TORINO DAL TAXI

PERCORSI ALLA SCOPERTA DELLA CITTA’

 

 

 

 

INDICE

LE ACQUE DI TORINO

Torino, la città dalle mille acque

I torét, le fontanelle simbolo di Torino

La fontana dell’Eremo dei Camaldolesi

I parchi fluviali di Torino

Le fontane di Torino

La puzza a Torino e le doire di Emanuele Filiberto

Diciannove doire scorrono ancora a Torino

La vita quotidiana e il fiume: ricordi del Sangone

I fiumi che scorrono sotto Torino.

LA TORINO SOTTERRANEA

La Città invisibile

Le gallerie della Cittadella

Gli infernotti di Torino

Il mostro di Piazza Savoia: un serial killer torinese di inizio secolo scorso

Una seduta satanica nei sotterranei di Torino raccontata da Alberto Bevilacqua

Osterie nel sottosuolo: la Crota Paluch

Le ghiacciaie di Torino

Le cripte delle chiese

I sotterranei dei palazzi storici

Dagli anni di piombo alle olimpiadi del 2006: il pericolo che viene dal sottosuolo

TORINO CITTA’ DELLA CARTA STAMPATA

Le librerie antiquarie a Torino

Torino capitale degli almanacchi

Il Salone del Libro

Le Biblioteche a Torino: un giacimento culturale inesauribile

I libri sotto i portici e i mercatini dell’usato

Il Circolo dei lettori: una istituzione ormai diventata storica di Torino

La Scuola Holden e Alessandro Baricco

Le case editrici storiche di Torino

Le librerie storiche di Torino

Da Emilio Salgari a Giovanni Arpino: la Torino degli scrittori piemontesi

Torino e il romanzo popolare

Libri ambientati a Torino

La Torino di Edmondo de Amicis

La Torino di Fruttero e Lucentini

I primi giornali di Torino

La Stampa

LE DONNE DI TORINO

Maria Bricca, l’eroina dell’assedio di Torino del 1706

“Qui le donne non si laureano”. Quando l’Università di Torino negò la laurea ad una fanciulla perché ne sarebbe stata “contaminata”

Il primo sciopero delle donne a Torino: Maria Ferraris Musso.

Due storie divertenti di battagliere donne piemontesi

Madama Cristina

Le prime donne astronome all’Osservatorio di Torino

Giulia di Barolo, l’aristocratica amica dei poveri

Le Suffragette di Torino: Emilia Mariani

LA TORINO DEGLI ANNI ’60, DELLA FIAT, DEL BOOM ECONOMICO, DELL’IMMIGRAZIONE

Antecedenti: la Resistenza a Torino

La ricostruzione del Dopoguerra

Il boom economico

L’immigrazione a Torino

Il night frequentato da Edoardo ed Umberto Agnelli e gli altri percorsi della dolce vita di Torino

I divertimenti degli anni ’60

Tutte le discoteche storiche di Torino

I locali storici del Jazz a Torino

La diffidenza piemontese verso il Meridione in due aneddoti spassosi

La vivacità culturale di Torino negli anni ’60 e ‘70

Il Sessantotto

Gli anni di piombo

La nuova immigrazione

LA TORINO ARALDICA E SIMBOLICA E DECORATIVA

I simboli della bandiera del Piemonte

Simboli massonici o anticlericali a Torino

Il portone del diavolo

Il Santo Graal a Torino e la Gran Madre di Dio

Il Palazzo degli Stemmi

La Vittoria alata, simbolo (pagano?) che veglia su Torino

I simboli massonici dell’architetto di corte Palagio Palagi

Il simbolo del toro: origini egizie di Torino?

Duecento diavoli di pietra abitano Torino. O forse sono folletti?

Un genio alato di natura inquietante

I Palazzi dei medaglioni e degli stemmi

Due enigmatiche statue con teste di cane in Via Milano 11 rivelano le tracce dell’Inquisizione

Quando Torino adottò un elefante come mascotte

Animali fantastici, angeli e gargoyles

La presunta origine egizia di Torino: Eridano e Iside

Iside a Torino

L’arte vetraria a Torino

I soprannomi curiosi delle statue di Torino

LA TORINO DELL’ARCHITETTURA E DELL’URBANISTICA

Alcune peculiarità di Torino

Autobiografia dei quartieri di Torino

I rioni storici di Torino

La lotta dei pianificatori urbani contro San Donato, “borgo anomalo”

Le Vallette: un quartiere emblematico della Torino dell’immigrazione degli anni ‘60

La vecchia contrada dei coriatori a Torino

Origine dei nomi dei quartieri di Torino

“Glielo diamo noi il Medioevo a Torino”: la nascita del Borgo medievale.

Le fasi dell’espansione urbanistica di Torino fino all’Ottocento

L’età romana e il Medioevo a Torino

La nascita di Torino capitale sabauda e l’architettura barocca

La Grande Galleria di Piazza Castello

L’architettura neoclassicaL’architettura industriale

Lo straordinario tetto del Lingotto

Il Lingotto

Il Villaggio Leumann

Gli edifici di Italia ‘61

L’architettura del ferro

L’architettura fascista

La Torre Littoria, via Giovanni Battista Viotti

Il rifacimento del centro di Torino e di Via Roma

L’architettura Liberty

L’architettura contemporanea a Torino

MAU - Museo di Arte Urbana Campidoglio

Ex Sellerie - Arsenale militare di Torino

Campus Luigi Einaudi, Lungo Dora Siena 100/a

Officine Grandi Riparazioni, Corso Castelfidardo 22

Torre Littoria, Via Giovanni Battista Viotti

Porta Susa, Stazione FS di Torino

Grattacielo Intesa San Paolo, Corso Inghilterra 3

25 Verde, Via Chiabrera 25

Pala Alpitur (Palasport Olimpico o Pala Isozaki), Corso Sebastopoli 123

Recupero ex Stabilimento Carpano, Via Nizza 230 (Eataly)

Il Lingotto Fiat

Oval Olimpic Arena, Via Giacomo Matté Trucco 80

Grattacielo della Regione, Area ex Fiat Avio

Italia ‘61

Palazzo Vela

I portici di Torino

La piazza della ghigliottina a TorinoGli obelischi di Torino e altre pietre storiche

Una scatola del tempo sotto l’Obelisco di Piazza Savoia

La pietra del fallito

La storia dei tagliatori della pietra di Luserna

Gli altarini di Pietro Micca

I viali di Torino e la loro origine

I cortili di Torino

Le gallerie coperte di Torino

Le baraccopoli di Torino

La Mole Antonelliana e la sua storia

Il campanile di Faà di Bruno

Via Roma negli anni ‘60

Via Garibaldi

Arte povera al tempo dei primi Savoia? Una piazza di facciate con mattoni a vista, ovvero Piazza Carignano e l’architettura emiliana a Torino

Le prime residenze consolari a Torino: ovvero le piole della veja Turin

Abitavano qui: dimore note e meno note di torinesi celebri

La casa dei due Cavour: il palazzo di Via XX Settembre aveva un ospite laico e uno cattolico

“Fare la figura del cioccolataio” e altri scampoli di storia legati a Piazza Castello

I palazzi di Torino

I palazzi più antichi di Torino (‘600-‘700)

La città del potere e delle istituzioni in diciotto palazzi

Il primo Palazzo Madama nacque a Torino prima che a Roma. Piccola digressione su Madame, Madamine e Tote

Le amanti dei Savoia e le loro dimore: il palazzo d Luisa di Langosco e il mausoleo della Bela Rosin

LA TORINO DELLE STRADE

Il cibo di strada di tradizione piemontese

Il cibo di strada etnico e fast-food

I mercati per le strade di Torino

Il MAU, Museo di Arte Urbana di Torino: un percorso all’aperto

I mestieri di strada di un tempo

Un mestiere con licenza del municipio: il mendicante di Torino.

Artisti di strada e artisti circensi a Torino

Le pourteire di Torino

I cortili di Torino

Niente manifesti funebri per le vie della Torino di una volta

L’illuminazione delle vie di Torino

Dove si possono vedere i due ultimi lampioni a gas di Torino

I portoni di Torino

La toponomastica di Torino

Il passeggio sui selciati di Torino

Alcune vie caratteristiche di Torino

Il Ghetto ebraico di Torino e le sue vie

La via dei Valdesi a Torino

LA TORINO DEL SILENZIO: CIMITERI, MAUSOLEI, LUOGHI COMMEMORATIVI

I cuori sepolti e il cuore smarrito di Eugenio di Savoia

Torino città delle reliquie

I Piemontesi e i morti

La processione dei morti

Il cimitero monumentale di Torino

Simboli massonici nel cimitero monumentale di Torino

Quando gli Ebrei nascoseno le loro ricchezze nelle tombe nel Camposanto Generale

Quando i morti a Torino non si seppellivano nei cimiteri

I nove cimiteri della storia di Torino

L’ossario della Gran Madre

Le tombe dei Savoia a Superga

La Cripta di San Filippo Neri

I cimiteri ebraici a Torino

I luoghi di sepoltura della Dinastia Sabauda

La tomba di Don Giovanni Bosco: una storia poco conosciuta

LA TORINO DELLA RELIGIOSITÀ SOCIALE E DELLE ISTITUZIONI CARITATIVE

Vecchi anzitempo, inabili a 50 anni: la sfida delle istituzioni assistenziali dei secoli passati

Maria Mazzarello

Don Giovanni Cocchi

Giuseppe Allamano

Il Convitto Ecclesiastico, fucina di ecclesiastici torinesi impegnati nel sociale.

Esempi di emulazione laica: La Casa Benefica

Vittorio Messori sulla rete assistenziale delle istituzioni caritative torinesi

Giovanni Garberoglio e la Casa di Carità Arti e Mestieri

Le antiche istituzioni caritative di Torino

Sebastiano Valfré

Giovanni Bosco

Giuseppe Cafasso

Benedetto Giuseppe Cottolengo

Leonardo Murialdo

Luigi Orione

Francesco Faà di Bruno

Pier Giorgio Frassati

Don Luigi Ciotti

LA TORINO DELLA SOFFERENZA

Il patibolo di Torino, il “prete della forca” e la casa del boia

La Confraternita della Misericordia

La Chiesa della Misericordia

Il boia a Torino

Le istituzioni di controllo sociale del Cinque-Seicento: le case per eretici, mendicanti, vagabondi e fanciulle senza famiglia

La nascita dell’istituzione reclusiva

Le Carceri Nuove e il Panopticon

L’antico Carcere del Vicariato alle Torri Palatine

Le altre carceri di Torino nell’Ottocento

Palazzo di Giustizia o Palazzo della Curia Maxima di Torino

Il Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso” di Torino

I manicomi di Torino

Il caso dello “Smemorato di Collegno”

Bate ‘l cul su la pera: la “pietra del fallito” a Torino

TORINO CAPITALE DELL’AUTOMOBILE

Le 18 case automobilistiche di Torino che non ci sono più

La nascita della Fiat

Gli Agnelli e l’identità di Torino come città dell’auto.

Torino capitale del design automobilistico: Pininfarina e gli altri carrozzieri torinesi

Aneddoti sul periodo ruggente dell’auto a Torino

Il Museo dell’Automobile

Dalla Dino alla Barchetta: la storia delle sportive Fiat

Il primo Automobile Club d’Italia

La vetrina della Fiat in Via Roma negli anni Sessanta

La Cinquecento è stata progettata da un Beato della Chiesa

“NASCE A TORINO”. LA TORINO DELL’INDUSTRIA E DELL’INNOVAZIONE. LA TORINO DEI RECORD.

La macchina per il caffè espresso

I Bersaglieri nascono a Torino

La Scuola Radio Elettra

L’idroscalo del Valentino, la prima linea aerea regolare d’Italia.

Torino capitale dei telefoni

Una contessa Torinese per dare lezioni di dizione ai telefonisti della SIP

La Torino delle realizzazioni eccezionali e dei record

Il primo Panopticon fu costruito a Torino

Il tramezzino nasce a Torino

Il primo computer meccanico al mondo è nato a Torino

Progetti folli nati a Torino: la deportazione con dirigibili

L’ingrediente base della dinamite inventato a Torino

L’Automobile Club d’Italia nasce a Torino

Il Topolino italiano proviene da Torino

La prima lampadina nasce a Torino

La Televisione e la Radio italiana nascono sotto la Mole

Borsalino, il cappello del famoso film, è nato a Torino

Il pomodoro in scatola e il vagone frigorifero nascono alla Cirio – cioè a Torino

Radiosveglia e motore elettrico: gli usi creativi dell’elettricità che sono nati a Torino

Lavazza: 125 anni di caffè e di innovazione

La prima fabbrica italiana di “penne a serbatoio”: la Ditta Aurora in Via della Basilica 9, Torino

LA TORINO DEL CINEMA E DELLA RADIO-TELEVISIONE

La nascita del Cinema italiano sulle rive del Po

Torino e la radio-televisione

Il Museo Nazionale del Cinema

D’Annunzio a Torino: le Notti di Cabiria e la Hollywood sul Po

I film ambientati a Torino

I cinema storici di Torino

LA TORINO MILITARE

La tenace difesa degli ultimi presidi piemontesi contro i Francesi

L’architettura militare del Piemonte e le fortezze sabaude.

I grandi generali della stirpe di Savoia: Emanuele Filiberto ed Eugenio di Savoia.

Le scuole militari.

La restaurazione dei domini sabaudi e la costruzione della cittadella. L’architettura militare di torino.

La guerra di mina e contromina: gli antenati dei tunnel rats del Vietnam

I Piemontesi sono duri da conquistare: il regno più armato nell’Europa del Seicento

La flotta sabauda. Torino a Lepanto. I porti sabaudi.

Lepanto, 7 ottobre 1571: lo stemma dei Savoia si tinge di sangue e di azzurro

L’assedio di Torino e la Basilica di Superga

Corazzieri e Minatori: la micidiale guerra sotterranea nelle gallerie della Cittadella

“Maestà, Torino è imprendibile”. Parola del Maresciallo Vauban.

La partecipazione alle guerre internazionali. I piemontesi nella guerra di Crimea e nelle guerre europee.

Intrigo imperiale a Torino. Carlo Emanuele I e lo scoppio della Guerra dei Trent’anni.

Custodi della Santa Sindone, Protettori dei pellegrini della Terrasanta, Cavalieri consacrati alla difesa dell’onore della Vergine, Flagello dei pirati barbareschi, Milizia scelta dei Duchi di Savoia: l’Antico Ordine Cavalleresco dei Santi Maurizio e Lazzaro.

L'Armeria Reale e la spada mancante

GRANDI PERSONAGGI A TORINO

Quando il Papa e Napoleone si trovarono a Torino e la folla snobbò l’Imperatore

Torquato Tasso

Richard Wagner

Aleksandr Vassilievic Suvarov

Friedrich Nietzsche

Pètr Il’ic Cajkovskij

Giacomo Casanova

Giuseppe Balsamo, Conte di Cagliostro

Michel de Montaigne

Nicolò Tommaseo

Jean-François Champollion

Erasmo da Rotterdam

Elisabetta II di Inghilterra

Nostradamus

Papa Francesco e i suoi nonni

Wolfgang Amadeus Mozart

Napoleone Bonaparte

Benedetto Croce

Rousseau

Paracelso

Giorgio de Chirico

Lev Tolstoj

Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim

Alexandre Dumas padre

Quando Einstein incontrò Rol al Turin Palace Hotel

Quando Torino impazzì per Buffalo Bill

Walt Disney

L’orma del Vate a Torino: dal tramezzino alle Notti di Cabiria

Faust a Torino. Da Agrippa von Nettesheim a Cagliostro, tutte le figure dell’occulto che la città ospitò

Un triangolo della morte a Torino: dove Nietzsche, Pavese e Salgari incontrarono il loro destino

Lizst a Torino per suonare l’Arpa di Davide

L’Esercito della Salvezza a Torino

Alessandro Tassoni e l’arrivo dei salami modenesi a Torino

TORINESI FAMOSI

Carolina Invernizio

Amedeo Avogadro

Alessandro Baricco

Joseph de Maistre

Gustavo Adolfo Rol

Giovanni Agnelli Senior

Emilio Salgari

Cesare Lombroso

Mike Bongiorno, nobile piemontese per parte di madre, che studiò al Liceo D’Azeglio di Torino

Francesco Cirio

Fred Buscaglione

Le sorelle Quaranta, dive del cinema muto italiano

Un grande esploratore: Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi

Galileo Ferraris

Un “certificato di genialità” conferito… dallo Zar: il grande prestigiatore dimenticato Bartolomeo Bosco

LA TORINO MISTICA, MAGICA ED ESOTERICA

Il “Triangolo Bianco” e il “Triangolo nero”

Sovrani alchimisti e architetti cabalisti e massoni

L’oroscopo di Torino

I Templari a Torino

Un triangolo della morte a Torino: dove Nietzsche, Pavese e Salgari incontrarono il loro destino

Le tre grotte alchemiche

Personaggi della Torino esoterica

Faust a Torino. Da Agrippa von Nettesheim a Cagliostro, tutte le figure dell’occulto che la città ospitò

Gustavo Adolfo Rol

La Torino dei gruppi e dei ritrovi esoterici

La Federazione di Damanhur

I Raeliani

La Società Teosofica

Negozi e librerie di articoli esoterici

Fantasmi e spiriti a Torino. La Torino capitale dello spiritismo di fine Ottocento e le sue medium.

Le meraviglie dello spiritismo a Torino

Quando Lombroso incontrò la medium Eusapia Palladino e fu convertito allo spiritismo

Quando Torino divenne la Mecca degli occultisti

A Torino la prima società spiritica d’Italia

Il diavolo a Torino

La Torino massonica e la puzza di zolfo

Nietzsche e Der Antichrist

Fenomeni atmosferici inspiegabili a Torino: incendi e tornadi

Culti satanici a Torino?

Una seduta satanica nei sotterranei di Torino raccontata da Alberto Bevilacqua

Piazza Statuto, il “cuore nero” di Torino

Esorcisti a Torino

Karol Wojtyla in visita a Torino parla del diavolo

La Sindone

Il Santo Graal

Extraterrestri e UFO a Torino

LA “TORINO RUBATA”

La Torino della moda

Il Salone dell’auto

I Paolini fuggono a Milano

La guerra degli aeromodelli tra Piemonte e Baden-Württemberg: come Torino perse l’Aeropiccola

La Fiat fugge all’estero

Il Club Alpino Italiano si trasferisce a Milano

LA TORINO DELLA FEDE

Alcune Chiese di Torino.

Il “mistero” della Basilica di Santa Maria Ausiliatrice

La Chiesa degli Inglesi e i dispetti di Don Bosco

La Chiesa di San Domenico e gli inquisitori uccisi

La Consolata, il santuario più caro ai Torinesi

Miracoli a Torino

Centosessanta isolati e centosessanta nomi di santi

Antichi martiri e reliquie a Torino

Gli ex-voto

Il falò di San Giovanni

La cripta delle reliquie

La Sacra Sindone e la sua storia

LA PARLATA PIEMONTESE NELLE VIE DI TORINO. ESPRESSIONI E MODI DI DIRE.

Da “cicchetto” a “naja”: tutte le parole e le espressioni piemontesi esportate nella lingua italiana

I “false friends” della lingua piemontese: ovvero parole piemontesi che somigliano a parole italiane di cui NON hanno il significato.Boja Faus, E bon, Cerea…: le espressioni che si sentivano per le vie di Torino

Paragoni stravaganti, metafore curiose e definizioni spassose della lingua piemontese

Piemonteis bougia nen: il carattere dei piemontesi attraverso proverbi ed espressioniCome parlavano i Torinesi al tempo di Emanuele Filiberto?

Fare la figura del cioccolataio: un indovinello al quale hanno cercato di rispondere in molti

Il celtico nella toponomastica e nelle parole piemontesi: Taurinensis, doira e Superga

INCENDI, TORNADI, BOMBARDAMENTI, ESPLOSIONI, INONDAZIONI, EPIDEMIE E ALTRO ANCORA: PICCOLA GUIDA AI DISASTRI PIÙ FAMOSI DI TORINO

La peste del 1598

La peste del 1630

Gli incendi a Torino

L’incendio della Grande Galleria di Piazza Castello

L’incendio dell’Armeria Reale

L’incendio della Chiesa di San Domenico

L’incendio della cappella della Sindone

L’incendio del Teatro Carignano

L’incendio del Teatro Regio

L’incendio della Regia Biblioteca Nazionale di Torino del 1904

L’incendio del Cinema Statuto

Il tornado del 23 maggio 1953

Il disastro di Superga

Il fulmine del 1904 che scardinò l’angelo della Mole

I bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale

ALBERGHI, RISTORANTI, NEGOZI, CAFFÈ E MERCATI STORICI DI TORINO

Le osterie

Osterie nel sottosuolo: la Crota Paluch

Le prime residenze consolari a Torino: ovvero le piole della veja Turin

Il più antico albergo di Torino

Il Santo Zabaglione

Tra un vassoio di bignole e un bicchiere di ratafià: la pasticceria dove nacque la Società Torino Calcio e altri caffè storici di Torino.

Premiata Drogheria Lavazza, 1895: caffè di tutto il mondo a Torino

Il Vermouth e i suoi fratelli: una storia fatta di liquori.

Stufato di stambecco servito al caffè: una descrizione dei caffè di Torino a metà dell’Ottocento

Le gastronomie torinesi

Perruquet: un negozio storico che ha chiuso di recente

Come il grissino portò fortuna ad Amedeo II

Il ristorante del Cambio, il preferito di Cavour

Farmacie ed erboristerie

Quando non c’erano le multinazionali farmaceutiche e le fabbriche di medicinali erano le farmacie

Le antiche farmacie del centro storico

Sangue di stambecco, polvere di mummia e fiele di zibetto: le antiche farmacie di Torino

La storia di un inganno colossale ai tempi della peste: quella dell’”Olio Miracoloso”

La Torino bio e vegana

La Torino del cioccolato: una lunga storia d’amore

Una volta c’era Paissa in Piazza San-Carlo

Il paradiso dei collezionisti di francobolli e monete. La storica Bolaffi, una impresa poco decorosa per il pretendente di una madamina di buona famiglia

Negozi particolari di Torino

La antica ditta Comi di arredi sacri

Via Principe Amedeo 25: il negozio delle statue false

Dallo sceicco arabo al capo pellerossa: la ditta di costumi Devalle

La più longeva passamaneria d’Europa

Timbri falsi per la Resistenza: la Premiata Ditta Casalegno Timbri, Via dell’Arsenale 42

La sede storica della Banca Sella in Piazza Castello: un tuffo nella Belle Epoque

Cereria Conterno di Piazza Solferino, “Fornitori di candele di Casa Reale”

I mercati di Torino

Le vecchie malattie del bestiame descritte nel pittoresco dialetto dei mercati e delle fiere

Le antiche consuetudini nelle contrattazioni

I banchi degli acciugai

I venditori di bachi da seta e di foglie di gelso

Il mercato delle donne

Una Miss Torino ante litteram: la Regina di Porta Palazzo

Il Balon

Il mercato di Porta Palazzo: il giro del mondo in una piazza

GLI ALTRI MUSEI DI TORINO: NON SOLO ARTE

Un sommergibile-museo sul Po

Uno straordinario tour degli animali impagliati, tra elefanti e colibrì

Un tour per gli appassionati delle bambole d’epoca

Un museo unico in Europa: il museo della passamaneria a Pianezza

L’Officina della scrittura: il museo della Aurora

LA TORINO DEI CONFLITTI RELIGIOSI

La Torino gesuitica

Prefazione storica: L’ascesa dei Gesuiti, le truppe d’élite della Controriforma

Le accuse di Gioberti e degli altri polemisti contro i Gesuiti: ovvero, tutte le astuzie del Gesuiti

Un fosco episodio di sangue nella Torino dei Gesuiti

Gli statuti dei Carabinieri scritti da un Padre Gesuita: perché no?

L’Inquisizione in Piemonte

Gli Ugonotti a Torino e le 13 chiese distrutte

La repressione del Protestantesimo nel Ducato di Savoia

Valdesi e Riformati nel Ducato di Emanuele Filiberto

Le Pasque piemontesi del 1655, il massacro dimenticato dei Valdesi

Il “glorioso rimpatrio” dei Valdesi

Il “pellegrinaggio” dei protestanti di tutta Europa nelle Valli valdesi

Una Vandea italiana dimenticata: la storia della “Massa cristiana”

La Torino anticlericale e massonica

La morte di Cavour e l’epitaffio di Civiltà Cattolica: “La giustizia divina fa il suo corso”

Un tour delle religioni a Torino

LA FLORA DI TORINO

I nomi piemontesi delle piante

La Torino degli antichi giardini

L’ecosistema del Po

La flora ruderale di Torino

Gli alberi di Torino

I parchi di Torino

I 5 parchi fluviali più grandi di Torino

L’orto botanico di Torino

Il giardino roccioso e il giardino medievale del Valentino

LA COLLINA DI TORINO

I parchi della collina di Torino

Spiritismo ed evocazioni sulla collina di Torino

Il Monte dei Cappuccini e il Convento dei Cappuccini

I sotterranei sotto il Monte dei Cappuccini

La storia di Superga e l’assedio di Torin

La storia di Superga e l’assedio di Torino del 1706

L’assedio di Torino e Superga

Corazzieri e Minatori: la micidiale guerra sotterranea nelle gallerie della Cittadella

“Maestà, Torino è imprendibile”. Parola del Maresciallo Vauban.

“Superga va abbassata di un tiro di schioppo”: mattoni trasportati con la catena delle braccia ed opere straordinarie su una collina remota e popolata dai corvi.

Quello che pochi sanno: Superga era un monte sacro dei Celti.

Le tombe di Superga

Il disastro di Superga

Il trenino a cremagliera Sassi-Superga

La Villa della Regina

Il Gineceo delle Figlie dei Militari a Villa Regina

Il Santuario (non Chiesa!) della Madonna del Pilone: una Lourdes italiana

L’Eremo dei Camaldolesi

La fontana dell’Eremo dei Camaldolesi

La Villa del delitto: Villa Centocroci a Pino Torinese

Templari sulla Collina di Torino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE ACQUE DI TORINO

 

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Torino, la città dalle mille acque

 

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Michel de Montaigne, quando visitò Torino nel 1581, sulla via di ritorno per la Francia, fu colpito dalla quantità di acque che solcavano il territorio della città, che descrisse come “[une] ville située en un lieu fort aquatique”.

Torino è conosciuta come “la città dei quattro fiumi”: sorge nella pianura delimitata dai fiumi Stura di Lanzo, Sangone e Po, che attraversa la città da sud verso nord. La Dora, giunta pure essa nella pianura, attraversa i territori dei comuni di Avigliana, Alpignano, Pianezza, Collegno e per ultima l'ampia area metropolitana di Torino e dopo aver attraversato il parco della Pellerina ed aver contornato su tre lati il perimetro dell'Ospedale "Amedeo di Savoia", continua la sua discesa nella parte nord della città, andando poi a confluire nel Po presso il Parco Colletta.

Ma il bacino idrografico è ricchissimo anche di torrenti: in provincia di Torino se ne contano addirittura 59, molti dei quali arrivano fino a lambire la città: Sangone, Ceronda, Chisola, Meletta, Messa, Rio Stellone, Rio torto di Roletto, Stura di Valgrande.

Sin dal medioevo, questo scenario è arricchito dalle bealere, canali di derivati dai fiumi principali che terminano il loro corso rifluendovi, e che servivano a scopo di irrigazione e di produzione di forza motrice industriale.

Le bialere, o bealere o doire sono il corrispondente – in piccolo – dei navigli milanesi. Costruire una bealera derivando dal Po o dalla Dora o dal Sangone un canale per irrigazione che poi si riversava nuovamente nel fiume era un’opera impegnativa, che richiedeva nientemeno che il permesso del reggente Emanuele Filiberto. Coloro che volevano potevano acquitare “ore d’acqua”, cioè derivare per il tempo prestabilito l’acqua per i propri campi.

Un altro sistema caratteristico delle bialere era quello dell’utilizzo da parte di ciascuno per un tempo definito della giornata: nel suo tempo permesso il contadino chiudeva la chiusa, privando quindi d’acqua i poderi a valle, e la dirottava sui propri terreni tramite canali da lui scavati. Al termine del tempo stabilito, la chiusa era alzata e l’acqua era a disposizione del podere successivo. Nonostante questi precisi regolamenti, Le doire o bealere erano fonti di litigi anche violenti tra gli agricoltori del comune che aveva costruito la bealera e quelli dei paesi attraversati da essa, che ne aprivano gli argini per poter usufruire dell’acqua, e sono riportati parecchi episodi pittoreschi che mostrano come queste acque facessero profondamente parte della vita quotidiana di Torino e del suo contado.

Anche per questo furono oggetto di regolamento minuziosi e negli archivi dei comuni torinesi si ritrovano numerosi editti, a cominciare da quelli di Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele I e Amedeo II.

Torino possiede ben 5 parchi fluviali in cui conserva l’antico ecosistema dei corsi d’acqua che lo attraversano, ed è ugualmente ricca di falde sotterranee, come l’etimologia di alcuni quartieri, come “Nizza Millefonti” rivela. Ne sono testimonianza i turet, le fontane dalla bocca a forma di toro che punteggiano numerosissime la città.

Torino ha una lunga storia con le sue acque. Oltre che per difenderne le mura, per servire gli orti e i mulini oltre di esse, che ora sono tessuto urbano, le acque di Torino venivano anche utilizzate per creare scenari per le feste, per lavare, per portare via l’immondizia, per trasportare merci, per le fabbriche e concerie, per i mulini, per allagare le gallerie del nemico durante gli assedi.

Le bealere o doire solcavano una volta numerosissime Torino e il suo circondario. La loro costruzione iniziò già nel tardo medioevo, e alcune ancora esistenti risalgono addirittura a prima del Quattrocento. Per rendersi conto della quantità di acque che il visitatore incontrava arrivando a Torino basti pensare che le bialere attualmente ancora visibili a Torino sono ben diciannove. La bialera Cossola, che fino a non molto tempo fa solcava ancora la città si divideva addirittura in cinque rami. Altre bealere, che irrigano i comuni limitrofi, come la bealera di Orbassano, la bealera di Grugliasco, la bealera di Collegno, quella di Pianezza solcano l’area metropolitana, giungendo talvolta fino alla periferia di Torino.

 

I torét, le fontanelle simbolo di Torino

 

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E se vi dicessimo che il simbolo di Torino non è la Mole Antonelliana, ma i torèt? Cosa sono i “torèt”? Ve lo sveliamo subito. Si tratta delle tipiche fontanelle color verde bottiglia che come bocchettoni d’acqua hanno una testa di toro. Il torèt compare sempre più spesso nei negozi che promuovo i souvenir di Torino accanto ovviamente a quelli raffiguranti la Mole, il grande classico dei gadget.

I piccoli toretti che dispensano acqua ai turisti e ai torinesi sono 813 e sono disseminati in tutta la città di Torino. Alcuni dicono che le fontanelle risalgano alla fine dell’800, altri che dicono che siano state installate più presumibilmente all’immediato dopoguerra, nei primi anni ’30. Ad ogni modo, tempo fa a Torino non c’era giardinetto pubblico che non aveva il suo torèt che riforniva di acqua del Pian della Mussa la città. Oggi i torèt sono legati alla rete idrica di Torino per un miglior funzionamento e per evitare lo spreco d’acqua.

Negli scorsi anni è nato un progetto che si chiama “I Love Toret” che ha come obiettivo quello di mappare tutte le fontanelle della città. l’iniziativa offre inoltre la possibilità di adottare gratuitamente uno o più torèt. È stata inoltre sviluppata un’applicazione per iphone (che si chiama, iTorèt) per poter rintracciare più agevolmente le fontanelle in giro per la città. L’obiettivo è quello di preservare questo simbolo di Torino che sta molto a cuore agli abitanti del capoluogo piemontese.

I torinesi, infatti, sono molto legati alle fontanelle verdi come dimostrano alcuni recenti episodi. C’era stata una proposta del comune riguardo un progetto per far ridipingere da artisti famosi i torèt che vide l’opposizione della città e la richiesta di lasciare ai toretti per l’acqua il classico colore. In un’altra occasione il comune annunciò di volere rimpiazzare in alcune zone del centro i torèt tradizionali con alcuni nuovi modelli stilizzati. Anche questa proposta non venne accolta in modo favorevole dalla cittadinanza che riaffermò ancora in questa occasione il proprio legame alla versione tradizionale delle fontanelle.

Insomma, i torèt grazie alla perseveranza dei torinesi si sono salvati da diversi tentativi di cambiamenti e rimozioni, rimanendo così uno sei simboli più rappresentativi di Torino.

 

La fontana dell’Eremo dei Camaldolesi

 

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Non c’è niente di magico nell’obelisco situato nel piazzale difronte all’Eremo dei Camaldolesi e a poche centinaia di metri dai ripetitori della Rai. Si tratta della Fontana dell’Eremo, purtroppo in disuso da decine d’anni, abbandonata a se stessa e da alcuni, per fortuna pochi, spacciata come simulacro, non ben spiegato, legato alla Torino Magica che spesso non risponde alla semplice curiosità di sapere cos’è quello o cos’è quell’altro.

Oggi, guardandola si rimane indifferenti e senza risposte, scritte imbrattano la sua superficie, il tempo la sta consumando e il compito più nobile che ricopre è quello di far compagnia a chi, vicino a lei, aspetta l’arrivo dell’autobus diretto verso Torino.

Il suo scopo però era ben altro, lasciare ai posteri il ricordo di una grande conquista che oggi a molti farebbe ridere: il municipio di Torino aveva portato l’acqua al di sopra dei 400 metri della collina Torinese, luogo che non era mai stata troppo generoso nel dispensare acqua.

Da decenni esisteva il problema dell’approvvigionamento dell’acqua in una zona che, nel dopoguerra, si configurava ideale per lo sviluppo residenziale e per le gite dei Torinesi che, grazie alla diffusione dell’automobile, guardavano alla collina come luogo di distrazione dalla sempre più caotica ed industriale Città di Torino.

Erano gli anni in cui l’Azienda Acquedotto Municipale, dopo la sensata concentrazione della gestione delle acque alla cosa pubblica, aveva il dovere di portare l’acqua dove non c’era, per rispondere alle necessità reali dei suoi cittadini, e dove avrebbe potuto arrivare per favorire lo sviluppo della città.

Nasce così l’ esigenza di costruire l’acquedotto sull’Eremo, un ambiziosa opera che, senza discostarsi dal preventivo originale di 50 milioni di lire, consisteva in lunghe tubature, una stazione di pompaggio con una adiacente vasca, una seconda vasca di compensazione in cima al colle e la Fontana dell’Eremo a ricordo dell’allora più grande opera costruita per le necessità idriche della collina torinese.

La Fontana dell’Eremo, opera di Mario Dezzuti, fu inaugurata in pompa magna il 30 maggio 1955 con una cerimonia che vide la partecipazione delle autorità cittadine, dell’ingegnere autore dell’opera Salvatore Chiaudiano, del presidente dell’Acquedotto Municipale, del Sindaco di Torino Peyron, dei soliti ministri presenti ad ogni cerimonia importante e del Cardinale Fossati che benedì la Fontana.

Nessuno però sapeva che questo piccolo monumento a forma di fontana sarebbe finito nel dimenticatoio nonostante le pure e buone intenzioni.

Gli applausi, le strette di mano e i reciproci complimenti festeggiavano un’opera importante e una fontana che avrebbe dovuto dare conforto e ristoro ai viandanti che si sarebbero trovati in cima al Colle dell’Eremo durante le loro gite domenicali o di ritorno verso casa.

 

I parchi fluviali di Torino

 

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Il nome di Torino, lo sappiamo, ha a che fare con le montagne. Ma una caratteristica geografica ancora più netta della nostra città, rispetto alla sua vicinanza alle montagne, è la presenza dei fiumi. Al plurale, perché non c'è solo il Grande Fiume, il Po, a scorrere nel territorio torinese.

Tralasciando i canali, le (mille) fonti, le antiche sorgenti e i pozzi sparsi per la città in epoche più o meno lontane, oltre al Po a Torino scorrono infatti anche la Dora Riparia, il Sangone e lo Stura di Lanzo.

Lungo i corsi di questi fiumi si trovano a Torino diversi cosiddetti “parchi fluviali”, ovvero aree verdi comunali sulle sponde dei corsi d'acqua, con spazi per attività ginniche e relax, percorsi ciclabili, aree gioco per i bambini e anche attività commerciali (come i tipici chioschi), oltre a una grande varietà dal punto di vista della flora e della fauna.

La loro importanza per la cultura e l'ambiente di Torino è testimoniata perfettamente dalla recente nomina da parte dell'Unesco a “patrimonio mondiale dell'umanità” per i Parchi del Po e della Collina Torinese, che riguarda non solo la città ma numerosi Comuni piemontesi.

Ecco quali sono i 5 parchi fluviali più grandi di Torino

 

parco del meisino (450.000 mq)

Si trova alla confluenza dello Stura nel Po, nella parte nordorientale della città, e insieme all'Isolone Bertolla forma la Riserva Naturale speciale Meisino e Isolone Bertolla; il nome di questo parco deriva da “mezzino”, ovvero terra di mezzo tra il fiume e la pianura sotto Superga. In passato questa zona era soggetta a numerose inondazioni; nel 1952 il problema è stato risolto con un argine in muratura, che insieme alla Diga del Pascolo forma un invaso utilizzato per creare energia idroelettrica. Oggi il suo tratto distintivo di maggior interesse è nell'ex galoppatoio militare, dove si possono ancora ammirare e cavalcare i cavalli del locale maneggio.

parco colletta (448.000 mq)

Molti lo chiamano “della Colletta”, ma il suo vero nome è solo “Parco Colletta”. Il suo nome deriva dal Lungodora che lo attraversa, intitolato al patriota napoletano Pietro Colletta. Si trova nella zona lungo il corso occidentale del fiume Po tra la confluenza della Dora Riparia, a sud, e della Stura di Lanzo, a nord, al confine con il Parco della Confluenza (vedi oltre). Fu fatto realizzare dai Savoia nel Seicento come riserva di caccia, e fu nominato “Regio Parco”, ma l'assedio di Torino del 1706 lo rovinò e da queste parti i Savoia realizzarono le Manifatture Tabacchi. Oggi il suo “punto di forza” è il percorso ciclabile che lo attraversa, verso San Mauro su un lato e verso i Lungodora sull'altro.

parco dell'arrivore (204.000 mq)

Insieme al Parco Colletta, fa parte dell'Area attrezzata Arrivore e Colletta. Situato sulla sponda destra dello Stura, nella parte nord della città; il nuovo volto del parco è stato inaugurato del 2009, ma la sua storia è molto antica. Nel Settecento la strada dell'Arrivore si chiamava Reale Strada di Chivasso: all'epoca in quest'area si trovava una cascina che era di proprietà del signor Falchero (da cui il nome di un borgo di Torino in cui aveva molti possedimenti). La cascina era La Rivore, come attestano gli antichi archivi, da cui il nome della strada e del parco. Tra i punti di forza, un campo da calcio e uno da pallavolo, entrambi liberi e a disposizione.

parco della confluenza di piazza sofia (151.000 mq)

Anche questo parco si trova nella stessa zona dei precedenti. Situato tra piazza Sofia e il Lungostura Lazio: la confluenza del nome è quella tra Stura e Dora. Il punto di forza di questo parco è sicuramente nella ricchezza fioristica: qui ci sono i salici sulle rive, gli ontani negli stagni lungo i rigagnoli, le querce ed altre essenze che si sviluppano senza interventi di taglio e che formano una fisionomia ad alto fusto.

parco millefonti (143.560 mq)

Tra i parchi fluviali più grandi è l'unico nella zona sud di Torino. Si trova infatti lungo il Po nel tratto di corso Unità d'Italia. A parte le mille fonti (che abbiamo spiegato in questo articolo), oggi non più esistenti, sulla sponda occidentale del Po in zona Molinette si trova questo parco con giardini, aree per gli esercizi ginnici, aree gioco e percorsi ciclabili e pedonali che, passando sotto il Ponte Isabella, conducono fino al parco del Valentino.

 

fonti:

http://www.torinotoday.it/cronaca/parchi-fluviali-piu-grandi-torino-fiumi.html

 

Le fontane di Torino

 

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Torino non è particolarmente ricca di zampilli anche se, in tempi differenti, ha visto progettare non poche fontane. Nel periodo napoleonico, quando la città vagheggiava una certa rassomiglianza con la più vasta Parigi, se ne progettarono quattro, fra cui una in piazza Paesana, l'attuale piazza Savoia, e una in piazza Imperiale, come allora si chiamava piazza Castello, poi non se ne fece nulla. In piazza Carlo Felice, di fronte alla stazione di Porta Nuova, si alza fra gli alberi del parco un bel pennacchio d’acqua, ma è più uno zampillo proiettato verso il cielo che una fontana vera e propria. In piazza d'Italia, l’attuale piazza della Repubblica-che i torinesi chiamano sbrigativamente Porta Palazzo - in occasione delle feste organizzate per lo Statuto, nel 1854. venne eretta una fontana di zinco, illuminata nottetempo da fiammelle di gas e da globi di vetro colorato. Autore di tale fantasmagoria era Giacinto Ottino. La fontana venne poi rimossa nella nuova sistemazione della piazza. Stessa sorte fu riservata alla fontanella di Sant'Eusebio, che prendeva nome da una chiesa che non c’è più, in via Venti Settembre sull’angolo con via Santa Teresa, smontata e non più rimessa al suo posto; oggi ostacolerebbe l’intenso traffico in questo incrocio. Il ricordo di quella simpatica fontanella rimane in poche fotografie d’epoca, abbastanza ricercate dai collezionisti.

Più imponente e per certi versi misteriosa, la fontana monumentale in piazza Solferino, conosciuta dai torinesi come fontana Angelica. Opera del 1930, firmata dallo scultore Giovanni Riva, questo singolare monumento è un tributo del ministro plenipotenziario Paolo Bajnotti alla madre, signora Angelica Cugiani. Secondo un progetto iniziale, la fontana doveva essere collocata presso il Duomo, ossia in piazza San Giovanni, successivamente si pensò che fosse più adatta, anche per la struttura, a piazza Solferino, di cui è divenuta il simbolo: zampillo al centro e statue poste in semicerchio. I gruppi statuari, che si prospettano come “quinte” del gioco d’acqua degli zampilli, vogliono raffigurare le stagioni e, soprattutto le immagini femminili, hanno spesso suscitato commenti per la loro evidente opulenza. Come altri monumenti torinesi, questa fontana è stata descritta quale “elemento magico”, ricca di significati esoterici oscuri ai più ma chiari per gli esperti, con una simbologia iniziatica che vorrebbe riallacciarsi alla suprema conoscenza e a riti tipici della Massoneria.

Nell’agosto del 1942, nottetempo, alcuni individui si radunarono presso la Fontana Angelica, con paramenti sacri e candele accese. Vennero accompagnati al commissariato di polizia per una breve sosta e rispediti a casa.

Più spaziosa, in un angolo discreto del Valentino, la fontana monumentale dei Mesi e delle Stagioni, opera dell'architetto Carlo Ceppi per l’esposizione del 1898. Con suggestivi giochi d’acqua, è ricca di statue firmate da Luigi Contratti, Cesare Reduzzi, Francesco Sassi, Cesare Biscarra, Gino Cornetti ed Edoardo Rubino. Composizione romantica utilizzata come sfondo per alcune scene di film, soprattutto alla fine degli anni Trenta.

 

La puzza a Torino e le doire di Emanuele Filiberto

 

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“Petite ville, située en un lieu fort aquatique, qui n’est pas trop bien bâtie, ni fort agréable, quoiqu’elle soit traversée par un ruisseau qui en emporte les immondices.”

Così Michel de Montaigne, visitando Torino nel 1581, parla della “doira gròsa” che scorreva lungo l’antica Via Decumana, l’attuale Via Garibaldi, facendo con tutta probabilità allusione (“ni fort agréable”) al cattivo odore che emanava da Borgo San Donato, dove, grazie alla disponibilità di acqua per irrigare, per smaltire i rifiuti e fornire forza motrice si moltiplicarono gli orti, le concerie, i mulini e le botteghe di artigiani, oltre che scuderie con cavalli e carri, cattivo odore che si prolungava lungo la via solcata proprio in mezzo dalla Doira Grossa attraverso cui si facevano refluire gli scarti, oltre che le immondizie urbane. Né bastava questo. Il transito dei cavalieri e dei pedoni e dei carri lasciava una coltre di sterco che oltre a contribuire ad aggravare l’odore rendeva disagevole il cammino per una che aveva la larghezza totale di soli 4-5 metri e che per il suo andamento alquanto irregolare offriva scarse zone transitabili. Una grida del Magistrato Sopraintendente alle strade della Città datata 1605, dice tra l’altro: « siccome il gran numero di carri i quali entrano in questa Città sono causa in parte che le strade principali, e più di tutte la contrada Dora Grossa, siano mal nette e incomode a transitarsi, così si ordina a chiunque transiti di aiutare a nettarle e in specie alli bovari sia di questa Città che forestieri ».

L’incanalamento della Doira per la via fu realizzato per volontà di Emanuele Filiberto: nel 1573 egli ordinò di canalizzare la vicina Dora e l'acqua di altri canali cittadini per utilizzarla al fine di ripulire i vicoli della città. In piemontese la parola doira, infatti, indica un piccolo torrente o rigagnolo e poiché la nuova doira realizzata lungo la via era divenuta uno dei principali canali della città, la strada prese da essa la sua denominazione storica. A questo scopo i eresse sulla sponda della Dora Riparia un edificio detto il Casotto, con lo scopo di raccogliere acqua dal fiume e riversarla a mezzo di canali attraverso la città, sia per la nettezza urbana, sia per eliminare rapidamente l'accumulo di eventuali nevi in inverno, sia per rinfrescare la calura nella stagione estiva, ma anche e soprattutto per poter intervenire immediatamente ed efficacemente in caso di incendi.

Le doire sono canali caratteristici della campagna piemontese, ed erano anche il timore e l’incubo di molte sirventi e mondine. Se ne ricordava ancora negli anni ’50 qualche anziana sassolese che ogni anno, con altre migliaia di donne, andava a fare la stagione nelle risaie vercellesi, da cui tornava portando sulle spalle un sacco di chicchi. Quelle buone vecchie parlavano con spavento del canale Cavour, dove - dicevano - l'acqua era così alta e la corrente così forte che non c'era scampo per chi vi cadesse dentro, com'era successo a certe di loro. Anche le sirventi, cioè le bambine in affitto che venivano cedute ai poderi dalle famiglie numerose in cambio di vitto e alloggio, erano spaventate dalle doire lungo i cui argini scivolosi erano mandate a lavare i panni, con le loro soche, gli zoccoli di legno, e la cui corrente poteva ghermire in un attimo.

Ma a Torino, come abbiamo detto, se ne trovavano anche in città. Le città pre-industriali non erano posti puliti. Ancora fino a tutto Ottocento, gran parte delle strade non era pavimentata, e le persone procedevano – a piedi nudi, con stivali o se erano fortunati a cavallo – camminando in una poltiglia fatta in parti eguali di deiezioni umane, animali, fango e scarti domestici. Con la neve o la piogga la situazione peggiorava ulteriormente. La doira al centro della ex Via Decumana era così profonda che veniva attraversata da ponticelli, e nell’Ottocento, quando l’acqua tracimava per gli ingrossamenti di primavera si potevano vedere le dame che venivano portate in braccio sul ponticello dai loro cavalieri per non bagnarsi l’orlo del vestito.

La doira di via Doragrossa sparì nel 1823 quando venne decretata la costruzione di un canale sotterraneo che raccogliesse le acque della doira e gli scarichi delle case che si affacciavano sulla via. Se si esclude un intervento isolato nella contrada di Po nel 1726, il canale fu il primo di una lunga serie di provvedimenti che riguardarono, lungo tutto l'ottocento, la questione dell'igiene cittadina e che portarono, nel 1893, alla decisione di costruire una fognatura generale.

 

fonti:

https://www.icanaliditorino.it/le-doire-e-doragrossa

http://www.3confini.it/Foto%20Piossasco%201/Sangonetto2.htm

Museo Torino, “Canalizzazione sotterranea di Via Dora Grossa”

http://www.druent.it/curiosita/LaBialera.htm

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, versione eBook, posiz. 32,5

 

Diciannove doire scorrono ancora a Torino

 

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Per quanto possa sembrare sorprendente, Torino è ancora “irrigata” da ben diciannove bealere o doire, che sono il ricordo di un’epoca in cui vaste zone della città erano ancora agricole e coltivate ad orti o ospitavano mulini, concerie e altre manifatture che si avvantaggiavano dell’acqua dei canali. Man mano ci si allontana dalla città, nella misura in cui le coltivazioni si riappropriano degli spazi, le bealere conservano la funzione irrigua; molte di quelle che dal medioevo bagnano il contado torinese funzionano ancora oggi.

Diga e imbocco canale Meana in c.so Umbria.

Il canale Meana, che alimenta la centrale idroelettrica dell’Environment park, è il solo sopravvissuto della rete idraulica dei secoli scorsi. Esso scorre completamente coperto e sono visibili solo l’imbocco, le opere di presa e la traversa che sbarra la Dora all’altezza di corso Umbria alle spalle dell’ospedale Amedeo di Savoia.

Bealera Putea alle Vallette

Una delle ultime bealere che scorre per un lungo tratto scoperta nel territorio torinese è la Putea. Essa nasce a Pianezza, attraversa Collegno, ed al partitore di Villa Cristina, in località Savonera, si divide in due rami paralleli che percorrono i campi attorno alla ex cascina Cavaliera, raggiungendo l’estremo angolo occidentale del quartiere Vallette. ll ramo principale è quello di sinistra, che interessa il margine urbano settentrionale; quello di destra invece si dirige verso la cascina Maletta e corso Molise. E' visbile lungo la passeggiata ciclopedonale ricavata dall’antica strada delle Vallette.

Cascina Maletta, strada Vicinale delle Vallette

Il ramo di destra della Putea torna alla luce alla cascina Maletta appena oltre corso Molise, costeggia la strada delle Vallette e si inoltra al parco dedicato alle Vittime delle Foibe. Circa la reale attività attuale di questo ramo servirebbe conferma.

Bealera Putea in Torino

Si compone di 4 rami: via Sansovino, piazza Manno - via Refrancore - via Reycend - strada del Carossio. La bealera attraversa i quartieri torinesi settentrionali in massima parte coperta, per evidenti ragioni di igiene e sicurezza, riemergendo soltanto in alcuni brevi tratti. Un primo punto di osservazione, sebbene consista in ben poca cosa, si trova nel varco tra due fabbricati all'intersezione con via A. Sansovino. Seguendo poi idealmente il sedime dell’antica strada della Perussia, la bealera ritorna alla luce per qualche decina di metri in piazza G. Manno e, poco più avanti, in via Refrancore.

Dopo un chilometro si intravede nuovamente la bealera, vegetazione permettendo, all'interno di uno spazio verde privato di via E. Reycend e poco oltre, con soddifazione ben maggiore, al fondo di un interno di via Orbetello e di via G. Vaninetti e lungo strada del Carossio. Per completezza occorre aggiungere che l'acqua scorre anche a fianco dell'impianto sportivo di via Massari, seppur sotto robuste griglie ormai nascoste dalle sterpaglie. La sopravvivenza degli alvei urbani della bealera Putea è minacciata dai cantieri del tunnel ferroviario di corso Grosseto aperti nel 2017.

Strada della Venaria 148

Al confine del territorio comunale torinese la strada è intersecata da una roggia che proviene da ovest. Essa costeggia un capannone industriale prossimo all'ex cascina Panatera, proseguendo poi chiusa tra i fabbricati. Dovrebbe trattarsi di una ramo della bealera Barola, oggi percorso dalla Putea. L'acqua dovrebbe esservi immessa per lo più la domenica.

Via G. Amati (Venaria Reale)

Nel comune di Venaria Reale, subito prima del ponte della Tangenziale, compare sulla destra di via G. Amati un fosso irriguo, probabil-mente derivato anch'esso dalla Barola. Bagna un orto e percorre il parco pubblico delimitato dalla suddetta via G. Amati, dalla Tangenziale e da strada Lanzo; qui fino a pochi anni fa si trovava la cascina Arnaldi, .

Via Reiss Romoli

Tornando a Torino, la bealera Barola scorre ancora per un tratto a cielo aperto ai piedi del ciglione che da via Reiss Romoli digrada verso le basse di Stura. La scavalca la strada che conduce alla cascina Boscaglia-Canonico, ma è in buona parte nascosta dalla vegetazione.

Parco Rubbertex

Per completare il quadro dei corsi d’acqua urbani della zona Nord di Torino, va menzionato il ramo Campagna della bealera nuova di Lucento nel parco Rubbertex, ossia l’area verde delimitata da corso Grosseto, via Paolo Veronese e dalla Tangenziale dell’aeroporto. Le bealere di Lucento non sono più attive da anni, ma il tratto in questione dovrebbe oggi fungere da scaricatore della Putea e talvolta - magari per un breve tempo dopo un forte temporale - è possibile ancora vedervi scorrere l'acqua.

Strada della Pellerina

Il quadrante occidentale di Torino un tempo era attraversato da molte bealere, ma oggi sono quasi tutte scomparse. Del canale della Pellerina restano soltanto la traversa ed il condotto scaricatore, entrambi riconvertiti in funzione della piccola centrale idroelettrica realizzata di recente. Tuttavia lungo la vecchia strada della Pellerina - che continua idealmente il corso Appio Claudio dopo via Pietro Cossa - scorre una roggia che irriga i terreni nelle basse di Dora che si estendono attorno alle cascine Tetti basse di Dora, Cascinotto e Mineur. Essa prende acqua dal ramo detto «Canale» della bealera Putea. Si dirama da quello principale a Collegno dove attraversa la Dora e fluisce verso il confine torinese.

Strada della Berlia

Circa un chliometro più avanti, ma già nel territorio di Collegno, la Putea-canale delimita il perimetro settentrionale del campo di volo dell’Aeroclub torinese. Da essa deriva il fosso che costeggia strada della Berlia, passando davanti alla cascina omonima ed alla gemella Grangia Scott, per scomparire poi nel sottosuolo poco prima nella vicina rotonda.

Strada del Portone

Ultima, ma non certo ultima per portata, continuità di adacquamento e prospettive di sopravvivenza, è la bealera che scorre scoperta per oltre un chilometro lungo strada del Portone a fianco del Cimitero Parco di Torino sud. Essa è parte del sistema irriguo, formato dalle bealere di Grugliasco e di Orbassano, che serve una vasta area agricola che si estende da Alpignano al Po. Sul lato opposto del camposanto un ramo minore della bealera di Grugliasco determina il confine con il comune di Beinasco; è visibile seguendo la passeggiata ciclopedonale di strada delle Lose. (16) Qualche traccia di fossi irrigui si trova infine nelle vicinanze della cascina Tetti Nigra e tra gli orti sparpagliati dietro gli uffici della Motorizzazione civile di corso Orbassano.

Prima di inabissarsi nel sottosuolo di Torino e della Fiat Mirafiori la bealera fa ancora capolino tra i palazzi in uno stretto passaggio nei pressi di corso Orbassano 448. (17)

Strada del Castello di Mirafiori

Infine la bealera di Grugliasco si getta nel Sangone nei pressi del mausoleo della "Bela Rosin", ritornando alla luce per qualche decina di metri nel parco sulla scarpata che digrada ver-so il torrente.

 

fonti:

https://www.icanaliditorino.it/bealere-ancora-attive-a-torino

 

La vita quotidiana e il fiume: ricordi del Sangone

 

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Il Sangone, così familiare ai Piossaschesi, faceva parte integrante della vita del paese. Non si poteva concepire l'idea del borgo senza pensare al suo corso d'acqua: essi erano un duo inscindibile.

Il Sangone per gli abitanti del luogo era il loro torrente ed era diventato per costoro come un amico e fonte di divertimento e di svago per i ragazzi che si dilettavano ad andare a pescare colà. Calzando scarpacce brutte e logore, camminavano nell'alveo, toccando con le mani sotto le pietre da dove di tanto in tanto saltava fuori qualche ranocchia terrorizzata che con un balzo fulmineo si rituffava prontamente in acqua.

Sovente rimaneva loro nel palmo delle estremità superiori qualche pesciolino che non troppo furbamente si era lasciato prendere.

I Piossaschesi consideravano il Sangone come un qualcosa di vivo e quando i monelli si divertivano a girovagare nel suo letto, egli li accoglieva invitante. Essi erano felici di aver trovato un nuovo compagno di giochi, un confidente alquanto inusuale, ma al quale si erano profondamente affezionati e ascoltavano la sua voce sempre uguale, cadenzata, garrula, argentina. La loro era un'amicizia di sempre.

I fanciulli conoscevano ogni tratto del suo percorso, ogni sua pietra, ogni particolare delle sue sponde su cui crescevano alcuni salici piangenti presso i quali, durante le sere estive, le raganelle tenevano il loro concerto.

I ragazzetti correvano verso il Sangone andandogli incontro fiduciosi, scendendo per i sentierucoli in discesa ed esso era là che li attendeva e sembrava invitarli ad entrare nel suo alveo per divertirsi con loro.

II caro amico torrente! Ora gaio, ora brontolone, ora asciutto durante la stagione estiva e talvolta purtroppo anche minaccioso come succedeva di tanto in tanto quando si ingrossava dopo lunghi periodi piovosi; le acque sempre così limpide diventavano allora limacciose, assumendo un colore marrone molto intenso per il fango che trasportavano.

Il rumore si faceva fortissimo, aggressivo, intimidatorio e sembrava impossibile che un simile torrentello potesse contenere tanta acquai i ragazzi si intimorivano quando, dopo giorni di pioggia sentivano il forte rumoreggiare del Sangone: sapevano che era adirato e avevano paura di lui, perché erano a conoscenza che esso, che ispirava di solito tanta sicurezza e confidenza e che era sempre così tranquillo, in quei momenti travolgeva e portava via ogni cosa lungo il suo percorso.

Anch'esso come tutti aveva i suoi momenti neri.

Una volta il Sangone tanto familiare ai Piossaschesi aveva fatto la sua vittima: una donna del paese, volendo suicidarsi, si era buttata nel torrente in piena e le acque travolgenti l'avevano portata via in un attimo ed era stata trovata morta annegata alcuni giorni dopo a una grande distanza dal luogo dove aveva compiuto il tragico gesto.

La notizia aveva sconvolto gli abitanti del posto e soprattutto i bambini: essi guardavano il loro amico di sempre, il loro compagno di giochi col quale si trovavano tanto bene e che dava loro una sensazione di profonda sicurezza e sembrava loro impossibile che fosse diventato un assassino.

Eppure era proprio così. Essi conoscevano solo il suo aspetto buono e non avevano mai pensato che potesse trasformarsi in uno strumento di morte.

Verso la fine del secolo XIX, durante una piena, il Sangone aveva rotto gli argini al pilone "San Giorgio", l'acqua si era riversata sulla strada inondando la campagna e allagando i cascinali dei dintorni. I maiali che si trovavano in un porcile non distante dal torrente piossaschese erano annegati e i tronchi di una catasta di legna, adiacente al corso d'acqua, erano stati trovati alcuni giorni dopo presso la cascina Femesa.

Tre mulini, una segheria e una fucina erano situati sulle rive del Sangone, nelle cui acque i macellai del paese lavavano le trippe, i panettieri bagnavano lo spazzatoio che serviva loro per pulire il forno, i contadini portavano ad abbeverare le mucche e le massaie risciacquavano i panni inginocchiate sulle panche da lavare. Le Piossaschesi dopo aver insaponato la biancheria a casa loro in un mastello, la deponevano in secchi, indi, si recavano al torrente trasportando il tutto su una carretta a mano.

D'inverno il Sangone era gelato e le lavandaie erano costrette a rompere la lastra di ghiaccio che si era formata sul grosso rivo per poter posizionare la panca.

Alcune si portavano colà un pentolino d'acqua calda, dove ogni tanto introducevano le mani che erano diventate rosse e irrigidite a causa del lavare per ore con quel freddo intenso. Terminavano di sciacquare con le ginocchia gonfie e indolenzite per essere state appoggiate troppo tempo sul duro legno.

Che fatica alzarsi da quella scomoda posizione e che mal di schiena!

Talvolta il sapone che aveva il suo posto sulla panca, divenuto sdrucciolevole perché bagnato, scivolava di mano cadendo in acqua e allora le massaie tastavano con le dita sul letto del torrente per cercare di ripescare il pezzo detergente in tutta fretta, affinché non si sciogliesse troppo; e se talvolta succedeva che allorché lo si tirava fuori, scappasse nuovamente e ricadesse un'altra volta nell'alveo, si doveva ripetere l'operazione da principio.

Sovente le lavandaie bisticciavano fra loro, perché una sporcava l'acqua all'altra, ma i litigi terminavano ben presto e si vedevano le donne aiutarsi vicendevolmente a strizzare le lenzuola.

Chi non voleva portare la panca, andava al lavatoio pubblico in una zona chiamata "Riva di Po"; qui c'era una lunga lastra di pietra dove le Piossaschesi potevano sciacquare i panni. Non ci si doveva inginocchiare, ma si operava in piedi ed era quindi meno faticoso e non c'era pericolo di farsi venire "le ginocchia da lavandaia" tutte gonfie e piene di liquido come era capitato ad alcune donne dell'abitato.

Questo luogo era perennemente affollato e nel mese di maggio pareva che colà nevicasse, perché cadeva copiosa la bambagia proveniente dai pioppi che crescevano nelle vicinanze.

La cotonina scendeva lentamente dall'alto e volteggiando leggera scompariva nell'acqua.

Nelle cascine di tanto in tanto si faceva il bucato con la cenere e le donne si affaccendavano intorno a una grande tinozza che si ergeva in mezzo a loro come un gigante. La biancheria veniva poi stesa ad asciugare al sole nei prati in lunghe file candide che svolazzavano allegramente mosse dal vento.

 

fonti:

Miranda Cruto, Piossasco com'era, Edizioni e Cultura e Società - marzo 1992

 

I fiumi che scorrono sotto Torino

 

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Torino è una città speculare, i cui edifici si rispecchiano sul piano verticale In una serie di piani sotterranei, gli infernotti e una fitta trama di gallerie. sotto le chiese dei vivi ci sono le chiese dei morti, le antiche cripte in cui venivano inumati i nobili o i ricchi borghesi e i religiosi. Sotto la Cittadella esiste una città sotterranea. Sotto la Torino dei gelati esistono gli immensi sotterranei della Torino delle ghiacciaie. E sotto i fiumi di superficie scorrono dei fiumi sotterranei.

La rete di acque sotterranee di Torino nacque nell’Ottocento, quando molti dei corsi d’acqua che solcavano la periferia di Torino che ormai era diventata pieno centro abitato furono “tombati”, cioè fatti scorrere in tragitti sotterranei che nel tratto finale si immettevano nel sistema idrico della città.

Queste misure furono prese a seguito del venir meno della loro utilità per le attività produttive. I residenti lamentavano i frequenti straripamenti lungo le strade, le infiltrazioni nei sotterranei dei fabbricati e, soprattutto nella stagiona estiva, i cattivi odori emanati dai fossi a causa dei rifiuti di ogni sorta che vi venivano gettati, e rimarcavano il costante pericolo che le gore costituivano per bambini, pedoni e veicoli. In altre parole fossi e rogge non erano più ritenute compatibili col decoro e con l’igiene dei nuovi quartieri che si andavano formando. Spesso esse interrompevano il disegno delle nuove vie e piazze e, poichè scorrevano sopraelevate rispetto al piano stradale, la loro copertura risultava molto onerosa. Parallelamente crescevano i bisogni d’acqua per il lavaggio dei cavi sotterranei della rete fognaria bianca e nera, per l’annaffiamento di strade e giardini, per lo sgombero della neve, per sussidio nello spegnimento degli incendi e per altri usi pubblici, che potevano utilizzare il corso sotterraneo. Persino la Dora, alle porte del centro di Torino ancora nel 1980 era stata intubata e solettata per oltre 3 chilometri.

Il primo di questi fiumi tombati è il torrente Ceronda, che scorre tuttora sotto la città. Uno degli ultimi – nel 1933 – è stato la bealera Cossola, che in città si ripartiva addirittura in cinque rami, di cui alcuni sono stati soppressi, ma altri sono rimasti e continuano a scorrere sotto i nostri piedi. La doira di via Doragrossa sparì nel 1823 quando venne decretata la costruzione di un canale sotterraneo che raccogliesse le acque della doira e gli scarichi delle case che si affacciavano sulla via. Se si esclude un intervento isolato nella contrada di Po nel 1726, il canale fu il primo di una lunga serie di provvedimenti che riguardarono, lungo tutto l'ottocento, la questione dell'igiene cittadina e che portarono, nel 1893, alla decisione di costruire una fognatura generale.

 

 

 

 

 

LA TORINO SOTTERRANEA

A quindici metri sotto il livello del terreno, una rete intricata e fitta di gallerie sotterranee si nasconde sotto il Capoluogo piemontese. Tra cunicoli militari del Settecento (celebre quella in cui morì Pietro Micca nell'assedio del 1706), rifugi antiaerei, ghiacciaie regie e infernotti, Torino sotterranea merita una visita. 

 

La Città invisibile

 

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Torino si prospetta di forte suggestione nel suo sottopalco nascosto, con un sorprendente dedalo di sotterranei che, senz’altro, meriterebbero di essere conosciuti, almeno per alcuni tratti, similmente a quanto avviene per altre grandi metropoli europee, come ad esempio Londra e Parigi, città che hanno ben scandagliato il proprio sotterraneo per costruirvi ferrovie metropolitane ben collaudate, che ogni giorno trasportano migliaia di persone. Per una serie di ragioni, Torino ha visto prospettarsi nel corso degli anni la possibile nascita di una propria metropolitana. I progetti sono stati numerosi, ma di volta in volta accantonati. Così il sottosuolo rimase per i torinesi inaccessibile. La gente che si muove per le vie della città ignora “l’altra metropoli”, quella sotterranea, affascinante e ricca di misteri che sfumano nei secoli.

Arrivando dal Po. appena superati i cosiddetti “murazzi”, come vengono definiti i contrafforti eretti lungo la sponda del fiume, per avvicinarsi al centro urbano, comincia la città invisibile, che si allunga sottoterra, sino a raggiungere e a oltrepassare, in un dedalo di cunicoli, il centro storico.

Il sottopalco di piazza Vittorio Veneto - per estensione è la quarta piazza di Torino, con 34.850 metri quadrati, dopo la maggiore, l’attuale piazza della Repubblica (51.300 metri quadrati), piazza Castello (40.000 metri quadrati) e piazza Statuto (35.000 metri quadrati) - corrisponde all’incirca. alle dimensioni della spianata che si ammira in superficie, da un’arcata dei portici all’altra.

Per molto tempo trovarono in tale sottosuolo parcheggio i carrettini di ferro utilizzati per la raccolta della neve, transenne di legno impiegate per manifestazioni, decine e decine di bandiere di varie nazioni, da esporre per l’arrivo di capi di Stato stranieri, striscioni da stendere da un lato all’altro di via Po e di via Roma, fatti di robusta rete, con appese lettere dell’alfabeto che componevano scritte, usati per la visita che Mussolini compì a Torino nel maggio del 1939. Materiale accatastato, di cui si è persa a poco a poco la memoria, vegliato da pipistrelli che non paiono gradire l’intrusione di estranei.

Infiltrandosi sotto via Po, l’attenzione cresce, soprattutto in prossimità di via San Francesco da Paola dove, sulla sinistra, ci si trova in presenza di un dedalo quasi insuperabile. Sulla destra, imboccando il sottosuolo di via Rossini, ci si immette in un susseguirsi di cantine, di “infernotti”, come vengono definiti, che offrono oggi parecchi ostacoli per le barriere divisorie erette a delimitare in profondità ciascun casamento. Senza questi “confini” si potrebbero raggiungere agevolmente corso San Maurizio, con almeno tre diramazioni per via Montebello, via Tarino e via Sant’Ottavio, in un’area in cui il fascio di luce delle lampade rischiara un orizzonte quasi illimitato, fatto di mattoni rosso cupo e di massi di pietre che paiono scandire le varie età di Torino, così come gli “anelli” indicano gli anni nel legno di un tronco reciso.

Il labirinto s’infittisce in corso Regina Margherita, sotto piazza della Repubblica, con condotti percorribili che s’allungano per via Cottolengo sino alla zona delimitata dalla Piccola Casa della Divina Provvidenza.

 

fonti:

Renzo Rossotti, Guida insolita di Torino, p. 278

 

Le gallerie della Cittadella

 

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Una città sotterranea: così si potrebbe definire l’estesa rete di gallerie e cunicoli che percorrono il sottosuolo di una parte del centro storico di Torino. Quando Emanuele Filiberto riprese possesso dei domini sabaudi dopo Cateau Cambrésis, nel 1559, e dopo avere spostato la capitale da Chambery a Torino, la sua prima cura fu la costruzione di nuove fortezze e il miglioramento di quelle preesistenti.

Per rafforzare le difese di Torino, Emanuele Filiberto affidò all’ingegnere militare Francesco Paciotto da Urbino la costruzione di una cittadella che sostituisse le vecchie mura romane che erano state parzialmente ammodernate dai Francesi.

I lavori vennero iniziati nel giugno 1562, e per la costruzione vennero impiegati i migliori materiali senza badare a spese. Il 17 marzo 1566 Emanuele Filiberto la inaugurò con una cerimonia solenne.

All’interno della Cittadella, nella vastissima area a disposizione, sorgevano i numerosi edifici logistici, caserme epr la truppa, il palazzo del Comando, vari magazzini per le artiglierie e i materiali, la polveriera. Fra tutte le costruzioni interne, la più interessante era senza dubbio il grande pozzo al centro della spianata, disegnato peronalment dal Pacciotto su modello dell’ancor oggi esistente Pozzo di S. Patrizio ad Orvieto, opera del celebre Sangallo. Il cisternone non mancò di suscitare l’ammirazine di molti architetti militari e dei visitatori della fortezza, uno dei quali riferisce: “… esiste il gran pozzo la cui sorgente non inaridisce mai e che è ammirato per la sua ammirevole struttura. Perché, sebbene sia molto profondi (circa 25 metri), i cavalli e le alre bestie possono scendere fino in basso poendosene abbeverare delle centinaia in poco tempo. Nello spssore abbastanza grande della canna in muratura son ricavate due rampe elicoidali di ugual passo e verso. Queste rampe sono così larghe da poter consentire il passaggio di due cavalli affiancati. Si discende da una rampa e si rimonta dall’altra, si ch quelli che montano e quelli che discenodno non si disturbano gli uni con gli altri. La parte sopraterra è adornata di un bellisimo portico ripartito con pilastri, porte, arch e porticelle, con sfndato e intavolatura bellissima. L’interno spazio sino alla stessa profondità scoperta del posso è ditribuito in molte camere, , alcune delle quali servono epr la reclusione dei prigionieri e parecchie per conservare gli arnesi militari.”

La cappella intitolata a an Lorenzo, realizzata a partire dal 1577, comletava gli edifici della fortezza.

Al disotto della Cittadella si sviluppava, per esigenze difensive, una straordinaria città sotterranea di gallerie di contromina per difenderla da attacchi dal sottotuolo. Tutto il complesso si basava su cinque grandi gallerie radiali, le cosiddette Capitali, che avevano origine dall’interno dei tre bastioni esterni (cioè volti verso la campagna) o dai tratti di corina interposti tra questi, in corrispondenza delle due mezzelune del Soccorso e di San Lazzaro. Si accedeva alle gallerie dal cortile della Cittadella per mezzo di lunghe scale;i cunicoli scendvano quindi dritti in profondità sotto il fossato, seguendo di massima la linea della bisettrice del bastione o della mezzaluna da cui prndevano il nome. Ogni capitale era alta poco più di 1,90 metri e larga circa 1 metro pe consentire senza grosse difficoltà il transito ai serventi e ai minatori con i loro pesanti carichi di attrezzi, barili di polvere, cesti di terra provenienti dallo scavo. Era rivestita di mattoni e coperta da uan volta a botte a tutto sesto. Delle due gallerie capitali dirette verso le mezzelune, in corrispondenza del vertice di ogni mezzaluna si dipartiva una galleria che sevuiva l’andamento del muro di scarpa dell’opera e da questa si staccavano verso la campagna una serie di cunicoli che terminavano in una camera da mina; i fornelli delle cariche venivano quindi a trovarsi iln corrispondenza del foisato e miravano a rendre pericoloso e svantaggioso al nemico calare e sostare in esso, anche quando fosse riuscito a scendrvi. Superatoil fosso, e raggiunga la profondità di 14-15 metri, ogni capitale si raddoppiava in due cunicoli distinti aventi utauale direzione ma esattamente posti uno sopra l’altro: i due tratti erano collegati per mezzo di una scala a rampe in muratura ricavata sul lato destro. La galleria infreiore, la Capitale basa, continuava ancora nel sottozuolo per qualche centinaio di metri, frazionandosi su entrambi i lati in numerosi cunicoli lunghi irca 60 metri detti rami di mina, alti 1,3 – 1,4 metri. Ogni ramo terminava con una camera di mina. La minore altezza si giustifiava nella facilità con la quale veniva condotta l’operazione di riempimento una volta caricato il fornello di mina con la polvere: per raggiungere il massimo risultato si voleva infatti che l’esplosione avvenisse verso l’alto; lo sfogo dei gas avrebbe seriamente danneggiato le batterie nemiche senza peraltro creare inconvenienti alla rete sotterranea. Allo scopo il ramo di mina veniva colmato con sacchi ripieni di terra ed assi di legno fino al suo margine posteriore, lasciando solo una breve apertura per l’innesco, in modo chel ‘esplosione trovasse in questa direzione maggiore resistenza rispetto a quella opposta dalla terra soprastante, molto più permeabile all’azione dell’onda d’urto.

La galleria superiore, la Capitale alta, costruita al livello del fossato, a circa 6-7 metri diprofondità, era dotata di una modesta apertura posteriore che sboccava nel osso in corrispnodenza del saliente. >Da questo punto il sotterraneo proseguiva verso la campagna con alcune ramificazioni secondarie, fino al termine, in corrispondenza di una piccola opera di difesa di superficie, chiamata, per la sua forma, “freccia”.

Lo sbocco della galleria nel fossato, anche se rappre-, sentava una semplice via di accesso per una sortita nemica all’interno della rete sotterranea, e come tale esponeva ad un reale pericolo i difensori della fortezza, era di estrema importanza per la ventilazione ed il ricambio d’aria delle gallerie. Le due capitali erano collegate tra loro, e quella alta con la superficie, da numerosi pozzi di aerazione a piombo, con la canna e la bocca superiore a sezione assai ristretta, in maniera da occultarne l’esistenza sul terreno ed impedirne la discesa agli avversari. Attraverso i pozzi di aerazione e gli imbocchi delle capitali alte aperte nel muro di controscarpa, l’aria pura poteva entrare liberamente e favorire una corrente di ricambio per tutti i cunicoli.

In caso di guerra, le esplosioni avrebbero liberato una grande quantità di gas letali irrespirabili contenenti vapori nitrosi ed ossido di carbonio, difficilmente evacuabili, anche perché i pozzi a piombo sarebbero stati otturati preventivamente per evitare che l’assediante, esplorando con cura il terreno, ne scoprisse gli imbocchi ed individuasse gli accessi al sottosuolo.

Si poteva ovviare all’inconveniente con una ventilazione forzata delle gallerie, sistemando alle aperture posteriori degli enormi mantici da fucina che pompavano aria attraverso tubature in latta o in cuoio fino al punto desiderato.

Oltre ai pozzi di aereazione, ne esistevano altri di maggior diametro, posti in corrispondenza delle opere di superficie: tramite essi diventava possibile, dall’alto dei bastioni, comunicare con i minatori all’interno dei cunicoli e dirigere con cura il posizionamento delle mine. I pozzi agevolavano anche il rifornimento delle fortificazioni esterne, senza dover uscire dal perimetro della fortezza.

L’esistenza di due piani di galleria di contromina puòsembrare piuttosto strana, ma occorre precisare che ognuno di essi aveva una funzione ben distinta: il piano superiore serviva principalmente per l’ascolto dei lavori del nemico, in modo da poter poi approntare le contromisure necessarie; l’ascolto fatto a 14 metri di profondità, nella capitale bassa, sarebbe stato poco efficace nei riguardi degli scavi che l’awersario faceva in prossimità della superficie. Inoltre la minore profondità della capitale alta facilitava l’impiego delle mine contro ogni tipo di lavoro d’assedio, persino contro i soldati ben nascosti nelle postazioni avanzate.

Naturalmente la capitale alta era più esposta al pericolo di essere individuata dagli avversari che avrebbero potuto sfruttarla come mezzo di penetrazione nel sistema sotterraneo con assalti di granatieri: non sarebbe stato poi così difficile renderla inefficace con il brillamento di mine o addirittura con gli allagamenti.

Qualora si fosse presentata l’eventualità di un’occupazione avversaria del piano superiore, il livello più basso dei cunicoli avrebbe rappresentato una vera e propria difesa sussidiaria: essendo più esteso di quello superiore, e comunque meno individuabile, consentiva di prevenire le incursioni sotterranee fino ad oltre 400 metri di distanza dalla fortezza.

Tutte le gallerie capitali alte e le altre minori, erano collegate tra loro da una galleria anulare, la Magistrale-, essa seguiva, di massima, il tracciato del fossato al di sotto della strada coperta, per una lunghezza di due chilometri e mezzo: così i minatori potevano agevolmente spostarsi da un settore all’altro della Cittadella sotterranea senza risalire in superficie.

Spesso i cunicoli erano sostituiti, nei punti nei quali la minaccia era meno probabile, da semplici aperture praticate nel rivestimento delle gallerie, dalle quali si sarebbe poi partiti in caso di necessità, con altri rami o gallerie da costruirsi al momento ed armarsi semplicemente con travature in legno.

Tutta la rete sotterranea, infine, era dotata di pozzetti di drenaggio delle acque meteoriche, di cisterne per raccogliere l’acqua potabile, di un gran numero di nicchie praticate nei muri ad intervalli regolari per le lanterne. Altre ampie camere adibite a deposito munizioni o materiali completavano la città sotterranea.

Insomma, un vero e proprio labirinto nel sottosuolo, mantenuto in piena efficienza dagli architetti militari e dai numerosi minatori che lo controllavano giorno dopo giorno. L’assedio del 1706 dimostrerà come sia stata determinante la presenza di un tale apparato fortificato sotterraneo, costato non pochi sacrifici per le finanze del tormentato Stato Sabaudo.

 

Gli infernotti di Torino

 

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C’è stato un tempo in cui la conservazione di cibi e bevande rappresentava per le famiglie un problema di non facile soluzione, vuoi per la quantità di vivande bastevoli per i numerosi nuclei dell’epoca, vuoi per la temperatura necessaria a preservare le scorte alimentari.

In Piemonte, in città come nelle campagne, per far fronte a questi problemi di conservazione, nella seconda metà del XIX secolo si escogitò un sistema ingegnoso e molto efficace: l’infernòt.

Funzione dell’infernotto

L’infernotto è un locale sotterraneo, privo di luce e di aereazione diretta, scavato nella pietra arenaria o nel tufo, al fine di conservare vino e cibarie. Nato insieme alla cantina, presto si differenzia da quest’ultima, diventando una stanza adibita principalmente alla conservazione delle bottiglie di vino.

Il termine dialettale piemontese infernòt pare derivare dall’antico provenzale enfernet, parola che indicava la prigione e dunque una stanza angusta e buia. L’etimologia stessa lo distingue quindi dalla cantina, un locale sì sempre sotterraneo, ma solitamente di dimensioni decisamente più ampie.

Costruiti “alla buona”, da persone spesso prive di nozioni di ingegneria, gli infernotti hanno resistito a decenni di umidità grazie alla consistenza della pietra in cui sono stati scavati, giungendo sino ai giorni nostri.

A camera singola, multicamera, semplicemente scavato nella roccia o dotato di corridoi e scaffali: ogni infernotto era diverso dagli altri. Alcuni erano persino dotati di ghiacciaia, il che consentiva al proprietario di conservare, oltre al vino, anche tipologie di cibo deperibili.

In collina e in città

Gli infernotti nascono nelle campagne piemontesi, vista la tradizione vinicola della Regione, ma presto si sviluppano anche nelle città, a Torino in particolar modo.

Per quanto riguarda le campagne, una zona ricca di infernotti è quella del Basso Monferrato: Ottiglio, Grazzano Badoglio, Vignale Monferrato conservano diversi esempi di queste stanze ricavate sottoterra; l’intero Piemonte è in ogni caso costellato di infernotti: la zona del Canavese e quella delle Langhe astigiane conservano molti infernotti, differenti per modalità di costruzione e dimensioni.

Non tutti sanno però che anche a Torino esistono gli infernotti e qui hanno contribuito ad amplificare le storie misteriose legate alla città ed al suo lato magico. Contrariamente alla loro versione di campagna, gli “inferrotti di città”, che venivano costruiti sotto i palazzi, non limitavano la loro superficie all’area sottostante l’edificio ma si diramavano lungo le strade circostanti. Sembra che alcuni collegassero zone diverse della città e fossero usati in vari periodi storici come nascondigli o vie di fuga dai carbonari, ma anche da criminali.

Non solo magia dunque, ma anche tanta storia perché, secondo varie fonti, questi infernotti furono protagonisti delle vicende legate alla carboneria in epoca risorgimentale. In questo periodo di cospirazioni e società segrete sembra che, ad esempio, gli infernotti del Caffè del Progresso (locale in corso San Maurizio dove erano solito riunirsi i carbonari torinesi) fossero talmente estesi da permettere ai ricercati, in caso di irruzione delle guardie sabaude, di raggiungere il cuore di corso San Maurizio, la Fetta di Polenta o addirittura le vecchie gallerie di mina e contromina scavate durante l’assedio del 1706. Sempre nel periodo risorgimentale sembra che altri infernotti, utilizzati come rifugio e via di fuga dai mazziniani, si trovassero sotto un edificio in via delle Orfane. O ancora dal cimitero di San Pietro in Vincoli sembra che fosse possibile raggiungere via Garibaldi (via Dora Grossa all’epoca) camminando letteralmente sotto la città.

Successivamente a questo intenso periodo, gli infernotti non furono più usati come nascondiglio da esuli e appartenenti a società segrete, ma iniziarono ad alimentare storie legate a misteriose apparizioni, magia, ma anche a storie di piccola criminalità cittadina. Durante la seconda guerra mondiale, gli infernotti torinesi furono usati come rifugi antiaerei di fortuna.

Negli anni successivi, alcuni degli infernotti cittadini furono riconvertiti in luoghi di incontro culturale e locali mondani (teatri, ma anche discoteche). Tra questi ricordiamo gli infernotti di Palazzo Carignano sede dell’Unione Culturale creata nel secondo dopoguerra da alcuni intellettuali come Cesare Pavese e Norberto Bobbio. Agli infernotti di Palazzo Saluzzo Paesana sono invece legate, purtroppo, storie di cronaca nera cittadina.

 

Il mostro di Piazza Savoia: un serial killer torinese di inizio secolo scorso

 

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Era il 12 gennaio 1902, Torino era coperta da una grande nevicata che per la sua entità aveva persino danneggiato numerosi tetti e cornicioni. Alla neve si era aggiunta una nebbia pesante, bassa e giallognola.

Nell’attuale piazza Savoia, all’epoca piazza Paesana, stavano giocando alcuni bambini.

Tra questi vi era Veronica Zucca, figlia del proprietario dell’antistante bar Savoia.

La piccola non era in quel momento accompagnata dal fratello Giulio di 7 anni, né dalla sorella gemella di 5 anni e mezzo.

Dato che si stava facendo tardi e il clima era estremamente rigido, Veronica venne chiamata a gran voce dalla madre perché rientrasse. La bambina era abituata a giocare sulla piazza, ma era solita tornare al primo richiamo dei genitori.

Fu così che la madre della piccola si preoccupò subito, non vedendola rincasare. Si precipitò dai commercianti vicini, ma tutti risposero la stessa cosa: avevano visto Veronica fino a pochi minuti prima, ma era poi sparita nel nulla.

La nebbia e la neve non facilitavano la ricerca ed offrivano uno scenario inquietante. Ormai si era fatto tardi e si fecero le prime ipotesi.

Si disse che Veronica si fosse smarrita, ma era poco credibile.

La bambina conosceva bene quella zona, non si sarebbe mai persa per quelle strade, in più non si allontanava mai. L’unica possibilità plausibile era terrificante: Veronica era stata rapita. Alcuni nomadi erano stati visti in zona e questo sembrava dare corpo alla teoria.

Il secondo sospetto ricadde sul sedicenne Alfredo Conti, ex dipendente del bar Savoia, che una volta licenziato aveva minacciato di farla pagare al vecchio datore di lavoro. Vi fu anche una dubbia testimonianza oculare di Conti che avvicinava la bambina e le chiedeva di fare da intermediario con una terza persona che gli doveva dei soldi. Una vicenda poco credibile.

Il ragazzo fu rintracciato ed arrestato per qualche giorno, ma alla luce di un buon alibi fu rimesso in libertà.

La notizia che aveva scosso la città, riempiendo le pagine dei giornali e mobilitando folle di curiosi si perse nella memoria in poco tempo e le indagini dovettero ripartire da zero.

Arrivò aprile e un gruppo di operai venne chiamato ad eseguire dei restauri presso il sontuoso palazzo Saluzzo Paesana edificato nel 1715, celebre ancora oggi perché per anni ha ospitato dapprima il cinema Alpi e poi il Chaplin.

Uno dei falegnami aveva bisogno di nuove assi di legno e sotto consiglio di altri andò a cercarne negli scantinati del palazzo dei Marchesi. Addentrandosi in questi “infernotti”, come venivano chiamati all’epoca, fu colpito da un forte olezzo proveniente da un angolo.

Trovò un cassettone che ricordava una bara sopra al quale era stato collocato un vaso per i fiori. Sollevando il coperchio rimase attonito: c’era il corpo di una bambina. Il falegname chiamò i presenti terrorizzato.

Furono in diversi a riconoscere Veronica.

La bambina sembrava quasi dormisse e che non avesse subito una morte violenta. All’obitorio la rimozione della muffa raccontò una storia ben diversa. La piccola vittima era stata trafitta da sedici coltellate.

Era rimasta poi per tutto quel tempo a pochi passi dal bar dei suoi genitori, come per ironia del fato. Il mistero di via della Consolata riprese vita.

Gendarmi e carabinieri erano alla spasmodica ricerca di un colpevole, cosa che conduce spesso a errori giudiziari. Si giunse all’arresto del padre di Veronica perché nelle sue testimonianze si era contraddetto più volte. Venne arrestato nuovamente anche il cameriere Conti, in seguito alla testimonianza di Giulio, fratellino della vittima.

Il bambino poi ammise di essersi inventato tutto ridendo. Ancora una volta le indagini erano ad un punto morto.

Si puntarono i riflettori su Carlo Tosetti, cocchiere dei Marchesi del palazzo.

Questi essendo una persona estremamente riservata ed emotivamente vulnerabile non provò nemmeno a difendersi. Venne messo agli arresti e vi restò 45 giorni. I giornali lo chiamavano già “il mostro” e Tosetti era moralmente devastato. Il vero omicida era ancora indisturbato e divertito dalla vicenda si aggirava per la zona di piazza Savoia.

Carlo Tosetti venne rilasciato per insussistenza di prove, ma per l’onta non si sentì di riprendere il lavoro a Palazzo Paesana e si trasferì.

Giunse il maggio del 1903 quando Teresina Demaria, una bambina di cinque anni figlia di un gasista residente nel palazzo Paesana scomparve mentre stava giocando con altri bambini. L’allarme si diffuse: c’erano troppe similitudini con la vicenda di Veronica. Si organizzarono subito battute di ricerca, ma furono tutte infruttuose.

Il portinaio del palazzo volle tornare a esaminare la cantina del primo ritrovamento, ma nonostante la perizia nella ricerca non vi trovò nessuno.

Il portiere cercò di dormire, ma tutta la notte ripensò all’accaduto. Al mattino, spinto dal suo intuito volle tornare negli infernotti. Vide subito una pila di cuscini e su di essi Teresina.

Era stata colpita da tre pugnalate, ma grazie al custode fu salvata in extremis. Fu lo stesso portiere a risolvere il caso. Affermò che il colpevole non poteva essere che un certo Giovanni Gioli, lo spazzaturaio ventiquattrenne che il giorno prima gli aveva chiesto le chiavi della cantina.

Quest’ultimo era noto in zona per essere una persona inaffidabile e pericolosa e, come disse la madre stessa: “un po’ tardo, anche scemo”. Confessò senza nemmeno capire il suo crimine: “Il coltello non tagliava, serviva solo a bucare”.

Il 14 gennaio 1904 in Corte d’Assise rideva e mangiava pane. Non gli venne riconosciuta l’infermità mentale, ma fu condannato solo a 25 anni e due mesi di reclusione.

All’uscita dal tribunale i carabinieri dovettero evitarne il linciaggio, ma la città, almeno per un po’, poté tornare a dormire sonni tranquilli. Come recitava La Stampa di quel giorno: “Giustizia è fatta. Per 25 anni Giovanni. Gioli non commuoverà più la vita cittadina con nuovi mostruosi delitti; per 25 anni le madri torinesi non avranno più a temere, da lui, offese alle loro creature.” Forse fu la Giustizia Divina ad agire perché dopo soli otto anni di reclusione Gioli morì in carcere.

 

Una seduta satanica nei sotterranei di Torino raccontata da Alberto Bevilacqua

 

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Cominciò con una rissa. Durante un rito satanico. Per me, Satana è semplicemente una curiosità filologica: Shaitan è il nome caldeo dato al dio adorato dagli Yezidi della Mesopotamia inferiore, sorgente della tradizione sumera. La versione biblica degrada un dio che, in origine, non era affatto un angelo del male. I maghi demenziali che, nei secoli, hanno cercato la conoscenza lungo vie sinistre e oscure, ne hanno fatto una realizzazione della perversità, creandone al tempo stesso un fascino che ha ispirato terrore e giustificato le nefandezze della Santa Inquisizione, della stregoneria, della magia nera e delle arti malvagie.

Ho amato un Papa, Paolo VI, che mi ha concesso la sua stima e la sua amicizia. Per quanto potevano valere le mie parole, le mie lettere, l'ho supplicato di evitare il , famoso pronunciamento sull'esistenza del Diavolo. Avrebbe aizzato, a mio avviso, ed è infatti accaduto, l'autosuggestione di cui si nutre il satanismo come religione di materia, trasgressione, turpe carnalità. I riti satanici si sarebbero moltiplicati nel mondo. Nessun'altra epoca ha contato tante persone insicure, facilmente plagiabili. E dunque era fatale che esse andassero a infoltire le sette grossolane che a fare da altare pongono una donna nuda, affermando: "La donna è il naturale ricettacolo passivo e rappresenta gli inferi della Madre Terra".

Io detesto ogni tenebra. Detesto ogni Chiesa Nera e sono mosso da furore contro gli organizzatori del satanismo contemporaneo, più preoccupati di soddisfare certe inclinazioni erotiche e spremere denaro che di inscenare le loro cerimonie secondo le antiche tradizioni pagane. Hanno compito facile.

Quanti uomini portatori di perversioni, violentatori in potenza, misogini senza dolore, voyeurs, trovano l'ambiente ideale in riti che assommano droghe, attività sessuale incontrollata, brutalità portata al massimo grado, evocazioni di spiriti diabolici.

E quante donne contrabbandano, in quei luoghi orribili, le proprie voglie oscene: spudorata ninfomania, esibizionismo; le donne che quando tradiscono un uomo vanno cercando scuse psicologiche e sentimentali, trovano in Satana un alibi perfetto...

Di fronte a tanta umanità detestabile, provo pena per il povero dio sumero, sfruttato e violentato, lui per primo.

Mi sono lasciato trascinare al rito satanico con la precisa intenzione di scatenare la rissa. Mi sono portato la pistola che, da quando la depressione mi ha assalito, tengo in un cassetto del mio tavolo di lavoro. In realtà, anche la pistola è un'amica della mia solitudine, perché so che non la userò mai per uccidermi; essa serve solo per il gusto morboso di accarezzare l'idea, come accarezzo lei, che chiamo "la mia amante signora Luger con cui rimando sempre il momento dell'amplesso", quando ogni mattina la scarico, ne lubrifico i congegni, la ricarico, con la pazienza che uso nell'allineare le penne facendone cabalistiche geometrie.

Con la pistola in tasca, e il mio furore, mi sono inoltrato nel sotterraneo, alla periferia della città.

Le donne, che ancora non distinguevo nel buio corridoio che immetteva nella sala del rito, sussurravano intorno: "Il Bello! Il Maschio!" Era l'uomo che mi faceva strada, e che avrebbe guidato la cerimonia. Passando, egli accarezzava via via i seni delle adepte assiepate ai lati in sua adorazione, con gesti di benedizione carnale.

Colui che aveva venduto l'anima alle Potenze del Male, aveva piuttosto l'aspetto di un attore cinematografico e di un copulatore superdotato. Mi stringeva la gola un odore misto di sudore, sangue, profumi femminili.

Per quanta sprezzante ironia uno possa ostentare, in circostanze simili, c'è sempre un momento in cui un terrore prevale sulla ragione, appunto perché "senza ragione", come quello di un bambino assediato dai fulmini.

Raggiunta la sala, di fronte agli arredi e alle candele nere, all'enorme simbolo fallico ottenuto da una croce col legno trasversale mozzato, mi sono ritrovato come nella "Casa dell'odio e del tradimento", centro medianico del male nel Pellicano di Strindberg, il quale sostiene che il male, quando è troppo, si trasforma nell'Assoluto dell'allucinazione.

Da un lato, uomini e donne si atteggiavano come il demone dipinto sulla parete, col volto bianco e da scimmia, accerchiato da una muta di cani adoranti; l'immagine appariva ancora più mostruosa in quanto l'umidità aveva raschiato i colori.

Dal lato opposto, donne nude, evidentemente signore della società bene, e numerose ragazze, anche molto giovani, in tuniche corte e trasparenti, aspettavano immobili nel buio: di essere possedute, forse, violentate.

Due presenze mi hanno sconcertato. Una ragazza dai grandi occhi chiari, e che parevano puliti da una testarda innocenza; quando i nostri sguardi si sono incrociati, ho avuto l'impressione che un rossore di vergogna le avvampasse il viso, ma probabilmente era il riflesso di una torcia.

E poi il profilo di un giovane, che ho afferrato in una frazione di secondo, mentre attraversava un lampo di luce per riaffondare nelle tenebre, in cui mi è parso per un attimo di riconoscere un conoscente.

Fece il suo ingresso la donna destinata a servire da altare. Era ben fatta, più alta delle compagne. Aveva grossi seni, le gambe lunghe e i polpacci forti, da ballerina. Ha sorriso invitante quando ha visto che i presenti si avvicinavano, contemplandole il corpo. L'hanno circondata mormorando una disgustosa parodia di una litania cristiana. Le adepte l'hanno aiutata a distendersi supina.

E difficile trovare un raffronto alla rappresentazione che, da quell'istante, ha preso vita sull'altare trasformato in palcoscenico. Mi chiesi, guardando la protagonista del rito satanico, come facciano le donne ad assorbire quei falli enormi: con quale dilatazione, non dico degli orifizi, ma della coscienza. Come riescano a sopportarne le cariche brutali, divaricate sulle ginocchia, la testa inchiodata all'ingiù, nella posizione di chi aspetta di essere decapitata, senza lasciarsi sfondare o spezzare le ossa.

Il sacerdote demone osannato come il Magnifico Maschio, impugnava e affondava il grande simbolo fallico. E fu ad un certo punto, con l'orrore che mi attanagliava, che afferrai d'istinto il primo calice a portata, dove c'era del sangue, umano credo, e ne scagliai il contenuto in faccia a colui che per le adepte era il Magnifico, e presi a strappare via gli arredi neri, le candele nere, a spezzare il Cerchio Magico indegno di questo nome, a scaraventare a terra una serie di simboli fallici.

Mi furono addosso. Con tale furia che avrebbero potuto farmi a pezzi. Non me ne importava: che ci provassero, a farmi del male, ad offuscare con le loro tenebre la luce del mio contagio magico che, più che mai, mi splendeva nella mente.

Sono arrivati i primi colpi: nelle reni, in pieno viso. Anche da me, ora, colava sangue. Mi sono specchiato, con la mia faccia insanguinata, nella faccia che avevo insanguinato.

Ho levato dalla tasca la pistola. A usare un'arma mi ha insegnato mio padre; o meglio, l'uomo d'avventura che ha abitato in mio padre. Mi hanno fatto largo. Mi sono salvato la vita per un soffio.

Ho sparato alla cieca contro l'imboccatura del sotterraneo, l'intero caricatore, non tanto per terrorizzare gli adepti che erano rimasti imprigionati sul fondo, dentro il loro buio, quanto perché vedendo le schegge di muro che schizzavano via, mentre mi lacerava i timpani il rimbombo degli scoppi nello spazio angusto, capivo fino a che punto fosse orribile l'idea che avevo accarezzato, con un gusto compiaciuto e controverso della depressione e della solitudine: appoggiare quell'arma alla mia tempia, e premere il grilletto. Ho raggiunto la mia automobile, tremando, reggendomi a malapena sulle gambe, con una voglia smisurata di vita.

 

Osterie nel sottosuolo: la Crota Paluch

 

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Ecco, dai ricordi di Vittorio Messori, una osteria situata in un profondo crottone, la Crota Paluch.

“A proposito di operai o, se vuoi, di «proletari». Mi viene in mente che, proseguendo per quella stessa via Venti Settembre in direzione di Porta Nuova e restando sullo stesso marciapiede di destra, poco prima di arrivare al cinema Reposi (il non plus ultra della modernità, resta incerta la pronuncia, su cui si discuteva: Rèposi o Repòsi?), in un vecchio edificio poi abbattuto, su una porticina stava scritto «Crota Paluch». Che significasse "Paluch" non l'ho mai saputo. So che, varcando la porticina, la "crota", la cantina, c'era davvero, al fondo di un paio di rampe di ripide scale. Un'osteria incredibile, ma non di quelle finte, folkoristiche, non un locale furbo e ipocrita come i tanti che sono venuti molto dopo, tipo le «hostarie» per turisti a Roma o Firenze. Era una bettola autentica, sopravvissuta non so come nel centro elegante, e dove i «tomini elettrici» e le "anciue al vert", le acciughe al verde, si accompagnavano a barbera e, soprattutto, a grappa, tantissima grappa, per la quale la "Crota" era famosa. Tra i ricordi che ormai pochi torinesi possono esibire c'è anche questo: essermi affacciato, curioso e un po' timoroso, da quelle scale e avere intravisto - nel fumo delle Alfa e delle Nazionali, fumo che non so che sfogo trovasse, in un sotterraneo senza finestre - la folla di popolani veri, che al massimo venivano dal Monferrato e dal Vercellese, non ancora dalla Sicilia. Né addirittura, cosa del tutto impensabile, dal Maghreb o dalle Ande, che conoscevamo soltanto perché De Amicis le aveva legate agli Appennini nel suo «racconto mensile». Sul lato della questura che dà su via Grattoni (l'hanno già notato in troppi, troppo facile tornarci sopra: i poliziotti nella via dei «grattoni») c'era un portoncino nello stile di quel palazzo anni Venti. Accanto all'ingresso, una targa, piuttosto pretenziosa, in marmo, con lettere in bronzo che annunciavano: «Ufficio stranieri». Ci passai davanti infinite volte, anche nella prima metà dei Sessanta, visto che Alessandro Galante Garrone abitava proprio in via Grattoni e più volte, quando facevo con lui la tesi di laurea, mi accolse - signorilmente e cordialmente - nella sua casa. Ebbene, non solo non vidi mai aperta quella porta, ma sui due gradini cresceva indisturbata l'erba. Uno straniero che avesse avuto bisogno di andare in questura era un ectoplasma che credo non si fosse mai materializzato, a Torino. E se proprio capitava, passava dal portone su corso Vinzaglio, come tutti. Giusto come adesso, insomma...”

 

fonti:

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, versione eBook, posiz. 67,5

 

Le ghiacciaie di Torino

 

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Portone che diremmo “storico” è quello del numero 32 di via delle Orfane: pochi metri e già rivela, con evidente pendenza, di portare verso il sottosuolo. A quattro piani di profondità, ci si trova in gallerie scavate nei terrapieni, fra i muri di eccezionale spessore. Si è nel “ventre oscuro” di Torino, nelle enormi ghiacciaie utilizzate un tempo per conservare le derrate alimentari, poi vendute ai mercati. È l’antico colossale “frigorifero” di Torino. Qui s’avverte davvero la sensazione di smarrirsi. Oggi vi sono magazzini, con un traffico di ascensori e di montacarichi che stupisce. Solo una parte dei corridoi è percorribile. Molti si perdono nell’oscurità e la torcia elettrica illumina un fondo che non c’è, un infinito buio. Qui il periodo romano di Torino si fonda con quello medievale e con i muri all’inizio dell’ottocento.

Pavimenti a raggi, tutti in pietra, di buona fattura, sono al centro di sale che si susseguono per un lungo cammino. Le ghiacciaie erano parzialmente fuori terra e risalgono al Settecento. Furono coperte dopo il prolungamento di via Sant’Agostino, nel 1887.

Gli ampi scantinati di via delle Orfane sono in parte utilizzati dai venditori ambulanti di Porta Palazzo. Sopra vi è la piazza intitolata a Emanuele Filiberto, con ampi portoni sotto i quali brillano altarini devozionali con piccole luci dinanzi a ritratti della Vergine Consolata, patrona della città.

 

fonti:

Renzo Rossotti, Guida insolita di Torino, p. 284

 

Le cripte delle chiese

 

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Torino è una città speculare, i cui edifici si rispecchiano sul piano verticale con una serie di piani sotterranei, gli infernotti e una fitta trama di gallerie.

E’ così ad esempio che sotto le chiese dei vivi ci sono le chiese dei morti, le antiche cripte in cui venivano inumati i nobili o i ricchi borghesi e i religiosi, o marcitoi, come li chiamavano i monaci, dove molte persone venivano interrate con abito da francescani. Nel Seicento, secolo dal gusto barocco per la morte e la decomposizione, gruppi di nobili vi scendevano per ascoltare prediche sulla brevità della vita, e vi si tenevano anche lezioni di catechismo. Molti nobili e borghesi pagavano addirittura profumatamente per farsi seppellire in abito francescano, sperando così di ingannare il diavolo.

Il sottosuolo della maggior parte delle chiese situate nel centro di Torino offre a chi si inoltra nei sotterranei un interessante insieme di cripte, quasi tutte chiuse e non accessibili, adibite un tempo a luogo di sepoltura di illustri personaggi. Sotto via Garibaldi (l'antica via Dora Grossa) (v. Vie), importanti le cripte della chiesa di San Francesco d*Assisi, nella via omonima, sull’angolo, appunto, di via Garibaldi, quella dei padri Gesuiti, sotto la chiesa dei Santi Martiri, quella mollo antica della chiesa di San Dalmazzo, ma, nei pressi, sono pure rilevabili le cripte della parrocchia del Carmine e quella della chiesa di San Domenico. Nei sotterranei del Carmine vennero depositati i legni con cui veniva allestita la forca per le esecuzioni capitali (v. Boia).

I viadotti sotterranei corrono sotto via Corte d'Appello, con i lugubri scantinati del vecchio Palazzo di Giustizia, via Santa Chiara, via San Domenico.

Non privo di sorprese il sottosuolo del santuario della Consolala e delle strette vie nei dintorni della chiesa.

Nei pressi di piazza Savoia, sull’angolo con via della Consolata, 10 storico Palazzo Paesana è legato al «mostro dai piedi di fatino», Il folle che portava le bambine negli “infernotti” per poi sopprimerle.

Anche in questa zona sono state erette barriere fra le cantine, soprattutto per misure di sicurezza. In caso contrario, sarebbero comunicabili i sotterranei degli antichi Quartieri, in via del Carmine, con lunghi corridoi attraverso i quali si potrebbe raggiungere e oltrepassare il Rondò della Forca, già luogo di pubbliche impiccagioni, e puntare verso i sotterranei di via Cigna, sino a sfiorare la cripta della basilica di Maria Ausiliatrice, pure ricca di sorprese.

Nel sottosuolo della chiesa è collocato un ricco reliquario, con molte tangibili memorie del mondo salesiano. La cripta della chiesa di San Filippo lascia ammirati per la sua ampiezza e la stessa via Maria Vittoria che corre dinanzi al tempio, dipartendosi da piazza San Carlo per puntare verso la riva del Po, pur interrotta da non pochi ostacoli, è di buon interesse per un’esplorazione nel sottosuolo.

Sotto il duomo, nelle gallerie più o meno ampie che vengono a unire il tempio a Palazzo Reale, antichi cimeli e tesori si sovrapponevano in un disordine a cui di tanto in tanto si è cercalo di porre rimedio, fra i sepolcri disseminati in una confusione che lasciava perplessi. Non si può dimenticare che, per un certo periodo, il Duomo venne adibito a sepolcreto di numerosi principi sabaudi (v. Chiese, Duomo). L’incendio che distrusse la cupola del Guarini e che mise in pericolo la Santa Sindone (v.), custodita nell’altare sottostante, e quindi, i lavori che permisero ugualmente l’ostensione della reliquia nella prima metà del 1998, hanno consentito un ampio restauro ed anche un riordino di quanto si trovava nel sottosuolo. In un angolo vi erano gli addobbi che vennero usati per i lontani funerali di un arcivescovo di Torino, poi quelli di re Carlo Alberto e, ancora, per altri Savoia. Succede in questi edifici storici ciò che avviene nelle famiglie: per il principio di non buttare via nulla, ci si ritrova poi con la cantina gremita di un'oggettistica a cui risulta difficile offrire una collocazione ideale.

Riordinato di recente il sotterraneo che ospitava gli impianti di riscaldamento della vicina reggia. Qui il visitatore sosta scoprendo ambienti di cui non supponeva resistenza. Un passaggio unisce la base del campanile alle cripte del sottoduomo, dove molte antiche tombe sono purtroppo state rimosse in una ristrutturazione globale. In un affresco abbastanza nitido, la morte con la falce in pugno evoca cieli tempestosi dell'Apocalisse e il Giudizio finale.

Rimossi pure pesanti drappi cremisi adorni di nodi Savoia. Erano in un angolo, accatastati da chissà quanto tempo. Probabilmente ornavano la cappella reale, a sinistra dell’altar maggiore, da cui i sovrani assistevano alle funzioni. La cappella, nella memoria dei documenti reperibili, venne rinfrescata almeno cinque volte e i velluti furono cambiati perché ingrigiti dalla polvere scesa sugli ori e sulla corona regia. Gli addobbi troppo vecchi finirono nel sotterraneo, per non distruggerli, rinviandone la pulitura a un futuro imprevedibile. Ugualmente per un pesante catafalco nero, utilizzato visibilmente più volte, per un grosso scrigno, che farebbe pensare ai riti della Settimana Santa e all’allestimento del Santo Sepolcro. Chi viene chiamato alla guida del Duomo raramente è curioso a proposito delle intenzioni dei suoi più lontani predecessori.

C’è chi è stato parroco del Duomo e non ha mai avuto occasione, preso dalle cure dell’incarico, di scendere nei sotterranei a dare un’occhiata alle cripte.

 

I sotterranei dei palazzi storici

 

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Di particolare importanza i sotterranei di grandi edifici d’importanza storica, come il Palazzo Reale, Palazzo Chiablese, la chiesa di San Lorenzo, dove fu ammassato nel corso di anni ciò che rimase dell’arredo urbano provvisorio, impiegato per congressi, manifestazioni d’inizio secolo, fino alle celebrazioni del 1961 per il centenario dell’unità nazionale. Palazzo Madama (v. anche Spiritismo) è servito spesso da “magazzino” sotterraneo e vi vennero raccolti perfino, per qualche tempo, doni di capi di Stato in visita a Torino e albi d’onore colmi di firme illustri.

Nel 1995 una torre e una porta romana furono scoperte sotto l’Armeria Reale. Erano parte del lato est della cinta romana, lungo il perimetro che già vide affiorare altri resti di mura in piazza Castello e nell’ala sotterranea del Museo Egizio. La porta era un passaggio secondario nelle mura, quattro metri di profondità, sotto la manica che unisce l’Armeria a Palazzo Reale.

Ad alcuni metri di profondità, sotto il piano di calpestio della Piazza Castello, Palazzo Madama cela ancora i suoi segeti Una lunga opera di restauro ne sta riportando lentamente alla luce le testimonianze. Una scala medioevale conduce alla base del sotterraneo, dove esiste ancora il selciato romano. Ci sono voluti più di venticinque anni di lavori per realizzare un percorso archeologico di accesso ai grandi saloni situati a livello del fossato che circonda il Castello su tre lati, che erano destinati a depositi e magazzini.

 

Dagli anni di piombo alle olimpiadi del 2006: il pericolo che viene dal sottosuolo

 

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La presenza di cunicoli e ambienti sotterranei nel sottosuolo di Torino ha provocato notevole allarme nelle autorità durante gli anni del terrorismo, perché si temeva che potessero servire per depositi di armi, nascondigli, o anche per provocare esplosioni.

La stessa paura è riaffiorata durante le Olimpiadi del 2006, durante la preparazione delle quali gli stupefatti Torinesi hanno visto inchiodare tutti i tombini e i passaggi che conducevano al sistema fognario o al sottosuolo.

Né si tratta di una paura isolata: nelle grandi città come Parigi e Londra unità specializzate pattugliano i cunicoli e il sistema fognario principale allo scopo di prevenire intrusioni. In quest’ultima città pare che addirittura si servano di mini-hoovercraft.

Nella storia dell’uomo la paura delle aperture sotterranee ha sempre fatto parte dell’immaginario e del patrimonio folkloristico, e anche la città non fa eccezione a questo timore ancestrale.

 

 

 

 

 

TORINO CITTA’ DELLA CARTA STAMPATA

 

Le librerie antiquarie a Torino

 

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Nel panorama importante della Torino antiquaria, le librerie sono sempre state una presenza forte: grandi e piccole, specializzate in libri moderni o antichi, fianco a fianco con le librerie modernissime dove si comprano gil ultimi best-seller, se ne trovano in quantità nel centro di Torino.

Negli anni ’60 il principe dei librai antiquari era la libreria antiquaria Bourlot che sotto i portici, in bacheche alle colonne, esponeva soltanto alcuni pezzi pregiati, mentre la vendita era in stanze riservate e ovattate al «piano nobile» del palazzo. Per Luigi Einaudi o per Benedetto Croce sarebbe stata impensabile una venuta in città senza una visita da Bourlot. Proprio accanto alle stampe antiche e alle cinquecentine (quando non a qualche incunabolo) di Bourlot, ecco il gioiello della confetteria Stratta. C’era poi Pregliasco, davanti all'Accademia Albertina, e ancora altre, tra cui Atlantis, Il Cartiglio, Studio Giorgio Maffei e molte altre, che soddisfano tutti i gusti dei collezionisti esigenti, e periodicamente prendono parte alle principali fiere mondiali, come quella di New York.

 

fonti:

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, versione eBook, posiz. 324,1

 

Torino capitale degli almanacchi

Ci vollero anni, secoli, prima che la carta stampata entrasse nelle famiglie contadine, contadine, sia per il costo, sia per l’incapacità di leggere e scrivere. Possiamo però pensare che tra le prime pagine impresse a stampa ci fosse l’almanacco, ricco di preziose informazioni, tra cui anche quelle relative alle date di fiere e mercati.

Pur continuando la tradizione - di cui si è già parlato - dì seguire il ritmo di giorni e mesi facendo riferimento ai vari santi corrispondenti, il libretto annuale, che era già un appuntamento consueto per le famiglie più abbienti, a partire dai primi decenni del Novecento iniziò ad essere acquistato anche dai contadini, che vi trovavano notizie di vario genere.

L’alfabetizzazione era ormai capillare e poter leggere utili notizie di carattere agrario, oltre al calendario, diventò poco per volta un’abitudine che si rinnovava ogni anno. Ovviamente ciò fu possibile grazie all’adattamento che si fece dei primi tipi di almanacchi, che a partire dal Settecento iniziarono a diffondersi in Italia.

Prima di allora esistevano pubblicazioni annuali, che per gli argomenti trattati e il taglio decisamente dotto erano destinati solo a certe categorie, come i nobili, il clero e la ricca borghesia. Oltre al calendario, i santi, le feste religiose, le fasi lunari, orario del sorgere e tramontare del sole, riportavano infatti anche le date di nascita dei vari regnanti e dei loro familiari; appunti che potevano ovviamente interessare un pubblico di un elevato ceto sociale. In seguto, visto il notevole interesse suscitato da queste pubblicazioni, si cominciò a dare notizie più specialistiche rivolte a una ben precisa categoria. Il tema variava ogni anno, così risultava interessante conservare il librettoper potrlo consultare in caso di necessità; d'altra parte, il Settecento è il secolo dell'Enciclopedia, e l'almanacco voleva anche essere un piccolo trattato enciclopedico.

Ci furono almanacchi che trattavano di medicina, o altri più generici, che davano anche informazioni dettagliate su fatti riguardanti una grande città come Torino, con avvenimenti importanti o indirizzi utili.

Il precursore degli odierni libretti, rivolti a un mondo contadino sempre più aggiornato sulle tecniche agronomiche, fu il Calendario Reale Georgico ossia almanacco di agricoltura ad uso principalmente degli agronomi piemontesi, realizzato dalla Reale Società Agraria di Torino e pubblicato per la prima volta nel 1791.

Come veniva specificato nel titolo, pur trattando di problematiche agrarie, non poteva essere alla portata degli agricoltori, ma di chi queste nozioni le aveva studiate in modo approfondito. Quanto si legge in questo almanacco, oggi sarebbe persino troppo semplice per un agricoltore al passo con i tempi, ma più di due secoli fa era una miniera di notizie da considerarsi di alto livello tecnico.

Si trattava infatti di una pubblicazione annuale realizzata da un’associazione accademica che credeva fortemente nella cultura enciclopedica e nel suo continuo aggiornamento scientifico. E in mezzo alle varie nozioni agrarie, in certi anni veniva riportato anche l’utile elenco delle Fiere principali negli Stati di S.M.R. di qua da’Monti, informazione che nei secoli successivi divenne immancabile per ogni almanacco.

Il merito principale del Calendario Reale Georgico fu quello di rivolgersi volutamente non alla gente comune, ma ai grandi proprietari terrieri, per spronarli a migliorare le condizioni dell’agricoltura piemontese dell’epoca. Questa stava attraversando una ben percepibile crisi, dovuta al fatto che i nobili latifondisti si erano trasferiti in città, lasciando la conduzione delle loro terre in mano ad affittuari che, oltre a seguire con poca passione le pratiche agrarie, sfruttavano i lavoranti e non si curavano di nessun miglioramento fondiario. Non mancavano, quindi, per ogni anno di uscita di questa pubblicazione, importanti argomenti agronomici di ogni genere, rivolti anche ai parroci, affinché li diffondessero con parole più semplici tra i piccoli agricoltori. Costoro, non sapendo leggere né scrivere, avrebbero potuto solo in questo modo essere informati su nuove tecniche e problematiche agrarie.

Non fu comunque questa pubblicazione a dare inizio all’usanza sempre più diffusa di riportare, oltre al calendario con notizie su santi, sole e luna, anche sintetiche ma utili nozioni di agricoltura. Esistevano già, fin dall’inizio del Settecento, altri esempi di popolare divulgazione agraria, soprattutto orticola, senza però grandi pretese scientifiche, che si limitavano a riportare quanto ogni contadino di allora già ben conosceva.

Tra questi, un almanacco semplice, che aveva l’intento di arrivare anche nelle case della gente comune, venne dato alle stampe nel 1701 a Torino, con il titolo di Almanacco Universale Sopra l'Anno 1701 del Gran Chiravalle (sic) Nel quale si vedranno le varietà de’tempi, li discorsi in ogni quarto di Luna. Successivamente cambiò denominazione, fino a quella attuale, che è II Gran Pescatore di Chiaravalle, almanacco popolare dicultura, agricolo astronomico astrologico, continuando ad essere stampato con pochi cambiamenti nella struttura che aveva più di trecento anni fa.

Nelle tante pagine che lo compongono, si possono leggere argomenti di ogni tipo, risultando quindt una miniera di ^formazioni spicciole Sili a tutti. Un prezioso compagno per tutto l’anno, con il calendario affiancato da moltissimi suggerimenti pratici, e soprattutto l’immancabile elenco di fiere e mercati riguardanti tutta la parte occidentale della pianura padana.

L’esempio fornito da questo almanacco fu ben presto seguito da altri stampatori torinesi, che iniziarono a pubblicare libretti ancora più semplici, e destinati anche a persone che a stento sapevano leggere; come L’almanacco delle fiere, che nel 1783 a Torino veniva stampato da cinque diversi editori, per un totale di circa 50.000 copie.

In ogni caso si trattava di opuscoli di basso costo, con notizie su santi, feste religiose, lune, e l’elenco di fiere e mercati di Torino e della sua provincia. Non mancavano poi i semplici lunari, che si limitavano ad indicare le varie fasi del nostro satellite nel corso dell’anno, fornendo la comodità dell’utile e seguita informazione per adeguare molti lavori al particolare aspetto della Luna, senza dover scrutare il cielo di notte.

In tempi più recenti, un’altra pubblicazione fortunata, che si è fatta subito apprezzare dal mondo contadino, è l’almanacco di Frate Indovino, stampato a Perugia. Spedito capillarmente nelle famiglie soprattutto dei paesi, che generalmente facevano un’offerta spontanea di denaro, fin dalla sua comparsa, nel 1945, ebbe grande considerazione, in quanto riporta le previsioni del tempo per ogni mese, cosa decisamente importante per chi d ila terra deve ricavare di che vivere. Queste, pur con una buona dose di imprecisione, diventano quindi un riferimento molto seguito, senza stare a pensare che non è possibile rendere omogenee le previsioni meteorologiche per un territorio vario come l’Italia.

Ma è sufficiente che ogni tanto quanto pronosticato avvenga davvero per decretare la saggezza del frate preveggente; pochi percepiscono che questa previsione del tempo, generalizzata per un’area decisamente vasta, è tutto sommato un segno dello scollamento dalla propria cultura contadina. Un fatto certamente non voluto da chi cura la pubblicazione, ma l’impostazione nazionale anziché locale ha contribuito a staccare il mondo rurale dalle sue conoscenze tradizionali. Nelle famiglie contadine si va cancellando la consuetudine di tramandare ì precisi proverbi sul tempo e la conoscenza dei giorni di marca.

Vengono ritenute più valide le dettagliate informazioni meteorologiche televisive, che oggi sono sempre più seguite da tutti e che danno maggiori garanzie per programmare i lavori dei campi. Fortunatamente, però, anche chi si occupa di elaborare le previsioni del tempo sta diventando consapevole che una saggezza contadina di mi enni non deve essere dimenticata. Così, capita sempre più frequentemente che nel commento meteorologico scritto, particolarmente quando questo è riferito al territorio locale venga riportata la citazione di quanto era scolpito nella memoria di chi ha preceduto ed e stato tramandato per secoli. Il ritmo del tempo, sia quello astronomico che quello meteorologico continuano a viaggiare abbastanza coordinati tra loro, e ad essi si affianca quello di fiere e mercati.

 

Il Salone del Libro si presenta (dal sito web ufficiale)

 

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la più grande fiera dell'editoria italiana

Siamo quelli che ogni maggio, da trentadue anni, riescono nell’impresa titanica di raggruppare in un’ex fabbrica automobilistica di Torino tutta l’editoria italiana, dai grandi gruppi agli indipendenti (1200 in tutto), e di connetterla con scrittori, librai, bibliotecari, agenti, illustratori, traduttori. Il Salone del Libro è il luogo dove s’incontrano tutte le parti della filiera editoriale, compresa la più importante: il pubblico (lo scorso anno, ad esempio, abbiamo avuto ben 148.000 visitatori). È questo incrocio a rendere unico il Salone: per cinque giorni, chi fa i libri e chi li legge abitano sotto lo stesso tetto.

un festival internazionale della cultura

Quell’ex fabbrica automobilistica si chiama Lingotto Fiere, e ogni anno per cinque giorni diventa la nostra casa. Chiunque ami i libri e la cultura non può non esserci: presentazioni, convegni, appuntamenti, dibattiti, spettacoli, relatori e circa 2.000 ospiti da ogni parte del mondo, per un totale di 1.200 eventi. Negli anni passati abbiamo avuto con noi alcuni autori che hanno fatto la storia della letteratura del Novecento: un percorso che va da Iosif Brodskij, che ha inaugurato la prima edizione, a Wole Soyinka, tra i più autorevoli ospiti di quella dello scorso anno. E ancora: Herta Müller, Orhan Pamuk, Salman Rushdie, Richard Ford, David Grossman, Marilynne Robinson, Mo Yan, Emmanuel Carrère, Javier Marías.

un'occasione professionale unica

Far sì che i professionisti del mondo della cultura si conoscano e lavorino insieme: ecco come nasce il SalTo Rights Centre, lo spazio in cui gli addetti ai lavori s’incontrano e si confrontano per lo scambio dei diritti di edizione e traduzione, e per la realizzazione di film, serie tv e animazione. Di norma abbiamo con noi editori e agenti da 40 paesi del mondo: lo scorso anno, ad esempio, ci sono stati 3.500 incontri one-to-one che hanno coinvolto circa 5.700 operatori.

un importante progetto educational

Tutti gli anni ospitiamo al Salone decine di migliaia di bambini, ragazzi e adolescenti fino ai vent’anni. L’anno scorso abbiamo coinvolto circa 22.000 studenti, di cui 7.400 dal territorio nazionale. A ognuno di loro, con il sostegno della Compagnia di San Paolo, da più di dieci anni dedichiamo un’area di oltre 4.000 metri quadrati nel Padiglione 2, con allestimento e scenografia curati dal Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli. Dentro una cornice così bisogna fare le cose per bene, e allora organizziamo per i ragazzi un palinsesto culturale ricco di grandi ospiti, centinaia di ore di laboratori gratuiti (dall'illustrazione alla scienza, dal mondo digitale al fumetto), librerie, giochi e appuntamenti per formare i lettori di domani, con una particolare attenzione ai libri per i bambini diversamente abili.

