CAMPI DI GRANTURCO
La giovane
coppia arrivò alla fattoria dei Simmons un sabato pomeriggio. Erano i primi di
agosto, si approssimava la mietitura del mais.
Lui scese
dalla monovolume per primo. Minna notò il contrasto tra i tratti bruni
dell'uomo e la figura sottile della compagna, dai colori quasi evanescenti; tra
l'entusiasmo di lui e il contegno di lei.
Lo
riconobbe subito: Dan, il figlio del vecchio Abraham Simmons. La donna si
guardò intorno. Abbracciò con lo sguardo lo spiazzo invaso dalle erbacce
davanti alla casa di legno, con un'ala franata e le finestre del primo piano
chiuse da assi inchiodate, il pozzo disseccato, il grande granaio in parte
crollato, i pezzi di attrezzi agricoli arrugginiti sotto una tettoia, il mare
di mais che si stendeva a vista d'occhio intorno all'edificio. Bisbigliò un
commento che lo fece sorridere ed andò a prelevare il bagaglio dal retro
dell'auto.
Indugiò
ancora sui dettagli della casa, mentre l'uomo estraeva un mazzo di chiavi e
provava ad aprire la porta di ingresso. Si vedeva che era una donna dotata di
molto senso pratico, che stava calcolando mentalmente la lista dei lavori più
urgenti. Poi lo seguì all'interno, e Minna raccolse da terra il suo canestro di
more di gelso e si avviò verso casa sua.
La
settimana successiva la routine degli ospiti della fattoria si stabilizzò. Lei
andava e veniva da Deeper, la città adiacente munita di un supermercato e un
centro commerciale. Ne tornava carica di generi alimentari, attrezzi per
bricolage, materiale di pulizia e stoviglie nuove.
L'abitato
più vicino era Medicine Creek, un tempo grosso borgo di agricoltori, ora popolato
da poco più di duemila anime. I giovani se ne andavano, diventavano adulti e
partivano per non tornare mai più. Oppure cominciavano a bere o a drogarsi per
resistere alla noia di Medicine Creek. Dan Simmons costituiva l'unica eccezione
degli ultimi vent'anni.
Lui, a
differenza della donna, non si spostava dalla fattoria. Percorreva i campi con
lunghe passeggiate per rientrare all'ora di pranzo o di cena, o oziava sotto il
portico, su una sedia a dondolo che aveva recuperato; o rovistava nel
magazzino, nella cantina, nel capanno degli attrezzi.
L'uomo e la
donna parlavano sempre meno. Nei primi giorni lui le indicava intorno,
evidentemente narrandole delle storie. Lei si accendeva una sigaretta e fumava
nervosa. Forse, all'inizio della loro conoscenza, ad una ragazza di città come
lei piacevano gli aneddoti sulla vita della fattoria che le raccontava. Ora non
più.
Il terzo
giorno, sulla strada per la fattoria di suo nonno, Minna lo vide arrivare e si
fermò ad attenderlo. Da vicino Dan Simmons era ancora più attraente. Lei, che
era molto piccola all'epoca della sua partenza da Medicine Creek, se lo
ricordava come un bel quattordicenne. Era stato lontano vent'anni.
«Minna
Llywelyn?» disse lui incredulo quando la vide. «Avevi cinque anni quando la mia
famiglia se ne andò. Ora dovresti averne venticinque. Non ti ricorderai di me».
Ma Minna si
ricordava. Aveva una memoria di ferro. Ricordava un ragazzino vivace e maturo
che aiutava già Abraham Simmons nei lavori pesanti della fattoria e ogni
mattina, con lo zaino in spalla e la merenda preparata dalla madre, prendeva la
corriera per frequentare il liceo giù a Deeper. La notte, vedeva la luce accesa
della sua stanza quando stava facendo i compiti.
«Mi ricordo»
disse, e con un cenno lo invitò alla loro fattoria. Crescendo era diventata una
ragazza taciturna, che dosava le parole. Una giovane donna minuta, non più alta
del suo petto, ma molto bella, notò Dan. Con la pelle bianca, i capelli
nerissimi e due incredibili occhi color ametista. Sembrava una bambola di
porcellana.
Mentre
prendeva il tè che gli era stato offerto, sentiva su di sé lo sguardo di quegli
occhi enigmatici. Quando, mezz'ora dopo, si accomiatò, udì dall'aia la voce
forte del nonno.
«Che ne
pensi di lui?»
«Era un bel
ragazzo. È diventato un bell'uomo. Qualsiasi donna vorrebbe mangiarselo» fu la
replica di Minna.
Il vecchio
Fearghus rise piano. In tutti quegli anni non era cambiato per niente, era
rimasto esattamente lo stesso. Forse qualche ruga si era aggiunta alla fitta
ragnatela sul suo volto, ma nulla più. Era ancora dritto e robusto, la sua
stretta di mano vigorosa. Nei giorni successivi Dan incontrò di quando in
quando quella strana giovane donna e si salutarono senza parlare. Lo sguardo di
lei lo seguiva a lungo, quando si allontanava per il sentiero.
