario Bressanini, nel suo ottimo e seguitissimo blog La scienza in cucina si fa beffe di questa creduloneria: la formula della vitamina C, come pure di tutte le altre, in natura, è sempre e esattamente la stessa, sia che si tratti di una compressa di vitamine che di un frutto.

Un altro argomento spesso usato contro gli integratori è che negli alimenti naturali le vitamine agirebbero in sinergia con altre sostanze contenute nelle piante o nelle carni animali in modo da produrre effetti benefici per la salute laddove le vitamine, da sole, non funzionerebbero. Ma questa è una pura ipotesi scientifica, che è stata avanzata dai ricercatori per spiegare la mancanza di effetti delle compresse di vitamine nei confronti di alcune patologie (vedi qui sotto). Niente è stato provato al riguardo. Chiunque sia minimamente smaliziato e abbia osservato la classe medica, sa che i medici, per lanciare mode o propagandare le loro cure, più spesso fanno affermazioni verosimili, ma non vere (nel senso di definitivamente provate: prendiamo per tutte la recentissima dieta dei gruppi sanguigni o la cronodieta, basate su ipotesi brillanti ma non ancora provate): qualsiasi scienziato degno di tale nome potrebbe citarvi statistiche del fatto che il 50% delle tesi verosimili, per quanto brillanti e argomentate si dimostra poi errato alla prova dei fatti, cioè della sperimentazione.

Per scoraggiare il consumo di integratori, viene citato spessissimo uno studio epidemiologico scandinavo degli anni ’90, che ha confrontato due gruppi di persone, uno che utilizzava integratori di varie vitamine ritenute preventive del cancro e del sistema cardiocircolatorio, uno che non le assumeva, e non ha trovato sostanziali differenze. Ma questo non vuol dire: a) che gli integratori siano dannosi; b) che le vitamine non esplichino un numero di funzioni, nel corpo umano, infinitamente superiori a quelle di prevenzione dei rischi cardiovascolari e anticancro – ad esempio molti le trovano efficaci per aumentare i livelli di energia e recuperare più velocemente la fatica o come cura di bellezza – per cui il dibattito deve considerarsi aperto e ancora molti altri studi dovranno essere fatti prima di dimostrare conclusivamente che gli integratori sono del tutto inutili.

A dispetto di questi dati il numero di persone che assumono integratori è in continuo aumento e il mercato mondiale degli integratori fattura ormai miliardi di dollari: tutta gente che sbaglia? Molte di queste persone lo fanno come autoprescrizione, ma ad altre è stato consigliato da medici. Possibile che migliaia di medici sbaglino?

Il vostro medico, che vi sconsiglia di assumere compresse di vitamine, ha controllato attentamente la vostra dieta, e quella dei vostri figli per stabilire se è realmente bilanciata, prima di emettere il verdetto inappellabile: “niente integratori vitaminici”? Probabilmente no, perché non ne ha tempo. Quello che fa in realtà è raccomandare di consumare una dieta ricca e vitaminica, cosa che naturalmente, la gente non fa. Esattamente come non segue i consigli per non ingrassare o quelli per mantenere la salute cardiovascolare. E quindi si ritorna al punto di partenza: l’integrazione vitaminica e minerale in questi casi è necessaria.

Ciò detto, passiamo alla questione della utilità, e chiariamo subito un’altra faccenda: il fatto che il vostro medico di famiglia sconsigli l’assunzione di integratori (e secondo chi scrive è assolutamente da biasimare, specie se il consiglo riguarda bambini), non ha in realtà alcun reale valore, per un semplice motivo: che il 50% dei medici e dei ricercatori oggi consiglia di assumere regolarmente integratori, mentre l’altro 50% lo considera del tutto inutile. Siete semplicemente capitato con un medico che sta dall’altra parte della barricata. La morale è che dovete farvi un’idea da soli. E forse quello che leggerete qui vi aiuterà.

Ecco una serie di argomenti importanti a favore del consumo regolare di integratori vitaminici.

  Oggi neanche medici che raccomandano diete naturali e vegetariane con alimenti integrali, come ad esempio Umberto Veronesi, sottoscrivono l’affermazione che in determinati periodi, come quello della crescita o in vecchiaia, gli integratori siano inutili. E’ risaputo che i bambini e gli adolescenti hanno bisogno di importanti quantità di vitamine, tra cui la D, e che gli anziani hanno una maggiore difficoltà nell’assorbimento di vitamine.

  Chi pratica unattività fisica impegnativa o sportiva ha senzaltro bisogno di integrare il suo fabbisogno di vitamine.

  Oggi può facilmente capitare che si viva in condizioni che aumentano il consumo di vitamine. Ecco un elenco di abitudini molto diffuse che bruciano o consumano più vitamine:

- Fumare

- Assumere molti zuccheri semplici

- Vivere in zone inquinate da smog o da altri agenti chimici rilasciati dalle fabbriche

- Svolgere un’attività fisica o sportiva impegnativa o frequentare palestre

- Arraffare di fretta tramezzini, cioccolate, succhi di frutta depauperati per riempire lo stomaco e tornare al lavoro o allo studio che i ritmi accelerati della società odierna ci impongono

  Una dieta realmente ricca e varia nutrizionalmente, che potrebbe evitare il consumo di vitamine è in realtà molto costosa: dovrebbe includere carne o meglio pesce, latticini e olii di qualità, verdure e frutta fresca in quantità e molto altro. Per ragioni economiche molte persone, che non hanno a disposizione diverse centinaia di euro al mese da spendere per il vitto di una sola persona vivono al disotto di questo standard, e beneficerebbero pertanto di una integrazione vitaminica e minerale.

  I processi industriali di preparazione dei cibi (riscaldamento, raffinazione, pastorizzazione, aggiunta di additivi) ne depauperano fortemente il contenuto vitaminico

  Uno dei pregiudizi più diffusi è che le vitamine siano necessarie alle popolazioni dei paesi sottosviluppati, dove la gente stenta a sopravvivere e l'alimentazione è poco variata o scarsa. Ebbene, non c'è niente di più inesatto. Vero è che nei paesi del Terzo Mondo ancora non sono state debellate malattie come il beriberi, la pellagra, lo scorbuto o l'anemia grave. Tutte patologie mortali dovute a carenze prolungate di vitamine. Ma è altrettanto vero che, nei Paesi industrializzati, sempre di più i ricercatori rilevano in laboratorio e fuori di esso, direttamente sui pazienti, forme di carenze subcliniche, in percentuali cospicue di popolazione. Sono da ricondurre a queste carenze subcliniche che alla lunga creeran¬no certamente qualcosa di più di un fastidio fisico, tutte quelle forme che ognuno di noi considera "normali", perché ormai diffuse nella stragrande maggioranza della popolazione.

  Nessuno pensa di essere malato perche ha di sera le caviglie gonfie o perché prende l'influenza due o tre volte l'anno. E invece ciò vuoI dire che siamo già vittime di un sistema immunitario che funziona male oppure di una "cattiva" circolazione. Esistono “indicatori” clinici di carenze vitaminiche che noi giornalmente trascuriamo.

  È vero che abbiamo a disposizione l'indispensabile per mangiare e che cuciniamo come vogliamo i nostri cibi, ma è vero che beviamo alcool, fumiamo,. prendiamo caffè, viviamo sotto stress, passiamo molte ore della gìomata in zone inquinate, in mezzo al traffico e ai suoi gas venefici, che siamo costretti a subire forme di radioattivi¬tà prima sconosciute, che mangiamo, volenti o nolenti con una quantità di additi_vi .chimici da fare impazzire qualsiasi laborato¬no, ingerendo dosi di grassi, zuccheri e farine raffinate impensabili per I nostri nonni. E quando diciamo di non farsi illusioni sulla quantità di vitamine che effettivamente riusciamo a prendere dalI alimentazione quotidiana, diciamo una cosa ormai conferma¬ta dai maggiori studiosi di scienza dell'alimentazione.

La forma degli alimenti non corrisponde più al loro contenuto: un arancia staccata dall'albero un mese prima di arrivare sulla nostra tavola, ad esempio, non ha quel contenuto di vitamine che servirebbe. In genere, chi è consapevole di fare una vita non rispondente alle esigenze del proprio organismo, prende vitamine e mmerah la mattma come forma di assicurazione contro le malattie. I pionieri della ricerca hanno aperto la strada alla sperimentazione in positivo: vitamine non più e non solo per evitare grandi carenze, ma vitamine per migliorare lo stato di salute individuale. La conseguenza diretta è che ognuno di noi dovrebbe essere in grado di stabilire un preciso programma di integratori alimentari alla luce delle proprie esigenze nel periodo che attraversa e per i problemi fisici che deve affrontare.

  Molti di noi, privi di adeguate conoscenze nutrizionali (e si tratta del 99% della popolazione) si orientano verso diete ricche di prodotti praticamente privi di vitamine, perché le industrie li rendono artificialmente più appetitosi per il palato. Si tratta delle cosiddette “calorie nude”: una zolletta di zucchero o un etto di farina di pane bianco contengono praticamente solo carboidrati e nessuna vitamina o minerale utile.

Lo stesso vale per le patatine, per quasi tutti i prodotti da forno industriali e per moltissimi altri alimenti.

  Le autorità USA sono decisamente e da sempre orientate per l’integrazione vitaminica: folati nelle farine che potrebbero essere consumati dalle future madri, latte vitaminizzato, ecc. Negli USA le autorità sono consapevoli che nelle zone povere o comunque con dieta non esattamente ricca le carenze vitaminiche possono pregiudicare lo sviluppo cognitivo dei bambini. Ecco in proposito la straordinaria testimonianza di uno scienziato come Carl Sagan, che ringrazia i programmi governativi per diffondere l’uso dei complementi vitaminici, perché la sua intelligenza è in parte dovuta anche a questo:

 

Ann Druyan e io veniamo da famiglie che conobbero una grande povertà. I nostri genitori erano però appassionati alla lettura. Una nostra nonna imparò a leggere perché suo padre, un contadino che produceva quanto bastava per sopravvivere, vendette una volta un sacco di cipolle a un insegnante itine¬rante. Lei cominciò a leggere a non smise più. I nostri genitori avevano una grande igiene personale, e la teoria dell' origine delle malattie a opera di microrganismi fu loro insegnata con grande insistenza dalle scuole pubbliche di New Y ork. Essi se¬guirono le prescrizioni sull' alimentazione dei bambini racco¬mandate dal ministero americano dell' Agricoltura come se fos¬sero discese direttamente dal Monte Sinai. TI libro del nostro governo sulla salute dei bambini posseduto dalla mia famiglia era stato riparato ripetutamente con nastro adesivo in quanto le pagine si staccavano in conseguenza di un uso assiduo. Gli angoli delle pagine erano strappati. I consigli più importanti erano sottolineati. Il libro veniva consultato ogni volta che c'e¬rano problemi di salute. Per un po' di tempo i miei genitori ri¬nunciarono a fumare - uno dei pochi piaceri a loro accessibili negli anni della Depressione - cosÌ che i loro figli potessero avere vitamine e integratori minerali. lo, e come me Ann, fummo molto fortunati.

 

 

Ricerche recenti mostrano che molti bambini che non hanno abbastanza da mangiare finiscono con l'avere una ca¬pacità diminuita di capire e imparare (« menomazione cogni¬tiva»). Non c'è bisogno che i bambini muoiano di fame per¬ché accada questo. Persino una modesta denutrizione - come quella comune presso gli americani poveri - può avere tale effetto. Questo effetto della denutrizione può verificarsi sia prima della nascita (se la madre non mangia abbastanza du¬rante la gestazione), sia nella prima infanzia sia nell'infanzia in generale. Quando non c'è abbastanza cibo, il corpo deve decidere come investire le limitate risorse disponibili. Prima di tutto viene la sopravvivenza, in secondo luogo la crescita. In questa difficile scelta su chi salvare, il corpo sembra obbli¬gato a mettere l'apprendimento all'ultimo posto. E meglio es¬sere stupidi e vivi, pensa, che intelligenti e morti.

Invece di mostrare entusiasmo, gusto per l'apprendimento _ come la maggior parte dei bambini sani -, i bambini sottonu¬triti si annoiano, diventano apatici, non hanno reazioni. La de¬nutrizione grave della gestante conduce a un minore peso alla nascita e, nelle forme più estreme, a un cervello di peso mi¬nore. Ma anche un bambino che sembri perfettamente sano ma che abbia, per esempio, carenza di ferro, soffre di un calo immediato della capacità di concentrazione. L'anemia ferro¬priva potrebbe essere presente in un quarto di tutti i bambini appartenenti a famiglie a basso reddito in America; essa me¬noma la capacità di attenzione e la memoria del bambino, e le sue conseguenze possono continuare a farsi sentire fino al¬l'età adulta.

Oggi sappiamo che quella che un tempo veniva considerata una denutrizione relativamente lieve è potenzialmente as¬sociata a menomazioni della capacità cognitiva destinate a du¬rare per tutta la vita. I bambini che hanno sofferto di denutri¬zione anche per un tempo relativamente breve hanno una mi¬nore capacità di apprendimento. E milioni di bambini ameri¬cani soffrono la fame tutte le settimane. Anche il saturnismo, ossia un'intossicazione cronica da piombo, che è endemico nei centri urbani, causa gravi deficit dell' apprendimento. Se¬condo molti criteri, la diffusione della povertà in America è an¬data crescendo costantemente a partire dall'inizio degli anni Ottanta. Quasi un quarto dei bambini americani vivono oggi in povertà; questo è il tasso di povertà infantile più alto nel mondo industrializzato. Secondo una stima, fra il 1980, e il 1985 sono morti per malattie prevenìbili, per denutrizione e

per altre conseguenze di una grave povertà un numero di bam¬bini superiore a quello delle perdite americane in tutta la guerra del Vietnam.

Alcuni programmi saggiamente istituiti a livello federale o di singolo stato in America si occupano della denutrizione. Lo Special Supplemental Food Program for Women, Infants and Children (WIC), che si propone di integrare l'alimenta¬zione carente di donne, neonati e bambini poveri, i pro¬grammi per la prima colazione e i pasti scolastici, e il Sum¬mer Food Service Program, che distribuisce cibi nei mesi estivi, funzionano bene, anche se non raggiungono tutte le persone bisognose. Un Paese cosÌ ricco come gli Stati Uniti dovrebbe essere in grado di fornire abbastanza cibo a tutti i suoi bambini.

Si possono correggere alcuni effetti deleteri della denutri¬zione; la terapia per l'integrazione del ferro, per esempio, può eliminare alcune conseguenze dell'anemia ferropriva. Non tutti i danni, però, sono reversibili. La dislessia - una varietà di di¬sturbi che menomano la capacità di leggere - può influire sul 15 per cento di noi, ricchi e poveri in ugual misura. Le sue cause (che potrebbero essere biologiche, psicologiche o am¬bientali) sono spesso indeterminate. Oggi però esistono me¬todi per aiutare molti bambini affetti da dislessia a imparare a leggere.

 

  Alberto Fidanza, titolare della cattedra di Fisiologia dell'Università La Sapienza di Roma e presidente del Centro Internazionale di Vitaminologia fa presente che recenti ricerche hanno innanzuutto messo in evidenza che le vitamine, per la loro azione protettiva e terapeutica, sono in grado di curare e prevenire alcune delle malattie oggi più largamente diffuse quali l'arteriosclerosi, le malattie dismetaboliche e i tumo¬ri.

Vitamine in alte dosi possono curare patologie senza o quasi controindicazioni (bastano cautele elementari) e senza effetti collaterali gravi; sono tra i pochi strumenti identificati (su cui esistono prove di laboratorio) utili a prevenire efficacemente le malattie; sono sostanze nutritive orga¬niche che ottimizzano le nostre condizioni di salute con la prospettiva di allungare al massimo l'arco di vita individuale; sono gli elementi che ci garantiscono di posticipare i processi degenerativi della vecchiaia; sono in grado di vivacizzare le nostre reazioni immunitarie, biochimiche, intellettive; sono tra le poche sostanze capaci di correggere problemi metabolici o degenerativi dell'età. E soprattutto danno la possibilità a ognuno di noi di scrutare all'interno del proprio organismo, rettificando gli acciac¬chi, i malanni, prima di aver bisogno dell'intervento urgente di un medico. Le vitamine curano l'organismo prima che si "guasti", evitando che i danni diventino irreparabili e alimentando in noi la sensazione di avere le risorse dei vent'anni.

  In secondo luogo, dice ancora questo ricercatore, è ormai riconosciuto che proprio l'alimentazio¬ne dei paesi ricchi è responsabile di forme subcliniche di carenza di vitamine in strati sempre più larghi della popolazione, mentre sino a poco tempo fa si pensava che ciò non si dovesse verificare. Si ha la certezza anzi che proprio questi stati di ipovitaminosi siano responsabili di una minore difesa di fronte agli agenti patogeni e di una minore efficienza fisica e psichi ca dell'individuo. Tanto è vero che sempre più frequentemente in molti Paesi ad alto tenore di vita si lanciano appelli in favore di un'alimentazione povera di grassi, ricca di verdure e di frutta, con continuo riferimento alle vitamine da assumere quotidianamente.

I metodi moderni di analisi consentono oggi di dosare le vitamine nel sangue e proprio questi metodi, afferma il prof. Fidanza, associati alle inchie¬ste sull'alimentazione, hanno rilevato che le giovani generazioni e i soggetti a rischio di ipovitaminosi come gli anziani e le gestanti, saranno sempre più esposti a malattie che potrebbero essere prevenute se si attuasse una sistematica integrazione vitaminica, con assunzione di una equilibrata e ben dosata quantità di tutte le vitamine.

  È difficile determinare il reale fabbisogno quotidiano di vitamine. In realtà è più unarte che una scienza. Gli stessi medici hanno cambiato più volte, nel corso dei decenni le raccomandazioni sulla RDA (Recommended Daily Allowance, dose raccomandata giornaliera) e comunque tra di loro continuano a non essere tutti d’accordo – ci sono coloro che ritengono che le dosi siano più alte e coloro che ritengono che vadano ribassate. Alcuni risultati sono stati acquisiti, ma riguardano i fabbisogni medi e minimi, mentre per quelli ottimali si è ancora lontani dall’aver raggiunto una conoscenza adeguata. Esistono fabbisognì "medi" che sono stati identificati e che vengono aggìornatì periodicamente. Per soddisfare le nostre necessità nutritive si sa, ad esempio, che avremmo bisogno di 60 milligrammi di vitamina C al giorno. Questa quantità è stata stabilita, secondo calcoli fatti in genere sulla media di differenti gruppi di popolazione, su quella che dovrebbe essere un'ipotetica buona salute. Ma nessuno stabi¬lisce se il nostro organismo, il meccanismo metabolico, le abitudi¬ni alimentari, le condizioni di vita, aumentano il nostro fabbisogno di acido ascorbico. In altre parole andare sotto la soglia dei 60 milligrammi al giorno di vitamina C significa aprire le porte allo scorbuto, ma non vuol dire che con 60 milligrammi al giorno noi ci sentiremo al massimo delle nostre possibilità. Chi può calcolare quanti nitriti o nitrati abbiamo ingerito nella giornata, quanti coloranti, quanti conservanti considerati dal nostro organismo tossici? Chi può dire in quale bagno batterico siamo vissuti nelle ventiquattro ore, con quanti fumatori al nostro fianco o in quale mqumamento da monossido di carbonio per i tubi di scappamento delle auto?

Ecco perché diversi ricercatori, tra cui un premio Nobel come Linus Pauling, che si è sempre battuto per la diffusione alcune vitamine e alcuni minerali sono consigliati ben sopra il livello indicato dai fabbisogni "medi". Ciò non per curare qualche malattia, ma semplicemente per prevenirla e farci star bene.

  La domanda più frequente è: se mangio bene, correttamente, perché avrei bisogno di vitamine? Perché il "correttamente" è parola tutta da spiegare e da verificare.

Le nostre buone intenzioni non possono modificare né l'ambien¬te che ci circonda, né l'aria che respiriamo, né il tipo di lavoro che facciamo, né il traffico in cui siamo immersi certamente per alcune ore al giorno. E se anche tutti questi fattori non ci fossero, se anche avessimo la forza di vivere in campagna o in un piccolo centro, con uno stile di vita più tranquillo, il "correttamente" non si verifiche¬rebbe mai per quel che riguarda strettamente l'alimentazione. Per ~ motivo semplice: la società industriale del dopoguerra ha Impostato i suoi migliori affari proprio nel campo dell'alimenta¬zione e per quanto noi possiamo fare di tutto per scoraggiare l'acquisto, nostro e di altri, di un certo tipo di prodotto in scatola o immerso nei conservanti, non possiamo pensare di essere al di fuori di questo mercato.

Noi ingeriamo merende e merendine, scatole dì biscotti che hanno date di scadenze a distanze di mesi (ma come mai se fate un dolce in casa dopo una settimana di frigorifero lo dovete buttare e una scatola di biscotti nel negozio del vostro droghiere si conservano tanto?), scatolame, insaccati, tutti. inesorabilmente con additivi: prodotti già precucinati e congelati, gli stessi surgelati, oli di semi "lavati" con derivati dalla benzina nel migliore del casi, paste alimentari raffinate con sistemi industriali di decorticamento, conservanti di vario tipo, coloranti, dolci con burro scadente e zucchero bianco, dolcificanti presi in dosi massicce ogni giorno.

C'è da congratularsi con il nostro organismo: noi riusciamo a sopravvivere. E, cosa forse assai più grave dell'inqui.namento atmosferico di cui ora tanto si parla, abbiamo motìvo di pensare che il controllo su ciò che mangiamo sia fatto con cnteri che tengono conto solo del danno immediato che un determinato prodotto può provocare su di noi quasi fosse stricnina: ma non di quello che succede alla bìochìmica molecolare con l’andare del tempo e con l'uso costante di certe sostanze.

E ancora, immaginiamo una società supercontrollata, in cui effettivamente ciò che ognuno di noi compra sia selezlonato e debba rispondere a certi criteri di coltura (ad esempìo senza l’uso di concimi chimici o diserbanti o altre sostanze tossiche), In cui il terreno non sia supersfruttato e possa dare alle nostre verdure tutti i minerali che servono. Ebbene anche in queste condizioni noi non potremmo mangiare "correttamente". Lo stoccaggìo nei magazzi¬ni, l'esposizione prolungata al sole, quella nel reparti refrigerati dei supermercati sotto luce artificiale, lo stesso calore della cottura farà perdere la stragrande maggioranza delle s.ostanze nutrìtìve che servirebbero a proteggerei. Questa situazione collegata al nostro sistema di vita, rende l'assunzione delle vitamine in via preventiva assolutamente ìndispensabile propri~ come comple¬mento di ciò che mangiamo o, meglio, non mangiamo.

Oggi dovremmo stare meglio, perché la nostra alimentazione è senz'altro più ricca e varia, senza contare che la razionalizzazione di certi processi porta ad alimenti più integri, se ci si passa il termine, e quindi all'origine più "vitaminìzzatì", Ma non è così. Basta una distribuzione complessa, come quella che avviene in tutti i Paesi industriali, perché al consumatore arrivino le spoglie di un alimento depauperato di tutto ciò che poteva essere vitale.

Prendiamo la frutta. La vitamina C, riportano gli studi di Fidanza, contenuta in un'arancia, diminuisce drasticamente dopo poco tempo e si può valutare che l'acido ascorbico di una mela che arrivi sulla vostra tavola dopo due mesi (non è neanche tanto) si riduca di due terzi. Potreste pensare di assumere la vitamina C dalla verdura, ma qui va ancora peggio, perché bastano pochi giorni per ridurla a zero. A questo punto molti di voi possono ritenere che sia la luce artificiale a procurare danni. Non è vero. Quella del sole non è da meno. L'équipe del Centro Internazionale di Vitaminologia, guidata dal professor Alberto Fidanza ha misurato quanta vitamina B2 (riboflavina) si perde nel latte esposto al sole. Immaginiamo di vivere in campagna e di prendere il latte direttamente dalla mucca. Se il latte resta esposto alla luce del sole per due ore, il 90 per cento di vitamina B2 si perde, ma se il tempo è nuvoloso la quantità di vitamina si dimezza e, se il cielo è coperto, solo il 30 per cento di B2 sarà distrutto. Se noi siamo accorti, portiamo il latte subito in una stanza con poca luce, ma anche in questo caso nel giro di una giornata il latte perde il 30 per cento di vitamina B2.

Si potrebbe obiettare che C e B2 sono due vitamine molto delicate. Non è così. La maggioranza delle vitamine idrosolubili sono inesorabilmente danneggiate dal calore e dalla cottura.

Scrive Fidanza: "Durante le normali operazioni di cottura, quali la preparazione casalinga dei vegetali, della frutta e dei cereali freschi, si può andare incontro a perdite vitaminiche che si aggirano, in media, attorno al 75 per cento ma che possono talora raggiungere anche il 100 per cento. In particolare vengono distrut¬te dalla cottura le vitamine idrosolubili, quali la tiamina, la riboflavina e la vitamina C". Quest'ultima si perde anche se usiamo la pentola a pressione (che pure per altri versi è tra i sistemi più "sani" di cucinare) o a vapore e diventa totale con qualsiasi tipo di bollitura.

Esistono però vitamine più resistenti. La vitamina A è certamen¬te tra queste. Se cuciniamo a vapore, la perdita di questa vitamina è risibile, ma bisogna stare attenti, perché, se friggiamo, la perdita diventa ingente. Più cuociamo i nostri alimenti e più distruggiamo vitamine. Se prendiamo un alimento stoccato in magazzino dopo la raccolta (ma come facciamo a saperlo?) partiamo da una perdita del 35 per cento di vitamina A e da una riduzione del 20 per cento di betacarotene. Se poi prendiamo una margarina e la mettiamo in una pentola, allora dobbiamo sapere che la A si riduce del 16 per cento, se siamo sui 100 gradi centigradi per 30 minuti, del 70 per cento se la temperatura arriva a 160 gradi, del 100 per cento se la margarina resta in padella per un' ora. Se friggiamo, la A scompare dopo IO minuti.

Il betacarotene è più stabile, ma nonostante la maggiore stabili¬tà, sopra i 180 gradi centigradi in lO minuti tende a svanire.

La vitamina C si perde nelle patate messe a bollire già sbucciate; se poi si friggono la perdita aumenta di un ulteriore 30-50 per cento. Friggere fa male anche alle vitamine. Quasi la metà di B6 e di acido pantotenico scompare dagli alimenti cotti, mentre il pane che compriamo ha una diminuzione del 20 per cento di tiamina e del 30 per cento di acido folico. Quanto poi a lavare i vegetali in acqua abbondante, lasciandoli a bagno fino alla cottura, è bene sapere che è un'abitudine pessima, perché minerali e vitamine idrosolubili passano direttamente nel lavandino.

Fin qui siamo "colpevoli" solamente di cucinare male o di friggere. Ma la parte del leone, in questa sciagurata opera di depauperamento, la fanno le tecniche moderne di demolizione dei cibi. Noi mangiamo pasta e pane bianchi. Ebbene ricordiamo che abbiamo eliminato ingenti quantità di vitamine indispensabili alla nostra salute e che i minerali, più resistenti, sono ridotti in questa percentuale: lo zinco del 78 per cento, il cromo del 98 per cento, il manganese dell'86 per cento. Al bar non possiamo certo chiedere un cucchiaino di zucchero grezzo o di melassa. E allora impariamo che stiamo usando una sostanza che ha quasi niente di vitamine e 1'88 per cento in meno di zinco, il 95 per cento in meno di cromo, 1'89 per cento in meno di manganese. Aquesto punto si potrebbe supporre che la farina bianca conservi per intero, comunque, qualche minerale. Ebbene no. Il calcio se ne va al 60 per cento, il fosforo al 70, il magnesio all'84 per cento, il ferro all'86 per cento e il selenio durante la raffinazione si perde al 15 per cento.

Ognuno di noi conta sulle dita di una mano le persone che usano il riso integrale non brillato. Il motivo è anche in questo caso da ricercare nei tempi convulsi nei quali siamo costretti a vivere e che ci spingono a cucinare sempre più in fretta. Ma il riso bianco che noi usiamo non ha quasi nulla e perde gli stessi minerali fino al 90 per cento.

Se tutto questo accade con elementi stabili e "robusti", come i minerali, potete immaginare il danno prodotto alle vitamine dalle tecniche industriali dei cibi. Essiccamento, inscatolamento, sbian¬camento delle verdure, significano la distruzione di sostanze vitali per la nostra salute. Lo sbiancamento costituisce un danno che non possiamo valutare. Fidanza spiega (Le vitamine nella dietetica e nella terapia) che lo sbiancamento a vapore ad esempio degli spinaci per la durata di due minuti provoca una perdita di tiamina, riboflavina, vitamina C e niacina entro il 12 per cento, mentre se i minuti sono tre-quattro e lo sbiancamento viene fatto per immer¬sione, la vitamina C scompare fino al 36 per cento. Se l'immersione dura 45 minuti, scompare al 94 per cento. Naturalmente nessuno di noi potrà mai chiedere al fruttivendolo come è stata trattata la verdura che sta comprando ma proprio la più bella a vedersi potrebbe essere la più sprovvista di vitamine.

I prodotti inscatolati vengono prima sterilizzati. E a questo punto già sappiamo quanto sia importante la temperatura per rendercì conto che nella migliore delle ipotesi mangiamo il simulacro dell'alimento d'origine. Meglio le tecniche di disidrata¬zione. Questo procedimento di per sé non provocherebbe gravi danni se i prodotti disidratati non fossero già stati in precedenza "trattati" e "stoccatì". Anche il processo di surgelazione sarebbe un buon procedimento di conservazione dei cibi se tutto avvenisse secondo determinate regole, cosa più difficile di quello che pensia¬mo. Spesso lo stesso meccanismo di surgelazione, il tragitto, la distribuzione, l'arrivo in casa, il nostro disordine provocano il processo, sia pure accennato, di scongelamento e ricongelamento che danneggia le molecole degli alimenti e provocano la fuoriusci¬ta degli enzimi. Inoltre è da ricordare che tutto deve essere conservato a bassissime temperature, perché sotto i 18 gradi il contenuto vitaminico si mantiene inalterato, mentre a temperatu¬re superiori ai 9 gradi si perde in grande quantità. Si può comunque dire che a volte, più del processo di congelamento, fanno male agli alimenti l'esposizione alla luce del supermercato e l'ossigeno imprigionato nei contenitori sigillati.

  Non vi siete accorti che le industrie ormai stanno mettendo vitamine in moltissimi cibi, dal latte agli alimenti per neonati, ai biscotti e a molto altro? Questa è una chiara prova che i cibi che consumiamo sono depauperati e necessitano di una integrazione.

  Oggi tutti i sistemi di essiccazione avvengono ad alta temperatura: lindustria non ha tempo di lasciare che il the secchi naturalmente nei magazzini, né che i pomodorini secchi si disidatrino naturalmente esposti al sole, né che la pasta riposi e perda umidità. Come risultato, abbiamo cibi “precotti” dove le vitamine sono state parzialmente distrutte.

  A questo panorama catastrofico vanno aggiunti altri due sistemi "moderni" di conservazione dei cibi: i preconfezionati e surgelati e I'ìnfinìta varietà di additivi chimici. Esistono ormai tabelle redatte da solerti ricercatori (Testolin, Simonetti, Porrini, Ciappellano, Il contenuto vitaminico negli alimenti pronti, rivista di Vitaminologia di Fidanza) che potreste anche portarvi al supermercato quando andate a fare la spesa. Ma sappiate che state comprando acqua fresca dal punto di vista del valore nutritivo e che l'elenco è sconsolante. Possiamo fare qualche esempio. La vitamina A quan¬do avrete messo a scaldare il vostro alimento pronto, sarà andata perduta nell'ordine del 70 per cento. Bisogna ricordare che in questi casi un alimento subisce prima una cottura per una quantità non precisata di minuti, poi una refrigerazione, quindi ancora un processo di riscaldamento. In genere il calo vitaminico complessivo rispecchia quello della vitamina A (che pure è tra le resistenti), tranne il betacarotene che subisce perdite inferiori, attorno al 40 per cento. Come dicevamo, sugli alimenti pronti all'uso esistono rilevamenti dettagliati, sempre che abbiate la pazienza di fare acquisti tabella alla mano e l'accuratezza di non lascire gli alimenti già riscaldati nel frigorifero per un considere¬vole numero di giorni, perché in questo caso la situazione può persino peggiorare.

Quanto agli additivi chimici e ai conservanti, diciamo che siamo immersi letteralmente in sostanze chimiche di tutti i tipi e di tutti gli effetti. Negli USA i libri che hanno più successo sono i manuali per orientarsi tra additivi e conservanti, in modo che ognuno possa rendersi edotto di quanti veleni sta ingoiando. Ogni tanto, qualche additivo viene messo al bando perché capace di essere mutageno, di provocare effetti cancerogeni. Ma si può dire che la stragrande maggioranza di quelli in circolazione ha scarse verifiche sui tempi lunghi e spesso viene tollerata anche quando è provatamente dannosa: come nel caso dei nitrati che vengono usati quali stabilizzanti del colore (ma una volta i prosciutti non diventavano neri con l’esposizione all’aria?) e conservanti degli insaccati. Nel caso dei nitriti e dei nitrati di sodio, ci troviamo di fronte a sostanze dichiaratamente nocive, eppure tollerate e diffuse in moltissimi alimenti che possono essere usati quotidianamente. Basti pensare che i nitriti formano nel nostro intestino le nitrosammine, sostanze altamente cancerogene.

  Vale la pena aggiungere due parole ancora sui minerali, sia perché tuttì sostengono, e a ragione, che almeno i minerali sono resistenti alle varie demolizioni che impongono i procedimenti industriali del cibi, sia perché non abbiamo fatto cenno al sistema di coltura moderna, se non per dire che sulla carta dovrebbe essere meglio di quello di una volta: nel senso di "più razionale".

Ma vogliamo riportare le opinioni di Anna Powar, docente in Nutrizione all'U¬niversità della California: "Il danno più grave all'alimentazione del dopoguerra è indotto dalla perdita dei minerali-traccia. Una pianta fertilizzata con i comuni trifasici non assimila minerali tracca perché il terreno è impoverito. Senza contare che le colture intensive spesso non lasciano alla terra il tempo di ricaricarsi. Tanto è vero. che l’agricoltura intensiva produce verdure e frutta povera di minerali traccia. Quali le conseguenze? Possiamo fare alcuni esempi: il diabete e In grande aumento e secondo alcuni è da imputare alla carenza di cromo; i disturbi della pelle possono essere riconducìbili a carenze di zinco; la pressione alta afflgge molta gente, ma ciò può essere dovuto alla mancanza di potassio nel cibo e a un eccessivo uso di sodio; e ancora: l'aterosclerosi il cancro sono tutte malattie correlate a una mancanza di selenio e manganese, utile a produrre interferone, importante difesa dell'or¬ganismo".

Secondo la Powar, l'assunzione che noi facciamo dei minerali importanti per la nostra salute è da tutti i punti di vista assoluta¬mente insufficiente. Tra gli elementi dannosi, perché distruggono i minerali, anche lei pone gli agenti chelanti che vengono usati nella preparazione industriale dei cibi. Inoltre i minerali che resistono nelle verdure potrebbero non essere biodisponibili e quindi non assimilabili dall'organismo. La nostra alimentazione spesso non consente di "legare il minerale a certi amminoacidi che devono essere consumati entro un' ora per una giusta assimilazione dei metalli". A tutte queste difficoltà, la Powar aggiunge quella gamma infinita di disturbi intestinali, dalle diarree alle costipa¬zioni croniche, che affligge l'umanità proprio in base all'alimenta¬zione "moderna". Tutto questo rende ancora più difficile l'assimi¬lazione dei minerali.

In definitiva la morale è questa. L'alimentazione del dopoguer¬ra, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, ha portato molte complicazioni al nostro organismo e ha certamente favorito una riduzione delle capacità immunitarie. A parte alcum gusti che ci sono stati imposti, resta il fatto che nessuno di noi è fuori da una certa organizzazione di vita e che l'alimentazione, povera di vitamine e di minerali, è parte consistente dei ritmi moderni. In queste condizioni, rettificare certe abitudini e saper come fare a prevenire malattie significa dare un impulso verso l' evoluzione del genere umano. Nel Terzo Mondo si soffre ancora di malattie clìnìcamente definite da carenze vitaminiche. noi rischiamo di vivere con carenze subcliniche, non per questo meno insidiose. Saper usare le vitamine e rettificare l'alimentazione significa, tra l'altro, ritardare i processi di invecchiamento.

La perdita costante di vitamine nell'alimentazione induce a pensare che abbiamo bisogno di aggiungere ogni giorno "corretti¬vi" che ripristinino efficacemente almeno parte di quello che non riusciamo a prendere con i cibi. Già le industrie alimentari, consapevoli di aver spogliato i prodotti di sostanze organiche e inorganiche, si preoccupano di introdurre "aggiunte di vitamine". Ma per quanto un alimento sia di qualità e per quanto un'industria sia piena di ottime intenzioni, nessuna "aggiunta" ci compenserà di ciò che è stato tolto. Perché in natura quell'alimento non sarà fatto solo da grassi, proteine, carboidrati e vitamine, ma da un complesso di elementi infinitesimali (a cominciare dai minerali) che non verranno reintegrati. Quindi le "aggiunte" riportate sulle etichette dei prodotti solo in teoria ci forniscono quel che ci dovrebbe servire. In pratica si tratta di un'affermazione di buona volontà, e non di una compensazione. In genere è difficile persino che si riesca ad annullare la nocività di alcuni conservanti utilizzati dalle stesse industrie.

Quanto abbiamo detto sull'alimentazione significa che non esiste una categoria di persone esenti dalla necessità di fare riferimento quotidiano agli integra tori alimentari.

Molti medici, anche i più illuminati, sostengono che le vitamine sono indispensabili a chi ha un fabbisogno accresciuto. Queste persone sono: i bambini nell'infanzia e nell'adolescenza, le donne incinte, le nutrici che allattano e gli anziani. Su questo ormai concordano tutti. Ma fin qui siamo soltanto alla definizione di "categorie a rischio", per così dire. Si tratta di persone che senza un consistente apporto di vitamine e minerali andrebbero incontro a patologie gravi nell'arco di pochissimo tempo. Siamo sempre nella logica di curare il malato quando è già costretto a letto. Il problema che bisogna affrontare e che sarà l'obiettivo della medicina del futuro è quello di non far insorgere le malattie, di prevenirle, di allontanare le degenerazioni dell'età e lo spettro di morire dopo lunghe e spaventose degenze.

Secondo la convinzione di una schiera sempre più numerosa di scienziati e nutrizionisti, le vitamine, assunte quotidianamente e con tutte le cautele che via via spiegheremo, potrebbero far ottenere sia un allungamento del life span, dell'arco di sopravvivenza, sia un miglioramento della qualità della vita attraverso un'ottimizzazione del sistema immunitario e una vivacizzazione dei processi metabolici. Ciò non ci esime dall'impegnarci nella battaglia per il risanamento dell'ambiente in cui viviamo, dell'aria che respiriamo e per indurre le industrie alimentari a scendere a patti con la nostra salute. Questo è per tutti un impegno irrinunciabile.

Alberto Fidanza, presidente del Centro Internazionale di Vitaminologia e professore di Fisiologia Generale all'Università di Roma, ha scritto nel 1983 (Le vitamine nella dietetica e nella terapia): "Negli ultimi anni le ricerche in campo vitaminologico hanno messo in evidenza un nuovo ruolo terapeutico delle vitamine: quello protettivo. Le vitamine infatti proteggono le cellule e i sistemi biologici dall'azione lesiva degli agenti chimici e fisici. La sempre più larga ìntroduzione m terapia di molecole di sintesi, l'immissione nell'ambiente di sostanze tossiche e l'uso crescente di additivi alimentari, coloranti e conservanti determinano un maggiore inquinamento interno par¬ticolarmente dannoso per il protoplasma cellulare. Inoltre nell'or-ganismo si accumulano, a causa delle errate abitudini alimentari: metaboliti intermedi che alterano considerevolmente gli equilibri biochimici e che sono uno degli elementi determinanti delle malattie metaboliche e degenerative. Fondamentalmente l'azione protettiva delle vitamine consiste o nell'attivare le funzioni fisio¬logiche oppure nel potenziare e mantenere mtegre le difese organiche"

Aggiungiamo un altro buon motivo che induce a una campagna di massa per educare tutti all'uso delle vitamine: questa società è mantenuta dal mito della giovinezza e comunque dal mito di “essere in forma”. Viene isolato chi è malato e non è più sufficiente a se stesso, chi diventa un peso, perché ha bisogno di aiuto costante. Vengono aborrite certe forme di patologie che sono caatteristiche della vecchiaia: non si tratta solo delle rughe, ma del processi dì senescenza acuti che investono tutti i tessuti che rendono incontinenti, che rallentano i processi metabolici anche quelli cerebrali, che fanno sentire vittime gli anziani e li lasciano in compagnia della propria fine.

Ma questa è una società che avrà un numero sempre maggiore di vecchi, perche la scienza medica fa progressi costanti e tende a far sopravvivere tutti. Già, ma in quali condizioni? Quanto limita la propria esistenza quotidiana il sapere di essere un "malato croni¬co", di dover far ricorso sempre a determinati farmaci, di non poter guanre, di aver imboccato una strada senza ritorno? E quanto costa tutto questo alla comunità? E quanto tutti noi siamo in grado dì fare, per dare il nostro contributo agli altri?

È importante insegnare a non invecchiare, a evitare le forme di senescenza che condizionano oltre qualsiasi misura. "Non è mai troppo presto per smettere di invecchiare", è scritto in alcuni studi medici americani. E ancora: "L'età non è tossica". Tutto vero, ma solo a certe condizioni. Una di queste è quella di regolare l'alimentazione. e di imparare a "leggere" le necessità del proprio organismo, utilizzando le risorse che ci sono in natura, compreso il remtegro di vitamine e minerali.

In. tutta la Comunità Europea sono in circolazione gli integra tori alimentari, alcuni derivati diret¬tamente dai prodotti naturali, altri di sintesi. Grosso modo da tutte le case produttrici sono utilizzate alcune vitamine che hanno scarse controindicazioni e alcuni minerali dei quali si conosce il sicuro effettto. Sulle etichette normalmente c'è anche un "suggeri¬mento” indicativo delle quantità da prendere quotidianamente.

Non si può parlare di prescrizioni, che spetterebbero comunque ai medici, ma di indicazioni generiche. Questi suggerimenti ricalca¬no circa venti anni di sperimentazione e sono riassunti e spiegati in questo libro. Leggete un buon libro sulle vitamine per sapere quali sono le differenze, quali funzioni hanno e per chi potrebbero essere indicati. Naturalmente nessuno può considerare integratori alimentari quelli che contengono alcune vitamine, come la K ad esempio, che vanno prese con molte cautele e solo dietro stretto consiglio medico. La vitamina K, che il lettore troverà in questo libro, sovrintende alla coagulazione del sangue e va da sé che potrebbe creare problemi cardiovascolari se presa in modo non controllato. Esula quindi da quelle integrazioni alimen¬tari che possono essere prese ogni giorno.

Lo stesso criterio vale per alcuni minerali che sono ancora allo studio presso i laboratori. Si sa, ad esempio, che il vanadio potrebbe essere utile a prevenire malattie di cuore, ma il fabbiso¬gno individuale non è stato ancora stabilito e quindi i complessì di minerali non prevedono né il vanadio né altre sostanze inorgani¬che sulle quali la ricerca scientifica è, si può dire, agli inizi.

Cominciamo dalle unità di misura. Le misure con cui si valuta l'attività delle vitamine possono essere di tre tipi: Unità Interna¬zionali, sistema metrico e sistema farmaceutico. Si può prendere l'esempio della vitamina A e del betacarotene. La prima è misurata in Unità Internazionali (daremo conto sia del fabbisogno sia delle necessità in casi particolari), il secondo in microgrammi. Questa la proporzione: una U.I. di retinolo equivale a 0,6 microgrammi di betacarotene. Sempre più frequentemente però si legge sulla boccetta scura del betacarotene non già, la misura in microgram¬mi, ma la quantità di U.I. di vitamina \. che il betacarotene induce nell'organismo. Le altre vitamine misurate in U.I. sono la E e la D.

Poi ci sono le misure metriche. Le vitamine e i minerali si misurano in milligrammi (un millesimo di grammo) oppure in microgrammi (un milionesimo di grammo) se il fabbisogno è in dosi infinitesimali. In uno stesso prodotto, un complesso B ad esempio, possiamo trovare alcune vitamine B misurate in milli¬grammi e altre come la B12 o l'acido folico misurate in microgram-mi. Anche quando leggete sulla boccetta "B50" o "B100", state tranquilli che queste regole sono già rispettate: 50 milligrammi saranno ad esempio di B1, ma di B12 saranno al massimo solo 50 microgrammi.

Facciamo un'ultima osservazione sulle dosi. Normalmente sulla confezione, oltre alla quantità di vitamine contenute in una singola compressa, è indicata la data di scadenza (importantissima, come la conservazione della confezione, per evitare di assumere pastiglie inutili), e la RDA (fabbisogno quotidiano). Cercate poi di assumere le vitamine da confezioni non in prossimità della data di scadenza.

 

 

 

Cos'è la "restrizione calorica"? E' vero che recenti studi scientifici mostrano che può allungare la vita fino a 120 anni?

Le principali cause di morte in occidente sono il tumore al polmone e le malattie cardiovascolari.

Il fumo, la riduzione dell'attività fisica, una alimentazione troppo ricca di calorie totali, di grassi animali e carboidrati sono i nemici della longevità.

La restrizione calorica tende ad eliminare l'eccesso di calorie che danneggia il nostro corpo.

Il dottor Edward Masoro, dell'Università del Texas, ha provato a dimezzare l'alimentazione quotidiana di un gruppo di ratti del suo laboratorio e si è accorto che la vita media degli animali si allungava sensibilmente rispetto a quelli delle altre gabbie che continuavano a mangiare come prima. Non solo: dopo due anni, età già venerabile per un roditore, i ratti con restrizione alimentare erano più attivi e più pronti all'apprendimento nei confronti degli altri. Dunque il loro cervello si manteneva più giovane.

Numerosi altri studi sono seguiti, e nel 1998 Scientific American pubblicava i risultati impressionanti di esperimenti condotti su animali del più vario tipo: insetti, uccelli, rettili, piccoli mammiferi. Essi mostravano tutti che una riduzione dal 20 al 40% delle calorie assunte giornalmente non solo allungava la vita media delle cavie, ma allungava anche la vita massima. Nei piccoli roditori (topi e cavie) esso allungava la vita da tre a quattro anni (un terzo in più).

Le ragioni per cui questo avvenga sono poco chiare. Per produrre l'energia che muove il corpo le cellule utilizzano glucosio che viene "bruciato" nei mitocondri, piccoli organi di ciascuna cellula. La combustione del glucosio avviene mediante l'ossigeno, e in tal modo si creano dei radicali liberi: ioni positivi di ossigeno, che danneggiano i tessuti. Una minore quantità di cibo rallenta la combustione e quindi la produzione di radicali liberi.

Da 8 anni sono in corso almeno due esperimenti pilota con due colonie di macacus rhesus, una piccola scimmia che vive fino a trent'anni.

Ci si aspettava una conferma dei risultati ottenuti con i mammiferi più piccoli, ma i risultati sono alquanto controversi: alcuni studi indicherebbero che i parametri fisiologici (glicemia, colesterolo ecc.) dei macachi soggetti a restrizione siano migliori che nel gruppo che viene cibato normalmente, ma altri parametri, come la mortalità, sono identici. I sostenitori dell'efficacia della restrizione calorica (si possono vedere i loro interventi sui numerosi siti internet dedicati all'argomento) sostengono che sono state utilizzate scimmie procreate da madri non in buona salute e allevate in un ambiente poco salubre (gabbie strette, poca igiene). Il dibattito per ora prosegue.

Nel frattempo, sempre più persone decidono di attuare la restrizione calorica. Sono numerosissimi i siti in cui si scambiano opinioni, consigli e pubblicano le analisi che mostrano i loro parametri fisiologici

Non esistono protocolli ufficiali, redatti dalla comunità scientifica per la restrizione calorica nell'uomo, per cui si tratta largamente di un "fai da te", o dei consigli di singoli medici (che l'aspirante dovrebbe sempre interpellare). La restrizione dovrebbe essere iniziata non prima che una persona abbia raggiunto il pieno sviluppo fisiologico cibandosi in modo normale (23-25 anni); dovrebbero essere assunti integratori vitaminici e forse anche proteici. Necessita un monitoraggio periodico dei parametri fisiologici, perché pare che il limite di restrizione calorica oltre il quale invece che vantaggio si avrebbe danno sia piuttosto variabile e non facilmente fissabile. Comunque tutti dovrebbero farsi monitorare da un medico.

E’ vero che con la restrizione calorica possiamo arrivare a 120 anni? Purtroppo la risposta è negativa. I centenari sono e rimarranno una rarità genetica. Propagandare la conclusione che mangiando la dieta di una popolazione con molti centenari abbinandovi la restrizione calorica possa condurre a 120 anni di età vuol dire propalare una pura chimera.

Non è vero, tra l’altro, che tutti i centeneri mangino diete corrette, ma soprattutto il numero di centenari non dipende solo dalle abitudini alimentari della popolazione considerata. Si potrebbe addirittura ipotizzare una situazione una situazione in cui una popolazione mangia talmente male che gli individui più deboli vengono tolti di mezzo a causa dei terribili danni della dieta e che di conseguenza sviluppa un numero di centenari maggiore di una popolazione con dieta sana, per una sorta di… eugenetica alla rovescia.

L'aumento della vita media dei macachi sottoposti a restrizione calorica, considerando tutte le cause di mortalità, è stato di 1,5 anni (da 24,73 anni a 26,23 anni) (Colman et al., "Caloric restriction reduces age-related and all-cause mortality in rhesus monkeys") che, rapportato alla durata media della vita della popolazione occidentale (79 anni) rappresenta un aumento della vita media pari a 4,79 anni, in linea con l’aspettativa di vita più lunga del mondo, quella della popolazione di Okinawa, che è di 4,6 anni superiore a quella degli Stati Uniti per le femmine e di 2,3 anni per i maschi (Wilcox, “Caloric Restriction, CR Mimetics, and Healthy Aging in Okinawa: Controversies and Clinical Implications”, Curr Opin Clin Nutr Metab Care. 2014). Come si vede, adottando la dieta di Okinawa, caratterizzata da una modesta restrizione calorica, un individuo di sesso maschile ottiene benefici sensibili ma non eccezionali, e un individuo di sesso femminile non può sperare di arrivare ai 100 anni se non nei pochi casi in cui i geni gli consentono già di arrivare ad una età molto avanzata.

E’ vero che per attuare la restrizione calorica occorre tagliare l’introito calorico addirittura del 30%? Questo vorrebbe dire, per una tipica dieta occidentale, che un adulto maschio dovrebbe passare da 2300-2500 calorie al giorno a 1840-2000 calorie.

In realtà il valore di 1800 calorie è troppo basso. Si tenga presente che con una restrizione del 30% il rischio malnutrizione è elevatissimo. Una restrizione calorica produce una deficienza nell'assunzione di macro e micro nutrienti. Per fare restrizione calorica occorre quindi rinunciare alle "calorie nude", ciò che è un sacrificio aggiuntivo che molti non si sentono di fare. A meno di non seguire al 100% tutti i precetti dietetici e di evitare i cibi-spazzatura e le “calorie nude” (cioè prive di vitamine e oligoelementi) in essi contenute, si rischiano carenze nutrizionali. Se poi si aggiunge una ragionevole quantità di attività fisica, ecco che il conto non torna più: 40 minuti di attività fisica come una camminata a passo vigoroso fanno perdere almeno 300 calorie, portando quindi la quantità di energia disponibile nel resto della giornata a 1500 calorie: troppo poche.

In realtà, gli studi di Luigi Fontana e Valerio Longo sulla restrizione calorica hanno dato risultati egualmente positivi anche con volontari che attuavano da anni una restrizione moderata: persino quelli che consumavano circa 2.000 calorie al giorno mostravano benefici fisiologici comparabili a quelli di consumava molto meno.

Queste conclusioni sono confermate dai risultati degli esperimenti di restrizione calorica condotti sui macachi rhesus. Non è vero infatti, comunemente a quanto si crede ed è scritto, che gli esperimenti sui primati mostrano che una restrizione calorica del 30% sia necessaria per ottenere gli effetti della longevità. I due esperimenti principali sulla restrizione calorica dei macachi hanno mostrato che un identico aumento della durata della vita media delle scimmie si è verificato anche nelle scimmie del gruppo di controllo nutrite con moderazione (Mattison et al., ”Impact of caloric restriction on health and survival in rhesus monkeys from the NIA study”, 2012; Colman et al., "Caloric restriction reduces age-related and all-cause mortality in rhesus monkeys") (E' però vero che le scimmie dell'esperimento dell'Università del Wisconsin hanno mostrato una completa immunizzazione al cancro solo con una restrizione del 30%).

 

ecco la ricetta per la restrizione calorica fornita dal celebre cardiologo statunitense isadore rosenfeld:

Negli esperimenti di ,laboratorio è stato osservato che la vita degli animali da laboratorio. può essere prolungata mantenendo basso il loro peso e riducendo il consumo totale di proteine. Risulta insomma che me¬no proteine ha a disposizione la cellula, minori sono le probabilità che essa traligni e trasmetta informazioni genetiche negative o comunque si comporti in modo non positivo. Viene cosi suggerito a tutti noi, indipendentemente dall'età (non è mai infatti troppo tardi per approfittare di questa dieta), di ridurre in modo sostanziale, ma graduale, le nostre calorie nell'arco di cinque anni fino a portarle al sessanta per cento del consumo normale. La dieta deve contenere tutti gli elementi e gli amminoacidi essenziali. Le proteine devono essere consumate in quantità sufficiente durante l'infanzia per per¬mettere una crescita normale e, in gravidanza, per nutrire il feto, ma in seguìto le quantità devono venire progressivamente ridotte. Cosi quando arriviamo a metà della vita adulta dovremmo mangia¬re soprattutto carboidrati con poche proteine e pochi grassi. Si reputa che questa dieta povera di calorie, di grassi e di protei¬ne e ricca di carboidrati sia soprattutto utile perché genera un mi¬nor numero di radicali liberi « dannosi ».

Anche per mantenere attivo il sistema immunitario con l'avanzare dell'età e per impedire che sviluppi una tendenza autoimmune gli scienziati ritengono che modificando la dieta, e soprattutto riducendo le proteine, e fornendo specifiche in¬tegrazioni di quelle sostanze di cui il corpo è carente, sia possibile controbattere entrambe queste tendenze e proteggere l'organismo durante la fase di invecchiamento. Sulla base di queste teorie sembrerebbe quindi ragionevole che tutti cercassero di perdere peso, di consumare meno grassi e meno proteine (il che significa ridurre .la quantità di carne e pesce) per concentrarsi sui carboidrati e aggiungere quel tanto di vìtamìne e di minerali che serve per non presentare carenze in tal senso.

 

 

 

Mangiare cibi "bio" è meglio? Dovrei passare al biologico?

 

Consiglio d'oro, che vi farà risparmiare un sacco di soldi: mangiate normale e lasciate stare il biologico.

I cibi biologici sono costosissimi, e non sono né più ricchi né meno inquinati di quelli non biologici

Le principali cause di morte in occidente sono il tumore al polmone e le malattie cardiovascolari. Abolire le sigarette, la riduzione dell'attività fisica, una alimentazione troppo ricca di calorie totali, di grassi animali e carboidrati raffinati farà molto di più per la vostra salute della conversione al "biologico".

Ecco una serie di ragioni per lasciar perdere il biologico:

- I controlli non sono sempre seri. In Italia, poi, paese della corruzione per eccellenza, si può presumere che siano quasi sempre poco seri. Molti prodotti biologici vengono da regioni italiane che sono in testa alle classifiche delle truffe all'Unione Europea.

- I cibi biologici non sono più "ricchi" di quelli non biologici. Perché un vegetale produca frutti, è necessario apportargli con un concime tutto ciò di cui necessita. Il concime biologico (letame) non è in grado di apportare ai vegetali tutti i principi necessari per produrre cibi pieni di sostanze utili.

- Non è strettamente necessario mangiare biologico se si vogliono evitare i "veleni nel piatto". E' sufficiente (e molto meno costoso) stare alla larga da una semplice lista di cibi, che contengono più additivi o sostanze chimiche di altri (vedi)

- I controlli di qualità di supermercati come Carrefour, Auchan o Esselunga sono molto rigorosi, e impediscono quasi sempre che cibi con una quantità di residui chimici superiore alla soglia fissata dalla legge finiscano nella nostra tavola. Con la frutta e la verdura acquistate al mercato è un altro discorso…

- La normativa sugli alimenti biologici è a dir poco ambigua:

·    Non sono permessi molti dei pesticidi (erbicidi, insetticidi, fungicidi, ecc.) dell'agricoltura normale, ma alcuni sì: piretro (veleno di origine vegetale utilizzato anche nelle bombolette di insetticidi in commercio), rotenone (prodotto tossico in via di eliminazione dal biologico), solfato di rame (prodotto tossico, che non si lava via bene con l'acqua), idrossido di rame (idem), zolfo, paraffina, alcuni oli minerali e così via. Alcuni di questi prodotti non sono meno tossici dei pesticidi dell'agricoltura normale (il rotenone è più tossico)

·    La legislazione italiana ed europea stabiliscono controlli – e quindi limiti ai pesticidi e conservanti – riguardo il metodo di produzione, cioè riguardo le coltivazioni. Non proibisce di aggiungere conservanti o sostanze chimiche in fase di trasporto o stoccaggio. Non prevede controlli del limite di pesticidi, che potrebbero essere già presenti nel terreno e passare alla frutta e verdura anche se l'agricoltore è in regola perché non glie li somministra direttamente.

·    L'agricoltore biologico è autorizzato ad utilizzare pesticidi chimici nel caso che le colture siano a rischio.

- Il ministero della sanità in Italia come in tutti i paesi europei, compie una costante azione di monitoraggio dei prodotti alimentari non biologici. Negli ultimi anni questa azione ha fatto sì che i cibi trovati con quantità di pesticidi fuori norma siano stati solo una piccola percentuale (3,44%). Quindi non è necessario mangiare biologico per sentirsi tranquilli.

- Il fatto che un alimento abbia residui di pesticidi superiori a quelli di legge non implica assolutamente che sia tossico, perché i limiti di legge sono fissati molto, molto al disotto del livello tossico.

- I vegetali sono pieni di sostanze tossiche naturali, evolute allo scopo di scoraggiare animali e insetti dal divorarli. Il nostro organismo è quindi notevolmente resistente a tossine e velini provenienti da ciò che mangiamo. La nostra specie si è adattata con successo a migliaia di sostanze nocive presenti nel mondo vegetale e perciò in molti alimenti. Prendiamo una patata, un cavolfiore o un cespo di lattuga biologici. Cosa c'è di più sano? direte voi. Eppure sono impregnati di sostanze naturali pericolose - almeno potenzialmente - per la nostra salute. La patata contiene due alcaloidi, la solanina e la chaconina, che sono dotati di potere inibitorio sulle colinesterasi, un gruppo di enzimi importanti per molte funzioni dell'organismo: è la stessa proprietà del malathion, un pesticida sintetico. In due etti di patate sono presenti 15 mg di alcaloidi e solo tracce infinitesimali di malathion, di cui arriviamo a ingerire non più di 0,015 mg al giorno. Né la solanina né la chaconina sono state studiate per accertarne il potere cancerogeno, mentre il malathion è stato oggetto di approfondite sperimentazioni. Eppure ingurgitiamo mille volte più alcaloidi della patat che malathion. I cavolfiori, i broccoli e il cavolo contengono notevoli quantità di indol-3-carbinolo, un composto che - come la famigerata diossina - può proteggere o aggravare la cancerogenicità di un altro cancerogeno naturale, l'aflatossina, a seconda della sequenza di somministrazione. Secondo alcuni calcoli il rischio di cancro insito in una porzione di cavolfiori sarebbe parecchie volte superiore a quello della dose massima giornaliera consentita di diossina. Le piante si sono evolute per almeno 500 milioni di anni affinando le loro armi chimiche contro i predatori. Gli animali si sono a loro volta adattati a questi pericoli, elaborando delle difese, come per esempio il continuo ricambio delle cellule più vulnerabili (pelle, bocca, esofago, stomaco, intestino e polmoni). L'Homo Sapiens, essendo l'ultimo arrivato, non ha fatto in tempo a provvedersi di un analogo apparato difensivo. Per giunta la sua dieta è cambiata drasticamente nel corso dell'ultimo millennio, allargandosi via via a comprendere piante e frutti - caffè, tè, patate, pomodori,manghi, avocado, kiwi - sconosciuti ai suoi progenitori, o prima impiegati essenzialmente a scopi medicinali (cavoli,broccoli, cavolfiori). I nostri piatti sono dunque infarciti di incognite, e noi siamo impreparati a farvi fronte. Naturalmente abbiamo imparato a scartare quei vegetali che avevano effetti tossici immediati. Ma nessuno è in grado di garantirci che certi tipi di piante che noi mangiamo abitualmente non siano responsabili di fenomeni a lungo termine, quali il cancro, che insorge a di¬stanza di anni o di decenni rispetto alla causa che lo ha scatenato.

Come ha messo in luce. il biologo di Berkeley, Bruce Ames, moltissimi alimenti contengono sostanze naturali che si sono dimostrate cancerogene nel ratto o .nel topo. Tanto per fare qualche esempio: anice, mele, banane, basilico, melone, carote, sedano, succo di pompelmo, funghi, succo d'arancia, prezzemolo, pesche, pepe nero, ananas ... E la lista potrebbe conti¬nuare. Sono i cosiddetti «pesticidi biologici», i veleni che le piante secernono per difendersi dagli aggres¬sori. Ne sono stati scoperti decine di migliaia, ma sol-tanto su una cinquantina sono stati condotti dei test appropriati. E ben la metà di essi sono risultati cance¬rogeni: una percentuale piuttosto elevata per farci concludere che la natura sia solo benigna.

È probabile, dunque, che quasi tutta la frutta e la verdura che compriamo al supermercato contenga qualcuna di queste sostanze. Non c'è da allarmarsi: l'effetto cancerogeno ad alte dosi osservato negli ani¬mali non può essere automaticamente trasferito al¬l'uomo che assume questi cibi in dosi molto più basse in rapporto alla sua massa corporea. Ames ha calcolato che. un americano medio (e perciò, probabil¬mente, un cittadinò medio di qualunque paese svi¬luppato), ingerisce giomalmente.1,5 grammi di pesti¬cidi biologici, 10 mila volte di più dei residui di na¬tura sintetica, comunque pochissimo rispetto alla dose che induce effetti tossici negli animali di labora¬torio.

E poi, assieme ai veleni, le piante contengono an¬che degli antidoti naturali, vitamine e antiossidanti. Non per nulla una dieta ricca in vegetali, lungi dall'essere sconsigliata, è ritenuta una buona preven¬zione contro il cancro. E non c'è ragione di pensare che tali sostanze protettive non agiscano anche nei confronti degli inquinanti industriali.