Stare in mezzo ai ragazzi e coinvolgerli nella lettura, però, non ci piace solo nei cinque giorni del Salone: il nostro è un impegno che portiamo avanti nelle scuole e con le istituzioni per tutto il resto dell’anno, sviluppando iniziative e progetti che hanno al centro i giovani lettori. Alcuni esempi? C’è il Premio Nati per leggere, per insegnare alle famiglie l'importanza della lettura fin dalla culla; ci sono i gruppi di lettura nelle scuole e nelle biblioteche; il Bookblog gestito dagli studenti; e soprattutto l'iniziativa Adotta uno scrittore che ogni anno porta decine di celebri autori nelle scuole superiori del Piemonte.

un evento mediatico di grande risonanza

Tra stampa (12.400 uscite complessive) e social (230.000 utenti sul nostro sito), in quei giorni di maggio parlano tutti di noi. Cosa si fa al Salone, che succede al Salone, chi ha detto cosa al Salone… Una bella festa insomma. Senza contare quello che succede sulle nostre pagine Instagram, Facebook e Twitter (lo scorso anno, quasi 3 milioni di interazioni per l’hastag #SalTo19).

 

fonti:

https://www.salonelibro.it/ita/

 

Le Biblioteche a Torino: un giacimento culturale inesauribile

 

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Oltre alla ricchissima rete delle Biblioteche Civiche, a cominciare dalla Biblioteca Centrale, con 3 milioni di volumi, a Torino sono aperte al pubblico per la consultazione tutte le numerose biblioteche delle facoltà universitarie, tra cui la Biblioteca Norberto Bobbio. Ci sono poi biblioteche specializzate, come quella del Centro Teologico di Corso Stati uniti o la biblioteca del Centro Luigi Firpo, specializzata in storia delle idee e della dissidenza religiosa.

Cornici suggestive offrono la Biblioteca Reale e la Bibliteca Universitaria nazionale, con saloni amplissimi che si affacciano su vie storiche di Torino.

 

I libri sotto i portici e i mercatini dell’usato

 

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L’amore di Torino per i libri si vede anche dai portici gremiti di bancarelle di libri usati, a cominciare dallo storico “Gorilla” all’imbocco di via Cernaia, di fronte al palazzo della RAI, per arrivare a Via Po. In Piazza Arbarello c’era una struttura coperta che ospitava il mercatino dell’usato, ma purtroppo è stata tolta.

Periodicamente si tengono manifestazioni librarie sotti i portici, come “Portici di Carta“, che ha costituito la libreria più lunga del mondo. Ovviamente a Torino.

 

Il Circolo dei lettori: una istituzione ormai diventata storica di Torino

 

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C era una volta... un re, direte voi. Non proprio, c’era una volta il nobile abate Marco Antonio Graneri della Rocca, che tra il 1682 e il 1699 si era fatto costruire dall’architetto Gian Francesco Baroncelli un palazzo che poteva gareggiare in bellezza con quello del re, un po’ appartato ma non lontano da piazza Castello, su un’area precedentemente occupata dal vallo delle fortificazioni che proteggevano il cuore della città. È piuttosto strano, stando alle regole, che un edificio che viene comunemente ritenuto il più sontuoso dopo quello che ospita la reggia ducale sia stato commissionato da un abate appartenente a una famiglia di Ceres, che nel 1520 non aveva ancora qualifiche nobiliari e di cui si sa che Giovanni Graneri, figlio del capostipite Giacomo, era di mestiere “fucinatore” nel borgo montano di Lanzo, ovvero trattava ferrami e acciaierie. Potenza del denaro, è il caso di dire, se anche in quei secoli una professione borghese come il commercio di ferraglie poteva permettere a qualcuno di arrivare a fasti nobiliari! Finite le feste dell’antico regime, le vaste sale del palazzo vennero occupate dagli uffici dei ministri dello stato costituzionale, poi, ai tempi della Belle Époque, dal Circolo degli artisti, che ne fecero la sede dei loro incontri e uno spazio espositivo.

Attraverso tutte queste vicende e le diverse funzioni che l’edificio ha ricoperto nel tempo, la sontuosa struttura si è conservata benissimo, dal giardino ai cortili interni per le carrozze, al percorso di rappresentanza scandito da atrio, porticato, scalone, loggia e salone centrale, agli ambienti interni con le pareti damascate, le porte dorate, i preziosi pavimenti intarsiati e gli arredi. Ma era come immalinconita e ricoperta da un velo di polvere. Poi, grazie a un’iniziativa intelligente e originale, da qualche anno, da quando cioè ospita il Circolo dei lettori, il palazzo ha iniziato una vita completamente nuova. Senza formalità, senza bisogno di tessere, di iscrizioni o di biglietti d’ingresso, tutti possono entrare in quegli spazi un tempo riservati a pochi. Immaginate di essere un po’ stanchi, o sfaccendati, o di cattivo umore, o di non sapere come passare un pomeriggio. Basta entrare nel circolo per sentirsi a casa. Si può scegliere di sprofondarsi in una poltrona con un libro o un giornale e leggere in silenzio, ma non in solitudine, perché nella poltrona accanto c’è qualcuno con cui scambiare un’occhiata, un sorriso. Secondo l’invito dell’opuscolo che introduce alle attività del circolo ricorrendo a suggestioni proustiane, qui si può sospendere il tempo dei “mediocri incidenti” della vita quotidiana e volteggiare osservandoli come dall’alto, lasciandosi trasportare dalla lettura in altri mondi, dove incontrare altre persone e pensieri diversi dai propri. È un’esperienza che tutti i lettori conoscono, ma che nell’ambiente del circolo si carica di complicità con gli altri ospiti e introduce all’esperienza, assai meno comune, della lettura collettiva. Questa è, in fondo, la ragione per cui il circolo è nato e che gli ha portato fortuna.

Oltre a immergersi nel proprio libro, è possibile partecipare alle attività dedicate alla lettura ad alta voce e alla lettura condivisa. Circa 400 lettori al giorno ascoltano scrittori, attori, ed esperti di narrazione, leggere testi ad alta voce, e a gruppi si scambiano idee e commenti. Si tengono letture sceniche, spettacoli di teatro narrativo, ci sono giornate dedicate a un tema, a un autore, sedute di lettura in lingua originale, letture con accompagnamento musicale di sottofondo, letture per bambini, letture erotiche, mostre itineranti, serate dedicate alla riflessione su eventi di attualità. Capita di incontrare personaggi del mondo culturale o dello spettacolo che si trovano al circolo per presentare un libro o tenere una conferenza o per partecipare a una delle cene letterarie (cena medioevale, cena proustiana, cena dell’accademia della cucina, cena delle ricette del cuore...). Non ci sono soltanto libri al circolo, ma una miriade di occupazioni piacevoli. Basta procurarsi il programma delle attività mensili. Si può partecipare a un’ora di yoga e lettura su dondoli di giunco (al sabato mattina, su prenotazione), si gioca a biliardo, si fa uno spuntino al bar, si prende un tè con paste di meliga e baci di dama o, in attesa della cena, l’aperitivo letterario. Infine, nei locali del piano ammezzato, non bisogna perdere il Ristorante del Circolo dei lettori (ricordandosi di prenotare!) per almeno due o tre buone ragioni. In un ambiente caldo e accogliente vi guardano, mentre aspettate di essere serviti, gli oltre 150 autoritratti dei pittori piemontesi che sono stati soci del Circolo degli artisti, collocato attualmente in un’altra ala del palazzo, e la carta del ristorante è davvero ricca, segue il mutare delle stagioni, e si accompagna a una carta dei vini altrettanto interessante. Il tutto a prezzi contenuti.

“Leggere dappertutto. Leggere tutti. Non lasciar solo nessuno”. Questo si propone di fare la Fondazione con una serie di iniziative di responsabilità sociale che mirano a coinvolgere chi, troppo spesso, rimane ai margini della società. Poiché i libri, come le storie che racchiudono, sono un bene comune che può e deve essere condiviso, la Fondazione li porta laddove ce n’è più bisogno. Perché i libri possono diventare uno strumento efficace di inclusione.

Grazie ai volontari per la lettura, le storie raggiungono gli ospedali del territorio. Attraverso progetti, scrittori e intellettuali, arrivano nelle carceri, per dialogare con i detenuti, perché cittadinanza e partecipazione sono un reale bisogno anche all’interno di quelle mura.

Per quanto riguarda le nuove generazioni, la fondazione crea per gli studenti delle scuole occasioni di crescita e scoperta del mondo, letterario e non.

La Fondazione offre occasioni di crescita e scoperta attraverso l’incontro con chi, di mestiere, scrive storie. I migliori scrittori e scrittrici italiane incontrano studenti e studentesse per misurarsi con loro a partire dai temi di romanzi di oggi e di ieri e scoprire l’affascinante mondo della produzione letteraria.

Perché i ragazzi approfondiscano argomenti intra ed extra curriculari in maniera nuova e originale, per coinvolgerli nell’esplorazione di tutta la bellezza e gli stimoli che ogni racconto (letterario e di vita) nasconde.

Non mancano occasione per approfondire temi di educazione civica così come la partecipazione a progetti che mettano i ragazzi al centro dell’azione di riscoperta di se stessi e del proprio ruolo nel mondo.

 

La Scuola Holden e Alessandro Baricco

 

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Alessandro Baricco (Torino, 25 gennaio 1958), scrittore, saggista, critico musicale e conduttore televisivo italiano, non ha bisogno di presentazione. Torinese DOC, è tra gli alunni famosi del Liceo Alfieri. Dopo la laurea in Filosofia ha iniziato la propria carriera di scrittore pubblicando saggi di critica musicale e poi esordendo nella narrativa con Castelli di rabbia nel 1991 grazie al quale si aggiudica il Prix Médicis étranger e partecipa alla selezione finale del Premio Campiello dello stesso anno. Dal 1996 alla produzione letteraria Baricco affianca quella di autore teatrale, con il testo Davila Roa, portato in scena da Luca Ronconi

Successivamente si è occupato della trasposizione cinematografica del romanzo Seta e si cimenta anche nella regia con Lezione ventuno, del 2008.

Ma Baricco è anche un appassionato promotore del libro e dell’amore della lettura con programmi di successo come Pickwick, del leggere e dello scrivere su Rai3, e Totem, su Rai2. Nel 2017 Baricco torna su Rai3 con la riproposizione televisiva dello spettacolo Steinbeck, Furore, la lettura del romanzo Furore di John Steinbeck accompagnata da una selezione musicale di Francesco Bianconi, leader dei Baustelle.

Attualmente ospitata dalla ex Caserma Cavalli in Piazza Borgo Dora, la Scuola Holden è divenuta una delle istituzioni culturali della città. E’ stata fondata a Torino nel 1994 da Alessandro Baricco, l'attuale Preside, insieme ad Antonella Parigi, Dalia Oggero, Marco San Pietro e Alberto Jona, e prende nome dal protagonista del romanzo Il giovane Holden di J.D. Salinger[1], il ragazzino che detestava la scuola, gli insegnanti, le materie di studio e gli esami.

La Scuola è articolata in sette college (Brand New, dedicato alla comunicazione d'impresa; Cinema; Digital; Reporting; Scrivere; Serialità & Tv; Storytelling).

 

Le case editrici storiche di Torino

 

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einaudi

La famiglia torinese degli Einaudi ha avuto due illustri membri: Luigi Einaudi (nato a Carrù, studi al liceo Cavour di Torino) è stato il primo “vero” presidente della Repubblica, dal 1948 al 1955, dopo il mandato temporaneo di De Nicola. Giulio Einaudi ha invece fondato l'omonima casa editrice nel 1933, ad appena 21 anni. Nel 1935 fu arrestato e inviato al confino dal regime fascista, a cui si opponevano gli esponenti della casa editrice torinese. Nel dopoguerra, tra le pubblicazioni più note la prestigiosa collana “I Millenni”, con edizioni di pregio, illustrate e corredate di critica; e “Scrittori tradotti da scrittori” con una serie di grandi romanzi tradotti da Natalia Ginzburg, Primo Levi, Cesare Pavese, Italo Calvino e altri grandi nomi dell'Einaudi. Nel 1994 passa a Mondadori, nel 1999 muore Giulio Einaudi, ma la torinesità rimane ancora con la presidenza dello storico e docente universitario torinese Walter Barberis.“

 

marietti

per esempio, quella Marietti alla quale accennavo, fondata nel 1820, una delle due o tre al mondo ad avere il titolo ufficiale di «editrice pontificia», quindi autorizzata dalla Santa Sede a stampare messali e altri libri liturgici per ogni continente. Ovunque, nel mondo, le messe sono state celebrate per un secolo e mezzo esponendo sull'altare pagine stampate a Torino, alla Crocetta, nel delizioso castelletto neogotico (semidistrutto dalla guerra) dove la Marietti aveva uffici e tipografia.

 

viglongo

Fondata nel 1945 dal libraio Andrea Viglongo pubblica opere in lingua piemontese e classici di autori nati e vissuti in Piemonte. Importanti sono le raccolte delle opere di Nino Costa, Luigi Gramegna ed Emilio Salgari.

 

utet

Questa casa editrice ha due date di “nascita” o per meglio dire di fondazione: il 1791 e il 1854. La prima si riferisce all'apertura della libreria della famiglia Pomba in contrada Po (oggi via Po, mentre l'abitazione era in piazza Bodoni, vicino a via Pomba); la seconda alla fondazione vera e propria della Unione Tipografico Editrice Torinese, creata da Giuseppe Pomba, subentrato nel 1814 al padre Giovanni nella libreria poi diventata tipografia, stamperia e casa editrice. Rilevata dalla De Agostini nel 2002, nella sua storia spiccano la Biblioteca e l'Enciclopedia Popolare nell'800 e il Grande Dizionario della Lingua Italiana, la cui redazione avviata da Salvatore Battaglia nel 1961 e terminata nel 2002 con la direzione di Giorgio Bàrberi Squarotti; successivamente il linguista Tullio De Mauro ha curato il Grande dizionario italiano dell'uso (Gradit).“

 

paravia

La storia del rapporto tra Paravia e libri inizia poco dopo quella di Pomba: nel 1802 la tipografia e libreria Zappata, in contrada Doragrossa (via Garibaldi) viene rilevata da Giovanni Sebastiano Botta, Francesco Prato (morto poco dopo) e Giovan Battista Paravia, amministratore dell'attività precedente. La libreria Paravia (in piazza Arbarello 6 angolo via Bligny), dopo un periodo di crisi negli anni '70 del Novecento, è ancora oggi un punto di riferimento per studenti e lettori. La casa editrice (amministrata poi da Giorgio figlio di GB), specializzata in pubblicazioni scolastiche e scientifiche, si è fusa con la Bruno Mondadori nel 2000 ed è stata acquisita nel 2006 dal gruppo anglo-americano Pearson. Tra le pubblicazioni più note di Paravia, il Campanini Carboni, storico dizionario di latino pubblicato da Paravia fin dal 1911.“

 

lattes

È una delle più antiche e longeve case editrici “familiari” di Torino: fu fondata nel 1893 in via Garibaldi 3, dove Simone Lattes (membro di una famiglia spagnola esiliata in Piemonte: il nome deriva da un paese vicino Montpellier) aprì la storica libreria omonima, venduta nel 1965 pur conservando il nome fino a una decina d'anni fa, quando è arrivato un negozio di utensili e arredi (Muji). La casa editrice è diretta ancora dalla famiglia Lattes, con Renata figlia di Mario (nipote di Simone), presidente dal 1982 fino alla morte nel 2001. Fin dagli inizi la Lattes si è dedicata ai libri universitari e poi all'editoria scolastica, che ne rappresenta tuttora il cuore dell'attività.“

 

boringhieri

La storia di questa casa editrice torinese inizia nel 1957, quando viene fondata la Editore Boringhieri per iniziativa di Paolo Boringhieri, collaboratore della Einaudi per cui dirigeva le pubblicazioni scientifiche. E proprio dall'Einaudi vengono rilevate le prime quattro collane di testi divulgativi e sociali: Einstein, l'opera completa di Freud, Jung e molti altri autori scientifici vengono pubblicati da Boringhieri. La svolta arriva nel 1987 quando Romilda Bollati di Saint Pierre, proprietaria di altri due marchi storici di Torino (seppur in altro ambito) come Carpano e Baratti, acquisisce il 90% della società e la affida al fratello Giulio, dando così vita alla Bollati Boringhieri. Poco dopo Boringhieri si ritira dalla società e morirà nel 2006; Giulio Bollati invece muore nel 1996, non prima di aver riorganizzato la sua casa editrice intorno a quattro aree: Arte e letteratura, Storia, filosofia e scienze sociali, Scienze e psicologia; nella riorganizzazione, Giulio Bollati aggiunge inoltre alla saggistica la collana Varianti, per la narrativa e i reportage. Nel 2009 la casa editrice torinese è passata al Gruppo Editoriale Mauri Spagnol.“

 

sei

Un discorso a parte per questa casa editrice particolare. Fu fondata nel 1908 accanto al Santuario di Maria Ausiliatrice, la basilica nel quartiere Valdocco voluta nel 1868 da san Giovanni Bosco, fondatore dei salesiani. L'ubicazione non è casuale: la SEI infatti è di proprietà della Congregazione Salesiana, e oltre ai testi scolastici ancora oggi il catalogo contiene moltissime opere religiose, un po' come avviene per un'altra antica istituzione religiosa, culturale e commerciale di Torino, la Libreria Claudiana.“

 

Le librerie storiche di Torino

 

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druetto

Questa libreria, che ha cessato l’attività recentemente, era posta su più piani in Piazza CLN, ed era un punto di riferimento per le novità librarie di Torino.

 

lattes

Sita in Via Garibaldi, su più piani, questa grande libreria era ricca di titoli non solo della casa editrice, ma di una grande varietà di edizioni di saggistica, narrativa e libri per bambini.

 

comunardi

All’imbocco di Via Bogino, aperta fino a mezzanotte, era specializzata soprattutto su politica, storia, filosofia, cinema, teatro, fumetti e saggistica.

 

fogola

La Libreria Dante Alighieri di Fogola, in Piazza Carlo Felice, oltre che vendere libri per gli studenti, aveva più piani con un ottimo assortimento di libri

 

cortina

La libreria Cortina era specializzata in pubblicazioni universitarie e scientifiche, ed era all’angolo di Corso Marconi e Via Ormea.

 

zanaboni

Ricca di pubblicazioni di viaggio e turismo e di dizionari, era in Corso Vittorio Emanuele, poco lontano dalla Stazione di Porta Nuova

 

petrini

Sita sotto i portici di Via Cernaia, all’altezza di Piazza Solferino, aveva un’ampia scelta di libri nazionali e internazionali.

 

luxemburg

Nominata nel Marzo 2015 dal giornale argentino Clarín come una delle 10 librerie più belle del mondo, la lbreria Luxemburg, un tempo conosciuta come Libreria Casanova, è aperta dal 1872 ed è la libreria più antica della città. Al suo interno da sempre vengono organizzate presentazioni di libri ed eventi culturali. Un vero punto di riferimento per gli amanti della letteratura. Libreria ben fornita e grandissima selezione di libri in lingua (inglese, francese, spagnolo, tedesco, russo, polacco, giapponese, cinese e tanto altro).

 

giappichelli

La piccola libreria con gli arredi originali della prima metà del Novecento, zeppa di libri e manuali universitari è il punto di riferimento di tutti gli studenti torinesi.

 

paravia

La libreria Paravia ha dovuto recentemente chiudere per la concorrenza di amazon, dopo essersi spostata da Via Garibaldi in Piazza Arbarello. Era stata fondata nel 1802, e la seconda libreria più antica d’Italia,

 

Da Emilio Salgari a Giovanni Arpino; la Torino degli scrittori piemontesi

 

Torino e il romanzo popolare

 

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Pochi sanno che la letteratura di appendice dell'Ottocento trova a Torino uno dei suoi principali centri. Accanto a Napoli, che annoverava Matilde Serao, Palermo con Luigi Natoli, Milano, con Liala, Francesco Mastriani ed Emilio De Marchi, scrissero a Torino Carolina Invernizio, Emilio Salgari, Dino Segre (“Pitigrilli”), Luigi Pietracqua, Luigi Gramegna e altri meno conosciuti. Se alcuni di questi autori, come Pietracqua e Gramegna, non acquisirono la notorietà dei loro colleghi più famosi fu solo per una caratteristica peculiare delle loro opere, ripubblicate attualmente dalla casa editrice Viglongo: esse sono in gran parte scritte in dialetto piemontese.

 

Libri ambientati a Torino

 

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Memoriale

Memoriale è il primo romanzo di Paolo Volponi, pubblicato originariamente nel 1962. Il tema principale attorno al quale ruota il testo è l'alienazione del lavoratore, con particolare riferimento all'Italia nel boom economico del secondo dopoguerra.

Il paggio del Duca

Romanzo di Alexandre Dumas padre ambientato a Torino al tempo di Emanuele Filiberto

A che punto è la notte (romanzo)

A che punto è la notte è un romanzo giallo di Fruttero & Lucentini del 1979. Nel 1994 ne è stata tratta un'omonima miniserie televisiva Rai, diretta da Nanni Loy e interpretata da Marcello Mastroianni.

Amore e ginnastica (romanzo)

Amore e ginnastica è un romanzo dell'autore italiano Edmondo De Amicis del 1892. Nel 1973 ne è stato tratto il film omonimo, diretto da Luigi Filippo D'Amico.

Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia

Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia è un romanzo di Leonardo Sciascia pubblicato per la prima volta nel 1977 da Einaudi e ispirato all'omonima opera di Voltaire.

La donna della domenica (romanzo)

La donna della domenica è un romanzo giallo di Fruttero & Lucentini, pubblicato nel 1972. Il romanzo è ambientato a Torino e narra dell'indagine del commissario Santamaria sull'omicidio dell'architetto Garrone, personaggio che conduce una vita di squallidi espedienti a margine della Torino "bene".

Le due città (romanzo)

Le due città è un romanzo di Mario Soldati, pubblicato presso Garzanti nel 1964. È un romanzo forte, figlio dell'indifferenza, permeato di opportunismo, in bilico tra le due città di Torino e Roma che rappresenteranno momenti diversi della vita di Emilio, il protagonista con diversi tratti autobiografici dell'autore, e del suo modo di essere, nonché forse di due epoche diverse.

La giornata d'uno scrutatore

La giornata d'uno scrutatore è un romanzo pubblicato da Italo Calvino nel 1963. Libro cerniera nell'opera intera di Calvino, contiene nuclei e tematiche appartenenti a diverse fasi, dando così continuità ed integrità alla produzione letteraria calviniana. Racconto (o romanzo breve) certamente pensoso e sofferto (Calvino impiegò dieci anni a realizzarlo - dal ‘53 al ‘63), mostra tutti i sintomi di una crisi su diversi fronti, uno dei quali è quello dell'impegno politico dell'autore.

Lessico famigliare

Lessico famigliare è un romanzo autobiografico di Natalia Ginzburg, pubblicato da Einaudi nel 1963, anno in cui ha vinto il Premio Strega.

Mia madre l'oca

Mia madre l'oca: Perché uccidere la madre? La storia di un matricidio gratuito, maturato inesorabilmente nel retroterra della Torino del dopo '68 è un romanzo di Giulio Barattieri, scritto tra gli anni Settanta ed Ottanta e pubblicato nel 1982 per Rizzoli. Dietro Giulio Barattieri, che è da considerarsi uno pseudonimo, si celerebbe una nota firma del giornalismo italiano.

La solitudine dei numeri primi

La solitudine dei numeri primi è il primo romanzo di Paolo Giordano. Romanzo di formazione, narra le vite parallele di Alice e Mattia attraverso le vicende spesso dolorose che ne segnano l'infanzia, l'adolescenza e l'età adulta.

La spiaggia

La spiaggia è un romanzo dello scrittore Cesare Pavese pubblicato nel 1942 dalle edizioni di "Lettere d'oggi" e scritto tra il novembre del 1940 e il gennaio del 1941.

Fai bei sogni

Fai bei sogni è un romanzo autobiografico di Massimo Gramellini pubblicato nel 2012 per Longanesi. L'autore racconta il proprio percorso interiore per superare il dolore e il senso di abbandono dovuto alla morte della madre sopraggiunta quando lui aveva nove anni.

La suora giovane

La suora giovane è un romanzo breve di Giovanni Arpino (1927-1987) pubblicato a Torino da Einaudi nel 1959. Nel 1960 il romanzo raggiunge la finale del Premio Strega, poi attribuito a Carlo Cassola.[1] È stato tradotto in inglese, francese, tedesco, svedese e spagnolo

Tra donne sole

Tra donne sole è un romanzo dello scrittore Cesare Pavese, scritto tra il 17 marzo e il 26 maggio del 1949 che conclude il trittico intitolato La bella estate.

Tutti giù per terra (romanzo)

Tutti giù per terra è un romanzo di Giuseppe Culicchia del 1994. Da questo romanzo è stato tratto l'omonimo film, diretto da Davide Ferrario e interpretato da Valerio Mastandrea.

Vestivamo alla marinara

Vestivamo alla marinara è un romanzo autobiografico scritto da Susanna Agnelli, in cui racconta le vicende della sua infanzia e dei suoi fratelli Gianni Agnelli, Umberto Agnelli e Giorgio Agnelli.

Viaggio intorno alla mia camera

Viaggio intorno alla mia camera (Voyage autour de ma chambre) è un romanzo di Xavier de Maistre, scritto nel 1794 e pubblicato anonimo l'anno successivo in una edizione datata tuttavia 1794.

 

La Torino di Edmondo de Amicis

 

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Edmondo Mario Alberto de Amicis, l’indimenticabile autore del romanzo Cuore, che tutti i ragazzi una volta leggevano, ha lasciato numerosi scritti che descrivono la sua città di adozione, Torino, nella quale passò stabilmente gli ultimi 25 anni della sua vita, e la sua storia.

 

La Torino di Fruttero e Lucentini

 

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Carlo Fruttero e Franco Lucentini, abili giallisti, straordinari nel restituire nei loro romanzi l'anima della città di Torino: osservatori attenti della nostra società in anni di profondi mutamenti con particolare attenzione alla città di Torino, protagonista implicita dei loro più noti lavori. Tra le opere più importanti di questo sodalizio letterario, si ricordano: La donna della domenica (1972); A che punto è la notte (1979); Il palio delle contrade morte (1983); L’amante senza fissa dimora (1986); Enigma in luogo di mare (1991); Il ritorno del cretino (1992)

La donna della domenica, da cui è stato tratto un film con Marcelllo Maatroianni, Jean-Louis Trintignant e Jacqueline Bisset, ambientato in una Torino malefica e metafisica, è da molti considerato il capostipite del « giallo italiano ». La trama si snoda tra i vizi, l’ipocrisia, le comiche velleità e gli esilaranti chiacchericci che animano la vita della borghesia piemontese.

Carlo Fruttero nasce a Torino il 19 settembre del 1926. Si reca in Francia nel 1947 dove inizia a tradurre per Einaudi; nel 1952 incontra Franco Lucentini con il quale instaura un sodalizio letterario destinato ad avere un grandissimo successo. Dal 1961 al 1986 dirige, prima solo e poi con Lucentini, la collana Urania (Mondadori). Si spegne il 15 gennaio 2012 nella sua villa a Castiglione della Pescaia.

Franco Lucentini nasce a Roma il 24 dicembre del 1920. Debutta come narratore nella storica collana di Einaudi I gettoni. Negli anni ’50 incontra a Parigi Carlo Fruttero con il quale intraprende una fruttuosa e fortunata collaborazione letteraria. Muore il 5 agosto 2002 a Torino.

 

I primi giornali di Torino

 

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Dalla metà dell’ottocento in poi, Torino vede una notevole fioritura di giornali, quotidiani e periodici di ogni tendenza che rivelano nella maggior parte dei casi la presenza di una forza politica che si farà più marcatamente notare negli anni a venire. Giornali che nascono, talvolta per l’iniziativa di una personalità emergente, e si trovano costretti poi, talvolta in un breve spazio di tempo, a chiudere i battenti per mancanza di fondi.

Le testate più forti e, per un certo verso più rappresentative, mutano qualche volta la denominazione e giungono fino ai giorni nostri a testimoniare la presenza e la validità del giornalismo torinese, soprattutto negli anni che precedettero e prepararono il Risorgimento, poi mentre l’Italia unita nasceva e quindi dopo, quando la capitale fu spostata a Roma.

Di anno in anno, Torino mantiene una certa preminenza nel mondo della carta stampata grazie a firme prestigiose, legate al mondo della politica, dell’arte e della scienza. In ordine cronologico, alcune delle testate più significative:

1814. «Gazzetta Piemontese». Diventa quotidiano dopo avere seguito, con una diversa periodicità, anche come trisettimanale, le vicende della Rivoluzione francese; fu considerato quasi il giornale ufficiale dei Savoia.

1832. «Messaggiere Torinese». Ne ebbe la direzione uno scrittore geniale come Angelo Brofferio. Cessò le pubblicazioni nel 1849 per riprenderle nel 1850 con la testata «La Voce nel deserto », ancora diretta da Brofferio. 1836. «Letture Popolari». Rubriche di arti e mestieri carattcrizzano questo settimanale, di Lorenzo Valerio (1810-65). uomo politico, giornalista, scrittore tra i capi del movimento liberale piemontese durante il Risorgimento. Cercò con il giornale di rendere la gente comune più informata delle vicende politiche e più preparata a partecipare alla vita sociale. La rivista venne soppressa dalla censura nel 1842 ma Valerio, cambiata la testata in «Letture di famiglia», riprese coraggiosamente le pubblicazioni.

1846. «Mondo Illustrato». Vicino alle idee di Vincenzo Gioberti, andò avanti, con difficoltà, fino al 1861.

1847. «Il Risorgimento». Ebbe ispiratore, direttore e animatore il conte di Cavour, di cui rifletteva le opinioni. Giornale essenzialmente politico, aveva per editori Cotta e Pavesi©. Il quotidiano ebbe una innovazione giornalistica importante: per la prima volta compì la divisione delle notizie fra quelle che riguardavano l’“intemo” e quelle che concernevano 1’“estero". Nel numero del 30 aprile 1848 il giornale dava notizia dell’arrivo a Torino di Vincenzo Gioberti. «Il Risorgimento» cessò le pubblicazioni il 31 dicembre 1852.

1848. «La Concordia». Con la direzione di Lorenzo Valerio, apparve come giornale di ispirazione democratica, aperto ai tempi che stavano maturando. Fra i col laboratori, Federico Menabreae Roberto D’Azeglio.

1848. «L’Opinione». Va collocato tra i due giornali precedenti. Ebbe come primo direttore Giacomo Durando. Si sviluppò, con un discreto successo, nel clima fervido di idee del 1848, nel grande dibattito risorgimentale.

1848. «Il Fischietto». Importante come testata satirica e umoristica, ricco di illustrazioni e di piacevoli caricature. Brioso per il modo in cui impostava l’informazione politica e forniva commenti sulla situazione. Cominciò “a fischiare", come si disse a Torino, il 2 novembre 1848, nella casa di via Guardinfanti, la via Barbaroux di oggi, al numero 5, al primo piano, dov’era la Tipografia Cassone.

1848. «L'Italiano». Prenderà in seguito il nome di «La Gazzetta del Popolo» e otterrà una notevole diffusione a Torino, superando il periodo del regime fascista e gli anni del post-fascismo, per chiudere i battenti essenzialmente per difficoltà economiche. 1848. «L’Armonia». Fu diretto da un prete dinamico, giornalista battagliero, don Giacomo Margotti. La testata, letta per intero, forniva già il programma del giornale: «L’Armonia della Religione colla Civiltà». La comparsa di questo foglio segnò la presenza dei cattolici torinesi nel giornalismo risorgimentale. Il primo numero uscì il 4 luglio 1848. Tra i collaboratori, il teologo Gaetano Alimonda, poi arcivescovo di Torino e cardinale, e il marchese Gustavo di Cavour, fratello maggiore di Camillo, e don Antonio Rosmini. La redazione si trovava in casa Gazzelli, in via del Fieno 1, al secondo piano. Nel 1866 «L’Armonia» si spostò a Firenze, con la capitale, e nel 1870 cessò le pubblicazioni. Don Margotti morì a Torino, nella sua casa di via Gioberti 30, il 6 maggio 1887, dopo brevissima malattia.

1850. «La Campana». Prima bisettimanale, poi quotidiano, appoggiava la Chiesa ed era sostenuto da una parte di cattolici, anche con polemica vivacità.

1856. «Il Pasquino». Nato il 27 gennaio, aveva la direzione al numero 7 dell’attuale via Carlo Alberto, satirico e umoristico, venne definito “un vulcano in eruzione”. Gli uffici del giornale, in via Beata Vergine degli Angeli 1, furono poi trasferiti in piazza San Carlo 10. Si distinse per la vena polemica, soprattutto per le “sparate” di Casimiro Teja, caricaturista di eccezionale bravura, che impegnò non poco le autorità preposte alla censura.

1867. «Gazzetta Piemontese». Nel 1895 mutò testata e divenne l’attuale quotidiano «La Stampa», con sede iniziale in via Davide Bertolotti angolo piazza Solferino. Fu poi affiancato da «Stampa Sera», edizione del pomeriggio.

1869. «L’Arte in Italia». Rivista mensile di belle arti, presentava pregevoli xilografie nel testo e tavole staccabili. Riscosse un buon successo iniziale e proseguì le pubblicazioni sino al 1873.

1870. «Proletario Italiano». Espressione del primo movimento socialista torinese, si prospettò come novità “a sinistra”, diffuso fra le associazioni di categoria delle fabbriche meccaniche e tessili e ospitò pure notizie relative alla situazione dell’artigianato spicciolo.

1870. «L’Unione». Fu il giornale politico, aperto ai dibattiti, dedicato soprattutto agli insegnanti, con un notiziario rivolto specialmente a tale categoria.

1874. «La Voce dell’Operaio». Continua le pubblicazioni ai giorni nostri con la testata «La Voce del Popolo» come giornale diocesano torinese, volto alla parte più popolare del mondo cattolico.

1877. «La Gentildonna». Fu un mensile di moda, scienze e cultura, diviso in due parti ben distinte, una per la moda e una per la letteratura, considerato fra i primi tentativi di attrarre un pubblico femminile.

1878. «La Vita Torinese». Rivista interessata al teatro e al mondo dello spettacolo in genere, con notizie relative anche ai libri, alla letteratura e allo sport.

1880. «Archivio». Giornale di psichiatria e di antropologia criminale, offriva notizie in modo divulgativo. Fu diretto da Cesare Lombroso, capostipite ed espressione della scuola che identificava l’uomo portato a delinquere per certe caratteristiche somatiche.

 

La Stampa

 

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La Stampa fu fondata a Torino il 9 febbraio 1867 con il nome di Gazzetta Piemontese dal giornalista e scrittore Vittorio Bersezio e dal politico Casimiro Favale. Il motto del giornale era «Frangar non flectar» ("Mi spezzerò non mi piegherò") e il prezzo era di 5 centesimi di lire. Nei primi anni di vita il giornale uscì dalla tipografia di Favale, in via Dora Grossa, ebbe una tiratura di 7-8000 copie e due edizioni giornaliere, mattutina e pomeridiana. Nel 1880 la «Gazzetta Piemontese» fu acquistata dal deputato liberale Luigi Roux, che ne assunse anche la direzione. Tra i collaboratori del giornale spiccano i nomi dei deputati Silvio Spaventa e Ruggiero Bonghi.

Nel 1894 divenne comproprietario l'imprenditore e giornalista Alfredo Frassati, che affiancò Roux nella direzione. Da condirettore decise di rilanciare il giornale. La testata fu modificata in La Stampa Gazzetta piemontese, mentre motto e prezzo restarono immutati.

Il quotidiano apparve con la nuova testata che recava “La Stampa” come titolo e “Gazzetta Piemontese” come sottotitolo, il 1º gennaio 1895. Frassati trasferì poi la sede in un palazzo di piazza Solferino. Introdusse anche nuove tecnologie: arrivò la linotype, una delle prime in Italia (le linotype raggiungeranno il numero di trentasette).

In pochi anni la tiratura de La Stampa salì a 50 000 copie. Nel 1900 Roux cedette la proprietà della testata[9]: due terzi a Frassati e un terzo al finanziere E. Pollone. Frassati assunse così la carica di direttore e poté scegliere in autonomia la linea editoriale. Impresse una linea politica di sostegno a Giovanni Giolitti, di cui divenne uno dei maggiori sostenitori. Chiamò brillanti intellettuali come Luigi Einaudi, Francesco Saverio Nitti e Gaetano Mosca. Dette vita a un supplemento illustrato sportivo («La Stampa Sportiva», 19 gennaio 1902) e ad una rivista dedicata al mondo femminile («La Donna», 27 dicembre 1904)[10].

Il 12 agosto 1908 sparì il sottotitolo «Gazzetta piemontese» e rimase solo in evidenza La Stampa come unico titolo del quotidiano. La tiratura salì costantemente fino a sfiorare le 100 000 copie nel 1910, facendo della Stampa il primo quotidiano di Torino davanti alla Gazzetta del Popolo e il secondo del Nord. Di orientamento liberale, appoggiò la linea politica di G. Giolitti, sostenendo l’impresa libica e avversando, nel 1915, l’intervento in guerra dell’Italia.

Il 1º dicembre 1920 il gruppo finanziario-industriale Agnelli-Gualino acquistò la quota di Pollone insieme al diritto di prelazione sulle quote di Frassati. Dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti (11 giugno 1924) il quotidiano si schierò su posizioni anti-mussoliniane. Per aver preso questa posizione, Frassati dovette cedere la proprietà del giornale a un gruppo gradito al capo del governo. Il 29 settembre 1925 il giornale venne sospeso (fu un avvertimento del regime). Quando tornò in edicola il 3 novembre, Frassati ebbe i giorni contati: rassegnò le dimissioni il 9 novembre 1925. Nel suo ultimo anno alla guida del quotidiano, «La Stampa» si era assestata su una tiratura di 176 000 copie[11]. Nel 1926 la FIAT (ovvero la famiglia Agnelli) ne rilevò la proprietà con l'avallo delle autorità fasciste. Il nuovo direttore, Andrea Torre, allineò il giornale sulle direttive del regime, ma il quotidiano perse copie, a favore del diretto concorrente «Gazzetta del Popolo», che lo superò diventando il primo quotidiano torinese.

Il 31 dicembre 1930 uscì il primo numero de «La Stampa della Sera» (dal gennaio 1937 «Stampa Sera»)[13], edizione pomeridiana e del lunedì del quotidiano torinese (giorno in cui tradizionalmente «La Stampa» non veniva pubblicata). Nel 1934 la sede del quotidiano fu trasferita in un grande palazzo che s'affacciava su via Roma con ingresso dalla Galleria San Federico. Con la direzione di Alfredo Signoretti le vendite de «La Stampa» cominciarono ad aumentare, dopo le sensibili riduzioni della tiratura verificatesi all'inizio del decennio. Nel febbraio 1943 «La Stampa» era stabilmente il secondo quotidiano italiano con 550 000 copie di tiratura media[14] (posizione che manterrà fino al 1986).

Sospeso subito dopo la liberazione, riprese la pubblicazione nel 1945, sotto la direzione di F. Burzio (1945-48), con il titolo La nuova S., poi, dal 1959, di nuovo con il titolo precedente. Di proprietà dal 1946 dell’Editrice La Stampa, durante la direzione di G. De Benedetti (1948-68) assunse un orientamento moderato. Nel 1947 riprese la pubblicazione dell’edizione pomeridiana Stampa sera, sospesa nel 1992. Nel 2014 la proprietà è passata all'Italiana Editrice S.p.A. e dal 2017 a GEDI Gruppo Editoriale. Tra i direttori si ricordano G. Debenedetti, A. Ronchey (1968-73), P. Mieli (1990-92), E. Mauro (1992-96), C. Rossella (1996-98), M. Sorgi (1998-2005), G. Anselmi (2005-09), M. Calabresi (2009-15), M. Molinari (2016-2020), M. Giannini (2020-).

Oggi la Stampa è il terzo quotidiano nazionale non sportivo, con una tiratura di 214.000 copie, dietro a Corriere della Sera (322.000) e Repubblica (292.000).

 

 

 

 

 

LE DONNE DI TORINO

 

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Maria Bricca, l’eroina dell’assedio di Torino del 1706

 

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Un personaggio insolito, un’immagine femminile che si sfuma nella leggenda. Maria Chiaberge Bricco (Pianezza 1684-1733) è considerata l’eroina dell’assedio di Torino del 1706. Ma il nome è Bricca o Bricco? Ciò che la riguarda sembra appartenere più alla tradizione popolare di Torino e dei suoi dintorni che non alla storia scritta, suffragata da documenti. L’eroina del 1706 è ormai accettata “storicamente”. Il nome esatto dovrebbe in ogni caso essere Maria Chiaberge sposata a Valentino Bricca, detta popolarmente la “Bricassa” per il suo coraggio e l’astuzia. La chiamiamo Bricca poiché nella via a lei intestata da Torino è detta Bricca; era, del resto, usanza popolare nelle campagne piemontesi di volgere al femminile il nome del marito. Così Bricco, indicando la moglie, diventava Bricca, come la moglie di un tale Prinotto veniva chiamata Prinotta. La donna abitava a Pianezza, in una casa vicina al castello che nel 1706 gli assedianti francesi occupavano. Ne avevano fatto un deposito di armi e di vettovaglie, là gozzovigliavano spesso e ciò irritava non poco gli abitanti. Dalla sua casa - vi è ora murata una lapide commemorativa - la Bricca li vedeva e meditava un colpo ai loro danni. La casa di Maria era col legata al castello da un passaggio sotterraneo, e questo i francesi non lo avevano scoperto. La donna andò a parlarne al marchese Visconti, ufficiale degli austro-piemontesi, e si concertò un piano. I militari sarebbero affluiti alla spicciolata in casa della Bricca, poi, attraverso il tunnel, avrebbero fatto irruzione nel castello proprio mentre i francesi stavano ballando e bevendo. C’è una cronaca di quel lontano episodio, scritta con una certa dose di umorismo: «Se l’apparizione di Maria Bricco, uscente da una nuvola di polvere coll’ascia impugnata, potè per un istante sembrare grottesca ai nostri danzatori - la spada alla mano - dovette stranamente cambiare l’effetto della scena. Cavalieri e dame e tutto ciò che si trovò nella sala fu preso e rinchiuso sotto buona guardia; ed il rumore della moschetteria sostituì ben presto quello dei violini. I volontari percorsero il castello facendo man bassa su tutto ciò che tentava di opporsi». L’episodio è descritto così in un manoscritto francese; qualche perplessità rimane poiché nessuno storico del Settecento, quindi contemporaneo della Bricca e dei personaggi dell’assedio, ne fece cenno. Maria, comunque, nacque il 23 dicembre 1684 e morì quarantanove anni dopo; curiosamente e nello stesso mese e nel medesimo giorno. La donna, accomunata a Pietro Micca - le due immagini gloriose dell’assedio del 1706 - ha ispirato alcuni artisti, fra cui il Gonin, che hanno raffigurato la scena in cui lei, alla testa degli armati, irrompe nel castello, e qualche saggista, come Carlo Trabucco, che dell’assedio francese si occupò in un suo particolareggiato saggio, Scacco al re Sole. Ne parla anche il generale Clemente. Assum nel suo volume L'assedio e la battaglia dì Torino (pubblicato a cura della Unione nazionale ufficiali in congedo d’Italia: associazione della provincia di Torino). Assum scrive che il gesto della Bricca ebbe soprattutto un valore morale e produsse negli assedianti francesi «une grande constemation». “La Bricassa”, dunque, come l’effetto di una bombarda, preparazione al grande scoppio messo in atto dal Micca con il suo sacrificio.

 

fonti:

Renzo Rossotti, Guida insolita di Torino, p. 189

 

“Qui le donne non si laureano”. Quando l’Università di Torino negò la laurea ad una fanciulla perché ne sarebbe stata “contaminata”

 

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Nel 1777 esplose uno scandalo perché una giovane si presentò a sostenere gli esami con la pretesa, poi, di ottenere una laurea. Protagonista del caso fu Maria Pellegrini Amoretti, Il Magnifico Rettore, il professor Pertengo, non trovò scandalosa la richiesta della donna e si dimostrò disposto ad accontentarla, ma ci fu un’alzata di scudi da parte dei professori che disertarono il consiglio cui erano stati convocati, dichiarando che mai avrebbero accettato che l’ateneo venisse “contaminato” da una donna. Il Pertengo perorò la causa fino a proporre di dar luogo all’esame collegiale a casa sua, in modo che l’università non sarebbe stata “contaminata”. Neppure ciò venne accolto e il Pertengo dovette dimettersi, mentre la fanciulla andò a laurearsi (con lode) in giurisprudenza all’università di Pavia. Dovevano passare cento anni perché la prima donna fosse laureata all’università di Torino. Si chiamava Velleda Farnè. .

 

fonti:

Renzo Rossotti, Guida insolita di Torino, p. 101

 

Il primo sciopero delle donne a Torino: Maria Ferraris Musso.

 

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Il movimento femminista diede a Torino i primi segni della propria presenza quando all’estero era già ben avviata la campagna di propaganda per dare il voto alle donne, e le cosiddette “suffragette” irrompevano sulla scena politica, soprattutto in Inghilterra. A Torino, come in altre città italiane, le donne tentavano un approccio con la politica ma, soprattutto, per ottenere migliori condizioni di vita e un concreto riconoscimento nel mondo del lavolavoro. Si segnalarono malcontenti fra le “sartine”, come venivano chiamate le cucitrici e le ricamatrici. Il primo sciopero delle donne impegnate in tale settore fu organizzato da Maria Ferraris Musso.

 

fonti:

Renzo Rossotti, Guida insolita di Torino, p. 100

 

Due storie divertenti di battagliere donne piemontesi

 

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le contadine di rourà e i cappuccini beffati

Le cronache del Seicento riportano un caso accaduto in Val Luserna, che aveva visto protagonisti le donne del paese e i Cappuccini.

I Frati Grigi, così li chiamava il popolino delle valli, avevano tentato con ogni mezzo di estirpare l'eresia dal Piemonte, insieme ai Gesuiti. Quindici anni prima, dopo aver ottenuto il territorio di Saluzzo col trattato di Cavour, Carlo Emanuele aveva emanato un editto che imponeva l'abiura a tutti i non cattolici oppure la partenza, sotto pena di morte. Il Sovrano aveva ribadito il divieto di praticare la fede riformata al difuori del territorio stabilito da Emanuele Filiberto nell'accordo di Cavour di cinquant'anni prima, e aveva concesso ai Riformati di Saluzzo tre anni per vendere i propri beni ed allontanarsi, facendo divieto ai Valdesi di accoglierli.

Nonostante l'accordo di Cavour, i Cappuccini continuavano a percorrere le valli, e a cercare di cattolizzare la popolazione. Il Governatore del Duca, aveva emanato un editto in cui "era proibito agli uomini delle Valli ostacolare o perturbare, in qualsivoglia maniera, le Reverendissime Madri Francescane Osservandine e i Reverendissimi Padri Francescani Cappuccini, sotto pena di morte al delinquente, e di una multa di diecimila corone d'oro al comune nel quale il crimine viene commesso". L'editto aggiungeva che ogni informatore avrebbe ricevuto duecento corone d'oro e il suo nome sarebbe stato tenuto segreto.

Di lì a poco, un gruppo di Cappuccini aveva preso possesso di una casa disabitata a Rourà. I contadini, come era avvenuto a Bobbio, si erano riuniti in armi sotto le loro finestre. Ma forti di questi nuovi ordini, i Cappuccini cambiarono tattica: non se ne andarono ostentando la mitezza cristiana, ma sfidarono gli uomini a mettergli le mani addosso, con l'intenzione di provocare un incidente e indurre il Governatore a mandare i soldati. Ma quelli, dopo essersi consultati, fecero largo alle loro donne, che brandivano pesanti scuri.

"Il vostro editto vieta agli uomini delle valli di mettervi le mani addosso, ma non fa parola delle donne". E così le robuste popolane di Roura avevano fatto irruzione nella casa, e sorde alle proteste e alle grida dei Cappuccini se li erano caricati sulle spalle, come fossero un carico di legna, e li avevano riportati a valle con tutte le loro cose, tra le risate collettive. Invano essi si erano appellati alle autorità di Torino. I Valdesi avevano fatto un contro-ricorso, esponendo le loro ragioni, e le cose erano tornate come prima.

le donne di piossasco ripristinano la diga sul sangone a trana

[Racconta Cattanea Orsola (1899)] In Piossasco l'acqua è sempre stata una carenza naturale e di conseguenza la si chiedeva o si sottraeva a secondo dell'umore popolano ai Comuni che sono vicini alle fonti della vita, uno di questi fu e lo è tutt'ora il paese di Trana. All'interno di questo paese scorre il Sangone che raccoglie le acque della valle di Giaveno.

Ordunque un lunedì dell'anno attorno al 1700-1800 le donne di Piossasco vollero come era consuetudine lavare i panni del lavoro e della casa (gli altri giorni erano dedicati al lavoro dei campi o alla cura della prole), ma manca l'acqua, dentro ai piccoli corsi d'acqua che passava in mezzo alla strada e che con l'ostruzione di pietre e terra formavano delle piccole anse, oppure nei rioni si erano fabbricati dei lavatoi o abbeveratoi come lo dimostrano le vie antiche o borghi intestati: vicolo Gurgo, ponte Borgiattino, la Loia, ecc., trovandosi le donne tutte assieme senza materia prima del loro lavoro di casalinghe, si recarono a protestare dalla locale autorità affinché mandassero degli uomini a ripristinare la diga sul Sangone a Trana, ma l'autorità si rifiutò in quanto al disfacimento della diga stessa erano gli uomini di un altro paese nelle stesse condizioni di Piossasco, Rivalta, mandando gli uomini di Piossasco equivaleva creare delle controversie che sfociavano in liti.

Le donne allora presero una decisione che fu fatale e determinante, si recarono a piedi fino a Trana, portandosi i figli più piccoli e giunte presso il luogo dove vi era la deviazione che incanalava l'acqua a Piossasco entrarono nel Sangone e si misero a rifare la diga; potete ben capire il disappunto dei rivaltesi, ai quali si unirono anche le autorità dell'acquedotto, un altro ente che vantava dei diritti sulle acque del Sangone, questi cercarono con tutti i mezzi di dissuadere le donne a fare la diga, le minacciarono, le insultarono, senza ottenere l'abbandono del lavoro intrapreso, essi non potendo venire a lite con le donne, si rivolsero a quelli che allora erano le forze di giustizia; le Guardie Regie arrivarono sui loro cavalli e si misero sulla sponda in segno di autorità, il loro comandante in tono imperioso ordinò: «In nome del Re abbandonate quello che state facendo, altrimenti l'arma del Re ne avrà ragione». Fu allora che si compì la storia dell'acqua, allorché una di quelle donne si eresse sulla persona alzando oltre il ventre la lunga gonna e gridò: «Voi capitario avete l'arma del Re, ma noi guarda abbiamo l'arma della Regina che ottiene tutto dal Re».

A queste parole le Guardie Regie ritornarono scornate a riferire ai loro superiori; non molto tempo passò che una ordinanza autorizzava che la diga poteva essere fatta, solo con pietre e terra, ma poteva essere fatta, di conseguenza le autorità di Piossasco acquistarono una fucina nel territorio di Trana la quale diede la possibilità di istituire per legge la deviazione di una quantità sufficiente di acqua per far girare i magli della fucina stessa e dopo scaricare l'acqua nel canale che la portava a Piossasco.

 

fonti:

http://www.3confini.it/Foto%20Piossasco%201/Sangonetto2.htm

 

Madama Cristina

 

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Cristina di Borbone-Francia, Duchessa di Savoia e prima Madama Reale, fu una vera e propria V.I.P. della Torino del 1600, che se fosse vissuta oggi sarebbe stata su tutte le copertine dei giornali di gossip. Una delle più chiacchierate personalità di Casa Savoia, una donna forte ed energica che riuscì a concentrare per un trentennio il potere politico nelle sue mani, in un contesto – quello della corte sabauda – in cui le donne non contavano granché.

Lunghi boccoli castani che incorniciano un grazioso visino ovale, un nasino all’insù tipico delle mademoiselles francesi, pelle diafana, labbra rosse increspate da un sorriso ironico, occhi vivaci… così appare Cristina nei suoi ritratti ufficiali. Nacque a Parigi il 10 febbraio 1606, figlia di Enrico IV e Maria de’ Medici e sorella del futuro re Luigi XIII, fu educata tra gli splendori del Louvre. Nel 1619, a soli 13 anni, venne data in sposa a Vittorio Amedeo I, futuro duca di Savoia, e fu spedita a Torino. I due non si erano mai visti, la differenza di età era notevole: lui aveva 31 anni. Il matrimonio servì a sancire l’alleanza sabauda e francese in funzione antispagnola. L’amore e i sentimenti non erano contemplati.

La giovinetta si trovò catapultata in un mondo totalmente diverso da quello a lei familiare: la corte torinese, austera e poco incline ai divertimenti, dovette sembrare di una noia mortale agli occhi della frizzante francesina. Ma tant’è: gli anni passarono, finché il 5 ottobre 1637 la vita di Cristina subì una rivoluzione. Il suo amato (?) consorte morì: la duchessa aveva 31 anni e aveva già adempiuto al suo dovere partorendo 6 figli (4 femmine e 2 maschi) e garantendo quindi la successione al trono.

Si spalancarono le porte della libertà! Bella e disinvolta, si circondò di amanti (tra cui suo cognato, il cardinale Maurizio di Savoia, e il colto e aitante conte Filippo San Martino di Aglié). Intelligente e con uno spiccato senso politico, fu reggente per suo figlio Carlo Emanuele II per circa 30 anni (continuò a regnare anche quando ormai l’erede aveva raggiunto la maggiore età) e passò indenne una guerra civile scoppiata perché i suoi cognati erano contro di lei. Egocentrica, amava esibire i suoi titoli nobiliari firmandosi: “Chretienne de France, Duchesse de Savoie, Reine de Cypre” (riesumò dagli archivi di corte quest’ultimo titolo che riguardava una vecchia investitura a cui non corrispondeva nessun potere effettivo). Espressione vivente della corte parigina, divideva le sue giornate tra impegni ufficiali e feste nelle sue residenze favorite: il Palazzo Madama, il Castello del Valentino e la sua Vigna sulla collina torinese.

In vecchiaia la nostra eroina si tranquillizzò… probabilmente la paura dell’aldilà iniziò a farsi sentire, perciò la Madama Reale trascorse i suoi ultimi anni dedita alla religione e alla penitenza: seguiva 15 messe al giorno con una croce sulla schiena e si faceva camminare sul corpo dalle suore carmelitane della Chiesa di Santa Cristina da lei fatta costruire in Piazza San Carlo Borromeo (al suo tempo detta Place Royale).

Cristina di Francia lasciò questo mondo il 27 dicembre 1663. Vestita come una semplice monaca venne sepolta sotto l’altare di un locale sito sotto il coro della Chiesa di Santa Cristina, che era usato per la sepoltura delle suore. Sulla tomba una lapide (ora perduta) recitava:

christianae a francia

henrici iv et ludovici xiii christianissimorum filia soror

victoris amedei ac francisci hyacinthi carolique emanuelis fratrum uxor mater et tutrix

nata lutetiae parisiorum x februari mdcvi

obiit a.t. xxvii dec. a. mdclxiii

Rimase qui fino al 21 settembre 1802. Durante il periodo di occupazione napoleonica la Chiesa di Santa Cristina fu soppressa e diventò Borsa di Commercio. Le spoglie della Duchessa furono traslate nella vicina Chiesa di Santa Teresa, dove si trovano tutt’oggi.

L’epigrafe che la ricopre è del 1970:

madama reale maria cristina di francia

moglie di vittorio amedeo i duca di savoia re di cipro

morta in torino il 27 dicembre 1663

sepolta in s. cristina

trasferita in questa chiesa al tempo della repubblica francese

collocata in questa cappella il i dicembre 1855

La nicchia è sormontata da una semplice edicola, posizionata all’epoca di Vittorio Emanuele II, in cui è scritto:

christinae / henrici iv regis gallor. f. uxori victorii amedei / ducis sabaudiae /

francisci hiacinti et caroli emmanuelis ii / matri et tutrici providentissimae /

divini cultus / artium et litterarum fautrici altrici egenorum /

quae post imperium xxv annorum / diem suum functa est /

vi kal. januarii a. mdclxiv / rex victorius emanuel ii / in templo quod ipsa vivens condi curavit / et quo cineres eius ad quiescunt / monumentum posuit / a. mdccclv

 

fonti:

https://www.lacivettaditorino.it/madama-reale-maria-cristina-di-francia/

 

Le prime donne astronome all’Osservatorio di Torino

 

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"La Facoltà di matematica di Torino è frequentata da non poche signorine, alcune delle quali hanno veramente attitudine per quegli studi severi. Se poi il posto di assistente alle cattedre del primo biennio si desse per concorso, facilmente questo sarebbe vinto da una delle Dottoresse ora dette. Ora, sarebbe prudente mettere come assistente di cattedra, per esempio di Geometria descrittiva e corrispondente disegno, una giovinetta in mezzo a 180 studenti?"

Queste parole di perplessità giungono da padre Giovanni Boccardi, un lontano direttore dell’Osservatorio Astronomico di Torino o, come si chiamava allora, del Regio Osservatorio. Ne Il nuovo Regolamento pel personale degli Osservatori Astronomici Boccardi analizzava l’ipotesi, non troppo remota, di una giovane assistente impegnata in una lezione presso l’Università e ironia della sorte, sarà proprio lui il direttore che consentirà l’ingresso ufficiale delle prime astronome a Torino.

Per comprendere meglio la loro partecipazione nel mondo scientifico non si deve ignorare il particolare contesto storico nel quale è avvenuto il loro ingresso e nemmeno scordare la nascita e i vari spostamenti dell’Istituto di ricerca scientifica in questione, ormai posizionato sulla collina di Torino da più di un secolo.

Dai tetti di Via Po

La storia dell’Osservatorio Astronomico torinese inizia almeno un secolo prima, nel 1759, sui tetti di via Po al numero 1 ad opera di un altro padre, Giovanni Battista Beccaria. Dall’abitazione dell’eclettico abate, o meglio dalla torretta originaria ormai non più visibile, si susseguirono diversi cambi di sede e di denominazione che portarono l’originario Osservatorio prima al Collegio dei Nobili, nel 1790 sede della Regia Accademia delle Scienze e oggi del Museo Egizio, per finire nel 1822 sui tetti di Palazzo Madama sotto il controllo dell’Università sabauda. Tutti questi trasferimenti non erano solo dovuti ai cambi istituzionali, dalla Regia Accademia delle Scienze al Regio Osservatorio dell’Università di Torino, ma anche a questioni tecniche; l’aumento graduale dell’illuminazione cittadina, infatti, disturbava sempre di più le osservazioni notturne.

Nonostante la scelta di una delle quattro torri di Palazzo Madama, come si può ancora vedere dalle stampe o foto dell’epoca, ci vollero quattro anni di ricerca per individuare una sede alternativa, non troppo distante dalla città, ma al riparo dal crescente inquinamento luminoso, realizzando da zero nuove costruzioni. Una volta individuato il sito (per farlo occorse utilizzare lo spazio fornito dal giardino dell’Hotel Grande Albergo di Superga, utile per posizionare la strumentazione e testare il cielo notturno della collina) nel 1913 avvenne il trasferimento a Pino Torinese, dopo che in località “Bric Torre Rotonda” si era completata la costruzione di due palazzine per i laboratori meccanici, la biblioteca, gli uffici e l’alloggiamento del personale residente. Ma già dal 1904 erano iniziati i primi impieghi di astronome.

Giovani “calcolatrici”

Grazie all’analisi degli Annuari dell’Osservatorio e dell’Università di Torino, ma anche dei libri paga, si è potuto ricostruire l’identità e le carriere, seppur molto brevi, di queste prime scienziate del secolo scorso. Se si vuole applicare il principio di serendipità, ovvero quello di cercare un dato e poi trovarne un altro inaspettato, posso affermare che, sfogliando gli Annuari astronomici alla ricerca del personale presente in determinati anni, per un incarico che riguardava l’analisi di datate lastre fotografiche scattate nei primi anni del secolo passato, mi incuriosì molto la presenza di personale femminile anche identificato con il ruolo di “calcolatrice”.

Il compito affidato a queste donne consisteva nella riduzione di dati osservativi, ossia calcoli matematici lunghi e ripetitivi da effettuare ovviamente senza l’ausilio di calcolatrici elettroniche. Il personale aveva iniziato a scarseggiare prima ancora dello scoppio del Primo conflitto mondiale; già nel 1911 il direttore dell’Osservatorio annotava l’esodo degli astronomi assistenti chiamati per la guerra in Tripolitania (l'odierna Libia), tanto che in scarsità di persone formate e di fondi si avvalse, come vedremo, anche dell’aiuto di personale non laureato.

La prima astronoma di Torino

Procedendo a ritroso nel tempo dagli annuari del personale emerge dall’elenco, oltre al direttore, agli astronomi, ai tecnici e al custode, la presenza dal 1904 della prima astronoma con il ruolo di assistente volontaria, la dottoressa Luisa o Luigia Viriglio, figlia di un noto personaggio della cultura torinese, Alberto Viriglio (giornalista, poeta e scrittore specializzato in storia e cultura locale, Viriglio rimase uno dei massimi esponenti della rivista ‘L Birichin — Giornal Piemontéis e una via e una lapide posta a fianco del Municipio di Torino lo ricordano ancora oggi).

Nata a Torino l’8 settembre del 1879, Luisa si distaccò dagli interessi umanistici del padre, laureandosi in Matematica nella stessa città il 9 dicembre 1904, e dai registri di laurea si nota anche la firma del Boccardi tra i commissari. Curioso il suo iter universitario: iscritta al primo anno accademico nel 1895-1896, dai registri risulta che la Viriglio, al termine del secondo anno accademico (1897-1898), mentre abitava in via San Secondo 37, sostenne l’esame per ottenere la licenza di insegnamento in discipline matematiche, fisiche e naturali, ma proseguì e frequentò in totale quattro anni regolari; poi seguirono altri quattro anni di “silenzio” dopo i quali si laureò.

Assistente “volontaria” all’Osservatorio di Torino

Tornando all’Osservatorio Astronomico, Luisa Viriglio risulta attiva come assistente volontaria dal 1904 al 1906, soli due anni, presso la sede di Palazzo Madama, ma non bisogna farsi ingannare dall’aggettivo “volontaria”, molto forviante ai giorni nostri, interpretandolo erroneamente come un incarico lavorativo non pagato. Nulla di più falso: dai libri paga, fortunatamente sopravvissuti e conservati presso l’Archivio Storico dell’Università di Torino, ci si può fare anche un’idea delle retribuzioni dell’epoca. Gli assistenti volontari, uomini o donne che fossero, intorno al 1912 percepivano lo stesso stipendio annuale, compreso tra 1.600 e 2.000 lire a seconda degli anni di servizio, ed era decisamente inferiore rispetto a livelli più alti, per esempio il direttore percepiva 7.000 lire all’anno con indennizzo direzione di 700 lire, mentre 1.470 lire all’anno era il compenso percepito dal custode.

Nonostante il breve periodo lavorativo svolto presso Palazzo Madama, si deve sempre alla Viriglio un altro record: oltre esserne stata la prima astronoma stipendiata, risulta anche essere la prima astronoma ad avere una pubblicazione a suo nome. Nel 1905 si ritrova negli atti della Regia Accademia delle Scienze di Torino un lavoro di astronomia firmato dalla Viriglio e da altri due colleghi, intitolato Posizioni apparenti di stelle del Catalogo di Newcomb per il 1906.

Da astronoma a insegnante

Terminata questa collaborazione si sa che divenne insegnante di Matematica presso la Regia Scuola Berti a Torino, all’epoca la più antica scuola per insegnanti del Regno, ma nonostante il nuovo impegno continuò a mantenere rapporti con il mondo accademico e universitario, per esempio, seguendo conferenze di matematica e presentando le proprie ricerche sulla storia della matematica e sulla pedagogia.

Giuseppe Peano, matematico dell’Università di Torino dell’epoca noto tuttora a livello internazionale per le sue ricerche e per la curva che porta il suo nome, la ringrazierà nei suoi lavori. Inoltre, nel 1911, la Viriglio curò l’edizione italiana di un libro che ebbe un discreto successo europeo, Il primo libro di Geometria scritto da una coppia di coniugi, Grace Chisholm e William Young.

Nell’ultimo anno di permanenza in Osservatorio alla Viriglio si affianca un’altra collega, Ernesta Fasciotti, di Castagnole Lanze, che si era laureata in Matematica nel 1905 e, a differenza della Viriglio diplomatasi al Liceo, proveniva da un indirizzo tecnico. Fu assunta sempre con il ruolo di assistente volontaria, ma il suo incarico durò solamente un anno e non risultano lavori che portino la sua firma. Sappiamo però dai registri universitari che non interruppe i suoi studi e si iscrisse anche alla facoltà di Scienze Naturali, trasferendosi poi all’Università di Palermo.

Si trasloca in collina

Fino al 1911 non si registra più la presenza di astronome, ma ormai i tempi sono maturi per il trasferimento nella nuova sede collinare. Sicuramente l’aspetto delle palazzine non è cambiato molto dalla loro fondazione, ma le comodità certamente sì. Come riportato da Boccardi, il nuovo Osservatorio Astronomico in origine non era dotato di corrente elettrica, di acqua corrente e nemmeno di una strada agevole, tuttavia nonostante questi disagi il numero di giovani laureate volontarie rimane costante nel tempo.

La dottoressa Giovanna Greggi è la prima assistente che varca la soglia della nuovissima sede. Sappiamo che era nata ad Agliè nel 1886, si diplomò nel 1907 ad Aosta e a Torino si laureò in Matematica nel 1911 superando anche l’abilitazione per l’insegnamento, prassi normale per le studentesse dell’epoca per un avvio ad una carriera di insegnamento nelle scuole superiori. Ma nel suo caso questa carriera non iniziò subito, risultando stipendiata presso l’Osservatorio con la qualifica di assistente dal 1911 fino all’anno 1914.

Bollettini “Urania”

Sempre nel 1911, a gennaio, prendono vita su iniziativa del direttore Boccardi, I Saggi di Astronomia Popolare, bollettini di divulgazione scientifica, editi dalla società astronomica “Urania”. Gli incontri con i soci, provenienti dalla Torino bene, avvenivano in piazza Castello, presso la precedente sede di Palazzo Madama, e la Greggi vi contribuì tre volte nel 1912 su argomenti differenti: i metodi storici e la strumentazione per determinare il tempo esatto, le comete dell’anno e la meteorologia popolare.

Parallelamente a questi contributi divulgativi, sempre nello stesso anno, compaiono a suo nome due lavori scientifici, uno prettamente matematico sui sistemi di equazioni integrali e un secondo dal titolo Bollettino meteorologico del R. Osservatorio di Torino per l’anno 1912, dopo il quale non risultano ulteriori lavori. Le sue tracce sembrano perdersi nel 1915, ma si ritrovano grazie all’Annuario del Ministero della Pubblica Istruzione del 1927, dove risulta ormai professoressa in Matematica e Fisica presso l’Istituto Tecnico di Mondovì.

Gli anni del primo conflitto mondiale

Gli anni 1914 e 1915 vedranno addirittura la presenza contemporanea di tre assistenti laureate in Matematica. Oltre alla Greggi, si affiancano Teresa Castelli e Tiziana Comi, che verso la fine dell’anno 1914 figurano anche come membri particolarmente attive della Società “Urania”; la prima pubblicherà recensioni di libri, ma non vi sono tracce di ulteriori lavori, anche perché collaborerà con l'Osservatorio solo per un anno.

Diverso il discorso per la Comi che terrà conferenze divulgative molto apprezzate su calcoli orbitali e nuovi asteroidi e, nello stesso anno pubblicherà presso l’Accademia delle Scienze di Torino, il libro Osservazioni meteorologiche dell’anno 1914. A causa delle ristrettezze di personale dovute al conflitto, come si legge nelle note introduttive firmate dal Boccardi, due anni dopo verranno pubblicate le Effemeridi del Sole e della Luna per l’anno 1917 e due uscite successive, sempre curate dalla stessa astronoma. Scarsità o no del personale maschile, anche questa astronoma diventerà una docente per le scuole superiori ma, come una sua precedente collega, non smetterà di frequentare l’ambito universitario e le conferenze organizzate dal citato Peano, pubblicando ulteriori lavori matematici.

Il talento didattico di Jeannette Mongini

Per gli anni dal 1916 al 1919 gli Annuari si fanno limitati e lacunosi, nonostante questo Jeannette Mongini compare come personale assistente nel 1919-1920, avendo concluso con il massimo dei voti sia il corso di Astronomia di Boccardi sia la laurea con una tesi sulla rotazione terreste e la variazione della latitudine. Nel suo anno di collaborazione Jeannette Mongini produrrà due lavori scientifici, uno dei quali riguarda i dati osservativi, dal 1912 al 1917, di quattro stelle, dati che verranno usati per realizzare una nuova stima della costante di aberrazione, un fenomeno di spostamento apparente delle posizioni degli astri dovuto alla velocità della Terra.

Nei suoi lavori la presentazione del metodo utilizzato e dei risultati finali è chiara e concisa, non è da escludere quindi che sia proprio questa innata capacità didattica a indurre il Boccardi ad affidarle la revisione e la preparazione delle sue lezioni di Astronomia, che verranno raccolte nel 1920, a firma di entrambi, nel volume Elementi di astronomia, oggi conservato presso la Biblioteca dell’Osservatorio Astronomico.

Nonostante questo i tempi non sono ancora maturi per avviare una donna alla carriera accademica, così il suo destino sarà simile a quello delle sue precedenti colleghe. Nel 1924 insegnerà in una scuola superiore di Ivrea e nel 1926 diventerà professoressa di matematica presso il prestigioso liceo Cavour di Torino e pubblicherà più di dieci lavori in campo matematico per la scuola primaria e secondaria che sono conservati presso la Biblioteca Nazionale di Firenze.

Lettere di fuoco

Per comprendere la presenza presso l'Osservatorio di Clara Greggi occorre ritornare un po’ indietro nel tempo. Da non confondere con l’omonima Giovanna, Clara pur non essendo laureata vi lavorerà in modo continuativo dal 1912 al 1920 con la qualifica di aiuto tecnico. Dai documenti emerge un rapporto lavorativo particolarmente conflittuale con il personale presente in Osservatorio, in particolare con un assistente, il dottor Chelli, tanto conflittuale da spingerla a rassegnare le dimissioni nell’ottobre del 1915 per poi ritirarle pochi giorni dopo, il 22 dello stesso mese.

Gli scambi epistolari tra il direttore e il collega in questione fanno emergere come un banale rimprovero possa aver generato reazioni forse eccessive contro l’elemento più debole. Per la cronaca Clara Greggi, secondo la versione dell’assistente, si trovava a chiacchierare “troppo rumorosamente” nell’ufficio della collega Castelli. Il Chelli le intimò di tornare nel suo ufficio, cosa che la Greggi non fece, non considerandolo un suo diretto superiore. L’assistente inviò lettere di fuoco al direttore, a dir poco spiacevoli nei confronti della Greggi che andarono anche a coinvolgere la sfera familiare. Anche il direttore non si risparmiò in apprezzamenti poco piacevoli nei confronti della collega, ma spiegò di essere rassegnato a tenerla per via della penuria di personale che accetti condizioni lavorative disagiate e con basso stipendio.

Purtroppo non abbiamo la versione dei fatti della Greggi, ma le dimissioni vennero ritirate, probabilmente perché aveva necessità di tenersi l’impiego e continuò a lavorare presso l’Osservatorio ancora per qualche anno. Si trova poi una sua lettera datata 5 gennaio 1921 da Varallo Sesia, sua nuova residenza dopo la parentesi lavorativa torinese. Anche se non più dipendente dell’Osservatorio, in questa missiva la Greggi inviava i risultati matematici dei lavori commissionati, facendo notare che il compenso pattuito era troppo modesto per il lavoro svolto e che le spese di spedizione avrebbero dovuto almeno essere rimborsate. A più di 120 chilometri di distanza e nonostante tutti i rimproveri sulla sua persona, il direttore continuò a commissionarle calcoli.

Custode e astronoma

Per finire troviamo nei registri il nome di Corinna Gualfredo, difficile da inquadrare anche per via di documenti discordanti o mancanti a causa della guerra. In alcune fonti viene citata come assistente volontaria, ma non essendo in possesso del diploma di laurea, come la già citata Clara Greggi, Corinna o Carolina Gualfredo nel 1919–1920 si ritrova registrata nel personale come custode.

Nonostante questa qualifica, nella prefazione di un lavoro per un particolare strumento, il piccolo cerchio meridiano, redatta dal Boccardi, emerge una spiegazione riguardo al suo ruolo in campo astronomico. La Gualfredo aiutò volontariamente in un periodo di estrema scarsità del personale e, come continua a sottolineare il Boccardi, la maggior parte delle osservazioni e dei calcoli furono condotti da lei (e in parte da Clara Greggi), dopo aver passato un periodo di studio e di formazione grazie al quale imparò anche a calibrare la strumentazione, come orologi e cerchi meridiani.

Fine di un’epoca

Le sue competenze professionali emergono anche da un bollettino "Urania" del 1916 in cui un astronomo francese recensisce un suo lavoro lodando l’abilità e le soluzioni originali inserite dalla Gualfredo, un importante riconoscimento che tuttavia non le impedì di essere coinvolta, nel settembre 1921, in un “affare” spiacevole che segnò in un certo senso anche la fine della carriera del direttore. Una lettera firmata dall’intero personale rimasto denunciava infatti una serie di irregolarità da parte del direttore, come far pagare al personale la legna per il riscaldamento, e soprattutto l'aver fatto figurare la Gualfredo come autrice di pubblicazioni, anche se era assunta con il ruolo di custode.

Probabilmente il Boccardi, date le sue deteriorate condizioni di salute che lo porteranno a ritirarsi nel 1923 a causa della cecità, e data anche la scarsità del personale che nel 1922 era ridotto a soli due assistenti, non disdegnava affatto un aiuto volontario e, come abbiamo visto, competente, specialmente in tempi molto particolari dove scarseggiavano pure i soldi per stampare gli Annuari. Proprio in corrispondenza del passaggio di consegne tra il Boccardi e il suo successore, l'Osservatorio ospiterà per un solo anno un’altra astronoma, Lina Graneris; successivamente non si registreranno più presenze femminili per circa un ventennio e, per ritrovarne in numero consistente, bisogna arrivare in tempi ben più recenti.

Per concludere, le prime astronome del Regio Osservatorio erano competenti, determinate e non si lasciavano spaventare dai disagi. Hanno fatto il loro ingresso nel mondo della ricerca anche grazie alla vacanza dei loro colleghi, ma nessuna ha proseguito nella carriera astronomica, anche se, pur continuando in quella didattica, parallelamente si aggiornavano e pubblicavano lavori scientifici. Di loro rimangono nomi e cognomi, voti di laurea, stipendi percepiti e numeri calcolati pazientemente a mano, ma nemmeno un volto da immaginare sotto una veletta o un cappello a larghe tese di un’antica fotografia di inizio secolo.

 

fonti:

Bernardi-Vecchiato, “The Advent of Female Astronomers at Turin Observatory”, Journal of Astronomical History and Heritage, March 2018

https://rivistasavej.it/le-prime-astronome-dellosservatorio-di-torino-2fd4faee2725

 

Giulia di Barolo, l’aristocratica amica dei poveri

 

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Giulia di Barolo, nata Juliette Colbert in Vandea, nel 1800 a Torino fece la differenza.

La sposa di Tancredi Falletti di Barolo rese il capoluogo piemontese un posto migliore. Fin dal suo trasferimento nel 1914 a Palazzo Barolo, la Colbert cominciò a prodigarsi per i meno abbienti. Di giorno serviva la zuppa calda, di sera disquisiva con Cavour o Alfieri. Ebbe a scrivere in proposito: “Una voce cara e indulgente mi incita! La voce di Gesù”.

Ad apprezzare l’aiuto psicologico e materiale non furono solo sfaccendati, bensì anche persone di spicco. Tra tutti Silvio Pellico dopo la detenzione nella Fortezza dello Spielberg. Prostitute e prigioniere, donne analfabete alle quali Giulia di Barolo a Torino prima porta da mangiare, da vestire, da lavarsi. In seguito insegna loro a leggere, a scrivere, a pregare.

“Bisogna farsi amare da esse, provando loro che le amiamo. Solo così capiranno che Dio le ama.”, Una frase che racchiude il concetto di amore agape cristiano che la Barolo porterà avanti fino alla morte. Momento che arriverà si, ma solo dopo aver fondato scuole professionali, asili, ospedali, istituti religiosi, e sul testamento l’Opera Pia Barolo.

I movimenti finanziari sono stati quantificati per circa dodici milioni di lire, che all’epoca equivalevano al pil di una nazione. La fortuna ereditata da Tancredi di Barolo e poi passata in mano alla Colbert è la stessa che diede il via alla produzione del famoso vino Barolo delle Langhe. L’aggettivo di “eclettica” per la francese naturalizzata piemontese è quindi quasi un eufemismo.

Alla sua morte, 1864, il corpo venne fatto riposare nella chiesa di Santa Giulia, a Torino, struttura eretta per suo volere. Nel 1991 inizia l’opera di beatificazione che vedrà Giulia di Barolo nominata nel frattempo Serva di Dio.

 

fonti:

https://mole24.it/2017/05/18/giulia-di-barolo-aristocratica-guardo-ai-poveri/

 

Le Suffragette di Torino: Emilia Mariani

 

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Green, white, violet. Verde, bianco, viola. Erano questi i colori delle coccarde e delle fasce indossate sui cappellini e sui soprabiti dalle donne inglesi che a inizio Novecento manifestavano per ottenere il diritto di voto. Qualcuno le aveva soprannominate “suffragette” (da suffragio, voto), non senza una punta di ironia. La loro leader era l’irriducibile Emmeline Pankhurst, fondatrice della Women’s Social and Political Union.

Dal 1903 l’organizzazione si batté per il raggiungimento del suffragio universale, con metodi più o meno ortodossi, tali da sfociare talvolta in veri e propri attentati. Si dice che il tricolore sbandierato dalle militanti, e da coloro che appoggiavano il movimento suffragista, costituisse una sorta di messaggio in codice. Al di là dei significati simbolici legati ai colori, le iniziali delle parole Green White Violet dovevano rimandare a quelle di un motto della WSPU: Give Women Vote. Date il voto alle donne. Le suffragette inglesi raggiunsero il loro scopo nel 1918, anche se fu effettivamente nel 1928 che tutte le donne del Regno Unito, senza distinzione alcuna, poterono recarsi alle urne.

la questione femminile in italia

In Italia le donne poterono votare per la prima volta solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel 1946. Scrisse in merito il giornalista lombardo Mario Borsa:

A differenza della lotta memorabile delle suffragette inglesi, le donne italiane il voto se lo sono visto offrire senza aver fatto nulla o ben poco per ottenerlo. Tutto ciò che è dato e non è chiesto, non voluto energicamente e imposto dopo una lunga lotta, non ha valore.

È vero che le donne italiane non bruciarono case per ottenere il diritto al voto, ma davvero restarono con le mani in mano? Negli anni ’40 del secolo scorso parte dell’opinione pubblica, quella che si ritrovava in ciò che Borsa affermava, aveva forse dimenticato che era dalla seconda metà del XIX secolo che le donne italiane si prodigavano per il suffragio universale. Senza dubbio la torinese Emilia Mariani avrebbe avuto qualcosa da dire al riguardo. Lei dedicò la vita a propugnare gli ideali di emancipazione femminile, dispiegando tutte le sue forze in questa missione e sfruttando con abilità il suo ruolo di educatrice e autrice.

Di lei si disse: “Emilia Mariani è stata se non la più rumorosa certo la più sincera e fervida tra le suffragiste italiane e lo è stata fin dal tempo in cui parlare di suffragio femminile in Italia era qualcosa come dissertare sulla costituzione politica da elargire agli abitanti di Marte” (Steno F., “Emilia Mariani”, in “Il Secolo XIX “, 1 marzo 1917)

spirito libero

Pressoché coetanea della Pankhurst, che aveva quattro anni in meno, Emilia Mariani nacque a Torino il 23 marzo 1854 in una famiglia della piccola borghesia.

I genitori Gerardo e Rosa Marchisio sognavano per lei un avvenire come concertista e maestra di pianoforte ma, come spesso accade, le loro aspirazioni non combaciavano con quelle della figlia. Emilia era uno spirito libero, credeva fermamente nel libero arbitrio e voleva costruire da sola il suo futuro. Di nascosto dai genitori, conseguì il diploma magistrale. La carriera di maestra, iniziata nel 1879 e proseguita fino alla morte nonostante i mille impegni, le permise di raggiungere gli obiettivi che si era prefissata. Per lei era fondamentale l’indipendenza economica data dal lavoro, che evitava alla donna di essere “passiva, incompleta, bisognosa di protezione, niente capace per sé e da sé” e che le permetteva di essere veramente autonoma sia a livello materiale che psicologico. Non di secondaria importanza era il raggiungimento di un buon livello culturale, che la Mariani considerava uno strumento indispensabile per contribuire fattivamente alla costruzione di una coscienza femminile, nonché al miglioramento della nuova società che si era creata in seguito all’Unità d’Italia. Alle nozze non pensava neanche lontanamente, anzi era una grande sostenitrice del divorzio. Riporta la storica Silvia Inaudi:

Riteneva l’istituzione matrimoniale, in quanto indissolubile, il legame del padrone con lo schiavo e non l’unione libera di due affinità. Il matrimonio non doveva essere il rifugio della donna senza alternative, bensì una scelta voluta. Soltanto in questo modo non sarebbe diventato una trappola.

raccontare per riflettere

Subito dopo aver cominciato con il lavoro di maestra, nei primi anni ’80 dell’Ottocento Emilia Mariani avviò la sua carriera di scrittrice e giornalista. Un’attività letteraria che non è esagerato definire forsennata. I portici di Torino, il primo racconto seguito da altri dedicati anche all’infanzia, fu pubblicato sulla Gazzetta Letteraria. Fu traduttrice di svariati articoli e manifesti del femminismo estero, soprattutto francese e inglese.

Nel 1884 iniziò a collaborare in qualità di corrispondente da Torino con La Donna, la prima rivista femminista italiana, inviando articoli riguardanti le iniziative delle associazioni femminili cittadine, ma soprattutto scrivendo dei problemi relativi all’istruzione e al lavoro delle donne e dei bambini. Scrisse per numerose testate: Cordelia, Mamma, Per la donna, Missione delle donne, Italia femminile, Vita femminile. Di queste ultime due fu anche direttrice. Inoltre, dal 1891 al 1894 diresse Flora letteraria, periodico rivolto alle insegnanti, e nel 1905 fondò per le operaie il quindicinale Cronache femminili, che ebbe però vita brevissima, dieci numeri soltanto. Nel 1896 entrò a far parte della redazione di Per l’idea. Periodico di letteratura socialista, dove conobbe importanti firme come Edmondo De Amicis, con cui intessé un buon rapporto di amicizia.

La Mariani prediligeva per i suoi scritti soprattutto la forma letteraria del racconto, che riteneva più adatta a trasmettere gli ideali della causa femminista. I suoi articoli non avevano finalità sovversive, piuttosto erano finalizzati a scuotere i lettori inducendoli alla riflessione. Tuttavia, uno di questi racconti, Come finiscono, le costò la sospensione dall’insegnamento, in quanto le autorità ritennero che il modo in cui era stato descritto il datore di lavoro “istigasse all’odio tra le classi sociali”.

una lotta instancabile

Donna dal fisico minuto, sostenuto però da una forte personalità, Emilia Mariani era instancabile, tanto che è davvero difficoltoso tenere conto di tutte le attività in cui fu coinvolta. Educatrice e scrittrice, ma non solo. Sostenne molte iniziative benefiche e culturali come la Pro Puerizia, il Patronato Scolastico, l’Università Popolare, l’Associazione Insegnanti Private. Ideò l’annuale Esposizione-vendita dei lavori femminili, le cui beneficiarie dirette dovevano essere le stesse donne che avevano creato i manufatti. Fu presente alla nascita di varie realtà associative: l’Unione Insegnanti (1897), il Circolo di Cultura (1899), la Sezione femminile torinese dell’Unione Maestre (1905) e, soprattutto, la Lega torinese per la tutela degli interessi femminili (1895), attraverso cui la Mariani portò avanti la battaglia per il suffragio femminile. Nel 1906 fondò e diresse per undici anni il Comitato pro voto donne di Torino, che organizzò in città nel 1911, l’anno della mitica Esposizione internazionale dell’industria e del lavoro, il primo Congresso in Italia pro suffragio femminile. Scrive Silvia Inaudi:

Emilia Mariani era convinta che la lotta per il diritto al voto fosse il primo obiettivo da perseguire da parte delle donne italiane se volevano guadagnare in credibilità e autonomia politica.

Sulla carta stampata il Congresso del 1911, che ebbe luogo nella sala Vincenzo Troya del Municipio di Torino, risultò essere più in ombra rispetto ad altri eventi, come la stessa Expo o l’entrata delle truppe italiane a Tripoli, ma ebbe il pregio di dare ulteriore visibilità nazionale alla questione del voto alle donne.

una piccola nomade

Emilia Mariani fu una conferenziera appassionata e viaggiò molto, in tempi in cui era insolito per una donna spostarsi da sola. Dalla Francia alla Finlandia, dall’Inghilterra all’Ungheria, prese parte a congressi e dibattiti. Il primo Congresso internazionale delle donne a cui partecipò fu quello che si tenne a Parigi nel 1896. In seguito, presenziò a quello di Londra del 1899. Fu poi la rappresentante per l’Italia al Congresso internazionale femminile di Parigi del 1900 e ad Amsterdam al Congresso dell’Alleanza internazionale per il suffragio alle donne del 1908, anno in cui fu anche invitata al primo Congresso delle donne italiane a Roma. Chi la conobbe la definì “una piccola nomade”, sempre in giro per l’Europa e l’Italia a parlare alle donne e per le donne.

A Bologna nel 1888, al quarto Congresso nazionale degli insegnanti della scuola primaria, pose all’attenzione dell’uditorio la questione delle classi miste, funzionali ad evitare la discriminazione di genere. Durante la Conferenza Beatrice, che si tenne a Firenze nel 1890, ragionò su come il socialismo avrebbe potuto sostenere il movimento femminile. Al Congresso pedagogico di Torino del 1898 intervenne per richiedere l’equiparazione degli stipendi delle maestre a quello dei colleghi maschi, questione ripresa al quinto Congresso dell’Unione Magistrale Nazionale tenutosi a Cagliari nel 1905. Uno dei suoi discorsi più memorabili, Il primo maggio delle donne lavoratrici, si svolse nel 1897 a Torino presso il salone della società di mutuo soccorso Fratellanza Artigiana:

“Noi vogliamo bene che in noi sia salvaguardata le specie, che ci si renda più facile, possibile, la funzione della maternità, che è la più alta e la più utile, dacché è quella che perpetua la vita, ma neghiamo che ci si consideri semplicemente come un essere dotato di questa funzione materiale, con nessuna responsabilità morale e nessuna libertà individuale. Per sollevare il fanciullo, in una parola, l’uomo futuro, non è, non deve essere necessario di uccidere la donna.”

il fuoco della libertà

E che donna era Emilia Mariani? Il mazziniano Terenzio Grandi, fondatore del partito repubblicano torinese e membro del Comitato torinese pro voto donne, la conobbe nei primi anni del Novecento. Di lei ha lasciato un ritratto così vivido che, leggendolo, sembra quasi che la sua persona si possa materializzare davanti ai nostri occhi:

“Una donna sulla cinquantina, di media statura; sempre vestita, quando usciva dalla sua abitazione torinese di via Davide Bertolotti 7, con tailleur scuro, e il cappello adorno di fiori finti e ali. Il volto olivastro, severo, pareva scolpito con pochi colpi decisi: lo illuminava uno sguardo nero, vivacissimo. In casa, negli abituali convegni della domenica pomeriggio, tra libri e qualche fiore, sovente fumandosi un mezzo sigaro toscano, suscitava e guidava la conversazione e le amichevoli discussioni con la sua parlata svelta, sempre leggermente eccitata, come di persona cui urgesse il fare, più che il parlare. Donna serena, coraggiosa, ansiosa di concretezze.”

La scrittrice Flavia Steno, al secolo Amelia Osta Cottini, che fu sua grande amica, diceva di lei:

“Sentiva battere il cuore dell’umanità: tutta la passionalità raccolta nella sua figuretta esile e bruna riarsa come da un fuoco interiore […]. Mai più austera e nobile anima di donna fu posta al servizio di un’idea. Retta, pura, ella ebbe tutte le qualità e le virtù che la morale corrente richiede alla donna ed ebbe anche quelle meno facili che si esigono da un gentiluomo. Era, femminilmente parlando, la donna della tradizione passata — d’onestà vetusta— e, insieme, quella diritta e consapevole dei tempi nuovi.”

ritratto di una donna

Il fuoco di Emilia Mariani si spense il 27 febbraio 1917, a causa dell’eccessivo ritmo lavorativo che portò il suo fisico a consumarsi. Morì durante una delle sue trasferte, a Firenze, in casa di amici che l’avevano ospitata. Fu dapprima sepolta nel cimitero di Trespiano, ma in seguito fu riportata nella sua Torino, dove per volontà testamentaria venne cremata e le ceneri poste nel Tempio Crematorio della città.

“Visse per la gioventù, istruendo ed educando al bene. Fu semplice, buona, affettuosa. Amò i fiori, predilesse i bimbi. Il devoto omaggio di questi ti sarà continuato dalla tua famiglia, che solamente ora trova conforto nell’averti presso di sé nella tua città natale che tanto amasti. E fiori, fiori e fiori olezzeranno sempre presso le tue ceneri benedette.”

Lettere incise con un carattere infantile compongono questo epitaffio affettuoso, in memoria della combattiva suffragetta torinese che amava i fiori e i sigari toscani.

 

fonti:

https://rivistasavej.it/la-suffragetta-emilia-mariani-4dd2480ee46e

 

 

 

 

 

LA TORINO DEGLI ANNI ’60, DELLA FIAT, DEL BOOM ECONOMICO, DELL’IMMIGRAZIONE

 

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Antecedenti: la Resistenza a Torino

 

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Nel primo pomeriggio del 10 settembre 1943 il generale Adami Rossi, comandante della Difesa Territoriale di Torino, si reca a Brandizzo per trattare la resa con i militari tedeschi in arrivo da Milano. L’incontro è breve: il generale, con il petto fregiato da una decorazione germanica a croce uncinata, indica all’ufficiale della Wermacht la dislocazione di caserme e stabilimenti militari e gli consegna la città assicurandolo sulla propria completa disponibilità alla collaborazione. Alle 16.00 le prime autoblindo germaniche entrano a Torino attraversando i quartieri orientali di Barriera Milano e Regio Parco, mentre tre carri armati circolano fragorosamente nel centro per lasciare l’impressione che il loro numero sia assai più elevato. Consegnati nelle caserme in attesa di ordini che nessuno più dirama, la maggior parte dei soldati del Regio Esercito è facile preda della Wermacht, che procede alla cattura e ai trasferimenti verso i campi di internamento. Nei giorni successivi, Torino offre lo spettacolo di una città invasa, dove l’ordine germanico si impone con la forza ad una popolazione confusa e senza riferimenti: l’Albergo Nazionale di via Lagrange diventa la sede operativa del comando militare, la caserma di via Asti viene attrezzata per la tortura e la detenzione degli oppositori più pericolosi, nuovi sistemi contraerei vengono installati lungo i corridoi di avvicinamento alla città, la produzione degli stabilimenti viene riorganizzata in funzione delle esigenze belliche tedesche.

In questo quadro di sbandamento, mentre i soldati che sfuggono alla cattura si allontanano verso le vallate alpine e all’opposto i fascisti eclissati dopo il 25 luglio ricompaiono in città per costituire una rete di delazione, alcuni antifascisti più consapevoli organizzano il Clnrp (Comitato di Liberazione Regionale del Piemonte), l’organismo unitario che deve animare e dirigere la resistenza all’occupazione nazista. La città ha una tradizione di opposizione al regime che nel Ventennio è vissuta nella clandestinità: c’è la rete cospirativa del Partito comunista, organizzato sul modello rivoluzionario terzinterna-zionalista; ci sono gli intellettuali vicini al Partito d’azione; ci sono i giovani formati nel liceo D’Azeglio alla scuola di Augusto Monti; ci sono monarchici di sincera fede liberale. Nel Clnrp si trovano così uomini di estrazione diversa, dal professor Paolo Braccini, al generale Giuseppe Perotti, all’avvocato Manlio Brosio, all’operaio Eusebio Giamone: mano a mano che nelle vallate si organizzano le “bande” partigiane, il Comitato diventa il naturale riferimento politico e militare, lo strumento per superare la dimensione locale e stabilire contatti tra le formazioni, per definire una strategia di lotta, per trovare risorse finanziarie e materiali. Operando in totale clandestinità, i componenti del Comitato utilizzano per le riunioni l’Albergo Canelli in via San Dalmazzo; nella primavera 1944 si trasferiscono però in via San Donato nei locali della Conceria Fiorio, di proprietà dell’inge-gner Sandro Fiorio, dove un sistema di gallerie sotterranee permette la fuga in caso di pericolo.

Il 1° aprile 1944 si registra uno degli episodi più drammatici della resistenza torinese. Verso le 9.00 di mattina il comitato militare del Clnrp deve incontrarsi nella sacrestia del Duomo, in piazza San Giovanni, ma l’imprudenza di uno dei delegati permette ai Tedeschi di conoscere ora e luogo dell’appuntamento. Forze della milizia e agenti, disposti discretamente nei dintorni del Duomo, fermano uno a uno i dirigenti antifascisti convenuti e neutralizzano l’intero comitato militare. Comandi tedeschi e autorità fasciste decidono di istruire un processo immediato, che attraverso una condanna esemplare dimostri l’inflessibilità dell’occupazione germanica e del regime risorto a Salò. Il 3 aprile si aprono le udienze, alla presenza del prefetto Paolo Zerbino e del commissario federale Giuseppe Solato. Due giorni di interrogatori e di arringhe, poi la Corte pronuncia una sentenza scritta prima ancora che il processo cominci: condanna a morte di otto imputati, ergastolo per altri quattro. All’alba del 5 aprile, in un’ala del Poligono di tiro del Martinetto, vengono fucilati gli ufficiali Perotti e Balbis, lo studente universitario Montano, il professor Braccini, gli operai Bevilacqua e Giambone, il tecnico Giachino, il bibliotecario Biglieri: uno sull’altro cadono insieme ufficiali monarchici, operai socialcomunisti, professori azionisti, l’espressione più simbolica e tragica dell’unità della resistenza torinese.

Non è possibile rendere conto delle azioni compiute a Torino dal movimento partigiano e dall’antifascismo di fabbrica: dalle carte della Guardia nazionale repubblicana emerge che quasi ogni giorno vi sono sabotaggi alla produzione, prelievi di materiali, incursioni contro i magazzini dell’ammasso, prelevamento di esponenti fascisti, attacchi armati ai presìdi. I “colpi” più clamorosi vengono messi a segno dai Gap (Gruppi di Azione Par-tigiana), piccole cellule armate che operano all’interno della città per colpire direttamente ufficiali tedeschi o centri nevralgici dell’apparato militare nemico: per limitarci alle azioni più note, nel dicembre 1943 viene fatto esplodere un ordigno nel caffè Giolitti, provocando la morte di tre alti ufficiali delle “SS”; nel febbraio 1944 vengono lanciate sette bombe contro un presidio tedesco; nel maggio successivo viene attaccata e distrutta una radioemittente fascista. Accanto ai Gap, operano le Sap (Squadre d’Azione Partigiana), i nuclei di operai e di impiegati che, senza entrare nella clandestinità, mantengono il loro posto di lavoro e contribuiscono alla lotta resistenziale raccogliendo informazioni utili alle bande, sabotando la produzione, custodendo materiale bellico, facendo circolare materiali di propaganda. Vi sono poi le formazioni partigiane che operano nelle valli alle porte di Torino e che scendono per requisire benzina e generi alimentari nei magazzini della periferia, o per impossessarsi di automezzi militari, o ancora per attaccare gruppi isolati di soldati nemici. Da questa cooperazione tra cospirazione cittadina e formazioni nasce la saldatura tra momenti diversi della lotta di liberazione.

L’epilogo nell’aprile 1945. Il 18 gli operai degli stabilimenti torinesi abbandonano il lavoro rispondendo all’appello del Clnrp presieduto da Franco Antonicelli per uno sciopero generale contro la fame e il terrore della guerra. Una settimana dopo, la sera del 24 aprile, viene diramato il segnale convenuto dell’insurrezione, “Aldo dice 26 x 1”, e le formazioni convergono sulla città: i primi ad entrare sono gli uomini comandati da Pompeo Colajanni “Barbato”, che scendono dalle colline verso i ponti del Po. I giorni dell’insurrezione sono inevitabilmente convulsi, spesso contraddittori: si combatte nelle strade e si imbastiscono trattative, si occupano edifici e si preparano piani di ritirata, si spara dai tetti e si fugge negli scantinati. Mentre il cardinale Maurilio Fossati si fa tramite tra il Clnrp e il generale tedesco Schlemmer, ci sono scontri nelle periferie, attorno a Mirafiori, alla stazione centrale. Il 28 aprile la città è di fatto nelle mani degli insorti: mentre le truppe tedesche si avviano verso nord, gli ultimi focolai di resistenza fascista cadono uno dopo l’altro e le formazioni entrano nelle caserme, nei locali della Prefettura e della Questura, negli edifici simbolo del Regime (la Divisione GL “Campana” occupa la Casa Littoria di piazza Carlo Alberto ribattezzandola “Palazzo Campana” dal nome di battaglia del suo comandante Felice Corderò di Pamparato, impiccato un anno prima). Nella stessa giornata del 28 il Clnrp si stabilisce nei locali della Prefettura e nomina le autorità cittadine: sindaco il comunista Giovanni Roveda, prefetto il socialista Pier Luigi Passoni, questore l’azionista Giorgio Agosti, presidente della Deputazione provinciale il democristiano Giovanni Bovetti.

Ciò che accade nei giorni successivi è la resa dei conti che sempre conclude conflitti attraversati da forme di guerra civile: improvvisati tribunali del popolo procedono ad un’epurazione nella quale sono coinvolti i fascisti che resistono ad oltranza, militi e ausiliare che cercano di fuggire, collaboratori dei Tedeschi, delatori e (come accade in tutti i momenti epocali della storia) anche chi non appartiene a nessuna di queste categorie ma viene travolto dal vortice della repressione per una vendetta privata o un interesse. Sono tante storie individuali che si intrecciano in morti per lo più anonime e oscure. In un caso l’esecuzione è però volutamente spettacolarizzata: Giuseppe Solaro, ultimo federale torinese, viene impiccato alla presenza di una folla numerosa in corso Vinzaglio. Per contrappasso, l’albero scelto è lo stesso dove un anno prima è stato impiccato con tre compagni Ignazio Vian, il protagonista della prima resistenza piemontese a Boves.

Difficile stabilire quanti siano i morti della “giustizia insurrezionale”: può essere considerato attendibile un rapporto alleato che indica in 1.500 le vittime tra i fascisti, una cifra che testimonia una violenza di proporzioni ampie. Certo è che le consolidate strutture della Resistenza piemontese sono tanto radicali nell’epurazione, quanto determinate nel portare il fenomeno ad una rapida conclusione. Il 6 maggio, quando partigiani, operai e cittadini festeggiano la vittoria e la pace con un’oceanica manifestazione di piazza, Torino è una città insanguinata e con tanti edifici da ricostruire, ma è ormai avviata verso la normalizzazione. E finita la guerra di liberazione, è finita la guerra civile. La popolazione torinese riscopre il gusto della festa, in uno slancio in cui si mescolano attese, speranze, voglia di rimozione, voglia di riscatto. Ognuno ha qualcosa da ricordare e qualcosa da dimenticare: tutti hanno di nuovo un futuro da costruire.

 

fonti:

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/09/16/tornano-le-notti-del-chatham.html

 

La ricostruzione del Dopoguerra

 

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La fotografia della Torino che esce dalla guerra offre l’immagine palpabile di un Paese che è stato sconfitto. Se le grandi manifestazioni partigiane che accompagnano la liberazione testimoniano la volontà di ricominciare, il panorama cittadino porta i segni dei 41 bombardamenti subiti58: un terzo degli edifici risultano danneggiati in modo più o meno grave, una parte di questi (circa il 20%) è interamente distrutta, i binari dei trasporti tranviari sono dissestati. Le fotografie della sfilata partigiana del 6 maggio 1945 in piazza Vittorio sono emblematiche: sullo sfondo delle formazioni schierate militarmente, ci sono i portici e la facciata distrutta di un intero isolato, quello compreso tra via Bonafus e via Della Rocca, bombardato nell’estate 1943. L’industria cittadina riflette l’emergenza del periodo: nel 1946 la capacità produttiva è pari al 50% dei livelli dell’anteguerra, la Fiat ha subito danneggiamenti agli impianti particolarmente gravi per quanto riguarda il settore della produzione aeronautica, danni irreparabili si sono registrati alla Viberti e alla We-stinghouse, alcune piccole fabbriche dell’indotto sono state spazzate via. La tendenza alla crescita demografica, che ha caratterizzato la città dall’inizio del secolo, si interrompe e si inverte bruscamente, mentre aumenta il numero dei senza lavoro, che nel 1946 superano le 50 mila unità.

Per i tre sindaci comunisti che si succedono nei primi sei anni del dopoguerra (dopo Roveda, nominato dal Cln, Celeste Negarville e Domenico Coggiola, eletti nel 1946, quando comunisti e socialisti ottengono la netta maggioranza con 50 consiglieri comunali su 80), si tratta di fare i conti con la difficoltà di riprendere il cammino in una situazione caratterizzata dal caos economico e organizzativo, dall’esigenza di risanare l’assetto finanziario del Comune, dalle urgenze di ripristino degli impianti industriali, da un’emergenza abitativa molto forte nelle barriere. Le elezioni politiche del 18 aprile 1948, con la vittoria schiacciante del fronte cattolico moderato, creano inoltre una evidente difficoltà di rapporto con il Governo e costringono l’Amministrazione locale a procedere nella ricostruzione con le proprie sole forze, senza il concorso dello Stato: nel dicembre 1948 il sindaco Coggiola annuncia la contrazione di un prestito pubblico di tre miliardi da investire nell’edilizia popolare e in opere infrastrutturali come l’aeroporto di Caselle; contemporaneamente, Giovanni Astengo progetta il primo lotto della Falcherà, un quartiere operaio pensato sul modello delle new towns inglesi. Il Comune non riesce però a dotarsi dello strumento di regolamentazione indispensabile per razionalizzare il rilancio cittadino, il nuovo Piano regolatore. Il relativo concorso viene bandito nell’ottobre 1946, ma le autorità comunali non hanno la capacità politica per resistere alle pressioni del mercato immobiliare e del sindacato degli edili e il documento viene approvato solo nel 1959, quando la città è stata ormai ricostruita senza regole sotto la spinta della necessità: “Le forze politiche locali perdono così l’occasione, colta invece da altre metropoli europee, di trarre vantaggio dalle distruzioni belliche per migliorare l’organizzazione degli insediamenti e la vita della città”59.

Accanto all’Amministrazione, c’è a Torino un potere parallelo, ereditato da mezzo secolo di attività economica e rappresentato dalla Fiat, l’azienda monopolistica del settore meccanico che nel 1938 è arrivata a coprire 1’88% del mercato italiano dell’auto60. Nei giorni dell’insurrezione, i vertici aziendali (Giovanni Agnelli, Vittorio Vailetta e Giancarlo Camerana) sono stati destituiti in attesa del giudizio della Commissione d’epurazione e sostituiti da un comitato di gestione nominato dal Cln. Quattro mesi più tardi il Comando militare alleato, deciso a ristabilire l’ordine isolando ogni fenomeno di organizzazione spontaneistica, e di fronte alla contraddizione tra un potere gestionale completamente slegato dalla proprietà ancora in mano all’Ifi (e dunque alla famiglia Agnelli), ottiene la destituzione dei commissari e la loro sostituzione con Antonio Cavinato, vicedirettore del Politecnico. E il primo passo verso la normalizzazione, che si raggiunge nel marzo 1946, quando l’assoluzione dei vertici Fiat permette a Vittorio Valletta si reinsediarsi alla guida dell’azienda, dopo aver ottenuto il reinserimento di tutti i dirigenti e dei quadri sottoposti a procedimento d’epurazione. A presiedere l’azienda non c’è più il fondatore, morto nel novembre 1945, ma accanto a Vailetta c’è il giovane nipote, l’avvocato Gianni Agnelli, che assume la vicepresidenza e garantisce continuità al ruolo della famiglia.

La Fiat si impegna in un lavoro serrato di ripristino degli stabilimenti danneggiati: i lavori si completano alla fine del 1947 e l’anno successivo la produzione può riprendere a pieno regime. Lo sforzo del vertice aziendale è reso possibile dai rapporti che la Fiat ha stretto sin dagli anni Venti con il mondo finanziario e politico americano e con la credibilità di cui gode presso la Export-import Bank, la banca delegata dal Dipartimento di Stato per tutte le operazioni collegate agli aiuti internazionali: grazie a questa rete di relazioni, la Fiat beneficia del 20% dei prestiti all’Italia erogati nell’ambito del Piano Marshall, cui si aggiungono quelli erogati dal Firn (Finanziamento dell’industria meccanica), un fondo nazionale sorto nel 1947 su sollecitazione della stessa Fiat per sostenere le imprese del settore. Valletta utilizza i dollari ricevuti per acquistare gran parte della tecnologia avanzata dagli Stati Uniti e per finanziare la costruzione di una poderosa catena di montaggio per la produzione in massa di veicoli commerciali e auto private. Nel 1949 l’azienda, che tre anni prima lamentava la presenza di 12 mila esuberi, è già in grado di procedere a quattromila nuove assunzioni. L’affermazione in città di una monocoltura industriale, evidente sin dagli anni anteguerra, riceve così un ulteriore impulso: mentre altri settori tradizionali dell’attività produttiva cittadina (come quelli tessile, dell’abbigliamento e della trasformazione alimentare) stentano a riprendersi, la riorganizzazione della Fiat trascina infatti tutto l’indotto legato alla filiera dell’auto, sottolineando ancor più il carattere di Torino come capitale dell’industria meccanica.

 

fonti:

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/09/16/tornano-le-notti-del-chatham.html

 

Il boom economico

 

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Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Settanta Torino è protagonista di una trasformazione che riassume e simboleggia il miracolo economico nazionale. Sono anni in cui la produzione industriale raddoppia, le esportazioni e gli investimenti in nuovi impianti crescono al tasso del 14% annuo e la popolazione aumenta a dismisura, facendo della città il terminale di un flusso migratorio che ne cambia la composizione sociale, la “cultura”, l’aspetto urbano: 725 mila abitanti nel 1951, 990 mila nel 1961, un milione 200 mila nel 1971, quasi un milione 300 mila nel 1974. I fattori che contribuiscono allo straordinario sviluppo chiamato “boom industriale” sono molti: sullo sfondo di una crescita esplosiva che coinvolge tutta l’economia mondiale, nel nostro Paese sono determinanti il costo del lavoro relativamente basso, la disponibilità di petrolio importato a prezzi vantaggiosi, la rete di opere pubbliche messe in cantiere dal governo, le politiche monetarie e fiscali favorevoli agli investimenti industriali. In questa situazione, Vailetta e la dirigenza Fiat sprigionano un attivismo attento a cogliere le opportunità e a stabilire le necessarie alleanze politiche. Dopo il voto del 18 aprile 1848 e, ancor più, dopo l’attentato a Togliatti (quando gli stabilimenti vengono occupati e per due giorni sono presi in ostaggio 16 dirigenti Fiat, tra cui lo stesso Valletta), lo scontro tra capitale e lavoro evolve in un’offensiva padronale a tutto campo contro i sindacati guidati dai comunisti: “La direzione Fiat rifiuta di consultare e lavorare insieme alle commissioni interne controllate dalla Cgil, mentre i capireparto nominati dalla direzione assumono appieno le loro funzioni. Con l’intensificarsi della campagna, la Fiat licenzia i militanti comunisti e altri elementi turbolenti, raccoglie informazioni sulle opinioni politiche e le attività di tutti i suoi dipendenti, incoraggia i sindacati più collaborativi a dividere la forza lavoro e a combattere gli scioperi. Infine, Valletta impone nelle fabbriche nuove regole che premiano la disciplina, la produttività, il merito individuale e la lealtà all’azienda, specie durante gli scioperi”. Mentre vengono istituiti alcuni reparti-confino, tra cui le Officine Sussidiarie Ricambi (ribattezzate Officine Stella Rossa) nei quali vengono raggruppati i militanti sindacalizzati della sinistra, la Fiat si rivolge ai dipendenti fidelizzati offrendo una serie di garanzie e di privilegi sul piano dell’assistenza e della previdenza sociale, del tempo libero, della formazione, dell’immagine aziendale: “Vailetta si affida a incentivi materiali e a una serie di gratifiche per addolcire l’amara pillola della rigida disciplina e di lunghe, più dure ore da passare alla catena di montaggio. Per incoraggiare i lavoratori ad accettare i piani aziendali, egli premia la produttività e riduce le interruzioni del lavoro offrendo livelli salariali al di sopra di quelli normali nell’industria metalmeccanica. Alla fine degli anni Cinquanta i lavoratori più produttivi possono ricevere gratifiche che aumentano i loro redditi del 30% rispetto alla paga base. Valletta trae vantaggio anche dalla solida rete interna di assistenza sanitaria, scuole, campi estivi, colonie, club sportivi e altre organizzazioni ricreative volte a diffondere nelle maestranze il sentimento dell’appartenenza a una grande famiglia. Per rinsaldare il legame tra le famiglie e l’azienda i parenti dei dipendenti godono di corsie preferenziali per le nuove assunzioni. Analogamente, la Scuola allievi Fiat favorisce i figli dei dipendenti con la promessa di prepararli ad un avanzamento professionale nella gerarchia di fabbrica”.

La gestione della fabbrica sul modello autoritario delle industrie americane (con rigida disciplina e ritmi di lavoro accelerati), si accompagna ad alcune fortunate intuizioni di mercato: nel 1955 entra in produzione la “Seicento” e due anni dopo la “Cinquecento”, due fra i modelli più economici al mondo, con i quali la Fiat può inaugurare nel Paese l’epoca della motorizzazione di massa. La rete di autostrade, che viene realizzata in quegli stessi anni, permette di spostarsi rapidamente da una regione all’altra e garantisce una fruibilità del mezzo automobilistico impensabile un decennio prima. Gli ammodernamenti delle linee di montaggio assicurano una produttività in continua crescita, anche se espropriano la manodopera di professionalità e la relegano entro i confini di una manualità sempre più alienata e ripetitiva. Tra il 1955 e il 1970 la “Seicento” vende due milioni 600 mila esemplari, la “Cinquecento” tre milioni 700 mila entro il 1975: l’Italia, che nel 1950 conta solo 342 mila auto, nel 1975 supera il numero complessivo di 15 milioni, la stragrande maggioranza delle quali portano il marchio Fiat: gli stabilimenti di Mirafiori inaugurati nel 1939 si allargano con nuove costruzioni, mentre alle porte della città, nella frazione Tetti Francesi di Rivalta, nasce nel 1967 una nuova grande fabbrica.'Gli operai del gruppo, che nel 1951 sono 47 mila, salgono a 115 mila nel 1971, la metà di tutti gli operai attivi nella provincia: nello stesso periodo l’azienda assume 30 mila impiegati e dirigenti, mentre la sopravvivenza economica di una moltitudine di altre persone operanti nel terziario e nei settori del commercio cittadino dipende dalla sua domanda di servizi e transazioni commerciali. Circa 1’80% delle attività industriali cittadine gravita attorno all’industria automobilistica. Il gigante automobilistico esercita una posizione altrettanto centrale nel mondo delle comunicazioni di massa grazie al possesso de’ “La Stampa”: non c’è pertanto da stupirsi se “la capacità della Fiat nel condizionare tutti gli aspetti dello sviluppo di Torino dà ai suoi capi un’enorme influenza anche sul Comune, dove dal 1951 sono al governo i partiti della destra moderata, e dove nessuna iniziativa può essere presa senza la tacita approvazione del vertice aziendale”62. La crescita imponente del fatturato permette alla Fiat di assorbire nel corso degli anni Sessanta tutti i concorrenti (solo l’Alfa Romeo mantiene provvisoriamente la propria autonomia) e di diventare il principale cliente per uno stuolo di fornitori operanti nei settori della gomma, del vetro, della plastica e dell’acciaio. In questo modo “la sua posizione preminente nel settore dei trasporti costituisce la forza propulsiva che in quegli anni spinge in avanti l’economia italiana. Secondo alcune stime, le scelte produttive della dirigenza Fiat determinano negli anni Sessanta circa il 20% degli inve-stimenti totali del Paese”.

 

fonti:

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/09/16/tornano-le-notti-del-chatham.html

 

L’immigrazione a Torino

 

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“torino, torino, che bella città, si mangia, si beve e bene si sta!”

 

Lo straordinario sviluppo industriale torinese richiede una disponibilità di manodopera che va ben oltre le potenzialità demografiche del territorio: a partire dai primi anni Cinquanta, la città diventa meta di un flusso migratorio senza precedenti, e senza paragoni con quanto accade nelle altre città del Nord. Arrivano valligiani che lasciano le magre economie delle montagne piemontesi, Giuliano-Dalmati esuli dall’Istria, Veneti impoveriti dall’alluvione del Polesine, ma soprattutto arrivano meridionali: sono Siciliani, Campani, Calabresi, Pugliesi, popolazioni abituate da decenni ad emigrare per trovare lavoro ma che questa volta possono farlo entro i confini del stesso loro Paese. Tra il 1958 e il 1963 più di 1.300.000 meridionali abbandonano le proprie case per trasferirsi nel Centro e nel Nord Italia; tra essi sono più di 800.000 coloro che si dirigono verso le grandi città del triangolo industriale, prima tra tutte Torino. Una filastrocca, molto diffusa tra i bambini della Puglia: “Torino, Torino, che bella città, si mangia, si beve e bene si sta!”. Il potente richiamo della Fiat e delle sue automobili come simbolo del progresso economico e della libertà di movimento e la promessa di una vita migliore, contribuiscono ad attrarre i meridionali a Torino. Reclutatoti settentrionali incoraggiano tali sogni arruolando migliaia di nuovi arrivati in cosiddette cooperative che offrono manodopera a buon mercato senza contratti, pensioni o copertura assicurativa”. A Torino, dalla fine degli anni Quaranta al 1961 gli immigrati sono 562 mila, il che significa rinnovamento di circa metà della popolazione.

l’inadeguatezza delle strutture cittadine a contenere il flusso

Il flusso migratorio rappresenta una sfida difficile per la città: differenze culturali, talvolta persino difficoltà di comprensione linguistica, sovraffollamento abitativo, inadeguatezza dei servizi, tensioni scatenate dalla marginalità. I nuovi arrivati trovano sistemazioni di fortuna (come il “Casermone” di via Verdi, un edificio militare trasformato in centro di prima accoglienza, oggi abbattuto per fare posto al parcheggio del Palazzo Nuovo dell’università); soffitte, cantine, talvolta baracche vengono adibite a stanze, spesso senza riscaldamento e con servizi comuni; gli affitti lievitano e non mancano casi di spazi per dormire affittati a turno. Il disagio colpisce in primo luogo i nuovi arrivati, ma in certa misura anche i residenti originari: la mancanza di servizi si riflette sull’assistenza ospedaliera dove le corsie e i corridoi si riempiono di barelle trasformate in letti, sull’intasamento degli sportelli pubblici dove si allungano le code, sul sovraffollamento di tram e autobus, sulle scuole dell’ob-bligo costrette a funzionare su due (e a volte tre) turni, i pagliai dei paesi del circondario, Moncalieri, Beinasco, Orbassano, che si trasformano in posti di prima accoglienza.

Valletta e la dirigenza Fiat considerano la città solo come luogo di espansione produttiva e mostrano indiffetenza rispetto ai problemi legati alla qualità della vita urbana, nella convinzione che il progresso tecnologico e l’innalzamento del reddito risolveranno a breve termine le contraddizioni dello sviluppo. Gli amministratori locali, da parte loro, non hanno né la capacità né la volontà di esercitare un ruolo direttivo e applicano la politica del “laissez faire”, col risultato di uno sviluppo urbano dettato dall’emergenza e dalla libertà di speculazione e la nascita di quartieri-ghetto dove mancano le infrastrutture per i servizi collettivi.

il treno del sole

Ogni giorno, sulle banchine della stazione di Porta Nuova, si riversa un numero sempre più consistente di persone arrivate a bordo del “Treno del Sole”, un convoglio che in ventitre ore attraversa l’Italia, dalla Sicilia al Piemonte. Ad attenderli alla stazione c’era un giovanotto che nel 1950 aveva costituito una agenzia immobiliare: Giovanni Gabetti. Nonostante la giovane età, prometteva di trovare un alloggio e non deludeva mai chi gli concedeva fiducia con una stretta di mano.

giacinto facchetti in versione palazzinaro

I Torinesi storsero il naso, ma in molti beneficiarono della immigrazione: quella massiccia domanda abitativa fece lievitare il prezzo degli alloggi e degli affitti in cui commercianti lungimiranti e persino stelle del calcio come Giacinto Facchetti avevano investito la loro ricchezza, facendo fortuna.

i quartieri dell’immigrazione

Gli stanziamenti maggiori degli immigrati italiani riguardano le originarie destinazioni : i quartieri di Mirafiori Sud, le Vallette, Aurora, Falchera, Regio Parco. Qui si stabilivano nel periodo di maggiore immigrazione a Torino.

Il centro storico, privo di una piano organico di ristrutturazione, si polarizza tra un’area del degrado, concentrata tra via Garibaldi e Porta Palazzo, e un’area di prestigio, con i negozi e gli uffici di lusso della nuova via Roma, i locali di rappresentanza nelle residenze nobiliari della zona Po, le attività commerciali e le abitazioni liberty della Crocetta; i quartieri circostanti il centro e compresi all interno della cinta urbana ottocentesca (San Donato, borgo Dora, Aurora, Vanchiglia, San Salvario, San Secondo) riescono faticosamente a mantenere un proprio equilibrio sociale e un proprio profilo, grazie alla presenza di un tessuto artigianale e di piccoli negozi che rendono meno anonimo l’ambiente; le aree più esterne della citta vedono invece esplodere un’edilizia abitativa di massa, con grandi casermoni incolori affacciati l’uno sull altro, l’erosione di tutti gli spazi verdi, la contiguità con i paesi della prima cintura ormai inglobati in un unica area metropolitana. “A Nord, tra il corso della Dora e quello della Stura, il territorio circostante a quelle che erano state le borgate Lucento, Madonna di Campagna e Regio Parco, dove si trovano gli stabilimenti Hat Grandi Motori, Ferriere piemontesi, Michelin, Nebiolo, Manifatture tabacchi, la popolazione passa da 100 mila abitanti nel 1951 a 254 mila nel 1971; l’area di Pozzo Strada, dove ci sono Fiat Aeronautica e Venchi Unica, passa da 22 mila a 100 mila, lo stesso aumento registrato a Santa Rita; ma l’esplosione più vistosa si ha ad ovest, nel territorio circostante la Fiat Mirafiori, che acc°‘ glie un’intera grande città passando da 18 mila a 140 mila abitanti, mentre i comuni limitrofi di Beinasco e Nichelino crescono di 5-6 volte, i prati lasciano il posto alle costruzioni e scompare il confine visivo tra un territorio municipale e l’altro”66.

A metà degli anni Settanta, quando il flusso migratorio rallenta e si avvia all’esaurimento, la città ha cambiato volto. L’area compresa nella cinta ottocentesca, che nel 1939 ospita il 60% della popolazione, è scesa al 31%, mentre le aree esterne salgono al 64% (escludendo la zona collinare): alcuni quartieri, come Vailette, Falcherà e Mirafiori Sud, sono abitati per oltre l’80% da immigrati meridionali.

il boom della popolazione: torino è la terza città meridionale d’italia dopo napoli e palermo

La popolazione torinese, passa dai 753.000 abitanti del 1953 a 1.114.000 del 1963. I nuovi arrivati dal sud si sostituiscono alla tradizionale immigrazione dalle altre zone dell’Italia settentrionale: pugliesi, calabresi, lucani, siciliani e sardi prendono il sopravvento sugli immigrati dell’Italia settentrionale, “fino ad allora la maggioranza assoluta”. Secondo il censimento del 1971, risiedono in città 77.589 siciliani, 106.413 pugliesi, 44.723 calabresi, 35.489 campani e 22.813 lucani: Torino diventa così “una città meridionale di dimensioni paragonabili a Palermo”.