Minna sentì
il primo litigio all'inizio della settimana successiva. Alla voce bassa di lei
faceva da contrappunto la voce furente di lui. Dopo un po' Dan Simmons uscì
sbattendo la porta e imboccò il sentiero per i Tumuli, tre curiose alture di
tufo con la sommità ricoperta di erba, sterpi e cespugli. Il folclore locale
voleva fossero la sepoltura che un reparto sudista in fuga aveva dato ai suoi
morti, trasportando la terra con pazienza nei cappelli militari. Britte – così
si chiamava la moglie – uscì poco dopo, con la consueta compostezza, e spostò
lo sguardo nella direzione in cui lui si era incamminato. Poi rientrò.
Molti altri
litigi seguirono. Solo una volta Britte aveva alzato la voce.
«Siamo qui
da tre settimane! Dovevi solo incaricare una agenzia immobiliare di vendere il
ranch, non saresti neanche dovuto venire! Voglio tornare dalla mia famiglia, a
Newport, prima che arrivi il tornado che ha annunciato la radio. Tu fa' come ti
pare». Minna non sentì altro. Il rumore di qualcosa che si rompeva a terra
aveva concluso la conversazione. La casa rimase silenziosa. Di lì a poco Britte
era salita in auto diretta a Deeper per fare provviste per il viaggio.
Daniel
ripercorreva, in quei pomeriggi afosi, luoghi e ricordi della sua infanzia.
C'era un piccolo lago a poche miglia dalla fattoria. Seduto con la schiena
appoggiata ad un albero, di fronte all'acqua immobile, si gustava una acuta
percezione di tutto ciò che lo circondava, dall'odore di piante secche alla
sensazione di caldo appiccicoso, fino al pietrisco e all'erba sotto di sé.
Isolò ogni singolo suono: cinguettii, fruscii, stormire di foglie e minimi
sussurri. Immaginò quei luoghi centocinquant'anni prima. L'erba dominava il
panorama, una prateria vergine punteggiata di papaveri, astri, fiordalisi, barbaree e lupini. Il torrente scorreva libero per le grandi
pianure. Mandrie di bisonti in lontananza, pozze d'acqua che mandavano riflessi
argentei sotto il sole pomeridiano, una distesa infinita di erbe selvatiche che
andava da un orizzonte all'altro come un grande, ondulato mare verde. Un filo
di fumo. Uomini, qualche tenda.
Era pervaso
da una strana letargia. Guardando i campi, rievocava il prevedibile ciclo dei
sermoni del pastore Wilbur che si avvicendavano come
le stagioni, scanditi dalle citazioni di Milton e John Donne, di Newman e del Pilgrim's Progress, sempre le stesse. Erano un peana alla
ricchezza delle messi, alla generosità della natura. Quella prosperità che
aveva ucciso suo padre, fatto impazzire sua madre, avvelenato la sua vita.
Spense il
telefono cellulare. I messaggi si erano accumulati fin dal suo arrivo: dall'Università,
dall'Ufficio della Contea, da un avvocato che non conosceva. Non ne aveva letto
neanche uno. Si era portato le bozze di un saggio sui poeti preraffaelliti, che
giaceva nel fondo della sua sacca. Avrebbe dovuto sottoporlo già da un mese al board degli editori dell'Università. Sperava di ottenerne
un incarico per un ciclo di lezioni, ma da quando era lì era stato incapace di
fare alcunché.
Era
arrivata la seconda settimana di agosto, e passò, indifferente. Dan Simmons era
steso tra il mais con lo sguardo rivolto al cielo. Il sole andava calando, la
temperatura era intorno ai trentotto gradi. A nord balenavano silenziosi lampi
di calore. Le pannocchie rigonfie sfioravano un'altezza di due metri. Di lì a
poco sarebbe iniziata la mietitura.
Il grande
mare giallo di mais non incontrava ostacoli né confini. Quando il vento si
sollevava, le spighe si scuotevano rumorosamente, come se fossero vive. Quando
il vento si spegneva, tornavano ad ammutolirsi. L'ondata di caldo durava da tre
settimane e l'aria, immobile, gravava sopra i campi come un sudario
luminescente.
Il
crepuscolo scese sul paesaggio. Il cielo arancione virò al rosso sangue. Dan
Simmons immaginava il piccolo borgo di Medicine Creek in cui si stava
accendendo una manciata di luci. Più in là, appena dietro l'orizzonte, si
alzavano tre silos colossali, che facevano pensare agli alberi di una nave
persa in mezzo al mare. Il torrente, bordato di alberi scheletrici, scendeva da
nord-ovest, girava pigramente intorno alla fattoria e svaniva verso sud-est. A
nord-est si alzava un grappolo di collinette circondate dal bosco. Erano gli
unici elementi curvi in un paesaggio di linee rette.