L'80% delle ricerche sui composti chimici conte¬nuti negli alimenti ha finora riguardato quelli sinte¬tici: additivi, coloranti, pesticidi, farmaci. Quasi il 50% di essi ha rivelato proprietà cancerogene nei topi o nei ratti alla «dose massima tollerata». Molto ancora resta da fare in questo campo: secondo un rapporto dell'Ocse del 1990, circa metà dei prodotti chimici più diffusi attende ancora una adeguata valu¬tazione tossicologica. Ma considerato che il 99,99% della nostra razione quotidiana di molecole tossiche è fornito da madre natura, sarebbe opportuno che lo sforzo di ricerca non si concentrasse solo sul restante 0.01%.

Non si tratta di minimizzare i problemi ambien¬tali del pianeta in cui viviamo, ma di pensare e di agire in maniera più razionale anche in campo scien¬tifico, per evitare ingiustificate ondate emotive a senso unico che non aiutano a migliorare le condizioni di salute della gente.

Qualcuno propone di sostituire ai pesticidi chimici delle piante «geneticamente manipolate», più resistenti agli insetti - e perciò anche più velenose. Ma forse sarebbe meglio che gli scienziati si dessero da fare per la identificazione e la purificazione di so-stanze naturali ottenibili dai vegetali, con l'obiettivo di valutarne il potenziale tossico e - perché no? - ma¬gari anche terapeutico. E sarebbe importante che i chimici chiarissero all'opinione pubblica la natura e gli scopi della loro attività, per scrollarsi di dosso l'in¬giusta etichetta di inquinatori. Del resto, questi mo¬derni alchimisti non hanno nemmeno bisogno di di¬fendersi, perché se spesso imitano la natura, qualche volta sono riusciti perfino a fare meglio di lei.

- Il nostro organismo è abituato a smaltire una dose quotidiana di veleni. Oltre ai veleni naturali contenuti da millenni nei vegetali (vedi), smaltisce le tossine animali e della digestione, i prodotti tossici dei medicinali e altri veleni ancora. Una minima quantità di fitofarmaci e pesticidi non rappresenta un pericolo immediato

- Quello che è rilevante per la salute è la quantità totale di pesticidi ingeriti. Chi mangia in modo non eccessivo, o coloro che praticano la restrizione calorica (vedi paragrafo) possono mangiare una porzione di alimento con un livello di pesticidi superiore a quello consentito e tuttavia assumerne di meno di chi mangia enormi quantità di cibo.

Inoltre, coloro che stanno attenti agli altri veleni che arrivano nel piatto sotto forma di additivi (conservanti, coloranti ecc.) nel cibo, pur mangiando frutta e verdura e cereali non biologici assumono meno veleni di coloro che non stanno attenti agli additivi.

- Prodotti non trattati con conservanti o fitofarmaci, sviluppano muffe e batteri ben più dannosi per l'uomo. L'aflatossina è ad esempio un fungo che si sviluppa in vegetali non ben conservati e si accumula nell'organismo, che non riesce ad espellerla, provocando, grazie a tale accumulo, anche a distanza di anni, effetti tossici, danni al fegato e cancro.

- In tutto il mondo si stanno facendo sforzi per limitare e controllare l'impiego di fitofarmaci, insetticidi e diserbanti, che spesso vengono somministrati in quantità eccessive e senza alcuna razionalità, inquinando il terreno e le falde acquifere. Tuttavia, l'uso della chimica in agricoltura non può per ora essere bandito se non a prezzo di un crollo della produzione, che innalzerebbe i prezzi in modo impossibile, e andrebbe anche a scapito del Terzo Mondo.

 

 

 

Abbronzarsi è consigliabile? Cosa devo fare per mantenere la pelle del volto e delle mani senza le macchie dell'età?

 

Quella dell'abbronzatura "noir" è una fissazione decisamente italiana. I maschi italiani vanno pazzi per le donne "annerite" come altrettanti tizzoni. Da cui una furiosa corsa del gentil sesso, per il tipico spirito di competizione femminile, ad annerirsi più della vicina di ombrellone con interminabili sedute di asciugamano e lozione solare.

E’ vero che l’esposizione della cute ai raggi solari è necessaria per fornire preziosa vitamina D al nostro organismo, ma la quantità di sole necessaria è ben al disotto dello standard dei patiti della tintarella: sono sufficienti 20 minuti esponendo tutto il corpo al sole per procurarsi 18 volte la dose giornaliera raccomandataq tutta in una volta sola. Inoltre, dopo 40 minuti la sintesi di vitamina D si interrompe e riprende solo dopo 2-3 ore. Quindi, continuare ad esporsi “per le ossa” è perfettamente inutile. Infine, l’abbronzatura rende più difficile la penetrazione dei raggi UVB, con la tintarella, diviene più difficile e la sintesi di vitamina D diminuisce. Questo vuol dire in pratica che dopo 40 minuti tutto il sole che prendete è per puri motivi estetici e, dal punto di vista della salute, incrementa il vostro rischio di cancro e fa invecchiare più precocemente la vostra pelle.

Nel passato i poeti occidentali e orientali cantavano il candore della pelle come un miracolo di bellezza e perfezione. Le gentildonne fin de siécle sfoggiavano un seducente pallore, mentre la pelle scura era segno di volgarità: era quella delle contadine, costrette a lavorare per ore sotto il sole. In oriente, le contadine giapponesi lavoravano sotto il sole afoso con guanti che coprivano tutte le braccia, per evitare che la pelle si annerisse.

Poi, negli anni del dopoguerra, il significato dell'abbronzatura cambiò: ora potevano abbronzarsi non i contadini, ma i ricchi, che potevano oziare sul ponte del proprio yacht senza avere niente da fare, o giocare a tennis in una bella giornata di sole mentre la pallida umanità ordinaria sgobbava nel chiuso degli uffici e delle fabbriche. Il nero da quel momento diventa uno status symbol: rivela che si è passato un periodo senza fare niente, come i ricchi. Oggi solo pochi italiani considerano wonderful quella che una volta era definita "pelle di pesca", la pelle naturalmente dorata e senza imperfezioni delle donne più belle, da Kim Novak ad Ava Gardner a Hilary Blasi. La maggioranza degli italiani non vuole sentire ragione: pretende la tostatura integrale e il look africano.

Non è così in altri paesi: qualche anno fa uno scrittore francese ha fatto una battuta: "in Francia, se hai la pelle dalla tonalità scura o fai ridere o sei un extracomunitario". A New York un opuscolo distribuito da Kielh's, il più famoso farmacista di New York suggerisce di utilizzare filtri solari per tutto l'anno, perché il buco dell'ozono ha aumentato l'intensità della radiazione ultravioletta, col rischio di sviluppare un cancro alla pelle.

Che sia vera o no la faccenda del buco dell'ozono (molti notano che gli effetti si vedranno solo tra dieci-vent'anni e che la riduzione delle emissioni di carbonio è proprio un tentativo di evitarli, per cui forse non li vedremo mai), certo è che la vera e propria epidemia di melanomi (cancro della pelle) che ha colpito i paesi più ricchi negli ultimi due decenni è stata messa in relazoine con la diffusione del benessere e del conseguente rito collettivo dell'esodo annuale sulle spiagge, con la moda del bikini e dell'abbronzatura integrale. Benché l'insorgenza del melanoma sia associata anche ad altri fattori (lesioni cutanee, età, razza, latitudine di residenza, precedenti familiari), la radiazione solare è l'unica variabile che si possa controllare e prevenire. Pertanto è giusto raccomandare prudenza ai soggetti bianchi di carnagione, che avendo una produzione scarsa di melanina (il pigmento naturale della pelle) sono meno protetti dai raggi ultravioletti del sole, e in particolare ai bambini e ai giovani sotto i vent'anni. "Non ci si può abbronzare senza danneggiare la propria pelle" ammoniscono i dermatologi. "Una salutare tintarella è una contraddizione in termini" rincara la dose la Fondazione americana per il Cancro.

I raggi solari sono radiazioni di energia che penetgrano nelle cellule e nei tessuti del nostro corpo, modificandone la struttura. Alcuni effetti sono desiderabili, altri meno. La "cura del sole" o "elioterapia" è indicata solo in alcuni casi: per la psoriasi, la dermatite seborroica, l'eczema topico dei bambini, la vitiligine; ha effetti benefici sul metabolismo, sull'apparato circolatorio, perfino sulla psiche. Per contro, può essere dannosa per gli albini e in generale per chi ha la pelle chiara. Una scottatura profonda, un'esposizione troppo intensa e prolungata, possono avere conseguenze anche permanenti sulla pigmentazione e possono distruggere il collagene e l'elastina, compromettendo la tenuta dell'epidermide. Il patito della tintarella "noir" ne paga prima o poi le conseguenze. Magari non subito, ma dopo dieci o quindici anni l'epidermide si ricopre di chiazze scure, di grinze e di rughe. Invecchia precocemente. Come ha detto un famoso dermatologo italiano, senza mezzi termini: "le patite dell'abbronzatura sono quelle che nella mezza età avranno la pelle da prugne secche"

Se anche non si vuol rinunciare ad una giudiziosa abbronzatura c'è da dire che l'abbronzatura del volto è quella meno necessaria e più dannosa. Una abbronzatura del torso produce molta vitamina D e rafforza lo scheletro, mentre il volto non avrebbe proprio bisogno di una dose massiccia di raggi UVA. Le persone che hanno evitato di "scottare" eccessivamente il volto conservano a lungo una pelle elastica e senza rughe.

Tutto ciò premesso, ci limiteremo a indicare gli svantaggi e i vantaggi dell'abbronzatura:

  svantaggio: I raggi ultravioletti distruggono il collagene, che dona elasticità alla pelle, accelerandone l'invecchiamanto. Un esperimento condotto negli USA è consistito nell'irrorare la pelle del fondo della schiena dei volontari con raggi UVA. Dopo poche esposizioni si è scoperto che tali raggi attivavano un gene che distruggeva il collagene. Per riassumere, un celebre dermatologo ha detto che "le donne che oggi si abbronzano sono le prugne secche di domani". L'esposizione solare prolungata del volto provoca, oltre alle rughe, macchie, che a loro volta innescano un circolo vizioso: per nascondere gli inestetismi provocati dall'abbronzatura si ricorre… all'abbronzatura.

  vantaggio: le ragazze che hanno imperfezioni della pelle, nei ecc, le mascherano a meraviglia con l'abbronzatura

  vantaggio: i raggi solari, attraversando la pelle, favoriscono la formazione di vitamina D, che serve a fissare il calcio alle ossa (ma la vitamina D si può prendere anche per compresse!)

  svantaggio: i raggi ultravioletti, attraversando le palpebre, possono danneggiare il fondo dell'occhio, specie delle persone con occhi chiari, che sono più sensibili ai danni di tali radiazioni

  svantaggio: i raggi UVA possono provocare cancro alla pelle

Molte persone che rifiutano la corsa all'abbronzatura, fanno una passeggiata di un'ora sulla spiaggia, (alcuni, ancora più prudenti, scelgono la mattina prima di mezzogiorno, quando i raggi del sole non hanno una intensità eccessiva), in costume o con un vestito leggero e trasparente e un cappello a tesa larga per proteggere il volto. Oppure nuotano

per mezz'ora-un'ora: questo è sufficiente a prendere tutto il sole che serve a fissare il calcio alle nostre ossa. L'acqua funge da ottimo filtro per i raggi ultravioletti e per prevenire scottature della pelle.

Si sta poi diffondendo l'uso di lozioni autoabbronzanti, anche perché non è possibile abbronzarsi tutto l'anno con la lampada senza farsi veramente danno. Oggi esistono lozioni molto migliorate, della Lancome, Shisheido, L'Oreal, ecc. che donano un bel colore dorato alla pelle del volto senza doverlo esporre alle radiazioni ultraviolette dannose per gli occhi e responsabili delle rughe.

Tuttavia occorre assolutamente utilizzare i cosmetici di case note e affidabili, perché nei prodotti a basso costo vengono utilizzate sostanze coloranti della pelle gravemente tossiche: cantaxantina, psoraleni, furocumarina e betacarotene sono assolutamente da evitare (leggere le componenti!). Sarebbe bene farsi consigliare il prodotto da un dermatologo.

Vanno assolutamente evitate le sedute di solarium abbronzante presso i centri estetici, perché all'interno dei "sarcofaghi" i raggi sono potenziati al massimo per esaltarne il rendimento, sicché sui tessuti hanno più o meno l'effetto di un bombardamento al napalm, con le conseguenze (macchie, rughe, ecc.) che abbiamo già descritto.

Le macchie della pelle dovute all'età cominciano a manifestarsi sulle mani e gli avambracci. In parte sono dovute alla degenerazione della pelle, in parte sono grassi assunti dall'organismo e che hanno subito un processo di degradazione per la cottura ad alta temperatura, e che finiscono per accumularsi sulla pelle. Evitate quindi tutti i piatti fritti o con grassi portati ad alta temperatura, come gli arrosti anneriti o con la crosta.

E' stato dimostrato che un minore apporto di grassi nella dieta evita degenerazioni della pelle.

Poiché la carenza di vitamina A è associata a fenomeni degenerativi della pelle, sono stati messi in commercio preparati a base di "Retinolo-A", un derivato della vitamina A che in laboratorio si è dimostrato efficace nel riparare le epidermidi danneggiate da esposizionio prolungate al sole. L'uso regolare di una crema a base di Retinolo per le mani e gli avambracci a partire dai 30 anni dovrebbe mantenerli senza macchie per lungo tempo. Per le macchie del volto, se esiste una predisposizione familiare (genitori con pelle precocemente macchiata) si può usare per tempo sempre il Retinolo o i preparati "anti-macchie" che le principali case cosmetiche hanno immesso sul mercato.

 

il parere del famoso medico statunitense isadore rosenfeld sul sole e la salute della pelle:

Se dovessi limitarmi a dire solo tre parole sull'argomento dell'in¬vecchiamento della pelle, riassumerei tutto il discorso dicendo « evi¬tate il sole ». L'eccessiva esposizione al sole, infatti, accelera il pro¬cesso di invecchiamento della pelle, specialmente negli individui di carnagione chiara o con capelli biondi o rossi. Chi invece ha una éarnagione più scura è meno vulnerabile ai danni prodotti dal sole perché le cellule della sua pelle contengono una maggiore quantità di un pigmento protettivo chiamato melanina che protegge appunto da tali danni. Purtroppo, però, per ogni decennio che passa, queste cellule contenenti il pigmento diminuiscono in numero di circa il dieci per cento. Così, man mano che invecchiamo, rimanere esposti al sole diventa sempre più dannoso. Eppure ogni anno c'è una mi¬grazione in massa al sud dalle zone a clima freddo da parte di mi¬lioni di persone, per lo più anziane. Queste persone non solo cerca¬no il tepore del sole, ma si crogiolano sotto i suoi raggi. Sulle spiagg!e, lui campi di golf, nelle piscine, la loro pelle, esposta ai raggi so-lari, assume un'ingannevole abbronzatura che viene scambiata per « salute », mentre in realtà perde di elasticità e di tono. Alla fine questa pelle è destinata a raggrinzirsi come un'asse per lavare, per non parlare poi dei rischi di formazioni maligne. Mi viene in men¬te a questo punto la storia di un uomo, morto mentre era in vacan¬za in Florida. I suoi amici erano venuti a rendergli omaggio all'obi¬torio e mentre era lì steso sul tavolo, una signora che ne ammirava il viso abbronzato, si era rivolta al proprio compagno e aveva escla¬mato in tono ammirato: "Sì, questo sì che è vivere I ».

E tra coloro che non possono permettersi di andare al sud o di rì¬manerci abbastanza da riceverne una profonda abbronzatura dure¬vole, sono venute molto di moda le lampade abbronzanti dei saloni specializzati. Ricordate però che anche questi surrogati istantanei di abbronzatura portano con sé gli stessi rischi della sovraesposizione cronica al sole.

A volte, quando ricordo a una paziente che una pelle scottata è una pelle lesionata, questa cerca di rassicurarmi dicendomi di fare ampio uso di creme idratanti e altri unguenti. Purtroppo, pur con tutto il debito rispetto alle centinaia di milioni di dollari spesi in pubblicità dall'industria cosmetica per convincerci che i loro pro¬dotti sono così efficaci, la realtà è che mentre tali creme possono conferire temporaneamente alla pelle una certa morbidità, in effetti non servono affatto a ritardare, prevenire e neppure minimizzare i danni prodotti dal sole.

Per prevenire il prematuro invecchiamento della pelle, tenetevi quindi al riparo dal sole intenso. Se per qualche ragione non siete in grado di evitare i suoi raggi, utilizzate almeno un filtro solare. Questi unguenti e creme bloccano la luce ultravioletta del sole che è appunto la parte dannosa della luce. I prodotti di più vasto im¬piego sono quelli che contengono acido para-aminobenzoico (Paba). Mettetene un po' sulla pelle venti-trenta minuti prima di esporvi al sole e se andate a nuotare applicatene con frequenza un nuovo stra¬to. Controllate sempre sull'etichetta del filtro solare il numero del fattore protettivo e scegliete quei prodotti il cui fattore non sia in¬feriore a 8.

Ricordate che usare un filtro solare non significa tornare a casa da una splendida vacanza alle Hawaii o nei Caraibi con la pelle pallida pallida. Una parte dei raggi solari raggiungerà comunque la vostra pelle, ma non in quantità sufficiente a danneggiarla. Del tutto spassionatamente poi, vi dirò che una leggera abbronzatura, oltre a presentare molti pericoli in meno, ha, secondo me, un aspetto più sofisticato di un'ab¬bronzatura intensa.

Riguardo al colore della pelle ho trovato una splendida soluzione. Anni fa stavo chiacchierando con quella decana della bellezza che è Estee Lauder. « Lei ha un aspetto così pallido e stanco », mi ave¬va detto. (Pallido, per forza, perché evitavo il più possibile il sole; stanco ... be', questa è un'altra storia.) « Perché non usa un po' della mia lozione abbronzante? Le darà un aspetto più sano e sentirà che differenza. » Be', io non mi sono mai fatto incantare dai cosmetici per uomini e non ero rimasto colpito dalla sua raccomandazione. Ma lei si era ricordata della nostra conversazione e qualche giorno dopo era arrivata con un paio di tubetti del suo « abbronzante per uo¬mo ». Non mi sembrava giusto che il loro posto fosse nel mio ar¬madietto dei medicinali, così li avevo messi in quello dei cosmetici di mia moglie. La settimana seguente, uno dei miei più solleciti pa-zienti aveva espresso la sua preoccupazione per il mio aspetto. Così, il mattino dopo, quando ero. rimasto solo, mi ero applicato un po' dell'abbronzante della signora Lauder sul viso. Mi ero guardato nel¬lo specchio e quello che avevo visto mi era piaciuto, eccome! Quan¬do ero sceso a colazione mi ero sentito in effetti più giovane. Mia moglie, di solito molto percettiva e osservatrice, non era sembrata però accorgersi della nuova persona che le stava davanti. « Ottimo» avevo pensato. « Si tratta di un prodotto leggero e sfumato. ~) Ero andato poi in studio dove, con mia grande sorpresa, un paziente die¬tro l'altro aveva espresso commenti sul mio « aspetto fresco e ripo¬sato ». Era evidente che nessuno sospettava che il mio colorito "sano"  avesse un'origine cosmetica. Quella sera a cena, durante una breve pausa nella conversazione, mia moglie aveva alzato gli occhi e aveva detto: "Be', qualcuno l'ha notato?". Francamente devo ammettere di essere stato ormai conquistato dagli abbronzanti  maschili, perfino quando vado al sud. In ogni caso cerco di evitare l'eccessiva esposizione al sole. Se non mi è possibile, porto un cappello, tengo la pelle coperta e uso un filtro di fattore 10. Basta con le lente rosolature di ore e ore al sole. Datemi retta, starsene seduti all'ombra a leggere, mentre sorseggiate un long drink fresco senza pià imprecare contro le nubi non è poi tanto brutto.

 

 

 

Perché mi converrebbe acquistare farmaci via internet in Inghilterra?

 

Per il semplice fatto che i prezzi dei farmaci in italia sono scandalosi. Quelli degli integratori e dei prodotti da banco sono quasi criminali, assai superiori a quelli praticati nei paesi civili. Facciamo qui solo due esempi: 20 compresse da 500 mg di vitamina C in Italia costano circa 5 euro. Via internet, una confezione da 100 compresse si acquista a 7 euro, più due euro di costi di spedizione (rimborsati se l'ordine supera un modesto ammontare), e contiene anche estratti di acerola e rosa canina per aumentare la digeribilità del preparato.. Propecia (l'unico prodotto funzionante contro la caduta dei capelli) in confezione da 30 compresse costa online in Inghilterra 30 euro, contro i 60 a cui viene venduto da noi. E si potrebbe continuare all'infinito.

Farmacie online come http://www.chemistdirect.co.uk nel Regno Unito, di cui si serve regolarmente chi scrive, sono strettamente controllate dalle autorità e vendono prodotti assolutamente comparabili a quelli italiani.

Unico neo: per diverse categorie di prodotti non si trova quello di marca. Così, si può acquistare un multivitaminico a un quarto del prezzo praticato in Italia, ma non Multicentrum (Wyeth Laboratories) né Supradyn (Bayer). Ci sono tuttavia eccellenti prodotti di marca: ChemistDirect vende tutti i prodotti della gamma Garnier a prezzi stracciati rispetto all'Italia, e i prodotti del marchio Seven Seas, fondato nel 1934 e acquistato nel 1996 dalla multinazionale farmaceutica Merck.

Vitamine, integratori e altri prodotti del genere possono anche essere comodamente acquistati dai venditori internazionali selezionati da http://www.amazon.com, nella sua divisione Health & Personal Care. Anche qui i prezzi sono estremamente competitivi: 250 capsule da 1000 mg di vitamina C con aggiunta di estratto di rosa canina costano 13,57 dollari.

Ecco un elenco di prodotti che potrebbero interessarci: integratori di Omega-3; prodotti anti-age e anti-macchia per la pelle (che in Italia sono costosissimi); aspirina cardio da 80 mg; multivitaminici; vitamina C in compresse; integratori di calcio e vitamina D; Integratori di vitamine del complesso B, in particolare B12, molto costosa; Melatonina; detergenti per la pelle, shampoo e saponi neutri (Garnier); prodotti contro la degenerazione articolare a base di Glucosammina e Condroitina; integratori proteici; Propecia; Alli (compresse per ridurre l'assunzione di grassi).

 

 

 

Di quanto andrebbe limitato il consumo di sale? Il sale fa male solo agli ipertesi o ha altre controindicazioni?

 

Molti di noi sono perplessi riguardo la giusta quantità di sale da consumare. Il fatto è che l'informazione al riguardo è lacunosa e contraddittoria a dire il meno. Ecco alcune idee errate che facilmente si ricavano dalla letteratura divulgativa al riguardo: a) Il consumo di sale da cucina andrebbe moderato ma non abolito. Il grosso dei vantaggi si ha con la moderazione, mentre l'abolizione servirebbe solo per i casi gravi; b) Una quantità eccessiva di sale fa aumentare la pressione, e quindi rappresenta una minaccia solo per gli ipertesi; c) Alcuni studi mostrerebbero che l'abolizione completa del sale può portare ad una lieve compromissione delle funzioni cognitive degli anziani; d) Il sale è una sostanza fondamentale per l'organismo, il cui consumo non può essere abolito totalmente.

In realtà ognuna di queste affermazioni è errata. Come rileva Jared Diamond nel suo recente best-seller Il mondo fino a ieri, gli studi sulle società primitive che solo in tempi recentissimi sono venute in contatto con la civiltà e l'alimentazione occidentale, come i Papua della Nuova Guinea, mostrano che queste popolazioni sanissime, che non conoscono ictus, ipertensione, malattie cardiovascolari e diabete, assumono pochissimo sale. Il record del più basso consumo di sale al mondo si ha tra gli Yanomani dell'Amazzonia. Le conclusioni di Diamond, che cita studi epidemiologici sul drammatico incremento di malattie "da civilizzazione" tra le popolazioni convertite alla dieta occidentale sono nette: il consumo di sale da cucina va abolito totalmente. E anche l'abolizione totale non ci mette al riparo dal consumo di sale presente in pressoché tutti gli alimenti conservati che assumiamo giornalmente.

La seconda preziosa informazione che ci fornisce lo studio di Diamond (che è un biologo evoluzionista) è che il sale è un vero killer nascosto: non è solo responsabile dell'ipertensione, ma il suo consumo è incontrovertibilmente legato all'ictus e ad altre patologie degenerative, come l'arteriosclerosi e i disturbi cardiaci. Il sale è persino responsabile della decalcificazione e della osteoporosi, perché facilita l'eliminazione di calcio con le urine.

Particolarmente impressionante è la correlazone tra sale e ictus. Nei villaggi giapponesi in cui il consumo di sale è più alto, pressoché il 60% della popolazione muore di ictus in età relativamente giovane.

La conclusione di Jared Diamond è lapidaria: Salt: never, ever.

Comunque, immagino che non tutti – anzi pochissimi – abbiano la forza di volontà di privarsi del tutto di sale, anche se sarebbe una vera assicurazione sulla vita! Ecco perciò i livelli raccomandati di assunzione di sale pubblicati dall’United Kingdom Department of Health, che comunque sono bassissimi per gli adulti è raccomandata una dose massima di 6 grammi di sale (circa un cucchiaino da the):

 

ecco la quantità di sale ufficialmente raccomandata:

 

0-6 mesi meno di 1 g

7-12 mesi  1 g

1-3 anni  2 g

4-6 anni  3 g

7-10 anni 5 g

sopra 11 anni 6 g

 

 

 

E' meglio il Parmigiano o il Grana Padano?

 

Certo, il Grana Padano sembra buono quanto il Parmigiano, e avete notato che ci sono sempre quelle offerte speciali di Grana, mentre non è facile trovarne di altrettanto vantaggiose per il Parmigiano? Vi siete mai chiesti il perché? La risposta ce la dà la legge (sì, proprio le norme giuridiche), che disciplina il tipo di lavorazione che deve avere un formaggio per poter utilizzare una denominazione tipica.

Leggiamo dunque che il Parmigiano può essere prodotto solo da latte di mucche che hanno mangiato foraggi freschi, non insilati. Il Grana padano invece può essere prodotto anche con latte di mucche nutrite con foraggi stoccati nei silos, che sviluppano una notevole quantità di batteri. Questi batteri passano nello stomaco del bovino e di lì nella forma di formaggio, provocandone la fermentazione e la spaccatura. E' per questo che fino a qualche anno fa i produttori di Grana Padano erano autorizzati ad utilizzare un potentissimo conservante, l'aldeide formica. Si pensi che viene impiegato nelle facoltà di medicina per conservare sotto vetro tessuti ed organi umani ed animali. Come se ciò non bastasse, la norma non fissa limiti all'utilizzo del conservante: infatti il testo della norma dice "aldeide formica q.b.", e "q.b." vuol dire "quanto basta", cioè "fai un po' tu".

Ecco il perché delle offerte speciali del Grana: poiché viene usato un conservante, praticamente nessuna forma si spacca, e quindi la produzione è molto alta, e per venderla si ricorre a periodici ribassi, mentre i controlli rigorosissimi e il divieto assoluto di utilizzare conservanti per il Reggiano ne rendono la produzione sensibilmente più ridotta.

La formaldeide è usata come conservante del tofu in Indonesia e i ricercatori che hanno fatto uno studio sui benefici del tofu hanno riscontrato una maggiore incidenza di demenza senile nei consumatori di tale alimento. E’ possibile che la colpa sia della formaldeide.

Si vede che qualcuno ha lanciato un allarme, perché recentemente i produttori di Grana Padano sono passati al conservante lisozima, che viene dichiarato "totalmente naturale e senza effetti dannosi per la salute". Sarà vero? Fossi in voi, se avessi la possibilità di sborsare qualche euro in più, opterei per un formaggio completamente privo di conservanti e prodotto da persone che hanno sempre pensato che la formaldeide deve stare negli obitori e nelle sale anatomiche e assolutamente non sulla tavola degli italiani.

 

 

 

Cosa dice in sintesi il famoso China Study di cui ho sentito tanto parlare e discutere? Dove posso trovare online il testo italiano?

 

Il China Study è un libro del medico ed epidemiologo Colin Campbell, basato sull'omonimo studio clinico che ha indagato per diversi anni sulle abitudini alimentari di milioni di cinesi delle più varie aree del paese, fornendo una impressionante quantità di dati statistici sulla correlazione tra dieta e malattie metaboliche e cardiovascolari.

A dispetto della mole (387 pagine nell'edizione italiana) le conclusioni sono estremamente semplici:

 

  Un eccesso di proteine favorisce invariabilmente il cancro, aumentandone la probabilità fino al 30%. Una dieta a basso tenore di proteine (5%) mette al riparo persino dal cancro provocato dall'aflatossina, la più potente sostanza carcinogena esistente. Le diete ipoproteiche rallentano anche sensibilmente il progredire del tumore

  La quantità di proteine in grado di favorire l'insorgere del cancro è quella presente in una normale dieta occidentale (20% delle calorie della dieta).

  La quantità di proteine consigliata non deve superare il 10% delle calorie totali

  Le proteine vegetali, anche se somministrate al livello del 20% non favoriscono il cancro

  Le proteine che maggiormente favoriscono il cancro sono quelle di origine animale. Tra esse la caseina presente nei latticini ha una incontestabile azione che favorisce il cancro. Le proteine sane sono quelle vegetali, comprese quelle del frumento e della soia.

  I soggetti che si nutrono prevalentemente di cibi animali sono quelli che si ammalano delle patologie più croniche. Persino le assunzioni relativamente ridotte di alimenti animali sono associate a effetti sfavorevoli.

  Cardiopatie, diabete, obesità possono essere fatte regredire con una dieta vegana, del tutto priva di prodotti animali

  Una notevole quantità di disturbi apparentemente non collegati all'alimentazione possono invece essere evitati con una dieta vegetariana: disturbi visivi e cerebrali in età avanzata (tra cui Alzheimer), malattie autoimmuni, malattie delle ossa e dei denti, tra cui osteoporosi, diabete, ictus, ipertensione, artrite, cataratta, obesità, malattie renali.

  Va in particolare abolito ogni consumo di carne, latticini e uova

  Le proteine potenziano l'azione delle principali sostanze cancerogene: aflatossine, nitriti, DDT, dolcificanti sintetici (ciclamati e saccarina), virus dell'epatite (che provoca cancro al fegato)

  Le cosiddette "malattie del benessere" (cancro, diabete, ictus, cardiopatie coronariche) sono legate tra loro e all'alimentazione.

  Una dieta vegetariana mantiene estremamente bassi i livelli di colesterolo. Le proteine di origine animale sono collegate alla produzione di colesterolo da parte dell'organismo (colesterolo endogeno), che si va ad aggiungere a quello proveniente da fonti animali (colesterolo esogeno). Il consumo di caseina (latticini) e di altre proteine animali mantiene alti i livelli di colesterolo.

  Esistono comprovate relazioni tra diversi tipi di cancro (es. al seno) e consumo elevato di grassi (oltre il 30% della dieta), che sconsiglia ulteriormente l'assunzione di alimenti animali, i più ricchi di grassi. La soglia massima di grassi nella dieta andrebbe rivisto al ribasso: 10-15%

  Solo il 2-3% dei cancri sono di origine ereditaria; tutti gli altri possono essere controllati o influenzati dall'alimentazione e dallo stile di vita

  Una dieta ricca di fibre, come quella vegetariana, ha importanti benefici preventivi. Occorrerebbe assumere almeno 30-35 grammi giornalieri di fibre.

  I vegetali sono ricchi di sostanze antiossidanti, ben più che gli alimenti di origine animale

  Contrariamente a quanto pensano oggi i nutrizionisti, la dieta più sana e che favorisce la perdita del sovrappeso e il mantenimento del peso forma è ad alto contenuto di carboidrati, e non di proteine, come la famosissima dieta Dukan. Ma si deve trattare di carboidrati non raffinati, provenienti da frutta e verdura integrali.

  La dieta migliore è una dita a basso contenuto di grassi e proteine e ad alto contenuto di carboidrati.

  Le culture che hanno tassi (notevolmente) inferiori di coronaropatie sono quelle che consumano meno grassi saturi e proteine animali e più cereali integrali, frutta e verdura, sostentandosi principalmente con cibi di origine vegetale con prevalenza di carboidrati complessi.

  Una dieta vegetariana fa dimagrire e tiene sotto controllo il peso senza bisogno di privazioni caloriche e senza provare alcun senso di fame.

  Il diabete di tipo II (quello non autoimmune) è correlato non solo col consumo di zuccheri, ma anche con quello di grassi, di proteine e di alimenti animali.

  I benefici della dieta vengono potenziati dall'esercizio fisico

  Gli integratori vitaminici non sono una panacea per la salute. Gli studi al riguardo hanno dato risultati incerti.

  La stessa alimentazione che previene la malattia negli stati iniziali può anche arrestare e far regredire la malattia negli stadi successivi.

  Una alimentazione che sia benefica per una particolare malattia cronica sarà di vantaggio alla salute su tutta la linea.

  Il pesce, grazie agli acidi grassi Omega-3, può prevenire alcuni aspetti della cardipatia, ma in definitiva non ha nessun effetto sulla mortalità causata da questa patologia e neppure sul rischio di attacco cardiaco. In compenso, i grassi contenuti nei pesci, come tutti i grassi, possono in qualche caso favorire l'insorgere di alcuni tipi di cancro, come il cancro al seno nelle donne, che è molto sensibile alla quantità di grassi nella dieta.

  La dieta occidentale è sbilanciata dal lato delle proteine;

  Una alimentazione vegana, con proteine di origine vegetale, mette al riparo pressoché da tutti i disturbi cardiovascolari e metabolici che affliggono le popolazioni delle nazioni ricche

  Gli alimenti a base di proteine animali producono un calo significativo nella produzione del complesso denominato 1,25 D, che è il metabolita della vitamina D in cui essa viene convertita per poter agire sulle ossa. La deficienza di questo metabolita provoca numerose malattie, dall’osteoporosi alla sclerosi multipla. Le proteine animali creano nel sangue un ambiente acido che impedisce alla vitamina D di sintetizzare efficacemente questa sostanza. La quantità di 1,25 D in circolazione viene diminuita anche dalla eccessiva presenza di calcio nel sangue che è provocata dal consumo regolare di latte e latticini.

 

 

 

Se l’indice di massa corporea (IMC) della vostra obesità supera il valore di 30 potreste non riuscire più a perdere peso.

 

Il grasso corporeo viene immagazzinato in tante piccole cellule adipose, chiamate adipociti. Il numero e la dimensione di queste cellule varia da individuo ad individuo.

Il grasso corporeo può aumentare come conseguenza di uno dei seguenti processi: a) aumento delle dimensioni delle cellule adipose (ipertrofia); b) aumento del numero di cellule adipose (iperplasia).

Al contrario di quanto succede per le fibre muscolari, il tessuto adiposo ha la possibilità di aumentare il numero di cellule che lo compongono. Esiste infatti un limite oltre il quale gli adipociti non possono ulteriormente aumentare di volume (Volume massimo=1µg). Un ulteriore incremento delle riserve adipose è realizzabile, in tale situazione, soltanto attraverso l'aumento del numero di adipociti.

Da sei mesi di età fino ai 18 anni i preadipociti possono dar luogo ad un incremento del numero di adipociti (le cellule che contengono il grasso del nostro corpo). Per questo è importante evitare un eccessivo sovrappeso nei bambini e negli adolescenti, perché questo potrebbe portare a moltiplicare il numero degli adipociti e a rendere la condizione di sovrappeso permanente.

Successivamente il numero degli adipociti si stabilizza, ma negli adulti essi possono sdoppiarsi (iperplasia) quando da una obesità moderata (IMC > 30) si passa ad una obesità grave (IMC > 35). Infatti le cellule adipose non possono avere una massa superiore ad 1 mcg. Oltre questo volume avviene lo sdoppiamento della cellula.

Quando una persona obesa dimagrisce le cellule adipose perdono una certa quantità di grasso, riducendo il loro volume, ma purtroppo il numero di adipociti non può essere facilmente ridotto. Sebbene non sia proprio vero che gli adipociti così “guadagnati” non vadano più persi, risulta comunque estremamente difficile provocarne la necrosi, anche ricorrendo a dimagrimenti forti e intensa attività fisica. Questo fenomeno spiega perché un obeso che sospende  la cura dimagrante, riacquista nel breve periodo gran parte del grasso corporeo perso.

Alcuni studi sembrano dimostrare l'esistenza di una relazione tra numero di adipociti e regolazione dell'appetito. Secondo queste ricerche un elevato numero di cellule adipose "vuote" sarebbe responsabile dell'aumentato stimolo della fame. Questo fenomeno spiega perché, per un individuo obeso, è così difficile seguire una dieta ipocalorica.

Fortunatamente il fenomeno dell'iperplasia degli adipociti si verifica solo in particolari circostanze.

Esistono tre periodi della vita in cui il numero delle cellule adipose aumenta significativamente: a) l'ultimo semestre di gestazione; b) il primo anno di vita; c) l'inizio del periodo adolescenziale; d) negli adulti questo fenomeno si può verificare solo durante il passaggio da un'obesità moderata (BMI >30)  ad una obesità  grave (BMI >35).

Ad eccezione di tali casi, i cambiamenti della composizione corporea si verificano per la sola variazione del volume di grasso contenuto nelle singole cellule adipose.

Al di fuori dei casi citati, l’aumento di volume degli adipociti provoca un processo diverso dallo “sdoppiamento" (iperplasia): una morte cellulare per sbilancio metabolico (organelli inadeguati e compressi alla periferia), a cui segue un attacco immunitario. In particolare, l'azione dei macrofagi sulla cellula adiposa porta alla liberazione di sostanze infiammatorie chiamate in causa nella fisiopatologia delle più comuni malattie associate all'obesità (come i diabete). Secondo questa ed altre visioni, è molto meglio avere molti adipociti piccoli, piuttosto che poche cellule adipose di grande volume (soprattutto a livello viscerale).

 

 

 

Abbandonate la dieta a base di carne e sostituitela con una a base di pesce

 

Sui possibili effetti benefici dell'olio di pesci di mare (salmone, sar¬dine, merluzzo e sgombro) ha cominciato a concentrarsi l'attenzione quando si è notato che alcune popolazioni, la cui dieta è ricca di questi alimenti, risultavano praticamente immuni da malattie delle arterie coronarie. Tra gli esquimesi della Groenlandia, per esempio, il tasso di morte per infarto è solo del 3,5 per cento, in confronto al cinquanta per cento dei loro vicini danesi. L'analisi delle diete di queste due popolazioni ha messo in luce che mentre gli esquimesi consumano da cinque a otto grammi al giorno di grassi polinsaturi presenti nei pesci di mare più ricchi d'olio, i danesi (e noi ameri¬cani) ne consumano meno di un grammo al giorno. Anche il quadro lipidico del sangue degli esquimesi è molto più favorevole: i tassi del colesterolo e dei trigliceridi sono più bassi e l'Hdl è più alto; il loro sangue si coagula meno facilmente e anche la pressione san¬guigna è mediamente un po' più bassa. Il merito di tutto questo è attribuito ai grassi polinsaturi di cui essi, a differenza di noi, fan¬no grande uso.

Di grassi polinsaturi ne esistono di vari tipi, a seconda della loro struttura molecolare. La maggior parte di quelli presenti nella no¬stra dieta americana appartengono al gruppo Omega-6, derivati so¬prattutto dagli oli vegetali. Gli acidi grassi polinsaturi provenienti dal pesce, invece, appartengono alla varietà Omega-3 e la loro strut¬tura biochimica è diversa. Di questi grassi ne esistono due tipi, l'acido eicosapentanoico (Epa) e, in minor misura, l'acido doco-saesanoico (Oha).

In base a queste osservazioni, gli scienziati si sono allora chiesti quali effetti potrebbe avere sugli occidentali una dieta ricca di acidi grassi del tipo Omega-3, Hanno così scoperto che ai volontari ai quali erano state somministrate integrazioni di Epa e Dha i tassi di colesterolo e trigliceridi erano diminuiti mentre l'Hdl era aumentato. E questo non è tutto. Così come avveniva per gli esquimesi, i grassi del tipo Omega-3 rendevano il sangue dei soggetti occidentali analiz¬zati meno incline alla coagulazione a causa dell'azione sulle pia¬strine. Secondo alcuni scienziati questo « effetto antipiastrinico » co¬stituirebbe appunto l'azione più importante esercitata dagli acidi grassi del gruppo Omega-3. Ora la normale coagulazione del sangue è un meccanismo molto importante che impedisce di morire dissan¬guati dopo una ferita, ma questa maggiore coagulabilità risulta dan¬nosa quando le arterie sono ostruite. L'effetto dell'Epa e del Dha sulle piastrine è assai simile a quello dell'Aspirina; questi due acidi ritardano la formazione di coaguli e contribuiscono così a prevenire l'infarto e il colpo apoplettico nei soggetti a rischio. Un'altra con¬seguenza positiva degli acidi grassi del gruppo Omega-3 è che ridu¬cono la pressione sanguigna.

Guardate un po' che pacchetto di benefici si ottiene da questi semplici oli di pesce: miglioramento dei tassi di colesterolo, trìglì¬ceridi e Hdl, ridotta tendenza al coagulamento del sangue e minore pressione arteriosa! E i pazienti affetti da angina pectoris a cui sono stati somministrati Epa e Dha, non solo hanno goduto di queste alterazioni chimiche positive, ma hanno anche segnalato minori do¬lori toracici e minor bisogno di compresse di nitroglicerina.

I più recenti dati riguardanti il pesce nella dieta sono apparsi verso la metà del 1985. Uno studio della durata di vent'anni, iniziato nel 1960, coinvolgente circa ottocentocinquanta uomini di mezza età abitanti in Olanda ha rivelato che la morte per malattie cardiache era del cinquanta per cento inferiore tra coloro che mangiavano al¬meno trenta grammi di pesce al giorno (il che fa poco più di due¬cento grammi alla settimana) rispetto a coloro che non consuma¬vano questo alimento.

Allora, è il caso o no di aggiungere questi acidi grassi del gruppo Omega-3 alla dieta? La scelta la lascio a quei miei pazienti che go¬dono di buona salute. con tassi di colesterolo al di sotto di 200, l'Hdl a 50,0 più, e che non hanno problemi di pressione. Ma a co¬loro che hanno già subìto eventi cardiaci, si tratti di angina o di infarto, o che presentano fattori di rischio elevati, la raccomando caldamente.

Il modo migliore per procurarsi questi acidi, l'Epa e il Dha, con¬siste nel mangiare pesce. Ma si possono anche comperare capsule contenenti questi oli nella maggior parte dei negozi di prodotti die¬tetici. Queste capsule sono commercializzate sotto vari nomi. Cer¬cate quelle marche che contengono soprattutto Epa, e una quantità minore di Dha, e in cui ogni capsula contiene un grammo di grassi. Poiché i dati finora ottenuti sono soprattutto sperimentali, sulle eti¬chette non compare nessuna dose «raccomandata ». La maggior parte delle avvertenze dice: « Una o più capsule al giorno », lo rac¬comando due o tre capsule al dì. Perché non di più? Soprattutto per via dei rischi che comportano i grassi presi in grandi quantità. C'è sempre il sospetto che quantità eccessive di grassi - siano essi mono-insaturi, polinsaturi, totalmente saturi, Omega-3 o Omega-6, di origine animale, ittica o vegetale - se presi per periodi di tempo troppo lunghi possano aumentare il rischio cancro specialmente della mammella e del colon. Inoltre, nonostante il minor tasso di coronaropatie, gli esquimesi e i giapponesi (i quali fanno anche loro gran consumo di pesce e presentano analoghe statistiche positive nei confronti dei disturbi cardiaci) presentano in compenso un'alta inci-denza di malattie cerebrovascolari. L'incidenza del colpo apoplet¬tico per emorragia in entrambi i gruppi è più alta di quanto sia dalle nostre parti. E non prendete queste ìntegrazìoni in capsule se avete disturbi emorragici.

 

 

 

Quale pesce comprano per la propria famiglia i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione? Lasciate stare il pescespada e passate al pesce azzurro: un vero tesoro nutritivo ad un prezzo incredibilmente basso.

 

Qualche tempo fa, un ricercatore dell’Istituto per la Nutrizione, intervistato circa il tipo di pesce che acquistava per la propria famiglia, ha dichiarato di non aver avuto esitazioni nella scelta: il pesce azzurro è saporito, costa poco e presenta concentrazioni invidiabili di acidi grassi omega-3, fosforo, iodio e ferro. Appartengono a questa categoria le alici o sardine, le sarde o palamiti, le aringhe e gli sgombri

I filetti freschi di aringhe o di acciughe – inspiegabilmente snobbati dagli italiani - costano incredibilmente poco (5 euro e mezzo o poco più al chilo), apportano solo 87 calorie per etto e sono preziose fonti di elementi nutritivi.

L'aringa (clupea harengus) è un pesce diffuso prevalentemente nell'oceano Atlantico settentrionale. Vive nei mari freddi dell'Europa settentrionale, della Groenlandia, del Canada e del Nord America. È un pesce relativamente piccolo, arriva fino a 50 cm di lunghezza, panciuto, dalla pelle argentata. La pesca dell’aringa oggi viene effettuata dai pescherecci con reti a strascico ed è abbastanza abbondante sia per la facilità di riproduzione delle aringhe (ogni esemplare femmina depone fino a 40 mila nuove larve) sia per il fatto che le stesse si muovono in branchi molto densi.

L’acciuga o alice (engraulis encrasicolus) è diffusa nell’Oceano Atlantico orientale, tra la Norvegia e il Sudafrica. È presente e comune anche nei mari Mediterrando, Nero e d’Azov. Si tratta di un tipico pesce pelagico che si può trovare anche a grande distanza dalle coste, a cui si avvicina in maggio-giugno per la riproduzione. Di solito nella stagione calda non si incontra a profondità superiori a 50 metri. In inverno frequenta acque più profonde, attorno ai 100-180 metri nel Mediterraneo. Anch’essa, come l’aringa, è un pesce abbondante e perciò poco costoso oltre che non inquinato da sostanze tossiche, perché di piccola taglia.

Anche gli sgombri freschi (scomber scombrus) e le sarde o palamite (sarda sarda) sono un ottimo pesce azzurro, sebbene i primi siano meno a buon mercato di quelli precedentemente citati.

Il pescespada sarebbe di per sé un pesce ottimo, uno dei più magri e ricchi di proteine, ma purtroppo, come il tonno, la verdesca e altri pesci di grossa taglia, tende ad accumulare nelle sue carni quantità rilevanti di sostanze tossiche (metalli pesanti come il mercurio, ma anche diossina e policlorobifenili)

 

 

 

Quali caratteristiche dovete cercare sull’etichetta di un olio di oliva allo scopo di effettuare il migliore acquisto?

 

la bottiglia deve essere di vetro e deve essere scura, per evitare il danno prodotto dagli ultravioletti

Un olio venduto con bottiglia chiara o addirittura di plastica si ossida più facilmente.

Ancora accettabili sono gli olii venduti con incarto o stagnola, purché non li si rimuovano durante l’uso.

 

non acquistate un olio di oliva non extravergine

Perché è sconsigliabile acquistare olio con denominazione “olio di oliva” invece che olio con denominazione “olio extravergine di oliva”? Perché la legge, nel caso dell’”olio di oliva”, come pure degli oli di semi, ammette il procedimento di “raffinazione”, che impiega solventi chimici. Il processo di raffinazione è utilizzato per ottenere tutti gli oli di semi non spremuti a freddo (e quindi la stragrande maggioranza degli oli di semi) e l’olio di oliva non vergine. L’olio viene estratto con l’utilizzo di calore e di solventi chimici, che vengono poi eliminati per distillazioine. Esso viene successivamente reso commestibile con l’utilizzo di sostanze alcaline che ne abbassano l’acidità, riportandola a valori accettabili.

Questo processo produce una piccola quantità di acidi grassi insaturi di tipo trans, nella misura del 5% rispetto al quantitativo totale di grassi (quindi in una bottiglia di olio di semi da un litro ci sono circa 5 grammi di grassi trans).

Questi acidi grassi trans si formano per rotazione della molecola intorno a un "doppio legame" fa diventare la naturale configurazione cis-cis una configurazione trans-cis. Questo piccolo cambiamento ha considerevoli effetti negativi sulla salute: gli acidi grassi trans rendono le cellule più permeabili, ossia qualche molecola tossica, che normalmente starebbe al di fuori, entra nelle cellule. Le funzioni immunitarie possono essere indebolite. Gli acidi grassi trans aggravano le carenze di acidi grassi essenziali, ostacolando la produzione di prostaglandine, che regola il tono muscolare delle pareti arteriose, la pressione del sangue, le funzioni renali e reagisce alle infiammazioni. Gli acidi grassi trans accrescono i livelli di colesterolo cattivo (LDL).

 

le caratteristiche qualitative che per legge deve avere l’olio extravergine sono nettamente superiori a quelle dell’olio non extravergine

Se l’etichetta reca la dicitura “ottenuto con soli mezzi meccanici” allora non c’è stato processo di raffinazione con uso di agenti chimici, ma le caratteristiche chimiche dell’olio non extravergine rimangono inferiori a quello extravergine. Date le più basse caratteristiche qualitative dell’olio non extravergine, è più probabile che siano impiegati olii o olive extracomunitarie di bassa qualità

 

acquistate un olio di oliva con dicitura “estratto a freddo” o, meglio ancora, “spremuto a freddo”.

Leggete più avanti l’illustrazione delle fasi della lavorazione dell’olio, con la spiegazione di queste due diciture

Tenete però presente una cosa: la dicitura “spremuto a freddo” non è particolarmente distintiva di un olio extravergine dall'altro, visto che quasi tutti i sistemi di spremitura meccanica, per migliorare la resa dell'estrazione, portano il mosto di olio a 27 gradi centigradi, e che la lavorazione a questa temperatura viene ancora considerata un sistema "a freddo".

 

la dicitura “ottenuto unicamente con mezzi meccanici” non ha alcun valore per l’olio extravergine, ma solo per l’olio di oliva non extravergine.

La dicitura “spremuto unicamente con mezzi meccanici” è assolutamente ingannevole e senza significato, perché qualsiasi olio extravergine deve essere ottenuto con metodi meccanici e non chimici.

 

acquistate un olio di oliva con dicitura “ottenuto da olive italiane”.

Un olio ottenuto con olive italiane presenta alcune garanzie. Anzitutto la coltivazione, il trasporto, lo stoccaggio, avvengono nel nostro Paese, dove la disciplina legislativa e i controlli agroalimentari sono molto rigorosi. In secondo luogo, per ottenere un olio di qualità le olive devono essere lavorate subito dopo la raccolta, cosa che certo non avviene nel caso di olive di provenienza extracomunitaria, o di oli extracomunitari, ottenuti secondo procedure e tempi tutti da controllare e verificare.

Grazie al Regolamento (CE) 182 del 6 marzo 2009, che modifica il Regolamento (CE) 1019/2002, è entrato in vigore, in tutti i paesi della Comunità Europea, l’obbligo di indicare in etichetta l’origine delle olive impiegate per la produzione dell’olio vergine ed extravergine di oliva. In parole povere significa che sull’etichetta del vero olio extravergine Italiano, dovranno essere riportate (obbligatoriamente) le scritte come per esempio “ottenuto da olive italiane”, “ottenuto da olive coltivate in Italia” o semplicemente “Prodotto Italiano”, mentre per i miscugli di provenienza diversa sarà specificato se si tratta di:

  “miscele di oli di oliva comunitari” (olii di paesi terzi all’interno della Comunità Europea, es. Italia e Grecia)

  “miscele di oli di oliva non comunitari (olii di paesi terzi fuori della Comunità Europea)

  “miscele di oli di oliva comunitari e non comunitari” (olii di paesi terzi all’interno e fuori della Comunità Europea).

 

le fasi della lavorazione delle olive.

Le fasi della lavorazione delle olive sono:

  pulitura e lavaggio

  frangitura o molitura

Le olive vengono frantumate con grosse macine di granito (metodo tradizionale, detto molitura) o con “martelli” (metodo detto frangitura).

  gramolatura

La gramolatura è il rimescolamento della pasta ottenuta con la frangitura, per far in modo che le microscopiche vescicole d’olio contenute nella polpa delle olive si rompano completamente rilasciando il loro contenuto.

  Estrazione

L’estrazione a partire dalla pasta prodotta dalla gramolatura del mosto di oliva dalla parte solida, chiamata “sansa”

  Separazione dellolio dallacqua

  Eliminazione delle impurità per decantazione o filtrazione

 

i procedimenti “meccanici” utilizzati per la lavorazione delle olive

I procedimenti utilizzati sono di tre tipi:

 

  Metodo tradizionale

Questo sistema sta sempre più scomparendo per gli alti costi della manodopera e per il maggior tempo impiegato.

Le olive vengono frantumate da macine di granito che girano lentamente a temperatura ambiente.

La pasta così ottenuta viene rimescolata nella “gramola”, una vasca lunga e stretta con un’asse centrale munito di lame impastatrici in rotazione continua. La pasta, durante il rimescolamento viene portata ad una temperatura non superiore a 27° centigradi per facilitare l’estrazione dell’olio.

Il mosto d’olio viene separato dalle sanse attraverso una filtrazione per effetto di pressione. La pasta d'olio viene disposta su strati sottili alternati a diaframmi filtranti in una torre con un asse centrale cilindrico cavo chiamato “foratina”. Un diaframma filtrante costituito da un disco in fibra sintetica forato al centro viene infilato lungo la foratina. Sul primo diaframma, adagiato sul fondo del piatto, si dispone uno strato di pasta d'oliva spesso 3 cm, si sovrappone un secondo diaframma e un secondo strato di pasta e così via. Ogni tre strati di pasta si sovrappone un diaframma senza pasta e un disco d'acciaio allo scopo di distribuire uniformemente la pressione. A questo punto la torre viene inserita nella pressa e sottoposta a una pressione dell'ordine di 400atm, per effetto della quale il mosto d'olio si separa dalla frazione solida, chiamata “sansa”.

L’olio viene poi separato dall’acqua poi privato delle impurità tramite filtrazione o decantazione

Quest’olio viene denominato come “spremuto a freddo”. La normativa definisce la spremitura a freddo: “Procedimento meccanico che consiste nella compressione della pasta di olive, senza l'aggiunta di acqua calda o il riscaldamento della pasta stessa” (da ricordare che la pasta viene riscaldata in fase di gramolatura).

  Metodo continuo

E’ il metodo più largamente impiegato. Viene chiamato “continuo” perché il sistema è costituito da un insieme di macchinari colleti tra loro in modo che si passa immediatamente da una fase all’altra, senza interruzioni.

Le macchine collegate sono quattro: il frangitore, la gramola, il decanter, il separatore.

Il frangitore è dotato di “martelli” (in realtà dei dischi rotanti con spigoli vivi detti martelli, che ruotano a 3000 giri al minuto) che riducono le olive in pasta d’olio.

La pasta d’olio passa poi nella gramola dove viene mantenuta ad una temperatura non superiore a 27° centigradi.

Dalla gramola la pasta diluita con acqua passa in una centrifuga estrattiva a tamburo orizzontale, chiamata normalmente “decanter”, che separa la sansa dal mosto d’olio.

Infine, un dispositivo detto “separatore”, infine, convoglia verso direzioni diverse l'acqua immessa nel decanter, l'acqua di vegetazione (quella contenuta dalle olive all'origine) e l'olio.

L’olio viene poi privato delle impurità tramite filtrazione o decantazione

Quest’olio viene denominato come “estratto a freddo”. La normativa definisce la estrazione a freddo: “Procedimento meccanico durante il quale la pasta viene mandata al decanter che estrae le diversi fasi e quindi l'olio in base al principio fisico della centrifugazione in base alla differenza di densità”. Anche qui ricordiamo che la pasta viene riscaldata in fase di gramolatura.

E’ opinione unanime degli esperti che una temperatura di 27° centigradi non danneggia il prodotto e permette di estrarre dalla pasta la maggior quantità di sostanze aromatiche senza comprometterne la qualità. Senza l’ausilio della temperatura gli oli sarebbero molto meno aromatici, cioè quasi piatti al gusto e all’olfatto.

  Vi è inoltre il sistema di estrazione a percolamento che sfrutta la differente tensione superficiale dell'olio e dell'acqua di vegetazione presenti nella pasta gramolata. Si lasciano affondare nell'impasto dei pettini in lamine d'acciaio che bagnandosi d'olio lo raccolgono fino a farlo sgocciolare in un apposito contenitore evitando così il ricorso a operazioni di pressatura.

 

Questi tre sistemi sono quelli che a norma di legge sono definiti “sistemi meccanici” di lavorazione delle olive.

 

quanto costa un olio di qualità

Secondo le affermazioni di produttori di olio di qualità, un olio extravergine di oliva spremuto o estratto a freddo nel rispetto dei punti sopra descritti, non può costare meno di 12 Euro la bottiglia da un litro.

 

la classificazione degli olii stabilita dalla normativa europea

 

denominazione acidità (perossidi)

 

Olio extravergine di oliva  ≤ 0,8  ≤ 20 - Ottenuto con estrazione con soli metodi meccanici

Olio vergine di oliva  ≤ 2,0  ≤ 20 - Ottenuto con estrazione con soli metodi meccanici

Olio di oliva lampante  > 2,0  - Ottenuto con estrazione con soli metodi meccanici ma non è utilizzabile per il consumo alimentare

Olio di oliva raffinato ≤ 0,3  ≤ 5  - Ottenuto tramite rettificazione di olii vegetali lampanti con metodi fisici e chimici e successiva raffinazione

Olio di oliva composto di oli di  oliva raffinati e di oli di oliva  vergini  ≤ 1,0  < 15

Olio di sansa di oliva greggio - Ottenuto con estrazione con solvente dalle sanse

Olio di sansa di oliva raffinato  ≤ 5  M 5 - Ottenuto tramite raffinazione

Olio di sansa di oliva ≤ 15 < 15

 

Per il produttore è facoltativo indicare sull'etichetta della confezione il grado di acidità del prodotto.

La misura dei perossidi è importante, perché rivela il grado di ossidazione (irrancidimento) che ha subito l’olio, e che è minimo se le olive sono state subito lavorate e l’olio correttamente stoccato.

La classificazione merceologica ufficiale stabilita dal regolamento comunitario n. 356/ 92 prevede quattro distinte categorie di oli di oliva per la commercializzazione al minuto:

  L'olio extravergine di oliva, ottenuto da una lavorazione effettuata con l'esclusivo impiego dì mezzi meccanici (frangitura, spremitura, separazione), dal gusto assolutamente perfetto, punteggio organolettico uguale o superiore a 6,5 e un'acidità libera espressa in acido oleico inferiore allo 0,8 %.

  L'olio vergine di oliva, ottenuto mediante procedimenti meccanici, dal punteggio organolettico uguale o superiore a 5.5 e corrispondente a un gusto perfetto con un'acidità libera espressa in acido oleico inferiore al 2%; (nella fase della produzione e del commercio all'ingrosso, può essere usato il termine "vergine fino").

  L'olio di oliva, ottenuto da un taglio di olio di oliva raffinato e di oli di oliva vergini diversi dall'olio lampante, ha un'acidità libera che non può superare l'1 %.

  L'olio di sansa di oliva, ottenuto da un taglio di olio di sansa di oliva raffinato e di oli di oliva vergini diversi dall'olio lampante, ha un'acidità libera inferiore all'1 %.

 

acidità di un olio

L’olio di oliva è costituito per la quasi totalità (98-99%) da trigliceridi, cioè esteri formati da glicerina e acidi grassi a lunga catena (prevalentemente 16 e 18 atomi di carbonio).

Una parte degli acidi grassi, tuttavia, si trova allo stato libero (cioè non legato alla glicerina) ed è proprio questa frazione, di solito molto piccola, che determina l'acidità libera di un olio.

La misura dell'acidità di un olio è probabilmente la più antica e più diffusa determinazione cui si fa riferimento per la classificazione merceologica. Sebbene da sola non sia sufficiente a definire compiutamente la qualità di un olio, fornisce tuttavia elementi utili a valutare lo stato delle olive al momento della loro trasformazione. L’aumento dell'acidità libera infatti è dovuto essenzialmente ad un enzima specifico, la lipasi, che si trova nell'oliva ed esercita la sua attività nel momento in cui entra in contatto con l'olio.

In condizioni normali l'olio presente nell'oliva è contenuto in vacuoli, sorta di sacchi intracellulari, che proteggono con una membrana ogni singola gocciolina microscopica. Quando, per cause accidentali o per la frangitura, i vacuoli si rompono, l'olio entra in contatto con l'enzima che esercita la sua attività secondo lo schema:

 

trigliceride + lipasi + acqua    =   digliceride + acido grasso libero

 

L’azione della lipasi può continuare anche a carico dei digliceride, liberando ancora più acidi grassi. L’attività dell'enzima è favorita da temperature relativamente alte e raggiunge il culmine intorno ai 35-40°C, mentre si riduce coi discendere della temperatura fino ad arrestarsi intorno a O°C. Comunque l'aumento dell'acidità libera di un olio può avere luogo fin quando nel mezzo sono presenti l'enzima e l'acqua. Dunque è importante assicurare la massima integrità delle olive sia nella fase di raccolta sia durante il trasporto e la conservazione prima della frangitura; è poi fondamentale la tempestività e il controllo delle condizioni termiche nelle fasi di lavorazione della pasta e nel corso dell'estrazione, è essenziale infine la perfetta separazione finale olio-acqua di vegetazione. Per la legislazione un olio extra vergine deve avere una acidità libera massima dell’1% (0,8% da novembre2003). Oli extra vergini DOP < di 0,6 %. Oli extra vergini di alta qualità DOP o no,  non superano lo 0,3-0,4%.

 

perossidi in un olio

I perossidi sono espressi in milliequivalenti di ossigeno attivo per chilogrammo (mcq/02/kg).

Questo parametro misura lo stato di ossidazione dell'olio. Tutte le sostanze grasse sono sottoposte al fenomeno dell'ossidazione che, se non controllato e limitato, progressivamente altera profondamente la struttura chimica dei trigliceridi, con formazione di composti volatili dall'odore e sapore sgradevole, il rancido (un difetto grave nella valutazione di un olio).

L'ossidazione di un olio dipende da una serie di fenomeni che possono avvenire in due momenti diversi, vale a dire o nel corso delle pratiche colturali, di raccolta, stoccaggio e lavorazione delle olive; o nel corso della conservazione dell'olio.

Lo stesso fenomeno ha, nei due casi, origini diverse. Il numero di perossidi in un olio fresco, appena prodotto, è dovuto all’azione catalitica di un enzima la lipossidasi che è in grado di legare chimicamente l'ossigeno dell'aria agli acidi grassi insaturi dei trigliceridi (ossidazione enzimatica). Come nel caso dell'acidità libera, anche questo fenomeno è favorito dal degrado dello stato sanitario delle olive e, in particolare, da lesioni cellulari dei frutto che permettono il collegamento fra l'olio e l'enzima (presente nella fase acquosa) che esercita la propria azione finché c'è contatto dell'olio con le acque di vegetazione e ciò avviene, appunto, nelle fasi di raccolta, stoccaggio e lavorazione delle olive. La temperatura continua a giocare un ruolo importante nell'accelerare o rallentare l'azione dell'enzima, seppure la lipossidasi risulta attiva anche a temperature molto basse (-40°C). Ecco dunque la causa della scadente qualità e dell'elevato numero di perossidi di oli ottenuti da olive, raccolte tardivamente, che hanno subito danni da gelo.