Ad alimentare il flusso contribuivano anche il Veneto, la Sardegna – la comunità sarda a Torino aveva radici antiche – e l’inurbamento dal contado delle province piemontesi. Nel romanzo La malora di Beppe Fenoglio, l’amico del protagonista abbandona il legame con i campi e va a lavorare in fabbrica a Torino: quasi un tradimento della sua terra.

l’accoglienza dei torinesi

Nell’immaginario di chi emigra, Torino assume i contorni di una realtà capace di offrire casa e lavoro, ponendo fine alla miseria e agli stenti patiti nella terra natia. In realtà così non è, poiché l’arrivo in città si trascina dietro problematiche e difficoltà di non facile superamento. Differenze culturali e identitarie trasformano infatti l’incontro tra i torinesi e gli immigrati, specialmente quelli giunti dal sud, in un momento dai contorni frastagliati e spigolosi. Una discriminazione che assume le sembianze dei cartelli affissi ai portoni delle case arrecanti la frase non si affitta ai meridionali, oppure quella dell’attuazione di dinamiche esclusive che passano attraverso epiteti carichi di astio (napuli, terroni, mau mau) coniati dalla popolazione locale per definire, identificare, “screditare e deridere gli individui nativi delle regioni del sud”. Un fenomeno diffuso, inerente molti comparti della vita quotidiana e che sembra essere accettato anche da «La Stampa», principale testata cittadina, che, lontana dallo svolgere un ruolo di avvicinamento tra torinesi e immigrati, alimenta sulle proprie pagine, attraverso articoli, annunci e servizi, stereotipi e pregiudizi nei confronti degli immigrati del sud Italia, ampiamente consolidati tra i lettori torinesi. Si crea così una situazione di emarginazione, superata attraverso una progressiva condivisione di spazi ed esperienze nella sfera pubblica, privata e lavorativa, che consente di scalare il muro che divide i torinesi dagli immigrati incanalando il rapporto sui binari di un’integrazione pressoché pienamente avvenuta.

Le tensioni culturali ed etniche create dall’ondata migratoria sono palpabili sino verso la fine degli anni Sessanta. Gli operai torinesi e il Partito comunista considerano i nuovi arrivati come una minaccia per il sindacato perché accettano salari più bassi e lavori peggiori, mentre le classi medio-alte li accusano del malessere sociale e dell’aumento del crimine in città. “Molti immigrati, in gran parte provenienti da borghi rurali, incontrano prevedibili difficoltà iniziali ad adattarsi ai ritmi del lavoro industriale e questo alimenta gli stereotipi negativi sui meridionali come gente refrattaria al lavoro duro, priva di motivazione e di ambizione. A peggiorare le cose, i meridionali portano con sé costumi e abitudini che suscitano timore nella popolazione locale: i riservati piemontesi tendono a dare per scontata la propria superiorità culturale sugli immigrati arretrati, che giudicano con insofferenza come congenitamente incapaci di misura e autocontrollo”. Queste divisioni cominciano a smorzarsi all’inizio degli anni Settanta con la graduale standardizzazione degli stili di vita, con il reciproco riconoscimento di specificità culturali, con la creazione di una prima rete di servizi nelle periferie e con gli sforzi dei sindacati, dei partiti politici e della Chiesa cattolica (guidata con lungimiranza dall’arcivescovo Michele Pellegrino) per ottenere il sostegno degli immigrati.

 

fonti:

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/09/16/tornano-le-notti-del-chatham.html

 

Il night frequentato da Edoardo ed Umberto Agnelli e gli altri percorsi della dolce vita di Torino

 

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Whisky, soda e belle donne abbondavano sotto il tetto del Chatham Nightclub, in via Teofilo Rossi, proprio di fronte a Palazzo Bricherasio, che era un' icona della dolce vita torinese in quegli anni., assiduamente frequentato da uomini politici, giornalisti, ricchi signori e presunti tali tra luci soffuse, sigarette, musica ed entraineuses dalla pelle d' ambra. Erano i tempi del «superpartito» che dominava il Comune di Torino, e si dice che i big del Psdi, di una parte del Psi e addirittura del Msi si ritrovassero tra i suoi tavolini per decidere accordi, agguati e «siluri» per sindaci e giunte. in via Teofilo Rossi, proprio di fronte a Palazzo Bricherasio. Elvia Nardini, la storica “Maitresse” amica degli Agnelli li ricorda come assidui frequentatori, Giovanni grande giocatore di carte, e Umberto in veste cattivissima che si divertiva a tirare pezzi di pane agli altri clienti. Anche Marcello Mastroianni era una presenza abituale. E’ il periodo delle feste private, dei salotti, delle prime e delle esposizioni di nuovi artisti a cui la Torino-bene non mancava di partecipare

 

fonti:

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/09/16/tornano-le-notti-del-chatham.html

 

I divertimenti degli anni ’60

 

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I Cinema erano veramente tanti, alcuni nati addirittura nei primi decenni del Novecento. (Vedi l’articolo “I cinema storici di Torino”. Con il nuovo benessere del boom economico il cinema divennero un passatempo di massa, e le sale si moltiplicarono.

I caffè erano numerosi come oggi, ma negli anni ’60 erano veramente grandi, su più piani, e in molti si poteva anche ballare. Poi, a causa della crisi economica degli anni ’80, c’è stato un ridimensionamento generale.

Negli anni ’60 Torino era una fucina musicale di primissimo piano, basti pensare a Fred Buscaglione e i suoi Asternovas, ed ai Brutos. Le sale da ballo erano davvero tante, per tutti i gusti e per tutte le tasche, dal centro città alla periferia. I luoghi di ritrovo, (sale e nightclub) erano davvero tanti, considerando anche le sale dei comuni della cintura torinese, da Moncalieri a Nichelino, da Rivoli a Orbassano, oltre a quelle dei vari circoli e associazioni.

Ad eccezione di quelle della periferia e dei dopolavoro più a “bon pat”, cioè a buon mercato, frequentate dai meno abbienti che vi si accalcavano quasi esclusivamente il sabato sera e la domenica pomeriggio, tutte le altre erano, salvo eccezioni, piuttosto trasversali, e in quanto tali raccoglievano un pubblico più o meno eterogeneo. A tale regola sfuggiva l’Eden di via Alberto Nota con il suo giardino estivo interno, dove di pomeriggio si tenevano i “tè studenteschi”, e le due sale Gay: quella estiva di corso Moncalieri era un ritrovo piuttosto snob per gente “in”, quella invernale di via Pomba era invece preferita da gente un po’ più avanti con gli anni.

Nella prima, però, c’era pure chi ballava “la polverosa”: cioè chi, per non pagare il biglietto, si muoveva al ritmo della musica nello stradino tra la sala da ballo e il Po alzando nuvole di polvere.

Gli uomini in cerca di stimoli più forti frequentavano di nascosto alcuni tabarin come il Columbia e il Perruquet di via Goito, oppure il Chatham di via Teofilo Rossi: le protagoniste erano procaci spoglierelliste le cui (per l’epoca) audaci performance trovavano un limite invalicabile nel perizoma argentato o dorato.

Tra i ritrovi danzanti che allora andavano per la maggiore un posto di primo piano se lo erano ritagliato La Rotonda, il Trocadero e il Castellino. Il primo, situato all’ingresso del Valentino e collegato a Torino Esposizioni, è stato per anni la ribalta preferita dal maestro Gaetano Gimelli, che nei fine settimana “lunghi” con la sua orchestra proponeva il boogie-woogie, il cha-cha-cha e lo swing ballabile. L’elegante ma popolare Trocadero di via Andrea Doria aveva il vantaggio, rispetto ad altre sale, di essere in pieno centro: vi si alternavano, esclusivamente nei fine settimana, vari gruppi che si cimentavano in tutti i generi in voga allora. Il Castellino di corso Vittorio Emanuele 44, invece, iniziava a “lavorare” a partire dal martedì: si faceva la coda per ascoltare la musica proposta dal maestro Bruno Canfora o da Enzo Ceragioli i quali, scritturati per un periodo di almeno tre-quattro mesi, allestivano orchestre di dieci-dodici elementi. Il Castellino era famoso per le veglie a tema: il sabato di volta in volta furoreggiavano i pasticceri, i droghieri o i salumieri.

Altri locali "storici" erano la Pagoda del Valentino, dove prima dei cantanti "moderni" Gianni Cucco e Maria Battiston si era a lungo esibito con la sua band il trombettista Nini Rosso, e l’Hollywood (poi Du Parc) di corso Regina Margherita in cui si sarebbero poi esibiti anche il Quartetto Cetra e Adriano Celentano.

Passiamo alla periferia. In borgo San Paolo (esattamente in via Cesana) c’era la Serenella, un ritrovo giovane e alla buona con orchestre però non di gran nome. In borgata Parella vi era il Fassio Café Chantant, vero e proprio cimitero degli elefanti per le ballerine di can-can: i giovani vi venivano ad assistere a quelle che scherzosamente chiamavano “le danze delle vene varicose”. Un certo seguito riscuotevano pure il Principe di via Principe d’Acaja, lo Chalet del Valentino, il Lutrario di via Stradella, la sala De Benedetti, situata sopra il teatro Carignano e, nella stagione estiva, la pista all’aperto dei Giardini Reali.

E ancora: lo Splendor di corso Lecce e il Fortino di via Cigna 45. Per non parlare del Faro di via San Massimo, inaugurato nel ’52, nel quale per un quinquennio si esibirono principalmente il “clarinettista d’oro” Hengel Gualdi e l’emergente Fred Buscaglione con i suoi Asternovas.

 

fonti:

https://www.lastampa.it/blogs/2008/11/14/news/i-divertimenti-e-le-vecchie-sale-br-da-ballo-prima-parte-1.37247729

 

Tutte le discoteche storiche di Torino

 

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Le discoteche di Torino erano una componente ineliminabile degli anni ’60 del divertimento. Facciamone un breve elenco.

Nel 1962 erano presenti:

Acapulco, Bagatelle Evaristo's club , Augusteo, Bruno, Caprice, Castellino, Centro Club, De Benedetti, Eden, Faro, Florida, Gay (Sala), Gay (Villa), Gran Mago, Hollywood (che diventerà in seguito Du Parc), La Cicala, La Perla, La Serenella, Le Roi, Lido, Massaua, Monkey Club, Nirvana, Principe, San Giorgio al Valentino, Trocadero, Piscina del Sole, Columbia, Estoril Club, Moulin Rouge, Tavernetta, Whisky Notte

Nel 1963 furono aperte:

Abatjour, Anaconda, Apollo, Arlecchino, Chez Louis, Fortino, Gaudio, Holiday, Lido, Miroglio, Safari, Scotch Wisky, West End

Nel 1964 furono aperte:

Giardino Belle Arti, Club84, Los Amigos (già Miroglio)

Nel 1965 furono aperte:

Crazy Club, Las Vegas, Abadan

Nel 1966 furono aperte:

Piper, Voom Voom, Baby Night, The Asylum (la "Perla Danze" diventa "Beat Perla")

Nel 1968 furono aperte:

Adriano, Reposi, La Grotta, Lucciola

Nel 1969 furono aperte:

Al 2000, Swing Jazz Club, Mini Club, Le Rififi ("Augusteo" diviene "Shaker" e "Las Vegas" diviene "Boccaccio")

Nel 1970 furono aperte:

Golden Boy, Mack 1, Rouge Noir, Kilt, Leri, Planetario Jet

 

fonti:

http://enrico48.e-monsite.com/pagine/storie-di-vita/le-sale-da-ballo-a-torino.html

 

I locali storici del Jazz a Torino

 

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Il Jazz a Torino e in Piemonte ha precedenti gloriosi. Bisogna ricordare infatti che a Torino, nel 1935, fu fondato il primo “Hot Club” italiano da un gruppo di appassionati di jazz ante litteram che si trovavano al Caffè Crimea dove il pioniere Alfredo Antonino metteva a disposizione degli amici esecuzioni tratte dalla sua ricca discoteca privata, e che nello stesso anno approdò in città la prima tournée di Louis Armstrong in Europa. Le parole dello stesso Antonino danno l’idea del fervore culturale della Torino di quel periodo: «Quella sera tutti i musicisti di Torino si erano trovati un cambio qualsiasi o avevano disertato la loro sala da ballo. La coda delle automobili davanti al teatro era incredibile. Louis ebbe un successo che ha del miracoloso. La maggior parte del pubblico certamente non lo capiva, ma nel subcosciente chiunque era preso dalla sensazione di trovarsi di fronte a un grande artista». Quella sera era presente in sala anche il critico e musicologo Massimo Mila, entusiasta della tromba di Armstrong e della novità dirompente dell’improvvisazione nel panorama musicale italiano. Poco dopo Mila fu arrestato per la seconda volta per attività antifascista, e con lui molti altri intellettuali del gruppo Giustizia e Libertà: Vittorio Foa, Augusto Monti, Giulio Einaudi, Giancarlo Pajetta, Leone Ginzburg. Con loro finì metaforicamente in prigione per molti anni, o quantomeno in libertà vigilata, anche il jazz, ritenuto dal regime un pericoloso veicolo di anticonformismo, un omaggio alla detestata cultura americana e, in definitiva, una poetica della libertà incompatibile con la censura, il grigiore e la xenofobia. Tanto che, dal 1938 in poi, nel periodo bellico, gli appassionati dovettero ricorrere a una specie di “carboneria jazzistica”, pena l’essere aggrediti malamente da manganellatori in camicia nera, come toccò una sera al Valentino a Fred Buscagliene, o essere banditi dalla radio di stato, l’EIAR, come successe al musicista Gorni Kramer per aver eseguito musiche sincopate durante una trasmissione. Ma, come un fiume carsico, il jazz non mancò mai di riapparire qua e là, a volte mascherandosi sotto apparenze italiche, per poi rinascere dopo la guerra, insieme alla scoperta della letteratura americana. Non si può non ricordare, a questo proposito, la lirica A solo, di saxofono, di Cesare Pavese, un omaggio del poeta al genere musicale da lui amato:

Tutta l’anima mia / rabbrividisce e trema e s’abbandona / al saxofono rauco. / È una donna in balia di un amante, una foglia / dentro il vento, un miracolo, / una musica anch’essa.

Da allora fiorirono in città locali che fecero storia, ben noti ai jazz fan: la Taverna Sobrero, il Circolo Torinese del Jazz, lo Swing Club, il Teatro degli Infernotti. E a Torino, dove ha cominciato a suonare da autodidatta il trombone in bande dixieland, si è formato il più grande musicista jazz italiano contemporaneo, Enrico Rava. Di questa ricca tradizione il JCT è un degno erede e piazza Valdo Fusi un ideale spazio metropolitano, tanto nel Giardino d’inverno come nella terrazza per i concerti estivi all’aperto, dove il palco è contiguo ai tavolini del caffè. Per le esecuzioni che richiedono ambienti più grandi, il JCT ha a disposizione una seconda sede all’Art Cafè dell’Hotel Méridien al Lingotto. Oltre alla stagione concertistica normale, tra festival e rassegne internazionali non c’è settimana che il jazz non offra al pubblico la sua rauca e struggente poesia. Buon ascolto!

 

La diffidenza piemontese verso il Meridione in due aneddoti spassosi

 

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un plenipotenziario terrorizzato

C’è una lettera di Luigi Carlo Farini, inviato da Cavour a Napoli come plenipotenziario, per andare un po’ a vedere quel Regno che il Piemonte non aveva cercato e che invece era costretto a prendersi per colpa della bravata garibaldina. Farina, dopo una settimana di permanenza, scrisse spaventatissimo al suo Presidente del Consiglio: «Eccellenza, questa è Affrica!» (con due effe, come allora usava).

luigi firpo rassicura i piemontesi: qui fa troppo freddo per ciondolare all’aperto, la città non diventerà una kasbah

Ai torinesi che temevano l'irreversibile, totale meridionalizzazione della città, rivolgeva parole rassicuranti Luigi Firpo che, eletto deputato, fece scandalo rifiutando di votare una legge a favore di Roma. Disse, chiaro e tondo, che per lui erano soldi sprecati, che ogni tentativo di migliorare anche solo l'aspetto esterno di una città irredimibile come quella finiva in sprechi, in lavori mai finiti, nel degrado, tra l'indifferenza, la cialtroneria, il vandalismo, l'odioso «nun me ne pò fregà dde meno».

«Tranquilli!» ripeteva Firpo ai timorosi piemontesi. «Tranquilli! Dal Sud ne potranno venire ancora tanti, ma è il clima che ci salverà dalla casbah all'araba, dal basso alla napoletana, dall'economia della "hostaria" alla trasteverina. Tranquilli: ci proteggerà San Freddo. La vita per la strada, le porte spalancate sulla cucina, il bucato steso in strada, magari il cesso all'aperto, da noi non sono praticabili: almeno da ottobre ad aprile, se non a maggio, dovranno starsene chiusi in casa, ci penserà il nostro clima a impedire quella vita per le strade che è la stigmata di ogni meridione. Il dover stare al coperto, con le finestre chiuse e la stufa accesa, spinge al lavoro. Al lavoro serio, quello per il quale non basta fare il minimo indispensabile per procurarsi qualche arancia, qualche fico d'India o una mozzarella, ma per cui occorre cibo calorico, che costa. Che, dunque, esige impegno.» Insomma, per questo custode della piemontesità, era il «generale Inverno» la difesa dei subalpini, contro l'invasore che premeva dal Sud della penisola.

 

fonti:

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, versione ebook, posiz. 326,9, 399,5

 

La vivacità culturale di Torino negli anni ’60 e ‘70

 

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Il dinamismo che caratterizza l’economia torinese dalla fine della guerra ai primi anni Settanta contribuisce anche a stimolare la vita culturale: università, giornali, convegni rappresentano strumenti e ambiti di confronto, ma è soprattutto attorno a Giulio Einaudi e alla sua casa editrice che si costituisce un gruppo di intellettuali innovativi, aperti a influenze internazionali, attenti alle suggestioni della contemporaneità: Cesare Pavese, Italo Calvino, Primo Levi, Norberto Bobbio, Franco Venturi, Mario Soldati, Alessandro Galante Garrone non sono che i nomi più illustri di una stagione in cui la città ospita influenti scuole di pensiero filosofiche, storiche, letterarie. Mentre la Galleria civica d’Arte moderna diventa un riferimento nazionale organizzando mostre di grandi artisti contemporanei, Achille Dogliotti inaugura una scuola di chirurgia di alto livello, il Politecnico moltiplica il numero degli iscritti in stretta connessione con le esigenze del mercato del lavoro cittadino, associazioni come l’Unione Culturale animano il dibattito pubblico. Simbolo di questa stagione sono le celebrazioni di Italia ’61, che sul piano urbanistico comportano la rivisitazione dell’ingresso sud della città (sulla direttrice Moncalieri-Parco del Valentino) e sul piano degli eventi l’organizzazione della mostra per il centenario dell’unità: il Palazzo del Lavoro, il Palazzo a Vela, la Monorotaia, il Circarama, il museo dell’Automobile, i padiglioni delle regioni italiane propongono il passato risorgimentale del Paese, la sua pluralità culturale, ma soprattutto l’orgoglio di un presente industriale e tecnologico già proiettato verso il futuro. Le celebrazioni attraggono un pubblico di milioni di visitatori e pongono per molti mesi Torino al centro delle attenzioni nazionali (anche se le lasciano in eredità edifici espositivi monumentali, progettati senza prevederne la destinazione successiva).

 

fonti:

Gianni Oliva, Storia di Torino, pp. 269-288

 

Il Sessantotto

 

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L’allentamento delle tensioni etniche in città non conduce, comunque, a una nuova era di pace sociale e di stabilità politica. Al contrario, “Torino diventa ancora una volta un importante campo di battaglia in un contesto che vede l’impressionante crescita della militanza operaia e del radicalismo studentesco”. Termometro della temperatura in ebollizione sono già stati, nel 1962, gli scontri di luglio in piazza Statuto; nella loro durezza e nella spontaneità della loro dinamica, essi hanno manifestato l’irruzione sulla scena politica di una classe operaia nuova, esasperata dai ritmi della catena di montaggio, dalla durezza della disciplina di fabbrica, refrattaria al rispetto delle gerarchie sindacali, mossa da una rabbia combattiva poco conciliabile con i tatticismi e le prudenze del sindacalismo tradizionale.

Parallelamente a questa forza, nel febbraio 1967 esplode un altro soggetto, il Movimento studentesco, che nel febbraio occupa la sede della facoltà di Lettere a Palazzo Campana, riproponendo l’azione nel novembre successivo e servendo da modello per le analoghe proteste avvenute nei mesi successivi in molte università del Paese. “In linea con le esperienze di altri giovani occidentali, anche i giovani torinesi sperimentano una nuova stagione di aspettative crescenti, che alterano i comportamenti verso le autorità costituite, i consumi, la sessualità. Le motivazioni culturali si intrecciano con un nuovo idealismo politico che trae ispirazione dagli sviluppi di fenomeni internazionali come la guerra in Vietnam, la Rivoluzione culturale cinese, le imprese in America Latina di Che Guevara”. Questo nuovo radicalismo, che nella primavera 1968 trova stimolo nell’esperienza del “maggio francese”, è particolarmente marcato a Torino, dove lo sviluppo industriale ha imposto una cultura tecnocratica, gerarchica ed efficientistica. Nel 1968-69 il Movimento studentesco dell’università trova un terreno di incontro con gli attivisti operai della città, in lotta sui temi dei ritmi di produzione, dei salari, delle discriminazioni sul posto di lavoro. “L’irrequietezza degli stabilimenti industriali è cresciuta indipendentemente dagli avvenimenti universitari, ma i giovani estremisti aiutano a far crescere nei lavoratori un clima di insubordinazione verso tutte le autorità, incluse quelle del sindacato e del Partito comunista, e rafforzano la tendenza degli operai più giovani per l’azione diretta e le decisione collettive prese nelle assemblee di massa”67. L’alleanza tra studenti e lavoratori porta alla formazione di una “nuova sinistra incarnata da piccoli gruppi rivoluzionari, da Lotta Continua a Potere Operaio, che ambiscono a formare un nuova coscienza rivoluzionaria nel proletariato cittadino.

Nell’autunno 1969 lotte di fabbrica e manifestazioni studentesche si susseguono quasi quotidianamente in coincidenza con il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, in un panorama cittadino dove i sindacati e i partiti tradizionali faticano a mantenere il controllo della situazione: è il cosiddetto “autunno caldo , fenomeno di mobilitazione radicale diffuso in tutti i centri industriali del Nord ma che ha il suo epicentro a Torino, città dove i metalmeccanici rappresentano oltre il 50% dei lavoratori; interruzioni del lavoro in fabbrica, occupazione delle Università e di molte scuole superiori, cortei che paralizzano il centro, dove convergono le manifestazioni operaie che partono dagli stabilimenti di Mirafiori e Lingotto e quelle degli studenti in sciopero che muovono dalle varie scuole e dalla nuova sede delle facoltà umanistiche, Palazzo Nuovo, inaugurato quell’anno. Nel suo fervore insieme caotico, velleitario e creativo, l’“autunno caldo” nasce dallo scollamento profondo tra le esigenze di rinnovamento indotte dalle trasformazioni economiche e sociali del miracolo economico” e l’immobilismo della politica nazionale, paralizzata nella gestione della quotidianità e incapace di strategie di lungo periodo.

Se da un lato segna il punto di maggior durezza dello scontro, l’autunno 1969 manifesta anche i limiti delle ambizioni rivoluzionarie e dell’alleanza tra studenti e operai: come è stata laboratorio di quell’alleanza, Torino è anche laboratorio del suo esaurimento. “Una nuova e più aggressiva coalizione delle maggiori federazioni sindacali riafferma l’autorità del sindacato in fabbrica e nella negoziazione con i vertici aziendali. Alla fine dell’anno, i principali leader ottengono un contratto nazionale che contiene aumenti salariali indifferenziati, le 40 ore lavorative, un periodo di ferie più lungo e spazio al diritto di assemblea in fabbrica. I gruppi rivoluzionari denunciano il contratto come tradimento, ma il loro punto di vista non è condiviso dalla maggior parte dei lavoratori che approvano l’accordo”68. La stagione si conclude così con un bilancio positivo in termine di conquiste sindacali e, nel contempo, con il radicamento dei gruppi politici della “nuova sinistra”, tanto radicali nel linguaggio e nelle piattaforme quanto semplicistici di fronte al problema della violenza.

 

fonti:

Gianni Oliva, Storia di Torino, pp. 269-288

 

Gli anni di piombo

 

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La nascita del terrorismo a Torino si colloca nell’autunno di tre anni dopo e non è casuale il vigore con cui prima le Brigate Rosse, poi Prima Linea con altri segmenti collaterali operino in città. A Torino si fronteggiano senza mediazione i due grandi blocchi economici e sociali, da una parte il più grande gruppo industriale europeo, dall’altra la più grande concentrazione operaia: i nuclei terroristici cercano di inserirsi come un cuneo per radicalizzare lo scontro. Il 26 novembre 1972 nove automobili di aderenti al sindacato neofascista Ci-snal vengono incendiate quasi contemporaneamente in punti diversi della città; nel 1973 vengono sequestrati prima il sindacalista Cisnal Bruno Labate, poi il direttore del personale Fiat Ettore Amerio. Il salto di qualità del terrorismo avviene nel gennaio 1977, quando viene ucciso un giovane brigadiere dell’ufficio politico della Questura, Giuseppe Ciotta: poi inizia un escalation che dura sino al 1980 e costa la vita, tra l’altro, al presidente dell’Ordine degli avvocati Fulvio Croce, al vicedirettore de’“La Stampa” Carlo Casalegno, alla guardia carceraria Giuseppe Lorusso, agli agenti di polizia Giovanni Cali e Francesco Sanna, al giudice Caccia. La reazione ferma e unitaria delle autorità locali, a cominciare dal sindaco comunista Diego Novelli eletto nel 1975, le iniziative di vigilanza della stessa popolazione (come il questionario proposto dalla circoscrizione Aurora-Rossini per segnalare ogni informazione utile), l’offensiva antiterroristica lanciata dal governo nazionale dopo l’assassinio di Aldo Moro, isolano sempre più Brigate Rosse e Prima Linea. Nell’inverno 1979-80 la cattura di Patrizio Peci, che collabora in cambio di una riduzione di pena, permette di smantellare l’organizzazione terroristica delle Brigate Rosse in città dopo cinque anni di emergenza: un altro pentito, Roberto Sandalo, rivela nomi e riferimenti di Prima Linea. Quando il terrorismo è sconfìtto, si possono calcolare i prezzi pagati dal torinese: 323 attentati, 26 morti, 48 feriti.

 

fonti:

Gianni Oliva, Storia di Torino, pp. 269-288

 

La nuova immigrazione

 

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la nuova immigrazione

Nel 1973 per la prima volta il saldo migratorio italiano, che era negativo (espatri maggiori di ingressi), diviene positivo; alla fine degli anni ’70 il flusso di stranieri diviene consistente, sia per la "politica delle porte aperte" praticata dall'Italia, sia per politiche più restrittive adottate da altri paesi. Nel 1981, il primo censimento Istat degli stranieri in Italia calcolava la presenza di 321.000 stranieri, di cui circa un terzo "stabili" e il rimanente "temporanei". Nel 1991 il numero di stranieri residenti era di fatto raddoppiato, passando a 625.000 unità. Negli anni novanta il saldo migratorio ha continuato a crescere e, dal 1993 (anno in cui per la prima volta il saldo naturale è diventato negativo), è diventato il solo responsabile della crescita della popolazione italiana.

Con l’allargamento dell’Unione Europea, che tra il 2004 e il 2013 registra l’ingresso di Ungheria, Polonia, Slovacchia, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovenia, Romania, Bulgaria e Croazia al flusso proveniente da sud si aggiunge quello proveniente da est. Alla data del censimento della popolazione del 2001 risultavano presenti in Italia 1.334.889 stranieri, mentre le comunità maggiormente rappresentate erano quella marocchina (180.103 persone) e albanese (173.064). Nel 2005 gli stranieri erano 1.990.159, mentre le comunità albanese e marocchina contavano, rispettivamente 316.000 e 294.000 persone.

la reazione ostile degli ex immigrati alla immigrazione straniera

Una parte degli immigrati di prima generazione, largamente integrati nel tessuto sociale ed economico torinese, non ha visto di buon occhio la immigrazione extracomunitaria, specie in un periodo di contrazione economica e di disoccupazione che sta colpendo la metropoli piemontese con particolare forza: la storia si ripete e la nuova sfida dell’integrazione si gioca ora tra vecchi e nuovi migranti.

 

fonti:

Wikipedia, “Immigrazione in Italia”

 

 

 

 

 

LA TORINO ARALDICA E SIMBOLICA E DECORATIVA

 

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Una Torino che sembra uscita da un romanzo di Dan Brown: ecco la Torino dei simboli massonici e cattolici che si fronteggiano nell’intrico delle strade del centro.

 

I simboli della bandiera del Piemonte

 

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Lo stemma del Piemonte, che si trova sulla bandiera o drapo, come si dice in piemontese, è ricco di simboli e di storia.

La bandiera del Piemonte venne adottata la prima volta il 15 agosto 1424 da Amedeo VIII, detto il Pacifico, dapprima Conte di Savoia e poi il primo ad assumere il titolo di Duca di Savoia. Ispirato alla bandiera della Savoia, anch’essa composta da una croce bianca in campo rosso, ma senza altri componenti aggiuntivi, il vessillo che i Piemontesi chiamarono subito il “drapò”, fu originariamente destinato al figlio primogenito del duca, in occasione della concessione del titolo di Principe di Piemonte, appannaggio dell’erede al trono.

Composto da una croce bianca o argentata in campo rosso (detta anche Croce di San Giovanni Battista, con i colori esattamente opposti a quelli della Croce di San Giorgio), il drapò è contornato da un profilo azzurro (azzurro Savoja). La croce è sormontata dal caratteristico simbolo araldico, che contrassegna la primogenitura, detto “lambello”.

Lo Stemma ha forma quadrata, con croce d'argento in campo rosso spezzata da lambello azzurro a tre gocce. Di fatto è stato ripreso l'antico stemma che nel 1424 Amedeo VIII, primo duca di Savoia, stabilì per il Principe di Piemonte, titolo spettante all'erede del casato, apponendo il lambello (la più nobile delle brisure e spesso utilizzata quale segno di primogenitura) in capo allo stemma sabaudo. Le tre gocce del lambello ricordano i casati che hanno governato il Piemonte: Angiò, Savoia-Acaia, Savoia, e sono anche il simbolo della primogenitura, il segno dell’erede al trono.

I colori sono: il rosso, vale a dire il coraggio; il blu, vale a dire la stabilità e l’arancione (dal melograno ove gli spicchi sono tutti uguali ed uniti), che vuol significare “indivisione” e “uguaglianza”. L’azzurro è anche il colore della Vergine, che i Sabaudi poterono mettere sul loro stemma grazie alla partecipazione alla Battaglia di Lepanto. Pio V, Papa mariano e domenicano, affidò a Maria Santissima le armate ed i destini dell’Occidente e della Cristianità, minacciati dai musulmani. I reduci vittoriosi, che ritornando dalla guerra passarono per Loreto a ringraziare la Madonna. I forzati che erano stati messi ai banchi dei remi ottomani sbarcarono a Porto Recanati e salirono in processione alla Santa Casa, dove offrirono le loro catene alla Madonna; con esse furono costruite le cancellate poi poste agli altari delle cappelle. Lo stendardo della flotta fu donato alla chiesa di Maria Vergine a Gaeta, dove è tuttora conservato. Coloro che parteciparono all’impresa poterono da quel momento fregiarsi del colore azzurro, il colore della Vergine “Auxilium Christianorum”.

 

fonti:

https://www.corrispondenzaromana.it/la-madonna-del-rosario-e-la-battaglia-di-lepanto/

http://www.piemontetopnews.it/storia-della-bandiera-che-simboleggia-il-piemonte-il-drapo/

 

Simboli massonici o anticlericali a Torino

 

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i due geni alati di torino e il candelabro a sette braccia sulla mole

Secondo molti, l'Angelo della Luce posto in cima alla Mole Antonelliana sarebbe in realtà un genio alato che porta sul capo la stella massonica a cinque punte. Sta di fatto che è antica la fama sinistra del luogo dove, nella seconda metà dell'Ottocento, sarebbe sorta la piazza chiamata dello Statuto. In effetti, è in corrispondenza con la porta romana a ponente, quella che guardava verso il tramonto del sole, metafora di ogni vita che si spegne.

simboli massonici a piazza statuto

E' probabile che, a piazza costruita e sistemata, una certa aura ambigua le sia venuta anche dal fatto che l'Ottocento anticlericale ne fece un vero e proprio magazzino liberomuratorio. Non solo nel monumento al Fréjus, dove l'Angelo che trionfa sulla piramide e scrive sul marmo il nome degli ingegneri apostoli del Progresso è un gemello dell'Angelo - o «Genio Alato», come si preferiva dire, per non usare il termine della tradizione cristiana - che la stessa ideologia volle fosse issato sulla sommità della Mole Antonelliana.

Un emporio davvero massonico, questa piazza Statuto, nel monumento «grande», la piramide, e in quello «piccolo», l'obelisco al Meridiano di Torino, ma anche nella struttura dei palazzi. In effetti, non so quanti notino com'è insistente e prevalente in essi l'elemento del triangolo. Alcuni, giganteschi, concludono le facciate; altri sovrastano tutte le finestre del «piano nobile», quello riservato all'élite, quasi a indicare che i Fratelli abitano lì (tra loro, in effetti, c'era Edmondo De Amicis, inquilino del palazzo all'angolo con il corso Beccaria), mentre altri triangoli formano il tetto di tutte le mansarde. Sono elementi architettonici certamente non casuali, pensati e collocati (considera anche l'epoca della costruzione e il progetto fatto in Inghilterra, madre della Loggia delle Logge) per suggestione di una Libera Muratoria che celebrava allora la sua grande stagione di potere, politico e anche culturale. Insomma, pure questo, dando un tocco di occulto, di Superga fronteggia la Mole

la vittoria alata sul colle della maddalena

Torino, invece, nel suo posto più alto, prima ha messo un «genio alato» venuto in volo direttamente da una Loggia. Doveva essere, lo sanno tutti, la sinagoga degli ebrei della Capitale del nuovo Regno: volevano un edificio imponente per dare visibilità alla loro comunità, finalmente emancipata dallo Statuto del 1848. C'era certamente un desiderio di rivalsa, soprattutto verso il mondo cattolico, visto che ciò che quegli israeliti desideravano era una sinagoga più grande di ogni chiesa torinese e volevano che, addirittura, non terminasse in una guglia ma in una "menorah", un candelabro a sette braccia. E invece fu un genio con u na stella: che non è, ovviamente, la "Stella Maris" o la "Stella Matutina" delle litanie del rosario.

E non si consolino, i credenti, perché la città, in realtà, sarebbe dominata da Superga, che è un tempio in onore della Madonna delle Grazie (anche se non mi risulta che ne esista una devozione, non ho mai sentito un torinese, nemmeno tra i più pii, invocare Nostra Signora di Superga, né ho mai visto nessuno andarvi in pellegrinaggio). Comunque, se vogliamo essere precisi, è il Colle della Maddalena, non quello di Superga, il punto più alto della «montagna di Torino», come sino al Settecento chiamavano la collina. E su quel vertice, dunque sulla balza più elevata del territorio del comune, ecco la statua gigantesca di una divinità pagana, Nike, la Vittoria, con tanto di iscrizione dannunziana («Il nome breve, che nella Genesi diede la luce») che gioca un po' empiamente sulla assonanza biblica del nome Fiat. E la dea regge, a dominio della città, un grande faro che lancia un segnale non della religione del vangelo ma di quella della patria. Insomma, sull'edificio più alto e sulla collina più alta di Torino non stanno croci o madonne, bensì simboli o di laicisti o di nuovi pagani, gli adepti dei culti nazionalistici, certamente i più sanguinosi della storia, come hanno mostrato gli ultimi due secoli.

 

fonti:

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, versione eBook, posiz. 480,2; 89,7

 

Il portone del diavolo

 

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È nel palazzo in via Venti Settembre sull’angolo con via Alfieri, attualmente sede di un istituto di credito. Era in origine il portone del Palazzo Trucchi di Levaldigi. Sul battacchio bronzeo della robusta porta è visibile un diavolo sogghignante. Il pesante uscio si collega a una delle leggende fiorite intorno al palazzo, come se in poche ore, in una sola notte, fosse stato sistemato sui cardini, quasi si trattasse d’una operazione diabolica da portare a termine di nascosto approfittando dell’oscurità.

 

fonti:

Renzo Rossotti, Guida insolita di Torino, p. 230

 

Il Santo Graal a Torino e la Gran Madre di Dio

 

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Sulla Chiesa della Gran Madre di Dio sono state formulate le interpretazioni più esoteriche della città ed infatti è proprio questo il luogo più avvolto nel mistero. La chiesa venne iniziata nel 1818 e conclusa nel 1831, per festeggiare il ritorno dei Savoia dopo l’invasione napoleonica e, secondo la tradizione, sorgerebbe in un punto dove si trovava un tempio antichissimo e misterioso.

La Gran Madre è una delle chiese più importanti di Torino; in special modo la cupola, che è una calotta a cassettoni in calcestruzzo, viene considerata una delle massime realizzazioni tecniche dell'architettura del periodo neoclassico nel Piemonte. A pianta circolare, per rinforzare il simbolico assioma con il divino, eretta su un asse ovest-est con ingresso a occidente e altare a oriente, la Gran Madre di Torino a vederla non si direbbe un edificio di culto cristiano, poichè assomiglia di più ad un tempietto greco-romano. Effettivamente ha analogia con il Pantheon di Roma, che pare abbia ispirato davvero il progettista, Ferdinando Bonsignore (Torino 1760 - 1849), architetto reale dal 1798.

Vista dall’interno la cupola viene interpretata come una coppa rovesciata, simbolo del santo Graal. Il santo Graal è la coppa in cui si dice abbia bevuto Gesù durante l’Ultima Cena e nella quale successivamente Giuseppe d’Arimatea ne ha raccolto il sangue durante la crocifissione.

Sul piazzale di fronte al sagrato della chiesa con la sua ampia scalinata, troviamo rispettivamente due statue femminili piuttosto criptiche, una a destra e l’altra a sinistra: la statua di sinistra rappresenta la Carità e tiene sollevata nella mano sinistra una coppa (simbolo appunto del Santo Graal). Questa figura guarda verso una direzione non precisa che, secondo molti studiosi di esoterismo, dovrebbe indicare il punto in cui è nascosta la misteriosa coppa.

La statua di destra invece rappresenta la Fede e ha una particolarità piuttosto strana: sul suo lato destro, in una posizione apparentemente secondaria, si intravede (rovesciata) una tiara papale. Secondo molti questo è il segno di una profezia di Nostradamus che prevedrebbe il futuro decadimento del potere ecclesiastico della Chiesa apostolica romana. Inoltre nella mano destra la figura regge una croce di legno mentre alla sua sinistra vi è un angelo inginocchiato che porge alla donna le Tavole dei comandamenti dati a Mosè sul monte Sinai.

Sul frontone del tempio, poi, si trova una monumentale dicitura: “ORDO POPULUSQUE TAURINUS OB ADVENTUM REGIS” ossia, dal latino, “La città ed i cittadini di Torino per il ritorno del Re”. Fu il latinista Michele Provana del Sabbione a concepire questa scritta. Secondo Arnò, grande personaggio torinese esperto di esoterismo, la frase farebbe riferimento al supremo ordine del toro, Ordo Taurinus, riallacciandosi così da un lato all’antica discendenza celtica-druidica, ma dall’altro anche a quello egizio dei sacerdoti del dio-toro Api.

Un’ulteriore curiosità sulla posizione astronomica di questa chiesa: a mezzogiorno in punto del 21 dicembre di ogni anno (data del solstizio d’inverno) il sole appare esattamente sulla sommità del timpano del tempio.

Secondo gli esoteristi, la chiesa della Gran Madre fa parte di una triade sacra, segno della perfezione presente a Torino. Essa rappresenta il Santo Graal e, assieme alla Sacra Sindone ed al frammento della croce di Gesù, costituiscono i tre elementi che simboleggiano la Sacra Trinità.

Un altro dei motivi per cui viene considerato un punto di forte energia è la vicinanza al fiume (sorge sulla riva destra del Po), elemento considerato simbolo di vita da tempi ancestrali e collegato al culto della Grande Madre. Secondo gli esoteristi la dedicazione alla Gran Madre di Dio ricorda il culto della Grande Madre universale, diffuso nell’antichità. Si dice che esattamente qui dove sorge la chiesa della Gran Madre di Dio vi fosse un tempio 'pagano' dedicato proprio alla dea Iside; altri dicono che sulla collina che sorge alle spalle dell'edificio si fossero anticamente insediati i Taurinii, ceppo Celtico i cui sacerdoti, i Druidi, veneravano la natura, i boschi e la Madre Terra, e qui avrebbero innalzato un tempio appunto a Gaia

 

fonti:

http://www.lingueunito.org/torinomagica/chiesa-della-gran-madre-di-dio/

http://www.duepassinelmistero.com/Gran%20Madre.htm

 

Il Palazzo degli Stemmi

 

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Uno dei luoghi più suggestivi della Torino araldica è il Palazzo degli Stemmi. In mezzo all’eleganza dei palazzi del centro storico, lo si riconosce perché in corrispondenza delle arcate del porticato ha applicati degli stemmi araldici. Uno diverso dall’altro.

Al centro della lunga sequenza, sopra all’arcata in corrispondenza del portone di ingresso principale, si trova l’emblema di Casa Savoia, sorretto da statue allegoriche rappresentanti la carità avvolte in delicati e morbidi drappeggi.

Palazzo degli Stemmi è più o meno a metà di Via Po, sul lato sinistro della via andando verso il fiume. E’ infatti uno dei palazzi porticati della “passeggiata regale”.

Sembra strano crederlo, vedendo Torino come è adesso, ma tutta la zona intorno a Via Po –e Via Po stessa, che a suo tempo si chiamava Contrada di Po- fino alla fine del 1600 era al di fuori delle mura cittadine! Pensate che ai tempi di Emanuele Filiberto di Savoia, nel XVI secolo, dove ora si trova il Palazzo degli Stemmi si trovava un edificio destinato alla posta dei cavalli! Via Po è infatti sempre stata una direttrice importante per il collegamento che creava fra la città e il fiume e verso l’astigiano e il Monferrato.

Il palazzo venne edificato nel contesto del secondo ampliamento della città (1673), il cui progetto venne affidato all’architetto Amedeo di Castellamonte da parte di Vittorio Amedeo II, ma la storia di questo palazzo nasce molto, molto prima.

La peste che colpì Torino nel 1630 falcidiò la popolazione, riducendo gli abitanti da 11.000 a 3.000. Quando Carlo Emanuele II salì al trono, si trovò a gestire non poche questioni rilevanti, ed una di queste era il degrado e la povertà della popolazione. Stabilì quindi la fondazione dell’Ospizio di Carità, un ospedale per il ricovero degli infermi e dei mendicanti.

La sede dell’Ospizio di Carità cambiò più volte nell’arco degli anni, sulla base del mutare delle esigenze della città.

Al prospettarsi del nuovo ampliamento cittadino, volto al recupero e al risanamento di quella zona “fuori le mura” che era molto degradata, sorse l’idea di collocare l’Ospizio nella nuova area urbana di Contrada Po.

Era il 1682, Carlo Emanuele II era morto da vari anni e suo figlio Vittorio Amedeo II aveva preso pieno potere dopo la reggenza da parte della madre, la Madama Reale Maria Giovanna Battista. Le decisioni di Vittorio Amedeo riguardo il nuovo Ospizio furono argomento di discussioni e chiacchiericci in città, anche perché vennero interpellate le famiglie benestanti e agiate di Torino –prima ancora di quelle nobili- e venne domandato loro un contributo di generosità. In cambio, l’emblema della famiglia sarebbe stato posto sulla facciata del palazzo, sede del nuovo Ospizio, ad affacciarsi su quella che sarebbe diventata la “Via Regina” della città all’interno della nuova cinta muraria di Torino.

Vuoi per sincero amore verso la città, vuoi per la prospettiva del ricordo imperituro della propria famiglia, vuoi per un naturale istinto di orgoglio, in tanti risposero positivamente alla proposta, ed il risultato fu l’estendersi un poco per volta dell’opera.

La costruzione iniziò nel 1683 e gli indigenti vennero ricoverati nella struttura man mano che l’edificio si ampliava grazie alle donazioni. I lavori di costruzione si conclusero nel 1697, anche se –anche dopo quell’anno- l’edificio subì alcune trasformazioni.

Nel 1716 Vittorio Amedeo II, divenuto re in seguito alla guerra di successione spagnola, proibì la mendicità a Torino e diede ordine che tutti i poveri venissero ricoverati presso l’Ospizio di Carità. Venne stabilita la data del 7 aprile del 1717 come data ultima della mendicanza e dell’inaugurazione solenne del Regio Ospizio.

In quel 7 aprile, venne allestito un grande banchetto in Piazza Castello. Gli ospiti invitati erano gli 800 poveri della città di Torino, e le pietanze vennero servite dai paggi di corte mentre il re e la famiglia assistevano dalle finestre del Palazzo Reale.

La cosa fece non poco scalpore e suscitò le proteste dei gesuiti, i quali però dovettero moderare di netto il loro disappunto, dato che l’iniziativa era stata ampiamente appoggiata dalla borghesia e dalla nobiltà cittadina.

Oggi Palazzo degli Stemmi fa parte del complesso dell’Università di Torino e ne ospita alcuni uffici amministrativi. Una parte dell'edificio è invece adibita a residenza universitaria.

 

fonti:

http://www.atourinturin.com/2015/11/il-palazzo-degli-stemmi.html

 

La Vittoria alata, simbolo (pagano?) che veglia su Torino

 

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Il suo raggio di luce ha stuzzicato la fantasia di milioni di bambini, ma anche la storia del Faro in collina è ricca di particolari intriganti e degni di un romanzo

Qualche anno fa, quando le luci sulla collina erano molte meno, era frequente scorgere un fascio luminoso rivolto dall'alto verso la città. Molti bambini, nel corso degli anni, avranno sognato un Batman sabaudo (un Sabautman?) mandare il suo segnale e vegliare sulla tranquillità dei torinesi.

Ma bastava chiedere ai più grandi per ricevere una risposta tanto giusta quanto “deludente”: quel raggio di luce non era un segnale di supereroi o alieni, ma il faro della Vittoria Alata sul Bric della Maddalena.

La statua che contiene il faro e restaurata nel 2013, del resto, potrebbe tranquillamente fare bella figura in un fumetto, oppure anche in un romanzo o film alla Dan Brown: posta sulla cima più alta di Torino (715 m), sovrasta la città da quasi 90 anni, e la sua storia rivela numerosi dettagli intriganti.

Fu issata nel Parco della Rimembranza nel 1928: erano passati dieci anni dalla vittoria dell'Italia su Austria e Germania nella prima guerra mondiale. Tutto il parco risalente al 1923, come indica il suo nome, rappresenta un ricordo di quella guerra e dei soldati italiani caduti, a cui furono dedicati gli alberi piantati, e nella facciata del basamento in granito di 8 metri fu incisa l'epigrafe di un uomo simbolo della partecipazione alla guerra per riportare in Italia Trento e Trieste (e Fiume): Gabriele D'Annunzio.

La dedica del Vate è

“Alla pura memoria / all'alto esempio / dei mille e mille fratelli combattenti / che la vita donarono / per accrescere la luce della patria” fa quindi parte del tipico linguaggio epico dannunziano. Nelle parole successive c'è invece un riferimento preciso a Torino, quando vengono citati “gli operai di ogni opera / dal loro capo Giovanni Agnelli / adunati sotto il segno / di quella parola breve / che nella Genesi / fece la luce”.

La parola breve è Fiat, sigla di Fabbrica Italiana Automobili Torino ma anche parte dell'espressione biblica, contenuta all'inizio della Genesi e citata dal Vate al termine dell'epigrafe: “Fiat lux: et facta est lux nova”, ovvero “Venga la luce: e (nuova) luce fu”.

Il riferimento ad Agnelli e Fiat era in un certo senso obbligato: la statua celebrativa del decennale della vittoria bellica era stata commissionata al noto scultore Edoardo Rubino nel 1927 da Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat e nonno dell'Avvocato. L'artista diede vita a una Vittoria Alata, che guarda in alto e sorregge una fiaccola che ospita il faro puntato sulla città. Per portarlo lassù fu trasportato di notte, con l'aiuto delle ferriere Fiat e sotto la sorveglianza dell'azienda di trasporti municipali, incaricati tra le altre cose di sollevare i cavi del tram al passaggio dei tre tronconi di monumento.

Per capire quanto importante fosse il valore simbolico di questa installazione, basti pensare che con i suoi 18,5 metri (basamento escluso) era all'epoca la più grande statua interamente in bronzo del mondo. Non solo: tre anni prima del Cristo Rey di Rio de Janeiro e molto prima di tante altre più recenti, all'epoca era una delle più alte statue del mondo dopo la Statua della Libertà. In Italia, a svettare con 22 metri è la Statua del Redentore di Maratea (1965), seguita dal Colosseo di San Carlo Borromeo ad Arona (1698, alta 20,7 m) e poi dal nostro faro cittadino.

Decennale della vittoria nella Grande guerra, Agnelli, Fiat, D'Annunzio, statua da record: gli elementi per un'inaugurazione solenne in grande stile c'erano tutti. La date prescelta era il 24 maggio, quella in cui nel 1915 “il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti”. Invece, proprio in quei giorni un grave lutto colpì la famiglia Agnelli; era morta a soli 38 anni Caterina detta Aniceta Agnelli: figlia del Senatore Giovanni, sorella di Edoardo e quindi zia di Gianni, Umberto, Clara e Susanna, moglie di Carlo Nasi.

A differenza del fratello minore Edoardo, morto nel 1935 in un incidente con l'idrovolante, non sono note le cause né la data precisa della prematura scomparsa di Aniceta Agnelli Nasi: a lei e a suo fratello furono dedicati pochi anni dopo due degli edifici più amati da generazioni di ragazzi torinesi, per altri motivi. Quel che si sa è che a causa di questo lutto la famiglia Agnelli annullò la cerimonia di inaugurazione della statua prevista per il 24 maggio 1928.

A livello ufficiale, la consegna della statua alla comunità avvenne la mattina del 4 giugno: nessun taglio del nastro, nessuna fotografia di rito o discorso davanti ad autorità, giornalisti e pubblico. A firmare il verbale di consegna l'ufficiale Carlo Charbonnet per il senatore Agnelli e Giorgio Scannagatta per la Città di Torino, insieme all'autore Edoardo Rubino, Giuseppe Debenedetti e Emilio Giay.

L'inizio in incognito di una storia che da allora ha scatenato le fantasie di milioni di bambini.

Alcuni vedono in quella statua un ennesimo episodio della “lotta dei simboli” che ha avuto luogo a Torino tra la prima metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Così scrive in proposito lo scrittore cattolico Vittorio Messori:

“Torino, invece, nel suo posto più alto, prima ha messo un «genio alato» venuto in volo direttamente da una Loggia; e, poi, una stella: che non è, ovviamente, la "Stella Maris" o la "Stella Matutina" delle litanie del rosario. E non si consolino, i credenti, perché la città, in realtà, sarebbe dominata da Superga, che è un tempio in onore della Madonna delle Grazie (anche se non mi risulta che ne esista una devozione, non ho mai sentito un torinese, nemmeno tra i più pii, invocare Nostra Signora di Superga, né ho mai visto nessuno andarvi in pellegrinaggio). Comunque, se vogliamo essere precisi, è il Colle della Maddalena, non quello di Superga, il punto più alto della «montagna di Torino», come sino al Settecento chiamavano la collina. E su quel vertice, dunque sulla balza più elevata del territorio del comune, ecco la statua gigantesca di una divinità pagana, Nike, la Vittoria, con tanto di iscrizione dannunziana («Il nome breve, che nella Genesi diede la luce») che gioca un po' empiamente sulla assonanza biblica del nome Fiat. E la dea regge, a dominio della città, un grande faro che lancia un segnale non della religione del vangelo ma di quella della patria. Insomma, sull'edificio più alto e sulla collina più alta di Torino non stanno croci o madonne, bensì simboli o di laicisti o di nuovi pagani, gli adepti dei culti nazionalistici, certamente i più sanguinosi della storia, come hanno mostrato gli ultimi due secoli.”

 

fonti:

http://www.torinotoday.it/cronaca/torino-monumenti-piu-alti-faro-vittoria-maddalena.html

 

I simboli massonici dell’architetto di corte Pelagio Palagi

 

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Se il barocco piemontese è, soprattutto, Guarini, il neoclassico, qui, è sotto il segno del bolognese Pelagio Palagi, che plasma gli interni di Palazzo Reale, imponendo il suo gusto a tutta l'aristocrazia piemontese; che disegna la splendida cancellata, degna di Versailles, che separa il Palazzo dalla piazza Castello; che proprio lì a fianco progetta, affresca, arreda la fascinosa Biblioteca Reale; che fonde il concitato, romantico monumento al Conte Verde davanti al municipio, uno degli angoli che, alla pari di piazza Carignano, sembrano più conformi all'anima profonda della città. Quella di Palagi, nella Torino di Carlo Alberto, è una sorta di dittatura estetica: ed è un'estetica imposta da uno delle mie parti. Fra l'altro, in una mostra recente dedicata agli artisti massonici (mostra insospettabile perché organizzata dallo stesso Grande Oriente) Palagi occupava grande spazio, come uno tra i più eminenti Fratelli, la cui opera sarebbe stata sempre pervasa dalla prospettiva delle Logge. Il catalogo della mostra notava, con un sorriso ironico, che l'artista era riuscito a gabbare le cattolicissime, sospettose autorità piemontesi che - prima di convocarlo a Torino per il servizio della Real Casa - gli chiesero conto delle voci insistenti che giravano su di lui. Ma Palagi assicurò di non essere mai stato (o di non essere più) massone: creduto sulla parola, fu accolto, e dovette divertirsi molto a riempire di simboli liberomuratori una delle corti considerate più codine e bigotte d'Europa e una città la cui devozione era esemplare.

 

fonti:

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, versione eBook, posiz. 37,5

 

Il simbolo del toro: origini egizie di Torino?

 

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Discussa e assai complessa l’assunzione del toro, animale indomito, a simbolo della città, presente già in lontane monete. Si è a lungo dissertato se la città abbia preso il proprio nome per amore del toro, oppure se il nome abbia poi ispirato il simbolo. Il Viriglio affermò che nell’idioma dei Celti la radicale thor stava per altura, monte. Montanari erano i Taurasii o Taurisci e quando giunsero i Romani non fu difficile dare alla città il nome di Augusta Taurinorum, che sarebbe quindi la “città dei montanari”. Il suono di thor aveva una indubbia assonanza con toro e tauro. Il toro, con diverse raffigurazione araldiche, finì per rimanere nell’emblema della città. Secondo il già citato autore, «nell’assedio del 1640 le milizie torinesi portavano dipinta (Tesauro, Torino assediato e non soccorso) sugli stendardi la Sindone; in quello del 1706 inalberarono bandiera rossa divisa dalla bianca croce in quattro campi recanti, il primo lo stemma civico sormontato dalla corona comitale e dal motto Auxiliuni meum a Domino (già impresso in monete di Emanuele Filiberto) e gli altri tre il simbolico toro».

 

Duecento diavoli di pietra abitano Torino. O forse sono folletti?

 

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La presenza del demonio a Torino viene spesso evidenziata, soprattutto da coloro che sulla città hanno imbastito una sorta di leggenda nera metropolitana insistendo su luoghi particolarmente nefasti, parlando di triangoli bianchi o neri che s’intrecciano sul territorio torinese. Il diavolo, per costoro, affollerebbe l’architettura cittadina con un curioso gioco di mascheroni ghignanti i quali, per altro, trovano una loro precisa collocazione ornamentale, senza scomodare il maligno. Ne è stata tentata perfino l’enumerazione, una sorta di “censimento” diabolico: oltre duecento diavoli, con la con siderazione che il diavolo più urlante, con la bocca spalancata e il ghigno più feroce, è quello di corso Galileo Ferraris 18, ma anche quelli del centro storico, compresi quelli negli ornati di piazza San Carlo non sono da meno, senza contare il diavolo scolpito nel battacchio del portone di via Alfieri angolo via Venti Settembre, che rimane il più celebre. Perché mai tanti diavoli a Torino? La risposta potrebbe apparire deludente.

Più che di satanassi, infatti, si tratta di sarvan, ossia di personaggi fantastici di aspetto terrifico usati contro la malasorte, proprio per tenere lontani eventuali influssi negativi, quindi proprio l’opposto del demonio. Già nel periodo medievale tali raffigurazioni comparivano in portali, porte, cancelli. Sarvan è nome dato a gnomi, spiritelli, creature del piccolo popolo (v. anche Fate). Il termine è di origine dubbia. In piemontese vuol significare folletto, divinità dei campi, potremmo quasi dire trattarsi di termine per indicare un “servente”, un essere dei boschi, silvano, ma benefico, capace anche di dare una mano nei più pesanti lavori della campagna. In campo architettonico, quasi al termine della sua opera, il costruttore poneva uno di questi mascheroni come ornamento sotto i balconi, accanto alle cariatidi, sopra un portale. Un omone ghignante ma propizio che si è finito per scambiare con un diavolaccio, e l’equivoco sembra persistere, per cui Torino, colma di tali mascheroni, finisce con l’apparire popolata di diavoli, il sarvan, in effetti, è tutto l’opposto del diavolo.

 

Un genio alato di natura inquietante

 

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Secondo gli esoteristi, il baricentro dove si concentrano le energie negative a Torino si trova a Piazza Statuto. In epoca romana ospitò una grande necropoli e da sempre venne considerata un luogo in ombra, misterioso, tutt’altro che positivo. Al centro della piazza un monumento in pietra scura ricorda le vittime sul lavoro per la costruzione del primo vero tunnel sotto le Alpi ( se si escludono i 75 metri del “buco di Viso”, che separano la valle Po da quella francese del Queyras ). Il monumento, la Fontana del Frejus, è sormontato da un genio alato che porta sul capo una stella a cinque punte ma, secondo la leggenda nera, si tratterebbe di ben altro e più inquietante personaggio: Lucifero, il “portatore di luce” , l’angelo ribelle caduto in disgrazia. La sua figura, rappresentata con le mani rivolte verso il basso, indicherebbe l’accesso segreto agli Inferi. Non a caso , proprio al centro della piazza, si trova l’accesso che conduce al complesso sistema fognario (che all’altezza di piazza Statuto ha il suo snodo principale), da cui si accederebbe ai cunicoli che condurrebbero alle già citate grotte alchemiche.

Secondo alcuni studiosi di storia della massoneria, è possibile che il genio alato sia effettivamente lucifero, che nell’immaginario anticlericale rappresentava natura, ragione e progresso, come ad esempio nell’Inno a Satana di Giosuè Carducci. Anche Baudelaire dedicò a Satana una poesia dove lo vede come la figura di colui che è ingiustamente punito e protettore di coloro che subiscono ingiustizie a loro volta. Sempre intendendo la figura dell’angelo caduto da questo punto di vista, a Napoli sin dal 1838 si pubblicava ad esempio Il Lucifero, “Giornale scientifico, letterario, artistico, industriale”.

 

I Palazzi dei medaglioni e degli stemmi

 

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La tendenza a una visione sempre più orizzontale della città, in chi cammina e guarda unicamente davanti a sé oppure ai lati, e in chi guida l’auto e deve perciò badare alle indicazioni, magari alla ricerca di un parcheggio, impedisce di alzare lo sguardo verso l’alto, di puntare il naso all’insù. Così si finisce per non poter osservare particolari effetti architettonici, balconi, sopraportoni, lapidi (v.) e medaglioni. Non stupisce perciò che i torinesi non conoscano affatto il palazzo che in piazza Bodoni, sull’angolo con via Pomba, vorrebbe onorare al contempo Gian Battista Bodoni (1740-1813) e Giuseppe Pomba (1795-1876), il grande tipografo e incisore e il maestro grafico e valente editore. Del palazzo sul lato destro della piazza, osservando il Conservatorio Giuseppe Verdi, i torinesi conoscono poco. I più non si sono forse mai soffermati, con un’occhiata verso l’alto, ad ammirarne l’illustrazione storica, come si prospetta, con l’eleganza di un volume fitto di iconografie. I portici che conducono verso il cinema al fondo di via Pomba, recano sopra ogni arcata un medaglione rotondo in cotto con il ritratto di un illustre: omaggio a Pomba e ai grandi che egli onorò con la propria attività editoriale, pubblicandone, almeno per i letterati, le opere e, al contempo, un ricordo a Bodoni che con i suoi caratteri consentì il perfezionamento della stampa.

Stupisce la miscellanea nella scelta dei ritratti, alcuni un po’ scalfiti dall’usura del tempo. Sono cinquantadue contando anche quelli collocati verso la piazza: da Bogino, indicato come “statista”, si va alla “poetessa” Saluzzo, mentre il Barbaroux è qualificato come “legista”. Si vedono l’architetto Alfieri, il medico Buniva, il “teologo” cardinale Bona, Bidone, che ha il titolo curioso di “idraulico”.

Altri medaglioni incastonati in splendidi fregi in terracotta delle finestre, possono ammirarsi sulle finestre del palazzo posto all’angolo di Via Cernaia con Via Marconi.

Sotto i portici della Prefettura, ci si imbatte in un altorilievo nel muro(1923), è dedicato a Cristoforo Colombo; la particolarità è il "dito del viaggiatore" che sporge in avanti, come se indicasse la via da percorrere: "la rotta della fortuna". Molti torinesi, , in occasione di una prova importante (maturità, laurea, matrimonio), lo toccano ed è per questo che lo troverete decisamente lucido.

Nei Palazzi di Via Pomba si può vedere il medaglione della poetessa Diodata Saluzzo Roero.

Sopra i portici del Teatro Regio si può ammirare la nicchia di una antica statua, piuttosto malconcia.

In Via Piffetti 10 si può ammirare un grande e complesso fregio con rosette e foglie d’acanto.

In Via Meucci un bassorilievo di stile moderno mostra un misterioso personaggio alla William Blake che col mantello spiegato cavalca le correnti del vento.

In Via Bezzecca 12 sono iscritti nel fregio alla base del primo piano due medaglioni con l’effigie di due bimbi in abiti moderni.

In una nicchia muraria di Via Casteggio una candida statua di donna è stata “imprigionata” con una rete di sicurezza che sembra la voglia incarcerare.

In Corso Lanza 10 una figura femminile in stile Art Déco tiene nelle mani una ricca abbondanza di frutta: si tratta forse di una dea della fertilità o dell’abbondanza?

Nella nicchia di Corso moncalieri 79 la nicchia ospita una figura di donna che regge un panneggio che le copre le spalle lasciando vedere sul davanti le sue nudità.

Dei bellissimi fregi con fogliame stilizzato adornano le finestre di Palazzo Adorni in Via Governolo.

La facciata del palazzo in Via San Secondo 35 mostra medaglioni e cartigli incastonati artisticamente nei muri.

In Via Silvio Pellico 24 si può ammirare un fregio floreale che partendo dalle pareti dell’ultimo piano decora la parte inferiore del cornicione.

In Corso Duca degli Abruzzi 4, all’ultimo piano, si possono ammirare dei medaglioni dipinti al centro degli intricati fregi che decorano i muri.

Un grande bassorilievo parietale che raffigura una scena pastorale neoclassica occupa lo spazio tra due finestre in Corso Montevecchio 58. Altri spazi sono occupati da bassorilievi di ninfe danzanti e di centauri.

In Via della Cittadella - Via Perrone una intera parete di più piani è decorata con un particolarissimo fregio a mattonelle dislocate apparentemente a caso e recanti bassorilievi simbolici, al centro delle quali sporge una sorta di ali stilizzate in bronzo che si riuniscono come a formare la cornice di uno stemma.

 

Due enigmatiche statue con teste di cane in Via Milano 11 rivelano le tracce dell’Inquisizione

Il Sant’Uffizio giunse nel Medioevo, prendendo possesso dell’intero quartiere a ridosso della chiesa di San Domenico. I decreti emanati da Amedeo VIII dimostrano come l’Inquisizione influenzasse anche la giustizia dei Savoia: bestemmiare nella Torino medievale significava farsi perforare la lingua!

L’ordine dei Domenicani, che gestivano il Sant’Uffizio, aveva giurisdizione su tutto il Piemonte. Non dobbiamo dimenticare infatti che in queste terre non mancarono gli “eretici”. Dai Catari nel Biellese ai Valdesi nel Pinerolese.

La presenza degli inquisitori a Torino ha lasciato qualche traccia non solo nella loro chiesa, ma anche nel quartiere circostante. In via Milano 11 si possono notare statue con teste di cane sulla facciata dell’antico palazzo. Un chiaro simbolo dei Domini Canes, i cani del Signore, che proteggono la Fede dall’attacco dei lupi eretici.

 

Quando Torino adottò un elefante come mascotte.

 

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Anche l’elefante a Torino è stato piuttosto famoso. 11 primo arrivò a Torino nel 1774, per iniziativa di Pietro La Gagneur e Antonio Trevisani, guardalo come un fenomeno. Un cantastorie subito compose una ballala per l'elefante, cantala mentre l’animale veniva esposto, per la divulgazione delle scienze naturali, in un baraccone costruito apposta per lui in piazza Castello, a fianco di Palazzo Madama. La gente si metteva in coda per vederlo. Nel pomeriggio veniva portato a passeggio nei viali e alla Cittadella.

A poco a poco il pachiderma entrò come elemento esotico nel paesaggio di Torino. Lo ritrasse anche il conte Ignazio Sclopis del Borgo, che lasciò alcuni scorci della città, dando un contributo alla storia del costume.

Altro elefante che entusiasmò i torinesi fu Fritz. mantenuto nel serraglio del castello di Slupinigi, lo stesso in cui era vissuto un gruppo di simpatiche scimmiette che divertivano i torinesi in gita domenicale. Il viceré d’Egitto. Mohamed Alì, lo aveva donato a Carlo Felice di Savoia. Il pachiderma si ambientò subito grazie all'uomo che si prendeva cura di lui, Stefano Navarino.

Lo nutriva, gli faceva compiere passeggiate, e ogni mese si sobbarcava la faticaccia di lavarlo. Per un accidente improvviso, Stefano Navarino morì e l’elefante intristì, dando segni di irrequietezza.

Sentiva la mancanza della sua voce e rifiutava il cibo.

Un nuovo custode, Casimiro Carena, si occupò di lui, cercando di conquistarsene la simpatia, ma invano. L’animale voleva Navarino e non riusciva a fame a meno. In breve tempo impazzì incattivendosi. sino a che, furibondo, uccise il Carena. Lo considerarono allora pericoloso e si decise di sopprimerlo. Lo uccisero con acido carbonico nel novembre 1852. Pochi giorni dopo i resti di Fritz passarono al Museo Zoologico dell’università, che se ne servì per particolari ricerche, poi si provvide a farlo imbalsamare.

Un ricordo di Fritz che passeggia davanti alla palazzina di Stupinigi è rimasto in una incisione di Demetrio Festa.

 

Animali fantastici, angeli e gargoyles

 

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animali fantastici

Ricco il bestiario torinese nella storia, con animali realmente vissuti, che hanno avuto una rilevanza nell’immaginario collettivo della città, con animali dipinti in tele, fatti vivere in raffigurazioni scolpite nella pietra. Uno zoo surreale, di cui si parla a volte senza la possibilità di averlo visto, come succede per il leone a] numero 43 di via Garibaldi, casa con un cortile che va a immettere il viandante in piazza Arbarello: leone di pietra, del peso di circa quattro quintali, forse di origine ancora romana, ma altri lo dicono di altre epoche più vicine. 11 leone, compralo da un amatore di cimeli rilevanti, anche per la mole, fu asportato e il posto in cui appariva rintanato è stato colmato con pietre e terriccio. Più visibili i leoni che fregiano il Palazzo Faussone di Germagnano e i cani che, in via Milano, l’antica contrada d'Italia, compaiono a pochi passi dalla chiesa di San Domenico, legata al periodo dell’inquisizione. Si vuole che i cani siano simbolo di fedeltà all’uomo, come i domenicani verso la Chiesa, intendendo quasi domenicani come “cani del Signore’’.

Il toro, espressione allegorica della città, fa mostra di sé poco più in là, da altri muri. La commistione di tali animali si fa più evidente nel cosiddetto “quadrivio degli animali" proprio dove via Milano taglia via della Basilica, in una prospettiva antica, ricca di storia scolpita. E il bestiario continua in un alternarsi di teste animalesche sino all’imbocco verso la spianala di piazza della Repubblica.

Mancano quasi del tutto a Torino i draghi, tranne pochi casi con raffigurazioni su portali di edifici relativamente recenti. Draghi bizzarri, diabolici e rapaci, come spiccano accanto al portale di via Arsenale 21, già sede della Rai. e in corso Francia 23. nel palazzo costruito da Giovanbattista Carrera per la vittoria italiana nella prima guerra mondiale. Talvolta il leone diventa alato, come quello di San Marco, simbolo di Venezia, e assume in tal caso le sembianze di drago. Si può così vederlo annidato sulla facciala di via Principe Amedeo, al numero 32.

Quasi del tutto assenti, invece, nella simbologia architettonica torinese le chimere, le gargouìlles di cui sono ricche le maggiori cattedrali gotiche della Gran Bretagna, della Svizzera c della Francia, a cominciare da Notre-Dame di Parigi.

Servono, in pratica, come piccoli canali di scolo, per far sì che l’acqua piovana defluisca dai vari piani deiredificio ed evitare in tal modo infiltrazioni nel cemento o nel marmo del blocco architettonico. Frammisti a leoni, draghi, aquile e ad altri animali del fantastico, si trovano riuniti, quasi ammassati, nel palazzo di via Giacinto Collegno 44.

Aquile ad ali spiegate anche alla sommità del monumentale palazzo di via Palmieri 36. A breve distanza, sulla facciata del palazzo di via Vassalli Eandi 22, il drago non ha scampo al colpo mortale della lancia di san Giorgio. Il bassorilievo adorna la facciata della casa, ma non è troppo appariscente. La via discreta c l'altezza della composizione scultorea non ne rendono troppo visibili i particolari.

angeli

Carlo Alberto (via). Al primo piano del numero 31 di questa via, un edificio presenta come ornato una banda decorativa, costituita da angioletti festanti che si rincorrono, simili a cupidini.

Cavour (via). All’interno del numero 9, in fondo al caratteristico androne, si può ammirare un sopraporta insolito. Due angeli sorreggono una corona gentilizia. Quello di sinistra porta occhiali veri, ossia con le lenti di vetro, che lo rendono curiosamente simile al conte di Cavour come veniva spesso raffigurato da alcuni caricaturisti.

Ferraris Galileo (corso). Angeli femminei sono collocati come ornamento alla base dei lampioni, quasi sull’angolo di via Cemaia. presso il monumento a Pietro Micca. davanti alla Cittadella.

Madonna degli Angeli (chiesa). Il tempio, in via Carlo Alberto, più esattamente, nello slargo che prende il nome di piazzetta Madonna degli Angeli sull’angolo con via Cavour, ha. a metà altezza, un motivo ornamentale composto da teste d'angelo, alale, collocate in una banda orizzontale.

Mole Antonelliana. Sulla guglia della Mole (all’altezza di 165 metri) Alessandro Anlonelli (v.) pose un angelo dorato, a simboleggiare «il genio alato dell’augusta stirpe sabauda». L'angelo cadde al suolo, abbattuto da un violento temporale, nel 1904 e venne poi sostituito da una stella, anch’essa finita al suolo nel terribile tornado del 23 maggio 1953, che fece crollare gran parte della guglia della Mole. Con la ricostruzione del monumento si provvide a innalzare una nuova stella.

Nostra Signora del Suffragio (chiesa). In Borgo San Donalo, la chiesa ha il più alto campanile di Torino, 75 metri, didisegnalo e costruito da Francesco Faà di Bruno, docente di matematica e sacerdote, beatificato da Giovanni Paolo il nel 1988. Sulla sommità del campanile collocò la statua di rame dorato raffiguranle l'arcangelo san Michele, ad ali aperte, che sta per suonare la tromba. La statua, di Piero Zucchi, c alta cinque metri. Venne sistemata lassù il 23 settembre 1880, grazie a un solo manovale coadiuvato dalle ragazze del Ricovero di Santa Zita. L'arcangelo è rimasto al suo posto nonostante le numerose bombe che sono piovute intorno alla chiesa durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.

Luigi Rolando (via). In questa strada l'edificio sull’angolo con piazza Cavour offre una elegante prospettiva di angeli in volo, al riparo dalla pioggia, sotto il grande balcone. Sono probabilmente gli angeli monumentali più belli fra quanti se ne contano a Torino.

Tomba di Francesco Tamagno. La tomba di questo celebre tenore, al cimitero generale di Torino, alta, candida, ben visibile anche daH’eslemo del camposanto, venne ornata nel 1912 dall’architetto Arcaini con un angelo che dopo poco tempo cadde, andando in rovina. In precedenza, con lo splendore della sua doratura, aveva attirato l’attenzione di ladri acrobati. L’angelo fu sostituito dal tripode di bronzo, che sormonta tuttora la tomba, con un effetto pagano alquanto lugubre.

il simbolo del toro

Il simbolo della città, il toro, campeggia in vari luoghi, ma è discreto, e non trabocca: bisogna individuarlo. Un toro a 3 teste è all’ingresso di Via XX Settembre, di fronte a Porta Nuova. Due teste di toro adornano il portone di Via Milano 13 (cort dij Canònich). Numerose teste di toro sorreggono i balconi del palazzo di Via Vico 2.

altre creature che popolano le facciate dei palazzi di torino

Sul portone di Via Milano 10 c’è un bellissimo bassorilievo della vergine con due frati oranti.

Due angeli e un mascherone angelico sovrastano le finestre del palazzo di Via Cavour, angolo Piazza Cavour.

In Via Milano si può ammirare lo stemma della storica Farmacia Anglesio, di Via Milano 11.

In Via Revel, angolo Corso Galileo Ferraris, sotto il cornicione del tetto si può ammirare un gruppo di maschere grottesche.

In Corso Matteotti 40 un drago in ferro battuto sembra spiccare il volo a lato di una finestra inferriata.

Altri draghi troviamo in Via Magenta 13 a sostegno di un tettuccio spiovente sopra la porta.

Un grande mascherone spalanca la sua bocca sopra una cornice della facciata in Via Revel, angolo Corso Galileo Ferraris.

Un serpente di rame sembra saettare in aria da sopra una gronda del parco di Villa Albegg.

Altri draghi sorvegliano l’ingresso di Corso Francia 23.

Nella cancellata di Palazzo Reale, capolavoro disegnato dall’architetto neoclassico Pelagio Pelagi, campeggia uno stupendo mascherone dorato.

Sotto i portici della Prefettura, ci si imbatte in un altorilievo nel muro(1923), è dedicato a Cristoforo Colombo; la particolarità è il "dito del viaggiatore" che sporge in avanti, come se indicasse la via da percorrere: "la rotta della fortuna". Molti torinesi, , in occasione di una prova importante (maturità, laurea, matrimonio), lo toccano ed è per questo che lo troverete decisamente lucido.

Sul portone di Via Bertolotti 7 il grande mascherone centrale sfoggia un ghigno decisamente satanico.

Leoni ruggiscono da sopra le finestre di Via Schina 5.

Delle cariatidi di stile classico sorreggono il fregio delle finestre dell’edificio di Via Schina 5.

In Via Palmieri 36 delle aquile di pietra sembrano spiccare il volo dal culmine del cornicione.

Ancora draghi: in un edificio bancario di Corso Fiume un portone è sovrastato da un grande medaglione con San Giorgio e il drago.

All’incrocio di Corso Lanza e Corso Moncalieri un enorme mastino di pietra troneggia in alto, tutto solo, appollaiato sul lato del cornicione di un tetto.

Nel giardino del Circolo Eridano, in Corso Moncalieri, la tatua di un tritone con il tridente si erge sopra una enorme conchiglia marmorea.

Nella Piazza di Maria Ausiliatrice una colonna al lato del portone esibisce un mascherone floreale.

Un mascherone allungato con volto vagamente da satiro ride sopra il portone di Via Diaz 5, mentre al numero 7 un altro esibisce gli occhi strabici.

In Corso Vinzaglio 5 troviamo una coppia di mascheroni, uno dei quali ride, mentre l’altro grugna.

Sulla facciata dell’Istituto Galileo Galilei Campeggia un bello stemma sabaudo

In Via Lanfranchi 7 c’è un bel bassorilievo marmoreo con dei puttini che giocano.

In Via San Francesco da Paola 25 un gruppo di 4 imponenti telamoni (cariatidi maschili) sorregge il terrazzo che sovrasta il portone di ingresso.

Tra gli stemmi del Palazzo degli Stemmi campeggia quello del Toro rampante, simbolo di Torino.

La Farmacia del Corso, in Corso Emanuele angolo via Saluzzo mostra sopra le finestre d’angolo quattro formidabili aquile di pietra che hanno sotto di sé quattro scudi bianchi con una croce rossa.

Sul portone di Piazza Carlina 19 uno squisito fregio floreale è sorretto da un raffinato stemma con dei fiori.

Un volto maschile enigmatico fa capolino sul portone di Des Ambrois 2

Il balcone del palazzo in Via Pietro Micca, angolo Via San Francesco d’Assisi è sorretto da due telamoni alati.

Sopra la finestra della casa in Via S. Giulia-Via Giulia di Barolo un’aquila spiega le sue ali.

I balconi che sovrastano le finestre del balcone del Palazzo in Via Massena 20 sono sorretti da eleganti cariatidi, mentre un volto di putto si può scorgere sopra una finestra dell’abbaino.

Due cariatidi sofferenti per lo sforzo sorreggono il balcone sopra l’ingresso di Via Campana 25.

Un ghigno satanico si può vedere su un mascherone che si ammira in Via Governolo.

Una figura diabolica sovrasta il portone di via San Secondo 54.

Dei mascherone all’interno dei fregi delle finestre sono visibili in Via San Secondo 54.

Un mascherone floreale che ricorda i dipinti di Arcimboldo si trova sopra una finestra, sempre nel palazzo di Via San Secondo 54.

Un mascherone diabolico fa capolino dal fregio di una finestra di Via San Secondo 35.

Un mascherone con un diadema di foglie e frutti si può vedere sopra il portone di Via Sacchi 26.

Due maschere che gridano sovrastano i lati del portone in Corso Re Umberto 88.

Due voluttuose cariatidi sorreggono un balcone del Palazzo di Corso Re Umberto 27, mentre dei putti si possono ammirare sul fregio dei balconi.

Tre mascheroni, di cui uno diabolico centrale, sovrastano il portone di Corso Montevecchio 58.

Due leoni araldici sostengono uno stemma nel timpano del tetto di una casa di Piazza Carlo Felice - lato sinistro ingresso in via Roma. Al lato sinistro invece il fregio mostra dei putti che giocano tra festoni di foglie e frutti.

gli animali misteriosi del cimitero monumentale

Sulle tombe del monumentale vengono spesso raffigurati animali simbolici: tartarughe, farfalle, civette, sfingi, serpenti che si mordono la coda e molti altri.

 

fonti:

Renzo Rossotti, Guida insolita di Torino, pp. 18 ss.

http://www.mepiemont.net/torino_naso.html

 

La presunta origine egizia di Torino: Eridano e Iside

 

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La leggenda affonda le origini nel XV secolo a.C. e narra la storia di Eridano, principe egiziano costretto ad abbandonare la terra natale a causa di contrasti avuti con la casta sacerdotale.

Insieme ad un folto gruppo di suoi seguaci, il principe compie un ampio giro nel Mediterraneo, toccando le coste greche e poi giungendo –lungo il Mare Tirreno- alle coste della Liguria, terra a cui dopo la sua conquista egli stesso dà questo nome in onore del proprio figlio Ligurio.

Eridano, prosegue dunque la sua avanzata oltrepassando gli Appennini verso nord, fino a raggiungere una estesa pianura lungo la quale scorre un grande fiume che gli ricorda il Nilo. Giunto nel punto in cui il Grande Fiume si fa tutt’uno con un altro più piccolo fiume, decide di stabilire il suo insediamento sotto l’emblema del Dio Api (divinità dalle fattezze d’un toro) e proseguire le proprie tradizioni nel culto della Dea Iside.

Il Grande Fiume che tanto l’aveva ispirato al suo arrivo, fu poi la causa della sua morte: fra i suoi flutti Eridano cadde con la sua biga durante una gara sulle sponde del fiume. Da questo episodio, al fiume venne dato il nome del principe egizio che fondò la città di Torino.

Il racconto della biga caduta nel fiume non vi ricorda il mito di Fetonte a cui vi ho accennato raccontandovi della Fontana dei

Eridano, è anche il nome con cui nell'antichità veniva chiamato appunto il Po.

La leggenda del principe egizio Eridano è stata tramandata nel tempo fino al XVII secolo, quando Filiberto Pingone, letterato nonché storiografo dei Savoia, la ufficializzò in modo definitivo.

Accadde quando durante gli scavi per la costruzione della Cittadella venne rinvenuto un frammento votivo dedicato ad Iside.

Di sicuro il culto Isideo nella Torino pre-cristiana esisteva ed era molto diffuso, e ad accrescerne la diffusione era anche la consuetudine dei legionari romani portare in terra patria usi e costumi delle terre conquistate. Nell’antichità culti differenti coesistevano più o meno liberamente gli uni con gli altri e riuscivano persino a fondersi, talvolta.

Un’altra cosa che crea mistero e dà fondamento alla teoria della genesi egiziana di Torino è anche il Theatrum Sabaudiae, la raccolta di raffigurazioni delle proprietà dei Savoia, realizzata nel XVII secolo. Una delle sue tavole infatti riporta una scritta di notevole interesse, ossia “Aegyptiorum rex Eridanus – Eridani Fluviorum Regis – In Ripa urbem Aegyptio Tauro Cognomino – Inaugurat – Septe Seculis Ante Romam Condita”, che significa “Il re egizio Eridano inaugura sulle sponde del re dei fiumi, l’Eridano, la citta egizia chiamata ‘Del Toro’ sette secoli prima della fondazione di Roma”.

La scritta compare su un drappo sostenuto da due putti, mentre il resto della scena è composto da un uomo incoronato che svolge una mappa all’interno di una stella a dieci punte ed un personaggio dal corpo umano e dalla testa di toro appare come sdraiato al suolo. Una divinità dalle sembianze di toro, posta su un basamento, domina l’intera scena.

Quest’ultimo potrebbe essere una rappresentazione del dio egizio Api, divinità dal corpo taurino, posto nel dipinto per sottolineare ed enfatizzare il legame con la cultura dell’antico Egitto.

 

fonti:

http://www.atourinturin.com/2016/01/le-origini-egizie-della-citta-di-torino.html

 

Iside a Torino

 

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Iside, figlia di Geb e Nut e sorella del suo sposo Osiride è una delle divinità femminili più venerate dell'antico Egitto. Viene presentata come una madre amorevole e moglie devota e fa parte della triade divina Iside, Osiride, Horus. In epoca tolemaica il suo culto arriva fino in Grecia e successivamente si estende in modo massiccio nell'impero romano anche grazie a Cleopatra.

In realtà la prima menzione ufficiale di questo culto nella nostra penisola ci viene dato dallo storico Claudio Ennio (239 - 169 a.C.). Questa divinità gode in Italia di alterne fortune. Il culto di Iside si diffonde nel nord Italia, secondo alcuni storici, partendo da Aquileia, importantissimo snodo commerciale in cui arrivava la via Postumia che attraversava la Pianura Padana fino a Genova.

A Roma, nel Campo Marzio, sorgeva un Iseo, dapprima abbattuto e poi ricostruito sotto Domiziano. da questo tempo proviene la mensa Isiaca, una tavola in bronzo, ageminata in argento, rame e nigellum, che con grande probabilità ornava l'altare dell'Iseo Campense e che viene riscoperta con il Sacco di Roma del 1527, acquistata da Pietro Bembo ed arrivata nel 1630 nelle collezioni del Duca di Savoia Carlo Emanuele I.

Di sicuro il culto Isideo nella Torino pre-cristiana esisteva ed era molto diffuso, e ad accrescerne la diffusione era anche la consuetudine dei legionari romani portare in terra patria usi e costumi delle terre conquistate. Questo è confermato dai ritrovamenti archeologici.

Durante gli scavi per la costruzione della Cittadella venne rinvenuto un frammento votivo dedicato ad Iside, e presso l’antica colonia romana di Industria è stato rinvenuto un grande tempio di Iside. Visitando il sito archeologico si trovano resti di quartieri di abitazione, con la presenza di una domus e di botteghe artigiane. La strada principale, fiancheggiata da un porticato, conduce invece a quello che fu l'imponente tempo di Iside, grande struttura rettangolare con un ingresso a scalinata rivolto ad est. Durante gli scavi archeologici sono stati ritrovati importanti oggetti che testimoniano il culto di queste divinità: bronzetti di tori offerti come ex voto, un sistro, una figura di danzatrice, attingitoi per l'acqua ed altri oggetti.

Da qui si sono scatenate le illazioni degli appassionati del mistero, che hanno immaginato l’esistenza di un Tempio di Iside nel luogo dell’attuale Cittadella, mentre altri pensano che il tempio si trovasse sotto la Gran Madre, forse traendo spunto dal nome che è stato dato alla chiesa.

 

L’arte vetraria a Torino

 

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In Piemonte e a Torino l’arte del vetro artistico risale al tardo Medioevo. Le più importanti testimonianze di quel periodo, peraltro unici esemplari superstiti di un intero ciclo, sono due vetrate degli inizi del Cinquecento che raffigurano il donatore delle vetrate stesse, Pietro Barutelli di Grugliasco e sant’Antonio Abate, al cui fianco ricompare inginocchiato lo stesso Barutelli. Originariamente poste nella chiesa di San Pietro a Pianezza, oggi si possono ammirare al Museo Civico d’Arte Antica di Torino. Poco altro rimane in Piemonte di questa antica arte minore, che venne poi abbandonata per diversi secoli per rifiorire tra la fine dell’ottocento e l’inizio del Novecento con l’avvento dello stile Liberty che in Italia si affermò dopo l’Esposizione Universale di Torino del 1902. Nato inizialmente in Belgio con l’architetto Victor Horta, il Liberty, caratterizzato da forme naturalistiche e floreali, si diffuse velocemente in tutta Europa, assumendo denominazioni diverse e divenendo in breve la forma artistica espressiva della nuova borghesia in ascesa e permeando con la sua eleganza decorativa non solo gli elementi architettonici ma tutte le arti figurative.

A Torino, oltre agli evidenti segni lasciati nell’architettura, se ne trovano tracce nei fregi e negli ornamenti che decorano le facciate dei palazzi, oltre che negli arredi di botteghe e di locali pubblici come le farmacie e i caffè, mentre è più raro vedere vetrate di rilievo risalenti a quel periodo. Eppure all’inizio del Novecento a Torino l’arte vetraia aveva vissuto un momento di particolare splendore, dopo che nel 1899 vi era stata fondata quella che per alcuni decenni fu la più prestigiosa vetreria liberty italiana, la Albano & Macario. Dopo la prima guerra mondiale, con il mutare del gusto, che dalle linee sinuose del liberty si venne orientando verso una maggiore essenzialità delle composizioni, dalla Albano & Macario si staccarono gli artisti di maggior talento che aprirono laboratori in proprio, il più prestigioso dei quali fu il Laboratorio Janni, esponente di quel nuovo stile che prese il nome di Art Déco. Ed è proprio al laboratorio Janni che venne affidato, negli anni Trenta, il restauro delle due vetrate cinquecentesche di Pianezza.

Dell’una e dell’altra scuola sfortunatamente rimangono solo pochi esemplari che sono conservati nell’attuale Terrazza Solferino, un particolarissimo centro servizi ospitato in un palazzo di inizio Novecento collocato nel cuore della città nella omonima piazza. Nella dimora si possono ammirare le due vetrate del salone e una stupenda composizione naturalistica che alterna diversi tipi di vetro con lavori di intarsio e di pittura, tre esempi di squisito liberty, opere della Albano & Macario. Mentre del ciclo déco di Janni sono sopravvissute due vetrate, di cui di particolare valore è quella collocata nell’attuale ingresso: una grande composizione che rappresenta una fontana, considerata un’opera che emerge fra le più importanti dell’intera produzione Janni.

 

I soprannomi curiosi delle statue di Torino

 

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Il viaggiatore, che alla metà del XVIII secolo avesse desiderato fermarsi qualche giorno a Torino, si sarebbe potuto recare in piazza Castello dal libraio Gian Domenico Rameletti. Presso il suo negozio avrebbe potuto acquistare un utile supporto alla visita: la Guida de’ forestieri per la real città di Torino.

la prima “lonely planet” di torino

Questa prima guida turistica della città fu scritta da Tommaso Craveri nel 1753, in occasione dei trecento anni dal miracolo del Corpus Domini (6 giugno 1453). Era una guida necessaria, poiché la fama della capitale del Regno di Sardegna si era estesa così tanto da richiamare “forestieri di varie parti, che tosto giunti ne ricercano la descrizione per poter appagare la propria curiosità”. Il testo illustra le “cose più notabili” tra vie, piazze, palazzi e chiese. Insomma, la guida del Craveri è un’antenata delle attuali Lonely Planet, che si vedono in mano ai turisti che si aggirano per il capoluogo piemontese. Ma il visitatore del XXI secolo è assai più fortunato di quello settecentesco, perché può ammirare molte meraviglie in più. Tra queste figurano senza dubbio i monumenti pubblici, che non esistevano nella Torino barocca.

ingresso agli inferi

Se si escludono le colonne e gli archi celebrativi di epoca romana, si può dire che l’usanza di punteggiare le città con sculture dedicate ai personaggi illustri sia tutta ottocentesca. Infatti, fu proprio nel XIX secolo che Torino diventò “la città più monumentata d’Italia” (Vittoria Sincero). Qual è stato il primo monumento pubblico ad apparire sotto il cielo di Torino?

Se si eccettuano le statue posizionate nei Giardini del Palazzo Reale, questo primato è attribuibile alla guglia Beccaria, in piazza Statuto (da non confondersi con il più imponente monumento al traforo del Frejus, sito nella stessa piazza). Eretta durante l’occupazione napoleonica e subito soprannominata piramide dai torinesi, fu inaugurata nel 1808. La guglia è costituita da un obelisco di granito sormontato da un astrolabio sferico in bronzo. L’opera ricorda la misurazione del Gradus Taurinensis, il meridiano che attraversa il Piemonte da Andrade a Mondovì, effettuata tra 1760 e 1774 dal fisico e matematico Giovanni Battista Beccaria. Quest’ultimo scelse come base per i suoi calcoli lo stradone che da Rivoli conduce a Torino e ne fissò gli estremi con due lastre di marmo.

Con il trascorrere del tempo, la vegetazione ricoprì queste pietre, facendo perdere la memoria dei luoghi in cui si svolse l’episodio. Le due lastre furono riportate alla luce grazie all'iniziativa del generale napoleonico Sanson, direttore dei depositi di guerra, e alle indicazioni scritte lasciate dallo stesso Beccaria. Si decise così di segnalare i due punti con due obelischi gemelli: quello di Rivoli fu inaugurato l’8 ottobre, quello di Torino il 7 dicembre. Tuttavia, l’obelisco torinese non si trova nella posizione originaria, in quanto fu spostato per i lavori di rifacimento di piazza Statuto eseguiti intorno al 1871. Stando così i fatti, avrebbe cambiato posizione anche il supposto ingresso agli Inferi, che qualcuno asserisce trovarsi proprio sotto la guglia Beccaria! Attualmente, di infernale c’è solo la posizione della guglia Beccaria, che si innalza in mezzo al traffico cittadino protetto soltanto da qualche siepe.

cui dui c’a rusu davanti al municipio

Il 20 giugno 1837 i torinesi assistettero all'inaugurazione di un secondo monumento pubblico: la colonna della Consolata. Sormontata dalla statua in marmo della Madonna con il Bambino, la colonna venne eretta di fianco dell’omonimo santuario, in seguito al voto fatto il 30 agosto 1835 dalla città afflitta dall'epidemia di colera asiatico. Intanto, dopo la salita al trono del re Carlo Alberto di Savoia-Carignano nel 1831, le piazze di Torino iniziarono pian piano a popolarsi di tanti cittadini di pietra legati alla dinastia sabauda e all’epopea risorgimentale. Il posizionamento dei primissimi cittadini immobili fu voluto dallo stesso sovrano. Esempi della sua politica culturale, le opere avevano anche l’obiettivo di celebrare e di legittimare l’avvento di un regno che era passato in mano al ramo cadetto della casata con la morte senza eredi del re Carlo Felice.

Nel 1838 apparì per primo il duca Emanuele Filiberto in groppa al suo cavallo, al centro di piazza San Carlo Borromeo. Prima di diventare per tutti il caval ‘d bruns (cavallo di bronzo), l’opera dello scultore Carlo Marochetti era chiamata grande monumento. Seguirono nel 1847 i Dioscuri in cima alla cancellata delimitante la Piazzetta Reale e nel 1853 il conte Amedeo VI davanti al Municipio. Il conte verde è stato raffigurato da Pelagio Palagi intento a combattere contro un nemico, mentre un altro giace riverso ai suoi piedi. La foga della battaglia è tale da aver indotto i serafici torinesi ad additare il gruppo scultoreo con la frase cui dui c’a rüsu (quei due che litigano). Invece, i cittadini più affezionati alla sobrietà degli spazi pubblici lo hanno identificato come calamaio a causa della sua forma complessa.

il re dei paracarri

Contestualmente al calamaio di piazza Palazzo di Città, si lavorava in piazza Savoia (un tempo detta piazza Paesana) alla realizzazione del re dei paracarri, soprannome impietoso appioppato all’austero obelisco Siccardi. Inaugurato nel 1853, fu voluto a furor di popolo per festeggiare le leggi contro i privilegi ecclesiastici elaborate dal ministro di Grazia e Giustizia Giuseppe Siccardi e promulgate nel 1850. L’obelisco reca incisi i nomi degli oltre ottocento Comuni che appoggiarono l’iniziativa per l’esecuzione del monumento promossa dai giornali liberali, primo fra tutti la Gazzetta del Popolo.

Se qualche torinese del futuro andrà mai a scavare sotto questo monumento, rinverrà un piccolo tesoro. Infatti, il 17 giugno 1852, in occasione della collocazione della prima pietra, fu posizionata nello scavo delle fondamenta anche una scatola di latta. Al suo interno, il torinese del 3020 potrà trovare una copia delle leggi, i numeri 141 e 142/1850 della Gazzetta del Popolo con l’iniziativa della raccolta fondi per la realizzazione dell’opera, il documento con l’elenco dei Comuni sottoscrittori, polvere da sparo e monete, sacchetti con riso, cereali vari e grissini, nonché una bella bottiglia di vino.

l’alfiere censurato

Torino ha avuto anche un monumento che è stato censurato per un piccolo periodo. Si tratta dell’Alfiere dell’Esercito Sardo, sito in piazza Castello. Questo fantasma di bronzo si staglia con fierezza dando le spalle a Palazzo Madama, tenendo un grande tricolore in una mano e la spada nell'altra. L’opera venne realizzata dal celebre Vincenzo Vela su richiesta dei patrioti milanesi. Correva l’anno 1857 e Milano si trovava ancora sotto il dominio austriaco. Il dono di questa scultura alla città di Torino fu insieme un omaggio all'esercito sardo, simbolo della speranza di liberazione, e una coraggiosa sfida nei confronti dell’occupante, al quale “bastava un’apparenza di sospetto per venire a sevizie”. Il monumento fu inaugurato il 10 aprile 1859, poco prima dello scoppio della Seconda guerra d’indipendenza. Subito gli austriaci iniziarono a dichiarare provocatoria quella statua, affermando che presto l’avrebbero distrutta. “Per prudenza politica”, si decise allora di occultare l’iscrizione “I milanesi all’esercito sardo il dì 15 gennaio 1857” con una lastra di marmo nero, che fu scoperta soltanto l’8 giugno 1859, dopo la vittoriosa battaglia di Magenta. Nessun austriaco riuscì mai a scalfire questa statua.

il re senza pace

Non fu censurato, ma visse una vera e propria odissea, il monumento al re della Restaurazione, Vittorio Emanuele I, che si trova di fronte alla chiesa della Gran Madre di Dio. Anch'esso voluto dal re Carlo Alberto, fu realizzato da Giuseppe Gaggini per essere posizionato nella piazza antistante al Palazzo Ducale di Genova. La scultura giunse nel capoluogo ligure nel 1849, ma il momento non era dei più adatti alla collocazione di un’opera celebrante un monarca assoluto. La città era attraversata dai moti insurrezionali e così la scultura finì in un magazzino, dove rimase per vent'anni. Nel 1869, il nipote dello scultore scriveva al sindaco di Torino per chiedere che fine avesse fatto quella statua a cui il nonno si era dedicato con tanto impegno e che si era volatilizzata. La proposta era quella di ritrovarla per esibirla a Torino, patria adottiva del genovese Gaggini. Così avvenne: il 10 settembre 1869 Vittorio Emanuele I rientrava a Torino, non a cavallo come avvenne il 14 maggio 1804 dopo il Congresso di Vienna, ma su un treno proveniente da Genova. Re Vittorio Emanuele II donò il monumento alla città, che lo posizionò nel cortile di Palazzo Carignano. Lì il povero Vittorio Emanuele I fu parcheggiato per altri sedici anni, prima di essere collocato dove lo vediamo ora. Era il 1885 e il monumento trovava finalmente pace, ma in sordina. Non si tenne alcuna cerimonia d’inaugurazione per lui perché, a causa delle grandi spese sostenute per l’Esposizione Generale Italiana del 1884, il Comune non aveva più fondi a disposizione per celebrare un’opera ritenuta ormai anacronistica.

dal fermacarte al ferroviere

Nel 1873 grandi festeggiamenti si tennero invece per l’inaugurazione del monumento dedicato al conte Camillo Benso di Cavour. Il gruppo scultoreo fu scoperto alle 14 dell’8 novembre 1873, al centro di piazza Carlo Emanuele II. Sotto una pioggia battente, i presenti si trovarono di fronte un Cavour irriconoscibile, avvolto in una toga simile ad un sudario funebre, privo dei consueti occhialini e redingote. Avvinghiata a lui, una procace figura femminile con il seno al vento: l’allegoria dell’Italia, “una donna troppo discinta, troppo matrona, in atto non troppo dignitoso, che inginocchiata ai piedi del grand'uomo, gli offre la corona civica”. Andò anche peggio alle sculture intorno al basamento. Furono considerate di difficile comprensione, tanto che lo scultore Giovanni Duprè fu indotto a scrivere una lettera aperta per spiegare meglio il concetto alla base dell’opera. Opera che, beninteso, ebbe da subito il suo soprannome: fermacarte.

L’inaugurazione del monumento al Tessitore andò ad adombrare quella del monumento ad un’altra colonna del Risorgimento, Massimo D’Azeglio. Sempre sotto la pioggia, la cerimonia si svolse a mezzogiorno del 9 novembre 1873. Posizionato esattamente davanti alla stazione di Porta Nuova, in piazza Carlo Felice, il conte Max fu presto definito ferroviere, per lo sguardo attento con cui osservava i ritardatari affrettarsi ai binari per non perdere il treno. Inoltre, quello di Massimo D’Azeglio è stato uno dei monumenti sfrattati dalla posizione originaria: nel 1935 fu spostato nei giardini della piazza e l’anno successivo fu trasferito al parco del Valentino. Stessa sorte capitò ai monumenti di Quintino Sella e Galileo Ferraris, per citare solo i più noti. Il primo, opera di Cesare Reduzzi inaugurata nel 1894, si trovava inizialmente al centro del cortile del castello del Valentino. Prima di ospitare la facoltà di architettura, questa residenza sabauda fu sede della Scuola di Applicazione per Ingegneri, che ebbe tra i suoi fondatori e docenti proprio Quintino Sella. Per volontà del podestà di Torino nel 1932 la scultura, "male addicendosi alla grandiosità delle costruzioni del Castello del Valentino", fu rimossa dal cortile e posizionata a poca distanza nell’aiuola antistante l’ingresso.

una scienza troppo discinta

Un viaggio più lungo toccò a Galileo Ferraris, lo scopritore del campo magnetico rotante. Il suo monumento, eseguito da Luigi Contratti nel 1903, fu trasferito nel 1928 dalla centralissima piazza Castello ad un’aiuola del corso che porta il nome dello scienziato, alla convergenza con i corsi Montevecchio e Trieste. La causa dell’esilio? La scultura femminile raffigurante l’allegoria della scienza elettrotecnica, descritta da Enrico Thovez come “semplice modella in posa, troppo lontana dai bisogni espressivi di una figura allegorica”. Ma non fu tanto la povertà espressiva della statua il motivo dell’allontanamento da piazza Castello, quanto le sue nudità eccessivamente conturbanti. I benpensanti troppo turbati indussero l’autorità prefettizia a far sloggiare il monumento hot per spedirlo in un luogo più appartato. Oggi al posto occupato da Galileo Ferraris vediamo il monumento al duca Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, detto il cappotto per il pastrano indossato dal Duca Invitto.

I monumenti pubblici sono parte integrante della nostra quotidianità. Li troviamo sempre al loro posto, attenti e discreti, anno dopo anno, secolo dopo secolo. Passiamo più volte al giorno accanto ad essi e quasi non li vediamo, impegnati nei nostri pensieri e con il naso immerso nello schermo dello smartphone. E pensare che ciascuno di loro custodisce una storia complessa e tanti interessanti aneddoti. Forse Tommaso Craveri li avrebbe inseriti volentieri nella sua guida del 1753, se avesse avuto modo di ammirarli e di conoscerli.

 

 

 

 

 

LA TORINO DELL’ARCHITETTURA E DELL’URBANISTICA

 

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Alcune peculiarità di Torino

 

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Torino è una città a cui i numeri non rendono giustizia. Sebbene il numero di abitanti dell’agglomerato urbano siano col tempo scesi da oltre 1.200.000 a 875 049 abitanti, l’area metropolitana di cui è il cuore conta ben due milioni di abitanti 2 milioni di abitanti su una superficie approssimativa di circa 2 300 km². E’ il quarto comune italiano per popolazione, il terzo complesso economico-produttivo del Paese e costituisce uno dei maggiori poli universitari, artistici, turistici, scientifici e culturali d'Italia.

Rispetto a città come Roma (2.884.395 abitanti su 1.287 km quadri) o Milano (1,352 milioni di abitanti su 181,57 km quadrati) Torino si presenta notevolmente più ampia, con i suoi 2.300 km quadrati, grazie ai suoi ampi viali e al fatto che è una città ricca di verde, una delle più verdi d’Europa.

Torino è anche la “città dei portici”, 18 chilometri di eleganti colonnati che consentono di fare una passeggiata ininterrotta al riparo dalle intemperie.

Torino ha anche, rispetto a città come Milano e Roma, una caratteristica unica: è una città “ideale”, progettata a partire da zero dalla vecchia città medioevale secondo il piano voluto dal Principe e dai suoi architetti. E prima ancora era stata disegnata secondo la volontà degli imperatori romani.

Torino è la città delle linee nette, delle strade dritte, che sopporta di malavoglia i borghi che ancora si intestardiscono a sopravvivere, con le loro vie strette, che danno sonni inquieti agli urbanisti, come Borgo San Donato. Sembra che queste linee di divisione proseguano anche oltre gli edifici, siano tracciate come tante linee di confine all’interno della città.

Torino è anche la città degli scorci panoramici. Il fondale di molte delle sue vie è la collina con il suo verde o le vette delle Alpi che la circondano.

Torino è una delle città più pulite d’Italia e i Torinesi sono attenti custodi di questa caratteristica. E’ sufficiente che un giorno sia saltata la nettezza delle vie e parte subito la lettera al giornale della città, la Stampa. E’ una città ordinata, la prima a mettere le targhe delle vie ad ogni angolo di strada.

Molti vecchi quartieri di Torino, pur essendo popolari, hanno il decoro delle case alto-borghesi, come nota De Amicis descrivendo Via Garibaldi, la ex Contrada di Dora Grossa: a Torino la stratificazione sociale prima del Dopoguerra non è solo e tanto orizzintale, quanto verticale: salendo dal primo piano al piano nobile, ai piani successivi, fino alle mansarde abitabili, caratteristiche di molti edifici torinesi, si assiste ad una progressiva discesa sociale: gli operai e i piccoli impiegati occupano il sommo degli edifici, mentre la nobiltà e la borghesia ricca sono ai primi piani.

Torino, inutile dirlo, è la città del Risorgimento e dei Savoia, e contiene molte memorie della storia patria.

Torino è la città dell’automobile per eccellenza, sede del primo Automobile Club e di più di venti case automobilistiche, tra cui Fiat e Lancia.

 

Autobiografia dei quartieri di Torino

 

I rioni storici di Torino

 

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Perché si chiamavano “borghi”? Perché erano dei villaggi o borghi fuori delle mura della città, che racchiudevano lo spazio delimitato a nord da Corso Regina Margherita e Corso San Maurizio, a ovest da Corso Inghilterra e Corso Principe Oddone, a sud da Corso Vittorio Emanuele II, a est dal fiume Po.

 

borgo dora

Borgo Dora (Borgh Dòira in piemontese) è un piccolo rione storico di Torino, situato nel quartiere Aurora, all'interno della Circoscrizione 7. Il rione si sviluppa a ridosso del centro storico cittadino, e precisamente a nord di corso Regina Margherita, in prossimità di Porta Palazzo, delimitato a nord dal fiume Dora Riparia, mentre a ovest termina con l'adiacente rione Valdocco.

Un tempo era noto come Borgo del Pallone (Borgh dël Balon), si tratta di un'area dalla forte identità storica, l'unica superstite delle quattro borgate che nascevano un tempo alle porte della città, nei rispettivi punti cardinali (il Borgo del Pallone rappresentava la borgata a nord delle mura).

In virtù di questa sua peculiarità, Borgo Dora potrebbe essere definito un quartiere a sé, annesso naturalmente al grande complesso mercatale e ricreativo di Porta Palazzo. Oggi rivalutato e riqualificato, rimane tuttavia un rione essenzialmente popolare.

 

borgo san donato

Durante il XVII e il XVIII secolo il Borgo e i suoi dintorni dimostrarono una spiccata vocazione agricola, grazie a un ottimo sistema di irrigazione che facilitava la coltivazione di orti. La sua posizione di tramite tra città ed esterno favorì lo sviluppo di scuderie con cavalli e carri. Accanto a queste attività molti artigiani si stabilirono nel borgo, "attratti" dallo scorrere del canale di Torino che forniva energia a basso costo.

Nella seconda metà del Settecento la vocazione agricola del borgo si trasforma in industriale, infatti nella zona compresa tra San Donato e il Borgo Dora sorgono la maggior parte delle concerie.

Con il trasferimento della capitale da Torino a Firenze il Governo d'Italia stanziò a favore di Torino una rendita annua di 300.000 Lire, che venne utilizzata per la costruzione di un nuovo canale per alimentare le industrie cittadine che si sviluppavano sempre più numerose.

Questi eventi portarono all'incremento dello sviluppo industriale del Borgo con l'installazione di una quindicina di fabbriche principalmente rivolte alla produzione di birra, cioccolato e alla concia delle pelli; tra le maggiori e più significative troviamo due birrifici, Metzger e Bosio-Caratsch (il primo ancora oggi visibile in Via San Donato 68, il secondo in C.so Principe Oddone 19 - ormai scomparso), e le fabbriche di cioccolato Caffarel (fondata nel 1818 in Via Carena) e la Michele Talmone (aperta nel 1850 dapprima in via Artisti e poi ingrandita nella fabbrica di via Balbis, con negozio nel centro città in via Lagrange), alla quale si aggiunse la Streglio e in seguito la fabbrica delle caramelle e pastiglie Leone, la Conceria Fiorio (in Via Durandi 13) e il Mulino del Martinetto, poi Feyles (in corso Tassoni 56).

Nel corso dei primi anni del Novecento il Borgo si popolò sempre più intensamente. Al termine della Prima Guerra Mondiale le industrie che risultavano presenti nel censimento del 1911 erano ancora tutte efficienti. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale la maglia urbana del borgo favorì invece lo sviluppo abitativo di Borgo San Donato, allontanando quelle industrie che avevano saturato il loro lotto isolato e non potevano disporre degli ampliamenti necessari per la nuova organizzazione del lavoro.

 

la lotta dei pianificatori urbani contro san donato, “borgo anomalo”

 

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Ecco come Vittorio Messori descrive spassosamente la “anomalia” di Borgo San Donato che gli urbanisti cercarono invano di eliminare.

“Andammo, dunque, in quel quartiere che comincia da piazza Statuto e che ha il suo asse nell'anomala via di San Donato. Anomala, perché ai burocrati municipali - ossessionati dalla linea retta, dall'uniformità di altezza e, se possibile, di stile e di colore delle facciate delle case - mai riuscì di raddrizzarla e di disciplinarla. Era nata anarchica, fuori dalla cinta daziaria e dai suoi rigidi regolamenti edilizi. A metterla in riga non ci riuscirono neppure quando, molto tempo fa, fu coperto il canale attorno al quale si disponevano le casupole e le fabbrichette per sfruttarne la forza motrice o le acque. Com'è il caso della lavanderia modello installata dal beato Faà di Bruno con macchine a vapore da lui progettate e in cui lavoravano le ricoverate dei suoi istituti. Dovremo parlarne.

Così, la via San Donato ha continuato a disegnare una scandalosa curva nella scacchiera di una città dove, per dirla con Fogazzaro, le case sono come soldati impettiti sull'attenti in attesa di una parata: «Salute a te, o sacra città delle antiche speranze, che schieri le tue nitide case uniformi in ordine rigoroso di milizie...». Per finire con un alato: «Merita pur, coi rinnovati esempi, o seconda Madre della Patria nostra, che noi ti rendiamo il nome di Augusta!». Così, se ricordo bene, quell'"Inno a Torino" che ci facevano imparare a memoria (altra pratica esecrata, assieme al catechismo: eppure, quante ore solitarie nutrite dal riaffiorare di versi dal profondo dell'infanzia).

Il Borgo San Donato è stato alla fine esorcizzato, nella sua bizzarria inquietante per un'urbanistica che non tollera capricci, isolandolo tra i due perfetti rettifili di via Cibrario e di corso Regina Margherita e disegnando, secondo il solito, implacabile reticolo, le vie che si distaccano dall'asse indisciplinato.

Per giunta, alla vecchia via San Donato non basta lo scandalo della curva. In effetti, le costruzioni vi si affacciano con difformità di altezza e con diversità capricciosa di facciate, con colori discordi, in una sorta di bailamme popolaresco che è stato accentuato dalla immigrazione meridionale (e ora, suppongo, terzomondiale) che vi gestisce un suo vivace commercio e artigianato. Una fonte di imbarazzo, di disagio, questa anarchia, per quei vecchi torinesi per i quali l'ordine urbano, la regolarità della pianta cittadina sono effetto e al contempo causa dell'ordine personale e della disciplina di vita. O forse, come azzarda qualcuno, sono un modo per imbrigliare il timore che saltino le barriere ed erompano in superficie il caos e la follia che - siamo in tanti a sospettarlo - segretamente fermentano nelle viscere della città dal volto austero e rigoroso.

In un suo folgorante racconto dal titolo significativo ("Piano regolatore"), Mario Gromo narra di un impiegato del Municipio che, per tutta la vita, aveva utilizzato ogni momento libero per costruire il modello in legno di una Torino secondo il suo desiderio. Una città nella quale non solo ogni minima irregolarità era cancellata (a cominciare dalla pianta, ridotta a un rigoroso quadrato), ma dove anche i tre fiumi minori che attraversano il territorio urbano erano allineati all'impeccabile scacchiera, confluendo nel Po a distanza eguale e ad angolo retto. La stessa collina era livellata, così da disegnare un altopiano di altezza uniforme, predeterminata dai geometri dell'assessorato competente. [Messori] «Tutte le vie» dice Gromo «avevano adottato un tipo unico di casa, con portici a riquadri e con abbaini a pepaiola. Nei corsi, una sola specie di alberi, dai tronchi regolari e delle stesse dimensioni.»

C'è da soffrire, per gente così, andando da piazza Statuto verso il Martinetto. All'anomalia della strada che non rispetta la regola del rettifilo, al disordine dell'accozzaglia dei fabbricati, il Borgo San Donato aggiunge un tocco in più di bizzarria. Quasi a metà della via, si alza improvviso, come un grido di pietra, mattoni, ghisa. E' un campanile che, su una base quadrata di soli cinque metri di lato, sale sin quasi agli ottanta: l'equivalente di un grattacielo di venticinque piani. E' ancor oggi, dopo la Mole Antonelliana, il più alto edificio della città. Anzi, è il più alto in assoluto costruito in laterizi tradizionali, da quando (già negli anni Trenta) l'edificio di Antonelli fu tutto sorretto, all'interno, da uno scheletro di cemento armato e la guglia, spazzata via dall'uragano del 1953, fu ricostruita in acciaio.

 

borgo san paolo, ovvero “il borgo rosso”

Borgo San Paolo, il “borgo rosso” della resistenza antifascista, è il quartiere più latinoamericano di Torino. Partirete dalla libreria Belgravia per un breve viaggio nella letteratura dell’America Latina, per proseguire poi con la visita di associazioni e progetti dedicati ai giovani di seconda generazione e conoscere, presso la Chiesa di Gesù Adolescente, le celebrazioni del Señor de los Milagros. Per saperne di più.

Il borgo nacque nelle campagne sud-occidentali fuori dalle mura di Torino agli inizi dal XVII secolo[2], inizialmente terre di proprietà dei facoltosi conti liguri Olivero, presso la preesistente cascina Pareto, riedificata poi a villa-cascina Olivero (della quale oggi rimane la cascina detta Torassa su via Arbe 19, al confine col quartiere Santa Rita).

Nell’archivio storico dell’istituto Bancario San Paolo, di Torino, si conserva memoria di un edificio innalzato nel 1697 dalla Compagnia di San Paolo (destinata poi a trasformarsi nell’attuale istituto) per ospitare i confratelli della Compagnia «li quali come che da Dio chiamati ad una vita più ritirata e perfetta, non sono però in stato di ritirarsi in un chiostro, meno abbandonare totalmente di vista le proprie case ed interessi». Si trattava, insomma, di una sorta di convitto per laici conversi di nobile condizione che sorgeva appunto in una zona di aperta campagna, ad occidente della città. Di qui, secondo lo storico Mario Abrate, trovò origine il nome del borgo che venne costituendosi nei secoli successivi.

Il borgo, nel periodo tra le due guerre, fu sede di fermenti popolari, e disordini, come quelli esplosi nel 1917, in una delle crisi più gravi, quando in Borgo San Paolo, considerato “cittadella rossa”, venne data alle fiamme la chiesa di San Bernardino.

 

la cavallerizza

Un quartiere particolare, arroccato nel centro cittadino e poco conosciuto dai torinesi, raggiungibile da via Verdi 9 e da via Rossini. Tale complesso architettonico è detto “La Cavallerizza" poiché Casa Savoia vi allevava i propri cavalli d’alta scuola, un maneggio, dunque, inserito in un grandioso insieme barocco progettato nel 1674 da Amedeo Castellamonte e soltanto di recente recuperato con una intelligente ristrutturazione. Comprendeva, in origine, gli isolati intitolati a Santa Lucia e a San Guadenzio, come area riservata alla Casa Reale e al personale di Corte, a servizi sistemati da Francesco Baroncelli, Filippo Juvara e Benedetto Alfieri. Al maneggio apparteneva pure una rotonda ottagonale per le evoluzioni equestri, dalla quale si irradiavano stalle che ospitavano i cavalli. Pregevole l’acciottolato originale, rimasto pressoché intatto.

 

Le Vallette: un quartiere emblematico della Torino dell’immigrazione degli anni ‘60

 

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la realtà delle vallette

Nel 1961 Torino supera il milione di abitanti, l’espansione industriale e l’immigrazione generano distorsioni e problemi di fronte ai quali la città si trova impreparata: le abitazioni sono insufficienti e per rispondere all’emergenza abitativa vengono realizzati interventi di edilizia pubblica che prevedono la costruzione di interi quartieri periferici, autosufficienti sotto l’aspetto dei servizi, che avrebbero dato a Torino una ossatura policentrica.

Una linea d’intervento di questo tipo, per quartiere, muove da modelli nord-europei introdotti dal Piano Fanfani, provvedimento statale di edilizia popolare del periodo, che prevede, da un lato, una effettiva autonomia dei singoli poli grazie alla disponibilità di servizi, dall’altro, un’unificazione e una possibilità di interazione garantita da un’efficiente rete di trasporti. Due prerogative, queste ultime, che vengono nella quasi totalità dei casi trascurate divenendo principali cause di degrado. Il processo di insediamento urbano che ha caratterizzato il capoluogo torinese in questo periodo porta alla formazione di quartieri disseminati alla periferia della città e abitati prevalentemente da lavoratori immigrati.

La carta topografica di Torino risulta costellata da agglomerati residenziali con le suddette caratteristiche al cui interno emerge un’omogeneità di classe sociale (i livelli più bassi), di regione di provenienza (immigrati del Sud) e di marginalità sociale. Si può descrivere la dinamica interna a questi quartieri e il rapporto con il contesto urbano della popolazione in essi inseritasi, utilizzando la categoria sociologica di ghetto o area segregata, categoria che sarà ben presto utilizzata anche dalla stessa stampa cittadina e della cui formazione e diffusione si parlerà ampiamente nei capitoli seguenti.

La gestione degli interventi urbanistici di cui si parlerà è affidata al Ministero dei Lavori Pubblici che nel 1954 crea il Comitato per l’Edilizia Popolare (CEP) che, riunendo diversi enti costruttori avrebbe realizzato 26 nuovi quartieri in tutta Italia, tra questi, a Torino, il quartiere Le Vallette.

il quartiere premessa e promessa di autonomia

Nello sviluppo caotico e incontrollato della città, il 30 aprile del 1958, con la demolizione di una cascina che avrebbe poi dato il nome al quartiere, cominciano i lavori di edificazione delle Vallette, nella zona nordovest di Torino. Il quartiere delle Vallette è la seconda realizzazione CEP e il progetto si inserisce nell’ambito degli interventi INA Casa per l’edilizia popolare, prevedendo la realizzazione di 16.500 vani su una superficie di 71 ettari, divisa in 12 lotti su cui si alternano blocchi residenziali, servizi e verde pubblico.

La realizzazione del quartiere viene coordinata, come già anticipato, dalla Commissione per l’Edilizia Popolare (CEP) e appaltata dall’Istituto autonomo per le case popolari. Il piano particolareggiato nel 1957 viene affidato a Gino Levi Montalcini, coordinatore di un gruppo di grandi nomi dell’architettura torinese che pensava ad un quartiere urbanisticamente articolato ed esemplare, pieno di verde, con casette a schiera e torri moderne, che potesse soddisfare i bisogni di chi era sbarcato dai “treni del sole” e che potesse accogliere cordialmente i nuovi arrivati; il progetto giunge a definire perfino il dettaglio delle targhe stradali che avrebbero dovuto riportare nomi gentili: via dei Mughetti, delle Pervinche, delle Primule.

La frammentazione degli enti promotori (IACP, INA Casa, UNRRA Casa, INCIS e Ferrovie dello Stato) e degli architetti si riflette nella realizzazione e configurazione delle diverse aree (come è possibile notare in Fig. 18), ciascuna indipendente dalle altre per modi di finanziamento, piani di cantiere e scelte figurative. Il quartiere presenta una notevole eterogeneità tra i vari lotti, esito dei differenti approcci al tema da parte di 45 progettisti coinvolti, suddivisi in nove gruppi.

Le aspettative sono alte fin da principio: la stessa stampa millantava e riponeva una significativa fiducia nelle possibilità innovative che sarebbero potute derivare da un intervento urbanistico di tale portata. La Gazzetta del Popolo ad una settimana dalla consegna dei primi 100 alloggi del quartiere, il 18 novembre del 1961 scriveva:

«Tutto il complesso [potrà] ospitare 10 mila persone: una piccola città autonoma a sei chilometri in linea d’aria da piazza Castello […] il solo collegamento con Torino per i suoi abitanti dovrebbe essere costituito da motivi di lavoro. Una cittadina, per di più, costruita secondo i canoni che siamo abituati a vedere nei progetti delle città del futuro: un centro abitato in mezzo ad una distesa di campi […] la nuova città satellite […] avrà due scuole materne, tre elementari, una scuola media e di avviamento […] avrà un centro economicocommerciale che comprenderà grandi magazzini, i negozi, il mercato coperto, l’ambulatorio, le agenzie degli istituti di credito, il commissariato di P.S., il cinemateatro e le delegazioni comunali […] Tutti questi edifici di uso comune si affacceranno sulla piazza centrale sotto alla quale sarà ricavata una grande autorimessa […] e infine il centro sociale.»

Nonostante l’iniziale entusiasmo, non tardano a presentarsi le polemiche e tra gli esperti e i meno esperti iniziano a sorgere una serie di dubbi. Tra questi la scelta discutibile e discussa di edificare in aree distanti dal centro città, correlata al rischio di erigere quella che si temeva potesse diventare un’unità separata ed isolata dal resto del tessuto urbano.

A questa prima critica si rispose con la giustificazione del basso prezzo dei terreni agricoli e con la concezione di sviluppo sociale cui il modello di quartiere satellite rimanda. Si ritiene infatti, alla fine degli anni ’50, che gli insediamenti autosufficienti e territorialmente separati abbiano ed avrebbero, così anche nel caso specifico delle Vallette, favorito uno stile di vita completamente nuovo dando i natali a comunità più coese, fondate sulla solidarietà di vicinato.

Questo, come gli altri nuovi quartieri, costituivano dunque un modello esemplare. Soprattutto secondo le posizioni progressiste moderate del periodo: il mix di famiglie con diversa estrazione sociale, avrebbe favorito la solidarietà tra classi differenti che trovavano punto d’incontro nelle abitudini, nel modo di abitare e in una struttura familiare di stampo cattolico tradizionalista. Il progetto dei moderati non poteva realizzarsi per caso e autonomamente pertanto si assiste, nell’assegnazione degli alloggi, ad una selezione che privilegiava la famiglia convenzionale rispetto ad altre tipologie familiari (come i single) che tendevano invece ad essere escluse. Anche la propaganda del periodo faceva leva sullo spirito e su idee tipiche della sinistra della DC descrivendo il piano Fanfani come un atto di “carità cristiana”, di privazione di quei lavoratori che con un prelievo giornaliero pari al “costo di una sigaretta” avrebbero garantito, con l’inaugurazione del quartiere, il “miglioramento di chi sta peggio senza tuttavia livellare le classi”.

i primi anni (1961-67) - inaugurazione e prime impressioni

Gli anni ’60, primi anni di vita delle Vallette, possono essere definiti come gli anni in cui si assiste ad una prima profonda differenziazione sociale nella composizione della popolazione del quartiere e gli anni in cui le carenze strutturali e dei servizi, per prime, evidenziano lo scalino tra progetto (quartiere modello di autonomia) e realtà.