Il raggio
della pila che si era portato lampeggiava tra i fusti che si alternavano davanti
a lui come interminabili sbarre di prigione. Lì in mezzo l'aria era calda,
fetida, appiccicosa, come in una trappola. Il naso gli si riempiva di un odore
rugginoso, il familiare profumo delle pannocchie che faceva parte della sua
vita. Le scarpe calpestavano le zolle secche di terra, sollevando polvere. La
primavera era stata piovosa e, fino all'ondata di caldo di qualche settimana
prima, l'estate si era mostrata clemente. Era stupefacente come la terra nera
si trasformasse in polvere. Nubi di storni volavano verso i nidi salendo sopra
le ultime striature del tramonto.
Per
tornare, prese una delle stradine sterrate che attraversavano le migliaia di
chilometri quadrati di campi intorno a Medicine Creek. Gli animali si perdevano
tra il mais. I vitellini vagavano finché non morivano di fame e di sete.
Colonne di avvoltoi giravano lenti sulle loro carcasse volteggiando sopra i
cereali, planando sulle correnti termiche. Calavano a spirale, poi si
risollevavano lentamente. Salivano e scendevano con regolarità, in un ciclo
continuo.
Anche i
vagabondi vi sparivano, di tanto in tanto. Venivano segnalati nella zona e
improvvisamente non si vedevano più. Nessuno ci faceva caso. La loro vita se
n'era andata anni prima, quando avevano deciso di sparire dalla società. Tra le
pannocchie si trovavano gli oggetti più strani, lasciati da chissà chi:
cappelli da cowboy, piccole armoniche, scarponi, scatole di latta che
contenevano fiammiferi, biglietti di autobus, lacci di scarpe e altre
cianfrusaglie.
Tra poco
sarebbero arrivate le grandi mietitrebbiatrici, ognuna in grado di raccogliere
e immagazzinare il mais senza posa. Il mais sarebbe stato trasportato ai silos,
poi caricato su vagoni ferroviari diretti nel Nebraska o nel Missouri. Dan
Simmons era cresciuto lì, sentiva di appartenere ai campi di mais, i legami con
la vita cittadina si andavano a poco a poco allentando.
Stava
arrivando un tornado da ovest. Un fronte di aria fredda proveniente dal Canada,
esteso migliaia di chilometri, si era fatto strada lungo una regione delle
Grandi Pianure che per molte settimane era stata colpita dalla siccità. Al suo
passaggio, l'aria aveva sollevato e raccolto fini particelle di polvere. Ben
presto si erano manifestati i dust devils, trombe d'aria cariche di polvere che si levavano in
alto nel cielo scuro.
Al suo
avanzare, il fronte aumentava d'intensità, autoalimentandosi fino ad assumere
l'aspetto di un massiccio muro di polvere che raggiungeva i mille metri di
altezza. La visibilità era scesa a meno di quattrocento metri. Il fronte
marciava sul Kansas da ovest verso est, preceduto dagli avvisi di tempesta.
La muraglia
marrone scuro, carica di polvere, fagocitava una città dopo l'altra,
incuneandosi nell'aria calda e secca che per giorni e giorni aveva soffocato le
Grandi Pianure. L'aria calda che si alzava sul terreno penetrò nella massa
fredda soprastante, generando torreggianti cumulonembi a forma di incudine, che
crescevano in altezza.
Per tutto
il giorno precedente gli aggiornamenti si erano susseguiti, da Dodge City al
Colorado: sembrava che l'emergenza aumentasse di ora in ora, passando
dall'avviso di tempesta alla minaccia di tornado. Brutali raffiche di sabbia si
erano scatenate appena cento miglia a nord di Deeper, strappando assi e
cartelli, graffiando case e auto, abbattendo alberi e riducendo la visibilità a
poche centinaia di metri.
Le poche
fattorie che si riusciva ad intravedere dalla strada per Medicine Creek erano
già chiuse e sbarrate. Non si notava nessuna attività. I proprietari dovevano
avere incollato l'orecchio alla radio parecchie ore prima e sapevano meglio di
chiunque altro come prepararsi all'emergenza: spostare il bestiame in zone
riparate, specialmente i piccoli; preparare mangime in più e assicurarsi che
gli animali fossero ben ordinati, in caso di blackout. I contadini sapevano che
cosa fare.
Britte
tornò alle cinque, e cominciò a caricare le sue cose nell'auto. Quel giorno sul
Kansas occidentale il tramonto stava arrivando con quattro ore di anticipo. Il
cielo si era andato oscurando sin da mezzogiorno e folate di vento freddo
avevano spazzato i campi di mais e fatto gemere le assi della fattoria. L'ombra
calava come una coperta sopra la distesa di mais e presto avrebbe avvolto anche
la casa. L'aria era satura di ozono e umidità. La tempesta sarebbe stata
peggiore di tutte quelle che l'avevano preceduta da vent'anni a quella parte.
Verso le
sei, Minna sentì le voci concitate di Dan e di Britte provenire dal granaio.