L’olio vergine di oliva, al pari di tutte le altre sostanze grasse, è sottoposto comunque a fenomeni di ossidazione chimica, che non necessita dell'azione di enzimi. La semplice presenza dell'ossigeno dell'aria può dar luogo, durante la conservazione dell'olio, a formazione di idroperossidi, secondo un meccanismo che prevede la formazione di radicali liberi.

La reazione, una volta iniziata, procede a catena con formazione di nuovi radicali favorita dalla luce, dal calore e dal contatto dell'olio sia con l'ossigeno atmosferico sia con alcuni metalli (ferro, rame, nickel) che agiscono da catalizzatori.

Gli idroperossidi sono molecole molto instabili la cui facile decomposizione dà luogo alla formazione di composti volatili (aldeidi e chetoni) responsabili dei irrancidimento.

Un olio che ha un elevato contenuto di idroperossidi tenderà quindi, a parità di condizioni, ad irrancidire più rapidamente di un altro che ne contiene una quantità minore. Pertanto risulta ancora una volta l'importanza dei rispetto delle corrette procedure di produzione, dalla coltivazione, alla raccolta, alla frangitura, e di conservazione dell'olio, evitando che esso sia esposto alla luce, all'aria e a temperature superiori a 16-18°C.

Fra le sostanze grasse, tuttavia, l'olio vergine di oliva presenta una buona resistenza all'ossidazione in ragione: della sua composizione acidica e dei suo contenuto di antiossidanti naturali.

Come accennato, l'ossidazione enzimatica si esplica a carico degli acidi grassi insaturi (caratterizzati dalla presenza di doppi legami fra gli atomi di carbonio della catena). L’olio di oliva contiene un'alta percentuale di acidi monoinsaturi (principalmente acido oleico) e solo pochi poliinsaturi (linoleico e linolenico). Questi ultimi assorbono l'ossigeno più velocemente dei primi e questo spiega perché gli oli di semi, che contengono una percentuale molto più alta di acidi poliinsaturi, si conservano meno. Inoltre l'olio vergine di oliva possiede una buona quantità di sostanze fenoliche, caratterizzate da un forte potere antiossidante e perciò in grado di bloccare la formazione dei radicali liberi e perossidici secondo lo schema seguente:

 

i polifenoli dell’olio di oliva

Il patrimonio polifenolico è la caratteristica più preziosa dell'olio vergine di oliva, unico fra i grassi vegetali a esserne ricco. Tali sostanze, che contribuiscono a conferirgli il caratteristico aroma fruttato e il gusto piccante e amaro, sono dotate di un elevato potere antiossidante. l'extravergine, grazie a questi componenti, è il grasso più conservabile e dotato di più alto valore biologico. Per questi motivi, la determinazione quanta qualitativa dei contenuto polifenolico degli oli vergini di oliva rappresenta una delle analisi più significative ai fini della determinazione di parametri di qualità. Oli extra vergini devono contenere una quantità di polifenoli >   di 150 mg/kg. Oli extra vergini di alta qualità DOP o no, dovrebbero superare questo valore. In annate medie in Umbria è possibile trovare oli di qualità con polifenoli > di 200 mg/kg.

 

indicazioni per la conservazione dell’olio

L’olio extra-vergine di oliva, come tutti i prodotti di qualità, ha una durata ben definita. La vita dell'olio è contraddistinta nel seguente modo:

Olio fresco (dalla spremitura al quarto mese), olio giovane (dall'ottavo al dodicesimo mese), olio di secondo anno (fino a 24 mesi), olio vecchio (fino al terzo anno), olio "decrepito" (oltre il terzo anno).

Con l’invecchiamento l’olio peggiora ed è buona regola consumarlo nello stesso anno solare di produzione. Il gusto dell'olio ad inizio stagione, appena spremuto, appare troppo forte in quanto si mantiene ancora il sapore del frutto e si avverte in gola una sensazione di asprezza, ma trascorsi alcuni mesi (dal terzo in poi), l'olio comincia ad esprimere il meglio della sua personalità e le qualità organolettiche raggiungono l'optimum. Dopo questa fase che si protrae fino ai dodici mesi, l'olio inizia lentamente la sua parabola discendente.

Normalmente l’olio conservato correttamente nei contenitori (preferibilmente di vetro) ancora sigillati, arriva senza problemi al secondo anno di invecchiamento; esso contiene per natura antiossidanti che lo proteggono dall’irrancidimento, anche se la loro azione si affievolisce con il passare del tempo. La presenza di queste sostanze antiossidanti (tra le quali i composti fenolici ed i tocoferoli) può essere vanificata se non vengono rispettate alcune regole nella sua conservazione.

In primo luogo, l’olio va protetto dalla luce e dal calore, e la bottiglia, una volta cominciata, va conservata ben chiusa: questo è indispensabile per proteggere le estremamente labili sostanze antiossidanti contenute nell’olio. Una volta esposto al contatto con l’aria esso va consumato in un tempo ragionevolmente breve, sempre richiudendo il contenitore dopo l’uso col tappo. Il freddo non provoca alterazioni nella struttura e conservabilità dell’olio.

 

 

 

Uova arricchite con omega-3: fanno bene?

 

Le uova arricchite con omega-3 provengono da allevamenti dove alle galline sono somministrati anche semi di lino, ricchi di omega-3. A priori (a parte un possibile alto costo) non si vede la ragione di non inserire questo tipo di alimento nella nostra dieta. La “inserzione” degli omega-3 nel tuorlo d’uovo è senz’altro più naturale della aggiunta di olio di pesce distillato che viene fatta a molti alimenti in commercio arricchiti di omega-3. Tra l’altro, come detto in un altro articolo di questo documento, gli oli di pesce a basso costo non sono microfiltrati né sottoposti a controlli di qualità, e quindi possono contenere percentuali molto alte di metalli pesanti, che purtroppo si accumulano nel grasso corporeo di esseri umani e animali. Nessun pericolo del genere si corre consumando gli omega-3 assunti da una gallina che mangia semi di lino.

Le raccomanda addirittura la professoressa Artemis Simopoulos, scienziata di fama mondiale, specialista, tra l’altro, degli studi sugli omega 3 ed esperta mondiale della dieta mediterranea. Dal 1978 al 1986 ha presieduto la commissione di coordinamento per l’alimentazione dell’autorevole National Institute of Health negli USA. Ha partecipato a innumerevoli delegazioni su incarico della Casa Bianca. Ha all’attivo oltre 250 pubblicazioni scientifiche. E’ inoltre fondatrice e presidente del Center for Genetics, Nutrition and Health, con sede a Washington. Il fatto che il suo nome figuri in ben 11 guide Who’s Who può dare un’idea della sua instancabile attività al servizio della ricerca scientifica. Ha scritto un libro di divulgazione destinato al grande pubblico intitolato The Omega Diet.

Gli omega-3 nelle uova di gallina non sono una aggiunta artificiale: le uova della galline di una volta, lasciate libere di razzolare e di nutrirsi con vermi, insetti e piante selvatiche, erano ricche di omega-3. Nella carne dei volatili selvatici (cacciagione) si ritrovano elevati livelli di omega-3.

Un apporto di omega-3 può servire a riequilibrare il rapporto sbilanciato tra omega-3 e omega-6 della dieta occidentale contemporanea.

Nel corso dell’evoluzione, col passare dei secoli, sono mutate radicalmente sia il contenuto totale di grassi che la percentuale dei vari acidi grassi nell’alimentazione. Le trasformazioni più drastiche e repentine si sono verificate negli ultimi cento anni.

Originariamente l’apporto di grassi derivava quasi interamente dall’alimentazione, e quest’ultima consisteva principalmente negli animali selvatici che venivano cacciati e nei pesci pescati nei fiumi. Sia la carne degli animali che quella dei pesci, a quel tempo, conteneva una percentuale di grassi saturi molto inferiore a quella odierna.

Inoltre il rapporto fra acidi grassi omega 6 e omega 3 era perfettamente bilanciato, in quanto gli animali vivevano allo stato brado e si nutrivano di piante selvatiche. Al giorno d’oggi, invece, la carne degli animali d’allevamento contiene una dose di grassi omega 6 molto maggiore rispetto a quella dei grassi omega 3 perché vengono nutriti con cereali. I cereali sono ricchi di omega 6 mentre nelle piante selvatiche la proporzione tra i due tipi di acidi grassi è equilibrata.

Anche la composizione lipidica del pesce è mutata al giorno d’oggi: le carni dei pesci allevati negli impianti di piscicoltura, rispetto a quelli selvatici, contengono più grassi saturi, più grassi omega 6 e meno grassi omega 3. Anche in questo caso tutto dipende dai mangimi utilizzati. Il problema è che, comunque, le risorse ittiche dei mari cominciano a scarseggiare e si rischia di depauperarle ulteriormente con una pesca eccessiva. I pesci di allevamento restano quindi pur sempre una delle migliori fonti di grassi omega 3. Anche nel pollame si riscontra un’analoga tendenza. In passato, quando i polli e le galline razzolavano liberi nell’orto e sull’aia, si nutrivano di lombrichi, erbe e chicchi di piante selvatiche, tutti alimenti ricchi di omega 3. Anche nelle uova di queste galline che si procuravano da sole il cibo il contenuto di omega 6 e di omega 3 era equilibrato, pari a 1:1. Attualmente, nelle uova di animali nutriti con i mangimi a base di cereali la dose di omega 6 è 20 volte superiore a quella di omega 3.

Perché è importante che il rapporto tra omega 3 e omega 6 sia bilanciato? Originariamente, nel corso dell’evoluzione, il rapporto tra queste due categorie di acidi grassi è rimasto a lungo di 1:1. Gli acidi grassi omega 6 e omega 3 sono entrambi precursori e costituenti degli eicosanoidi, sostanze simili a ormoni prodotte dall’organismo che regolano numerose funzioni vitali. Gli eicosanoidi derivati dagli omega 6 favoriscono l’emocoagulazione, l’aggregazione piastrinica e i processi infiammatori. Provocano inoltre costrizione a livello dei vasi sanguigni, ossia la diminuzione del calibro e di conseguenza l’innalzamento della pressione arteriosa. Gli eicosanoidi derivati dagli omega 3, invece, esplicano azioni di segno opposto: anticoagulante, antiaggregante, antinfiammatoria e vasodilatatoria. Entrambe le funzioni sono importanti e necessarie, ma il nosro organismo deve poter disporre dei due tipi di lipidi in dosi molto bilanciate. Chi segue una alimentazione tipicamente occidentale tende già a produrre quantità eccessive di messaggeri biochimici che favoriscono i processi di aggregazione piastrinica, protrombotici e proinfiammatori. In molte malattie croniche l’eccesso di eicosanoidi derivati dagli omega 6 assume un ruolo decisivo. La cosa peggiore che si può fare, in questi casi, è nutrirsi in modo tale da squilibrare ulteriormente la produzione delle suddette sostanze.

L’eccesso di omega 6 può bloccare la sintesi di omega 3 da parte dell’organismo. Ecco cosa accade: se si mangiano troppi grassi omega 6, per esempio facendo uso di condimenti come olio di germi di mais o margarina, la trasformazione dell’acido alfa-linolenico in EPA e DHA viene rallentata. Questo avviene perché l’organismo impiega gli stessi enzimi, disponibili in quantità molto limitata, per metabolizzare sia gli omega 6 che gli omega 3. In tal modo l’eccesso di omega 6 impedisce il metabolismo degli utili omega 3.

Ciò significa che è decisamente consigliabile ridurre l’apporto di grassi omega 3 nell’alimentazione. E’ raccomandabile limitare l’assunzione di grassi omega 6 e aumentare invece il più possibile la dose di omega 3.

L’olio extravergine di oliva ha un contenuto elevato di grassi monoinsaturi e un bassissimo contenuto di omega 6. Per questa ragione, consumando dosi abbondanti di olio extravergine di oliva, si favorisce l’accumulo di omega 3 a livello cellulare. Gli enzimi necessari per il metabolismo degli omega 3 risultano così disponibili.

L’alimentazione mediterranea, sostituendo nella dieta i grassi saturi con l’olio di oliva, ottiene comunque una diminuzione del colesterolo dannoso LDL, lasciando invariati i livelli di HDL. L’olio extravergine di oliva è effettivamente l’unico olio che, assunto in dosi abbondanti, non abbassa i valori di HDL. Inoltre contribuisce a stabilizzare la componente lipidica delle LDL limitandone l’ossidazione, ossia l’irrancidimento. L’olio di semi di girasole, al contrario, aumenta l’ossidazione dei lipidi ematici. I grassi ossidati, in particolare, favoriscono la formazione dei depositi ateromatosi lungo le tuniche arteriose.

L’infiammazione cronica dei vasi sanguigni sembra essere uno dei principali fattori di incidenza delle malattie cardiovascolari. Per molti anni abbiamo concentrato l’attenzione esclusivamente su colesterolo e trigliceridi, considerati come unici fattori di insorgenza delle malattie cardiovascolari.

Gli studi scientifici condotti negli ultimi vent’anni, tuttavia, hanno dimostrato che non è vero, che si tratta solo di uno tra i molti fattori che concorrono a determinare queste patologie. Il meccanismo, in sintesi, è il seguente:

  Il fattore scatenante di una coronaropatia può essere una lesione in un punto della parete arteriosa, che a sua volta ne determina linfiammazione. Se, tuttavia, lapporto di omega 3 è adeguato, le pareti dei vasi sanguigni risultano molto più duttili ed elastiche e, pertanto, complessivamente meno soggette a lesioni.

  Gli acidi grassi omega 3 hanno un effetto antinfiammatorio e riducono quindi linfiammazione a carico dei vasi sanguigni. Ciò limita, a sua volta, laggregazione di piastrine, globuli bianchi e fattori di crescita che, insieme, concorrono alla formazione di depositi e al conseguente restringimento del lume dei vasi.

Gli esseri umani e le specie animali, nel corso dell’evoluzione, hanno sempre tratto gli acidi grassi essenziali di cui hanno bisogno dalle piante selvatiche. E’ quindi sensato chiedersi quale azione svolga l’acido alfa-linolenico, uno dei principali grassi della categoria omega 3 nel nostro metabolismo. Anzitutto ha una funzione antiaggregante e antitrombotica, preservando così l’integrità delle pareti dei vasi sanguigni da eventuali danni e lesioni.

Inoltre, l’acido alfa-linolenico rende le piastrine meno viscose, ossia meno soggette ad aderire alle pareti dei vasi sanguigni, formando placche ateromatose che possono determinare l’occlusione parziale o totale delle arterie. L’acido alfa-linolenico assolve quindi, già di per sé, dunque, ad alcune utili funzioni. Ma non basta. Esso viene metabolizzato dall’organismo e trasformato in EPA e in eicosanoidi, che esercitano un’azione antinfiammatoria.

L’apporto di omega 3 nell’alimentazione si può aumentare mangiando pesce due o tre volte la settimana. Le varietà di pesce di mare che vivono in acque fredde sono le più ricche di omega 3. Ovviamente sarebbe anche auspicabile che nel settore zootecnico si utilizzassero mangimi con una composizione più bilanciata, affinché nella carne e nelle uova il rapporto tra omega 6 e omega 3 fosse più equilibrato. In commercio vi sono già uova arricchite con omega 3. Ulteriori importanti fonti di omega 3 sono l’olio di lino, l’olio di colza e l’olio di noce. Un’ulteriore possibilità di integrazione è aggiungere semi di lino al pane e ad altri prodotti da forno.

 

 

 

Tè verde o tè nero?

 

Per quanto si moltiplichino gli studi finanziati dai produttori di the nero, pare che non vi sia niente da fare: le proprietà antiossidanti, anticancro e anti-infarto appartengono in modo predominante al the verde. Uno studio recente mostrerebbe che il consumo di the nero è preventivo del diabete, ma l'efficacia su questo come su tutti i fronti è inferiore a quella del the verde.

Il tè verde si produce tuttora in modo artigianale, subendo quindi pochissime trasformazioni. È una bevanda completa e contiene tante catechine, che fanno parte della famiglia dei polifenoli (un terzo del peso delle foglie è costituito dai polifenoli). Le catechine proteggono la salute: hanno proprietà antitumorali e sono utili nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Nello specifico, le catechine del tè verde rallentano la crescita delle cellule tumorali, e dunque capite che non si tratta solo di prevenzione, ma di un’attività diretta di supporto alla cura.

Il contenuto in catechine del tè verde dipende dal luogo di coltivazione, dal tipo di pianta, dal momento del raccolto e dal processo di fabbricazione: alcune particolari catechine, per esempio, sono maggiormente presenti nel tè verde giapponese. Il tempo di infusione delle foglie, in ogni caso, deve essere superiore ai cinque minuti. Ogni tè verde in commercio ha potenzialità differenti nella protezione e nell’azione contro il cancro: tè verde di buona qualità, lasciato in infusione per almeno dieci minuti, è in grado di offrire il massimo delle proprie catechine «buone».

I tè sono suddivisi in quattro categorie: neri o rossi, verdi, Oolong e, infine, bianchi o gialli. Queste differenze non dipendono dalla diversità della pianta di provenienza, dato che la pianta del tè è una sola, una pianta sempreverde della famiglia delle camelie, la Camellia sinensis, quanto dai diversi metodi di lavorazione. Da questi quattro « colori», o categorie, si possono ottenere molte varianti se combinati con fiori, frutta o mescolati fra loro.

Il tè nero, chiamato rosso dai cinesi, è un tè fermentato. Dopo la raccolta le foglie vengono fatte appassire, distese su griglie ventilate ad aria calda. Successivamente vengono arrotolate su se stesse in modo tale che le foglie si « spezzino» e possa, così, cominciare il processo di fermentazione. Quest'operazione è la più delicata e la più importante nella preparazione del tè nero. Da una buona fermentazione dipendono, infatti, l'acidità, gli aromi e il colore. Le foglie vengono, poi, fatte essiccare, in modo da bloccare la fermentazione e permettere che conservino tutte le loro proprietà organolettiche (gusto, colore, profumo, consistenza ... ). Si arriva, quindi, all'operazione conclusiva, quella della selezione che consente di classificare le foglie. Di tutte le varietà dei tè neri, il Pu-Erh è quello che grazie alle sue proprietà medicinali, si avvicina maggiormente al tè verde.

Il tè verde è un tè non fermentato: ciò significa che il processo di fermentazione è stato bloccato sul nascere. Subito dopo la raccolta, le foghe sono passate al vapore o tostate; poi essiccate e. arrotolate. Questo procedimento molto semphce impedìsce la fermentazione, fondamentale, invece, per i tè neri. Il metodo a vapore è un metodo tradizionale molto praticato dai giapponesi e in uso soltanto in qualche rara provincia cinese. Per semphficare: si può, dunque, distinguere tra tè verde cinese, tostato, e tè giapponese a vapore.

Da sempre, in Oriente, il tè, di qualsiasi tipo si tratti, è considerato una vera e propria panacea: stimola la concentrazione mentale, diminuisce la fatica, procura longevità. A partire dal XIX secolo, con l'affermarsi della medicina scientifica, furono pubblicati i primi studi sulle virtù terapeutiche del tè. Esso è indicato tanto per i problemi cardiovascolari quanto per i disturbi digestivi ed epatici. Altri studi mostrano, inoltre, che il tè è ricco di antiossidanti, sostanze che proteggono l'organismo dall'assalto dei radicali liberi, fra i maggiori responsabili dell'invecchiamento.

Ma il tè verde, che non è fermentato e che subisce un minor numero di trasformazioni rispetto agli altri tipi di tè, possiede proprietà terapeutiche ancor più sorprendenti. 

È sufficiente berne con regolarità una tazza al giorno. Sarete voi stessi a stabilire la quantità che fa al caso vostro: in base al tempo che avete a disposizione e in base alla vostra soglia di tolleranza alla teina. Perché è proprio questo derivato della caffeina, l'unica controindicazione del tè: se eccedete, è possibile che vi renda nervosi, vi procuri palpitazioni e vi causi insonnia. Se amate un tè piuttosto forte, limitatevi a tre tazze al giorno, evitando di berlo nel tardo pomeriggio. Se il vostro obiettivo è, invece, quello di dimagrire o di curarvi, è evidente che sarà necessario aumentarne la quantità. In tal caso, dovrete scegliere un tè a basso contenuto di teina, da bere sei o sette volte al giorno.

Da molto tempo, il tè è stato oggetto di ricerca da parte di studiosi nel tentativo di comprenderne i «misteri chimici ». La teina fu scoperta, per la prima volta, nel 1827 dal francese Jean-Baptìste Oudry, sette anni dopo la caffeina. Sono, dunque, quasi due secoli che gli scienziati cercano d'individuare tutte le straordinarie sostanze che compongono questa «enigmatica» bevanda. E ogni anno una nuova sostanza viene scoperta, e soprattutto quasi sempre compatibile con quelle prodotte dal corpo umano - il che spiega il rapido assorbimento del tè. È stata dimostrata, sino adesso, la presenza di tannini, metilxantine, polifenoli (catechina, flavonoidi), caffeina, vitamine (A, B ed E), oligoelementi (fosforo, manganese, potassio, fluoro, rame, sodio...), carboidrati e amminoacidi e naturalmente la teina. La presenza nei germogli di acidi organici, quali l'acido citrico, tartarico e malico, è responsabile di quell'aroma particolare che molto spesso si sprigiona dal tè verde. Sono tutte queste sostanze, ma soprattutto la loro combinazione che fanno sì che il tè verde, molto più ancora del tè nero agisca direttamente sul sistema immunitario, sanguigno, nervoso e digestivo.

Ecco i tempi di infusione dei vari the:

 

Il tè bianco richiede una temperatura di infusione di 79-85 °C e un tempo di 1-3 minuti.

Il tè verde richiede una temperatura di infusione di 82 °C e un tempo di 2-3 minuti.

Il tè nero richiede una temperatura di infusione di 97 °C e un tempo di 3-5 minuti.

Il tè Darjeeling richiede una temperatura di infusione di 85 °C e un tempo di 3 minuti.

Il tè Oolong richiede una temperatura di infusione di 85-97 °C e un tempo di 3-5 minuti.

 

Ecco un elenco delle proprietà del the verde:

  Stimolante della concentrazione e dell'umore

I grandi tè verdi sono ricchi di teina. Questa sostanza, che non è altro che una variante della caffeina, è solubile nell'acqua e, se il tè è di buona qualità, al momento dell'infusione, forma un sottilissimo velo in superficie. Proprio come la caffeina, la teina stimola il sistema nervoso, cerebrale e sanguigno, ma ha il grande vantaggio di essere biodisponibile - cioè facilmente assorbibile e utilizzabile - per un tempo più prolungato. La caffeina, infatti, ha un potere eccitante immediato, ma di breve durata. li tè, invece, e in particolare il tè verde, ha effetti stimolanti più blandi, ma che si protraggono nel tempo. In ogni caso le proprietà terapeutiche del tè verde non sono legate esclusivamente alla teina, ma alla totalità dei componenti che lo costituiscono.

  Abbronzatura

Se siete amanti della tintarella, ma soprattutto se desiderate prolungare la vostra abbronzatura, sostituite il vostro tonico abituale con un'infusione ben filtrata di tè, alla quale aggiungerete alcune gocce di limone. Mi raccomando, applicate questa miscela soltanto nelle stagioni in cui c'è poca luce o quando siete perfettamente abbronzate, ma mai prima dell'esposizione al sole, in quanto il limone è fotosensibilizzante e rischia di macchiare la pelle.

  Acutezza visiva

Nell'antica Cina si credeva che il tè migliorasse la . vista. La spiegazione che oggi gli scienziati danno di questa teoria è che nel tè è contenuta la provitamina A. Ma non solo ... È presente la vitamina B1 che, oltre a giovare al sistema nervoso, agisce direttamente sui nervi ottici, tanto che viene prescritta nei trattamenti, anche a scopo preventivo, delle nevriti ottiche. E vi è contenuta anche la vitamina B2 che svolge un'azione preventiva contro la diminuzione dell'acutezza visiva, in quanto contrasta il processo di opacizzazione della cornea e la xeroftalmia (secchezza della cornea e della congiuntiva con conseguente perdita di luminosità dell'occhio) .

  Allergie

Numerosi gruppi di ricercatori, studiando otto differenti varietà di tè, hanno dimostrato che il tè non solo rallentava, ma addirittura bloccava la produzione d'istamina, un composto organico derivato dall'istidina e responsabile di molte reazioni allergiche: vasodilatazione, secrezione lacrimale, asma ... Tale scoperta risulta essere ancor più interessante se si considera che, a tutt'oggi, non è stato completamente spiegato il processo di liberazione dell'istamina. Il tè verde (così come altri tè) può essere, dunque, un trattamento complementare per prevenire e curare la maggior parte dei fenomeni allergici. Una dieta mirata è quanto di più indIcato per le forme più gravi di allergie: un valido esempio di programma alimentare è quello illustrato alla voce «dimagrire ». Un'alimentazione sbagliata, infatti, può trasmettere informazioni erronee che bloccano le difese immunitarie dell'organismo, provocando reazioni alquanto spiacevoli: alcune persone ingrassano, altre sviluppano disturbi cronici, da cui le allergie.

  Antibatterico e "superdisinfettante"

L'équipe del professor Tadakatsu Shimamura del dipartimento di microbiologia e immunologia dell'università di medicina di Tokyo, ha dimostrato che il tè risultava essere uno dei rimedi più efficaci contro il colera: « È stato per caso che abbiamo scoperto che il tè verde distruggeva in pochi secondi i vibrioni, i batteri responsabili del colera ». Tale scoperta è di fondamentale importanza in quanto il colera ha effetti devastanti sull'organismo e non è stato ancora trovato un vaccino veramente efficace contro la malattia. Ma la sua importanza sta anche nel fatto che essa prova l'azione antibatterica del tè verde. Lo stesso staff di ricercatori, infatti, ha dimostrato, in vitro, che «la maggior parte dei batteri, se a contatto del tè verde, venivano uccisi in meno di ventiquattr'ore». Da allora, le ricerche sono state orientate non soltanto verso la prevenzione e la cura del colera, ma anche verso il trattamento di altre malattie infettive d'origine batterica o virale.

  Asma

Sono ancora in atto studi che dimostrino - come sostiene la tradizione - l'efficacia del tè verde contro l'asma. Proprio per la sua azione antibatterica, è indicato nella cura delle infezioni polmonari.

  Aterosclerosi e malattie cardiovascolari

L'aterosclerosi è la conseguenza del depositarsi patologico di sostanze grasse, gli ateromi, sulle pareti delle arterie. È responsabile di numerose malattie vascolari, come l'ìnsufficienza coronarica, l'infarto e altri disturbi di origine cardiaca. Le malattie cardiovascolari sono fra le principali cause di mortalità nei Paesi occidentali e i rischi aumentano notevolmente in caso di sovrappeso, ìpercolesterolemia e ipertensione. Bisogna, quindi, contrastare tutti quei fattori che possono provocare lesioni delle arterie coronarie: fumo, consumo eccessivo di sale, sedentarietà, alcol, cattiva alimentazione. Si pensi soltanto che il nostro consumo giornaliero di sale è venti volte superiore rispetto a quello richiesto dal nostro organismo. Tale eccesso non è dato tanto dalla quantità che utìlizziamo per insaporire gli alimenti, quanto al sale contenuto nei cibi già pronti, negli affettati e nelle conserve. Tuttavia, per limitare davvero rischi cardiovascolari è, comunque, necessario eliminare gli altri fattori aggravanti: fumo, colesterolo cattivo, ipertensione (il sale, dunque). E soprattutto ricordatevi di fare un po' di esercizio fisico, almeno venti minuti per tre volte la settimana, Scegliete uno sport dolce e che sia praticabile regolarmente, come la bicicletta, il nuoto, il jogging ... E naturalmente ricordatevi di bere il tè verde!

Nel 1993, uno studio aveva permesso di dimostrare che bere tre tazze di tè nero al giorno riduceva del quarantacinque percento i decessi dovuti a malattie cardiovascolari, e tale scoperta fu confermata sei anni dopo, nel 1999, da un altro studio: ancor più del caffè e del caffè decaffeinato, il consumo abituale di tè diminuiva del quaranta percento il rischio di malattie cardiovascolari.

  Cancro

Il tè contiene tante catechine, che fanno parte della famiglia dei polifenoli (un terzo del peso delle foglie è costituito dai polifenoli). Le catechine proteggono la salute: hanno proprietà antitumorali e sono utili nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Nello specifico, le catechine del tè verde rallentano la crescita delle cellule tumorali, e dunque capite che non si tratta solo di prevenzione, ma di un’attività diretta di supporto alla cura.

Il tè verde, se assunto con regolarità, può svolgere tale funzione preventiva. Il professor Waun Ki Hong, oncologo dell'Anderson Cancer Center di Houston, le cui ricerche in ambito medico sono note in tutto il mondo, è uno dei primi scienziati ad aver studiato gli effetti protettivi del tè verde contro diverse forme tumorali. Wuan Ki Hong ha, inoltre, stabilito le soglie di tolleranza dei pazienti al tè verde: dosi troppo forti determinano insonnia, irritabilità e nervosismo. Su persone neoplasiche, il tè verde, somministrato regolarmente a dosi controllate per sei mesi, è in grado di ridurre nettamente la percentuale dei rischi di cancro al colon, al pancreas e al retto. Altri gruppi di ricerca, come quello del dipartimento di patologia dell'università di Nagoya in Giappone, mostrano come il tè verde svolga un'azione preventiva sul tumore della mammella. Dagli studi condotti da un team di ricercatori dell'università di Toronto su un campione di milleduecento uomini, risulta che il consumo abituale di tè può abbassare del trenta percento il rischio di tumore alla prostata. Ma il tè verde avrebbe un ruolo importante anche nella prevenzione di altre gravi forme tumorali: della pelle, del polmone, dello stomaco, del pancreas, del retto, del colon ...

È giusto, comunque, ricordare che è stato dimostrato che anche l'uso regolare di olio d'oliva di prima spremitura a freddo e di lapacho (sotto forma di tisana) svolge un'importante azione antitumorale.

Per la regione di Shìzuoka, la principale area geografica in cui viene coltivato e lavorato il tè verde, le statistiche parlano chiaro: il tasso di mortalità per tumore è il più basso registrato in tutto il Giappone. Nella città di Nabakakawane, il tasso di mortalità maschile per cancro è cinque volte inferiore rispetto alla media nazionale.

  Carie dentaria

Una delle scoperte scientifiche più sorprendenti è senz'altro quella a cui è pervenuto un gruppo di ricercatori del dipartimento di biotecnologia dell'università di Hiroshima. Conoscendo le proprietà antibatteriche del tè verde, hanno collocato una certa quantità di streptococchi (Streptococcus mutans e Streptococcus sobrinus) in un estratto di te verde. Ciò che hanno potuto verificare è che il processo di riproduzione degli streptococchi, di solito molto veloce, si è bloccato. Tali effetti sono stati sperimentati con esiti positivi prima sui ratti, poi sull'uomo. Dimostrata, così, l'azione antimicrobica del tè verde, i ricercatori hanno potuto affermare, a ragione, che « bere tè dopo i pasti può essere di grande efficacia nella prevenzione della carie dentaria.» Il tè verde, inoltre, è ricco di fluoro, un oligoelemento che protegge lo smalto dei denti.

Far bere una tazza al giorno di tè verde ai bambini sarebbe sufficiente per ridurre del cinquanta percento l'insorgenza della carie. L'idele sarebbe far risciacquare loro la bocca con un po dì te verde, dopo essersi lavati i denti con lo spazzolino. Vi è, poi, un'altra nota positiva a favore di questa portentosa bevanda: è stato provato che Il te verde non soltanto uccide i batteri della bocca, ma ha il potere di eliminare anche il «metilmercaptano», una sostanza prodotta dai batteri stessi, responsabile dell'alito cattivo, ancor più della clorofilla. Eliminerebbe anche l'odore di tabacco.

  Colesterolo

Esistono due tipi di colesterolo: uno buono e uno cattivo. Di solito, però, quando si dice che si « ha », o si «produce» il colesterolo, si tratta, è evidente, di quello cattivo, denominato LDL. Un eccesso di colesterolo cattivo (che in una situazione di normalità dovrebbe essere « controbilanciato» da quello buono, ossia l'HDL) facilita il deposito di placche di ateroma (deposito di grasso) sulle pareti delle arterie ed è responsabile della formazione di aterosclerosi (vedi sopra). Il professore Muramatsu ha dimostrato che la catechina contenuta nel tè verde è in grado di ridurre l'eccesso di colesterolo nel sangue. Gli studi rivelano che a cavie di laboratorio, cui è stato somministrato colesterolo cattivo, è sufficiente dare nel contempo un certo quantitativo di tè verde, perché i valori rientrino nella norma! Fra i vari prodotti di comprovata efficacia contro il colesterolo, è da annoverarsi la lecitina di soia, reperibile sia in negozi specializzati sia nei reparti dietetici dei grandi magazzini (inutile dire che è molto importante verificare che la lecitina non provenga da soia geneticamente modificata). Si tratta di perline, assolutamente insapori, da spargere sugli alimenti.

  Congiuntivite

Un trucco molto semplice per eliminare questa fastidiosa infiammazione: su ogni occhio appoggiate una compressa di garza imbevuta di tè verde. Lasciate per dieci minuti.

  Depressione

La depressione può manifestarsi in numerose forme, più o meno gravi, ma qualunque sia la sua entità non deve mai essere sottovalutata. Uno choc emotivo, un problema di carattere psicologico, una situazione familiare o economica particolarmente difficile, un cambiamento sul lavoro, la menopausa, problemi di sonno e, persino, la cattiva stagione possono essere tutti fattori scatenanti o aggravanti. In ogni caso, occorre evitare l'uso regolare di ansiolitici, di tranquìllanti e di sonniferi che non solo mascherano momentaneamente il problema, ma provocano soprattutto effetti secondari disastrosi (in particolare disturbi della memoria e dell'attenzione), nonché dipendenza. La fitoterapia (con l'uso dell'iperico, il kawa-kawa, la genziana), può essere  di grande efficacia per riprendersi psicologicamente. Fra le piante che hanno effetti sicuri sulla depressione, ancora una volta, è da annoverare il tè verde.

  Diabete

Già sessant'anni fa, i medici avevano notato che il tasso di zucchero nelle urine dei pazienti ospedalizzati precipitavano letteralmente quando partecipavano al Cha No Yu, la cerimonia del tè. Il tasso di zucchero nel sangue è regolato dall'insulina, un ormone secreto dal pancreas. L'insufficienza di quest' ormone determina il diabete e può provocare seri disturbi a livello vascolare e renale. Fra le numerose proprietà del tè verde, vi è anche quella di ridurre il tasso di zucchero nel sangue (e nelle urine).

  Digestione

Il tè verde giova molto all'intestino. La costipazione è un disturbo particolarmente diffuso tra le donne e ancor più tra le persone di una certa età. Le cause principali possono essere: l'assenza di attività fisica, l'alimentazione scorretta, la poca masticazione e la scarsa idratazione. Occorre evitare l'uso prolungato di lassativi per non correre il rischio di aggravare il problema o più semplicemente di scatenare quella che viene chiamata « malattia da lassativi», che provoca ora costipazione ora diarrea, dolori addominali e meteorismo. Vegetali come fichi, rabarbaro, cavolo, radicchio e prugne secche sono considerati un toccasana per ristabilire il transito intestinale. In alternativa, potreste ricorrere anche al polline e all'ispaghul (quest'ultimo svolge anche un'azione dimagrante). Molto spesso, tuttavia, anche semplici tisane di erbe riescono a risolvere il problema con effetti sull' organismo dolci, progressivi e prolungati nel tempo. Si pensi alle tisane a base di verbasco, di malva, di violetta del pensiero selvatica, di cappuccina, di soffione... senza contare, naturalmente, il tè verde!

Il tè verde, infatti, stimola i movimenti peristaltici dell'intestino tenue e crasso, i quali hanno la funzione di spingere gli alimenti verso il retto. Il tè verde proprio perché scioglie la tensione mentale, elimina l'ossessione di dover « evacuare». Ossessione che scatena inevitabilmente il problema della costipazione. Inoltre, i polifenoli in esso contenuti svolgono un'azione importante sulla flora batterica: contrastano batteri nocivi, come il dostridium botulinum, mentre favoriscono lo sviluppo di altri, come il bifidus, indispensabili alla trasformazione dei materiali di rifiuto. Grazie a questa triplice azione che svolge - meccanica, psichica e chimica - il tè verde è senza ombra di dubbio uno dei rimedi più efficaci per ripristinare il transito intestinale.

  Gli amminoacidi

Il tè. verde contiene numerosi amminoacidi. Questi composti organici sono di fondamentale importanza per ìl nostro organismo. Se il corpo non è in grado di sintetizzare un numero cospicuo di amminoacidi, è pur vero che ne esistono alcuni, chiamati «amminoacidi essenziali », che non è in grado di elaborare e che perciò devono essere. introdotti. dagli alimenti. L'organismo,ogni giorno, deve ricevere tutti glì amminoacidi di cui ha bisogno; se soltanto ne manca uno, gli altri non possono, essere assimilatì. La conseguenza può essere una serie di disturbi quali affaticamento, nervosismo, problemi della pelle, rallentamento della crescita. Chi pratica body-building, infatti, tende ad assumere grandi quantità dì amminoacidi, dato che accelerano lo sviluppo della muscolatura. È per questo. motivo che per molti anni, nutrizionisti hanno consigliato il consumo, almeno una volta al giorno di proteine sotto forma di carne, pesce o uova.

Gli amminoacidi sono comunque presenti nche nei vegetali. Se si associano, in un pasto, legumi, quali soia. fagioli, fave, piselli, lenticchie, a cereali. come riso, pasta o pane, mais, avena, il nostro organismo riceve, nel giusto quantìtatìvo, . tutti gli amminoacidi di cui ha bisogno. Non sempre la carne riesce a soddisfare il fabbisogno giornaliero e in più può incidere negativamente sui livelli di colesterolo cattivo nel sangue.

Vero è che non sempre si è disposti a mangiare ogni giorno cereali e legumi! La cosa miglìore, per concludere, è variare i pasti, mangiare di tutto... e bere tè verde che fornisce alcuni rari amminoacidi.

  Dimagrimento

L'uso di tisane è consigliabile per eliminare il senso di fame ed accelerare il processo di dimagrimento. Bevete molto, bevete molta acqua (di sorgente o di rubinetto se è filtrata) e, naturalmente, bevete tisane che vi permetteranno di lottare contro i problemi specifici del sovrappeso (ritenzione idrica, cellulite, eccesso di massa adiposa, costipazione), delle sue cause (cattiva digestione, cattiva funzionalità epatica...) e delle sue conseguenze (ipertensione, colesterolo cattivo, problemi circolatori, calo della libido, disturbi cardiovascolari, depressione... ).

Non dimenticatevi della regina delle tisane: il tè verde!

In attesa di avere conferma dalle ricerche attualmente in corso sulla capacità del tè verde di aumentare il dispendio energetico del corpo umano, accontentiamoci delle sue già note proprietà dimagranti. Come il Pu Erh e l'Oolong, il tè verde svolge un'azione fortemente dimagrante in quanto disintossica l'organismo, lotta contro la ritenzione idrica, riduce la formazione del colesterolo cattivo, stimola il fegato e tutto il sistema digestivo, regola il transito intestinale, attiva il funzionamento dei reni. E ciliegina sulla torta, il tè verde svolge una straordinaria azione antistress. Tutti sanno che lo stress non solo è responsabile dei disturbi del comportamento alimentare, ma inibisce anche i meccanismi di dimagrimento.

  Disintossicazione

In caso d'intossicazione, il tè verde, per l'organismo, è una vera e propria panacea. Apporta vitamine e olìgoelementi, svolge una straordinaria azione drenante e disintossicante del sistema epatobiliare e favorisce l'eliminazione delle tossine. Occorre sapere che l'uso regolare di tabacco, alcol, farmaci come ansiolitici e antibiotici distrugge sia la vitamina C sia quella B. Ciò determina un senso di affaticamento, un certo nervosismo interiore, la sensazione di un bisogno ... che viene colmato con un bicchiere di superalcolico, di una sigaretta o di qualche capsula colorata! Ebbene, nel tè verde queste due vitamine sono presenti. Forse non sono in un quantitativo sufficiente, tanto che può essere necessario assumerne attraverso altri alimenti. La vostra « macchina", comunque, ha bisogno di essere depurata e il tè, grazie alla sua azione diuretica, epatica e cardiovascolare, pulisce reni e fegato e purifica il sangue. Infine, per l'apporto bilanciato di oligoelementi, permette all'organismo di rimettersi perfettamente in pista.

  Febbre (influenza)

Il professore Tadakatsu Shimamura, nelle sue ricerche sulle proprietà antibatteriche e antivirali del tè verde, ha dimostrato la sua efficacia persino contro i virus influenzali: in presenza di tè verde, il virus veniva distrutto in meno di 5 minuti. Tale effetto - come spiegano gli studiosi - è da attribuirsi alla catechina, sostanza in grado di bloccare il passaggio del virus nelle cellule. Al « Congresso internazionale sul tè e la scienza», tenutosi a Shizuoka, in Giappone, nel 1991, il professore Tadakatsu Shimamura ha concluso il suo intervento con questa dichiarazione: «Le catechine presenti nel tè possono essere impiegate per combattere forme di infezioni come !'influenza e il colera. Ne suggerisco l'impiego nelle aree geografiche maggiormente a rischio di epidemie di colera e come profilassi antinfluenzale.»

  Gravidanza

Il tè verde è particolarmente indicato per donne in stato interessante, in quanto in gravidanza è abbastanza frequente che si verifichi un deficit di zinco. Quest'oligoelemento, come il potassio e altre vitamine, si trova in grande quantità nel tè verde. TI consumo regolare di questa bevanda è ancor più consigliato se si considera la sua capacità di limitare le infezioni di origine microbica, di regolare la pressione sanguigna, di contrastare la costipazione e la fatica: disturbi che si verificano assai spesso in gravidanza. Il tè verde si sarebbe rivelato efficace anche nel ridurre il rischio di ragadi anali e di emorroidi, abbastanza frequenti sia prima sia dopo il parto. È auspicabile, comunque, un uso moderato di tè verde per non turbare il ritmo cardiaco del feto.

  Herpes Zoster

Cicatrizzante e disinfettante, antiossidante e nutriente, antinfiammatorio e antimicrobico, il tè verde utilizzato sia in forma di compresse sia di cataplasmi può dare buoni risultati per i problemi di pelle, come micosi, dermatiti, ulcere, psoriasi e persino herpes. Non è matematico che funzioni, ma quando si è provato già tutto, perché non tentare? Dopo aver inumidito una piccola manciata di foglie di tè verde in un po' d'acqua calda, applicatele sulla lesione in uno strato uniforme. Fissatele con una compressa e una fasciatura: la prima volta tenete la medicazione per dieci minuti. Se non si manifestano reazioni spiacevoli (un pizzicore), ripetete l'operazione dopo qualche ora, lasciando il tutto per un periodo più prolungato. Dopodiché, due volte al giorno, applicate una compressa sulla lesione per una mezz'ora. Sospendete il trattamento se il sintomo persiste. Non insistete se non notate un miglioramento nel giro di quattro o cinque giorni. Nel caso contrario, proseguite sino a completa guarigione.

  Ictus

La gravità di questa malattia dipende dal fatto che si manifesta senza sintomi premonitori. Il cervello riceve ossigeno e nutrimento da due paia di arterie. In caso di ictus si verifica o l'ostruzione (ictus ischemico) o la rottura (ictus emorragico) di una delle due arterie. In entrambi i casi è indispensabile il ricovero d'urgenza, e il rischio di mortalità o di postumi invalidanti (paralisi, emiplegia, ecc.) è molto elevato. Se l'età, il sesso -l'uomo è maggiormente colpito rispetto alla donna - e l'ereditarietà sono fattori contro cui non si può fare nulla, ve ne sono altri, invece, su cui si può intervenire efficacemente, e cioè il fumo, l'ipertensione, l'ipercolesterolemia, l'obesità e la sedentarietà. Il tè verde avrebbe il potere di ridurre il rischio di ictus cerebrale. Uno studio condotto in Olanda nel 1996 dimostra che persone di sesso maschile con una dieta ricca di flavonoidi (presenti nel tè, in alcune piante medicinali, nella frutta e nella verdura) avrebbero il settantatré percento in meno di probabilità di essere colpite da ictus.

  Infezioni delle vie urinrie e calcoli renali

Secondo alcuni studi in vivo e in vitro realizzati da una trentina di ricercatori di tutto il mondo e soprattutto dal professor Y okozawa, i polifenoli del tè verde esercitano un'azione molto positiva su un apparato urinario indebolito, in quanto tendono a riportare il tasso di uremia nel sangue a livelli normali. Il team del professore Yokozawa ha dimostrato che una dose di 200 mg di polifenoli di tè verde somministrata quotidianamente a cinquanta pazienti in emodialisi ha ridotto del 70 percento in sei mesi il tasso di metilguanidina (tossina prodotta in caso di cattivo funzionamento dei reni, responsabile di affezioni di una certa entità).

  Insufficienza epatica

Il tè agisce direttamente sul buon funzionamento del fegato: ciò spiega in parte anche la sua azione contro il colesterolo cattivo. È sempre la catechina, la sostanza cui si deve questa capacità di preservare il fegato, anche contro affezioni gravi come l'epatite B. Del resto sia in Russia sia in Giappone la cura contro l'epatite prevede un trattamento che associa dosi di catechina alla terapia classica a base d'interferone.

  Invecchiamento

Nel 2040 le persone che avranno superato i 65 anni di età rappresenteranno oltre il 20 percento della popolazione. Restare giovani è senz' ombra di dubbio il sogno di ogni essere umano. Naturalmente, invecchiare bene significa avere un'alimentazione sana... e bere tè, possibilmente verde. Un gruppo di ricercatori del dipartimento d'alimentazione e nutrizione dell'Università di Nagoya, in Giappone, ha dimostrato come, su cavie da laboratorio, il processo d'invecchiamento venisse rallentato nel momento in cui si somministrava loro una miscela di tè verde e di vitamina E. La spiegazione di questo fenomeno è da ricercarsi nell'azione della catechina, presente nel tè verde, sui radicali liberi, responsabili dell'invecchiamento delle cellule. I topi, cui era stata somministrata una dose di tè verde, vivevano più a lungo. Lo stesso gruppo di ricercatori giapponesi ha avanzato l'ipotesi che il tè potrebbe avere « benefici effetti sulla fertilità ».

Il professor Takuo Okada dell'Università di Okyama, ha dimostrato che il tè verde era venti volte più potente della vitamina E nell'inibire la formazione di perossidi nell'organismo.

Numerose altre ricerche hanno provato gli effetti positivi del tè - e soprattutto del tè verde - nel contrastare il processo d'invecchiamento. Nel 1996, una squadra di studiosi della Boston Tufts University ha confrontato le capacità antiossidanti del tè verde con quelle di 22 vegetali, in grado di svolgere questa funzione, come l'aglio, i broccoli, la cipolla, il mais, la carota: il tè verde ha superato di gran lunga il confronto.

Un altro studio ha dimostrato che nel tè verde è . contenuta la proantocianidìna, un antiossidante presente anche nel vino rosso, di cui è nota l'azione positiva contro le malattie cardiovascolari. Se esiste un «paradosso francese», esiste anche un «paradosso cinese »: questi due popoli, infatti, rispetto ad altre popolazioni (soprattutto quella americana) sono meno soggetti ad ammalarsi di malattie cardiovascolari.

  Ipertensione

Per ipertensione arteriosa s'intende un innalzamento anormale della pressione sanguigna. Questo disturbo si verifica in seguito a un restringimento dei vasi sanguigni o a una cattiva irrigazione dei reni. Le cause dell'ipertensione possono essere molteplici: gravidanza, consumo eccessivo di sale, contraccezione orale, fumo... E altrettanto molteplici sono le conseguenze: problemi cardiocircolatori, emorragie cerebrali, retinopatìe, riduzione della funzionalità renale, alterazioni delle funzioni cerebrali, quali perdita della memoria, dell'attenzione e della concentrazione... Per prevenire o ridurre tale disturbo vi sono principalmente due strade da seguire: la prima è quella d'intervenire sulle cause scatenanti, vale a dire evitare il fumo e ridurre il consumo di alcol, grassi e sale; la seconda consiste nel praticare con regolarità un'attività sportiva dolce, come camminare, andare in bicicletta, nuotare. Vi sono, inoltre, due piante che possono esservi di grande aiuto: l'ulivo, le cui foglie, assunte in infusione, hanno dato prova di grande efficacia; e, come potete immaginare, il tè verde, naturalmente.

In caso di ipertensione arteriosa, per l'effetto di un enzima secreto dal fegato, le sostanze ipotensive prodotte dall'organismo si trasformano in potenti sostanze vasocostrittrici e ipertensive. La catechina presente nel tè verde, inibendo tale enzima, permette non solo di bloccare tale processo di trasformazione, ma anche di ripristinare un equilibrio compromesso. Ciò significa che l'uso regolare di tè verde è fortemente consigliato a tutti gli ipertesi e che una tazza di tè in un momento in cui i valori sono piuttosto elevati può riportare la pressione arteriosa a valori più vicini alla norma.

  Micosi e piede d'atleta

Fate prolungati pediluvi in un infuso concentrato di tè verde. Di questa ricetta, molto utilizzata in Cina, è stata scientificamente provata l'efficacia. Un altro rimedio al problema adottato dai cinesi è quello di far scivolare alcune foglie di tè verde nelle scarpe o nelle calze. Utilizzate, però, un tè di media qualità: i vostri piedi meritano certamente tutta la vostra attenzione, ma non un tè raro e raffinato come uno Huo Qiang o un Gyokuro.

  Nervosismo

In Oriente si ritiene che il tè abbia effetti calmanti sui bambini, mentre in Occidente è opinione diffusa che la teina li innervosisca. Occorre, invece, ricordare che il tè verde presenta una quantità minima di teina e che in esso sono contenuti altri componenti che agiscono positivamente sull'umore e sul sistema nervoso.

Una o due tazze di tè verde la mattina non possono fare altro che bene.

Nei libri di ricette della tradizione popolare cinese si. consiglia di somministrare a bambini troppo vivaci o soggetti a crisi convulsive infusi a base di «barba di cipolla e di tè verde».

  Occhi

Occhi gonfi, borse, tratti tirati; consiglio lo stesso rimedio utilizzato per curare la congiuntivite: compresse imbevute di tè verde! L'unica differenza consiste nel collocarle in un piattino e lasciarle nel frigo per una mezzora in modo da applicarle sugli occhi belle fresche.

  Pelle

La pelle è il principale organo del corpo umano. È un organo «emuntorio», vale a dire destinato all' eliminazione dei materiali di rifiuto, così come lo sono l'intestino. e l'apparato urinario. Se la pelle ha del problemi, le tossine non vengono eliminate nella maniera dovuta; ciò determina non soltanto problemi di carattere dermatologico, ma anche disturbi che vanno a ripercuotersi su altri organi. Viceversa, se un organo, come il fegato ad esempio, SI ammala, la pelle ne risentirà moltissimo... La credenza popolare secondo la quale una buona cera è sinonimo di salute non è poi così sbagliata. Il tè verde, grazie ai suoi benefici effetti su fegato e apparato digestivo, contribuirà a rendere la vostra pelle bellissima. E, inoltre, nulla v'impedisce di rìutilizzare le foglie della vostra infusione per farvi un bel cataplasma.

  Radiazioni

L'Istituto fisiologico di Kiev ha potuto constatare come il tè verde risultasse utile nella terapia contro i postumi delle radiazioni. Un altro studio condotto dal dottor Hayashi ha dimostrato come i tannini presenti nel tè verde siano in grado di bloccare e di eliminare sino al trenta percento l'assorbimento dello stramonio 90, sostanza radioattiva sprigionata dall'atmosfera in seguito a incidenti nucleari. Tutti coloro che in qualche modo sono venuti a contatto con la nube di Chernobyl dovrebbero, pertanto, bere tè verde in quantità.

  Retinopatia

Dovuta spesso a fenomeni d'ipertensione o di diabete, tale affezione è caratterizzata da una degenerazione dei capillari che portano sangue e nutrimento alla retina; le conseguenze possono essere più o meno gravi: abbassamento della vista, emorragia, sanguinamento del corpo vitreo... Il tè verde riducendo il diabete e l'ipertensione agisce direttamente sui capillari dell'occhio proteggendoli.

  Stanchezza

Sono la caffeina (o la teina) e alcuni alcaloidi a fornire al tè effetti tonificanti; gli permettono, infatti, di stimolare il sistema cardiaco, epatico e nervoso e, nello stesso tempo, di ridurre la sensazione di dolore e di fatica. Tali effetti sono ancora più evidenti quando ci si sente affaticati o si ha sonno. Una tazza di tè verde vi aiuterà a stare svegli e lucidi anche dopo un periodo prolungato senza riposo. Scienziati sostengono che il tè verde svolga un'azione benefica sui muscoli, contrastando la formazione di crampi. Tali effetti di stimolazione dolce e prolungata dipendono non solo dalla biodisponibilità della caffeina contenuta nel tè, decisamente meno aggressiva rispetto a quella presente nel caffè, ma anche da altri componenti contenuti nel tè, quali la catechina che svolge un'azione regolatrice.

  Stress

Contrariamente a un'opinione alquanto diffusa, è bene sapere che lo stress non è produttivo. Alcuni uomini d'affari ritengono di essere più efficienti quando sono stressati. Alcuni principali stressano i loro sottoposti pensando di farli « avanzare» nella loro carriera più velocemente. Non solo tutto questo non corrisponde a verità, ma lo stress provoca malattie l'una dietro l'altra. Perché lo stress, nel vero senso della parola, « avvelena la vita»!

Attualmente, squadre di ricercatori stanno seguendo una pista molto interessante secondo la quale lo stress sarebbe il responsabile della formazione di sostanze tossiche che, a loro volta, produrrebbero stress. Tali sostanze possono essere prodotte dal cattivo funzionamento di altri organi, quali ad esempio, i reni. Il tè verde avrebbe il potere di neutralizzarle e di ridurre conseguentemente lo stress. In attesa che questa teoria sia definitivamente dimostrata, il semplice fatto che il tè verde regoli e stimoli il sistema nervoso e cerebrale è sufficiente a spingerei ad assumere tè verde quando ci sentiamo sotto stress. Non bisogna assolutamente esitare a sostituire il caffè con il tè verde.

  Ulcere varicose

Per piaghe, varici, lesioni cutanee, la ricetta è molto semplice: applicare un cataplasma sulla parte interessata a base di foglie di tè verde lasciate in infusione per qualche minuto in acqua calda.

  Cosmesi

Antinfiammtorio, ricco di antiossidanti, cicatrizzante, antibatterico, tonificante e rinfrescante. Con proprietà terapeutiche così straordinarie e apprezzato da un pubblico sempre più numeroso e entusiasta, sarebbe stato davvero sorprendente se le case cosmetiche e parafarmaceutiche non ci avessero preparato cremine rigeneranti, maschere esfolianti o prodotti per i capelli a base di tè. Niente paura: ci hanno accontentato! Molti laboratori propongono creme antirughe. Numerose case cosmetiche hanno lanciato intere linee di prodotti di bellezza a base di tè verde. Esistono, addirittura, paste dentifricie al tè verde. Senza mettere in dubbio l'efficacia di questi prodotti, occorre, tuttavia, riflettere che giungono sul mercato al momento giusto, proprio quando è esplosa una vera e propria moda del tè verde. Se volete beneficiare al cento percento degli effetti straordinari del tè verde, vi sarà più semplice e sicuramente meno dispendioso prepararvi voi stessi i vostri cosmetici utilizzando per di più un grande tè verde.

La maschera perfetta

Una volta la settimana, dopo esservi gustati la vostra tazza di tè, conservatene il fondo con tanto di foglie. Imbevetene alcune compresse che applicherete, lasciandovele una decina di minuti, su guance, fronte, naso come se fossero fettine di cetriolo o dischi di melone. Sciacquate con succo di limone (per eliminare l'odore erbaceo, o di melma come direbbero alcuni), e applicate una crema idratante o, meglio ancora, qualche goccia di olio d'oliva di prima spremitura a freddo oppure d'olio di nocciola. Rimuovetene l'eccesso con un batuffolo di cotone. Qualunque sia il vostro tipo di pelle, grassa, mista, normale o secca, sicuramente apprezzerete!

La lozione ideale

Per struccarvi o lavarvi il viso, potete utilizzare tranquillamente un infuso di tè verde. Tra l'altro è il segreto di bellezza delle donne giapponesi più eleganti e raffinate. Non dimenticatevi, però, di ripristinare il film idrolipidico della vostra pelle, terminando la vostra pulizia quotidiana con una goccia di olio di nocciola o con la vostra abituale crema idratante.

 

 

 

Partite per una vacanza in un paese tropicale? Ecco alcuni avvertimenti e regole elementari di igiene.

 

Fate tutte le vaccinazioni consigliate, inclusa quella contro la malaria.

Tenete presente che è molto facile contrarre l'epatita C. Poiché le falde acquifere degli acquedotti di molte zone del Terzo Mondo sono inquinate da batteri fecali che provengono dalle fogne, è facilissimo contrarre queste malattie. Una conoscente di chi scrive, che soggiornava al Cairo nell'appartamento di una amica straniera, ha contratto l'epatite semplicemente facendo la doccia senza protezione per gli occhi. Tenete presente che la maggior parte della popolazione locale ha già avuto l'epatite.

Massima allerta sui mezzi di trasporto come aerei, treni locali, autobus locali. Leggete più sotto le generiche regole di igiene per i mezzi pubblici.

Portatevi delle pastiglie per disinfettare l'acqua o bollitela per almeno quindici minuti. Come regola base c'è quella di non consumare cibi o bevande, ma soprattutto acqua non sterilizzata con apposite pastiglie al di fuori dell'albergo internazionale in cui alloggiate. Andare in un bar di una città nordafricana e chiedere un bicchier d'acqua o un piatto di fagioli vuol dire correre dei rischi: una conoscente di chi scrive, che lavorava come volontaria internazionale in una fabbrica che inscatolava fagioli in Marocco ha contratto una infezione epatica da protozoo che l'ha resa permanentemente invalida, e non è trattabile con nessun farmaco conosciuto.

Alimentatevi solo con cibi ben cotti e bevete solo acqua imbottigliata.

Non toccatevi mai occhi, bocca, naso con le dita. Portatevi una bottiglietta di amuchina anziché i fazzolettini umidificati, per pulirvi le mani.

Fare turismo sessuale vuol dire cercarsi AIDS, sifilide, mononucleosi, donovanosi, pediculosi, scabbia, funghi della pelle e altre malattie sessuali sconosciute nei paesi occidentali ma diffuse nei paesi in via di sviluppo. Vuol dire anche cercarsi conseguenze penali e lunghi periodi di reclusione. Contrariamente a quanto si crede, paesi come Albania, Romania, Repubblica Ceca, Messico, India ecc. sono altrettanto severi verso i reati sessuali del nostro paese, se non di più.

Non fate in bagno in fiumi o specchi d'acqua dolce, anche se vedete delle persone del luogo bagnarsi tranquillamente. Non è infrequente la presenza di parassiti che provocano la cecità fluviale, o le cui larve si infilano sotto la pelle (è stato riferito a chi scrive di un caso in cui dalla schiena del malcapitato sono state estratte cinquanta larve di parassita in pieno sviluppo…) o danneggiano irrimediabilmente il sistema linfatico o circolatorio delle gambe.

Non passeggiate a piedi scalzi, neanche sulla spiaggia, a meno che non vi garantiscano che potete farlo. Ha riferito a chi scrive un missionario in Amazzonia che camminare a piedi scalzi in una spiaggia immacolata è la peggior follia che in quei posti si possa fare: dopo qualche giorno la pianta dei vostri piedi pullulerà di larve.

Se progettate trekking o escursioni in boschi o foreste, anche dell’emisfero settentrionale, attenzione al temibilissimo morbo di Lyme: viene trasmesso dalle zecche, che, annidate sotto le foglie, si lasciano cadere sulla pelle dei mammiferi (bovini, animali selvatici ecc.) e trasmettono questa malattia batterica difficile da estirpare.

Fino al 20 per cento dei pazienti che non ricevono cure sviluppano l'artrite cronica che provoca difficoltà a camminare. Più raramente, la malattia può influire sul sistema nervoso causando meningite asettica, radicoloneuriti, infiammazione delle radici nervose cervicali, acufeni e paralisi di Bell. Nel terzo stadio della malattia un ristretto numero di pazienti soffre di perdita di memoria, instabilità comportamentale. Per le donne in stato di gravidanza, la malattia è ancora più pericolosa perché l'infezione può essere trasmessa al nascituro e può aumentare il rischio di aborto spontaneo. Il New York Times l’ha definita “la malattia infettiva che si diffonde più rapidamente negli Stati Uniti dopo l’AIDS”. Rapporti da altri paesi indicano che si sta diffondendo anche in Asia, Europa e Sud America. In Europa la malattia è comune in Austria, Slovenia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Le zecche portatrici del morbo di Lyme sono già arrivate nei boschi nell’Italia settentrionale, dove è presente soprattutto nel Carso, nel Trentino, nella Liguria e in minor quantità anche in altre regioni.

In generale, indossare dei vestiti, anche leggeri, che coprono tutto il corpo quando si viaggia su mezzi pubblici dalla dubbia igiene, o ci si trova in zone con insetti o altre fonti di contaminazione attraverso la pelle, è consigliabile, piuttosto che l’abitudine delle donne e degli uomini italiani di esporre ogni centimetro di pelle disponibile, non solo sulla spiaggia, ma anche durante il viaggio, con short e top ridottissimi, quando non addirittura i reggiseni del costume da bagno.

Tenere presente che gli olii dei ristoranti a buon mercato sono riutilizzati decine di volte (un cuoco indiano ha detto ad un mio conoscente: "così il cibo risulta più saporito!") e quindi sono ricchi di acido acroleico tossico.

Inutile avvisare che i molluschi sono assolutamente da evitare: un mollusco normalmente filtra qualche tonnellata di acqua al giorno, diventando il ricettacolo di tutti i batteri e le impurità dell'ambiente. Se mangiati crudi, i molluschi possono nascondere il pericolo di infezioni come tifo, paratifo ed epatite virale.

Non nuotate in zone di mare che non siano garantite come assolutamente protette da fauna marina pericolosa. Un amico mi ha riferito di un gruppo di operai divorati alcuni anni fa dai barracuda mentre facevano il bagno di fronte al villaggio-vacanza del Messico in cui erano venuti a fare delle installazioni. Non sono rarissime le notizie di turisti aggrediti da squali persino in Italia (chi scrive ha avuto notizia di un turista azzannato da uno squalo ad alcune centinaia di metri dalla costa ligure…), figuriamoci nei paesi tropicali…

Attenzione alle infezioni delle vie aeree: al primo segno di polmonite, fatevi rimpatriare. Le griglie dei condizionatori d'aria degli alberghi, che non subiscono una regolare manutenzione, sono ricettacolo di colonie di legionella, un batterio che provoca polmonite. Pochi sanno che in zone confinanti con foreste tropicali è facile contrarre polmoniti e tubercolosi di natura fungina, molto più difficili da estirpare di quelle batteriche. Questo avviene perché le ruspe che costruiscono strade o l'abbattimento di alberi provocano una nube di spore di funghi parassiti, che stazionano nell'aria per lungo tempo e si spostano con i venti nelle zone vicine. Moltissimi lavoratori di cantieri tropicali hanno contratto queste temibili malattie.