Nel novembre del 1961 vengono inaugurate le Vallette: sono consegnate le chiavi dei primi palazzi dello IACP su viale dei Mughetti.

Questi rispondono all’iniziale funzione di strutture alberghiere in occasione di Italia ’61, celebrazione del Centenario dell’Unità d’Italia mentre, per quanto riguarda le altre porzioni CEP, si raggiunge poi il completamento delle assegnazioni degli alloggi soltanto al termine deI sei anni successivi. I primi articoli dei quotidiani più diffusi a Torino presentano il complesso come quartiere modello in cui a «grandi e moderni edifici» corrisponde un «affitto modesto».

Tutti i nuovi edifici vengono predisposti per avere diversi comfort tra cui allacciamento elettrico, riscaldamento e servizi igienici interni, tutti presenti soltanto nelle abitazioni di più recente costruzione31. Le aspettative e la fiducia sono consistenti, tuttavia bisogna anche dire che questi primi anni di esistenza del quartiere sono anche quelli in cui si delinea e trova terreno fertile il cosiddetto mito negativo delle Vallette. Un mito oltretutto per nulla infondato: nonostante gli iniziali propositi si ripetono infatti gli errori già commessi in altri quartieri con l’aggravante, per le Vallette, che nascono come unità separata dalla città, di una carenza di servizi ancor più sfavorevole a causa dell’isolamento33. Nel quartiere le strutture di urbanizzazione primaria sono insufficienti, vi è un’unica linea di trasporto pubblico e i grandi complessi previsti per il pubblico (Centro Sociale, uffici, biblioteca, ambulatorio, autorimesse) non sono stati completati.

Le nuove abitazioni rappresentano sicuramente un punto a favore per il quartiere, una prospettiva di miglioramento se si mettono a paragone la celebratissima modernità degli appartamenti con la moltitudine delle varie carenze e problemi.

Una grande difficoltà però deriva poi dalla percezione della vita all’interno delle abitazioni e del quartiere. Il trasferimento non è vissuto da tutti allo stesso modo: per coloro i quali è recente il disagio dell’immigrazione, l’assegnazione significa vedersi riconosciuto, forse per la prima volta, il diritto alla cittadinanza (e questo mette facilmente in secondo piano le carenze esistenti), ma, al contrario, per i torinesi e per gli immigrati già integrati, un quartiere periferico, sprovvisto di servizi e identificato come quartiere di «meridionali» risulta una condizione decisamente denigrante.

Non bisogna poi dimenticare, in questa situazione, la contemporanea e inarrestabile avanzata della nube nera del mito negativo delle Vallette che offusca l’opinione dei non-residenti dando al quartiere i contorni di una realtà in preda al degrado sociale e alla criminalità. I residenti, consapevoli di questa cattiva fama sempre più diffusa, mascherano un’appartenenza, quella al loro quartiere, della quale tuttavia non tutti provano vergogna:

«Negli anni ’60 fino alla metà degli anni ’70, a parte che a quel tempo molto dei vallettari ridicevano: “Andiamo a Torino” e qualcuno diceva: “Andiamo in centro” come se le Vallette fosse un paese … […] se tu in quel periodo dicevi di abitare alle Vallette intorno a te si faceva il vuoto. Allora quando ti chiedevano dove abitavi: “Abito a Lucento”. Ma lo dicevi con fatica perché eri quasi orgoglioso di venire dalle Vallette, capisci? Ma dicevi Lucento se no la gente cominciava a guardarti male. […] Mi ricordo che a quell’epoca c’era ancora Stampa Sera, è durato fino agli anni ’80 mi sembra, e mi ricordo certi episodi rispetto alle Vallette…quando succedeva qualcosa di brutto, titolo in prima pagina: “Alle Vallette ecc…ecc…” […] Poi c’era l’episodio dell’immondizia, io ero piccolo stavo giocando a pallone dove adesso c’è l’oratorio prima era un prato… arriva un cronista e un fotografo de La Stampa prendono dei ragazzini che giocavano nel prato a fianco…lì c’era solo prato: “Vi diamo un sacchetto di caramelle se vi mettete lì in mezzo all’immondizia e fate finta di gocare”. E loro 7, 8 anni: “Sì! Sì..!”. Il giorno dopo su La Stampa: “Degrado delle Vallette”. Cioè in un posto dove veramente c’erano prati dappertutto, dove ogni giorno potevi scegliere un prato diverso per andare a giocare a pallone, chi era quel cretino che andava a giocare in mezzo all’immondizia? [ride]» (Rodolfo, classe 1949).

i primi anni (1961-67) - modello urbanistico e ideale sociale, fallimento o fortuna?

Il progetto delle Vallette non vuole solo essere un esemplare modello urbanistico, ma anche rappresentare, dare forma e vita ad un ideale sociale realizzabile grazie all’isolamento territoriale e ad infrastrutture collettive. I limiti sono evidenti e, come anticipato, l’autosufficienza fallisce e i servizi che avrebbero dovuto favorire la socializzazione non vengono realizzati o completati. Se il fallimento istituzionale nelle promesse fatte è evidente, tuttavia non è così scontato sostenere lo stesso sotto l’aspetto sociale. Certe carenze possono favorire il formarsi di relazioni comunitarie: in un quartiere senza servizi è indispensabile disporre dell’aiuto del vicinato che trova compattezza nella sua eterogenea composizione, unito da un’identità condivisa, quella di vallettari. Un’identità certamente non radicata profondamente nella tradizione (nasce dopo le assegnazioni) e velatamente dispregiativa (soprattutto nell’immaginario collettivo), ma comune denominatore delle forme di aggregazione che trovano i loro spazi privilegiati sui pianerottoli, nei cortili e nei bar, rispettivamente per donne, bambini e uomini. Altro luogo privilegiato e formalmente riconosciuto per l’incontro è sicuramente la parrocchia, Santa Famiglia di Nazaret, al centro del quartiere, unica a disporre di spazi per il tempo libero come il cinema, l’oratorio e un campo da calcio.

Questi luoghi di condivisione e incontro favoriscono il dialogo e proprio grazie ad un aumento di dialogo e all’interrelazione crescente iniziano anche a diffondersi i primi pensieri e necessità comuni. Aderire ad un Comitato cittadino si presenta come una proposta allettante e utile per dar voce alle proteste in merito alla mancata costruzione di sevizi, al desiderio di trasferimento in caseggiati con soluzioni monofamiliare. I principali desideri di molti vallettari diventano alloggi tranquilli, terrazzi isolati che evitino l’inconveniente delle intrusioni, minore controllo da parte del vicinato e migliori condizioni privacy. Quest’ultima è una condizione non ancora sentita quanto oggi, ma il cui rispetto inizia ad essere significativo, un metro di misurazione dell’accettabilità della convivenza e della rispetto del contesto familiare oltre che un discrimine piuttosto netto tra condizioni di vita cittadine e “di paese”.

«Mia madre diceva: “Io mi devo comprare la casa in centro” [ride]. Lei se ne voleva andare via…noi le dicevamo: “Ma mamma stai bene qui, nel quartiere dove conosci, dove siamo cresciuti e non è come in centro dove non hai nemmeno…qui è bello, in centro d’estate si muore di caldo”. Ma lei è rimasta della sua. idea Lei lo vedeva come se fosse il paese […] le sembrava di essere ancora al paese, di non essere mai emigrata. Si è trovata come se fosse giù…e poi era proprio come se fosse un paese chiuso.» (Patrizia, classe 1961)

Gli ultimi aspetti che possono ancora essere presi in considerazione, in quanto peculiarità del periodo storico in analisi, sono i distinti ruoli ed occupazioni dei componenti delle famiglie che vivono in maniera più intensa e diretta il quartiere: donne, giovani e bambini. I “capifamiglia”, lavoratori operai per lo più, trascorrono la maggior parte della loro giornata sul posto di lavoro tornando solo la sera a casa, nel loro quartiere di residenza, regno dei giochi dei più piccoli e delle faccende delle donne casalinghe. Negli anni ’60 le Vallette sono un quartiere vivace, strade e cortili sono sempre affollati soprattutto dai più giovani e, nonostante fosse chiaro fin dalle prime assegnazioni, che il quartiere sarebbe stato popolato da un gran numero di bambini e ragazzi, viste le agevolazioni e i posti prioritari per le famiglie numerose , risultano carenti le strutture aggregative, sportive e culturali necessarie per il loro intrattenimento. Questa situazione crea inizialmente alcune problematiche relative al controllo genitoriale, spesso solo la madre è presente a casa, e in merito al timore per sicurezza dei più giovani. Problemi che si risolvono ben presto tra i prati e i cortili di cui è ricco il quartiere, teatro di giochi autonomi e indipendenti che tuttavia non saranno visti di buon occhio nell’opinione generale divenendo motivo di critica a quei modelli educativi che, la stessa Stampa, definisce «poco civili», tipicamente «meridionali» e distanti dal concetto di educazione.37

gli anni 1966-1974

All’inizio degli anni ’70 alcune delle esigenze evidenziate in precedenza non trovano ancora risposta; tuttavia cominciano a trovare spazio e forma alcune iniziative autonome da parte della popolazione che iniziando ad organizzarsi cerca di supplire ai deficit istituzionali in merito all’assistenza e al’integrazione sociale.

Sono questi gli anni del primo fermento politico proveniente dal basso e delle prime organizzazioni ed iniziative cittadine. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, sotto la spinta del movimento studentesco e operaio si afferma un nuovo clima culturale che coinvolge tutti gli ambiti della società: dalla dimensione privata alla sfera pubblica. Sono ridefinite le relazioni sociali che non sono più intese come determinate univocamente dall’alto in basso, ma come il risultato di un più ampio coinvolgimento di nuove soggettività, prima scarsamente riconosciute: i giovani e le donne.

Si assiste, a Torino, all’aggravarsi della situazione di squilibrio causato dal boom economico e dalla conseguente ripresa dello sviluppo industriale e crescita dell’immigrazione. Una situazione, questa, che obbliga il Comune ad affrontare le situazioni critiche delle periferie cresciute troppo in fretta e senza regole, tra le quali si annoverano le Vallette. Un campanello d’allarme piuttosto consistente sono state le denunce dei giornali locali in merito alle mancanze del quartiere che, se non immediatamente capaci di attirare l’attenzione delle istituzioni hanno tuttavia risvegliato una forte volontà della popolazione, che, per risolvere i problemi della zona, organizza iniziative di volontariato sociale o si impegna politicamente con la creazione di comitati di quartiere: nel 1968 (dopo i tentativi di rinnovamento intrapresi dal PCI già nel ’62) viene annunciata la costituzione di un Comitato promotore per il Consiglio di Quartiere a cui la popolazione è chiamata ad aderire.40 Nel 1969 vengono organizzate in ogni sottozona le elezioni per nominare i rappresentanti del nascente Comitato unitario il cui primo scopo è quello di risolvere le carenze e i disservizi, ma anche i «pregiudizi che ancora sussistono e che indicano le Vallette come un rifugio della malavita, mentre invece è un quartiere abitato da gente onesta e operosa». Il comitato è uno tra gli esempi delle modalità con cui il Comune si propone di decentrare il proprio potere e favorire la partecipazione dei cittadini di modo da rispondere più facilmente alle problematiche della città. Il fermento politico alle Vallette va crescendo e viene canalizzato nelle proteste contro gli insufficienti interventi di manutenzione degli stabili da parte dello IACP.

Queste proteste, rese ufficiali nel 1972 con la creazione del Comitato spontaneo di via delle Pervinche che se ne fece portavoce, trovano risposta nella disponibilità dell’Istituto il quale lascia in gestione i caseggiati agli inquilini tramite un loro amministratore privato. Questa proposta si scontra con l’opposizione fatta dal Comitato quest’ultimo resta fermo nella convinzione che l’abitazione di edilizia pubblica non debba essere una merce da acquistare privatamente, ma una risorsa per l’intera collettività, come «il servizio sanitario e l’istruzione obbligatoria», garanzia del «diritto alla casa».42

Il Comitato non demorde e la sua tenacia viene ricompensata dopo alcuni mesi, quando lo IACP riconosce la fondatezza delle richieste fatte.

Questa vittoria rimarca la capacità autorganizzativa degli organi promotori che, se inizialmente venne sfruttata per rispondere alle esigenze dei residenti, con il tempo subisce una trasformazione divenendo sempre più egemonizzata dai gruppi di sinistra, lontana e incomprensibile alla cittadinanza.

«Avevano fatto un presidio dove raccoglievamo firme per non pagare la luce elettrica. Quella lì, poi, non l’ho mai capita, […] soldi ne giravano pochi, diciamo, eh…però di non pagare la luce elettrica, non vedevo il motivo» (Alvaro, classe 1929)

Le proteste dei comitati in ogni caso, tralasciando le strumentalizzazioni politiche, ebbero anche dei risvolti positivi: garantiscono la realizzazione da parte dell’Amministrazione comunale di una parte dei servizi mancanti come il distaccamento medico dell’ufficio di igiene, un’area verde per i giochi dei bambini e nuove linee di trasporto pubblico come il 62 e il 75.45.

Il potenziamento dei servizi non si esaurisce con la realizzazione di infrastrutture di prima necessità, ma comprende iniziative di carattere culturale finalizzate a favorire lo sviluppo sociale e le opportunità di aggregazione.46 Tra queste sono significative, per portata e per singolarità, quelle legate all’ambito dell’intrattenimento teatrale (Vedi Fig. 35- attività scolastiche teatrali) che vedono le Vallette, quartiere eletto, nel 1969, dal Teatro Stabile per la cura e la messa in scena di alcune sue rappresentazioni svoltesi all’interno del Cupolone in via dei Mughetti.

Quest’ultimo, nel marzo del 1973 fu distrutto da un incendio: andarono in fumo insieme alla copertura in materiale plastico che diveniva translucida se illuminata anche i laboratori teatrali per i bambini delle scuole medie Quasimodo e Orione, le assemblee dei residenti e le rappresentazioni strettamente legate ai problemi del quartiere.48 Dopo l’incendio le iniziative e gli investimenti a favore dello spettacolo e dell’intrattenimento non vengono rinnovate per un lungo periodo, la tradizione torinese legata allo spettacolo, che aveva un polo attivo nella circoscrizione 5 (La FERT, stabilimento cinemattografico fondato negli anni ‘20), alle Vallette viene temporaneamente accantonata (il cupolone viene smantellato e sostituito da uffici delle Poste e saranno poi successivamente le sedi parrocchiali con diverse iniziative, seppur inizialmente sporadiche e disgregate, a farla rinascere. Altro ambito nel quale si concentrano gli interventi del Comune è poi quello dell’istruzione con il potenziamento dell’edilizia scolastica. In un’area che, come si è già detto, registra un’alta incidenza giovanile, le strutture scolastiche risultano insufficienti costringendo, le classi a frequentazioni in doppio turno. L’impegno delle istituzioni approda nel 1970 nell’inaugurazione del primo asilo nido in via delle Primule49 e nella chiusura, nel 1972, della raffineria Best Oil 50 (Vedi Fig. 38 - Best Oil vista dalla finestra della sig. Siciliano) sulla cui area di giacitura sorgono le scuole elementari Di Nanni e Fratelli Cervi e la scuola media Levi dove vengono oltretutto adottati innovativi modelli pedagogici.

Alle difficoltà degli anni ’60, che vedevano Le Vallette caratterizzarsi per dispersione, ritardi scolastici e bassissime percentuali di studenti promossi, gli anni ’70 portano consiglio e rimedio grazie all’introduzione del tempo pieno: momento per laboratori e corsi di recupero che soddisfa le esigenze dei genitori lavoratori e che riduce i gap e le differenze sociali. Le carenze però sembrano inesauribili e, nonostante gli interventi, irrisolvibili, la popolazione residente alle Vallette aumenta e nel 1970 vengono iniziati i lavori per la costruzione di nuovi caseggiati di edilizia pubblica (le Case bianche). Questi edifici però, non ancora ultimati, vengono occupati da famiglie senza tetto, una condizione, quest’ultima, piuttosto comune negli anni ’70 tra gli abitanti di una Torino in cui l’offerta abitativa è insufficiente, l’immigrazione è in aumento e gli interventi di edilizia popolare sono minimi. I nuovi caseggiati, dopo essere stati liberati dalle forze dell’ordine (Vedi Fig. 39 sgombero delle case occupate), vengono assegnati, non più ad un utenza socialmente eterogenea come in passato, ma esclusivamente a nuclei indigenti, favorendo così la concentrazione di casi sociali problematici e , qundi, l’emarginazione. Le amministrazioni cittadine non eccellono nelle scelte fatte e i pregiudizi negativi ritornano con maggiore intensità.

gli anni 1975-1981

E’ proprio dalla metà degli anni ’70 che prendono avvio le tendenze che interesseranno poi i decenni successivi: graduale invecchiamento della popolazione residente, riduzione del numero dei nuovi nati, rallentamento del ricambio generazionale. Questa situazione è certamente condizionata dalle modalità di assegnazione degli alloggi di edilizia popolare, che sono poi la quasi totalità di quelli del quartiere. Alle assegnazioni si ha accesso solo tramite graduatoria e la residenza resta per tutta la vita ai primi assegnatari: i giovani delle Vallette, non trovando alloggio nel quartiere, per costruirsi una propria famiglia sono costretti a trasferirsi in altre zone. In aggiunta ai mutamenti demografici bisogna considerare che sono questi gli anni della fine dell’espansione economica, della crisi petrolifera e di un aumento della disoccupazione, che registra una consistente incidenza in quartieri operai come le Vallette dove, nel 1981, si raggiunge il 4% di popolazione senza lavoro contro 1.5% della media cittadina.

La crisi dell’occupazione riguarda principalmente i giovani, cui non è più garantita una carriera lavorativa nemmeno dal diploma. Questa condizione spinge soprattutto le famigli con maggiori difficoltà a rinunciare o far rinunciare i propri figli a percorsi di scolarizzazione prolungati.

«Ho finito le medie e poi volevo continuare ma mio padre e mia madre non hanno voluto perché si erano appena diplomati i miei due fratelli più grandi ed erano disoccupati. Mia madre: ”No, no assolutamente…a lavorare. […] Un anno sono stata a casa…è stato l’anno sabbatico [ride] il mattino facevo le pulizie e il pomeriggio sotto, sotto a far niente. A passarlo un po’ così e l’anno dopo a 15 anni sono andata a lavorare» (Patrizia, classe 1961)

Con questa situazione poi le politiche di supporto ai giovani sono scarse, è vigente soltanto la legge 285 del 1977 sull’occupazione giovanile che tuttavia è scarsamente integrata in politiche di più ampio respiro e dunque limitatamente influente.

Le condizioni precarie danno vita ad un generale sentimento di sfiducia e frustrazione. Come risposta a quest’ultimo, la più negativa che si possa individuare nelle tendenze del periodo, è la diffusione dell’uso di sostanze stupefacenti e della tossicodipendenza.54 Dalla metà degli anni ’60 accanto alle droghe leggere inizia a diffondersi il consumo di eroina55, il cui spaccio trova casa principalmente nelle periferie: qui il problema non sembra essere ancora fronteggiato da autorità ed istituzioni che in questi anni considerano ancora il fenomeno della tossicodipendenza, non come una questione sociale, ma piuttosto come un problema privato delle singole famiglie.

«L’avvento della tossicodipendenza ecc. allora negli anni '60 se tu volevi farti dovevi andare a cercare la roba perché la trovavi solo in certe zone, negli anni 70 in avanti la roba è arrivata sotto casa. E in un posto come le Vallette c’era di tutto, non solo lo spacciatore ma c’era il grossista, lo spacciatore che era anche tossico e il consumatore. Scendevi e nei muretti sotto casa trovavi la roba [...] e tanti ragazzi ci sono rimasti, ci sono state molte overdose. [...] Diciamo che è cominciato verso la fine degli anni 70 anche perché non solo alle Vallette ma in tutta Torino la roba veniva da te. Fino ai primi anni ’60 eri tu che dovevi andare a cercartela perché la trovavi solo in alcuni punti di Torino, in centro, dopo il mercato si è allargato» (Rodolfo, classe 1954)

In una situazione in cui i disservizi e le mancanze non sono ancora state colmate, le amministrazioni decidono nel 1975 di collocare alle Vallette il carcere, che, intitolato con il nome del quartiere, diviene simbolo del senso di abbandono ed emblema della scarsa considerazione in cui le istituzioni tengono questa porzione di città.

La generale sfiducia sembra prendere il sopravvento e tutto ciò che in precedenza è stato descritto come risorsa sembra assumere una veste sempre più negativa: la strada, scenario della ricca rete di rapporti sociali tra residenti diventa ora un luogo insidioso per le minacce della criminalità e dell’eroina, i grandi spazi aperti per il gioco dei più piccoli si fanno deserti e quella comunità che sembrava finalmente potersi dire tale, accomunata finalmente dal senso di appartenenza ad un quartiere che non doveva più nascondersi, ora si fa nuovamente diffidente e slegata.

cambiamenti

La crisi economica e il protagonismo dei movimenti operai e studenteschi suscitano una condivisa richiesta di cambiamento politico che porta alla sconfìtta delle giunte di centro e centrosinistra, le quali, dopo 24 anni alla guida della città, lasciano il posto ad un’amministrazione di sinistra. Quest’ultima, a partire dal 1975, concentra il proprio operato sulla riqualificazione delle periferie e, mentre da un lato si impegna nel risolvere gli squilibri della città cercando collaborazione con l’industria, dall’altro sembra incapace di promuovere quei provvedimenti necessari per il rilancio dell’economia e per l’arginamento della crisi sociale.58

I principali provvedimenti intrapresi sono rivolti ai giovani e si concentrano nella sfera del tempo libero, ma sono insufficienti per porre rimedio al disagio giovanile che resta particolarmente intaccato dalla crisi lavorativa.

Le azioni deH'amministrazione comunale probabilmente risultano poco efficaci a causa della limitata possibilità che hanno gli interventi di una scala così piccola; politiche di sostegno di scala nazionale per l’occupazione e un welfare di carattere statale certamente avrebbero potuto avere un’incidenza nettamente maggiore. Iniziano a sorgere nuovi servizi, un po’ tardivamente però, perciò spesso limitatamente sfruttati o accolti negativamente: nel 1978 viene aperto un Centro d’Incontro e successivamente un Consultorio. Questi diventano teatro della presa di coscienza delle donne del quartiere che iniziano ad ampliare la loro partecipazione alle iniziative del quartiere e ad allargare la loro autonomia personale.

la situazione attuale

Oggi non viene dimenticata la fama passata del quartiere Vallette che, nell’immaginario comune, rimane un quartiere periferico con una storia travagliata, tuttavia assume una maggiore rilevanza la sua vocazione e funzione residenziale. Quest’ultima ha, negli anni, acquisito infatti maggior valore e qualità grazie all’introduzione, graduale e sempre più attenta, di quei servizi di cui fino a tempi più recenti il quartiere era carente. La consistente espansione della città di Torino poi libera le Vallette dal passato isolamento inglobando completamente il quartiere nel fitto tessuto urbano.

Le polemiche e i problemi in ogni caso non mancano tutt’ora: il quartiere fu interessato e poi acceso dalle proteste per la realizzazione della discarica Barricalla, completata nell’88 ai confini con la frazione Savonera di Collegno. A queste proteste si aggiunse, nel 2012 quella relativa alla costruzione dell’adiacente nuova centrale elettrica e di teleriscaldamento Iren. La nuova infrastruttura non ebbe poi gli effetti negativi temuti e anzi diede avvio nell’estate 2014 alla demolizione della vecchia centrale di Strada Pianezza e ad una riqualificazione dell’area con l’inaugurazione nel 2016 di un ampio parco pubblico, Parco Vallette tra via Pianezza e strada delle Primule (13mila metri quadrati).

La zona come si vedrà in maniera più approfondita nel capitolo 6 a pagina 64 non è interessata negli ultimi anni da particolari trasformazioni fisico-urbanistiche dell’esistente, sennonché, in quanto periferica, resta adatta all’installazione di grandi strutture. E’ grazie a questa peculiarità che si assiste,da alcuni anni, all’approvazione e messa in cantiere di alcuni lavori per grandi opere (PalaStampa poi MazdaPalace e, prima della dismissione PalaTorino; Arena Rock e recentemente, l’Area12 e le opere Juventus con lo stadio e il J-Museum), tra questi, il più mastodontico e rilevante, è la sostituzione dello Stadio delle Alpi (1990) con lo Juventus Stadium (2011).

Questo intervento, come appena detto, è uno dei pochi, non soltanto per numero, ma anche per rilevanza ed entità, ad interessare l’area, si ritiene pertanto opportuno seguirne le fasi di trasformazione in maniera un poco più dettagliata. Sulla stessa giacenza si sono susseguiti stadi con nomi e strutture differenti: lo Stadio delle Alpi e lo Juventus Stadium. Fino ai Mondiali del 1990 città d Torino possedeva un solo stadio, quello Comunale. Per l’appena citata occasione fu però progettato dallo studio Hutter lo Stadio delle Alpi, stadio innovativo che garantiva a ciascuna delle due squadre cittadine uno stadio dedicato. Questa dicotomia si interruppe quando lo Stadio Comunale fu riconosciuto, con perizia ufficiale, inagibile e quindi chiuso: rimane un solo stadio a garantire gli spettacoli del Torino e della Juventus, ravvivando, seppur sporadicamente (due volte al mese), la periferia nord-ovest della città. La situazione non resta invariata, la perizia di inagibilità viene riconosciuta nel suo errore e lo Stadio Comunale viene riaperto in occasione delle Olimpiadi Invernali del 2006. Nel 2003 la Juventus intanto ha acquistato dal Comune il diritto di superficie sull’area per 99 anni: nel 2006 lo stadio viene chiuso alle attività sportive e nel 2008 la società bianconera presenta il progetto per l’abbattimento dell’impianto (terminato nel marzo 2009) e la costruzione nella stessa area di una nuova struttura multifunzionale di sua proprietà che prevede, oltre alle strutture sportive e e la cittadella di cui sotto, il nuovocentro commerciale Area12 a servizio del complesso. Con l’inaugurazione dell’8 settembre 2011 nasce così lo Juventus Stadium, ufficialmente Allianz Stadium, il cui progetto prevedeva, oltre alla costruzione di un nuovo stadio, la realizzazione di una vera e propria “cittadella bianconera” nella zona della Continassa, con museo, centro medico e sede societaria.

La cittadella è ancora in fase di completamento e prevede lo sviluppo di sei insediamenti. Il primo, la nuova sede, è stato completato nell’estate del 2017, le altre opere ancora da realizzare invece sono: il JTC (Juventus Training Center), nuovo centro di allenamento della Prima Squadra dove avrà sede anche il Centro Media; il J Hotel; la WINS – World International School, il Concept Store. Completano poi l’insediamento, una Centrale Energetica e le opere di urbanizzazione a servizio dell’area.

 

fonti:

Elena Cardino, Vallette (tesi di laurea Politecnico)

 

La vecchia contrada dei coriatori a Torino

 

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la contrada dei coriatori a torino

Quanto fosse importante la presenza di concerie nella città di Torino, lo testimonia il fatto che esistesse la contrada dei Coriatori - che andava dalla piazzetta BonelIi (oggi piazza Lagrange) alla contrada di San Filippo (via Maria Vittoria) - ed una Corporazione denominata Università dei Coriatori sotto la Protezione di Sant'Orso. Secondo gli studi fatti da Erberto Durio (discendente di Secondo Durio, fondatore dell'omonima conceria nel 1853) questa Università risaliva al 1600 come riportato nel documento contenente i “Capitoli e Privilegi concessi dalla gloriosa memoria di Carlo Emanuele III e confermati da Madama Reale Giovanna Battista all'Università dei Coriatori della presente Città di Torino”.

Nell'area corrispondente oggi a Borgo San Donato, si trovava la cosiddetta conceria del Martinetto; nel 1608 era stato concesso in enfiteusi perpetua a

“Messer Giò Batta Merlino di Torino […] il luoco gierbo [prato incolto], et sitto in detta Città ove si dice al Martinetto ò sia alla Valdoch, di giornate tre e mezzo alla misura di Torino […] e la faccoltà e licenza di poter construrre o far construerre sopra li sitti et rippa d’essa Città che sono poco distante, et al quanto al de’ sopra del Mollino del Martinetto un artificcio et ingegno per poter camossar [scamosciare] le pelli con facoltà anche di prevalersi e servirsi per essa, et servitio di detto.

gianduiotti al posto del cuoio

Sempre in quell'area si trovava la conceria Watzembourn: una Statistica della Popolazione della Città di Torino del 1801 censisce in località "brüsacör", o “Bruciacuore”, nella regione di Valdocco, la famiglia di Filippo Giacomo Watzembourn, originario di Luserna San Giovanni, oltre a 12 “lavoranti”, impiegati nella conceria di pelli di sua proprietà, che sorge nel medesimo luogo. Watzembourn, che aveva acquistato un edificio preesistente per trasformarlo in conceria, nel 1805 ottiene

“la permissione di costrurre e tener un edificio in sito suo proprio, e d’apporre una ruota a davanojra [il termine mutuato dalla lavorazione tessile definisce uno strumento girevole munito di tavolette parallele all'asse], e fare le opere necessarie onde renderlo girante […] e ciò all’oggetto di far valere la sua fabbrica di coriatore ed affaitore di pelli […] e per dare movimento ad un bottale ed ad una pesta da rusca a taglietti. (Archivio Storico Città di Torino, Ragionerie, IV, 1817).”

La pesta da rusca serviva a frantumare le galle e la corteccia per ricavare il tannino utilizzato nelle operazioni di concia. L’edificio venne poi affittato da Giovanni Martino Bianchini, un mastro cioccolataio di origine svizzera, che intorno al 1820 vi installa una macchina di sua invenzione per la produzione del cioccolato: nasce la fabbrica di cioccolata Landò. A Bianchini subentra, intorno al 1830, Paolo Caffarel. Cacao al posto del tannino, gianduiotti al posto del cuoio.

lungo il canale della fucina

A breve distanza dalla Watzembourn, si trovava la conceria Martinolo, mentre nel 1838 viene presentato da parte del geometra Pietro Briai il disegno per un nuovo fabbricato da adibire a conceria per la concia di pelli di capra e montone (nell'attuale via Durandi 13). L'edificio, con un'elegante facciata in stile neoclassico, era imponente con i suoi tre piani ed avrebbe ospitato la conceria di Domenico Fiorio.

I fratelli Calcagno Antonio e Vincenzo esercitavano in borgo Dora fin dal 1805, in un edificio posto lungo il canale della Fucina (derivazione del canale dei Molassi nei pressi del cimitero di San Pietro in Vincoli; alimentava la fucina da ferro municipale, il filatoio Pinardi e altre attività). Secondo una statistica del 1823, su 56 concerie dell'area torinese, la loro era la più grande ed aveva ben 36 addetti contro una media del settore di circa 4. Riuscivano a lavorare più di 6.000 pelli l'anno ed erano rinomati per la produzione di cuoio da suola. Alla scadenza del contratto d’affitto fecero richiesta di trasferire la conceria in un edificio di loro proprietà sulla sponda sinistra del canale dei Molassi, di fronte ai filatoi Pinardi e Galleani. L’amministrazione comunale acconsentì a questo dichiarandosi “sempre intenta a promuovere l’industriosità dei torinesi”. Si può dire che con la conceria Calcagno inizi la fase industriale della conceria che vedrà il proprio sviluppo di lì a poco con l'invenzione del bottale: l'inizio di una nuova fase e di una nuova storia.

 

Origine dei nomi dei quartieri di Torino

 

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Aurora

Compresa tra corso Regina, corso Novara, corso Principe Oddone e la Dora, questa zona prossima al centro include i rioni Borgo Dora, Borgo Rossini e Valdocco. Fin dall'epoca romana e poi nel Medioevo, questa zona era ricca di mulini e opifici, di concerie e riserve per le granaglie.

Il nome del quartiere Aurora deriva da un'antica cascina, detta appunto “cascina l'Aurora”, trasformata nel 1869 in un opificio, mentre nel 1984 l'architetto Aldo Rossi ha ridisegnato tutto l'edificio che oggi si chiama Casa Aurora.

Barca

Situato nella periferia nord est di Torino, il quartiere Barca si trova alla confluenza tra il Po e lo Stura di Lanzo. I due fiumi sono state risorse storiche importanti per gli abitanti, soprattutto per le attività contadine. E l'unione dei due fiumi è l'elemento che dà il nome al borgo: fino al 1884, quando fu costruito il ponte ferroviario Amedeo VIII sulla Stura, l'unico modo per attraversare i fiumi e arrivare a San Mauro e Settimo era appunto una barca.

Barriera di Milano

Quartiere popoloso e popolare della parte nord di Torino, Barriera di Milano nasce ufficialmente nel 1853. La Barriera che dà il nome al quartiere era quella di piazza Crispi, ed era la più a nord di Torino. Alla barriera della piazza si accedeva da corso Vercelli, all'epoca Strada Reale d'Italia, e fu chiamata di Milano perché da lì si arrivava dal capoluogo lombardo.

Bertolla

Questo quartiere si trova nella parte nordest della città, vicino al quartiere Barca con cui spesso viene assimilato e da cui lo separa Strada San Mauro. Anche Bertolla si trova alla confluenza tra Po e Stura, in particolare qui si trova il cosiddetto “Isolone di Bertolla”, ricatvato con un canale artificiale realizzato nel 1953 e oggi compreso nella riserva naturale del

Parco del Po.

Il nome Bertolla è un “prediale”, ovvero deriva dal nome degli antichi proprietari terrieri di questa zona, che con tutta probabilità avevano un cognome molto diffuso a Torino e in Piemonte, ovvero Bertola.

Borgata Lesna

Questa borgata si trova nella parte nordovest della città, vicino al quartiere di Pozzo Strada del quale fino agli inizi del '900 era un sobborgo. Ma la presenza di abitanti di questa zona attraversata da via Monginevro risale al '600, quando qui vi erano diverse cascine e terreni agricoli. Ed è proprio a un edificio di una famiglia che il quartiere deve il suo nome: precisamente a Villa Lesna, costruita nella prima metà del XVII secolo da una famiglia di proprietari terrieri e industriali lanieri originari di Biella, i conti di Lessolo. Nel rifugio sotto Villa Lesna (o semplicemente il Lesna) trovò riparo la popolazione dopo il bombardamento del 9 dicembre 1942, che causò ingenti danni a strade, palazzi e centri militari.

Borgo Po

Il nome di questo quartiere si spiega bene da solo: è ovviamente dedicato al Po, che segna il confine ovest di un borgo precollinare che da Madonna del Pilone arriva a Cavoretto, passando dal Monte dei Cappuccini. Ciò che è interessante è che il Po non era solo il confine di questa lunga striscia di Torino con in mezzo corso Moncalieri: prima di diventare il quartiere di pregio che è oggi, infatti, Borgo Po è stato per secoli un quartiere popolare abitato da molti pescatori e lavandaie, che dal Grande Fiume trovavano sostentamento e lavoro.

Borgo Vittoria

Situato nella parte nord di Torino, tra Villaretto, Rebaudengo, Barriera di Milano, San Donato e Madonna di Campagna, è un quartiere che anticamente era coperto di boschi e terreni agricoli; dal Seicento comparvero case e cascinali come la Fossata, ma è nel 1706 che nasce ufficialmente Borgo Vittoria. Nella parte su di questo quartiere, infatti, quell'anno furono combattute diverse battaglie durante l'Assedio di Torino, che nel maggio 1706 vide contrapposte le truppe sabaude (con le forze del Savoia alla corte degli Asburgo, il Principe Eugenio) e quelle franco-spagnole, che alla fine furono respinte. All'esterno di Chiesa della Salute, costruita nel 1880, una cripta ancora conserva l'ossario dei caduti in quell'assedio.

Campidoglio

Compreso tra San Donato e Parella, è oggi un quartiere residenziale. Tuttavia, il suo nome deriva da un antico fondo terriero. Come nel caso di Bertolla, quindi si tratta di un “prediale”, ovvero di un fondo che nel XII secolo apparteneva a una famiglia che ha dato il nome all'intera zona: in questo caso il prediale era costituito dai “campi di Doglio”, dal nome dei proprietari. Nessun riferimento, quindi all'omonimo colle di Roma.

Cavoretto

Dal 1806 al 1889 Cavoretto è stato un Comune autonomo, con un proprio sindaco, fino ad essere inclusa nel Comune di Torino. Il suo territorio comprende gran parte della collina torinese, incluso quello che è forse il simbolo di Cavoretto, il Parco Europa affacciato sulla parte sud della città. Ed è proprio la posizione geografica a determinare il nome di Cavoretto, abitata dal XII secolo da una nobile famiglia, i “signori di Cavoretto”. L'origine del nome è legata infatti alla sua posizione elevata affacciata sulla pianura, come per la rocca di Cavour o il castello di Cavorro a Costigliole d'Asti. In questo caso un “cavoretto”, ovvero una piccola collinetta.

Cenisia

Situato nella zona centro occidentale della città, il quartiere Cenisia era nel Settecento un quartiere periferico dove sorgevano diverse cascine. Storicamente rappresentava l'approdo all'antica Porta Segusina (o Decumana) nell'impianto romano della città, da occidente: da questo quartiere partiva una strada che arrivava al Moncenisio (“monte delle ceneri”, da un antico incendio boschivo) e da cui deriva il nome di borgata Cenisia.

Cit Turin

Si trova adiacente a Cenisia, ed è compreso tra corso Inghilterra, corso Vittorio, corso Francia è corso Ferrucci, perimetro che ne fa il più piccolo quartiere di Torino. Ma non è per questo che si chiama “piccolo Torino” (al maschile). In realtà, questo piccolo quartiere residenziale con un volto ottocentesco era un borgo a sé stante appena fuori le mura antiche di Torino, e secondo un progetto urbanistico settecentesco era del tutto autosufficiente rispetto al centro: in pratica, appunto, un piccolo borgo di Torino fuori Torino.

Crocetta

Subito a sud del centro, tra via Sacchi/corso Turati e corso IV Novembre si trova il quartiere della Crocetta, residenziale di prestigio fin dalle origini che risalgono al Seicento, quando si sviluppò intorno alla Chiesa della Crocetta da cui prende il nome il quartiere. La chiesa è dedicata alla Beata Vergine delle Grazie, ma da sempre i torinesi la chiamano Crocetta per la piccola croce rossa e azzurra che era sugli abiti dei padri trinitari, a lungo titolari dell'edificio.

Falchera

Collocata all'estremo nord di Torino, al confine con Settimo e Mappano, a ridosso di autostrada e linea ferroviaria per Milano, la Falchera è stata a lungo un quartiere isolato dal resto della città. Suddiviso in Borgo Vecchio, Falchera Vecchia e Falchera Nuova, questa zona era già abitata nel Quattrocento, quando sorsero le prime grandi cascine: una di queste, della famiglia Falchero, diede il nome a tutto l'antico borgo.

Filadelfia

Il nome del borgo Filadelfia, a sud di Torino vicino al Lingotto, ha a che fare con lo stadio Filadelfia: è dal 2003 che la zona degli ex Mercati Generali si chiama così come lo stadio del Grande Torino. Che a sua volta si chiama così per via Filadelfia: è uno dei quartieri più recenti di Torino, sviluppatosi nel primo '900. Il nome della via è un omaggio alla città americana di Philadelphia, prima capitale degli Usa come Torino lo è dell'Italia.

Lingotto

Questa zona nell'estrema periferia sud della città era nel '400 un latifondo rurale al confine tra Torino e Moncalieri: ed è proprio dalla città moncalierese che arrivava la famiglia Lingotto, proprietari della cascina che ha dato il nome al quartiere. Melchiorre Lingotto fu l'ultimo della casata e fu sindaco di Moncalieri fino al 1559.

Lucento

Si trova nella periferia nordovest della città, e comprende il Parco della Pellerina, il più grande della città (vedi i 5 parchi più grandi). Secondo una leggenda, il nome Lucento deriva dallo scintillio delle baionette dei soldati durante l'assedio del 1706 alla nostra città, ma molto probabilmente il nome deriva da tal Guglielmo da Lucento che nel 1227 aveva qui un fondo. Il nome deriva quindi da un “prediale”, come Bertolla e Campidoglio.

Madonna del Pilone

Posto al confine nordorientale della città, in zona precollinare e collinare, questo borgo ha una storia raccontata dallo storico ottocentesco Luigi Cibrario in “Storia di Torino”. Il pilone di cui si parla era una nicchia in cui era custodita un'immagine della Vergine. Il 29 aprile 1644 una donna di nome Margherita Molar si recò al mulino lì vicino con la figlia di undici anni, che a un certo punto scivolò e finì tra le pale del mulino. Mentre la gente accorsa tentava di salvarla ma disperava di vederla viva, alla madre parve di vedere la Madonna che l'aiutava e poco dopo la bambina emerse dalle acque. I fedeli vi fecero quindi erigere una cappella in ricordo del miracolo, poi divenne una chiesa grazie alle donazioni di nobili e reali che vi si appellavano per avere figli.

Madonna di Campagna

Si trova nella periferia nordovest di Torino, e confina anche con Lucento. Un tempo la denominazione in latino di “Campania Taurini” indicava tutta la zona rurale a ovest della città, compresi i territori di Pianezza e Rivoli. Nei pressi dell'attuale Chiesa, secondo notizie storiche c'era nel Trecento un capitello votivo dedicato alla Madonna. Nel 1567 i cappuccini vi stabilirono il loro convento provinciale, mentre nel 1657 Madama Cristina aiutò i padri ad ampliare la costruzione della chiesa. Qui si combattè poi una cruenta battaglia dell'assedio di Torino del 1706, vinta dai torinesi contro i francesi il 7 settembre.

Mirafiori

Oggi è suddiviso in due quartieri distinti, Mirafiori Nord e Sud, ma la storia, soprattutto del nome, è la stessa. La parte a ovest fu nel Duecento abitata da alcuni monaci benedettini cistercensi, qualche decennio dopo fu eretta la fortificazione del Drosso, al confine con Beinasco. Il nome Mirafiori deriva dal Castello di Miraflores (o Millefiori), di cui oggi restano solo le fondamenta: fu fatto costruire nel 1580 sulle rive del Sangone, sui resti di una villa detta La Pellegrina, rivenduta ai Savoia. Il castello, con tanto di giardini fioriti, fu un dono di Carlo Emanuele I alla moglie Caterina d'Asburgo e di Spagna (per questo il nome in spagnolo), nel 1585. Il declino della tenuta iniziò nel '600, quando i Savoia si trasferirono a Venaria, e finì nell'Ottocento, con l'abbandono di Bela Rosin e la costruzione del mausoleo a lei dedicato alla sua morte.

Nizza Millefonti

La storia di questo quartiere nella periferia sud di Torino inizia nel Seicento, con l'ampliamento della città oltre la barriera doganale che c'era dove ora sorge piazza Carducci, e che all'epoca prendeva il nome dalla via che dal centro di Torino portava alla strada per la costa francese: “Barriera Nizza”. Nella zona vi erano dei piccoli mulini sul Po, da cui le Molinette, e in tempi remoti anche moltissime sorgenti sotterranee connesse al fiume: le mille fonti, appunto.

Parella

Situato nella periferia ovest della città, borgata Parella ha una storia che risale al Medioevo. Tra le cascine della zona ce n'era una costruita per la famiglia Conterno ma nel '400 acquistata e ampliata da dei nobili canavesani, i marchesi San Martino di Parella. Della Cascina Parella, passata poi ai Savoia e infine ai Mergozzo, resta solo l'arco di ingresso, il resto è stato demolito negli anni Sessanta, ma nel 1556 qui dimorò anche Nostradamus.

Pozzo Strada

Questo borgo si trova nella periferia ovest della città, al confine con Grugliasco. Nonostante la sua posizione periferica, la storia di Pozzostrada è molto antica: già nel 930 un documento ufficiale parlava di una strada che congiungeva la Porta Segusina della città con Grugliasco e Rivoli e che passava da questa zona, dove sorgevano alcune case, un pilone con un'immagine sacra e un pozzo. Nel XII secolo furono poi trovati altri due pozzi a rafforzare il nome di Puteum Stratae.

Ed è del 1104 la leggenda del cieco di Briançon che qui ebbe una visione dalla Madonna che gli indicava dove trovare un'immagine sacra nei sotterranei della chiesa di Sant'Andrea, oggi il Santuario della Consolata.

Rebaudengo

Situato nella parte nord di Torino, vicino a Barriera di Milano e Borgata Vittoria, il quartiere Rebaudengo ha una storia piuttosto recente per quanto riguarda il suo nome, o meglio cognome. Il suo centro nevralgico e spirituale, oltre che sociale, è l'oratorio salesiano che si trova in corso Vercelli: fu costruito tra 1929 e 1934 su progetto dell'architetto salesiano Giulio Valotti e finanziato quasi interamente da un senatore del Regno d'Italia, il conte Eugenio Rebaudengo, cattolico sociale nato a Torino nel 1862 e parlamentare per tre legislature, prima di morire nel 1944 a Guarene, proprio dove cinquant'anni dopo è nata la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. In questo borgo restano ancora le tracce dell'antica cinta daziaria cittadina del 1912.

Regio Parco

Posto a nord est del centro città, è un quartiere “operaio” con un nome nobile. Oggi qui si trova il Parco della Colletta, tra i più grandi di Torino, ma fu nel XVI secolo che Emanuele Filiberto acquistò dei terreni boschivi alla confluenza di Dora e Stura nel Po. Vi fece realizzare anche un castello, detto Viboccone o Palazzo delle delizie, distrutto dai francesi durante l'assedio di Torino del 1706: qui sono poi sorte le Regie Manifatture Tabacchi, già nel corso del XVIII secolo, mentre parte dell'area del regio Parco fu adibita nel 1829 a quello che oggi è il cimitero monumentale.

San Donato

Questo borgo si trova a nordovest del centro città. Abitato fin dal Medioevo da famiglie di soldati e mercanti, fu chiamato per secoli borgo del martinetto, per i pistoni attivati dai canali d'acqua derivati nel quartiere. È dal 1835 che ha preso il suo nome dall'antica chiesa dedicata a Donato d'Arezzo, distrutta nel 1536 durante un assedio francese e ricostruita nel 1855 con il nome di Immacolata Concezione e San Donato.

San Paolo

Nel Novecento borgo San Paolo è stato uno dei simboli della storia operaia di Torino. Ma la storia di questo quartiere a ovest della città risale a molto prima. Nel Seicento, i proprietari delle terre erano i conti liguri Olivero, che nel 1699 cedettero un'area nel nord est del quartiere ai gesuiti per costruirvi una casa di preghiera. Il progetto fu sostenuto a livello economico dalla Compagnia delle opere pie di San Paolo, sorta di antenata dell'istituto bancario. L'identità industriale del quartiere prese corpo a fine Ottocento.

San Salvario

Oggi è uno dei borghi più frequentati dai torinesi, soprattutto per i locali che ne animano la vita notturna. Ma storicamente San Salvario è stato un quartiere “periferico”, quando la città era molto più piccola. Abitato fin dalla tarda epoca romana, nel Seicento è qui che Madama Cristina fece erigere una chiesa per la residenza di campagna del Parco del Valentino. La chiesa, dedicata a Cristo, era nota appunto come “San Salvatore di Campagna” o “San Solutore”. La pronuncia piemontese ne ha modificato il nome fino alla versione appunto di Salvario, o Salvari in dialetto.

Santa Rita

Questo quartiere nella parte sud ovest della città è stata per secoli una zona agricola ricca di poderi e cascine. Nell'Ottocento piazza Santa Rita divenne sede della Barriera di Orbassano nella cinta daziaria, ma il nome del quartiere risale al Novecento. Nel 1916 un giovane prete impegnato nella guerra dimorò nella scuola Mazzini. Dopo il conflitto fu ordinato prete nella chiesa di san Secondo, ma si impegnò per la realizzazione di una nuova chiesa nel quartiere divenuto ormai popoloso. Grazie anche all'aiuto della Compagnia di Santa Rita, fu edif

Sassi

Quella che oggi chiamiamo Borgata Rosa-Sassi, a nord est della città, ha un'origine molto antica. A differenza della pianura, infatti, la zona collinare era abitata già in epoca remota. Qui sorgevano feudi e contadi, dediti soprattutto alla viticoltura e alle vigne. Tra le ville e cascine più importanti una era quella del Monasterolium (Mongreno), l'altra era la cosiddetta villa (o vicus) Saxiarum, residenza dei conti di Sassi nella valle anticamente detta “Saxea”.

Vallette

Situato nella periferia nordovest di Torino, le Vallette sono un quartiere la cui storia è strettamente legata a quella del vicino borgo Lucento. Nella storia rurale di questa zona, sorgeva l'insediamento della famiglia patrizia di origine romana dei d'Aviglia, fin dal tardo Medioevo. La villa si trovava sull'antica strada ad Valletas: fu abbandonata e ricostruita in un altro punto nel 1634, già con il nome di “Le Vallette”.

Vanchiglia

A due passi dal centro di Torino, Vanchiglia è uno dei borghi più ricchi di storia di tutta la città. Abitato fin dal Medioevo, l'etimologia del suo nome è legata ad appellativi storici come Wanchillia, Val Quilia, Vinquilla o Vinchilla. L'etimologia del nome è incerta, ma le quattro ipotesi principali riguardano tutte il suo aspetto geomorfologico. Potrebbe derivare dal salice “vench”, molto abbondante storicamente nella zona (e quindi un insieme di vench forma una vanchiglia). Oppure dai giunchi presenti nella valle, o dalla fanghiglia che ricopriva il terreno. C'è anche l'ipotesi derivata dalla voce latina “vallis aculia” cioè appuntita, per l'area alla confluenza tra Po e Dora. Infine, un'ipotesi rimanda il toponimo a un'origine germanica, dal termine wald che significa bosco.

Villaretto

Questo borgo si trova nella periferia settentrionale di Torino, al confine con Borgaro. La sua posizione isolata oltre lo Stura ne ha consentito la conservazione nei secoli del patrimonio architettonico originario: il nome del quartiere rimanda infatti alla sua natura di piccola villa, ovvero di piccolo borgo rurale.

 

“Glielo diamo noi il Medioevo a Torino”: la nascita del Borgo medievale.

 

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Torino è una città in cui l’architettura medievale spicca per la sua assenza: si salta direttamente dal periodo romano al periodo barocco, con pochi rari esempi di edifici di epoca intermedia. E’ forse per questo che in occasione della esposizione universale

È sorto per caso, quasi per capriccio, lungo il Po, come risultato d’una discussione in un ritrovo del centro, la sera dell’8 maggio 1882. Attorno a un tavolo sedevano De Amicis, Giacosa. Carnerana, D'Ovidio,Teja, Arnulfi e altri illustri personaggi. Scegliere alcune epoche caratteristiche, magari lontane tra loro, diversissime per espressione artistica, ed esternarle tutte insieme in un’opera architettonica: ecco che cosa proponevano gli uomini raccolti quella sera nella saletta d’un caffè torinese. De Amicis incalzava: «Ma quali epoche allora?», e Giacosa ribatteva: «Scegliamo piuttosto un’epoca sola, una su cui possiamo trovarci tutti d’accordo e che possa interessare l’intero Piemonte, come ha detto bene D'Andrade». E Alfredo D’Andrade, che poco prima aveva soverchiato tutti con la sua voce parlando di Corot e di Rayer, assentiva. Qualcuno trasse di tasca pochi fogli e vennero abbozzati schizzi e progetti sul singolare quartiere che avrebbe riecheggiato fedelmente l'epoca prescelta all’unanimità: il Medioevo. Così nacque, quasi per una scommessa, il Borgo Medievale.

 

Le fasi dell’espansione urbanistica di Torino fino all’Ottocento

 

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il primo e il secondo ampliamento

La città che Emanuele Filiberto trova nel 1563, anno in cui Torino diviene capitale dei suoi territori, non è più grande della città romana, la «città quadrata». Al castello, eretto da Amedeo VIII, ai bastioni aggiunti da suo figlio Ludovico e alla nuova cinta realizzata dai francesi nel 1538, il duca aggiunge la Cittadella e tre altri bastioni, ma nulla muta nella sua forma urbana. Le prime trasformazioni del tessuto medioevale sono volute da Carlo Emanuele I su disegno di Ascanio Vitozzi (piazza del Castello porticato, 1606, contrada Nuova, ora via Roma, 1612, contrada Nuova, ora via Palazzo di Città, 1619), in seguito verranno rese regolari la contrada di Porta Palazzo e relativa piazza, oggi via Milano e piazza della Repubblica, e la contrada Susina, oggi via Corte d’Appello (Filippo Juvarra, 1729). Il processo di riplasmazione delle preesistenze medioevali si conclude con la ricostruzione (1736) della contrada di Dora Grossa, oggi via Garibaldi, e della piazza del Palazzo di Città (1756) su progetti di Benedetto Alfieri.

Il primo ampliamento, giocato sull’asse della contrada Nuova (via Roma), che viene proseguito, e sulla piazza Reale (oggi San Carlo) realizzata in un secondo tempo (1638) sul sedime della vecchia cinta ormai inutile, vede una trama urbana molto diversa dalle strette vie medioevali che nella città antica avevano disgregato il tessuto di origine romana. Ampie strade ortogonali definiscono vasti isolati in cui si insediano numerosi conventi (i Filippini, gli Agostiniani Scalzi di San Carlo, le Carmelitane di Santa Cristina, le Convertite, la Visitazione...), importanti palazzi nobiliari (Solaro del Borgo, Gonteri di Cavaglià, Beggiami, Ferrerò d’Ormea...), nuclei commerciali (le botteghe della contrada Nuova).

Il secondo ampliamento della città, solcato dalla contrada di Po, preesistente e orientata verso il ponte sul fiume, con andamento obliquo rispetto alla maglia degli isolati, prevedeva come baricentro una piazza ottagonale. Realizzata in forma quadrangolare, l’odierna piazza Carlo Emanuele II, venne destinata al mercato del vino, mentre il cuore commerciale del quartiere si collocava lungo via Po. In questa nuova parte di città trovarono spazio - come si è già sottolineato - le grandi istituzioni assistenziali, il ghetto ebraico e numerosi conventi, ma anche una fitta rete di palazzi sede di grandi famiglie nobiliari: Roero di Guarene, Coardi di Carpeneto, Dal Pozzo della Cisterna, Birago di Borgaro, Morozzo della Rocca.

L’area da piazza San Giovanni a piazza Carlina comprende il primo ampliamento della città (1620) e gran parte del secondo (1673), definendo una zona della città dove si segnala la fittissima presenza di grandi residenze nobiliari realizzate fra il XVII e il XVIII secolo, a cui si aggiunge qualche intervento successivo in zone non edificate o in sostituzione di preesistenze.

il terzo ampliamento

Il terzo ampliamento di Torino, nel segno della città-fortezza, ormai destinata a diventare capitale di un Regno, prende le mosse nel 1702 con la costruzione della cinta bastionata fuori Porta Susina e Porta Palazzo. Nel 1712 il disegno per la trama degli isolati è già pronto, l’area viene strutturata intorno alla piazza Susina, oggi piazza Savoia, in cui si intersecano ortogonalmente la via della Consolata e la contrada Susina. Numerosi interventi qualificano questa parte di città creata ex novo: i Quartieri Militari, la chiesa del Carmine e il palazzo Martini di Cigola per mano di Filippo Juvarra, il palazzo Saluzzo Paesana su progetto di Gian Giacomo Plantery.

il quarto ampliamento

Con l'abbattimento dei bastioni ordinato da Napoleone si posero le basi per lo sviluppo edilizio verso il fiume e la realizzazione dell’odierna piazza Vittorio Veneto, progettata nel 1825 in luogo della grande esedra alberata, lascito, con il ponte, del dominio francese. Con l’abbattimento dei bastioni e il tracciamento dei viali secondo il piano del 1817, venne resa possibile la costruzione dell’area compresa fra la città barocca e il Viale del Re, l’odierno corso Vittorio Emanuele IL Alla realizzazione della parte nord di piazza Carlo Felice (Gaetano Lombardi, 1822) seguì la lottizzazione a ville e palazzine lungo il viale, spesso arretrate e precedute da un giardino, secondo una configurazione purtroppo oggi perduta a causa del successivo sviluppo edilizio. Nell’area retrostante, accidentata per via dei dislivelli creati dagli antichi bastioni, venne decretata la costruzione del Giardino dei Ripari, sotto la cui promenade alberata passava via Accademia Albertina. Nella strada, all’epoca detta per questo motivo via dell’Arco, si trovavano, fra l’altro, gli stallaggi per i cavalli da posta. Ridotto poi dalle ulteriori lottizzazioni all’aiuola Balbo e all’area di piazza Cavour, il giardino rimase cuore di uno dei quartieri più eleganti della città, costruito negli anni trenta e quaranta dell’800. I palazzi, di volumi contenuti e improntati a chiari stilemi neoclassici, furono commissionati soprattutto dalla borghesia fatta di ingegneri, architetti, medici, impresari. Nel quartiere venne decisa anche la costruzione di un teatro e di una chiesa. Quest’ultima fu realizzata dal Sada nel 1844, con toni che ci riportano alle grandi capitali neoclassiche del Nordeuropa, mentre il teatro (oggi cinema Nazionale), originariamente previsto in piazza Maria Teresa, venne edificato nel 1847, con la capacità di 2000 posti, al fondo di via Pomba.

il quinto ampliamento

La decisione di demolire la Cittadella filibertiana e di rendere edificabili i terreni da trecento anni dedicati alla difesa della città venne presa alla metà del XIX secolo. Il piano urbanistico dell’area, proposto nel 1853 da Carlo Promis, prevedeva un grande sistema di portici a collegamento di piazza Statuto e corso Vittorio Emanuele II attraverso corso San Martino, via Cernaia, piazza Solferino e corso Re Umberto I. La realizzazione, sancita dal piano Pecco del 1837, tralasciò parte del sistema di portici, ma sancì il viale alberato come elemento interno alla città (il corso Vinzaglio, ad esempio) e non soltanto di perimetro. L’ampliamento è caratterizzato anche da nuovi giardini (quelli della Cittadella, Lamarmora e di piazza Arbarello, in cui vennero lasciati alcuni piccoli tasselli delle alberate preesistenti) e dalla linea ferroviaria per Milano con la stazione di Porta Susa. A sud dell’area della cittadella, definita dagli attuali corsi Matteotti, Re Umberto I, Stati Uniti e Vinzaglio, giaceva dal 1847 la grande spianata della piazza d’Armi, impedimento alla prosecuzione del Viale del Re. Il suo spostamento, avvenuto nel 1872 nella zona antistante l’attuale Politecnico, rese quindi edificabilc una grande porzione di terreni. Teatro di sperimentazione dell’Eclettismo, come era già avvenuto nell’ampliamento della ex Cittadella, l’area a cavallo del Viale del Re vide sorgere ville e palazzine nel lato sud, e grandi palazzate porticato sul lato nord.

La parte di città a ovest della ferrovia per Milano, accolse, a partire dagli anni ’6o dell’800, i grandi servizi urbani: le Carceri Nuove (1862), il Mattatoio civico (1866), il Mercato del bestiame (1870), le caserme Lamarmora, Sani e Pugnani, l’officina delle strade Ferrate (1884). Il piano urbanistico per la zona vicina, rivolta a corso Francia, venne steso nel 1868, ma l’edificazione fu per gran parte successiva, a cavallo tra ’8oo e ’goo, dando luogo a numerosi e importanti esempi del Liberty italiano.

 

L’età romana e il Medioevo a Torino

 

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Un conto è avere qualche reminescenza scolastica su una certa Augusta Taurinorum, un conto è rendersi davvero conto che questa città non è nata moderna, ma lo è diventata. La percezione comunemente diffusa è infatti quella che nella storia otto e novecentesca, che ha visto il Risorgimento, l’Unità d’Italia, e poi la FIAT e la città industriale con i suoi conflitti politici e sociali, si riassuma gran parte dello spirito di Torino. Anche la storia sabauda sta spesso sullo sfondo della memoria collettiva, per i suoi caratteri tutto sommato poco italiani. Ma Augusta Taurinorum è esistita davvero. Intorno al 27 a.C. Roma aveva bisogno di dare un’organizzazione amministrativa e logistica a un territorio situato ai piedi dei valichi alpini per farne un avamposto verso le Gallie. Costruì dunque un accampamento fortificato su un preesistente insediamento sulle rive del Po.

Che cosa resta di questa colonizzazione? Certamente rimpianto ortogonale a scacchiera tagliato a croce da due arterie principali: il cardo e il decumano. Il cardo corrisponde alla via Porte Palatine, il decumano all’asse di via Garibaldi. Il perimetro dell’accampamento era delimitato dalle attuali vie Giulio a nord, Consolata e corso Siccardi a ovest, Cernaia, Santa Teresa e Maria Vittoria a sud e Accademia delle Scienze, piazza Castello e i Giardini Reali a est. Ed ecco le Porte Palatine, la porta principalis destra della cinta romana da cui usciva la strada che portava in Lomellina e al Ticino (altre due torri romane sono incorporate nella facciata di palazzo Madama, e costituivano l’antica porta decumana). È il resto più imponente, di recente liberato dall’invadenza dei parcheggi e restituito a una sua doverosa dignità, da cui partono ampi tratti delle mura di cinta che spariscono per affiorare in altre zone, ad esempio nel perimetro della chiesa della Consolata. Nei pressi delle Porte Palatine si trovano le rovine del teatro del I secolo, ampliato nel II e III secolo d.C. fino a raggiungere ragguardevoli dimensioni, complessità progettuale, ricercatezza tecnica e una capienza di circa 3500 posti. Continuando nella ricerca delle tracce più antiche, e limitandosi a quelle effettivamente visibili, per quanto residuali, si troveranno un frammento decorativo a palmette e un’iscrizione votiva che sembrano attestare il culto di Iside nella zona allora extraurbana del Mastio della Cittadella; tratti di un muro largo 97 cm in opus listatum all’interno del cortile del Burro, dentro Palazzo di Città; frammenti di statue bronzee, ritenuti resti di un monumento equestre; un sepolcreto nella zona di Porta Susa, scoperto proprio mentre si gettavano le fondamenta della stazione (1854-1855), con alcune anfore cinerarie contenenti ceramica figulina, vetri, oggetti in bronzo, ferro e avorio, monete imperiali; un frammento di stele marmorea della prima metà del I secolo recuperato in piazza Castello nel 1925 e attualmente conservato a Palazzo Madama che presenta una lupa che allatta i gemelli nel contesto di un paesaggio roccioso. Non si tratta, con ogni evidenza, di pezzi pregiati, ma di semplici tasselli utili a ritessere la trama di un passato storico che si presenta discontinuo e frammentario almeno fino al XIV secolo.

Anche i resti medievali non abbondano: poco è rimasto del Medioevo nell’architettura di Torino. La ristrutturazione della città voluta da Emanuele Filiberto spazzò via la vecchia città medievale per sostituirla con una città rinascimentale-barocca.

Tra le cose più interessanti c’è un mosaico acromo di epoca romanica ritrovato nella chiesa di San Salvatore, ora protetto da una piramide di vetro ai piedi del campanile del Duomo. Al centro del mosaico si trova l’immagine della fortuna, raffigurata nell’atto di far girare una ruota che determina le sorti dell’uomo. La ruota è circondata da una serie di cerchi contenenti animali vari, a loro volta cinti dal gran cerchio ondulato dell’oceano, punteggiato da isole, mentre ai quattro angoli del quadrato esterno soffiano i venti. L’unico esempio di architettura gotica in città è la trecentesca chiesa di San Domenico, nella via omonima, con il suo ciclo di affreschi nella cappella delle Grazie posta al di sotto del campanile e una bellissima Annunciazione. Andando in giro nelle vie intorno al municipio, si vedono occhieggiare qua e là bifore incastonate nelle case più antiche, ma niente di più. E anche dei secoli XV e XVI, se si eccettuano la facciata del Duomo e il bel palazzo affrescato Scaglia di Verrua in via Stampatori, è rimasto ben poco.

Un intrigante complesso di cortili in origine medievali si trova nell’isolato intitolato a Sant’Ottavio, nel cuore della Torino più antica, costituito per circa un quarto dal palazzo Vailesa di Martirana, e per il resto da edilizia residenziale storica di minor prestigio. Questa porzione dell’isolato è stata completamente ristrutturata negli anni 1983-85 dall’ufficio Tecnico dei Lavori Pubblici del Comune di Torino, con il coordinamento dell’architetto F. Novara. Il recupero, oltre a portare gli edifici - di origine tardomedioevale con successive trasformazioni in epoca barocca - agli standard abitativi attuali, ha valorizzato il sistema di percorsi interni fra cortile e cortile, attraverso passaggi e porticati, ricercando un nuovo contatto fra il tessuto interno dell’area e la strada.

Un altro edificio medievale è la Casa del Senato. La casa si trova tra piazza delle Erbe e il Duomo, nel cuore medievale della città. Dell'impianto dell'edificio, di quattro piani fuori terra, restano alcuni elementi litici di reimpiego romani nei pressi dell'ingresso, e, all'ultimo piano, finestre con elementi in cotto, databili tra il secolo XIV e il secolo XVI.

Gli elementi decorativi e architettonici furono riportati alla luce alla fine del secolo XIX da Riccardo Brayda, nell'ambito del progetto di riscoperta di antichità cittadine. Lo stesso Brayda supponeva che la casa fosse stata sede della Vicaria (ufficio con funzioni giudiziarie) dopo che era stata abbandonata l'antica sede degli uffici, situati all'interno del castello di Porta Fibellona, diventato ormai luogo di residenza della corte e non più fortezza. I rilievi e gli scavi eseguiti da Brayda indicano che l'edificio probabilmente era anche dotato di una torre merlata. La facciata in trompe d’oeil con una edicola della vergine è molto particolare.

Cosa succedeva a Torino in quei secoli? Che cosa andava maturando, se da questa penuria ha potuto svilupparsi, nel secolo XVII, l’improvvisa fioritura barocca che ha impreziosito la città portandola all’onor del mondo?

«Tutto questo tratto di paese, poco fa bellissimo, è ridotto a tali termini che non si conosce più quale sia stato. Incolto, senza gente per le città, senza uomini e senza animali per le ville, imboschito tutto e selvatico. Non si vedono case, che il più furono abbruciate; della maggior parte dei castelli appaiono i muri soltanto; degli abitanti chi è morto di peste o di fame, chi di ferro, chi fuggì altrove, volendo piuttosto mendicare il pane fuori di casa che in essa sopportare travagli peggiori della morte». Così un ambasciatore veneziano descriveva lo stato del Ducato Sabaudo intorno alla metà del Cinquecento. Era un periodo estremamente turbolento e tragico, nel quale il Piemonte fu al limite di una annessione non dichiarata alla Francia. Il momento di svolta si colloca simbolicamente al momento del passaggio della capitale del ducato da Chambéry a Torino e il deus ex machina ha il volto di Emanuele Filiberto detto “Testa di Ferro” (1528-1580), vincitore sui francesi a San Quintino nel 1557. Politica ed eserciti a parte, meno appariscenti ma fondamentali segnali del risveglio civile e culturale, quali la riapertura dell’università a Torino nel 1566 e l’adozione della lingua italiana negli atti pubblici, indicavano che l’accampamento romano di frontiera, il borgo medievale inselvatichito stava muovendo i primi passi lungo la strada che l’avrebbe portato, tre secoli dopo, a diventare la futura capitale d’Italia.

 

La nascita di Torino capitale sabauda e l’architettura barocca

 

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Il progetto di una nuova capitale

Divenuta nel 1563 capitale del Ducato di Savoia, Torino – fino allora racchiusa all'interno dell'antico castrum romano – con Carlo Emanuele I (1580-1630) conobbe il suo primo ampliamento urbanistico. Per circa tre generazioni l’attività edilizia fu soprattutto in mano agli architetti Ascanio Vittozzi, Carlo di Castellamonte e suo figlio Amedeo, fino a Guarino Guarini, Filippo Juvarra, Benedetto Alfieri e Bernardo Antonio Vittone.

Il modello architettonico, urbanistico e territoriale che nel periodo barocco caratterizza Torino quale capitale europea, si fonda sui nuovi modelli spaziali dell`Assolutismo, che diedero in Europa le città-capitali come inedite strutture di comunicazione e di segni, con marcata presenza di valori simbolici. In questo senso sono importanti per il Piemonte sabaudo non soltanto le realizzazioni, ma anche il lucido "progetto di comunicazione" costituito dall`impresa editoriale del Theatrum Sabaudiae (1682).

Il periodo Barocco appare dunque caratterizzato, anche in Piemonte, da una forte integrazione tra politica, architettura, urbanistica, arte e retorica di corte, e trova nelle chiese di protezione ducale e regia, nelle congregazioni religiose, nelle residenze auliche della corte, dal Palazzo Reale alla corona di delizie extraurbana, negli esiti urbanistici delle vie e delle piazze porticate progettate a specchio del Potere sovrano, nei palazzi nobiliari e nelle vigne collinari, il filo conduttore che contraddistingue una società colta ed evoluta, capace di coniugare architettura e arte.

Il Seicento

Del primo ampliamento di Torino venne incaricato Ascanio Vitozzi (1539-1615) con la sistemazione di Piazza Castello, intorno alla quale si svilupparono i nuovi quartieri della città; i lavori furono portati avanti da Carlo di Castellamonte (1560-1641), che dal 1621 continuò lo sviluppo verso sud dell'abitato secondo un sistema di assi tra loro ortogonali. Al medesimo architetto si deve la formazione della vasta Piazza San Carlo (Piazza Reale), uno spazio derivato dalla place royale francese, con ai lati della direttrice principale due chiese gemelle.

Amedeo di Castellamonte (1610-1683), figlio di Carlo, pianificò lo sviluppo della città verso est. Nel 1673 fu iniziata la realizzazione di una strada per unire piazza Castello alla Porta di Po; lungo la via vennero eretti palazzi porticati dal disegno uniforme, mentre verso il fiume la strada fu conclusa con un'esedra, simbolico riferimento all'apertura della città verso il territorio circostante.

Guarino Guarini (1624-1683) portò a termine la Cappella della Sacra Sindone, iniziata proprio dal Castellamonte sul retro del Duomo. Tra il 1668 ed il 1680, costruì la chiesa di San Lorenzo.

Le straordinarie invenzioni del Guarini trovarono applicazione anche ai temi dell'architettura civile: suo Palazzo Carignano, basato su una pianta a U, che presenta una monumentale facciata convessa, sporgente su entrambi i lati dell'edificio.

Il Settecento

Nel 1714 Filippo Juvarra, divenuto Primo Architetto Reale di Vittorio Amedeo II - re di Sicilia e dal 1722 di Sardegna – venne chiamato a Torino per un grandioso progetto di riqualificazione urbana per la capitale del nuovo regno. Moltissime furono le opere di quegli anni: la facciata della chiesa di Santa Cristina (1715), la Basilica di Superga (1716-1731), uno dei suoi capolavori, costruita per un voto del re, le chiese di San Filippo Neri e del Carmine (quarto decennio del secolo) e una serie di grandiosi progetti, a pianta centrale e longitudinale, per un nuovo Duomo.

Tra gli edifici civili si ricordano i grandiosi disegni per una corona di delitie che circonda la capitale, tra cui il castello di Rivoli (1718), che avrebbe dovuto dominare un imponente giardino fatto di terrazze su più livelli; la Palazzina di caccia di Stupinigi (1727), dall’impianto ovale che si espande a croce di Sant’Andrea verso i giardini, e la reggia di Venaria Reale, con la Grande Galleria e la chiesa di Sant'Uberto.

Risale al 1718 invece la facciata di Palazzo Madama, frammento di un ambizioso programma di rinnovamento monumentale del centro antico della città.

Continuatori dell'architettura di Juvarra furono Bernardo Antonio Vittone, che ne continuò la linea barocca, contaminandone lo stile con quello di Guarini, e Benedetto Alfieri, che ne seguì le istanze classicistiche.

 

fonti:

Renzo Rossotti, Guida insolita di Torino

 

La Grande Galleria di Piazza Castello

 

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La manica di collegamento tra il Castello di Torino (Palazzo Madama) e l’antico Palazzo del vescovo (abbattuto per edificare Palazzo Reale) era originariamente costituita da un piano terreno porticato e da un primo piano coperto, e serviva da passaggio sicuro tra le due principali sedi del potere cittadino. Quando Emanuele Filiberto (1528-1580) trasferì la capitale del ducato da Chambéry a Torino (1563) e fissò la sua residenza nel palazzo vescovile, questo ambiente divenne parte integrante della dimora del duca.

Il primo vero intervento di decorazione della galleria venne commissionato, dal 1587, dal duca Carlo Emanuele I (1562-1630) al pittore Giovanni Caracca (l’olandese Jan Kraeck attivo alla corte sabauda dal 1568 al 1607). Il sovrano affidò un successivo e più ambizioso progetto di allestimento al pittore Federico Zuccari (1539-1609). L’artista elaborò per la volta una complessa rappresentazione di quarantotto costellazioni e per le pareti una sequenza di monumentali ritratti equestri della dinastia. Questo progetto però venne realizzato solo nella parte relativa alle immagini celesti della volta che vennero dipinte da Guglielmo Caccia detto il Moncalvo (1568 ca.-1625). I dipinti che dovevano illustrare la genealogia sabauda vennero invece confinati nella parte alta delle pareti, per lasciare spazio nella parte inferiore ad armadiature che dovevano accogliere la ricca collezione di libri e oggetti del sovrano: la manica assunse così una duplice funzione di biblioteca e di museo.

La galleria fu distrutta da un incendio nel 1659; successivamente venne ricostruita per essere definitivamente demolita nel 1801 in epoca francese.

La collezione di libri e oggetti rari raccolta dal duca Carlo Emanuele I di Savoia (1562-1630) venne ordinata, secondo l’uso delle principali corti europee, nella Grande Galleria. Per sistemare degnamente la sua collezione il duca fece modificare il progetto di allestimento, incentrato sulla celebrazione della dinastia sabauda, ideato dal pittore Federico Zuccari, e fece sistemare intorno al 1607 nella galleria undici armadiature per lato. Ogni mobile era tripartito e contrassegnato da un cartiglio che indicava la disciplina alla quale erano riconducibili gli oggetti che vi erano ospitati. La lettura dell’inventario della biblioteca ducale, compilato nel 1659 dal protomedico e bibliotecario Giulio Torrini, può aiutare ancora oggi a ricostruire idealmente gli interessi collezionistici del sovrano che miravano ambiziosamente a racchiudere in questo luogo l’intero “teatro del mondo” e spaziavano dai bronzi dell’antichità classica agli strumenti tecnici e scientifici e alle curiosità naturalistiche. Le collezioni sono state disperse a causa delle successive trasformazioni della Galleria e dalla sua definitiva demolizione nel 1801. È però ancora possibile riconoscere nei musei e nelle biblioteche torinesi alcuni oggetti che vi erano conservati, come i celebri volumi di antiquaria di Pirro Ligorio (oggi Torino, Archivio di Stato).

Nel 1659 un grave incendio la distrusse quasi completamente. Fu parzialmente ricostruite, ma Napoleone la smantellò definitivamente

 

L’architettura neoclassica

 

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Nel corso dell’Ottocento Torino assume nuove funzioni, diventa centro amministrativo e di servizi, polo commerciale e cuore dei cambiamenti che porteranno a moti, riforme e unità del Paese. Un rinnovamento che si manifesta con evidenza nel disegno degli ampliamenti urbani e nelle nuove architetture, pubbliche e private.

Le trasformazioni di cui è protagonista Torino durante il dominio francese (1800-1814) e il successivo ritorno dei Savoia interessano molteplici aspetti: dall’assetto territoriale alle innovazioni politiche, economiche, culturali e architettoniche. I mutamenti urbanistici traggono origine dalla demolizione della cinta muraria e dei bastioni, e nella creazione di grandi viali alberati e di ampie piazze, nuovo teatro dei commerci e della vita pubblica. Piazza Vittorio Emanuele I (poi Vittorio Veneto, realizzata tra il 1825 e il 1830), viale del Re, Borgo Nuovo, Borgo Vanchiglia e, nel tempo, gli isolati più eccentrici, assumono un aspetto che sottolinea il nuovo ruolo della capitale del regno. Anche lo stesso rientro del re, simbolicamente, avviene proprio attraverso il ponte sul Po appena costruito (1808-1814).

La scala architettonica è quella maggiormente investita dal ritorno all’antico. Uno stile “neoclassico”, quindi, simbolo di ordine e rigore, ma anche di maestosità e “bellezza” che si traduce in archi, colonnati, lesene su fronti architettonici alti e uniformi, spesso sovrastati da timpani o frontoni: edifici pubblici (il Regio Manicomio, 1828-1837, e il primo nucleo del cimitero monumentale, 1828) e privati, ma anche religiosi (Tempio della Gran Madre di Dio, 1818-1831, vero simbolo del Neoclassicismo a Torino, e il pronao della chiesa di San Filippo Neri, completato da Talucchi secondo i disegni juvarriani nel 1891). Protagonista della fase tardo-neoclassica a Torino e anello di congiunzione con l’architettura dell’Eclettismo è Alessandro Antonelli (1798-1888), che opera principalmente in Borgo Nuovo e in Vanchiglia, legando il proprio nome, soprattutto, alla realizzazione della propria abitazione (1846-1850), della casa Scaccabarozzi (la “fetta di polenta”, 1840-1881), e della Mole (1862-1888).

Il neoclassico, a Torino, è sotto il segno del bolognese Pelagio Palagi. Quella di Palagi, nella Torino di Carlo Alberto, è una sorta di dittatura estetica: plasma gli interni di Palazzo Reale, imponendo il suo gusto a tutta l'aristocrazia piemontese; disegna la splendida cancellata, degna di Versailles, che separa il Palazzo dalla piazza Castello; proprio lì a fianco progetta, affresca, arreda la fascinosa Biblioteca Reale; fonde il concitato, romantico monumento al Conte Verde davanti al municipio, uno degli angoli che, alla pari di piazza Carignano, sembrano più conformi all'anima profonda della città.

 

fonti:

http://www.museotorino.it/view/s/c6b496fd9d3c4fcd86172e90e7b6a705

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, versione eBook, posiz. 39,5 ss.

 

L’architettura industriale

 

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Il Lingotto Fiat

 

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Vedi il relativo articolo nella sezione “L’architettura contemporanea a Torino”

 

Lo straordinario tetto del Lingotto

 

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Per molti anni il cuore produttivo della FIAT è stato questo enorme edificio dallo stile razionalista, la prima vera catena di montaggio taylorista della città, nel quale sono state assemblate vetture storiche come la Topolino e la Balilla fino alla Lancia Delta, sogno proibito del tamarro anni ’80. Ora è un (ennesimo) centro commerciale, ma i suoi piani alti sono stati adibiti a pinacoteca di opere donate alla città dagli Agnelli, 23 capolavori di artisti come Balla, Canova, Picasso e Canaletto.

Se le opere d’arte non ti impressionano, esci e meravigliati della pista – con tanto di curve paraboliche – sul tetto dell’edificio, a suo tempo utilizzata per collaudare le auto FIAT assemblate ai piani bassi (la catena di montaggio si sviluppava dal basso verso l’alto). Se neppure questo ti sembra rubricabile tra i luoghi insoliti di Torino, goditi almeno la vista sull’arco alpino a 360°

 

Il Villaggio Leumann

 

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Sono in molti i torinesi che provano una certa curiosità. Per molti è una curiosità nata da qualche parte negli anni ’70, da ragazzini, passando in auto con i nostri genitori lungo Corso Francia. La periferia torinese, che non era in quegli anni particolarmente attraente o piacevole, lasciava improvvisamente posto a qualcosa che pareva uscito da un libro di fiabe, da un romanzo d’avventura, da un cartone animato Disney. Un villaggio di case dall’aspetto esotico, un cancello fiancheggiato da due torri dal tetto aguzzo, una sorta di castello, una piccola città nella grande città.

Cos’era mai quel posto? Come ci erano arrivate lì quelle case, quel frammento di bellezza insolita nel grigiore della periferia? Ce lo siamo domandati in tanti.

“Fuori era il vento della borgata Leumann, / nella bottiglia vuota si allungava / il riverbero della candela. / Veloci andavano gli aghi dei telai / Nel panno chilometrico, splendevano / I grandi vetri dei reparti notturni: / le operaie uscivano tardi/ uomini le attendevano ad ombrelli”.

(Giovanni Arpino, “Borgata Leumann”)

la rivoluzione industriale

Nel 1865 la capitale del neonato Regno d’Italia venne trasferita da Torino a Firenze. Fu, per la ormai ex-capitale, un evento traumatico non solo sul piano dell’orgoglio cittadino, ma anche sul piano meramente economico. Per arginare l’emorragia di capitali, il Comune di Torino, così come i comuni dell’area circostante, tentarono di attirare imprese e industrie, offrendo terreni edificabili a prezzi estremamente bassi. Con un certo ritardo, la rivoluzione industriale stava finalmente accelerando anche in Italia, e Torino, orfana degli uffici del governo del regno, si apprestava a diventare il principale polo produttivo della nazione.

Fra le industrie interessate a sviluppare uno stabilimento nell’area torinese c’è anche la Leumann & Figli di Voghera. L’azienda vogherese esiste da oltre vent’anni, da quando Isacco Leumann, ex operaio di origini svizzere dell’industria tessile “Fratelli Tettamanzi”, ha rilevato quell’azienda e i suoi 105 operai.

Ciò che Torino e Collegno offrono alla Leumann & Figli non è solo un terreno a costi minimi. L’area lungo Corso Francia garantisce l’accesso ad abbondanti risorse idriche — indispensabili per l’industria tessile, e la prossimità alla linea ferroviaria e alla nuova tramvia Torino-Rivoli. Torino garantisce poi un ampio bacino di operai. L’amministrazione cittadina appare inoltre più interessata a dare supporto allo sviluppo industriale rispetto a Voghera, dove la Leumann & Figli, coi suoi 500 operai, viene in generale ignorata dalle istituzioni e vista con ostilità da una parte della popolazione.

uno svizzero “illuminato” a collegno

Nel 1875 Isacco Leumann e suo figlio Napoleone trasferiscono perciò l’attività e l’azienda a Torino. Il progetto del nuovo stabilimento include fin da subito una serie di strutture di supporto: un ambulatorio medico, un lavatoio, un refettorio, un asilo infantile. I Leumann rappresentano infatti un esempio di quella imprenditorialità “illuminata” che caratterizza lo sviluppo industriale tanto in Italia quanto in Europa, e che contrasta il cliché dickensiano (spesso purtroppo confermato dai fatti) dell’industria amorale e rapace.

Nel 1887, alla morte del padre, Napoleone Leumann assume il controllo della società. Per venire incontro alle necessità dei suoi operai avvia la costruzione di quello che verrà conosciuto dai torinesi come “Villaggio Leumann”: un centro abitativo autonomo, contiguo agli impianti dell’azienda e affacciato su Corso Francia, in corrispondenza della tranvia extraurbana. Esteso su un’area di 60.000 metri quadrati, oltre alle abitazioni per gli operai e gli impiegati, per lo più villette con piano terra e primo piano con relativo giardino e orto, il villaggio comprende un Convitto per le Operaie gestito da suore, l’edificio dei bagni, un teatro, un ambulatorio medico, un ufficio postale, la Stazionetta del treno, un albergo, un asilo nido, una scuola materna ed elementare, la chiesa di Santa Elisabetta, un circolo per gli impiegati ed uno spaccio alimentare. Il progetto degli edifici, in stile liberty, viene affidato all’architetto Pietro Fenoglio. È curioso notare che la realizzazione di una chiesa in stile liberty venne considerata all’epoca un gesto inopportuno poiché “ostentava forme troppo frivole”.

oltre la crisi

Nel 1972 il cotonificio della Leumann & Figli subisce pesantemente le conseguenze della crisi del settore tessile e viene messo in vendita con tutte le strutture annesse (ma continuerà la sua attività fino al 2007). Il complesso del villaggio viene acquistato dal Comune di Collegno che negli anni successivi ne avvia la riqualificazione nel quadro di sviluppo dell’edilizia popolare. L’opera di ristrutturazione vide tra l’altro il ritorno della recinzione metallica attorno al villaggio che era stata requisita dal governo fascista durante la Seconda Guerra Mondiale.

Oggi le abitazioni sono ancora utilizzate come tali e gli edifici che ospitavano servizi hanno ancora una funzione pubblica: il Convitto delle Operaie è ora sede della Biblioteca Civica, nell’albergo si trovano due comunità alloggio e una scuola di canto, la Stazionetta, che ha svolto un servizio di informazioni culturali, sociali e turistiche fino al 2012 è attualmente utilizzata da più associazioni del territorio. Il locale dei bagni ospita il centro anziani, nell’ex spaccio alimentare è sorto un laboratorio di arti tessili, il circolo ricreativo degli impiegati è diventato sede dell’Associazione Amici della Scuola Leumann e in un’abitazione a lato del laboratorio dal 2009 è stata istituita la Casa Museo. L’ufficio postale e la chiesa mantengono invece la funzione originaria. La scuola ospita ai piani superiori cinque classi elementari, mentre il piano terra è diventato il centro di interpretazione dell’Ecomuseo Villaggio Leumann che fa parte della rete ecomuseale del progetto Cultura materiale della Città metropolitana di Torino.

In questo modo il villaggio immaginato da Napoleone Leumann e dall’architetto Fenoglio è ancora oggi vivo e vissuto, ma al contempo rimane a testimonianza di un’epoca e di una visione particolare dell’attività imprenditoriale. Nella visione di Napoleone Leumann, l’azienda è una comunità, e come tale deve avere i suoi spazi e le sue strutture. Spazi e strutture che devono sposare funzione ed estetica, entrambi elementi centrali nel garantire la qualità della vita degli operai. Elementi che portarono Napoleone Leumann ad essere considerato un industriale “socialista”, e non gli risparmiarono accuse di “paternalismo” nei confronti dei suoi dipendenti, ma che devono forse di più alla cultura protestante della famiglia Leumann che non a una specifica ideologia politica.

Come osserva Carla Gütermann, studiosa della storia del Villaggio:

All’invito Reale a prendere la cittadinanza italiana, convertirsi alla religione cattolica (lui era protestante), ottenere il titolo nobiliare e la nomina a senatore a vita, egli ringraziando rifiutò.

Napoleone Leumann proseguì nella sua attività filantropica fondando la Società Torinese per le Abitazioni Popolari, e creando a proprie spese una serie di strutture per l’accoglienza e il supporto di malati ed indigenti, dalla Casa del Sole di Rivoli, nata per arginare il dilagare della tubercolosi, alla colonia marina di Loano.

“Fu si può dire precursore e realizzatore di una politica sociale modernissima, quando il collaborazionismo delle classi era un mito. Ebbe nella sua vita un solo culto: quello del lavoro associato alla beneficenza”.

(Dal necrologio per la morte di Napoleone Leumann)

il villaggio operaio di oggi

Il Villaggio Operaio Leumann è oggi meta di visite di studenti delle scuole primarie e secondarie, di studenti universitari che scelgono questa realtà per realizzare le loro tesi e di adulti provenienti da tutta Italia e dall’estero. L’Associazione Amici della Scuola Leumann organizza periodicamente manifestazioni culturali e aggregative allo scopo di valorizzare il Villaggio e gestisce le visite guidate. L’evento più importante, che si svolge nel quarto fine settimana di settembre, è “Filo lungo filo, un nodo si farà” nato per mantenere la memoria della tessitura e che vede la partecipazione di artigiani e artisti del tessile provenienti da tutta Italia e dall’estero.

 

fonti:

https://rivistasavej.it/il-villaggio-leumann-6697dddd8542

 

Gli edifici di Italia ‘61

 

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Vedi i relativi articoli nella sezione “L’architettura contemporanea a Torino”

 

L’architettura del ferro

Ancora l’epoca medievale ci ha dato un altro elemento fondamentale per il commercio, attraverso l’edificazione di tettoie impiantate nella piazza principale. Una necessità che derivava dall’aumento degli scambi commerciali, offrendo loro, al di là dei semplici portici, un riparo più funzionale, anche se di limitate dimensioni e non certo sufficiente a coprire tutte le merci e le persone che convergevano al mercato settimanale. Sono certamente queste strutture, oggi, il segno più forte dell’esistenza di un antico mercanteggiare. La loro architettura si è integrata nel contesto urbano, con presenze che in molti casi sono anche plurime, pur nella realtà di un piccolo paese. Non solo una, ma anche due o più tettoie, dislocate strategicamente nell’ambito di ogni piazza esistente, testimoniano il ruolo che il mercato locale ha avuto nel tempo. Molte volte ciascuna di esse era dedicata ad una merce specifica, come già captava per certe vie o piazze, di solito con connotazioni particolari, come nel caso di quelle utilizzate per il commercio del bestiame.

Il tempo, poi, le ha modificate, cancellate, fatte risorgere in altro luogo riutilizzate per scopi ben diversi da quell, commerciali, a mano a mano che procedeva l’esnan sione urbanistica. L uso dei materiali ed il disegno architettonico L a P chiara espressione di ogni epoca. Mai eccessivamente eleganti, come d'altronde è giusto che fosse, ma sempre apprezzate per uno stile ogni volta originale ed armonico. Più o meno massicce, hanno sempre accompagnato la vita quotidiana della comunità circostante, diventando un punto di riferimento per appuntamenti di vario genere, non solo commerciali.

Il nome piemontese di queste strutture, al di là dei vari cambiamenti, e comunque rimasto sempre lo stesso: ala. Lo troviamo nei documenti storici fin dal Medioevo, e tale è rimasto per secoli, almeno fino all’ottocento, quando si inizia a sostituirlo con «tettoia». La parola ala, però, che tra l’altro trova termini simili anche in altre lingue, ha un altro fascino, e rimanda subito il pensiero ad un ala d uccello sospesa nell aria, così come sospesa sembra essere la presenza di questa copertura quasi sempre aperta sui quattro lati. Una caratteristica, questa, che oltre ad alleggerire i costi di costruzione e l’impatto visivo, consente la facilità di percepire subito ciò che contiene, contribuendo a calamitare la curiosità verso quello che capita al suo interno, attirando ancora più gente nel giorno di mercato.

Il mattone dei pilastri, o la pietra, ripresa anche nella copertura con larghe lastre, furono per molti secoli i materiali fondamentali, sostituiti poi, verso la fine del XIX secolo, da ferro, ghisa o acciaio che fosse. L’ebbrezza dell’uso di questo metallo, che si sbizzarrì in varie tipologie di elementi architettonici, fece inventare anche un nuovo modo di costruire.

Parallelamente alle nuove tettoie in ferro dei mercati, sorsero in tutta l’Europa, nella seconda metà dell’ottocento, altre imponenti strutture. Erano le grandi serre per le delicate piante tropicali, che iniziavano ad essere introdotte nei giardini nell’epoca vittoriana inglese, le stazioni per le nuove ferrovie, i padiglioni delle esposizioni universali.

E poi il culmine di tutto, la Tour Eiffel di Parigi, città dove scoccò la prima scintilla della contagiosa diffusione delle coperture metalliche, con il grande centro commerciale Les Halles, che venne poi ripreso non solo in Europa, ma anche in altre parti del mondo. A meno di un secolo dalla rivoluzione industriale, il ferro diventò pertanto il simbolo di nuove ingegnerie, che sembravano senza confini. Una nuova tendenza dell’architettura, che circa cento anni dopo, verso gli ultimi decenni del Novecento, verrà adottata anche per molti edifici di vario genere, unendo al metallo ogni tipo di altro materiale, mattoni, cemento, pietra, legno, vetro.

Facendo un confronto tra le antiche tettoie in muratura e quelle più moderne in ferro, di fine Ottocento e inizio Novecento, la struttura metallica, pur essendo decisamente più ampia, appare però più leggera. Il disegno, che ricorda una tenda, e che risulta meno massiccio di quanto derivava dalla realizzazione in mattoni, sembra quasi sottolineare il temporaneo e periodico comparire del mercato. Non è comunque un caso se questo periodo vide sorgere molte nuove coperture, in quanto c era la necessità di fare commercio di grandi quantità di frutta e verdura, che nelle città si iniziava a consumare in misura sempre maggiore. Nei principali centri abitati, pertanto, assieme ad un allargamento urbanistico, risultò immancabile, solitamente nei nuovi spazi edificati, la grande tettoia, circondata da esercizi produttivi o altri punti di vendita. La strategica importanza del mercato si spostò quindi verso queste nascenti aree urbane, che allora erano periferie, mentre oggi sono ancora centrali rispetto alla continua dilatazione della città.

Anche il Piemonte partecipò al nuovo orientamento architettonico ottocentesco, trovando proprio nel mercato il suo impiego più diffuso, con nuove e ampie coperture che sorgevano in molte città, affiancandosi ad altre già esistenti o sostituendole. Il loro stile, decisamente moderno per l’epoca, ricordava quello delle pensiline delle stazioni ferroviarie, che si andavano diffondendo ovunque insieme ai crescenti collegamenti con le strade ferrate. In provincia di Cuneo ne vennero realizzate diverse, come quelle di Saluzzo (1879), Bra (1892), Santo Stefano Belbo (1902), e quelle della città di Cuneo: una tettoia per il Foro Boario (1903) ed un’altra per il mercato della verdura, del 1934, in sostituzione di una precedente, sempre in ferro, progettata nel 1911. Della costruzione di queste strutture si occuparono varie ditte e tra queste le più operative furono le Officine Nazionali di Savigliano, il cui lavoro più importante fu la tettoia del mercato torinese di Porta Palazzo, del 1916.

La moda del ferro, però, non durò che lo spazio di pochi decenni, e già all’inizio del Novecento venne affiancata, e poi superata, da un nuovo materiale edilizio, il cemento armato. Un’eleganza più massiccia, con arditi alti pilastri e archi quasi impossibili, fu la nuova sfida architettonica del XX secolo. Un’architettura più razionale, ma che lasciò il segno di notevoli intelligenze progettuali, non solo limitate alle semplici tettoie del mercato, ma a più avveniristiche strutture, come il Lingotto e, verso la meta del secolo, gli edifici di Torino Esposizioni. La nuova tecnica fu ben usata in spazi coperti torinesi, come in quello di piazza Madama Cristina, o negli ampi Mercati Generali oppure in quello di Cuneo, mentre in città più piccole, o in molti paesi i risultati furono purtroppo anonimi e deludenti.

Oggi vengono ancora realizzate nuove coperture, affidandosi ad idee moderne che ove e possibile, riprendono le secolari tradizioni architettoniche locali. Ben fortunate, anche se rare, sono le città che hanno saputo conservare testimonianze di vari secoli nelle loro tettoie, e che nel passato hanno mantenuto le antiche coperture medievali, affiancandole con altre a mano a mano che se ne presentava l'esigenza. Alcune di quelle vecchie, visto il declino o la scomparsa del mercato su una superficie diventata troppo stretta, si è deciso di riconvertirle in centri di manifestazioni o altre iniziative. Si sono così creati spazi collettivi per incontri, feste, concerti e tutto quello che può accogliere al coperto un buon numero di persone senza tanti problemi di sicurezza, dal momento che sono aperti lateralmente.

 

L’architettura fascista

 

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Le «opere del Regime» furono, a Torino, funzionali e grandiose: l'ospedale delle Molinette, i mercati generali, alcuni ponti sui fiumi, l'Istituto Elettrotecnico Nazionale (l'imponente e un po' misterioso palazzo su corso D'Azeglio), il riordino delle ferrovie (quindici chilometri in trincea, non più rasoterra, con i paralizzanti passaggi a livello), il Palazzo della Moda, l'isolamento della Porta Palatina, il Collegio universitario in via Galliari, l'imponente sottopasso del Lingotto, la grande colonia elioterapica sul colle, dove Gualino aveva iniziato la sua casa-museo, lo stadio, non a caso il solo dedicato a Mussolini in quanto all'epoca il più capiente d'Italia, oltre che il più elegante, con la svettante torre della Maratona e il contorno dei grandi impianti sportivi, tra cui le belle piscine, coperte e scoperte.

 

La Torre Littoria, via Giovanni Battista Viotti

 

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Vedi articolo sulla Torre Littoria nella sezione “Architettura contemporanea a Torino”

 

Il rifacimento del centro di Torino e di Via Roma

 

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La via, che collega la Stazione Ferroviaria di Porta Nuova alle Piazze San Carlo e Castello, ha subito una importante mutazione nella sua storia. La Via Nuova o Contrada Nuova come venne battezzata alla sua apertura, sul finire del XVI secolo, venne realizzata dall’architetto umbro Ascanio Vittozzi, per volontà del duca Carlo Emanuele I di Savoia: misurava a quel tempo circa dieci metri di larghezza.

Fino ai primi decenni del XIX secolo, la strada terminava all’incrocio dell’attuale via Antonio Gramsci: fu Carlo Felice di Savoia a ordinarne l’espansione negli ultimi due isolati attuali, con un decreto che la prolungava sino a Piazza Carlo Felice.

Venne per questa ragione ideato un progetto di ristrutturazione. Il progetto si rivelò ambizioso fin dal principio e di realizzazione piuttosto complessa.

Prevedeva una radicale ristrutturazione non della sola via, ma di gran parte del quartiere centrale circostante. Vennero presentate numerose proposte, molte delle quali considerate troppo “futuristiche”, e si optò per una soluzione che ben si accordasse con la struttura esistente.

La prima fase dell’intervento risale al 1931 e riguarda la sezione che collega piazza San Carlo a piazza Castello. La via venne modificata, con la costruzione di edifici in stile eclettico con portici, pavimentati da marmi policromi di esclusiva provenienza italiana. Questa prima tratta venne aperta al pubblico il 28 ottobre del 1933.

Insolita, ma di grande effetto, fu la scelta di pavimentare il fondo stradale di questo primo tratto con una sorta di pavé di cubetti in legno, per conferire ulteriore pregio alla via. Nel dopoguerra, a seguito dei danni causati dai bombardamenti del 1944, la pavimentazione venne rimossa e sostituita da un’uniforme lastricatura in pietra.

La realizzazione della seconda sezione che collega piazza San Carlo a piazza Carlo Felice (e quindi alla Stazione di Porta Nuova) venne coordinata dell’architetto Marcello Piacentini ed è caratterizzata dai dettami dell’architettura razionalista. Numerosi furono gli edifici preesistenti abbattuti per la realizzazione del progetto nell’area del quadrilatero composto da via XX Settembre, via Lagrange, via Giolitti e via Andrea Doria. Qui vennero realizzati nuovi isolati ad impianto reticolare, con austeri edifici in chiaro stile razionalista, come l’imponente Albergo Principi di Piemonte e l’ex Hotel Nazionale nell’attuale Piazza CLN.

L'atmosfera da grande città non solo elegante ma pure moderna ricevette una pennellata ulteriore quando fu trasformata in parcheggio pubblico sotterraneo - ovviamente, il primo di Torino - la galleria sotterranea che, riedificando la via, era stata prevista come primo tratto per la ferrovia metropolitana. Un ambiente affascinante (con, fra l'altro, i resti, ritrovati casualmente, della fognatura romana) al quale si accedeva, per i pedoni, dalla piazzetta delle due fontane - il Po e la Dora - dietro le chiese gemelle di piazza San Carlo. Questi spazi sotterranei erano di proprietà comunale e per anni, prima della trasformazione in parcheggio, furono utilizzati per le manifestazioni più eterogenee.

Con la seconda sezione di Via Roma fu completato e connesso l’articolato percorso di portici della città.

Un vero record per Torino: con 18 chilometri di portici, di cui 12,5 km continui e connessi, la città sabauda conquista il primato di possedere la più ampia zona pedonale d’Europa. Lastricati in con stili diversi, dalla pietra grigia di via Po al marmo di via Roma, i portici torinesi sono un caso urbanistico, architettonico, estetico e socio-economico unico.

Tra i pur molti sventramenti e le molte ricostruzioni permesse o favorite dal fascismo, nessuna è stata più radicale, più estesa - e con maggiori pretese di lusso unito all'eleganza - di quella che, negli anni Trenta, rifece buona parte del centro di Torino. L'equivalente milanese, il corso del Littorio, ora Matteotti, che unisce San Babila a piazza Meda, non è che un'imitazione in scala ridotta e, in fondo, impoverita. I portici sono brevi, non così imponenti, e su un lato solo della strada e tutti ci passano in fretta, nessuno ci va apposta a vedere e a farsi vedere. Un'operazione unica, sia per le dimensioni, sia per i tempi ristretti in cui fu eseguita, sia per la riuscita.

Sin troppo riuscita. A tal punto che nessuno si azzardava sotto i portici di via Roma se non era vestito in modo giudicato adeguato a quell'ambiente scintillante. E, cioè, giacca e cravatta per gli uomini, mise elegante e sobria, tipo tailleur, per le donne. La via era sentita davvero, da tutti, come il salotto buono, a tal punto che era vietato il transito ai mezzi considerati poco «dignitosi»: i carretti a mano, allora ancora numerosi, e anche le biciclette che non erano, come adesso, lo sfizio elegante di chi ha un paio di automobili in garage, ma il mezzo povero di chi non poteva permettersi altro.

 

L’architettura Liberty

 

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Detto anche Floreale, o stile nuovo, rappresenta la tendenza a liberarsi degli stili d’accatto che si susseguirono all’ultima affermazione stilistica detta dell’impero e a creare uno stile tutto nuovo. Il nome viene da una fabbrica britannica che produceva mobili, stoffe e parati. Il floreale, che toccò il culmine nelle grandi Esposizioni di Parigi del 1900 e di Torino nel 1902, ha lasciato nel l’architettura torinese tracce profonde e apprezzabili, dando un tocco di grazia a quartieri ancora oggi indicati come eleganti. Inconfondibili esempi di Liberty sono nella Casa Menzio (Hotel Eden) in via Donizetti 22; nel Villino Raby, in corso Francia 8; nella Casa Fiorio Rigat, in via Cibrario 15; nella casa Fiorio Nizza, in via Bertola 20; nella Casa Fenoglio, in via Principi d’Acaja 11; in casa Tasca, in via Beaumont 3; nella Palazzina Favelli, in via Petrarca 14; nella Palazzina Giuliano, in via Gatti 17; nella Palazzina Conte, in via Piffetti 12. Un gioiello di Liberty è reperibile presso la collina, a Villa Scott, in corso Giovanni Lanza 57.1 personaggi che a Torino illustrarono questo stile, considerato ancora oggi elitario, furono soprattutto Pietro Fenoglio, Gottardo Gussoni e Amato Riccio. Agli elementi architettonici tipici di questo stile si associano spesso magnifiche policromie di vetri che il tempo non è riuscito ad appannare.

Non tutti sanno che Torino, città rinomata per i suoi regali tratti barocchi, è anche la capitale italiana del Liberty, stile derivato dall’Art Nouveau francese. La diffusione del Liberty nella città sabauda è riconducibile alla stagione artistica della belle époque sviluppatasi degli ultimi anni dell’800 e conclusasi nei primi due decenni del ‘900.

Il Liberty in Italia e soprattutto a Torino coinvolse varie discipline artistiche tra cui le arti applicate, ma in particolar modo l’architettura. Quest’ultima, a Torino, risentì notevolmente dell’influenza della scuola parigina e di quella belga facendo della città sabauda una dei maggiori esempi di questa corrente, tanto da essere definita appunto “capitale italiana del Liberty”.

Se avete un occhio particolarmente attento per i dettagli architettonici o se semplicemente amate guardarvi intorno quando passeggiate per la città, avrete sicuramente notato numerose testimonianze dello stile Liberty nel capoluogo piemontese. E, se volete completare questo tour tra decorazioni floreali, graziose vetrate policrome e dettagli preziosi, ecco alcuni degli edifici Liberty assolutamente da non perdere a Torino.

Casa Fenoglio – La Fleur

(Via Principi d’Acaja 11) Questo è sicuramente uno degli edifici Liberty più importanti di Torino e di tutta Italia. Progettata dall’ingegner Pietro Fenoglio e abitata successivamente dall’imprenditore francese La Fleur (da qui il nome di Casa Fenoglio – La Fleur), la bellissima casa colpisce immediatamente l’occhio per i deliziosi fregi floreali che ricoprono la facciata, i balconi lavorati in ferro battuto e la splendida vetrata policroma.

Villa Scott

(Corso Giovanni Lanza 57) Sulla collina torinese si trova Villa Scott, famosa oggi anche per essere stata la location scelta da Dario Argento per girare parte di Profondo Rosso. Realizzata anche questa dall’ingegner Pietro Fenoglio, Villa Scott è sicuramente uno delle più belle costruzioni Liberty di Torino con il suo trionfo di logge, bovindi (finestre ad arco), vetrate e decorazioni floreali e con la sua elegante e sinuosa scalinata d’ingresso. A differenza di Casa Fenoglio – La Fleur, questo edificio risente dell’influenza architettonica sabauda mostrandosi come un delizioso mix tra Liberty e Neobarocco.

Palazzo della Vittoria – Casa dei Draghi

(Corso Francia 23)

Un affascinante mix tra Neogotico alla francese e Liberty torinese è invece Palazzo della Vittoria, noto anche come Casa dei Draghi o Casa Carrera, che si trova nel quartiere di Cit Turin. Progettata dall’ingegner Gottardo Gussoni, l’edificio di cinque piani, è un trionfo di dettagli riconducibili ai due stili. Di particolare rilievo sono i due draghi alati posizionati ai lati del portone d’ingresso da cui appunto la casa ha preso il soprannome.

Portone del Melograno

(Via Argentero 4) In zona San Salvario si trova invece questo bellissimo portone d’ingresso che i torinesi hanno soprannominato “Portone del Melograno”. Decorato con due alberi di melograno realizzati in ferro battuto e ricchi di foglioline verdi e frutti rossi inseriti in una cornice a coda di pavone in stile floreale, questo portone è uno degli esempi più belli del Liberty torinese. Assolutamente da vedere!

Villino Raby

(Corso Francia 6) Nel quartiere di San Donato sorge un altro edificio in stile Liberty progettato sempre dall’ingegner Pietro Fenoglio. Si tratta del Villino Raby, chiamato anche Palazzina Raby, un perfetto esempio di commistione dello stile Liberty belga e di quello francese. Da notare il bovindo centrale, il cancello con la decorazione originale in ferro battuto oltre ovviamente agli altri dettagli decorativi che arricchiscono tutto il palazzo.

Casa Florio

(Via S. Francesco 17) Costruita nel 1902, questa dimora situata tra via San Francesco e via Bertola fu una delle tre «case da pigione» commissionate dai fratelli Daniele e Sereno Florio agli ingegneri Arnaldo Riccio e Giuseppe Velati-Bellini. L’edificio è una delle manifestazioni più precoci del Liberty torinese che si ispirò direttamente alle soluzioni grafiche presentate durante l’Esposizione Universale svoltasi proprio a Torino quello stesso anno.

Palazzo Bellia

(Via Pietro Micca 4) Palazzo Bellia è uno degli edifici simbolo delle prime sperimentazioni architettoniche che tendono verso lo stile Liberty. Costruito tra il 1892 ed il 1898 su progetto dell’architetto Carlo Ceppi, il palazzo presenta un largo uso di decorazioni in litocemento ed un ampio portico sottostante con archi trilobati sostenuti da colonne con capitelli antropomorfi. Non mancano poi altre caratteristiche del Liberty torinese come le decorazioni floreali, le finestre ad arco e le tipiche bow-windows (quelle che in italiano prendono il nome di bovindi).

Palazzo Ceriana Mayneri

(Corso Stati Uniti 27) Il palazzo è la sede del celebre Circolo della Stampa (da non confondere con l’omonimo palazzo, sempre opera di Carlo Ceppi, ubicato in piazza Solferino) fu costruito dall’architetto Ceppi, tra il 1884 e il 1887, sul terreno che nel 1884 il conte Ludovico Ceriana Mayneri. Nella dimora, in cui si fondono elementi compositivi barocchi rielaborati dal geniale eclettismo ottocentesco del suo autore, si può intravedere quel “moderno stile” che in quegli anni iniziava a diffondersi e che sarebbe infine sfociato nel Liberty torinese.

Villaggio Leumann

(Collegno) Alle porte di Torino, nel comune di Collegno, si trova questo particolarissimo villaggio costruito alla fine dell’Ottocento per volere di Napoleone Leumann, importante imprenditore di origine svizzera, per i lavoratori del suo Cotonificio. Il progetto fu affidato da Leumann proprio a Pietro Fenoglio che lo progettò in stile Liberty. Al suo interno oggi troverete una stazione d’epoca (la Torino – Rivoli), la Chiesa di Santa Elisabetta in stile eclettico, la vecchia scuola elementare e tanti altri edifici storici in stile Liberty. Un bellissimo villaggio con una bellissima storia nata da un imprenditore illuminato come Napoleone Leumann.

La Fontana dei Dodici Mesi

(Viale Matteo Maria Boiardo) All’interno del Parco del Valentino di Torino si trova la Fontana dei 12 Mesi, unico esempio rimasto del progetto architettonico fatto per l’Esposizione Nazionale del 1898 in occasione dei 50 anni dello Statuto Albertino. Progettata da Calo Ceppi, la fontana è un misto tra lo stile Liberty ed il rococò e ricalca per alcune cose la fontana di Villa della Regina.

 

L’architettura contemporanea a Torino

 

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palazzo del ghiaccio (corso tazzoli)

Realizzato per gli allenamenti delle Olimpiadi invernali del 2006, è oggi il polo cittadino per il pattinaggio su ghiaccio, di fianco all'immenso recinto degli stabilimenti di Fiat Mirafiori. Il nuovo impianto si affaccia su corso Tazzoli con una lunga galleria vetrata, il volume si appoggia a un alto muro curvo in mattoni rossi che separa il corpo vetrato da un blocco opaco, che ospita la pista, le tribune e gli spazi accessori. Affiancata al palazzo del ghiaccio, la pista di allenamento é un volume ipogeo che emerge dal terreno e piega ad ala uno spigolo del soprastante giardino, con una parete in vetrocemento che fornisce luce diffusa allo spazio interno.

 

complesso residenziale la betulla (moncalieri)

Case unifamiliari a gradoni di Lenti e Zuccotti, 1969.

Il progetto del 1965/1969 é di Maria Carla Lenti, Giovanni Maria e Gian Pio Zuccotti con Giuseppe Giordanino. La realizzazione è del 1968/1971.

In un parco indiviso di 29.839 metri quadrati a forte pendenza sono posati nove gruppi di tre abitazioni unifamiliari sovrapposte, tutte con accesso in piano al verde, per 16.300 metri cubi. Il complesso comprende ventotto alloggi per una superficie di 4.947 metri quadrati, trentasei box, una portineria.

Alcune sistemazioni interne, decise dai soci anche se poi guidate dagli Architetti, rompono del tutto con le abitudini tradizionali piemontesi. Queste sistemazioni sono rese possibili da un'altra caratteristica importante: il fatto di avere due soli pilastri all'interno del rettangolo murario di ogni alloggio e le finestre che si possono disporre liberamente sul perimetro.

Ogni alloggio, che può aprirsi verso almeno tre orientamenti e che verso almeno due di essi ha diretto contatto con il terreno circostante, ha l'atrio d'ingresso al piano inferiore comunicante con il piano principale mediante una scala interna, ciò consente di diminuire di un piano il percorso sulle scale esterne e di distribuire l'alloggio partendo dal suo nucleo centrale.

L'invariante tipologica fondamentale degli edifici è, come già accennato, la disposizione degli alloggi, orientati tutti perpendicolarmente alle curve di livello e sovrapposti a gradinata; ciò consente un forte grado di privacy (ingresso singolo per ogni alloggio, spazi all'aperto indipendenti), mediato però da possibili occasioni di vita comunitaria.

L'organizzazione urbanistica e la tipologia edilizia adottata tendono a realizzare un inserimento dell'intero nucleo, inteso quale complesso unitario, nel paesaggio naturale esistente in stretta aderenza con la conformazione del terreno e con la disposizione naturale delle zone boschive, in opposizione al frazionamento sia ambientale sia edilizio consueto nelle lottizzazioni collinari e risultante dall'applicazione pedissequa delle norme edilizie vigenti.

 

quartiere la falchera

La Falchera (Farchera in piemontese) è un quartiere della Circoscrizione 6 di Torino, situato nell'estrema periferia nord della città. Per consuetudine locale, la zona viene suddivisa in tre borgate (Borgo Vecchio, Falchera Vecchia e Falchera Nuova), che da strada provinciale di Cuorgnè si sviluppano in direzione est.

Il progetto nasce per far fronte all'emergenza abitativa del dopoguerra, in parte dovuta al forte flusso migratorio attratto dallo sviluppo industriale. Con Falchera si situano all'estremo nord della città 6.000 nuovi abitanti, in prossimità delle aree industriali Snia Viscosa e Fiat. In modo analogo alcuni anni dopo si sviluppa a sud della città Mirafiori che nel pieno sviluppo accoglierà 12.000 abitanti.

La fascia irrigua intorno a Torino è terra fertile utilizzata da secoli, e organizzata dal ‘600 a tutto il ‘900 in grandi appezzamenti facenti capo a fattorie complesse, con grandi costruzioni intorno a corti aperte. Edifici e lottizzazioni costituiscono segni geometrici nel paesaggio con filari, canali ed edifici ben organizzati rispetto ai percorsi e agli spazi aperti limitrofi, sistemati a corte e a giardino. E' un modello che suggerisce al gruppo Astengo la tipologia di impianto che caratterizza il disegno del nuovo quartiere.

Il nucleo centrale del quartiere è impostato su una piazza triangolare e porticata di oltre 14.000 m2, intorno a cui sono concentrati i sevizi di quartiere, articolata in quattro parti, ciascuna con identità, usi e caratteri architettonici diversi.

Nel 1950 la Gestione Ina casa affida il progetto urbanistico (e le regole per quelli edilizi) ad un gruppo di progettisti (S. Molli Boffa, M. Passanti, N. Renacco, A. Rizzotti) con G. Astengo come capogruppo. Secondo il piano si urbanizzano 30 ettari con residenze per 1.446 alloggi e 6.000 abitanti. Gli edifici, mediamente di lunghezza 60-70m, e 3 piani di altezza, sono poligoni ad angolo convesso prevalentemente affacciati a sud e formanti ampie zone interne a verde, (che occupa circa il 70% dell'intera superficie). Sulla grande piazza centrale si affacciano tutti i servizi (scuole, edifici pubblici, chiesa).

Un intervento di riqualificazione, definito con la partecipazione degli abitanti nell'ambito del concorso "Cento piazze per Torino", si realizza nel 2004. Il progetto degli arch Maffioletti e Sordina ha previsto una piazza pedonale, dedicata all'incontro e alla socialità dei residenti, articolata in quattro parti ciascuna con identità, usi e caratteri architettonici diversi. Recentemente la piazza è stata nuovamente oggetto di riqualificazioni dovute al degrado e al vandalismo.

Il progetto Laghetti Falchera prevede il recupero e la riqualificazione ambientale di un'area degradata dalle attività estrattive al bordo del quartiere, che si estende per più di 45 ettari. Sono previste quattro tipologie di intervento per ottenere diverse sistemazioni del contesto non costruito: parco spondale, parco urbano attrezzato, parco estensivo e parco agricolo, con percorsi didattici, orti urbani, aree di sosta e zone attrezzate. La riqualificazione, per un costo complessivo di € 5.600.000, deve essere realizzata entro il 2017, (gli orti sono attivabili per la primavera 2016).

 

mau – museo di arte urbana campidoglio

 

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Museo che ha come scopo il dar vita ad un insediamento artistico permanente all'aperto collocato all'interno di un grande centro metropolitano. Nel 2000 il MAU si costituisce in autonoma Associazione.

 

ex sellerie – arsenale militare di torino

 

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E’ un esempio di recupero funzionale di un edificio di fine Ottocento, l’edificio Ex Sellerie, che apparteneva all’area dell’Arsenale militare di Borgo Dora, che ospita un laboratorio di restauro e un asilo nido.

L'edificio originario era una costruzione di fine Ottocento di due piani in muratura portante con mattoni pieni, intonacati e orizzontamenti con volte a vela su archi ribassati.

Si è scelto di installare una cortina in lamiera forata di lega rame-zinco-titanio sovrapposta in modo indipendente alla facciata; questa pelle doveva avvolgere l'edificio come un velo ambiguo che da una parte occulta la complessità e il disordine architettonico determinato dalla precedente struttura a capanna, riducendola ad una serie di volumi sovrapposti omogenei, dall'altra realizza la trasparenza e il disvelamento attorno a qualcosa che non si vuole esibire ma solo intravedere.

L'edificio è così avvolto da un nuovo involucro che dall'interno permette di vedere la città con nuove e diverse trasparenze. Le forme scelte per l'involucro, oltre a permettere l'occultazione del tetto a capanna che non dialogava con nessuna delle tipologie limitrofe esistenti, ha la funzione di schermare gli impianti di captazione solare posti sul tetto.

L'edificio avvolto dalla cortina risulta espressivo, comunicando una grande austerità, una rinuncia palese a qualsiasi elemento architettonico accessorio, e omogeneizza il tutto in forme il più possibile minimali per non interferire con il disegno urbano e con l'edificio di architettura razionalista confinante nel lato nord e con le caratteristiche formali dei capannoni industriali di fine Ottocento presenti al lato opposto della facciata su strada.

Il rivestimento funge anche da parete ventilata per diminuire i costi di condizionamento e di schermatura per ridurre i livelli di rumore esterni alla facciata, oltre alla proprietà di non degradarsi nel tempo e di non avere necessità di manutenzione.

Il progetto prevede la realizzazione di attrezzature di interesse comune, quali una scuola di restauro ai piani terra e primo con una superficie 3240 mq, e un asilo nido al secondo piano con una superficie di 1392 mq; mentre al piano soppalco trova posto una residenza collettiva destinata all'Associazione Sermig che gestirà la scuola di restauro e l'asilo nido.

L'area di pertinenza del nido presenta terrazzi pavimentati e coperti, favorevolmente orientati e protetti dal vento, per un soggiorno all'aperto e come continuazione degli spazi interni a uso dei bambini. Gli spazi interni sono semplici e sobri, privi di decorazioni superflue in linea con la filosofia e la storia dell'Associazione Ser.Mi.G.

Il progetto ha impiegato tecnologie basate sull'utilizzo di materiali naturali biocompatibili unitamente a impianti a basso consumo alimentati da fonti energetiche rinnovabili.

 

campus luigi einaudi, lungo dora siena 100/a

 

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In un'area paleoindustriale dismessa, alle porte della zona urbana centrale, dotato delle più moderne tecnologie è considerato tra i dieci edifici universitari più spettacolari al mondo, un intervento firmato Norman Foster.

Il Campus Luigi Einaudi si trova all'interno dell'ex area industriale Italgas, lungo le rive del fiume Dora, non lontano da uno dei più importanti simboli della città: la Mole Antonelliana.

L'area fa parte di una zona industriale in cui erano collocati gli enormi gasometri dell'Italgas.

Il nuovo complesso è comprensivo di sette fabbricati, immersi nel verde, all'interno dei quali sono stati distribuiti gli spazi adibiti alle due Facoltà. Il corpo di fabbrica è interamente avvolto da una facciata trasparente e da volumi ondulati e voluttuosi in estrema armonia con il paesaggio collinare con cui si confronta nel fronte est. Tutti i volumi si affacciano su una grande piazza centrale circolare e sono stati concepiti per essere percepiti come un unico grande edificio, particolarmente impattante al suo ingresso. Le facciate sono composte da lastre vetrate che seguono il profilo curvilineo dell'intero edificio.

L'incarico della progettazione del polo universitario è stato affidato al noto architetto britannico Norma Foster, un personaggio di spicco nel panorama dell'architettura contemporanea. E' considerato uno dei portavoce più rappresentativi dell'architettura Higt-Tech e promotore dell'idea secondo cui il progetto costruito è prima di tutto un'opera d'arte organizzata tecnicamente.

Le grandi strutture dei vecchi gasometri dell'Italgas sono stati richiamati nella forma e nelle dimensioni nel progetto della grande piazza circolare all'interno del Campus, dove il grande invaso che si crea nello spazio costruito risulta estremamente evocativo e di spettacolare risultato.

L'edificio concepito dallo studio Foster&Partner ha elaborato un progetto estremamente innovativo dal punto di vista della sostenibilità ambientale, del solar design e dell'applicazione di strategie bioclimatiche. Particolare attenzione è stata rivolta alle problematiche del risparmio energetico, al fine di eludere l'uso di apparati tecnologici inefficaci.

All'interno del complesso universitario si snodano flessuosamente aiuole verdi intervallate da percorsi pavimentati e da una scenografica alberatura che offrono nel complesso un percorso naturale e di grande respiro. Queste aree confluiscono nella grande piazza centrale circolare, luogo privilegiato di incontro e di sosta per gli studenti.

I sette volumi architettonici di cui si compone il complesso universitario sono sormontati da una copertura unica, elemento simbolico-funzionale dell'edificio - che richiama le curve morbide delle facciate. La struttura reticolare composta da arconi e travi sorregge la copertura vera e propria, realizzata con un materiale di fibra di vetro traslucido rivestito di teflon.

L'area copre 45mila mq di superficie e 14mila mq di aree verdi. Sono state realizzate 70 aule fruibili da circa 8 mila studenti. Il Campus dispone anche di laboratori sia informatici che linguistici, di una biblioteca interdirpartimentale dedicata a Norberto Bobbio, di sale studio e di lettura, di una caffetteria e di ampi spazi comuni, una residenza universitaria e di una mensa che si trova poco distante.