Poi una detonazione. Vide Dan uscire a passi incerti, dirigersi verso il muro
formato dalle pannocchie di mais maturo e sparire.
Seduto tra
il mais, nell'afa resa ancora più soffocante dalle nuvole di polline sollevate
dal vento, Dan Simmons si fermò finalmente, esausto, e si sedette appoggiato ai
fusti delle pannocchie. Aveva girato per ore finché il buio si era richiuso su
di lui e si era perso. La bufera stava infuriando tra le cime del mais. Chiuse
gli occhi e ripensò a quello che era successo.
Aveva
trovato il vecchio Winchester di suo padre in soffitta e aveva passato diverse
ore ad oliarlo e a rimetterlo in sesto, con l'intenzione di portarlo via. C'era
anche una scatola di cartucce, così era uscito per provarlo, ai Tumuli. Quando
Britte entrò nel granaio per dirgli che stava partendo, lo appoggiò su una
balla di fieno.
La luce del
tramonto la illuminava da dietro, facendo risplendere i capelli biondi come una
aureola. Ma il volto era buio, gli occhi pozze scure. Dan sapeva già ciò che
lei gli avrebbe detto. Che non lo capiva più. Che aveva fatto un errore ad
innamorarsi di lui, all'Università di Newport, in cui entrambi frequentavano i
corsi di letteratura moderna.
Appartenevano
ad ambienti molto diversi. Ma in quegli anni, gli anni dei figli dei fiori e di
Woodstock, le rigide barriere tra le classi sociali si erano allentate. Lui e
Britte avevano avuto una storia. A sorpresa, lei l'aveva invitato a far visita
ai suoi genitori. Dan aveva pensato che fosse un atto di ribellione, di
evasione, di cui si sarebbe pentita. Lui, inquieto e preda di impulsi
contraddittori, vedeva in lei stabilità e ordine, la possibilità di un approdo.
Britte era sempre controllata, composta, anche quando facevano l'amore. La sua
tranquillità e imperturbabilità l'avevano attratto. Aveva creduto che potesse
dargli un ancoraggio.
Ricordava
l'accoglienza fredda e arcigna del padre e della madre di lei nella grande
dimora di famiglia in stile coloniale a Newport. Emigrati dalla Svezia
all'inizio del 1700, i Nielsen avevano costruito una solida ricchezza, che le
varie generazioni avevano aumentato. Le maniere impeccabili di Linus e Leonora
Nielsen velavano appena il disprezzo e la disapprovazione per il giovane
studente squattrinato.
Per
generazioni la famiglia di Britte aveva stretto matrimoni nella comunità
svedese del New England. Quella sera, si era reso conto Dan, il padre, per
offenderlo, aveva invitato il fidanzato designato per la figlia, Oskar. Aveva
voluto metterli a confronto dinanzi a lei, imporle una scelta.
La famiglia
di Oskar Petersen possedeva una grande società di
taglio di legname e numerose chiatte per il trasporto fluviale lungo il
Mississippi. Pregiato abete di Douglas dalle foreste dell'Oregon e del Canada
veniva spedito in tutto il mondo. Oskar viaggiava molto. Aveva l'aspetto
raffinato dell'uomo d'affari internazionale. E pazienza se la sua occupazione
era la distruzione delle foreste secolari del Nordamerica.
La signora
Nielsen fece sapere che era laureato in economia e management a Yale. Lui e il
padre di Britte parlarono di affari, escludendo Daniel dalla conversazione.
Quando parlava di affari, Oskar diveniva concentrato, meticoloso. Le sue parole
erano attente, pesate, non si trattava di chiacchiere da salotto. Si vedeva che
per famiglie come le loro gli affari erano la linfa vitale, il perno
dell'esistenza.
Dan si
sentiva come un pesce fuor d'acqua, povero, con l'unico vestito buono che aveva
ritirato dalla lavanderia e la sua laurea in letteratura moderna. Britte non
aveva bisogno di lavorare per vivere. Era semplicemente uscita da Newport,
curiosa di vedere il mondo, e per sfida alla famiglia aveva scelto di studiare
le poesie di Dickinson e Swinburne, le prose di
Whitman e di Thoreau.
Poi lei gli
strinse la mano sotto il tavolo, e lui capì che il loro legame aveva superato
la prova. Oskar se ne accorse. Li osservava con quel suo sguardo calmo e
glaciale, ma non fece commenti, non lasciò trapelare nulla.
Ora lei
stava per partire ed era venuta a parlargli.
«Non ti
capisco più. Il nostro rapporto è come sospeso nel vuoto. Io ho abbandonato la
mia famiglia e tu non ne hai una, né vuoi crearla. Non mentirmi, non vuoi
figli. Io invece ne voglio. Tutte le donne della mia famiglia ne hanno avuti.
Molti, sani, vigorosi, in grado di continuare la stirpe, di generare a loro
volta delle creature».