Facciamo poi qualche considerazione sulla sicurezza dei luoghi di vacanza nei paesi tropicali. Vi ricordate il tragico tsunami del 26 Dicembre 2004? Il sisma raggiunse magnitudo 9.3 e scatenò un maremoto che dall'Indonesia raggiunse in poche ore Thailandia, India, Sri Lanka, fino a lambire le coste dell'Africa orientale. L'onda uccise oltre 230mila persone e interi tratti di costa furono devastati. Oltre alle popolazioni locali, coinvolse molti turisti occidentali che stavano trascorrendo le vacanze di Natale. Oltre seicento turisti italiani persero la vita.

Questo impone alcune riflessioni. Dalle cronache e dalle immagini che inondarono i media si poté vedere che molti villaggi-vacanza ed hotel erano situati in vicinanza della spiaggia, con una elevazione assolutamente insufficiente, in zone che potevano venire facilmente investite da onde anomale o da inondazioni monsoniche o da straripamento di fiumi. Sia alberghi che bungalow erano costruiti senza alcun criterio antisismico: durante lo tsunami, prima di poter mettersi in salvo, molti turisti sono rimasti gravemente feriti, ai piedi o al corpo, da travi di legno, schegge di legno e di vetro di pannelli e finestre che erano letteralmente esplosi per la pressione atmosferica che precedeva l'onda. Le strade e il sistema di viabilità sono assolutamente carenti: normalmente le strade non sono asfaltate, e alla prima pioggia si trasformano in un mare di fango impraticabile con mezzi di trasporto normali, perdipiù affollato dalla gente in fuga. Sempre dalla cronaca dello tsunami, si è potuto vedere che in molti paesi tropicali manca un sistema ragionevolmente efficiente di allerta contro inondazioni, maremoti, straripamenti di fiumi, incendi ecc. Tanto per fare il paragone: molte zone degli USA sono disseminate di watch towers: torri di avvistamento dove molti giovani trascorrono l'estate pagati da Governo per monitorare incendi, inondazioni, avvicinarsi di tornado. Nel Terzo Mondo non c'è nulla di simile. Non solo: durante lo tsunami non ci fu nessun allarme via radio da parte delle autorità thailandesi. I meteorologi responsabili di queste negligenza sono stati licenziati e processati, ma chi scrive non scommetterebbe che queste misure siano state sufficienti a migliorare l'efficienza del sistema. E' probabile che in molte zone manchino anche piani di evacuazione del territorio paragonabili a quelli della sicurezza civile dei paesi occidentali. Assicuratevi anche che le strutture ricettive dispongano di adeguati piani di evacuazione, ma ricordate anche: in momenti di estremo panico, è probabile che né il personale né gli ospiti seguano alcuna regola di evacuazione.

Ma non è necessario citare questo terribile evento per farsi suonare campanelli di allarme. Ogni anno i giornali riportano la morte di decine e decine di migliaia di persone nel Terzo Mondo a causa di eventi naturali che in quelle zone si verificano con regolarità stagionale. Quando andate in una località del Terzo Mondo dovete sapere che il rischio di inondazioni, tsunami, frane, terremoti, incendi è molte volte superiore rispetto ai paesi occidentali. Se ci fate caso, ogni tanto compare sui giornali la notizia di un nostro compatriota in vacanza in paesi esotici tragicamente morto "durante una escursione in canoa" o "durante una escursione in una zona isolata", e simili. Queste notizie compaiono con regolarità sospetta. Chi scrive è indotto a pensare che non si tratti di un fenomeno casuale, né dovuto unicamente al fatto che il turista si sia avventurato in zone "sconsigliate", bensì al fatto che molti bungalow e zone di residenza turistica del Terzo mondo sono situati in aree pericolose e non sono costruiti secondo criteri di sicurezza. Ovviamente, l'industria turistica ha tutto l'interesse a minimizzare la faccenda e a non divulgare le statistiche di mortalità nei luoghi di vacanza…

Morale: se volete andare in qualche sperduto paradiso tropicale ancora incontaminato dai turisti, assicuratevi che possiate tornare indietro sani e salvi, se qualcosa dovesse andare storto.

Considerate poi che il sistema di trasporti e il sistema sanitario dei paesi del Terzo Mondo, al di fuori delle zone urbanizzate, sono assolutamente carenti. Se per qualsiasi ragione (febbri, diabete ecc.) entrate in coma, non è facile attivare immediatamente i soccorsi. Pochi sanno che la cosa più importante in un ospedale è una sala di rianimazione: qualsiasi banale intervento, o allergia all'anestetico può mandare in coma una persona. E pochissimi piccoli ospedali del Terzo Mondo dispongono di una sala di rianimazione. Un sistema di assistenza sanitaria efficiente richiederebbe un adeguato training di pronto soccorso del personale delle strutture ricettive, e questo è tutto da verificare per località di villeggiatura che nascono come funghi, gestite da imprenditori locali che guardano più al profitto che alla sicurezza.

Un check-up sanitario dovrebbe essere l'obbligo oltre alle vaccinazioni previste. Consigliabile anche avere il numero di una compagnia locale di elisoccorso. Contro l'infarto portate compresse di trinitrina, che allungano il tempo di sopravvivenza prima dell'arrivo dei soccorsi.

Poiché si tratta di paesi di estrema povertà, andare in giro senza adeguata protezione in città del Kenya, dell'Uganda e simili è realmente pericoloso. Un racconto vero: durante una coda di fronte ad un negozio di generi alimentari della periferia di Nairobi, un uomo ha estratto fulmineamente un coltello e tranciato il dito della donna davanti a lui per sottrarle l'anello. In grandi città del Sudamerica non sono rari i casi di aggressioni con mutilazioni alla bocca sui mezzi pubblici per rubare i denti d'oro. E' recente la notizia di un pensionato itraliano che soggiornava in Kenya ucciso nella propria casa, probabilmente a scopo di rapina. Informatevi della sicurezza all'esterno dell'albergo in cui soggiornate. Persino a Miami le ditte di autonoleggio hanno rinunciato a mettere il loro logo sull'auto o sul portachiavi, perché altrimenti il turista diviene l'immancabile bersaglio delle gang locali. Non portate orologi o altri oggetti preziosi con voi. Quando andate in giro cercate di non mettere su di voi o sulla vostra auto una insegna al neon con su scritto "straniero danaroso in vacanza". Andare in giro con un rolex per le strade di Napoli è estremamente sconsigliabile. Figuriamoci per quelle di Nairobi.

Ci sono città pericolosissime, come Bogotà e Città del Messico, nei cui aeroporti vengono addirittura distribuiti volantini che raccomandano assolutamente di non prendere un taxi diverso da quello inviato dall'albergo, di non circolare per le strade dopo le cinque di pomeriggio ecc. ecc. a meno di non voler sparire senza lasciare traccia. Individuate queste città mediante una ricerca su internet e seguite le opportune precauzioni. Nelle regioni settentrionali del Messico, confinanti con gli USA, spariscono centinaia di giovani ragazze ogni anno, senza che a tutt'oggi si siano chiariti i motivi di questi rapimenti. Anche se si tratta perlopiù di giovani messicane, consiglierei delle ragazze occidentali di evitare i viaggi-avventura in certe zone del Messico…

C'è poi il discorso assicurazione. Prendiamo lo spunto da alcuni fatti di cronaca. Alcuni anni fa non era raro che a Miami i turisti fossero rapinati o che si trovassero coinvolti in rapine a negozi, e rimanessero feriti, anche gravemente. E qui cominciano le dolenti note. Perché molti di loro non si erano preoccupati di fare una assicurazione sanitaria, e negli USA non esiste un sistema sanitario nazionale che vi curi semigratuitamente e si faccia poi rimborsare il ticket dal sistema sanitario italiano. Supponiamo che scivoliate e riportiate una contusione alla spalla: il costo del ricovero e dei controlli per stabilire se si tratti di una frattura o di una semplice lussazione si aggira sui 7.000 dollari, e lo dovete pagare voi. La fattura per l'ingessatura di una frattura è di circa 15.000 dollari, da tirare fuori sempre dalle vostre tasche. Qualche anno fa i giornali riportarono la notizia di un turista italiano a Miami rimasto ferito con un colpo di arma da fuoco al fegato che è fuggito nottetempo dall'ospedale a cui doveva ormai 400.000 dollari di cure mediche. Lo stesso discorso vale per un semplice tamponamento o incidente automobilistico: potreste tornare dal vostro viaggio con un danno di 10.000 dollari da risarcire. Ai giovani studenti italiani che vanno a studiare in una università USA, la prima domanda che viene rivolta non è: "Quale corso di studi intende scegliere?", ma: "Ha già una assicurazione che copre l'assistenza sanitaria e la responsabilità civile?" e la prima cosa che fanno è farvela sottoscrivere.

Un avvertimento poco conosciuto: attenzione alla circolazione dei veicoli nelle città del Terzo Mondo, che non è come quella dei paesi occidentali. Un abitante di Rio de Janeiro ha riferito ad un mio conoscente che in quella città muoiono più persone a causa di conducenti di autobus disattenti che a causa di conflitti tra bande di narcotrafficanti.

E infine, seguite anche in viaggio le raccomandazioni per l'igiene di tutti i giorni, che trovate in questo documento, nell'articolo "Raccomandazioni per l'igiene di tutti i giorni".

 

 

 

Raccomandazioni per l'igiene di tutti i giorni allo scopo di evitare il contagio da germi.

 

Non dividete cibi o bevande con altre persone. Non bevete da bottiglie, bicchieri o lattine da cui abbiano bevuto altre persone. Chi scrive, capitato una mattina molto presto in un bar evidentemente frequentato da prostitute a fine turno,  ha preteso la cannuccia per sorbire il caffè. In un ristorante all'interno di un noto luogo di vendita di prodotti alimentari italiani ha visto sterilizzare i bicchieri della birra ponendoli rovesciati su un sifone che emette un getto ad alta pressione che ne pulisce solo l'interno. Figuriamoci cosa succede in altri posti. Mononucleosi o herpes sono possibili conseguenze di questi comportamenti.

Fuori casa, cercate di non condividere con altri l'uso di oggetti come penne, oggetti di cancelleria e simili.

Non portate mai alla bocca oggetti (penne, matite, steli d'erba, ecc.)

Quando si dà un bacio di cortesia o di semplice affetto, evitare di toccare la zona in prossimità della bocca, perché si potrebbe facilmente contrarre l'herpes. Meglio fare come l'etichetta prescrive: avvicinare la guancia senza effettivamente baciare.

Le superfici bagnate ospitano virus e batteri e offrono loro un ambiente per moltiplicarsi rapidamente. Asciugate bene utensili da cucina, piano della cucina, vassoi. Nelle mense o fast food non prendete vassoi umidi. Non toccate superfici umide. L'umidità che si forma sulle lattine di coca-cola ghiacciate è in grado di conservare virus e batteri per un tempo molto lungo. Se vi chiedete perché si trovano in vendita lattine con un linguetta di stagno da togliere da sopra la confezione, il motivo è questo.

Per la stessa ragione, gettate fazzolettini bagnati, mettete subito ad asciugare asciugamani bagnati ecc. Andare in giro per ore con abiti impregnati di sudore aumenta il rischio che essi acquisiscano batteri e virus dall'ambiente.

Non portate le mani agli occhi se avete maneggiato sostanze irritanti (pepe, peperoncino, disinfettanti, detersivi, ecc.)

Non utilizzate, per la vostra pulizia personale, fazzolettini, salviettine umidificate ecc. più di una volta. Utilizzate solo poche volte asciugamani e altri tessuti per la vostra pulizia.

Spugne, spazzolini da denti e altri oggetti che rimangono umidi dopo l'uso andrebbero cambiati con frequenza.

Strumenti di pulizia come spazzole e piumini o stracci da spolvero andrebbero puliti o rimpiazzati con regolarità. Le spazzole andrebbero pulite in acqua e detersivo e asciugate completamente.

Non toccate o carezzate animali. Lavatevi le mani immediatamente dopo averlo fatto.

Dopo aver maneggiato del denaro (banconote o monete) dovreste pulirvi prima di prendere alimenti o toccarvi il viso.

Cambiare abiti, indossando ogni giorno abiti puliti può evitare di portare colonie batteriche su di sé.

Le mani sono potenti veicoli di infezione. Batteri e virus si depositano in quantità sulle nostre mani quando lavoriamo in cucina (ad es. salmonelle o batteri fecali se tocchiamo delle uova) o quando siamo fuori casa, ed occorre una adeguata igiene. Ecco illustrata la corretta procedura per lavarsi le mani (durata della procedura: 40-60 secondi):

 

La frequenza con cui ci si lava le mani andrebbe aumentata in periodi di influenza. In particolare le mani andrebbero sempre lavate dopo: a) minzione o evacuazione; b) preparazione cibo; c) trasporto immondizia; d) aver toccato pavimento o altre zone a rischio; e) aver toccato le mani o la pelle di altre persone; f) essersi riparato la bocca dopo aver tossito e sternutito (in periodo di influenza); g) prima di mangiare qualsiasi cibo; h) dopo aver toccato o carezzato un animale; h) dopo esserci toccati le parti intime; i) dopo aver maneggiato del denaro.

Il disinfettante migliore per le mani è acqua e sapone. Riguardo gli altri disinfettanti ci sono alcuni prodotti da evitare: leggete, in questo documento, l'articolo "Disinfettanti per le mani da usare e disinfettanti per le mani da evitare".

Lavatevi una-due volte al giorno il viso con semplice acqua fresca.

Se volete migliorare ancora l’igiene delle vostre mani e pulirvi più frequentemente, acquistate al supermercato un piccolo spruzzino di quelli usati per stirare e una bottiglia di alcool da pasticceria a 95° e avrete un sistema eccellente e ultrarapido per disinfettare le mani. L’alcol da pasticceria evapora completamente senza lasciare residui, non ha il puzzo terribile dell’alcol denaturato ma un gradevole aroma: dopo esservi spruzzati le mani sarà sufficiente sfregarle un attimo e asciugarle con un fazzolettino di carta (ma anche l’asciugamano pulito va bene) senza risciacquarle sotto il rubinetto (sarebbe una pura perdita di tempo).

Gettate via i fazzolettini di carta immediatamente dopo averli utilizzati. Il noto medico statunitense Isadore Rosenfeld ha affermato che la via più veloce perché tutti i membri di una famiglia si ammalino in periodo di influenza o raffreddori, specie con un infermo in casa, è riutilizzare i fazzolettini di carta.

Non toccate con le mani bagnate maniglie o altri oggetti che potrebbero ospitare virus e batteri.

Pulitevi le mani (e non toccatevi mai gli occhi) dopo aver toccato i sostegni di mezzi pubblici (qualche anno fa, un articolo di giornale riportava che sui bus milanesi erano state trovate tracce persino di virus dell'AIDS) oppure tavolini o banconi di bar oppure le maniglie delle porte e gli oggetti nelle toilet pubbliche o dei treni.

State in guardia quando vi trovate in spazi chiusi e affollati. Se possibile evitate i mezzi pubblici dell'ora di punta, affollati e pieni di colpi di tosse. Sternuti e colpi di tosse producono una nuvola di goccioline microscopiche piene di virus e batteri e questo aerosol staziona a lungo nell'aria. Cambiate posto se il vostro vicino tossisce o appare malato. Cercate un posto vicino ad un finestrino aperto o vicino alle porte che, aprendosi, assicurano ventilazione.

Non mettete l'occhio su obiettivi di binocoli, videocamere, macchine fotografiche o cannocchiali usati da altri (es. i cannocchiali a pagamento di località turistiche), perché potrebbero venirne infezioni. Pochi sanno che è questa la ragione per cui i sistemi di identificazione a scansione della retina sono molto meno diffusi di quelli mediante impronta del pollice.

Non utilizzate assolutamente mai fazzolettini e asciugamani utilizzati da altri.

Dormire nello stesso letto con un malato di una malattia infettiva è evidentemente sconsigliabile. Quando un membro della vostra famiglia è malato dovrebbe dormire da solo.

Una doccia una volta al giorno è consigliabile. L'acqua è sufficiente a togliere batteri e funghi dalla maggior parte delle zone della nostra pelle. Il sapone andrebbe utilizzato solo sulle zone ricche di peli, dove le ghiandole pilifere producono sudore.

E quanto allo stringere le mani altrui? Stringere la mano ad una persona pulita è un conto, stringerla ad una persona abituata a detergersi da una evacuazione con un pezzetto di carta senza successivamente lavarsi è un altro…

Evitate qualsiasi contatto con escrementi di volatili. Rimuoveteli immediatamente dalla vostra casa, soprattutto da davanzali o da altre zone a cui potrebbero aver accesso i vostri bambini. I volatili sono i vettori principali di influenze ed epidemie. Come credete che arrivino dall'Asia le prime influenze di stagione? Con i volatili migratori. Le loro deiezioni hanno una altissima carica virale e batterica.

Se possibile, utilizzate stoviglie e posate personali, spazzolini personali, e non spartiteli con altri.

La suola delle nostre scarpe raccoglie, quando siamo fuori di casa, una quantità incredibile di virus e batteri e tracce di escrementi, non visibili ma presenti sul terreno. Non toccatele con le mani e trovate un luogo dove riporre le calzature in modo che virus e batteri possano inattivarsi senza diffondersi per la casa.

In cucina, preparate alimenti provenienti dal mare, carne, pollame, uova crude tenendoli separati dagli altri alimenti.

Lavate bene gli utensili da cucina dopo averli utilizzati. Lavate bene le mani prima, dopo e durante la preparazione di cibi come uova, pesce o carne cruda. Cercate di non utilizzare troppo le mani nude, perché virus e batteri potrebbero insinuarsi facilmente nelle pieghe delle mani o sotto le unghie. Utilizzate guanti da cucina o utensili.

Lavate i vegetali da consumare crudi, possibilmente con bicarbonato e se possibile sterilizzateli con un preparato come amuchina. Potrebbero essere irrorati con concime organico, pieno di batteri fecali o ricevere deiezioni animali o uova di parassiti.

Il lavello della cucina andrebbe sommariamente pulito dopo essere stato per preparazioni come carne cruda, pesce etc. perché diversamente diventa un centro di diffusione dei germi.

Il lavello della cucina andrebbe sterilizzato periodicamente. E' sufficiente riempirlo completamente d'acqua, versarvi un bicchiere di candeggina e attendere almeno un'ora per eliminare completamente i germi.

Aereate i locali della casa più volte al giorno.

Pulite i locali e i mobili della casa dalla polvere con un aspirapolvere (non solo con scopa o panno o piumini, che non funzionano bene per rimuoverla), possibilmente con filtro anti-acari.

Quando siete seduti ad un tavolo di hotel, biblioteca, bar ecc. sappiate che ogni impronta di avventore lascia una invisibile chiazza di grasso umano, che può mantenere vivi i batteri e i virus per ore.

Mantenete le unghie ragionevolmente corte o pulitele regolarmente, perché sotto di esse possono depositarsi legioni di virus e batteri. Il momento migliore per tagliare le unghie delle mani e soprattutto dei piedi è dopo essersi fatti la doccia, quando sono rese meno dure dall'acqua.

Alcune persone pensano che rimuovere i peli di ascelle e pube migliori il grado di igiene, ma questo è assolutamente non vero.

Pulite le vostre orecchie con gli indici mentre fate il bagno. Pulite regolarmente il condotto uditivo, ma state attenti che utilizzando bastoncini questo non spinga il cerume entro il condotto uditivo invece che estrarlo.

Non camminare a piedi scalzi né in casa né all'esterno, anche se si tratta di parquet.

Quando si frequenta palestre, o piscine, non camminare a piedi scalzi, perché si potrebbero prendere funghi. Mettere un proprio asciugamano sulle panche o altre zone con cui la nostra pelle viene in contatto. Usate guanti da culturista che sterilizzerete regolarmente per afferrare o toccare maniglie, barre dei pesi ecc. Se possibile utilizzare il vostro bagno e non quello della palestra, oppure fate il bagno nuovamente a casa vostra.

Nessun animale dovrebbe essere ammesso in casa, inclusi cani, gatti ecc. Malgrado molti non saranno d'accordo, secondo lo scrivente questa regola è importante ed evita di introdurre a casa virus e batteri di provenienza esterna annidati sotto le zampe o sul corpo dell'animale o di contrarli dall'organismo dell'animale (leggete in questo documento l'articolo sulla toxoplasmosi trasmessa dai gatti).

Pulite bene l'interno di una bottiglia di vetro o plastica prima di utilizzarla, perché potrebbe essere rimasta dell'umidità che ha formato delle muffe.

Gettate immediatamente piatti che presentano delle crepe o spaccature che ospitano immancabilmente colonie batteriche. Se non ci credete, fate la prova: spaccate il piatto lungo la crepa, e nel 90% dei casi potrete vedere il color verde tipico delle muffe. Non c'è disinfettante che possa penetrare in questi interstizi, quindi la cosa migliore da fare è disfarsi della stoviglia. Graffi profondi nelle stoviglie, pyrex ecc. producono gli stessi risultati. Il fondo dei contenitori in cui mangiate dovrebbe essere liscio e non usurato.

Non mangiate assolutamente cibo caduto in terra.

Mettetevi in testa che il pavimento di casa vostra non è igienico, per quanto possiate fare pulizia giornaliera. Abbiamo già scritto sopra che le suole delle scarpe ospitano milioni di germi, inclusi quelli provenienti da feci di uccelli, cani, gatti, e non c'è niente che possiate fare per impedire che ad ogni ingresso in casa essi entrino con voi. Pulite il pavimento, almeno ogni tanto, con candeggina, o altro disinfettante, non con un semplice prodotto detergente.

Non utilizzate a lungo lo stesso panno da cucina o lo stesso grembiule da cucina.

Utilizzate guanti di lattice o di gomma per effettuare i lavori più sporchi, come pulire il bagno, trasportare immondizia o concime, ecc.

Se la pelle delle vostre mani o di altre zone ha dei tagli, anche piccoli, dovete adeguatamente disinfettarli e coprirli con cerotti resistenti all'acqua, perché sono i veicoli di infezioni: non mettetevi a preparare pesce crudo o a distribuire concime organico alle vostre piante quando avete anche un piccolissimo taglio alle mani!

Anelli, piercing, orecchini possono ospitare focolai batterici. Non è un caso se diverse industrie alimentari non prendono in considerazione domande di assunzione di persone che utilizzano piercing.

Pulite a fondo i contenitori di immondizia e svuotateli con frequenza.

Non toccate con le mani le vostre parti intime senza poi esservi lavati.

Non toccate con le mani naso, bocca, occhi. Cercate di togliervi questa abitudine. In particolare, imparate a sopportare stoicamente i pruriti che sono la causa più frequente per cui ci portiamo le mani al viso. Se si ha la pazienza di aspettare dopo pochi secondi, passano. Con l'età, il vizio di toccarsi il volto peggiora (come anche i pruriti) ed occorre insistere nell'abitudine di non farlo.

Non grattate zone con eruzioni cutanee.

Non usate vassoi di tavole calde, ripiani ritraibili di treni o di aerei senza avervi messo sopra un foglio di carta pulita.

I giocattoli dei bambini non regolarmente puliti possono essere veicoli di infezioni

Lavate in lavatrice i tessuti che devono servire per la vostra igiene almeno a 60° oppure con la candeggina.

 

 

 

Esiste un farmaco che mi consente di "smaltire" le calorie dovute ad una occasionale eccessiva ingestione di grassi?

 

Per la gioia dei peccatori, un simile farmaco esiste. E' prodotto dalla multinazionale Roche e si chiama Alli. Il suo principio attivo è l'Orlistat, una sostanza che impedisce la digestione dei grassi, che vengono escreti con le feci. In passato era acquistabile solo con la ricetta medica, mentre ora è in libera vendita, essendone stata riconosciuta la completa innocuità. Due o tre compresse di Alli ingerite poco prima o poco dopo il pasto riducono del 50% l'assorbimento intestinale dei grassi, evitando che essi entrino nel sangue.

 

 

 

Qual è il miglior preparato per prevenire la caduta dei capelli?

 

La caduta dei capelli negli uomini ha un solo agente principale: l'ormone maschile (testosterone) che, prodotto in parte dalle gonadi, in parte dalle ghiandole surrenali, circola nel sangue in forma inattiva per attivarsi poi sugli organi-bersaglio: prostata, organi sessuali maschili, sistema pilifero. Purtroppo, uno dei tessuti bersaglio è la cute ricca di sistema pilifero. Nei capelli, il testosterone in forma attiva provoca lo strozzamento e atrofizzazione del bulbo, con conseguente caduta.

Propecia, della multinazionale Merck, è uno dei pochi rimedi realmente validi. Contiene finasteride, che inibisce una delle forme attive del testosterone, il diidrotestosterone. Nata originariamente come prodotto antiandrogeno per bloccare il progresso del cancro alla prostata, per il quale il testosterone è un potente fattore di sviluppo, a dosaggi più bassi è stato proposto per la cura dell'alopecia androgenica. Va assunto giornalmente per lunghi periodi per prevenire o arrestare la caduta.

 

 

 

Perché è sconsigliabilissimo acquistare occhiali da sole di bassa qualità o, peggio ancora, da un venditore abusivo?

 

Quando si indossano occhiali la pupilla si dilata per far entrare più luce, col rischio, soprattutto d'estate, di assorbire una dose nociva di ultravioletti. Se la lente è di buona marca è in grado di filtrare gli ultravioletti, mentre se è di marca scadente, l'occhio potrebbe risultare danneggiato da questa sovraesposizione.

 

 

 

E se il nostro micio ospitasse un parassita che ci induce al suicidio?

 

Uno studio condotto su oltre 45.000 donne, il più ampio nel suo genere, suggerisce un possibile legame tra la toxoplasmosi e casi di suicidi nella popolazione femminile. La toxoplasmosi, causata da un organismo parassita noto come Toxoplasma gondii, è spesso associata alla pulizia della lettiera dei miei, poiché spesso si trasmette per contatto con le feci del gatto (vale la pena notare, tuttavia, che l'infezione da Toxoplasma gondii si trasmette anche per contatto con carne o verdure crude contaminate; il contatto con le feci di gatto non è il solo mezzo di trasmissione).

Circa un terzo della popolazione mondiale ha contratto un'infezione da Toxoplasma gondii, che rimane silente nel cervello e nelle cellule dei muscoli senza mettere in allarme il sistema immunitario. Nella maggior parte dei casi l'organismo ospite non sviluppa i sintomi dell'infezione vera e propria, ma molti studi dimostrano che la presenza del Toxoplasma gondii può provocare patologie mentali, tra cui la schizofrenia e il disturbo bipolare, e persino un aumento del rischio di incidenti stradali.

Le ultime ricerche evidenziano per la prima volta un legame fra il Toxoplasma gondii e casi di suicidio in una grossa fetta di popolazione. Come afferma Teodor T. Postolache, il medico prima firma dell' articolo scientifico a cui mi riferisco e fra i più grandi esperti di quel ramo della neuroimmunologia che studia il comportamento suicidiario, «non possiamo affermare con certezza che sia stato il parassita della toxoplasmosi a provocare i tentativi di suicidio in queste donne, ma abbiamo riscontrato un legame di tipo predittivo tra l'infezione ed episodi successivi di tentato suicidio che merita di essere approfondito con altri studi. È nostra intenzione proseguire le ricerche per indagare su questa potenziale correlazione».

Postolache e i suoi colleghi hanno esaminato i dati provenienti da un campione di 45.788 donne danesi che avevano partorito fra il 15 maggio 1992 e il 15 gennaio 1995 e i cui bambini erano stati sottoposti a screening per rilevare la presenza di anticorpi contro l'infezione da Toxoplasma gondii. Poiché i neonati non producono anticorpi al Toxoplasma gondii nei primi tre mesi di vita, la positività al test significava che la mamma era infetta.

Esaminando i registri sanitari della Danimarca, l'équipe di ricercatori ha controllato se qualcuna di quelle donne avesse successivamente tentato il suicidio, comprendendo casi di tentato suicidio con metodi violenti, con uso di armi da fuoco, strumenti taglienti o gettandosi da grandi altezze. Gli studiosi hanno poi incrociato questi dati con quelli provenienti dal Danish Psychiatric Central Research Register per vedere se a queste donne fosse mai stata fatta una diagnosi di malattia mentale.

Lo studio ha evidenziato che le donne positive all'infezione da Toxoplasma gondii avevano probabilità 1,5 volte maggiori di tentare il suicidio rispetto a quelle che non erano mai entrate in contatto con l'organismo parassita, e il rischio aumentava all'aumentare della concentrazione di anticorpi presenti nel sangue. I casi di suicidio correlati a un forte tasso di immunoglobuline nel sangue erano anche quelli commessi con metodi più violenti. Prove di episodi precedenti di patologia mentale non influenzavano significativamente i dati emersi dallo studio. Il Toxoplasma gondii è stato anche messo in correlazione con comportamenti, per cosi dire, suicidiari fra i roditori: da studi precedenti è emerso che nei ratti infettati dal Toxoplasma gondii si assiste a un calo della risposta di allarme quando vengono esposti all'odore dei gatti, il che fa si che siano più propensi ad avventurarsi nel territorio che un gatto ha segnato con le sue urine. Quando poi mangia il topo, il gatto ingerisce anche il parassita, che nell'intestino del felino trova un posto ideale dove insediarsi.

Lo studio condotto da Postolache e dalla sua équipe presenta alcuni limiti, fra i quali uno di non poco conto, cioè il fatto di non riuscire a determinare una causa specifica per il comportamento suicidiario. «Forse l'infezione da Toxoplasma gondii non è un evento casuale, e si può anche immaginare che i risultati emersi dal nostro studio possano avere una spiegazione alternativa, ossia che gli individui con problemi psichiatrici siano più a rischio di contrarre l'infezione da Toxoplasma gondii prima ancora di entrare in contatto con le strutture sanitarie», specifica il dottor Postolache.

Se non altro, i risultati emersi da questo studio dovrebbero stimolare in futuro nuove ricerche per capire una volta per tutte se è vero che i parassiti di cui i nostri gatti sono gli organismi ospite preferiti si divertono a mandare in tilt il nostro cervello.

 

 

 

Alla larga dagli antiacidi pericolosi: usiamo il rimedio della nonna.

 

Nella cura del bruciore di stomaco in genere si ricorre a farmaci antiacidi, come bicarbonato di sodio o prodotti a base di sali di magnesio e alluminio. In alternativa si usano i cosiddetti alginati o i farmaci che combinano acido ialuronico e condroitin solfato, che proteggono in modo meccanico lo stomaco dall’acido e ne impediscono il reflusso in esofago. Se i disturbi sono ricorrenti o cronici si ricorre a farmaci che inibiscono la secrezione acida (i cosiddetti PPI o inibitori della pompa protonica).

Alcuni di questi prodotti, però, sono veramente pericolosi per la salute.

L'alluminio è una neurotossina capace di danneggiare il cervello. Produce nel cervello dei ratti danni identici a quelli dell'Alzheimer. Il contenuto di alluminio nei cervelli di malati di Alzheimer è da dieci a trenta volte superiore che negli adulti non affetti da demenza. Il medico americano Isadore Rosenfeld conosce ricercatori che sono stati così impressionati da questi risultati delle loro ricerche che hanno bandito qualsiasi contatto con l'alluminio, non usano antiacidi né deodoranti contenenti alluminio e hanno tolto tutti gli utensili da cucina in alluminio.

Purtroppo l'alluminio è utilizzato in molti antiacidi in commercio, come ad esempio il Riopan.

Emanuele Djalma Vitali, professore di nutrizione umana dell'Università di Roma consigliava, qualche anno or sono, di tenere in casa del bicarbonato alimentare e di prenderne all'occorrenza qualche cucchiaino eventualmente con un po' di succo di limone. Non esiste un antiacido che abbia effetti superiori a questo rimedio tradizionale. Non spendete i vostri soldi per Riopan o Maalox, e buona digestione.

E considerate la possibilità di fare il test sulla celiachia per vedere se i vostri disturbi digestivi derivano da una allergia al glutine non diagnosticata.

Altri consigli utili per prevenire e attenuare il dolore sono: non fumare, limitare il consumo di bevande contenenti caffeina (caffè, tè, cola); ridurre l’assunzione di cibi ad alto contenuto acido (agrumi, aceto, pomodori, menta, liquirizia, cioccolato); evitare di usare troppe spezie (soprattutto pepe e peperoncino).

 

 

 

Iperico contro la depressione? Ma stiamo attenti agli occhi.

 

L'iperico è una pianta che ha una pessima fama tra gli allevatori di bestiame in libertà, perché può provocare danni anche gravi agli occhi delle bestie che lo ingeriscono.

 

 

 

Un medicinale da portare sempre con sé, che vi salva la vita nel 60% dei casi di attacco cardiaco.

 

E' molto strano, ma non di rado il cardiologo si scorda di consigliare al paziente cardiopatico una delle misure più efficaci per salvargli la vita in caso di attacco improvviso: tenere presso di sé dell'acido nitrico, che è un potentissimo vasodilatatore delle coronarie, e perdipiù agisce in pochi secondi, consentendo l'arrivo dei soccorsi. Nella formulazione commerciale (col nome di Trinitrina) si tratta di nitroglicerina in compresse.

 

 

 

Sgranocchiate le arachidi intere ma state alla larga dal burro di arachidi di qualità scadente: l’aflatossina è in agguato, e può contaminare anche mais, granaglie, soia, caffè, latte, e altri semi oleosi il cui processo di coltura, raccolta, stoccaggio e conservazione non sono stati effettuati correttamente.

 

L'aflatossina è una tossina prodotta da un fungo che infesta tra gli altri alimenti le arachidi. Vi siete mai chiesti perché pressoché tutte le arachidi sono tostate? Perché queste piante sono infestate da muffe e funghi e la tostatura è necessaria per inattivarli. Ma la parte più deteriorata del raccolto contiene una quantità tale di muffe, tossine e batteri che questa passa nei prodotti alimentari. E per produrre il burro di arachidi si usano proprio quelle di qualità più bassa, le più ammuffite, mentre quelle di qualità migliore vanno a riempire i barattoli di noccioline.

L'aflatossina è considerata la sostanza carcinogena più potente sinora scoperta. Provoca in particolare il cancro al fegato. E' talmente potente che nei laboratori la si somministra ai ratti che si vuol far ammalare di cancro al fegato. In brevissimo tempo tutti gli animali sviluppano il tumore.

Nelle Filippine si è cercata per decenni la causa di una epidemia di tumore al fegato che colpiva in particolare i bambini. La causa era proprio l'aflatossina annidata nel burro di arachidi, che ne conteneva una quantità trecento volte superiore a quella ritenuta pericolosa. I barattoli di arachidi intere, invece, avevano livelli di aflatossina trascurabili, comparabili con i prodotti occidentali.

Prodotta da una specie di funghi (Aspergillus) e da alcune muffe, l’aflatossina viene per questo chiamata anche «micotossina». Il mais, le granaglie, la soia, il caffè, il latte, alcuni semi oleosi e altri alimenti possono essere contaminati da questa tossina che purtroppo è in grado di provocare gravissime mutazioni cellulari con conseguente sviluppo di tumore. Il fegato è l’organo maggiormente danneggiato, con un’intossicazione cronica irreversibile, cirrosi, perdita della funzionalità e, in caso di tumore, con un alto rischio di morte per la persona. Il danno da aflatossina non riguarda però solo il fegato: alcuni studi mettono in luce il rischio anche per seno e prostata (insorgenza di tumori), morbo di Crohn, sclerosi multipla, aterosclerosi, infertilità.

In poche parole, l’aflatossina può essere dannosa o addirittura mortale non solo per alcuni animali (come sanno bene agricoltori e allevatori) ma anche per l’uomo. Cosa fare, allora? Innanzitutto valutare bene quando si acquista il cibo, perché la contaminazione è tanto più probabile quanto peggiore è il processo di coltura, raccolta, stoccaggio e mantenimento dei prodotti. So che un discorso simile non piacerà ai fautori più integralisti del cibo biologico, a chi sceglie alimenti non controllati «perché niente è più genuino del cibo comprato nella fattoria che pochi conoscono», eppure solo verifiche rigorose e metodi di coltura e conservazione comprovati, con procedure di alto livello, offrono garanzie sulla qualità e sul basso rischio di intossicazione. Anche il prezzo può aiutare a orientarci verso la sicurezza: è triste da dire in tempo di crisi, ma un prezzo troppo basso deve fare sospettare trattamenti nella coltura e nella conservazione eccessivamente economici e quindi poco sicuri.

L’aumento del numero di tumori al fegato, malattia di per sé gravissima, in alcuni periodi e in determinate zone geografiche è stato spiegato con la contaminazione da aflatossina, per esempio, nel mais.

 

 

 

Esiste un semplice elenco di consigli per dimagrire e rimanere magri?

  La prima cosa che una persona con un problema di sovrappeso fa è intraprendere una dieta dimagrante, e la seconda cosa è instaurare un regime di mantenimento per rimanere col peso giusto.

questo è assolutamente sbagliato. occorre invertire l’ordine: prima si deve apprendere un regime di mantenimento, e solo dopo si deve intraprendere il dimagrimento.

Dimagrire utilizzando mezzi eccezionali per un tempo limitato è sin troppo facile: tutti, più o meno, sono in grado di rinunciare all’amato piatto di pasta e al dolce a colazione o a fine pasto per un mese, o due, o tre, magari sotto la minaccia della moglie o del medico. E quale che sia il sistema adottato, anche se drastico e squilibrato nutrizionalmente, la salute con tutta probabilità non ne risentirà, perché il nostro organismo è perfettamente adattato a temporanee deficienze nel regime alimentare.

I guai arrivano quando si tratta di mantenere il peso così conquistato. Tutti i dietologi concordano sul fatto che il 90% dei tentativi naufragano proprio qui, e la ragione è semplice: è facile mutare le proprie abitudini alimentari per qualche mese, mentre è molto più difficile e complicato mutarle stabilmente. Non si tratta solo di cambiare abitudini, ma anche di individuare quelle giuste, il che richiede una attività di informazione e di studio, un lavoro per tentativi insieme al proprio nutrizionista che il soggetto medio non ha normalmente tempo o voglia di fare. Tutti sono capaci di entrare in una farmacia ed acquistare una confezione di barrette dietetiche. Ben altra musica è stabilire un menu giornaliero caloricamente ridotto per il resto della propria vita.

la prima cosa che dovete fare e’ fissare e rispettare un limite di peso, magari qualche chilo al disotto di quello attuale, e stabilizzare l’introito calorico giornaliero ad un livello inferiore del 20-30% rispetto a quello a cui siete abituati.

dovete imparare a mangiare in modo diverso, sostituendo agli alimenti piu calorici e meno nutrienti quelli meno calorici e piu’ nutrienti, ed inserendo nella giornata una adeguata quantita’ di attivita’ fisica.

solo quando avrete cambiato definitivamente le vostre abitudini e sarete in grado di rispettare un limite di peso, potrete intraprendere un percorso di dimagrimento con ragionevoli speranze di successo.

Tra l’altro questa strategia ha il vantaggio di non generare ansia: per il momento limitatevi a ritoccare la vostra dieta senza sforzi eroici e a cercare semplicemente di mantenere il peso attuale. Per i sacrifici che vi spaventano tanto ci sarà tempo in seguito. Nessuno corre la maratona dall’oggi al domani, e voi dovete prepararvi ed informarvi.

Dovete inizialmente leggere questo articolo selezionando i consigli sulle corrette abitudini alimentari piuttosto che quelli per dimagrire effettivamente, che metterete in pratica solo in seguito.

  Dunque, il primo passo è stabilire un limite. Non c'è alcuna fretta di dimagrire, perché il nostro corpo ha un meccanismo di omeostasi per cui mantiene un peso costante anche se mangiamo di più di quanto ci necessita. Questo meccanismo si guasta con l'età, e il nostro peso aumenta, di qualche etto l'anno a partire dagli "anta", ma è assolutamente graduale. Quindi il primo sforzo è quello di bloccare l'aumento di peso, per poi avere tutto il tempo di dimagrire. Qui dovete essere molto rigidi: quando avete superato di un chilo il limite, dovete saltare dei pasti o assumere pasti sostitutivi fino a che non siete rientrati nel limite.

  Il modo più veloce di dimagrire non è facendo (molta) attività fisica, ma è non mangiare.

Il fabbisogno calorico di una donna che non svolge un lavoro pesante è 1800-2000 calorie; quello di un uomo 2200-2500 calorie. In una dieta si può arrivare per diversi giorni a 800-1300 calorie, sia per la donna che per l'uomo.

Questo è il modo più veloce di dimagrire.

  La matematica del dimagrimento è semplice: quando non mangi o fai attività fisica il corpo elimina prima le riserve di grasso. Un grammo di grasso contiene 9 calorie. Per eliminare quindi un chilo di peso (1000 grammi di grasso) bisogna "tagliare" (mangiando meno o digiunando) o "bruciare" (con l'attività fisica) 9000 calorie.

Il metabolismo basale di una persona, cioè le calorie che consuma il corpo di una persona immobile e seduta in 24 ore sono 1000-1200 calorie.

Un'ora di attività fisica intensa sottrae al massimo 700 calorie (nuoto).

Pertanto, in teoria, per smaltire un chilo occorrono 9 giorni di digiuno o 20 ore di bicicletta.

In realtà l'esperienza mostra che il calo è più rapido, sia con lo sport che con il digiuno: ad esempio, occorrono 4 giorni di digiuno al massimo per smaltire il primo chilo, e nel prosieguo ne occorreranno solo tre. Non è molto "matematico" ma è così. Lo stesso vale per l'attività fisica.

  L'individuo "normale" assume giornalmente troppo cibo. Il risultato è che il nostro apparato digerente è in perenne fase digestiva, e noi iniziamo il nuovo pasto in stato di semi-sazietà. Questo ha la conseguenza che privilegiamo i cibi che sono più gustosi (e calorici, perché gusto per gli esseri umani è legato a grasso o zucchero), perché gli altri non ci attirano, e quindi assumiamo molte più calorie, snobbando il cibo meno calorico ma meno gustoso, come verdure crude, frutta ecc.

Occorre indurre uno stato di fame moderata fino a quando non si trova che il cibo che prima ci lasciava indifferenti ci appare appetitoso. A questo punto saremo in grado di saziarci con una patata bollita o con un pezzetto di mela.

  I pasti ipocalorici, da assumere in sostituzione dei pasti normali aiutano a tenere sotto controllo la quantità di calorie, perché il loro apporto è quantificato.

Si tratta di soluzioni liofilizzate di proteine, carboidrati, vitamine e minerali, con un basso contenuto di grassi e talvolta con l'aggiunta di fibre, in grado di fornire all'organismo una dose appropriata e controllata di calorie.

L'unico inconveniente è che l'intestino rimane privo di fibra e di massa, e si può arrivare alla stitichezza. Occorre quindi assumere anche fibre o scegliere i pasti sostitutivi che dichiarano nella etichetta una adeguata quantità di fibra come ingredienti.

Questo è il trattamento che per la sua efficacia è adottato dalle cliniche che si occupano dei casi di obesità più gravi. Il programma Optifast prevede una prima fase di tre mesi, nel corso dei quali il paziente non può assumere altro che la porzione da 80 calorie  cinque volte al giorno, perdendo fino a cinque chili la settimana. Segue una fase intermedia, in cui pasti leggeri (insalate, carne magra) prendono gradualmente il posto delleproteine liquide, e infine il ritorno alla normalità. Nelle cliniche questi trattamenti vengono eseguiti sotto il diretto controllo dei sanitari, che verificano giorno per giorno la pressione sanguigna, la funzionalità cardiaca, il contenuto delle urine, i livelli di potassio e di elettroliti.

  Nulla vieta, anche durante una restrizione calorica particolarmente intensa (solo 300-500 calorie al giorno), di assumere, insieme alle barrette dietetiche anche alimenti come tuorlo d’uovo (crudo), che apporta molte vitamine e micronutrienti, albume d’uovo (ben cotto) che costisce una fonte perfetta di proteine, cacao magro in polvere, che è ricco di proteine (10,7 g ogni etto), e di minerali come magnesio, potassio, calcio, fosforo.

Gli studi più recenti mostrano che assumere fino a tre uova intere al giorno non produce alcun danno al vostro cuore.

  Assumete molta acqua. La mancanza di acqua può provocare un senso di fame, perché il corpo vi spinge a mangiare alimenti per sfruttare la loro acqua. Inoltre, l’acqua gonfia tutti gli alimenti che ingerite, provocando più velocemente un senso di sazietà.

Aggiungete un bicchiere d’acqua o di the a qualsiasi cosa mangiate: uno snack, dei cracker, persino a una mela.

  Assumete per tutto il tempo della dieta o del digiuno integratori vitaminici, perché anche la mancanza di vitamine provoca fame

  Utilizzate liberamente bibite acaloriche come Diet Coke per attenuare il senso di fame.

  Utilizzate la polvere proteica. L'utilizzo di polvere proteica in sostituzione di almeno un pasto giornaliero è un programma un po' drastico, che andrebbe monitorato da un medico, ma che può far perdere fino a cinque chili la settimana. In farmacia e nei negozi di integratori sono in vendita confezioni di proteine in polvere aromatizzate, che si possono shackerare nel latte magro per ottenere un ottimo pasto mattutino o pomeridiano o anche sostituire il pranzo. Le migliori sono le proteine estratte dal siero del latte. Evitate le proteine della soja perché sono incomplete e possono dare allergia e mal di testa.

  Sia che utilizziate proteine in polvere che pasti sostitutivi che una dieta iperproteica ricordate che dovete bere moltissimo, perché la digestione delle proteine altrimenti può danneggiare i reni.

  Mangiate gli alimenti più ricchi di fibre, per aumentate la quantità di fibre nella dieta. Dovreste assumere almeno 30 grammi al giorno, di fibre, che potreste portare a 70. Le fibre ritardano il transito intestinale, generando un maggiore senso di sazietà e in una certa misura inibiscono l’assorbimento di nutrienti calorici come i grassi.

  I falsi-magri: ecco una lista di alimenti che non sono magri:

- Mozzarella (ha il 18% di grasso, contro il 5% o meno dei fiocchi di latte, il 4% dello yoghurt intero e l'1% dello yoghurt magro

- Prosciutto, cotto o crudo: ha troppi grassi visibili e invisibili (nelle fibre della carne rossa)

  Scaricate da internet una tabella col valore calorico degli alimenti e imparate le calorie di quelli che mangate più frequentemente.

  Molti avvisi pubblicitari ed "esperti" consigliano di assumere sostanze che aumentino il metabolismo, perché così si bruciano più velocemente i grassi. Così, bisognerebbe fare consistente attività fisica durante il dimagrimento, in modo che il metabolismo rimanga alto e il peso diminuisca più velocemente. In realtà il metabolismo varia di ben poco, e non è consigliabile intraprendere un'attività fisica importante durante una seria cura dimagrante, perché si aggiunge stress (quello dell'attività fisica) a stress (quello del dimagrimento).

  Imparate a fare il calcolo delle calorie totali giornaliere

Procuratevi una app per telefonino o pc che calcoli le calorie immettendo tipo e grammi di alimento. In questo sito learningsources esiste un foglio elettronico che può fare questi calcoli (clicca qui).

  Sostituite gli alimenti meno calorici a quelli più calorici. Ecco alcuni esempi:

pasta (250 cal.) fagioli (95 cal.)

pasta (250) gnocchi (150 cal.)

pasta (250) patate (80)

latte intero (70 cal) latte scremato (35)

tonno all'olio di oliva (213 cal) tonno al naturale (95 cal)

yoghurt intero (64 cal) yoghurt magro (40 cal)

pane bianco (280 cal) pane di segale (194 cal)

mozzarella (224 cal) fiocchi di latte (128 cal)

mozzarella (224 cal) yoghurt magro (40 cal)

prosciutto (434 cal) bresaola (164 cal)

  Dosate tutti i grassi e gli oli con un dosatore, non versarli liberamente. Un cucchiaino da cucina sarà sufficiente come misurino, sia per il burro che per l'olio. Cercate di non utilizzare non più di un certo numero di cucchiaini alla volta.

  Se potete (ad esempio vivete solo) è assolutamente necessario svuotate completamente il vostro frigorifero e la vostra dispensa di qualsiasi alimento non previsto dalla vostra dieta, la cui quantità non dovrà superare le necessità di uno-due giorni (salvo che le confezioni siano più grandi). Ripetiamo che questa è una delle condizioni più imortanti del successo della vostra dieta.

  La pasta e il pane sono da evitare il più possibile, almeno nel periodo di dimagrimento, forse più dei grassi.

questo e’ un consiglio importante. non date ascolto a chi vi dice che “pasta e pane sono importanti per l’organismo, che ha bisogno di carboidrati per funzionare correttamente”.

i medici dei nostri nonni, fino agli anni ’60 sapevano invece benissimo che pasta e pane sono responsabili all’80% dell’obesità (anche di quella dei neonati nutriti con troppi farinacei), e questi erano la prima cosa che raccomandavano di evitare durante una dieta dimagrante.

quanto ai carboidrati, ci sono altre fonti: tutti i vegetali ne contengono in quantità più o meno grande: una semplice passata di verdure contiene tutti i carboidrati di cui avete bisogno ad un pasto, durante la vostra dieta. anche lo yoghurt magro contiene lattosio, che è uno zucchero (carboidrato).

La dimenticanza di questo semplice precetto da parte della classe medica e l’esclusiva focalizzazione sui grassi, anche per ragioni di salute cardiovascolare, e’ stata probabilmente una delle cause dell’epidemia di obesità che ha colpito i paesi occidentali nel secondo dopoguerra

  Se proprio non volete abolirli, il pane e la pasta andrebbero sostituiti con dosi controllate e ridotte: assumete il pane sempre nella forma di crackers magri (ottimi i “Magretti” della Galbusera) e in nessun’altra forma e in modo moderato. Questo vi consente di controllare perfettamente l’assunzione di pane giornaliera limitandola a qualche centinaio di calorie al massimo, contro le 500-600 calorie che rappresentano pane e pasta in una dieta normale.

  Il pane di frumento può essere vantaggiosamente sostituito dal pane di segale (non quello della panetteria, ma quello venduto in confezioni di fette quadrate già tagliate nei supermercati: ottimo quello prodotto dalla Loacker), che è ricchissimo di fibra, molto più saziante, ed apporta molte meno calorie (194 contro 280).

  la pasta andrebbe abolita del tutto. Se proprio volete mangiarla, dovete rinunciare ai sughi e cucinare poca pasta (massimo 40 grammi) con tantissime verdure: ottima la pasta con le melanzane stufate con semplice olio di oliva nel forno a microonde.

  sostituire invece il pane di farina bianca di frumento con il pane di farina integrale di frumento non apporta alcun beneficio per il dimagrimento: le calorie addirittura aumentano, perché nella crusca di frumento è contenuta la parte oleosa del seme (il germe), che ne aumenta il valore calorico.

  I sughi vanno assolutamente aboliti a favore del semplice olio di oliva.

  Sostituite gli zuccheri semplici con gli zuccheri complessi: meglio una patata (che contiene amidi, che sono zuccheri complessi) che una banana (che contiene lo zucchero semplice fruttosio).

  Evitate come la peste bevande zuccherate, lo zucchero della zuccheriera, le cioccolate non fondenti e tutto ciò che contiene glucosio o saccarosio. Evitate la frutta eccessivamente dolce, come le banane molto mature.

  L'attività sportiva aiuta a mantenere sotto controllo il peso, una volta che siete calati, ma non è la via migliore per perdere peso. Pensate che una maratona di 40 chilometri vi fa perdere solo 1500-200 calorie, cioè all'incirca 222 grammi di massa grassa. Avreste ottenuto praticamente lo stesso effetto stando tranquillamente seduto a casa a guardare la televisione e a digiunare bevendo tisane.

  La dieta dimagrante è iperproteica: meno pasta, pane, fagioli e farinacei e più carne, pesce, latticini magri, affettati magri.

Una proteina ha lo stesso numero di calorie di un carboidrato (4 calorie) ma viene assimilata più lentamente. I carboidrati invece, nel sangue, provocano un picco di insulina che li trasforma quasi subito in grasso di riserva. Questo è il segreto dei dietologi e della dieta Dukan.

Inoltre, recenti studi scientifici hanno provato che una dieta iperproteica induce gli adipociti (le cellule che contengono il grasso corporeo) a rilasciare la loro provvista di trigliceridi, e quindi diminuendo il nostro adipe.

Se volete avere un elenco completo delle proteine da sostituire ai carboidrati, acquistate un libro che illustri la dieta Dukan: contiene l'elenco completo delle carni, del pesce ecc. permessi.

  Utilizzate molta verdura, cotta e cruda. La verdura è quasi a "calorie zero". 100 grammi di verdure hanno sempre un valore calorico intorno alle 25 calorie

  Un minestrone o un passato di verdura Knorr hanno pochissime calorie (25 calorie) e sono molto sazianti.

  uno dei trucchi più importanti per dimagrire è quello di assumere un po’ di dolce (pezzetti di cioccolata, barrette dietetiche, una caramella dura alla frutta) insieme a tantissimo the. anche grazie alla caffeina (teina) del the, rimarrete saziati per ore.

Le tisane, il the, con un pezzetto di cioccolato o un pezzo di biscotto sono un ottimo ausilio per combattere il senso di fame. Una tazza di the con un dito di latte scremato (al limite anche intero) sazia per un'ora.

  Consultate, sul sito www.learningsources.altervista.org la tabella delle proteine più magre. Avrete delle sorprese.

Tanto per fare un esempio: 33 grammi di proteine provenienti dalla bresaola “pesano” caloricamente 164 calorie, mentre 33 grammi di proteine provenienti dal prosciutto “pesano” ben 629 calorie!

  Mangiate dosi controllate di alimenti

Barrette dietetiche, confezioni di crackers, cucchiaini per dosare l’olio, vasetti di omogeneizzati di carne anziché bistecche, sono tutti mezzi per sostituire ad un consumo incontrollato un consumo controllato e moderato.

  Evitate il picco glicemico

Se il vostro pasto eccede le 500 calorie la glicemia nel sangue aumenta al punto da far intervenire il pancreas con la secrezione di insulina, che “spazza via” tutti gli zuccheri. Purtroppo, il pancreas in questi casi diventa iperreattivo e secerne un surplus di insulina, che spazza via tutti gli zuccheri, lasciandovi dopo poco tempo (un’ora al massimo) con un rinnovato senso di fame dovuto ad ipoglicemia.

  Evitate di fare un pasto sostanzioso prima di andare a dormire. Se proprio volete mangiare, evitate la pasta e privilegiate le proteine magre

L’inattività del sonno fa sì che per diverse ore il glucosio circoli nel sangue e non venga consumato e alla fine l’organismo lo trasformerà tutto in grasso

  State attenti all'indice glicemico

L’indice glicemico (IG), in inglese glicemic index (GI), di un alimento è espresso in percentuale e indica la velocità con cui aumenta la glicemia in seguito all’assunzione di un quantitativo dell’alimento stesso contenente 50 grammi di carboidrati. Si misura l’andamento della glicemia dal momento dell’ingestione fino a due ore dopo. Il parametro di riferimento è la reazione della glicemia all’assunzione di pane bianco o glucosio (valore 100). Alimenti con indice glicemico superiore a 50 sono ritenuti «pericolosi» per la glicemia e l’aumento di peso.

Quando si cerca di perdere peso diventa essenziale evitare i cibi che hanno un alto indice glicemico e consumare invece cibi a basso indice glicemico

Alcuni anni fa i medici bandivano severamente i carboidrati dalla dieta dei diabetici, col risultato che dovevano far fronte al ridotto apporto di calorie con una dieta ad alto contenuto di grassi.

 

Albicocca 32 Kiwi 55 Patate bollite 51 Uva passa  64

Ananas 68 Latte scremato 33 Patate stufate 84  Yoghurt magro 33

Arancia 44 Mela  38 Pere 37 Yoghurt magro

con aspartame  15

Banana 60 Miele 80 Pesche 43 Yoghurt magro

con fruttosio  34

Carote 80 Pane bianco 65 Pomodori 38

Fagioli 31 Pane integrale  75 Pop-corn con pochi grassi 55

Farina d'avena  42 Pasta fresca 32 Riso basmati  58

Fibre integrali 43 Pasta secca  41 Uva 50

 

Ricordate che più un cereale è ricco di fibre e non raffinato, minore è l’indice glicemico. L’avena è il cereale con l’indice glicemico minore, data la sua alta quantità di fibre: 11% (ma sfortunatamente è il cereale più grasso: la farina di avena ha 385 calorie per etto, contro le 341 della farina raffinata di frumento!).

La concomitante assunzione di grassi, proteine, fibre, abbassa l'indice glicemico: il latte intero ha un IG minore del latte scremato. Un panino farcito con verdura ha un IG inferiore di un panino di solo pane e affettato.

Il grasso, come la fibra, agisce in modo simile a una sorta di freno durante il processo digestivo: quando si combina con altri cibi diventa un abarriera per i succhi gastrici. Inoltre dà un senso di sazietà, togliendo il desiderio di altri cibi.

Mantenendo basso il livello di insulina si contrasta la trasformazione degli zuccheri in grassi e si promuove contemporaneamente la trasformazione dei grassi in energia.

Per abbassare l'IG cerchiamo di consumare alimenti proteici in ogni pasto o spuntino

  Consultate le tabelle delle calorie bruciate con i vari tipi di attività fisica e scegliete quella migliore per voi

 

ginnastica e attività svolte in casa rispettivamente da un adulto del peso di 60 kg, di 70 kg e di 90 kg (30 minuti)

 

Fare giardinaggio 140  173  216

Fare le pulizie domestiche   109 134  168

Giocare con i bambini 156  192 240

Praticare una moderata attività sessuale   47 58 72

Rastrellare il prato   125  154 192

Spaccare la legna   187  230  288

Spalare la neve   187  230  288

 

attività all’aperto o in palestra rispettivamente da un adulto del peso di 60 kg, di 70 kg e di 90 kg (30 minuti)

 

Arrampicata su roccia (discesa)   250  307  384

Arrampicata su roccia (salita) 343  422  528

Arti marziali 312  384  480

Beach-volley 250  307  384

Bicicletta (circa 20 km/h) 250 307  384

Bicicletta (circa 25 km/h) 312 384  480

Bicicletta (mountain bike)   265 326  408

Boxe (allenamento)   281  346 432

Calcio (una partita) 281  346 432

Calcio (palleggi) 250  307  384

Camminata (circa 6 km/h)   125 154  192

Camminata (circa 7 km/h)   156 192  240

Camminata con jogging per più di 10 minuti 187  230 288

Canottaggio 156  192  240

Corsa campestre   281  346  432

Corsa (circa 8 km/h) 250  307 384

Corsa (circa 12 km/h)   390  480 600

Corsa (circa 16 km/h)   515  634 792

Equitazione   125  154  192

Frisbee   94 115  144

Ginnastica (in generale) 125 154  192

Golf   172  211  264

Nuoto 187  230  288

Palla a mano (in generale)   374 461  576

Pallacanestro (una partita)   250 307  384

Pallanuoto   312  384  480

Pallavolo (agonistica   125  154 192

Pallavolo (non agonistica) 94 115  144

Passeggiata in montagna 187 230  288

Passeggiare con le racchette da neve 250  307  384

Pattinaggio a rotelle 218  269 336

Pattinaggio su ghiaccio 218  269 336

Salto della corda   312  384  480

Sci alpino 187  230  288

Sci di fondo   250  307  384

Sci nautico 187  230  288

Squash   312  384  480

Squash per dilettanti 218  269 336

Tennis 218  269  336

 

 

 

Esiste un elenco di cibi per i quali c'è un rischio maggiore di inquinamento?

 

Ecco alcune indicazioni solo esemplificative; un elenco completo non è qui fornito:

- Fragole: crescendo a terra, dove sono attaccate continuamente da parassiti, richiedono una quantità enorme di antiparassitari per maturare senza danno

- Peperoni: anche loro sono tra la verdura più inquinata dagli antiparassitari, anche se molto meno che le fragole

- Tonno (vedi)

- Cibi che provengono dal Terzo Mondo, dove spesso vengono utilizzati pesticidi banditi in Occidente, come ad esempio il DDT.

Mele, pesche, frutta e verdura nostrana o europea sono forse meglio di mele cilene o cinesi.

- Prodotti in scatola: i metalli pesanti della banda stagnata possono finire nell'alimento

- Le cioccolate di scarsa qualità o discount sono piene di additivi tossici

- The sfuso o caffè di marchi poco noti provenienti dal terzo mondo potrebbe essere inquinato da DDT, che in quei paesi viene utilizzato estensivamente

- Trote di allevamento: sono animali dalla salute molto delicata, gli allevatori somministrano alte quantità di antibiotico, che si trovano nel prodotto finale

- Pomodori fuori stagione: pieni di antibiotici

- Frutta fuori stagione: non di rado è prodotta utilizzando più sostanze e ormoni chimici della frutta di stagione

- Mele: LE MELE SONO UN CIBO OTTIMO: tenere solo presente che certi contadini mettono delle sostanze antimuffa sulla buccia. Se non sono bio è bene lavare accuratamente la buccia o sbucciare.

- Biscotti o dolci che tra gli ingredienti indicano "grassi vegetali". I "grassi vegetali" sono da evitare, che siano idrogenati o non idrogenati (vedi)

- Affettati: non c'è un affettato "naturale": sono tutti pieni di conservanti tossici e cancerogeni. Quelli privi di nitriti e nitrati hanno comunque altri conservanti tossici.

- Cibi che indicano "aromi" invece che "aromi naturali": nel primo caso sono permessi additivi chimici, nel secondo caso no

- La frutta secca ha normalmente aggiunti degli antimicrobici come conservanti. Il meno dannoso è il sorbato di potassio. Ma molta frutta secca proviene dal Medio Oriente o dal Sudamerica, ed è quasi impossibile sapere cosa vi abbiano aggiunto i produttori all'origine.

 

 

 

Quali sono le migliori fonti di fibre per il transito intestinale?

 

Per quanto riguarda la fibra alimentare, le informazioni disponibili sono tante ma non sempre precise. Anche se la fibra non è un nutriente, è comunque un importante componente dell’alimentazione ed è presente in una grande varietà di alimenti di origine vegetale, in particolare nelle parti commestibili resistenti alla digestione e all’assorbimento. I suoi effetti benefici più significativi sono l’aumento del transito intestinale, la diminuzione e il rallentamento dell’assimilazione dei nutrienti, il prolungamento del senso di sazietà, la riduzione del picco di glicemia dopo il pasto e della risposta dell’ormone insulina. La fibra alimentare ha anche un effetto prebiotico, cioè fa sì che i microrganismi intestinali fermentino, con la conseguente formazione di composti che hanno effetto benefico per l’organismo.

In generale è consigliato un consumo di 30 grammi al giorno di fibra alimentare, che corrispondono alle raccomandate cinque porzioni quotidiane di frutta e verdura, a cui vanno aggiunte almeno due porzioni di pasta (o pane) oppure di riso integrali (o di altri derivati da cereali integrali).