L'organizzazione e la distribuzione degli ambienti interni, caratterizzati da condizioni di comfort e abitabilità, è stata concepita per dare ampio spazio alla luce (le aule sono attraversate da una luce zenitale) e particolare enfasi a spazi grandiosi e ben comunicanti.

Il campus oltre alle ordinarie attività didattiche è anche sede di convegni, meeting e incontri internazionali e nazionali, di mostre e incontri culturali.

 

palazzo dei lavori pubblici, piazza s. giovanni 5

Il Palazzo per gli uffici tecnici comunali prende il posto di un edificio barocco del Castellamonte, abbattuto negli anni precedenti la II Guerra mondiale, senza particolari ragioni se non la volontà di segnare con opere di regime i luoghi simbolici della città (come avviene in quegli anni per la torre Littoria che si affaccia su piazza Castello).

Il Palazzo originario (Palazzo Richelmy) venne disegnato per definire ordinatamente il fronte della piazza del Duomo, altrimenti slabbrata dal bordo di un'edilizia disordinata che riempie sin dall'epoca romana le insule più vicine alle mura. Il Palazzo occupa lo spazio di un'insula della città romana, nell'area antistante il Duomo. Si trova nel recinto dell'area archeologica più rappresentativa della città, in vista del Theatrum, le mura e la Porta Palatina.

Opera di Carlo da Castellamonte, definisce il fronte della Piazza S.Giovanni dal 1662 al 1936, quando viene viene abbattuto per far posto ad un nuovo edificio, che verrà realizzato solo negli anni ’50, su progetto di Passanti (con Perona e Garbaccio ).

L'edificio è citato tra gli esempi dell'architettura razionalista torinese. Il porticato al piano terreno riprende quello del palazzo preesistente ma senza riuscire a qualificare la facciata con una nobiltà richiesta dal contesto particolare in cui si trova.

Da molti torinesi il palazzo viene considerato uno ”scempio”, anche per l'ingombro rispetto agli scorci e alle visuali che puntano ai monumenti importanti che lo circondano: dal campanile, alla facciata del Duomo completato dalla Sindone, fino ai resti archeologici delle porte Palatine. La nuova costruzione è sempre stata malsopportata, finendo per essere nominato il "Palazzaccio".

 

officine grandi riparazioni, corso castelfidardo 22

 

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Si tratta di un caso esemplare di archeologia industriale riutilizzato per attività espositive e culturali. Gli spazi, concepiti per essere polifunzionali su un’area complessiva di circa 9.000 metri quadri (200 metri di lunghezza), ospitano mostre, spettacoli, concerti, eventi di teatro, danza e persino esperienze di realtà virtuale immersiva, in una vera e propria digital gallery.

Oggi le OGR, prese tra il Nuovo Politecnico (che ha occupato le altre Officine Ferroviarie dell'ambito), il Tribunale, il grattacielo Unicredit e Porta Susa, costituiscono un elemento fondamentale della Spina centrale della città, prodotto della rigenerazione urbana costituitasi intorno al tracciato della ferrovia storica interrata. Le officine vorrebbero configurarsi come una piazza urbana coperta che abbia la funzione di attrattore di diversi progetti che coesistono in un unico luogo multifunzionale. Funzioni commerciali, culturali e sociali convivono in un unico luogo di aggregazione.

Durante la II° guerra mondiale, le OGR subiscono tre bombardamenti; gravissimi i danni: la maggior parte dei padiglioni e dei magazzini viene distrutta.

Le OGR coprono oltre 20 mila metri quadri, disposti secondo una pianta “ad H”. I due corpi principali sono suddivisi all’interno da due file di pilastri in ghisa, che creano uno spettacolare impianto a navata. L'obiettivo dell'intervento è stato di mantenere intatta l'identità del complesso. Le officine erano un luogo freddo e i rumori erano assordanti e la via più semplice per ovviare al problema sarebbe stato creare nuove strutture e posizionare impianti monster, ciò avrebbe significato però andare contro l'obiettivo principale. La soluzione è stata un pavimento che riscalda l'ambiente e al tempo stesso può sopportare il peso dei camion che dovranno passare per montare concerti e spettacoli; sotto terra pochi metri quadrati sono rimasti liberi.

L'inaugurazione della prima parte dell'opera di recupero, si è svolta il 30 settembre 2017 con il Big Bang, primo appuntamento in programma che ha visto tra gli ospiti Giorgio Moroder, Elisa, Ghali, Omar Souleyman e Chemical Brothers.

 

torre littoria, via giovan battista viotti

 

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L'edificio fu progettato dall'architetto de Villa e dall'ingegnere Bernocco nel 1933, con l'intento di introdurvi la sede del Partito Nazionale Fascista. In realtà fu fin da subito proprietà della Reale Mutua Assicurazioni.

L'edificio rappresenta un esempio di architettura razionalista, e sorge in un isolato che all'epoca era fulcro di interventi per il riassetto urbanistico del primo tratto di via Roma.

Per l'epoca in cui fu costruita, la struttura rappresenta un'innovazione tecnologica e all'avanguardia, essendo caratterizzata da materiali quali vetrocemento, clinker e linoleum.

Torre Littoria fu anche il primo edificio italiano ad essere stato realizzato con struttura portante metallica elettrosaldata, tipica dei grattacieli.

L'edificio si compone di un corpo basso di 9 piani, sovrastato dal corpo della torre.

Nel lato nord, affacciato su piazza Castello la torre si unisce all'antico edificio vitozziano con i portici.

I prospetti laterali del corpo più basso, in via Giambattista Viotti e via Cesare Battisti, formano un angolo smussato, e mantengono gli stessi elementi caratteristici della torre, evidenziando un andamento orizzontale scandito dalle modanature di intonaco chiaro alternate alle finestre, “contenute” entro le campiture a fasce in laterizio rosso.

 

hotel nh torino santo stefano, via porta palatina 19

Una straordinaria localizzazione centrale per un hotel firmato Isola e Fusari, che ricostruisce una porzione di insula romana sull'asse della Porta Palatina, segnalando la propia presenza con una torre angolare d'invenzione.

L'hotel prende il nome dall'isolato “Santo Stefano”, che partecipa a ricostruire dopo i disastri dei bombardamenti. Si tratta del bordo delle insule romane ancora costruite che si affaccia sull'area "speciale" del Verde archeologico (tra le Porte palatine e il Teatro romano) e dei segni svettanti del Duomo-Sindone, a due passi dal Municipio e dal grande mercato di Piazza Repubblica.

Il nuovo edificio viene realizzato ricostruendo i fronti di un isolato distrutto per metà dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, ancora in stato di abbandono nel 2000

Aimaro Isola, Roberto Gabetti e Franco Fusari costituiscono l'accorpamento di architetti che ha realizzato l'Hotel Santo Stefano tra il 2004 e il 2006. Un complesso di 8.000 mq su cui sono distribuite 125 stanze, un ristorane e una sala congressi. Il progetto dei tre architetti va inteso come un intervento di riqualificazione di un'area storica che si pone in continuità con il passato attraverso una delicata operazione di reinterpretazione dell'esistente nel rispetto dei suoi tracciati storici.

Il progetto per l'Hotel Santo Stefano, categoria quattro stelle, ha previsto la costruzione di un nuovo corpo di fabbrica di cinque piani fuori terra e un piano mansardo su via Porta Palatina; mentre su via delle Basilica sono stati previsti quattro piani fuori terra e un mansardato per un totale di 125 camere. Oltre al servizio alberghiero l'edificio accoglie anche un centro benessere, un hammam, un ristorante e un centro congressi. A livello interrato, distribuito su quattro livelli, è stato realizzato anche un parcheggio sotterraneo di 500 posti macchina, presenza preziosa vista l'alta densità abitativa del quartiere a vocazione prevalentemente residenziale e commerciale.

La grande Hall all'ingresso che ospita il vano scale, con la sua proiezione fortemente verticale, produce un impatto scenico molto suggestivo, anche per la scelta dei colori e di un arredo che richiamano lontanamente ambientazioni medio-orientali.

Nel disegno, ma ancor di più nella sua realizzazione, è evidente la volontà dei progettisti di rievocare alcuni elementi architettonici delle passato per dare un segno di continuità e al tempo stesso di rinnovamento. A partire dal filo di fabbrica che ripercorre le linee costruttive dell'antico tracciato, anche se profondamente alterate nel tempo dalle numerose trasformazioni.

Anche nei materiali o nelle proporzioni, talvolta nelle finiture o in alcuni elementi strutturali, l'intenzione di “citare” il passato si palesa, in particolare, attraverso alcuni inserimenti nei balconi, nelle cornici e nei serramenti.

 

porta susa, stazione fs di torino

 

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Dal 2012 Porta Susa è diventata la porta d'accesso a Torino per chi viaggia con i treni ad alta velocità. Una galleria coperta, lunga oltre 400 metri, oltre a dare accesso ai binari collega finalmente due parti della città da sempre divise dal trincerone della ferrovia.

Inaugurata nel 1856 è stata la storica stazione ferroviaria prima della linea Torino- Novara, in seguito della Torino-Milano. Collocata all'ingresso ovest è stata realizzata su progetto dell'eclettico architetto Carlo Promis (n. 1856). La posizione fu concepita secondo un piano strategico che vedeva la stazione su un asse perpendicolare nord-est che permetteva il collegamento tra piazza Statuto e l'asse via Cernaia - via Pietro Micca che conduceva direttamente al cuore della città, in piazza Castello, ed ha rappresentato un importante tassello dello sviluppo urbanistico della città ed un importante scalo merci. Viene soppressa nel 2009, in concomitanza con l'avvio dei lavori per la Nuova Stazione di Porta Susa e del suo nuovo tracciato sotterraneo.

Il progetto della nuova stazione è stato affidato ad un partenariato tra lo Studio Arep (Jean Marie Duthilleul) con Silvio D'Ascia per la parte francese (architetto napoletano di origine ma francese di adozione), e all'architetto Agostino Magnaghi per quella italiana.

La riqualificazione della vecchia stazione di Porta Susa ha visto un significativo investimento, 79 milioni di euro, ed è stata realizzata secondo i principi dell'architettura bioclimatica e delle più moderne tecnologie. Sono stati utilizzati: 3.000 tonnellate di acciaio su 37.000 mq di superficie complessiva, di cui 8.000 destinate a servizi tecnici e 7.700 ad uso commerciale. Le aree pedonali occupano 13.000 mq e 4 sono i passaggi pedonali sopraelevati

Il fabbricato della stazione ricalca volontariamente, reinterpretandole in chiave contemporanea, le tipiche gallerie in vetro del XIX secolo, strutture caratteristiche delle grandi hall ferroviarie dell'ottocento.

Il corpo interno, caratterizzato da ampi spazi vetrati in cui filtra un'intensa luce naturale che si combina con quella artificiale, è particolarmente maestoso e restituisce l'idea di uno spazio imponente e slanciato, come una cattedrale sotterranea che si estende flessuosa per i suoi 385 metri di lunghezza e 30 di larghezza.

La galleria in cristallo è sostenuta da 106 arconi in acciaio, ognuno diverso dall'altro per dimensione, e modulata ogni 100 metri da assi trasversali collocati sul prolungamento dell'asse principale. L'interno è organizzato secondo spazi in vetro e acciaio posizionati su un basamento in cemento di due livelli utilizzato per i locali tecnici e i parcheggi.

L'impianto fotovoltaico della Stazione, che elegge Porta Susa a prima stazione italiana a energia solare, si estende su una superficie di 6 mila metri quadrati e ha previsto l'impiego di oltre 3000 pannelli fotovoltaici che rivestono la galleria per 385 metri.

Un layout particolarmente innovativo e futuristico ha caratterizzato il progetto architettonico della stazione. Una struttura tubolare in alluminio e acciaio combinati con il vetro s'insinua sotto il piano stradale per 21 metri ove sono collocate le banchine dei binari. La struttura si articola secondo quattro spazi a cui corrispondono funzioni diverse: trasporto ferroviario, trasporto integrato (metropolitana, parcheggi, collegamento con i bus), servizi per i viaggiatori (biglietterie e sale d'attesa) e servizi e attività commerciali e culturali. La copertura vetrata di 15.000 metri quadrati è interamente costituita da vetri fotovoltaici integrati con la struttura portante per una produzione di energia di 680 mila kilowattora all'anno. Il ricambio d'aria della galleria è assicurato da moti convettivi naturali d'aria che risalgono dai livelli più bassi.

Nonostante sia stata indetta una gara internazionale per l'edificazione di una torre alta 120 m. a ridosso della nuova stazione ferroviaria, il progetto oggi non ha trovato nessuna realizzazione. Il grattacielo, in stretto collegamento con la stazione stessa, avrebbe dovuto accogliere un hotel, un centro direzionale, attività ricettive e commerciali. Come “Continuazione verticale” della stazione avrebbe dovuto portare anche la firma di Arep, D'Ascia e Magnaghi, lo stesso accorpamento che ha realizzato la stazione.

 

grattacielo intesa san paolo, corso inghilterra 3

 

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L'edificio più alto, ecosostenibile e green della città, su progetto di Renzo Piano, è diventato simbolo controverso di un rinnovamento del panorama urbano, inserendosi con autorevolezza nello storico skyline lineare, da cui svettava solitaria la Mole Antonelliana.

Nato per forte volontà dell'ex presidente del consiglio di gestione del gruppo bancario Enrico Salza quando ancora la banca torinese e quella milanese erano due entità separate ed egli era a capo del Sanpaolo IMI, il progetto fu presentato al Comune di Torino nel mese di novembre 2007. In seguito a divergenze interne alla giunta e discussioni riguardanti l'altezza dell'edificio in relazione alla sua vicinanza al centro storico della città, il progetto fu modificato portando l'altezza definitiva da circa 200 a 167,25 m: 25 centimetri in meno rispetto alla costruzione più alta della città e simbolo della medesima, la Mole Antonelliana.

Il progetto, modificando inevitabilmente lo skyline cittadino, scatenò contrasti, polemiche, proteste e fu uno degli argomenti che ha diviso per lungo tempo la città: nacquero associazioni come "No Grat", dallo slogan "Non grattiamo il cielo di Torino", e quasi si arrivò al referendum popolare.

La sua area è di circa 160 × 45 m compresa tra corso Inghilterra, corso Vittorio Emanuele II, via Cavalli e il parco pubblico Nicola Grosa.

Avrebbe dovuto fare coppia con il previsto grattacielo FS del complesso della nuova stazione di Porta Susa, dall'altro lato di corso Inghilterra, la cui realizzazione è stata più volte rimandata.

L'edificio conta 38 piani fuori terra e 6 interrati, per una superficie complessiva di 68.000 metri quadri, e, oltre ad uffici, comprende anche un auditorium ed una serra bioclimatica, situata all'ultimo piano. Il progetto di Piano riserva un'importanza particolare alla sostenibilità, ad esempio attraverso l'uso di acqua di falda per il raffreddamento estivo, l'utilizzo di pannelli fotovoltaici sulla facciata sud ed un sistema motorizzato di lamelle per il controllo dell'illuminazione naturale.[5] Il grattacielo ha ottenuto la certificazione energetica per la classe A.

Nel 2015 il Green Building Council gli ha conferito la certificazione LEED Platinum, risultando il grattacielo europeo più ecologico e tra i primi dieci al mondo nella categoria New Constructions.[7]

Nel 2016 l'importante sito specializzato Archdaily.com l'ha premiato come Building of the Year della categoria "Uffici".

Nell'autunno del 2010 è stato eseguito il getto della mega-fondazione monolitica, dello spessore di circa cinque metri, per un volume di calcestruzzo (gettato in sole 84 ore no-stop) di oltre 12.500 m³. Questo costituisce ancor oggi il record italiano dei getti massivi in calcestruzzo realizzati senza soluzione di continuità.

A marzo 2013 il cantiere impiegava circa 200 lavoratori, di cui circa 140 operai, 90 stranieri e 50 italiani. Il progetto iniziale prevedeva una spesa di 235 milioni di euro e doveva esser inaugurato nel 2011, ma i costi aumentarono oltre i 300 milioni di euro.

L'inaugurazione ufficiale dell'edificio è avvenuta il 10 aprile 2015[12], mentre quella del ristorante al trentacinquesimo piano - il più alto in Italia - si è svolta il 25 maggio 2016.

 

fondazione merz

Inaugurata nel 2005, ospita il fondo di opere di Mario Merz con lo scopo di conservarlo, tutelarlo, renderlo accessibile e comprensibile al pubblico.

Sostiene la ricerca sull'arte contemporanea e promuove iniziative culturali. La Fondazione alterna mostre dedicate a Mario e Marisa Merz come momenti di riflessione e studio a dei grandi progetti site-specific di artisti nazionali e internazionali invitati a confrontarsi con lo spazio della Fondazione e con il suo contenuto, senza tralasciare la ricerca sulle nuove generazioni per cui sono regolarmente organizzati eventi espositivi.

 

molecular biotechnolgy center, via nizza 52

Nel 2000 l’Università degli Studi decide di costruire la Scuola universitaria interfacoltà per le Biotecnologie sull’area precedentemente occupata dalla Facoltà di Medicina Veterinaria, spostata nel polo scientifico di Grugliasco. Inadatta alle esigenze funzionali della Scuola, la vecchia sede viene sostituita da un nuovo edificio che ospita l'intera filiera didattica-ricerca-incubazione di imprese. L’ateneo decide di avvalersi della procedura del project financing, che prevede una gara comprensiva di progettazione, costruzione e gestione del manufatto: fatto innovativo in ambito universitario, che ha permesso contrazione di tempi e qualità costruttiva. L’intervento progettato dall’architetto Luciano Pia consiste in una nuova struttura organizzata intorno a quattro corti, che corrispondono ai quattro cortili dei fabbricati rurali ottocenteschi sui quali era stata costruita la Facoltà di Veterinaria. Le funzioni insediate (didattica, ricerca, amministrazione e servizi) sono collocate in aree omogenee, nei nuovi manufatti a due e tre piani e, parzialmente, nelle strutture preesistenti conservate e restaurate. L’accesso principale al complesso avviene da via Nizza; attraverso un ampio cortile si accede all’atrio, filtro tra la zona destinata alla didattica e i laboratori di ricerca. Questi sono organizzati intorno a un giardino d’inverno. Al piano interrato trovano posto parcheggi e locali tecnici di servizio. Tra gli edifici torinesi di maggiore fortuna presso la critica internazionale, la Scuola di Biotecnologie è un utile esempio di buona architettura universitaria, dal carattere rigoroso espresso dai suoi massicci volumi stereometrici in calcestruzzo a vista che proteggono la piazza alberata interna, percepibile tramite l’ampia vetrata su via Nizza.

 

25 verde,via chiabrera 25

 

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E’ un progetto iconico di Luciano Pia noto come “le case sugli alberi”. E’ un edificio residenziale costituito da 63 unità unifamiliari, pensate come “case sugli alberi”. Nel 2013 ha vinto il premio “Architetture Rivelate”, istituito dalla Fondazione dell'Architettura - Ordine degli Architetti della Provincia di Torino.

“normalmente – dice Luciano Pia – gli architetti immaginano un progetto, lo disegnano, lo fanno realizzare e poi negli spazi lasciati liberi dalla costruzione vengono piantati alcuni alberi che col tempo, in qualche modo, cresceranno. Io ho voluto fare esattamente il contrario; prima sono stati progettati i giardini, gli alberi e gli arbusti e poi, nello spazio lasciato libero dagli alberi, sono state progettate le unità abitative. Non è una casa con degli alberi, ma un territorio naturale (verde) abitato”.

Le sfide per costruire il “25 Verde” sono state molte, tra cui la manutenzione degli alberi dell’edificio. I grandi vasi che contengono alberi alti sui terrazzi ai vari piani hanno un diametro tra i 2 e i 4 metri, ed un peso che può raggiungere le 15 tonnellate Il design del fabbricato aiuta a conservare energia in diversi modi. Attraverso l'uso del verde si mitigano gli sbalzi di temperatura, le foglie proteggono dal sole d'estate, creando una fresca ombra e lasciano passare i raggi in inverno, per riscaldare naturalmente gli ambienti interni. Le grandi vetrate a piena parete delle unità abitative che si affacciano sui terrazzi, permetto l'ingresso della luce naturale all'interno delle case e non c'è bisogno di accendere la luce per illuminare gli ambienti nelle ore diurne. Il verde del giardino interno, crea un microclima che sensibilmente si differenzia dal resto della città circostante; meno caldo in estate e meno freddo in inverno di circa 5°C: è un risultato sensibile importante.

La superficie dei terrazzi e dei giardini privati è circa il 50% della superficie interna abitabile. Anche questo è piaciuto molto agli abitanti che possono godere dello spazio esterno in tutte le stagioni.

Il disegno interno e l'organizzazione spaziale delle camere è stato lasciato agli utilizzatori ed ai loro consulenti arredatori. Ognuno ha potuto progettare la propria casa, da zero.

I residenti hanno un ruolo attivo nella gestione del verde di copertura, che è loro privato, legato all'unità dell'ultimo piano. Tutto il resto del verde è condominiale, gestito in modo unitario dal giardiniere che ha in carico la gestione la manutenzione e la cura dell'insieme delle specie vegetali. La gestione e la “proprietà condominiale del verde” è stata d'altronde anche una richiesta della Città di Torino che ha dato il permesso di costruire. Siccome il verde è parte integrante della costruzione - è la costruzione essa stessa - ha la stessa importanza dei muri e dei pilastri e per spostare o sostituire un albero bisogna ottenere il permesso dal Comune di Torino, proprio come per spostare un muro”

 

casa hollywood, corso regina margherita 104/106

Se pensate che passando sotto Casa Hollywood a Torino possiate incontrare Brad Pitt o Scarlett Johansson che vanno a ritirare la posta in vestaglia, mi spiace comunicarvi che vi sbagliate di grosso! Purtroppo per noi tutti la vera Hollywood continua a trovarsi a Los Angeles e non c'è speranza che si sposti da noi. Comunque sia, questo non vi deve fermare dal visitare Casa Hollywood dall'esterno!

Nonostante l'edificio non farà comparire magicamente un attore famoso davanti all'ingresso, il nome non è del tutto fuori luogo. Infatti, l'edificio nasce in un lotto a cavallo tra corso Regina Margherita e via Fiocchetto ove nel 1841 era stato costruito il Piccolo Teatro Popolare di Torino. Quest'ultimo fu ristrutturato nella metà degli anni '40 del '900, a seguito di gravi danneggiamenti provocati dai bombardamenti della II Guerra Mondiale, trasformandolo in cinematografo e ospitando, inoltre, due sale da ballo, una sulla copertura per la stagione estiva e una nel piano interrato per la stagione invernale. Inizialmente nel cinema venivano proiettate pellicole di seconda visione e successivamente quelle a luci rosse! Nel 2008 terminò definitivamente la sua attività.

Due anni più tardi prende in mano l'edificio l'architetto Luciano Pia, di cui abbiamo già parlato per il progetto di 25 Verde e l'edificio di Via Calandra, per trasformarlo in residenziale.

Particolare della facciata sud con le serre bioclimaticheIl progetto per la ristrutturazione ha previsto la quasi totale demolizione dell'edificio esistente con la sola eccezione della facciata originaria e una parte del teatro su via Fiocchetto che è stata restaurata e rifunzionalizzata a residenza. Il resto dell'edificio si presenta decisamente moderno: il cemento e il vetro sono i materiali principali e subito il fabbricato si distingue dal resto degli edifici per le particolari forme irregolari.

La facciata principale si affaccia su Corso Regina Margherita, decisamente più trafficata di via Fiocchetto, quindi fonte di rumore e inquinamento. Questi due elementi sono diventati le linee guida per tutta la progettazione insieme a un fattore positivo quale la splendida vista sui Giardini Reali, la Mole Antonelliana e le Alpi.

Per risolvere il problema del traffico i primi piani sono stati portati a 12 metri di altezza lasciando il piano terra libero e luminoso, decorato con giardini. La facciata è caratterizzata da serre bioclimatiche esposte a sud, ma per evitare il surriscaldamento estivo è stato creato un sistema a doppia pelle ventilata antistante le serre (ovvero una doppia vetrata con un'intercapedine all'interno della quale l'aria passa portando l'aria calda verso l'alto grazie all'effetto camino). Inoltre sono stati installati dei frangisole fissi e mobili per la protezione solare. Grazie a questo sistema il rumore non interferisce con la quiete degli appartamenti e la vista sul panorama circostante viene preservata.

A nord la facciata è composta da una massa più compatta e spessa per garantire l'isolamento termico e aperture irregolari forniscono la luce necessaria per illuminare le zone notte.

Infine sulla copertura è presente un giardino pensile.

I due edifici, il vecchio teatro ottocentesco e il nuovo fabbricato moderno, sono uniti da due passerelle e dal cortile interno. Due stili completamente diversi, due facce della stessa medaglia che coesistono nello stesso lotto di terreno.

 

pala alpitur (palasport olimpico o pala isozaki), corso sebastopoli 123

 

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Il Palasport Olimpico, anche chiamato Pala Alpitour (per esigenze commerciali) o Pala Isozaki (dal nome del progettista, il giapponese Arata Isozaki) è uno degli esiti più interessanti, per la qualità dell'architettura e per l' "impatto positivo" sul tessuto urbano, tra gli interventi per i Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006. Il progetto è stato firmato dal celebre architetto giapponese Arata Isozaki, insieme al torinese Pier Paolo Maggiora. Inizialmente pensato per le gare di hockey su ghiaccio è stato riconvertito in spazio per eventi musicali e sportivi. Oggi vanta il primato di essere l'arena indoor più grande d'Italia, con una capienza complessiva di oltre 15.000 spettatori.

Situato ai margini dell'area meridionale della città tra via Filadelfia e corso Sebastopoli occupa una vasta area che comprende lo Stadio Comunale e l'antistante piazza d'Armi. Grazie ai lavori per le Olimpiadi invernali questo quartiere del 2006 ha beneficiato di un'intensa riqualificazione urbana.

La sua forma si deve all’attenzione del progettista nei riguardi della conformazione della città, riproponendo lo stesso schema anche nel progetto di Piazza d'Armi, la quale presenta le stesse proporzioni dell’edificio.

Restaurata in occasione dei Giochi Olimpici del 2006, la torre svetta nella piazza antistante il Palaisozaki. Alta quaranta metri un tempo ospitava il serbatoio di compensazione dell'acqua e costituiva un vero e proprio ingresso monumentale al complesso in cui era presente anche lo Stadio Comunale, originariamente intitolato a Mussolini.

Arata Isozaki è architetto pluripremiato, di fama mondiale e autore di progetti importanti in tutto il mondo, ne conta più di 300 progetti, ha vinto il concorso guidano un gruppo composto dallo Studio ARCHA S.P.A. di Torino, Arup Italia s.r.l. di Miano, ing. Giuseppe Amaro, arch. Marco Brizio.

L'edificio si presenta esternamente come un grande parallelepipedo sospeso da terra, con una base di 183 m per 100. Si sviluppa su 4 livelli, di cui 2 interrati (arriva fino a 7,5 metri sotto terra) e due esterni di 12 metri di altezza. Offre più di 12.000 posti a sedere e dunque supera in capienza il palasport del Forum di Assago. Il design esterno, volutamente di rottura ma di semplice lettura, presenta caratteri architettonici quasi futuristici che lo integrano al paesaggio urbano circostante con cui dialoga tramite un rivestimento in acciaio inox che poggia su un basamento in vetro altro 5 metri che crea un effetto di sospensione e trasparenza.

Le tribune, realizzate secondo tre tipologie differenti, permettono il pieno sfruttamento dell'edificio. Nell'anello inferiore, tra il livello -7.50m e 0.00m, sono retrattili e la loro movimentazione e il riposizionamento verticale avvengono tramite appositi macchinari che permettono il sollevamento del solaio mobile costruito in fase post-olimpica. Le tribune del secondo ordine vanno da quota 0.00m a +12.00m mentre quelle lungo i lati lunghi sono fisse.

La filosofia del “far continuare a vivere” le architetture è un tema molto caro all'architetto A. Isozaki. In particolare il principio di flessibilità è stato il pensiero-guida di tutto il progetto che ha seguito un filo conduttore teso a far vivere l'edificio anche dopo l'evento. L'architetto stesso afferma di aver perseguito in particolare proprio questo obiettivo, quello del post-olimpiadi, come prioritario, ragione per la quale ha curato molto l'acustica e gli aspetti tecnici dello spazio affinché potesse mutare di funzione con molta facilità. Isozaki stesso afferma: “Quando ho concepito il progetto, pensavo già al ‘dopo Olimpiadi', più che alle Olimpiadi vere e proprie”.

 

villaggio olimpico, via giordano bruno

Il Villaggio per atleti realizzato in occasione dei Giochi Olimpici Invernali del 2006 sorge sull'area occupata fino al 2001 dai Mercati ortofrutticoli all'ingrosso (MOI), costruiti nel 1932 (progetto di Umberto Cuzzi). Il masterplan per i giochi, elaborato da Otto Steidle, interessa 90.000 mq., in parte recuperando le strutture originali del mercato e destinandole a servizii; per gli atleti si sono realizzati 750 alloggi. Il complesso, realizzato in tutta fretta su progetto di Camerana, è oggi in parte già degradato, sottoutilizzato e fonte di proteste e di alti costi di recupero. La passerella pedonale che, scavalcando la ferrovia conduce al Lingotto, costituisce uno dei landmark più citati dei Giochi.

 

ex ospedale militare riberi, corso 4 novembre 66

Ospedale militare gravitante sulla nuova piazza d’armi, costruito fra il 1903 e il 1913 in stile liberty. Il complesso venne realizzato con una struttura architettonica a padiglioni, tipica degli ospedali costruiti in questo periodo; tipologia scelta per consentire un’adeguata illuminazione e ventilazione dei vari ambienti. Dopo la riqualificazione, è ora sede del Campus Riberi e del Dipartimento Militare di Medicina Legale.

L’Ospedale Militare Riberi, è all’interno del quartiere Santa Rita, delimitato dai corsi IV Novembre, via Barletta, corso Orbassano e via Caprera, ma il quartiere ha avvertito per un secolo solo la presenza di un muro, risultando l'intero complesso inaccessibile se non ai militari.

Una volta concluse le Olimpiadi, la struttura è stata restituita all’Esercito che ha apportato altri interventi al fine di creare il Campus Militare “Riberi” con lo scopo di ospitare alcuni militari in servizio a Torino.

La struttura è formata dal Dipartimento Militare di Medicina Legale (DMML) “Riberi”, il poliambulatorio funzionale e la farmacia.

 

facoltà di economia e csi piemonte

L'intervento sull'Istituto di Riposo per la Vecchiaia recupera all'uso pubblico il monumentale edificio costruito fra il 1881 e il 1887 da Crescentino Caselli. Il progetto prevede l'insediamento della Facoltà di Economia e di centri di calcolo. Il primo intervento, anni ottanta, é stato guidato dalla volontà di riportare l'edificio allo stato strutturale d'origine, eliminando ogni elemento aggiuntivo. L'esigenza di riaccorpare in un'unica sede le attività di Economia ha dato origine al successivo progetto, che interessa il cortile tra la manica centrale e la prima a nord.

 

recupero ex stabilimento carpano, via nizza 230 (Eataly)

 

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Quando, abbandonate le attività produttive, la FIAT ha deciso di fare del Lingotto un nuovo centro polifunzionale, l'intera area circostante ha subito profondi cambiamenti. Per esempio, sul suo lato settentrionale, il grande stabilimento automobilistico confinava con la Carpano, storica casa produttrice del vermouth torinese.

Trasferita l'attività produttiva a Milano, l'amministratore delegato dell'epoca Armando Mandelli, aveva intenzione di valorizzare la struttura, sviluppatasi lungo l'intero XX secolo. Mandelli ha perso poi la vita in un incidente aereo, ma il suo progetto di valorizzazione è andato avanti. All'inizio del XXI secolo, lo Studio Negozio Blu Architetti Associati ha iniziato a esplorare la possibilità di trasformare lo storico complesso in una sorta di polo del gusto. Poi, nel 2003, il Comune di Torino ha dato il via alla trasformazione dell'area in un Parco tematico Enogastronomico; il nuovo Piano Particolareggiato del Lingotto ha previsto, oltre alla creazione della nuova via, tra il Lingotto e la Carpano, anche la realizzazione di una grande piazza pubblica pedonale. Nel 2004, la realizzazione del Parco Enogastronomico, destinato ad attività culturali, di vendita e di degustazione di prodotti alimentari, viene assegnata a Eataly, attraverso un bando pubblico.

All'interno dell'ex Carpano, trovano spazio oggi non solo Eataly, con le sue attività didattiche e di consumo e i suoi uffici, ma anche il Museo Carpano, una sala conferenze e una foresteria. Il Museo si trova al piano superiore e se passate da Eataly, merita una visita, per la bella storia che racconta e per i numerosi oggetti per la produzione del vermouth che conserva e illustra.

Spiega l’architetto Ambrosini: "Abbiamo riorientato il complesso, trasformando il lungo muro cieco nella facciata principale di Eataly, una sorta di soglia tra piazza pubblica e piazza privata. Abbiamo aperto la parete con la vetrata dell'ingresso e due grandi vetrate, leggermente aggettanti, che identificano due degli spazi interni più importanti, il Museo e la Sala Conferenze; il colore scelto è stato il rosso mattone, che richiama i laterizi del complesso". I percorsi interni dell'antica Carpano sono stati trasformati nell'asse principale di Eataly, intorno al quale si sviluppano le attività siano il mercato, la biblioteca, i ristoranti e le isole tematiche del piano terra o il Museo, la foresteria o gli uffici, al piano superiore. "Le due corti e le vie che le collegavano sono state coperte con vetrate luminose, accompagnate dagli impianti a vista; impianti che sono a vista anche nel resto della ristrutturazione. Su quest'asse distributivo si trova il mercato, con le sue bancarelle e i suoi chioschi, e si affacciano le varie isole tematiche di Eataly: la carne, il pesce, i formaggi, la pasta, che offrono sia l'acquisto che la consumazione di questi prodotti; le isole si trovano in quelli che furono i laboratori della Carpano e ricordano un po' questa funzione, in fondo. Nei cortili abbiamo ricreato come delle piccole piazze, luoghi di socializzazione con bar, caffetterie e tavolini".

 

il lingotto fiat

 

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Opera monumentale, elemento inconfondibile del panorama urbano torinese, esempio di architettura moderna, è tra le prime fabbriche automobilistiche italiane di impostazione scientifica del lavoro. Luogo cruciale della storia produttiva torinese incarna la testimonianza di un passato industriale determinante per l'identità della città: è stato il primo stabilimento di produzione della fabbrica automobilistica FIAT, oggi convertito a centro polifunzionale.

L'area del Lingotto è un complesso di edifici collocato tra via Nizza e un ramo del passante ferroviario all'interno del quartiere Nizza Millefonti. Il complesso, molto ampio ed esteso, va dal 230 al 294 di via Nizza.

E' con un nuovo sistema produttivo improntato alla parcellizzazione delle operazioni che la FIAT compie il rivoluzionario balzo tecnologico e organizzativo che la porta da officina e fabbrica. Prevedeva in un unico edificio tutte le produzioni automobilistiche primarie e accessorie.

L'autore della grande ed innovativa fabbrica automobilistica FIAT è l'ingegnere Mattè Trucco, per l'epoca un vero precursore dell'utilizzo del cemento armato, che introdusse in Italia un'idea tutta americana: quello del modello industriale americano di stampo taylorista, attraverso operazioni produttive parcellizzate. In realtà l'idea primigenia nacque inseguito ad alcuni viaggi che Giovanni Agnelli fece in America in cui conobbe più a fondo il sistema e i principi di produzione di Henry Ford, e che sfociò nel sogno di fare di Torino la nuova Detroit italiana. In un documento si parla del nascente Lingotto come di “un nuovo stabilimento, uso americano”, intendendo con questo un uso lineare e sequenziale delle lavorazioni, ricalcando il sistema tayloristico nel processo di produzione e introducendo un nuovo schema di relazione tra operai e officina.

In questa fabbrica sono state prodotte molte vetture: 80 modelli di automobili e 35 tipi di motore di aereo, insieme ad altri veicoli commerciali e furgoni. Alcuni modelli hanno segnato la storia dell'automobile italiana, delle vere e proprie icone dell'industria automobilistica, come la Balilla del 1932, un'utilitaria a basso costo, o la Topolino del 1936, l'utilitaria più piccola al mondo.

L'edificio originario dei primi del novecento, ancora oggi presente, è opera dell'architetto Giacomo Mattè Trucco e copriva, nel suo complesso, 400.000 mq. Le officine, il cuore pulsante dell'area, sono state costruite in cemento armato e corrono lungo la ferrovia per 600 metri. L'area si sviluppava principalmente su due corpi di fabbrica: le Nuove Officine e l'Officina di Smistamento, rispettivamente riconvertite la prima a Centro Congressi e Auditorium, la seconda a spazio fieristico. Il corpo principale, quello delle Nuove Officine, si componeva di due grandi blocchi principali lunghi 507 m e larghi 24 m, per 27 m di altezza. Realizzato su una maglia uniforme di pilastri in cemento armato, presenta un impianto longitudinale a cinque piani, a doppia manica e con corti chiuse, collegato tramite 5 traverse trasversali. Tutti i corpi di fabbrica rispecchiano uno stie architettonico prettamente funzionalista, a celebrazione del sistema fordista e taylorista.

La parte nord del corpo di fabbrica centrale ospita oggi il Camplus, una residenza universitaria per studenti, realizzata seguendo uno stile contemporaneo e funzionale, dispone di camere doppie e loft di 60 mq, e può arrivare ad accogliere fino a 100 studenti. Il Camplus mette a disposizione anche ampi spazi comuni tra cui ampie aree relax e un'arena-auditorium. La grande vetrata tipica dell'ex fabbrica offre una spettacolare vista panoramica sulla collina, le Alpi e il fiume Po.

Con l'avvicinarsi dei conflitti della seconda guerra mondiale, nel 1939 parte delle attività vengono spostate nella nuova sede di Mirafiori per il rischio di attacchi aerei. Durante la guerra, infatti, lo stabilimento fu bombardato più volte, sia dagli inglesi che dagli americani, perché considerato un bersaglio strategico per interrompere la consistente produzione di guerra. In seguito a causa della crisi dei primi anni '80 lo stabilimento fu costretto a deindustrializzarsi fino ad esaurire la sua attività nel 1982, quando cessò definitivamente.

 

ampliamento del museo dell’automobile, corso unità d’italia 40

Il nuovo progetto recupera l'edificio esistente (progettato da Amedeo Albertini alla fine degli anni cinquanta) spezzando la simmetria dei percorsi esterni in favore di un più forte rapporto con il largo Unità d'Italia. La nuova ala museale si integra al corpo esistente abbracciandone il fianco con una pelle in vetro trattato con diversi gradi di trasparenza, rinnovando cosi' l'immagine dell'edificio e conferendo continuità ai due prospetti urbani.

 

oval olimpic arena, via giacomo matté trucco 80

 

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Si tratta di un innovativo contenitore di eventi, versatile e flessibile: realizzato per le Olimpiadi del 2006, quando ospitò le gare di pattinaggio.

Oggi è riconosciuto come attrezzatura multifunzionale di grande prestigio, in grado di ospitare eventi sportivi, spettacoli, concerti, fiere, esposizioni e mostre. Nonostante sia considerato una espansione funzionale degli spazi espositivi del Lingotto va comunque annoverato tra opere architettoniche contemporanee di magiore interesse.

La struttura sorge sull'area dismessa della Fiat Avio, nel complesso di Lingotto Fiere vicino al palazzo della Regione.

Alessandro Zoppini, autore del progetto con John Barrow e lo studio britannico Buro Happold, ha saputo realizzare un contenitore non dedicato al solo utilizzo occasionale del pattinaggio olimpico, A questo proposito afferma: “Il disegno dell'Oval nasce dalla sintesi di tre esigenze: realizzare un impianto sportivo adeguato ai Giochi Olimpici, dotare la città di un fabbricato atto a ospitare manifestazioni fieristiche, contribuire alla riqualificazione della zona”.

L’edificio guarda al Lingotto tramite un'ampia vetrata parzialmente curva. Si estende su un grande spazio libero da pilastri di 20.000 mq suddiviso in tre grandi aree modulari e indipendenti tra loro. Al suo interno è presente una pista di 400 m di lunghezza per 12, 5 di larghezza. Il grande spazio unico ha una grande capienza che può arrivare a contenere fino a 8.500 spettatori. Una parte degli spazi è dedicata ad uffici, sale stampa e sale conferenze.

Semplicità, chiarezza e funzionalità sono i concetti cui è ispirata l'architettura dell'Oval: una maglia semplice nella quale si inseriscono tre corpi emergenti che servono come accessi separati per i differenti fruitori dell'impianto e consentono la suddivisione dello spazio in tre sotto-sale. Si tratta di un'opera dai numeri imponenti: ha una luce di cento metri, un'enormità. Il sistema strutturale è composto di sei travi principali di 95 metri e una serie di travi secondarie che danno il senso spaziale delle vecchie stazioni ferroviarie.

Dopo i Giochi, come già previsto in fase di progettazione preliminare, l'edificio è stato riconvertito come spazio multifunzionale, espositivo e suddivisibile in tre sale, utilizzabile in congiunzione con l'adiacente Lingotto Fiere. Tra i vari eventi che ha ospitato: Terra Madre, il Salone del Gusto,Restructura e, sin dall'inizio , Artissima.

L'illuminazione dello spazio dell'Oval rispetta altissimi livelli standard (TOBO – Torino Olympic Broadcasting Organization) che sono stati richiesti sia per le gare olimpiche sia per le riprese televisive effettuate. In una struttura asimmetrica (il tetto/soffitto è in pendenza) comporta molte difficoltà ad ottenere l'illuminazione uniforme richiesta, con particolari schermature per evitare un fastidioso riflesso dalla pista ghiacciata.

 

grattacielo della regione, area ex fiat avio

 

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La trasformazione degli ex stabilimenti aeronautici del gruppo Fiat interessa una superficie di oltre 315.000 mq tra Lingotto, linea ferroviaria e via Nizza. Al centro dell'ipotesi di realizzazione di un complesso di interventi destinati a residenza e attività terziarie, spicca la torre per uffici della Regione Piemonte.

Il grattacielo della Regione Piemonte è un edificio istituzionale di Torino, i cui lavori di costruzione sono iniziati il 30 novembre 2011, destinato a diventare la futura sede unica della Regione ad eccezione del Consiglio regionale, che resterà nella sede aulica di Palazzo Lascaris. Progettato da Massimiliano Fuksas e presentato alla Giunta regionale nel corso di un'audizione pubblica tenutasi a Torino il 22 novembre 2007, l'opera realizzata prevede 42 piani, di cui 41 a uso civile e l'ultimo da adibire a bosco pensile.

Il terreno individuato per la costruzione dell'edificio è rappresentato da un'area già utilizzata dall'ex Fiat Avio nel quartiere torinese di Nizza Millefonti, poco distante dal polo fieristico del Lingotto. Il grattacielo, servito dalla stazione metropolitana di Italia '61, sarà inoltre collegato con la stazione metropolitana del Lingotto tramite una passerella ciclopedonale, ad oggi in fase di costruzione.

 

italia ‘61

 

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L'esposizione per il Centenario dell'Unità d'Italia del 1961 portò, dal punto di vista architettonico, al disegno di un nuovo paesaggio rappresentativo dell'idea di progresso tecnologico felice e sostenibile.

Italia '61 è concepita come un parco di oltre 50 ettari, sul bordo del fiume, in cui si situano gli edifici monumentali che hanno ospitato l'esposizione. Un asse viario preesistente, oggi Corso Unità d’Italia, è servito allora come dorsale principale per la visita.

La fascia fluviale, lo sfondo della collina e il disegno dei grandi edifici espositivi caratterizzano un paesaggio particolare, di città utopica, che oggi si percepisce come porta di Torino. L'area scelta per l'esposizione costituisce il primo piano del panorama godibile dal Parco Europa, situato sulla collina a est della città. Nel 1961 il belvedere del Parco è stato collegato all'Esposizione con una “ovovia” (poi demolita), sistema a fune innovativo per l'epoca, utilizzato per gli impianti sciistici.

Prima del 1960 l'area di Italia '61 non era urbanizzata: il Piano regolatore del 1913 disegna per l'area un grande parco urbano, mentre il PRG 1959 individua l'area come un “cuneo verde” di intervallo tra aree produttive e residenziali.

I lavori iniziarono con la distruzione dei baraccamenti lungo Corso Polonia (attuale Corso Unità d'Italia) per la realizzazione dei padiglioni. Il cantiere di Italia '61 è monitorato quotidianamente per celebrare il Progresso nazionale ben leggibile nella capacità di organizzazione tecnica raggiunta dalla città industriale. I notiziari riportano l'avanzamento lavori enfatizzando i metri cubi costruititi, le ore lavorative, il numero di operai impiegati.

L'Esposizione richiamò più di quattro milioni di visitatori provenienti da tutto il mondo. Le attrazioni principali furono la monorotaia ALWEG, il Circarama, sistema di proiezione cinematografica a 360 gradi della Walt Disney e la funivia.

Walt Disney, il papa' dei cartoni animati e del "Circarama" e' stato a Torino, il 7 settembre 1961, per assistere alla proiezione di "Italia 61", il film in Circarama realizzato dalla Disney per conto della FIAT.

Il punto di vista del lago con monorotaia e padiglioni dalle geometrie inedite costituisce l'immagine più rappresentativa dell'esposizione, che si vuole caratterizzare per la modernità “avveniristica” delle forme oltre che delle tecnologie.

La monorotaia area a sistema Alweg assicurava il transito dei visitatori all'interno dell'area espositiva. Il percorso si sviluppava dal Giardino Corpo Italiano di Liberazione fino ai pressi del Museo dell’Automobile.

Oggi rimane la struttura portante in c.a. con campate da 20 m e la Stazione Nord trasformata nel 2006 nella "Stazione Regina - la Casa dell UGI (Unione Genitori Italiani)".

A fine esposizione le grandi strutture espositive non trovano funzioni alternative. Eliminati i padiglioni temporanei (come il Circarama) gli unici edifici a trovare da subito una riconversione sono i padiglioni delle Regioni, sebbene fossero gli unici pensati per essere smantellati. Con le Olimpiadi di Torino 2006 il Palavela diventa la sede delle gare di pattinaggio artistico.

Il sito dell'esposizione non si presenta come un recinto separato ma come un pezzo di città dall'impianto moderno e innovativo, di grande respiro e in forte connessione con il verde dei parchi e della fascia del Po.

 

fonti:

https://rivistasavej.it/cantiere-italia-61-3f4e4c25e494

 

il monumento all’autiere

Collocato davanti al Museo dell'Automobile nel 1961 è opera all'architetto Renato Costa e dallo scultore Goffredo Verginelli con la collaborazione, per la parte strutturale, dell'ingegnere Renato Giannini.

 

palazzo vela

 

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Il Palazzo Vela è una delle icone di Italia '61 tornata a nuova vita con le Olimpiadi 2006. Attrae i fotografi non solo per la forma provocatoriamente “moderna”, ma anche per la posizione al bordo del laghetto attraversato dalla monorotaia. E' il punto focale di un paesaggio innovativo in linea con lo stile dell'Esposizione, di esaltazione del progresso e della tecnica.

L'edificio più rappresentativo di Italia '61 è situato in posizione centrale, circondato da altri padiglioni e dagli allestimenti del parco. Si presenta “di tre quarti” lungo la strada oggi trafficata e asse centrale dell'Esposizione in modo da rendere immediatamente comprensibile la particolarità della forma esagonale.

Pensato sin dall'inizio come “Palazzo delle Mostre”, con un progetto di Annibale e Giorgio Rigotti del 1957, era destinato inizialmente ad estensione del Salone mercato dell'Abbigliamento (SAMIA) sino ad allora ospitato nel Palazzo delle Esposizioni.

Nel febbraio 1959 è bandito un appalto-concorso per la costruzione della sola cupola. La soluzione vincente è quella proposta dalla ditta Guerrini di Torino su progetto e calcolo di Franco Levi e Nicolas Esquillan. Si prevede una volta autoportante in calcestruzzo precompresso a doppia calotta con tre soli punti di appoggio e chiusure verticali vetrate.

L'edificio doveva consentire una grande flessibilità per una pluralità di utilizzi possibili (espositivi, sportivi etc). La soluzione scelta è una volta a pianta circolare di 130 m di diametro priva di appoggi interni. La copertura è un guscio autoportante in cemento armato a pianta esagonale inscritto in un cerchio di 150m di diametro. Alla forma definitiva i progettisti arrivano per approssimazioni successive. Un terreno poco compatto e con composizione stratigrafica molto variabile impone la riduzione al minimo dei punti di fondazione e induce al virtuosismo strutturale dei tre appoggi.

La struttura progettata fa riferimento ad altre esperienze internazionali: ad esempio il Kresge Auditorium di Eero Saarinen per il M.I.T (1953, pianta triangolare con volta a vela su ottavo di sfera ) e il Centre des nouvelles industries et technologies (CNIT) di Parigi (1958, pianta triangolare con cupola a doppia lamina nervata). Per il CNIT l'ingegnere calcolatore è Esqullan, che collabora anche per il Palavela.

Durante l'esposizione del 1961 il Palavela ospita la mostra “Moda stile costume”. L'allestimento, affidato e concepito in 4 mesi da Cavallari Murat, Gabetti, Isola e Raineri, è stato concepito per colpire e attirare il visitare fin dall'esterno. Il vasto spazio interno suddiviso da velari e stoffe è visibile nella sua interezza solo attraverso un belvedere posto a 7 metri d'altezza. Unico spazio costruito il “Teatro dei Mille” e il suo foyer.

Nel 1983 ospita una grande mostra su Calder curata da Carandente e allestita da Piano. Le grandi vetrate vengono oscurate con pannelli che, oltre a risolvere il problema del surriscaldamento, permettono di focalizzare l'attenzione sugli oggetti.

Dopo Italia ‘61 l'edificio viene utilizzato prima come sede del Museo storico dell'areonautica militare e poi per grandi mostre o eventi: la grande vela diventa la sede dell'esposizione di molte discipline per la manifestazione “Sportuomo Torino 1980” promossa dal Comune di Torino.

Per le Olimpiadi invernali del 2006 si allestisce sotto la volta uno stadio, con una ristrutturazione curata da Gae Aulenti in cui, smantellate le vetrate, si inserisce un nuovo volume al suo interno (progetto di Gae Aulenti). Il nuovo stadio, tutt'ora in funzione, ospita per le Olimpiadi le specialità di Pattinaggio artistico e Short Track.

 

padiglione del ministero del lavoro

Posto tra il Palavela e il Palazzo del Lavoro, sulle rive del laghetto traversato dalla monorotaia, anche se piccolo rispetto ai vicini monumentali, l'edificio si distingue per la forma cilindrica, oggi ben inserita nel verde del Parco. Da via Ventimiglia l'edificio è ben leggibile, emergendo in particolare il restyling dell'involucro.

Realizzato per Italia '61 come padiglione del Ministero del Lavoro e degli istituti previdenziali, ha ospitato nell'occasione una mostra retrospettiva sulle conquiste sindacali nel periodo unitario.

 

campus onu

I padiglioni delle Regioni di Italia ’61 sono situati nella fascia tra Corso Unità d'Italia e il Po, in un'area di circa 15 ettari con andamento irregolare dato dai declivi delle sponde. L'ambito, tuttora utilizzato nel suo insieme, costituisce un comparto a se stante, recintato e separato dal traffico.

Il luogo è di notevole qualità paesaggistica. Gli edifici, variati ma unitari per stile e materiali,costituiscono un'alternanza di quinte inquadranti squarci di collina, boschi e tratti di fiume. Le pensiline che collegano gli edifici sono immerse nel verde degli alberi ad alto fusto residui dell'impianto a parco realizzato per Italia '61.

In occasione di Italia '61, la Mostra delle Regioni, fu organizzata secondo un impianto proposto da Renacco, che disegna una sorta di urbanizzazione da città-giardino. I Padiglioni, di diversi autori, obbediscono a regole compositive comuni, sono inseriti su una maglia quadrata e sono disposti in modo da ricordare nella sagoma complessiva la penisola italiana,

In pianta la riproduzione dell'Italia

Secondo le intenzioni del progetto complessivo la Mostra offriva ai visitatori una passeggiata “dal Trentino alla Sicilia in una successione di interni che tendono ad attenuarsi fino a sfumare in esterni riproducenti, per quanto possibile, i paesaggi propri di ogni singola regione ed intesi a sottolinearne sia le caratteristiche naturali, sia il tema di esposizione”. Un “Padiglione Unitario” è dedicato alla narrazione dei “Primi cento anni di unità”.

La Mostra, curata da Mario Soldati, rappresentava il vero spirito dell'intera iniziativa di Italia '61. Ogni padiglione era dedicato ad una regione che disponeva di un team di architetti per l'allestimento del tema designato. Nell'immagine il padiglione Veneto dal tema “il senso del colore e il governo delle acque” allestito da Carlo Scarpa.

Adattandosi all'andamento del terreno i progettisti, Carboni, Casati e Renacco, elaborano un sistema modulare a maglia quadrata con strutture leggere e prefabbricate in metallo e tamponamenti in vetro. Il sistema consente varie soluzioni, anche a due piani, in cui al piano terreno sono disposti i servizi, al primo piano le mostre.

Casati risolve il Padiglione unitario con un progetto razionalista classico, che rispetta la logica di impianto comune di tutti i padiglioni ma esalta la leggerezza della copertura, vetrando a tutta altezza le pareti principali.

Oltre alla disposizione dei padiglioni anche la scenografia attorno ad essi è pensata con elementi caratterizzanti gli ambienti tipici delle regioni: gli abeti intorno alle regioni alpine, i laghetti artificiali su cui si specchiano Veneto e Lombardia. U

Dal 1964 nei padiglioni trova sede il Centro Internazionale di Formazione, agenzia delle Nazioni Unite realizzata con il concorso dello Stato italiano.

Le destinazioni d'uso dei padiglioni nell'assetto dato al campus per la formazione internazionale. I diversi edifici sono riaccorpati in cinque gruppi in relazione ai continenti: America, Africa, Asia, Europa e Oceania.

Gli edifici sono stati oggetto di un importante intervento di ristrutturazione in occasione delle Olimpiadi di Torino 2006, quando hanno ospitato uno dei Villaggi Media.In questa occasione alcuni dei padiglioni sono stati sopraelevati tentando di ricostruire l'unità architettonica del complesso originario.

 

palazzo del lavoro

Il Palazzo del Lavoro è il più importante edificio per l'esposizione di Italia '61, straordinario per le dimensioni e per la tecnologia costruttiva, su progetto di Pierluigi Nervi, cardine di un piano urbanistico molto semplice ed efficace anche sul lungo periodo: edifici speciali separati da spazi verdi lungo un grande percorso rettilineo.

Situato al fondo del comprensorio espositivo, il Palazzo del Lavoro è stato lo scenario delle cartoline più memorabili di Italia '61, rappresentando contemporaneamente l'innovazione tecnologica e la potenza del progresso produttivo su cui era fondata la manifestazione.

In modo in parte imprevisto dai progettisti dell'esposizione, il Palazzo è diventato il landmark d'ingresso a Torino da Sud, un'immagine stabile che da oltre 50 anni costituisce un segno identitario per centinaia di migliaia di city user.

Il cantiere dura un anno. La sua organizzazione innovativa assicura un'esecuzione celere e perfetta: ogni 10 giorni si realizza uno dei 16 pilastri, nel frattempo le travi della copertura sono pronte, realizzate in officina e trasportate in cantiere nonostante le dimensioni gigantesche. Ferma la direzione complessiva di Nervi, per i lavori metallici ci si affida al Servizio

Il Palazzo del Lavoro continua in forme razionaliste gli archetipi delle costruzioni espositive con grande esibizione di ferro, vetro, luce: materiali della modernità sin dal Cryistal Palace del 1851o dal Palais des Machines del 1889.

"Mai tanti protagonisti tutti insieme... Gronchi e Signora, Fanfani e Signora (la prima), Merzagora e Signora, Pella e Signora, Colombo, l'Ambasciatore Arpesani e l'Ambasciatrice, forse Andreotti (qui la memoria mi tradisce) tutti in scuro e le Signore con cappellini stile Regina Elisabetta, scesa anche lei alcuni giorni dopo a Italia '61 in giallo smagliante".

Il Palazzo dopo il 1961 ospita il Centro di Assistenza Tecnica ai Paesi di Sviluppo a cui poi si aggiunge la facoltà di Economia e alcuni sportelli amministrativi. Per le Olimpiadi 2006 si 'impacchetta' l'edificio in tricolore per evitare una costosa manutenzione. Si susseguono ipotesi irrealizzate: nel 2005 Museo Egizio, dal 2009 una galleria commerciale che porta il Comune a varianti urbanistiche poi non approvate.

 

Le baraccopoli di Torino

 

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la baraccopoli di corso polonia

Fin dai primi anni del dopoguerra lungo le sponde dei corsi d’acqua che bagnano alcune aree della periferia torinese (Colletta, Pellerina, Basse di Stura, Bertolla), sorgono baraccamenti abusivi, emblema dell’emergenza abitativa che investe una città nella quale tra il 1953 e il 1965 il numero di abitanti aumenta sensibilmente. Tra i maggiori simboli di tale disordine abitativo vi sono i baraccamenti di corso Polonia, un “paese di assicelle, mattoni e lamiere tenuto insieme da spago e fil di ferro”, all’interno del quale, nel marzo 1955, vivono 115 nuclei familiari, pari a 460 persone. Si tratta, nella gran parte dei casi, di immigrati provenienti dalle regioni dell’Italia meridionale e dal Veneto, cui si aggiunge una cospicua quota di profughi giuliano-dalmati che non hanno trovato spazio tra i padiglioni delle Casermette di Borgo San Paolo, oppure arrivati in città in cerca di lavoro, dopo essere fuoriusciti dai centri di raccolta. L’applicazione della legge 640 del 9 agosto 1954 che prevede l’abbattimento delle abitazioni malsane e l’inizio dei lavori per le costruzioni di Italia 61, convincono il Comune a demolire, nel novembre 1956, gli insediamenti di corso Polonia trasferendo i residenti (165 famiglie) nei padiglioni delle Casermette Sud di Borgo San Paolo e, da qui, nei 152 alloggi di edilizia popolari del lotto SB1, noti come le case dei baraccati, edificati nel Villaggio di Santa Caterina a Lucento.

la baraccopoli del platz

La baraccopoli del Platz l’hanno scoperta abitando lì vicino, nella periferia nord di Torino, a poche centinaia di metri dal fiume Stura.

“Con mio fratello abbiamo abitato per tanti anni lì vicino, io ci abito ancora”, racconta Gianluca De Serio, nel 2011 regista insieme al fratello Massimiliano del film Sette opere di misericordia e oggi del documentario I ricordi del fiume, presentato fuori concorso all’ultimo Festival del cinema di Venezia. “Ci passavamo davanti tutti i giorni per andare verso il centro e vedevamo famiglie intere che si spostavano da lì lungo il fiume, per prendere l’acqua o la benzina, con i materassi, gli elettrodomestici, i carretti pieni di rifiuti pescati nei bidoni. Ci chiedevamo come fosse lì dentro. Che cosa ci fosse innanzitutto. Ci incuriosiva perché è un luogo che abbiamo visto crescere. Prima era un piccolo insediamento di poche baracche, poi nel giro di dieci anni si è ingrandito fino a diventare una città labirinto”.

Qualche anno fa, insieme ad alcuni amici appassionati di cinema, i De Serio hanno fondato un luogo ancora più vicino al Platz che si chiama il Piccolo Cinema Società di Mutuo Soccorso Cinematografico, e aiutando alcune associazioni di volontariato finalmente sono riusciti a entrare e a conoscere qualche famiglia, decidendo di girare lì un paio di scene di Sette opere di misericordia.

Il Platz adesso non esiste quasi più, smantellato nel febbraio del 2015 insieme ai suoi abitanti, rimandati in parte in Romania, in parte finiti in alloggi di fortuna, o trasferiti in case nuove. Alla notizia dello smantellamento, i fratelli De Serio hanno deciso di farne un documentario.

“Il vero protagonista del film è un luogo geografico”, dice ancora Gianluca, “che si nutre di uomini, di donne, di bambini, di vecchi. Una specie di mostro urbano che si è nutrito per anni dei lori ricordi, nascosto alla nostra vista dalla boscaglia che divide la strada dalla baraccopoli. Girando il film è come se ci fossimo immersi nella pancia di questo mostro, o nella testa, nella sua memoria”.

fonti:

http://www.museotorino.it/view/s/ff3010a173a04aa89c823e0da12430fb

http://www.minimaetmoralia.it/wp/i-ricordi-del-fiume/

 

La Mole Antonelliana e la sua storia

 

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La Mole antonelliana ha diverse caratteristiche strane e insolite. A parte lo stile indefinibile e personalissimo, e l’altezza (167,50 metri), c’è il fatto che è costruta tutta in mattoni ed è in effetti l’edificio in laterizi tradizionali più alto del mondo (primato che ha però perso quando negli anni ’30 l’edificio di Antonelli fu tutto sorretto, all'interno, da uno scheletro di cemento armato e la guglia, spazzata via dall'uragano del 1953, fu ricostruita in acciaio). Altra caratteristica curiosa è che non ha spazio prospettico orizzontale: si innalza come un edificio qualsiasi, circondata non da una piazza ma dalle vie adiacenti. Il turista non la vede, dalle vie vicine, tra gli alti edifici che la pressano da vicino e la occultano.

I Torinesi sono gelosi della loro mole e delle altre opere del loro estroso architetto, come la “Fetta di polenta”, un edificio a pianta trapezoidale-triangolare molto stretta (16mX5mX54cm), costituito da 9 piani, di cui 2 sotterranei, collegati da una piccola scala a forbice in pietra. Nel lato di 54 cm, per ottimizzare al massimo lo spazio, Antonelli decise di porre la canna fumaria. L’altezza complessiva dello stabile è invece di 24 metri. I primi tre piani furono ultimati nel 1840, mentre i successivi tre furono aggiunti nel 1881.

Doveva essere la sinagoga degli ebrei che volevano porre sulla guglia non un angelo ma una menorah un candelabro a 7 braccia.

Antonelli accettò volentieri l'incarico, anzi lo sollecitò, perché aveva la sua "arrière-pensée": approfittare dell'occasione, sino al punto di presentare ai committenti finti progetti, più modesti e meno dispendiosi, per costruire finalmente l'edificio che aveva in mente, che doveva sintetizzare in modo spettacolare le sue idee architettoniche. La progressiva scoperta del doppio gioco dell'Antonelli, costosissimo per i committenti, e il trasferimento della Capitale, indussero la comunità ebraica a ritirarsi e a costruirsi la sinagoga «moresca» nella attuale piazzetta Primo Levi.

Il Municipio torinese dell'epoca aveva pochi soldi, tanto che negò a Faà di Bruno un orologio per la sua torre in Borgo San Donato, ma Antonelli si fece eleggere assessore all’edilizia e fece votare la prosecuzione dei lavori, a costo di enormi spese.

Il Comune comprò dagli ebrei l'enorme cantiere interrotto e poi continuò a pagare, imperterrito, le spese che ogni anno aumentavano, per l'ossessione di Antonelli di andare sempre più in alto. La motivazione ufficiale era la creazione di una sede per il Museo nazionale del Risorgimento, ma dopo poco tempo, il Museo se ne andò dove tuttora è, a Palazzo Carignano. Da qui, l'ipotesi avanzata da chi ha approfondito la vicenda: inutile sul piano pratico, la Mole era preziosa sul piano simbolico per imporsi visivamente sui luoghi di culto cattolici, con il suo «Genio Alato», con tanto di pentacolo iniziatico, di stella a cinque punte.

Una caratteristica curiosa della Mole Antonelliana è illustrata da Vittorio Messori: “Quale altra città avrebbe eretto un simile monumento allineandolo rigorosamente, come una banale casa d'affitto, al rettifilo di una strada qualunque, un'anonima traversa come via Montebello? Se passi sotto i portici di via Po, della Mole non ti accorgi. Puoi addirittura non notarla se, in macchina, ci passi sotto. Tutto ciò che vedi sono solo delle colonne che potrebbero essere la facciata di una chiesa neoclassica, come quella di San Massimo. Davanti, non ha neanche una piazzetta, l'equivalente di un sagrato che ti permetta di vederla, seppure di scorcio. La sola possibilità che hai è metterti a naso per aria sul marciapiede antistante. Per renderti conto di quale colosso sia, di quanto sia smisurata la sua altezza, di quanto sia singolare la sua forma, devi andare al belvedere del Monte dei Cappuccini. Il clamoroso, lo strano, l'inedito, dunque, ma ligio alle norme dei regolamenti edilizi. Pensa a questo edificio inaudito (un'architettura unica nel panorama europeo, sia per stile - indefinibile, personalissimo - che per tecnica costruttiva) all'incrocio tra due di quei corsi vastissimi di cui la città non manca. O, che so, per stare dalle mie parti, piazzalo al fondo di piazza Statuto, dove c'è via Cibrario. O, sull'esempio della Gran Madre, al di là di un ponte sul Po, per esempio in corso Crimea. Ne uscirebbe uno scenario urbano strepitoso. Ma, forse, è proprio quello che si voleva evitare. Anche lo straordinario, qui, deve rispettare le regole. Rivoluzionari, visionari, ma con i documenti concessi e vidimati dalle Competenti Autorità. E non è una battuta: i capi di una delle pochissime rivolte torinesi, quella del 1821, non si accordarono con l'erede al trono prima di insorgere?”

 

Il campanile di Faà di Bruno

 

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Nel pieno corso della “guerra dei simboli”, degli architetti cattolici contro gli architetti anticlericali, il beato Francesco Faà di Bruno costruì una chiesa di cui diresse i lavori giorno per giorno, come una sorta di sfida alle leggi della fisica, come un capolavoro di ingegneria, per dimostrare che i credenti, per giunta intransigenti come lui, non erano affatto inferiori agli anticlericali quanto a modernità e abilità tecnica.

Alla sommità del vertiginoso campanile, che ha l'aspetto di una matita gigantesca, la cuspide è sormontata dalla statua in bronzo di un San Michele Arcangelo di cinque metri che, con la tromba, annuncia ai torinesi la fine del mondo, l'Apocalisse, e la convocazione al giudizio universale. Come diceva una voce tramandata dai vecchi del quartiere, succede talvolta che un certo vento, soffiando dentro quella tromba, ne tragga suoni inquietanti, quasi avvertimenti escatologici. O, più prosaicamente, un avviso di tempesta imminente, tanto che gli ambulanti, nel mercato della non lontana piazza Barcellona, udendo quel suono smontano i loro banchi.

Faà di Bruno muore nel 1888, due mesi dopo don Bosco: l'anno seguente, a Torino si inaugurava la Mole e a Parigi la "Tour" dell'ingegner Eiffel. L'uno sceglie i mattoni, l'altro il ferro, ma entrambi intendono glorificare quella nuova cultura della scienza e della tecnologia che avrebbe dovuto mostrare l'anacronismo cattolico e relegarlo tra le superstizioni. Ebbene, già anni prima, quel beato di Borgo San Donato aveva raccolto la sfida che, alla fine, riuscì a vincere. Per tenere in piedi la Mole la si dovette imbalsamare molto presto con una struttura interna in cemento armato; e, poi, giunse il tornado che sappiamo. La guglia, che non era stata rafforzata, fu sradicata. La torre di Faà di Bruno, invece - che è alta la metà, ma su una base di soli 25 metri quadri e che, parola di architetti moderni, non è per niente inferiore alla Mole come difficoltà strutturali - non ha mai avuto bisogno di stampelle e non c'è stata tempesta che l'abbia scalfita.

 

Via Roma negli anni ‘60

 

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Ecco come Vittorio Messori rievoca Via Roma negli anni ’60, al tempo del sul massimo splendore:

Era il nome della Venchi Unica che accoglieva chi usciva dalla stazione e che apriva la prospettiva della nostra strada principale, Via Roma. Quando calava la sera, eravamo orgogliosi dello spettacolo di una sorta di New York, almeno come ce la immaginavamo, ma con in più i portici in marmo e lo sfondo di Palazzo Reale illuminato: la lunga via era uno scintillio di enormi, colorate, talvolta animate insegne al neon, tutte in verticale.

Mi è irresistibile, a questo punto, la tentazione di soffermarmi su questa favolosa "regina viarum". Qualcuno dice che, tra i pur molti sventramenti e le molte ricostruzioni permesse o favorite dal fascismo, nessuna è stata più radicale, più estesa - e con maggiori pretese di lusso unito all'eleganza - di quella che, negli anni Trenta, rifece buona parte del centro di Torino. L'equivalente milanese, il corso del Littorio, ora Matteotti, che unisce San Babila a piazza Meda, non è che un'imitazione in scala ridotta e, in fondo, impoverita. I portici sono brevi, non così imponenti, e su un lato solo della strada e tutti ci passano in fretta, nessuno ci va apposta a vedere e a farsi vedere. Nella Capitale stessa, via della Conciliazione ebbe altri fini e voleva creare un collegamento monumentale tra il Tevere e San Pietro, non certo un luogo per il passeggio, gli affari, gli acquisti.

E invece, come dicevo, l'operazione via Roma non fu solo colossale ma pure riuscita. Sin troppo riuscita. A tal punto che (anche se a voi, delle generazioni successive, può sembrare ridicolo, se non impensabile) nessuno si azzardava sotto i portici di via Roma se non era vestito in modo giudicato adeguato a quell'ambiente scintillante. E, cioè, giacca e cravatta per gli uomini, mise elegante e sobria, tipo tailleur, per le donne. La via era sentita davvero, da tutti, come il salotto buono, a tal punto che era vietato il transito ai mezzi considerati poco «dignitosi»: i carretti a mano, allora ancora numerosi, e anche - ma sì - le biciclette che non erano, come adesso, lo sfizio elegante di chi ha un paio di automobili in garage, ma il mezzo povero di chi non poteva permettersi altro.

La ricerca di eleganza dei progettisti era stata tale che il primo tratto, quello «in stile», tra piazza Castello e piazza San Carlo, era pavimentato con cubetti di legno: davvero un salotto, con tanto di parquet. Tutta la strada riemerse intatta dai bombardamenti (e fu forse l'unica del centro: via Po, via Garibaldi, tanto per dire, furono sfregiate), tranne che per qualche spezzone che aveva incendiato proprio quel legno, che ricordo rattoppato con larghe chiazze di asfalto.

L'atmosfera da grande città non solo elegante ma pure moderna ricevette una pennellata ulteriore quando fu trasformata in parcheggio pubblico sotterraneo - ovviamente, il primo di Torino - la galleria sotterranea che, riedificando la via, era stata prevista come primo tratto per la ferrovia metropolitana. Un ambiente affascinante (con, fra l'altro, i resti, ritrovati casualmente, della fognatura romana) al quale si accedeva, per i pedoni, dalla piazzetta delle due fontane - il Po e la Dora - dietro le chiese gemelle di piazza San Carlo. Questi spazi sotterranei erano di proprietà comunale e per anni, prima della trasformazione in parcheggio, furono utilizzati per le manifestazioni più eterogenee. Ricordo di esserci andato per vedere (a pagamento) un celebre fachiro indiano - si chiamava Burman - che si era fatto sigillare in una cassa di vetro per battervi il record mondiale di digiuno. Giaceva seminudo, ovviamente magrissimo, con in testa un turbante e sui fianchi solo un perizoma. Accanto - tanto per completare lo sbalordimento di noi che avevamo pagato il biglietto - aveva dei serpenti, presentati come velenosissimi. Ovviamente indimenticabile, per un bambino. Tanto che, come vedi, non ho scordato nemmeno il nome di quel santone. Ma indimenticabile era anche il ristorante proprio accanto all'ingresso di quel sotterraneo: era Il Cuculo, che aveva fama di essere il più caro della città e sulle cui raffinatezze favoleggiavano i pochissimi (noi non ne conoscevamo alcuno) che ne avevano frequentato gli interni, del tutto invisibili da fuori. La vetrina del ristorante che dava sulla piazzetta era occupata da una grande vasca, dove si muovevano enormi aragoste, vive e mostruose. Non era anche questa un'eccentricità degna di una metropoli? Così ci chiedevamo, fieri, rallegrandoci di vivere in una capitale.

Ma tutta via Roma era la strada delle meraviglie: c'era, enorme e splendente, tutto vetri, il salone della Fiat, all'angolo che dava sull'albergo Principi di Piemonte, anch'esso un mito inavvicinabile per la gente normale, il solo, vero grand hotel moderno di Torino. L'unico che, all'entrata, avesse degli intimidenti valletti in pastrano con alamari e, addirittura, uno con un cilindro. C'era anche il classico, glorioso Turin di via Sacchi, d'accordo, ma era in un vecchio palazzo, anonimo, eguale a tutti gli altri della zona porticata, quella sottoposta a rigorosa uniformità. Nell'immenso, scintillante ambiente, senza mura perimetrali perché tutto vetrate alte come i portici, chiunque poteva non solo ammirare gli ultimi modelli ma, addirittura, salirvi sopra, stringere il volante, toccare pulsanti e leva del cambio. Lì non si vendeva né si comprava (per farlo, bisognava andare alla filiale di corso Bramante, che aveva dimensioni, architettura, burocrazia da ministero); lì, in via Roma, la grande azienda, con sorriso materno e stile signorile, presentava se stessa e la bellezza unita alla tecnica, ovviamente definita «modernissima», delle sue realizzazioni. L'uscita di un nuovo modello era un evento nazionale, in qualche modo storico: non esagero, pensa a ciò che hanno significato per il Paese, a parte l'allora ormai passata stagione di Balilla e Topolino, la Cinquecento, la Seicento, la Millecento. Quando, mi pare negli anni Ottanta (già non ero più a Torino), seppi che la Fiat chiudeva quel salone, sulle prime non ci volevo credere, pensavo a uno scherzo di cattivo gusto. Ma poi, avutane conferma, mi rattristai: gran brutto segno la rinuncia a una vetrina leggendaria. Pessimo sintomo, per l'azienda, la chiusura di un luogo dove - il sabato pomeriggio, vestiti a festa - anche gli operai che avevano costruito quelle macchine, sacramentando contro il padrone per la fatica e i disagi, venivano con i figli per mostrargliele orgogliosi.

Un giro di prova per i nuovi modelli era prenotabile in via Roma: il turno veniva fissato con partenza davanti a quel Castello del Valentino che era anche il fondale obbligato per tutte le foto delle fuoriserie dei carrozzieri torinesi. Giovanbattista Farina detto Pinìn innanzitutto; ma anche Ghia, Vignale, Viotti, Bertone e poi la mitica Abarth, con le sue auto «truccate» e il simbolo minaccioso dello scorpione, sogno di tutti i giovani (io, forse, il solo escluso: ti ho detto della passione perle Lancia).

Proseguo, nella memoria, il giro in via Roma, "rue des merveilles". Da casa Fiat, nella zona «modernista», piacentiniana, trasferiamoci nell'altra parte della via, quella «in stile», vicino a piazza Castello. Accanto alla boutique della Rolex (ovviamente, l'orologeria più esclusiva) era offerta un'altra esperienza, da un altro salone, ben più piccolo di quello Fiat ma di una modernità sofisticata, come voleva la tradizione Olivetti. In effetti, in via Roma la casa di Ivrea esponeva - all'esterno, su colonnine in acciaio, naturalmente di grande design - le sue ultime macchine per scrivere e le sue ultime calcolatrici. Chiunque, stando in piedi sotto i portici, poteva provarle.

Nel primo tratto di portici, proprio accanto al salone, la Stipel aveva il suo «posto d'accettazione centrale», come si diceva nel linguaggio dell'azienda. In quella strada tutto doveva essere al meglio, tutto doveva avere l'abito della festa. Dunque, non c'era, in via Roma, la spartana funzionalità del posto telefonico di Porta Nuova, che era un grande stanzone sul lato di via Sacchi, con due file contrapposte di cabine, due fattorini in divisa marrone con una borsa a tracolla piena di gettoni e, a un bancone, dietro una vetrata, cinque telefoniste in camice nero per l'accettazione delle interurbane e delle chiamate internazionali. Le sere d'estate, quel posto restava aperto sino a mezzanotte, il sabato sino all'una, e mi rallegravo quando toccava a me e a un altro collega dare il cambio alle donne, allo scoccare delle dieci. Due o tre ore di "full immersion" in una Torino da romanzo di Arpino: notturna, inquieta, afosa, equivoca, persino affollata, cosa rara da noi, in quel suo cuore oscuro che è sempre stata (come in ogni grande città) la stazione ferroviaria centrale. Una funzionalità essenziale, dunque, nell'ufficio di Porta Nuova. In via Roma, invece, la sede Stipel era addirittura lussuosa, per quel posto di rappresentanza la direzione selezionava le telefoniste più carine. Qui, fra l'altro, c'era un servizio unico in città: chi voleva, poteva telefonare non nelle soffocanti cabine, ma seduto a un elegante ripiano di vetro, con uno di quei telefoni da tavolo che solo i benestanti possedevano in casa, visto che per averlo bisognava pagare un supplemento. Noi, gente comune, avevamo tutti la scatola nera (come per la Ford modello T, non era previsto altro colore) con la cornetta, appesa al muro dell'entrata. Un'ulteriore emozione, dunque, offerta da quella strada straordinaria: la telefonata pubblica stando seduti e con l'apparecchio dei privilegiati.

Ma c'erano, in via Roma, altre emozioni da provare: quella, ad esempio, di andare su e giù sulla scala mobile (forse la prima, di certo la più lunga della città, come diceva anche la pubblicità) che univa il pianterreno al salone sotterraneo dell'Upim.

 

fonti:

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, edizione eBook, posiz. 329,7

 

Via Garibaldi

 

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Via Garibaldi rappresenta una delle vie cittadine più antiche, uno degli assi principali della Julia Augusta Taurinorum, sino a via della Consolata. Sotto Vittorio Amedeo II venne prolungata all'attuale corso Valdocco e nell'Ottocento venne infine collegata a piazza Statuto mediante l'ultimo tratto provvisto di edifici con portici.

Da sempre via principale della città, per la sua lunghezza, fino al 1882 era nota ai torinesi come Contrà Dòira Gròssa (in italiano "Contrada di Dora Grossa").

Circondata da palazzi del Settecento è considerata, con i suoi 963 metri di sviluppo, la seconda via europea pedonale più lunga, dopo rue Sainte-Catherine a Bordeaux. Collega piazza Castello con piazza Statuto, ed è tutta pedonale dal 1979.

La storia di via Garibaldi è antica quanto la città. In epoca romana, era il decumanus maximus dell'allora Julia Augusta Taurinorum e costituiva, insieme al cardo maximus (ovvero le attuali via San Francesco e via Porta Palatina), uno dei due principali assi dell'antica città romana, che allora contava appena cinquemila abitanti e collegava due delle quattro porte di accesso alla città: la Porta Decumana e la Porta Prætoria.

La Porta Decumana è tuttora individuabile nelle torri anteriori di Palazzo Madama, mentre la porta occidentale, ovvero la Porta Prætoria, era collocata sull'attuale via Garibaldi, all'altezza di via della Consolata. La via si deteriorò durante il periodo successivo alla caduta dell'Impero romano d'Occidente, riducendosi ad appena quattro metri di larghezza e facendosi angusta e sterrata, costeggiata da edifici bassi in mattoni e alcuni slarghi in corrispondenza dei templi trasformati in chiese; a quel tempo era denominata “strata Civitatis Taurini”. Mantenne nondimeno la sua funzione commerciale, data dalla sua notevole importanza: questo era il percorso che facevano i mercanti che, entrando in città dalla Porta Segusina, l'attraversavano. Appunto per questo, uno dei diversi nomi che la via assunse nel tempo fu "via Sant'Espedito", protettore dei mercanti.

Tuttavia, con il tempo, la strada assunse il nome di Contrada Dora Grossa, dovendo tale nome, con tutta probabilità, a un progetto piuttosto curioso realizzato per volontà di Emanuele Filiberto: nel 1573 egli ordinò di canalizzare la vicina Dora e l'acqua di altri canali cittadini per utilizzarla al fine di ripulire i vicoli della città. In piemontese la parola doira, infatti, indica un piccolo torrente o rigagnolo e poiché la nuova doira realizzata lungo la via era divenuta uno dei principali canali della città, la strada prese da essa la sua denominazione storica.

Il traffico dei carri, dei cavalieri e dei pedoni che percorrevano la via non era certo favorito dalla presenza di tale filo d'acqua; basti pensare che la via aveva la larghezza totale di 4 a 5 metri (fig. 17) e che per il suo andamento alquanto irregolare, benché nel complesso rettilineo, ben scarse restavano ai lati della « doira » le zone transitabili. E inconvenienti di varia natura dovevano essercene se il Magistrato Sopraintendente alle strade della Città (Luigi Pizzami-glio), nel 1605 emanava una « grida da richiamarsi ogni anno », nella quale tra l'altro era detto: « siccome il gran numero di carri i quali entrano in questa Città sono causa in parte che le strade principali, e più di tutte la contrada Dora Grossa, siano mal nette e incomode a transitarsi, cosi si ordina a chiunque transiti di aiutare a nettarle e in specie alli bovari sia di questa Città che forestieri ».

Esistevano allora sulla fronte della via Dora Grossa case medioevali rifatte sugli stessi incerti allineamenti del Decumano romano, in parte di buona fattura, talvolta con portici (fig. 5), simili a quelle di cui esistono ancora esempi importanti in varie cittadine Piemon-tesi. Esisteva la torre del Comune (fig. 6) che era situata, come è noto, all'angolo della via San Francesco d'Assisi, completata sin dal 1350 con una campana ed un Orologio Civico. Già abbellivano la via Dora Grossa le facciate delle Chiese di San Dalmazzo (fig. 19), della Trinità (fig. 10), dei SS. Martiri (fig. 9), disposte su piazzette arretrate rispetto al filo della via Dora Grossa, così che quando fu deciso l'ampliamento della via questo non fu di pregiudizio alla loro conservazione.

Esistevano allora sulla fronte della via Dora Grossa case medioevali rifatte sugli stessi incerti allineamenti del Decumano romano, in parte di buona fattura, talvolta con portici, simili a quelle di cui esistono ancora esempi importanti in varie cittadine Piemon-tesi. Esisteva la torre del Comune che era situata, come è noto, all'angolo della via San Francesco d'Assisi, completata sin dal 1350 con una campana ed un Orologio Civico. Già abbellivano la via Dora Grossa le facciate delle Chiese di San Dalmazzo, della Trinità, dei SS. Martiri, disposte su piazzette arretrate rispetto al filo della via Dora Grossa, così che quando fu deciso l'ampliamento della via questo non fu di pregiudizio alla loro conservazione.

Dal 1714 i lavori ordinati da Vittorio Amedeo II di Savoia e continuati dal successore Carlo Emanuele III, in collaborazione con Filippo Juvarra, ne ridefinirono il perimetro e ne prolungarono il tracciato. Nell'Ottocento, a seguito dei nuovi ampliamenti della città, via Dora Grossa venne collegata a piazza Statuto.

Dato che al centro della contrada scorreva un rio e numerose « pianche » o ponticelli ne favorivano l'attraversamento, non era raro il caso di vedere, qualora l'acqua fosse più alta, signore prese in braccio per essere aiutate nell'attraversamento senza bagnare le lunghe sottane. I ponticelli erano formati da una lastra di pietra sorretta da una coppia di bassi pilastrini, pure in pietra, che il popolo aveva definito «dent 'd Ravera». Costui era il tecnico del Vicariato, incaricato di queste piccole opere pubbliche. Soltanto dopo il 1830 l'arteria fu dotata di un canale sotterraneo ed abolita la « dòira grossa ».

Poiché rappresentava la via principale della città, sulla quale sorgevano molti dei più importanti edifici già fin dal 1730 la strada era dotata, dai due lati, di marciapiedi rialzati, oggi considerato con buona probabilità il più antico d'Europa. Fu anche una delle poche strade torinesi lastricate, invece del normale terreno battuto che caratterizzava le vie cittadine del tempo. Rimodernata lungo tutto il XVIII secolo, via Dora Grossa vide costruire ai suoi lati splendide chiese e accrescere sempre più il prestigio dato dalle sue attività commerciali.

Solo sette anni dopo e cioè a partire dal 1782 la via fu poi regolarmente (se pure più modestamente) illuminata tutte le notti; lastroni di pietra lungo le case alti quattro once sul piano stradale furono pure collocati in questa occasione, e detta illuminazione e i marciapiedi furono così graditi ai pedoni torinesi e forestieri che (grazie ad essi) la via Dora Grossa si trovò citata tra le vie più importanti delle Città Europee.

Dopo l'occupazione francese durante il periodo napoleonico la via fu rinominata rue du Mont-Cenise (via Moncenisio), ma con il ritorno dei Savoia nel 1814 tornò a chiamarsi via Dora Grossa.

In seguito all'Unità d'Italia, infine, essa venne intitolata a Giuseppe Garibaldi.

Ecco come Edmondo de Amicis descrive Via di Dora Grossa alla fine dell’Ottocento:

«Per chi entra in via Dora Grossa dalla piazza Castello con tempo sereno, la vista è più attratta dalla cortina bianca delle Alpi che chiude la via a ponente, che non dalla sequenza delle facciate delle case che stagliano un lunghissimo rettangolo di cielo fra le due file di case uniformi, su cui lo sguardo scivola dal cornicione al marciapiede, senza trovar nulla che Parresti, allineate come lo erano i vecchi reggimenti piemontesi, con regolarità che a grado grado fa forza al gusto e soggioga la fantasia... a poco a poco anche ilforestiero prende amore a quest'uniformità che lascia la mente libera, a questa specie di dignità edilizia.

Non c'è infatti il palazzo vistoso del gran signore che schiaccia gli edifici circostanti e da l'immagine d'una vita splendida e superba.

L'Architettura è democratica e uguagliatrice. Le case possono chiamarsi fra loro " Cittadina " e darsi del tu. La divisione delle classi sociali e strati sottoposti dal piano nobile ai tetti toglie a questa via come alle altre della maggior parte centrale della città quelle opposizioni visibili di magnificenza e di miseria, che accendono nell'immaginazione il desiderio inquieto e triste delle grandi ricchezze.

Eppure chi si attarda ad esaminare attentamente le facciate ed i particolari decorativi è attratto dalle linee armoniose dell'insieme, dai ferri battuti bellissimi delle roste e dei balconi, e prova il desiderio di gustare meglio e più da vicino i particolari delle sagome e il ricamo dei ferri battuti, cercando di indovinare i segni delle facciate del piano terreno, che sono scomparse sotto le insegne vistose dei negozi moderni. L'interno lo attrae meno, gli atrii importanti sono pochi, i più sono modesti e taluni anche poco accoglienti.

L'architettura è segnata da poche e forti sagome, sovente solo da fascie, ma di sentita sporgenza, ricavata di getto con rintonaco sulla imbastitura di pochi rilievi della muratura ordinaria, con lavoro di spatola e cazzuolino alternato e finito talvolta a colpi di pollice « con arte e abilità (dice il Ferrante) di cui si sono perduti e gli allievi e i maestri.

Le tinte variano dal grigio al giallo, dal calcare cupo all'oro pallido, sono miste a sfumature e a mezze tinte, innumerevoli, dal verdognolo al grigio, che si perdono in una tinta generale giallastra un po' sbiadita.

Tale la via realizzata duecento anni or sono, ampliando, sotto i segni della regalità recente del Piemonte, la via Major, il Decumano, la via più lunga e importante della primitiva Colonia Julia.

Da un secolo era stata ampliata la piazza Castello e aperta la via Nuova sul fondale del palazzo ancora Ducale, e da dieci lustri era stata creata la via di Po avente per sfondo la facciata principale a levante del Castello, quando il Juvara con arte somma creava a ponente di esso la nuova facciata che lo completava e lo trasformava in Palazzo che prese il nome di Madama Reale.»

 

L’architettura industriale: Lingotto e non solo.

 

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Edificio della Fondazione Mario Merz

La Fondazione Merz nasce nel 2005 a Torino come spazio espositivo volto a ospitare le opere di Mario Merz (1925-2003), esponente italiano dell’arte moderna e dell’arte povera. E’ disposta su una superficie di oltre 1.500 metri quadrati, all’interno di un edificio in stile razionalista originario degli anni ’30, già sede della centrale termica delle officine Lancia. Lo spazio espositivo rappresenta un ottimo esempio di recupero di strutture industriali, sapientemente portato a termine dal Comune di Torino in collaborazione con la regione Piemonte, con la contribuzione di fondi privati. La riqualificazione dell’edificio è stata caratterizzata dalla ricerca della semplicità, prediligendo forme e colori neutri e tenendo in considerazione la funzione originaria dello stabilimento. Una riconversione che spicca nel panorama delle opere di recupero degli edifici industriali di Torino, il cui assetto urbanistico è stato drasticamente modificato dalla costruzione della Metropolitana, dalla realizzazione di servizi e impianti per i Giochi Invernali del 2006 e, inoltre, anche dalla forte immigrazione interna al paese avvenuta durante gli anni Sessanta.

 

I portici di Torino

 

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Una caratteristica di Torino è costituita dai portici che si sviluppano per oltre 18 km dei quali circa 12 sono interconnessi.

Sono uno dei simboli della storia e dell’eleganza del capoluogo piemontese. I Portici di Torino, con i loro 18 km di arcate, rappresentano un patrimonio storico e architettonico, una grandiosa eccellenza cittadina, che si sviluppa tra palazzi antichi ed edifici di inizio Novecento, con stili e materiali diversi.

I portici nascono come suggestivo spazio scenografico, dalla grande bellezza architettonica, ( con i loro 18 chilometri di lunghezza hanno permesso a Torino di conquistare il primato di città con la più ampia zona pedonale d’Europa). E sono stati sviluppati in origine per consentire ai nobili torinese di fare comode passeggiate, al riparo dalla pioggia o dal troppo sole.

I primi portici risalivano al Medioevo ma è a partire dal XVII secolo che si cominciò a costruire i portici monumentali tuttora presenti.

La prima testimonianza è l’ordinanza di Carlo Emanuele I di Savoia del 16 giugno 1606 in merito alla costruzione di piazza Castello secondo il progetto di Ascanio Vittozzi che comprendeva portici attorno a tutta la piazza. Anche nel progetto di piazza San Carlo di Amedeo di Castellamonte di qualche anno successivo erano previsti portici tutt’attorno. Negli stessi anni Filippo Juvarra costruì i portici di porta Palazzo. Nel 1765 Benedetto Alfieri ebbe l’incarico di rifare i portici di piazza Palazzo di Città mentre nel corso del XIX secolo si aggiunsero quelli dell’attuale piazza Vittorio Veneto, piazza Carlo Felice e piazza Statuto. Le due stazioni ferroviarie di Porta Nuova e Porta Susa vennero congiunte con un percorso porticato attraverso Corso Vittorio Emanuele II, corso Vinzaglio, via Sacchi, via Nizza, via Pietro Micca e via Cernaia.

La storia infine ricorda che fu re Vittorio Emanuele I di Savoia a volere la costruzione dei 2 chilometri di portici tra Piazza Castello e Palazzo Reale e Piazza Vittorio per raggiungere comodamente, con la propria famiglia, la Chiesa della Gran Madre.

Questi alcuni punti salienti nella storia. Ma i portici rappresentano ancora oggi una parte suggestiva e spettacolare della città e accompagnando cittadini e turisti attraverso lunghe passeggiate, fra negozi e caffé storici.

Per valorizzare questo importante patrimonio architettonico, nel 2018 è nata l’associazione “Portici e Gallerie di Torino” è sono ormai numerose le manifestazioni che si svolgono in questi spazi che trasudano storia: da “Portici di Carta“, la libreria più lunga del mondo, a “Portici Divini“, grande evento dedicato al vino, fino a “Dolci Portici“, dove a primeggiare sono le eccellenze dell’arte dolciaria.

“E' monastica, Torino, anche perché i suoi dodici chilometri di portici ininterrotti formano il più lungo, il più grandioso chiostro del mondo. Vi si passeggia volentieri - e la meditazione è agevole, sotto quelle arcate, al contempo ariose e protettive - proprio come avviene in un'abbazia. Chi può sapere quali pensieri, e quando, germineranno in un frequentatore di quei portici? E chi può sapere in che modo quei pensieri diverranno cose, eventi, idee che plasmeranno il volto della città e le ridaranno un ruolo imprevedibile?”. Così Vittorio Messori descrive l’atmosfera che si respira sotto i portici.

Ma la funzione dei portici era anche un'altra, meno nota. A Torino si tenevano due fiere, una all'inizio di maggio, una durante tutto il carnevale e si tenevano sotto i portici di Via Po, originariamente appartenenti al palazzo del Conte di Aglié, uno dei pochissimi palassi presenti a Torino nel primo quarto del Seicento, insieme a quello di Luisa Langosco di Stroppiana e a quello del Conte Solaro della Margarita.

 

fonti:

https://torinonews24.it/news/storia-dei-portici-di-torino-18-km-di-eleganza-per-uno-dei-simboli-piu-belli-della-citta/

http://www.vedereinitalia.it/portici-di-torino/

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, versione eBook, posiz. 749,3

 

La piazza della ghigliottina a Torino

 

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Il periodo di maggior lavoro della storia dei carnefici torinesi furono i quattordici anni di dominazione francese, tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento. In piazza Carlina, ribattezzata naturalmente «piace de la Liberté», furono ghigliottinate 423 persone (112 nel solo 1803), in una città che contava meno di 60000 abitanti. Pare che l'Inquisizione piemontese, che aveva sede nella chiesa di San Domenico in via Milano, in molti secoli di attività abbia fatto meno di un quinto delle vittime di quei quattordici anni prima giacobini e poi napoleonici: in ogni caso, anni «illuminati», di «civile progresso».

 

Gli obelischi di Torino e altre pietre storiche

 

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l’obelisco di piazza savoia

Alto, svettante in piazza Savoia, piazza dedicata alla omonima regione francese e non alla dinastia sabauda, come si potrebbe pensare. È uno dei più curiosi monumenti torinesi e può dirsi “di ferro” per aver resistito alle granate - l’hanno lievemente sbrecciato – ma solo in qualche punto – e ai più forti bombardamenti della seconda guerra mondiale. Per poco non è stato abbattuto durante la ritirata dei tedeschi e l'ingresso in città delle forze partigiane, quando da corso SIccardi, quasi all'angolo con via Cernaia, gli spararono contro con un cannoncino. L'obelisco oscillò ma rimase in piedi. Per erigere questa guglia il quotidiano "Gazzetta del popolo" aprì una sottoscrizione il 15 giugno 1850 e riuscì a mettere insieme settantamila lire. Il monumento intendeva celebrare l'abolizione del Foro ecclesiastico decretata dalla legge Siccardi, che sottopose ai tribunali civili anche le cause giudiziarie riguardanti ecclesiastici. Disegnato dal pittore Luig Quarenghi, l'obelisco fu terminato nel 1853 e subito venne giudicato "privo di qualsiasi fantasia". "Nessuno avrà mai il tempo di leggerlo tutto", fu commentato. E per leggerlo, pensiamo, ci vorrebbe anche un cannocchiale. La sua superficie è zeppa di parole: sono i nomi di tutti i comuni che, in nome della legge Siccardi, concorsero alla sua costruzione. Scolpiti in caratteri non troppo grandi, dalla piazza sono leggibli con difficoltà.

La scritta che campeggia alla base dell’obelisco e quella che si vede nelle aule giudiziarie: «La legge e uguale per tutti». Si è anche rilevato che questa perentoria affermazione è sui lato del monumento che, più o meno, guarda verso il cimitero generale, dove davvero tutti sono uguali. Occorse del tempo, anni fa, perché fosse lavata una scritta in rosso apposta nottetempo dai soliti ignoti che aggiungeva «ma non tutti sono uguali davanti alla legge». In un primo tempo vi era stata la richiesta di collocare questa “guglia” in piazza Carignano, davanti al Parlamento Subalpino, ma avevano subito espresso dubbi quelli che oggi si definiscono «stilisti dell’arredo urbano». Avrebbe mutato, in peggio, lo scenario della piazza. Allora la “guglia” fu destinata a piazza Paesana come si chiamava allora, dal nome d’un vicino palazzo; in orece-denza era detta piazza Susina, poi fu dedicata alla Savoia Chi guarda l'obelisco ignora perché lo abbiano eretto; certe celebrazioni si appannano con il tempo. Non sa che sepolto sotto la base, in una specie di nicchia, vi è una cassa contenente i numeri 141 e 142 della "Gazzetta del Popolo" editi nel 1850, che parlano del monument0, della sottoscrizione e del progetto; alcune monete dell'epoca, un chilogrammo di riso e di altri cereali e sementi, una bottiglia di barbera e un pacco di grissini. Se Torino dovesse, per malasorte deprecabile, essere distrutta, se vi fosse una sorta di catastrofe nucleare, i superstiti, fra chissà quanti anni, troverebbero incuriositi tra le rovine di piazza Savoia questa cassa e, forse, stenterebbero a decifrarne il messaggio.

 

una scatola del tempo sotto l’obelisco di piazza savoia

 

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Il vero segreto nascosto dell’Obelisco di Piazza Savoia si trova sottoterra, perpendicolarmente all’obelisco.

In una cassa di legno vennero infatti sepolti vari oggetti dal significato simbolico.

All’interno di questa “scatola del tempo” vi sono ancora oggi i numeri 141 e 142 de “la Gazzetta del Popolo”, contenenti l’invito alla suddetta sottoscrizione e il progetto della stele, alcune monete dell’epoca, come si era soliti deporre all’epoca nella prima pietra degli edifici, un chilogrammo di riso, una bottiglia di Barbera ed un fascio di grissini, a rappresentare i prodotti delle terre locali.

 

fonti:

https://mole24.it/2012/05/18/la-scatola-del-tempo-torino/

 

la guglia beccaria

Dirimpetto a via Garibaldi, s’innalza un Obelisco, detto comunente Guglia Beccaria, dal nome del fìsico padre G. B. Beccaria. VObelisco segna la base dei lavori trigonometrici per il meridiano di Torino da lui compiuti nel secolo scorso per ordine di Carlo Emanuele III.

 

la colonna votiva alla consolata

Nel 1835 il colera arrivò a Torino minacciando la comunità e costringendo le autorità a prendere i necessari provvedimenti.

Oltre alle misure igieniche sanitarie adottate che limitarono i casi di decesso a 220, l’amministrazione deliberò un voto pubblico alla Vergine della Consolata, patrona di Torino.

Sconfitto il male, il Comune adempì il voto facendo costruire, nella piccola piazza adiacente la Basilica della Consolata, una colonna votiva in granito con in cima la statua della Santissima Vergine.

Per l’esecuzione dell’opera furono chiamati due illustri artisti del tempo: l’architetto neoclassico Ferdinando Coronesi che si occupò della colonna (per il trasporto della quale fu costruito uno speciale carro che permise il tragitto da Baime-Biella a Torino), e Giuseppe Bogliani, artista neoclassico che creò la statua.

Il 28 maggio 1836 fu posta la prima pietra, il 20 giugno 1837 avvenne l’inaugurazione e la benedizione della statua della Madonna, accompagnata dal canto dell’ Ave Maris Stella e dal suono delle campane a festa.

 

i massi del monumento al frejus

Il concetto dello strano ed originale monumento : La Scienza, che trionfa della forza materiale, fu dato dal conte Panissera, modellato dallo scultore Belli ed eseguito dagli allievi dell’ Accademia Albertina.

Dei grandi massi (tolti dalla galleria) schiacciano dei titani di marmo bianco , rappresentanti la forza brutale soggiogata dal genio della scienza che spicca il volo e scrive a caratteri d’ oro sulla sommità i nomi dei tre ingegneri : Germano Sommelier, Severino Grattoni e Sebastiano Grandis. Questa figura è opera dello scultore Tabacchi.

Il monumento, innalzato per iniziativa delle società operaie, venne inaugurato nel 1879.

L’ esecuzione fu a scapito del progetto primitivo.

 

la pietra del fallito

 

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Era un cimelio curioso della Torino più antica. Su questo masso, rimosso nel 1853, si faceva ricadere con una certa violenza il fondoschiena di chi aveva fatto fallimento, dando così un senso all’espressione del piemontese più schietto «Bate ‘1 cui su la pera», ossia sbattere il sedere sulla pietra. Il masso si trovava sull’angolo dell’attuale via Milano con via Corte d'Appello. Il masso costituiva un incubo, una sorta di patibolo, per coloro che, avendo un negozio. un’impresa commerciale di qualsiasi genere, erano falliti senza aver potuto soddisfare in qualche modo i creditori. Il malcapitato fallito era sbattuto più volte sulla pietra, mentre la plebaglia, assiepata sui marciapiedi, si diveniva un mondo alle sue smorfie di dolore, non solo, ma incitava gli addetti dei comune a dare più strattoni di corda per farlo «ben saltare sulle chiappe». In altre circostanze - e qui la tradizione presenta aspetti contraddittori - il fallito era fatto sbattere su una panca di legno tante volte sino a quando la panca non si fosse rotta. Venne da tale usanza il detto volgare piemontese corrispondente a “fare bancarotta”; la panca spezzata assumeva agli occhi dei creditori una sorta di risarcimento, anche se nessuno, pur divertito assistendo al supplizio, incassava un centesimo.

 

fonte:

Renzo Rossotti, Guida insolita di Torino, p. 228

 

le lose e la pietra di luserna a torino

La pavimentazione tradizionale delle vie di Torino è quella con lastre di pietra (“lose”) posate su un fondo di sabbia. Di queste lastre, una parte viene dalle montagne circostanti: si tratta delle lose in pietra di Luserna, che sono state utilizzate a Torino e dintorni a partire dalla metà del Seicento, ad esempio per le pavimentazioni esterne dei Palazzi Reali di Torino, Racconigi e Venaria Reale. Ma non solo.

La pietra di Luserna, la cui estrazione è limitata alla porzione dell’areale dei comuni di Luserna San Giovanni, Rorà e Bagnolo Piemonte (tra le province di Torino e Cuneo), è un materiale lapideo nobile e pregiato, ed è stata usata come materiale da costruzione fin dai tempi più remoti, anche come elemento per muratura. La lavorazione tipica era, e parzialmente rimane ancora oggi, la spaccatura dei blocchi in lastre e la loro successiva riquadratura in prodotti da pavimentazione urbana (lastre, cordoli da marciapiede, trottatoi, cunettoni, ecc.), da costruzione vera e propria (lastre da balcone, modiglioni, gradini, alzate, soglie, stipiti ed architravi), da copertura (le famose lose da tetto) e da edilizia funeraria. Fin dal secolo XVII la Pietra di Luserna ha avuto impieghi nobili come le pavimentazioni esterne dei palazzi reali di Torino, Racconigi e Venaria Reale, per citare solo i più noti. Altro impiego molto importante è la copertura a lose voluta dall'architetto Alessandro Antonelli per la Mole Antonelliana di Torino, nella cui struttura furono intercalate lastre, visibili anche oggi, tra i corsi di mattoni, allo scopo di dare maggiore solidità all'edificio che, al tempo della sua costruzione, era il più alto al mondo in muratura. Più in generale risulta che, nel periodo tra le due guerre del XX secolo, il 90% delle scale e dei marciapiedi di Torino era in Pietra di Luserna.

 

fonti:

https://ilgiornaledellarchitettura.com/web/2016/06/08/pavimentazioni-e-rivestimenti-in-pietra-di-luserna-una-scelta-di-stile/

Wikipedia, “Pietra di Luserna”

 

la storia dei tagliatori della pietra di luserna

 

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In Valle Po e in Valle Varaita esisteva un’alternativa alla vita di agricoltore o di emigrante ed era quella di andare a lavorare in una cava di pietra. Mentre in Valle Vara.ta s> trattava di un luogo di estrazione posto vicino al fondovalle, nell altra zona si doveva raggiungere la sommità di una montagna. Non si trattava comunque, in entramb. i casi, di sostituire completamente la tradizionale attività agricola; questa veniva comunque continuata da parte degli altri componenti della famiglia, mogli e figli soprattutto, e dallo stesso cavatore. Infatti, le lunghe giornate estive consentivano, al termine dell orano di lavoro nella cava, di occuparsi ancora fino a notte di campi, prati e bestie. Cosi, avere un lavoro che consentiva un reddito sicuro era ritenuto una vera e propria fortuna anche condizionata dalla situazione climatica stagionale, soprattutto in inverno, quando la neve poteva coprire la roccia per un lungo periodo.

Questo avveniva soprattutto in Valle Po, dove 1 area estrattiva e localizzata a quasi 1300 metri di altitudine, appena sotto la cima del Mombracco, un massiccio roccioso che s. alza imponente dalla pianura saluzzese, e che con il suo sviluppo interessa una vasta porzione della Valle Po e dell’adiacente Valle Infernotto, oltre che la pianura sottostante. Sono infatti ben sei i comuni il cui territorio comprende parti dei versanti della monta-gna e da molti dei loro abitanti questa, fino a circa quarant anni fa, veniva risalita quotidianamente, dalla primavera all’autunno, per esitarvi la quarzite, una pietra apprezzata per la sua durezza, e che localmente è detta barbina. Era utilizzata, come avviene tuttora, per la pavimentazione di edifici di pregio (un tempo palazz, e chiese oggi abitazioni private). La storia di questo giacimento e del suo sfruttamento risale addirittura al a presenza della civiltà romana in questa zona, ed è testimoniata anche da un manoscnt o (sottoriportato) di Leonardo da Vinci, a cui giunse notizia delle famose qualita di tale materiale:

 

Monbracho sopra saluzo

sopra la certosa un miglio a pie di Monviso

a una miniera di pietra

faldata laquale e biancha

come marmo di carrara senza machule

che è della dure

za del porfido obpiu

delle quali il compare mio maestro benedet

to scultore a impro

messo donarmene una

tabullettax li colori

adì 5 di genaro 1511

 

Altrettanto vecchie sono quindi le vicende di quanti hanno lavorato per estrarre la pietra e portarla a valle; ed estremamente interessanti sono i racconti di chi, oggi ottantenne, per molti anni ha ancora salito e disceso a piedi i sentieri del Mombracco. Erano quasi quattrocento le persone che fino agli anni Cinquanta del Novecento partivano al mattino presto, tra le quattro e le cinque, dai paesi di Revello, Envie, Barge, Bagnolo, Paesana, Sanfront e Rifreddo. Soprattutto da Barge, più vicino alle cave, salivano pure molti ragazzi, anche di soli quattordici anni, di solito figli di chi già vi lavorava. Ognuno dalla sua abitazione si incontrava con gli altri uomini del proprio paese in un punto preciso; da qui si proseguiva tutti insieme. Quasi mille i metri di dislivello da salire prima di arrivare nella zona dove si lavorava, con una breve sosta per un po’ di colazione. Le calzature non erano certo comodi e robusti scarponi, ma le solite soche, le scarpe con la suola di legno. Sotto questa non mancavano mai i chiodi, piantati per ridurne il consumo e farla durare di più. Così, sulle pietre dei sentieri, il loro suono metallico era una vera e propria musica. Un suono che oggi è rimasto impresso nella memoria di chi ha fatto questa vita, ancora più di quello degli attrezzi usati sulla roccia. Alle sette si iniziava il lavoro e ciascuno aveva un ruolo ben preciso. Chi non aveva ancora molta esperienza faceva il manovale, togliendo la terra per mettere a nudo la roccia, oppure portava le pietre alla teleferica e lo scarto alla discarica. Poi si diventava cavatore e, solo se ben esperti, spac-catore. Quest’ultimo doveva ricavare lastre sottili dai pezzi di roccia, che per la sua caratteristica sfaldabilità si divideva in strati con pochi ma precisi colpi di scalpello. Gli spaccatoti lavoravano tutto il tempo seduti nello stesso posto e se faceva freddo veniva acceso un fuoco per potersi a turno ogni tanto scaldare le mani. Invece, se il sole in estate era molto forte, a gruppi ci si riparava sotto una rudimentale capanna coperta di frasche. Una breve pausa per il pranzo, che ognuno si era portato, e poi si riprendeva fino alle cinque del pomeriggio, quando si tornava giù a rotta di collo. Se all’andata per salire occorrevano fino a due ore, per la discesa ne bastava una, facendo il più in fretta possibile perché bisognava ancora svolgere lavori nella propria campagna.

Tra quelli che dovevano fare il percorso più lungo, chi non aveva famiglia o poteva contare su qualcuno che mandasse avanti l’azienda famigliare, si fermava a dormire in una baracca su nella cava per tutta o metà settimana. Madri, mogli e figli, giù in basso, dovevano allora provvedere a far avere il cibo necessario, portandolo alla base delle due teleferiche che servivano a spedire in basso le pietre lavorate. Il sabato pomeriggio, infine, era una gran festa; si scendeva tutti insieme, cantando a squarciagola per la gioia di avere un giorno di riposo. Decisamente triste era invece il lunedì mattina, quando si ricominciava.

Molti di quelli che hanno lavorato nelle cave di pietra di entrambe le valli, hanno poi pagato con la salute il privilegio di aver potuto guadagnare qualche soldo in più. Infatti sono stati tanti quelli che si sono ammalati di silicosi, a causa della notevole quantità di polvere che per anni hanno dovuto respirare, soprattutto chi era addetto ai mulini, sulle cave del Mombracco. Qui si macinava una gran quantità di pietra per mandarla ad un’industria bellica che la mescolava con la ghisa. Ma anche per chi faceva altri lavori il contatto con la polvere era inevitabile, con il suo accumulo nei polmoni.

le lose “tarocche” di via po e lo spirito tradizionalista dei piemontesi

Sino a tempi recentissimi le lose hanno resistito come pavimentazione tradizionale di Torino, nonostante con l’avvento dei tram esse tendano a spaccarsi o a sporgere dopo un certo numero di passaggi, specie per le vie più trafficate. Ma con tenacia e costanza, per 120 anni, dal 1901, anno di introduzione dei tram elettrici ad oggi, i Torinesi hanno riparato le lose che regolarmente si rompevano. Ma oggi il Comune comincia ad arrendersi. Per capirlo occorre andare in via Po.

Che ci sia qualche cosa di diverso nella pavimentazione di Via Po lo si capisce al primo colpo d’occhio. Ma solo passando sopra la corsia riservata ai mezzi pubblici, tra i binari del tram, si vede che le pietre sono finte. Già. Disegnate sull’asfalto. Al pari di un sarto che segna le misure sui tessuti con il gessetto per confezionare l’abito, gli operai di un’azienda padovana hanno tracciato le lastre di pietra sul bitume appena posato in via Po. Insomma, si tratta di lose “tarocche”. Un test per studiare l’effetto architettonico e per capire se la soluzione piace o meno ai torinesi.

Un esperimento voluto da Gtt, guidato da Walter Ceresa, e dal Comune, dopo che alcuni tecnici dell’azienda di trasporto hanno ammirato la soluzione a Praga. L’obiettivo principale è capire se le finte pietre, che non vengono divelte dal passaggio dei bus trasformandosi in un pericolo per pedoni, ciclisti e scooteristi, convincono la sovrintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici.

La posa di lose in pietra con sabbia, secondo il vecchio sistema ha lo svantaggio che dopo un certo numero di passaggi del bus, le pietre si spaccano o iniziano a sporgere.

 

fonti:

https://torino.repubblica.it/cronaca/2016/08/09/news/in_via_po_le_lose_tra_le_rotaie_non_sono_di_pietra_ma_sono_solo_dipinte_sull_asfalto-145664885/

 

gli altarini di pietro micca

 

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Sono il ricordo petroso di un drammatico momento storico per Torino. Nella chiesa di Santa Cristina, a sinistra di quella di San Carlo, nella piazza omonima, detta “il salotto di Torino”, un dipinto illustra il voto che, alla vigilia dello scontro decisivo per liberare la città dall’assedio francese, nel 1706, venne formulato dal duca Vittorio Amedeo e da Eugenio di Savoia: la promessa di erigere sul colle di Superga (v.) a liberazione avvenuta, una basilica, quella di oggi, che ospita le spoglie di sovrani e principi sabaudi. Il beato Sebastiano Valfré, che animò i torinesi in quelle ore difficili, a vittoria conseguita ricordò il voto perché venisse al più presto adempiuto; la costruzione della basilica fu portata a termine entro il 1731. Il Valfré volle pure che fossero collocati dei “pilastrini” - particolari stele di pietra con scolpita l’immagine della Consolata - fra il territorio di Lucente e il Regio Parco, dov’era infuriata la battaglia. Quelle pietre, che il popolo definì subito “altarini”, portando presso di loro fiori e lumi accesi, dovevano essere circa duecento. Oggi non ne rimangono che una quindicina, “censiti” e individuati nel febbraio del 1984 dal bollettino del santuario della Consolata. Si trovano in questi punti della città: cortile della Manifattura Tabacchi al Regio Parco (una visibile, l’altra riposta); Museo Pietro Micca (nell’atrio dell’ingresso); cortile dell’edificio scolastico di via Pergolesi 119 (prima del muro della cascina Goia); cortile delle “case popolari” di via Gottardo 273; chiesa parrocchiale di Nostra Signora della Salute, in borgo Vittoria, (cinque stele: quattro intorno all’ossario dei caduti nell’assedio del 1706, la quinta come prima pietra della chiesa); case di via Enrico Giachino 92 (nel muro della facciata); strada di Lucente (murata in un altarino); via Verolengo (in un altarino al centro della strada, murata alla base); istituto Bonafous, in strada Pianezza (sulla destra della porta carraia); santuario della Consolata (nel giardinetto accanto alla chiesa, all’esterno, sul lato di via Consolata). «Quindici stele - commentava il bollettino del santuario - quindici pietre miliari di un cammino di battaglia, di sofferenza, di supplica, di tanta fede. Nei monumentini raccolti ad altare, mani sconosciute rinnovano piccoli mazzi di fiori, con quel ricordo che solo il popolo, quando assume un unico volto anonimo, sa mantenere».

 

fonte:

Renzo Rossotti, Guida insolita di Torino, p. 227

 

I viali di Torino e la loro origine

 

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La nascita del viale come elemento urbanistico di sviluppo dell'organismo urbano deriva, nel caso Torino, dall'occupazione napoleonica, nel 1800. Il disarmo imposto alle principali roccaforti piemontesi portò all'abbattimento della cinta muraria con esclusione della sola Cittadella. Il sedime delle mura perimetrali lascia il posto ad una serie di promenades publiques che recingono la città e ne costituiscono la prima circonvallazione alberata.

Fino ad allora l'impianto quadrato del castrum romano a vie parallele aveva informato e dettato le leggi d'espansione della città: aveva retto l'inserimento della cittadella fortificata, l'apertura nel primo decennio del '600 della Contrada Nuova (l'attuale via Roma tra Piazza Castello e Piazza S. Carlo che ripete l'ortogonalità viaria del castrum) e l'espansione verso il Po, che registra l'unica eccezione consistente rispetto all'ortogonalità del tracciato viario; la diagonale via Po, la cui direzione risulta obbligata dalla necessità di collegare Piazza Castello con il ponte sul fiume.

L'abbattimento delle mura quindi, e la realizzazione delle promenades esterne introducono un elemento di novità che tuttavia si innesta in un primo tempo nella maglia viaria e solo progressivamente informerà l'espansione ottocentesca della città: nel Plan Général d'embellissement di Torino del 1809 viene definita la conformazione delle promenades perimetrali, ad andamento nuovamente ortogonale e la formazione di quattro grandi piazze in corrispondenza delle porte della città e dell'intersezione delle promenades con i principali assi di comunicazione che innervavano il territorio.

Da subito i viali vengono investiti di una pluralità di ruoli: elemento di perimetrazione e di "chiusura" alberata della città (come fondale continuo sostitutivo scenograficamente delle mura) luogo di passeggio e di circolazione con alte valenze di decoro urbano, elemento di definizione architettonica dello spazio attraverso l'andamento rettilineo e scandito dalle alberate che producono veri e propri colonnati arborei, spazi verdi per un uso simile a quello dei giardini pubblici.

La progettazione dei viali e delle piazze precede la costruzione delle cortine edilizie e integra la città ortogonale con il sistema di assi preesistenze che innervano il territorio circostante e che vengono confermate nella nuova struttura: le direttrici verso Milano, verso Rivoli e la Francia, a Sud verso il Castello del Valentino e verso Genova. Il risultato è una struttura innovativa per assi paralleli e diagonali, appoggiata solidamente alle caratteristiche storiche ed alle preesistenze del territorio.

 

Lo spostamento della cinta daziaria nel 1912 consolida l'espansione radiocentrica della città fornendo il sedime per una seconda circonvallazione. Il sistema dei viali tende a rendersi indipendente dalla maglia ortogonale e innerva le parti più nobili dell'espansione con un andamento più legato alla dimensione delle zone di nuova urbanizzazione, da ritmare con il sistema delle alberate e degli slarghi che non alle connessioni con la preesistente città a maglia ortogonale.

Tra il 1921 ed il 1961 la città raddoppia i suoi abitanti, superando il milione. La fortissima pressione demografica si traduce in una intensa attività edilizia largamente incontrollata. Il sistema di viali e piazze si trasforma quasi esclusivamente in sede della viabilità automobilistica, cedendo il ruolo multiplo svolto nell'ottocento all'assolvimento di una sola funzione.

Il caso di Torino dimostra come il sistema dei viali e del loro prolungamento "regga" in condizioni storiche assai mutate. nonostante l'invasione del traffico urbano che tende a specializzare il viale come esclusivo asse viario, nonostante la rottura del blocco edilizio uniforme ad isolato chiuso, nonostante la rottura delle cortine edilizie, nonostante una crescente modestia della qualità progettuale degli edifici, il viale mantiene i suoi connotati di forte caratterizzazione e di qualità urbana complessiva.

Ciò va ricondotto ad almeno tre ordini di motivi.

Quando negli ultimi 50 anni si sviluppano i quartieri residenziali autonomi e il progetto urbanistico pretende la costruzione di viali interni, che iniziano e finiscono entro i confini del nuovo quartiere, senza connettere "luoghi", "mete", nell'accezione prima indicata, ma solo per permettere un accesso qualificato alla residenza, il nuovo tratto di viale, anche se con tipologia e caratteri analoghi a quelli del sistema urbano centrale, è destinato a diventare una piazza mancata, perlopiù vuota, non utilizzata e poco connotante il tessuto edilizio.

 

fonti:

https://www.landscapefor.eu/61-sul-campo-per-progetti/72-tipologie-di-impianto-urbanistico-nella-storia-di-torino-viali-e-piazze-casi-e-prospettive-utili-per-la-progettazione-dellespansione-metropolitana-di-valencia?limit=1&start=3

 

I cortili di Torino

 

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la città dei cortili

“L’entrée des maisons est un atrio ou vestibuie sous la porte cochère, décoré, de colonnes & de pilastres, & enrichi de quantité d’ornemens. Sous ce vestibuie est le grand escalier. Le fond de la cour, qui se voit de la rue, est toujours décoré d’architecture, le plus souvent dans un góut théàtral. Cet atrio donne la commodité de descendre de carosse à couvert, & dans un lieu orné. Il en résulte un autre avantage. Toute la décoration est sur la rue, au contraire de ce qui est en usag à Paris, ou presque tous les beaux hótels sont au fond d’une cour, & ne contribuent point, ou très-peu, a l’embellissement de la ville.”

Così il Cochin, a metà ’7oo, coglie con estrema chiarezza i pregi formali e funzionali dei palazzi torinesi, delineati con precisione nel loro rapporto fra strada e cortile. È questo, però, un caso particolare: le raccolte di vedute e i resoconti di viaggio non sono benevoli con i cortili di Torino. I viaggiatori descrivono gli edifici, le strade, le piazze, le collezioni d’arte, ma si soffermano poco sugli spazi interni, se non di fronte a episodi monumentali come il cortile dell’università o dell’Accademia. Le vedute rispettano questo atteggiamento e le medesime eccezioni. Eppure il sistema di spazi formato da androni, atrii e cortili è avvertito consapevolmente nelle città. Come ricorda il Cavallari Murat le planimetrie urbane riportano, in casi celebri, quell’infinità di spazi pubblici e privati rappresentati dai cortili dal loro tramite con la strada, gli androni, così spesso articolati su forme particolari. È il caso della pianta di Roma del Nolli, di quella di Padova del Valle, di quella di Parigi di Blondel e Bullet.

A Torino è un anonimo estensore a consegnarci, nella seconda metà del ’700, la mappa precisa della città, definita al dettaglio delle colonne di porticati e chiese. Nel tessuto uniforme degli isolati, colorati di rosa, spicca il verde dei giardini, con esatte broderies, e il rosso che definisce gli spazi pubblici e semi-pubblici. È il rosso dei pilastri dei portici, dei muri e delle navate delle chiese e, soprattutto, deH’infìnita serie di colonne di atrii e di porticati dei cortili. La pianta ci offre l’esito di due secoli di sviluppo urbano e architettonico della città, il suo volto barocco. Occorre però attendere l’8oo, secolo in cui il cortile perde progressivamente valenza scenografica, per avere una seppur piccola raccolta di prospetti e piante di palazzi torinesi, redatte con precisa attenzione al corpus6 dei più importanti o tipici" esempi di cortili, atrii e scaloni, lucidamente colti nel loro inscindibile rapporto architettonico. Grazie all’opera di Francois Callet e Jean Baptiste Lesuer, Architecture italienne septentrionale ou Edifices publics et particuliers de Turin et de Milan, pubblicata a Parigi nel 1855, possiamo avere così un nuovo sguardo d’insieme, selettivo ma più dettagliato, sul patrimonio accumulato in epoca barocca9. Ma se è scarsa la letteratura storica in merito ai cortili torinesi, è la monumentale analisi curata da Augusto Cavallari Murat, Forma urbana nella Torino barocca, a indicarcene il loro carattere specifico e unico. I cortili di Torino non solo possiedono qualità scenografiche intrinseche, maggiori o minori secondo il caso, ma sono essenzialmente fattori urbanistici e non semplici elementi propri di ogni palazzo. Pensati come piccole piazze a corona della piazza maggiore, come nel caso degli edifici prospicienti la piazza Carlina, o come insiemi di spazi coassiali a cavallo della via pubblica, in palazzi affrontati, i cortili barocchi della capitale sabauda si caratterizzano per una loro specificità particolare, strettamente legata al procedere pianificato degli ampliamenti. Se i cortili di Roma10 sono caratterizzati dalle fontane o dai reperti archeologici che li adornano, quelli di Milano dalla ripetuta soluzione dei portici a colonne architravate, quelli di Napoli per le grandi scale barocche poste a fondale, quelli di Genova per i giardini e i ninfei legati alla particolare orografia del luogo, anche quelli di Torino, quindi, possono essere definiti in base a una loro qualità particolare.