«A
quest'ora il bambino che non hai mai voluto avrebbe cinque anni» infierì, come
se quel bambino fosse lì tra loro, il fantasma di un aborto, di una vita negata
dal suo egoismo. Dan evitò di guardarla. Non poteva dirle che la paura che suo
figlio potesse subire quello che aveva subito lui l'aveva sempre paralizzato.
«Non ho un
lavoro fisso all'Università» le rispose invece, «non abbiamo la stabilità
necessaria per un figlio».
«Te lo sei
giocato, il tuo incarico all'Università. Hai qualcosa dentro di te che ti
impedisce di portare a termine un lavoro, qualsiasi lavoro. Qualcosa che non
funziona in te, di cui non mi ero accorta prima, malgrado mio padre mi avesse
messo in guardia».
«Mi ha
chiamato, un giorno» proseguì Britte. «Aveva preso informazioni. Mi ha fatto
leggere il rapporto del detective privato, per dissuadermi. So perfettamente
che tuo padre si è impiccato per debiti. Che avete lasciato la fattoria subito
dopo, tu e tua madre, per andare a casa di sua sorella a Kansas City. Che tua
zia non poteva tenerti e ti ha messo in un collegio di Newport. Che tua madre è
peggiorata gradualmente, ed è morta rinchiusa nell'ala psichiatrica del Garden
City Lutheran Hospital, a Cedars.
Tu hai vinto una borsa di studio che ti ha permesso di andare all'università,
mantenendoti con piccoli lavori».
«Potresti
accettare l'incarico che ti offre mio padre nella sua azienda» azzardò lei. Lui
non rispose.
«Non hai
nessuna intenzione di sistemare le cose, vero?»
Cadde il
silenzio tra loro. Poi Britte si alzò. «Io vado» disse, «tra dieci minuti sarò
pronta. Se vuoi venire, fatti trovare alla macchina». Lui non si mosse.
Entrambi sapevano che non l'avrebbe fatto. Era come se lei avesse aspettato
quell'ultima conferma, prima di pronunciare le parole definitive tra loro.
Britte si
voltò di nuovo, lo fissò scuotendo la testa. «Tu sei come bloccato qui,
immobilizzato in quell'istante di vent'anni fa in cui hai visto la tua vita
andare in frantumi. Non riesci ad andare avanti. Io tornerò a Newport. So che
Oskar non si è ancora sposato». Una smorfia di sofferenza le deformò per un
attimo il volto. «Sono venuta qui sperando di aiutarti a superarlo». Lo disse
come se neanche lei ci avesse creduto, come se fosse stato solo un tentativo di
sgravare la coscienza. «Ma tu non vai né avanti né indietro. Andrai alla
deriva, e io non voglio andare alla deriva con te».
Fu quello
il momento in cui passato e presente si fusero nella mente di Dan Simmons.
Quello era il luogo dove era stato trovato suo padre impiccato. Il luogo del
tradimento. A nulla era valso che lui avesse cercato di mostrarsi un piccolo
uomo, di aiutare nei lavori della fattoria, di primeggiare a scuola. Suo padre,
oppresso dai debiti e dalle responsabilità, si era ucciso. Sua madre, invece di
stringersi a lui e colmare la ferita col suo affetto, era salpata per un mondo
suo e non era più ritornata. Sua zia e il marito lo avevano abbandonato in un
collegio economico che era poco più di un orfanatrofio. E ora Britte lo stava
tradendo. Di nuovo. Alzò il fucile che aveva afferrato senza accorgersene e
fece fuoco. Minna lo trovò diverse ore dopo. Lui vide la luce della sua
lanterna avvicinarsi, sparendo e riapparendo tra i filari del mais, mentre
raffiche di vento sempre più violente frustavano le pannocchie. «Vieni» gli
gridò, e lo condusse all'imbocco delle Kraus Kavern,
al limitare della proprietà.
Hiram Kraus
arrivò nel Kansas dallo Stato di New York nel 1888 per iniziare una nuova vita.
Fu uno dei primi pionieri di Cry County. La sua tenuta si estendeva per 160
acri, nel territorio di Medicine Creek. Il 5 giugno 1901, cercando una giovenca
che si era perduta, trovò l'imboccatura di una caverna quasi completamente
nascosta dalla sterpaglia. Fece ritorno con una lanterna e una scure, sgombrò
il passaggio e cominciò l'esplorazione.
Era un
labirinto inviolato, quasi senza fine. Proprio in quel periodo le corriere
facevano il loro debutto sulla scena americana e cominciavano a farsi vedere
lungo la Cry Road: per la maggior parte trasportavano famiglie verso la
California. In un primo momento Hiram pensò di aprirlo al pubblico. Ci volle un
anno perché costruisse le passerelle di legno che collegavano l'ingresso alle
prime caverne, le più grandi. Ma poi abbandonò il progetto.
Minna
condusse Dan per quelle passerelle fino ad un anfratto in alto sulla parete.