Frutta, verdura, legumi e cereali integrali sono ricchi di fibra ed è importante che il loro consumo sia quotidiano e regolare. Vedete quindi che basare l’alimentazione solo su alimenti vegetali non solo non è rischioso, ma è di assoluto beneficio. Anche perché la dimostrazione che alcuni tumori sono legati al consumo di carne rende del tutto dannoso e sconsigliato nutrirsene anche in quantità minima.

Andiamo ancora oltre, allora. Proviamo a specificare quali carboidrati e cereali sono migliori degli altri. Per soddisfare il fabbisogno di fibra è fondamentale consumare cereali integrali e prodotti derivati da farine integrali. Sostituire tutti i prodotti derivati da farina bianca con prodotti integrali aumenta infatti la probabilità di prevenzione e salute.

Una fonte di fibra da non trascurare è rappresentata infine dai legumi, che dovrebbero essere consumati come minimo quattro volte alla settimana: fagioli (tutti i tipi di fagiolo), soia, lenticchie, ceci, piselli. Anche nelle persone diabetiche una dieta ricca di fibre può ridurre il rischio di complicanze correlate con la malattia.

 

Le fonti di fibre migliori sono le pectine, fibre della frutta, seguite da quelle dei legumi (fagioli, ceci, lenticchie).

Ultime vengono le fibre della crusca: del pane integrale, del pane di segale ecc.

Le fibre della crusca sono da sostituire quando possibile con le fibre della frutta, perché il nostro organismo non le digerisce: formate da cellulosa, che è uno zucchero indigeribile per l'uomo (mentre viene digerito dagli insetti che mangiano il legno, come i tarli), e provoca per questo una enorme formazione di gas intestinale che gonfia l'apparato digerente e crea flatulenza.

Le fibre dei fiocchi Kellogg's sono quindi proprio le meno indicate per la digestione e il transito intestinale! Provate a mangiare invece la parte bianca sotto la buccia delle arance, che è preziosissima fibra idrosolubile

Le fibre sono benefiche ma non vi sono tuttavia grandi evidenze che proteggano dal cancro

Le fibre ritardano o prevengono emorroidi, stitichezza, cancro colonrettale, arteriosclerosi, colon irritabile, diverticolosi, diabete, calcoli biliari, colesterolo e trigliceridi alti, appenditite, ernia iatale, vene varicose, obesità, carie dentaria, gotta, ipertensione, osteoartrite.

La diverticolosi è una malattia dell'intestino crasso che consiste nella formazione sulle pareti intestinali di estroflessioni allungate, diverticoli, che più tardi si infiammano e possono provocare disturbi di ogni genere.

Le fibre sono formate da quei componenti degli alimenti di origine vegetale che resistono agli enzimi digetivi dell'intestino. Essenzialmente ci sono due tipi di fibre: cellulose ed emicellulose da un lato e gomme e pectina dall'altro.

Le cellulose assorbono acqua  nella parte inferiore dell'intestino o colon. Le feci diventano più morbide e pesanti.

La pectina e le varie gomme come il guar, fanno sì che lo stomaco e l'intestino trattengano gli alimenti per un tempo maggiore. Ne consegue un cerico di zucchero digerito in modo più lento e uniforme

Aumentando la velocità del transito nel colon, le fibre fanno sì che le sostanze cancerogene vi rimangano meno tempo

L'ernia iatale è una condizione in cui una porzione della parte superiore dello stomaco invade il corace a causa di un indebolimento del diaframma. Più si è stitici, più ci si deve sforzare durante l'evacuazione e maggiore diventa la pressione nella cavità addominale. Questa pressione dollevba il diaframma e lo indebolisce, rendendo così l'individuo più vulnerabile all'ernia iatale.

Probabilmente è questa pressione che provoca anche vene varicose

La pectina e le gomme imprigionano il colesterolo. Possono combinarsi con gli acidi biliari che sono ricchi di colesterolo, facendo abbassare ancora il livello di quest'ultimo, e scongiurando i calcoli biliari, che sono co,posti di colesterolo. Il tasso di colesterolo nel sangue è più basso e rende più improbabile la formazione di calcoli biliari. Gli stessi acidi biliari sono stati ritenuti concause del cancro al colon

La pectina e le gomme riducono la quantità di zucchero nel sangue. La minore quantità di zucchero abbassa la pressione, perché minore sarà l'insulina, e minore la pressione arteriosa.

Cercate di consumare 30-40 g di fibre al giorno.

Bastano quattro fette di pane integrale (5g per fetta) per fornire il doppio della dose media USA.

Se vi limitate alla crusca ne trarrà beneficio solo la parte inferiore dell'intestino. Ma se vi aggiungete pectina e gomme presenti nalle mele, arance, banane, piselli, carote, baccche varie e patate, sarà possibile anche abbasare il tasso dello zucchero e del colesterolo nel sangue.

I batteri presenti nella parte inferiore dell'intestino provocano la feermentaizone delle fibre e producono gas metano. Gli individui che seguono diete ricche di fibre in genere sono più fongi di gas degli altri, e soprattutto se esagerano hanno crampi, diarrea e gas. Ma col tempo il loro organismo si abitua e i sintomi sono ridotti al minimo.

Quando le feci sono morbide e passano agevolmente e con regolarità non sarà più necessario aumentare la dose

 

 

 

Cos'è la terapia delle "megativamine", proposta dal premio Nobel Linus Pauling?

 

Secondo una scuola di pensiero capeggiata dal premio Nobel Linus Pauling, che trova largo seguito tra i medici negli Stati Uniti, è possibile che assumendo dosi di vitamine superiori a quelle necessarie per evitare malattie da avitaminosi si abbiano notevoli vantaggi per la salute. Nessuno sa infatti quali siano le dosi ottimali di vitamine, che probabilmente sono molto maggiori di quelle raccomandate.

Come rileva infatti Pauling, le dosi giornaliere raccomandate sono quelle strettamente indispensabili per non sviluppare patologie. Così, la dose raccomandata di vitamina C è quella strettamente necessaria per evitare lo scorbuto.

Negli anni Settanta e Ottanta, Pauling e altri promossero la teoria delle megativamine  che propone l'assunzione di dosi doppie o quadruple di quelle normalmente raccomandate. Di questa teoria si tratta in un apposito paragrafo.

Questa teoria ha incontrato lo scetticismo di una parte del mondo medico, e, prima di illustrare le raccomandazioni di Pauling, sentiamo il dovere di riportare l'opinione negativa del farmacologo Silvio Garattini:

Gradualmente, nel no¬stro immaginario le vitamine, da fattori che ristabili¬scono un equilibrio in organismi debilitati o compro¬messi, sono assurte a corroboranti di organismi sani, a panacee universali, a cardini indiscutibili della religione salutista. Mass-media e clinici alla moda le idealizzano come concentrati di sostanze naturali, «pacchetti quantici» di energia verde, precipitati di benessere cosmico cui si attribuisce il potere di cica¬trizzare le ferite inferte al nostro corpo e ai nostri nervi dalla civiltà industriale.

Ogni fibra, ogni organo, ogni funzione dell'orga¬nismo ha la sua vitamina. La vitamina B tonifica il si¬stema nervoso, la D irrobustisce le ossa, la A fa bene agli occhi, la E mantiene giovane ed elastica la pelle. E infme la E, la regina di tutte le vitamine, vero toc¬casana buono per tutti gli usi, dal raffreddore al cancro. Effervescente, aromatizzata al limone, all'aran¬cio, ai frutti di bosco, la vitamina C va a ruba nelle farmacie durante ogni epidemia di influenza, e c'è gente che ne consuma due o tre grammi al giorno nell'illusione di preservarsi dal contagio. Senza ren¬dersi conto che ogni dose supplementare rispetto al fabbisogno normale che il corpo è in grado di assimi¬lare va solo a ingorgare inutilmente i reni e le vie urinarie.

li profeta indiscusso della vitamina C è stato il premio Nobel per la chimica e per la pace Linus Pau¬ling, al quale si devono tra l'altro importanti studi in materia. Sulla sua scia, in anni recenti, molti medici e biologi hanno esplorato le potenzialità dei cosiddetti «micronutrienti», vitamine, antiossidanti e carote¬.noidi, nella prevenzione del cancro. Numerose ricer¬che epidemiologiche hanno fornito elementi per rite¬nere che una dieta povera di frutta e di verdura sia associata a un rischio più elevato di tumore (soprattutto del polmone e del colon, ma anche della pro¬stata, del seno e della cervice). Di qui l'ipotesi «a con¬trario», che un menù ricco di questi cibi allontani il pericolo della malattia.

Ma questi risultati non autorizzano alcuna conclu¬sione definitiva. Non ci sono elementi per dire che l'effetto preventivo sia dovuto alle vitamine e non a un'altra delle numerose sostanze contenute nei vege¬tali e nella frutta e - quel che più conta - non è afe fatto provato che un' «overdose» di vitamine in com¬presse possa accrescere queste difese. Anzi, esistono evidenze che dosi elevate possano in qualche caso provocare danni di vario tipo all'organismo.

Le vitamine influiscono anche sul rendimento del cervello? Tre anni fa, un' articolo pubblicato sulla ri¬vista medica britannica «The Lancet» dava notizia di un esperimento condotto su sessanta scolari inglesi tra i 12 e i 13 anni ai quali era stato somministrato per otto mesi un complesso multivitaminico e mine¬rale. Rispetto ai loro compagni ai quali, contempora¬neamente, era stato fatto trangugiare un semplice «placebo», questi ragazzi rivelarono un sensibile in¬cremento del Quoziente di Intelligenza (QI.) «non verbale».

L'indagine fu però molto criticata negli ambienti scientifici per l'incompletezza dei dati raccolti. Un analogo esperimento è stato ripetuto in seguito da un gruppo di ricercatori californiani guidati dal cri¬minologo Stephen Schoenthaler. Dopo tredici setti¬mane di trattamento vitaminico, il QI. non verbale dei ragazzi trattati ha registrato un incremento di 3,7 punti, mentre il QI. verbale restava praticamente in¬variato. Prima ancora di venire pubblicato e discusso sulle riviste accademiche, lo studio del professor Schoenthaler è finito sotto i riflettori della Bbc, che ne ha ricavato un programma ad alto gradimento. Questo modo di procedere alquanto disinvolto per uno scienziato ha suscitato un coro di proteste, anche perché la ricerca californiana è servita da rampa di lancio per un nuovo preparato, «Vitachieve», molto reclamizzato sulla stampa britannica.

Ancora una volta i mercanti della salute sono stati pronti a cogliere la palla al balzo e a speculare sull' ossessione di tanti genitori per il rendimento sco¬lastico dei propri figli. Un bombardamento ipervitaminico è scattato fulmineo come un blitz nei cieli del Regno Unito, senza aspettare che un'indagine più ap¬profondita consentisse di valutare con maggiore ponderazione, e sulla base di riscontri oggettivi, l'effica¬cia e la non pericolosità di questi trattamenti. E senza tenere conto del fatto che i bambini californiani hanno diete e abitudini di vita completamente diffe¬renti dai bambini inglesi. Ma la macchina pubblicita¬ria non fa caso a queste sfumature.

 

Ed ecco, dopo aver sentito la campana contraria di Garattini, le semplici raccomandazioni di Pauling:

 

  Assumere vitamina C ogni giorno (6-18 g o più). Non saltare un solo giorno.

  Assumere vitamina E ogni giorno (400 UI o più)

  Assumere vitamine del complesso B ad alto dosaggio ogni giorno:

  B1 50-100 mg

  B2 50-100 mg

  B3 300-600 mg

  B6 (piridossina) 50-100 mg

  B12 (cobalamina) 0,1-0,2 mg

  Acido folico 0,4-0,8 mg

  Acido pantotenico 100-200 mg

  Assumere vitamina A ogni giorno (25.000 UI)

  Assumere un multiminerale che garantisca almeno 100 mg di calcio, 18 mg di ferro, 0,15 mg di iodio, 1 mg di rame, 25 mg di magnesio, 3 mg di manganese, 15 mg di zinco, 0,015 mg di molibdeno, 0,015 mg di cromo, 0,015 mg di selenio

  Mantenere basso l'apporto di saccarosio. Non dolcificate the o caffè, non mangiate cibi molto dolci. Evitate i desserts. Non bevete bibite.

  Bere abbondantemente acqua

  Mantenersi attivi, fare qualche esercizio. Non esaurirsi fisicamente oltre le proprie possibilità normali.

  Bere alcolici con moderazione

  NON FUMARE

  Evitare lo stress. Fare un lavoro che piaccia. Essere felici nella propria famiglia.

 

 

 

I 18 effetti negativi del sesso fine a se stesso sulla vostra psiche, la vostra salute e la vostra vita di relazione.

 

La recente ed importante letteratura statunitense sul preoccupante fenomeno della sex addiction e dei disturbi compulsivi del comportamento sessuale che interessano un numero sempre crescente di persone, anche adolescenti, e possono condurre a gravissime conseguenze personali e sociali (si vedano in proposito i casi veramente impressionanti raccolti nella pregevole ricerca Don’t call it love coordinata da Patrick Cairnes) concorda sul fatto che il sesso, pur essendo indiscutibilmente un elemento essenziale della nostra vita che, se vissuto in modo sano, può contribuire ad arricchirla, è però un istinto estremamente potente, che può rivelare aspetti pericolosi e autodistruttivi se non gestito con equilibrio e – diciamolo pure – con cautela.

Qui di seguito viene indicata una serie di usi impropri del sesso (come strumento di gratificazione, come surrogato di legami emotivi profondi, come parodia della virilità, come mezzo di dominio, come strumento per stordirsi e sedare sentimenti di inquietudine e inadeguatezza. ecc.) e di pericoli legati a tali usi impropri.

 

  Malattie a trasmissione sessuale

Una iperattività sessuale promiscua incrementa significativamente il pericolo di malattie a trasmissione sessuale, su cui vedi l’apposito paragrafo.

  Gusto del pericolo

Da interviste a prostitute emerge come dato preoccupante che la richiesta tipica di una buona parte dei clienti è: a) avere rapporti vaginali ed anali non protetti; b) avere rapporti orali (baci) non protetti; c) avere rapporti orogenitali non protetti.

Di fatto, durante il tempo dell’atto sessuale si scatenano istinti geneticamente programmati alla procreazione, che spingono a livello inconscio ad eliminare le barriere alla emissione del seme.

Pure preoccupante è il basso livello di educazione sessuale delle prostitute e dei prostituti: da interviste effettuate risulta che non pochi prostituti adolescenti asiatici sono convinti di poter evitare l’AIDS semplicemente assumendo delle “pillole” non meglio identificate che sono vendute loro da farmacisti senza scrupoli come agenti preventivi del virus; non poche prostitute pensano che una semplice lavanda vaginale dopo un rapporto non protetto possa immunizzarle da infezioni e gravidanze indesiderate.

Le stesse condizioni in cui viene consumato l’atto sessuale mercenario, spesso in auto o in stanze di fortuna, rende impossibile una corretta e tempestiva igiene dopo l’atto.

  Promiscuità

Il sesso ha una fortissima componente fisica, legata più alla giovinezza, alla freschezza della pelle, al turgore delle labbra e dei seni e così via, che non alle caratteristiche psicologiche e alla personalità del partner. Possiede probabilmente  anche una componente legata alla “caccia” di nuovi partner.

Accrescere progressivamente l’uso del sesso nella coppia può alterare l’equilibrio tra momento affettivo e momento fisico, col risultato che, soprattutto il maschio, può cercare gratificazioni anche al difuori della coppia.

  Perversioni

Non c’è bisogno di leggere il celeberrimo manuale di R. von Krafft-Ebing sulle perversioni sessuali, compilato alla fine dell’Ottocento col titolo di Psychopatia Sexualis, e tuttora valido, per intuire che l’iperattività sessuale può condurre una percentuale significativa di persone ad esplorare e a trovare attraenti usi deviati del sesso. Per rendersene conto è sufficiente entrare in un pornoshop e dare un’occhiata ai titoli dei DVD in vendita: sorprendentemente, solo una parte dei titoli esposti mostrano un sesso “normale”.

A priori chi inizia a propendere per l’iperattività sessuale non può sapere come reagirà la sua psiche profonda a stimoli così potenti. Per lui il sesso potrebbe rivelarsi una strada senza ritorno verso perversioni ripugnanti, inclusa la pedofilia e la sottomissione ad umiliazioni estreme.

Anche una omosessualità latente, pur non essendo certamente una perversione, può manifestarsi come effetto di una iperattività sessuale.

  Stato di eccitazione maniacale

Gli studi recenti sulla sex addiction mostrano come l’iperattività sessuale provochi degli “high” neurochimici simili a quelli delle droghe, con le stesse modalità di spinta a ripetere l’esperienza.

Di fatto, era già noto da tempo che i forti innamoramenti provocano la produzione da parte dell’organismo di feniletilammine, un particolare tipo di amfetamine naturali, la cui produzione, però non dura a lungo.

Da interviste fatte a soggetti con iperattività sessuale risulta che questa li piomba in una sorta di stato maniacale permanente, alterando profondamente la loro emotività e mantenendoli in uno stato di continuo pensiero, desiderio ed eccitazione che li isola progressivamente dalla realtà, fino a farli arrivare, nei casi estremi, alla violazione della legge (pedofilia, esibizionismo ecc.)

  Enorme perdita di tempo ed energie

Dalle interviste a soggetti caratterizzati da iperattività sessuale emerge il tremendo ammontare di tempo e di energie che il sesso risucchia dalla loro vita privata, familiare, professionale, con effetti talvolta disastrosi sulla carriera e sui rapporti interpersonali.

  Perdite patrimoniali

Per una percentuale significativa di persone l’iperattività sessuale sfocia nella pratica del sesso mercenario. Da estesi studi sul comportamento tipico dei sex addicts risulta che un terzo dei soggetti osservati si orienta verso una coazione a ripetere l’esperienza del flirt; un altro terzo si rifugia in fantasie ossessive, con l’uso di materiale pornografico, e un altro terzo cade preda del sesso mercenario, con conseguenze economiche estremamente pesanti.

  Ripiego in se stessi

Fatalmente il sesso può trasformarsi in una ricerca ossessiva di rapporti spersonalizzati o di realizzazione di fantasie che gradualmente danneggia la capacità del soggetto di valutare la realtà, specie la realtà delle esigenze di coloro che gli sono più vicini, incluso il partner.

  Ostacolo alla comprensione del partner e rottura dellarmonia di coppia

Un partner che insegue le sue fantasie più spinte facilmente perde il contatto con il mondo immaginativo dell’altro partner, se quest’ultimo ha un modo diverso di vivere il sesso, ad esempio più collegato ad aspetti affettivi e relazionali.

Questo potrebbe creare una frattura, anziché un rinsaldamento nei rapporti di coppia.

Una triste testimonianza della progressiva rottura di sintonia che il sesso può provocare si può vedere nella richiesta non infrequente da parte del partner maschile desideroso di provare sensazioni nuove, che la sua compagna si prostituisca o abbia rapporti con terze persone di fronte ai suoi occhi, o acconsenta a scambi di coppie.

I frequenti litigi provocati da pretese “spinte” del partner sono un’altra dimostrazione di questo fenomeno, collegato al fatto che perdersi dietro alle proprie fantasie di piacere provoca un fatale calo di attenzione alle esigenze e alla personalità del partner.

Anche al difuori dei casi sopra citati, la richiesta di un sesso iperattivo da parte di un partner può indurre l’altro ad abbandonarlo.

  Incapacità di smettere, sex addiction

Recenti ricerche rivelano che la sex addiction è una sindrome da cui si guarisce più faticosamente e in un tempo più lungo rispetto ad es. all’alcolismo. Esiste il pericolo che l’iperattività sessuale possa far precipitare in comportamenti ripetitivi da cui il soggetto non è capace di uscire, specie là dove mancano strutture di sostegno.

Il dato preoccupante riguardante l’Europa è che mancano quasi completamente strutture come cliniche o gruppi di auto-aiuto o programmi di recupero gestiti dalle parrocchie di cui invece negli USA si può avvalere la persona che intende uscire dalla sex addiction.

  Parodia della virilità

Per soggetti di basso livello culturale le prodezze sessuali possono costituire un surrogato della “virilità”, un cliché in cui essi possono rimanere intrappolati senza via d’uscita.

  Strumento di gratificazione

Si è già rilevato in diverse parti di questo documento come troppo facilmente, nella nostra società, il sesso venga interpretato come strumento di gratificazione, alla stregua di una sigaretta, di un bicchiere di vino o di un buon pasto. Il consumo della pornografia esemplifica perfettamente questo uso del sesso.

Quando tale uso del sesso si combina con la esistenza di malesseri e di problemi personali da cui l’individuo vuole evadere, esattamente come nel caso dell’alcolismo, si genera una sinergia negativa che può portare all’iperattività sessuale o ad usi deviati del sesso.

  Perdita della capacità di focalizzarsi su unico partner

Il sesso ha comunque anche un profondo aspetto emotivo. Nel breve tempo del rapporto occasionale si manifestano sicuramente effusioni e tenerezze. Ma vivere un numero indefinito di volte sensazioni di tenerezza verso partner sempre diversi può portare alla fine ad una sorta di aridità affettiva, ad una incapacità irrimediabile di concentrarsi su un solo partner.

  Facile strumento di coesione

Una eccessiva enfasi sull’aspetto sessuale di un rapporto con un partner sessualmente attraente può mascherare incompatibilità di coppia più profonde, che sono destinare puntualmente a riaffiorare quanto il “collante” sessuale inizia a perdere forza.

Di fatto esistono persone dal basso potere introspettivo che non riescono a distinguere tra attrazione affettiva e attrazione sessuale.

Possiamo citare a questo proposito la divertita confessione di una attrice statunitense di straordinaria bellezza: “tutti trovano che io sia il loro tipo ideale di donna; il guaio è che io non trovo quasi mai che loro siano il mio tipo ideale di uomo”

  Veicolo di tendenze alla trasgressione, al dominio, alla umiliazione, all’autostima

Il sesso può facilmente divenire veicolo di tendenze alla trasgressione e all’avventura. Con molta profondità un romanziere ha scritto una volta che il sesso è la “via alla trasgressione dei poveri”, di coloro che non hanno modo di infrangere in altro modo la routine in cui sono costretti a vivere. Le forme di trasgressione sessuale possono prendere la forma molto pericolosa del sesso non protetto. E’ noto il caso di una gang giovanile di latinoamericani negli USA dove il rito di iniziazione consisteva, per le donne, nell’avere rapporti sessuali non protetti con i capi sieropositivi all’AIDS della gang.

Non di rado la conquista sessuale viene utilizzata, sia dall’uomo che dalla donna come strumento di autorassicurazione e di incremento di autostima.

Pratiche sessuali umilianti sono utilizzate come veicolo di tendenze aggressive e rancore nei confronti dell’altro sesso.

  Vulnerabilità

Una persona che dà eccessiva importanza al sesso è vulnerabile agli strumenti di seduzione di partner senza scrupoli.

Matrimoni amareggiati dai continui tradimenti di un partner sono spesso scaturiti dal potere che questi è riuscito ad esercitare sull’altro, inducendolo ad esempio a sposarlo malgrado chiaramente consapevole dei lati problematici della sua personalità.

Un certo numero di innamoramenti nei confronti “della donna sbagliata” è sicuramente dovuto alla incapacità di ridimensionare l’aspetto sessuale del rapporto.

  Conseguenze penali

L’uso del sesso mercenario, che è uno degli sbocchi possibili dell’iperattività sessuale, espone a molteplici conseguenze penali. Il sesso in auto costituisce reato di atti osceni in luogo pubblico. Una significativa percentuale di prostitute è minorenne non dichiarata. Non sono infrequenti i casi di prostitute che, oltre ai loro sfruttatori, denunciano anche i clienti allo scopo di entrare nei programmi di protezione dei testimoni ed ottenere il permesso di soggiorno nel paese straniero. Un cliente può sempre essere invitato a provare di non avere avuto conoscenza che la donna era costretta dai suoi protettori e in caso non vi riesca (ad esempio perché erano evidenti segni di percosse, tagli o bruciature) diviene complice nel reato di sfruttamento della prostituzione e riduzione in schiavitù. Incaute proposte in locali come bar, discoteche o nights possono condurre ad una denuncia di tentata induzione alla prostituzione. Le zone di commercio del sesso sono normalmente videosorvegliate e pattugliate da poliziotti in borghese e soggette a molteplici divieti (di sosta, di fermata, ecc.) che portano a frequenti contestazioni di contravvenzioni. Non poche questure contestano al cliente che riporta la prostituta in strada il reato di favoreggiamento della prostituzione. Litigi sul compenso per le prestazioni possono condurre a denunce per estorsione e rapina da parte della prostituta. Alcune donne adescano i clienti a scopo di rapina, facendosi condurre in luoghi isolati dove è in attesa un complice armato, o tentano comunque di rubare al cliente portafogli, telefonini ecc. Come faceva notare Enzo Biagi in un suo divertente articolo su Panorama, l’uso delle camere di albergo comporta l’obbligo di dichiarare le generalità, generalità che l’albergatore è obbligato a fornire il mattino dopo alla Questura, che dispone così di una specie di mappa aggiornata delle “irrequietudini notturne”. Night-clubs e locali di scambio di coppie sono oggetto di controlli periodici delle forze di polizia che mantengono elenchi aggiornati di tutti coloro che li frequentano. Molte indagini prematrimoniali vanno a ricercare queste registrazioni, attraverso le quali si ha un mezzo semplice e veloce per documentare i trascorsi poco onorevoli di un partner. Non poche prostitute sono invitate dalla polizia a fornire informazioni, numeri di telefono e dettagli riguardanti coloro che le frequentano. Recenti vicende giudiziarie mostrano che quando polizia e magistratura conducono indagini su casi di sfruttamento della prostituzione nella forma di “case chiuse” (vietate dalla legge Merlin) i clienti sono come minimo videofilmati e interrogati. Regolarmente, nel mondo della prostituzione, si verificano episodi di grave violenza (rapine, stupri, omicidi, persino seriali) che rischiano di coinvolgere tutti coloro che hanno avuto rapporti con le vittime. Il sex addict alla ricerca di sensazioni sempre più forti può voler sperimentare il sesso con donne sempre più giovani, fino ad arrivare alle prostitute diciottenni, per poi essere tentato di fare sesso mercenario con minorenni, incorrendo così nel reato di induzione alla prostituzione e atti di libidine su minorenne.

Ma tralasciando il sesso mercenario, conseguenze penali sono sempre in agguato. Il soggetto iperattivo può incorrere nei reati di schiamazzi notturni, esibizionismo, molestie, violenza sessuale (è sufficiente che il partner mostri lividi, abrasioni o sanguinamenti e dichiari di essere stato intimidito dal partner perché si disponga un accertamento penale), uso di sostanze detenute illegalmente durante l’atto sessuale (a parte sostanze come cocaina o anfetamine, il Viagra acquistato su internet senza ricetta medica è illegale, così come il testosterone, o le capsule di nitrito di amile o “poppers”, usate dagli omosessuali per favorire la dilatazione anale, oppure l’ossitocina, sostanza utilizzata per il parto e l’allattamento che ha effetti afrodisiaci). Il codice penale italiano contempla ancora il reato di “contagio di sifilide e blenorragia”, e a termini del codice civile colui o colei che dimostri di essere stato infettato dal partner può chiedere il completo risarcimento dei danni morali e materiali. Gli studi sui sex addicts rivelano addirittura un aumento significativo della possibilità di fare incidenti stradali dovuti a distrazioni del soggetto che guarda ai margini della strada, legge riviste o mappe stradali, telefona ecc.

Le possibilità di subire ricatti, ben note nel caso di frequentazioni omosessuali, non sono tuttavia infrequenti neanche nel caso eterosessuale. Incontri sessuali in night o alberghi possono essere filmati illegalmente. Qualsiasi avvocato civilista può confermare che non è infrequente il caso che il padrone di casa o il riparatore si trovi a fronteggiare denunce di molestie e abusi sessuali montate al fine di non pagare il canone di affitto o il compenso pattuito. Il famoso scrittore Frederick Forsyth, noto per la sua scrupolosa accuratezza documentaria ed aderenza al vero, in una raccolta di racconti brevi descrive in modo molto efficace e realistico un caso di ricatto sessuale che termina con un omicidio. Periodicamente, videofilmati amatoriali, spesso realizzati con telefonini, finiscono su internet o addirittura in commercio come videocassette (un caso clamoroso ha scosso la città di Perugia nel 1993) ad insaputa o contro la volontà dei protagonisti.

  Conseguenze sociali

In ambienti conservatori o comunque rispettosi di principi cattolici e in generale religiosi o etici, l’iperattività sessuale danneggia gravemente l’immagine sociale del soggetto e le sue possibilità di trovare un partner onesto e valido per il matrimonio. Per non parlare delle rotture di matrimoni che frequentemente seguono a tali comportamenti.

 

 

 

Quali sono le principali e più gravi malattie a trasmissione sessuale? Cosa posso fare per evitarle? Quali sono le vaccinazioni e gli accorgimenti più importanti?

 

  Candida

La Candida albicans è un fungo generalmente responsabile delle forme più frequenti di vaginiti. Tuttavia l’infezione può essere provocata anche da altre specie di Candida e dalla Torulopsis glabrata, il lievito più comune dopo la Candida.

Si può trasmettere con contatto sessuale con partner infetto  (per ragioni anatomiche la Candida è più frequente nelle donne che negli uomini).

I sintomi sono più evidenti e fastidiosi nella donna che nell’uomo, che a volte è infetto senza neanche saperlo.

Nella donna i sintomi tipici sono: leucorrea (perdite biancastre e di una consistenza simile al latte cagliato), intenso prurito accompagnato talvolta da gonfiori alla vulva e dolori durante i rapporti (dispareunia). Spesso le infezioni si estendono all’esterno, provocando vulvo-vaginiti. IN questo caso il prurito è talmente fastidioso che a forza di grattarsi le donne si autoprovocano lesioni intorno alla vulva.

Nell’uomo si ha prurito, eritema e una sensazione di bruciore al pene.

  Citomegalovirus

Si tratta di un virus appartenente alla famiglia degli Herpes viridae. La trasmissione si verifica per via sessuale ma non solo, attraverso saliva, urine, sperma, secrezioni vaginali e cervicali, latte materno, sangue, ma anche gli organi trapiantati.

I sintomi sono simili a quelli della mononucleosi: febbre, mal di testa, una modesta epatite, dolori muscolari. Il Citomegalovirus è anche responsabile di una quota delle mononucleosi infettive.

  Clamidia

Si tratta di un batterio endocellulare, cioè che vive dentro le cellule, in grado di provocare infezioni vaginali e cerviciti. Il canale di trasmissione è il rapporto sessuale con partners infetti.

La Clamidia produce numerose particelle infettanti capaci di fissarsi a una cellula “ospite” che le fagocita. Una volta all’interno della cellula, ognuna di questa particelle si trasforma in una più grande, che acquista capacità di dividersi. Ed ecco che, quindi, l’infezione si estende a macchia d’olio, interessando un numero sempre maggiore di cellule.

Negli Stati Uniti, secondo i Centers for Disease Control, la metà delle donne sessualmente attive si ammala di clamidia entro i 30 anni.

Molto spesso questo tipo di infezione non provoca disturbi, a parte lievi perdite bianche, che il più delle volte passano inosservate. Possono comparire anche secrezioni gialle o verdi raccolte sul tampone cervicale. E’ proprio la mancanza di sintomi che la rende più pericolosa: perché, quando finalmente si manifesta chiaramente, l’infiammazione non interessa più solo la vagina o la cervice, ma si è estesa a tutto l’apparato genitale, specie le tube.

Talvolta l’infezione da Clamidia si accompagna a quella da Gonococco (gonorrea) il che rende ancora più difficile la sua diagnosi, in quanto i suoi deboli sintomi vengono ulteriormente mascherati. Negli uomini, poi, questa infezione è spesso del tutto sconosciuta.

Il 75% delle donne e metà degli uomini affetti da chlamydia non si curano, ma se trasmessa alla partner femminile essa può renderla infertile.

Nell’uomo l’infezione da Clamidia è causa del 50% delle uretriti non gonococciche. I sintomi sono: disuria (difficoltà a urinare) accompagnata da scarsa o moderata secrezione chiara o biancastra. L’uretrite da Clamidia si manifesta dopo un periodo di incubazione fino a tre settimane. Non mancano i casi di uretrite asintomatica.

Sempre nell’uomo la Clamidia causa la maggior parte di quei disturbi definiti “epidimiti idiopatiche” (infiammazione dell’epididimo, formazione allungata posta sopra il testicolo) che colpiscono principalmente gli uomini giovani. L’epididimite da Clamidia provoca dolore unilaterale allo scroto, gonfiore e febbre. La proctite, ossia una infiammazione del retto, può invece colpire gli omosessuali con dolori, sanguinamento dal retto, secrezioni e diarrea.

Nella donna le conseguenze più frequenti sono le cerviciti, a volte asintomatiche, altre volte l’area della cervice è gonfia e arrossata e facile al sanguinamento. Altra conseguenza femminile è rappresentata dall’uretrite, che però nella maggior parte dei casi non manifesta disturbi della minzione. La Clamidia può provocare una infiammazione dei dotti del Bartolini. Quando la Clamidia si diffonde dalla cervice attraverso la cavità dell’utero provoca una endometrite (infiammazione dell’endometrio, membrana che tappezza le pareti dell’utero) e da qui può raggiungere le tube di Falloppio, dando luogo ad una salpingite che può danneggiare le tube al punto tale da rendere impossibile la gravidanza. La Clamidia può anche provocare una infiammazione del basso ventre, con dolore spesso associato ad una cervicite con perdite mucopurulente. Se infine l’agente finisce in circolo nel sangue si possono avere anche epatiti, artriti e polmoniti.

  Donovanosi o Granuloma venereo o Granuloma inguinale

Infezione batterica a trasmissione sessuale causata dal Calymmatobacterium granulomatis, un batterio gram-negativo.

E’ abbastanza rara nei paesi industrializzati, mentre è molto frequente nei paesi in via di sviluppo e in particolare nelle regioni tropicali e subtropicali. E’ solo moderatamente contagiosa.

Produce, nel retto e nella vagina, dei noduli duri che successivamente si ulcerano lentamente, producendo altri noduli e conseguenti ulcere. Queste lesioni sanguinano con facilità ma si ingrandiscono lentamente. Le parti più colpite sono i genitali, l’inguine e la regione perineale.

  Epatite A

La trasmissione è oro-fecale: a rischio sono le pratiche sessuali che prevedono il contatto bocca-ano.

A differenza delle altre malattie sessualmente trasmesse l’infezione determina un’immunità duratura e la persona infetta è contagiosa per un periodo di tempo abbastanza breve.

Il periodo di incubazione è abbastanza breve, dopodiché i sintomi compaiono all’improvviso. Perlopiù si tratta di febbre, occhi gialli, mal di testa, dolori muscolari, accompagnati da mancanza di appetito, nausea, vomito e diarrea.

Non esiste una cura definitiva e in genere l’epatite guarisce da sola con l’aiuto di gammaglobuline.

  Epatite B

Si trasmette attraverso il sangue e i suoi derivati, lo sperma, le secrezioni vaginali e la saliva. I principali fattori di rischio sono i rapporti anali e la promiscuità sessuale, cioè il fatto di avere molti rapporti sessuali con partners diversi.

Può trasmettersi facilmente tramite microferite che la dilatazione e lo sfregamento degli organi sessuali frequentemente provoca, ovvero da ferite aperte nella bocca o in altre parti del corpo esposte al contatto.

Circa il 6% delle persone infette sviluppa un’infezione cronica del fegato e, di queste, una su 4 muore di epatopatia.

Se la donna è infetta, il virus è presente in quasi tutti i suoi fluidi corporei: si potrebbe contrarre questa malattia potenzialmente fatale anche col semplice uso dello spazzolino da denti della partner.

  Epatite C

Si sa ancora molto poco riguardo i mezzi di contagio di questa malattia, che potrebbero essere simili a quelli dell’Epatite A. Recenti ricerche mostrano che la percentuale di trasmissione dell’Epatite C per via sessuale sia molto bassa e non superi il 6%.

Il periodo di incubazione va da 2 a 15 settimane. I sintomi comprendono una profonda debolezza, inappetenza, a volte nausea dopo aver mangiato, cattiva digestione, mal di stomaco, dolore al fegato simile a trafitture, occhi gialli. Nessun sintomo viene invece avvertito ai genitali. La fase acuta della malattia può trasformarsi in un’epatite cronica oppure in una cirrosi epatica, cioè in un lento deterioramento del fegato provocato dalla graduale cicatrizzazione interna dei suoi tessuti (fibrosi). Queste alterazioni rendono il fegato sempre meno in grado di svolgere le sue funzioni. Ecco che quindi può comparire un’insufficienza epatica che dannegga le cellule del fegato; quando queste cellule sono molto danneggiate il fegato non riesce a sostituirle e queste si trasformano in aree fibrose. A lungo andare questo determina la cirrosi, che è una insufficienza epatica seria, che compromette le capacità depurative del fegato, fa aumentare la bilirubina nel sangue.

  Funghi

Lenzuola poco pulite (es. in stanze di albergo frequentate utilizzate come luoghi di prostituzione), e la stessa pella di partner malati o poco puliti possono ospitare colonie fungine come ad es. la pitiriasi, che, in presenza di sudore e sfregamento aggrediscono facilmente la pelle.

  Gardnerella vaginalis

Bacillo che provoca una infiammazione della vagina infetta, con sintomi di solito meno intensi rispetto alle vaginiti classiche. Se trascurata, può rendere i rapporti sessuali dolorosi e creare difficoltà per il concepimento.

La sua presenza è stata riscontrata anche in partners maschi di donne infette.

  Gonorrea

Chiamato volgarmente “scolo”, provoca perdite di muco e notevoli bruciori e dolori durante la minzione, perché favorisce la formazione di piaghe all’interno dell’uretra.

E’ comune soprattutto tra donne adolescenti e 20-25enni.

Negli uomini è stata collegata all’epididimite (una dolorosa infezione dei testicoli) e ai disturbi alla prostata. Viene curata con massicce doti di un potente antibiotico (ciprofloxacina) utilizzato anche nella cura dell’antrace.

  Herpes genitale

E’ una delle malattie a trasmissione sessuale più diffuse, in costante crescita tra gli adolescenti, l’herpes genitale ha una sintomatologia più grave di quello labiale e, anche se i suoi sfoghi sono curabili, come malattia virale, non è estirpabile.

I preservativi potrebbero essere inutili, perché la trasmissione può avvenire con qualsiasi contatto con la pelle infetta, anche oltre l’area coperta dal lattice, se il rapporto avviene mentre il partner ha uno sfogo di herpes.

L’herpes genitale ha pesanti conseguenze sul piano dei rapporti personali. Normalmente le donne rifiutano di fare sesso con un partner che sanno avere l’herpes. La convivenza con un partner che ha l’herpes genitale è meno serena e più difficile che non quella con un partner sano, per la continua necessità di prendere precauzioni che evitino di contrarre l’infezione.

La probabilità di contrarre herpes genitale da un rapporto non protetto è di 1 su 9.

  Herpes labiale

Qualsiasi dermatologo può confermare che è sufficiente un semplice bacio sulla guancia da parte di un soggetto con micropustole aperte ai lati della bocca (non sempre facilmente rilevabili) a trasmettere l’HPV di tipo A, che si insedia nelle mucose orali e non è più estirpabile.

  HIV

In Italia, dal 1982 al 2002 sono stati registrati circa 50.000 casi di AIDS; le donne sono circa 10.000 e hanno un’età media di 31 anni.

Non esiste ancora una cura definitiva. La caratteristica più preoccupante dell’AIDS è che il periodo di incubazione del virus con mancanza di rilevabilità ai tests è di circa sei mesi. Questo vuol dire che nessuno può essere ragionevolmente certo, a seguito di un controllo mediante il test ELISA o Western Blot, di non essere un portatore del virus. L’HIV si può contrarre anche facendo sesso orale o scambiandosi baci intensi.

  Infezioni intestinali

Diverse sono le cause delle infezioni intestinali sessualmente trasmesse, ma tutte sono riconducibili a rapporti sessuali anali. In particolare possono essere provocate dai seguenti microrganismi: Clamidia trachomatis, Neisseria gonorrhoeae, Treponema pallidum, Herpes virus simplex, Papilloma virus.

La proctite (infiammazione del retto) provoca costipazione, fastidio e dolore rettale, feci miste a sangue, secrezione purulenta dal retto.

La proctocolite (infezione del tratto superiore del retto) dà, in aggiunta ai sintomi della proctite, colite, diarre, crampi e febbre.

L’Enterite (infiammazione dell’intestino nei tratti del duodeno, digiuno e ileo) dà diarrea, dolori addominali, gas addominali e secrezioni mucose.

  Linfogranuloma venereo

Si verifica più di frequente verso i 30 anni; è una malattia del tessuto linfatico, in quanto la diffusione dell’infezione avviene attraverso i linfonodi nei tessuti circostanti. In genere gli uomini sono più colpiti delle donne in un rapporti di 5 ad 1. E’ una malattia cronica, caratterizzata da una serie di manifestazioni, alcune acute, altre tardive.

E’ provocato da una delle tre sierovarietà della Clamidia trachomatis, presenti soprattutto nei paesi subtropicali. Molto probabilmente le clamidie penetrano nell’organismo attraverso abrazioni o lacerazioni.

L’infezione avviene di solito in occasione di rapporti anali passivi non protetti.

Nella prima fase, dopo circa 12 giorni, appare una piccola papula (macchia rossa) a livello dei genitali oppure una piccola ulcera. Queste lesioni guariscono rapidamente.

Nella seconda fase si ha un ingrossamento dei linfonodi, co febbre e altri disturbi generali. Dopo un periodo di incubazione che varia da 10 a 50 giorni fino a 4-6 mesi, compare un bubbone unilaterale che si presenta come una massa dura e dolente destinata ad aumentare di volume nell’arto di una o due settimane. Trascorso questo tempo la pelle del bubbone diventa rossastra e si lacera. Altri sintomi sono febbre e fuoriuscita di pus, che può durare qualche mese e la comparsa di ferite e restringimenti del retto, dell’orifizio anale e della vagina.

Nella terza fase la circolazione linfatica risulta compromessa dalla presenza di fibrosi che finisce per ostruire i vasi linfatici. La fibrosi compromette anche l’afflusso di sangue alla pelle e alle mucose. Entro breve tempo i microrganismi si diffondono nel torrente circolatorio linfatico e possonopersino entrare nel sistema nervoso centrale.

  Mollusco contagioso

Piccole punte rosse intorno alle parti intime del partner possono essere una eruzione cutanea del virus del mollusco contagioso, estremamente infettive per contatto, che provocano la crescita di escrescenze che vanno estirpate ad una ad una con apposite pinzette taglienti (“curette”)

  Mononucleosi

Detta anche “malattia del bacio”, per la facilità con cui la si può contrarre con un semplice contatto delle mucose orali, provoca uno stato protratto (anche per mesi) di debilitazione fisica

  Papilloma virus umano. Condilomi genitali.

Qualsiasi tecnico di laboratorio può confermare che le lesioni tissutali provocate dal papilloma virus sono impressionanti: al microscopio i tessuti appaiono simili a quelli cancerosi fino al punto di essere quasi indistinguibili per un occhio non allenato. In un certo numero di casi le lesioni evolvono in un cancro vero e proprio, ad esempio al collo dell’utero.

Il papilloma virus provoca condimoli genitali: formazione di creste cornee dolorose all’interno della vagina e dell’utero.  La maggior parte delle donne portatrici di uno dei virus che provocano i condilomi genitali non sa nemmeno di essere infetta. In molte donne le infezioni sembrano temporanee e il sistema immunitario elimina il virus prima che possa provocare complicanze mediche (come il cancro della cervice).

In un campione casuale, addirittura il 46% delle donne sotto i 25 anni può essere Hpv-positivo. Esattamente come per l’herpes, i preservativi proteggono solo quello che coprono.

In quanto virus, è inestirpabile. Può essere tenuto sotto controllo con esami periodici e periodica abrasione (viene utilizzato anche il laser) delle creste (che si riformano).

  Pediculosi

Malattia a trasmissione sessuale (e non solo) provocata da parassiti che vivono sulla superficie del corpo: i pidocchi del pube e le cosiddette “piattole”.

I pidocchi del pube si trasmettono per scambio diretto di oggetti personali o per contatto.

  Scabbia

Malattia infettiva caratterizzata da lesioni cutanee pruriginose. Il contagio può avvenire sia attraverso i rapporti sessuali che per contatto diretto. La scabbia è provocata da un acaro, il Sarcoptes scabiei. La femmina dell’acaro scava piccoli cunicoli nello strato corneo dell’epidermide, che è quello più superficiale, fino ad arrivare al limite dello strato granuloso. In essi depone le uova che si schiudono dopo 10 giorni. La vita media dell’acaro è 10 giorni.

  Sifilide

La sifilide ha un’evoluzione progressiva che nella fase terminale attacca il cervello. La cura deve essere tempestiva: entro un anno dalla infezione (sono sufficienti dosi ridotte di antibiotico), altrimenti diviene progressivamente più difficile e di esito più incerto e si deve ricorrere un massiccio impiego di penicillina.

Le statistiche dimostrano che chi fa sesso con persone conosciute in chat corre un rischio molto maggiore di contrarre la sifilide rispetto a chi conosce le proprie partner ad una festa o in discoteca.

  Trichomonas vaginalis

Parassita che provoca irritazione ed emissione di pus dal pene. Negli USA colpisce circa 5 milioni di persone all’anno.

  Ulcera molle

Malattia caratterizzata da un bubbone che si forma a livello inguinale, dovuto a infezione da Haemophilus ducreyi, un batterio gram-negativo. Colpisce più gli uomini che le donne, in particolare i maschi non circoncisi. Le donne sono spesse portatrici della malattia, in quanto le loro lesioni non impediscono la possibilità di avere rapporti sessuali.

  Uretrite

E’ un’infiammazione che interessa l’uretra, il canale che conviglia l’urina dalla vescica fino all’esterno. E’ caratterizzata da disturbi della minzione, secrezioni e prurito.

Le cause di uretriti possono essere diverse. Si ha una uretrite gonococcica e non gonococcica, provocata da agenti come la Clamidia trachomatis, l’Ureaplasma urealyticum, il Trichomonas vaginalis, i miceti (funghi) in generale e l’Herpes simplex.

 

 

 

Fate trekking nei boschi? Attenti alle zecche e al temibile morbo di Lyme

 

Se progettate trekking o escursioni in boschi o foreste, anche dell’emisfero settentrionale, attenzione al temibilissimo morbo di Lyme: viene trasmesso dalle zecche, che, annidate sotto le foglie, si lasciano cadere sulla pelle dei mammiferi (bovini, animali selvatici ecc.) e trasmettono questa malattia batterica difficile da estirpare.

Fino al 20 per cento dei pazienti che non ricevono cure sviluppano l'artrite cronica che provoca difficoltà a camminare. Più raramente, la malattia può influire sul sistema nervoso causando meningite asettica, radicoloneuriti, infiammazione delle radici nervose cervicali, acufeni e paralisi di Bell. Nel terzo stadio della malattia un ristretto numero di pazienti soffre di perdita di memoria, instabilità comportamentale. Per le donne in stato di gravidanza, la malattia è ancora più pericolosa perché l'infezione può essere trasmessa al nascituro e può aumentare il rischio di aborto spontaneo. Il New York Times l’ha definita “la malattia infettiva che si diffonde più rapidamente negli Stati Uniti dopo l’AIDS”. Rapporti da altri paesi indicano che si sta diffondendo anche in Asia, Europa e Sud America. In Europa la malattia è comune in Austria, Slovenia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Le zecche portatrici del morbo di Lyme sono già arrivate nei boschi nell’Italia settentrionale, dove è presente soprattutto nel Carso, nel Trentino, nella Liguria e in minor quantità anche in altre regioni.

 

 

 

Non fissate troppo a lungo e troppo da vicino le telecamere di sorveglianza e i rivelatori dei sistemi di allarme.

 

Se vi chiedete perché dopo un lungo tragitto in autobus, specie la sera, avvertite un bruciore agli occhi, questo potrebbe essere dovuto ai led infrarossi delle telecamere di sorveglianza ormai installate sui mezzi pubblici di molte città, che si trovano a pochi metri dalla vostra retina. Provate a piazzare l’obiettivo di un telefonino di fronte ad un telecamera di sorveglianza, ed apparirà sul display un grande punto bianco invisibile ad occhio nudo. Gli illuminatori delle telecamere sono belli potenti, possono arrivare fino a 500 watt. Certo non la cosa più consigliabile da fissare ad occhio nudo, specie la sera, quando la pupilla è dilatata e fa entrare un maggiore flusso luminoso.

Sconsigliabile anche fissare rivelatori a microonde di sistemi di allarme che sono installati ormai dovunque (uffici pubblici, banche, esercizi commerciali, locali di ditte private eccetera). Molti dei rivelatori che sembrerebbero a infrarossi passivi (cioè non emettono ma ricevono gli infrarossi del corpo umano), e quindi innocui, sono invece a “doppia tecnologia”: per evitare l’accecamento del sensore a infrarossi vi abbinano anche un mini-radar a microonde. Guardare un diodo emettitore di microonde da distanze dell’ordine di 50 cm. può portare anche al distacco della retina. Anche da distanze maggiori è opportuno non fissare il sensore.

 

 

 

Perché l’allattamento al seno è assolutamente preferibile al latte artificiale.

 

Allattate i bambini al seno per almeno sei mesi. Riduce il rischio di incidenza di tumore della mammella per la donna che allatta, e riduce quello di obesità in età adulta per il bambino allattato.

L’allattamento al seno è la forma ideale di alimentazione per i neonati sani, nati a termine. Il latte umano fornisce infatti un apporto nutrizionale ottimo per lo sviluppo del bambino. I primi quattro-sei mesi di vita sono caratterizzati da una crescita rapida, soprattutto del cervello, e la composizione degli aminoacidi e degli acidi grassi presenti nel latte materno è particolarmente adatta a soddisfare queste esigenze. Il latte materno contiene anche agenti antibatterici e di prevenzione delle infezioni, tra cui le immunoglobuline, che rivestono un ruolo importante per lo sviluppo del sistema immunitario (i bambini alimentati artificialmente non hanno infatti lo stesso livello di difese immunitarie di quelli allattati al seno.). Il colostro (il fluido prodotto dal seno nei primi giorni dopo il parto) è ricco di proteine e ha un elevato contenuto di minerali e vitamine; contiene anticorpi, agenti di prevenzione delle infezioni, antinfiammatori, enzimi e ormoni, che favoriscono la crescita e lo sviluppo. L’allattamento al seno protegge anche dal rischio di tumore al seno per la mamma.

L’allattamento al seno è quindi benefico e consigliato per ragioni fisiologiche, psicologiche ed emozionali. L’allattamento può essere prolungato fino a quando non sia soddisfacente dal punto di vista nutrizionale per mamma e bambino, un periodo che può arrivare fino ai due anni.

 

 

 

Mangiate carote ma vi state accorgendo di non trarne alcun beneficio? Ecco i due errori che vi impediscono di trarne vantaggio.

 

- Primo errore: sgranocchiare le carote crude, senza cuocerle o assumerne il succo centrifugato. In questo modo non si rompono le membrane cellulari della carota e non si rende biodisponibile il betacarotene, che è il suo principale principio attivo. La cottura o la centrifugazione liberano invece il betacarotene.

- Secondo errore: assumete le carote senza olio: essendo la vitamina A liposolubile, il suo precursore (il betacarotene) viene più efficacemente assunto con l’aiuto di olio, burro o altre sostanze grasse.

Ecco alcune altre informazioni sulle carote.

  Tra le molecole più attive nelle carote c’è il betacarotene, appartenente alla famiglia dei carotenoidi, composti molto importanti poiché base per la formazione della vitamina A. Hanno potere antiossidante: questa capacità previene diversi fattori di rischio, sia per le malattie dell’apparato circolatorio sia per i tumori (per esempio del colon). Molto studiati e dimostrati sono anche gli effetti positivi delle carote per le malattie cardiovascolari, non solo per le proprietà dei carotenoidi ma anche grazie alla fibra, discretamente presente.

  La biodisponiblità del betacarotene, cioè la sua capacità di passare dall’alimento al nostro organismo, è facilitata dalla presenza di sostanze grasse. Perciò è consigliato consumare le carote crude grattugiate e condite con olio extravergine di oliva, così da usufruire al massimo di tutte le proprietà benefiche del betacarotene e della vitamina C (che altrimenti andrebbe persa durante la cottura). Anche il succo (o centrifugato) di carote mantiene elevate tutte le proprietà nutritive e aumenta la biodisponibilità del betacarotene.

 

 

 

Assumete capsule di omega-3? Avete controllato se il prodotto è stato sottoposto a microfiltrazione?

 

Gli integratori (pillole di omega-3) non sono fonti da disprezzare, ma occorre scegliere solo prodotti sottoposti a ultrafiltrazione, perché i grassi dei pesci sono contaminati da metalli pesanti. Un ottimo prodotto, microfiltrato, è Omega3-rx della enervit, prodotto su licenza di Barry Sears (l'autore dellla dieta della "zona")

 

 

 

Quali sono i pericoli del pesce crudo o poco cotto?

 

Uno tra tutti: è recentemente arrivato anche nel Mediterraneo un parassita che depone le sue uova nel pesce azzurro. Le uova penetrano nel corpo umano e danneggiano fegato e altri organi. L'unico modo di inattivare il parassita è cuocere bene il pesce (anche se purtroppo è vero che il modo migliore per acquisirne i principi nutritivi è cuocerlo il minimo indispensabile) o congelarlo per qualche giorno: il freddo uccide le uova del parassita. State attenti a panini con alici di dubbia provenienza.

 

 

 

Cosa potrei fare per prevenire le emorroidi e le ernie addominali di cui soffre mio padre?

 

Una cosa semplicissima: evacuare in posizione accosciata, come facevano i nostri antenati e come fanno coloro che hanno un gabinetto alla turca. Questa è la posizione migliore per favorire l'espulsione delle feci con il minimo sforzo per le pareti del retto e il fatto di essere piegati contro le cosce previene anche il formarsi di ernie dovute ad una eccessiva pressione addominale. E' sufficiente un simile accorgimento per ridurre fino al 50% il rischio che si sviluppino lesioni anali dolorose che richiedono intervento chirurgico.

 

 

 

In caso di urgenza, qual è la miglior sostanza spermicida e antivirale facilmente reperibile per un immediato utilizzo?

 

Il succo di limone, applicato localmente, è un potentissimo spermicida ed inattiva pressoché istantaneamente anche il virus dell'HIV. La sua azione spermicida era ben nota alle donne bizantine, che ne facevano un largo uso per le lavande vaginali.

Invece non ha alcun fondamento la convinzione che, in mancanza di meglio, la coca cola sterilizzi dopo un rapporto sessuale, ciò che pensano a torto molte ragazze.

 

 

 

Cosa sono i  grassi idrogenati? Perché devo evitarli a tutti i costi?

 

I grassi idrogenati sono oli vegetali trattati a caldo per renderli più densi [ed evitare che irrancidiscano]. E' lo stesso procedimento che, spinto ancora più avanti, serve a produrre i lubrificanti per auto. L'idrogenazione è una reazione chimica mediante la quale si introduce idrogeno in un composto chimico. Durante queta reazione, l'idrogeno può: a) addizionarsi a composti non saturi con formazione di composti saturi o con grado di insaturazione minore; b) sostituire l'ossigeno, gli alogeni, lo zolfo (riduzione di un chetone ad alcol secondario; c) provocare la rottura di legami carbonio-carbonio. Questi oli, cosiddetti idrogenati, presentano in forma maggiore le peggiori caratteristiche dei grassi saturi. Sulle etichette sono indicati come "oli idrogenati" o "parzialmente idrogenati"

 

 

 

Bere un succo di frutta è la cosa più stupida che possiate fare

 

Bere un succo di frutta è la cosa più stupida che possiate fare, e per varie ragioni:

 

- I succhi di frutta commerciali sono pieni di saccarosio, cariano i denti, ingrassano, provocano diabete nel lungo termine

- I succhi di frutta fatti in casa perdono vitamine in modo velocissimo, per ossidazione, a meno che non li si assuma entro pochi minuti.

- Mangiare la frutta invece che farne un succo permette di conservarne tutte le fibre, e inoltre abbassa l'indice glicemico di ciò che mangiamo, consentendo una maggiore sazietà e innalzando meno l'insulina nel sangue.

- I succhi sono calorici: un bicchiere di aranciata contiene 2 volte e mezzo la quantità di calorie presenti in un'arancia

- Se si leggono le etichette, si vede che la quantità di succo di frutta è infima

- Non si può controllare la qualità della frutta

- Il procedimento con cui si ottiene il succo lo priva delle fibre, che rallentano l'assorbimento degli zuccheri, evitando il picco glicemico

 

Ricordiamo che i nostri antenati non avevano a disposizione tutta la frutta dolce che abbiamo noi. Alzare ulteriormente l'indice glicemico fa male.

 

 

 

Tre noci al giorno: una abitudine straordinariamente salutare

 

  La noce è una discreta fonte di proteine e carboidrati, ma più della metà del suo apporto calorico è dato dai grassi. I grassi non sono tutti cattivi, anzi ne esistono alcuni fondamentali per la nostra salute e la sopravvivenza. Ecco perché le noci fanno bene: i grassi saturi costituiscono meno del 10%, il resto è un insieme di grassi mono e polinsaturi. I grassi insaturi sono noti per gli effetti benefici, in particolare gli acidi grassi omega-3, definiti anche grassi essenziali poiché non prodotti dal nostro organismo e quindi da introdurre con la dieta. Gli acidi grassi omega-3 sono contenuti nel pesce, nei semi e, per l’appunto, nella frutta secca.

  Questi acidi grassi sono efficaci nella prevenzione e nella cura delle malattie cardiovascolari; un consumo quotidiano di frutta secca (tre o quattro noci al giorno) abbassa i fattori di rischio cardiovascolare e l’incidenza di infarto. Ma non è tutto: le noci sono efficaci nel migliorare i livelli della pressione arteriosa e di colesterolo nel sangue. Gli acidi grassi omega-3 possono modulare anche i livelli di alcuni ormoni regolatori, come insulina e leptina, e migliorare il profilo dei grassi nel sangue e la glicemia. Il consumo di noci è consigliato nei pazienti diabetici per tenere sotto controllo gli effetti e i rischi secondari di questa malattia. Uno studio su pazienti affetti da coronaropatia (cioè da danni alle coronarie) sembra avere trovato una correlazione tra il consumo di acidi grassi omega-3 e il ritardo dell’invecchiamento cellulare. Aggiungere alla nostra alimentazione fonti di questi acidi grassi è fondamentale non soltanto perché il nostro organismo non sa produrli da solo, ma anche perché sono importanti precursori di molecole implicate nella regolazione infiammatoria. Grazie a questa proprietà sono molto studiati in ambito oncologico come alimenti antitumorali.

  Infine, un altro elemento importante delle noci è la fibra. Non che vi sia in quantità enorme, però in una dieta varia, ricca di frutta, verdura, legumi e cereali integrali può aiutare.

 

 

 

Qual è la frutta più vitaminica, e quella meno vitaminica?

 

Arance, fragole, kiwi, fichi (ricchi di sali minerali), albicocche sono tra la frutta più vitaminica

Pere, mele, pesche, banane prugne, ciliegie sono la frutta più povera di vitamine e sali minerali

Le banane contengono solo potassio

L'uva contiene perlopiù zuccheri e poche vitamine. La sua buccia ha le antocianine, pigmenti rossi antiossidanti.

Le pesche contengono solo quantità di vitamina A reperibili anche nelle carote

I meloni contengono vitamina A ma poco altro

Le mele non hanno molte vitamine, ma hanno un potente antiossidante, la quercetina e preziose fibre idrosolubili, migliori di quelle della crusca (vedi)

 

 

 

Denti bianchi e acidi dei dentifrici. Salvate lo smalto del colletto.

 

Un noto dentista è stato sentito affermare, nei primi anni '80, in riferimento ad un dentifricio molto pubblicizzato, che "con il dentifricio X non hai più problemi di smalto… perché probabilmente, data la quantità spropositata di acidi sbiancanti che quel dentifricio contiene, rischi di non avere più lo smalto".

 

 

 

Succo di pomodoro da bere: un alimento ottimo, ma quasi sconosciuto in Italia

 

In Italia raramente si trovano nei supermercati le bottigliette di succo di pomodoro da bere. Ed è un peccato perché è un ottimo alimento. E’ un drink energizzante e che non fa ingrassare, rinfrescante, dissetante, magari con qualche goccia di succo di limone o di peperoncino. E’ ricco di antiossidanti, tra cui il licopene, può apportare molti sali minerali (in particolare potassio) all’organismo dopo uno sforzo fisico o una giornata afosa e una profusa traspirazione. Contiene molta vitamina C. E’ ottimo anche per preparare cocktail alcolici e analcolici.

Tra i sali minerali presenti spicca soprattutto il potassio, discrete le quantità di calcio, fosforo e sodio, ma è la presenza di vitamine e carotenoidi che è notevole, con elevate concentrazioni di licopene, luteina, zeaxantina, vitamina C, E, K.

Ecco, in dettaglio, i benefici del succo di pomodoro

  Previene il cancro alla prostata: recenti studi hanno dimostrato leffetto benefico di una dieta ricca di pomodori su una forma tumorale benigna della prostata. Il responsabile di questa attività anti-tumorale è il licopene, antiossidante capace di provocare la regressione delle cellule tumorali secondo un meccanismo ancora da dimostrare.

  Combatte losteoporosi: in quanto i sali minerali presenti nel succo di pomodoro sono costituenti fondamentali della struttura scheletrica. Il ruolo protettivo del licopene impedisce la perdita di minerali dall’osso, conferendo stabilità allo scheletro.

  Prevenire laterosclerosi, grazie al licopene che svolge la funzione di antiossidante, contrasta la formazione dei radicali liberi e protegge cellule e strutture da eventuali danni

  Protegge dai raggi UV: recenti studi hanno rilevato addirittura che il licopene sia capace più del beta-carotene di proteggere dai danni ossidativi causati dai raggi UV

  Protegge il fegato, grazie sempre al licopene che contrasta la perossidazione dei lipidi, un processo che è alla base della maggior parte delle patologie a carico di questo organo

 

 

 

Lana, pile, piumino: quale dei tre tiene più caldo?

 

Per capire perché il piumino batte di gran lunga gli altri due, occorre rivolgersi alla fisica. Il calore si trasmette (e quindi anche disperde) secondo tre meccanismi: conduzione, convezione, irraggiamento. Il miglior isolante termico è il vuoto. Pensate che una intercapedine di un metro di vuoto potrebbe tenerci caldi anche nel freddo siderale, vicino allo zero assoluto. Il piumino è quello che si avvicina di più a queste condizioni, perché consiste di una intercapedine riempita di piume d'oca, che con le loro barbette inibiscono i moti convettivi dell'aria che trasportano calore dall'interno del corpo all'esterno, creando un isolamento termico superiore a quello di qualsiasi altro tipo di abito.

 

 

 

Misconceptions: da cosa è provocata la carie?

 

La carie è provocata dalla flora batterica del cavo orale. Questi batteri si nutrono di zuccheri, e producono come sostanze di scarto l'acido piruvico e l'acido lattico, che sono potenti agenti corrosivi dei denti.

 

 

 

Come dovrei fare l'igiene orale?