Nel corso dell’8oo, si è detto, il cortile perde il suo rango aulico. Cambiamenti sociali a cui conseguono mutamenti e diversificazioni nelle tipologie edilizie, ormai segnate da una maggior distanza fra il palazzo nobiliare e la casa borghese e da reddito (in epoca barocca la seconda traeva forme, proporzioni e decoro dal primo), una diversa attenzione agli aspetti utilitari e una progettazione meno omogenea della città, mutano il panorama urbano e anche i termini della sua lettura.

 

Le facciate dei palazzi a un primo sguardo possono apparire monotone, simili tra loro e quasi fredde, anche se un occhio più attento potrebbe scoprire la curiosità di un fregio colorato, la civetteria di un capitello inaspettato, la delicatezza di balconi in ferro arabescato o l’originalità di curiose finestrelle tonde.

Ricchi di colonnati, di marmi, di acciottolati, di fontane e di alberi secolari quelli dei palazzi nobiliari e di rappresentanza, dove sovente il cortile principale comunica con spazi secondari, ancora più nascosti a chi non si avventuri oltre il portone che li separa dal mondo. Spesso racchiusi dietro facciate degradate, e di dimensioni più modeste ma sempre piccole oasi di pace, quelli dei palazzi ottocenteschi del quartiere detto Borgo Nuovo, compreso tra via Mazzini, via dei Mille e via della Rocca. In assenza di targhe e indicazioni turistiche, trattandosi di case private, non resta che affacciarsi e curiosare, di portone in portone, in una ricerca resa più gradevole dai negozietti, dalle botteghe artigianali e cioccolaterie che abbondano nella zona.

Nei quartieri di più antica costruzione, come quello compreso tra via Bogino, via Maria Vittoria e via Po, o quello che si estende tra via della Consolata e via Garibaldi, ci sono lustre targhe di ottone a facilitare il compito della ricerca. Per esempio in via Maria Vittoria 12, Palazzo Cisterna, costruito a partire dal 1675, ristrutturato nel Settecento e attuale sede della Provincia di Torino, ospita un giardino di alberi secolari, con una fontana e panchine per riposarsi. Poco lontano, in via Bogino 9, il Palazzo Graneri della Rocca, costruito nella seconda metà del Seicento da Baroncelli, con atrio e scalone del grande Guarino Guarini, racchiude anch’esso uno splendido interno di pietra inframmezzata di verde. Spostandosi in via Lagrange, si trova il cortile del palazzo Benso di Cavour, anzi i cortili, quello d’onore e quello rustico dove un tempo c’erano le scuderie, posti in asse tra loro in una scenografica sequenza di spazi. E ancora, in via Carlo Alberto 16, merita una visita il cortile di Palazzo Birago di Cisterna, attuale sede della Camera di Commercio. L’edificio è una delle prime realizzazioni torinesi di Filippo Juvarra. Costruito a partire dal 1716, il palazzo offre alla vista un cortile d’onore di grande impatto scenografico, con fondali curvilinei che ricordano quinte teatrali, lungo i quali le carrozze potevano eseguire la conversione. A lato, separati da bassi fabbricati, spazi di servizio, raggiungibili dagli altri androni carrai posti sul fronte principale.

In un’altra zona, dalle parti di piazza Savoia, è certamente da vedere la corte d’onore di Palazzo Saluzzo Paesana in via della Consolata, forse il più vasto e articolato esempio di palazzo nobiliare della città, in cui tutti gli elementi canonici di questa tipologia architettonica sono raddoppiati: doppio accesso, due scaloni aulici, due loggiati contrapposti. La cosa si spiega con il fatto che nel Settecento i nobili più attenti all’amministrazione dei loro beni che al puro scialo signorile avevano ormai aperto le loro dimore alle funzioni d’affitto anche nella parte aulica, prevedendo quindi accessi diversi per i vari appartamenti. Sono poi accessibili i cortili con loggiato del palazzo dell’università in via Po 17 e del Seminario metropolitano di via XX settembre 83, e quelli di via Garibaldi 18, inanellati l’uno dentro l’altro fino a sbucare nella parallela via Corte d’Appello. E molti altri se ne possono trovare, sconosciuti agli stessi torinesi, semplicemente bussando a una portineria o suonando il campanello di un edificio che lasci intuire un giardino interno. Gli spazi vivi dei mille cortili, aulici o semplici che siano, contribuiscono a sgretolare lo stereotipo di Torino come città priva di fantasia.

 

I palazzi del primo ’6oo

Il passaggio dal palazzo cinquecentesco a quello del secolo successivo è segnato da un ribaltamento di significato. Da elemento introverso, limitato all’uso di una sola famiglia, la corte diviene pubblica, si apre verso la strada, dando corpo a quel processo di apertura urbanistica che toccherà l’apogeo a secolo maturo. Il palazzo inizia timidamente ad aprirsi a funzioni da reddito, anche se non ancora intense come nel ’700, e aumenta il volume, superando la configurazione di due piani fuori terra. Nella prima metà del XVII secolo è abbastanza diffusa la pratica di circondare il cortile da un porticato continuo su tre o quattro lati: è il caso del palazzo Scaglia di Verrua, San Martino della Motta, Della Chiesa di Roddi in via San Tommaso e di altri ora distrutti. Si può già notare la suddivisione delle funzioni in due tipi di cortile, compresenti: quello d’onore destinato a funzioni di rappresentanza, e quello rustico, più interno all’isolato e non porticato, legato a funzioni minori (fienili, depositi, scuderie). Nel palazzo San Martino della Motta e in quello Carpeneto di San Giorgio il passaggio dal primo al secondo cortile è risolto in termini di grande effetto scenografico, grazie allo schermo di colonne offerto dalla profondità del portico che li unisce e dalla coassialità dei due spazi. Anche negli episodi minori, nelle vie più commerciali, si può ritrovare, in termini di schema, la medesima sequenza di spazi. È il caso della via di Porta Nuova, con lotti molto allungati definiti da un primo cortile ornato di portico parallelo alla strada, dalla precisa funzione di collegamento alla scala, e da un secondo successivo, guarnito di fienili e depositi e aperto su di un vicolo interno all’isolato.

La ricchezza tipologica del secondo ’6oo

In questo periodo, secondo il Cavallari Murat, si assiste al consolidamento del tipo sperimentato da Vitozzi a inizio ’6oo (androne e portico con soprastante galleria, uniti dallo scalone; mono assialità) in piazza Castello, nel palazzo San Germano, ma anche nella produzione di numerosi altri tipi, alcuni rimasti pressoché unici, altri assunti in un panorama architettonico sempre più ricco. Compaiono palazzi con atrii articolati secondo la diagonale, altri che subiscono l’influenza di Palazzo Carignano, altri che mettono a punto la fusione di androne, atrio e portico in un grande spazio di rappresentanza, altri ancora che assumono il modello francese. Se al tipo vitozziano corrispondono episodi più semplici come i palazzi Bertalazone di San Fermo, Giannazzo di Pamparato, Salmatoris e quello oggi Accorsi, la maggior parte dei grandi edifici nobiliari trasforma il semplice androne d’ingresso in un grande ambiente colonnato, a più campate, largo quanto il portico affacciato sulla corte. Si crea quindi un’osmosi più accentuata fra la strada e il cortile, quest’ultimo spesso aperto su di un giardino. È il caso dei palazzi Cisterna, Lascaris12, Coardi di Carpeneto, dove al grande androne, quasi una sala terrena, corrisponde, al primo piano, il salone principale. Quando il palazzo comprende l’intero isolato, come nella citata residenza dei Coardi di Carpeneto, in asse al portone d’accesso, al fondo del cortile, si apre un secondo portone che dà sulla via retrostante. In questo modo si crea un vero e proprio sistema urbanistico che lega tessuto stradale e corte, sia dal punto di vista funzionale (le carrozze si limitano a passare nella corte evitando la conversione) sia da quello visivo (rinfilata degli accessi secondo modalità scenografiche e prospettiche). Altri edifici si discostano da questo impianto collaudato per assumere un andamento basato sulla diagonale, come nel purtroppo manomesso palazzo Truchi di Levaldigi (il cui atrio posto al vertice dell’edificio donava un punto di vista particolare della corte, per angolo) o nel distrutto palazzo San Secondo, o assimilando la lezione guariniana in termini di spazialità e forma delle volte. È il caso dei fastosi palazzi Provana di Collegno in via Santa Teresa 20 e Asinari di San Marzano, e di quelli, di minori dimensioni, dei Rignon e dei Nicolis di Robilant. In questi ultimi al ridotto androne segue un vasto atrio, sostitutivo del portico, la cui luminosità è dovuta alla volta che copre l’intero ambiente senza ulteriori sostegni. Ma, in questo scorcio di ’6oo, il palazzo che riassume in scala monumentale gli sviluppi di un secolo di architettura torinese è il palazzo Graneri. Lo sguardo chi varca il portone del palazzo attraversa il grande atrio, sorpassa il portico e il cortile bordato da una balaustra, per poi superare il giardino e fermarsi contro il fondale decorato di quest’ultimo. È un sistema di ampie proporzioni, aulico, a cui si associano ben tre cortili di servizio, posti in successione e disimpegnati dal percorso che unisce, attraverso una serie di quattro androni, la via principale a quella retrostante. Sui primi due cortili minori si affacciano le maniche destinate a essere affittate, nel terzo trovano spazio rimesse, depositi e scuderie per trentacinque cavalli. Il percorso canonico di rappresentanza, così come nella grande maggioranza dei palazzi torinesi, prevedeva la discesa dalla carrozza nell’atrio, il percorso sotto il portico per raggiungere lo scalone, che porta alla loggia, e quindi l’accesso al grande salone passante, ovvero affacciato sia su strada che sul giardino, attraverso la loggia13. A quel punto la carrozza poteva svoltare nei cortili di servizio e ritornare su strada mediante il portone secondario, oppure raggiungere via San Francesco da Paola attraverso il terzo androne carraio.

Un aspetto particolare: i palazzi «entre cour et jardin»

Molti palazzi realizzati nei grandi isolati del primo e secondo ampliamento di Torino possedevano giardini. Lo sviluppo urbano ha col tempo riempito ogni spazio: edifici sorgono in luogo dei giardini di palazzo Graneri, di palazzo Asinari e di tanti esempi consimili, e oggi gli unici esempi rimasti sono quello dei palazzi Cisterna e d’Azeglio. Ma al giardino, come in quest’ultimo caso, si associava un vero proprio modello diverso di palazzo, mutuato dallo schema delYhótel francese, con un diverso rapporto fra strada ed edificio. Al palazzo vero e proprio in cui erano ricavati gli ambienti di residenza (corps de logis) e che si trovava arretrato rispetto alla strada, era anteposto un cortile, diviso da questa mediante un muro munito di portone carraio o una sottile manica, spesso non più alta del piano terreno. Dietro il corps de logis, riparato dai traffici e dalle attività di servizio si apriva il giardino. A fianco del cortile d’accesso, detto cour d’honneur, si apriva spesso il cortile delle rimesse e delle cucine, detto basse cour o altrimenti, in Italia, corte rustica. Nonostante la citata scomparsa dei giardini e le modifiche edilizie intervenute, in alcuni palazzi torinesi è ancora possibile riconoscere lo schema alla francese14. Si tratta di pochi esempi, un numero ristretto dovuto probabilmente alla scarsa fortuna di una tipologia che, nonostante i forti legami tra la cultura architettonica locale e quella al di là dei monti, si scontrava con le esigenze di modellazione della fisionomia urbanistica della capitale. Gli editti ducali che governavano la costruzione delle principali vie della città promuovevano infatti la costruzione degli edifici sul filo di strada, in modo da rendere possibili quelle quinte architettoniche così ben evidenti nelle tavole del Theatrum Sabaudiae, in aperto contrasto con i cosiddetti vacui costituiti dai muri bassi di corti e giardini. A Torino offrono una configurazione entre cour et jardin i palazzi Pallavicino Mossi, Ferrerò d’ Ormea, Taparelli d’Azeglio15, Thaon di Revel, Gonteri di Cavaglià. Si tratta di edifici quasi tutti collocati in isolati di bordo della città, il cui retro era aperto alla vista della campagna.

il settecento

Con il ’7oo il volto della città cambia parzialmente: nonostante un terzo ampliamento i terreni a disposizione non consentono più i grandi complessi prevalentemente destinati a rappresentanza del secolo precedente. L’uso del lotto diviene più fitto, a volte non c’è la possibilità di realizzare il cortile di servizio o il giardino. La composizione sociale dei palazzi muta aumentando la presenza di borghesi e mercanti. Pur in questo panorama vengono comunque realizzate alcune grandi dimore nobiliari con caratteri di spiccata aulicità. Palazzo Cavour e palazzo Perrone di San Martino costituiscono classico esempio di palazzo settecentesco con i cortili posti en enfilade, in cui il diaframma tra i due funge come fondale prospettico per la corte d’onore. L’edificio più cospicuo di questo periodo è costituito dal palazzo Paesana, dove si porta a scala monumentale il sistema seicentesco di logge affrontate in un cortile di dimensioni imponenti, attraverso il quale le due vie su cui si affaccia l’edificio comunicano grazie ai due androni posti sul medesimo asse. Nel terzo ampliamento, in cui si trova il palazzo Paesana, si riscontrano accorgimenti per un uso dello spazio che possa superare le angustie dei lotti: il cortile del palazzo Martini di Cigala, opera juvarriana, è posto in perfetta assialità con quello del palazzo di fronte, in modo che attraverso i varchi carrai si crei un’unità architettonica e urbanistica di respiro più ampio, così come avviene per i Quartieri Militari; alcuni edifici, pur di differente proprietà si affacciano invece su di un unico grande cortile. In altra zona della città, in palazzo Birago di Borgaro, per mascherare fabbricati di servizio eretti ai fianchi della corte d’onore e il percorso d’uscita delle carrozze, Juvarra erige uno schermo di muri curvilinei che consente di mantenere le differenti funzioni nel medesimo spazio. Negli episodi minori, frutto delle riplasmazioni di secondo ’700 dei tessuti più antichi, scale e atrii sono concepiti ancora con criteri di rappresentatività, mentre i cortili raggiungono livelli di semplice decoro.

I cortili nei palazzi delle grandi istituzioni in epoca barocca

Un discorso a parte meritano i grandi edifici del potere, dell’assistenza e delle istituzioni religiose, caratterizzati da funzioni molto diverse, per scala o natura, dalle semplici dimore private. Il tipo della grande corte circondata da portici e logge si ritrova più volte a Torino, fra ’6oo e ’700: è il caso deH’Accademia Reale (poi Militare), dell’università, del Seminario, del Collegio delle Province e, in parte, dell’ospedale di San Giovanni Battista. Il circuito di gallerie scandito da colonne costituisce un meccanismo al contempo distributivo e di rappresentazione aulica idoneo alle istituzioni. L’esempio più antico, e anche più rilevante, era un tempo16 il cortile deH’Accademia, giocato da Amedeo Castellamonte sull’uso delle colonne binate, probabilmente sulla scia del famoso esempio cinquecentesco del Collegio Borromeo di Pavia, rimasto normativo nel settore17. Nel palazzo dell’università Michelangelo Garove persegue, come sempre, un salto di scala architettonica, espresso specialmente nel monumentale complesso di atrio e scaloni, e nel generale volume dell’edificio, torreggiante contro le più ridotte palazzate castellamontiane di via Po. Il cortile, comunicante con via Po grazie a un accesso posto in asse a quello principale su via Verdi, è orientato parallelamente all’antica contrada della Zecca, a sottolineare la sua appartenenza al complesso dei palazzi del potere prospettanti su quella via piuttosto che alla commerciale contrada di Po. Seminario e Collegio delle Province seguono il più antico esempio del Collegio Borromeo in quanto tipologie consimili, benché diversificate nelle soluzioni formali: a colonne semplici nel primo, a pilastri nel secondo. I porticati servono da disimpegno per le camere degli studenti, e anche per i momenti di ricreazione in caso di maltempo. Come ricorda il Cavallari nel seminario (o nel collegio) l’architettura è più vicina a quella di rappresentanza dei palazzi nobiliari che non a quella, più sobria, dei conventi. Elemento fondamentale e tipico delle istituzioni conventuali è pur sempre il cortile cinto da portici18 al piano terreno, ma su di essi insistono le celle del piano superiore, il cui corridoio di distribuzione è rivolto all’esterno. A questo cortile si affianca quello legato alle attività più a contatto con la società civile (a volte sono anche presenti maniche in affitto) e quello rustico, entrambi del tutto - o quasi - privi di porticati. Pochi sono i conventi rimasti in Torino, a causa delle distruzioni causate dallo sviluppo edilizio19, ma quello della Consolata e del Carmine costituiscono esempi rilevanti. Sorte non diversa hanno avuto anche alcuni esempi di istituzioni assistenziali od ospedaliere torinesi: cancellato nel XIX secolo l’ospedale annesso alla Basilica Mauriziana con la costruzione della Galleria Umberto I in luogo delle corsie, demolito l’ospedale di Carità dopo i danni bellici. Se in quest’ultimo la suddivisione in due cortili (distanziati dalle strade pubbliche mediante altri cortili di servizio o maniche d’affitto) era relativa alla separazione per sesso dei mendicanti e dei poveri ospitati, nel sopravvissuto Ospedale di San Giovanni la separazione fra uomini e donne era risolta con destinazione a piani differenti. I quattro cortili definiti dalla grande crociera centrale (e denominati, in base alle funzioni connesse, della lavanderia, della cucina, dell’accettazione e della farmacia) davano luce e aria ai quattro bracci, e il loggiato, a colonne binate, era addossato solamente al lato di edificio destinato ad amministrazione, con funzioni distributive. Quasi del tutto privo di porticati è anche la corte dell’ospedale dei Pazzarelli, dove anche al piano terreno i corridoi tengono distanti dalla strada gli ambienti destinati ai ricoverati, forse in virtù delle particolari patologie curate in questo edificio. Se il cortile dell’Arsenale, importante emblema del potere militare, è ovviamente caso unico nella città, per tipo di funzione, pur partecipando con rimpianto diagonale ai caratteri di quella zona urbana, il palazzo del potere comunale, per quanto riguardalo spazio interno, non si discosta radicalmente dalle formule consuete. Il Palazzo di Città, trasformato più volte fra ’6oo e ’700, presenta un cortile che offre logge e porticati speculari a decoro dei lati minori, dando preminenza all’asse di attraversamento secondo lo schema vitozziano applicato negli stessi termini in palazzo Nomis di Pollone20. Maggiormente connotate appaiono invece le residenze dei due rami della dinastia sabauda. Il palazzo dei principi di Carignano, non finito all’epoca della sua costruzione e completato circa due secoli dopo in base a un progetto differente, prevedeva, come Palazzo Reale, una corte chiusa definita da tre corpi di fabbrica a «U» e da una quarta manica, di minor spessore e altezza, rivolta al giardino. Si tratta di uno schema poco usato a Torino, e sembra mediare quello a corte conchiusa, con le sue esigenze, e quello aperto tipico dei palazzi con giardino, il cui limite è a volte definito da balaustre (palazzo Graneri, a fine ’6oo) o da cancellate con statue (palazzo Morozzo della Rocca, a metà ’700). Nel caso di Palazzo Reale, invece, la vista di parterres e alberature era consentita solo attraverso le arcate del portico, o dagli appartamenti del primo piano del corpo principale, così come doveva avvenire in Palazzo Carignano21. Fissate le analogie, altri elementi caratterizzano invece alcuni aspetti degli edifici: in Palazzo Reale le maniche ai lati della piazzetta antistante quasi trasformano lo schema di palazzo italiano a blocco compatto, con corte chiusa perticata (il progetto di base è in effetti tardo cinquecentesco, dovuto all’orvietano Ascanio Vitozzi) in schema di palazzo alla francese con corps de logis al fondo della corte; in Palazzo Carignano le invenzioni guariniane di androne esagonale e atrio ellittico con volta a spicchi si pongono come riferimento per successivi palazzi della nobiltà torinese22, così come il salone principale aperto sulla corte senza la mediazione della loggia e - in questo caso -con vista sul giardino e sulle scuderie poste scenograficamente a fondale23. Le due residenze, possedendo esigenze e funzioni superiori alla media, risolvono diversamente il problema delle corti di servizio: nel primo caso le scuderie, come si è visto, sono poste in un manufatto ad hoc al fondo del giardino, nel secondo un intero palazzo adiacente (quello detto di San Giovanni) è destinato ai servizi del palazzo principale (scuderie, rimesse, guardamobili, alloggiamento di intendenti e servitù...).

L’8oo fra Neoclassico ed Eclettismo

Nel XIX secolo nuovi tipi edilizi si sviluppano parallelamente alle modificazioni sociali. Lungo il Viale del Re la prima lottizzazione vede la costruzione di ville, provviste di giardini, piuttosto che di cortili. I cortili verranno in seguito, quando le palazzine saranno inglobate da successivi edifici costruiti sul filo del corso, cancellando in gran parte le zone verdi. È il caso delle palazzine Lombardi, Porta Bava, Brambilla. È un panorama urbano elegante, associabile - secondo Cavallari Murat - agli squares londinesi (dove le case sono distanziate dalle vie di traffico grazie ai giardini), ma di breve durata, subito sopraffatto dall’edilizia più intensiva che caratterizza le varie zone di ampliamento della città. Non sempre i cortili mantengono assialità e caratteri scenografici propri del periodo barocco: nell’attuale piazza Vittorio Veneto le palazzate del Frizzi (1825) perdono le canoniche sequenze di atrii e gallerie, l’androne abbandona la mezzeria per poter essere a fianco delle scale, poste nell’angolo del fabbricato. Intenti formali sono perseguiti con i bassi fabbricati realizzati nelle corti dei palazzi di piazza Carlo Felice, ma già negli isolati realizzati dal Promis la funzionalità prende il sopravvento, e diviene carattere distintivo la grande dimensione. Secondo Cavallari Murat nell’insieme delle costruzioni il decoro e la decorazione (spesso di qualità negli androni24 il cui ampio sviluppo verticale è determinato dalla presenza dei portici) non sono sufficienti a raggiungere esiti di valore prospettico e scenografico. È nel Borgo Nuovo albertino che si ritrovano invece episodi interessanti, scorci classico-romantici, complici l’eleganza degli edifici, il gusto neoclassico dell’architettura e della decorazione, la presenza del verde, sia pubblico (il Giardino dei Ripari) sia privato (i giardini interni). Il cortile ampio e monumentale è caso isolato, come nell’antonelliana casa Visconti, predominano infatti i toni pittoreschi generati dalla irregolarità degli spazi negli edifìci di minor rango, o dalla limitatezza delle dimensioni in quelli più prestigiosi, unita a qualche albero, ai rampicanti, ai fabbricati di servizio guarniti comunque di timpani e colonne. È il caso della palazzina Calieri di via dei Mille 16, della palazzina Brunati e di casa Fondini, della casa Bongiovanni e del palazzo Solaro in via della Rocca 23 e 33, ma anche della minuscola casa Michel, con il suo altrettanto minuscolo giardino antistante. Con la stagione dell’Eclettismo il passato torna di moda, ed è gara a reimpiegare le parole degli svariati lessici architettonici offerti dalla storia. Poco cambia nei grossi complessi, nelle corti dei grandi isolati a palazzate, dalle pareti nude e caratterizzate dalle grandi distese di ringhiere (case Balestreri e Biglia), ma la varietà si fa sentire negli edifici di maggior pregio. Una fontana - l’allegoria della Verità - compare nel cortile Martini e Rossi, elementi di volta in volta neomedievali, neocinquecenteschi, neoguariniani o neobarocchi nei diversi palazzi Ceriana Mayneri (via dell’Arsenale 33, piazza Solferino 11 e corso Stati Uniti 53), scuderie inserite come piccolo cottage in un giardino inglese nella casa Borgogna-Poma in corso Vittorio Emanuele Il angolo via Avogadro, decori in terracotta smaltata nel cortile della casa costruita per sé dal più capace architetto eclettico torinese, Carlo Ceppi. La ricerca eclettica porta anche alla ripresa di schemi settecenteschi come quello del cortile di palazzo Birago di Borgaro, trasferito dal Ceppi nell’edificio realizzato in corso Vittorio Emanuele II 92, recuperando inoltre le simmetrie e il rapporto androne-porticato-scalone, tipiche delle dimore barocche. Un episodio in cui felicissimo è il connubio fra la preesistenza seicentesca e gli innesti eclettici è quello di palazzo Lascaris, in cui alla loggia castellamontiana si aggiungono i porticati e le logge sui lati residui della corte, secondo un lessico neobarocco capace di saldarsi con continuità alle radici della cultura architettonica locale. In altri casi il linguaggio storicista si presta a interventi più pesanti, e i cortili vengono soppiantati dalle esigenze di una nuova tipologia, che richiede spazi ampi e di rappresentanza: la Banca. I cortili si prestano perfettamente a ospitare i saloni riservati agli sportelli, ed è in questa congiuntura che si perde irrimediabilmente la sequenza di atrio e cortile in diagonale presente nel palazzo Truchi Levaldigi di via Alfieri. Nel palazzo Perrone di San Martino le nuove esigenze porteranno alla parziale demolizione dell’edificio, e alla costruzione del grande complesso oggi occupata dalla Cassa di Risparmio di Torino, dal cortile sapientemente neobarocco. Successivamente, nel trapasso tra il secolo passato e quello in corso, i cortili - ormai più semplificati e ridotti a spazi funzionali - si celano alla vista dietro cancelli e vetrate, dalle forme sinuose e dai colori sgargianti. L’architettura ha trovato un nuovo linguaggio, lo stile floreale, ed è in queste forme che nasce un nuovo e irrinunciabile elemento dei cortili contemporanei: il garage25. Le rimesse dei palazzi costruiti da Pietro Carrera su progetto di Gussoni si configurano come elemento di grande decoro degli spazi in cui sono inseriti, scenografico fondale turrito delle strade private realizzate fra i gruppi di edifici. Un esempio che non ha fatto scuola, negli informi cortili della città contemporanea.

 

fonti:

Paolo Cornaglia, Guida ai cortili di Torino

 

Le gallerie coperte di Torino

 

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Il fascino delle gallerie torinesi è innegabile! Questi “passaggi” tra i palazzi coperti da vetri che lasciano passare la luce del sole illuminando i bellissimi interni sono una curiosità architettonica che fa parte della storia del capoluogo piemontese. Le gallerie torinesi riprendono i famosi passages francesi presenti nel paese d’oltralpe sin dal XVIII secolo e la cui costruzione iniziò nella città sabauda solo a partire dalla seconda metà del 1800.

La prima galleria di Torino fu voluta dal marchese Natta d’Alfano che commissionò la costruzione all’architetto Barnaba Panizza nel 1856. La galleria, che portava il nome del marchese, fu purtroppo demolita durante i lavori di sventramento di via Roma nel 1930. Ancora nel 1888 fu costruita in via Roma, su progetto di Camillo Riccio, la Galleria Nazionale. Anche quest’ultima, che seguiva gli stessi canoni architettonici delle altre, fu abbattuta a causa dei lavori di ricostruzione di via Roma.

Essendo coperti, proprio come i portici, questi passaggi consentivano (perlopiù ai nobili del tempo) di passeggiare tranquillamente anche nelle giornate di pioggia. Al loro interno si trovavano boutique per lo shopping, caffè, cinema e molto altro. Una piccola curiosità: una delle gallerie torinesi fu sede per diversi anni di un ospedale.

Di questo patrimonio architettonico e culturale che caratterizza, insieme ai famosi portici e alle grandi piazze, la città di Torino rimangono oggi tre grandi esempi:

La Galleria Subalpina

Il nome ufficiale di questo passage torinese è “Galleria dell’industria Subalpina” (le spese per la sua costruzione furono coperte dalla Banca dell’Industria Subalpina), ma i torinesi la chiamano semplicemente con il nome di Galleria Subalpina. L’edificio, dal tipico stile ottocentesco, è forse uno dei simboli più caratteristici della città. Al suo interno si trovano il Cinema Romano e Baratti e Milano, rispettivamente uno dei cinema e uno dei caffè più antichi del capoluogo piemontese. Nella galleria, inoltre, sono state girate alcune scene del film “Quattro Mosche di Velluto Grigio” di Dario Argento.

Indirizzo: Piazza Castello – via Cesare Battisti, 11

La Galleria Umberto I

La storia di questa galleria ha oltre mezzo secolo. L’area infatti fu sede dell’Ospedale Mauriziano, il più grande ospedale della città di Torino dell’epoca, qui situato dal 1575 fino al suo trasferimento nella nuova sede di Corso Stupinigi. Tra i negozi ospitati nella Galleria Umberto I di Torino c’è la storica Farmacia Mauriziana, inaugurata nel lontano 1575. La galleria è stata, tra l’altro, anche set cinematografico di alcuni importanti film tra cui “Trevico-Torino: Viaggio nel Fiat-Nam”, film di Ettore Scola girato nel 1973 e “Così ridevano”, film del 1998 di Gianni Amelio.

Indirizzo: Via della Basilica – 10122 Torino / Piazza della Repubblica – 10122 Torino

La Galleria San Federico

Costruita negli anni Trenta del Novecento come terza grande area commerciale coperta da aggiungere alle già esistenti Galleria Subalpina e Galleria Umberto I, la Galleria San Federico con le sue ampie vetrate, la struttura a “T” e le colonne e volte in marmo pregiato è sicuramente un’altra delle bellezza torinesi tutte da vedere. La galleria fu la prima sede storica del quotidiano La Stampa. Al suo interno si trova il cinema Lux, una delle più antiche sale cinematografiche della città sabauda. Anche qui è arriva la macchina da presa di Dario Argento che, proprio nella Galleria San Federico, ha girato alcune scene di Profondo Rosso.

Indirizzo: Si può accedere alla Galleria San Federico da Via Roma, Via Bertola e Via Santa Teresa

 

Arte povera al tempo dei primi Savoia? Una piazza fatta tutta di facciate con mattoni a vista, ovvero Piazza Carignano e l’architettura emiliana a Torino

 

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L'uso, nelle facciate esterne, del mattone a vista (come, appunto, quello che domina in tutta piazza Carignano) non era piemontese, era una necessità degli edifici emiliani, di un territorio senza cave di pietra e meno che mai di marmo, ricco solo di argilla. E' il modenese Guarini che lo importa anche per le sue architetture torinesi, provocando scandalo per la novità, ma poi con tale successo che sarà adottato per secoli - sino ad Alessandro Antonelli - dagli architetti locali e diverrà parte inconfondibile del volto non solo della città ma dell'intera regione.

 

fonti:

Vittorio Messori, Il mistero di Torino

 

Le prime residenze consolari a Torino: ovvero le piole della veja Turin

 

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La "piola" a Torino è la vecchia osteria, un posto dove bere un bicchiere di Barbera, mangiare un uovo sodo, magari un friciulin (le frittelline), leggere il giornale, giocare a carte con i vecchi. In città ce n'è più poche, ché ora è tutto un fiorire di montaditos e Starbucks, ma qualcuna resiste. Al tempo di Emanuele Filiberto, mancando a Torino palazzi in grado di ospitare rappresentanze diplomatiche, queste venivano alloggiate nelle piole, presso cui il Duca si recava a pranzare con gli ospiti in segno di amicizia e di stima per il loro Paese.

“A metà del Vicolo delle Asine c'era una breve discesa con un piccolo spiazzo dove si teneva il mercato degli animali. Il vicolo era squallido e lercio - mancava solo che vi aprissero le loro botteghe i beccamorti - ma la gargotta era a buon mercato. Fuori non aveva nessuna insegna, ma evidentemente era ben conosciuta, perché gli avventori rigurgitavano già a quell'ora, al primo imbrunire: operai, suonatori, rivendugliole di Porta Palazzo, giocatori, sacrestani, lacché, macellai, soldati. Vi si entrava per un rozzo usciale con l'impannata di tela incerata. L'ambiente era male illuminato dalla luce rossastra di una lucerna bisunta di ferro che pendeva dal soffitto per un regolo di legno, ed era saturo di fumo di pipe, odor di cipolla fritta, afrore di vino, frastuono di voci e tonfi. La padrona era una vedova con due figli giovani, un maschio e una femmina, che correvano senza sosta tra i tavoli carichi di piatti, richiamati a gran voce dagli avventori.”

(Descrizione di una piola tipica di fine Settecento, dal libro di Luigi Pietracqua, La sposa dl’ebanista (1891)

 

Abitavano qui: dimore note e meno note di torinesi celebri

 

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palazzo barolo

Voltato l’angolo del palazzo sopradescritto troviamo , in via dèlie Orfane N. 7, il palazzo Barolo, fabbricato nel 1692, sui disegni di Baroncelli , per ordine di Ottavio Provana conte di Drueiit. I coniugi marchesi Falletti di Barolo lasciarono questo palazzo ad alcune opere pie. In esso morì, dopo avervi lungamente abitato, Silvio Pellico , al 31 gennaio 1854.

palazzo carignano

Dove nacque Vittorio Emanuele II

casa di alfondo lamarmora

In via Cernaia presso la piazza Pietro Micca è la casa di Alfonso Lamarmora, la cui area è un dono dei Torinesi nel 1855 quando il generale ritornò di Crimea.

casa di massimo d’azeglio

Al N. 34 in via Principe Amedeo è la casa dove nacque Massimo d’Azeglio.

casa di federico sclopis

In via Milano (ai Portichetti), casa di Federico Sclopis, statista insigne ed arbitro a Ginevra per la questione dell’Alabama.

casa di g.b. bogino

In via Bogino, N. 31, morì G-. B. Bogino, illustre uomo di stato piemontese.

casa di cesare balbo

In via Bogino N. 8, nacque e morì Cesare Balbo, storico illustre.

casa di giovanni piana

In via Accademia delle scienze, dimorò lungamente Giovanni Plana, celebre astronomo.

casa in cui soggiornò torquato tasso

In via Basilica, N. 2, nel vicolo Tasso , è una casa dove una lapide indica avervi abitato Torguato Tasso nel 1578.

casa in cui soggiornò jean-jacques rousseau

In via S. Domenico, N. 11, palazzo Solaro della Margherita, dove stette qualche tempo, come servo, Gian Giacomo Rousseau.

palazzo alfieri

In piazza S. Carlo, è il palazzo Alfieri, dove Vittorio Alfieri scrisse le sue prime tragedie

palazzo cavour

In Via Lagrange, al N. 25, nacque e morì Cavour

casa di vincenzo gioberti

In Via Lagrange, al N. 20, nacque Gioberti

casa di joseph-louis lagrange

In Via Lagrange, al N. 29, nacque Lagrange.

 

La casa dei due Cavour: il palazzo di Via XX Settembre aveva un ospite laico e uno cattolico

 

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Il palazzo Benso di Cavour, all’angolo tra Via Lagrange e Via Cavour, reca una targa che recita: “Il conte Camillo di Cavour nacque in questa casa il 10 agosto 1810 e vi morì il 6 giugno 1861”, ma trascura di menzionare l’altro abitante, il fratello di Camillo, il conte Gustavo di Cavour. Una situazione altamente paradossale, se si pensa che mentre Camillo era un liberale che propugnava la libertà di culto, Gustavo scriveva nella redazione del “Giornale dei Preti”, “L’Armonia”, il periodico torinese dei cattolici intransigenti, e in parlamento tuonava contro quello che giudicava l’anticlericalismo del governo del fratello, votandogli non di rado contro.

Quando si dice separati in casa…

 

“Fare la figura del cioccolataio” e altri scampoli di storia legati a Piazza Castello

 

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fare la figura del cioccolataio

Si racconta che quando un sovrano sabaudo vide un cioccolatiere arricchito transitare per Piazza Castello con un tiro di 6 cavalli fece subito rientrare la sua carrozza e attaccare il tiro di 8 cavalli: “non sia mai che faccia la figura del cioccolataio”.

i laboratori alchemici di emanuele filiberto e madama cristina

Si racconta che sia Emanuele Filiberto che Cristina di Francia, la “Madama Cristina” solessero dedicarsi all’alchimia nei sotterranei di Palazzo Madama, e che la fornace del laboratorio di quest’ultima sfogava proprio nel fossato.

l’esecuzione degi untori

A Torino, nel 1599, furono scoperti “diciotto o venti avvelenatori savojardi, piemontesi e napolitani accusati di ungere porte, o distribuire empiastri velenosi o addirittura cavare il sangue ed applicare ventose pestifere”. Questi presunti untori, accusati di aver infettato anche alcune aree delle valli torinesi, furono tutti arrestati, “due di essi si uccisero in carcere. Gli altri, rei confessi con la tortura, vennero condotti nudi su di un carro, dalle carceri del senato a piazza Castello di Torino. Durant eil tragitto venne loro strappata la carne a brandelli con tenaglie; giunti poi sul luogo del supplizio e messi su di una croce di Sant’Andrea, furono loro rotte gambe, braccia, cosce e costole, poi infilati sulla ruota, ed infine ebbero tagliata la gola. A un capitano d’arme, similmente accusato di essere un untore, che non poteva comminare perché, sofferente di gotta, gli si bruciarono i piedi, poi, trasportato su una sedia fuori le mura, venne impiccato”

l’esecuzione degli eretici

Goffredo Varaglia, nato nel 1507 ca. a Brusca (in Val Maira, in provincia di Cuneo) e ordinato sacerdote nel 1528, fu un valente predicatore dell'ordine dei cappuccini ed un buon teologo. Le sue caratteristiche fecero sì che la Chiesa lo scegliesse per predicare nelle valli valdesi, vicino quindi alla sua zona d'origine.

Tuttavia lo studio delle dottrine valdesi, unito ad un'ammirazione per la figura del Vicario Generale del suo ordine, Bernardino Ochino, fuggito nel 1542 in Svizzera per diventare protestante, provocò una crisi religiosa in V., che verso i suoi quarant'anni decise di deporre il saio.

Posto sotto inchiesta nel 1552 con altri 12 suoi confratelli, V. fu chiamato a Roma, dove l'inchiesta non riuscì a stabilire la sua colpevolezza: fu quindi posto agli arresti domiciliari per cinque anni fino al 1557, quando, al seguito del legato pontificio presso la corte di Francia, si recò oltralpe. A Lione, tuttavia, V. venne nuovamente a contatto con le idee riformiste e qui prese la decisione di recarsi a Ginevra, dove, nello stesso 1557, fu nominato predicatore, o ministro della Parola, calvinista.

Fu quindi inviato nella Valle d'Angrogna, in Piemonte, ad istruire nuovi fedeli e, dopo cinque mesi di predicazioni, verso la fine del 1557, V. fu invitato nel suo natio paese di Brusca per disputare con il francescano Angelo Malerba. La disputa e la preparazione teologica di V. ebbero una notevole risonanza tra le famiglie della zona. Purtroppo, durante il viaggio di ritorno, fu arrestato a Barge, dove subì un primo interrogatorio, e condotto a Torino per essere rinchiuso nelle carceri del Parlamento. Qui dovette sottostare, anche da parte di alti ecclesiastici, a lunghi ed estenuanti interrogatori: in uno di questi, quando gli fu chiesto quanti erano i predicatori venuti da Ginevra, disse che erano 24, ma che altri erano pronti a seguirli e che il numero sarebbe stato così elevato da non trovare abbastanza legna da bruciarli tutti!

Poco dopo, egli fu sconsacrato nella cattedrale di Torino e il 29 marzo 1558 salì sul patibolo in Piazza Castello: fu dapprima strangolato ed il corpo fu bruciato. Prima dell'esecuzione, si rivolse al boia dicendo: Amico mio, io ti ho di già perdonato, et hora di nuovo ti perdono con tutto il cuore.

Tra gli altri eretici bruciati vivi in Piazza Castello vanno ancora citati Ippolito Rossiero, Ugo Chiampo, Bartolomeo Ettore.

feste e tornei

Piazza Castello era la sede di feste e di tornei, come quello che festeggiò l’arrivo a Torino di Cristina di Francia per conoscere il suo futuro sposo, Vittorio Amedeo I.

l’ostensione della sindone

L'usanza di offrire alla venerazione dei fedeli la reliquia nella piazza del castello, unico spazio che può accogliere l'alta affluenza popolare, è documentata da numerose incisioni e dai dipinti. Celebre l’ostensione del 1684, per le nozze di Vittorio Amedeo II con Anna d’Orleans, di cui si conserva un dipinto di Peter Bockman. La sposa, con Madama Reale Maria Giovanna Battista e la principessa Ludovica, osservano la piazza gremita di folla, stipata anche sui balconi e sui tetti. Accanto a loro partecipano all'evento Vittorio Amedeo II con i prelati e i dignitari di corte.

 

I palazzi di Torino

 

I palazzi più antichi di Torino (‘600-‘700)

 

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Palazzo Falletti di Barolo

Palazzo Falletti di Barolo è uno dei più importanti e meglio conservati esempi di residenza nobiliare seicentesca del capoluogo piemontese. Alla fine del XVII secolo Ottavio Provana di Druent affidò a Gian Francesco Baroncelli la ristrutturazione del palazzo di famiglia e incaricò artisti lombardi, romani e genovesi per la decorazione dei suoi interni. Alla morte del conte, il Palazzo passò ai Falletti di Barolo che commissionarono a Benedetto Alfieri l’aggiornamento decorativo di alcuni ambienti del primo piano. Gli ultimi proprietari furono Carlo Tancredi e Giulia Colbert di Maulévrier, sposati a Parigi nel 1806 che lo trasformarono nel più celebre salotto torinese del Risorgimento, ma anche un autentico centro di carità cristiana, di innovazione sociale. In quegli stessi anni i Marchesi, legati da un profondo senso di amicizia, accolsero Silvio Pellico, in qualità di segretario e bibliotecario.Dalla morte di Giulia, nel 1864, il Palazzo è sede dell’Opera Barolo, l’Ente creato per disposizione testamentaria al coltivare il patrimonio di valori al servizio della Città.

Il palazzo sede del museo Accorsi-Ometto (vedi “Musei di Torino”)

L'origine del palazzo è dovuta all'intraprendenza dei Padri Antoniani, che nel 1616 aprirono ai religiosi e ai malati un grande complesso, comprensivo di palazzo e chiesa dedicata a Sant'Antonio abate, al fondo dell'odierna Via Po. Per circa 150 anni questo complesso fu una delle sedi più prestigiose degli Antoniani in Piemonte ed Italia.

Alla metà del Settecento la chiesa fu sottoposta a rimodernamento per opera dell'architetto Bernardo Vittone che sistemò la chiesa, il coro, il campanile ed approntò il decoro del presbiterio. In seguito alla soppressione dell'Ordine degli Antoniani avvenuta nel 1776, il palazzo e la chiesa furono affidati all'Opera della Mendicità Istruita, per poi passare nell'Ottocento all'Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro.

Nel 1956 l'intero palazzo fu acquistato da Pietro Accorsi che adibì il piano nobile a sua abitazione e galleria d'arte. Dopo la scomparsa del proprietario, avvenuta nel 1982, i beni del celebre antiquario vennero affidati ad una Fondazione con il preciso scopo di realizzare un museo. I lavori di ristrutturazione e adeguamento dell'edificio si protrassero fino al 1999, anno in cui venne inaugurato il museo, il primo in Italia dedicato alle arti decorative.

Palazzo di Città, piazza Palazzo di Città 1

Costituito da un nucleo principale eretto fra il 1659 e il 1665 da Carlo Emanuele Lanfranchi, è divenuto, per mano di Benedetto Alfieri, fulcro di un complesso urbanistico costituito dalla piazza e dalla via omonime, realizzate nel 1756. Gli edifici che lo circondano lungo le vie Garibaldi, Bellezia e Corte d’Appello sono opera degli architetti Dellala di Beinasco, Barberis e Castelli. Sede del governo della città ha visto attivi al suo interno, nel XVII secolo, gli artisti impegnati nelle residenze di corte: G. A. Casella, G. A. Recchi, C. Dauphin, e con essi il letterato artefice dei programmi iconografici, Emanuele Tesauro. Con la Restaurazione viene aggiornato in senso neocalssico con interventi di Giacomo Spalla nel salone dei marmi, dedicato al ritorno di Vittorio Emanuele I. Il cortile, così come ci appare nella sua scenografica configurazione a logge affrontate, è frutto degli interventi settecenteschi, che hanno duplicato il fronte interno lanfranchiano al fondo della corte.

Palazzo Bertalazone di San Fermo, via San Francesco d’Assisi 14

Di nascita seicentesca e successiva riplasmazione, il palazzo era come di consueto organizzato su due cortili contigui, quello d’onore, su cui s’affacciava la loggia sovrastante il portico, ancora esistenti, e quello «rustico», per le funzioni di servizio. Nelle guide della città (Paroletti, 1819) è segnalato non per l’architettura ma per la collezione di quadri che il conte d’Harache vi ospitava. Erano esposti in una galleria opere di Diirer (un sapiente che legge), di Sinibaldo Scorza (un paesaggio), del cosiddetto Capucino (le tre Parche), di Tiziano, Carracci, Oudry e Piola, e disegni del Palmieri.

Palazzo San Martino della Motta, via Boterò 15

L’edificio appartiene a una tipologia diffusa in Torino intorno alla metà del ’6oo e caratterizzata da cortili porticati su tre lati. La sua costruzione dovrebbe essere successiva al 1656, non comparendo ancora nella carta della città stesa da Carlo Morello in quell’anno. Tradizionalmente attribuito a Maurizio Valperga possiede ancora inalterato il volume ridotto tipico delle residenze di questo periodo, generalmente costituite da un primo piano nobile e da un solo piano superiore poco più alto di un mezzanello.

Palazzo Capris di Cigliè, via Santa Maria 1

Attribuito al Plantery, e datato al 1730, era, secondo la guida di G. Briolo (1822), «fornito di appartamenti vasti, comodi e ben decorati, stato più volte occupato da ministri esteri». Nei primi decenni dell’800 vi era insediata una fabbrica d’oro e d’argento, che si occupava di ogni fase della lavorazione: «gettaria», raffinatura, indoratura, «verga», trait, filato, lamina, passamanteria, abbellitura, «bisantini» (paillettes), e ricamo. Nel cortile - ormai non più assiato rispetto all’androne a causa della costruzione di una manica porticata ma comunque ancora aperto in sequenza sulla retrostante corte rustica - si fondono elementi decorativi del XVIII e del XIX secolo.

Palazzo Scaglia di Verrua, via Stampatori 4

L’edificio, è uno dei più antichi palazzi nobiliari torinesi, realizzato fra il 1585 e il 1604 per Antonio Solaro, Generale delle finanze sabaude, e successivamente ampliato, fra il 1650 e il 1664, su progetto di Gian Andrea Garabello per i nuovi proprietari, gli Scaglia di Verrua. A questa fase risale rimpianto oggi visibile del palazzo, giunto a noi pressoché inalterato a eccezione della corte perticata, fino al XIX secolo aperta solo su tre lati. Anche la facciata ha conservato il suo volto originario, ricoperto da affreschi seicenteschi di Antonio Parentani raffiguranti deità, restaurati nel 1988, che ancora nell’800 erano confrontabili con quelli dipinti da Polidoro da Caravaggio (Paroletti, 1819) sul fronte del castellamontiano palazzo del marchese di Roddi, e che oggi costituiscono, invece, un unicum nell’attuale panorama torinese.

Palazzo di Villa, via Garibaldi 23

Il palazzo è uno dei pochi edifici della via con un cortile risolto scenograficamente da un fondale, in questo caso costituito da una vera e propria quinta architettonica con loggia e fontana. Costruito nel 1736 dall’architetto Francesco Gallo, nell’ambito del drizzamento dell’antica via Dora Grossa operato su piani di Gian Giacomo Plantery, ha ospitato gli assessorati municipali per il Commercio e l’Ambiente è oggi parte del Fondo Città di Torino e in corso di restauro per essere di nuovo destinato a residenza.

Ex Tribunale, via Corte d’Appello 16

L’antico Palazzo del Senato venne iniziato (1720-1722) su progetti di Filippo Juvarra, quindi proseguito per mano del suo successore Benedetto Alfieri (1740). Nel XIX secolo venne terminato in un contesto aulico ormai pienamente neoclassico da Ignazio Michela (1841). Gli spazi dell’edificio sono caratterizzati dalla grande scala connaturata all’importanza della funzione: al monumentale atrio ionico segue il cortile, ornato nel suo lato verso via delle Orfane da un portico a colonne architravate, già previsto da Alfieri, non più realizzato nel lato opposto.

Palazzo Carpeneto di San Giorgio, via delle Orfane 6

Come il palazzo San Martino della Motta l’edificio è caratterizzato da due cortili posti in successione (la corte d’onore e quella rustica) e parzialmente separati da un filtro porticato, che in questo caso si estende per ben tre campate di profondità. Tradizionalmente attribuito ad Amedeo di Castellamonte venne restaurato dal Bonvicini del XVIII secolo. Nel 1855, probabilmente a causa del rilevante sviluppo del cortile porticato, uno schema pianimetrico del palazzo fu pubblicato da Callet e Lesueur. Acquistato nel 1877 dalla Società Reale Mutua di Assicurazioni è stato sottoposto a numerosi rimaneggiamenti (XIX e XX secolo) senza perdere comunque il carattere e il volume contenuto tipici delle residenze di metà ’6oo.

Palazzo Barolo, via delle Orfane 7

Pur non possedendo la classica sequenza di spazi di androne e porticati, e in assenza di un rapporto aulico fra corte e strada, verso quest’ultima il palazzo offre comunque la grande scenografia costituita dalle rampe di uno degli scaloni più belli della città, attirando il passante. Ridotto l’accesso alla corte a uno stretto passaggio al di sotto della rampa centrale, tutto lo spazio viene occupato da un atrio a colonne addossate e dal grande scalone a forbice, realizzato da Benedetto Alfieri. Il palazzo era nato negli ultimi anni del ’6oo, su committenza della famiglia Provana di Druent, come trasformazione e ampliamento di una preesistenza. Nel 1692 è accertata la presenza di Gian Francesco Baroncelli, a cui è attribuita l’opera. All’interno, l’edificio - amputato della parte a sud per l’allargamento della via Corte d’Appello - conserva importanti decorazioni sia legate alla fase tardo secentesca che a quella rococò diretta dall’Alfieri.

Palazzo Mazzonis, Museo di Arte Orientale, via San Domenico 11

Frutto di una trasformazione di un edificio preesistente (1639) su progetto (1767?) tradizionalmente attribuito a Benedetto Alfieri, il palazzo, in origine Solaro della Chiusa, poi Mazzonis, è caratterizzato da una facciata di cui è unico ornamento il portale e da un grande atrio colonnato. Gli ambienti interni, già trasformati in uffici giudiziari e poi destinati a museo con progetto di allestimento di Andrea Bruno, conservano solo in parte la decorazione originaria. Le raffinate boiseries, caratterizzate dall’ampio uso di specchi, sono state asportate ricollocate nella sede di piazza San Carlo della Banca oggi Intesa-San Paolo (ex palazzo Turinetti di Pertengo). Il cortile è ornato con gusto teatrale da un’esedra settecentesca coronata da balaustra e vasi decorativi.

Convento della Consolata, via Maria Adelaide 2

Segnalato dal Cavallari Murat (1968) per «l’eleganza delle proporzioni dell’architettura del cortile», del convento non è noto l’artefice. Si può solo ricordare che alla chiesa, nel corso dei secoli, misero mano personalità come Guarini e Juvarra. I fronti dell’edifìcio rivoli al chiostro sono caratterizzati da un ordine gigante di lesene, a capitello composito, che poggia sui pilastri del porticato, sviluppato su quattro lati.

Casa Barberis, via Santa Chiara 13

Situata nell’isolato di San Sigismondo, apparteneva nel 1752 a un tal signor Barberis, e nel 1796 al barone Martino di San Martino. Nata come casa padronale e da reddito, possiede il canonico schema seicentesco a «T» (androne, portico, scala, galleria), con scala a pozzo su colonne. Il cortile del palazzo è separato da quello rustico del palazzo Caisotti da un basso fabbricato, su cui è dipinto un trompe l’oeil raffigurante una scenografia architettonica, espediente un tempo diffuso per ampliare illusoriamente e dare respiro a spazi ridotti, sia in interni che in esterni.

Palazzo Caisotti di Verduno, via Bligny 10

Il palazzo, il cui ammodernamento di secondo ’7oo, con affreschi del Perego, è attribuito a Giovanni Battista Borra (Derossi, 1781), presenta in realtà caratteri quasi tardo secenteschi, riscontrabili anche in altri edifici del terzo ampliamento. Oltre il consueto schema a T di androne e portico si colloca il cortile, diviso dalla sua parte rustica da una semplice quinta architettonica con aperture ad arco. La disposizione dell’accesso principale in via Bligny, su di un asse ortogonale a quello dello sviluppo dei cortili, impedisce in questo caso lo sfruttamento scenografico della sequenza delle corti e del diaframma posto a loro separazione.

Palazzo Cotti di Brusasco, via Bligny 5

Costruito per Giovanni Ottavio Cotti di Brusasco Primo Presidente della Corte dei Conti nell’ambito del terzo ampliamento di Torino, pianificato da Michelangelo Garove (1711) e poi concluso da Filippo Juvarra (1716) con i cosiddetti Quartieri Militari, Palazzo Brusasco viene in seguito abbellito, secondo le guide della città, dall’architetto Nicolis di Robilant (1723-1783), autore a Torino, fra l’altro, del poco distante palazzo Cacherano di Mombello (via della Consolata 12), della chiesa di Santa Pelagia e di quella della Misericordia. Nel 1822 il palazzo presentava ancora affreschi di Giovambattista Bagnasacco nelle sale degli appartamenti nobili. Una parte non indifferente del fascino dell’androne e del cortile è dovuta agli interventi del Reycend eseguiti nel 1878 per il proprietario Lionello Ottolenghi, che hanno comportato abbellimenti esterni e interni (le mensole dei balconi sulla facciata, il pozzo nel cortile ecc.). Palazzo Brusasco è stato restaurato dallo studio Archa nel 1974.

Convitto Umberto I, ex convento dei Carmelitani, via Piave 8

Collocato nel nuovo ampliamento settecentesco della città, nei pressi di numerose altre sedi di istituzioni religiose e di servizio, l’edificio venne realizzato a partire dal 1718 su progetto dall’architetto Gian Giacomo Plantery, ma solo nel 1732 venne iniziata la costruzione della chiesa, opera di Filippo Juvarra. Caratterizzato da un grande cortile porticato a colonne binate, di sapore ancora castellamontiano, e da un ricco scalone progettato da Ignazio Agliaudo Baroni di Tavigliano, discepolo di Juvarra, rivela toni di grande aulicità propri dei grandi palazzi nobiliari, a testimonianza dell’importanza dell’ordine nel contesto cittadino dell’epoca. L’ordine dei «Carmelitani calzati» venne soppresso in epoca napoleonica, e nel 1818 l’edificio fu consegnato ai Gesuiti, che vi insediarono un «collegio di educazione per giovinetti di nascita distinta» (Briolo, 1822). Il complesso, la cui facciata su via Garibaldi fu rimaneggiata nel 1862, venne gravemente bombardato nell’ultima guerra, al punto da far considerare la demolizione della chiesa, ma in seguito fu completamente ripristinato.

Palazzo Saluzzo Paesana, via della Consolata 1/b

Il palazzo fu costruito da Giangiacomo Plantery, fra il 1715 e il 1722, su committenza del senatore Baldassarre Saluzzo di Paesana. Costato l’enorme cifra di 300.000 lire è forse il più vasto e articolato palazzo nobiliare torinese. L’edificio, in parte casa da reddito, si affaccia su un grande cortile d’onore in cui tutti gli elementi canonici del palazzo torinese vengono raddoppiati: doppio accesso (grazie a un secondo atrio verso via Bligny - ormai tamponato - in asse con quello principale su via della Consolata) due scaloni aulici, due loggiati contrapposti. L’appartamento nobile, seppure ridotto rispetto alle dimensioni originarie, conserva ancora decori settecenteschi, fra cui sovrapporte di Domenico Guidobono e una volta affrescata dallo stesso pittore. Palazzo Paesana, fortemente degradato, è stato restaurato fra il 1991 e il 1996 su progetto dell’architetto Roberto Lombardi.

Palazzo Martini di Cigola, via della Consolata 3

Progettato da Filippo Juvarra nel 1716, si pone, con il palazzo Paesana, come elemento qualificante il terzo ampliamento della città. Aprendo l’accesso carraio sulla via della Consolata, e ponendo atrio e corte sullo stesso asse di quelli della casa dell’Orfanotrofio, sfrutta al massimo le valenze prospettiche che uniscono in una sola visuale gli spazi interni dei due fabbricati. Il cortile d’onore è definito da un lato da un doppio ordine di serliana, e dall’altro da un fondale che maschera in parte il cortile di servizio, privo di accessi diretti sulle vie laterali. Al piano nobile conserva ancora ambienti con decori del XVIII secolo.

Seminario Metropolitano, via XX Settembre 83

Un tempo attribuito a Juvarra, ma ora accertato come opera di Pietro Paolo Cerutti e datato 1711, il palazzo del Seminario è uno dei grandi edifìci rappresentativi o collettivi della città caratterizzati da cortili con porticati a doppio ordine, come l’università o l’Accademia Reale. Fornito di una biblioteca che agli inizi dell’800 contava 9700 volumi (Briolo, 1822), poteva ospitare fino a 170 seminaristi. La cappella venne ampliata a fine ’yoo da Carlo Ceroni, e il fronte allungato a fine ’8oo in relazione al taglio di via IV Marzo.

Palazzo Chiablese, piazza San Giovanni Battista 1

Di aspetto esteriore dimesso il palazzo conserva al suo interno ambienti fra i più raffinati del rococò locale ed europeo. Nel XVI secolo l’edificio appartenne alla principessa Lodovica di Savoia, moglie del Cardinal Maurizio; in seguito venne destinato a Benedetto Maurizio duca del Chiablese, figlio di Carlo Emanuele III, che nel 1754 commissionò a Benedetto Alfieri il rinnovo dei due grandi appartamenti, protrattosi fino al 1763. Artisti come i pittori Gregorio Guglielmi e Francesco de Mura, o ebanisti come il Piffetti, lavorarono per gli ambienti del duca, realizzando un complesso di decorazioni purtroppo mutilato dai bombardamenti dell’ultimo conflitto. I lavori interessarono anche lo scalone e l’atrio, nel quale vennero collocate colonne prelevate dal castello di Rivoli. Un terzo appartamento venne decorato a fine '700 in forme neoclassiche sotto la direzione dell’architetto Piacenza. Il palazzo, che in epoca napoleonica ha ospitato Camillo e Paolina Borghese, è oggi sede della Soprintendenza Archeologica e di quella ai Beni Architettonici e Ambientali del Piemonte. Le fronti dei cortili offrono la stessa semplicità di quelle sulla piazza, nella generale incompiutezza degli esterni.

Palazzo Reale, piazza Castello

Voluto da Carlo Emanuele I, la sua costruzione venne iniziata nel 1584 su progetto di Ascanio Vitozzi, nativo di Bolsena, vincitore di un concorso aperto a tutti «i valent’huomini della professione». Basato inizialmente su matrici tardo cinquecentesche proprie della corte papale romana, di cui resta l’impronta nel grande cortile quadrato, l’edificio venne realizzato in tempi lunghi e con l’apporto di architetti diversi. Nel 1643 Maurizio Valperga fornisce il disegno per la facciata molto simile a quella realizzata da Carlo Morello nel 1658, che elimina però le lesene binate di ascendenza francese. Negli stessi anni viene completato il padiglione verso il Duomo, e a fine ’6oo il braccio di levante, verso il giardino, quest’ultimo progettato dal grande André Le Nòtre nel 1697. Agli interni realizzati nella prima fase dei lavori, decorati da grandi soffitti in legno scolpito e dorato a cornice di tele dipinte da Jan Miei, Charles Dauphin e altri, verranno poi ad aggiungersi alla fine del XVII secolo gli affreschi di Daniel Seyter e nel corso di quello successivo gli ambienti preziosi progettati da Filippo Juvarra, autore, fra l’altro della Scala delle forbici fra primo e secondo piano (1719), e da Benedetto Alfieri. Realizzata, sempre in epoca juvarriana, la manica di chiusura del cortile, inizialmente aperto verso il giardino il palazzo vede quindi l’ultima modifica alle sue strutture con la demolizione (1811) del porticato verso piazza Castello sostituito tra il 1835 e il 1846 dalla cancellata e dalle statue dei Dioscuri, opera di Pelagio Palagi. Lo stesso Palagi, in quegli anni, aggiorna con gusto tardo neoclassico molte sale del palazzo, su committenza di Carlo Alberto. Gli interventi diretti da Emilio Stramucci, a fine ’8oo, cercheranno di riequilibrare il volto di alcune sale del palazzo in senso neobarocco.

Palazzo Carignano, via Accademia delle Scienze §

Emblema delle forme barocche più vive, in contrasto con il volto razionale della città-capitale del classicismo barocco seicentesco voluta dai duchi di Savoia, il palazzo, voluto da Emanuele Filiberto principe di Carignano, venne realizzato da Guarino Guarini a partire dal 1679. Caratterizzato dal corpo centrale concavo-convesso ispirato dai progetti di Bernini per il Louvre parigino, in cui si collocano l’atrio e il sovrastante salone, e i due grandi scaloni curvilinei, rimase però incompleto nella parte verso il giardino, attualmente occupato dalla manica ottocentesca e da piazza Carlo Alberto, un tempo ornato dal fondale neoclassico delle scuderie (Filippo Castelli, 1790, oggi Biblioteca Nazionale). Nel 1864-71 Giuseppe Bollati ampliò l’edificio, su disegni di Domenico Ferri concepiti per ospitarvi la nuova sala del Parlamento italiano (in precedenza ricavata nell’antico salone centrale del palazzo guariniano), divenuta nel frattempo inutile a causa del trasferimento della capitale a Firenze. Con l’estinzione del ramo principale dei Savoia i principi di Carignano giunsero, nel 1831, al trono. Il re Carlo Alberto dismise quindi il palazzo, dando avvio a un periodo di usi impropri e di completo smantellamento di decorazioni fisse e arredi, in un contesto di generale e progressivo disprezzo del Barocco: una guida cittadina del 1840 lo definisce infatti «una aberrazione architettonica». All’interno dell’edificio rimangono comunque visibili il cosiddetto Appartamento dorato del piano terreno, caratterizzato da intagli lignei dorati applicati su specchi e, sottoposte a recenti restauri, le volte dipinte a fresco fra il 1695 e il 1702 da Stefano Maria Legnani, detto Legnanino. Il cortile, originariamente concepito come spazio aperto verso il giardino, filtrato da un semplice corpo porticato, è oggi invece trasformato in classica corte chiusa di palazzo «italiano», grazie all’ampliamento di Feri e Bollati che ha ripreso mimeticamente le formule decorative guariniane.

Palazzo Salmatoris, via Cesare Battisti 17

La guida del Paroletti (1819) lo attribuisce ad Amedeo di Castellamonte e segnala i restauri effettuati dall’architetto Nicolis di Robilant nella seconda metà del XVIII secolo. Il palazzo, che ha ospitato nel corso dell’800 lo studio di Cavour nell’appartamento del primo piano, presenta ancora oggi una facciata caratterizzata da elementi decorativi d’impronta castellamontiana, e un cortile dove le arcate cieche dei lati riprendono il canonico porticato unito all’androne e accolgono il passaggio al successivo cortile rustico.

Palazzo Graneri, via Bogino 9

La famiglia Graneri raggiunge il rango nobiliare nel 1646 con l’acquisto, da parte di Gaspare Graneri, della contea di Mercenasco dal conte Amedeo Valperga. Nel 1676 uno dei figli, l’abate Marcantonio, acquista il terreno su cui verrà realizzato, tra il 1685 e il 1699, il palazzo, su disegno dell’architetto Baroncelli e, sembra, su suggerimenti del Guarini (la facciata è trattata nel modo guariniano dei «risquadri incavati nel muro»). Appartenuto ai graneri per secoli, nel 1843 passa ai Gerbaix de Sonnaz, quindi nel 1906 a Lionello Hierschel de Minerbi, nel 1920 alla Società Fondiaria Assicurazioni di Milano, per finire, nel 1935, alla famiglia Sacerdote. L’edificio risulta uno dei più sontuosi palazzi nobiliari torinesi, sia per l’articolazione e l’ampiezza degli spazi sia per i materiali impiegati (pietra da taglio per tutti gli elementi in rilievo e modanati). La sequenza atrio-cortile sfociava, attraverso una balaustra ornata di piramidi marmoree, in un giardino guarnito da un fondale architettonico sul muro che lo divideva dalla via retrostante; a fianco si trovavano i fabbricati di servizio, articolati su ben tre corti rustiche; le carrozze, una volta entrate nel cortile d’onore potevano ritornare sulla via passando attraverso i cortili minori e uscendo quindi da un secondo androne carraio. Come nella gran parte dei palazzi in Torino il percorso cerimoniale è scandito dagli ambienti posti in successione: atrio, porticato, scalone, loggia, salone centrale, quest’ultimo affacciato sulla loggia e sulla via principale. L’interno del palazzo offre una ricca serie di ambienti decorati, a partire dal salone centrale, aggiornato nel 1781 su progetto dell’architetto Dellala di Beinasco con stucchi a soggetto mitologico attribuiti al Bernero. Le sale presentano una veste perlopiù tardo settecentesca, in modi avvicinabili agli interni progettati da Leonardo Marini, con delicati stucchi attribuiti al Bolina; alcune altre, invece, sono testimonianza della fase decorativa iniziale di tardo ’6oo (affreschi a soggetto mitologico al centro della volta) e di una fase di metà ’yoo (l’ex cappella e i due salotti cinesi, uno con pannelli di provenienza orientale e volta dipinta da Pietro Massa, l’altro passato attraverso il mercato antiquario e oggi visibile al Kunstgewerbemuseum di Berlino). L’antica spazialità di corte e giardino è oggi ormai compromessa dalla costruzione, avvenuta nel corso dell’800, dell’Hotel Feder, lungo la via San Francesco da Paola. Nel 1998 si è concluso il restauro complessivo del palazzo, su direzione dell’architetto Andrea Bruno, che ha ripristinato una piccola parte di giardino eliminando intrusioni edilizie recenti. Dal 2006 ospita il Circolo dei Lettori.

Palazzi di via Po ai nn. 7014

Il grande complesso urbanistico di via Po, realizzato in forme unitarie secondo il piano di Amedeo di Castellamonte del 1673, regge il secondo ampliamento della città unendo i due fulcri di Palazzo Madama e della Porta di Po, proseguendo idealmente, oltre il fiume, verso la collinare Villa della Regina. Tracciata sull’antica via che conduceva all’antico ponte oggi sostituito da quello napoleonico, taglia quindi obliquamente il tessuto urbano derogando dalla maglia ortogonale divenuta normativa in ogni espansione della città. Lungo l’arteria si trovavano già la chiesa di San Francesco da Paola con l’annesso convento, a esso si aggiunsero altre grandi istituzioni come l’Ospedale di Carità, l’università, la caserma delle Guardie del corpo del Re. L’unitarietà delle fronti, che seguono lo schema della città razionale cartesiana, srotolando finestre e timpani a serie infinita, la problematica inclinazione della via e la peculiarità del tessuto edilizio, in parte preesistente nel secondo tratto (verso sud), non lasciano spazio a grandi episodi di architettura residenziale.

La casa al n. 7, caratterizzata da un minuscolo cortile, a causa della ristrettezza dell’isolato è stata ristrutturata dalla Fumerò Edilit negli anni 1977-78, e la corte è stata riprogettata dalla Sircot.

Palazzo Rignon, al n. 14

Rivolge l’ingresso principale, verso la via San Francesco da Paola, e possiede un bell’esempio arioso di sequenza atrio-scalone. Il cortile è ornato dalla sequenza di arcate del portico, opera successiva, posto lungo la manica parallela a via Po.

Palazzo dell’Università, via Po 17

Mascherato, come altre istituzioni in città, dalle quinte uniformi delle palazzate castellamontiane, il palazzo dell’università venne realizzato a partire dal 1713 su progetto di Michelangelo Garove. Morto in quell’anno stesso il Garove, la costruzione fu proseguita da Antonio Ricca su progetti di Pier Francesco Garelli e, dal 1716, presa in carico da Filippo Juvarra. A quest’ultimo vanno attribuiti il disegno degli stucchi delle aperture sulle logge e del vestibolo verso via Po e la cappella, non più esistente. L’edificio, frutto di un’elaborata riflessione progettuale, traduce in scala aulica e rappresentativa le esigenze dell’università di un Ducato ormai divenuto Regno, articolandosi attorno a una corte quadrangolare cinta da un doppio ordine di porticati, con due grandiosi scaloni e un vasto atrio rivolto verso via Verdi, fronte principale del complesso. Nel corso del XVIII secolo i portici ospitarono frammenti di scavi archeologici costituendo un Museo Lapidario, le cui opere vennero rese note a stampa nel 1747. Attualmente sono invece presenti numerose sculture, alcune opera dei fratelli Collino.

Cortile dell’ex Accademia Militare, piazza Castello 215, via Verdi

Lo spazio oggi presente tra l’Archivio di Stato e il teatro Regio, raggiungibile anche da via Verdi attraverso il vicolo posto alle spalle della torre di scena, è quanto rimane del grande cortile del?Accademia Militare, gravemente danneggiato dai bombardamenti dell’ultima guerra e in seguito demolito per consentire l’inserimento del nuovo teatro. La juvarriana facciata degli archivi si apriva infatti su un grande cortile quadrangolare con due lati (est e sud) caratterizzati da portici e logge, a due ordini, su colonne binate. L’edificio, realizzato fra il 1675 e il 1680 su disegno di Amedeo di Castellamonte come Accademia Reale in cui i giovani nobili potevano apprendere le arti dell’equitazione, della danza e quanto concerneva l’educazione del gentiluomo, era parte fondamentale del grande complesso di palazzi legati alle funzioni più importanti dello Stato, detto «zona di comando», che andava dal Palazzo Reale alla Zecca, nell’attuale via Verdi. Alcuni frammenti variamente ricomposti del colonnato sono attualmente visibili nella piazzetta che precede il citato vicolo.

Cavallerizza, via Verdi 9

Concepita unitamente all’Accademia Reale nel grande disegno urbanistico della «zona di comando» predisposto da Amedeo di Castellamonte con l’ampliamento urbano del 1673, venne realizzata in tempi differenti. Tre bracci della crociera convergenti sulla rotonda centrale, rimasta incompiuta, furono eretti nel XVI secolo, uno di questi venne poi sostituito dall’eccezionale sala per esercizi equestri progettata da Benedetto Alfieri nel 1740, anch’essa lasciata in parte incompleta. Durante il regno di Carlo Alberto venne coperta la sala circolare e furono terminati i settori verso il Giardino Reale. Del complesso sono oggi visibili tre dei quattro cortili (uno posto alle spalle del Teatro Regio, due raggiungibili da via Verdi 9) e il complesso di scuderie, rimesse e percorsi la cui comunicazione con via Rossini attraverso il grande portone (n. 11/a) è stata da tempo ripristinata.

Collegio universitario, via Verdi 13

L’edificio, realizzato nel XVII secolo nell’ambito del secondo ampliamento della città, venne ingrandito per conto del barone E. Lauger in direzione della Zecca, su progetto dell’ingegner E. Abbati. Nel 1889 Camillo Riccio intervenne con sopraelevazioni che diedero al fabbricato l’aspetto attuale. Trasformato in collegio universitario nel 1981 dagli architetti Brino, De Ferrari, Fabbri e Raineri, presenta un cortile in cui domina un tiglio secolare di più di 15 metri di altezza.

Ex fabbricato industriale, via Ferrari 3

Realizzata nel 1861 dall’architetto Barnaba Panizza, in un’area urbana che vedeva la presenza di numerosi edifici progettati con destinazione d’uso industriali e commerciali, la sede della Società Pani da Caffè e della Società Fabbricanti acque gazzose, presenta ancora le tipiche strutture modulari a pilastri e arconi ribassati degli edifici utilitari del secondo ’8oo, secondo un ritmo ben visibile anche sulle fronti rivolte ai cortili, oggi attentamente curati per quanto riguarda il decoro verde e floreale. Il restauro è stato progettato dall’architetto Chiara Stupino.

Palazzi di via Po ai nn. 39,55,59

L’edificio al n. 39 è uno dei palazzi nobiliari di maggiori dimensioni della via, caratterizzato da un lungo porticato aperto verso il cortile d’onore, e da una particolare vista della Mole Antonelliana, inquadrata dall’arco del portone d’accesso.

Il palazzo al n. 55, altro esempio di notevoli dimensioni, era in origine posto come fondale del grande cortile della caserma delle Guardie del corpo del Re, oggi demolita. Sede della Fondazione Accorsi e del suo museo, è stato restaurato su progetto dell’architetto Piero Derossi, come il vicino n. 59. Entrambi i cortili risultano ornati da statue e decorazioni marmoree (di varia provenienza), in particolare il secondo offre una successione di piccole corti dove l’antico, il restyling postmodern e gli esercizi commerciali creano un’isola di fascino particolare a pochi passi dalla trafficata via Po.

Corporazione dei Mastri fabbricatori di stoffe, via San Massimo 31-33

L’edificio, realizzato da P. Bonvicini nel 1781 per residenza e laboratori dei «fabbricatori delle stoffe in oro argento e seta», è stato ristrutturato nel 1978-80 dall’architetto C. Novara come casa-pareheggio. Nell’angolo acuto del grande cortile, definito dalle alte maniche del fabbricato, nasconde un’eccezionale scala a pianta pentagonale, brillante soluzione in rapporto alla forma triangolare dell’isolato.

Ospedale San Giovanni Battista, via Giolitti 36

La costruzione della grande Ospedale di San Giovanni Battista, oggi sede del Museo Regionale di Scienze naturali dopo i restauri progettati dall’architetto Andrea Bruno, venne iniziata nel 1680 su progetto di Amedeo di Castellamonte e completata da Gina Francesco Baroncelli. È articolato su quattro cortili quadrangolari, definiti dai bracci delle infermerie (una crociera centrale e due maniche su via Accademia Albertina e via San Massimo) poste su due piani, quello inferiore destinato agli uomini e quello superiore alle donne. Tra il 1720 e il 1727 venne realizzato lo scalone, ornato da stucchi opera di Carlo Papa, nel 1757 il Teatro Anatomico (oggi scomparso) su disegno di Bernardo Antonio Vittone e nel 1763 venne infine aggiunta la chiesa, su progetto ormai neoclassico di Filippo Castelli. Il corpo frontale si affaccia sui cortili con un doppio ordine di portici e loggiati, sorretti da colonne binate come nel distrutto cortile dell’Accademia Militare, anch’esso opera del Castellamonte.

Convento di Santa Croce, via Accademia Albertina 13

Il convento è uno dei più grandi fra quelli realizzati nel secondo ampliamento barocco della città (1673), occupando circa due terzi di un isolato di 1200 mq. Articolato nei tre cortili canonici (quello principale con sale comuni al piano terreno e celle al primo, quelli di servizio, in questo caso divisi dal corpo del refettorio) distribuiti da un asse centrale che costituisce anche il lato sud del chiostro maggiore, adiacente alla chiesa, era destinato al ritiro di fanciulle nobili. La chiesa, a pianta ellittica, è attribuita a Filippo Juvarra (1718). Il giardino, rivolto verso via San Massimo, è stato edificato nel corso del XIX secolo. Dopo essere stato sede della caserma Podgora, è stato in gran parte restaurato e ospita dipartimenti dell’università di Torino: il cortile principale, circondato da un portico su pilastri binati, è oggi ornato da un gazebo-belvedere che valorizza elementi tecnologici degli impianti.

Collegio delle Province, ora Caserma Bergia, via S. Croce 4

Realizzato nel 1739, trasformando su progetto di Bernardo Antonio Vittone un preesistente fabbricato, il collegio era destinato a ospitare un centinaio di studenti universitari meritevoli provenienti dalle province. Organizzato intorno a un cortile quadrangolare contornato da porticati a doppio ordine, provvisto di camere per dormire e studiare a gruppi di quattro, nonché di un grande refettorio, è un esempio notevole di struttura collettiva residenziale per studenti nel panorama dell’epoca. Rimasto in attività fino all’epoca napoleonica, con la Restaurazione venne poi trasformato in sede dei Carabinieri Reali.

Hotel NH Collection, già Albergo di Virtù, piazza Carlo Emanuele II15

Fondato nel 1580, ma collocato nel palazzo di piazza Carlina dal 1682 al 1890, il Reale Albergo di Virtù ospitava giovani orfani impossibilitati ad apprendere un mestiere, offrendo loro vari insegnamenti, fra cui quello del cappellaio, del minusiere, del vellutato. L’edificio, organizzato come struttura collettiva, offriva un tempo semplici facciate prive di qualsiasi ornamento; il porticato continuo, terrazzato, lungo i lati della corte interna non compare ancora nei disegni di progetto recentemente pubblicati. Una cappella, posta un tempo in faccia all’entrata, conservava dipinti di Trono, Molinari, Bays e Beuamont. Alla fine del secolo scorso è stato trasformato e sopraelevato a fini residenziali, ricevendo una nuova veste decorativa di gusto eclettico. Tra il 1981 e il 1984 è stato sottoposto a ristrutturazione igienico-edilizia dall’istituto Autonomo Case Popolari, quindi - dopo una completa trasformazione -ha riaperto nel 2014 come Hotel NH Collection.

Palazzo Roero di Guarene, piazza Carlo Emanuele II 13

È Carlo Giacinto Roero di Guarene, su propri progetti, a dare l’attuale configurazione al palazzo in occasione del suo matrimonio con Luisa Gabriella Valperga di Montuè, avvenuto nel 1711. Il grande atrio d’ingresso non viene collocato sulla piazza ma verso via des Ambrois, lungo un asse trasversale alla corte. Nel 1730 commissiona all’architetto regio Filippo Juvarra, con cui era in amichevoli rapporti (Juvarra gli dedica una raccolta di disegni nel 1725), l’aulica facciata verso la piazza Carlo Emanuele II, di cui diviene principale ornamento. In seguito (1844) l’edificio giunge al marchese Tancredi Ferrerò d’ Ormea: quest’ultimo commissiona all’architetto Panizza alcuni interventi, fra cui rientra quello a suddivisione in due parti del lungo cortile, occultando il portone verso via San Massimo, appositamente caratterizzato come fondale, con la creazione di uno spazio di servizio. Sono degli ultimi decenni il progressivo degrado del palazzo e la vendita all’asta di tutti gli arredi fissi e mobili, a cui è seguita, nell’abbandono generale, la scomparsa degli affreschi (alcuni attribuiti a Sebastiano Galeotti) e delle decorazioni. L’edificio è stato infine restaurato a cura degli ingegneri Tornaseli! e Manfredi e dell’architetto Balma.

Palazzo Taparelli d’Azeglio, via Principe Amedeo 34

Il palazzo fa parte della ristretta cerchia di residenze torinese realizzate secondo lo schema francese entre cour et jar din, ed è stato edificato a partire dal 1683 per Giuseppe de Mesmes marchese di Marolles, su progetto dell’ingegnere ducale Michelangelo Garove. Lo schema alla francese, è in questo caso applicato, a causa della ristrettezza del sito, con rotazione di 90° rispetto alla strada. L’asse principale della composizione, infatti, si sviluppa parallelo all’attuale via Principe Amedeo, e il varco d’ingresso viene a trovarsi quindi non in faccia al corpo centrale del palazzo ma su un fianco della corte. Residua testimonianza di questa fase iniziale del palazzo è la facciata verso il piccolo giardino. Nel 1778 passa al marchese Ludovico Arborio di Gattinara e di Breme, ed è in questa occasione che viene attuato un grande rinnovamento decorativo in senso neoclassico su disegno dell’architetto Filippo Castelli. La nuova decorazione a stucco aggiorna le facciate e si rivolge anche all’interno, nelle sale, con elegantissimi toni Luigi XVI, per mano di artisti attivi nei maggiori cantieri delle residenze della corona sabauda: Giuseppe Bolina e il suo collaboratore Sanbartolomeo. Nel 1845 la famiglia Taparelli d’Azeglio, a cui è nel frattempo passato l’edificio, commissiona a Barnaba Panizza sostanziali rifacimenti: le due piccole maniche a bordo del cortile vengono sopraelevate collegando edifici di servizio e palazzo in un unico volume, sul fronte sull’attuale via Des Ambrois si eliminano le vestigia della decorazione secentesca. Nel 1953, ormai di proprietà Nasi-Agnelli, viene ricostruita la scala in forme neorococò (architetto Tommaso Buzzi). Dal 1970 il palazzo ospita la Fondazione Einaudi, a cui si aggiunge dal 1990 la Fondazione Firpo. Nel 1988 viene restaurato su direzione dell’architetto Adriano Vanara.

Palazzo Coardi di Carpeneto, via Maria Vittoria 26

Costruito nell’ultimo quarto del XVIII secolo e attribuito ad Amedeo di Castellamonte, venne in seguito rimaneggiato dal Bonvicini nel secolo seguente. È situato all’angolo fra la piazza e la via principale del secondo ampliamento di Torino (1673), in un’area dove trovarono sede alcuni palazzi nobiliari ma soprattutto edifici a carattere collettivo come il vicino il Collegio delle Province. Palazzo Coardi, non particolarmente ricco nei prospetti, presenta uno degli atrii più rilevanti nell’ambito degli edifici nobiliari torinesi, arricchito da raffinati stucchi e da statue, così come busti sono collocati sopra alle finestre del piano nobile, nel cortile. Quest’ultimo - suddiviso in civile e rustico da una quinta architettonica - è passante, offrendo uno sbocco sulla restrostante via Santa Croce. All’interno, a testimonianza della floridezza e del rango dei committenti, va segnalata una volta dipinta a fresco da Domenico Guidobono, raffigurante un trionfo allegorico, replica parziale della Primavera affrescata dallo stesso Guidobono a Palazzo Madama, per Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, nel 1714.

Palazzo Costa Carrù della Trinità, via San Francesco da Paola 77

Segnalato dalla guida di Paroletti (1819) come interessante per Yordonnance dei prospetti ma ancora da completare, è attribuito dallo stesso autore all’architetto Birago di Borgaro. L’edificio venne terminato e rimaneggiato nell’800. A questa fase costruttiva appartiene il fondale scenografico del cortile, costituito da una quinta architettonica di separazione e da uno spazio di servizio in forma d’esedra ornato - in asse all’androne - da una scultura raffigurante Ercole in lotta con il leone Nemeo.

Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Torino, via San Francesco da Paola 24

Realizzata su progetto di Carlo Mollino (con Carlo Graffi e Alberto Galardi), vincitore del concorso del 1964, si colloca in luogo di un prestigioso palazzo tardo secentesco opera di Michelangelo Garove gravemente danneggiato dai bombardamenti e in seguito demolito. È caratterizzata da un volume basamentale (sopra il quale è ricavato il parcheggio) da cui si innalza, con un’altezza e uno stacco minori di quanto previsto dai progettisti, il blocco convesso degli uffici. Nel 1952, in luogo degli edifici di servizio e del fondale prospettico del giardino di palazzo Morozzo, venne costruita la sede della Borsa Valori, su progetto degli architetti Roberto Gabetti, Aimaro Oreglia d’isola e Giorgio Raineri. Nella parte residua di giardino, a fianco della Camera di Commercio, furono collocati alcuni frammenti marmorei provenienti dalla demolizione del palazzo.

Palazzo Thaon di Revel, via Giolitti 24

Il nucleo originario del palazzo, detto anche palazzo Bersezio e probabilmente preesistente l’ampliamento della città in quell’area, è attribuito ad Ascanio Vitozzi, ed è forse classificabile come villa extraurbana eretta all’inizio del ’6oo. Ampliato su disegno di Giovenale Boetto fra il 1683 e il 1689, quindi rimaneggiato da C. E. Bovis, è descritto nelle guide come edificio sontuoso, arricchito all’interno da quadri importanti, fra cui un originale di Leonardo (Briolo, 1822). Un tempo aperto verso il giardino posteriore, oggi scomparso, secondo lo schema entre cour et jardin, del palazzo rimane attualmente solo il corpo centrale con lo scalone, al fondo del cortile, essendo stato gravemente danneggiato dai bombardamenti del 1942 e quindi ricostruito nel 1950 in forme neobarocche.

Palazzo San Giorgio, via Bogino 31

Il palazzo, nato come residenza dell’architetto Ignazio Agliaudo Baroni di Tavigliano (1705-1769, discepolo di Filippo Juvarra), e da lui stesso progettato, nel 1769 ospitò l’imperatore Giuseppe II. La configurazione settecentesca degli appartamenti presentava affreschi del Galliari, ancora segnalati dalle guide di primo ’8oo. Nel 1840 l’edificio venne aggiornato al gusto neoclassico - sia in facciata che nel cortile dal bel disegno circolare a ciottoli bianchi e neri - dagli architetti Antonelli e Bollati; attualmente è sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura che lo ha restaurato negli anni 1980-86.

Palazzo Del Carretto di Gorzegno, via Bogino 18

Posto fra i palazzi Barbaroux ed Aix sul lato di via Bogino dell’antico isolato dell’Assunta, risulta edificato fra il 1685 e il 1689 per conto di Francesco Giacinto Gallinati. Dopo alcuni passaggi di proprietà nel 1768 fu acquistato dalla famiglia dei marchesi del Carretto di Gorzegno, a cui apparteneva ancora nel 1796, e che nel feudo d’origine in Valle Bormida possedeva un grande castello caratterizzato da loggiati cinquecenteschi aperti sul paesaggio, oggi ridotto a rovina. Nel palazzo torinese una descrizione coeva all’acquisto segnala porte volanti con sovrapporta, tavole in marmo di Valdieri, sofà coperti di damasco, tappezzerie di broccatello e damasco, secondo i canoni del tempo. Passato in seguito aH’Amministrazione provinciale fu sottoposto negli anni 1980-82 a risanamento strutturale e restauro su direzione dell’architetto P. Sgariboldi dell’ufficio tecnico della Provincia. Il cortile, caratterizzato da un fondale con decorazioni marmoree e da una piccola fontana, gode della cornice alberata del giardino di palazzo Cisterna.

Palazzo Scarampi, via Bogino 25

Costruito fra il 1700 e il 1720, fu rimaneggiato in forme eclettiche, soprattutto in facciata, dall’ingegner M. Pulciano. Fra il 1986 e il 1988 ha subito una radicale ristrutturazione interna su progetto degli architetti A. Bruno ed E. Astegiano, in collaborazione con gli architetti A. Borgoni, R. Conti, F. Morgando, come sede dell’impresa Zoppoli e Pulcher. La grande parete nord del cortile è stata decorata da nuvole a trompe l’oeil di A. Carena.

Palazzo Bogino, via Bogino 8

Nelle guide ottocentesche il palazzo è segnalato come proprietà del Conte Balbo, erede delle fortune e della saggezza del grande ministro Bogino, a cui era dedicato non solo un busto collocato nel primo ripiano dello scalone ma la stessa via su cui si affacciava l’edificio. Il palazzo, di forme seicentesche, ha ospitato nei secoli passati l’ambasciatore della corte di Baviera, e attualmente è sede del Consolato di Francia. Le fronti sulla corte presentano una semplice decorazione «a fasce» che riprende nel fondale lo schema tripartito della serliana dell’atrio.

Palazzi Nicolis di Robilant, via Maria Vittoria 17-19

L’edificio al n. 17, di impianto tardo secentesco e collocato nel secondo ampliamento della città barocca, presenta un atrio che, insieme a quelli del palazzo Rignon e delle più grandiose residenze degli Asinari e dei Provana, denuncia l’influenza della lezione spaziale guariniana. Il restauro dell’edificio (architetto Carlo Alberto Bordogna), realizzato nel 1988, ha conservato la decorazione di due sale con porte volanti di gusto alfieriano ma ha portato alla demolizione dello scalone principale. Il palazzo al n. 19, dalle facciate trasformate in epoca neoclassica, nasconde dietro alle superfetazioni del cortile un trattamento architettonico del fronte posto a fondale in asse all’androne rilevabile anche in disegni dell’architetto Filippo Nicolis di Robilant. Il progetto (1759) _ non realizzato - prevedeva l’unione dei due edifici per realizzare un grande e sontuoso palazzo per conto del conte Roato di Mareto della Perosa.

Palazzo Cisterna, via Maria Vittoria 12

Il palazzo è uno dei pochissimi edifici nobiliari torinesi a conservare il giardino, in origine separato dalla corte da una semplice quinta architettonica in seguito trasformata nell’attuale manica di fondo del cortile. Attribuito all’ingegnere ducale Maurizio Valperga e pervenuto nel 1685 al principe Giacomo Dal Pozzo della Cisterna, il palazzo venne quindi ampliato aggiungendo nel 1691 la manica verso via Carlo Alberto. Il giardino venne inizialmente affidato a Henry Duparc, in seguito Intendente dei giardini del castello di Venaria Reale. Ma è fra il 1773 e il 1787 che il palazzo assume il volto attuale, nei canoni di un raffinato gusto orientato verso il Neoclassicismo, sotto la direzione dell’architetto Francesco Valeriano Dellala di Beinasco (1780). Anche l’interno viene aggiornato con l’apporto di artisti fra i più quotati: i pittori Antoniani e Cignaroli, gli scultori in legno Gianotti e Bonzanigo, gli scultori in marmo Bernero e Ferrerò, lo stuccatore Bolina, tutti attivi in decine di cantieri fra palazzi nobiliari e di corte. Nel 1867 l’ultima erede dei Dal Pozzo sposò Amedeo di Savoia figlio di Vittorio Emanuele II, e il palazzo, a parte l’interludio (1870-73) in cui la coppia regnò a Madrid, divenne quindi dimora dei duchi d’Aosta, i quali promossero il completamento del palazzo, il rifacimento dello scalone e la cancellata lungo il giardino (ing. Camillo Riccio, 1878). Dal 1940 l’edifìcio è sede della Provincia di Torino.

Palazzo Birago di Borgaro, via Carlo Alberto 16

Il palazzo, con la coeva residenza dei Martini di Cigala, si colloca fra le prime opere realizzate da Filippo Juvarra nella sua ventennale permanenza in Torino. Costruito a partire dal 1716 presenta un cortile d’onore ad alta valenza scenografica, con fondali curvilinei lungo i quali le carrozze potevano compiere la conversione. I bassi fabbricati svolgevano la funzione di schermo degli spazi di servizio posti a lato, raggiungibili dai due androni carrai minori posti agli estremi del fronte principale. Definito in facciata da lesene che pongono in risalto i settori corrispondenti ai tre accessi, è ornato, a livello del cornicione, da due balaustre coronate da statue molto probabilmente provenienti dai giardini del castello di Venaria Reale, donate nella seconda metà del ’yoo al Conte di Borgaro. All’interno le guide segnalavano ancora nel secolo scorso dipinti del Crosato, frescante di fama internazionale, attivo per la corte sabauda alla Villa della Regina e al castello di Stupinigi. Dal 2000 è sede della Camera di Commercio di Torino.

Casa Martin, via Maria Vittoria 10

Esempio di casa di rappresentanza e da reddito realizzato fra ’6oo e ’7oo, ornata da un androne con affaccio a serliana sulla corte filtrato da un bel cancello neobarocco. Un progetto dall’architetto Barberis per l’aggiornamento decorativo e la sopraelevazione dell’edificio venne presentato in Comune nel 1791.

Casa Piovano, via Maria Vittoria 6

Di nascita seicentesca, l’edificio conserva ambienti decorati con cassettoni lignei e fregi affrescati. Nel cortile il basso fabbricato eclettico ha ospitato la litografia Doyen poi Marchisio. Acquistato dalla DWA è stato ristrutturato dallo studio associato degli ingegneri Gramegna.

Palazzo Asinari di San Marzano, via Maria Vittoria 4

Il palazzo, caratterizzato da un atrio con colonne tortili e accenti guariniani fra i più rilevanti e noti in Torino, venne edificato nel 1684 su progetto di Michelangelo Garove, ingegnere del duca di Savoia e del principe di Carignano, e appartiene, con i palazzi Barolo, Graneri e Morozzo della Rocca, al gruppo di dimore nobiliari erette a fine ’6oo con caratteri di spiccata sontuosità. Collocato in un contesto architettonico omogeneo costituito da importanti edifici torinesi opera di Guarini (palazzo Carignano, San Filippo prima del crollo) o dello stesso Garove, suo discepolo (Collegio dei Nobili, ora Museo Egizio), possiede ancora raffinati appartamenti decorati su disegno di Bendetto Alfieri a metà ’yoo. Il giardino, nell’8oo (Paroletti, 1819) arricchito da piante esotiche molto rare è stato cancellato dallo sviluppo urbano, e dal 1885 il cortile si chiude con il fondale neobarocco disegnato da C. Boggio. Palazzo Asinari è oggi sede della società Carpano.

Palazzo Gonteri di Cavaglià, via Lagrange 7

Il palazzo presenta il cortile alla francese più monumentale fra quelli offerti dalle residenze nobiliari torinesi. Attribuito ad Amedeo di Castellamonte nelle numerose guide antiche della città, risulta già presente nella veduta di Torino disegnata da Tommaso Borgonio fra il 1661 e il 1670 e pubblicata nel Theatrum Sabaudiae (1682). Nel XVIII secolo passò ai marchesi Doria di Ciriè, che in origine risiedevano in un palazzo più piccolo in via Cavour 11. Articolato fra corte, sua via Lagrange, e giardino verso via Carlo Alberto, collegati da un grande atrio, era nel XVIII secolo uno dei maggiori palazzi in Torino, prescelto in varie occasioni per ospitare feste o personaggi legati alla dinastia sabauda. Nel 1781, in concomitanza con il matrimonio della principessa Maria Carola Antonia di Savoia con il principe Antonio Clemente di Sassonia, venne allestito un grande salone temporaneo nel giardino, su disegno dell’architetto Nicolis di Robilant, «dove si distribuivano a profusione ogni sorta di rinfreschi, e confetti ai cittadini» (Briolo, 1822). Nel 1792 ospita una delle due figlie di Vittorio Amedeo III, Maria Teresa, e il marito, Conte d’Artois, fuggiti da Parigi a causa della Rivoluzione. Per questa occasione gli appartamenti vengono aggiornati al gusto neoclassico nelle decorazioni e negli arredi. L’edificio è giunto a noi pesantemente alterato: nel corso del ’yoo e dell’8oo il giardino è stato man mano occupato da nuove costruzioni; bombardato durante l’ultimo conflitto mondiale, è stato quindi completamente ricostruito mantenendo inalterata solo la facciata verso la corte e parte di quella a filo della via Lagrange, riducendone però l’ampiezza delle testate.

Palazzo Bricherasio, via Lagrange 18

L’edificio, costruito nel 1636, risulta appartenere, intorno al 1760, ai Solaro di Monasterolo, che commissionano all’architetto Bovis alcune trasformazioni. Sono assegnabili a quegli anni, infatti, lo scalone (poi decorato con pitture nel XIX secolo) l’atrio colonnato, oggi in parte scomparso, due sale e un boudoir con decori ancora settecenteschi. Nel 1855 è acquistato dai Cacherano di Bricherasio, che ne curano l’abbellimento interno secondo un gusto eclettico che si integra alle preesistenze. Per alcuni ambienti opera il pittore Rodolfo Morgari. In occasione del rifacimento di via Roma (1936) vengono demolite alcune parti del palazzo, non congruenti con le trasformazioni urbanistiche, e viene rifatta la facciata su via Teofilo Rossi. Restaurato dagli architetti Giorgio Campanino, Maria Pia dal Bianco e Pier Massimo Cinquetti a partire dal 1990, con inserimenti contemporanei visibili anche nella corte, è stato sede della Fondazione Palazzo Bricherasio e ha ospitato esposizioni d’arte. Oggi è sede della Banca Sella.

Palazzo Cavour, via Cavour 8

Il palazzo, noto anche per esser stato dimora dello statista Camillo Benso di Cavour, nasce nel 1729 su progetto dell’architetto Plantery (1680-1756) e su committenza del conte Michele Antonio. Rimasto alla famiglia dei Benso di Cavour per circa 140 anni passò quindi ai conti De Roussy de Sales, che ne erano ancora proprietari negli anni ’3O. Il Palazzo Cavour, secondo l’Olivero (1932) costituisce uno dei migliori saggi deH’architettura piemontese del '700. Di particolare rilievo il gioco teatrale di spazi e prospettive offerto dalla successione del cortile d’onore e di quello rustico (accessibile dalla via laterale), collegati da un portale strombato che inquadra un fondale architettonico. All’interno dell’androne conserva stucchi di tono intermedio fra il gusto Luigi XIV e quello, liberissimo, Luigi XV, mentre lo scalone presenta una volta dipinta nell’800 e il salone, invece, stucchi neobarocchi frutto di un restauro di primo '900. Gli appartamenti comprendono ambienti ancora improntati al gusto coevo alla costruzione dell’edifìcio (la sala d’angolo e quella successiva, arricchite da raffinate boiseries dorate e da più tardi dipinti a soggetto mitologico sulla volta) e ambienti invece legati al gusto Impero. Oggi ospita mostre e iniziative promosse dalla Regione Piemonte.

Palazzo Doria del Maro, via Cavour li

Il palazzo, di nascita seicentesca si presentava aperto su di un piccolo giardino interno e guarnito da un porticato lungo i tre lati della corte. Trasformato in casa d’affitto (la famiglia, nel X\TII secolo, passò infatti nel più fastoso palazzo di via Lagrange 7) nel 1820 venne sopraelevato su disegno di Benedetto Brunati e ridecorato nella facciata secondo un disegno applicato anche al vicino edifìcio al n. 9. Nel 1852 vennero realizzate le aperture delle botteghe e con interventi avvenuti tra il 1875 e il 1901 i due edifici contigui vennero ancora sopraelevati, perdendo però l’unitarietà delle fronti. La pianta del palazzo - oggi in restauro - venne pubblicata nel 1855 da Callet e Lesuer, che ne riconobbero la notevole qualità, ancor oggi documentato negli stucchi delle facciate del cortile.

Palazzo Piossasco di Rivalba, via Cavour 13

Attribuito tradizionalmente a Benedetto Alfieri venne rimaneggiato da Ignazio Galletti nel 1779. Il palazzo, di grande estensione e volume, si affaccia su via Cavour per poi svilupparsi lungo la via Carlo Alberto con corpi di fabbrica da reddito, dietro i quali si colloca il cortile di servizio, collegato da passi carrai al cortile d’onore. Definito «superbe» dal Paroletti (1819) l’edificio, caratterizzato dal ritmo serrato delle finestre e da temi dell’architettura torinese del XVIII secolo ancora «chiusi alle nuove idee neoclassiche» (Bellini, 1980), possiede atrio e scalone di grande respiro e imponenza. Nel cortile principale, una quinta architettonica a finte finestre che risolve in chiave scenografica il grande muro cieco che lo separa dal vicino palazzo Doria del Maro. Attualmente ospita i servizi sociali della Banca Nazionale del Lavoro, proprietaria dell’immobile.

Palazzo San Martino di Parelio, via Carlo Alberto 32

L’edificio, sorto nel XVII secolo, era originariamente aperto su di un giardino interno a cui si accedeva una volta superato l’androne e il classico porticato che ornava il fronte interno. Nel corso del XVIII secolo, invece, su progetto di Valeriane Dellala di Beinasco le maniche del palazzo furono ampliate e l’atrio - caratterizzato da una grande volta a conca lunettata - venne ampliato e traslato verso la corte, conclusa da un fondale ornato da timpano, mascheroni e vasi. Nel 1826 il palazzo, passato ai Cusani di Sagliano, venne completato sul lato di via Andrea Doria su progetto di Felice Courtial. Il cortile - la cui prospettiva in asse all’androne attende restauri - è oggi sfigurato da un fabbricato recente costruito in fregio a via Andrea Doria.

Palazzo Isnardi di Caraglio, piazza San Carlo 183

Sviluppato attorno a un cortile d’onore che mette in relazione - attraverso i due androni posti sul medesimo asse - i portici della piazza con l’attuale via Lagrange, il palazzo Isnardi di Caraglio, dal 1838 sede dell’Accademia Filarmonica, è sicuramente, fra i palazzi privati del XVIII secolo a Torino, quello ornato dalla più ricca e raffinata decorazione. Nato fra il 1644 e il 1656 come residenza del marchese lorenese Havard de Senantes, l’edificio passa nel 1693 agli Isnardi di Caraglio, il cui ultimo erede, Angelo Carlo Francesco, ne commissiona un quasi completo rifacimento all’architetto Benedetto Alfieri. Si devono infatti alla sua mano la manica verso via Lagrange a chiusura di un originario schema a «U» ricorrente in tutti i palazzi dell’isolato, gli eleganti fronti della corte, l’atrio, lo scalone. Regista della decorazione d’interni è ancora Alfieri, a cui va associato, dopo la sua morte (1767), l’ormai classicheggiate Filippo Castelli. Negli appartamenti, in cui ebbero luogo nel 1771 i festeggiamenti per il matrimonio fra Maria Giuseppina di Savoia e il futuro Luigi XVIII, offerti dall’ambasciatore di Francia che vi risiedeva, si distinguono numerosi ambienti: il grande salone (il cui dipinto con gli Dei dell’Olimpo eseguito da Bernardino Galliari nel 1758 è stato distrutto nel 1942) decorato da stucchi di Giovanni Battista Bemero, le sale verso la corte con sovrapporte opera di Michele e Vittorio Amedeo Rapous, la biblioteca, la galleria e il prezioso salottino ottagonale. Quest’ultimo rappresenta una vetta del gusto rococò in Europa: le superfici delle pareti diffusamente risolte a specchio, su cui spiccano intagli rocaille in legno dorato, si collocano a fianco delle migliori realizzazioni francesi dell’epoca. Pitture di Ludovico Tesio, Giovanni Domenico Molinari e Anna Caterina Gili e opere di Francesco Ladatte completano il corredo decorativo delle sale. Nel 1841, in ragione della nuova destinazione del palazzo, l’architetto Giuseppe Talucchi realizza, con piena aderenza a canoni neoclassici, l’Odeon per i concerti, occupando una parte del cortile e demolendo una terrazza realizzata il secolo precedente dall’Alfieri.

Palazzo Villa, piazza San Carlo 141

Realizzato alla metà del XVII secolo dal Castellamonte per conto del marchese Guido Villa, occupa l’area del bastione di Santa Margherita, demolito nell’espansione della città. Il cortile, originariamente aperto verso il panorama della collina e privo di suddivisioni, è caratterizzato da logge e porticati - oggi chiusi da vetrate o tamponati -ritmati in grandi serliane come i portici della piazza. Nel 1720 Giovanni Villa, pronipote del committente, abbandona Torino e si ritira in Ferrara protestando contro il provvedimento dell’avocazione dei feudi. Il palazzo si avvia verso un destino di casa d’affitto, e già nel 1760 il cortile risulta chiuso verso via Lagrange da una nuova manica. Nel 1787 l’edificio è trasformato definitivamente per opera di G. Gavuzzi, che sopraeleva le maniche d’affitto e divide il cortile per mezzo di una manica trasversale.

Palazzo Turinetti di Pertengo, piazza San Carlo 156

Edificato su progetti castellamontiani per mano dell’impresario Antonio Piscina, nel 1654, venne in seguito ornato da rigogliosissimi stucchi ancor presenti nello scalone nonostante i gravi danni subiti dal palazzo durante il secondo conflitto mondiale. Ricostruito in forme neobarocche rispettando i ritmi e decori esterni, su progetto di M. Dezzuti, ma organizzato in sintonia con le funzioni della nuova destinazione a sede dell’istituto bancario San Paolo di Torino (oggi Intesa San Paolo), venne dotato di un cortile aperto anche su via Santa Teresa. Questo spazio, caratterizzato da un porticato a colonne architravate di pura invenzione, negli anni passati era aperto al pubblico passaggio.

Palazzo Giannazzo di Pamparato, piazza San Carlo 196, via XX settembre 44

Il Palazzo Giannazzo di Pamparato è uno dei pochi edifici di piazza San Carlo, con il palazzo Villa posto sull’altro lato, a offrire ancora in buona parte una configurazione seicentesca non alterata da rimaneggiamenti o dai bombardamenti dell’ultimo conflitto. Il cortile, caratterizzato sul fronte minore dal classico abbinamento distributivo di portico e loggia occupa tutto l’isolato in profondità, mettendo in comunicazione la piazza con la via retrostante. Una torre con altana conferma la permanenza di strutture improntate al gusto attardato di primo ’6oo, in un contesto che vede la piazza realizzata a partire dal 1638 su progetto di Carlo di Castellamonte. Nel 1743 vengono effettuati alcuni interventi su disegno di Benedetto Alfieri. L’edifìcio, sede della Banca popolare di Novara, è stato recentemente restaurato su progetto dell’ingegnere Donati.

Palazzo Valperga-Galleani di Barbaresco, via Alfieri 6

Nato come modesta dimora dell’architetto Maurizio Valperga, ed esistente già nel 1631, il palazzo vero proprio venne poi effettivamente incominciato intorno al 1663. Il palazzo fu in seguito venduto al conte Giacomo Galleani, di famiglia originaria di Bologna e pioniere dell’introduzione in Piemonte della filatura della seta. È ai Galleani che si deve l’attuale elegante veste dell’edifìcio, il cui restauro (per molti aspetti una ricostruzione) venne affidato all’architetto Luigi Barberis nel 1781. Il giardino viene soppresso per ampliare la fabbrica, l’ingresso spostato da via XX settembre a via Alfieri, ruotando di 90° l’asse compositivo della corte e generando i due spazi affiancati di androne e atrio che conduce allo scalone. Uno degli archi corrispondenti al vecchio affaccio dell’androne è ancora visibile sulla parete est del cortile. Il Banco Ambrosiano ne ha fatto nel dopoguerra la sua sede torinese, restaurandolo accuratamente nel 1986 (architetto Alfredo Panie). Palazzo Galleani si presenta oggi come raffinata dimora tardo settecentesca di forme neoclassiche, in cui spiccano i delicati stucchi dei luganesi Giovanni Battista e Giuseppe Sanbartolomeo, nell’atrio terreno, nello scalone e nell’atrio del primo piano. Le sale degli appartamenti offrono decorazioni legate sia ai restauri del 1781 sia agli abbellimenti eseguiti dal Galleani immediatamente dopo l’acquisto. Un ulteriore restauro del Gruppo Building di Piero Boffa, concluso nel 2013, insignito dell’ArchDaily Building Avvard, ha ridato funzione residenziale all’edifìcio. Nel cortile è allestita un’opera luminosa dell’artista Richi Ferrerò.

Unicredit Banca/Fondazione CRT, già palazzo Perrone di San Martino, via XX Settembre 31

Progettato dall’architetto Borra nel 1757 con moduli avvicinabili a quelli utilizzati da Birago di Borgaro negli ampliamenti del Castello di Agliè, era uno dei più aggiornati ed eleganti palazzi torinesi, citato nelle guide appunto come «superba architettura del Borra» (Briolo, 1828). Divenuto nel 1883 sede della Cassa di Risparmio di Torino viene quindi fatto oggetto di grosse trasformazioni per mano dell’architetto Chevalley che, tra il 1929 e il 1933 ingloba in un solo edifìcio l’antico palazzo Perrone (conservandone la facciata ma non l’atrio e lo scalone) e il vicino Istituto della Provvidenza eretto da Benedetto Alfieri nel 1749 (di cui conserva solo il portale inglobato in una nuova facciata copia di quella di Palazzo Perrone). La saldatura fra i due edifìci è realizzata parafrasando la facciata di Palazzo Madama, a cifra di una rinnovata fortuna del Barocco di cui Chevalley, chiusa la stagione del Liberty, è maggiore esponente. Il cortile è quindi opera novecentesca, nelle forme di un eclettismo neobarocco trionfante e raffinato che all’interno si è avvalso delle decorazioni staccate dal vecchio palazzo e riproposte nei nuovi ambienti. Il grande affresco raffigurante l’apoteosi della casata dei Perrone di San Martino di Michele Antonio Milocco, pittore attivo anche nelle residenze sabaude nella prima metà del ’"oo, orna attualmente la sede di Unicredit Banca.

Scuola di Applicazione di Artiglieria e Genio, via dellArsenale 22

Il grande complesso dell’Arsenale, che occupa interamente un isolato un tempo affacciato sui terreni di contorno della Cittadella, era già presente nella seconda metà del ’6oo, frutto di un impianto iniziale (1659-1669) dovuto all’ingegnere militare Carlo Morello e di una integrazione, relativa alla costruzione dell’ingresso principale, attribuita ad Amedeo di Castellamonte (1677). Filippo Juvarra è successivamente coinvolto nella redazione di due progetti (1728 e 1730) per una trasformazione generale dell’edifìcio. Solo una piccola parte di quanto previsto, però, viene realizzata fra il 1730 e il 1736, e successivamente demolita in quanto non congruente con i nuovi criteri di sicurezza (resistenza pari a quella dei depositi di munizioni) che da quell’anno vennero applicati per ordine regio. Fra il 1738 e il 1740, e fra il 1769 e il 1770 l’arsenale venne quindi completato su progetto del Primo Ingegnere di S. M. Ignazio Bertela e del capitano Felice Devincenti, seguendo l’impianto juvarriano del grande cortile impostato sulla diagonale d’ingresso e riprendendo su tutti i fronti la robusta decorazione a lesene cinghiate scelta da Castellamonte per il padiglione principale.

Palazzo Lascaris, via Alfieri 15

È nel 1663 che il conte Giovanni Battista Beggiamo entra in possesso del terreno su cui oggi sorge il Palazzo Lascaris, uno dei più rappresentativi palazzi nella storia della città, non solo per le sue qualità architettoniche ma anche per essere stato sede di alcune delle maggiori istituzioni torinesi. La tradizione assegna la paternità del progetto ad Amedeo di Castellamonte; documenti precisi ci consegnano solamente il nome dell’impresario, Domenico Bernardi, luganese, che aveva spesso lavorato nei cantieri del Castellamonte. Nel corso del XVIII secolo l’edificio muta destinazione d’uso, come la maggior parte delle dimore nobili in Torino: da palazzi concepiti per l’uso della sola famiglia di committenti si trasformano in case in cui s’intrecciano i diversi strati sociali. Il palazzo, nel 1803, giunge infine ai Lascaris. A partire dal 1835 il palazzo si apre a ospitare funzioni pubbliche: sede della Camera di Commercio e di Agricoltura fino al 1841, quindi nel 1860 del Consiglio di Stato del Ministero dell’interno, dal 1865 al 1883 della Corte di Cassazione. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1948, passa alla Camera di Commercio, Industria e Agricoltura, priva di sede a causa dei bombardamenti, e infine, nel 1975, alla Regione Piemonte, che ne fa sede del Consiglio Regionale. Dopo tre secoli di vicende architettoniche e decorative il palazzo Lascaris non offre più un volto omogeneo, anche a causa dei bombardamenti dell’ultimo conflitto che causarono un incendio durato otto giorni con conseguente perdita di quasi tutte le sale del primo piano e, in particolare, del salone centrale dipinto nel 1694 dal Legnanino. I restauri che hanno coinvolto tutto l’edificio nella seconda metà degli anni '70 (architetti Franco Albini, Franca Helg, Antonio Piva) hanno riportato in luce il fregio in stucchi e affreschi secenteschi di due sale del primo piano. L’immagine complessiva che oggi il palazzo offre, al di là dell’atrio che offre immutato il suo ricco apparato plastico seicentesco, è sostanzialmente frutto degli interventi voluti nel 1884 dal Banco di Sconto (ingegnere Severino Casana) che, oltre a realizzare lo zoccolo in pietra della facciata e la balaustra del balcone, fa erigere i portici e i loggiati del cortile, in forme neobarocche, a complemento della seicentesca loggia centrale, siglando inconfondibilmente uno dei più bei cortili della città.

Palazzo Ferrero d’Ormea, via dell’Arsenale 6-8

Anche il palazzo Ferrero d’Ormea, oggi sede della Banca d’Italia, è nato seguendo lo schema entre cour etjardin. Benché oggi offra un’imponente facciata, il palazzo vero e proprio non è quello che si affaccia sulla via dell’Arsenale, ma il corpo più interno a cui si accede oltrepassato un cortile porticato su tre lati. Il giardino, che un tempo si estendeva sino all’odierna piazza Solferino, era ancora presente a metà ’8oo, benché ridotto dalla lottizzazione operata nel 1847. Realizzato su disegno di Amedeo di Castellamonte nella seconda metà del XVII secolo, e ancora ornato ai primi dell’800 da pitture dell’Olivero (Paroletti, 1819), nel 1823 venne dotato di una nuova facciata neoclassica per mano del Bonsignore e nel 1852 venne venduto dal conte Balbiano di Viale alla Banca Nazionale. In questa occasione subì rimaneggiamenti a firma dell’architetto Panizza; l’affaccio di quanto rimaneva del giardino sulla odierna via Prati venne infine occluso nel 1863 con la costruzione di una manica per uffici (L. Fermento).

Palazzo Pallavicino Mossi, Via Santa Teresa 11

Realizzato intorno alla metà del XVII secolo dal marchese Paolo Matteo del Carretto di Gorzegno possiede come dato caratteristico un’articolazione «alla francese», anche se oggi parzialmente alterata. Seguendo il classico schema d’Oltralpe dispone sulla via un sottile corpo di fabbrica a schermo del cortile, e, in fondo a questo, il palazzo vero e proprio, a manica doppia. Nel corps de logis arretrato si riscontra invece la consueta disposizione di tanti palazzi torinesi: la sequenza comprende infatti atrio al piano terreno, scalone e loggia al primo piano, su cui si apre il salone. Il grande ambiente, benché oggi suddiviso in due sale, nella attenta lettura delle planimetrie si rivela «passante», ovvero con doppio affaccio sulla loggia - guarnita da una apertura a serliana con colonne binate che diviene principale ornamento del cortile - e sul giardino, oggi scomparso. Il palazzo è ancora in corso di costruzione nel 1648, ma non è noto su disegno di quale architetto. Dopo vari passaggi di proprietà nel 1850 l’edificio perviene al conte Lodovico Pallavicino Mossi, a cui si deve in parte l’attuale configurazione interna ed esterna. Su progetto (1852) dell’architetto Amedeo Peyron viene portato da 2 a 3 piani il corpo su strada, mutando il disegno delle comici e dei timpani delle finestre ma lasciando inalterato il portale e il balcone settecentesco. Gli ambienti interni del palazzo presentano attualmente un repertorio decorativo che va dal XVII al XIX secolo: soffitti a cassettoni dipinti con fregio dipinto a cartigli di gusto seicentesco, stucchi settecenteschi, boiseries, specchi e dipinti frutto della stagione neobarocca del secondo ’8oo. Acquistato dalla Banca Commerciale Italiana nel 1985 viene quindi sottoposto a ristrutturazione edilizia e restauro su progetto dell’architetto Roberto Grosso. Nel cortile, caratterizzato dal ritmo delle aperture ad arco e dal trattamento a bugnato del piano terreno - era fino a pochi anni fa collocata un’opera scultorea di Arnaldo Pomodoro.

Palazzo Cavalchini Garofoli, via Santa Teresa 20

Per quanto privo di un fondale architettonico che nobiliti la vista di cortile dalla strada, il palazzo, nato nel 1687 come residenza dei Provana di Collegno su progetto di Guarino Guarini, presenta l’atrio tra i più scenografici in Torino. Di forma ovale, con volta poggiante su otto colonne e preceduto da un più piccolo androne, denuncia la parentela con quello di palazzo Carignano. Il cortile è definito da corpi costruiti tra gli anni ’4O e '50 dell’800 e disposti anche lungo la via Mercanti. Nel 1854 venne presentato un progetto di rifacimento della facciata di gusto tardo neoclassico e neorinascimentale (Barnaba Panizza), ma interventi vennero eseguiti solo nel 1856 su progetto di Giuseppe Talucchi, aprendo le botteghe ma lasciando inalterato il disegno barocco del fronte.

 

fonti:

Paolo Cornaglia, Guida ai cortili di Torino

 

La città del potere e delle istituzioni in diciotto palazzi

 

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Seminario Metropolitano, via XX Settembre 83

Un tempo attribuito a Juvarra, ma ora accertato come opera di Pietro Paolo Cerutti e datato 1711, il palazzo del Seminario è uno dei grandi edifìci rappresentativi o collettivi della città caratterizzati da cortili con porticati a doppio ordine, come l’università o l’Accademia Reale. Fornito di una biblioteca che agli inizi dell’800 contava 9700 volumi (Briolo, 1822), poteva ospitare fino a 170 seminaristi. La cappella venne ampliata a fine ’yoo da Carlo Ceroni, e il fronte allungato a fine ’8oo in relazione al taglio di via IV Marzo.

Palazzo Chiablese, piazza San Giovanni Battista 1

Di aspetto esteriore dimesso il palazzo conserva al suo interno ambienti fra i più raffinati del rococò locale ed europeo. Nel XVI secolo l’edificio appartenne alla principessa Lodovica di Savoia, moglie del Cardinal Maurizio; in seguito venne destinato a Benedetto Maurizio duca del Chiablese, figlio di Carlo Emanuele III, che nel 1754 commissionò a Benedetto Alfieri il rinnovo dei due grandi appartamenti, protrattosi fino al 1763. Artisti come i pittori Gregorio Guglielmi e Francesco de Mura, o ebanisti come il Piffetti, lavorarono per gli ambienti del duca, realizzando un complesso di decorazioni purtroppo mutilato dai bombardamenti dell’ultimo conflitto. I lavori interessarono anche lo scalone e l’atrio, nel quale vennero collocate colonne prelevate dal castello di Rivoli. Un terzo appartamento venne decorato a fine '700 in forme neoclassiche sotto la direzione dell’architetto Piacenza. Il palazzo, che in epoca napoleonica ha ospitato Camillo e Paolina Borghese, è oggi sede della Soprintendenza Archeologica e di quella ai Beni Architettonici e Ambientali del Piemonte. Le fronti dei cortili offrono la stessa semplicità di quelle sulla piazza, nella generale incompiutezza degli esterni.

Palazzo Reale, piazza Castello

Voluto da Carlo Emanuele I, la sua costruzione venne iniziata nel 1584 su progetto di Ascanio Vitozzi, nativo di Bolsena, vincitore di un concorso aperto a tutti «i valent’huomini della professione». Basato inizialmente su matrici tardo cinquecentesche proprie della corte papale romana, di cui resta l’impronta nel grande cortile quadrato, l’edificio venne realizzato in tempi lunghi e con l’apporto di architetti diversi. Nel 1643 Maurizio Valperga fornisce il disegno per la facciata molto simile a quella realizzata da Carlo Morello nel 1658, che elimina però le lesene binate di ascendenza francese. Negli stessi anni viene completato il padiglione verso il Duomo, e a fine ’6oo il braccio di levante, verso il giardino, quest’ultimo progettato dal grande André Le Nòtre nel 1697. Agli interni realizzati nella prima fase dei lavori, decorati da grandi soffitti in legno scolpito e dorato a cornice di tele dipinte da Jan Miei, Charles Dauphin e altri, verranno poi ad aggiungersi alla fine del XVII secolo gli affreschi di Daniel Seyter e nel corso di quello successivo gli ambienti preziosi progettati da Filippo Juvarra, autore, fra l’altro della Scala delle forbici fra primo e secondo piano (1719), e da Benedetto Alfieri. Realizzata, sempre in epoca juvarriana, la manica di chiusura del cortile, inizialmente aperto verso il giardino il palazzo vede quindi l’ultima modifica alle sue strutture con la demolizione (1811) del porticato verso piazza Castello sostituito tra il 1835 e il 1846 dalla cancellata e dalle statue dei Dioscuri, opera di Pelagio Palagi. Lo stesso Palagi, in quegli anni, aggiorna con gusto tardo neoclassico molte sale del palazzo, su committenza di Carlo Alberto. Gli interventi diretti da Emilio Stramucci, a fine ’8oo, cercheranno di riequilibrare il volto di alcune sale del palazzo in senso neobarocco.

Palazzo Carignano, via Accademia delle Scienze

Emblema delle forme barocche più vive, in contrasto con il volto razionale della città-capitale del classicismo barocco seicentesco voluta dai duchi di Savoia, il palazzo, voluto da Emanuele Filiberto principe di Carignano, venne realizzato da Guarino Guarini a partire dal 1679. Caratterizzato dal corpo centrale concavo-convesso ispirato dai progetti di Bernini per il Louvre parigino, in cui si collocano l’atrio e il sovrastante salone, e i due grandi scaloni curvilinei, rimase però incompleto nella parte verso il giardino, attualmente occupato dalla manica ottocentesca e da piazza Carlo Alberto, un tempo ornato dal fondale neoclassico delle scuderie (Filippo Castelli, 1790, oggi Biblioteca Nazionale). Nel 1864-71 Giuseppe Bollati ampliò l’edificio, su disegni di Domenico Ferri concepiti per ospitarvi la nuova sala del Parlamento italiano (in precedenza ricavata nell’antico salone centrale del palazzo guariniano), divenuta nel frattempo inutile a causa del trasferimento della capitale a Firenze. Con l’estinzione del ramo principale dei Savoia i principi di Carignano giunsero, nel 1831, al trono. Il re Carlo Alberto dismise quindi il palazzo, dando avvio a un periodo di usi impropri e di completo smantellamento di decorazioni fisse e arredi, in un contesto di generale e progressivo disprezzo del Barocco: una guida cittadina del 1840 lo definisce infatti «una aberrazione architettonica». All’interno dell’edificio rimangono comunque visibili il cosiddetto Appartamento dorato del piano terreno, caratterizzato da intagli lignei dorati applicati su specchi e, sottoposte a recenti restauri, le volte dipinte a fresco fra il 1695 e il 1702 da Stefano Maria Legnani, detto Legnanino. Il cortile, originariamente concepito come spazio aperto verso il giardino, filtrato da un semplice corpo porticato, è oggi invece trasformato in classica corte chiusa di palazzo «italiano», grazie all’ampliamento di Feri e Bollati che ha ripreso mimeticamente le formule decorative guariniane.