Depositò la lampada e il sacco di viveri in scatola che aveva portato. L'acqua
non era un problema, nelle caverne scorreva un fiume sotterraneo. Gli disse di
rimanere lì fin quando lei non sarebbe tornata, di non farsi vedere. Fuori il
vento soffiava ormai come un esercito di diavoli, e la pioggia entrava
orizzontalmente nell'imbocco. «Me la caverò, non preoccuparti» gli disse, e
sparì nell'uragano con la sua lampada.
Dan rimase
immobile nel buio, per un tempo infinito, immerso in un doloroso torpore, senza
muoversi, né mangiare né bere.
«Se ne sono
andati». Nell'oscurità gli parve di cogliere un sorriso sul volto di Minna. Di
quella strana giovane donna. Lei lo guidò alla fattoria. Lui si scelse un palco
sopraelevato del granaio. Vi portò il suo giaciglio e le sue poche cose: un
coltellino, un libro di poesie di Swinburne che non
leggeva mai, un acciarino, un vecchio orologio da taschino appartenuto a suo
padre.
Le auto
dello sceriffo e della polizia della contea arrivarono ancora tre volte. Ogni
volta Minna lo faceva nascondere nelle caverne o tra il granturco, vicino ai Tumuli.
Fearghus aveva scoperto un secondo ingresso alle caverne, situato alla loro
base, che aveva mimetizzato in modo da renderlo invisibile. Nel caso che i
poliziotti si fossero avvicinati, lui poteva entrare da lì. I due ingressi
erano separati da un dedalo impenetrabile. Quando, la prima volta che vennero,
entrarono dall'imbocco principale, non trovarono nulla.
La seconda
volta portarono i cani, ma la tempesta aveva cancellato tutte le tracce, e i
pollini del granturco imbrogliavano il loro olfatto. Alla fine, diramarono
l'avviso per un fuggitivo agli sceriffi dello Stato e smisero di venire. Dopo
tre anni, Dan si confondeva con i lavoratori stagionali facendo finta di essere
arrivato insieme agli altri, e nessuno gli badava. Si era fatto crescere la
barba. Le sue fattezze erano scavate. Aveva la pelle bruciata dal sole.
Difficilmente qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo.
La vita
alla fattoria dei Llywelyn riprese il suo corso normale, immutabile come
l'avvicendarsi delle stagioni. Daniel aiutava Minna a far partorire le
giovenche e le pecore. Ad uccidere gli animali e a tosarli. Veniva lasciato in
pace. Fearghus non gli rivolgeva mai la parola. Minna si limitava
all'indispensabile, si intendevano a cenni o con gli sguardi.
Lavava i
propri vestiti e aveva cura delle sue cose. Si agitava solo se gliene
sottraevano qualcuna. Talvolta gli uomini che arrivavano alla fattoria si
divertivano a nasconderle, ma Minna interveniva e le faceva restituire. Passava
lunghi pomeriggi ad intrecciare canestri di vimini. Si lavava sotto la pompa
dell'acqua, con lo sguardo di Minna che puntava su di lui senza imbarazzo.
Stava per
giorni e giorni lontano dalla fattoria a riparare gli steccati, dormendo sotto
le stelle col sacco a pelo.
Tenevano
vacche e cavalli. I lavori nella fattoria venivano svolti da loro tre.
All'inizio dell'autunno e della primavera Fearghus faceva venire dei lavoranti
stagionali per aiutarli nei lavori da sbrigare prima che arrivasse l'inverno o
per preparare i campi per la semina estiva e controllare e marchiare il
bestiame prima della stagione del pascolo. Poi se ne andavano, lasciandoli in
perfetta solitudine per lunghi mesi.
Minna
intagliava piccoli oggetti in una incredibile varietà di materiali: corniolo,
ebano, diaspro, giada, onice, ambra, avorio, osso e altri ancora, ottenendone
pezzi di squisita fattura. Raffiguravano la vita selvatica: orsi, lepri, lupi,
linci, lontre, pavoni, pesci gatto, pernici, salamandre, tortore, ermellini,
volpi, allodole, serpenti. Oppure animali fantastici o simbolici, come grifoni,
uccelli del paradiso, scarabei, aspidi, basilischi, civette, ibis. Oppure
ancora elaborati intrecci vegetali, frutti turgidi, fiori magnifici, farfalle,
libellule.
Li regalava
agli uomini nella fattoria o li rivendeva in città. C'erano persone che le
commissionavano intagli sui coltelli o sulle armi. Minna era abilissima col
bulino, i suoi straordinari occhi non avevano bisogno di una lente per
tracciare figure in miniatura, immagini di capi indiani, cavalli, scene di
caccia. Un collezionista di New York le aveva pagato centomila dollari per una
serie di coltelli col manico d'osso istoriato con scene di vita degli indiani
Sioux delle praterie.
Tre giorni
prima delle notti di plenilunio, gli uomini arrivavano da tutta la regione, chi
in autostop, chi a piedi, chi su furgoni scassati o corriere o su motociclette.