 

Lo spazzolino dovrebbe avere setole dure, perché lo spazzolino con setole morbide o medie non è in grado di penetrare bene gli interstizi tra i denti. Le setole naturali, preferite da molti, non vanno assolutamente bene, perché sono troppo morbide.

Negli spazzolini di buona qualità la punta di ciascuna setola di plastica è arrotondata, in modo da non abradere il dente. Questo è dichiarato sulle confezioni degli spazzolini migliori.

L'uso del filo interdentale è indispensabile. Se il filo non scorre bene si può passare al filo cerato, e, se questo ancora non funziona, al filo di seta (satin floss) che scorre perfettamente e rende l'operazione più rapida.

Lavarsi i denti la mattina appena alzati è una solenne stupidaggine, perché non c'è proprio niente da pulire e un eccesso di pulizia inutile rovina lo smalto.

L'uso eccessivo del dentifricio rovina lo smalto. Tutti i dentifrici contengono acidi sbiancanti, necessari per evitare la formazione del tartaro, che è molto duro, e non si rimuove solo con lo spazzolino. Ma questi acidi possono alla lunga intaccare lo smalto. Lo smalto dei denti è molto spesso sulla parte superiore, masticatoria, ma è sottilissimo intorno al colletto. Una eccessiva igiene orale distrugge questo smalto, che si riforma con difficoltà, ed è quello che dà bianchezza al vostro sorriso. Alcuni dentisti consigliano addirittura, dopo aver pulito il colletto del dente (zona tra il dente e la gengiva) con lo spazzolino, di pulire le superfici laterali dei denti con una pezzuola di cotone, ma questo sembra eccessivo. Va comunque osservata la regola di pulire la parte superiore, il colletto, e di passare solo sommariamente sulle superfici laterali.

Lo spazzolino non va passato solo sopra i denti, ma soprattutto a lato dei denti, suo colletto (zona tra il dente e la gengiva), perché è lì che si formano le carie, con movimenti rotatori o dal basso in alto.

Va impiegato più tempo per i denti inferiori che per quelli superiori, perché da questi ultimi il cibo va via più agevolmente, mentre tende a ristagnare sui denti inferiori e posteriori.

L'uso dello spazzolino elettrico è utilissimo, fa impiegare molto meno tempo, e inoltre le testine si muovono nel modo "giusto" per pulire. Molte persone troppo pigre per una igiene orale regolare, hanno scoperto che con lo spazzolino elettrico non hanno difficoltà a pulirsi regolarmente.

Cambiare lo spazzolino ogni due mesi almeno per evitare la formazione di batteri e che la punta delle setole non sia più arrotondata.

Dopo l'igiene orale la bocca andrebbe risciacquata con cura, perché il fluoro, sebbene benefico per i denti, è estremamente tossico per l'organismo.

L'uso del colluttorio è perfettamente inutile, perché già nel dentifricio sono contenute sostanze disinfettanti. Il colluttorio andrebbe usato come ulteriore difesa da coloro che sono molto soggetti alla carie.

 

 

 

Come ottenere un the deteinato “fatto in casa”?

 

Le foglie di tè contengono naturalmente teina, e il normale metodo deteinante la rimuove completamente. Il processo di lavaggio delle foglie di tè con un acetato di etile allo scopo di deteinarle ne rimuove anche degli ingredienti salutari e ne influenza il sapore. Il metodo che usa acqua e anidride carbonica è più costoso, e trovare del tè deteinato in questo modo può non essere facile.

In Cina e Giappone, le foglie di the vengono utilizzate tre volte, versando nuovamente acqua (non del tutto) bollente sulle foglioline, per ottenere tre the, il secondo dei quali ha un ridotto contenuto di teina. Qui sotto è esposto in dettaglio il procedimento da seguire. Si noti tuttavia che il processo rimuove solo il 20% della teina e inoltre elimina numerosi antiossidanti.

Usa il tè in foglie anziché in bustina. Sarai in grado di deteinare il tè in foglie per poi preparare una tazza di te sufficientemente gustosa.

Porta a bollore un quantitativo di acqua doppio rispetto al necessario. Metà dell'acqua verrà usata per deteinare il tè. Quando questa prima parte verrà eliminata, il resto dell'acqua sarà alla temperatura corretta per mettere le foglie in infusione.

Versa l'acqua bollente sulle foglie di tè. Copri le foglie con 2,5 - 5 cm di acqua, in base al contenitore in cui stai deteinando il tè, che sia una tazza o una teiera.

Lascia le foglie in infusione per 45 secondi. Potresti voler muovere la tazza o la teiera con movimenti circolari per assicurare un'infusione ideale e uniforme delle foglie.

Versa l'acqua. Raccogli le foglie che fuoriescono insieme all'acqua con un colino e rimettile nella tazza o nella teiera.

Aggiungi la parte di acqua bollente restante e lascia le foglie in infusione come d'abitudine. Potresti voler aumentare leggermente il tempo di infusione indicato per ottenere un aroma sufficientemente intenso.

Il tè bianco richiede una temperatura di infusione di 79-85 °C e un tempo di 1-3 minuti.

Il tè verde richiede una temperatura di infusione di 82 °C e un tempo di 2-3 minuti.

Il tè nero richiede una temperatura di infusione di 97 °C e un tempo di 3-5 minuti.

Il tè Darjeeling richiede una temperatura di infusione di 85 °C e un tempo di 3 minuti.

Il tè Oolong richiede una temperatura di infusione di 85-97 °C e un tempo di 3-5 minuti.

 

 

 

Fate la doccia cinque volte al giorno col guanto di crine e pensate di meritare la medaglia per la migliore igiene? Alcune cose che dovreste sapere.

 

A tutti sarà capitato di incontrare persone che si lavano ossessivamente, intorno alle quali, ad alcuni metri di distanza, si percepisce il forte profumo del sapone con cui hanno sfregato per un numero imprecisato di volte ogni millimetro quadro di pelle con la spazzola da bagno o il guanto di crine.

Non vogliamo qui parteggiare per l’opinione del celebre musicista Igor Stravinskij secondo cui “lavarsi una volta al giorno è una perversione grave”, oppure per la teoria, diffusa fino a tutto il Settecento tra le classi nobili come tra il popolo, che la sporcizia della pelle ne chiude i pori e quindi previene l’insorgere di malattie infettive, ma tuttavia alcune osservazioni vanno fatte.

Non pochi dermatologi, anche in interviste televisive, velatamente fanno notare che i saponi e i detergenti odierni non sono del tutto “amici della pelle” e contengono anche in certa percentuale sostanze chimiche irritanti. Ma a parte le irritazioni che un uso troppo ripetuto di detergenti e una igiene esasperata possono dare, il fatto è che l’epidermide, finisce con l’essere privata del film lipidico, cioè di quel prezioso strato di sebo cutaneo che ha effettivamente una funzione protettiva.

Il cattivo odore che proviene da chi non si lava è dovuto agli abiti che la persona indossa nei paesi civilizzati, che producono il ristagno di sudore e batteri. Gli aborigeni australiani, pur sudando profusamente, hanno la pelle assolutamente inodore.

Le zone da lavare con particolare cura sono quelle ricche di peli, perché questi sono sistematicamente associati alla presenza di ghiandole sudoripare.

Questo vuol dire che non è necessario lavare più volte al giorno tutto il corpo a fondo col sapone, perché nelle zone prive di ghiandole sudoripare potrebbe essere sufficiente acqua o una passata leggera della mano insaponata.

 

 

 

Si possono aumentare le riserve di vitamina D dell’organismo anche con l’esposizione alle lampade UV dei solarium?

 

Una buona notizia: è possibile aumentare le proprie riserve di vitamina D non solo esponendosi al sole nel periodo estivo, ma anche con una lampada UV, a patto che questa emetta radiazioni ultraviolette simili a quelle del sole.

La vitamina D è un nutriente importante per l’assorbimento del calcio a livello intestinale allo scopo di avere una salute ottimale dello scheletro. Essa può essere assunta con la dieta (sotto forma di vitamina D2 o D3) oppure prodotta nella pelle (vitamina D3).

Uno studio ha dimostrato che i soggetti che durante l’inverno utilizzavano una lampada abbronzante almeno una volta a settimana avevano una quantità di vitamina D superiore del 150% alla fine della stagione e una maggiore densità ossea.

Un recente studio svedese ha mostrato che soggetti esposti per sei mesi a una lampada UV da una a due volte a settimana mostravano un aumento della vitamina D in circolo del 250% (da 20 a 50 ng/ml).

Uno studio americano del 2007, ad opera di un gruppo di ricercatori guidati da Prakesh Chandra, Thomas Ziegler, Jungiang Tian e Menghuo Luo(1) e pubblicato sul sito del prestigioso NCBI, il National Centre for Biotechnology Information, una organizzazione governativa USA che fa parte dei National Institutes of Health, ha utilizzato la luce di lampade UV commerciali per trattare la deficienza di vitamina D in soggetti con condizioni patologiche come la fibrosi cistica, o il morbo di Crohn, che impediva loro di assimilarla per via orale.

Le conclusioni dello studio sono inequivocabili: “Una lampada UV che emetta radiazioni ultraviolette simili a quelle della luce solare e che produce vitamina D3 nella pelle è una eccellente alternativa per i soggetti che soffrono di deficienza di vitamina D da malassorbimento, specialmente durante i mesi invernali, quando la luce solare non è in grado di produrre vitamina D3 nella pelle. Queste lampade UV sono facilmente reperibili in commercio e potrebbero essere prescritte a simili pazienti”.

Ecco, per chi volesse provare ad utilizzare una lampada UVB per aumentare le proprie riserve di vitamina D, le indicazioni pratiche emerse dallo studio.

La lampada UVB da tavolo che i ricercatori hanno utilizzato con successo per produrre vitamina D naturalmente è il modello “Sperti Vitamin D Lite Flourescent”, prodotto dalla KBD Inc. di Crescent Spring nel Kentucky, che si può acquistare su amazon.com a 400 euro.

Ecco il grafico che illustra il modo migliore di utilizzare la lampada (distanza dalla pelle e tempi di esposizione):

Nello studio citato, i soggetti iniziavano con tre minuti di esposizione della parte bassa della schiena seduti a 36 cm. di distanza (14 pollici) dalla lampada, e poi incrementavano il tempo fino ad arrivare a quello corrispondente al loro tipo di pelle. Le sedute erano quattro a settimana. Protraendole per otto settimane si aveva un aumento del 25% di concentrazione sierica di vitamina D e le deficienze acute si erano ridotte dal 60% del gruppo controllato al 20%.

Gli autori dello studio notano che una irradiazione di sole otto settimane non è stata sufficiente a far superare la soglia dei 32 ng/ml, che è attualmente considerata la soglia dell’insufficienza, e quindi è consigliabile protrarre le sedute per un periodo più lungo.

 

 

 

Avete acquistato olio di germe di grano per le sue “straordinarie qualita”? Utilizzate olio di girasole anziché olio di oliva perché fa bene al cuore? Avete acquistato la famosa margarina di olio di girasole al posto del burro? Ecco qualcosa che dovreste sapere sulla ossidazione degli olii.

 

Tutte le sostanze grasse, olii inclusi si irrancidiscono, perdendo in parte o in tutto le loro qualità nutrizionali. Tutte le sostanze grasse sono sottoposte al fenomeno dell'ossidazione che, se non controllato e limitato, progressivamente altera profondamente la struttura chimica dei trigliceridi, con formazione di composti volatili dall'odore e sapore sgradevole, il rancido (un difetto grave nella valutazione di un olio).

La misura dell’ossidazione di un olio è espresso dalla quantità di perossidi che contiene, misurati in milliequivalenti di ossigeno attivo per chilogrammo (mcq/02/kg). L'ossidazione di un olio dipende da una serie di fenomeni che possono avvenire in due momenti diversi, vale a dire o nel corso delle pratiche colturali, di raccolta, stoccaggio e lavorazione delle olive; o nel corso della conservazione dell'olio.

Lo stesso fenomeno ha, nei due casi, origini diverse. Il numero di perossidi in un olio fresco, appena prodotto, è dovuto all’azione catalitica di un enzima la lipossidasi che è in grado di legare chimicamente l'ossigeno dell'aria agli acidi grassi insaturi dei trigliceridi (ossidazione enzimatica). La temperatura gioca un ruolo importante nell'accelerare o rallentare l'azione dell'enzima, seppure la lipossidasi risulta attiva anche a temperature molto basse (-40°C).

L’olio e i grassi subiscono un secondo processo di ossidazione, che non necessita dell'azione di enzimi. La semplice presenza dell'ossigeno dell'aria può dar luogo, durante la conservazione dell'olio, a formazione di idroperossidi, secondo un meccanismo che prevede la formazione di radicali liberi.

La reazione, una volta iniziata, procede a catena con formazione di nuovi radicali favorita dalla luce, dal calore e dal contatto dell'olio sia con l'ossigeno atmosferico sia con alcuni metalli (ferro, rame, nickel) che agiscono da catalizzatori. Gli idroperossidi sono molecole molto instabili la cui facile decomposizione dà luogo alla formazione di composti volatili (aldeidi e chetoni) responsabili dei irrancidimento.

Uno dei problemi più grandi degli oli vegetali altamente trasformati e raffinati come l’olio di mais, l’olio di soia e l’olio di colza, è che la componente polinsatura dell'olio è altamente instabile al calore, alla luce e alla pressione, e questo ossida fortemente gli acidi grassi polinsaturi portando ad un aumento dei radicali liberi nel tuo corpo. Il risultato finale di tutto questo processo di raffinazione e lavorazione è un olio altamente infiammatorio per il tuo corpo, che contribuisce potenzialmente ai disturbi cardiaci, all’aumento di peso e ad altre malattie degenerative. Questi oli sono tipicamente estratti e raffinati utilizzando il calore, la pressione e solventi del petrolio come l’esano. Molti di questi oli subiscono un processo di raffinazione caustica, sgommatura, decolorazione e deodorizzazione, il tutto ad alte temperature e con agenti chimici discutibili.

Il calore e la lavorazione ad alta pressione con solventi può causare la trasformazione di parte del contenuto di omega 3 di certi oli, come l’olio di colza, in grassi trans. Riferendosi a quest’olio, la Dott.ssa Mary Enig, Dottore di Ricerca e Biochimica Nutrizionale, afferma che "sebbene il governo canadese sostenga che il contenuto di grassi trans della colza sia pari ad un minimo dello 0,2%, le ricerche presso l'Università della Florida a Gainesville hanno dimostrato che i livelli di grassi trans sono pari al 4,6% nell’olio di colza liquido commerciale".

L’olio di germe di grano subisce un processo di irrancidimento che non è a priori quantificabile, dato che il produttore non ha l’obbligo di dichiarare (come nel caso dell’olio di oliva) la quantità di perossidi presenti nel suo prodotto. E’ pertanto consigliabile acquistare il germe di grano in polvere, anziché l’olio di germe di grano.

Questo vale per molti altri olii ottenuti da semi oleosi: l’olio di semi di girasole e l’olio di semi di lino sono soggetti a rapida ossidazione. Il calore con cui vengono estratti gli olii di semi aumenta il processo di ossidazione, e vanifica quasi completamente le proprietà nutrizionali dell’olio di lino (ricco di precursori degli acidi grassi omega-3.

Intendiamoci: anche la polvere di germe di grano è soggetta ad irrancidimento, sebbene più lento, e andrebbe consumata velocemente. Anche i semi oleosi non spremuti sono soggetti a irrancidimento (provate ad aprire una confezione ermetica di noccioline e a mangiarla dopo due-tre settimane), ma l’irrancidimento degli olii nel seme è meno veloce.

Per evitare l’ossidazione i produttori più coscienziosi lo confezionano in assenza d’aria (ad esempio in atmosfera di azoto e a temperatura controllata. Ma una volta aperta la confezione l’ossidazione è alquanto veloce.

Purtroppo, quanto più un olio è polinsaturo (e benefico per la salute), tanto più si ossida velocemente. Questo perché l'ossidazione enzimatica si esplica a carico degli acidi grassi insaturi (caratterizzati dalla presenza di doppi legami fra gli atomi di carbonio della catena).

Inoltre, la normativa non impone un limite alla quantità di perossidi presenti negli olii di semi, e meno che mai l’obbligo di dichiararlo sul prodotto.

Tra gli oli, l’olio di oliva è quello che si ossida meno facilmente, per la presenza di antiossidanti naturali (tocoferoli e polifenoli) e anche perché è composto principalmente da olii saturi e monoinsaturi, più difficili da ossidarsi.

L’olio di oliva è composto infatti da acido stearico (saturo), palmitico (saturo), oleico (monoinsaturo), linoleico (polinsaturo) e linolenico (polinsaturo). Una caratteristica che distingue l'olio di oliva dagli altri oli vegetali è legata al suo maggior contenuto in acido oleico; negli oli di semi prevale invece il linoleico.

Nell’olio di oliva l’acido oleico (monoinsaturo) rappresenta circa il 75%, mentre l’acido linolenico (polinsaturo) non è superiore al 10%.

Queste caratteristiche permettono all'olio di oliva di conservarsi più a lungo rispetto a qualsiasi altro tipo di olio; la tendenza all’irrancidimento è infatti direttamente proporzionale al numero di doppi legami presenti negli acidi grassi. Mentre nell’acido oleico si registra la presenza di un solo doppio legame (è un monoinsaturo), l'acido linoleico contenuto negli altri oli vegetali contiene due doppi legami (è un polinsaturo capostipite della serie omega-6). L’irrancidimento di un olio è ostacolato anche dal contenuto in vitamina E e polifenoli; questi ultimi abbondando nell'olio di oliva ed in quello di vinaccioli.

Se acquistate olio di girasole, cercate di non tenerlo troppo a lungo nella dispensa e accompagnate il suo consumo con quello di semi di girasole, che apportano lo stesso tipo di olio omega-3 ma col vantaggio che questo non è ossidato e mantiene tutte le sue caratteristiche benefiche.

Per evitare l’ossidazione, gli olii che compongono le margarine e quelli utilizati nelle preparazioni alimentari (dolci, prodotti da forno, ecc.) sono sottoposti al processo di idrogenazione.

La margarina viene prodotta idrogenando oli vegetali, rendendo cioè saturi i legami doppi degli acidi grassi attraverso l’assorbimento di idrogeno. In tal modo il beneficio che gli olii vegetali portano alla prevenzione delle malattie cardiovascolari, legato soprattutto alla presenza di acidi grassi mono e polinsaturi, viene totalmente azzerato.

 

 

 

Usate olio di oliva e non olio di semi per friggere il pesce

 

Ci sono almeno due buoni motivi per friggere il pesce con l’olio di oliva anziché con gli oli di semi:

  Il pesce è ricco di acidi grassi polinsaturi, lo stesso tipo di grassi contenuti nellolio di semi usato per la frittura. Il risultato è che gli olii benefici del pesce passano nell’olio di frittura, che li scioglie, e si perdono importanti qualità nutrizionali del cibo.

  Lolio di oliva ha un punto di fumo più elevato ed è meno instabile al calore

La formazione di sostanze tossiche dipende da tre principali fattori:

- temperatura e tempo di esposizione al calore;

- concentrazione di acidi grassi polinsaturi;

- punto di fumo dell'olio.

In particolare gli oli contenenti grandi quantità di acidi grassi polinsaturi non vanno utilizzati per le fritture. Insomma, i famosi grassi omega 3 di cui tanto si parla per la loro utilità nella prevenzione delle malattie cardiovascolari, se sottoposti ad alte temperature diventano instabili producendo residui nocivi per il nostro corpo. Analogo discorso per gli omega-6.

Il punto di fumo corrisponde alla temperatura massima raggiungibile da un olio prima che questo inizi a bruciare e a decomporsi creando le sopraccitate sostanze tossiche.

 

TIPO DI OLIO / PUNTO DI FUMO

Olio di girasole Meno di 130°C

Olio di soia 130°C

Olio di mais 160°C

Olio di arachide 180°C

Olio extravergine di oliva  210°C

Olio di cocco 177°C

Olio di palma 240°C

 

(Nota Bene: l’olio di palma ha il più alto punto di fumo, ma è un olio contenente grassi saturi dannosissimi per le vostre coronarie!)

 

 

 

Disinfettanti per le mani da usare e disinfettanti per le mani da evitare.

 

Se possibile, lavate le mani con nient'altro che acqua e sapone. I medici assicurano che uccide il 99% dei germi.

Se non avete acqua e sapone a disposizione potete optare per preparati a base di alcol etilico, che è un agente antimicrobico sicuro per la salute, ed è stato testato per lunghissimo tempo. Ci sono notizie su qualche possibile lieve danno ai tessuti delle ferite, ma per la pelle intatta è assolutamente innocuo.

Cercate di evitare i prodotti che sono reclamizzati come "senza alcool", perché contengono spesso ingredienti tossici, come cloruro di benzalconio.

L'alcol ha un effetto essiccante sulla pelle, dato che dissolve lo strato superficiale di sebo, e può provocare quindi una sgradevole sensazione di secchezza, ma questo non rappresenta alcun danno per le vostre mani.

Non usate mai prodotti che nell'etichetta dichiarano Triclosano e Triclocarban. Sono gli antibatterici puù usati nei prodotti disinfettanti come saponette, deodoranti ecc. Bloccano lo sviluppo dei microbi, ma la FDA statunitense ha recentemente ammesso che possono provocare batteri resistenti agli antibiotici. Inoltre, quando il vostro corpo assorbe triclosano, esso si degrada in diossina, uno degli agenti più tossici per l'uomo, usato tra l'altro nella guerra del Vietnam. Il triclosano danneggia la produzione ormonale. Studi recenti mostrano che può favorire il cancro al seno ed uccide le cellule cerebrali. Inoltre, il triclosano non colpisce specie pericolose di batteri come i norovirus.

Un'altra categoria di ingredienti dichiarati nei disinfettanti per mani sono i Parabeni, che si trovano anche nei cosmetici e nei prodotti solari. Essi sono stati associati da alcuni studi a una varietà di effetti dannosi, come tossicità cerebrale, cancro, danni al sistema ormonale, irritazione della pelle. Nelle etichette dei prodotti che li contengono non compare la parola "parabeni", ma quelle "methylparaben", "butylparaben", "propylparaben" e simili.

Evitate tutti i prodotti dichiarati "antibatterici". Questo perché sfortunatamente non tutti gli ingredienti sono sempre elencati.

Evitate i disinfettanti profumati, perché i profumi sono perlopiù prodotti chimici tossici. Inoltre, essendo le formule dei profumi oggetto di brevetti, i produttori non le dichiarano.

 

 

 

Cosa devo pensare delle affermazioni che la carne di maiali magri (i cosiddetti "magroni") è perfettamente comparabile con quella bovina?

 

È vero che la composizione in aminocidi della carne di maiale è ottimale per la nutrizione umana, però la carne di maiale, per quanto "magra", incorpora sempre una quantità di grasso.

Fate un semplice esperimento: nutrite per un mese il vostro gatto o cane con carne bovina. Poi, il mese successivo, nutritelo con carne suina. Noterete che mentre nel primo mese il suo peso si mantiene stabile, dal secondo mese comincia costantemente ad aumentare fino ad arrivare all'obesità. A voi le conclusioni.

 

 

 

Ho l'herpes labiale. C'è un medicinale per farlo andar via?

 

Purtroppo no: i virus della famiglia dell'herpes non sono eradicabili, e rimangono per sempre nell'organismo. Questo vale per l'herpes labiale, per l'herpes genitale, per il papilloma virus e per il virus dell'HIV. Ogni volta che le difese immunitarie del nostro organismo si abbassano (ad esempio per scarsa nutrizione, surmenage, o altre condizioni debilitanti) il virus si rifà vivo con i caratteristici arrossamenti e piaghe. La pomata all'aciclovir è l'unica che abbia un effetto contenitivo (non spendete soldi per le altre pomate!), ma, appunto, si limita a diminuire gli effetti della fase acuta e la sua durata.

 

 

 

Ho da sempre difficoltà digestive: posso fare qualcosa?

 

- Non tutti sanno che moltissimi alimenti che riteniamo innocui possono dare allergia: kiwi, pomodori, soia, crostacei, e molto altro ancora

- La quantità di alimenti che ingeriamo ad ogni pasto è importante: se superiamo un determinato limite, le ghiandole dello stomaco hanno una ipersecrezione, e si produce automaticamente acidità. Un gastritico digerisce perfettamente anche cibi indigesti o polpette con formaggio, a patto che siano in quantità non eccessive: diversamente inizia l'acidità gastrica

- Per chi ha uno stomaco sensibile, mescolare i tipi di alimenti non è consigliabile: può provare a mangiare in pasti separati carne (proteine) e pasta (carboidrati), mentre le verdure e la frutta si sposano con tutto

- Molti trovano che una mela cotta o anche cruda a fine pasto sia un ottimo digestivo, anche a causa dell'elevatissimo contenuto di fibre

- Se le difficoltà digestive persistono, occorrerebbe provare a mangiare alimenti per celiaci, cioè alimenti privi di glutine. Se la digestione migliora si tratta di un caso di celiachia (intolleranza al glutine) dovuta all'eccessivo tenore di glutine del grano che è stato selezionato per uso alimentare.

- Chi ha uno stomaco sensibile dovrebbe tenere presente che il latte non è un alimento facilmente digeribile per tutti dopo i trent'anni, perché non tutti hanno conservato l'enzima lattasi che avevano quando erano piccoli. Se si vuole provare, si provi il latticino più digeribile, lo yoghurt.

- Cercate di non bere ai pasti. In Germania e altri paesi con maggiore consapevolezza alimentare questo viene insegnato ai bambini, mentre in Italia bere smodatamente ai pasti è abitudine comune che diluisce i succhi gastrici e allunga la digestione.

 

 

 

Perché tutti fanno la dieta Dukan? In cosa consiste?

 

La dieta Dukan è una dieta in tre fasi. Nella prima fase di attacco sono ammessi solo alimenti proteici in quantità illimitata, e sono completamente esclusi pasta, grassi e persino verdure:

  Carni, bovine, suine, pollami ecc.

  Pesce

  Latticini magri

  Formaggio di soia

Nella seconda fase sono ammesse anche verdure e poco più

Nella fase di stabilizzazione vengono ammesse piccole quantità di pasta, pane, legumi

Nella fase finale la gamma viene ancora allargata, ma un giorno a settimana, per tutta la vita, va dedicato ai soli alimenti proteici.

In questo modo Dukan asserisce che in una settimana si possono perdere fino a quattro kg e soprattutto che, rispetto ad altre diete, si conservano i risultati ottenuti.

Le proteine, a differenza dei grassi e dei carboidrati, sono assorbite più lentamente e non provocano il picco di insulina che trasforma il cibo in grasso. Inoltre danno un maggiore senso di sazietà.

 

 

 

Quali sono i latticini che dovrei mangiare? Devo continuare ad assumere il latte anche da adulto?

 

La questione non è mangiare o non mangiare il parmigiano, ma: quanti grassi saturi assumo giornalmente/settimanalmente? Detto questo, passiamo a dare alcuni consigli.

Umberto Veronesi consiglia di eliminare decisamente i latticini con più del 25% di grassi saturi.

Dopo i 30 anni molte persone perdono l'enzima lattasi, che consente all'apparato digerente umano di digerire il lattosio (lo zucchero del latte) in glucosio e galattosio. Tre quarti degli adulti soffrono di questa mancanza, ma gli altri possono tranquillamente bere latte.

Il latte UHT è un latte "bruciato" dal trattamento ad alta temperatura, e andrebbe preferito il latte con la dicitura "fresco" o "alta qualità".

Il latte totalmente scremato lasciamolo per la dieta. La quantità raccomandata al giorno per non eccedere è una tazza (250 ml). Dobbiamo preferire latte intero o parzialmente scremato? Se ne beviamo quantità non eccessive (150-20 ml) possiamo senz'altro bere latte intero, che è molto più ricco di vitamine liposolubili (che si trovano nel grasso): vitamina A, D, E.

Oggi c'è una polemica che dice che bere latte fa male, perché il latte è un alimento per i mammiferi piccoli. I vitelli, una volta cresciuti non bevono latte, e anche gli uomini perdono la lattasi. Segno che la natura non vuole che si beva latte da adulti. Perdipiù noi beviamo il latte di un'altra specie (bovina) che non sarebbe del tutto adatto a noi (troppo grasso ecc.). I ricercatori più seri pensano che queste siano solo stupidaggini (vedi il libro di Dario Bressanini Le bugie nel carrello).

A parte la tazza di latte la mattina, quali altri latticini dobbiamo mangiare per assumere calcio ed evitare l'osteoporosi?

Il formaggio fuso è il massimo degli orrori, sia che si tratti di formaggini per bambini o di sottilette: è formato da un mix di formaggi di scarto di bassissima qualità.

I formaggi veri e propri sono da evitare, perché il loro tenore di grasso è elevatissimo: raggiunge il 30% per il Parmigiano, e gli altri formaggi (Emmenthal, Tomino, Fontina…) non scendono mai sotto il 20%. Molti formaggi sono prodotti con una cottura prolungata per giorni (vedi Parmigiano o Grana), e non pare che grassi e proteine stracotte facciano tanto bene.

Quello del Parmigiano è un mito costruito tramite una attenta propaganda. Periodicamente compaiono articoli che citano studi scientifici (guarda caso sempre di università dell'Emilia Romagna, e magari sponsorizzati dal consorzio Parmigiano Reggiano) che decantano le proprietà nutritive e persino la "leggerezza" che lo rende un alimento utile ai bambini. In realtà, con il 38% di grasso, il Reggiano è pesantissimo, e non è certo l'alimento più leggero per i bambini. Il giro di interessi economici è enorme. Il Consorzio Parmigiano Reggiano esporta ovunque, una impresa agricola a cui sia concessa dal consorzio (che poi cura il controllo qualità) l'autorizzazione a produrre il Reggiano arriva a fatturare fino a 500.000 euro l'anno. Si capisce che qualche spinta pubblicitaria esiste. Una delle affermazioni ripetute più ossessivamente è che il calcio "buono" è solo in formaggi come il reggiano, che hanno anche un'alto tenore di fosforo, necessario per fissare il calcio. In realtà, per fissare il calcio è sufficiente un buon apporto di vitamina D (che possiamo ottenere dallo yoghurt intero o dagli integratori vitaminici) e un buon apparato digerente.

Comunque, in tutto va usata misura: come condimento sulla pasta o in piccola quantità, come bocconcino, può essere assunto qualche volta. Preferite allora il Parmigiano al Grana Padano, che ha caratteristiche nutrizionali inferiori (vengono usati antimicrobici e a differenza del Reggiano foraggi insilati, e non foraggi freschi).

La mozzarella è una finta-magra: ha il 18% di grassi, e potrebbe essere meglio sostituita da ricotta magra (10%), fiocchi di latte (5%) o, meglio di tutto, da yoghurt intero (3,8%)

Lo yoghurt è in assoluto il latticino più sano, assimilabile e consigliabile. Persino lo yoghurt intero (il cui sapore è ottimo quanto quello di un formaggio, col vantaggio che ha 10 volte meno grassi) è molto meglio di qualsiasi formaggio. Anche perché è un prodotto preparato senza cottura del latte, a differenza di quasi tutti i formaggi. Gli yoghurt sono prodotti con batteri che digeriscono il lattosio trasformandolo in acido lattico, da cui il sapore acido. Gli yoghurt più venduti sono più dolci, perché al consumatore non piace uno yoghurt dal sapore troppo marcato, e quindi il processo viene arrestato prima che tutto il lattosio sia consumato. Quindi: più lo yoghurt è acido, più è digeribile. Gli yoghurt Yomo, da questo punto di vista, sono i migliori. Ma è sufficiente acquistare uno yoghurt, togliere il coperchio di stagnola e tenerlo fuori del frigorifero un giorno intero perché diventi più acido senza assolutamente andare a male (tra l'altro lo yoghurt, mangiato a temperatura ambiente, è molto più buono dello yoghurt freddo, perché se ne può godere appieno il sapore). Quegli stessi batteri producono anche vitamine del complesso B. Il calcio contenuto nello yoghurt è pienamente assimilabile. Lo yoghurt intero contiene anche una quantità di vitamina D che ne aiuta la fissazione nelle ossa.

Lo yoghurt, a differenza del formaggio, è digeribilissimo: ne potete prendere anche 500 grammi, come pasto serale, e andare tranquillamente a dormire senza pesantezza.

Sostituite dunque lo yoghurt (bianco, non dolcificato) ai formaggi, e scordatevi completamente mozzarelle, fiocchi di latte e Parmigiano (quasi del tutto).

 

Per imparzialità di informazione, riportiamo qui sotto una posizione diversa da quella fin qui illustrata circa il consumo di latticini. Il dott. Robert Heaney dell'Università di Creighton, uno dei maggiori esperti mondiali sul sistema osseo e il metabolismo del calcio, è decisamente favorevole al loro consumo.

 

quante fandonie si dicono sul latte (brano riportato da robert heaney, come farsi le ossa nella vita)

 

Spesso si evitano i latticini perché non si conoscono o non si capi¬scono bene le cose. Ci si preoccupa per il colesterolo, il lattosio, le calorie. In realtà, i latticini hanno un basso tenore di colesterolo. E soltanto il latte fresco e quello in polvere pongono dei problemi a quanti hanno un'intolleranza per il lattosio. Infine, il latte par¬zialmente scremato ha meno calorie di quanto si creda.

Ogni volta che sottolineiamo l'importanza dei latticini, siamo bombardati da una serie di domande e commenti a base di «Sì, ma…», «Sì, ma il colesterolo non è pericoloso?», «Sì, ma che cosa fare per l'intolleranza al lattosio?», «Sì, ma contengono troppe calorie ...» , Ciascuna di queste domande ha una sua giustifica¬zione, ma ci sono anche molti pregiudizi in proposito.

 

Colesterolo

Per una persona normale, il colesterolo è una brutta parola. Ma questo atteggiamento tradisce una profonda mancanza di com¬prensione per come stanno le cose. Il colesterolo è essenziale per la vita animale. È presente nella membrana di ogni cellula orga¬nica, è la materia prima con cui l'organismo produce gli acidi biliari necessari per la digestione dei grassi, ed è anche il mate¬riale di partenza di molti ormoni, inclusi gli ormoni sessuali ma-schili e femminili. Perciò non c'è dubbio che sia importante. In effetti, un individuo, normalmente, ne produce 700-800 milli¬grammi al giorno nei propri tessuti organici. Questa quantità è tre o quattro volte superiore a quella assorbita dagli alimenti. Tra quello che l'organismo produce e quello che assumiamo con il cibo, abbiamo complessivamente circa 1000 milligrammi di co¬lesterolo "fresco" al giorno.

Il colesterolo ha una cattiva reputazione perché si accumula sotto forma di depositi di grasso nelle pareti delle arterie e con¬tribuisce al problema dell'aterosclerosi. Non c'è dubbio che alti livelli di colesterolo nel sangue (superiori a un valore di 240, espresso come milligrammi di colesterolo per 100 millilitri di siero di sangue) aggravino l'aterosclerosi. Inoltre, chi ha ereditato qual¬che anomalia nel trasporto del colesterolo ha elevati livelli di colesterolo ematico e rischia maggiormente una malattia cardio¬vascolare. È evidente che il colesterolo ha un aspetto negativo.

In certi individui si possono raggiungere elevati livelli emati¬ci di colesterolo con un'alimentazione ricca di grassi saturi (ani¬mali). Per controllare il colesterolo nel sangue, molti cardiologi raccomandano una dieta in cui i grassi complessivi di qualsiasi origine non costituiscano più del 30 delle calorie complessive, i grassi saturi siano scarsi e il rapporto tra grassi saturi e insatu¬ri sia alla pari. I latticini, persino il burro e la panna, in effetti contengono ben poco colesterolo. Un bicchiere di latte intero ne contiene soltanto circa 30 milligrammi, e il latte scremato nien¬te del tutto. (Paragonatelo a un solo uovo, che ne contiene cir¬ca 275 milligrammi.) Potete bere un mucchio di latte e mangia¬re un sacco di certi formaggi senza modificare granché la vostra assunzione complessiva di colesterolo. Tuttavia, il latte intero, il gelato e molti tipi di formaggio contengono grassi. Il grasso nei latticini è effettivamente dello stesso tipo dei grassi animali sa¬turi. Perciò i grassi contenuti nei latticini fanno salire l'assun¬zione complessiva di grassi e modificano il rapporto tra grassi saturi e grassi insaturi in un senso che secondo molti esperti è negativo. Ci sono, ovviamente, latticini a basso tenore di grassi, come per esempio il latte parzialmente scremato e magro, lo yo¬gurt parzialmente scremato, la ricotta magra e persino il comu¬ne parmigiano (che ha un contenuto di grassi inferiore a quello di molti altri formaggi).

Che cosa significa tutto questo per voi? Tanto per cominciare, solo circa il 20-25  degli adulti ha un livello di colesterolo superiore a 240. Per costoro la dieta può contare veramente mol¬to. Ma per l'altro 75-80 - la grande maggioranza - è molto difficile modificare anche di poco il colesterolo ematico, persi¬no con la più drastica delle diete. Quando riduciamo il coleste¬rolo nel cibo, l'organismo compensa la mancanza producendo¬ne di più, almeno quando i livelli ematici del colesterolo sono inferiori a 240. Perciò per la maggior parte delle persone non ha molto senso preoccuparsi delle piccole quantità di colesterolo presenti nei latticini.

Perché, allora, si è parlato tanto di colesterolo, usando anche tattiche allarmistiche? Il 20-25 della popolazione rappresenta una discreta quantità di persone che possono trarre giovamen¬to da un abbassamento del livello del colesterolo nel sangue. Sfor¬tunatamente, di solito non sappiamo chi siano queste persone, così la pubblicità negativa nei confronti del colesterolo viene ri¬volta a tutti, partendo dal presupposto che toccherà sia chi può trarre giovamento dal controllo della quantità di grassi assunta, sia chi non ha davvero motivo di preoccuparsi.

Di solito questa è una strategia valida nei confronti della sa¬lute pubblica, almeno fintantoché il cambiamento auspicato non sia nocivo. Ma è in corso una polemica infuocata riguardo all'at¬teggiamento da assumere nei confronti del colesterolo. Parec¬chi esperti affermano che una dieta povera di grassi non solo non serve alla maggioranza delle persone, ma può essere noci¬va ad alcuni (ad esempio ai bambini). Un altro problema impor¬tante nel contesto di questo libro è l'effetto che la maggioranza delle diete povere di grassi ha sullo stato di salute delle ossa . Di sicuro non c'è bisogno di molto grasso per avere delle ossa sane, ma c'è certamente bisogno di calcio. Molte diete povere di grassi escludono il latte intero, come pure i formaggi fatti con latte intero. Anche se è tecnicamente possibile assumere 800 mil¬ligrammi di calcio al giorno con una dieta del genere, rimane si¬curamente non facile. Inoltre, se si segue una dieta di questo tipo è praticamente impossibile raggiungere lo scopo fissato dal Consensus Panel del NIH per le donne di mezza età (1000 e 1500 milligrammi di calcio al giorno). Può non essere facile risolvere questo conflitto di raccomandazioni a livello generale, perché non c'è un'unica risposta valida per tutti. Ma ci sono risposte ragionevoli a livello individuale.

Tanto per cominciare, il problema del colesterolo è meno comune nelle donne che negli uomini. Donne in cui le ovaie pro¬ducono ancora estrogeno, o che seguono una terapia sostituti¬va di estrogeno, sono molto meno a rischio degli uomini per quan¬to riguarda le malattie cardiovascolari. Inoltre, il loro colestero¬lo ematico, anche quando ha valori alti, tende a essere del tipo "innocuo" o "buono". Non vediamo nessuna ragione perché la maggioranza delle donne che producono o ricevono estrogeni debba preoccuparsi del colesterolo. Sicuramente non dovrebbero preoccuparsene se sono donne giovani, che stanno ancora fa¬cendosi le ossa e hanno bisogno di tutto il calcio possibile. Negli anni dopo la menopausa occorre un approccio diverso. Se una donna sa che il suo colesterolo è inferiore a 240 milligrammi, pro¬babilmente non deve preoccuparsi. (Se avete dei dubbi, fatevi misurare il colesterolo.) Oppure, se sa di essere ad alto rischio per l'osteoporosi ma non sa qual è il suo livello di colesterolo, molto probabilmente farà meglio a scegliere un'alimentazione ricca di calcio, anche se questo comporta un'alta assunzione di grassi. Per lei il rischio dell'osteoporosi è maggiore del rischio di una malattia cardiovascolare. Se sa di essere a rischio per en¬trambe le malattie (e ben poche donne lo sono), allora una dieta povera di grassi e un integratore di calcio potrebbero rappre¬sentare la strategia vincente.

Se decidete di seguire una dieta povera di grassi, è importan¬te capire che le raccomandazioni riguardano solo l'assunzione complessiva, non i singoli alimenti. Dopo tutto, un rapporto al¬la pari tra grassi polinsaturi e saturi vuol dire che state ancora prendendo metà dei grassi consentiti sotto forma di grassi satu¬ri. Se dovete ridurre l'assunzione di questi, farete meglio ad as¬sumerne di più sotto forma di latticini e meno sotto forma di car¬ne. Le donne tendono a consumare più proteine di quante oc¬corrano, perciò un approccio di questo tipo è molto ragionevole.

Quest'ultima osservazione significa che per la maggioranza del¬le persone, e particolarmente per chi è maggiormente a rischio riguardo all'osteoporosi, la quantità di colesterolo nei latticini non è assolutamente un problema.

 

Lattosio

Il problema successivo è quello dell'intolleranza al lattosio. Il lat¬tosio è lo zucchero presente nel latte. È composto da due zuc¬cheri semplici e per essere assorbito deve essere scisso nei suoi costituenti. A questo scopo l'intestino produce un enzima chia¬mato lattasi e nel corso della digestione lo mescola al cibo. Tutti i neonati e i bambini producono questo enzima, perché il latte è ovviamente l'alimento naturale fondamentale nell'infanzia.

La maggior parte dei bianchi continua a produrre lattasi per tutta la vita, ma un gran numero di neri e di orientali non riesce più a produrre questo enzima una volta raggiunta la maturità. Si dice che essi sono "carenti di lattasi" o, più accuratamente, "non lattasi-permanenti" (perché la loro capacità di produrre lattasi ha smesso di esistere). La mancata permanenza della lat¬tasi può creare un problema, perché il lattosio non assorbito passa nell'ultimo tratto dell'intestino dove i batteri presenti lo fanno fermentare, con produzione di gas spesso accompagnata da cram¬pi, gonfiore e qualche volta diarrea. Non tutti quelli a cui man¬ca l'enzima presentano questi sintomi, ma molti sì. Quindi per molti adulti neri e orientali, una grossa quantità di latticini fre¬schi non è la fonte migliore di calcio. Per i neri questo non è un grosso problema, perché hanno ossa particolarmente robuste, si adattano meglio dei bianchi a basse assunzioni di calcio e non hanno la tendenza ad ammalarsi di osteoporosi. Gli orientali, in¬vece, vi sono predisposti e per loro una adeguata assunzione di calcio alimentare è critica.

Soltanto il latte fresco e in polvere presentano difficoltà per chi ha un'intolleranza al lattosio. I formaggi non creano nessun problema; perché le muffe che hanno prodotto il formaggio han¬no già demolito la maggior parte del lattosio. Persino lo yogurt, che contiene ancora quasi tutto il lattosio, è solitamente tolle¬rato molto bene. La ragione è che nello yogurt ci sono dei batte¬ri che contengono essi stessi la lattasi. Quando mangiamo lo yo¬gurt, ingeriamo anche i batteri; questi liberano la lattasi conte¬nuta, che agisce nell'intestino proprio come se l'avesse prodot¬ta il nostro organismo. Inoltre, oggigiorno vengono prodotti molti tipi di latte con un ridotto contenuto di lattosio. In realtà, relativamente poche donne bianche hanno un'intolleranza al latto¬sio. Molto più comune è la frase «il latte non mi fa bene» oppure «sono allergica al latte». Alcune dicono che il latte gli fa colare il naso o aumenta il muco in gola. Altre sono molto vaghe. È dif¬ficile che queste lamentele abbiano un fondamento concreto. Quando il latte o altri latticini vengono somministrati in condi¬zioni controllate, quasi sempre sono ben tollerati. Eppure, è im¬probabile che questo tipo di persone abbandoni l'abitudine ben radicata di escludere il latte dall'alimentazione, se pensa che non gli "faccia bene".

Alcuni bambini smettono di bere latte nell'infanzia perché sono "allergici". Molti bambini piccoli hanno problemi di alimenta¬zione, ma in genere questi problemi non sono vere e proprie al¬lergie. Hanno piuttosto cause che non vengono mai chiarite com¬pletamente e la maggioranza dei bambini le supera con l'età. Si può cambiare preparato dopo preparato per l'allattamento arti¬ficiale, eliminare un alimento dopo l'altro, senza mai sapere quale alimento o quale sostanza sia responsabile, e di solito senza nes¬suna sicurezza che il problema sia dovuto al cibo. Quando un bambino del genere raggiunge l'età scolare, i genitori dovreb¬bero chiedere alloro pediatra se è il caso di aggiungere - pru¬dentemente - dei latticini all'alimentazione del bambino. Se ri¬sulta che non c'è una ragione specifica per escludere il latte, è una buona idea introdurlo nell'alimentazione quotidiana in un momento in cui le abitudini alimentari sono ancora in formazione.

 

Calorie

Molti dicono: «Bene, mi piace il latte e mi piacciono i formaggi, ma non mi piacciono tutte quelle calorie». Ecco alcuni dati. Una porzione da 240 grammi di latte parzialmente scremato contie¬ne solo 120 calorie, e se si usa latte magro solo 86. Confrontate¬lo con una lattina di birra a 148 calorie (persino la birra "lìght" ne ha ancora 100), una lattina di coca a 144, o un bicchiere di succo d'arancia a 110. E il latte è molto di più di una semplice bevanda; è una buona fonte di calcio e di fosforo, come pure di riboflavina, proteine e altre sostanze nutritive. Per poche ca¬lorie, fate un grande affare dal punto di vista nutrizionale. Faremmo molto meglio a ridurre gli spuntini, le caramelle, i des¬sert dolci, dove le calorie, oltre all'apporto energetico, non hanno un valore nutritivo di rilievo, e le patatine fritte. Ma forse, per quanto riguarda il calcio, l'affare migliore, perché privo di calo¬rie, è un'acqua minerale ricca di calcio. In un litro d'acqua di questo tipo possono esserci più di 300 milligrammi di calcio.

 

 

 

Ci sono alimenti di pessima qualità che devo evitare?

 

A parte gli alimenti che contengono sostanze cancerogene (vedi) ci sono altri alimenti-bidone che il consumatore farebbe meglio ad evitare:

  Tonno. Oggi molti nutrizionisti consigliano mangiare il tonno con moderazione. E' meglio non mangiarne troppo per diversi motivi:

- Il tonno, come il pescespada, è un pesce di grossa taglia che ormai vive in mari inquinatissimi, e assorbe metalli pesanti come cadmio, piombo e mercurio, che poi passano nel nostro organismo

- Molto del tonno in commercio subisce un processo chimico di "degrassamento" con derivati del petrolio per rendere il suo gusto più accetto al consumatore. Se sull'etichetta di tonno o sgombro in scatola leggege "grassi 3% o meno" è sicuro che il prodotto abbia subito il procedimento

  Brioches nel bar

Piene di grassi idrogenati per mantenerle morbide, sono il peggio del peggio per cuore e coronarie. Eppure milioni di italiani mangiano ogni mattino il croissant al bar!

  Alcune note marche di miele in commercio (non facciamo nomi!): Come dice l'etichetta, si tratta di mieli comunitari ed extracomunitari. Quelli extracomunitari sono mieli di origine sudamericana con una altissima carica batterica, che viene inattivata facendo bollire il miele a lungo. Questo anche per renderlo più filante e farlo passare per filtri che tolgono le impurità del miele di bassa qualità.

  Polvere di the in bustina. Il the in bustina, propagandato come "nuovo raccolto", o "di prima qualità" è in realtà lo scarto peggiore, costituito dai detriti che cadono dai tralicci su cui vengono messe a essiccare le foglioline. Questo prodotto che si raccoglie sul pavimento è di bassissima qualità, viene ramazzato con la scopa e venduto ai produttori italiani che lo spacciano per the di altissima qualità e per decenni hanno fatto enormi profitti a danno dei consumatori. In realtà il the di alta qualità è quello a foglioline distese o ripiegate in piccoli grani.

  Wurstel: i wurstel di qualsiasi tipo contengono poca carne magra suina, molta acqua e moltissimo grasso.

  Prosciutto cotto: la cottura serve ad inattivare i batteri e i parassiti del prosciutto di peggiore qualità, che non potendo essere venduto fresco viene cotto

  Mortadella: tralasciando il fatto che è enormemente grassa, la mortadella viene fatta con le carni peggiori, degli animali malati o vecchi o di scarto.

  Succhi di frutta ordinari: hanno una quantità enorme di zucchero e pochissima frutta. Una volta un oculista ha commentato ad un paziente che gli chiedeva se doveva bere regolarmente succo di frutta al mirtillo: "certo le migliorerebbe l'irrorazione della retina; avrebbe solo un piccolo effetto collaterale: il diabete, per tutto lo zucchero che contiene".

  Biscotti con "grassi vegetali"

  Grana Padano: non è di pessima qualità, ma usa un antimicrobico (anche se dichiarato "naturale"), perché il latte può provenire da allevamenti che utilizzano anche foraggi non freschi ma "insilati". Invece il Parmigiano Reggiano deve utilizzare latte da allevamenti con foraggi freschi e non contiene antimicrobici.

  Alimenti che recano scritto "aromi" invece di "aromi naturali": in quel caso si tratta di aromi chimici

  Alimenti in scatola: la banda stagnata della scatoletta rilascia sostanze tossiche e cancerogene che vanno nel cibo.

  Trote di allevamento: sono allevate con antibiotici perché sono molto sensibili alle malattie

  Pomodori fuori stagione: contengono antibiotici

 

 

 

Mangiare il fegato fa bene?

 

Il fegato bovino non è grasso come si immagina, e un piccolo pezzo di fegato a settimana è ricchissimo di ferro e di vitamine del gruppo B e di vitamina D. Ovviamente dovete prenderlo dal macellaio di fiducia, che utilizza solo bestie di prima qualità.

 

 

 

Mangiare le alghe fa bene?

 

Le alghe non sono niente di eccezionale, sono molto costose, di cattivo sapore e il nostro apparato digerente non le vede molto di buon occhio. Sono straricche di iodio, ma sarebbe sufficiente prendere il sale iodato. Lasciatele alle foche e ai giapponesi.

 

 

 

E' possibile migliorare la mia intelligenza e la mia memoria? Esistono delle tecniche apposite? Esistono delle sostanze che potenziano memoria e attenzione?

 

intelligenza e memoria sono ereditarie

Purtroppo gli studi più seri dimostrano che intelligenza e memoria sono strettamente ereditarie. Questo non vuol dire che non si deve avere cura di coltivarle e addestrarle sin dalla prima infanzia e mantenerle in allenamento nella maturità e nella vecchiaia, perché queste facoltà, se non possono essere aumentate, possono però essere menomate da uno sviluppo carente di stimoli, e possono affievolirsi significativamente con l'età.

 

le tecniche di memoria

Per un panorama completo delle tecniche di memoria, che però servono solo da aiuto ad una memoria ereditariamente buona, si può leggere il libro The Memory Book di Lorayne e Lucas, purtroppo non in traduzione italiana.

 

la beffa dei “ricostituenti”

I numerosi farmaci venduti come ricostituenti o potenzianti dell'attenzione e della memoria, a base di fosforo, aminoacidi, glucamina, ginseng, come Sargenor, Fosglutamina, Acutil, Rekord B12 sono assolutamente inutili: è sufficiente una dieta ricca di nutrienti e un supplemento vitaminico e minerale come Multicentrum per ottenere lo stesso effetto con un costo molto minore.

 

gli “energy drink”

Ci sono poi gli "energy drink" come il Red Bull (a base di vitamine del complesso B, glucoronolattone, caffeina, taurina), IronPower (caffeina, teina, estratti di maté, noce di cola, ginseng, guaranà e altre piante dall'effetto stimolante). Ma la quantità di caffeina presente nel Red Bull è veramente scarsa: in una lattina c'è a malapena la quantità di caffeina presente in una tazzina di caffè. La vitamina B non ha un immediato effetto stimolante sul sistema nervoso. Quanto a taurina e glucoronolattone, il loro effetto sulla efficienza mentale non è provato. Meglio quindi ripiegare sulla tazza di caffè o di tè.

 

gli aminoacidi

C'è poi la moda degli aminoacidi: creatina, tirosina, ecc. Esistono preparati come Friliver, che forniscono tutta la gamma di aminoacidi ramificati.

 

le “smart drugs”

Esiste infine una categoria di sostanze chiamate "smart drugs", molto in voga tra gli studenti americani, che possono avere un effetto transitorio di potenziamento dell'attenzione e della memoria, come il Ritalin (utilizzato per combattere il deficit di attenzione), o il Deadyn (pemolino di magnesio), o il Modafinil (utilizzato per combattere la narcolessia) ecc. Ma il loro uso in Italia è scarso, e tale dovrebbe rimanere per diverse ragioni:

- Molti medici statunitensi denunciano effetti collaterali negativi del Ritalin o di altri farmaci simili

- In Italia le autorità hanno preso una ferma posizione contro le smart drugs. Molti di questi farmaci, come il Ritalin, sono ottenibili solo con ricetta medica e non per generiche difficoltà di concentrazione, ma solo per patologie particolari, come il disturbo di attenzione dei bambini. Alcuni farmaci, come il Deadyn della Schering, che negli anni '80 venivano raccomandati dalle rubriche mediche di noti quotidiani come ausili allo studio sono stati addirittura banditi, perché utilizzati impropriamente per lo "sballo" in discoteca.

- Tra le smart drugs che vengono continuamente immesse sul mercato molte sono costituite da principi vegetali (es. l'estratto di geranio tropicale, la salvia divinorum) i cui effetti tossici o di assuefazione non sono stati sufficientemente studiati, e portano a vietarne il commercio solo dopo diverso tempo che il consumatore ignaro ne fa uso.

- Per avere altre informazioni sulle smart drugs, consultate in questo sito learningsources.altervista.org il documento “Cosa sono le smart drugs”.

- Infine, riportiamo l'opinione fortemente critica del farmacologo Silvio Garattini:

 

Il rendimento mentale è diventato un fattore di importanza strategica nelle società postindustriali, dove soprattutto a chi occupa posizioni di comando si richiedono prontezza di apprendimento, creatività e rapidità decisionale. Di qui l'interesse che molte case farmaceutiche stanno dimostrando per quelle che in gergo vengono defmite «smart pills», «pillole intelligenti». Noti anche come «nootropi» (dal greco «noos», mente) questi farmaci - ancora in fase speri¬mentale - avrebbero il potere di incrementare o rivi¬talizzare la memoria e i processi cognitivi.

In America sono di gran moda, e decine di mi¬gliaia di persone in perfetta salute ne fanno uso abi¬tuale per apparire più brillanti e competitivi. La.Cali¬fornia, dopo essere stata la patria della «marijuana» e dello Lsd, si prepara a fare da culla al nuovo movi¬mento. A Los Angeles e a San Francisco spuntano «smart bar» dove al posto degli alcolici servono drink dai nomi fantasiosi - Renew-U, Intellex, Psuper Pso¬nic Psy-ber Tonic, Memory Fuel - che stimolereb¬bero le capacità intellettive. Per lo più sono frullati alla banana o al kiwi con l'aggiunta di un'overdose di vitamine e di amminoacidi (fenilalanina, tirosina]. C'è anche chi preferisce le sostanze «nootrope» vere e proprie (come il piracetam), molte delle quali importate illegalmente dall'Europa (la Food and Drug Adrninistration non ne ha ancora autorizzato la vendita) o prescritte per tutt'altre indicazioni. E in¬tanto va a ruba nelle librerie una guida all'uso delle «smart drugs», che in copertina promette ai lettori di «aumentare enormemente il potere del loro cer¬vello».

Parole. Ciance da imbonitori da fiera. Nessuna vi¬tamina, nessuna molecola naturale o artificiale potrà mai mutare un asino in purosangue o farci vincere il premio Nobel. Ma intanto i venditori di illusioni sono lì, pronti ad approfittare delle nostre megalomanie. Ancora una volta, invece di farsi carico dei malati e dei perdenti, la medicina sforna false ricette per i sani che vogliono stravincere.

 

qualche prodotto e consiglio che potrebbe aiutarvi senza nuocere alla vostra salute

  Se proprio si vuole utilizzare un aiuto alla concentrazione, una tazza di caffè nero è la scelta migliore. A dosi non eccessive, il caffè è un farmaco straordinario, che non dà assuefazione né effetti dannosi e può essere assunto per tutta la vita.

  Agli studenti è raccomandabile anche il the, che contiene una forma di caffeina, la teina, che ha un effetto più graduale ma più prolungato. Il the verde, in particolare, contiene un aminoacido, lanina, che pare potenzi lazione della teina sul cervello.

  Una assunzione ragionevole (non nella quantità assunta dagli sportivi o dai frequentatori compulsivi delle palestre, tanto per intenderci) di aminoacidi ramificati potrebbe aiutare la concentrazione e diminuire la fatica nervosa.

  L'assunzione di una dose giornaliera di un multivitaminico-multiminerale può aiutarvi a superare la fatica dello studio.

  Un supplemento di vitamine del complesso B (es. Be-Total), particolarmente importanti per il buon funzionamento del cervello, dovrebbe essere sufficiente per mantenere vita l'attenzione di chi studia e contrastare la fatica. Pochi sanno che la vitamina C è un potente stimolante, tanto che i medici sconsigliano di assumerla prima di andare a letto, e se proprio si vuole, si può assumerne qualche compressa nei periodi di più intenso studio.

  Se il caffè o il the possono essere presi per aiutare lo studio di qualche pomeriggio o per gli esami, però, se continua la mancanza di concentrazione e la sonnolenza, probabilmente si tratta di un problema di scarso sonno, molto diffuso tra gli adolescenti che chattano o girano per i locali fino a tarda notte, e andrebbe risolto con delle buone nottate di riposo ristoratore.

Il sonno è importantissimo anche per fissare nella memoria ciò che si è appreso. Recenti ricerche mostrano che il consolidamento dell’apprendimento avviene più stabilmente e più completamente nelle persone che dormono un normale numero di ore piuttosto che in soggetti con carenza di sonno.

  Assumere (con il benestare del medico) un fluidificante del sangue, come ad es. compresse di aspirina nella formulazione più bassa (75 mg), può migliorare la micro-circolazione cerebrale e potenziare le vostre funzioni cognitive.

  Ascoltare musica durante lo studio è assolutamente nocivo per l’apprendimento. Anche se noioso, il perfetto silenzio potenzia notevolmente le nostre capacità cognitive.

  Televisione e videogames sono dannosi per la fissazione mnemonica di ciò che si è studiato. Il nostro cervello, dopo qualche ora di televisione serale, ha bisogno di metà della notte per smaltire le immagini che abbiamo immagazzinato, e non può dedicarsi ai processi di rafforzamento di ciò che si è studiato. Studiare il pomeriggio, poi passare due ore davanti alla televisione è il miglior modo di cancellare ciò che si è appreso, soprattutto perché l’impatto delle immagini sul cervello e sulla memoria è superiore a quello delle parole scritte e dei concetti studiati.

  I semi di Chia e le bacche di Goji, con la loro ricchezza di vitamine, aminoacidi, calcio, zinco, selenio e altri micronutrienti, possono aiutare a superare la stanchezza nervosa.

  Polvere proteica. La polvere di proteine utilizzata da coloro che fanno attività sportiva impegnativa, a dosi più basse, assunta la mattina, può mantenervi svegli e attivi per alcune ore, senza darvi la sonnolenza di una colazione eccessiva

  Il cioccolato extrafondente, con la sua ricchezza di magnesio, fosforo, potassio, calcio, teobromina e caffeina (ben 80 mg in una tavoletta, lequivalente di una tazzina di caffè) è un alimento che non appesantisce lo stomaco e può consentire di andare avanti a lavorare a lungo.

  Mangiate poco. Provate la dieta del semidigiuno durante il giorno. Imitate Umberto Veronesi, che fa un solo pasto (leggero!) la sera, e durante il giorno mangia pochissimo (qualche frutto, uno yoghurt), bevendo the o tisane, allo scopo di evitare la sonnolenza dei pasti e rimanere lucido.

Sentiamo cosa dice Umberto Veronesi sui benefici effetti del semidigiuno sulla concentrazione: “Avete mai provato a meditare con lo stomaco pieno? E a svolgere qualsiasi lavoro o attività intellettuale? Quali idee fulminee, intriganti, appassionate, geniali possono mai arrivare dopo un’abbondante mangiata? Per me il digiuno è fonte di chiarezza mentale: intasare di cibo il corpo fa perdere lucidità e capacità creative, rallenta i riflessi e la razionalità; digiunare, invece, mantiene le prestazioni del cervello. Si tratta anche di guadagnare tempo: quanto ne spendiamo mangiando? Alludo a pranzi e cene interminabili, durante i quali non riusciamo a creare o produrre alcunché; non riusciamo ad amare, a stabilire relazioni vere, a ragionare e approfondire gli argomenti che ci interessano.  Mangiare troppo compromette la concentrazione”.

  Utilizzate integralmente le ore della mattina. La resa dello studio mattutino è almeno doppia rispetto a quella dello studio pomeridiano.

  Evitate attività sportiva faticosa. Scaricarsi dopo una seduta di studio va bene, ma con una corsa moderata o una passeggiata di buon passo, non con due ore di palestra o cinquanta vasche di nuoto, a meno che poi non si vada a dormire senza riprendere lo studio.

 

 

 

Non usate il talco

 

Quando utilizzate il talco, le sue microparticelle penetrano sotto la pelle e invadono i tessuti. Il corpo, che non sa che fare con questa sostanza estranea, la raccoglie in determinati punti, in modo che non possa fare danni. Purtroppo questi punti sono le articolazioni. E' proprio così: usare troppo talco può portare a lievi danni alle articolazioni, specie quelle fini delle mani e dei piedi.

Le bambine trattate col talco nelle parti intime possono andare incontro al cancro alle ovaie in età più tarda a causa dell'effetto irritante delle particelle di talco.

Di recente si è scoperto che le particelle inalate del talco sono tossiche quanto quelle dell’asbesto.

Ce n’è abbastanza per non seguire i consigli della mamma, almeno in questo campo.

 

 

 

Zucchero, melassa, miele. Lo zucchero di canna è migliore dello zucchero raffinato? Il miele non presenta i pericoli del saccarosio, e quindi possiamo concedercene generose quantità?

 

Lo zucchero di canna è al 99,9% saccarosio. Il saccarosio, il comune zucchero da tavola, viene estratto sia dalla canna da zucchero sia dalla barbabietola. La molecola è esattamente la stessa, indistinguibile da parte del nostro corpo.

Lo zucchero grezzo è ricco di minerali? Certamente 100 grammi di zucchero grezzo contengono fino a 35 volte più minerali rispetto allo zucchero raffinato. Ma la quantità totale è irrilevante anche per 100 grammi, e non è che noi mangiamo 100 grammi di zucchero al giorno! Ad esempio 100 grammi di zucchero grezzo contengono 133 mg. di potassio, ma in cento grammi di zucchero, una quantità che se ingerita fa malissimo alla salute. E se anche mangiassimo un etto di zucchero grezzo, avremmo assunto meno potassio di una piccolo pezzo di banana (100 grammi di banana ne contengono 358 milligrammi.)