Palazzo Salmatoris, via Cesare Battisti 17

La guida del Paroletti (1819) lo attribuisce ad Amedeo di Castellamonte e segnala i restauri effettuati dall’architetto Nicolis di Robilant nella seconda metà del XVIII secolo. Il palazzo, che ha ospitato nel corso dell’800 lo studio di Cavour nell’appartamento del primo piano, presenta ancora oggi una facciata caratterizzata da elementi decorativi d’impronta castellamontiana, e un cortile dove le arcate cieche dei lati riprendono il canonico porticato unito all’androne e accolgono il passaggio al successivo cortile rustico.

Palazzo Graneri, via Bogino 9

La famiglia Graneri raggiunge il rango nobiliare nel 1646 con l’acquisto, da parte di Gaspare Graneri, della contea di Mercenasco dal conte Amedeo Valperga. Nel 1676 uno dei figli, l’abate Marcantonio, acquista il terreno su cui verrà realizzato, tra il 1685 e il 1699, il palazzo, su disegno dell’architetto Baroncelli e, sembra, su suggerimenti del Guarini (la facciata è trattata nel modo guariniano dei «risquadri incavati nel muro»). Appartenuto ai graneri per secoli, nel 1843 passa ai Gerbaix de Sonnaz, quindi nel 1906 a Lionello Hierschel de Minerbi, nel 1920 alla Società Fondiaria Assicurazioni di Milano, per finire, nel 1935, alla famiglia Sacerdote. L’edificio risulta uno dei più sontuosi palazzi nobiliari torinesi, sia per l’articolazione e l’ampiezza degli spazi sia per i materiali impiegati (pietra da taglio per tutti gli elementi in rilievo e modanati). La sequenza atrio-cortile sfociava, attraverso una balaustra ornata di piramidi marmoree, in un giardino guarnito da un fondale architettonico sul muro che lo divideva dalla via retrostante; a fianco si trovavano i fabbricati di servizio, articolati su ben tre corti rustiche; le carrozze, una volta entrate nel cortile d’onore potevano ritornare sulla via passando attraverso i cortili minori e uscendo quindi da un secondo androne carraio. Come nella gran parte dei palazzi in Torino il percorso cerimoniale è scandito dagli ambienti posti in successione: atrio, porticato, scalone, loggia, salone centrale, quest’ultimo affacciato sulla loggia e sulla via principale. L’interno del palazzo offre una ricca serie di ambienti decorati, a partire dal salone centrale, aggiornato nel 1781 su progetto dell’architetto Dellala di Beinasco con stucchi a soggetto mitologico attribuiti al Bernero. Le sale presentano una veste perlopiù tardo settecentesca, in modi avvicinabili agli interni progettati da Leonardo Marini, con delicati stucchi attribuiti al Bolina; alcune altre, invece, sono testimonianza della fase decorativa iniziale di tardo ’6oo (affreschi a soggetto mitologico al centro della volta) e di una fase di metà ’yoo (l’ex cappella e i due salotti cinesi, uno con pannelli di provenienza orientale e volta dipinta da Pietro Massa, l’altro passato attraverso il mercato antiquario e oggi visibile al Kunstgewerbemuseum di Berlino). L’antica spazialità di corte e giardino è oggi ormai compromessa dalla costruzione, avvenuta nel corso dell’800, dell’Hotel Feder, lungo la via San Francesco da Paola. Nel 1998 si è concluso il restauro complessivo del palazzo, su direzione dell’architetto Andrea Bruno, che ha ripristinato una piccola parte di giardino eliminando intrusioni edilizie recenti. Dal 2006 ospita il Circolo dei Lettori.

Palazzi di via Po ai nn. 7014

Il grande complesso urbanistico di via Po, realizzato in forme unitarie secondo il piano di Amedeo di Castellamonte del 1673, regge il secondo ampliamento della città unendo i due fulcri di Palazzo Madama e della Porta di Po, proseguendo idealmente, oltre il fiume, verso la collinare Villa della Regina. Tracciata sull’antica via che conduceva all’antico ponte oggi sostituito da quello napoleonico, taglia quindi obliquamente il tessuto urbano derogando dalla maglia ortogonale divenuta normativa in ogni espansione della città. Lungo l’arteria si trovavano già la chiesa di San Francesco da Paola con l’annesso convento, a esso si aggiunsero altre grandi istituzioni come l’Ospedale di Carità, l’università, la caserma delle Guardie del corpo del Re. L’unitarietà delle fronti, che seguono lo schema della città razionale cartesiana, srotolando finestre e timpani a serie infinita, la problematica inclinazione della via e la peculiarità del tessuto edilizio, in parte preesistente nel secondo tratto (verso sud), non lasciano spazio a grandi episodi di architettura residenziale.

La casa al n. 7, caratterizzata da un minuscolo cortile, a causa della ristrettezza dell’isolato è stata ristrutturata dalla Fumerò Edilit negli anni 1977-78, e la corte è stata riprogettata dalla Sircot.

Palazzo Rignon, al n. 14, rivolge l’ingresso principale, verso la via San Francesco da Paola, e possiede un bell’esempio arioso di sequenza atrio-scalone. Il cortile è ornato dalla sequenza di arcate del portico, opera successiva, posto lungo la manica parallela a via Po.

Palazzo dell’Università, via Po 17

Mascherato, come altre istituzioni in città, dalle quinte uniformi delle palazzate castellamontiane, il palazzo dell’università venne realizzato a partire dal 1713 su progetto di Michelangelo Garove. Morto in quell’anno stesso il Garove, la costruzione fu proseguita da Antonio Ricca su progetti di Pier Francesco Garelli e, dal 1716, presa in carico da Filippo Juvarra. A quest’ultimo vanno attribuiti il disegno degli stucchi delle aperture sulle logge e del vestibolo verso via Po e la cappella, non più esistente. L’edificio, frutto di un’elaborata riflessione progettuale, traduce in scala aulica e rappresentativa le esigenze dell’università di un Ducato ormai divenuto Regno, articolandosi attorno a una corte quadrangolare cinta da un doppio ordine di porticati, con due grandiosi scaloni e un vasto atrio rivolto verso via Verdi, fronte principale del complesso. Nel corso del XVIII secolo i portici ospitarono frammenti di scavi archeologici costituendo un Museo Lapidario, le cui opere vennero rese note a stampa nel 1747. Attualmente sono invece presenti numerose sculture, alcune opera dei fratelli Collino.

Cortile dell’ex Accademia Militare, piazza Castello 215, via Verdi

Lo spazio oggi presente tra l’Archivio di Stato e il teatro Regio, raggiungibile anche da via Verdi attraverso il vicolo posto alle spalle della torre di scena, è quanto rimane del grande cortile del?Accademia Militare, gravemente danneggiato dai bombardamenti dell’ultima guerra e in seguito demolito per consentire l’inserimento del nuovo teatro. La juvarriana facciata degli archivi si apriva infatti su un grande cortile quadrangolare con due lati (est e sud) caratterizzati da portici e logge, a due ordini, su colonne binate. L’edificio, realizzato fra il 1675 e il 1680 su disegno di Amedeo di Castellamonte come Accademia Reale in cui i giovani nobili potevano apprendere le arti dell’equitazione, della danza e quanto concerneva l’educazione del gentiluomo, era parte fondamentale del grande complesso di palazzi legati alle funzioni più importanti dello Stato, detto «zona di comando», che andava dal Palazzo Reale alla Zecca, nell’attuale via Verdi. Alcuni frammenti variamente ricomposti del colonnato sono attualmente visibili nella piazzetta che precede il citato vicolo.

Cavallerizza, via Verdi 9

Concepita unitamente all’Accademia Reale nel grande disegno urbanistico della «zona di comando» predisposto da Amedeo di Castellamonte con l’ampliamento urbano del 1673, venne realizzata in tempi differenti. Tre bracci della crociera convergenti sulla rotonda centrale, rimasta incompiuta, furono eretti nel XVI secolo, uno di questi venne poi sostituito dall’eccezionale sala per esercizi equestri progettata da Benedetto Alfieri nel 1740, anch’essa lasciata in parte incompleta. Durante il regno di Carlo Alberto venne coperta la sala circolare e furono terminati i settori verso il Giardino Reale. Del complesso sono oggi visibili tre dei quattro cortili (uno posto alle spalle del Teatro Regio, due raggiungibili da via Verdi 9) e il complesso di scuderie, rimesse e percorsi la cui comunicazione con via Rossini attraverso il grande portone (n. 11/a) è stata da tempo ripristinata.

Collegio universitario, via Verdi 13

L’edificio, realizzato nel XVII secolo nell’ambito del secondo ampliamento della città, venne ingrandito per conto del barone E. Lauger in direzione della Zecca, su progetto dell’ingegner E. Abbati. Nel 1889 Camillo Riccio intervenne con sopraelevazioni che diedero al fabbricato l’aspetto attuale. Trasformato in collegio universitario nel 1981 dagli architetti Brino, De Ferrari, Fabbri e Raineri, presenta un cortile in cui domina un tiglio secolare di più di 15 metri di altezza.

Ex fabbricato industriale, via Ferrari 3

Realizzata nel 1861 dall’architetto Barnaba Panizza, in un’area urbana che vedeva la presenza di numerosi edifici progettati con destinazione d’uso industriali e commerciali, la sede della Società Pani da Caffè e della Società Fabbricanti acque gazzose, presenta ancora le tipiche strutture modulari a pilastri e arconi ribassati degli edifici utilitari del secondo ’8oo, secondo un ritmo ben visibile anche sulle fronti rivolte ai cortili, oggi attentamente curati per quanto riguarda il decoro verde e floreale. Il restauro è stato progettato dall’architetto Chiara Stupino.

Case Castelli, via Montebello 15/d-i?

Nel 1863 il medico Castelli si fa costruire, su progetto di F. Gianotti una villa all’angolo fra le vie Ferrari e Montebello. Negli anni successivi, tra il 1867 e il 1886, vengono effettuate numerose trasformazioni, sempre per opera di Gianotti, tra cui l’ampliamento al n. 17 di via Montebello. La tradizione vuole che quest’ultimo edificio ospitasse l’alcova delle Bela Rosin, in comunicazione con il fabbricato delle scuderie posto nella corte a fianco. In entrambi i cortili il verde, i rampicanti e gli elementi decorativi creano spazi appartati e suggestivi.

Palazzi di via Po ai nn. 39,55,59

L’edificio al n. 39 è uno dei palazzi nobiliari di maggiori dimensioni della via, caratterizzato da un lungo porticato aperto verso il cortile d’onore, e da una particolare vista della Mole Antonelliana, inquadrata dall’arco del portone d’accesso.

Il palazzo al n. 55, altro esempio di notevoli dimensioni, era in origine posto come fondale del grande cortile della caserma delle Guardie del corpo del Re, oggi demolita. Sede della Fondazione Accorsi e del suo museo, è stato restaurato su progetto dell’architetto Piero Derossi, come il vicino n. 59. Entrambi i cortili risultano ornati da statue e decorazioni marmoree (di varia provenienza), in particolare il secondo offre una successione di piccole corti dove l’antico, il restyling postmodern e gli esercizi commerciali creano un’isola di fascino particolare a pochi passi dalla trafficata via Po.

Istituto delle Rosine, via delle Rosine 9

Nel 1835 Giuseppe Talucchi aggiunse una nuova ala all’interno dei terreni della Casa delle Rosine, su committenza della regina Maria Teresa. L’edifìcio, destinato a refettorio, infermeria e filanda, unisce le forme del tempio classico a elementi funzionali, come il loggiato inserito dietro il colonnato rivolto al giardino, con una pragmaticità avvicinabile all’architettura georgiana del Nord America.

Corporazione dei Mastri fabbricatori di stoffe, via San Massimo 31-33

L’edificio, realizzato da P. Bonvicini nel 1781 per residenza e laboratori dei «fabbricatori delle stoffe in oro argento e seta», è stato ristrutturato nel 1978-80 dall’architetto C. Novara come casa-pareheggio. Nell’angolo acuto del grande cortile, definito dalle alte maniche del fabbricato, nasconde un’eccezionale scala a pianta pentagonale, brillante soluzione in rapporto alla forma triangolare dell’isolato.

Ospedale San Giovanni Battista, via Giolitti 36

La costruzione della grande Ospedale di San Giovanni Battista, oggi sede del Museo Regionale di Scienze naturali dopo i restauri progettati dall’architetto Andrea Bruno, venne iniziata nel 1680 su progetto di Amedeo di Castellamonte e completata da Gina Francesco Baroncelli. È articolato su quattro cortili quadrangolari, definiti dai bracci delle infermerie (una crociera centrale e due maniche su via Accademia Albertina e via San Massimo) poste su due piani, quello inferiore destinato agli uomini e quello superiore alle donne. Tra il 1720 e il 1727 venne realizzato lo scalone, ornato da stucchi opera di Carlo Papa, nel 1757 il Teatro Anatomico (oggi scomparso) su disegno di Bernardo Antonio Vittone e nel 1763 venne infine aggiunta la chiesa, su progetto ormai neoclassico di Filippo Castelli. Il corpo frontale si affaccia sui cortili con un doppio ordine di portici e loggiati, sorretti da colonne binate come nel distrutto cortile dell’Accademia Militare, anch’esso opera del Castellamonte.

Convento di Santa Croce, via Accademia Albertina 13

Il convento è uno dei più grandi fra quelli realizzati nel secondo ampliamento barocco della città (1673), occupando circa due terzi di un isolato di 1200 mq. Articolato nei tre cortili canonici (quello principale con sale comuni al piano terreno e celle al primo, quelli di servizio, in questo caso divisi dal corpo del refettorio) distribuiti da un asse centrale che costituisce anche il lato sud del chiostro maggiore, adiacente alla chiesa, era destinato al ritiro di fanciulle nobili. La chiesa, a pianta ellittica, è attribuita a Filippo Juvarra (1718). Il giardino, rivolto verso via San Massimo, è stato edificato nel corso del XIX secolo. Dopo essere stato sede della caserma Podgora, è stato in gran parte restaurato e ospita dipartimenti dell’università di Torino: il cortile principale, circondato da un portico su pilastri binati, è oggi ornato da un gazebo-belvedere che valorizza elementi tecnologici degli impianti.

Collegio delle Province, ora Caserma Bergia, via S. Croce 4

Realizzato nel 1739, trasformando su progetto di Bernardo Antonio Vittone un preesistente fabbricato, il collegio era destinato a ospitare un centinaio di studenti universitari meritevoli provenienti dalle province. Organizzato intorno a un cortile quadrangolare contornato da porticati a doppio ordine, provvisto di camere per dormire e studiare a gruppi di quattro, nonché di un grande refettorio, è un esempio notevole di struttura collettiva residenziale per studenti nel panorama dell’epoca. Rimasto in attività fino all’epoca napoleonica, con la Restaurazione venne poi trasformato in sede dei Carabinieri Reali.

Hotel NH Collection, già Albergo di Virtù, piazza Carlo Emanuele II15

Fondato nel 1580, ma collocato nel palazzo di piazza Carlina dal 1682 al 1890, il Reale Albergo di Virtù ospitava giovani orfani impossibilitati ad apprendere un mestiere, offrendo loro vari insegnamenti, fra cui quello del cappellaio, del minusiere, del vellutato. L’edificio, organizzato come struttura collettiva, offriva un tempo semplici facciate prive di qualsiasi ornamento; il porticato continuo, terrazzato, lungo i lati della corte interna non compare ancora nei disegni di progetto recentemente pubblicati. Una cappella, posta un tempo in faccia all’entrata, conservava dipinti di Trono, Molinari, Bays e Beuamont. Alla fine del secolo scorso è stato trasformato e sopraelevato a fini residenziali, ricevendo una nuova veste decorativa di gusto eclettico. Tra il 1981 e il 1984 è stato sottoposto a ristrutturazione igienico-edilizia dall’istituto Autonomo Case Popolari, quindi - dopo una completa trasformazione -ha riaperto nel 2014 come Hotel NH Collection.

 

fonti:

Paolo Cornaglia, Guida ai cortili di Torino

 

Il primo Palazzo Madama nacque a Torino prima che a Roma. Piccola digressione su Madame, Madamine e Tote.

 

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Palazzo Madama a Roma è sede del Senato. Ma prima di Palazzo Madama c’era quello di Madama Cristina, la “madama” più celebre dei Torinesi.

Il Palazzo Madama di Torino precede anche cronologicamente il Palazzo omonimo di Roma, il cui nucleo è del 1503, mentre quello del primo risale al XIV secolo, e prima ancora era una fortificazione medievale eretta su una porta romana.

La figura di Madama Cristina di Francia è molto nota e conosciuta ai torinesi sin dai suoi tempi, quando i suoi capricci e il suo comportamento anticonformista erano oggetto della stupita attenzione dei suoi sudditi piemontesi. Madama Cristina è l’epitome della madamina prepotente, che se ne infischia dei pregiudizi sociali (sono celebri i suoi amori della collina piemontese in cui si recava in carrozza chiusa e si diceva persino che facesse affogare i suoi amanti – testimoni scomodi della sua dissolutezza – nel Po)

“Madama” e “madamina” sono due tipici appellativi piemontesi, la cui differenza non tutti hanno chiaro. Intanto, non è affatto vero che madame o madamin siano solo le donne appartenenti all’alta borghesia, o addirittura all’aristocrazia della città. Assolutamente no. “Madama Chiusano”, tanto per fare un esempio, può essere benissimo anche la portinaia di un palazzo, del centro come della periferia. Così come “Madamin Ferrero” può essere un’infermiera del Martini, o la donna delle pulizie del nostro condominio: “madama” e “madamin” non sono titoli aristocratici, ma un modo gentile di rivolgersi a una signora (sposata o vedova). I due appellativi vanno anche usati da soli, allorché non si conosca il nome della donna con la quale si sta parlando. In questo caso, diciamo subito che, a una donna di età matura, ci si rivolge chiamandola “madama”. Ad una di età decisamente più giovane, ci si rivolge chiamandola “madamin”. Ma se si tratta di una ragazza, più giovane ancora, e in probabile età da marito, con lo stesso garbo, il galateo torinese impone di chiamarla “tòta”.

In piemontese, “madamin” è il diminutivo di “madama” e si usa nei confronti di una signora sposata che, in conseguenza del matrimonio, ha assunto il cognome del marito, purché la suocera sia ancora vivente, onde evitare confusione tra due signore che portano, di fatto, lo stesso cognome. Secondo alcuni puristi della lingua piemontese, farebbe eccezione la moglie del primogenito, che acquisirebbe il “titolo” di “madama”, indipendentemente dall’età della sposa, e dalla esistenza in vita di un’eventuale suocera.

In talune zone del Piemonte, con il termine di “madama” si identificano le cavallette, insetti alquanto fastidiosi, le cui capacità distruttive sono citate anche nei testi biblici. Un implicito, sarcastico riferimento all’ingerenza spesso pedante delle suocere nella vita di coppia?

C’è poi un altro significato del termine “madama”. E’ un termine gergale, usato soprattutto dalla malavita del Novecento. Quella che parlava in piemontese. Come la Banda Cavallero, per intenderci. La “madama” era la Polizia. Ma forse, oggi, neppure gli stessi poliziotti si offenderebbero a sentirsi chiamare così, e probabilmente scambierebbero quel termine per un lusinghiero complimento.

 

Le amanti dei Savoia e le loro dimore: il palazzo d Luisa di Langosco e il mausoleo della Bela Rosin

 

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il palazzo di luisa di langosco

C’è un prestigioso edificio di Torino che deve la propria esistenza a Testa di Ferro: si tratta di palazzo Chiablese, in piazza San Giovanni all’angolo con via xx Settembre, che dal 1958 al 1985 ospitò il Museo del cinema - oggi trasferito nella Mole antonelliana - ed è attualmente sede della direzione regionale della Soprintendenza ai beni culturali, architettonici e paesaggistici del Piemonte e di altri enti.

Prima del trasferimento della capitale a Torino, accanto al duomo esistevano alcune costruzioni, in parte destinate a civile abitazione, in parte di proprietà del vescovado; Emanuele Filiberto le acquistò (anche se alcuni affermano che se ne appropriò senza troppi complimenti) e fece edificare un palazzo per farne dono a Beatrice Langosco di Stroppiana, figlia di un gentiluomo di corte e moglie di Francesco Scarampi, conte di Vesime, della quale poco si sa, se non che divenne amante del duca e risulta essere stata la prima proprietaria del complesso: alcune anime pie, tra le quali lo scrittore ottocentesco Domenico Promis, affermano che la liaison tra i due iniziò dopo la dipartita di Margherita di Valois, quando anche la contessa di Vesime era rimasta vedova, ma le date e alcuni avvenimenti, se attentamente analizzati, non indirizzano verso questa ipotesi buonista. Alla morte di Beatrice (o forse a quella del duca, non è chiaro), il palazzo tornò della disponibilità di casa Savoia e divenne residenza di molti dei suoi rappresentanti, tra i quali Maurizio, cadetto di Carlo Emanuele I, che, ormai ex cardinale, vi abitò con la moglie (e nipote) Lodovica; fu poi la volta di Benedetto Maria Maurizio, duca del Chiablese, figlio del terzo matrimonio di Carlo Emanuele III, dal quale l’edificio prese il nome con cui è conosciuto ancora oggi. Ma l’ospite più interessante del palazzo fu senza dubbio Paolina Bonaparte, l’originale sorella di Napoleone, che nel 1808 vi si stabilì con il marito Camillo Borghese, insediato a Torino dal cognato in qualità di governatore generale. L’avventura torinese

margherita di rousillon di riva di chieri

Dopo la morte di Caterina Michela d'Asburgo, avvenuta il 6 novembre 1597, Carlo Emanuele I di Savoia si risposò trentadue anni dopo in segreto con la Marchesa di Riva di Chieri Margherita di Rousillon, figlia di Gabriele di Rousillon "Signore di Châtelard" e di Laura di Saluzzo dei "Signori di Monterosso". Da questa unione nacquero numerosi figli, tra cui Don Antonio di Savoia, commendatario di quattro abbazie, inclusa la Sacra di San Michele.

Il sovrano le donò il Castello di Riva, oggi Palazzo Grosso.

la bela rosin

Per la sua famosa amante il Re Vittorio Emanuele II comprò il castello di Sommariva Perno. Successivamente la sua amante si trasferì negli appartamenti reali di borgo castello, all’interno dell’attuale parco regionale della Mandria, residenza che non apparteneva alla corona ma al patrimonio privato del re.

Tra gli edifici più curiosi e forse meno conosciuti della città di Torino, ci sono sicuramente il Mausoleo della Bela Rosin ed il suo parco. Situato nel quartiere di Mirafiori Sud, questa costruzione è una copia esatta, in scala ridotta, del più imponente e conosciuto Pantheon di Roma.

Il Mausoleo, intitolato a Rosa Vercellana, detta in piemontese Bela Rosin, fu voluto dai figli di quest’ultima come tomba di famiglia dove sarebbe dovuta essere sepolta insieme al marito Vittorio Emanuele II. Rosa Vercellana, contessa di Mirafiori e Fontanafredda, fu infatti prima amante e poi moglie del primo re d’Italia. I titoli nobiliari le furono concessi dopo il matrimonio morganatico, ovvero un matrimonio tra persone appartenenti a diversi ranghi sociali in cui si impedisce il passaggio alla moglie dei titoli nobiliari e dei privilegi del marito.

Progettato dall’architetto Angelo Demezzi, il Mausoleo della Bela Rosin fu costruito tr il 1886 ed il 1888. In stile neoclassico, questo mausoleo riprende la struttura del Pantheon di Roma, con alcune modifiche ed adattamenti. Sul frontone è inciso il motto della famiglia dei conti di Mirafiori “Dio Patria Famiglia”. Il diametro circolare è di sedici metri. All’interno ci sono otto colonne, dove si trovavano le tombe di Rosa Vercellana ed i figli, oggi rimaste vuote. I resti delle salme furono infatti spostati nel 1972 nel cimitero monumentale di Torino, dopo alcuni spiacevoli episodi di saccheggio da parte di persone alla ricerca di gioielli e cimeli della ricca famiglia.

Il mausoleo si trova all’interno di un parco, di forma rettangolare che confina con il comune di Nichelino. L’entrata del parco è situata sul lato ovest dove si trova un cancello in ferro battuto recante le insegne dei Conti di Mirafiori. Da lì parte un lungo viale che arriva fino al mausoleo.

Nel 1970 il Mausoleo fu venduto al Comune di Torino dall’ultima discendente della famiglia Vercellana. Dopo diversi anni di restauro, aperture e chiusure dovute anche a episodi di vandalismo, il Mausoleo della Bela Rosin, venne finalmente riaperto al pubblico nel 2005.

Oggi il Mausoleo della Bela Rosin, affidato al Sistema bibliotecario torinese, viene utilizzato per incontri, letture, spettacoli teatrali, balli ed altre iniziative culturali.

eugenia attendolo bolognini litta

Eugenia Attendolo Bolognini, duchessa Litta Visconti Arese (Milano, 12 febbraio 1837 – Vedano al Lambro, 6 aprile 1914), è stata una nobildonna e benefattrice italiana, perlopiù nota per essere stata l'amante di re Umberto I di Savoia.

Fu attiva anche nella propaganda anti-austriaca durante il Risorgimento.

 

fonti:

Laura Fezia, Torino segreta dei Savoia

Wikipedia, “Rosa Vercellana”

https://www.guidatorino.com/il-mausoleo-ed-il-parco-della-bela-rosin-di-torino-storia-eventi-e-curiosita/

Wikipedia, “Carlo Emanuele I di Savoia”

 

 

 

 

 

LA TORINO DELLE STRADE

 

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Il cibo di strada di tradizione piemontese

 

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La cucina del Piemonte è spesso sinonimo di preparazioni opulente e dai sapori decisi, magari da assaggiare nelle classiche piole e da accompagnare con la ricchissima offerta vinicola, vera eccellenza della regione. Di street food piemontese, invece, si sente parlare molto meno: peccato, poiché si tratta di un panorama ricco di storie affascinanti, che spesso tengono in vita ricette che altrimenti rischiavano di scomparire.

Lo “street food” ante litteram dei contadini: la marenda sinoira

Ricette che, un tempo, non potevano mancare nella merenda (o marenda) sinoira, una sorta di street food ante litteram. Sì, perché prima di diventare una tendenza e un genere imprenditoriale, il cibo da strada era quello dei contadini. Che, durante la stagione estiva, sfruttavano tutte le ore di luce per completare il loro lavoro e così, tra il pranzo e la cena (che consumavano più tardi del solito), avevano bisogno di rifocillarsi con una merenda sostanziosa. Ecco spiegato l’antico detto locale che recita “San Giusep a porta la marenda ant el fassolet, San Michel a porta la marenda an ciel”: la merenda, che si portava dentro al fazzoletto (soprattutto a base di pane, formaggio e salumi) era consumata principalmente nel periodo che va dalla festa di San Giuseppe (19 marzo) a quella di San Michele (29 settembre), poi cambiavano i ritmi quotidiani, andando verso l’inverno. Ma la stessa usanza, che qualcuno oggi fa coincidere con l’attuale aperitivo, caratterizzava altresì la vita familiare: per i più altolocati rappresentava un’occasione di ritrovo, all’aperto, nella cornice delle ville nobiliari, mentre per il popolo era il momento conviviale con cui si festeggiava la fine di un lavoro collettivo. E così in tavola comparivano specialità come i gofri, le miacce e miasse, i pilòt.

I gofri, la storia di una ricetta ritrovata

Oggi i gofri sono ancora in vita, presenti nelle sagre e nelle feste patronali ma anche nel menu di alcuni locali. Come lo stesso nome rivela, la storia dei gofri è legata a quella della gaufre belga ed è il risultato dell’emigrazione: i piemontesi, andati in Belgio a lavorare nelle miniere, riportarono a casa – soprattutto in val Chisone e valle Germanasca – questa ricetta e la modificarono”. Come? Impoverendola, dato che quella originaria comprendeva anche zucchero, burro, latte e uova. Per i gofri, invece, servono solo farina, acqua, lievito e un pizzico di sale; ottenuto un impasto liquido si lascia riposare per almeno 4-5 ore, affinché la consistenza diventi spumosa, e a quel punto il composto è pronto per essere cotto nello stampo di ghisa che gli conferisce la peculiare forma a nido d’ape; è perfetto da abbinare, ad esempio, al prosciutto crudo e alla toma, oppure si può provare in versione dolce con miele o confetture”.

A metà strada tra Piemonte e Liguria: pane, burro e acciughe

La belecàuda anche se esportata pure in altre regioni, è la dimostrazione del solido filo rosso che unisce Piemonte e Liguria. Ne è un’ulteriore riprova un altro cibo da strada: il pane con burro e acciughe, nato nelle case come classica merenda o colazione, diventato poi un must della proposta dei bar anche come farcitura dei tramezzini. Se infatti quest’ultimo è uno spuntino sdoganato in tutta Italia in mille varianti, non tutti sanno che uno dei più autentici (e forse il primo) è proprio quello imbottito con burro e acciughe.

La storia degli acciugai

(Vedi anche “I banchi degli acciugai”, nel percorso “Alberghi, ristoranti, negozi, caffè e mercati storici di Torino”)

È una storia orgogliosamente piemontese, oltre che ligure e in parte americana. Ma andiamo con ordine: il burro è la materia prima che – in una regione storicamente votata alla pastorizia e molto meno all’olivicoltura – era sempre presente nelle dispense; per quanto riguarda le acciughe, invece, entra in gioco la Liguria. Un tempo, gli abitanti delle vallate, soprattutto della valle Maira, nei mesi invernali lasciavano le case per cercare una temporanea fonte di guadagno: così nacque la figura dell’acciugaio (anciuè in dialetto), che dal Piemonte raggiungeva i porti liguri con il caruss (il carretto), acquistava le acciughe per rivenderle di paese in paese.

Il tramezzino, dagli Usa al Caffè Mulassano di Torino

L’America, invece, entra in gioco nell’invenzione del tramezzino, lo spuntino preparato con due fette di pancarrè non riscaldato. A Torino, nel Caffè Mulassano – che la nostra guida Bar d’Italia recensisce con Tre Chicchi e Tre Tazzine, la massima valutazione – c’è una targa che recita: “in questo locale, nel 1926, la signora Angela Demichelis Nebiolo inventò il tramezzino”. La signora, emigrata negli Usa, nel 1925 tornò in Italia e assieme al marito si dedicò alla gestione del caffè dell’allora proprietario Amilcare Mulassano. Dagli Stati Uniti aveva portato la macchina per i toast, ma decise di non tostare il pane. Ecco il tramezzino, così ribattezzato da Gabriele D’Annunzio. Tra le prime versioni pare ci fosse proprio la burro e acciughe, assieme ad altri classici abbinamenti regionali come vitello tonnato e acciughe al verde.

 

Il cibo di strada etnico e fast-food

 

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Camminando per le vie di Torino può capitare di trovarsi per un attimo fuori da Torino, dall’Italia e addirittura dall’Europa. Il fast-food etnico si può incontrare ormai ad ogni angolo di strada.

Ci sono locali che servono i piatti tradizionali e deliziosi dello street food cinese: i “Xiao Long Bao”, ravioli artigianali con ripieno di brodo disponibili nella versione con maiale oppure con verdure e gamberetti; il “Gua Bao“, panino al vapore taiwanese tradizionale con maiale, con pollo e patate oppure con le verdure e poi i “Shui Jing Jiao”, ovvero i ravioli di cristallo chiamati così per la loro trasparenza che fa intravedere il ripieno fatto con gamberetti oppure con sola verdura; il “Jian Bing Guo Zi”, una crepe cinese sottilissima e croccante che racchiude al suo interno un ripieno gustoso a scelta tra black angus, maiale, pollo e patate, uovo, cavolo cinese e ancora tofu e bambù; i noodles freschi nelle varianti “Cong You Ban Mian“, noodles in olio di erba cipollina; “Dan Dan Mian“, i noodles piccanti di Sichuan o ancora i noodles “Hong Shao Niu Rou Mian” serviti in un brodo con brasato di manzo.

I chioschi che vendono falafel e kebab fanno ormai parte del panorama urbano. Il falafel o felafel, servito in tutto il medio oriente consiste in polpette di ceci o altri legumi fritte e servite dentro il pane pita.

Aggiungiamo alla lista anche i MacDonald originali, una esperienza all american a base di hamburger, hot dog e immancabili patatine da gustare almeno una volta.

Locali messicani vendono il Burrito, tipico della cucina tex-mex, una tortilla arrotolata ripiena di carne di manzo, pollo o maiale, le Enchiladas, tortilla cotte in forno a mo' di cannelloni e ripiene di carne, peperoni, fagioli, formaggio o pesce, o i Tacos tortilla di farina di mais piegata in due e ripiena di carne di manzo o pesce, guacamole, cipolla cruda, formaggio fuso, coriandolo e peperoncino.

Nei Take Away indiani si può avere il Biriani, un piatto a base di riso fritto accompagnato con carne di pollo o pesce, uova e verdure, oppure il Pakora, verdure (generalmente cipolle, melanzane, spinaci, cavolfiore, patate) fritte con la pastella o il Samosa, pasta di pane fritta o cotta in forno ripiena di formaggio, patate, cipolle, carne e spezie dalla forma triangolare.

E altri locali ancora, rumeni, giapponesi, russi, possono servire a richiesta cibo da asporto.

E poi c’è il cibo etnico italiano, che ormai ha colonizzato Torino:

Arancini di riso, arrosticini, cannoli, castagnaccio, farinata, focaccia ligure, olive all’ascolana, calzoni, pesce fritto, piadine, porchetta,

e l’immancabile pizza.

 

fonti:

https://www.cibo360.it/cucina/street_food/street_food.htm

 

I mercati per le strade di Torino

 

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Vedi il percorso “Alberghi, ristoranti, negozi, caffè e mercati storici di Torino”

 

Il MAU, Museo di Arte Urbana di Torino: un percorso all’aperto

 

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In Borgo Campidoglio. Il MAU, Museo di Arte Urbana è il primo museo di arte contemporanea all’aperto in un centro urbano in Italia. È un percorso a cielo aperto tra più di 170 opere realizzate sui muri di case e piazze del Borgo Vecchio Campidoglio, visitabile gratuitamente. Street art, ma diffusa e incorniciata in uno degli angoli più suggestivi e particolari di Torino.

Torino è fatta di diversi quartieri, ognuno dei quali nasconde curiosità, bellezza e fascino. Alcuni più di altri assomigliano a piccoli borghi e girando per le loro strade si ritrova l’atmosfera tipica dei paesini pur rimanendo all’interno di una grande città. È il caso di Borgo Vecchio Campidoglio, un sotto quartiere del capoluogo piemontese che si trova a cavallo tra i quartieri Parella e San Donato.

Borgo Campidoglio è oggi una zona essenzialmente residenziale di Torino fatto di piccole case con cortili interni e aree verdi, palazzi bassi, stradine, aree giochi, piazzette, botteghe artigiane e ristorantini che lo rendono più simile a un piccolo borgo e non a un quartiere di una grande città.

Oltre a quest’atmosfera da paesino di campagna, Borgo Campidoglio offre numerosi luoghi di interesse e curiosità. Maestosa e imponente si erge sulle piccole case del quartiere torinese la Chiesa di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori: l’edificio neobarocco, realizzato a fine Ottocento, fortemente voluto dal teologo Domenico Bongioanni, allievo di don Giovanni Bosco.

Ma la caratteristica maggiore di Borgo Campidoglio, che lo distingue dagli altri quartieri e borghetti torinesi, è la presenza di tantissimi murales e installazioni artistiche incastonati sui muri delle case, su finte finestre il cui cornicione è diventato cornice di un quadro, tra le porte delle abitazioni, sulle serrande dei negozi, sulle panchine, sui muretti dei giardinetti e in molti altri luoghi.

Borgo Vecchio Campidoglio è difatti la sede del MAU – Museo d’Arte Urbana di Torino che è, a tutti gli effetti, il primo museo di arte contemporanea all’aperto in un centro urbano d’Italia. Un incredibile museo a cielo aperto che ospita oltre 170 opere realizzate da numerosi artisti che hanno lasciato la propria arte e impronta sui muri di questo quartiere torinese. Qui, passeggiando tra le viuzze acciottolate vi capiterà di imbattervi in balene giganti, paesaggi di montagna, ritratti, trompe-l’œil, coltivatori di fiori, panchine ispirate a grandi artisti e molto altro.

Tra le varie opere che sono state realizzate nel borgo tra il 2002 e il 2010 ci sono quelle di Fathi Hassan, Salvatore Astore, Enrico De Paris, Theo Gallino, Vittorio Valente, Andrea Massaioli, Bruno Sacchetto, Gianluca Nibbi, Pasquale Filannino, Antonio Carena, Amar, Monica Carocci e Gianni Gianasso.

Nei giardini di piazza Moncenisio sono invece collocate le “Panchine d’Artista“, colorate sedute dipinte dall’artista torinese Vito Navolio in omaggio a dieci grandi maestri dell’arte contemporanea mondiale: Piet Mondrian, Andy Warhol, Niki De Saint Phalle, Keith Haring, Hans Hartung, Fathi Hassan, Jackson Pollock, Roy Lichtenstein, Joan Mirò, Pablo Picasso, Fortunato Depero.

A Borgo Campidoglio si cammina con il naso all’insù, sempre pronti a scrutare un’opera, un disegno, un colore e un pizzico d’arte e bellezza.

 

fonti:

https://www.guidatorino.com/borgo-campidoglio-torino/

 

I mestieri di strada di un tempo

 

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I cortili di Torino, fino agli anni ’50, vedevano tutto un via-vai di pittoresche figure di ambulanti ora sparite.

C'erano, dunque, i musicisti ambulanti, quasi sempre una fisarmonica o un violino che accompagnavano un attempato cantante d'opera. Quelli delle «tampe liriche», alcune delle quali sopravvivevano dalle parti di via Verdi, dietro il Regio ridotto a quella sua facciata bruciacchiata. Il cantante, di solito in giacca a scacchi e cravatta a fiori (magari con fiocco alla Lavallière), la maggior parte delle volte aveva i capelli bianchi lunghi sul collo. Era il segno che denotava la libertà, l'anticonformismo dell'artista. Ancor oggi per le strade del centro, si possono ascoltare violinisti e nell’atrio della Stazione di Porta Nuova, forse in ricordo della musica che allietava le strade, è stato posto un pianoforte a disposizione di chiunque voglia suonare un pezzo per la delizia del passanti.

Altro ospite fisso era l'uomo in età con il triciclo o con il carretto a mano. Parcheggiava il mezzo cigolante accanto al portone ed entrava in cortile. Tenendo in mano una stadera, alzava il capo e gridava al cielo un annuncio bilingue: «Strassééé, stracciaiooo!». In piemontese e in italiano, forse per farsi capire dai primi immigrati.

Naturalmente, c'era l'ombrellaio, con tutto il suo armamentario a tracolla, e l'arrotino, che spingeva una sorta di affascinante carriola: quel barattolo indimenticabile sopra la ruota, azionata da un pedale, sulla quale si affilavano le lame di forbici e coltelli, quel barattolo Cirio che sgocciolava acqua, per evitare che il ferro si arroventasse! Venivano anche i venditori di scope e spazzoloni: figure fantastiche, all'Arcimboldi, la cui testa era soverchiata da una sorta di aureola di setole e di saggina. Lavoravano nei cortili anche i materassai - ma solo quando li si chiamava - portando con sé un grosso cavalletto per cardare la lana. I ciabattini ambulanti piazzavano il deschetto in un angolo della corte, di cui molti adulti lamentavano la recente sparizione. Gli ultimi, però, li si poteva trovare il sabato pomeriggio, al "Baloùn".

Risalendo ancora più indietro nel tempo, c’erano gli acciugai di Val Maira, che giravano tutto il Piemonte e la Lombardia per vendere le acciughe conservate, pescate sulla costa ligure. E poi gli acetai, che ancora ad inizio Ottocento percorrevano le vie con un vestito sgargiante, spesso con la pipa in bocca e la botticella dell’aceto in spalla.

Non mancavano neanche le cartomanti, che ancora negli anni ’80 si potevano vedere col loro tavolino all’imbocco della Galleria Subalpina e le fattucchiere, che ancor oggi si possono trovare al Balòun.

Fino agli anni ’50 si potevano ancora vedere circolare dei suonatori ambulanti con una scimmietta sulla spalla che pescava le carte della fortuna, o con un cane o una marmotta addestrata.

Poteva anche capitare che al di fuori delle fiere girassero dei ciarlatani venditori di unguenti e rimedi miracolosi.

Quanto agli arrotini, continuano a girare anche oggi.

C’era poi una categoria antichissima e benemerita, senza la quale non esisterebbe (o sarebbe molto diversa, certamente più povera) una buona fetta di letteratura. A cominciare dal ciclo omerico, salendo su su fino alla lirica medievale e ai poemi cavallereschi. Naturalmente, parliamo del cantastorie, di questa singolare unione, nella stessa persona, di un cronista, di un poeta, di un cantante, e il cui estremo rappresentante torinese, si poteva ascoltare ancora negli anni ’50 a Porta Palazzo, o meglio, al "Baloùn" del sabato intonare una ballata in quartine che cominciava in modo indimenticabile: «Villarbasse cascina fatale / nella vasta pianura padana / chi si ferma a guardar le tue mura / presto un segno di croce si fa». Era il racconto della strage di Villarbasse (che si trova sulle colline di Rivoli, non in pianura padana), un terribile fatto di sangue avvenuto nel 1945, che aveva scosso tutta l’Italia.

Anche i venditori di almanacchi non mancavano in città, perché accanto a quelli concepiti per i contadini e i lavori agricoli, ce n’erano altri destinati ad un pubblico più istruito, con notizie sulla famiglia reale e informazioni e curiosità varie.

 

fonti:

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, edizione eBook, posiz. 402,7

Giuditta Dembech, Torino città magica, vol. 1

 

Un mestiere con licenza del municipio: il mendicante di Torino.

 

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Altri esercitavano altri mestieri. A cominciare da quello di mendicante. Non è una facezia, era proprio un mestiere regolamentato, così come lo era stato nei secoli precedenti: l'accattonaggio senza regole era un reato, l'elemosina si poteva chiedere unicamente in luoghi prefissati, credo solo in certe ore, comunque solo disponendo di apposita autorizzazione del Municipio. Fino alla svolta dopo la metà degli anni Sessanta i torinesi non hanno mai ho visto accattoni «sciolti» abbordare i passanti: sarebbero stati certamente fermati, e subito, dai solerti "civich", corpo al contempo rispettato e temuto per la cortese ma implacabile severità.

 

fonti:

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, edizione eBook, posiz. 402,7

 

Artisti di strada e artisti circensi a Torino

 

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Festival Internazionale del Teatro di Strada di Torino

Ogni Settembre Torino ospita una settimana di passione con spettacoli ed eventi per le vie della Città e occasioni per tutti di incontrare il fantastico mondo a colori degli Artisti di Strada. Più di 1000 Artisti provenienti da tutte le strade del mondo e della vita arriveranno a Torino per divertirsi, esibirsi e conoscere il pubblico con spettacoli, incontri e laboratori artistici. Gli spettacoli sono gratuiti per tutti.

Accademia di Arti circensi, Torino

FLIC Scuola di Circo, un progetto della Reale Società Ginnastica di Torino, creato nel 2002, è una delle realtà più rinomate a livello internazionale nell’ambito del circo contemporaneo. È sostenuta dal Ministero dei Beni e delle attività culturali, come centro di perfezionamento professionale e dalla Regione Piemonte e ha il patrocinio del Comune di Torino. E’ socio fondatore di ACCI (Associazione circo contemporaneo Italia), è membro della FEDEC (Fédération européenne des écoles de cirque professionelles).

Il progetto FLIC Scuola di Circo, la prima scuola di perfezionamento professionale di circo contemporaneo in Italia si pone l’obbiettivo di sviluppare questo settore, ancora poco conosciuto nel nostro paese, partendo dalla formazione dell’allievo nella sua totalità.

Tutta la progettazione ruota intorno alle molteplici possibilità e metodologie di insegnamento, apprendimento, soddisfazione e crescita che lo riguardano. Tale obiettivo viene perseguito offrendo un corso di formazione secondo la migliore tradizione europea, che introduce preparazione fisica, acrobatica, danza e attore di circo per estendere la possibilità di studio e ricerca artistica sull’attrezzo circense.

La scuola organizza stage intesivi con maestri di fama internazionale e laboratori di creazione in Italia e all’estero, insieme ad altri progetti dedicati alla produzione, circuitazione, sostegno e ospitalità di spettacoli propri ed esterni. Grande attenzione è rivolta alla formazione del pubblico attraverso l’organizzazione di rassegne e festival, corsi amatoriali di circo, laboratori per le scuole medie inferiori e superiori, progetti di circo per il sociale.

Nell’insieme compone un lavoro caratterizzato da una forte eterogeneità di azioni, con particolare attenzione alla diffusione dei linguaggi del contemporaneo, che rendono possibile un buon avvicinamento alla cultura del nuovo circo e dove tutte le iniziative si nutrono e fortificano a vicenda creando dialogo, scambio e conoscenza.

Dal 2018 ha preso avvio “Surreale – residenze di circo contemporaneo”, il nuovo progetto a sostegno della produzione e diffusione del circo contemporaneo sostenuto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dalla Regione Piemonte nell’ambito del progetto di residenza “Artisti nei territori” per il triennio 2018 – 2020.

Ad oggi la FLIC ha formato oltre 450 allievi provenienti da 38 nazioni diverse. Molti ex allievi hanno lavorato e lavorano in grandi compagnie fra le più significative ricordiamo Compagnie du Hanneton, Rasposo, No Fit State, MPTA, Gandini Juggling, Cirque du Soleil, Finzi Pasca, XY, Circa Contemporary Circus e Gorillla Circus. Alcuni allievi hanno fondato a loro volta compagnie indipendenti di rilievo internazionale fra cui: Collettivo 320Chili, Circoncentrique, MagdaClan, Circo Puntino, Betticombo, Rasoterra, Courant d’Cirque, Laden Classe, Fabbrica C, Cordata For, OnArts, La Mia Compagnie, la Belle Apocalypse, Zenhir, Madame Rebinè, La Burrasca, DueDà Company solo per citarne alcune.

 

Le pourteire di Torino

 

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Negli anni ’50 e ’60 Il citofono era una rarità e una stranezza, non avere portineria pareva una disgrazia, la rinuncia a bisogni fondamentali: rinuncia non soltanto alla pulizia del condominio o alla distribuzione della posta, due volte al giorno (non il postino, bensì la "pourtiera" infilava la corrispondenza nelle buche degli inquilini), ma alla sicurezza stessa. Senza di lei, si diceva con un brivido, poteva entrare nella casa chiunque. Con lei, occhiuta dietro la finestrella di vetro che dava sull'androne, entravano soltanto - in cambio, pare, di qualche piccola mancia, una volta l'anno - gli ambulanti, quelli delle «arti che vanno per via».

A Pasqua, le portiere ricevevano doni. Fioccavano le uova di cioccolato, di Caffarel, di Davit, di Giordano. Non di Baratti o di Pfatisch o di Peyrano: gentili sì, con la custode, ma "esagerouma nen"...

Adesso, la città è una sfilata di porte chiuse. Allora i portoni restavano aperti almeno sino alle undici di sera: andare per le strade, quando già da ore era buio, tra i fasci di luce dei battenti spalancati e le presenze umane negli androni dava un senso di calore e di sicurezza perso per sempre. E chi, negli alloggi della casa, era solo, malato, bisognoso di qualcosa (magari anche soltanto di un mezzo limone, un uovo, un mazzetto di prezzemolo, un cucchiaino di bicarbonato) sapeva di poter contare sulla presenza di una famiglia che bastava un poco di rispetto e di cortesia per avere amica.

La portineria significava sicurezza, ma anche occhiuto controllo sociale. Dicono i tedeschi che "Stadt Luft macht frei", l'aria della città rende liberi, l'anonimato metropolitano può avere i suoi svantaggi, ma assicura l'indipendenza da chiacchiere e intrusioni nel proprio privato. Con la portinaia «modello Torino», neanche la città rendeva libero, ogni condominio era una sorta di borgo, impossibile nascondere alcunché alla custode e al suo sguardo di professionista del controllo.

Eppure, tutto ben valutato, c'è forse da provare una piccola, malinconica nostalgia per l'occhiuta madama sotto il portone. Anche perché, tra i molti suoi compiti, c'era il controllare che fosse sempre acceso il lumino rosso sotto uno dei marchi inconfondibili della casa torinese, povera o ricca che fosse: il bel tondo in ceramica - talvolta solo bianca e azzurra, talaltra a colori - con l'immagine della Consolata. Rassicurante immagine materna, sotto il cui sguardo protettivo si era messa la città intera. Torino, come al solito, preferiva la discrezione, dunque l'icona era venerata all'interno, nell'androne.

 

fonti:

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, edizione eBook, posiz. 402,7

 

I cortili di Torino

 

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Vedi “I cortili di Torino” nel percorso “La Torino dell’architettura e dell’urbanistica”

Vedi “Le pourteire di Torino” in questa sezione

Doveva essere la diffidenza per la vita all'aperto che portava le assemblee di condominio di tutta la città a vietare il gioco dei bambini nei cortili. Dalle finestre di ogni casa si vedeva sempre, giù in basso, il cortile deserto o, al massimo, animato dal lavoro di qualche artigiano. Poi, pian piano, divennero luoghi di sosta, litigiosamente contesi, per le automobili; e i bei ciottoli della Stura e le belle pietre di Luserna furono coperti dall'orrido asfalto che costava meno in manutenzione.

Le corti si animavano soltanto all'arrivo - frequente, va detto, quasi quotidiano - dei girovaghi, di coloro che campavano con «le arti che vanno per via», come li chiamavano gli antichi bandi che regolamentavano questo mondo vario e un po' misterioso. Le generazioni nate a cavallo della guerra sono le ultime che abbiano ancora tra i ricordi simili figurette: dopo chissà quanti secoli, tutto scomparve, per sempre, nei primi anni Cinquanta.

 

Niente manifesti funebri per le vie della Torino di una volta

Fino agli anni ’60 dell’immigrazione, che portò nuove consuetudini e nuovi costumi in città, era sconosciuta a Torino l’usanza di affiggere ai muri i manifesti bordati di nero con l'annuncio dei defunti. L’avversione piemontese per l’ostentazione esigeva che il lutto fosse risolto da un drappo nero o viola al portone della casa dove era previsto un funerale, con un foglio discreto che annunciava il nome del defunto, gli anni e l'ora delle esequie.

 

L’illuminazione delle vie di Torino

 

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La storia dell'illuminazione pubblica a Torino si può fare risalire al 1675, quando Madama Reale Giovanna Battista ordinò che «si dovessero tenere lanterne sopra li cantoni accese di notte a effetto che si potesse camminare per la città». Prima di quella data i torinesi, che uscivano di notte, dovevano provvedere a illuminarsi personalmente la via con torce, candele o lampade a olio. Nel 1582 Carlo Emanuele I aveva proibito di andare la notte senza lume. Una “grida” del Comandante, prescriveva: «Non sarà permesso ad alcuno, di qualunque grado e condizione, d’andare per città di nottetempo, dopo il segno della ritirata, senza lume, sotto pena di essere condotto al crottone per un giorno, e non potrà un solo lume servire per più di quattro persone; e riconoscendosi che qualcuno si serva di lanterna o lanternini doppi, atti a nascondere il lume, o di qualche sorta d’altri lumi contraffatti, sarà questo sul campo arrestato e punito con giorni 15 di crottone e se ne informerà il Giusdicente prima del rilascio».

L'illuminazione pubblica che ebbe inizio nel 1675 era certamente basata su un sistema piuttosto primitivo consistente su gabbie di tela incerata, entro cui — su un piattello di latta — bruciava olio o sego. Una radicale trasformazione fu messa in atto sotto Vittorio Amedeo III: nel 1782 l'architetto Francesco Valeriano Dellala di Beinasco progettò un tipo di illuminazione che poteva competere con i sistemi di illuminazione allora in vigore a Parigi, Londra, Napoli, Madrid e Vienna: 625 lanterne, di cui 212 a 4 fiamme, 63 a 3 fiamme e 350 a 2 fiamme, parte a olio, parte a sego. L'anno successivo il capitano Giuseppe Ruffino fece applicare alle lampade un lucignolo di sua invenzione «il quale produce un risplendente lume senza formare né fumo, né odore, né ventilazione, né carbone per lo spazio d'ore diciotto c.a». Nel 1785 il marchese Malaspina, visitando la città, fu colpito dalla sua illuminazione; «È la più splendida, la più bella che si possa mai vedere. È continua in tutto l’anno anche a luna piena. Con un secreto di cui formano i lucignoli essa è risplendente al sommo e consuma pochissimo olio. Si crede possa entrarvi sego, acquavita ed incenso». Due anni prima, un certo capitano Ruffino aveva escogitato un curioso stoppino da lume che dava una luce chiara e “pulita”, ossia senza produrre fumo o carbone e neppure mandare cattivo odore. Il re ne fu entusiasta al punto di ordinare che lo stoppino originale fosse conservato nell’archivio municipale dentro un plico ben sigillato. Nel 1801 erano “censiti” in Torino 463 fanali, di cui quattro alle Torri Palatine. Nel 1815 se ne contavano 465. Appena due in più.

Il 1º febbraio 1822 il gas fece la sua prima apparizione a Torino, in piazza San Carlo, nel caffè del sig. Gianotti, ma dovettero passare quasi vent'anni prima che il gas fosse impiegato nell'illuminazione delle strade cittadine. Nel 1837 Carlo Alberto aveva autorizzato François Reymondon, architetto di Grenoble, e Hippolyte Gautier, ingegnere di Lione a costruire il gasometro di Porta Nuova e due anni dopo un nuovo tipo di illuminazione a gas entrò in funzione con 100 fiamme che divennero 1 600 nel 1840.[6] Il 1º ottobre 1846, fra l'entusiasmo dei cittadini, furono illuminate le contrade Doragrossa e Nuova e, poco dopo, anche le vie Po e Santa Teresa, piazza Castello, piazza San Carlo e piazza Vittorio. L'importazione del petrolio americano, iniziata nel 1870, permise l'installazione dei primi fanali a petrolio che salirono a 294 nel 1884, anno dell'Esposizione Internazionale.

«Torino si accenderà come una stella e brillerà di novello splendore grazie a una scoperta che illustra la scienza e che ha già stupefatto i parigini e gli abitanti di altre grandi città. Che avverrà mai il giorno nel quale fosse possibile una estensione di questa luce e si passasse dagli esperimenti a un piano più largo, in diversi quartieri e contrade torinesi?».

Così la «Gazzetta Piemontese» (v. Giornali) dava notizia del «sensazionale esperimento» attuato in Torino che scopriva, a un tratto, la possibilità di essere rischiarata nottetempo con la luce elettrica. Il 18 dicembre 1879 il giornale annunciava che il cuore della città poteva beneficiare della «novità rivoluzionaria che unisce alla praticità anche l’eleganza», come spiegavano i tecnici. E il giornale scriveva: «Pare che gli esperimenti vadano molto bene, dacché continuano e accennano a farsi su più larga scala. Intanto stasera, per compiacere i frequentatori del Caffè Romano, sarà nuovamente illuminato il salone sotterraneo di quel caffè, venerdì sera alle 21 la Galleria Subalpina, sabato sera il Caffè Romano e domenica sera la Galleria». Quindi tutto un programma distribuito in differenti serate che faceva accorrere i torinesi, come rammentano le cronache, per andare a vedere il “prodigio”. «Nella prossima settimana - proseguiva il cronista - permettendolo il Municipio, si illuminerà la parte di piazza Castello, di fronte alla via di Po. E con questo sarà compiuta la serie di esperimenti pel pubblico, e comincerà quella degli esperimenti industriali nell’interesse della società che si sta formando, per attivare in Italia questa specie di illuminazione». «Si spera che con Farrivare di questa elettricità divenga sempre meno importante anche il fuoco con tutti i danni e i pericoli che reca seco», aggiungeva un commentatore, concludendo con la notizia che, mentre si effettuavano gli esperimenti elettrici, una piccina di tre anni, sola in casa, avvicinatasi troppo a un braciere, fu avvolta dalle fiamme; accorsi i vicini, la bambina era stata accompagnata all’Ospedale Mauriziano dove, nonostante le cure, non ebbero modo di salvarla.

L’elettricità, quindi, vista in alternativa alla fiamma, alla legna, al carbone, al gas, considerata come una possibile conquista del finire del secolo.

Ai «Signori rappresentanti della Stampa e dei giornali» (così era indirizzato il biglietto di invito al “raduno” che oggi definiremmo conferenza stampa) venne spiegato il procedimento per l’illuminazione sperimentale di Torino, che seguiva di oltre un anno quella di Parigi del 3 maggio 1878, la quale aveva fatto risplendere la piazza dell’Opéra, a cui s’aggiunsero presto i magazzini del Louvre, il Grand Hotel e altri edifici. Già all’Esposizione di Parigi del 1876 c’erano stati alcuni precedenti, a titolo sempre sperimentale, e nel 1877 i grandi magasìns della capitale francese, rischiarati con l’elettricità, avevano fatto gridare al miracolo.

Nel maggio 1884 fu inaugurato il primo impianto di illuminazione elettrica a Torino in piazza Carlo Felice con 12 lampade ad arco Siemens da 800 candele; nello stesso anno le Ferrovie illuminarono elettricamente la stazione di Porta Nuova e l'ingegnere torinese Enrico progettò l'illuminazione del Teatro Regio. Due anni dopo furono illuminate via Po, via Roma, piazza San Carlo e piazza Vittorio Emanuele. L'impianto comprendeva 29 lampade ad arco da 800 candele e 120 lampade a incandescenza da 50 candele.

Nel 1911, durante l'Esposizione, fu sperimentato un impianto di illuminazione con lampade in serie per i corsi Cairoli e Massimo D'Azeglio. Nel 1917 il Comune subentrò alla Società Piemontese di Elettricità nella gestione degli impianti: nello stesso anno fu approvata la totale soppressione della illuminazione a gas e l'introduzione di un impianto provvisorio di 1 800 lampade elettriche a incandescenza.

Nel 1919 l'ingegnere Guido Peri ebbe l'incarico di studiare un progetto generale per il rinnovamento della pubblica illuminazione della città; nonostante le difficoltà che si dovettero affrontare nel periodo del primo dopoguerra, nel 1924 l'impianto fu portato a termine e Torino poteva finalmente vantare il servizio di illuminazione pubblica più moderno e ricco di tutte le città italiane. Nel 1928 fu applicato per la prima volta il comando centrale di accensione e spegnimento delle lampade.

Dagli anni 1930 agli anni 1950 Torino diventò una delle città europee all'avanguardia nella illuminazione pubblica. In particolare dal 1931 al 1937 fu realizzato il nuovo impianto di illuminazione di Via Roma con due tipi di lampioni: il Settecento grande tra piazza San Carlo e piazza Castello e le lanterne tronco-piramidali Novecento nel tratto razionalista. Dopo il 1945 i tecnici comunali furono impegnati nell'opera di ricostruzione, con impianti realizzati sulla falsariga di quelli precedenti.

 

Dove si possono vedere i due ultimi lampioni a gas di Torino

 

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Nello storico palazzo dei conti d'Harcourt in via Venti Settembre, nel tratto dietro piazza San Carlo, aveva sede, dagli anni Venti, la direzione generale dell'Italgas. Accanto al portale con imponente stemma, da dove erano passati principi e ambasciatori, splendevano due magnifici lampioni, i soli della città ancora alimentati a gas, per ricordo delle origini della Società, nata nel 1837 come «Anonima per l'illuminazione della Capitale». Pare che, a gas, i due lampioni lo siano ancora, come memoria storica.

 

I portoni di Torino

 

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Alcuni, ancora presenti in Torino, sono rinomati, come quello della Cascina Bianca al numero 5 di via Lesna, o come quello della cascina Cortinassa al numero 175 della strada di Druento. Noto anche il portone della villa denominata “Il Casino”, eretta per il conte Ottavio Pro vana di Druent, all’inizio del Settecento, sulla strada comunale di Allessano. Altro portone quello della cascina Armano, sull’antica strada di Grugliasco.

Vi fu, ad un tratto, una sorta di gara in città per scoprire il portone più grande, più forte, ossia resistente, e più apprezzabile per la confezione artistica.

Pare che. per le dimensioni, il primato spettasse a un enorme uscio in legno e ferro in zona Mirafiori Sud, da corso Orbassano 432, strada che andava a perdersi fra i prati. Così è rimasta l’antica denominazione di strada del Portone a quella che ancora oggi conduce verso il cimitero-parco di Mirafiori Sud. Celebre pure, con il volgere del tempo, il cosiddetto Portone del Diavolo (v.). Portone storico al numero 32 di via delle Orfane, che conduce nei sotterranei dove un tempo vi erano le cosiddette “ghiacciaie” di Torino per la conservazione delle derrate alimentari.

Portone ligneo di buon interesse è in corso Regina Margherita, al numero 148. Raffigura una colonna, da un’antica famiglia che l’abitò, simbolo araldico per esprimere costanza, prudenza e forza. Nel cuore della città, suscitava attrazione sul passante meno distratto il portone al numero 2 di Vicolo Santa Maria, in stile barocco, in una pregevole cornice di rilievi a stucco. È scomparso senza che se ne sia avuta una spiegazione accettabile. Al suo posto è stato eretto un muro coperto di multicolori graffiti.

Il “Portone del diavolo” è nel palazzo in via Venti Settembre sull’angolo con via Alfieri, attualmente sede di un istituto di credito. Era in origine il portone del Palazzo Trucchi di Levaldigi. Sul battacchio bronzeo della robusta porta è visibile un diavolo sogghignante. Il pesante uscio si collega a una delle leggende fiorite intorno al palazzo, come se in poche ore, in una sola notte, fosse stato sistemato sui cardini, quasi si trattasse d’una operazione diabolica da portare a termine di nascosto approfittando dell’oscurità.

 

La toponomastica di Torino

 

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centosessantasei santi all’ufficio postale

Torino fu una città tanto cattolica che, sino alla seconda metà dell'Ottocento, fu divisa in centosessanta isolati, ciascuno dei quali aveva il nome di un santo. Niente indirizzi, qui, ma l'indicazione del protettore del «quadrato», come lo chiamavano. Neanche la Roma papale, men che meno la Milano prima spagnola e poi austriaca hanno mai avuto una toponomastica urbana così interamente religiosa.

 

come gli eventi del fascismo e della guerra hanno cambiato la toponomastica torinese

Corso Unione Sovietica si chiamava Corso Stupinigi fino alla fine degli anni ’50, quando il nome fu cambiato in omaggio ad una delle nazioni alleate della seconda guerra mondiale

Piazza CLN, prima del 1935, era nota come “piazza delle due chiese”

Corso Matteotti era Corso Oporto

Corso Stati Uniti fu Corso Duca di Genova

Piazza della Repubblica era dedicata a Emanuele Filiberto

Piazza XVIII dicembre (commemorativa della uccisione nel 1922 di 14 persone a seguito di una rappresaglia delle squadre fasciste) è stata Piazza San Martino, Piazza di Porta Susa e Piazza Pietro Micca

 

la “numerazione metrica”: una peculiarità di via roma

Come possono confermare i taxisti torinesi, in Via Roma fu adottato un sistema originale per assegnare i numeri civici: ciascun ingresso ha un numero corrispondente alla sua distanza in metri dall’inizio della strada.

 

le antiche denominazioni della toponomastica torinese

Le toponomastiche urbane sono infatti lo specchio dei tempi e dei regimi. Come i monumenti degli sconfitti vengono spesso abbattuti a furor di popolo per essere sostituiti con quelli dei vincitori, così le targhe delle strade seguono le alterne vicende della storia dei popoli. Capita spesso che chi sia stato osannato sugli altari, cada improvvisamente nella polvere ed il passaggio dalla polvere all’oblio è spesso repentino. Così se a qualcuno caduto in disgrazia era stata dedicata la targa di una via, ecco che questa viene prontamente asportata e sostituita con una nuova, dedicata a un nuovo eroe, a un nuovo idolo, al nuovo esempio perfetto di virtù. Così va il mondo: nascono nuovi miti, e si offuscano quelli del passato. Le targhe delle vie e delle piazze cambiano, perché cambiano i tempi: esse non riflettono soltanto i mutamenti politici e sociali, ma anche i cambiamenti degli stili di vita dei popoli attraverso i secoli, testimoniando – per ogni epoca – persino le varie attività artistiche e professionali più in auge nei vari momenti storici e talora testimoniano addirittura i divertimenti e le passioni sportive tipiche di un’epoca.

Sapevate, ad esempio, che a Torino – nell’antico centro storico del quadrilatero romano – c’era la Contrada dei Pasticceri? E che ce n’era un’altra chiama degli Argentieri? Non c’è da stupirsi, perché tra il Settecento e l’Ottocento, Torino era sinonimo di eccellenza internazionale nell’arte della pasticceria, così come nella lavorazione dell’argento: i maestri pasticceri ed i cesellatori torinesi erano noti in tutte le corti europee per l’eccellenza dei loro prodotti e dei loro manufatti. E le loro botteghe specializzate erano così numerose da occupare un’intera contrada.

E sapevate che l’attuale Via Giolitti era chiamata Contrada dell’Ospedale, perché conduceva dritto dritto all’Ospedale Maggiore di San Giovanni (ora San Giovanni Vecchio)?

E la Contrada Paesana? Era quel tratto di Via della Consolata compreso tra Contrada Dora Grossa (ora Via Garibaldi) e Piazza Susina. Era così chiamata perché su di essa si affacciava Palazzo Saluzzo di Paesana. Per la cronaca: Piazza Susina era la Piazza che dal 1860 prese il nome di Piazza Savoia.

E Contrada della Pallamano? Questo nome è davvero curioso. Fu aperta nel 1855 al Valentino, e corrispondeva all’attuale Via Oddino Morgari: era così chiamata perché portava allo slargo in cui si praticava il popolarissimo gioco della pallamano.

E potremmo continuare ancora a lungo. Fidatevi: c’era, ad esempio, la vituperata Contrada delle Gabelle, l’intrigante Vicolo del Gallo, la Contrada dei Pellicciai, la Contrada del Gambero Rosso (un segmento dell’attuale Via Bertola), la Contrada del Ghetto (il tratto dell’attuale Via Bogino, compreso tra Via Maria Vittoria e Via Principe Amedeo), e persino la Contrada delle Ghiacciaie (corrispondente all’attuale Via Giulio).

La toponomastica torinese vantava decine di strade dal nome che oggi ci appare buffo o quantomeno curioso: eppure, ai tempi, quel modo di chiamare le strade aveva una ragion d’essere. Certi toponimi ne rendevano più facile e immediata la ricerca, perché identificavano ogni singola via con la tipica attività svolta nelle botteghe artigiane che su di essa si affacciavano, oppure con il nome di una Chiesa, o del principale palazzo privato o istituzionale che nella contrada aveva sede: un ospedale, il tribunale, una casa di accoglienza per le orfanelle, un istituto di pena, un albergo, la dogana, l’ufficio delle tasse e via dicendo.

Pensate che a Torino, nell’area più antica della città, esisteva persino una Contrada della Palma (evidentemente a lato di qualche palazzo della via era cresciuta una palma da datteri, in effetti alquanto insolita per una città come Torino, o forse lì c’era un ostello o una taverna con quel nome che rievocava paesi vagamente esotici). Quella strada (chissà: forse la palma s’era un giorno inaridita) venne poi chiamata dell’Anello d’Oro, e dopo ancora dei Canestrelli, dal nome di due alberghi particolarmente attivi sulla contrada stessa. La citata contrada era a ridosso della Contrada Nuova (la via Roma d’oggi) e corrispondeva all’incirca all’odierna Via Viotti. Negli ultimi anni del 1700, in Contrada della Palma, al notissimo Caffè Marsiglia, si davano convegno i giacobini torinesi.

Delle antiche denominazioni storiche, alcune risalenti all’epoca medievale, a Torino ne son rimaste poche, a differenza di quanto è successo per altre città (la toponomastica romana, ad esempio, conserva decine di nomi suggestivi, davvero curiosi e strambi, spesso creati dal popolo stesso, e proprio per questo motivo di grande fascino). Peccato che a Torino, di quel modo pittoresco di chiamare le strade e le piazze non ci siano rimasti che pochissimi esempi, come la Via delle tre Galline, la Via dei Mercanti (peraltro solo per un tratto, essendo un segmento della contrada recentemente dedicato a San Camillo de Lellis), la Via delle Orfane, e poche altre ancora.

l’origine del nome di via cernaia

Via Cernaia, anzi Via della Cernaia, venne intitolata così per ricordare l’omonima vittoriosa battaglia della Cernaia, combattuta dall’Esercito Sardo in occasione della guerra di Crimea il 16 agosto del 1855. La Cernaia è un fiume che sfocia nel Mar Nero, e le sue sponde furono teatro di una dura e sanguinosa battaglia. Il fatto curioso è che quel fiume non si chiamava (né si chiama) esattamente così: la corretta grafia del toponimo dovrebbe essere infatti “Čërnaja”, o meglio: “Čërnaja Rečka”, ovvero Fiume Cernaia. La grafia originale, tutto sommato, non è dissimile da quella italiana. Ma è la pronuncia russa che suona alquanto diversa: il termine dovrebbe essere più propriamente pronunciato “Ciòrnaia”, o – meglio ancora – “Ciòrnaia Rièchka“. I Torinesi dell’epoca preferirono tuttavia adottare la pronuncia italiana. Quando si volle dedicare la strada torinese alla nota battaglia pare infatti che qualcuno avesse fatto notare che il toponimo, se pronunciato nella versione originale, sarebbe risuonato in modo troppo simile al termine piemontese “ciòrgna”. In effetti, quand’è aggettivo, il vocabolo piemontese ciòrgna significa “sorda”. Ma come sostantivo assume un significato decisamente più negativo, se non addirittura da caserma: ciòrgna è infatti una donna moralmente abietta, ma quello è anche il termine con cui il popolino chiamava comunemente l’organo sessuale femminile. Oggi sono rimasti in pochi a parlare, e persino a capire, il piemontese. Ma allora la lingua subalpina era parlata dalla maggior parte dei Torinesi. E quel termine sarebbe risuonato in modo troppo evocativo di pensieri… osé. Sembra allora che, in omaggio al puritanesimo e al garbo subalpino ancora dilagante nell’epoca, si sia preferito alterare un po’ la corretta grafia (ma soprattutto la pronuncia) del toponimo originale. L’elegante contrada torinese porticata da un lato, si chiamò così Via Cernaia, e fu evitata per sempre ogni maliziosa allusione. Perché l’abbiamo detto: la toponomastica è una cosa seria.

 

Il passeggio sui selciati di Torino

 

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[da Guglielmo Stefani, Torino e i suoi dintorni (1852)]

Una delle specialità torinesi su cui fermeremo l’occhio, ma non il piede del viaggiatore, sono que’ciottoli variopinti che servono al selciato delle contrade c vengono rotolati c strascinati giù dalla Dora, dalla Stura c dall’Orco. Appartengono essi ad una specie di serpentina durissima, di colore verde oscuro, spesso coperti di macchie grigio-biancastre o di vene d’un verde più chiaro, e di tale una durezza che li rende atti ad essere lavorati. Infatti prima della rivoluzione francese eravi a Torino un Biagio Ferrerò, abilissimo artista che aveva cretto al Valentino una officina in cui si pulivano e lavoravano tali pietre dure colorite, e ne uscivano di bellissimi lavori in tabacchiere, bottoni per vestiti ed utensili varii, ch’crano assai ricercati dai nostrali c dai forastici!. Oltre ai ciottoli serpentinosi havvene di gialli, di rossi ed altri di vario colore. Vi si rinviene anche il quarzo variolito, il dialaggio smaragdite, ecc.

Fatevi a percorrere le vie di Torino, dopo un acquazzone di estate, esaminate le varietà infinite di pietra di cui è composto il suo selciato, e quella passeggiata (siccome nota un arguto viaggiatore), potrà servirvi al pari, o forse meglio, di lezione di litologia.

La prima impressione morale che riceve chi visita Torino è quella delle tranquille abitudini dc’suoi abitanti: essi percorrono durante le ore del giorno numerosi e affaccendati le vie della capitale non mostrando di avere altro interesse che quello de’propri negozi. La flànerie, questa nuova specie di occupazione inventata a Parigi che consiste ncll’andar baloccando senza occuparsi di nulla, non fa breccia a Torino. Durante il giorno non si passeggia, si cammina. Ma la sera la cosa è affatto diversa: c’si può dire che in quell’ora la città muta d’aspetto. Una delle abitudini più care ai torinesi è quella della passeggiata: la passeggiata dopo gli affari è per essi loro una necessità, una misura d’igiene. Costretti in generale, anche la gente agiata, ad abitare in case poco spaziose, e i meno agiati in quarti e quinti piani o in soffitta, sentono un bisogno irresistibile di aria c di moto. Nelle ore della sera, sia inverno sia estate, si può dire che tutta Torino si versi nelle sue vie, nelle piazze, ne’pubblici passeggi, dentro e fuori della città, a cercare un’atmosfera più libera c salutare.

Nell’inverno il passeggio prediletto è da Piazza Castello, lungo i portici, sino alla riva del fiume Po: nell’estate al mattino, specialmente ne’di festivi, nel giardino reale; la sera ne’giardini pubblici detti dc'Ripari, eretti sugli avanzi degli antichi bastioni, che guardano la parte nuova della città, luogo grato per liete vcrzurc, per ameni viali c per singolare amenità di prospetti. Nel mezzo al verde degli alberi sorge un magnifico caffè, foggiato a rotonda, frequentatissimo dai passeggianti. Il viale del Re offre un sito acconcio ad uno scelto c numeroso corso di carrozze; mentre i suoi lati presentano un piacevole convegno ai cittadini pedestri. In tutta la città trovi diffusa una certa aria di agiatezza sia nel materiale aspetto delle sue abitazioni, come nel vestire dc’suoi abitanti. La stessa decenza e proprietà che miri nel centro esiste anche nelle parti più remote. Pochi sono i poveri che ti sporgano la mano a chiedere l’elemosina: non incontri per le vie quelle luride e cenciose figure che pur si trovano ad ogni piè sospinto nelle altre città d’Italia e t’infondono la tristezza nell’animo. Qui la gente povera ha modo di guadagnarsi un pane, e trova ad ogni evento un Ricovero che loro apre le porte ed il cui trattamento è tale da non mettere a schifo l’entrarvi, in chi per mala sorte è costretto a vivere dell’altrui carità.

Il vestire in generale è elegante: imita molto la foggia e il gusto francese; le donne di minor levatura portano tutte il capo coperto di una cuffia alla parigina. Molte artigiane vestono l’abito di seta. A Torino usarono per molti anni le dame e le borghesi portare in capo una cuffia alta mezzo braccio (raso) guarnita di pizzi, di nodi c di nastri. Nel 1715 rambasciatricc di Francia, scrive il Cibrario, giunse in città con una piccola cuffia chiamata borgogna, alta soltanto tre dita con un sol nodo di nastri: tutte le dame e cittadine pigliarono in gran fretta la nuova acconciatura, lasciando l’antica alle donne di contado, alcune delle quali la portano tuttora.

 

Alcune vie caratteristiche di Torino

 

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Il volgere degli anni cancella strade, ne apre di nuove, vede il sorgere di quartieri, mentre la città si amplia nella propria “cintura”. Sparite da tempo antiche curiose denominazioni che indicavano strade a seconda della categoria che |vi risultava più numerosa, come contrada degli Argentieri, con pregiate botteghe di orafi, incisori, abili nel produrre vasellame d’argento e posate. La contrada corrisponde a via San Tommaso, fra via Garibaldi e via Pietro Micca; contrada dei Berrettai (una parte di via Boterò); contrada dei Calderai e contrada dei Calzolai (tratti di via iv Marzo); contrada del Fieno (via Boterò); contrada delle Ghiacciaie (via e piazza Giulio); contrada dei Mercanti e delle Orfane (nelle vie che hanno mantenuto questa denominazione); contrada degli Speronari (v.), presso la chiesa del Corpus Domini; contrada dei Panierai, oggi via Palazzo di Città. Alcune strade presero nome da alberghi e antiche osterie che vi si trovavano: il Gambero, la Rosa Rossa, le Tre Galline, il Cappel Verde, i Due Buoi, la Croce d'Oro.

Molte vie, che sono invece rimaste nel contesto urbano, a volte senza neppure cambiare il nome, hanno una propria fisionomia storica e “raccontano” aspetti insoliti della città.

via cappel verde

Una delle strade più antiche di Torino, a breve distanza dal duomo di San Giovanni, trasversale di via Venti Settembre. Trae nome da un’osteria che vi apriva i battenti, detta “Del Cappel Verde" poiché nell’insegna recava un cappello da cui pendevano nappe verdi, copricapo canonicale con cui Gregorio XIII aveva voluto onorare il Capitolo della cattedrale torinese, verso la fine del suo pontificato, che si concluse nel 1585. Al numero 6 di via Cappel Verde abitava Tesorcisla Enrichetta Naum (v. Personaggi), anche se alcune fonti più antiche la dicevano in via della Basilica, comunque a breve distanza.

via palazzo di città

È il rettilineo che da piazza Castello conduce al municipio, strada antica che nella parte verso la piazza su cui si affaccia il palazzo del Comune è dotata di portici. In antiche “guide” la via venne indicata come “santa” per i due avvenimenti di cui fu scenario: “miracolo eucaristico”, del 1453 (v. Chiese, Corpus Domini) e la nascita, di fatto, del “Cottolengo”, ossia della Piccola Casa della Divina Provvidenza, scaturita da un’intuizione del canonico Giuseppe Benedetto Cottolengo (v. Santi, Cottolengo) nel 1827. In questa zona la città subì una trasformazione e un’opportuna opera di bonifica, grazie ad alcuni architetti fra cui Benedetto Alfieri, che le diedero una struttura più razionale. Sotto i portici di questa via erano offerte in vendita erbe, buone per decotti, che sembravano introdurre l’attuale erboristeria che ha, in questi paraggi, alcune botteghe di buona fama. Con gii erbaggi e le patate, nel 1861 era venduta dagli ambulanti anche un’ottima polenta fatta cuocere all’aperto, come pure un pane casalingo che i torinesi apprezzavano molto.

vicolo speronati

Scomparso del tutto dalla toponomastica torinese, è ricordato nei testi più antichi. In via Palazzo di Città, accanto alla chiesa del Corpus Domini, a sinistra guardando la facciata, si apre il vicolo che si spinge come un sentiero misterioso fra antichi edifici, passando da un cortile all’altro, tra inferriate, muri diroccati, vecchie porte, alcune murate. La stretta viuzza era parte della contrada degli Speronati, artigiani del Settecento che fabbricavano e riparavano speroni. È uno dei vicoli da imboccare per tentare un approccio con la Torino misteriosa e, per certi versi, inaccessibile.

 

Il Ghetto ebraico di Torino e le sue vie

 

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La presenza degli ebrei in Piemonte risale all’inizic del XV secolo ed è collegata all’espulsione degli ebrei francesi decretata nel 1394. La comunità più popolosa era allora quella di Savigliano, di cui si hanno notizie fin dal 1404, mentre a Torino gli ebrei furono ammessi ufficialmente solo nel 1424. Gli Statuta Sabaudiae di Amedeo Vili (1430) regolamentarono le loro condizioni di vita: rigida separazione tra ebrei e cristiani, segno giallo distintivo, limitazione delle sinagoghe, ma anche rispetto della libertà religiosa. Nel Cinquecento, con la cacciata dalla Spagna, numerosi gruppi di ebrei approdarono in Piemonte alla ricerca di sicurezza e stabilità, dedicandosi per lo più ad attività commerciali, una delle poche loro concesse. La Controriforma sancì un radicale peggioramento di vita delle comunità.

Nel 1679, Maria Giovanna Battista di Nemours, reggente, stabilì con un decreto la creazione del ghetto di Torino, primo e unico esistente in Piemonte e nel Ducato da lei governato, fino al 1723. Venne collocato nell'ex area dell'Ospedale di Carità, che occupava l'intero isolato del Beato Amedeo, su contrada San Filippo, qui furono recuperati preesistenti edifici, che erano dedicati all'ospitalità dei poveri, spostati nel Palazzo degli stemmi in via Po, per sistemare la quasi totalità delle famiglie ebree. L'ingresso principale era allora in contrada San Filippo (oggi via Maria Vittoria). Era strutturato in cinque cortili - detti Cortile Grande, dei preti, della vite, della taverna e della terrazza - tra loro comunicanti attraverso dei corridoi coperti, chiamati Portici oscuri. Nel Cortile della vite si trovava la Sinagoga di rito spagnolo (Sefardita - Sefar in ebraico signica Spagna), mentre quella di rito italiano era nel Cortile Grande. Il Cortile della terrazza era adibito a forno per la cottura delle azzime, mentre nel sottosuolo del Cortile Grande c'era la vasca del bagno rituale, il Mikvè. La crescita della popolazione - più di mille persone - e l'arrivo degli ebrei di Cuorgnè, resero necessario nel 1724 l'ampliamento del ghetto, utilizzando l'edificio sito nell'isolato adiacente di San Benedetto, con l'ingresso principale in via del Moro, oggi via des Ambrois (ancora oggi è visibile il portale), che ospitava anche la Sinagoga di rito tedesco (Askenazita). Molto più densi rispetto agli isolati contigui, gli edifici del ghetto si distinguono nelle loro facciate: a parità di altezza con le case limitrofe, sono sovrapposti 4 piani più un ammezzato. All'interno erano collocate tutte le principali attività necessarie alla comunità. Le attività lavorative degli ebrei erano per lo più limitate a lavori artigianali, quali sarti, calzolai e altre piccole attività.

Ancora oggi l’isolato compreso tra queste vie si distingue da quelli circostanti per alcune peculiarità, come gli otto cancelli di ferro battuto tutti uguali attraverso i quali si accede ai vari cortili lungo tre lati (mentre dal lato di via Principe Amedeo, che non presentava aperture verso la strada, si accede soltanto attraverso alcune porticine di legno di epoca evidentemente più recente). Anche l’interno dell’isolato, un pittoresco e confusionario coacervo di cortiletti, ballatoi e torrette, evoca quella che poteva essere la vita di un universo chiuso come quello del ghetto. Nei pressi della limitrofa piazza Carlina, dove la comunità, arrivata a più di 1300 persone si era espansa nel corso del Settecento, fino alla fine del XIX secolo esisteva una trattoria dove veniva servito il cibo previsto dalle norme rituali.

Con le Regie Patenti di Carlo Alberto (Lo Statuto, firmato da Carlo Alberto il 4 marzo, getta le basi per l’abolizione delle discriminazioni giuridiche a danno degli ebrei, i cui diritti civili vengono riconosciuti con il regio decreto del 29 marzo 1848, n. 688; il decreto luogotenenziale 15 aprile 1848, n.735 ammette gli israeliti al servizio militare. Finalmente, la legge 29 giugno 1848, n. 735, dispone il pieno riconoscimento anche dei diritti politici: “La differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici ed alla ammissibilità alle cariche civili e militari”), il ghetto non ebbe più la necessità di esistere, poiché gli ebrei potevano acquistare alloggi anche in altre zone della città e quindi il ghetto si svuotò progressivamente e gli stabili vennero venduti e ristrutturati, è infatti ottocentesca e neobarocca l'immagine attuale dell'isolato del ghetto. I cancelli che ancora oggi sono visibili non sono i cancelli del ghetto, anche perché non corrispondono alle 4 aperture sulle vie del quadrilatero tra le vie San Francesco da Paola, Maria Vittoria, Bogino e Principe Amedeo. L'unica apertura originale corrisponde all'ancora esistente portone centrale dell'isolato dalla parte di via Principe Amedeo, mentre tutti gli altri cancelli vennero posti dopo il 1848. Il portone principale del ghetto era nell'attuale via Maria Vittoria, in posizione centrale e veniva chiuso dall'esterno alle 23, per evitare che entrassero estranei per fare affari con gli ebrei che tenevano il banco dei pegni, dando denaro in cambio di oggetti di valore.

Nella seconda metà dell'Ottocento dunque i palazzi del ghetto vennero venduti e ristrutturati, le famiglie ebree poterono trasferirsi anche in altri quartieri della città.

Ottenuta l’emancipazione gli ebrei di Torino decisero di manifestare la loro nuova condizione giuridica e civile con una grandiosa sinagoga. Dopo essere stata costretta ad abbandonare per ragioni economiche il progetto antonelliano la comunità individuò una nuova area vicino al Tempio Valdese e nel 1880 affidò la costruzione dell’edificio all’in-gegner Enrico Petiti. La Sinagoga, inaugurata il 16 febbraio 1884, può contenere fino a 1400 persone ed è un esempio di eclettismo architettonico, di fusione tra un misurato classicismo ed elementi di stile moresco, in omaggio alla moda e al gusto del tempo. La facciata di struttura massiccia è alleggerita da elementi stilistici e inserti decorativi, con un effetto policromo dovuto all’alternanza tra il granito, la pietra bianca e l’intonaco a coloritura bruna. Quattro cupole a bulbo sormontano altrettanti torrioni posti ai quattro angoli dell’edificio, mentre due ordini di loggiati corrono sui lati, e il matroneo, al primo piano, gira su tre. Di particolare pregio e ricercatezza erano gli interni e gli arredi, andati completamente distrutti da un bombardamento nel 1942, e solo parzialmente ricostruiti nel 1949. La curiosa struttura dell’opera provocò numerose critiche e discussioni tra fautori e detrattori del nuovo tempio, e animò il confronto tra questo e la Mole dell’Antonelli. Nell’aprile del 1884 sul periodico «L’illustrazione italiana» così viene descritto l’edificio realizzato da Petiti: «L’assieme non potrebbe presentarsi all’occhio più bellamente, più artisticamente. Il fabbricato sopra quaranta metri di lunghezza, ne ha ventiquattro di larghezza; le torri sono alte ventisette metri fino alle merlature, i cupolini alti undici metri [...]. All’interno la splendidissima sala è lunga ben trentacinque metri, larga oltre ventidue e alta sedici [...]. Quanti prestarono la loro opera nella formazione di questo importante edilìzio hanno diritto alla pubblica lode».

Nel 1972 nei sotterranei della Sinagoga, nei locali adibiti alla cottura delle azzime, l’architetto Giorgio Olivetti ha realizzato una suggestiva sinagoga a forma di anfiteatro, con soffitto a volte e le pareti lasciate grezze con i mattoni a vista, i cui magnifici arredi sacri provengono dalla smantellata sinagoga barocca di Chieri. Un muretto di mattoni forati separa questa sinagoga piccola da una sala di preghiera. Sei file di banchi sono poste di fronte a un prezioso Aron ligneo del Settecento, l’armadio santo in cui vengono custoditi i rotoli della legge di Mosè. Sulle antine, dipinte di nero nel 1849 in segno di lutto per la morte di Carlo Alberto, sono riprodotte due pregevoli immagini dorate che richiamano Gerusalemme.

 

La via dei Valdesi a Torino

 

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C'è una sorta di curioso destino per una delle due tradizionali minoranze religiose della città. In effetti, i valdesi stanno nella via dedicata all'unico Papa piemontese, proclamato addirittura santo, Pio Quinto, da Bosco Marengo. Papa che continuò a comportarsi da quell'austero Grande Inquisitore che era stato e che fu sempre implacabile con chi non professasse l'ortodossia cattolica. E' il Papa, fra l'altro, di Lepanto. I valdesi, che hanno qui pure la casa editrice e la redazione del loro settimanale, hanno decanonizzato quel Papa, comprensibilmente sgradito: dunque, hanno ripiegato su un pragmatico «via Pio Quinto», senza il «San».

 

 

 

 

 

LA TORINO DEL SILENZIO: CIMITERI, MAUSOLEI, LUOGHI COMMEMORATIVI

 

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I cuori sepolti e il cuore perduto di Eugenio di Savoia

 

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Disseccati, ridotti quasi in polvere, chiusi in teche di metallo. I cuori costituiscono un enigma storico anche per Torino. Quando la chirurgia era ben lontana dai trapianti, in alcune Corti europee si era diffusa l’usanza di asportare il cuore prima di dare sepoltura a un re, a un principe, a qualche personaggio illustre. Ciò infondeva la certezza che, prelevato il cuore, lo scomparso era senza alcun dubbio morto; la paura d’essere sepolto vivo pare fosse allora assai diffusa. La pratica consentiva poi di serbare, oltre alla salma, una reliquia in più del defunto. Vi era, inoltre, la possibilità di appagare le richieste di una località, di una congregazione, di qualche particolare ente, che richiedeva l’onore di ospitare le spoglie dello scomparso. La sepoltura però doveva avvenire in un certo luogo, nella capitale di un regno o nel monumento funebre spesso già edificato e predisposto. Il cuore, racchiuso in una teca, consentiva di soddisfare una richiesta. Riccardo, re d’Inghilterra, fu sepolto a Frontevault, mentre il suo cuore è conservato nella cattedrale di Rouen. La chiesa torinese di San Francesco da Paola, in via Po, venne eretta come ex voto di Maria Cristina di Francia. Ai piedi dell’altare della cappella di Maria Ausiliatrice, c’è la traccia di una pietra sotto cui era conservato, ih un loculo, il cuore del cardinale Maurizio, e pare vi fosse là pure il cuore della principessa Ludovica di Savoia, sua nipote e moglie. Il cardinale, uno dei protagonisti della storia torinese e piemontese, fu uno dei cognati contro cui ebbe a lottare Maria Cristina, Madama Reale, durante la sua reggenza, per difendere il diritto di successione al trono di suo figlio, il futuro Carlo Emanuele u. Maurizio spirò il 5 ottobre del 1658 e aveva disposto che il suo cuore andasse alla chiesa di via Po. Nella chiesa di San Carlo trovarono posto, come segnala una lapide, i cuori di due principi, Emanuele Filiberto, deceduto nel 1676, e di Ludovico Giulio, morto nel 1683, fratelli del più noto Eugenio di Savoia. Nel marmo sta scritto, fra l’altro, Hic sita sua corda voluere. Dove il latino voluere, sta per voluerunt. Essi «vollero che i loro cuori fossero in questo luogo». Difficile dire se sotto la lastra di marmo i due cuori siano realmente sepolti.

Qualche dubbio è legittimo, soprattutto se si pensa alla misteriosa sorte del cuore del principe Eugenio che dovrebbe essere a Superga, dove invece non se ne trova traccia. Nella basilica, quando si celebrò il duecentocinquantesimo della morte di Eugenio, nel 1986, erano arrivati studiosi di storia ed esperti d’arte, interessati alla reliquia.

La consideravano conservata a Torino affidandosi a quanto i biografi hanno affermato, certi che nulla fosse mutato dopo ciò che aveva scritto Antoine Bethouart nel suo Le Prince Eugene de Savoie, soldat, diplomate et mecene, il quale afferma che il cuore di Eugenio era stato «inumato a Superga, presso Torino, nel corso di solenni esequie». Non ci si immaginava che qualcuno potesse aver sottratto il cuore per riportarlo a Vienna, in un’epoca difficile da precisare, accanto - anzi sopra - agli altri resti di Eugenio, sotto il Duomo di Santo Stefano, nella Kreuzkapelle.

Non è, del resto, certo che il cuore di Eugenio sia stato a Superga per cui sarebbe difficile parlare di una “sottrazione” della reliquia, portata via da Torino chissà quando e in quali circostanze. Eugenio di Savoia morì a Vienna il 21 aprile 1736 senza lasciare un testamento che destinasse il suo tesoro di castelli, palazzi, collezioni d’arte, mobili, libri. L’imperatore Carlo vi designò erede Vittoria di Carignano, figlia del fratello di Eugenio, Luigi Tommaso, conte di Soissons. Coloro che si trovavano più vicini al principe - il conte Tarouca, ambasciatore portoghese, e il nunzio apostolico a Vienna, monsignor Domenico Passione - proposero a Carlo vi di seppellire il cuore di Eugenio accanto a quelli di componenti la dinastia degli Asburgico, come «speciale riconoscimento per lo stratega sabaudo», ma l’imperatore rifiutò quel gesto. Il 26 aprile Eugenio fu sepolto nella cripta sotterranea della Kreuzkapelle, nel Duomo di Santo Stefano. La bara fu deposta sul pavimento accanto ai feretri di altri congiunti. Alla funzione non assistette nessun rappresentante sabaudo. C’era soltanto l’ambasciatore a Vienna di Carlo Emanuele m di Savoia, con il corpo diplomatico.

Non vi è documento che possa provare come il cuore di Eugenio fosse stato prelevato prima deU*inumazione, ma molte fonti riferiscono che il cuore, chiuso in un astuccio d’argento, fu inviato a Torino. Il successivo 9 giugno venne solennemente accolto nella chiesa metropolitana di San Giovanni Battista e due giorni dopo portato nella basilica di Superga.

Il 21 maggio 1974, nel corso degli scavi per la metropolitana viennese, si riaprì la cripta della Kreuzkapelle. L’ispezione fu eseguita alla presenza del cardinale di Vienna, Kònig, e dell’arcivescovo Jachym. Tre bare di legno lavorato apparvero sul pavimento della cripta. L’ultima di destra, quella del principe Eugenio, era la più danneggiata dal tempo. Sul coperchio si trovava una teca d’argento a forma di cuore con incisa la scritta latina Cor Serenissimi Eugenii Franchis Sabaudi Principi Qui Mortuus Est Vìenaie. Segue la data della morte del principe.

Come poteva il cuore trovarsi sulla bara? Taluni furono propensi a credere che il cuore di Eugenio fosse stato riportato nella capitale austriaca senza rumore, per evitare polemiche. Molti ritengono che «il cuore sia tornato a casa». Altri pensano fosse stato tolto da Superga quando la basilica fu sul punto di essere raggiunta dalla ventata rivoluzionaria e profanatrice dei giacobini, ma è anche possibile che a Superga il cuore di Eugenio non fosse mai pervenuto.

 

Torino città delle reliquie

 

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Oltre che di suffragi per i morti, Torino è città di un altro abominio per eccellenza, stando alla Riforma: quelle reliquie dei santi contro le quali Calvino scrisse un trattato furibondo. In una cappella un po' lugubre sotto il santuario di Maria Ausiliatrice, c'è una raccolta che dicono tra le maggiori al mondo e che costituisce un'altra delle meraviglie della città. Ma di reliquie abbondano tutte le chiese della città: sino agli inizi del Novecento erano esposte nei giorni liturgici dei santi cui appartenevano, si stampava ogni anno un apposito calendario, grazie al quale i torinesi potevano recarsi a venerarle. E lo facevano davvero, spostandosi quotidianamente da una chiesa all'altra. C'è un libro, Torino sacra, del canonico Giuseppe Arneudo, stampato nel 1898: a ogni descrizione di parrocchia o, in genere, di edificio sacro, segue un capitoletto con le reliquie che vi sono conservate ed esposte ed è incredibile scoprire la quantità e la varietà dei venerati reperti. Le cronache parlano di aristocratici e di borghesi torinesi che si rovinarono per acquistare questi «segni anatomici» della santità.

Tra le reliquie della Chiesa di Maria Ausiliatrice c’è anche una reliquia del legno della Vera Croce. Dire che la Cripta ha “molte” reliquie è un eufemismo: la cripta trabocca di reliquie di ogni foggia e misura, di tutti i santi possibili ed immaginabili, più un buon numero di beati, venerabili ed altri personaggi minori, in innumerevoli teche. Sono oltre cinquemila quelle in mostra, con ancora molte altre immagazzinate in attesa di essere riordinate ed esposte nelle cappelle laterali.

La reliquia più importante, il frammento del legno della Vera Croce, fa bella mostra di sé al posto d'onore nell'abside, in una teca che divide con un flacone contenente alcune gocce del sangue di Cristo.

Una lapide alla base delle scale, fa sapere che questa gigantesca collezione di ossa venerabili apparteneva ad un privato, che l'aveva raccolta nel corso della sua vita e lasciata in eredità alla basilica intorno al 1920. Chissà a cosa assomigliava la casa di questo insolito personaggio, e come avvrà fatto a convincere sua moglie ad accettare questa sua piccola, innocua mania magari aveva riconvertito in cripta l'infernotto sotto la cantina.

La collezione è talmente vasta da includere tutti i santi del calendario, e molti altri, dai nomi più improbabili, come San Gingulfo, di cui si custodisce la falange. Una parte della cripta ospita, insieme ad alcune brutte tele ottocentesche, le reliquie dei santi più antichi di Torino, San Massimo ed i martiri della Legione Tebea, con lapidi che recano iscrizioni in latino con le loro storie.

 

fonti:

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, versione eBook, posiz. 626,8

https://www.cicap.org/piemonte/cicap.php?section=indagini_in&content=reliquie

 

I Piemontesi e i morti

 

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Pensando alle tradizioni collegate alla festa di Halloween, pochi sanno che anche in Piemonte esisteva, e forse esiste ancora, la credenza che avevano i Celti d’Irlanda e della Scozia a proposito dei morti, vale a dire che tornassero sulla terra nella notte fra la fine di ottobre e i primi di novembre.

La prima di queste tradizioni era quella di mettere da parte delle vivande in modo che i morti potessero nutrirsi. Molti anni fa, a Torino, c’era ancora gente che, alla vigilia dei Santi, metteva sulla tavola una bella tovaglia bianca e poi, prima di andare a dormire, lasciava sopra un vassoio pieno di cose da mangiare, per i morti. Questo vassoio era pieno di castagne bollite e già pelate. Sembra che l’indomani mattina, quando la gente si svegliava, le castagne bianche fossero sparite e nel vassoio restassero solo le briciole, come se i morti avessero voluto dire ai padroni di casa: “grazie ne abbiamo avuto abbastanza!”.

Anche in Irlanda e in altre regioni celtiche, l’ultima sera di ottobre, era normale lasciare cibo per i morti, e forse questa l’usanza, che in genere gli studiosi del folklore credono sparita dal V secolo, deve essere molto più vecchia perché in Piemonte i Celti esistevano prima della conquista romana e sarebbe sbagliato pensare che tutte queste cerimonie siano collegate alle feste romane della dea Pomona o di Parentalia. E ciò anche perché queste feste non prevedevano il ritorno dei defunti sulla terra, né la famosa processione che si trova nella tradizione celtica.

 

La processione dei morti

 

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Nell’Alta Langa si raccontava una storia sulla processione dei morti che aveva sentito in una veglia a casa di parenti. In poche parole si trattava di un giovanotto che la sera del giorno dei morti, invece di stare a casa con i suoi, aveva preferito andare in giro con gli amici. E bene, una di queste sere, tornando a casa dopo aver lasciato gli amici, si è imbattuto nella processione dei defunti, che marciavano uno dietro l’altro facendosi luce con delle candele. Ad un certo punto, uno di questi spiriti ha sporto la sua candela al giovanotto che l’ha presa, ma arrivato a casa, si è accorto che la candela che gli aveva dato lo spirito era uno stinco.

Con tutta probabilità, negli anni passati l’idea della processione dei morti doveva essere molto radicata nell’universo concettuale di molti piemontesi, anche se se ne parlava poco. Malgrado questo, possiamo trovarne una testimonianza nell’opera di Luigi Pietracqua, uno degli scrittori più prolifici della letteratura in piemontese. Accanto ai vari romanzi come Lucio dle Venaria, Don Pipeta l’asile, Pietracqua, nato a Voghera nel 1832 e morto a Torino nel 1901, ha anche scritto una quarantina di commedie e varie poesie di cui una è intitolata appunto La sèira dij mort. Questa poesia è stata scritta dopo la protesta dei torinesi per il trasferimento della capitale da Torino a Firenze.

 

Il cimitero monumentale di Torino

 

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Una curiosità: il Cimitero Monumentale di Torino è stato ribattezzato con questo nome solo di recente, ad imitazione del Cimitero monumentale di Milano. In precedenza si chiamava “Camposanto Generale”, e non ci andava nessuno se non per necessità. Anche se possiede più monumenti e personaggi insigni del Cimitero Monumentale di Milano, i Milanesi, col loro istinto turistico, sono riusciti, rinominando “Monumentale” il loro camposanto, a farne meta affollatissima di turisti, giapponesi e americani in testa, mentre i Torinesi andavano al loro Cimitero per accudire con discrezione i loro defunti. E’ solo di recente che il Camposanto Generale, ribattezzato “Cimitero Monumentale”, è stato riscoperto grazie alla sua straordinaria ricchezza di monumenti, di personaggi e di storie.

È noto che l’indole pionieristica degli abitanti subalpini si manifesti in molti campi e così è stato anche per quanto riguarda la costruzione dei cimiteri. Infatti, con il Decreto Regio emanato dal castello di Moncalieri il 25 novembre 1777, il re di Sardegna Vittorio Amedeo III di Savoia anticipava di svariati anni l’editto francese. L’estate molto afosa del 1776 aveva aggravato la già precaria situazione igienica di Torino, alimentando il terrore di un’ondata di pestilenze. Per porvi rimedio, il sovrano si risolse a mettere fine alla malsana consuetudine di stipare uno sull’altro i corpi dei defunti nelle fosse presenti sotto i pavimenti delle chiese della capitale sabauda. Queste “cisterne” erano riservate ai cittadini comuni, mentre i nobili venivano sì sepolti in chiesa, ma all’interno dei sepolcreti di famiglia. Fu così che vennero costruiti due cimiteri, San Pietro in Vincoli e San Lazzaro, situati rispettivamente nei sobborghi di Porta Palazzo e di Po, ben distanti dalle mura di fortificazione che ancora cingevano Torino in quel periodo. Dopo soli cinquant’anni però, questi cimiteri risultarono insufficienti per contenere i morti di una popolazione che di anno in anno diventava sempre più numerosa. Inoltre, l’abitato in continua espansione li avrebbe presto inglobati. La loro soppressione si rese necessaria e nel 1826 si ideò un cimitero più ampio, il cosiddetto Generale.

Una commissione di specialisti istituita dal Comune individuò l’area adatta alla nuova costruzione nella zona della città denominata Regio Parco, oltre il fiume Dora Riparia. A fronte di un preventivo di spesa ammontante a 350.000 lire, il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, grande benefattore e sindaco di Torino tra 1826 e 1827, donò alla città la quasi totalità della somma.

Con questi fondi si acquistarono i terreni sui quali realizzare la necropoli torinese, che fu progettata in stile neoclassico dall’architetto Gaetano Lombardi prendendo ispirazione dal cimitero parmense della Villetta. Dopo la cerimonia della posa della prima pietra tenutasi il 17 maggio 1828, e in seguito alla solenne benedizione impartita dall’arcivescovo Colombano Chiaveroti, il cimitero Generale fu aperto alle funzioni il 5 novembre 1829. La differenza con i due più piccoli cimiteri precedenti risiedeva nell’assenza di fosse per le inumazioni comuni. Se in San Pietro in Vincoli e in San Lazzaro soltanto i nobili venivano sepolti in tombe individuali, nel neonato cimitero tutti i defunti, ricchi o poveri che fossero, avrebbero avuto una dignitosa sepoltura, ciascuno nella propria tomba.

Sin da subito il cimitero si arricchì di pregevoli sculture poste a ornamento delle tombe private e realizzate da rinomati artisti locali seguaci della purezza classicista di Antonio Canova e Bertel Thordvalsen, come Giuseppe Bogliani, Giuseppe Dini e Giacomo Spalla.

Negli anni ’40 dell’Ottocento il cimitero Generale venne ingrandito la prima volta su disegno dell’architetto Carlo Sada, per assecondare l’elevata richiesta da parte della cittadinanza di spazi per l’edificazione di sepolcri privati. Gli ampliamenti si susseguirono nella seconda metà del XIX secolo e contestualmente alla loro realizzazione vennero effettuati anche i lavori di spostamento dell’alveo della Dora, che scorreva proprio nelle adiacenze. Quelle che oggi sono considerate le aree storiche del cimitero diventarono i luoghi in cui la nobiltà e la classe sociale emergente, la borghesia, celebravano l’importanza delle loro casate attraverso la magnificenza e l’imponenza dei monumenti funebri firmati da esponenti della scultura realista e simbolista del calibro di Vincenzo Vela, Leonardo Bistolfi, Cesare Biscarra, Pietro Canonica e molti altri. Sono queste le opere a cui il cimitero deve la denominazione di Monumentale che lo contraddistingue ormai da diversi anni. Durante il Novecento il cimitero Generale raggiunse la sua attuale estensione, arrivando quasi a lambire l’antica cascina Airale che sorge oltre via Zanella, strada che delimita la parte retrostante del cimitero separandolo dal parco Colletta.

Quando si varcano i cancelli d’ingresso del Monumentale di Torino subito si percepisce come il silenzio regni incontrastato su questa Terra di Mezzo. Ogni tanto viene interrotto dal cinguettio di qualche uccello o dal fruscio di un gatto che all’improvviso sbuca fuori da un cespuglio per andare a sdraiarsi pigramente sopra una lapide. Ma è questione di un attimo e il silenzio ristabilisce il giusto ordine, ritornando ad avvolgere ogni cosa. Le sculture che si incontrano, innalzate a centinaia nel corso del tempo e rese arcane dalla vegetazione che si insinua sopra al velo intessuto dalla polvere secolare che le ricopre, possiedono un fascino magnetico che non può non attirare lo sguardo del passante inducendolo a pensare e, a volte, anche a fantasticare.

Tra le tombe di personaggi celebri sepolti nel Cimitero Monumentale di Torino ci sono quelle di Silvio Pellico, Rosa Vercellana (prima amante e poi moglie del re d’Italia Vittorio Emanuele II di Savoia e meglio nota con il nome di Bela Rosin), della principessa Jolanda di Savoia (divenuta per matrimonio contessa Calvi di Bergolo e unica Savoia sepolta in questo cimitero).

E poi il monumento del Grande Torino con i nomi di tutti i caduti, la tomba di Fred Buscaglione e ancora le tombe di Carolina Invernizio ed Edmondo De Amicis. Nel cimitero monumentale di Torino riposano anche personaggi storici importanti del Novecento e della Liberazione come Primo Levi, Dante Di Nanni, Nicola Grosa, Enrico Giachino, le sorelle Arduino. E ancora nomi celebri del periodo risorgimentale come Giuseppe Barbaroux, Eusebio Bava, Benedetto Brin e Massimo D’Azeglio e nomi celebri dell’arte e della letteratura come Mario Soldati, Gaetano Alimonda, Amalia Guglielminetti, Annie Vivanti e Luigi Spazzapan.

La tomba della sposa bambina la rappresenta distesa sopra un catafalco, alla maniera dei dormienti rinascimentali, e il suo sonno è protetto da un baldacchino di gusto neogotico circondato da piccole statuine di angeli dolenti. Teresa è ricordata come la sposa bambina, soprannome datole da qualche animo romantico rimasto ammaliato dalla sua tomba. Lo scalpello di Odoardo Tabacchi, autore di questo malinconico monumento, fu richiesto anche da Edmondo De Amicis. Lo scrittore gli commissionò infatti una scultura in bronzo che raffigurasse Furio, il figlio primogenito. Dal 1900 l’opera si trova sotto il porticato del quinto ampliamento del cimitero, a ricordare la breve esistenza di questo ragazzo che desiderava tanto diventare un poeta, ma che decise di togliersi la vita ad appena vent’anni nel 1898.

La tomba del Cavalier Giuseppe Pongilione, ideata nei minimi dettagli dall’ingegnere stesso, illustra la sua visione della vita e della morte. Per far sì che tutti potessero capire i significati reconditi sottesi alle decorazioni, Pongilione scrisse addirittura una sorta di vademecum, stampato dalla Tipografia della Real Casa, per la corretta comprensione del monumento. La tomba è conosciuta in dialetto piemontese come tomba dij rat in riferimento alla presenza di alcuni topolini, simbolo di astuzia e intraprendenza secondo il Pongilione.

Nella tomba di Giuseppina Garbiglietti la defunta, figlia del medico Antonio e moglie del conte Gioacchino Toesca di Castellazzo, è stata ritratta da Pietro della Vedova mentre leggiadra sorge dal suo feretro per essere accompagnata nell’aldilà da un angelo custode dalle ali spiegate e manda un ultimo bacio ai suoi cari. Della Vedova, definito dai contemporanei “lo scultore funerario per eccellenza”, è uno degli artisti più presenti con le sue opere all’interno del camposanto.

L’elenco delle testimonianze artistiche che rendono il cimitero Monumentale di Torino un museo a cielo aperto potrebbe proseguire all’infinito. Scoprirle una per una e restare ad ammirarle immaginando quali siano le storie che custodiscono è uno degli aspetti più intriganti e stimolanti della visita a questo luogo custode di memorie spesso smarrite.

Passeggiando per il “dormentorio de’ torinesi”, come venne definito il Monumentale in un testo di fine Ottocento, è inevitabile non arrestarsi quasi a ogni passo. Numerosi sono i nomi che si leggono incisi sulle epigrafi e che riportano alla mente le titolazioni delle vie e dei palazzi della città, oppure episodi del passato e personaggi o aziende celebri. La tomba di Amilcare Mulassano, titolare del famoso caffè aperto sotto i portici di piazza Castello durante la Belle Époque, fronteggia quella del noto cioccolatiere Silviano Venchi. A poca distanza, l’inquietante allegoria della morte, accompagnata dalla sua falce micidiale, caratterizza il sepolcro dell’imprenditore Francesco Cirio, mentre due pettorute sfingi sorvegliano l’ingresso all’enorme mausoleo che Margherita Tamagno fece erigere per celebrare suo padre, il tenore Francesco che con la sua voce faceva “tremare i lampadari del Teatro Regio”.

L’ultima dimora dell’industriale svizzero Napoleone Leumann è la tomba di famiglia nel settore del cimitero riservato ai non cattolici: l’ideatore del pittoresco villaggio operaio che sorge alle porte di Collegno era infatti di religione protestante. È vicino al campo acattolico che si può accedere anche ai settori israelitici dove, in mezzo a lapidi storte che paiono tutte uguali e sono ricoperte da ciottoli e ciuffi d’erba, si possono incontrare le sepolture di due personaggi che non necessitano di presentazioni: Primo Levi e Rita Levi-Montalcini.

Uno scabro cippo di pietra ricorda Paolo Sacchi, il soldato che si distinse per il suo coraggio durante lo scoppio della polveriera di Borgo Dora nel 1852 e che ebbe in vita l’onore di vedersi dedicata la via a fianco della stazione di Porta Nuova. Un sottile obelisco segnala la presenza della tomba di Silvio Pellico, protagonista dell’epopea risorgimentale, e una semplice epigrafe priva di ornamenti quella di Massimo d’Azeglio, primo presidente del Parlamento Subalpino. Una lastra di marmo nero a forma di savoiardo accoglie invece le spoglie dell’attore comico Erminio Macario e dei suoi congiunti.

Non mancano esponenti degli strati più alti dell’aristocrazia: la principessa Iolanda di Savoia, tumulata vicino al marito Giorgio Carlo Calvi conte di Bergolo, e l’infanta Maria Cristina di Borbone-Spagna, prozia di Juan Carlos e sposa del conte Enrico Marone Cinzano, proprietario dell’omonima azienda di liquori e presidente del Grande Torino. I calciatori scomparsi il 4 maggio 1949 nella terribile tragedia di Superga riposano quasi tutti insieme nei sotterranei che si estendono sotto le arcate del quinto ampliamento del cimitero, e sono stati sepolti vicini tra loro anche Biagio Nazzaro, Evasio Lampiano e Ernesto Giaccone, i piloti FIAT morti durante le corse automobilistiche.

Questi sono soltanto pochi esempi di come il cimitero Monumentale possa essere considerato alla stregua di una macchina del tempo con il potere di catapultare il visitatore nelle epoche passate facendogli ripercorrere fatti e incontrare illustri personalità.

un sarcofago autentico, vecchio di 4.000 anni, nel cimitero di torino

C’è davvero, è bello grosso ed è sotto il naso di tutti! Si trova nell’area scoperta della III ampliazione, nei pressi della tomba di Fred Buscaglione. Non presenta particolari decorazioni, è molto semplice, perciò può passare del tutto inosservato… ma ha più di 4000 anni! Risale all’Antico Regno (2650 a.C. circa), è in granito rosa e orna la tomba di famiglia dell’ebanista Giuseppe Parvis (Breme, 1831 – Torino, 1909). Si formò all’Accademia Albertina e fu allievo del famoso Gabriele Capello, l’artista del legno che lavorò anche nel Palazzo Reale di Torino. Nel 1859 emigrò in Egitto, dove fece fortuna grazie alla sua arte. Era molto apprezzato dal Khedivé Isma’il, che gli rilasciò un permesso per visitare tutti gli edifici interdetti agli occidentali. Prendendo appunti e realizzando schizzi di ciò che vedeva, Parvis arrivò ad inventare lo stile neomoresco (o stile Parvis), in cui l’arte italiana dell’intarsio si mischiava con quella araba, dando vita a mobili molto originali e richiestissimi, che gli fecero ottenere varie medaglie alle Esposizioni Universali. Nel 1900 lasciò l’attività ai figli e tornò a Torino, portandosi dietro il sarcofago donatogli dal Khedivé, che dal 1909 è a guardia della sua tomba nel Cimitero Monumentale di Torino.

L’ebanista non riposa all’interno del sarcofago, che è puramente decorativo in questo caso, ma nella camera sotterranea.

la tomba dij rat

Uno dei monumenti funebri più belli presenti all’interno del Cimitero Monumentale, ricchissimo di dettagli legati alla simbologia funebre, è la tomba Pongiglione, anche conosciuta come “tomba d’j rat” perché raffigurante alcuni topolini (rat in piemontese significa topo). Venne progettata dallo stesso committente, il filantropo e ingegnere Giuseppe Pongiglione, che morì nel 1900 lasciando la sua tomba al Comune di Torino, con l’obbligo di manutenzione perpetua a carico della città. Grazie ad un lascito del Pongiglione, che si dedicò soprattutto ai problemi dell’infanzia, il Comune finanziò per lungo tempo un premio, a lui intitolato, che veniva conferito annualmente ai migliori alunni delle scuole elementari.

L’opera, in marmo di Carrara e Bardiglio, è un tripudio di raffigurazioni simboliche, una rappresentazione storica, filosofica ed artistica della vita e dell’opera dell’uomo. Il Pongiglione scrisse addirittura una sorta di vademecum per la comprensione del monumento, per far si che che tutti potessero comprendere significati delle decorazioni. Sovrasta la narrazione un gruppo marmoreo in tuttotondo che rappresenta il defunto mentre esce dalla bara, con in mano lo scrigno dei ricordi e si accinge a salire in cielo, accompagnato dall’angelo protettore.

Venne realizzata dallo scultore Lorenzo Vergnano nel 1886, formatosi all’Accademia Albertina di Torino e poi emigrato a Parigi, dove fu titolare di scultura all’Accademia di Belle Arti.

personaggi famosi

Massimo D’Azeglio (Torino, 24 ottobre 1798 – 15 gennaio 1866). Protagonista del nostro Risorgimento e primo Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno di Sardegna, pronunciò la celebre frase: “S’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani”, conscio del fatto che all’unità territoriale non corrispondeva affatto quella sociale. Fu anche un importante pittore di quadri storici. Riposa nella I ampliazione del Monumentale, accanto al fratello Roberto. Il suo monumento funebre è essenziale: un’epigrafe con incisi il nome e la data della morte.

Francesco Cirio (Nizza Monferrato, 24 dicembre 1836 – Roma, 9 gennaio 1900). Ma come, non era napoletano l’inventore delle conserve e dei pelati? Sento spesso questa domanda durante le visite guidate al cimitero e la risposta è: per niente! Cirio era tutto piemontese. Nel 1856 iniziò la sua attività proprio a Torino, nella zona di Porta Palazzo, e soltanto nella prima metà nel 1900 l’azienda si trasferì in Campania. Cirio riposa nel Campo Primitivo del Monumentale, nella tomba di famiglia fatta realizzare dal fratello Clemente e impreziosita da sculture di Cesare Biscarra.

Cesare Lombroso (Verona, 6 novembre 1835 – Torino, 19 ottobre 1909). Il padre della criminologia – e fondatore del discusso Museo di Antropologia Criminale – riposa nel Famedio del Cimitero Monumentale, ovvero l’area dedicata ai benemeriti del Comune di Torino. Vicino a lui sono sepolti anche la figlia Paola, pedagogista, e il genero Mario Carrara, medico e collaboratore di Lombroso, a cui è intitolato il Parco della Pellerina. Nessun elaborato monumento funebre li ricorda, ma soltanto epigrafi commemorative.

Erminio Macario (Torino, 27 maggio 1902 – 26 marzo 1980). Uno dei più grandi attori comici italiani. Mosse i suoi primi passi sul palco insieme alla diva Isa Bluette. Nel 1930 fondò una compagnia teatrale tutta sua con cui girò l’Italia e della quale faceva parte anche la mitica Wanda Osiris. La tomba di Macario si trova nel Campo Primitivo del Monumentale. Una semplice lastra in marmo nero reca i nomi dell’artista e dei suoi famigliari, tra cui Massimo, l’unico nipote morto a 37 anni nel 2007.

Fred Buscaglione (Torino, 23 novembre 1921 – Roma, 3 febbraio 1960). Non sarà celebre quanto la tomba di Jim Morrison nel Cimitero di Père-Lachaise a Parigi, ma la tomba del cantante Fred Buscaglione è di sicuro una delle mete più gettonate da chi visita il Monumentale di Torino. Scomparso a soli 39 anni in un incidente automobilistico mentre era all’apice della carriera, Fred riposa nella III ampliazione. La sua tomba è caratterizzata da una piccola edicola, all’interno della quale alcuni ammiratori hanno lasciato dei bicchierini da whiskey per ricordare il cattivo ragazzo della musica degli anni ’50.

Silvio Pellico (Saluzzo, 25 giugno 1789 – Torino, 31 gennaio 1854). Lungo il perimetro del Campo Primitivo si trova la tomba del patriota che passò diversi anni nel duro carcere dello Spielberg, per poi terminare la sua vita come bibliotecario dei marchesi di Barolo. Il suo monumento funebre è formato da un obelisco di modesta altezza, sormontato da una piccola croce, che reca il medaglione con il ritratto di profilo del Pellico. Sotto di esso, un’iscrizione ormai quasi scomparsa ricorda l’autore de Le mie prigioni.

Edmondo de Amicis (Oneglia, 21 ottobre 1846 – Bordighera, 11 marzo 1908). Se il libro Cuore ha reso De Amicis famoso nel mondo (tanto che in Giappone è stato tratto un anime dal romanzo), meno conosciuta è la sua vita privata. Qualcosa si può scoprire osservando il monumento funebre presente al Monumentale sotto le arcate della V ampliazione… una scultura raffigura un giovane che tiene in mano un taccuino e una matita. Non è lo scrittore, bensì il suo figlio primogenito, il poeta Furio De Amicis. Il ragazzo morì suicida a soli 20 anni nel 1898 e ancora oggi le ragioni di questo gesto non sono del tutto note.

Rita Levi-Montalcini (Torino, 22 aprile 1909 – Roma, 30 dicembre 2012). La piccola grande donna dalla lunga e fruttuosa vita (vinse nel 1986 il Premio Nobel per la medicina per aver scoperto il Nerve Growth Factor, il fattore di crescita della cellula nervosa, e fu nominata nel 2001 senatrice a vita) è sepolta nel V campo israelitico del Monumentale, nella tomba della sua famiglia. Con lei riposano il padre e la madre, il fratello Gino e la sorella gemella Paola. La tomba è caratterizzata da una lunga iscrizione tratta dal III capitolo del libro dell’Ecclesiaste contenuto nella Bibbia.

Grande Torino Due sono i punti nel Monumentale di Torino in cui ricordare la leggendaria squadra che trovò la morte sul colle di Superga nell’incidente aereo del 4 maggio 1949. Il primo è l’installazione realizzata nel 2005 su progetto dell’architetto Luciano Cappellari e situata al centro dell’VIII ampliazione, nella parte nuova del cimitero. Il secondo è la tomba vera e propria sotto le arcate della V ampliazione. Da non dimenticare è la commemorazione che si tiene al Monumentale il 4 maggio a cadenza biennale. La prossima sarà nel 2016, non potete mancare.

Primo Levi (Torino, 31 luglio 1919 – 11 aprile 1987). Il luogo che accoglie le spoglie di uno dei più importanti testimoni della tragedia dell’Olocausto è il I campo israelitico, quello più antico presente nel Monumentale. La tomba di Primo Levi si trova al centro del campo. Sulla lapide, oltre al nome e alle date di nascita e morte del chimico scrittore, è il numero di matricola 174517 che gli venne tatuato al suo arrivo nel campo di prigionia di Auschwitz: “documento di infamia non per noi, ma per coloro che ora cominciano ad espiare” (Primo Levi, 1945).

la tomba di isa bluette

Una ballerina distesa a terra, i piedi nudi, le braccia sopra la testa, i capelli sciolti, gli occhi chiusi e le labbra

increspate da un lieve sorriso… è Isa Bluette, al secolo Teresa Ferrero, ritratta da Giacomo Giorgis. La sua

storia è molto romantica: è stata la più grande soubrette della rivista italiana nella prima metà del ‘900.