Erano barboni, vagabondi, arrotini girovaghi che non avevano una dimora
stabile, lavoranti che facevano il giro delle fattorie offrendo manodopera,
indiani delle riserve che vivevano di pesca e di caccia ai piccoli animali
delle foreste dello Stato, uomini che avevano abbandonato mogli e figli e non
avevano più trovato la strada del ritorno.
Si
riunivano la sera nell'antico mattatoio ormai in disuso dall'inizio del 1900,
quando la calura cominciava a dare tregua. Il luogo appariva più abbandonato
che mai, isolato in mezzo al giallo dei campi, come un relitto arrugginito di
una nave in mezzo alle pannocchie. Le finestre, nel tramonto, erano scure e
vuote come denti mancanti. Nel grande ambiente a pianterreno ancora ristagnava,
quando l'umidità impregnava le pareti e i pavimenti, un lieve odore di sangue e
di disinfettante.
La rete di
un letto era stata piazzata di fronte ad una finestra. Si radunavano tutti quanti
e Minna, alla luce intensa di una lampada a gas, incideva i suoi tatuaggi su
uno di loro a turno, col suo coltello di selce dal manico di pelle. Gli uomini
venivano legati alla rete perché non si muovessero durante l'operazione. Alcuni
si agitavano e gridavano per il dolore, mentre il sangue scorreva e la selce
mordeva la loro carne.
Minna
disponeva di fronte a sé il fornelletto per il cauterio di ferro, il coltello
che toglieva dal panno in cui era avvolto, le ciotole dei colori primari –
rosso, terra gialla, blu, bianco –, la bottiglietta dell'unguento da stendere
sulle ferite ancora fresche finché non fossero cicatrizzate. I tatuaggi erano
magnifici. Rappresentavano spirali, draghi, astri, sole, luna, simboli degli
elementi. Di ciascuno Minna spiegava il significato e la funzione rituale.
Erano il legame, il ponte tra il microcosmo e il macrocosmo, che avrebbe aperto
una strada quando fosse venuto il momento.
Sul corpo
di Dan Minna stava incidendo un magnifico serpente lunare dalle scaglie azzurro
cupo, che pareva scivolare sinuoso sulla sua pelle. Quando il serpente avesse
fatto il giro completo e avesse srotolato le sue spire intorno ai simboli in
corrispondenza dei suoi punti vitali, il tempo sarebbe stato maturo.
Erano
passati sette anni dal momento in cui Dan Simmons si era nascosto nella
fattoria dei Llywelyn. La sua memoria si era gradualmente cancellata. Il suo
passato gli appariva confuso, non ricordava più quasi nulla: a malapena
rammentava il proprio nome. Il serpente era stato completato. La luna piena
sarebbe sorta di lì a tre giorni. Daniel prese le sue cose, le impacchettò con
cura e le depositò nella soffitta della fattoria. La notte prima del plenilunio
rimase a guardare le stelle, tra gli steli del mais che frusciavano piano.
Di nuovo
gli uomini arrivarono alla fattoria nel pomeriggio. Erano tutti lì, quelli che
Dan conosceva. Lony Gasparilla,
l'arrotino ambulante; Art Ridder, il giovane
bracciante che girava con lo zaino e dormiva all'aperto; Brushy
Jim, che era stato in Vietnam e non era più tornato a
casa. E altri ancora. Minna distribuì loro del pane e del formaggio sotto la
tettoia del granaio.
Poco prima
di mezzanotte erano tutti riuniti in cerchio nella sala del vecchio mattatoio.
Daniel e Minna erano in piedi al centro del cerchio, inondato dalla luce lunare
che proveniva dal lucernario in alto. Attesero in silenzio che l'astro salisse
allo zenit. Poi Daniel si spogliò completamente. Le mani di Minna percorsero
senza imbarazzo il suo corpo, esplorarono i tatuaggi che gli aveva fatto. Era
un corpo bellissimo, reso asciutto e vigoroso dal lavoro della fattoria. Minna
mormorò il suo desiderio.
Dan
percepiva nella penombra ai margini del cerchio la presenza degli uomini.
Davanti a sé aveva Dale Esteem,
con gli occhi spalancati e l'espressione turbata. Dale
era giovane, i suoi tatuaggi erano appena all'inizio. Aveva paura di ciò che
Minna gli avrebbe riservato. Lui no. Era pronto. Era l'ultimo, il tredicesimo,
destinato a suggellare il cerchio.
Si
inginocchiò rivolgendole le spalle. Sentì il fruscìo
degli abiti di lei che cadevano a terra. Poi Minna impugnò l'athame a forma di mezzaluna con la lama istoriata dai
riflessi blu. Gli si avvicinò da dietro e con il braccio sinistro gli cinse il
petto e le spalle, aderendo a lui con i suoi piccoli seni caldi, i capelli che
si mescolavano con i suoi, il suo respiro sulla guancia. Dan chiuse gli occhi. Lasciò
che gli si sedesse in grembo, aperta e umida come la terra. Il fiotto del suo
seme non tardò ad esplodere. Con un gesto sicuro, Minna gli aprì la gola da
parte a parte. Lo tenne per i capelli nei sussulti dell'agonia, mentre il
sangue schizzava a fiotti tutto intorno liberandosi dalla prigione delle
arterie.