Campagne allarmistiche mettono in guardia dal fatto che lo zucchero raffinato, essendo estratto chimicamente, contiene pericolosi residui della lavorazione, come l'anidride solforosa. A parte il fatto che l'anidride solforosa è alquanto innocua a piccole dosi, e viene ampiamente utilizzata come conservante "naturale" degli alimenti, la sua presenza nello zucchero raffinato è in tracce infinitesimali.

Certe volte si dice che melassa e miele sono più "ricchi" di minerali. Ma vale lo stesso discorso che per lo zucchero di canna: si tratta di due composti ricchi di fruttosio e saccarosio, che sono zuccheri semplici, che vengono assorbiti troppo velocemente dal sangue e provocano un picco glicemico che può danneggiare le cellule del pancreas che producono insulina. Anche per miele e melassa vale quindi il discorso sullo zucchero di canna: non ci si può arricchire di minerali assumendo quantità rilevanti di miele e melassa: si può solo prendere il diabete. E' la stessa storia dei succhi di frutta commerciali al mirtillo che contengono il 50% di zucchero saccarosio: salvi la retina ma diventi diabetico.

 

 

 

Allarmi medici: una lista aggiornata

 

Quella che segue è una lista – per ora incompleta – di allarmi medici lanciati recentemente su media, blog, forum e libri dedicati alla nutrizione e alla salute.

Molte notizie sono riportate solo per dovere di cronaca e senza commento, perché a giudizio di chi scrive non è ancora chiaro se si tratti di un reale allarme o di puro allarmismo.

L’asterosco segnala che si tratta di notizie su cui chi scrive non prende posizione.

  La Nutella Ferrero contiene come ingrediente lolio di palma (visitare il sito ufficiale www.ferrero.it per credere: vi sono elencati gli ingredienti), che è un olio tropicale dannoso per la salute delle arterie.

  La dieta vegana, cioè vegetariana stretta senza prodotti animali, carne, pesce, latticini, crea carenze più o meno gravi di ferro, calcio, vitamina D, vitamina E, vitamina K, vitamine del gruppo B. Leggete in questo documento l'articolo: "Alcuni motivi per cui è irresponsabile imporre una dieta vegana ai propri bambini".

  Recentemente è stato lanciato un allarme circa la supplementazione di vitamina B6: il blog della Mayo Clinic avverte che assumere alti livelli di vitamina B6 per un anno può provocare un grave danno ai vostri nervi, conducendo ad una perdita di coordinazione dei movimenti. Interrompendo la sommionistrazione i sintomi spariscono (è difficile che con la dieta si assuma più della RDA raccomandata, che è molte volte inferiore alla dose tossica), ma non è chiaro in quale misura il danno sia irreversibile.

  Lo stearato di magnesio, un eccipiente usato in pressoché tutti i medicinali e gli integratori in compresse è dannoso la pelle, il fegato e il per il sistema immunitario (in alcuni studi l’acido stearico distrugge i linfociti T provocando il collasso della integrità della membrana cellulare), forma un film (sottile strato) lipidico che riduce notevolmente l’assorbimento intestinale delle vitamine contenute nella compressa; contiene acido stearico ricavato da oli pesantemente inquinati da pesticidi. Inoltre, in campioni di magnesio stearato sfuso destinato alle industrie farmaceutiche si sono trovate tracce di Bisfenolo, idrossido di calcio, e Irganox-10, composti tossici legati al suo ciclo produttivo e alla incompleta pulizia dei macchinari utilizzati.

  Il parassita della toxoplasmosi è facilmente trasmesso dai gatti al cervello delluomo mediante le loro feci, e recenti studi statistici, da approfondire, indicano che può influire sul comportamento umano.

  Anche chi consuma molti insaccati e carne poco cotta è a rischio toxoplasmosi, anche più di chi è a contatto con le feci di gatti

  Lanestesia totale, in soggetti di età superiore a 70 anni, può provocare una perdita più o meno marcata e irreversibile delle facoltà mentali. Una delle ipotesi che si sono avanzate è che l’anestetico rallenta la respirazione e il battito cardiaco, e quindi anche la circolazione sanguigna, provocando un deficit di ossigeno che danneggia le cellule cerebrali. Due parenti di chi scrive hanno subito rispettivamente una operazione alla prostata e una operazione all’anca in anestesia totale, e da quel momento hanno mostrato chiari segni di deterioramento mentale, tra cui difficoltà a riconoscere i parenti prossimi e incapacità di tenere la contabilità e gli affari di famiglia.

  Attenti: il morbo di Lyme è arrivato anche in Italia

  Mangiate tantissime arance? Fate attenzione se siete predisposto ai calcoli renali

  Un nuovo parassita dei pesci può contagiare luomo

  L’iperico, un’erba i cui estratti sono usati per la cura naturale della depressione, potrebbe danneggiare la vista

  L’aspirina potrebbe favorire lo sviluppo del glaucoma

  Molti antiacidi in commercio contengono alluminio, una pericolosissima neurotossina

  Gli hamburger di soia potrebbero contenere alti livelli di alluminio tossico, come residuo del processo di estrazione delle proteine della soia. La maggior parte degli hamburger di soia sono prodotti a partire dalle proteine isolate della soia. Mangiarli è come mangiare polvere proteica per culturisti, con quel che ne consegue per fegato e reni non perfettamente a posto. Inoltre le loro proteine sono degradate dal processo produttivo e di scarso valore biologico.

Clicca qui per vedere l’articolo sulla soia.

  L’aspartame utilizzato in tutte le bevande light è un potente cancerogeno. Ricercatori hanno rivisto gli studi che ne dimostrerebbero la innocuità e hanno trovato grossolani errori di interpretazione. In realtà gli animali di laboratorio sviluppavano tumori di dimensioni impressionanti.

  La vitamina C (acido ascorbico) in compresse masticabili può danneggiare i denti, perché lacido ascorbico intacca lo smalto.

  I bifosfonati, i farmaci che vengono prescritti a soggetti a rischio di osteoporosi quando la somministrazione di vitamina D non si dimostra sufficiente, hanno effetti collaterali pesanti, tra cui il rischio di necrosi delle ossa della mascella con effetto sfigurante. Inoltre, anche se aumentano la densità ossea, sembra aumentino il rischio di fratture ossee (che è il pericolo maggiore in soggetti a rischio di osteoporosi)

  Assumere supplementi di calcio per prevenire o curare l’osteoporosi può aumentare il rischio di calcificazione delle arterie, a meno che il calcio non sia assunto insieme a dosi di vitamina K2

  Assumere supplementi di vitamina D potrebbe rivelarsi inutile. La vitamina D dovrebbe essere presa nella sua forma attiva, quella D3 e mai senza vitamina A.

  Il warfarin, un medicinale per abbassare la pressione, depaupera le riserve di vitamina K2 dell’organismo e può provocare in questo modo calcificazione delle arterie

  Luso di Viagra, Cialis o Levitra può provocare in una percentuale di pazienti perdita parziale o totale dell’udito. In una minoranza di questi casi la perdita è stata immediata (dopo una sola assunzione) e irreversibile.

  Una dieta ricca di cereali integrali può provocare, a causa dei fitati, composti antinutrienti contenuti nei vegetali, malassorbimento di calcio, magnesio, zinco e altri importanti minerali

  Bere una quantità sproporzionata di acqua o the al giorno può depauperare l’organismo di potassio e altri sali minerali.

  Tutti i dentifrici in commercio contengono potenti acidi aggiunti per “sbiancare” i denti dal tartaro, che aggrediscono lo smalto facendo sì che soggetti che usano troppo spesso e male il dentifricio (principalmente sulla superficie laterale dei denti invece che sul colletto e sulla corona – la superficie orizzontale) rischiano di rimuovere lo smalto e rendere i propri denti marroni.

  Il fluoro contenuto nei dentifrici è un elemento chimico terribilmente tossico per il sistema immunitario umano. Utilizzate solo piccole quantità di dentifricio quelle strettamente necessarie – e controllate che i vostri bambini si sciacquino accuratamente i denti al termine della pulizia e soprattutto che non inghiottano dentifricio durante la pulizia.

  Le piantagioni di tabacco vengono fertilizzate con concimi ricavati dal minerale di apatite, che è lievemente radioattivo. I fumatori accaniti si procurano in un anno radiazioni equivalenti a quelle di parecchie radiografie.

  Il consumo giornaliero di carne rossa può provocare ipertrofia prostatica e costringervi ad operarvi alla prostata entro i settant’anni. Questo perché è risultato praticamente impossibile stroncare la pratica degli allevatori di somministrare testosterone ai vitelli per aumentarne la massa muscolare e la velocità di crescita, malgrado la legislazione europea lo vieti. Negli USA e in paesi extraeuropei questa pratica non è neanche vietata. L’azione ipertrofizzante del testosterone sulla prostata è meno nota di quella cancerogena, ma non meno preoccupante.

  Le trote di allevamento e altri pesci allevati col sistema della piscicoltura sono pieni di antibiotici.

  La cuticola del riso integrale è un vero e proprio magnete per l'arsenico, e il consumo di tale alimento rischia di danneggiarvi seriamente.

  I latticini (e le proteine) decalcificano lo scheletro.

Il prof. Colin Campbell, autore del China Study, afferma nel suo famoso libro che l'assunzione di importanti quantità di latticini, come pure una dieta in cui le proteine siano superiori al 10%, soprattutto se di origine animale, può comportare decalcificazione dello scheletro perché, per mantenere il ph di sangue e tessuti entro un range molto stretto l'organismo interviene immediatamente e "scioglie" una parte delle ossa per ottenere carbonati che fanno da tampone all'eccessiva acidità.

Lo stesso afferma Franco Berrino, direttore dell'Istituto Milanese dei Tumori in suo recente libro, Il cibo dell'uomo.

  "La caseina del latte è il singolo fattore favorente del cancro più importante trovato sinora" (Colin Campbell). Ergo: niente latticini.

  La fibrillazione atriale è una causa poco conosciuta di ictus ischemico, il cui rischio, a causa di questo disturbo cardiaco, aumenta di cinque volte. La fibrillazione delle camere superiori del cuore (gli atri) ne provoca una insufficiente contrazione, che può provocare un ristagno di sangue nel cuore e la formazione di coaguli che possono arrivare fino al cervello, occludendo un'arteria cerebrale ristretta e procurando l'ictus.

Si stima che circa il 20% delle persone che soffrono di fibrillazione atriale abbia un ictus.

A partire da una certa età (60 anni) sono consigliabili esami (in particolare l'holter cardiaco: il monitoraggio per 24 ore dell'attività elettrica del cuore) per individuare la presenza di questo insidioso disturbo.

Vedi in questo documento l'articolo "Fibrillazione atriale e ictus ischemico".

  Recenti studi mostrano che la coca-cola, oltre a sciogliere lo smalto dei denti, provoca anche perdita di calcio dalle ossa. I due effetti (corrosione dello smalto e decalcificazione) sono verosimilmente legati all'acido fosforico, che è un ingrediente della bevanda.

  Non fumate: uno studio su gemelli identici ha mostrato che il gemello che fuma ha un rischio di fratture del 40% superiore a quello che non fuma.

  Non consumate panini ai 5 cereali con soia: la farina di soia cuoce più lentamente, e il panino contiene farina di soia mal cotta, piena di fitati e di elementi anti-nutritivi che possono impedire la piena assimilazione di vitamine e sali minerali che assumete con il resto del pasto.

  Evitate il talco: se inalato presenta gli stessi rischi della polvere di asbesto, e se usato per cospargere la pelle entra nel sangue e il sistema immunitario lo parcheggia nelle nostre articolazioni, rovinandole.

 

… TO BE CONTINUED

 

 

 

Passate dalla cioccolata alla polvere di cacao!

 

Una nuova ricerca pubblicata sul Chemistry Central Journal ha ora dimostrato che, cacao e il cioccolato fondente sono più antiossidanti della frutta grazie al loro maggiore contenuto di polifenoli e flavanoli. Lo studio è stato condotto dai ricercatori dell'Hershey Center for Health & Nutrition che, comparando le capacità nutrizionali diversi tipi di frutta e cacao grammo per grammo, hanno così stabilito la supremazia nutritiva dei semi di cacao.

I flavanoli sono un tipo di fitonutrienti appartenenti al più ampio gruppo dei flavonoidi: sono naturalmente contenuti nel cacao ma la gran parte si disperde nel processo di lavorazione per ottenere il cioccolato. Tra le proprietà loro riconosciute, quella di mantenere in salute i vasi sanguigni e di abbassare il rischio di aggregazione piastrinica che provoca la coagulazione del sangue. I polifenoli sono antiossidanti naturali presenti nelle piante e possono risultare utili nella prevenzione dell’ossidazione delle lipoproteine e contro i radicali liberi; tra gli altri effetti benefici a loro imputati, quelli a livello cardiovascolare, a livello cognitivo e contro la crescita tumorale.

I ricercatori hanno paragonato gli antiossidanti contenuti nei semi di cacao, nel cioccolato fondente e in diversi tipi di frutta e succhi di frutta, trovando che cacao e cioccolato hanno capacità antiossidanti superiori e maggiori quantità di flavanoli totale e polifenoli.

Tuttavia, tra cioccolato e cacao non c'è partita, perché il processo di lavorazione del cacao che porta alla realizzazione del cioccolato - l'alcalinizzazione - disperde parte dei composti benefici: «I semi di cacao - spiega Debra Miller, autrice senior dello studio - sono un super-frutto che fornisce un valore nutritivo che va oltre la loro composizione di macronutrienti».

Aggiungiamo che anche alla polvere di cacao magro vengono aggiungi dei carbonati di potassio per alcalinizzarlo, e quindi la pienezza delle proprietà antiossidanti va ricercata nei semi di cacao.

Se riuscite a procurarvi del cacao amaro magro senza carbonati aggiunti, ecco una ricetta per ottenere una mousse nutriente e veloce:

 

Prendete un recipiente (barattolo ecc.) della dimensione di uno shaker, ma senza coperchio.

Inseritevi un sacchetto di plastica per alimenti.

Versatevi, a scelta, 100 gr. di latte vaccino, di latte di mandorle, di latte di riso o di latte di avena.

Versatevi 7 cucchiai ben colmi di cacao in polvere.

Chiudete con le dita il sacchetto di plastica.

Shakerate nel contenitore tenendo il sacchetto di plastica con una mano e il contenitore nell’altra

Versate in una tazza.

Riscaldate nel forno a microonde per 40 secondi a 500 W (750 W se il forno è di 30 litri o più)

Fate raffreddare e mettete in frigorifero

Buon appetito!

 

 

 

La fibrillazione atriale e le irregolarità del ritmo cardiaco

 

Fibrillazione atriale e ictus ischemico.

Nella sola Unione Europea si verificano più di un milione di casi di ictus ogni anno, e l'ictus è la seconda causa di morte a livello mondiale. E la fibrillazione atriale è una delle cause meno note di ictus.

Cos’è la fibrillazione atriale (FA)?

La fibrillazione atriale (FA) è la forma più comune di aritmia ed è un problema legato alla frequenza del ritmo cardiaco. Durante un’aritmia il cuore può battere troppo velocemente, troppo lentamente o in maniera irregolare. La FA avviene se i segnali elettrici rapidi e caotici provocano la fibrillazione delle due camere superiori del cuore, gli atri.

Nella FA, il cuore non si contrae con la forza con la quale dovrebbe. Questo può provocare un ristagno di sangue nel cuore con conseguente formazione di coaguli. Quando questi coaguli di sangue si spostano possono avanzare fino al cervello, dove rischiano di rimanere intrappolati in un’arteria cerebrale ristretta, bloccando così la circolazione e provocando un ictus. La letteratura suggerisce che più del 90% dei coaguli di sangue responsabili dell’ictus nei pazienti affetti da FA viene generato in una sacca nella parte sinistra del cuore, chiamata auricola atriale sinistra (LAA).

La FA può essere di breve durata, con sintomi che compaiono e scompaiono ed è possibile che un episodio di FA si risolva senza alcun intervento. Tuttavia, questa patologia può essere persistente e necessitare di trattamento; talvolta è permanente e farmaci o altri trattamenti non possono ripristinare un ritmo cardiaco normale.

I fattori di rischio per la FA includono:

• Stress emodinamico (ossia, scompenso cardiaco o ipertensione)

• Ischemia atriale

• Infiammazione

• Cause respiratorie non cardiovascolari

• Uso di alcool e sostanze stupefacenti

• Disturbi endocrini (ossia, diabete)

• Disturbi neurologici

• Fattori genetici/età avanzata

Prevalenza e tassi di mortalità

La FA colpisce circa l’1,5-2% della popolazione generale mondiale. Oltre 6 milioni di Europei presentano questa forma di aritmia e si prevede che la sua prevalenza raddoppierà nei prossimi 50 anni con il progressivo invecchiamento della popolazione. Nel 2012 è stato stimato che, in Italia, sono circa 850mila le persone affette da FA.

La FA è fortemente correlata all’età e colpisce il 4% dei soggetti di età superiore ai 60 anni e l’8% delle persone di età superiore agli 80 (in Italia tale percentuale si attesta intorno al 9%).6 Lo studio Framingham, studio cardiovascolare a lungo termine, attualmente in corso, ha evidenziato che circa il 25% delle persone, di età pari o superiore ai 40 anni potrebbe sviluppare FA nel corso della vita.

La FA in sé costituisce una causa importante di mortalità, morbidità e compromissione della qualità della vita. La patologia è associata a un rischio di decesso 1,5-1,9 volte più elevato. in base ai dati dello studio Framingham, ciò è in parte dovuto alla forte correlazione tra FA ed eventi tromboembolici.

Che cos’è l’ictus?

L’ictus è un evento cerebro-vascolare, che provoca anomalie della funzionalità neurologica che persistono per più di 24 ore. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce l’ictus come una sindrome, che consiste in segni clinici di disturbi focali (o talvolta globali) della funzionalità cerebrale in rapida evoluzione. I sintomi persistono per 24 ore o più e possono portare al decesso, senza causa apparente diversa da una causa di origine vascolare.18 In caso di ictus, la sintomatologia più frequente comprende debolezza improvvisa o intorpidimento del viso, del braccio o della gamba, molto spesso localizzati in un lato del corpo; altri includono confusione, difficoltà di linguaggio o di comprensione del linguaggio, difficoltà a vedere con uno o entrambi gli occhi, difficoltà di deambulazione, capogiri, perdita di equilibrio o della coordinazione, mal di testa grave senza alcuna causa nota, svenimento o perdita di conoscenza. Se all’origine dell’ictus vi è un coagulo che ostruisce la circolazione del sangue al cervello, si parla di ictus ischemico, mentre se la causa scatenante è la rottura di un vaso sanguigno che impedisce la circolazione del sangue al cervello, si definisce ictus emorragico. Un attacco ischemico transitorio (TIA) è provocato da un coagulo temporaneo e i sintomi correlati solitamente spariscono del tutto entro 24 ore. Per i soggetti che hanno subito un TIA la probabilità di subire un ictus in futuro è molto elevata.

Prevalenza dell’ictus e tassi di mortalità

Secondo l’OMS, l’ictus è il disturbo cardiovascolare più frequente dopo la cardiopatia e colpisce 15 milioni di persone ogni anno in tutto il mondo. L’OMS stima che l’ictus sia la seconda causa di morte nel mondo; dei 15 milioni di soggetti che annualmente subiscono un ictus, 5 milioni muoiono e altri 5 sono resi permanentemente disabili dalla patologia. Nell’Unione Europea (UE) ogni anno si verificano circa un milione di ictus e circa il 25% degli uomini e il 20% delle donne di età pari almeno a 85 anni è a rischio di subire un ictus.19 Il numero totale di decessi per ictus nei 51 Paesi europei è attualmente stimato a 1.074.000 l’anno.

In Italia, si verificano circa 200mila nuovi casi di ictus ogni anno. Di questi, circa l’80% è rappresentato da nuovi episodi. La mortalità a 30 giorni dopo un ictus ischemico è pari al 20%, mentre quella a un anno è pari al 30% circa. La mortalità a 30 giorni dopo ’ictus emorragico è pari al 50%. Il tasso di prevalenza di ictus nella popolazione anziana (età 65-84 anni) italiana è del 6,5%, leggermente più alto negli uomini (7,4%) rispetto alle donne (5,9%).

Rischio di ictus correlato alla FA

La FA è un importante fattore di rischio e comporta un aumento del rischio di ictus di 5 volte rispetto alla popolazione generale. Complessivamente, si stima che la FA sia responsabile per circa il 15% di tutti gli ictus24 25 26 e per il 20% di tutti gli ictus ischemici.27 In Italia, sono 40mila le persone che soffrono della combinazione delle due patologie. Con l’invecchiamento della popolazione, il peso a livello globale dell’ictus correlato a FA continuerà ad aumentare. La prevalenza di ictus nei pazienti di età superiore ai 70 anni affetti da FA raddoppia con ciascuna decade. Inoltre, gli ictus correlati a FA sono associati ad esiti più gravi rispetto agli ictus non correlati a FA. A causa delle loro dimensioni, essi occludono un’arteria intracranica di dimensioni maggiori, escludendo dalla circolazione sanguigna una porzione più ampia del cervello. Sono solitamente collegati a livelli più elevati di morbidità e comportano costi elevati di ospedalizzazione, rispetto ad altre forme di ictus.

Ridurre il rischio di ictus nella fibrillazione atriale (FA)

Il trattamento della FA mira a ridurre i sintomi e il rischio di gravi complicanze ad essa associate, come l’ictus. La terapia di base per la riduzione del rischio di ictus correlato a FA è la terapia anticoagulante orale (OAC), con warfarin come standard di cura. Inoltre, gli approcci non farmacologici, come la chiusura dell’auricola atriale sinistra (LAA), offrono un’alternativa terapeutica, per esempio per i pazienti con FA non valvolare che necessitano di un trattamento per la possibile formazione di trombi nella LAA e che sono controindicati alla terapia con anticoagulanti orali. Questi interventi offrono una soluzione permanente ai pazienti con FA ed eliminano la necessità di assumere una terapia anticoagulante orale a vita.

Linee guida terapeutiche

Il percorso terapeutico più idoneo per la profilassi dell’ictus correlato a FA è definito da linee guida internazionali, europee e nazionali ed esistono inoltre diversi metodi per classificare il rischio di ictus. Lo schema più semplice di valutazione del rischio è l’indicatore CHADS2, che si basa su un sistema a punti, nel quale vengono assegnati due punti per anamnesi di ictus o TIA e un punto ciascuno a età superiore ai 75 anni, anamnesi di ipertensione, diabete o recente scompenso cardiaco. Le raccomandazioni terapeutiche si basano sul punteggio CHADS2 di un paziente. In aggiunta a questo parametro, le linee guida 2010 della Società Europea di Cardiologia (ESC) per la gestione della FA fanno riferimento al punteggio CHA2DS2-VASc. Tale punteggio include ulteriori fattori di rischio minori per l’ictus (quali l’età compresa tra i 65 e i 74 anni, il sesso femminile e la malattia vascolare) e completa il precedente sistema di classificazione.39 Inoltre, enfatizza l’età “superiore ai 75 anni” come importante fattore di rischio. Al fine di ridurre il rischio di ictus correlati a FA, la Società Europea di Cardiologia consiglia di avviare una terapia anticoagulante. Quando tale terapia viene usata e monitorata in modo appropriato, è molto efficace e riduce il rischio di ictus di circa due terzi. Tuttavia, i dati attuali indicano che la gestione della FA è ancora sub-ottimale e molti dei pazienti trattati con anticoagulanti non rientrano nel range terapeutico ottimale in maniera continuativa. Inoltre, una percentuale elevata di pazienti non viene trattata con anticoagulanti orali, la maggior parte dei quali ha più di 80 anni. Nell’agosto del 2012, la Società Europea di Cardiologia (ESC) ha annunciato l’inclusione della procedura di chiusura dell’auricola sinistra con dispositivo medico - come il WATCHMAN™ - all’interno delle proprie linee guida: “Guidelines for Management of Patients with Atrial Fibrillation”. Le nuove linee guida ESC raccomandano la procedura di chiusura della LAA in classe IIb, livello di evidenza B, per pazienti ad alto rischio di ictus e controindicati alla terapia anticoagulante a lungo termine, sulla base delle evidenze cliniche esistenti, come quelle provenienti dallo studio PROTECT AF.44 Già la versione precedente delle linee guida suggeriva che la chiusura della LAA avrebbe consentito una riduzione del numero di ictus in pazienti con FA.

Terapia anticoagulante

L’obiettivo della terapia anticoagulante è quello di ridurre il rischio di formazione o espansione di coaguli, attraverso la somministrazione di una bassa dose di farmaco anticoagulante. La terapia anticoagulante con warfarin (Coumadin™) è ampiamente considerata come lo standard terapeutico per la profilassi dell’ictus nei pazienti con FA ad alto rischio di ictus. Tuttavia, l’effetto terapeutico del warfarin è estremamente imprevedibile e può cambiare a causa di diversi fattori, quali le modifiche alla dieta o ai farmaci assunti in concomitanza. Di conseguenza, l’assunzione sicura ed efficace della terapia cronica con warfarin richiede un monitoraggio frequente. L’International Normalised Ratio (INR) misura il tempo di coagulazione del sangue e lo mette a confronto con un valore medio; la misurazione di questo valore è una fase importante per garantire una terapia anticoagulante ottimale. Il warfarin ha una finestra terapeutica ristretta e ciò può facilmente portare al sovradosaggio o al sottodosaggio nei pazienti, che sono così esposti al rischio di complicanze, principalmente di sanguinamento. Il sistema di segnalazione degli eventi avversi dell’FDA rilevati nei decenni del 1990 e 2000 indica che il warfarin è tra i primi 10 farmaci con il più alto numero di eventi avversi gravi correlati.

Negli ultimi anni, sono entrati in commercio nuovi anticoagulanti orali. Farmaci come apixaban, dabigatran o rivaroxaban possono essere utilizzati come alternativa al warfarin nella prevenzione dell’ictus in pazienti affetti da FA. Secondo la Società Europea di Cardiologia, i nuovi anticoagulanti orali, testati negli studi clinici finora condotti, hanno dimostrato la non-inferiorità rispetto al warfarin, offrendo una migliore efficacia, sicurezza e comodità per la maggioranza dei pazienti affetti da FA non valvolare. Sono necessari, però, ulteriori dati clinici prima di concludere che questi nuovi farmaci anticoagulanti possano sostituire il warfarin nei pazienti con FA. Pertanto, è fortemente raccomandata una rigorosa aderenza al trattamento e un attento monitoraggio, in quanto l’aderenza del paziente al trattamento e il rischio emorragico continuano a rappresentare sfide importanti per la riduzione del rischio di ictus in pazienti con FA.

Chiusura della LAA per la riduzione del rischio di ictus correlato a FA

La ricerca evidenzia che, in più del 90% dei pazienti con FA non valvolare, i coaguli di sangue che provocano l’ictus si sviluppano nell’auricola atriale sinistra (LAA). Al momento questi pazienti, essendo ad alto rischio di ictus, sono trattati con warfarin o con altri farmaci anticoagulanti. Tuttavia, chiudendo la fonte della formazione dei coaguli di sangue, si può ridurre il rischio di ictus ed eliminare la necessità di una terapia anticoagulante orale a lungo termine. La chiusura della LAA è una procedura minimamente invasiva che ha una durata di circa un’ora e offre un’opzione terapeutica permanente per la profilassi dell’ictus nei pazienti con FA non valvolare che necessitano di trattamento per la possibile formazione di trombi. Nel primo, vasto, studio randomizzato, PROTECT AF, è stato dimostrato che la chiusura della LAA con il dispositivo WATCHMAN™ rappresenta un’alternativa al warfarin. I dati clinici a lungo termine dello studio hanno dimostrato la superiorità della chiusura della LAA rispetto al warfarin nel ridurre il rischio di ictus in pazienti con FA non valvolare con un punteggio CHADS2 ≥1.58 Un secondo importante studio - lo studio ASAP (Aspirin And Plavix® ) - studio di fattibilità, non randomizzato, prospettico e multicentrico ha dimostrato una riduzione del 77% del rischio di ictus ischemico in pazienti affetti da FA, ad alto rischio e controindicati alla terapia con warfarin. La ricchezza di dati esistenti a supporto di WATCHMAN™ ha condotto, nell’agosto del 2012, all’approvazione in Europa per un uso più esteso del dispositivo, offrendo un trattamento alternativo ai pazienti affetti da FA, sia che siano tolleranti alla terapia anticoagulante orale sia che siano controindicati ad essa. Ciò consente di estendere i benefici della terapia con dispositivo ad una più vasta popolazione, in particolare a coloro che sono più soggetti di altri a un alto rischio di ictus. Un secondo studio clinico randomizzato, su larga scala, PREVAIL, conferma la sicurezza della procedura di impianto di WATCHMAN™ e ha dimostrato bassi tassi di complicanze sia tra i clinici che effettuano i primi impianti sia tra i clinici più esperti, e complicanze significativamente più basse rispetto alla fase iniziale dello studio PROTECT AF. Oltre ai risultati di efficacia e sicurezza, esistono dati clinici che sottolineano che la chiusura della LAA, effettuata con dispositivo WATCHMAN™, è complessivamente più efficace e meno costosa rispetto alla terapia farmacologica con warfarin, aspirina, clopidogrel e dabigatran, indipendentemente dal punteggio CHADS2 dei pazienti. Un’ulteriore analisi mostra una progressiva riduzione del rapporto incrementale di costo-efficacia (ICER) di chiusura della LAA vs. aspirina, al peggiorare delle condizioni dei pazienti, come dimostrato dall’aumento dei punteggi di CHADS2. Attualmente, tre dispositivi per la chiusura della LAA hanno la marcatura CE, tra cui WATCHMAN™, e vi sono altri dispositivi ancora in fase di sperimentazione clinica.

 

 

 

Anisakis, il parassita del pesce crudo

 

L’anisakis è un parassita presente nell’apparato digerente di alcuni pesci e che invade la parete dello stomaco o l’intestino. Recentemente c’è stato un aumento dei casi in Europa, anche mediaticamente risonanti, mentre è solitamente più diffuso nei paesi asiatici.

La diffusione del parassita è avanzata anche grazie al successo del sushi, ma non è direttamente conseguente. Insomma, non è il sushi a trasportare il parassita, ma piuttosto delle cattive consuetudini di conservazione dei cibi.

Per “uccidere” questo parassita è sufficiente cuocere il pesce oppure, nel caso appunto di ricette con pesce crudo, l’abbattimento per 24 ore alla temperatura almeno di 20°C a livello costante. Marinatura, salatura e affumicatura non sono invece sufficienti.

Nell’uomo, l’ingerimento può provocare nella maggioranza dei casi dolori addominali, vomito e febbre. Alcuni pazienti hanno riferito di aver provato una sensazione di solletico in bocca o in gola, provocata dal movimento convulso del verme.

Possono svilupparsi reazioni allergiche, con gonfiore e eritema cutaneo. Si parla in questo caso di anisakidosi. La reazione può presentarsi anche con pesce cotto, per via di sostanze biochimiche resistenti. La diagnosi di sensibilizzazione, come per altre allergie, si può eseguire con il prick test.

Nei casi più gravi, che sono rari, la larva va rimossa tramite intervento chirurgico. Altrimenti, più frequentemente, viene espulsa naturalmente entro 48 ore.

I pesci più a rischio di contaminazione sono: pesce sciabola, ricciola, lampuga, pesce spada, tonno, sardina, aringa, acciuga, nasello, merluzzo, rana pescatrice e sgombro.

Il normale ciclo di vita del parassita parte dallo stomaco dei mammiferi marini. Le uova vengono rilasciate in acqua attraverso le feci di tali mammiferi e poi fecondate. In seguito le larve vengono ingerite prima dai crostacei e poi dai pesci. In essi si sviluppa l’ultimo stato larvale prima del ritorno ai mammiferi marini, nei quali il ciclo riprende

La contaminazione umana arriva dunque al penultimo stadio e decreta sempre la morte della larva, in quanto non ci sono le condizioni di vita ideali.

Gli Anisakis sono parassiti di grosse dimensioni, visibili ad occhio nudo, spesso raggomitolati su se stessi. Hanno un colore biancastro o rosato e misurano da 1 a 3 cm di lunghezza.

Una circolare del ministero di sanità del 1992, ancora in vigore, obbliga chi somministra pesce crudo o in salamoia (il limone e l'aceto non hanno alcun effetto sul parassita) ad utilizzare pesce congelato o a sottoporre a congelamento preventivo il pesce fresco da somministrare crudo. Infatti l'anisakis e le sue larve muoiono se sottoposti a 60 gradi di temperatura, oppure dopo 96 ore a -15° C, 60 ore a -20° C, 12 ore a –30° C, 9 ore a -40° C.

I pericoli maggiori provengono dai ristoranti e dal consumo casalingo. Purtroppo non tutti i ristoranti seguono queste indicazioni, poiché i casi sono in aumento e la causa è spesso da imputare ad alici marinate, evidentemente non sottoposte a congelamento preventivo.

Se pensate che il rischio anisakis sia molto basso e gli allarmismi siano eccessivi, sappiate che ogni settimana vengono ritirate dal mercato partite di pesce infestato dal parassita, e stiamo parlando di pesce fresco italiano e di provenienza estera.

 

 

 

Surgelazione dei cibi: il modo corretto di farlo.

Se il frigorifero è l'apparecchio che consente di conservare per qualche giorno alimenti freschi prima della loro consumazione, il congelatore permette il loro mantenimento sottoforma già congelata o, addirittura, di congelare alimenti freschi.

Il periodo per il quale è possibile mantenere nel freezer un alimento congelato dipende anche dal numero delle stelle che lo contraddistinguono.

Ad ogni stella corrisponde una temperatura di conservazione di -6 °C.

Così se sull'apparecchio sono stampigliate 2 stelle significa che la temperatura raggiunta nel vano freddo è di -12 °C.

Se invece le stelle sono 3 la temperatura di mantenimento degli alimenti è di -18 °C. Questa è la minima temperatura che bisogna avere nel frigorifero per conservare per lunghi tempi i cibi. Tutte le temperature inferiori a -18 °C sono adatte in quanto impediscono la proliferazione dei batteri.

Tuttavia un congelatore 3 stelle è in grado solamente di mantenere congelati gli alimenti a -18 °C, ma non è adatto a congelare i cibi freschi.

Per far ciò è necessario un congelatore 3+1 stella (4 stelle) che, all'occorrenza, è in grado di garantire una temperatura nel vano freddo anche di -25 °C in modo da portare alla congelazione in breve tempo eventuali alimenti freschi introdotti. Una congelazione lenta, infatti, porta alla formazione di macrocristalli all'interno delle cellule degli alimenti, danneggiandoli.

Per la congelazione si usa la funzione super.

La congelazione che avviene in tempi molto brevi viene chiamata surgelazione.

 

 

 

Ho la scoliosi: devo andare in palestra a fare ginnastica correttiva e continuare a frequentarla per tutta la vita?

 

La ginnastica correttiva per la scoliosi non corregge proprio niente, se non il conto in banca del gestore della palestra, ritoccandolo al rialzo. In realtà la scoliosi ha fattori ereditari e cause che rimangono ancora in gran parte poco studiate, e ben poco possono su di essa la palestra e gli esercizi correttivi.

Questo è stato confidato a chi scrive da un bravissimo ortopedico, sovente consultato dai Tribunali per perizie sull'attività dei colleghi.

Non si equivochi quel che qui stiamo dicendo: andare in palestra a fare ginnastica per la schiena, per mantenerla tonica e prevenire le malattie della colonna vertebrale è un'ottima abitudine, ma andrebbe osservata da tutti. Coloro che sono affetti da scoliosi non dovrebbero fare cose diverse dal frequentare una normale palestra dove svolgere i normali esercizi per la schiena, senza le esagerazioni dei culturisti.

E' tra l'altro falso il pregiudizio che una colonna vertebrale curvata sia estremamente fragile, necessiti di manutenzione continua e non tolleri il sollevamento del minimo peso. In realtà, sin dalla età più tenera, il sistema osseo si adatta alla posizione anomala, sviluppando una resistenza sorprendente e una capacità di sollevare pesi ragionevoli pressoché equivalente a quella di un individuo normale.

 

 

 

La vitamina K2: una vitamina poco conosciuta con grandi benefici per la salute

 

Molti ricercatori concordano oggi che la deficienza di vitamina K è un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di patologie degenerative legate all’invecchiamento, incluse osteoporosi e aterosclerosi (161).

Le ricerche mostrano che la vitamina K2 è il singolo più importante fattore nutrizionale in grado di prevenire e persino far regredire il blocco aterosclerotico delle arterie.

Il Rotterdam Study ha seguito 4.600 uomini olandesi la cui età più bassa era di 55 anni. Coloro che la più alta assunzione di K2 avevano un rischio di severa calcificazione aortica del 52% più basso, un rischio di patologia coronarica del 41% più basso, un rischio di morte coronarica del 51% più basso e una mortalità per tutte le cause ridotta del 26%. I ricercatori hanno stabilito che un adeguato introito di K2 riduce sia la calcificazione delle coronarie che il rischio di patologia coronarica (163). Esperimenti di laboratorio hanno mostrato che la vitamina K2 è il più forte inibitore conosciuto della calcificazione.

Una meta-analisi del 2010 pubblicata sul prestigioso American Journal of Clinical Nutrition conclude che esistono prove insufficienti che collegano i grassi saturi con i disturbi coronarici (164). Ironicamente, la fobia dei grassi saturi ci ha fatto passare ai grassi idrogenati, il che ha peggiorato ancora la deficienza della vitamina K2 e la salute delle ossa.

Per quanto tutta una serie di misure possano risultare giovevoli per la salute cardiaca (aumentare l’esercizio fisico, tagliare gli zuccheri, perdere peso ecc.) esiste solo una sostanza che sinora si è dimostrata capace di rimuovere il calcio dalla placca una volta che essa si è formata: la vitamina K2. Gli studi mostrano che aggiungendo menaquinone alla dieta attiva la proteina MGP in modo da ridurre il contenuto di calcio della placca del 50% in un periodo di appena 6 settimane. Pare che aiuti anche a ripristinare la flessibilità delle arterie una volta che il calcio è stato rimosso (165),

Le coronarie non sono la sola sede di pericolosa calcificazione: la placca può accumularsi anche nell’aorta, il vaso che porta il sangue ossigenato proveniente dai polmoni a tutto il corpo. L’aorta diviene rigida e non flessibile, aumentando il rischio di attacco cardiaco. L’irrigidimento aortico precede la malattia renale, una condizione egualmente grave, di cui parleremo più avanti. La vitamina K2 è efficiente nel rimuovere il calcio dall’aorta quanto lo è dalle coronarie. L’unico agente dimostratosi efficace nel rallentare la stenosi della valvola aortica è il Crestor, un potente farmaco anticolesterolo. La dose utilizzata nello studio che lo conferma – 40 mg. al giorno – ha effetti collaterali pesantissimi per la maggior parte delle persone.

Il Dr. William Davis, che sin dal 2006 consiglia ai pazienti di assumere supplementi di vitamina D per prevenire la progressione della stenosi della valvola aortica. Una dose terapeutica di 8.000 UI al giorno preveniva l’ulteriore restringimento nel 90% dei pazienti, sebbene non riducesse il restringimento già verificatosi.

Un dato che fa sospettare che la deficienza di K2 abbia a che fare con la patologia della valvola aortica è costituito dal fatto che il Warfarin (nome commerciale Coumadin) provoca calcificazione e al contempo provoca deficienza di K1 e K2.

Mentre la vitamina D è importante per promuovere la produzione di MGP, la vitamina K2 è essenziale per attivarla e far sì che trasporti via il calcio dai tessuti molli.

Occorre tenere presente che non solo la deficienza di vitamina D è dannosa. Anche l’eccesso può demineralizzare lo scheletro (167). La vitamina D aumenta sia la domanda di vitamina K2 sia la possibilità di profittare delle proteine dipendenti da questa vitamina. Per prevenire la tossicità della vitamina D occorre sempre assumerla insieme alla vitamina A e alla vitamina K2. Molti esperti ritengono tuttora che la vitamina A sia in realtà dannosa per le ossa ma questa nozione superata è basata su vecchi studi dove venivano somministrate alte dosi di vitamina A senza vitamina D o K2.

Alcune ricerche mostrano che la vitamina K2 agisce in sinergia con la vitamina D3 per inibire la produzione di osteoclasti che demoliscono tessuto osseo (168). La vitamina K2 induce anche l’apoptosi degli osteoclasti, riducendone il numero (169)

Gli studi mostrano una correlazione inversa tra il consumo di natto nelle varie prefetture giapponesi e l’incidenza delle fratture dell’anca (170). Altri studi mostrano che persone che consumano occasionalmente o frequentemente natto hanno livelli significativamente più alti di vitamina K2 e concentrazioni più alte di osteocalcina attivata rispetto a quelli che non ne consumano affatto. Per coloro che non possono sopportare l’odore e il sapore del natto, altri studi affermano che supplementi di vitamina K2 hanno lo stesso effetto ed apportano i medesimi benefici (171).

Un semplice test misura la quantità di proteine inattivate nel sangue, rendendo possibile stabilire se l’organismo possiede sufficienti riserve di menaquinone per questo compito. Il rischio di fratture dell’anca è 5 volte superiore nelle persone con la percentuale più alta di osteocalcina inattiva. Una densitometria ci dice se abbiamo osteoporosi. Il dosaggio dell’osteocalcina inattivata ci dice se dobbiamo assumere supplementi di vitamina K2 per trattarla.

L’Alzheimer mostra una insolita correlazione con la perdita di massa ossea, che negli stadi iniziali della patologia diminuisce di pari passo con la riduzione di regioni attive del cervello (172). Sebbene l’ipotesi dei ricercatori che hanno scoperto questo fenomeno sia quella di una regolazione cerebrale del rimodellamento osseo, una ipotesi altrettanto valida è che nell’Alzheimer e nell’osteoporosi è all’opera un identico meccanismo. Di fatto anche le patologie cardiache sono collegate all’Alzheimer come lo sono all’osteoporosi (173). Soggetti con Alzheimer consumano la metà della vitamina K alimentare dei soggetti sani (173). I soggetti con Alzheimer hanno introiti alimentari più bassi di vitamina K, una densità ossea minore, un maggior numero di fratture del bacino e una deficienza di vitamina K2 più severa di soggetti della stessa età che non presentano declino cognitivo (174). Molteplici indizi suggeriscono che uno stress ossidativo potrebbe essere alla base dell’instaurarsi dei primi stadi della demenza, e la vitamina K2, pur non essendo un antiossidante, sviluppa nel solo tessuto cerebrale una notevole attività antiossidante.

La deficienza di vitamina K2 è collegata all’Alzheimer anche in un altro modo. Il glucosio è così importante per il funzionamento delle cellule cerebrali che esse, a differenza di tutte le altre cellule del corpo, non hanno bisogno dell’insulina per assorbire lo zucchero dal sangue. Lo zucchero entra nei neuroni senza il bisogno che l’insulina sblocchi i canali di accesso, come avviene per il resto del corpo. Per questa ragione gli scienziati hanno a lungo creduto che non ci fosse alcuna connessione tra insulina e cervello, in altre parole che il cervello non fosse sensibile all’insulina. Ora invece sappiamo che questo non è vero. L’insulina è molto importante per il funzionamento del cervello e gioca un ruolo nell’apprendimento e nella formazione di memorie. Per la difficoltà del cervello dei malati di Alzheimer di utilizzare il glucosio è stato coniata la definizione di diabete di tipo III. Le loro cellule cerebrali diventano insensibili all’insulina e la somministrazione di insulina migliora sensibilmente le funzioni cognitive dei malati di Alzheimer. E’ noto che i diabetici hanno un rischio superiore dal 30 al 65% di sviluppare Alzheimer rispetto a soggetti non diabetici.

La vitamina K2 si è dimostrata efficace anche contro le rughe e le vene varicose, contrastando gli effetti della sedentarietà e dell’età.

Nel 2007 una ricerca pionieristica ha fatto sensazione, rivelando che il nostro scheletro, attraverso l’osteocalcina, che è una proteina K2-dipendente, ha una significativa influenza sulla produzione e sensibilità all’insulina del nostro corpo (176). Questo rende la vitamina K2 estremamente importante nella prevenzione del diabete.

La seconda più alta concentrazione della vitamina K2 è nel pancreas, l’organo che produce insulina e governa i livelli di zucchero nel sangue. Sembra che una deficienza di vitamina K influisca negativamente sulla produzione di insulina da parte del pancreas e sulla prontezza della sua risposta all’aumento dei livelli di glucosio. Quando c’è carenza di vitamina K lo zucchero rimane più a lungo nel sangue e i livelli di insulina alla fine risultano più alti. Quando negli animali di laboratorio viene indotta una deficienza di vitamina K, gli animali sviluppano diabete di tipo II (177).

Una sola settimana di supplementazione con la vitamina K2 di adulti non diabetici riduce in modo significativo la produzione post-pasto di insulina nelle due ore successive della metà (178). Livelli elevati di insulina per diverse ore dopo un pasto sono dannosi per i diabetici, perché promuovono l’insulino-resistenza. Quando l’insulina funziona normalmente, la sua concentrazione aumenta della misura strettamente necessaria in risposta alla assunzione di carboidrati per riportare i livelli di glucosio ai valori precedenti, e poi decresce per non esporre eccessivamente le cellule. Il fatto che la vitamina K2 abbassi i livelli di insulina vuol dire che la aiuta ad operare più efficacemente.

Recenti ricerche giapponesi mostrano che la condizione delle riserve di vitamina K2 in un individuo è inversamente collegata al diabete insulino-resistente (178).

L’artrite reumatoide è una patologia degenerativa cronica che può interessare sia i bambini che gli adulti, caratterizzata da una infiammazione distruttiva delle articolazioni e del tessuto circostante, incluso l’osso. Non si conosce con esattezza ciò che la causa, ma si pensa che sia una malattia autoimmune. Potrebbe forse essere un’altra manifestazione del “paradosso del calcio”: soggetti adulti con artrite reumatoide sono a più alto rischio di osteoporosi e disturbi cardiovascolari. Potrebbe trattarsi di nuovo di una deficienza di vitamina K2 comune a tutte queste patologie. La distruzione di tessuto che si riscontra nell’artrite reumatoide è dovuta alla (eccessiva) attivazione degli osteoclasti. Il sinovio, lo spazio pieno di fluido entro le giunture, contiene le stesse cellule che demoliscono le ossa, necessarie al suo processo di rimodellamento. Nell’artrite reumatoide, le cellule causano più demolizione di quanta il corpo possa riparare, conducendo ad una degenerazione delle articolazioni. Test clinici mostrano che la vitamina K2, da sola o in combinazione con farmaci contro l’osteoporosi, mantiene l’attività anarchica degli osteoclasti entro la norma in modo da prevenire i danni alle articolazioni prodotti dall’artrite reumatoide (180). Studi in vitro mostrano che la vitamina K2 è in grado di inibire la proliferazione anche di altre cellule caratteristica dell’artrite reumatoide.

Il controllo dello stress ossidativo cerebrale, operato dalla vitamina K2, è fondamentale per evitare la morte dei neuroni in numerosi disordini acuti e cronici del cervello, incluso ictus, ischemie transitorie (c.d. mini-ictus) e qualsiasi condizione in cui l’apporto di sangue e ossigeno sia compromesso, come l’apnea notturna. Oltre a questa notevole azione antiossidante, la vitamina K2 contribuisce alla produzione di mielina, che compone la guaina protettiva delle cellule e dei collegamenti nervosi nel cervello la quale assicura che i segnali nervosi siano trasmessi in modo corretto ed efficiente (181). La sclerosi multipla è una patologia contraddistinta da danno ad aree di rivestimenti mielinici nel cervello e nel midollo spinale, che può condurre nello stadio avanzato a sintomi debilitanti che riguardano l’intero corpo, come perdita di coordinazione e controllo muscolare, ottundimento, sensazioni anormali, visione confusa, incontinenza e altro. La sclerosi multipla è stata da tempo collegata alla vitamina D. Gli studi mostrano che l’incidenza di sclerosi segue uno schema geografico. La patologia è più comune in aree con minore esposizine solare, come Canada e Nord-Europa. Inoltre, un numero minore di persone con questa patologia sono nate a Novembre e un numero maggiore sono nate in maggio, il che suggerisce che una minore esposizione al sole della madre può aver giocato un ruolo.

Per il cancro alla prostata si sta accumulando un insieme di prove che mostrano i benefici della vitamina K2. C’e da dire che gli studi che riscontrano che uomini con la più alta assunzione di menaquinone hanno un minore rischio di cancro prostatico non giungono ad una evidenza statistica significativa, in altre parole che il menaquinone non sembra ridurre tale rischio. Questo non dovrebbe sorprendere. La maggior parte degli uomini che vivono abbastanza a lungo sviluppano cellule cancerogene nella prostata, che nella maggioranza dei casi sono a crescita troppo lenta per fare danno e non metastatizzano al di fuori della prostata. La vitamina K2 sembra avere un effetto inibitorio sulla progressione verso il cancro conclamato. Stadi neoplasici più avanzati sono stati collegati a deficienza di menaquinone. Uomini con i più alti livelli di osteocalcina non carbossilata (un marker della deficienza di vitamina K2) hanno una più alta incidenza di cancro alla prostata e mortalità collegata (182).

La vitamina K2 previene il cancro nelle donne affette da epatite (183). Il carcinoma epatocellulare, un cancro che si origina nel fegato, è una complicazione purtroppo comune dell’epatite B e C. E’ una forma particolarmente maligna, che uccide entro un anno tutti coloro che la sviluppano.

I pazienti con patologia renale cronica mostrano in prevalenza un deficit di vitamine K e D (184). I livelli di MGP inattivata per deficit di vitamina K2 aumentano progressivamente col peggiorare dell’insufficienza renale, così come la calcificazione dei vasi sanguigni. La insufficienza renale in stadio avanzato è invariabilmente associata a calcificazione vascolare e osteodistrofia, una forma di perdita di massa ossea distinta dall’osteoporosi.

Un migliore stato delle riserve di vitamina K2 è associato con a un aumento più pronunciato della massa ossea nei bambini da 10 a 12 anni di età (185). In bambini che si avvicinano alla pubertà, più alti livelli di osteocalcina attivata si accompagnano ad un maggiore aumento di massa ossea in questo periodo critico.

Le vitamine A e D sono richieste per la produzione delle proteine K2-dipendenti, tra cui osteocalcina e MGP. Senza sufficienti riserve di K2 queste proteine rimangono inattive e inutili. Le vitamine A, D, K agiscono quindi in sinergia.

 

 

 

Pane ai 5 cereali con farina di soia? No, grazie.

 

La farina di soia impiega molto più tempo a cuocere rispetto alle altre farine. Il risultato è che in un panino ai 5 cereali, la farina di soia è mal cotta, e i fitati, i fattori antinutrienti non sono stati adeguatamente disattivati dal calore. Quindi un panino ai 5 cereali con soia è pieno di fitati e fattori antinutrizionali che vi impediranno di assimilare, almeno in parte, le vitamine e i sali minerali che assumete col resto degli alimenti del pasto.

 

 

 

E’ vero che la RDA ufficialmente raccomandata di proteine è eccessiva e fa venire il cancro? Che devo pensare delle proteine animali?

 

Che il consumo di proteine è positivamente correlato al rischio di cancro, nella sostanza, è purtroppo una scoperta confermata anche da altri studi, come il grande studio epidemiologico EPIC,  che ha scandagliato le abitudini alimentari del vecchio continente.

Secondo alcuni autori, però, come Colin Campbell, che ha scritto un famoso libro sul China Study, anche il consumo di piccolissime quantità di grassi e proteine animali (compresi i latticini, indicati come particolarmente pericolosi) porterebbe a un aumento notevole del rischio di ammalarsi, mentre tutti gli altri studi epidemiologici dicono che l’aumento del rischio è proporzionale al consumo e che quindi, in termini assoluti, mangiare proteine animali in quantità limitata non cambia il destino di un individuo.

Gli studi di Valerio Longo e Luigi Fontana, volgarizzati in Italia in due libri, La dieta della longevità (Valerio Longo) e La grande via (Franco Berrino e Luigi Fontana) mostrano che le proteine vegetali stimolano meno delle proteine animali il fattore di crescita IGF-1, che è legato al rischio di cancro.

Di fronte a queste evidenze scientifiche, la via da seguire è quella del giusto mezzo: sostituire una parte delle proteine animali con proteine vegetali (ad es. riducendo la carne ed aumentando il consumo di legumi e sostituendo qualche volta a bistecca e formaggi una porzione di hummus ai ceci da abbinare con pane e cereali oppure una porzione di tofu non è sbagliato.

Portare la percentuale di proteine animali sul totale dal 90% al 60 o al 50% può solo far bene. Ma non bisogna creare allarmismi. Bisogna inoltre tenere in mente che le proteine animali hanno un valore biologico superiore, e non è consigliabile abolirle del tutto, specie durante la crescita di bambini e adolescenti. Seguire la via del giusto mezzo vuol anche dire non selezionare, come fanno gli studiosi citati, solo gli studi che parlano degli effetti negativi delle proteine: esistono altri studi che mostrano che una carenza di proteine ha effetti drammatici sulla salute. In pratica, ogni decisione ha dei pro e dei contro: da un lato abbassiamo di qualche punto percentuale il nostro rischio di cancro, che, come giustamente nota Colin Campbell, statisticamente è ereditario solo nell’1-2% dei casi; dall’altro aumentiamo il rischio di altre patologie da carenza proteica: si tenga bene a mente che gli studi hanno perso il conto degli effetti negativi per la salute di una carenza di proteine. Occorre bilanciare vantaggi e svantaggi. E’ così con qualsiasi altro alimento o medicinale: ad esempio l’aspirina può prevenire ictus e infarto persone che hanno un rischio cardiovascolare elevato (es. fattori ereditari familiari), ma per contro può peggiorare i problemi digestivi e produrre lesioni nella mucosa gastro-intestinale. Niente viene senza un prezzo.

Non è vero poi che la RDA consigliata di proteine è eccessiva, sotto nessun punto di vista, e faccia venire il cancro. Se è vero che spesso consumiamo troppe proteine rispetto alle raccomandazioni ufficiali, non è assolutamente vero che le raccomandazioni ufficiali sono esagerate e promuovono la malattia. Un semplice calcolo mostra che un adulto che consuma 2200 calorie al giorno, assumendo la RDA consigliata di 0,8 grammi per kg di peso corporeo, assumerebbe attraverso le proteine il 9,8% dell'energia che gli abbisogna, che non è lontano dal valore del 7% che Fontana ha mostrato produca una regressione fino al 57% dei tumori alla prostata e al seno negli animali di laboratorio (Fontana et al., "Dietary protein restriction inhibits tumor growth in human xenograft models of prostate and breast cancer"). In altre parole: non c'è bisogno di restringere ulteriormente la RDA per ottenere i benefici che Fontana e Longo predicano per la restrizione calorica e la restrizione proteica, anche se si mangiano proteine provenienti esclusivamente da fonti animali. Se poi si sostituisce una parte delle proteine animali con proteine vegetali, la protezione è ancora maggiore e non c'è bisogno di scendere con la quantità giornaliera.

Fontana nota che i centenari di Okinawa consumano il 9% dalle proteine, che è proprio 0,8 g/kg e 2200 calorie, che conferma che 2200 calorie è una moderata restrizione calorica, capace di assicurare i vantaggi della longevità (Fontana et al., "Dietary protein restriction inhibits tumor growth in human xenograft models of prostate and breast cancer").

Dopo i 65 anni, poi, il legame tra proteine e patologie si inverte (Morgan et al., " Low Protein Intake is Associated with a Major Reduction in IGF-1, Cancer, and Overall Mortality in the 65 and Younger but Not Older Population")

Inoltre, Fontana e Longo, nei loro studi, prendono in considerazione solo alcuni tipi di cancro e l'effetto protettivo/nocivo dell'eccesso/difetto di proteine non può per ora essere generalizzato, anche se l'argomentazione sulla via metabolica IGF/AKT/mTOR è suggestiva.

Infine, questi dati riguardano gli animali di laboratorio, e mancano studi randomizzati sugli esseri umani. Si tenga infine presente che gli studi epidemiologici sugli effetti del consumo delle proteine animali spesso non discriminano tra i vari tipi di carne: rossa conservata, rossa non conservata, bianca, pesce, né tra animali allevati con antibiotici e ormoni e animali allevati all’aperto, e quindi non necessariamente quello che si dice degli effetti negativi delle proteine animali è legato a tali proteine in sé, ma ad un certo tipo di lavorazione, allevamento, e selezione delle carni che mangiamo. Gli studi che hanno esaminato separatamente il consumo di carne rossa e bianca ad esempio non hanno riscontrato effetti particolarmente negativi del consumo di carni bianche.

 

 

 

E’ vero che la caseina dei latticini fa venire il cancro, come dice Colin Campbell?

 

Il caso più eclatante di inferenza causale e falsa correlazione presente nel China Study è quello della caseina, una proteina contenuta nel latte e nei formaggi. Sulla base dei dati e del fatto che i cinesi consumano pochissimi latticini, i Campbell hanno dedotto che i latticini sono cancerogeni. Hanno anche condotto un esperimento su topi affetti da tumori, dimostrando che togliendo la caseina si riduce la dimensione del tumore. Sembrerebbe una prova inconfutabile, con una doppia conferma, sull’uomo e sul modello animale.

Su quale base la caseina favorirebbe la crescita dei tumori? L’ipotesi è che gli amminoacidi di cui è composta fungano da mattoncini per la produzione, da parte dell’organismo del paziente, di altre proteine capaci di nutrire la massa cancerosa. I Campbell però sorvolano sul fatto che un esperimento effettuato già nel 1989 da Campbell padre insieme all’oncologo David Schulsinger dimostra che le proteine del grano hanno un effetto analogo a quelle del latte se addizionate a lisina, un amminoacido presente prevalentemente negli alimenti di origine animale (ma in piccola parte anche nei cereali) che consente la produzione illimitata di altre proteine da parte dell’organismo. In pratica non importa se i mattoncini provengono da una fonte animale (i latticini, che contengono anche lisina in quantità sufficiente) o vegetale (il grano, che ne contiene poca): l’importante è la capacità dell’organismo di produrre a sua volta quantità illimitate di altre proteine, per fornire nutrimento al tumore.

La lisina è uno degli otto amminoacidi essenziali, che dobbiamo introdurre con la dieta, dato che il nostro organismo non sa sintetizzarli. Poiché da più di un secolo nessuno dalle nostre parti soffre di carenze nutrizionali, abbiamo lisina in abbondanza per costruire tutte le proteine che ci servono per vivere (e, purtroppo, anche quelle per nutrire i tumori).

Eliminare la lisina non è una strategia possibile, dato che è essenziale per vivere (è un precursore della niacina, o vitamina B3, la cui carenza provoca la pellagra, una malattia assai diffusa in Italia fino ai primi del Novecento).

Gli altri amminoacidi li prendiamo dagli alimenti proteici, quindi suggerire di eliminare i latticini perché cancerogeni, conservando però le proteine di origine vegetale (che forniscono ingredienti analoghi), è, scientificamente parlando, un nonsenso.

Altri studi, tra l’altro, hanno identificato nel siero di latte alcune proteine che hanno l’effetto opposto, ovvero hanno proprietà antitumorali. Non solo: i topi di Campbell, con dieta priva di caseina, dopo qualche anno hanno sviluppato un cancro al fegato legato alla carenza di alcune sostanze necessarie al corretto funzionamento di questo organo, il cui ruolo è di eliminare le tossine.

 

 

 

La luce dei led distrugge la retina: cosa c’è di vero?

 

L’allarme è stato lanciato da un articolo pubblicato dai ricercatori dell’Università Complutense di Madrid e pubblicato sulla rispettata rivista Photochemistry and Photobiology nel 2013. L’esperimento consisteva nella irradiazione di colture di cellule della retina umana con tre tipi di luce led, blu, verde, rossa di lunghezza d’onda rispettivamente di 468 nm, 525 nm e 616 nm e luce bianca costituita dalla loro combinazione, per tre cicli di 12 ore di luce e 12 ore di buio ciascuno con una intensità di 5 milliwatt per cm2.

I ricercatori hanno rilevato che l’irradiazione produceva una diminuzione tra il 75 e il 99% della vitalità delle cellule, che smettevano di crescere normalmente, e un incremento del del loro tasso di morte programmata (apoptosi), che dal 3,7% nelle cellule non irradiate passava invece all’88,8%, 86,1%, 83,9% e 65,5% nelle cellule irradiate rispettivamente con luce blu, verde, rossa e bianca. La luce led ha anche aumentato il danno al DNA e la produzione di radicali liberi, specie di ossigeno libero reattivo. Mentre il danno al DNA e l’apoptosi erano maggiori con la radiazione blu, la produzione di radicali liberi era massima con la luce rossa.

Precedenti studi epidemiologici avevano mostrato una relazione diretta tra esposizione della retina alla luce del giorno e degenerazione maculare legata all’età. Gli stessi studi avevano mostrato che le cellule della retina sono molto più sensibili al danno da luce blu che da luce rossa o verde.

Erano già apparsi studi che rilevavano una diminuzione di vitalità e produzione di radicali liberi in cellule irradiate con lampade alogene già dopo 3 ore di esposizione, sebbene altri studi abbiano mostrato che il danno con luce di bassa intensità è modesto.

Tra le osservazioni fatte a questo studio c’è quella che le cellule del gruppo di controllo sono state tenute al buio e non esposte alla normale luce solare, cosicché non ci è dato sapere il reale peggioramento che la luce led rappresenta rispetto alla luce solare.

Ma anche così, i dati sono sufficientemente allarmanti da sconsigliare una esposizione senza filtri alla luce led, specie blu, e da consigliare l’assunzione da parte di coloro che passano molto tempo davanti a schermi di computer di sostanze antiossidanti come la vitamina A, secondo la raccomandazione della stessa Celia Sànches-Ramos, che ha guidato il gruppo di ricerca.

 

 

 

Caffè espresso e rischio cardiaco.

 

Diversi studi avevano in passato associato il consumo di caffè ad un aumentato rischio cardiovascolare. Uno studio del 2015 ad opera di studiosi dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e di varie università italiane, che ha preso in esame 12.800 uomini e 30.449 donne seguiti per 10,9 anni nell’ambito della componente italiana del grande studio epidemiologico EPIC, ha confermato queste ricerche, mostrando che la probabilità di morte coronarica o di andare incontro a interventi di rivascolarizzazione aumentava con il numero di tazzine di caffè: fino al 50% in più in chi ne consumava quattro o più al giorno rispetto ai non consumatori (599). E il caffè espresso si è dimostrato il tipo di bevanda più dannosa per la salute cardiaca.

 

 

 

Acquisto sempre il latte “bio”: sicuramente ho il non plus ultra sulla mia tavola. O no?

 

No: il latte migliore è il “latte-fieno”, latte di mucche allevate al pascolo o alimentate con foraggi freschi, senza insilati (che hanno un’alta carica batterica e sviluppano sostanze tossiche) né mangimi di origine animale o a base di cereali.

Mentre un animale nutrito con questi ultimi produce 40 litri di latte al giorno, uno allevato con foraggi freschi o al pascolo ne produce solo 20 litri, ma di qualità nettamente superiore.

In Italia i prodotto a base di latte-fieno sono distribuiti da Alce Nero, che si appoggia a Mila, e sono disponibili tra gli altri nei supermercati Coop e Auchan.

 

 

 

E’ vero che i “grani antichi” contengano meno glutine e quindi siano da preferire ai cereali oggi utilizzati per l’alimentazione?

 

Non è vero che i "grani antichi" contengano meno glutine o facciano meno male alla salute dei "grani moderni". Vedi l'approfondita disamina della questione, con tanto di rassegna della letteratura scientifica più recente, nel blog di Dario Bressanini, “Scienza in cucina”, nel post "Grano antico fa buon glutine?” dove viene smontata scientificamente questa affermazione.

 

 

 

I (pochi) casi in cui comprare “bio” vi salva la salute.

 

Come abbiamo già scritto in un altro articolo di questa raccolta, andare con il furgoncino in un negozio di alimenti bio per sostituire tutti gli alimenti che acquistate al supermercato con quelli biologici, che costano il doppio, non è una buona mossa, perché chi mangia con moderazione, sceglie il cibo di stagione e non compra dalla prima bancarella che incontra perché vede il prezzo più basso, può ragionevolmente fidarsi dei controlli a cui le autorità sanitarie sottopongono frutta, carne e verdura.

Però, ci sono dei casi in cui è assolutamente necessario acquistare bio. Ci limitiamo qui ad indicarne tre:

 

 

  The biologico

Nel suo libro Siete pazzi a mangiarlo!, Christophe Brusset, un autore francese che per lungo tempo ha lavorato nell’industria alimentare e ne conosce dal di dentro i trucchi e i segreti, ha rivelato che l’Unione Europea, per non entrare in guerra commerciale con la Cina, ha deciso di accettare le partite di the cinese talmente inquinate da pesticidi da superare abbondantemente il limite di tutte le legislazioni continentali. E’ facile immaginare che anche altri produttori poco scrupolosi del terzo mondo e degli importatori senza scrupoli si siano gettati in questo varco, e che l’Europa stia venendo inondata da un profluvio di the cancerogeni. Per questo, Brusset consiglia assolutamente di acquistare the biologici di qualità.

 

 

  Tofu biologico

Oggi la maggior parte della soia non biologica viene prodotta con semi OGM della multinazionale Monsanto, che sono super-resistenti ai pesticidi e consentono di aumentarne le dosi per sterminare i parassiti ed aumentarne la resa. Il risultato è non solo che il tofu non-bio è al 99% OGM, ma che ha altissimi livelli di pesticidi. Inoltre, il tofu che proviene da paesi del Terzo Mondo come l’Indonesia, è prodotto con massiccio impiego di formaldeide, e studi epidemiologici hanno mostrato che l’effetto sui consumatori e provocare demenza.

Vale quindi la pena di entrare in un negozio bio e cercare un tofu biologico, OGM e con metodo di produzione certificato…

  Limoni biologici

I terpeni della buccia del limone sono degli straordinari composti anticancro: è sufficiente mettere una scorza di limone nel vostro the per fare del bene alla propria salute. Ma non la scorza dei limoni non biologici, trattati con i seguenti additivi da brivido: gommalacca, cera polietilenica ossidata, tiabendazolo, e per finire con imazil, un pesticida che si deposita soprattutto nella buccia.

 

 

 

 

 

E’ vero che una aspirina al giorno fa bene a tutti per prevenire ictus e infarto?

 

Il valore dell'aspirina nella prevenzione secondaria sollevò l'ovvia domanda se fosse utile anche nella prevenzione primaria, cioè per prevenire il primo attacco in quelli che non ne avevano avuto precedentemente nessuno. A tutt’oggi, sei importanti trial di prevenzione sono stati riportati e la loro esperienza combinata è stata riassunta su The Lancet nel 2009. Come nel caso della prevenzione secondaria, l'aspirina produceva una grande riduzione, di circa il 20%, degli attacchi cardiaci non fatali. Ma, a differenza della prevenzione secondaria, non c'erano chiari benefici in termini sia di ictus sia di morte per attacchi cardiaci fatali. La mortalità vascolare non è ridotta. Paragonati ai risultati della prevenzione secondaria questi risultati lasciano perplessi. Da un lato è ragionevole pensare che il processo di deterioramento delle arterie coronariche è continuo, ed è difficile immaginare un punto in cui l'aspirina non conferisca nessun beneficio ma oltre il quale improvvisamente risulti benefica. Dall'altro lato è altrettanto ragionevole ritenere che il background patologico e la reazione all'aspirina potrebbero essere stati cambiati dagli eventi clinici.

Quale che sia la spiegazione è emerso un chiaro contrasto tra prevenzione primaria e secondaria. Mentre il beneficio attribuibile all'aspirina in coloro che hanno avuto precedenti eventi vascolari chiaramente supera i rischi del sanguinamento, lo stesso bilancio non può essere fatto nel contesto della prevenzione primaria, dove i benefici cominciano solo a superare i pericoli in coloro che sono a rischio di eventi cardiaci. Questo dovrebbe far sì che i dottori raccomandino l'aspirina solo con cautela, nel caso di pazienti che non hanno avuto problemi di attacchi cardiaci e di ictus. Inoltre, potrebbe essere che coloro che si danno all'auto prescrizione con l'aspirina stiano facendosi più danno che vantaggio.

Recentemente l'aspirina ci ha riservato un'altra sorpresa, il fatto che dopo essere stata presa per cinque anni, mostra di ridurre i tassi di mortalità per diversi tipi di cancro e in modo consistente, particolarmente per quelli del tratto gastrointestinale.

Considerando anche i benefici anticancro nel bilancio, forse questo va rivisto per il caso dell'uso nella prevenzione primaria. Sia nel caso della prevenzione primaria che di quella secondaria sembra che una dose giornaliera di 75 mg di aspirina sia altrettanto efficace di dosi più alte e quasi certamente con meno rischi di sanguinamento grave. Se l'aspirina è usata con cautela, è relativamente priva di seri rischi, sebbene la possibilità di un serio sanguinamento gastrointestinale cerebrale non dovrebbe mai essere sottostimata.

È provato che l'aspirina è di aiuto alle persone che hanno già avuto un attacco cardiaco. In questi pazienti, l'assunzione di aspirina a basse dosi giornaliere riduce il rischio di avere un attacco cardiaco di almeno 1/3

L'aspirina riduce il rischio del primo attacco cardiaco nei pazienti ad alto rischio di avere un attacco cardiaco o un ictus. In alcuni studi il rischio era ridotto fino al 44%

L'aspirina somministrata dopo un attacco cardiaco riduceva il tasso di mortalità del 42% nei pazienti che ricevevano oltre all'aspirina un trattamento con la streptokinasi.

Mentre esistono prove dei benefici nel prendere un'aspirina per le persone che sono ad alto rischio di avere un attacco cardiaco o un ictus, la stessa evidenza non esiste per persone con un basso rischio che non hanno nessun sintomo manifesto di disturbo. Mentre ci potrebbe essere una lieve riduzione del rischio di eventi gravi per tali pazienti a basso rischio, la decisione di prendere un'aspirina dovrebbe essere confrontata con rischio di avere un grave sanguinamento.

Se un paziente ha sofferto di un ictus non emorragico, il Royal College of Physicians raccomanda 50-300 mg di aspirina giornalmente a tempo indefinito.

I pazienti che hanno avuto un mini ictus dovrebbero prendere l'aspirina. Gli studi hanno dimostrato che prendere un'aspirina riduce le probabilità di avere un altro ictus del 15%.

Secondo il National Institute for Health and Clinical Excellence, i pazienti con fibrillazione atriale che sono caratterizzati da un basso o moderato rischio di ictus dovrebbero assumere un'aspirina in una dose giornaliera da 75-300 mg per prevenire ictus e attacchi cardiaci

 

controindicazioni dell’aspirina

 

Non dovreste mai prendere l'aspirina se avete uno dei seguenti fattori di rischio:

- avete avuto ulcere allo stomaco

- avete avuto asma

- avete avuto un ictus emorragico

- avete un disordine del sangue di qualsiasi tipo o avete ereditato una condizione tipo la malattia di Osler-Weber-Rendu

- avete avuto una reazione allergica l'aspirina in qualche momento della vostra vita

- avete avuto allergie ai salicilati

- siete al di sotto dei 16 anni

- state allattando

- siete incinta

- state tentando di concepire

- state utilizzando farmaci come anticoagulanti o altri farmaci che possono interagire con l'aspirina nell'incrementare il rischio di sanguinamento

 

Negli anni ’70 si scoprì che l’aspirina era efficace nel prevenire l’aggregazione delle piastrine, un tipo di cellule ematiche. Impedendo che l’aggregazione avvenga, si previene uno dei primi stadi della formazione dei coaguli nel sangue. I coaguli possono essere pericolosi, condurre ad attacchi cardiaci e ictus, tra le altre patologie, quindi la scoperta delle proprietà dell’aspirina fu una scoperta molto importante.

Inizialmente vennero prescritte le dosi standard, ma le ricerche mostrarono che base dosi giornaliere di 75-150 mg erano più che sufficienti per un effetto positivo e preventivo.

Negli anni ’80, una serie di studi dimostrò che l’aspirina era efficace nel ridurre il rischio di un secondo attacco cardiaco in persone che ne avevano avuto uno, o che avevano una angina instabile. Seguirono altri studi, che mostrarono che l’aspirina aveva anche un ruolo nel prevenire il primo attacco cardiaco in persone che erano a rischio di patologia cardiaca. Allo stesso tempo, fu dimostrata la sua efficacia nel ridurre il rischio di certi tipi di ictus.

Nel 2002, l'Antitrhombotic Trialists' Collaboration fece un'altra meta-analisi. Questo includeva sia gli studi clinici di prevenzione primaria che quelli di prevenzione secondaria che riguardavano agenti contro la trombosi, principalmente aspirina.

Lo studio ha analizzato 287 studi clinici che riguardavano 135.000 pazienti e facevano confronti tra vari agenti antiaggreganti, comparati con placebo o trattamenti blandi. Erano inclusi anche altri 77.000 pazienti interessati da confronti tra differenti tipi di farmaci attivi contro l'aggregazione.

I risultati furono i seguenti:

 

- c'era una riduzione di qualsiasi serio evento vascolare di circa ¼

- c'era una riduzione di un attacco cardiaco non fatale di 1/3

- c'era una riduzione di un ictus e non fatale di ¼

- c'era una riduzione della mortalità vascolare di 1/6

- i benefici netti sostanzialmente superavano i rischi di sanguinamento

- l'aspirina era il farmaco anche aggregazione più usato.

 

Gli autori dello studio hanno concluso che l'aspirina è efficace sia per la prevenzione primaria che per la prevenzione secondaria in pazienti che hanno un alto rischio di attacco cardiaco o ictus non emorragico.

Lo studio confermava la validità dell'aspirina anche per la prevenzione primaria, ma solo per pazienti ad alto rischio. La domanda è: le persone che non hanno ragione di temere un attacco cardiaco un ictus dovrebbero prendere un'aspirina al giorno "giusto nel caso che"?

Ci sono stati sei studi principali sulla prevenzione primaria, che vengono esaminati qui di seguito.

 

1. british doctor’s trial (BDT)

Riguardò 5139 dottori in buona salute a cui fu data una dose di aspirina o nessun aspirina. I risultati furono i seguenti:

 

- La mortalità totale era ridotta del 10% nel gruppo che assumeva aspirina.

- Non c'era nessuna è significativa riduzione di attacchi cardiaci o di ictus.

- C'era una lieve riduzione di mini ictus (conosciuti come ischemia cerebrale transitoria o TIA)

 

I risultati furono considerati statisticamente non significativi perché l'entità numerica del campione era piccola e il 30% del gruppo comprendeva aspirina smise di prenderlo.

 

2. the physicians’ health study (phs)

Era uno studio randomizzato fattoriale che riguardava 22.000 medici americani. Ricevettero in alternativa una dose di aspirina o una di betacarotene per determinare se ci fosse una riduzione dell'incidenza del cancro. Sebbene lo studio non era concepito per esaminare gli effetti dell'aspirina sul cuore i ricercatori tuttavia notarono questi risultati:

- c'era una riduzione del 44% del primo attacco cardiaco non fatale

- c'era una riduzione del 18% di ictus e non fatale

- c'era una riduzione del 18% gli eventi fatali

 

3. hypertension optimal treatment (hot)

Questo studio riguardava gli effetti dell'aspirina in trattamenti contro l'ipertensione. I pazienti furono randomizzati con una bassa dose di aspirina cosicché 9.399 pazienti ricevettero aspirina e un numero identico ricevette placebo. Tutti ricevettero un trattamento contro l'ipertensione. I risultati furono i seguenti:

- l'aspirina riduceva tutti gli attacchi cardiaci, sia fatali che non fatali, del 36%

 

4. thrombosis prevention trial (tpt)

Includeva 5.499 uomini tra i 49 e i 65 anni, tutti considerati ad alto rischio di avere un attacco cardiaco grave o un ictus. Fu usato uno schema fattoriale: gli uomini vennero assegnati a caso a una combinazione di aspirina e warfarin; a un placebo; a un'aspirina e a un placebo al posto del warfarin; a un plaebo al posto dell’aspirina e a warfarin; oppure a un doppio placebo. Sia l'aspirina che il warfarin furono somministrati a basse dosi. I risultati furono i seguenti:

- l'effetto principale del warfarin fu una riduzione delle malattie cardiache ischemiche (IHD) del 21%, dovuta a una riduzione del 39% degli attacchi fatali, cosicché il warfarin riduceva il tasso di morte per tutte le cause del 17%

- l'effetto principale dell'aspirina era una riduzione delle malattie cardiache ischemiche del 20% dovuta a una riduzione del 32% di eventi non fatali

- La combinazione di entrambi i farmaci riduceva tutte le malattie cardiache ischemiche del 34%, in confronto al placebo.

In conclusione, questo studio aggiungeva altre prove all’osservazione che l'aspirina riduce le malattie cardiache non fatali. L'aspirina riduce tutte le malattie cardiache non fatali principalmente attraverso una riduzione degli eventi fatali.

 

5. the primary prevention project (ppp)

È un altro studio clinico fattoriale in cui ai pazienti veniva somministrata un'aspirina a basse dosi (100 mg) nella forma rivestita insieme o senza vitamina E, oltre che altri consigli riguardanti lo stile di vita e trattamenti di fattori di rischio per vedere se poteva essere ridotto il rischio di un evento grave nel cervello o nel cuore (cioè un ictus o un attacco di cuore).

Sono stati interessati 4.495 pazienti, maschi e femmine dai 50 anni in su, tutti quanti che avevano almeno un fattore di rischio per un attacco cardiaco (diabete, colesterolo alto, età avanzata, obesità, alta pressione sanguigna, una storia clinica familiare negativa).

Lo studio fu interrotto prematuramente a causa dei risultati mostrati negli studi TPT e HOT.

 

6. the womans’ health study (whs)

In questo studio in doppio cieco con un placebo al gruppo di controllo, donne dai 45 anni in su, apparentemente in buona salute, ricevettero un'aspirina a basse dosi a giorni alterni oppure vitamina, oppure placebo. La prova incluse almeno 40.000 donne che furono seguite per 10 anni. I risultati sono stati pubblicati nel 2005:

- riduzione del 17% del rischio di ictus

- riduzione del 19% di ictus non fatale

- riduzione del 22% del rischio di mini ictus

- nelle donne oltre i 65 anni riduzione del 26% di eventi cardiovascolari

- non sembra esserci un beneficio riguardo gli attacchi cardiaci

 

il quadro più recente

Nel 2009 l'Antitrhombotic Trialists' Collaboration svolse un'altra meta analisi sui sei studi di prevenzione primaria che erano stati appena effettuati (95.000 persone con un basso rischio medio di avere un evento grave), e inoltre esaminò 16 studi di prevenzione secondaria (7.000 persone con alto rischio)

Negli studi di prevenzione primaria:

- l'aspirina mostrò una riduzione del 12% di eventi vascolari seri, principalmente attraverso la riduzione di attacchi cardiaci.

- Nessuna riduzione significativa per gli ictus

- L'aspirina aumentò il rischio di significativo sanguinamento gastrointestinale e di sanguinamento nel cervello.

Negli studi di prevenzione secondaria:

- L'aspirina mostrato una riduzione maggiore degli eventi vascolari gravi

- C'era una riduzione dell'incidenza dell'ictus è del 20%

In entrambi gli studi di prevenzione primaria e secondaria:

- La riduzione proporzionale sembra essere la stessa per maschi e femmine.

 

Conclusioni: sebbene esiste una certa evidenza dei benefici di prender aspirina per quelle persone che hanno un disturbo occlusivo accertato (prove del restringimento delle arterie), e per quelle che sono ad alto rischio di avere un attacco cardiaco o un ictus, la stessa prova non c'è per le persone a basso rischio con nessuna evidenza di disturbo.

Mentre ci potrebbe essere una lieve riduzione del rischio di eventi gravi per questi pazienti a basso rischio, questo dovrebbe essere attentamente confrontato con gli svantaggi di avere un sanguinamento.

Possiamo trarre tre conclusioni generali sull'uso dell'aspirina per prevenire un disturbo cardiaco:

- L'aspirina è efficace sia per la prevenzione primaria che per la prevenzione secondaria in pazienti ad alto rischio in alcuni studi il riso è stato ridotto il 44%

- In pazienti che hanno già sofferto di un evento grave, con attacco cardiaco o ictus ischemico, una bassa dose giornaliera di aspirina può ridurre il rischio di avere un ulteriore attacco cardiaco o ictus ischemico fino al 33%. Il rischio di effetti collaterali (come sanguinamento) è inferiore al rischio di un mancato trattamento con l'aspirina. Perciò l'aspirina è stata raccomandata a pazienti che hanno sofferto in precedenza di un attacco di cuore o di un ictus ischemico per prevenire un evento secondario

- L'aspirina produce benefici non chiari nel ridurre il rischio di un evento cardiovascolare in persone che sono a basso rischio. Inoltre se si beneficio dovrebbe essere confrontato con il rischio di effetti collaterali. Comunque, i benefici dell'aspirina contro altre condizioni patologiche come il cancro, dovrebbero essere tenuti in considerazione quando si discute col produttore se prenderla non prenderla. Il suo effetto complessivo su diverse condizioni patologiche può persuadervi ad assumerla su base regolare con una misura preventiva contro una varietà di disturbi, indipendentemente dal rischio di possibili effetti collaterali. Ma questa è una decisione che riguarda voi il vostro dottore.

 

l’aspirina previene l’ictus?

Vari studi sono stati condotti per dare risposta a questa importante domanda. I principali studi sono indicati di seguito insieme loro risultati.

 

lo studio del 1977

Era uno studio di piccole dimensioni in doppio cieco sull'effetto dell'aspirina sull'ischemia cerebrale e incluse 178 pazienti. I pazienti ricevettero l'aspirina un placebo. Furono misurati gli effetti come attacco ischemico transitorio, morte, infarto cerebrale della retina. I risultati furono i seguenti:

- dopo sei mesi c'era una significativa riduzione degli attacchi ischemici transitori di morte di infarto cerebrale retinico

- i risultati più impressionanti ci furono per coloro che avevano una storia di ripetuti attacchi ischemici transitori

 

uk-tia trial

Questo studio, condotto tra il 1979 al 1985, ha riguardato 2.435 pazienti che avevano una storia pregressa di attacchi ischemici transitori. Ricevettero 600 mg di aspirina due volte al giorno oppure un placebo. I risultati furono i seguenti:

- non c'era differenza tra maschi e femmine

- non c'era differenza tra 300 mg al 1200 mg, ma il gruppo con 1200 mg sperimentò maggiori effetti avversi collaterali

- il rischio di soffrire di ictus, di attacco di cuore o di morte erano abbassati del 15% nei gruppi che prendevano l'aspirina

 

international stroke trial

È un grosso studio pubblicato nel 1997, su 19435 pazienti che avevano avuto un ictus ischemico. Furono randomizzati tra aspirina ed eparina.

L'aspirina mostrò di essere associata a una ridotta incidenza di morte o successiva dipendenza (dependency) in 13 eventi per 1000 pazienti.

 

chinese acute stroke trial

Test clinico randomizzato su 20.000 pazienti con un ictus ischemico acuto.

Per quattro settimane fu somministrata la terapia anti-trombotica. L'aspirina fu associata a una riduzione del 12% delle morti in ospedale o degli ictus non fatali nelle prime quattro settimane. Riduceva anche la morte o la dipendenza (dependency) al momento delle dimissioni di 11,4 eventi ogni 1000 pazienti.

 

fibrillazione atriale e ictus

Chiunque abbia la fibrillazione atriale è a rischio di avere un ictus. La fibrillazione atriale, in breve, e il battito irregolare del cuore che rende probabile la formazione di coaguli nel cuore. Questi coaguli possono entrare nel flusso sanguigno e raggiungere cervello causando un ictus.

 

aspirina e fibrillazioine atriale

L'aspirina è solo uno dei modi di trattare la fibrillazione atriale ma è efficace. Il National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE) dà i seguenti consigli:

- In pazienti con fibrillazione atriale a basso rischio di ictus, una aspirina giornaliera tra 75 e 300 mg può essere somministrata, se non ci sono controindicazioni

- In pazienti con fibrillazione atriale classificati a moderato rischio di ictus, una dose 75-300 giornaliera o di anticoagulanti dovrebbe essere considerata come possibilità

- In pazienti con fibrillazione atriale classificati ad alto rischio di ictus, il warfarin dovrebbe essere somministrato  per mantenere sotto controllo la coagulazione sanguigna, purché non ci siano controindicazioni.

 

lo studio bafta

Nel corso degli anni ci sono stati sette trial sul warfarin e l'aspirina per la prevenzione degli ictus. Hanno mostrato che il warfarin era efficace nell'80% dei casi e l'aspirina nel 20%. Tuttavia non è stato ancora stabilito se il beneficio per i pazienti anziani sia superiore al rischio potenziale dell'uso di anticoagulanti.

Il rischio è di produrre sanguinamento nel cervello o nello stomaco. Il fatto che i pazienti che assumono warfarin devono fare test del sangue regolari per stabilire se il sangue non sia troppo fluido deve essere considerato, perché questo è stressante per alcuni pazienti.

Nel 2007, uno studio importante, il Birmingham Atrial Fibrillation Treatment of the Aged Study, fu condotto in 200 ospedali dell'Inghilterra per confrontare l'uso dell'aspirina e del warfarin nel trattamento della fibrillazione atriale in pazienti sopra i 75 anni di età per prevenire ictus. È conosciuto come BAFTA Study. Furono reclutati 973 pazienti di età sopra i 75 anni e furono distribuiti a caso per ricevere warfarin o aspirina. Ci furono 24 eventi di primaria importanza (ictus ed embolia) nel gruppo del warfarin. Ci furono 48 eventi di primaria importanza (ictus ed embolia) nel gruppo dell'aspirina

In conclusione, questo studio sostiene l'uso di una terapia tramite anticoagulanti per persone sopra i 75 anni che hanno fibrillazione atriale, a meno che non vi siano controindicazioni

 

In conclusione, l'aspirina si è rivelato efficace sia come trattamento attivo il preventivo degli ictus.

Come trattamento attivo:

- Il Royal Colleg of Physicians e il National Institute for Health and Clinical Excellence raccomandano attualmente che ai pazienti venivano somministrati 300 mg di aspirina dopo un ictus quando è stata esclusa la ricorrenza di un ictus emorragico

- Chiunque abbia avuto un ictus emorragico non dovrebbe ricever aspirina

Come trattamento preventivo:

- I pazienti che hanno avuto un mini ictus dovrebbero assumer aspirina. Un disturbo ischemico transitorio potrebbe essere un segno che sta per arrivare un evento più grave. L'aspirina dimostrato di essere efficace nel ridurre la probabilità di ictus attacco cardiaco in morte in pazienti con attacco ischemico transitorio del 15%. Riduce anche il rischio di altri mini ictus

- I pazienti con fibrillazione atriale hanno un rischio aumentato di avere un ictus: tra il 24% delle persone con fibrillazione atriale avrà un ictus importante entro un anno. Una bassa dose giornaliera di aspirina è raccomandata per i pazienti con fibrillazione atriale classificati come al rischio moderato ribasso e per i pazienti ad alto rischio che non possono prendere anticoagulanti

- Dopo il loro primo ictus non emorragico i pazienti dovrebbero assumere 50-300 mg di aspirina al giorno indefinitamente, per prevenire ulteriori accidenti

 

l’arteriopatia periferica

L'arteriopatia periferica è un disturbo del sistema arterioso delle gambe delle braccia. In pratica si tratta del restringimento della provvista di sangue gli arti anteriori. La patologia è esattamente la stessa dei disturbi cardiaci che abbiamo già illustrato. È un'arteriosclerosi (irrigidimento delle arterie) che riguarda le arterie delle gambe.

- Il classico sintomo è chiamato claudicazione intermittente. Si tratta di un dolore che si sviluppano i muscoli dei polpacci e talvolta del sedere quando si cammina per una certa distanza, che può essere variabile, da qualche centinaio di arte a 30 iarde. Fermarsi allevia il dolore.

- Questi sintomi devono sempre essere indagati.

- Se l'arteriopatia periferica è presente allora è probabile che l'individuo possa avere una malattia dell'arteria coronarica e una malattia cerebro-vascolare. La metà di queste persone hanno episodi precedenti di ictus o attacco di cuore

- Essi sono dunque a rischio di ictus e attacco di cuore

 

l’aspirina può aiutare?

Guardiamo le ricerche che sono state condotte sinora. Lo studio CAPRIE, pubblicato nel 1996 era randomizzato e in doppio cieco e confrontava il clopidogrel con l'aspirina in pazienti a rischio di ictus ischemico. Era uno studio di prevenzione secondaria che riguardava 19.158 pazienti. Furono divisi in tre sottogruppi, coloro che avevano avuto un ictus recente; coloro che avevano avuto un attacco cardiaco recente; coloro che avevano sintomi di arteriopatia periferica.

Il clopidogrel era lievemente più efficace dell'aspirina nel proteggere contro un secondo ictus, un secondo attacco cardiaco o la morte.

Tuttavia, lo studio ha trovato che l'aspirina non sembra avere alcun effetto su persone il cui principale problema è l'arteriopatia periferica. Nonostante questo, la conclusione dello studio fu che i pazienti con arteriopatia periferica dovrebbero assumere clopidogrel oppure aspirina in dosi tra 75 e 300 mg giornalmente. Sebbene sia difficile valutarlo, il fatto è che almeno la metà delle persone che hanno arteriopatia periferica avranno anche disturbi coronarici o cerebrali, e quindi essi effettivamente beneficeranno dell'aspirina.

 

il sistema venoso

Sembrerebbe logico aspettarsi che se l'aspirina un effetto benefico sui problemi dell'arterie possa essere anche utile in problemi che riguardano le vene.

C'è una grossa differenza fra arterie e vene però. Le vene hanno delle valvole. Non solo questo, ma sono valvole a senso unico. Lo scopo è evitare che il sangue fluisca indietro tra un battito e l'altro del cuore, quando il cuore si sta riempendo e la circolazione non è spinta avanti dalla forza della pompa.

 

vene varicose

Il numero di valvole che le persone hanno per segmento di vena varia da persona a persona. Se siete fortunati ne avete molte, e allora è meno probabile che soffiate di vene varicose. Resto perché ciascuna valvola venosa deve sopportare il peso della colonna di sangue sopra di essa fino alla valvola successiva. Se avete un sacco di valvole, allora la colonna di sangue che ciascuna valvola deve sopportare è piuttosto breve e il peso del sangue non sarà troppo. La valvola può reggere facilmente la pressione.

Invece, se la colonna di sangue è lunga e pesante, ci sarà pressione su quella valvola a ogni battito cardiaco. La valvola può diventare inefficiente e permettere al sangue di fruire indietro. Questo causa un rigonfiamento intorno alla valvola. Alla fine l'intera vena si riconoscerà. Vale a dire che le vene cominciano a diventare varicose.

Le vene varicose possono capitare in varie parti del corpo, il luogo più comune è la parte inferiore delle gambe e l'ano (emorroidi). Possono anche essere localizzate nell'esofago (la parte del corpo che connette la gola allo stomaco), in particolare quando c'è un disturbo del fegato una condizione chiamata ipertensione portale (che è più facile da riscontrarsi negli alcolisti).

Purtroppo per chi soffre di vene varicose non c'è alcuna prova che l'aspirina abbia un qualsiasi effetto.

 

coaguli sanguigni nelle vene

La trombo-embolia venosa (VTE) è il nome che viene dato allo svilupparsi un coagulo sanguigno che si forma negli arti inferiori o nelle vene della pelvi. Il coagulo si può frammentare e produrre un embolo che può essere portata ai polmoni, dove si può inserire in un vaso sanguigno con risultati potenzialmente catastrofici. È chiamato embolia polmonare.

- Una trombosi venosa profonda (DVT) è il nome di un trombo o coagulo che si forma in una di queste vene degli arti inferiori più spesso in una vena del polpaccio

- Un coagulo che si frammenta e fluisce il flusso sanguigno è chiamato un embolo

- Un embolo polmonare (PE) è il nome per un coagulo libero flusso sanguigno o un embolo da una trombosi venosa profonda che si va a infilare in un vaso sanguigno dei polmoni.

- Il 20% delle trombosi venosa profonda non trattate svilupperanno un embolo polmonare.

- Nell'Inghilterra, 25.000 persone muoiono ogni anno di trombo embolia venosa

- La sindrome Post trombosi è una complicazione che si verifica dopo una trombosi venosa profonda la gamba può rimanere gonfia di fluido chiamato edema. Ne possono conseguire ulcerazioni.

Le condizioni che possono rendere più probabile la formazione di un trombo venoso in una persona con trombosi venosa profonda sono le seguenti:

- Danno al rivestimento interno dell'arena

- Stasi venosa (a causa dell'immobilità: ecco perché è ragionevole prendere precauzioni contro lo sviluppo di un trombosi venosa profonda quando si siede immobili per lunghi periodi di tempo, come in voli di lunga distanza).

- Anomalie del meccanismo di coagulazione

I fattori di rischio per la trombosi venosa profonda sono i seguenti:

- Storia pregressa di trombo-embolia

- Condizioni che possono aumentare la coagulo abilità del sangue, come ad esempio vari disordini del sangue cancro

- Un particolare fattore genetico chiamato V Leiden Gene

- Insufficienza cardiaca

- Immobilità in persone che sono ad esempio state colpite da ictus o che sono ospedalizzati al letto, o che hanno avuto delle ingessatura

- Trauma ai vasi sanguigni

- Gravidanza

- Trattamenti ormonali, inclusa la pillola contraccettiva

- Disidratazione

 

l’aspirina può prevenire la trombosi venosa profonda?

Alcuni studi in passato hanno suggerito dei benefici connessi all'assunzione di aspirina come misura preventiva. Tuttavia le ricerche recenti non sembrano appoggiare queste conclusioni.

 

l’aspirina nella prevenzione della trombosi venosa profonda dopo l’intervento chirurgico

Sono state svolte molte ricerche sul potenziale dell'aspirina per prevenire la trombosi venosa profonda in pazienti che sono stati operati. Uno di questi studi è stato pubblicato nel 1977 e riguardava l'uso dell'aspirina in pazienti sopra i quarant'anni che avevano subito un intervento di sostituzione dell'anca. Essi ricevettero l'aspirina in dosi da 600 mg due volte al giorno. Ecco i risultati:

- La trombo-embolia venosa si sviluppò in 11 su 44 pazienti che ricevevano l'aspirina

- La trombo-embolia venosa si sviluppo in 25 su 55 pazienti che ricevevano il placebo.

- La protezione era significativamente più grande per gli uomini rispetto alle donne.

Molte ricerche successive sono state fatte su pazienti che hanno avuto una sostituzione delle anche una sostituzione del ginocchio, condizioni che possono provocare un'immobilità con rischio di stasi venosa e trauma ai vasi sanguigni.

Un gruppo di esperti confrontò le varie strategie per la prevenzione della trombo-embolia venosa. Essi non raccomandano l'uso di routine dell'aspirina come agente preventivo in pazienti ospedalizzati o che hanno subito chirurgia. Ciò detto, una qualche riduzione della trombo-embolia venosa è stata notata a seguito dell'assunzione dell'aspirina, ma è stata considerata insufficiente per la prevenzione della trombo embolia venosa.

 

conclusioni riguardo l’aspirina e la trombo-embolia venosa

- L'aspirina non è attualmente raccomandata con un agente preventivo per la trombo embolia venosa postoperatoria. Sebbene l'aspirina abbia dimostrato di produrre qualche riduzione della trombo embolia venosa, gli esperti la considerano attualmente insufficiente a consigliarne l'uso.

- Gli anticoagulanti si sono rivelati migliori per la prevenzione della trombo embolia venosa

 

il problema dei viaggi lunghi

Questo è un argomento importante, dal momento che i viaggi sulle lunghe distanze sono diventati una parte normale della vita dei paesi sviluppati. L'immobilità sugli aeroplani, nelle auto sui treni, insieme alla pressione delle sedie sui muscoli del sedere e delle cosce e dietro le ginocchia per lunghi periodi è stata considerata un fattore di rischio per lo sviluppo della trombo embolia venosa.

Inoltre, è stato suggerito che la pressione ridotta negli abitacoli degli aeroplani possa in qualche modo scatenare meccanismi di coagulazione in alcune persone. Tuttavia, recenti ricerche con volontari sani che sedevano in camere ipobariche non hanno trovato che venisse favorita la formazione di coaguli sanguigni. Non è noto se essi si possono formare in persone con rischio più alto di coagulazione sanguigna.

L'associazione tra voli di lunga durata e trombo-embolia venosa è stata descritta per la prima volta nel 1954 da un dottore di 54 anni che la sviluppò durante un volo di 14 ore.

L'aspirina può abbassare il rischio di trombo embolia venosa nei voli di lunga durata?

È stato logico avanzare l'ipotesi che l'aspirina possa avere un effetto benefico nel ridurre la trombo-embolia venosa associata con i viaggi su lunghe distanze, dal momento che ha dimostrato che riduce la formazione di coaguli di sangue nelle arterie.

Nel 2001 l'organizzazione mondiale della sanità ha messo in piedi il progetto World Health Organization Research into Global Hazards of Travel (WRIGHT). I ricercatori hanno considerato tutti i fattori di rischio coinvolti, dalla posizione corporea, alle dimensioni del corpo ai fattori medici, al tempo di viaggio eccetera. La fase uno della ricerca ha dato i seguenti risultati:

- Il rischio di trombo embolia venosa raddoppia quando si viaggia in aereo per più di quattro ore.

- Il rischio assoluto di trombo embolia venosa dopo quattro ore di volo e di 1 su 6000.

- Le manifestazioni più comuni di trombo embolia venosa sono la trombosi venosa profonda è l'embolo polmonare.

- Il rischio aumenta dopo viaggi a lungo termine e rimane elevato per quattro settimane

- I viaggi multipli a lungo termine in un breve periodo di tempo aumentano il rischio

Noi ancora non sappiamo se l'aspirina possa prevenire la trombo-embolia venosa dovuta a lunghi viaggi viaggi aerei. Se lo fa, sembra dare modesti benefici. Si stima che occorra trattare 17.000 persone con aspirina per prevenire un solo caso di trombo-embolia venosa. Questo dato è stato fornito da un articolo pubblicato nel 2002, che calcolava i benefici potenziali dell'aspirina nel ridurre il rischio di trombo-embolia venosa applicando i dati dell'aspirina nella prevenzione della trombo-embolia venosa in pazienti con frattura dell'anca alle percentuali stimate di trombo-embolia venosa da viaggi aerei. Questo articolo è bassato su un rapporto di trombo embolia venosa legata ai viaggi di 20 per 100.000 viaggiatori.

In conclusione, l'aspirina non è raccomandata come agente preventivo della trombo-embolia venosa in un viaggio di lungo termine o per persone a basso rischio. Se proprio si vuole prendere l'aspirina, consultandosi con il proprio medico, si può prendere aspirina da 75 mg nel giorno del viaggio e per tre giorni successivi.

 

conclusioni circa l’aspirina e i disturbi venosi e arteriosi periferici

- L'aspirina è efficace nel trattare i disturbi arteriosi ed è raccomandata per pazienti con arteriopatia periferica. Anche se non cura o previene l'arteriopatia in sé, riduce il rischio dei pazienti di avere un evento più serio legato alle arterie come un ictus o un attacco di cuore causato da un blocco dell'arteria. I pazienti con arteriopatia hanno un rischio aumentato di avere un ictus o un attacco cardiaco e l'aspirina può significativamente ridurlo.

- L'aspirina non è raccomandata per le donne in stato di gravidanza, perlomeno di routine

- L'aspirina attualmente non ha mostrato efficacia nel trattamento di problemi venosi: non ha effetto sulle vene varicose; è stato notato che produce qualche riduzione di trombo-embolia venosa postoperatoria, ma gli esperti ritengono questi effetti insufficienti per consigliare l'uso dell'aspirina; non è raccomandato l'uso dell'aspirina per prevenire la trombo-embolia venosa derivante da lunghi viaggi.

 

 

 

Fluoro, selenio & C: amici della salute che presi in dosi leggermente superiori possono distruggere il vostro sistema immunitario o uccidervi.

 

Il fluoro, che viene dosato con generosità nei dentifrici e altrettanto nei colluttori, è terribilmente tossico per il sistema immunitario. Badate bene a risciacquarvi con cura il cavo orale, e se possibile, ricorrete a dentifrici senza fluoro: avere lo smalto un po’ più bello non vale il costo di una intossicazione cronica da fluoro.

Il selenio è responsabile della morte di villaggi i cui abitanti hanno consumato alimenti cresciuti su suoli troppo ricchi. Quando acquistate patate arricchite con selenio fateci un pensierino…

 

 

Alcuni piatti che piaceranno solo al 2% di voi: ovvero la cucina supersana, superveloce e supersemplificata per ultra-puristi che vogliono ottenere il top dei vantaggi della salute senza perdere un secondo in più del necessario.

 

  Riso in 180 secondi

Chi scrive, per ragioni di tempo, aveva sempre dovuto fare a meno del risotto, che, soprattutto se integrale, richiede un lunghissimo tempo di preparazione e un rimestare continuo in una pentola metallica.

Eppure il riso è uno degli alimenti più sani e più raccomandati, migliore ancora della pasta. Una dieta di riso e di pesce si ritrova spesso tra i popoli più longevi della terra.

Ecco come alla fine sono riuscito a cucinare il riso in pochissimo tempo: è necessaria una scodella di ceramica pyrex di piccole dimensioni che possa essere inserita all'interno di una pentola a pressione con due dita d'acqua.

Nella pyrex ponete la quantità di riso (ad esempio 70 g) con non più di due dita d'acqua (l'esperienza vi insegnerà a regolarvi).

Chiudete la pentola a pressione, accendete il fornello, e quando arriva il sibilo del vapore, abbassate la fiamma e regolate il timer a 35-45 minuti.

Dopodiché andate a guardare la televisione o dedicatevi i vostri hobby domestici: quando il timer da cucina suonerà il vostro riso sarà perfettamente cotto, morbido e non avrà niente da invidiare ad una laboriosa cottura in pentola.

  Verdure miste a vapore

In un recipiente di vetro per insalata sufficientemente capiente disponete a strati le seguenti verdure: 1 zucchina, 1 cipolla, ¼ di verza, ½ melanzana tagliata a fette sottili, ¼ di cavolfiore affettato col coltello, 2 carote, 200 grammi di zucca varietà marina di Chioggia o simili. Potete successivamente sperimentare con altre verdure di vostra scelta. Sul fondo del recipiente, mettete tanta acqua quanta è necessaria per coprire le zucchine, che se non sono cotte nell’acqua rimangono dure e amare.

Mettete un coperchio di vetro sopra le verdure e mettete in un forno a microonde con potenza di 750 W per 20 minuti (riferimento: forno di 30 litri).

Togliete le verdure dal forno, eliminate l’acqua con l’aiuto di carta-cucina inserita in una cavità che farete tra le verdure perché questa si raccolga, salate e condite con un cucchiaio abbondante d’olio.

Con una cottura meno lunga potete avere delle crudità da sgranocchiare durante la giornata che risultano meno dure e più leggere per il vostro stomaco delle crudita che molti consumano “nature”.

  Mousse di cacao fondente

Improvvisate uno shaker usa-e-getta ponendo un sacchetto di plastica per alimenti in un contenitore cilindrico senza coperchio (va bene anche un pentolino del tipo per scaldare il latte).

Versate nel sacchetto 100 grammi di latte del tipo di vostro gradimento: latte vaccino, latte di riso, latte di mandorle, latte di soia o latte di avena.

Versate nel sacchetto 6 cucchiai super-abbondanti di cacao magro in polvere.

Attorcigliate e chiudete il sacchetto e tenendo chiuso con una mano, reggete con l’altra il recipiente e shakerate vigorosamente. Interrompete il processo per eliminare eventuali grumi strofinando la miscela nel sacchetto tra indice e pollice, poi riprendete a shakerare ancora per un po.

Versate il contenuto del sacchetto in una tazza e gettate via il vostro sacchetto, che ha funzionato egregiamente come shaker usa-e-getta evitandovi di dover pulire il tutto.

Ponete la tazza per 40 secondi nel forno a microonde fino a che la mousse non sta per bollire.

Fate raffreddare, mettete in frigo e consumate dopo un’ora.

  Mix di yogurt magro e latte di soia fermentato

Mescolate in una tazza 100 grammi di yogurt scremato e 150 grammi di latte di soia.

Riscaldate nel forno a microonde per innescare la fermentazione batterica.

Se d’estate, vi basterà mettere la tazza sul tavolo, senza coprirla. D’inverno, mettetela su un termosifone o termosifoncino elettrico.

Dopo 4-5 ore il vostro mix fermentato è pronto a donarvi un pieno di salute, perfettamente privo di grassi saturi e ricchissimo di proteine.

 

 

 

Anestesia totale dopo i 70 e rischio di danno cognitivo irreversibile.

 

Lanestesia totale, in soggetti di età superiore a 70 anni, può provocare una perdita più o meno marcata e irreversibile delle facoltà mentali. Una delle ipotesi che si sono avanzate è che l’anestetico rallenta la respirazione e il battito cardiaco, e quindi anche la circolazione sanguigna, provocando un deficit di ossigeno che danneggia le cellule cerebrali. Due parenti di chi scrive hanno subito rispettivamente una operazione alla prostata e una operazione all’anca in anestesia totale, e da quel momento hanno mostrato chiari segni di deterioramento mentale, tra cui difficoltà a riconoscere i parenti prossimi e incapacità di tenere la contabilità e gli affari di famiglia.

 

 

Due super-sonniferi e uno straordinario stimolante naturale che il vostro medico non vi prescriverà mai.

 

L’olanzapina (nome commerciale Zyprexa) è un antidepressivo non appartenente alla famiglia delle benzodiazepine che viene utilizzato anche nella terapia dell’addiction (compulsione sessuale, compulsione al gioco, compulsione al rischio ecc.). Tra i suoi effetti collaterali c’è il fatto che aumenta le ore di sonno e fa dormire profondamente, con un notevole incremento della fase REM. Prima o poi i ricercatori si renderanno conto delle sue potenzialità come sonnifero e inizieranno la sperimentazione. Ma per ora è riservato ad uso psichiatrico.

Il succo della lattuga selvatica o lattucario è conosciuto sin dall’antichità come uno straordinario sedativo e un sonnifero infallibile. Purtroppo, sull’onda della ricerca della droga nel giardino di casa, un certo numero di tossicodipendenti ha cominciato a fumarne le foglie nella speranza di avere delle visioni… Come risultato di una chiusura mentale non meno degna di rilievo, le autorità sanitarie hanno bandito la vendita del  lattucario e di ogni parte della pianta, fresca o essiccata. Mentre negli USA ci sono serissime imprese che commercializzano il succo di lattucario come sonnifero perfetamente naturale e senza controindicazioni l’Italia, come al solito, rimane ultima al Giro del Progresso.

Il the di foglie di coca (sì, avete letto bene, si tratta delle foglie dell’albero di coca, da cui si estrae la cocaina) è utilizzato dalle popolazioni andine, da tempo immemorabile, come straordinario tonico senza effetti collaterali né assuefazione: infatti, per avere un grammo di cocaina bisognerebbe consumare almeno un quintale di foglie di coca… Nonostante questo, le foglie di coca, che prese in quantità di una o due fornirebbero una eccellente bevanda tonificance, che manderebbe finalmente in soffitta tutti gli energy drink, con grande vantaggio della nostra salute, sono bandite in aeterno dal nostro Paese e da tutti i paesi occidentali, mentre una legislazione assurda consente di acquistare piantine e semi di marijuana. A voi giudicare la saggezza insondabile dei nostri legislatori e delle nostre autorità sanitarie…

 

 

 

I nuovi esami diagnostici per l’accertamento del rischio cardiovascolareche vengono dagli USA e che sono destinati a rendere le analisi che vi prescrive il vostro cardiologo obsolete.

 

Accanto al profilo lipidico, oggi c'è un'altra misurazione che viene considerata un predittore molto migliore di rischio cardiovascolare: il CAC (Coronary Artery Calcium Score), ottenuti con la tomografia computerizzata a raggio elettronico (CT).

La CAC si è dimostrata un predittore di eventi cardiovascolari, in particolare di eventi coronarici, estremamente accurata, e il suo valore viene incorporato oggi in tutti i più importanti calcolatori del rischio cardiaco sviluppati dalle associazioni cardiologiche e dalle università.

Un altro esame è quello delle dimensioni delle particelle di colesterolo LDL, perché recenti studi sembrano suggerire che sono solo i soggetti che hanno particelle di lipoproteine molto piccole che sono a rischio di aterosclerosi, mentre il colesterolo LDL formato da particelle di grandi dimensioni sarebbe addirittura protettivo. Oggi esistono kit diagnostici che incorporano questa misura insieme a quelle tradizionali del profilo lipidico.

 

 

 

Allevamenti e antibiotici: le scomode verità che il consumatore ignora.

 

Trote di allevamento? No, grazie, visto che le trote, che sono animali delicati, necessitano di massicce quantità di antibiotici per non ammalarsi.

Ma la dura verità è che qualsiasi allevamento in batteria è a rischio di malattie contagiose e che l’uso di antibiotici è pressoché universale negli allevamenti di pollame, di bovini e di suini.

Alcuni ricercatori sono andati ad analizzare i cascami di pollo che costituivano gli scarti di stabilimenti di varie regioni dell’Iran e sono rimasti scioccati dal livello di antibiotici che contenevano

L’industria alimentare sta facendo la danza dei sette veli, ammettendo l’uso di antibiotici in certi ambiti (es. in certi allevamenti di pollame) per dare ai consumatori la falsa impressione che in realtà l’uso degli antibiotici sia limitato.

Il consiglio di chi scrive invece è: alla larga dalle uova e dalla carne degli allevamenti.

 

 

 

La coda della cometa e la peste: ovvero, ipotesi verosimili inventate da medici rispettabili che si sono rivelate clamorosamente errate.

 

I medici hanno una simpatica abitudine: concepire una teoria perfettamente ragionevole e che sembra spiegare perfettamente i fatti… e poi spacciarla per provata prima che sia stata in realtà fatta oggetto di verifiche scientifiche.

In passato si andava dalla teoria che la peste era provocata dalle esalazioni della coda della cometa che investivano la terra, a quella che il latte, che persino l’organismo delicato dei lattanti tollera perfettamente, fosse il cibo di elezioni dei malati renali (mandandone un numero imprecisato al creatore, visto che l’alto contenuto proteico del latte è veleno per i reni deboli), a quello che le radiazioni ionizzanti erano in grado di stimolare le ghiandole (venivano messi in vendita dei pendagli contenenti frammenti radioattivi da portare in permanenza accanto alle parti intime, con effetti facilmente immaginabili). E l’elenco potrebbe continuare con la teoria che se una vitamina elimina una carenza, un superdosaggio fa ancora più bene, e altro ancora, con la teoria della cronodieta, con la teoria della dieta dei gruppi sanguigni, con l’omeopatia, e così via elucubrando…

Qui accenneremo ad un’altra teoria “verosimile” che ha dettato legge nel campo della cura dell’ipertensione per decenni, finché non si è scoperto che non esiste alcuna ricerca scientific a supporto: la teoria che il sale favorisca l’ipertensione. La teoria suona così: “il sale è igroscopico, quindi assumerne anche quantità moderate fa sì che trattenga liquidi nell’organismo. I liquidi in eccesso vanno ad aumentare il volume del flusso sanguigno. Questo provoca un aumento deleterio di pressione.” Pressoché ogni passaggio di questo ragionamento ( a parte la premessa) è discutibile, ma lo è tanto più in quanto si è scoperto che una diminuzione di sale, in un certo numero di soggetti innalza la pressione, e che i tipi di ipertensione sono due: quello dovuto ad eccessivo volume di sangue e quello dovuto a vasocostrizione periferica. E ricerche recenti hanno mostrato che diminuire il sale nel secondo caso è perfettamente inutile, tanto quanto farlo nel primo (600).

 

 

 

 

Aiuto! La birra di bassa qualità è fatta col bastone? No, ma se i viticoltori facessero il vino allo stesso modo nessuno glielo comprerebbe.

 

La legge 16 agosto 1962, n° 1354 - Disciplina igienico sanitaria della produzione e del commercio della birra, all’articolo 1 comma 4 recita:

 

“Il malto d'orzo o di frumento può essere sostituito con altri cereali, anche rotti o macinati o sotto forma di fiocchi, nonché con materie prime amidacee e zuccherine nella misura massima del 40% calcolato sull'estratto secco del mosto”.

Interpellato a riguardo il competente Ministero dello Sviluppo Economico ha risposto che il saccarosio è una materia prima zuccherina e quindi è lecito usarlo.

Nessun commento ulteriore.

 

 

 

Dove trovo i grassi omega-3 che fanno così bene per la salute?

I grassi omega-tre proteggono il cervello da epilessie e ischemie e prevengono le malattie cardiovascolari. Sui meccanismi, però, fino a poco tempo fa, era buio completo. E’ recente una incredibile scoperta: una differenza di potenziale elettrico nella membrana dei neuroni determina tutto. A controllare la differenza sono le proteine Trek-1, che aprono e chiudono i canali della membrana. L’epilessia e gli stati comatosi sono causati dal blocco di questi canali. L’esperimento è stato fatto su tre gruppi di cavie. Al primo è stato tolto il gene della proteina Trek-1: nutrito con e senza grassi ricchi di omega-tre, si è mostrato molto vulnerabile a epilessie e ischemie. Il gruppo di cavie con Trek-1 è stato suddiviso in due: uno alimentato senza rassi omega-tre, l’altro con. Questo terzo gruppo ha mostrato una formidabile resistenza a ischemie e epilessie. Ecco cosa accade: i grassi non saturi si legano alla proteina Trek-1 per aprire i canali della membrana dei neuroni, permettendo così l’uscita degli atomi di potassio carichi di elettricità positiva. Il blocco dei canali impedisce ilriequilibrio delle differenze del potenziale elettrico tra parte interna ed esterna della membrana dei neuroni. Il blocco può essere prodotto dalle tossine. L’interazione tra omega-tre e Trek-1 apre i canali e salva le strutture neuronali dal blocco. I crostacei sono ricchi di omega-tre.

I grassi omega-3 sono straordinari per la salute delle coronarie e la prevenzione dell'infarto. Le popolazioni eschimesi che consumano grandi quantità di omega-3 non conoscono le malattie cardiovascolari.

Gli omega-3 non sono da confondere con gli omega-6, contenuti nelle noci e nei semi oleosi (anche loro necessari per la salute del cervello)

I pesci più ricchi di omega-3, contrariamente a quanto si pensa, non sono i salmoni, ma gli sgombri, che costano molto poco, sono di piccola taglia e quindi non inquinati da piombo mercurio o altri metalli pesanti come i pesci di grossa taglia (pescespada, tonno), sono ancora abbondanti nel mediterraneo e nell'atlantico, e quindi non sono di allevamento.

I salmoni di allevamento, nutriti con mangimi, hanno pochi omega-3, perché questi grassi sono contenuti nel plancton che mangiano gli animali in libertà.

PURTROPPO SGOMBRI E ARINGHE SONO STATI IN QUESTI ULTIMI ANNI AGGREDITI DA UN PARASSITA CHE DEPOSITA NELLE LORO CARNI UOVA MICROSCOPICHE CHE PENETRANO NEL CORPO DELL'UOMO E SVILUPPANO VERMI NEMATODI. MA NIENTE PAURA: PER DISTRUGGERE LE UOVA È SUFFICIENTE CUOCERE BENE O SURGELARE IL PESCE PER 2-3 GIORNI.

Crostacei (aragoste ecc.) e cacciagione selvatica contengono anch'essi buone dosi di omega-3.

Gli integratori (pillole di omega-3) non sono fonti da disprezzare, ma occorre scegliere solo prodotti sottoposti a ultrafiltrazione, perché i grassi dei pesci sono contaminati da metalli pesanti. Un ottimo prodotto, microfiltrato, è Omega3-rx della enervit, prodotto su licenza di Barry Sears (l'autore dellla dieta della "zona")

Altra fonte di precursori di omega-3 è l’olio di semi di lino

È estratto dai semi della pianta Linum usitatissimum, molto utilizzata fino a qualche decennio fa per produrre capi di abbigliamento. A differenza degli altri oli vegetali, ricchi di grassi omega 6, l'olio di lino è molto ricco di acido linolenico, il capostipite dei grassi omega 3. Ne contiene fino al 58%: per soddisfare il fabbisogno giornaliero di grassi omega 3 ne bastano solamente 6 grammi al giorno!

L'acido linolenico è il più delicato tra gli acidi grassi: si ossida molto facilmente e di conseguenza il processo di estrazione dell'olio di lino deve essere fatto accuratamente, possibilmente in assenza di aria e a temperatura controllata.

Fino a qualche anno fa l'olio di lino spremuto a freddo veniva prodotto esclusivamente con ilmetodo Baglioni, a temperatura controllata, per lo più da piccole aziende biologiche.

Ora che il consumo è aumentato le aziende più grandi hanno adottato metodi molto meno delicati nei confronti del prodotto, che viene portato a temperature molto più alte che possono ossidare l'acido linolenico.

Inoltre nessun produttore propone confezioni totalmente opache che proteggano l'olio dalla luce; nessun negoziante lo conserva in frigorifero per proteggerlo dalla temperatura.

La probabilità di trovare un prodotto veramente fresco, quindi, è molto bassa.

Consigliamo quindi di evitare il consumo di olio di lino, a meno di non approvvigionarsi direttamente dal produttore, assicurandosi che utilizzi il metodo Baglioni e che conservi in frigorifero l'olio così prodotto.

Il prodotto va conservato in frigorifero in bottiglie scure, e va consumato nel giro di qualche settimana.

Ha un sapore caratteristico di noce, leggermente amarognolo. Quando irrancidisce prende un sapore sgradevole di pesce.

La Chia è una pianta che cresce in Messico e Bolivia, della quale si utilizzano in prevalenza i semi. Pare siano una fonte ricchissima di omega-3 e che ne contengano più del salmone

 

 

 

Qual è il the deteinato che fa meno male alla salute?

Nel seguito sono riassunti brevemente i principali sistemi utilizzati per la riduzione del contenuto di caffeina nel tè. La caffeina è infatti la stessa sostanza che nel caso del tè viene più spesso indicata con il nome di teina. Si tratta di un alcaloide naturale presente oltre che nelle piante del caffè e del tè, anche nel cacao e nel guaranà ed ha un leggero effetto stimolant.

La principale differenza tra i vari metodi risiede nella natura del solvente utilizzato: Etile Acetato, Anidride Carbonica o Metilene Cloride. L’Etile Acetato è un composto organico presente naturalmente nel tè, così come in alcuni tipi di frutta e verdura; l’anidride carbonica è un gas presente anch’esso in natura, ma utilizzato in questo caso a temperature e pressioni particolari per rendere la CO2 liquida (allo stato naturale è, come detto, generalmente gassosa), mentre il Metilene Cloride è un solvente che non è presente in natura e deve essere sintetizzato chimicamente.

  Metodo 1: Metilene Cloride

In questo caso il solvente utilizzato è il Metilene Cloride. Il principale vantaggio di questo metodo è che permette di utilizzare la caffeina estratta dal processo. Ci sono infatti alcune bevande energetiche e bevande a base di cola che contengono caffeina addizionata. Il solvente utilizzato in questo caso è tossico se assunto in quantità elevate, ma i moderni processi di estrazione rendono questo metodo comunque altamente sicuro, dal momento che i residui di solvente nel tè deteinato con Metilene Cloride sono inferiori a 1 PPM (contro il limite di 5 PPM, imposto per legge).

  Metodo 2: Etile Acetato

L’etile acetato è presente in natura nel tè e in alcuni frutti, come le mele, le pere, i ribes o i frutti di bosco, per questo molti attribuiscono a questo metodo l’appellativo di “naturale”. Tuttavia l’estrazione dell’Etile Acetato dalla frutta o dalla verdura è impraticabile, per cui il composto viene generalmente riprodotto in laboratorio. Il processo, simile a quello utilizzato anche per il caffè, consiste nell’immergere in acqua le foglie di tè per estrarne la caffeina. L’utilizzo dell’acetato di etile permette quindi di separare dalle foglie “fisicamente” la caffeina ed eliminarne oltre il 99,9%. Purtroppo, l’acetato di etile rimuove anche ingredienti salutari della foglia di the e ne influenza il sapore.

  Metodo 3: Anidride carbonica

L’anidride carbonica (CO2) è il solvente utilizzato in questo metodo per eliminare la caffeina. Le foglie di tè vengono inumidite con vapore acqueo e successivamente convogliano nell’estrattore insieme all’anidride carbonica. Questa, grazie ad una pressione esercitata da una pompa al disopra della sua pressione critica e all’aumento di temperatura al suo interno fino a 50-70 gradi centigradi, si trasforma in uno stato liquido. L’anidride carbonica compressa dà così origine alla CO2 supercritica, che diviene liquida e si unisce alle particelle di teina, estraendola dalle foglie. La CO2 viene quindi fatta tornare allo stato gassoso ed espulsa, e con essa la quasi totalità della teina, non intaccando le sostanze che concorrono alla qualità del the e che lo rendono così apprezzato per le sue virtù. L’anidride carbonica, tornata gassosa, evapora completamente senza lasciare alcun residuo. Le foglie, ancora umide, vengono poi lasciate asciugare per essere successivamente lavorate e confezionate.

 

Il metodo senz’altro più naturale e assolutamente non dannoso per la salute è quello a base di anidride carbonica, che è un composto assolutamente naturale (è presente normalmente nel nostro sangue) e sparisce senza lasciare alcun residuo.

Questo metodo, non prevede l’utilizzo di altre sostanze e preserva maggiormente gli elementi fondamentali contenuti nel the, quali polifenoli (antiossidanti), aroma e gusto e altre sostanze benefiche. Questo metodo di estrazione di teina/caffeina è riconosciuto anche dall’ente di certificazione biologica CCPB (http://www.ccpb.it/) quale metodo completamente privo di residui.

Uno dei pochi the che utilizzano questo metodo, che è più costoso degli altri (perciò normalmente non utilizzato) è il The Winston.

Questa particolarità del The Winston non è nota a tutti, poiché gli altri produttori di the italiani hanno fatto causa alla casa produttrice del The Winston per impedirle di scrivere sulla confezione che il suo the è deteinato “senza sostanze chimiche”.

Oggi il processo di estrazione con la CO2 supercritica sostituisce industrialmente il comune solvente organico impiegato per estrarre l’elemento attivo dei prodotti naturali. Questa tecnica trova una delle sue applicazioni principali nell’estrazione della caffeina dal caffè, così come per la produzione di oli essenziali, di principi attivi e nell’estrazione del luppolo per la produzione di birra.

 

 

 

Una cena urban style al ristorante, ovvero la nuova etichetta salutista per chi va a cena fuori.

 

Cenare al ristorante, specie se è una abitudine fissa una o più volte alla settimana, può avere effetti negativi sul vostro peso e anche sulla vostra salute. Ma questo non vuol dire che dobbiate necessariamente privarvi del piacere di una cena in un locale simpatico, magari con amici, a favore di un self-service come Brek o Exki o di un ristorante macrobiotico o vegano. Ecco cosa consiglia Umberto Veronesi riguardo una cena al ristorante:

“Le porzioni servite al ristorante sono molto spesso troppo abbondanti. Pertanto il consiglio è non ordinare mai un pasto completo ma scegliere solo una combinazione tra l’antipasto e il primo o l’antipasto e il secondo, senza farsi mai mancare il contorno. Per contorno si intende insalata mista o verdure (non fritte o gratinate con formaggi). Attenzione: le patate non sono considerate contorni bensì un sostituto del pane. Evitate poi di fare aggiunte di sale ai piatti prima di averli assaggiati, scegliete dolci a base di frutta e ricordatevi che gli alcolici apportano calorie, quindi limitate il consumo a un bicchiere di vino rosso a pasto”.

Vorremmo attirare l’attenzione su una delle raccomandazioni di Umberto Veronesi, che a noi sembra quella più importante e consona ad uno stile di vita moderno e dinamico: non ordinate più di una portata (il contorno di verdura è raccomandato per ottenere ulteriori nutrienti: eliminarlo non fa alcun danno). Sempre più persone oggi, per una cena insieme o da soli, prima di andare al cinema, a teatro o di girare la città by night, si recano ad esempio da Eataly, che ha ristoranti separati per la carne, la verdura, gli affettati e formaggi, la pasta, il pesce, e cenano con un solo piatto. Il sottoscritto preferisce personalmente cenare con un ottimo piatto di pasta di Gragnano al sugo, e nell’attesa che il piatto arrivi si riempie più volte il bicchiere da una bottiglia di acqua minerale Lurisia. Il costo? Non arriva a dieci euro. E terminerete la vostra cena sazi e leggeri anche nella spesa.

 

 

 

Tutti i rischi di un colesterolo troppo basso.

 

Le ultime ricerche sul potere predittivo della colesterolemia e sugli effetti delle statine tendono a presentare un quadro piuttosto sorprendente rispetto a quello che ci veniva presentato dai cardiologi sino a pochi anni fa: l’abbassamento del colesterolo a livelli inferiori a 150 e anche meno potrebbe essere un effetto collaterale avverso delle statine, la cui efficiacia protettiva nei confronti del rischio cardiovascolare andrebbe cercata piuttosto nei loro effetti “pleiotropici” (cioè oltre quello per cui sono state concepite).

Un colesterolo troppo basso è stato denunciato da tempo come una causa di depressione grave, con conseguente rischio di suicidio.

Il colesterolo serve per la sintesi della vitamina D e degli ormoni sessuali, e una sua carenza può portare ad insufficiente sintesi di vitamina D nella pelle quando prendiamo il sole e ad un calo di ormoni sessuali che potrebe avere riflessi persino per la nostra salute ossea.

Recenti studi epidemiologici hanno mostrato che coloro che avevano i livelli più bassi di colesterolo conseguivano i punteggi più bassi anche nei test cognitivi – fatto non sorprendente visto che le membrane delle cellule del nostro cervello sono composte in larga parte da colesterolo.

E l’elenco degli affetti avversi di un colesterolo troppo basso potrebbe continuare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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