Gli uomini
immersero le mani nel sangue caldo e le protesero verso Minna. Dipinta di rosso
dalla testa ai piedi, anche lei immerse le mani nel sangue di Daniel e si
colorò il volto come una sacerdotessa, bella e terribile come la dea di cui
portava il nome.
Minna uscì
nella notte tiepida, piena della vita delle piccole creature e del frinire dei
grilli. Diresse i suoi passi verso i Tumuli, i piedi nudi che lasciavano lievi
impronte nel soffice terriccio nero. Arrivata alla sommità, alzò le mani verso
la luna, e le tenne alzate, immobile, fino a che il sangue non le si asciugò
addosso, alla sua luce, come una seconda pelle. Iniziò lontano il coro dei
coyotes. I cani delle fattorie vicine risposero. Come i lupi delle ere
preistoriche avevano fiutato il sangue del sacrificio e ululavano alla loro
signora, la luna. Lei rimase immobile ancora a lungo, perché la luna accettasse
la sua offerta. Al suo ritorno gli uomini se n'erano andati, riassorbiti nella
trama della vita quotidiana, tornati alle occupazioni di tutti i giorni.
Erano
passati diversi mesi. Minna trascorreva lunghe ore seduta sulla sedia a dondolo
del patio. Si accarezzava il ventre, che stava crescendo come il grembo della
luna nel cielo. Nel dolce silenzio della notte i grilli frinivano piano e le
rane gracidavano in lontananza, allo stagno. Sarebbe stata una femmina, lo
sapeva. L'avrebbe chiamata Leana.
Leana,
figlia di Minna, figlia di Cenwyn, figlia di Dunna, figlia di Margo, figlia di Erin…
La catena risaliva fino alle antiche paludi della Bretagna, alle foreste dei
druidi, e sarebbe continuata ancora. Donne nate dal sangue e destinate a donare
la morte sacrificale accoppiandosi una sola volta nella loro vita. Il pugnale
di selce e l'athame erano antichissimi, erano passati
tra loro, di mano in mano. Ne erano le custodi.
Fearghus
era il padre di suo padre. Era quasi impazzito di dolore per la morte del
figlio. Era comparso un giorno con l'intenzione di uccidere sua madre Cenwyn, l'assassina, colei che aveva sacrificato il
primogenito di Fearghus dopo essersi accoppiata con lui, ma aveva esitato
scoprendo che albergava nel suo grembo il figlio di suo figlio. Aveva ascoltato
suo malgrado quello che gli aveva detto la donna. Il tempo passò. Cenwyn partorì. Fearghus tenne in braccio sua nipote appena
nata. Rimase con loro. Cenwyn aveva educato Minna
raccontandole antiche storie. La bambina era precocissima, ad otto mesi già
parlava e ad un anno mostrava di intendere tutto quello che le si diceva.
Pareva che fosse nata adulta. Negli occhi balenava già l'inquietante intelligenza
della sua stirpe.
Presto lei
e Fearghus sarebbero andati via. Suo nonno aveva chiamato una ditta di Deeper e
aveva fatto scavare tredici profondi pozzi di prova. La ditta non aveva fatto
domande.
Fearghus si
era calato nel fondo di ciascuno dei pozzi e aveva costruito con la malta delle
camere sepolcrali, dipinte di ocra rossa, il colore del sangue e della vita,
dove aveva disposto i tredici cadaveri che giacevano sparpagliati nel mais in
posti che solo lui conosceva. Poi le aveva sigillate e aveva riempito i pozzi
nuovamente di terra. Chi avesse guardato dall'alto il mais l'avrebbe visto
crescere secondo lo schema a spirale lasciato sul terreno dai pozzi. La luce
fredda della luna l'avrebbe illuminato ogni notte, per molti e molti anni dopo
la partenza di Minna e Fearghus.
Daniel
aveva visto in un unico istante accecante consumarsi la sua intera vita.
Liberato
dai limiti angusti del corpo, miscela instabile di elementi sublunari, era
tutt'uno col cosmo. Cavalcava le correnti dell'etere, si immergeva nelle
fornaci ardenti delle supernove al centro delle galassie e ne emergeva
mugghiando come Rudra, il toro celeste dei Rig Veda dalle grandi corna a forma di falce, che insegue
le bianche mandrie di stelle.
Era il
grande serpente che nuotava nell'oceano del cielo e si bagnava sinuoso nelle
piogge di meteore. Svolgeva le sue spire verso le nebulose remote, oltre la Via
Lattea, oltre Orione, fino ai confini dell'universo.
Viveva la
vita infinita che gli aveva donato Minna.