Scopritrice di Macario e Totò, morì di tisi a 41 anni nel 1939. Il compagno della vita, l’attore Nuto Navarrini,

volle sposarla sul letto di morte ed è sepolto insieme a lei.

tomba remondini

Guardandola di sfuggita, si potrebbe scambiare per una persona in carne e ossa che si aggira tra le tombe. Osservandola con più attenzione, si scopre che quella figura di donna è in bronzo ed è stata realizzata da Edoardo Rubino. Ferma con il braccio disteso nel gesto dell’estremo saluto, sola e isolata in mezzo agli altri monumenti, ha il potere di trasportare chi le si trova di fronte fuori dal tempo e dallo spazio e di comunicare con tutta la sua forza espressiva la malinconia e l’imperscrutabilità della Morte.

tomba braida

Il Cimitero di Staglieno custodisce il fascino androgino dell’Angelo della Morte di Giulio Monteverde, forse l’opera di arte funeraria più famosa del mondo. Il Cimitero di Torino non è però da meno! Sotto i suoi porticati si trova lo stupendo e inquietante Angelo della Morte di Leonardo Bistolfi. A guardia di una culla vuota, è avvolto da un ampio panneggio, i capelli lunghi scompigliati… distante e imperturbabile, è espressione pura del mistero del Nulla. Purtroppo ora è in pessime condizioni.

tomba sada

Giulio Monteverde rappresenta l’architetto regio Carlo Sada tutto impettito in cima a un enorme capitello rovesciato. È in alto, lontano dai comuni mortali che lo osservano a testa insù (cosa pretendiamo? È l’architetto del re, insomma!). Ma che succede sotto di lui? Una donna bellissima, l’Architettura, è seduta su un sarcofago e guarda sdegnosa un puttino alquanto panzuto che si stravacca annoiatissimo senza un briciolo di rispetto sui progetti del Sada. Chi l’ha detto che in un cimitero non si può sorridere?

tomba dini

Un vecchio dallo sguardo triste e stanco, con due lunghe ali dietro la schiena, è seduto alla base di una colonna, in cima a cui si trova il busto di un giovane uomo. È il Tempo, che ha posato vicino a sé la falce e una clessidra rotta e tiene ora in mano una pergamena su cui è scritto il famoso verso di Francesco Petrarca: «Cosa bella e mortal passa e non dura». Così lo scultore Giuseppe Dini ha voluto eternare il ricordo del figlio Dario, scomparso improvvisamente a soli 23 anni.

tomba vigo

«Ella giocava per le pinte aiole… l’ombra l’avvolse…» recita l’epigrafe tratta da una poesia di Giosuè Carducci. Il monumento, opera di Pietro Canonica, è tutto dedicato alla piccola Laura Vigo, morta nel 1907 a 9 anni. La bimba ha messo dietro la schiena il suo cerchio, ha finito di giocare. Ascolta la voce degli angeli vicini a lei e, grazie alla sensibilità che solo i bambini riescono ad avere, sa già di non essere più parte di questo mondo.

tomba toesca di castellazzo

Da un sarcofago circondato da quattro puttini, sorretta da un angelo protettivo, si alza in volo la giovane Giuseppina Garbiglietti. Due trecce tra i folti capelli sciolti, avvolta da un grande mantello, avvicina una mano alla bocca per mandare un ultimo bacio a coloro che restano. Ai suoi fianchi, i busti del padre Antonio e del marito Gioacchino Toesca di Castellazzo, che segue con lo sguardo la moglie volare via, sicuro nella sua speranza di rincontrarla nell’Altrove.

l’angelo più bello del cimitero monumentale

L’angelo più famoso dell’arte funeraria è senza dubbio quello posto dallo scultore Giuseppe Monteverde sulla tomba della famiglia Oneto nel Cimitero di Staglieno, a Genova. Eppure al Monumentale di Torino esiste un angelo che non ha nulla da invidiare a quello ligure: è l’angelo Braida realizzato dal celebre scultore Leonardo Bistolfi. Non puoi non venire ad ammirarlo!

l’egitto al cimitero monumentale

L’Egitto è presente a Torino non solo al Museo Egizio, ma anche al Cimitero Monumentale! Qui sono sepolti alcuni personaggi che hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo del museo più importante della città. Un nome per tutti? Bernardino Drovetti. Fu proprio lui a vendere ai Savoia la collezione di reperti egizi con cui nel 1824 si aprì in città il primo Museo Egizio del mondo.

Che dire poi dei tanti riferimenti alla civiltà egizia che popolano i nostri cimiteri? Piramidi, obelischi, sfingi… qual è il loro significato simbolico nell’ambito dell’arte funeraria occidentale?

leonardo bistolfi, il “poeta della morte”

Leonardo Bistolfi nacque il 15 marzo 1859 a Casale Monferrato. Di suo padre, scultore e intagliatore in legno sono note poche opere, tutte improntate ad un vivace neobarocco. Leonardo rimase orfano giovanissimo, quando il padre aveva appena 26 anni, il 30 dicembre 1861. Crebbe in casa del nonno materno, mentre la madre dovette iniziare la carriera di insegnante elementare nelle scuole della città.

Leonardo imparò a suonare il violino, ma ebbe modo anche, in maniera fortuita, ed in precocissima età, di manifestare particolari abilità nel disegno, che studiò sotto la guida energica del prof. Giosuè Archinti, e poi all’Accademia di Brera e al Conservatorio di Milano. Bistolfi si trasferì quindi a Torino per entrare nello studio di Odoardo Tabacchi, ma dopo pochi mesi aprì uno studio proprio. La sua prima commissione di rilievo fu il Monumento Funerario Braida e Fontanella, al Cimitero generale di Torino (1881), dove realizzò un Angelo della Morte imperioso ed inquietante. Fu il suo primo approccio alla statuaria funeraria ed al tema della morte, che tanto lo segnò nei decenni successivi. La svolta simbolista avvenne con quella che è divenuta una vera icona della nuova sensibilità: il monumento funebre della famiglia Pansa nel cimitero di Cuneo, la cosiddetta Sfinge, elaborata e compiuta tra il 1890 ed il 1892. A partire da quest’opera, per molti anni, Bistolfi compirà un percorso intellettuale originale, essenzialmente incentrato sul concetto della morte e dell’al di là, elaborando numerose e sempre diverse realizzazioni, tutte segnate dalla sua tormentata, a tratti anche contraddittoria, interpretazione di un tema che su di lui esercitava un segreto potente fascino.

A partire dal 1895 Bistolfi si allontanò dai concorsi pubblici e si concentrò sulla statuaria cimiteriale, fonte sicura di occasioni di lavoro ma anche di stimoli intellettuali continui. Alla Esposizione Nazionale di Belle Arti del 1898, a Torino vinse un premio di 6000 lire per Il Dolore Confortato dalle Memorie, bassorilievo per la tomba Durio al cimitero di Madonna di Campagna a Torino. Con La Croce, scultura funeraria destinata alla tomba Orsini nel cimitero di Staglieno a Genova, collocata agli inizi del 1907, Bistolfi proseguì la sua riflessione sul significato del simbolo religioso in un contesto laico, un filone di pensieri che originava dall’ambigua figura del Cristo che cammina sulle acque (1896).

Nel 1908, tra altri importanti lavori, ortò avanti anche l’imponente gruppo del Funerale dell’Eroe del lavoro, tomba di Angelo Giorello al cimitero generale 33 di Montevideo (1907-1913). Lo scultore non più giovane portò successivamente a termine il gruppo della Morte e la Vita (Il fascino della morte), per la tomba Abegg del cimitero di Zurigo, un’altra affascinante tappa del suo “Poema della morte”. Nel 1923 scolpì il Cristo Risorto per la cappella dei Suffragi al cimitero di Staglieno, Genova. Bistolfi morì di congestione cerebrale il 2 settembre 1933, a 74 anni »(2).

 

fonti:

http://www.museotorino.it/view/s/31a58d0ae6f24558b37c2a933532c986

lo sport al monumentale

Al Monumentale si trovano le tombe di tanti sportivi: calciatori, piloti, nuotatori. Una passeggiata tra queste tombe ci rammenta come a Torino lo sport sia sempre stato di casa.

il mondo dell’imprenditoria torinese al monumentale

Scoprirete chi erano scienziati come Giovanni Plana e Michele Buniva e dove sono stati sepolti personaggi del mondo dell’imprenditoria come Francesco Cirio, il “re dei pelati”, o Napoleone Leumann, l’ideatore del villaggio operaio di Collegno. Caffarel, Venchi, Mulassano e molti altri imprenditori torinesi riposano al Monumentale.

il mondo letterario al monumentale

Edmondo De Amicis, Amalia Guglielminetti, Carolina Invernizio, Arturo Graf… sono tanti gli scrittori, editori e tipografi che hanno scelto di riposare tra le mura del Cimitero Monumentale di Torino. Attraverso i passi dei loro scritti, andrete scoprendo le loro ultime dimore.

il monumentale del risorgimento

Una visita al Monumentale consente di visitare anche le tombe di tanti personaggi che hanno fatto il risorgimento

alcune personalità sepolte al monumentale

Giovanni Berchet, scrittore e poeta

Carlo Biscaretti di Ruffia, illustratore, storico e progettista, fondatore dell'omonimo museo dell'automobile di Torino

Isa Bluette, cantante

Fred Buscaglione, cantautore

Angelo Brofferio, poeta e politico

I caduti della Strage di Torino

Luigi Cibrario, storico e politico risorgimentale

Francesco Cirio, imprenditore

Massimo d'Azeglio, politico risorgimentale

Edmondo De Amicis, scrittore

Duo Fasano, duo canoro anni cinquanta

Bernardino Drovetti, esploratore e diplomatico

Battista "Pinin"-Farina, fondatore della casa omonima di design automobilistico

Sergio Pininfarina, fu "Pinin"-Farina, imprenditore

Galileo Ferraris, fisico e scienziato

Vincenzo Gioberti, patriota risorgimentale

Joseph Arthur de Gobineau, scrittore e filosofo

Arturo Graf, poeta e critico letterario

Carolina Invernizio, scrittrice

Iolanda Margherita di Savoia, principessa

Napoleone Leumann, imprenditore e filantropo

Primo Levi, scrittore

Grande Torino, alcune fra le vittime della Tragedia di Superga

Rita Levi Montalcini, ricercatrice, senatrice e premio Nobel per la medicina 1986

Cesare Lombroso, antropologo

Franco Lucentini, scrittore

Erminio Macario, attore

Angelo Mosso, medico e archeologo

Silvio Pellico, scrittore

Giuseppe Pomba, tipografo ed editore

Ludovico Scarfiotti, pilota automobilistico

Mario Soldati, scrittore e giornalista

Vittorio Valletta, dirigente d'azienda

Rosa Vercellana, detta La bela Rosin, moglie morganatica di Vittorio Emanuele II di Savoia

lo stile liberty al monumentale

Torino è stata la città da cui il famoso “Stile Floreale” si è diffuso nel resto d’Italia. Le sinuosità e le raffinatezze Liberty non caratterizzano solo i palazzi cittadini edificati tra Ottocento e Novecento, ma i numerosi sepolcri del Cimitero Monumentale.

gli animali misteriosi del monumentale

Sulle tombe del monumentale vengono spesso raffigurati animali simbolici: pellicani, tartarughe, farfalle, civette, sfingi, serpenti che si mordono la coda e molti altri.

la moda al monumentale

Chi l’avrebbe mai detto che anche in un cimitero si può studiare l’evoluzione della moda? Il modo di abbigliarsi è lo specchio dei tempi e va di pari passo con i cambiamenti che la società vive. Al Monumentale si possono osservare le sculture funerarie più rappresentative per ricostruire la storia degli abiti in voga tra la seconda metà del XIX secolo e i primi anni del XX secolo.

 

fonti:

https://rivistasavej.it/il-cimitero-monumentale-di-torino-5cad8fa7771d

 

Simboli massonici nel cimitero monumentale di Torino

 

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E' un culto dei morti così profondamente radicato che è sopravvissuto persino nella borghesia agnostica e massonica tra Ottocento e Novecento. Per rendersene conto, basta una visita al cimitero che molti continuano a chiamare, anonimamente, Generale: sia nei sepolcri sotto le arcate sia nelle cappelle all'aperto, si sprecano i triangoli, i pentacoli, le squadre, le fronde di acacia, ma l'imponenza stessa delle costruzioni, la cura con cui sono tenute (se la famiglia non è estinta) mostrano che l'abbandono della fede nell'Aldilà cattolico non ha scalfito il culto dei defunti che la contrassegna.

Alcuni dicono che il Cimitero di Torino è, in parte, un cimitero calvinista, di una città in cui nell’Ottocento si vide un afflusso di famiglie protestanti. Ma questo è un errore basato su una insufficiente conoscenza della storia. I cimiteri calvinisti si fanno un punto di onore teologico di essere il più possibile disadorni e anonimi. Calvino, a Ginevra, faceva fustigare in piazza quelli che erano scoperti a pregare sulle tombe dei loro morti, o anche solo a deporre un fiore. Non solo: per dare il buon esempio, lasciò ordine di seppellirlo in un luogo sconosciuto, senza alcun segno che lo identificasse, per evitare che attorno al suo corpo nascesse quella che per lui non era, come per i cattolici, una benefica devozione, ma una blasfema superstizione.

 

Quando gli Ebrei nascosero le loro ricchezze nelle tombe del Camposanto Generale

 

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Una persona degna di fede ha raccontato allo scrivente che suo nonno, che aveva per ragioni di lavoro rapporti con la Comunità Ebraica, fu contattato, durante il periodo delle persecuzioni razziali, e gli fu chiesto di nascondere una ingente quantità di ricchezze nella tomba di un suo avo. Malgrado avrebbe potuto diventare favolosamente ricco appropriandosi del bottino, non ne toccò neanche un centesimo, e i legittimi proprietari lo ripresero a guerra finita.

 

Quando i morti a Torino non si seppellivano nei cimiteri

 

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Il cimitero di San Pietro in Vincoli, costruito nel 1777 per volere di Vittorio Amedeo III, quando la città aveva già 83.000 abitanti, ha segnato l’inizio della inumazione come siamo abituati a pensarla: nei cimiteri. Ma prima, dove venivano seppelliti i cadaveri dei defunti?

Sin dal medioevo nel mondo cristiano si sviluppa il desiderio di essere seppelliti presso a delle requie. Prima i vescoti, poi dei semplici preti si farannoinumare stoto il pavimento della chiea. In seguito anche re ae aristocratici pretenderanno di essere seppelliti inchiesa. Verso la fine del XIII secolo, anche i ricchi non nobili avranno accesso alla “casa di Dio”. Secondo il proprio rango sulla terra, si viene sepolti inchiesa o intorno ad essa, sotto il portico o sotto le grondaie. Il popolo riposa tutt’intorno alla chiesa, in fosse anonime. La chiesa circondata dal cimitero ben simboleggia l’unità sociale cristiana. Dal X secolo alcune chiese sono già così sature di cadaveri che si è costretti a sconsacrarle e a convertirle in semplici cimiteri. Nel XIV secolo è necessario costruire un po’ dovunque, nei giardini attigui alla chiesa, delle strutture a volta e degli ossari; quando sono troppo pieni, i fedeli vanno a seppellire le ossa in una grande fossa scatava per l’occazione, nel corso di una cerimonia in cui ognuno porta uno scheletro.

Dal XIII secolo anche la borghesia in ascesa ntroduce all’interno della chiesa i propri motri; il clero accetta questi mercanti solo in cambio di somme di denaro sempre maggiori. Il diritto di sepoltura in chiesa, ormai acquisito per preti e nobili, viene comprato dagli altri con il ricavato dei traffici e dell’usura, nello stesso modo in cui essi si procacciano le cariche sociali e quelle di rappresentanza.

In questo periodo la chiesa non è più la sola dimora dei morti. I cimiteri si vanno estendendo intorno alla chiesa, e poi al difuori di essa

Le chiese nel Seicento come nelle epoche precedenti si riempiono di cadaveri: prima i vescovi, poi i preti, i re, poi i nobili, i borghesi, infine i ricchi aritgiani. Si seppellisce ovunque, sotto le lastre di copertura del pavimeto, divelte di continuo, ad ogni nuovo decesso, sotto le colonne, sotto il portico. Fino alla metà del XII secolo sopravvive l’uso di seppellire sotto la gronda del tetto della chiesa; alcuni importanti personaggi hanno richiesto questo strano privilegio. Quando i morti sotto il pavimento della chiesa diventano troppo numerosi, si trasportano le ossa sotto i tetti. In tal modo i fedeli sono circondati dai morti, che giacciono sotto i loro piedi e sopra le loro teste; anche per entrare in cihesa si passa sopra delle tombe, che il più delle volte non sono contrassegnate in alcun modo, né da n monumento né da una croce (quest’ultimo simbolo fa la sua comparsa molto tardi nei cimiteri). Nel cortile attiguo alla chiesa vengono seppelliti i morti poveri, ammucchiatii in grandi fose comuni, profonde cinque-dieci metri, che possono contenere fino ad un migliaio di cadaveri; coperte di lastre mal connnese fra loro, queste fosse emanavano un lezzo spaventoso, che si diffondeva per tutto il quartiere. Quando una fossa era piena, la si ricopriva di terra e se ne scavava un’altra a fianco alla precedente; in certi luoghi, durante gli inverni molto freddi, i lupi dissotterravano i cadaveri. Fino al SVII secolo, in tutti i cimiteri parrocchiali le ossa affiorano miste alle pietre e ai ciottoili.

L’affollament di scheletri nelle chiese e intorno ad esse portò all’istituzione degli ossari, che si svilupparono a partire dal XIV secolo; ossari e cimiteri furono a lungo sinonimi. Per estensione, l’ossario venne a significare, nel XVIII secolo, anche chiostro o galleria, poiché le ossa venivano ammucchiate nelle gallerie o nei portici intorni ai cimiteri delle parrocchie e sotto le volte delle navate laterali della chiesa. Nel XV secolo gli ossari, divenuti ormai poipolari (tra l’altro vi si insegnava l catechismo, vennero abbelliti con lapidi scolite ed epitaffi. Nel 1423, sul muro di fondo dell’osario degli Innocenti a Parigi, fu dipinta la celebre Danza macabra, che rappresentava trenta morti ormai decomposti a colloquio con trenta vivi. Verso la fine del XVI secolo gli ossari furono abbelliti con vetrate dipinte e decorate. Nel XV secolo cessa l’uso di seppellire negli ossari, ma la popolarità di questi luoghi sordidi non decina affatto: vengono utilizzati epr assembleee di carità, vi si impartisce la comunione nei giorni di festa, li si adorna di tappezzerie, sete, drappi. Maltrado l’odore pestilenziale, malgrado il trasporto continuo di cadaveri, nel XVIII secolol’ossario degli innocenti è un’animata meta di passeggiate almeno quanto lo saranno i portici del Palais Royal nel secolo successivo.

 

I nove cimiteri della storia di Torino

 

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Fino al 23 dicembre 1777, quando a Torino vivevano circa 83.000 persone, i torinesi come un po' tutti in Italia e in Europa erano soliti seppellire i propri cari nei cortili e giardini delle chiese, perché si credeva di favorire così l'ascesa in Paradiso. Ma l'aumento della popolazione nelle città, le epidemie e le precarie condizioni igienico-sanitarie avevano convinto Vittorio Amedeo III a emanare, il 25 novembre di quell'anno, un regio decreto subito recepito dal vescovo Francesco Lucerna Rorengo di Rorà per trovare zone al di fuori delle mura per edificarvi dei cimiteri ove procedere a sepolture e inumazioni.

Èda oltre due secoli quindi che i torinesi si recano al camposanto per trovare i propri cari che non ci sono più. Il primo cimitero realizzato nel 1778 fu quello di San Pietro in Vincoli, poco dopo ci fu quello della Rocca, detto di San Lazzaro, in riva al Po. Se quest'ultimo è oggi scomparso, quello di San Pietro in Vincoli, tra via Cigna e la Dora, fu chiuso solo nel 1945, dopo i pesanti bombardamenti della seconda guerra mondiale. Abbandonato dal 1970 al 1984, riaprì come teatro, portando a una riscoperta di questa struttura.

In realtà, anche se più che di cimitero si può parlare di insieme di tombe, già nel Medioevo esisteva un luogo di sepoltura collettiva, denominato cimitero di Sant'Andrea. Situato tra il muro di cinta romano e l'antica collocazione della chiesa di Sant'Andrea, a fine '800 vide il ritrovamento di quattro tombe e di una moneta dell'epoca di Carlo Magno.

Un altro cimitero scomparso è quello di Pozzostrada, nell'isolato di via Trecate dove si trova oggi l'impianto sportivo del Pozzomaina. Realizzato a inizio Ottocento, fu traslato in un'altra zona nel 1841. Anch'esso fu pesantemente colpito dai bombardamenti del '42, e finì per essere soppresso nel 1951.

A causa dell'aumento della popolazione, nel 1827 la città di Torino approvò il progetto di un cimitero generale, opera dell’architetto Gaetano Lombardi che scelse la collocazione del Regio Parco: sorse così il Cimitero Monumentale. La struttura del cimitero, a pianta quadrata con gli angoli smussati, era caratterizzata dalla cappella e dagli edifici di servizio in stile neoclassico. Nel corso dei decenni subì numerosi ampliamenti e nel 1882 vi fu costruito il tempio crematorio, uno dei primi in Italia.

Dopo quello monumentale, il più grande luogo di sepoltura di Torino è il Cimitero Parco, al fondo di corso Orbassano. Inaugurato nel 1972, si ispira ai modelli nordici immersi nel verde e minimalisti. Il terreno pianeggiante fu reso ondulato attraverso la creazione di collinette artificiali che nascondono i complessi di tumulazione. All’interno dei due cimiteri maggiori vi sono anche aree di sepoltura riservate alla comunità ebraica (Monumentale), evangelica (Monumentale e Parco) ed islamica (Parco), a ordini religiosi e corpi militari.

I cimiteri di Sassi, Cavoretto e Abbadia di Stura sono insediamenti a servizio delle zone urbane situate oltre i fiumi Po, Dora e Stura. Mirafiori è invece una piccola area cimiteriale, ultima testimonianza della ventina di cimiteri scomparsi a Torino tra fine Ottocento e inizio Novecento.

 

L’ossario della Gran Madre

 

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Nella chiesa della Gran Madre, c'è uno di quei posti che pochi conoscono: lugubri gallerie che contengono migliaia di scheletri di caduti della prima guerra mondiale. Proprio lì, una lapide ricorda che, dopo il disastro di Caporetto, migliaia di torinesi si riunirono per giurare che avrebbero resistito sino alla vittoria.

Si trova sotto la Chiesa della Gran Madre di Dio, la cripta realizzata in epoca fascista che fu inaugurata da Mussolini il 25 ottobre 1932. Sono riuniti nel sacrario i resti, provenienti dal Cimitero Monumentale, dei caduti durante la Grande Guerra. 3851 soldati riposano qui, vegliati dalla statua di Maria dolente. Il sacrario è aperto solo durante il periodo della commemorazione dei defunti e il 25 aprile, ma vale la pena di visitarlo, per ricordare che quelli che oggi sono soltanto dei nomi, un tempo erano ragazzi e uomini con i loro sogni e speranze.

 

Le tombe dei Savoia a Superga

 

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La Storia delle Tombe

La cripta, contenente le Tombe Reali di Casa Savoia, viene realizzata nei sotterranei della Basilica di Superga per volere del Re Vittorio Amedeo III, ma il desiderio di avere un mausoleo per i defunti dei Savoia era già nella mente del nonno, Vittorio Amedeo II.

Il progetto, affidato all’architetto Francesco Martinez nel 1774, nipote di Filippo Juvarra, è concluso nel 1778.

La pianta della Cripta si presenta a croce latina allungata e ospita 62 sepolture di Casa Savoia.

Il Chiostro

Progettato da Juvarra con una doppia sequenza di archi, il Chiostro è caratterizzato da un giardino all’italiana, decorato con siepi di bosso che creano un motivo a labirinto. Al centro del giardino è situato il pozzo, arricchito da un tettuccio a forma di pagoda cinese.

La Sala dei Papi

Diventata pinacoteca nel 1876, la Sala dei Papi era in origine il refettorio estivo per i 12 Padri della Reale Congregazione di Superga, istituita da Vittorio Amedeo II.

Ai Padri si deve l’idea di raccogliere le immagini dei Papi, idea ispirata dalla collezione in mosaico presente nella Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma.

La Sala è composta da 265 dipinti che ritraggono i Papi canonicamente eletti: sulla parete principale, in basso al centro, è situato il ritratto dell’attuale Papa, Francesco.

Una scalinata in marmo conduce al corridoio del mausoleo.

Alla fine dello scalone, come guardiano a difesa delle tombe, è posta la scultura in marmo di Carrara dell’Arcangelo Michele in atto di sconfiggere il demonio.

Superato lo scalone, percorrendo il breve corridoio, si entra nella Cripta.

Le Tombe Reali

Il progetto per la costruzione delle Tombe Reali viene affidato – nel 1774 – all’architetto Francesco Martinez dal Re Vittorio Amedeo II.

Formato da una croce latina allungata, il mausoleo ospita al centro il Sarcofago dei Re, monumento funebre riservato alle spoglie dell’ultimo Re di Sardegna, mentre nei due bracci laterali si possono ammirare la Sala degli Infanti e la Sala delle Regine.

Lungo le pareti della Cripta sono presenti importanti monumenti funebri in memoria di celebri personaggi di Casa Savoia.

Nel braccio sinistro osserviamo il monumento Funebre dedicato a Vittorio Amedeo II, fondatore della Basilica di Superga e Duca di Savoia, che otterrà il titolo di “Re di Sardegna”.

Poco distante troviamo il Monumento Funebre del principe Ferdinando di Savoia, Duca di Genova e padre della Prima Regina d’Italia, Margherita.

Lungo il braccio destro possiamo notare la scultura commemorativa dedicata a Carlo Emanuele III, secondo Re di Sardegna, con il bassorilievo che rappresenta la battaglia di Guastalla del 1734.

Il Sarcofago dei Re

Dal 1849 il Sarcofago dei Re custodisce la Salma di Carlo Alberto, VII Re di Sardegna, famoso per aver concesso nel 1848 lo “Statuto Albertino”, che trasforma di fatto il Regno di Sardegna in Monarchia Costituzionale.

Il Sarcofago, su disegno dell’architetto Martinez, è realizzato in onice di Busca, con quattro puttini in marmo bianco su due lati, opera dei fratelli Ignazio e Filippo Collino. Degli stessi artisti sono anche le quattro statue in marmo bianco collocate nelle nicchie laterali, che rappresentano la Fede, la Clemenza, la Carità e la Scienza.

Dietro il sarcofago è posto l’Altare della Pietà, opera di Agostino Cornacchini di Pistoia, realizzato in marmo bianco di Carrara.

La Sala degli infanti

Era destinata a ospitare le salme dei principi sabaudi morti in tenera età. Attualmente sono conservati i resti di 14 bambini e 9 adulti, tra cui la principessa Maria Clotilde di Savoia, la “Santa di Moncalieri”, donna profondamente devota e moglie di Gerolamo Bonaparte, sepolto accanto a lei.

La Sala delle Regine

Accoglie le salme delle Regine sabaude ed è abbellita con diverse opere scultoree in marmo bianco.

Di particolare interesse è il monumento funebre di Maria Teresa di Toscana – Asburgo, moglie di Carlo Alberto, realizzato da Sante Varni come personificazione della Carità.

Non lontano possiamo ammirare il monumento funebre che ritrae la Regina Maria Adelaide d’Asburgo, prima moglie di Re Vittorio Emanuele II. La Regina, indebolita da numerose gravidanze, morì a soli 33 anni di tifo. Benché moglie del Re d’Italia, non divenne mai Regina, perché scomparsa prima del 1861.

Sopra l’urna è presente una nicchia dove, nel 1879, lo scultore Pietro della Vedova realizza un drappeggio marmoreo finemente lavorato.

Per concludere, osserviamo il monumento funebre di Maria Vittoria dal Pozzo, moglie del Primo Duca d’Aosta, Amedeo Ferdinando, Sovrano di Spagna.

Maria Vittoria si dedicò molto al prossimo, ma soprattutto si occupò delle donne più povere dell’epoca, le lavandaie che, alla sua morte, inviarono corone di fiori di seta realizzate con le loro mani, ancora oggi conservate nella teca.

 

La Cripta di San Filippo Neri

 

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Si trova sotto l’oratorio di San Filippo Neri, in quella che è considerata la chiesa più grande di Torino. Edificata alla fine del 1600 e usata fino al XIX secolo, è un ottimo esempio per capire com’erano i luoghi di sepoltura in città prima della costruzione dei cimiteri (quasi tutte le chiese hanno la loro cripta, che però non quasi mai è accessibile). Nella cripta di San Filippo trovavano posto le sepolture dei padri a fianco di quelle dei torinesi che lo richiedevano. Nella chiesa poi è sepolto San Sebastiano Valfré, confessore di Vittorio Amedeo II, il primo re sabaudo.

 

I cimiteri ebraici a Torino

 

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Oggi il Monumentale ospita anche le sepolture ebraiche, nei sei campi ebraici del Cimitero. Ma il cimitero ebraico torinese è stato itinerante per un bel pezzo, prima di stabilirsi definitivamente dov’è ora. Varie sono state le sue sedi nel tempo

Via Santa Teresa angolo Via San Tommaso

La presenza ebraica a Torino è attestata sin dalla prima metà del 1400, esattamente dal 1424. Si sa che le quattro o cinque famiglie ebree presenti in città all’epoca usavano per seppellire i loro defunti un terreno nei pressi della Porta Marmorea (la porta cittadina rivolta verso Sud), più o meno tra Via Santa Teresa e Via San Tommaso.

Via Arsenale angolo Via Arcivescovado

Tuttavia, quello che è considerato a tutti gli effetti il primo cimitero israelitico di Torino risale alla metà del 1500. Infatti il 21 maggio 1551 il duca Carlo II di Savoia concesse agli ebrei di utilizzare come cimitero un terreno che si trovava in Via Arsenale all’angolo con Via Arcivescovado, sul quale oggi sorge il palazzo dell’ex Arsenale Militare.

Corso Matteotti angolo Corso re Umberto

Dopo un centinaio di anni di calma, il cimitero ebraico dovette trasferirsi, perché al suo posto si doveva costruire la nuova fonderia per le artiglierie (diventata poi Arsenale Militare e dal 1943 Scuola di Applicazione). Nel 1668 il cimitero traslocò in un’area attigua assegnata dal duca Carlo Emanuele II di Savoia, di forma triangolare e più ampia della precedente, situata tra gli attuali Corso Matteotti e Corso re Umberto. Questo cimitero fu dismesso durante l’assedio di Torino del 1706, perché troppo vicino alle zone di azione militare e perché il terreno fu usato per alloggiare attrezzature militari varie.

Via delle Rosine angolo Via Giolitti

Il cimitero ebraico allora prese baracca e burattini e si trasferì nei pressi del ghetto, lungo la scarpata del bastione di Saint Jean de Dieu (Torino all’epoca era ancora cinta dalle mura di fortificazione), al fondo dell’attuale Via delle Rosine, più o meno all’angolo con Via Giolitti, nell’area che corrisponde pressappoco al luogo in cui si trova l’Istituto delle Rosine. Presente già nel 1710, rimase lì fino al 1772.

Via Napione angolo Via degli Artisti

Un documento del 14 maggio 1772 stabiliva il trasferimento del cimitero israelitico in Vanchiglia, fuori dalla Porta di Po, a sinistra lungo la sponda del fiume, in una zona periferica e insalubre della città, dove scorrevano all’aria aperta diversi canali fognari. E’ probabile che si trovasse nell’area tra Via Napione e Via degli Artisti. Il terreno aveva un’estensione di 47 tavole e nel corso del tempo si ingrandì diventando di 180 tavole circa. Restò qui fino al 1867, per poi spostarsi al Monumentale durante i lavori di riqualificazione di Borgo Vanchiglia progettati da Alessandro Antonelli.

Oggi di questi antichi cimiteri ebraici restano solo poche lapidi, ormai quasi tutte illeggibili, posizionate lungo il perimetro del primo settore israelitico (quello dove si trova la tomba di Primo Levi).

 

I luoghi di sepoltura della Dinastia Sabauda

 

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Una Dinastia Millenaria come quella di Casa Savoia, che ha intrecciato le proprie sorti con la storia di molti Paesi e ha messo radici nei territori di gran parte dell’Italia Settentrionale ma anche della Francia e dell’attuale Svizzera, ha lasciato alla memoria dei posteri moltissimi luoghi di sepoltura dei suoi illustri esponenti. Si ripercorrono dunque qui sinteticamente i luoghi dove giacciono le spoglie mortali dei Conti, dei Duchi e dei Re Sabaudi, a partire dai luoghi di sepoltura dei Re d’Italia.

Le Reali Tombe del Pantheon di Roma

Nell’imponente e magnifico monumento del Pantheon di Roma, il grande tempio della Roma Antica di tutti gli dei, tutt’ora in uno stato di conservazione prodigioso, grazie all’uso che ne è stato fatto di Chiesa Cristiana a partire dal 609 (S. Maria Ad Martyres), eretto nel 27 a.C. da Marco Agrippa e completato ed ampliato successivamente dal grande Imperatore Adriano, è stato sepolto il 17 gennaio 1878 il Re Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia e Padre della Patria. La Tomba, situata nella cappella centrale a destra, reca una gigantesca placca funeraria in bronzo, fusa con il metallo dei cannoni conquistati agli Austriaci durante le guerre del 1848, del 1849 e del 1859.

Il Pantheon è poi luogo di sepoltura di Re Umberto I, secondo Re d’Italia, morto assassinato nel 1900, e della consorte la Regina Margherita. Le loro tombe sorgono proprio nel lato opposto del Pantheon rispetto alla Tomba di Re Vittorio Emanuele II.

Santuario della Basilica della Natività di Maria "Regina Montis Regalis" di Vicoforte

L’edificio fu costruito su commissione del Duca Carlo Emanuele I nel 1596. Vi sono sepolti Carlo Emanuele I e il cuore di Margherita di Savoia, sua figlia. Dal dicembre 2017 presso la Basilica di Vicoforte, nella Cappella di S. Bernardo, proprio accanto alla Tomba del Duca, si trovano le Tombe di S.M. il Re Vittorio Emanuele III, che fino a quel momento era rimasto sepolto presso la Cattedrale di Santa Caterina ad Alessandria d’Egitto, e della Regina Elena, la cui salma è stata trasportata finalmente in patria dal cimitero di Saint Lazare a Montepellier (FR).

L'Abbazia di Altacomba

Il complesso architettonico, alle pendici del Monte Du-Chat, sulla riva meridionale del Lago di Bourget, in origine era costruito più in basso, molto vicino all’acqua e solo più tardi venne trasferito nel sito più elevato, da qui il suo nome di “Altacomba”. L’Abbazia fu fondata nel 1125 da Amedeo II e fu restaturata, dopo essere caduta in stato d’abbandono per lungo tempo, da Re Carlo Felice, in un inconfondibile stile gotico. Nell’Abbazia sono sepolti un centinaio di Principi Sabaudi, tra cui ricordiamo Umberto III, Amedeo IV, Pietro II, Filippo I, Amedeo V, Edoardo, Aimone, Amedeo VI il Conte Verde, Filiberto I, Filippo II, Carlo Felice, resaturatore dell’Abbazia, con la consorte Maria Cristina. E’ il luogo si sepoltura di S.M. il Re Umberto II, ultimo Re d’Italia e della Regina Maria José.

Cattedrale di Saint Jean De Maurienne:

La Cattedrale di San Giovanni di Moriana, risalente al IX secolo, è la Cattedrale dell’Arcidiocesi di Chambery. Ospita al suo interno le Tombe di molti Conti di Savoia, tra cui Umberto I Biancamano, tradizionalmente individuato come il capostipite della millenaria Dinastia Sabauda. Nella Cattedrale sono sepolti anche Amedeo I, il Conte Bonifacio, e Amedeo, figlio di Tommaso I.

Duomo di San Giovanni Battista a Torino:

Nella Cattedrale di Torino sono sepolti il Conte Oddone, Adelaide di Susa, Pietro I, Amedeo VIII, Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele II.

Cattedrale di Moutiers:

Nella Cattedrale di Moutiers, l’antica Darantasia, parte dell’Arcidiocesi di Chambery, è sepolto il Conte Umberto II.

San Michele della Chiusa:

La chiesa sorge sulla cima del Monte Pirchiriano, in Val di Susa. Fu costruita verso la fine del X secolo e rappresenta una delle Tombe più importanti della Dinastia Sabauda. Ivi sono sepolti Tommaso I e altri 28 Principi Sabaudi, tra cui ricordiamo il cardinale Maurizio, il Duca Francesco Giacinto, l’Infanta Caterina di Spagna, figlia di Carlo II e di Beatrice di Portogallo.

Cattedrale di Sant’Eusebio a Vercelli:

Il Duomo di Sant’Eusebio fu costruito nel 1500 sulle rovine della preesistente basilica paleocristina. Nella Cattedrale sono sepolti Amedeo IX il Beato, Carlo II, Ludovico I e Anna di Lusignano e Vittorio Amedeo I.

Santuario della Madonna di Vicoforte:

L’edificio fu costruito su commissione del Duca Carlo Emanuele I nel 1596. Vi sono sepolti Carlo Emanuele I e il cuore di Margherita di Savoia, sua figlia.

La Basilica di Superga:

Il nome Superga trae origine dalla posizione dove sorge lo storico colle che domina Torino e la pianura che dal Po e dalla Dora risale fino alla Alpi. Fu fondata da Vittorio Amedeo II, su disegno e progetto di Filippo Juvarra. Si tratta di una basilica in stile barocco romano e neoclassico, simbolo del potere politico dei Savoia. La chiesa fu inaugurata nel 1731, la cripta dove sono tumulati molti discendenti di Casa Savoia fu completata nel 1778 dal nipote di Juvarra. Le Tombe Reali furono costruite a croce latina con al centro il Sarcofago dei Re, destinato ad ospitare la salma del Re di Sardegna e ai lati la Sala degli Infanti, destinata ad ospitare le salme dei Principi Sabaudi morti in tenera età e la Sala delle Regine, che accoglie le salme delle Regine Sabaude.

Dal 1849 il Sarcofago dei Re custodisce la Salma di Re Carlo Alberto, VII e ultimo Re di Sardegna.

Nella cripta sono conservati numerosi munumenti funebri in memoria di celebri personaggi di Casa Savoia, a cominciare dal monumento funebre di Vittorio Amedeo II, che fece costruire la Basilica. Nella chiesa sono sepolti Carlo Emanuele II, Vittorio Amedeo III, Vittorio Emanuele I, Carlo Alberto, Ferdinando Duca di Genova, Amedeo Duca D’Aosta e Maria Vittoria Duchessa D’Aosta, Maria Teresa moglie di Carlo Alberto, Maria Adelaide moglie di Vittorio Emanuele II, Tommaso Duca di Genova, Elisabetta di Sassonia sua madre, Isabella di Baviera sua moglie, Maria Clotilde e Maria Pia, figlie del Re Vittorio Emanuele II.

Badia del Monte di Santa Croce a Nicosia di Cipro:

Nella chiesa dell’Abbazia venne sepolto Amedeo III, ottavo Conte di Savoia, morto di ritorno dalla Crociata.

Chiesa di Brou a Bourg-En-Bresse:

In questa chiesa sono sepolti Filippo II, settimo Duca di Savoia, e la moglie Margherita d’Austria.

Santa Maria della Scala a Moncalieri:

Ivi è sepolto Carlo Giovanni Amedeo, sesto Duca di Savoia.

Abbazia di Ripaglia:

Nella chiesa dell’Abbazia di Ripaglia, in Alta Savoia, venne sepolto Amedeo VII, il Conte Rosso, dicianovesimo Conte di Savoia.

Chiesa di Santa Maria di Betlemme a Ginevra:

Ivi è sepolto Ludovico, secondo Duca di Savoia.

Cappella del Castello di Kronberg:

Nella piccola cittadina di Kronberg in Germania, nella cappella del castello medievale è stata sepolta la Principessa Mafalda di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele III, perita nel campo di concentramento di Buchenwald.

tomba di madama cristina

Cristina di Francia lasciò questo mondo il 27 dicembre 1663. Vestita come una semplice monaca venne sepolta sotto l’altare di un locale sito sotto il coro della Chiesa di Santa Cristina, che era usato per la sepoltura delle suore. Sulla tomba una lapide (ora perduta) recitava:

 

christianae a francia

henrici iv et ludovici xiii christianissimorum filia soror

victoris amedei ac francisci hyacinthi carolique emanuelis fratrum uxor mater et tutrix

nata lutetiae parisiorum x februari mdcvi

obiit a.t. xxvii dec. a. mdclxiii

 

Rimase qui fino al 21 settembre 1802. Durante il periodo di occupazione napoleonica la Chiesa di Santa Cristina fu soppressa e diventò Borsa di Commercio. Le spoglie della Duchessa furono traslate nella vicina Chiesa di Santa Teresa, dove si trovano tutt’oggi.

Entrando, subito a destra si trova la Cappella di Sant’Erasmo e lì, all’interno di una stretta nicchia – davvero troppo piccola e buia per quella che è stata una personalità tanto esuberante -, si trova la tomba di Cristina.

L’epigrafe che la ricopre è del 1970:

madama reale maria cristina di francia

moglie di vittorio amedeo i duca di savoia re di cipro

morta in torino il 27 dicembre 1663

sepolta in s. cristina

trasferita in questa chiesa al tempo della repubblica francese

collocata in questa cappella il i dicembre 1855

 

La nicchia è sormontata da una semplice edicola, posizionata all’epoca di Vittorio Emanuele II, in cui è scritto:

 

christinae / henrici iv regis gallor. f. uxori victorii amedei / ducis sabaudiae /

francisci hiacinti et caroli emmanuelis ii / matri et tutrici providentissimae /

divini cultus / artium et litterarum fautrici altrici egenorum /

quae post imperium xxv annorum / diem suum functa est /

vi kal. januarii a. mdclxiv / rex victorius emanuel ii / in templo quod ipsa vivens condi curavit / et quo cineres eius ad quiescunt / monumentum posuit / a. mdccclv

 

La tomba di Don Giovanni Bosco: una storia poco conosciuta

 

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Tutti sanno che attualmente le reliquie di don Bosco sono conservate in un'urna nell'altare a lui dedicato nella basilica torinese di Maria Ausiliatrice, ma pochi sanno, nel dettaglio, la storia degli spostamenti del suo corpo e le vicende della sua iniziale sepoltura.

alla morte del santo

Alla morte del Santo (31 gennaio 1888), don Michele Rua, suo primo successore, brigò anche con il primo ministro del regno, Francesco Crispi, per poter seppellire don Bosco nel santuario di Maria Ausiliatrice (non era ancora basilica)

Il Crispi gli consigliò, per non contravvenire alle norme della polizia cimiteriale cittadina, di tumularlo nel collegio salesiano di Valsalice, situato in una zona extraurbana. Don Rua accettò il suggerimento e fece approntare subito una custodia sul pianerottolo della scala che scendeva dal giardino superiore al porticato, antistante il cortile inferiore, e fu lì che la salma di don Bosco fu posta.

In breve tempo si costruì, su disegno dell'architetto Carlo Maurizio Vigna, un'edicola di stile neogotico divisa in due ambienti: l'inferiore con la tomba di don Bosco, il superiore, un'edicola dedicata alla Pietà, affrescata dal pittore Giuseppe Rollini. La lastra di chiusura del loculo fu affidata allo scultore Pietro Piai, ovviamente lo scultore si avvalse delle fotografie eseguite all'indomani della morte di don Bosco, quando il suo corpo, rivestito dei paramenti sacerdotali, come se si apprestasse a celebrare la Messa, fu esposto per i riti di suffragio.

Tolta la salma e portata trionfalmente nella basilica di Maria Ausiliatrice, la tomba non fu abbandonata, ma negli anni successivi si provvide a creare una sorta di cappella della memoria della sepoltura. Il corpo non c'era più ma i salesiani erano convinti che quel luogo doveva essere ugualmente ricordato e venerato.

L'urna della beatificazione

Il 2 giugno 1929 papa Pio XI beatificava don Bosco. In vista della traslazione del corpo da Valsalice si approntò una teca che servisse per il trasporto e per la collocazione decorosa delle reliquie in attesa della costruzione dell'altare a lui dedicato nella Basilica di Maria Ausiliatrice. All'epoca il transetto sinistro era ancora occupato dall'altare intitolato a S. Pietro.

Lo scultore salesiano Sebastiano Concas (1890-1963), su disegno dell'architetto salesiano Giulio Valotti (1881-1953), realizzò l'urna in legno dorato. La sua struttura è elegante e allo stesso tempo fastosa ma senza essere ridondante. Quattro putti reggono il coperchio e le loro braccia alzate sostengono dei festoni di frutti che, al centro, fissano lo stemma di Pio XI, il papa che ha beatificato e canonizzato don Bosco; la base, frutto di uno studio del Concas, fa riferimento a modelli rinascimentali. I cristalli sono ampi e adeguati a una visione totale del corpo del santo rivestito di paramenti sacerdotali. Il salesiano coadiutore Mario Notario ebbe più volte a dirmi che lui bambino aveva fatto da modello al Concas per la realizzazione dei piccoli putti angolari dell'urna. Questa teca fu utilizzata per le reliquie di san Giuseppe Cafasso e per quelle di santa Maria Domenica Mazzarello, fu in questa occasione che i piccoli putti furono modificati.

La nuova urna nell'altare del santo

Con la canonizzazione di don Bosco, il primo aprile del 1934, si concretizzò l'idea, già ventilata in passato, di un ampliamento della basilica di Maria Ausiliatrice.

Per il nuovo altare dedicato a don Bosco, che doveva sostituire l'antico intitolato a san Pietro, si incaricò l'architetto Mario Ceradini. La struttura dell'altare risultò fastosa, furono impiegati marmi colorati, il diaspro di Garessio impiegato per le colonne e la trabeazione, furono inserite statue in marmo di Carrara, cornici in bronzo dorato e mosaici. L'architetto concepì lo spazio dove collocare l'urna con le reliquie del Santo sopra la mensa e sotto la pala principale, avanzata quel tanto da lasciare spazio ad una sorta di scurolo che desse la possibilità ai fedeli di accostarsi al corpo di don Bosco. Si affidò l'impresa della custodia all'architetto Giulio Casanova (1875-1961) che approntò un disegno geniale: il corpo del Santo doveva essere visibile fronte-retro, dalla chiesa e dal ricettacolo posteriore. Il progetto prevedeva una cassa in ottone argentato dove la salma del santo era tra due lastre sagomate di cristallo. Il modello in gesso costò ai salesiani 17.500 lire. L'impresa della sua realizzazione iniziò il 7 giugno 1937 con la firma dei preventivi da parte di don Fedele Giraudi, economo generale della Congregazione. Il compito era stato affidato alla ditta “Fratelli Chiampo Fonderia Metalli” di Torino, esperta in fusioni artistiche; il contratto prevedeva l'esecuzione dell'urna “fusa a cera persa in ottone di buona lega, con parte inferiore dell'urna in un sol pezzo e i montanti e la parte superiore smontabili in modo da permettere di togliere i cristalli”, le ali degli angeli “saranno tagliate e montate sull'urna con giunto fatto a regola d'arte”. La cassa realizzata su disegno del Casanova è sobria, priva di ridondanze nonostante il suo riferimento stilistico sia barocco; coppie di teste alate di cherubini sono poste agli angoli e sovrastano scudi con motti cari al Santo ”da mihi animas coetera tolle”, non hanno funzioni di sostegno in modo da non impedire la visione del corpo del Santo. La copertura è retta da sostegni con l'immancabile presenza di testine angeliche e profilata da una cornice centrata da tre teste di cherubini portate da una conchiglia, è fatta da una lastra di cristallo su cui si appoggia una colomba raggiata simbolo dello Spirito Santo. Sulla base furono incastonate alcune pietre dure rare messe in opera dalla stessa ditta Chiampo.

“starò io qui alla custodia di questa casa”

Il 13 settembre 1887, al termine di una seduta del Capitolo Generale tenutasi a Valsalice “erasi deliberato di cambiare destinazione al collegio di Valsalice, sostituendo ai nobili convittori i chierici studenti di filosofia. Tolta la seduta capitolare, don Barberis, rimasto solo con lui (don Bosco), gli domandò con tutta confidenza come mai, dopo essere stato sempre contrario a quel mutamento, avesse poi cambiato parere. Rispose: «D'ora in avanti starò io qui alla custodia di questa casa». Così dicendo teneva sempre gli occhi rivolti allo scalone, che mette dal giardinetto superiore al porticato del grande cortile inferiore. Dopo un istante soggiunse: «Fa' preparare il disegno». Poiché il collegio non era interamente costruito, don Barberis credette che volesse far terminare l'edificio; quindi gli rispose: «Bene, lo farò preparare; quest'inverno glielo presenterò». Ma egli: «Non quest'inverno, ma la prossima primavera; non a me, ma al Capitolo presenterai il disegno». Continuava intanto a guardare verso lo scalone. Solo cinque mesi dopo don Barberis cominciò a comprendere il pensiero del Santo, quando cioè lo vide sepolto a Valsalice e precisamente nel punto centrale di quello scalone; lo comprese finalmente del tutto quando, preparato il progetto del monumento da erigersi sulla sua tomba, fu nella primavera presentato senza che egli avesse mai ancora detto nulla della conversazione di settembre.

 

 

 

 

 

LA TORINO DELLA RELIGIOSITÀ SOCIALE E DELLE ISTITUZIONI CARITATIVE

 

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Torino vide, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, una straordinaria fioritura di “santi sociali”, che segnarono profondamente la vita della Città. Un liberale come Luigi Einaudi ripeté più volte che non stava certo a lui, laico, giudicare se i «santi sociali» torinesi meritassero l'onore degli altari. Quel che, da economista, poteva dire, è che avrebbero dovuto essere, tutti, nominati senatori del Regno per meriti verso la Patria.

 

Don Giovanni Cocchi

 

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Don Giovanni Cocchi, sacerdote di Torino, fondò l’Oratorio dell’Angelo Custode, che poi affidò alle cure di Don Bosco, e quello di San Martino. A lui si deve anche l’iniziativa delle prime Colonie Agricole presso Moncucco e Rivoli, nel torinese. Gli fu affidata la cura spirituale dei Riformatori di Chieri e Boscomarengo. Grande sostenitore di San Leonardo Murialdo nella fondazione della Pia Società di San Giuseppe, oggi noti come Giuseppini del Murialdo, la sua grande opera resta il Collegio degli Artigianelli, ancora presente oggi a Torino in Corso Palestro. Qui lavorarono i migliori ecclesiastici di Torino e qui riposano le sue spoglie.

 

Giovanni Garberoglio e la Casa di Carità, Arti e Mestieri

 

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Giovanni Garberoglio nacque a Vinchio d’Asti il 9 febbraio 1871. Superate le opposizioni dei genitori, entrò sedicenne tra i Fratelli delle Scuole Cristiane, cambiando nome in fratel Teodoreto. Ricoprì vari incarichi di responsabilità nei collegi e nelle scuole di Torino e dintorni. Nel 1912 incontrò fra Leopoldo Maria Musso, del convento torinese di San Tommaso dei Frati Minori, e fu da lui incoraggiato nell’attuazione di due progetti: la Pia Unione del SS. Crocifisso e di Maria SS. Immacolata, poi diventata Istituto Secolare col nome di Unione Catechisti del SS. Crocifisso, e la Casa di Carità Arti e Mestieri. Morì a Torino, per un’emorragia cerebrale, il 13 maggio 1954. È stato dichiarato Venerabile col decreto promulgato il 3 marzo 1990. I suoi resti mortali riposano dal 1959 presso la Casa di Carità Arti e Mestieri di Torino.

 

Vecchi anzitempo, inabili a 50 anni: la sfida delle istituzioni assistenziali dei secoli passati

 

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La speranza di vita alla nascita e la vita media si sono allungate per entrambi i sessi. Le donne oggi vivono in media fino ad 82 anni e gli uomini fino a 76 ed è sicuramente il frutto delle migliorate condizioni di vita, del progresso della scienza medica, del più elevato livello di istruzione. Ma tutto ciò si è prodotto in virtù di un investimento costante, continuo alla salvaguardia della salute di tutti ed a tutte le età e ad un riconoscimento del diritto di assistenza, di tutela e di dignità della persona. Nel 1850 la speranza di vita di un uomo appena cinquantenne era demandata alla carità altrui.

Dicono che ai nostri giorni la durata media della vita tocchi il traguardo dei settanta anni. Poco più di cento anni fa, invece, chi arrivava ai cinquanta anni brindava ad una vecchiaia avviata ormai ad un rapido declino.

Si moriva presto, ancora giovani. L’uomo di 50 anni oggi è un uomo maturo capace di fare ancora molto, al meglio delle sue capacità intellettuali e talvolta fisiche. Il cinquantenne di cento anni fa era un vecchio. E vecchio si doveva sentire un certo Louis Joseph Monod di Charvensod che, il 21 dicembre 1850, Aosta sotto la neve e Natale già nell’aria, scriveva una lettera agli amministratori dell’Ospizio di Aosta. Diceva:

“Nato da una famiglia miserabile, presto senza padre e madre, abbandonato dalle sorelle, ho speso tutti i mezzi, tutte le forze che la Natura mi ha dato per provvedere alla mia sussistenza”.

“Ho 53 anni di età, gravato di malattie, frutto di fatiche, privazioni, miseria e della mia “vieillesse”, vecchiaia. Non potrei più, malgrado tutti gli sforzi, procurarmi quel pane che mi è costato sempre molto caro… mi vedrei ridotto alla più straziante situazione se non mi restasse una speranza nei soccorsi così generosi largiti dalla pubblica carità.”

“Ricorro a Voi supplicando: vogliate farmi partecipare alla distribuzione di pane praticata da questo Ospizio” (Una annotazione in margine alla lettera dice: “La présente supplique est réellement conforme à la verité”).”

 

Maria Mazzarello

 

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Primogenita di sette figli di una modesta coppia di mezzadri, di Mornese (Alessandria), iscritta alla Associazione delle Figlie di Maria Immacolata, vi insegnò il catechismo e a 23 anni aprì un laboratorio di sartoria per l’educazione delle ragazze. Nel 1864, conobbe don Giovanni Bosco, in visita a Mornese, che restò molto colpito dall'opera della ragazza. Fu lo stesso don Bosco, nel 1872, a sceglierla come iniziatrice dell'Istituto Figlie di Maria Ausiliatrice e nello stesso anno assunse i voti, assieme alle sue compagne.

Alla sua morte, l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice contava già 165 suore e 65 novizie sparse in 28 case (19 in Italia, 3 in Francia e 6 in America).

 

Le antiche istituzioni caritative di Torino e la Compagnia di San Paolo

 

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Sin dai primi decenni di Torino capitale sabauda, vi furono costituite delle opere caritative, ad opera di confraternite come la Compagnia delle opere pie di San Paolo, l’antesignana dell’istituto bancario, che aveva come padri spirituali i Gesuiti, di cui appoggiava le opere e l’apostolato.

I Gesuiti, dal canto loro, seguivano il precetto di Ignazio, e nel loro Collegio di Torino accettavano tutti i ragazzi meritevoli anche se non potevano permettersi di pagare la retta. Solo successivamente fu creato il Collegio dei Nobili, in cui si entrava a pagamento.

La storia della Compagnia di San Paolo ha inizio nella Torino cinquecentesca, quando il 25 gennaio 1563 sette cittadini torinesi fondarono la Compagnia della Fede Cattolica sotto l’invocazione di San Paolo, con il duplice scopo di soccorrere la popolazione gravata dal degrado economico – attraverso la raccolta di elemosine e l’assistenza domiciliare – e di arginare l’espansione della riforma protestante.

Verso la fine del Cinquecento la confraternita fondò le prime Opere (oggi diremmo istituzioni) di carattere sociale e umanitario: il Monte di pietà cittadino nel 1579, che erogava piccoli prestiti in cambio di un pegno e, nel 1589, con l’avvio dell’assistenza femminile, la Casa del soccorso, destinata all’ospitalità e all’educazione delle fanciulle più povere. Nel 1595 fu costituito l’Ufficio Pio con il compito di gestire tutta l’attività assistenziale della Compagnia: sussidi a decaduti, a malati e a mendicanti; servizi religiosi; assegnazione di doti alle ragazze ospiti della Casa del soccorso e pagamento delle rette. Più tardi, nel 1683, fu fondata la Casa del deposito che accoglieva donne vittime di sfruttamento e violenza.

In seguito la Compagnia di San Paolo contribuì anche all’istituzione del Collegio dei nobili convittori, destinato all’educazione dei giovani delle classi abbienti, e all’Albergo di virtù che avvicinava i mendicanti al lavoro attraverso la meccanica e la manifattura (in accordo con il disegno ducale che introduceva in Piemonte la lavorazione della seta). A metà Seicento la confraternita promosse la creazione dell’Ospedale di carità, collaborando sia alla direzione sia al finanziamento e, nel secolo successivo, finanziò la creazione dell’Ospedale dei pazzi.

Nel corso del XVII secolo la Compagnia consolidò la propria struttura organizzativa e il proprio ruolo nella società, con un’intensa attività finanziaria culminata nell’assunzione dell’amministrazione del debito pubblico nel 1653: il Monte della fede, affidato al Monte di pietà. Alla fine del Settecento anche la Compagnia subì l’influenza generale della crisi e durante il governo repubblicano francese perse la gestione delle Opere e il possesso del patrimonio fino a essere soppressa, nel 1802 e sostituita con organi di nomina pubblica che tuttavia riuscirono ad assicurare una continuità con l’esperienza precedente.

Con la Restaurazione la Compagnia fu reintegrata e le sue attività vennero ampliate: assunse la gestione del Monte di pietà a interessi oltre a quella del Monte di pietà gratuito e, mentre riprendevano le attività dell’Ufficio Pio, tra il 1824 e il 1851 alla Compagnia fu affidato anche il servizio sanitario per i poveri di Torino che comprendeva, oltre alle cure mediche di base, l’assistenza farmaceutica e le cure specialistiche. Con l’avvento dello stato liberale e in particolare con un decreto del 1853, Vittorio Emanuele II restringeva l’attività della Compagnia alle pratiche religiose e affidava il patrimonio e la gestione delle attività assistenziali e creditizie a un consiglio di nomina pubblica: le Opere Pie di San Paolo (successivamente Istituto di San Paolo). Il nuovo ente sviluppò l’attività bancaria attraverso il Monte di pietà: già nel 1879, Giovanni Giolitti (allora commissario regio delle Opere Pie di San Paolo) lo descriveva come una banca a tutti gli effetti. Poco più di una quarantina d’anni dopo, nel 1923, il Monte di pietà otteneva il riconoscimento della prevalente attività creditizia rispetto a quella pignoratizia.

Nel 1867 l’istituto assumeva l’esercizio del Credito fondiario, avvenimento che inaugurò un importante settore di attività. Durante gli anni dello sviluppo industriale di Torino, il San Paolo iniziò a sostenere i comuni mediante prestiti pubblici e a partecipare ai nuovi organismi finanziari come il Consorzio sovvenzioni su valori industriali, l’Istituto federale per il credito agrario in Piemonte e il Consorzio nazionale per il credito agrario di miglioramento. Nel 1931, uscito indenne dalla grande crisi degli anni venti, l’Istituto fu in grado di rilevare i depositi della Banca Agricola Italiana in Piemonte e in Liguria, estendendo la propria attività oltre i confini della città e ottenendo, nel 1932, lo statuto di Istituto di credito di diritto pubblico.

Parallelamente al settore creditizio, proseguiva anche l’attività dell’Ufficio Pio e dell’Educatorio Duchessa Isabella (il nome dell’istituto che, dal 1883, unificava le Case del soccorso e del deposito) che impartiva alle giovani un’educazione completa, e che nel 1899 avviò i primi corsi di formazione per le insegnanti.

La Fondazione Compagnia di San Paolo ha finanziato in tempi recenti molte iniziative di Don Luigi Ciotti rivolte alla Città di Torino.

 

Sebastiano Valfré

 

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Apostolo della carità, il Valfré (Verduno d’Alba 1629-Torino 1710), fu un antesignano dell’assistenza sociale in Piemonte. Ordinato sacerdote ad Alba nel 1652, si dedicò ai bisognosi e ai sofferenti, ottenendo concreti aiuti dai Savoia. La sua opera venne assecondata dagli intellettuali, dal laicato cattolico e dagli uomini d’affari; nel 1646 s’iscrisse ai corsi di teologia presso 1'IJniversità di Torino e si laureò nel 1650, l’anno in cui entrò a far parte dell’oratorio torinese, aperto nel 1649 dai sacerdoti Antonio Defera di Borgomasino e Ottaviano Cambiano di Savigliano. Il Valfré tenne le parti di Vittorio Amedeo lì, di cui era confessore (v. Fert) nel contrasto sorto con la Santa Sede, quando nel 1649 il Savoia con editto ducale reintegrava i Valdesi nei loro diritti e privilegi: il decreto del Sant’Uffizio romano era stato di opposizione, di modo che i teologi si erano schierati contro Vittorio Amedeo. Nel 1573 Emanuele Filiberto, per le pressioni della Santa Sede aveva dovuto emanare un bando di espulsione degli ebrei dai suoi territori. Il Valfré si adoperò per loro, con il proposito di alleviare fatiche e disagi, e confortare; ne convertì non pochi alla fede cristiana. È ricordato dai torinesi soprattutto per il fervore e la carità in uno dei momenti più oscuri e difficili della storia cittadina: durante l’assedio francese del 1706. Si poteva vederlo sugli spalti, incurante del pericolo, a soccorrere i feriti, a dare conforto, a raccogliere pietosamente i caduti. Vittorio Amedeo II lo inviò poi nelle valli di Luserna dove si prese cura delle popolazioni che anche là avevano molto sofferto per le guerre; fu, ancora una volta, un pioniere in fatto di assistenza, maestro nel dare lezione di igiene, di pronto soccorso, cercando con ogni mezzo di sconfiggere, nei limiti delle sue possibilità, una delle peggiori piaghe di quegli anni, l’analfabetismo. Il Valfré venne definito homo apostolica, anche se quando nacquero attriti fra Torino e la Chiesa, fu sempre schierato sulle posizioni dei Savoia, pur tentando la via della mediazione. Venne sepolto nella chiesa di San Filippo.

 

Giovanni Bosco

 

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Il ritratto della Torino di inizio secolo non è completo se non si fa riferimento ad una figura vissuta qualche decennio prima, ma la cui opera esprime tutta la sua forza proprio nel periodo del decollo industriale: don Giovanni Bosco, sacerdote di origine astigiana46 che nel 1846 si trasferisce in città e che sino alla morte, nel 1888, svolge un’imponente attività di educatore e organizzatore. L’intuizione di don Bosco è che il processo di industrializzazione è destinato a provocare mutazioni irreversibili nei rapporti sociali, nel costume, nell’anima stessa degli individui: dovere della Chiesa è coniugare i propri valori con una realtà nuova, preparare i giovani ad inserirsi cristianamente in una realtà che si trasforma, dare ascolto ai bisogni collettivi di alfabetizzazione, di cultura professionale, di lavoro, di conquista di un ruolo sociale. Per vocazione e per scelta, don Bosco si viene a trovare al confine tra la domanda di lavoro (le migliaia di braccia inesperte che affollano il quartieri periferici torinesi della zona Dora, dove egli esercita la sua missione) e un’offerta in espansione che richiede, il qualche misura, prestazioni specializzate] Da questa realtà prendono avvio le sue iniziative edicative: nel 1859 la fondazione della congregazione dei Salesiani, quindi la congregazione delle figlie di Maria Ausiliatri-ce. Se sino ad allora la pratica cattolica è volta soprattutto all’educazione del cuore, dimenticando spesso il leggere e il far di conto, don Bosco “predispone invece un modello pedagogico che esalta l’educazione della volontà e dell’intelligenza, la disciplina dei sentimenti e l’autocontrollo. Egli afferma il valore del lavoro come strumento di emancipazione e come segno di dignità personale e in questa prospettiva organizza a Valdocco i primi laboratori artigiani, destinati a diventare la fondamentale realtà delle scuole professionali salesiane”. Al proletariato torinese, disorientato ed emarginato, don Bosco insegna che ogni lavoratore deve diventare depositario di una cultura specializzata e inserisce i giovani in un’organizzazione che dà loro senso di appartenenza e orgoglio: “Il lavoro non è condanna, erogazione pura di forza fisica, ma professionalità e quindi affermazione di dignità e di forza. Nei laboratori salesiani vige una disciplina molto dura e una rigida organizzazione gerarchica, ma c’è un risvolto che giustifica tutto questo: il modello non mortifica l’ambizione personale, anzi favorisce la mobilità sociale educando alla consapevolezza delle proprie capacità”47.

Integrandosi con l’istituzione degli oratori festivi, dove i giovani si incontrano nei locali della chiesa per unire insieme il dovere della preghiera con il piacere del gioco, le scuole professionali salesiane rappresentano un approccio originale alle sfide dell’industrializzazione: anche se altri hanno abbozzato percorsi analoghi (come Giovanni Cocchi, fondatore del Collegio degli Artigianelli), don Bosco sa dare organicità alla sua proposta educativa e, soprattutto, sa esprimere una capacità organizzativa e imprenditoriale che espandono la fama dei Salesiani ben oltre i confini del borgo Dora. Nel 1888, quando egli muore, i Salesiani sono ormai una realtà consolidata in tutta Italia e si avviano a radicarsi oltre confine.

All’inizio del Novecento, il decollo industriale di Torino offre comunque l’occasione per una verifica delle intuizioni di don Bosco: la rapida modernizzazione della città in cui egli ha operato dimostra che l’industrializzazione comporta davvero una rivoluzione nei rapporti sociali e introduce dinamiche che non possono essere abbandonate alla casualità. Nel momento in cui lo sviluppo produttivo crea da un lato degrado ed emarginazione e dall’altro prospettive di mobilità sociale, occorre sostenere la popolazione più debole con iniziative formative che diano a tutti gli strumenti necessari per emergere: servono competenze professionali, istruzione scolastica, ma anche disciplina interiore, esercizio della volontà, autostima. Ciò che colpisce, nell’opera di don Bosco, è che le sue intuizioni “avvengono all’avvio dell’industrializzazione, nella Torino del secondo Ottocento, quando i processi non hanno ancora raggiunto 1 evidenza e le dimensioni che caratterizzeranno il primo decennio del Novecento; intuizioni profetiche, che precorrono i tempi e proprio per questo aiutano a prevenire i problemi anziché limitarsi a sanarne le conseguenze negative”.

 

Giuseppe Cafasso

 

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È uno dei maggiori “santi sociali” torinesi, così definiti per l’azione svolta fra il popolo, fra i poveri, i diseredati. Il “Santo della Forca”, come venne chiamato Giuseppe Cafasso (Castelnuovo d’Asti 1811-Torino 1860) fu contemporaneo di Giovanni Bosco e di Giuseppe Benedetto Cottolengo. Ordinato sacerdote a Torino nel 1833, frequentò i corsi detti “Conferenze di teologia morale” all’università, istituiti da Callo Emanuele il sin dal 1738. Rettore del convitto ecclesiastico diocesano, fu consigliere, maestro e sostenitore di don Bosco e gli diede un aiuto anche concreto nell’avviare i primi passi della famiglia salesiana. Cafasso si dedicò con particolare pietà ai condannati a morte e all’assistenza ai carcerati.

Nella zona torinese denominata il “Rondò della forca”, dove per un certo periodo venne eretto il patibolo, un monumento, inaugurato nel 1961, raffigura il Cafasso mentre assiste un condannato a morte. Le spoglie mortali di questo santo tipicamente torinese (fu elevato agli onori degli altari da Pio xil nel 1947) sono conservate alfinterno del santuario della Consolata.

 

Benedetto Giuseppe Cottolengo

 

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È il santo che ha legato il proprio nome alla Piccola Casa della Divina Provvidenza, dai torinesi chiamata semplicemente, il Cottolengo.

Questo sacerdote (1786-1842) andò incontro al suo immane compito partendo da un episodio quasi banale, ricordato oggi da una lapide al numero 4 di via Corte d’Appello. L’iscrizione fa sapere: «La sera del 2 settembre 1827 il canonico Cottolengo assiste in questa casa una povera ammalata forestiera e, scosso da infinita pietà per le sventure umane, divampa in quell’anelito di bene che diventò un prodigio quotidiano nella Piccola Casa della Divina Provvidenza». Da Milano, diretta a Lione, era arrivata in città una donna con il marito e tre figlioletti. All’albergo Dogana Vecchia, la donna fu colta da un attacco di apoplessia. In stato interessante, straniera e malata, lei e i congiunti dovevano andarsene.

Non si pensava neppure di trattenerli in una locanda. I pericoli del contagio suscitavano il ricordo terrifico di remote pestilenze.

Neppure all'ospedale San Giovanni si trovò un letto per la donna. La clinica ostetrica non la poteva accogliere in quelle condizioni.

Si riuscì, comunque, a reperire una cameretta, e fu allora che un canonico del Corpus Domini (v. Chiese), Giuseppe Benedetto Cottolengo, ebbe l’intuizione. Con l’aiuto di alcuni confratelli, decise di avviare un’assistenza immediata a coloro che ne avessero bisogno. Già il farmacista di Corte gli donava medicine per gli ammalati che assisteva, un medico lo coadiuvava, anche trascurando la professione per dedicarsi a clienti che non avevano un soldo. Alcune dame della buona società gli davano una mano. di tanto in tanto, come infermiere volontarie. C’erano, insomma, gli elementi per un buon avvio, e il canonico non disse di no al “segno”. Lo colse al volo con quella povera paziente e con la sua prima iniziativa di ospitalità.

In via Palazzo di Città, al numero 19, nella casa detta “della volta Rossa” per il colore del soffitto nell’androne, il Cottolengo si prese cura dell’ammalata e diede avvio a un’opera che si sarebbe poi rivelata imponente.

Nel 1838 Carlo Alberto riconobbe giuridicamente l’istituzione, raccomandandola alla carità dei torinesi e ponendola sotto l’alto patronato dei Savoia. Ogni tanto il Cottolengo andava a Palazzo Reale e ne riceveva aiuti. Pio tx fu tra i primi ad appuntare l’attenzione sulle virtù eroiche di questo piemontese e su quanto stava costruendo; Pio XI, papa Ratti, lo elevò agli onori degli altari.

Il Cottolengo, nella chiesa della Piccola Casa della Divina Provvidenza, risalta in un'urna di cristallo, in abiti sacerdotali, un’aureola intorno al capo, le mani quasi distese lungo il corpo. È un simulacro in cera del santo, predisposto per ricordarne le sembianze e per racchiudere i suoi resti, conservati in una speciale “cassetta”.

 

Leonardo Murialdo

 

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Questo santo (1828-1900) apparteneva a un’agiata famiglia di banchieri. Nel 1845 vestì l’abito talare, compì i corsi teologici in Seminario e si laureò all'università nel 1850. Nel 1866 veniva chiamato alla carica di Rettore degli Artigianelli. Giovani derelitti e bisognosi, nei centri industriali e rurali, si trovarono ad un tratto dinanzi al Murialdo che parlava un linguaggio assolutamente nuovo, rivoluzionario. Educò egli stesso non meno di ventimila giovani. Fu uno degli iniziatori più intrepidi delle Società Operaie Cattoliche e di organismi e servizi sociali fondati sulla mutualità, sulla cooperazione, sul “solidarismo” cristiano, proprio mentre si stavano sviluppando il socialismo e quelle forme che dai princìpi marxisti dovevano trarre ispirazione e vigore. Intuì tutta la drammaticità e la ricchezza di fermenti in un ambiente sociale che molti stentavano ad individuare e a riconoscere e ciò - si badi bene - vent’anni prima che Leone xni pensasse alla sua enciclica Rerum Novarum. Sepolto per molti anni nella chiesa di Santa Barbara, venne poi traslato nell’Istituto degli Artigianelli, nato dal suo apostolato fra i giovani. Fu proclamato santo nel 1970 da Paolo vi.

 

Luigi Orione

 

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Questo umile sacerdote ( 1872-1940) è con don Bosco (v.), Cafasso (v.), Cottolengo (v.) e il Murialdo (v.) uno dei maggiori santi che operarono, quasi contemporaneamente, a Torino. Di poverissima famiglia,entrato nell’oratorio salesiano, passò nel seminario diocesano di Tortona e là fu ordinato sacerdote nel 1905. Ammirato dall'opera del Cottolengo, Orione fondò i “Piccoli Cottolengo” prodigandosi in particolare per i giovani ai quali dedicò istituti in cui apprendessero un mestiere. Istituì i “Figli della Divina Provvidenza” e le “Piccole missionarie della Carità”, poi diffuse in molte regione del mondo. Don Orione, il quale assistette al trapasso di don Bosco, è al centro di episodi prodigiosi, di miracoli tali che nel 1978 il papa Paolo vi lo decretava “venerabile”. Venne beatificato nel 1980 da Giovanni Paolo II. Dopo la sua morte, vi fu chi, invocandolo a Torino, trovandosi in stato di pericolo o di grave necessità, se lo vide di fronte, sconvolto da quel piccolo prete sorridente, umile, che pareva stupito quasi di essere stato chiamato per una grazia che, dopo poco, arrivava. Quando ancora non era arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, sentendo raccontare farti tanto umani ma inspiegabili con protagonista don Orione, aveva chiesto, insieme ad altri prelati polacchi, alla Congregazione dei Riti, di occuparsi di don Orione in vista di una canonizzazione che poi avvenne.

 

Francesco Faà di Bruno

 

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Dopo aver frequentato l'Accademia militare fu nominato ufficiale, e nel 1848-49 combatté a Peschiera.

Nel 1849 fu promosso Capitano di Stato Maggiore. Rimase ferito in combattimento a Novara e fu decorato per il suo comportamento in battaglia.

Fu scelto da Vittorio Emanuele II quale precettore dei figli, si recò a due riprese a Parigi, alla Sorbona, dove ebbe maestri del calibro di Augustin Cauchy, conseguendo la laurea in scienze matematiche e astronomiche e dopo un periodo presso l'Osservatorio nazionale francese sotto Urbain Le Verrier. Nel 1857 iniziò a insegnare all'Università di Torino Matematica e Astronomia. Pubblicò vari lavori scientifici, trovò la formula di derivazione che porta il suo nome e il suo trattato sulla teoria delle forme binarie lo rese famoso. Si dedicò anche all'ingegneria, e fu inventore.

Eseguì i calcoli costruttivi e seguì la realizzazione del campanile della chiesa di Nostra Signora del Suffragio e Santa Zita, a Torino, all'epoca, del secondo edificio più alto della città dopo la Mole Antonelliana: oltre 80 metri. Il motivo per cui volle realizzare quest'opera è prettamente sociale: voleva evitare che le lavoratrici e i lavoratori della città venissero ingannati sull'orario di lavoro e aveva calcolato che un orologio di due metri di diametro, collocato sulle varie facce del campanile a 80 metri di altezza, sarebbe stato visibile in gran parte della città e liberamente consultabile da tutti, ma il comune gli negò il denaro necessario per acquistarlo.

Targa posta a Torino, in via San Donato

Fu costantemente un uomo di fede. Nel periodo in cui era militare scrisse un Manuale del soldato cristiano. Fu uno dei membri del primo Consiglio Generale de l'Œuvre des Écoles d'Orient, ente al servizio dei cristiani d'Oriente da più di 160 anni. Visse con disagio il suo desiderio patriottico di vedere l'Italia unita, di fronte all'ideologia anticlericale che permeò la sua concreta realizzazione. Da scienziato affermò sempre di trovare un'assoluta armonia fra la scienza e la fede.

Amante della musica, egli stesso compose melodie sacre, apprezzate da Franz Liszt. Fondò scuole di canto domenicali, frequentate da quelle donne di servizio a cui dedicò una parte delle sue opere. All'epoca la situazione delle donne di servizio era difficile: sfruttamento del lavoro, povertà, emarginazione erano all'ordine del giorno. Era frequente che una donna di servizio rimanesse incinta e venisse quindi allontanata dalla famiglia. Intraprese una serie di iniziative in aiuto di queste persone, fondando anche una casa di accoglenza per ragazze madri. Il cardine di questa attività fu l'Opera di Santa Zita, fondata nel 1859.

Aprì un Collegio professionale con ritiri estivi a Benevello d'Alba. Dopo la costruzione della chiesa di Nostra Signora del Suffragio, nel quartiere di San Donato, nacque una congregazione di suore: le Minime di Nostra Signora del Suffragio. Fu amico di Don Bosco, che operava a Torino in quello stesso periodo.

Il 22 ottobre 1876 fu ordinato sacerdote. Desiderava questa ordinazione anche per seguire meglio la congregazione di suore. Attorno alla congregazione sorsero diverse opere, fra cui, fin dallo stesso anno 1868, un complesso scolastico che esiste tuttora, con una scuola superiore che è oggi il Liceo Faà di Bruno.

 

Giuseppe Allamano

 

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Nacque il 21 gennaio 1851 a Castelnuovo d'Asti. A tre anni rimase orfano di padre, studiò a Valdocco nell'oratorio di San Giovanni Bosco. Venne ordinato presbitero per l' Arcidiocesi di Torino nel 1873.

Il 2 ottobre 1880 fu nominato rettore del santuario della Consolata di Torino, del Convitto ecclesiastico (anche se, in quel momento, era chiuso), dell'Ospizio per sacerdoti anziani, del Santuario di Sant'Ignazio a Lanzo con l'annessa casa per esercizi spirituali. Allamano accettò per obbedienza la nomina e, da allora fino alla morte, la sua attività si svolse sempre all'ombra del santuario mariano della Diocesi.

Il Santuario, punto di riferimento della devozione mariana torinese, riprese vita. I laici impegnati trovarono in lui l'appoggio per iniziative nuove, richieste dai tempi: la stampa cattolica, l'azione cattolica, le iniziative sociali, le associazioni operaie per l'assistenza e la difesa del clero.

Il 29 gennaio 1901 nacque l'Istituto della Consolata per le Missioni Estere, di cui fu fondatore. Il 29 gennaio 1910, diede inizio all'istituzione parallela delle Suore Missionarie della Consolata. Per quarant’anni, senza mai spostarsi dalla Consolata, mandò i suoi missionari nei quattro continenti.

 

Il Convitto Ecclesiastico, fucina di ecclesiastici torinesi impegnati nel sociale.

 

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La genesi del Convitto Ecclesiastico ha degli antefatti. Il padre Nikolaus von Diessbach, dieci anni prima della Rivoluzione Francese, fondò a Torino l'Amicizia Cristiana, un gruppo di ecclesiastici stimati e di laici autorevoli che, dalle rive del Po, si diffuse in tutta Europa, sino a Varsavia. Scopo della società era contrastare sul piano intellettuale le teorie dei "philosophes", le ideologie dei discepoli di Voltaire, di Rousseau, dell'"Encyclopédie", che preparavano l'esplosione rivoluzionaria.

Del gruppo faranno parte anche Joseph de Maistre, Cesare d'Azeglio, Juliette Colbert marchesa di Barolo, Clemente Solaro della Margarita, l'ultimo, grande esponente piemontese della politica dell'"Ancien Régime", il ministro (già lo citammo) che diffidava di Metternich, giudicandolo un imprudente «progressista».

Discepolo e compagno del von Diessbach fu Pio Brunone Lanteri, fondatore degli Oblati di Maria Vergine. Per iniziativa di don Lanteri, e poi del canonico Luigi Guala, venne fondato a Torino il Convitto Ecclesiastico, una scuola al contempo di pastorale pratica e di educazione alla spiritualità, che dovevano frequentare i preti novelli della diocesi prima di iniziare il loro servizio nelle parrocchie. Insomma, una specie di master per i preti in cura d'anime.

Direttore, confessore, maestro di morale in quella nuova istituzione, era un sacerdote eccezionale, che poi diverrà santo, Giuseppe Cafasso, che non fu soltanto il celebre apostolo dei carcerati e dei condannati a morte, ma fu «maestro e padre di santi», a cominciare da don Bosco, il quale passò tre anni al Convitto ecclesiastico. Questo Convitto Ecclesiastico - innestato come teologia in san Tommaso (il dottore ufficiale della Chiesa), come spiritualità in sant'Ignazio di Loyola (ancora lui), come pastorale in san Francesco di Sales (l'anticalvinista), come morale in sant'Alfonso (l'antigiansenista) - è all'origine almeno umana, storica, della straordinaria catena di santità torinese, che durerà quasi un secolo e mezzo.

 

Esempi di emulazione laica: La Casa Benefica

 

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La azione dei santi sociali torinesi ebbe l’effetto di risvegliare una emulazione laica che andò ad ulteriore beneficio della città. Un esempio è la Casa Benefica: Torino aveva un istituto di fondazione laica – alcuni insinuano massonica – che ospitava orfani e li allevava insegnando loro un mestiere, e costituiva l'omologo torinese dei "Martinitt" di Milano che accolse tanti che poi, nella vita, si fecero largo alla grande, tipo il vecchio Angelo Rizzoli. Forse per fare concorrenza anche in questo ai ragazzi di don Bosco, grande animatore di musica popolare, gli orfani della Benefica, tutti in divisa paramilitare, con tanto di berretto a visiera, avevano una banda famosa in città.

Vittorio Messori sulla rete assistenziale delle istituzioni caritative torinesi

 

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Una città, la nostra, dove le «opere di carità» per meritare la salvezza - le «opere» tanto invise, tanto blasfeme, per la teologia protestante del "sola fides" - non solo contrassegnano quelle vette che sono i santi, ma sono talmente essenziali per il popolo cattolico che, nel 1870 (dunque in piena epoca di repressione laicista), una città di 200 mila abitanti aveva qualcosa come centodiciassette enti religiosi che coprivano ogni bisogno, sia materiale sia spirituale.

Esattamente un secolo dopo, sperimentai io stesso quanto restava di questa rete imponente, avendo scommesso con il capo cronista che sarei partito dal giornale un mattino senza un soldo e senza nulla in mano o nelle tasche dell'eskimo - faceva parte del mio travestimento da "clochard", indossai l'uniforme di ordinanza del contestatore solo per quell'occasione - e sarei tornato tre giorni dopo, senza essere mai passato da casa. Tornai, in effetti, alla data stabilita - e vinsi la cena con il capo, ben lieto di pagarla, visto che feci subito seguire una serie di articoli per «Stampa Sera» che non passarono inosservati e di cui, addirittura, qualcuno mi parla ancora - avendo mangiato, bevuto, dormito, addirittura avendo avuto una visita medica, medicinali gratuiti e, in più, un cambio di biancheria nuova. E il tutto, come da sfida, senza pagare una lira e senza aver dovuto riempire documenti: semplicemente, presentandomi là dove mani cattoliche distribuivano ogni giorno, a chiunque si presentasse, ciò di cui diceva di avere bisogno, senza chiedere nomi, motivi, professioni di fede.

 

Pier Giorgio Frassati

 

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Nasce a Torino il Sabato Santo, 6 aprile 1901, da Adelaide Ametis e da Alfredo Frassati, fondatore e direttore del quotidiano "La Stampa", poi senatore del Regno d'Italia e ambasciatore a Berlino. Fin da bambino sviluppa spontaneamente una fede profonda e salda. Frequenta il ginnasio presso la statale "Massimo d'Azeglio" e presso i Gesuiti. Partecipa alle attività di varie associazioni cattoliche: Compagnia del SS. Sacramento (1914); Congregazione Mariana (1918); Confraternita del Rosario (1918); Conferenza di S. Vincenzo (1918); FUCI Torinese (1919); Giovani universitari dell'Adorazione Notturna (1920); Giovani Operai (1920); "Milites Mariae" della Società della Gioventù Cattolica (1922); Terz'Ordine Domenicano (1922), nel quale assume il nome di fra' Girolamo, ispirandosi a Savonarola. Esprime la sua carità eroica, in particolare, nella Conferenza di S. Vincenzo che lo spinge a donare e a donarsi ai poveri; tanto che, come sembra, la poliomielite che lo porterà immaturamente alla morte verrà da lui contratta durante una delle sue visite nelle case della povera gente. Organizza collette, manda inviti ed aiuti, sollecita interventi medici, assunzioni per i disoccupati; visita regolarmente il "Cottolengo". Lo si vede persino passare per Torino col carretto carico di masserizie per il trasloco di una famiglia in miseria.

Di carattere gioviale, trascinatore, robusto ne fisico e nell'animo, difende con fermezza le sue idee e la Chiesa nel difficile passaggio storico del primo dopoguerra; allo stesso modo capace, però, di grandi delicatezze d'animo. Con gli amici e le amiche della FUCI fonda la Società dei Tipi Loschi, per condividere in letizia e comunione fraterna le gite in montagna e l'amicizia fondata sulla fede e la preghiera reciproca. Socio convinto delle organizzazioni cattoliche, ne promuove la diffusione e partecipa con entusiasmo a incontri e raduni nazionali.

Attento alla società e alla politica, si iscrive al Partito Popolare di don Sturzo. Con il padre, liberale, condivide la profonda avversione per il fascismo; nel giugno 1924 gli squadristi assalgono la loro abitazione, e Pier Giorgio li fa fuggire.

Studia da ingegnere meccanico-minerario. La sua scelta è determinata dal desiderio di poter essere vicino a quel mondo operaio, particolarmente provato. Durante un soggiorno in Germani si dedica alla visita di musei, impianti minerari, circoli giovanili e opere cattoliche di assistenza ai poveri, traendone conferma della sua vocazione laicale.

E’ laureando, quando la malattia lo stronca improvvisamente, il 4 luglio 1925.

Ai suoi funerali, tra la folla numerosissima, sono presenti in particolare i poveri da lui beneficati.

Viene beatificato da Giovanni Paolo II in piazza S. Pietro, il 20 maggio 1990. Nello stesso anno la sua salma viene traslata solennemente nel duomo di Torino. Molto conosciuto e amato anche fuori d'Italia, trasmette un'ispirazione attualissima alla ricerca di santità volta al sociale del nostro tempo.

 

Don Luigi Ciotti

 

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Don Pio Luigi Ciotti (Pieve di Cadore, 10 settembre 1945) è un presbitero e attivista italiano, ispiratore e fondatore dapprima del Gruppo Abele, come aiuto ai tossicodipendenti e altre varie dipendenze, quindi dell'Associazione Libera contro i soprusi delle mafie in tutta Italia.

Biografia

Pio Luigi Ciotti nacque il 10 settembre 1945 a Pieve di Cadore (Belluno). La famiglia tuttavia, in cerca di lavoro, si trasferì a Torino nel 1950, dove vissero nelle baracche dei cantieri operai per la costruzione del nascente Politecnico di Corso Duca degli Abruzzi, nel quartiere Crocetta. Finite le scuole dell'obbligo, prese poi un diploma da radiotecnico e, nel frattempo, frequentò assiduamente i gruppi parrocchiali della Crocetta. Insieme a loro, nel 1965 fondò un gruppo chiamato Gioventù, con l'obiettivo di aiutare i disadattati e i drogati per strada.

Il Gruppo Abele

Nella seconda parte degli anni sessanta il gruppo Gioventù si allargò, coinvolgendo anche animatori ed educatori sociali della città e, nel 1971, nacque il mensile Animazione Sociale. Fra le sue prime attività, un progetto educativo negli istituti di pena minorili e la nascita di alcune comunità per adolescenti alternative al carcere. L'interesse di Luigi Ciotti per gli ultimi attirò l'attenzione e il sostegno del cardinale torinese Michele Pellegrino, noto per le sue attività pastorali dedicate agli emarginati. Luigi Ciotti entrò in seminario a Rivoli (TO) dove, nel novembre del 1972, venne ordinato sacerdote dallo stesso Pellegrino che, come parrocchia, gli affidò la strada, luogo – specifica – non di insegnamento ma di apprendimento e incontro con le domande e i bisogni più profondi della gente. Proprio sulla strada, nel 1973, il Gruppo inaugurò il “Centro Droga” di Via Verdi, 53, adiacente a Palazzo Nuovo, chiamato il Molo 53, un luogo di accoglienza e ascolto per giovani con problemi di tossicodipendenza. Fu un'esperienza allora unica e pioneristica in Italia, a cui seguì l'apertura di alcune altre comunità di recupero, comprese alcune dello stesso Gruppo di Don Ciotti nei decenni successivi (ad esempio, la Certosa 1515 di Avigliana o l'Oasi di Cavoretto).

Nel 1974, Don Ciotti riuscì ad aprire un centro di ascolto per tossicodipendenti riqualificando un cascinale presso il paese di Murisengo, in provincia di Alessandria, e rinominandolo Cascina Abele, da cui nascerà, da lì a poco, anche il nome dell'associazione onlus "Gruppo Abele".

All'accoglienza delle persone in difficoltà, l'Associazione cominciò ad affiancare l'impegno culturale – con un centro studi, una casa editrice e l'“Università della strada” – e, in senso lato, “politico” – con mobilitazioni come quella che nel 1975 portò alla prima legge italiana non repressiva sull'uso di droghe, la 685 – per costruire diritti e giustizia sociale. A partire dal 1979 il Gruppo si aprì anche alla cooperazione internazionale, con un primo progetto in Vietnam, a cui ne seguiranno altri in Sud America e Costa d’Avorio, quest'ultimo tuttora in corso.

Il Gruppo Abele si allargò negli anni anche ad altre sedi nella stessa città di Torino, come la storica sede editoriale di via Giolitti, 21 (davanti a Piazzale Valdo Fusi), oppure le sedi di via Melchiorre Gioia, di via Leoncavallo, fino all'attuale sede in Corso Trapani. Convinto che solo il “noi” possa essere protagonista di un vero cambiamento sociale, nel 1982 don Ciotti contribuì alla nascita del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza (CNCA), presiedendolo per dieci anni, e nel 1986 partecipò alla fondazione della Lega italiana per la lotta contro l'AIDS (LILA) per la difesa dei diritti delle persone sieropositive, della quale pure sarà presidente.

Attualmente, il Gruppo Abele non si occupa solo di droga, ma sviluppa proposte per affrontare il disagio sociale nel modo più ampio possibile. Dai servizi a bassa soglia alle comunità, dagli spazi di ascolto all'attenzione per le varie forme di dipendenza – nuove droghe, alcool, gioco d'azzardo, “consumi” in senso lato – dall'aiuto alle vittime di tratta e alle donne prostituite – con l'unità di strada, il numero verde, il supporto legale – alle iniziative per l'integrazione delle persone migranti, come l'“educativa di strada” per gli adolescenti stranieri. E ancora attività di ricerca, una biblioteca, riviste tematiche, e percorsi educativi rivolti a giovani, operatori sociali e famiglie; come pure l'attività di mediazione dei conflitti e sostegno alle vittime di reato. Infine, un consorzio di cooperative sociali per dare lavoro a persone con percorsi difficili, eredità delle botteghe e dei laboratori professionali aperti già negli anni settanta.

L'associazione "Libera"

Negli anni novanta, l'impegno di don Ciotti si allargò al contrasto alla criminalità organizzata. Dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio dell'estate del 1992, fondò il mensile Narcomafie – di cui sarà a lungo direttore e, nel 1995, il coordinamento di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, oggi punto di riferimento per oltre 1 600 organizzazioni nazionali e internazionali (fra cui diverse sigle del mondo dell'associazionismo, della scuola, della cooperazione e del sindacato). Nel 1996 Libera promosse la raccolta di oltre un milione di firme per l'approvazione della legge sull'uso sociale dei beni confiscati, e nel 2010 una seconda grande campagna nazionale contro la corruzione. Nel 2020 il mensile Narcomafie è stato rifondato nel bimestrale lavialibera.

Obiettivo di Libera fu - ed è tuttora - quello di alimentare quel cambiamento etico, sociale e culturale necessario per spezzare alla radice i fenomeni mafiosi e ogni forma d'ingiustizia, illegalità e malaffare. A questo servono i percorsi educativi in collaborazione con 4.500 scuole e numerose facoltà universitarie; le cooperative sociali sui beni confiscati con i loro prodotti dal gusto di legalità e responsabilità; il sostegno concreto ai familiari delle vittime e la mobilitazione annuale del 21 marzo dal titolo "Giornata della memoria e dell'impegno"; l'investimento sulla ricerca e l'informazione, attraverso l'Osservatorio "LiberaInformazione"; l'attenzione alla dimensione internazionale, con la rete di Flare – freedom, legality and rights in Europe.

Nel gennaio 2013 le associazioni presiedute da don Ciotti (Libera e Gruppo Abele, appunto) avviarono la campagna online di "Riparte il futuro", che ha permesso la modifica dell'articolo 416 ter del codice penale in tema di voto di scambio politico - mafioso il 16 aprile 2014. Il 9 dicembre presenta nella Sala del Parlamento Europeo la piattaforma "Restarting the Future" per il contrasto alla corruzione, proponendo una direttiva a tutela del whistleblowing, l'istituzione di una Procura europea e del 21 marzo come data europea per i famigliari delle vittime innocenti di tutte le mafie.[3]

Dopo aver presenziato con Papa Francesco alla Giornata della memoria e dell’impegno per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie nel 2014, il 21 marzo 2015 partecipa alla XX Giornata della memoria di Bologna affermando che «la corruzione e le mafie sono due facce della stessa medaglia», in sintonia con il Santo Padre che era in visita al quartiere di Scampia, a Napoli.

 

 

 

 

 

LA TORINO DELLA SOFFERENZA

 

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Il patibolo di Torino, il “prete della forca” e la casa del boia

 

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Il luogo dell’esecuzione delle condanne alla pena capitale mutò nel corso del tempo. La forca fu sistemata in riva al Po, poi in piazza delle Erbe (attuale piazza Palazzo di Città). Nell’Ottocento il patibolo venne collocato presso le Torri Palatine quindi in piazza Giulio, in seguito al “rondò della forca’’ (dal 1835 al 1853). Il luogo, a quel tempo in aperta campagna, venne scelto per la sua vicinanza alla prigione che si trovava in quella che oggi è via Corte d’Appello. Poi il teatro delle esecuzioni si spostò ancora alla Cittadella, nei pressi dell’attuale corso Vinzaglio. Solo negli anni dell’occupazione francese la forca fu sostituita dalla ghigliottina ( la “beatissima”) e le teste rotolarono sotto la sua mannaia in Piazza Carlo Emanuele II detta anche Piazza Carlina, in quegli anni chiamata “Place de la Liberté”. Tutto ciò non fece che aumentare la “sulfurea” reputazione della zona occidentale della città, la più tenebrosa, tanto che lo stesso nome del Corso Valdocco deriverebbe dal toponomastico di latina memoria “Vallis Occisorum”, la “valle degli uccisi”.

Nelle antiche tradizioni è rimasta la figura del boia personaggio entrato nell’immaginario collettivo. In ogni epoca, la folla seguiva l’esecuzione tumultuando, acclamando, urlando improperi. I soldati venivano fatti voltare, in modo che dessero le spalle al condannato, poi questi veniva bendato. Il boia afferrava il capestro e lo poneva a nodo scorsoio al collo del morituro. Questi era sospinto verso la scala, poi con un urto violento veniva buttato a terra dal boia che gli puntava i piedi sulle spalle spingendo con forza, più volte, perché il suo “cliente” fosse ben strozzato.

Non sempre questi moriva. In qualche caso lo sventurato sopravvisse, anche solo per qualche ora, come il parricida Antonio Sismondi, fra atroci tormenti, invocando con disperazione la fine che il boia non era in grado di dargli. I condannati a morte erano assistiti dalla Confraternita della Misericordia.

Alla congiunzione tra corso Principe Eugenio e corso Valdocco, all’inizio degli anni sessanta, è stato inaugurato un monumento dedicato a San Giuseppe Cafasso, conosciuto come il “prete della forca”, per la sua opera di assistenza spirituale ai carcerati e ai condannati a morte. I cadaveri dei condannati venivano poi sepolti in San Pietro in Vincoli, nel cimitero dei giustiziati.

Per non farsi mancare un brivido in più, al numero due di via Bonelli, nel quadrilatero torinese – tra via delle Orfane e via Sant’Agostino – ecco la “casa del boia”. E’ lì che, quando la via portava il nome di Contrada Pusterla e in seguito via dei Fornelletti, per tradizioneto boia bonelli secolare vivevano i più temuti tra i cittadini di Torino: gli incappucciati addetti a tirare la corda del patibolo.

L’ ultimo, tal Pietro Pantoni, misantropo, tutto casa e lavoro, non usciva quasi mai dalla propria abitazione e si racconta che l’ unico suo amico fosse un certo Caranca, becchino di Rivarolo. Nella vicina chiesa di Sant’Agostino, il boia, poteva contare su di un banco separato dagli altri e un certo timoroso rispetto, viceversa nella Chiesa della Misericordia, in via Barbaroux, sono conservati alcuni reperti, tra cui il registro con i nomi dei giustiziati e il cappuccio dei condannati. Pur essendo il suo “mestiere” ben pagato (un editto del 1575 stabiliva un prontuario di servizi con relativi compensi: si andava dalle 21 lire per un’ impiccagione semplice alle 36 lire in caso di squartamento cruento) tutto ciò non lo metteva al riparo da una sorta di gogna sociale e dal disprezzo dei più. Per questo, ancora oggi, passando davanti a quel portone, si può avvertire un senso di disagio e un filo d’ansia.

 

La Confraternita della Misericordia

 

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È rimasta nota nella storia torinese per l'assistenza ai carcerati e, soprattutto, a coloro che, condannati alla pena capitale, conclusero i loro giorni sul patibolo (v. Boia). Nella chiesa di via della Misericordia, intitolata a San Giovanni Battista decollato, la Confratemila, fondata nel marzo 1578, rivive anche grazie ad alcuni cimeli legati alla sua attività: elenchi di condannati a morte, il crocefisso con cui venivano confortati, il bicchierino con l’ultimo elisir per sostenerli. Perfino un tratto di corda. Sinistre ombre di ieri, all’ombra della forca.

Questa fu in funzione a Torino in un tempo che pare lontano ma che fu soprattutto lungo, con un rituale che coinvolgeva autorità e popolo. Un insieme di gesti che s’imperniava, per T’ultimo addio al condannato, intorno a una istituzione “egregia” che trova ancora testimonianza in una delle più illustri chiese di Torino, ricca di tesori d’arte e di cimeli storici come poche altre, quella della Misericordia.

La Confraternita trae origine da una concessione per alcuni “supplicanti”, nel 1578, di potersi “congregare” e nelle vicende che seguirono a tale atto si parla di «Nova Compagnia di Disciplinati sotto il nome di San Giovanni decollato». La testa del Battista posta in un grande piatto d’argento è tra le prime emblematiche vestigia del sodalizio.

La chiesa della Misericordia ospita oggi alla domenica mattina una grande folla di fedeli, i quali assistono alla Messa celebrata in latino, con le preghiere e il rituale in vigore sin quando, con le innovazioni del Concilio Ecumenico Vaticano n, vi fu la riforma di Paolo vi e la Messa ebbe una sua versione in italiano, anche con uno spostamento materiale dell’apparato liturgico: l’altare maggiore perse infatti la sua importanza in quasi tutte le chiese e il sacerdote celebrante si pose di fronte ai fedeli, ossia al “popolo di Dio”, officiando su un altare nuovo, mentre in precedenza, durante la Messa, mostrava le spalle.

 

La Chiesa della Misericordia

 

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Indicata spesso come “chiesa degli impiccati”, è di per sé misteriosa, al fondo della via omonima, trasversale di via Garibaldi. Anticamente risiedevano in questo sito le monache canonichesse lateranensi di Santa Croce e di Santa Maria della Misericordia. Nel 1720 venne acquistata dalla confraternita torinese della Misericordia e nel 1751 fu rifatta su disegno dell’architetto conte Nicol is di Robilant. La facciata, del 1828, venne costili ita a spese della regina Maria Teresa d’Austria d’Este, vedova di re Vittorio Emanuele i. Questa confraternita, fondata nel 1578, aveva l’incarico oneroso, affidatole dai regnanti Savoia, di assistere i carcerati e, soprattutto, i condannati a morte accompagnandoli con un cupo rituale sino al patibolo. Nella chiesa della Misericordia, il registro con i nomi dei condannati, i cappucci neri con i fori per gli occhi, “il bicchierino” per un ultimo sorso di liquore che confortasse, il crocefìsso, sono cimeli legati a un momento di Torino che appartiene alla storia dell’altro ieri.

La scena che precedeva di poco l’esecuzione è rimasta fissata come un’incisione del primo Ottocento nella storia torinese. Dopo la condanna, il reo aveva davanti a sé ancora ventiquattr’ore di vita.

Membri della confraternita si occupavano di lui a turno; uno, in particolare, gli ricordava come quella fosse l’ultima mattina in cui assisteva al levar del sole. La preparazione, quindi la confessione, e poi l’esecutore della giustizia che gli veniva a comunicare che, seguendo quanto il giudice aveva previsto, secondo la legge, lo faceva «non per odio ma per dovere».

Il condannato era poi legato con una solida fune. La campana del comune suonava i tristi rintocchi, il corteo si muoveva per via Dora Grossa, la via Garibaldi di oggi. I gonfaloni spiegati, il canto del Miserere, una sosta davanti ai Santi Martiri, un’altra dinnanzi a Santa Croce nella contrada d’Italia, quella che attualmente è via Milano.

La confraternita trae origine da una concessione per alcuni “supplicanti”, nel 1578, di potersi “congregare”. Nelle vicende che seguirono a tale atto si parla di «nuova Compagnia di Disciplinati sotto il nome di san Giovanni Decollato». La testa del Battista posta in un grande piatto d’argento è tra le prime emblematiche vestigia del sodalizio.

Assistenza ai carcerati come opera di apostolato, dunque, ma soprattutto pietà per coloro che dovevano finire sulla forca perché condannati alla pena capitale, pena sulla quale allora ben pochi muovevano obiezioni, anzi pareva punizione non solo morale, ma abbastanza frequente e destinata a colpire atti che oggi sarebbero puniti, forse, con qualche mese di reclusione.

 

Il boia a Torino

 

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Nella storia della Torino più antica era il personaggio “terminale” di avventurose vicende giudizkirie. Concluso il processo, quand’era comminala la pena di morte, il condannato era affidato al boia, ossia al carnefice. 1 boia che suscitarono maggior curiosità ed ebbero più spazio nelle cronache cittadine furono Pietro Pantoni, Gaspare Savassa e Giorgio Porro. Di Gasprin, diminutivo di Gaspare, se ne parlava ai ragazzi per intimorirli, per evocare qualcosa di più terrifico che un qualsiasi “uomo nero”. Pietro Pantoni nel xvi secolo abitava al numero 2 di via dei Fomelletti, l’attuale via Franco Bonelli, oggi ristrutturata e messa a nuovo.

Un Nicodemo Pantoni visse nel xvrn secolo, lavorando soprattutto con la ghigliottina, al servizio dei francesi, i quali provvidero a far eseguire in città 423 esecuzioni, di cui un centinaio nel 1803. Pare, ma le fonti storiche sono alquanto nebulose in merito, che Nicodemo se la cavasse tanto bene da essere poi nominato boia a Vercelli, e anche là si fece valere. Un altro Pietro Pantoni. nato a Reggio Emilia nel 1801, era, per così dire, figlio d’arte. B padre esercitò il mestiere a Ferrara, un fratello, Giuseppe, a Parma. Il suo arnese di lavoro, la forca, sarebbe quella poi rinvenuta assai più tardi in un sotterraneo del tribunale di Torino, la vecchia Curia Maxima di via Corte d’Appello. Questo Pantoni venne impiegato anche in trasferta: eseguì condanne capitali a Casale, a Chambéry e in alcune località della Liguria.

Il cognome Pantoni e l’omonimia dei due Pietro continua a provocare spesso incertezze e confusioni, attribuendo all’uno ciò che spetterebbe all’altro.

Giuseppe Savassa dall’inizio dell'ottocento lavorò a Torino e portò a termine un numero notevole di esecuzioni. In taluni casi, quando si trattò di mettere a morte più delinquenti in una sola volta, come nel caso di appartenenti a bande criminali, i boia in servizio erano due o tre, e operarono insieme, gareggiando in bravura. Anche questo lavoro collettivo contribuì a ingenerare equivoci e in taluni casi fu citato un boia in quel momento assente da Torino, oppure si scambiò un Pantoni con l’altro, suo omonimo.

Quando oggi si parla del boia, sì suole accennare a quello che abitava in via dei Fomelletti, divenuto ormai figura emblematica. Sembra che Pietro Pantoni non avesse altri amici che un certo Caranca, il becchino di Rivarolo. Andava a trovarlo quando sentiva il bisogno di aprirsi con qualcuno, specialmente le volte in cui gli rimaneva dentro il rimorso per aver impiccato un condannato che personalmente considerava vittima di un errore giudiziario. 11 suo alloggio era «il più pulito della città» poiché la moglie, quasi non osando uscir di casa, non faceva che riassettarlo dalla mattina alla sera. Perfino il panettiere non voleva aver nulla a che fare con il boia e lo accettava di mal animo come cliente, al punto da servirgli il pane rovesciato, ossia offrendoglielo con la forma all’ingiù; pagnotte capovolte che poi rimasero nella tradizione più curiosa della panificazione.

Nell’antica chiesa di Sant'Agostino, sotto il campanile, il boia aveva il posto per la tomba, e in chiesa un banco a parte, staccato dagli altri. Ce la possiamo immaginare la chiacchierata tra il boia e il becchino a parlare di una giornata così piena di lavoro e di fatica, uno a strozzare, f altro a comporre il cadavere e ad andare a seppellirlo.

Conclusa l'esecuzione, il boia tornava in famiglia, curvo, con le mani dietro la schiena, camminando rasente al muro, quasi per non farsi vedere, fino a via dei Fornelletti.

 

Le istituzioni di controllo sociale del Cinque-Seicento: le case per eretici, mendicanti, vagabondi e fanciulle senza famiglia

 

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Era, quella dei mendicanti, dei vagabondi e dei trovatelli senza dimora una piaga che affliggeva il Ducato ormai da parecchio tempo, e in particolare la città di Torino, nelle cui chiese e strade convenivano i vagabondi dello stato e i poveri braccianti delle campagne resi senza lavoro dalla carestia. Tutti gli sforzi fatti per spegnere il disgraziato fenomeno ne testimoniavano la pertinace e rigogliosa vitalità, che aveva fatto sorgere un nuovo genere letterario destinato a durevole seguito: quello delle grida reiterate senza frutto.

Fin dall'otto aprile dell'anno 1585, Sua Maestà Carlo Emanuele, per grazia di Dio Re di Sicilia, di Gerusalemme e di Cipro, Duca di Savoia, Monferrato, Aosta, Ciablese e Genevese, Prencipe di Piemonte e d'Oneglia, Marchese d'Italia, di Saluzzo, Susa, Ivrea, Ceva, del Maro, e Sesana, Conte di Mauriana, Geneva, Nizza, Tenda, Romont, Asti, e d'Alessandria, Barone di Vaud, e Faussign^, Signor di Vercelli, Pinerolo, Tarantasia, Lomelina, e Val di Sofia, Prencipe del Sacro Romano Impero, e Vicario perpetuo in Italia, & cetera, pienamente informato della intollerabile miseria in cui è vivuta e vive questa Città Metropolitana di Torino, per cagione dei mendici e vagabondi, pubblicava un editto contro di essi, con cui primieramente proibiva, ed espressamente diffidava ad ogni e qualsivoglia persona valida, ed invalida, di qualunque età, sesso, e condizione, di mendicare dopo spirati tre giorni dalla pubblicazione dell'editto, sì nelle strade, case, Chiese, che altre porte di esse, o della Città, suoi Borghi e Finaggio, tanto di giorno come di notte, pubblicamente o in segreto, con qualunque specie, o pretesto, sotto le medesime pene, che si vedono lodevolmente imposte in altri Paesi, e singolarmente nello Stato Ecclesiastico, cioè della carcere per la prima volta, ed altra più grave, eziandio corporale ad arbitrio del Senato nostro in caso di recidiva. Tutto ciò, e il più che si tralascia, perché Sua Maestà era risoluta di voler essere obbedita da ognuno.

All'udire parole di una tale Autorità, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i mendici e questuanti fossero scomparsi per sempre. Ma la testimonianza di una voce poco meno autorevole obbliga purtroppo a credere il contrario. Il 3 giugno dell'anno 1593 il Senato di Torino, di pieno accordo con Sua Maestà Carlo Emanuele, per grazia di Dio Re di Sicilia, di Gerusalemme, et cetera et cetera, ordina affinché le limosine, che ciascheduno suol fare, si riserbassero con miglior uso a beneficio dell'Ospedale Generale di Carità e de' poveri che fossero in esso ricoverati; proibiva ad ogni e qualunque persona di qualsivoglia qualità, grado e condizione, che ella fosse, di dar limosine a' poveri mendicanti, vagabondi e simili nelle Chiese, per le strade, alle porte, o altrove, meno di ritirarli, o alloggiarli nelle case, massimamente dagli Osti, Cabarettieri, Locandieri e tenenti letti in affitto, non ostante qualsivoglia motivo, colore, o pretesto, sotto pena di cinque lire moneta di Piemonte per la prima volta a quelli, che daranno la limosina, e di maggior somma a quelli, che daranno ricovero a' medesimo, ed in caso di recidiva la sudetta pena sarebbe stata raddoppiata fin al triplo, e quadruplo secondo le circostanze de' casi.

Ma purtroppo è da concludere che le autorità metropolitane non ci si mettessero con tutta quella buona voglia che sapevano impiegare nelle altre ordinarie faccende, perché il seme tanto pernicioso di tanti e sì gravi accidenti di lunghe e faticossissime guerre e di spaventevoli pestilenze continua a germogliare da tanto disordine e detrimento, come afferma un cronista in principio del nuovo secolo, descrivendo al modo solito un preoccupante affollamento di derelitti e vagabondi, abbandonati da morir di fame, all’esporsi al caldo, al freddo, al vento, alle piogge, a dormire all’aria scoperta, a strascinarsi per il fango delle strade, alle volte pieni di piaghe, e mezzi ignudi, e a perir infelicemente su le porte, e in preferenza dei ricchi avari; vivendo in perpetuo ozio, che è l’origine di tutti i vizi; avendo familiari la menzogna, lo spergiuro e la bestemmia, frequenti le ingiurie e le risse, e ordinarie l’impunità e l’ubriachezza; disprezzando i Sacramenti, e quasi non conoscendo quello del matrimonio, mescolandosi gli uni con gli altri indifferentemente; lasciando in abbandono i loro figli e infine morendo senza ricevere alcuni Sacramenti.

In queste tristi e miserevoli contingenze, lo scandalo che più preoccupava le autorità e la chiesa, e per rimediare al quale i passi più decisi ed energici erano già stati fatti all'inizio del Cinquecento in numerose città italiane, era quello delle fanciulle abbandonate in strada, o avviate alla mendicità dai loro genitori, o peggio alla prostituzione da persone senza scrupoli, che approfittavano della mancanza di una protezione maschile di cui erano venute, per una causa o per l'altra a mancare: orfane, col padre assente o malato incurabile o private dell'assistenza dei parenti. Su proposta del gesuita Leonardo Magnano, già nel 1580 era stata fondata a torino la Casa del Soccorso delle Vergini per povere giovani pericolanti, cioè la cui virtù era in pericolo attuale di essere compromessa. Narra la cronaca del Tesauro che questo padre di rinomata virtù fu indotto all'iniziativa dal caso di una giovane eretica convertita che si era gettata dal balcone per sottrarsi al corteggiamento di un ex correligionario e, rimasta miracolosamente viva, si era gettata ai suoi piedi implorando protezione.

Non passò molto tempo che, a somiglianza di quanto avveniva altrove, si utilizzò la casa, in alternativa alle Carceri del Senato, per internare a forza le "donne cadute, pericolose o di attuale o imminente scandalo al prossimo", principalmente giovani prostitute o donne di cattiva condotta, sulla via di diventarlo. Per disposizione regia, avrebbero dovuto esservi rinchiuse “tutte le donne di malavita, tanto le privatamente che le pubblicamente prostitute, e pertinaci nella loro disonestà, di qualunque città, luogo e condizione, purché residenti negli stati di sua Maestà”.

Questo internamento forzato "per dare educazione a giovani traviate, indocili, vagabonde e di malo esempio", equivaleva ad una pena indeterminata e rinnovabile qualora le istitutrici non avessero riscontrato i segni costanti dell’emenda. La reclusione non di rado, in mancanza di adeguata emendazione, era a vita: il regolamento della casa era molto rigido, e stabiliva che le donne ritirate in essa casa “dovevano persuadersi che non sarebbero uscite sino a che avessero dati segni costanti di una vera emendazione del passato loro tenore di vita”, e a questo fine ognuna “doveva seriamente applicarsi ad eseguire a dovere la porzione e la qualità di lavoro che le sarà destinato dalla signora Madre”. Le "forzate" venivano distinte a questo fine in tre categorie: le penitenti, giovani traviate e recuperate; le maddalene, recuperate e aspiranti alla professione monastica, le perseverande, giovani ancora in pericolo. Esse convivevano con le educande, fanciulle di oneste famiglie civili che la povertà aveva costretto a riparare volontariamente o su richiesta dei genitori nella Casa.

Ma più che la cattiva condotta, a segnare la sorte di queste infelici era spesso la cupidigia dei commercianti. Torino, agli inizi del Seicento, era la capitale internazionale della filatura della seta. Persino i mercanti inglesi riconoscevano e apprezzavano l'eccellenza dei filati piemontesi, protetti da rigidissimi divieti di esportazione di bozzoli vivi e di emigrazione degli artigiani, vincolati questi ultimi al segreto sui procedimenti impiegati. Con lo spopolamento provocato dalle guerre di fine secolo e dalla peste, non c'era mai manodopera sufficiente, e un mezzo facile per procurarsela era far lavorare gli internati delle case. Questo ne ritardava e spesso impediva l'uscita dalla casa fino alla morte, che spesso sopravveniva per cattive condizioni di salute, per malattia o scarse condizioni igieniche.

Un'altra categoria a cui veniva riservato questo destino di reclusione indeterminata erano le eretiche, che dimostrassero o meno segni di pentimento. Secondo insigni teologi, quegli stessi che sostenevano che l'uccisione dei neonati toltechi nelle missioni delle Americhe subito dopo il battesimo era il miglior salvacondotto per la vita eterna, non c'era speranza di salvezza per l'animo dei figli degli eretici. Essi erano definitivamente traviati, la loro anima compromessa sin da tenerissima età, e poteva solo compromettere e infettare le altre. Gli eretici affermavano che il santo battesimo non lavava i peccati, e quindi non battezzavano gli infanti, secondo il rito esorcistico prescritto da Santa Romana Chiesa per allontanare Satana, che quindi fortificava la sua dimora in loro e diveniva per questo impossibile da scacciare. L'unico partito era pertanto, in alternativa al rogo, quello di recluderle a vita, come appestate in un lazzaretto.

 

La nascita dell’istituzione reclusiva

 

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Nell’Antica Roma – e quindi ipotizziamo anche nel castrum di Augusta Taurinorum – il carcere non era visto come misura coercitiva, poteva al più servire “ad continendos homines, non ad puniendos”. La reclusione era quindi un rimedio legato all’arresto temporaneo o alla detenzione preventiva in attesa di giudizio. Le pene del diritto romano potevano infatti essere pecuniarie o corporali fino a giungere alla pena capitale.

Nell’Alto medioevo il quadro non cambiò molto. Il carcere come misura punitiva non esisteva. Le pene erano prevalentemente pecuniarie, ogni individuo aveva un “valore” economico, il guidrigildo, che l’offensore avrebbe dovuto versare all’offeso o alla di lui famiglia. Per i reati più gravi poteva anche scattare la vendetta privata (le famigerate “faide”). Una giustizia molto improntata al fai da te.

Anche in epoca feudale la privazione della libertà non veniva vista come una pena. La detenzione – unita alla tortura – era vista come mezzo coercitivo per ottenere una confessione o come fase di passaggio tra l’arresto e la condanna che anche in questo caso poteva consistere nella pena capitale o in una pena pecuniaria.

La rivoluzione del sistema carcerario prende le mosse dall’Inghilterra del XVI secolo. Qui, sull’onda delle idee pre-illuministe, nel 1557, vede la luce la prima “house of correction” o “workhouse” dove vengono rinchiusi non solo delinquenti comuni ma anche prostitute, vagabondi, ragazzi poveri che vengono obbligati a redimersi attraverso il lavoro.

A partire dalla fine del Settecento si fanno strada così idee e teorie che vedono nella reclusione la funzione punitivo-rieducativa. La pena deve essere in misura necessaria e sufficiente per: a) dissuadere chiunque abbia intenzione di commettere lo stesso reato; b) rieducare il condannato in modo da poterlo reinserire nella società, spesso attraverso il lavoro forzato.

Nascono così le carceri basate sul Panopticon, il principio di Jeremy Bentham secondo il quale pochi possono controllare i molti. Nascono così i primi istituti carcerari moderni basati sulla struttura a “bracci” e rotonde dove le guardie stando ferme possono tenere sotto controllo un intero braccio e dove i carcerati si sentono sempre osservati.

L’Italia vi arriva dopo, nell’Ottocento, quando inizia a diffondersi anche nel nostro paese il sistema cellulare. Il detenuto vive in isolamento totale in piccole celle, con l’obbligo del lavoro diurno e la segregazione di notte.

È su questo impulso che nel 1857, sotto il regno di Vittorio Emanuele II, si decide di dare il via alla costruzione del carcere che prenderà poi il nome di “Le Nuove” al fine di sostituire tutte le strutture carcerarie fino ad allora presenti.

 

Le Carceri Nuove e il Panopticon

 

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Che cos'è il Panopticon o Panottico? Forse ne avete già sentito parlare, ma per capire esattamente il principio che sta alla base di questo sistema bisogna tornare indietro di un pò di anni.

Nel XVIII secolo iniziò una profonda riflessione riguardo il sistema penitenziario finora utilizzato e le finalità della carcerazione. Fino a quel momento il carcere era stato pensato come un luogo di punizione dove il detenuto doveva subire le peggiori pene per espiare le sue colpe. Il primo a porre un punto interrogativo sui metodi adottati fu Cesare Beccaria, che diede inizio ad un lungo dibattito politico e filosofico dove in molti cercarono di stabilire quali potessero essere le esigenze dei carcerati dal punto di vista umano e altri puntarono alla riorganizzazione architettonica del carcere vero e proprio. Tra questi ultimi emerse l'inglese Jeremy Bentham che nel 1786 inventò il Panopticon.

Il Panopticon ha una struttura ben precisa: l'edificio ideale ha forma in pianta circolare al centro della quale si trova una torre vedetta e le celle singole sono disposte tutte intorno ad essa lungo il confine del cerchio. Ogni cella ha due sole aperture: la prima si affaccia verso l'interno e quindi sulla torre vedetta, la seconda verso l'esterno per dare luce alla cella.

La torre vedetta ha i vetri schermati in modo tale che i detenuti non possano sapere se sono o meno controllati durante il giorno e la notte. Le celle hanno una conformazione tale da costringere il carcerato ad un completo isolamento. Questi due ultimi elementi caratterizzanti il Panopticon sono fondamentali per l'espiazioni delle colpe del detenuto poichè il sapere essere osservati induce i carcerati a rispettare la disciplina e l'isolamento favorisce il pentimento evitando l'abuso di strumenti di tortura.

E ora veniamo a Torino.

Il carcere giudiziario Le Nuove è stato costruito tra il 1862 e il 1870 e progettato dall'architetto Giuseppe Polani ispirandosi al sistema Panopticon. Questo carcere fu ben presto conosciuto in città come “Le Nuove” in quanto fu edificato (tra il 1857 e il 1869 in corso di S.Avventore, ora Vittorio Emanuele II n. 127), per sostituire i vari reclusori cittadini: il carcere criminale di via S. Domenico 13, il correzionale di via Stampatori 3, il carcere delle forzate di via S. Domenico n. 32 e il reclusorio per le condannate delle Torri Palatine.

L'edificio, a differenza di quello ideale pensato da Bentham, è strutturato con uno schema in pianta a doppia croce dove dal corridoio centrale si diramano i bracci in cui sono ospitate le celle. Nei fulcri delle due croci sono presenti due corpi a tutta altezza a pianta ottagonale.

L'edificio venne progettato come carcere ad isolamento totale, come previsto dal Panopticon. La segregazione individuale, formalmente introdotta dal decreto regio del 27 giugno 1857, prevedeva infatti l’utilizzo di una cella singola per ogni detenuto affinchè si garantisse l’effettivo isolamento diurno e notturno.

Le celle erano 648, lunghe 4 mt., larghe 2,26 e alte 3; disponevano di una finestra posta all’altezza di 2 metri e 10 dal pavimento, a forma di “bocca di lupo” per vedere soltanto il cielo e non permettevano al detenuto di capire in che zona del carcere si trovasse.. La superficie complessivamente occupata era di 37.634 metri quadri, perimetrata da due muri di cinta alti cinque metri, con quattro torricelle, tredici bracci, sei cortili per il passeggio e due cappelle, una per gli uomini e l’altra per donne.

L’unico altro esempio di Panopticon è quello, più recente, del Presidio Modelo anch’esso ormai in disuso.

In questo carcere Cesare Lombroso trovò i primi soggetti per avviare lo studio della criminologia (vedi immagini dell'Archivio Storico) una scienza che mosse i primi passi proprio fra queste mura.

Da qui sono passati alcuni dei personaggi che, nel bene o nel male, hanno avuto una parte nella storia della città, un archivio di vicende difficili, dolenti e terribili, spesso poco conosciute.

Il carcere inizialmente era destinato agli imputati e ai condannati con pene non superiori ad un anno. Poi nel corso di più diun secolo di storia, oltre al reclusorio per la criminalità comune, ha custodito soldati disertori della guerra 1915-18, operai arrestati nel "biennio rosso", antifascisti, partigiani, deportati, ebrei e, dopo la guerra, fascisti. Più recentemente vi sono stati rinchiusi mafiosi, terroristi, tangentisti.

Il carcere non muta fino agli anni Settanta quando vengono introdotte non poche migliorie, prima fra tutte il sistema di riscaldamento fino ad allora inesistente. Alle celle vengono aggiunti anche lavandini e water. Negli anni vengono modificati i cortili, apre il centro clinico. Tra le sue mura soggiornarono anche mafiosi, terroristi e “tangentisti” del periodo Tangentopoli.

Alle Nuove è anche legato un episodio tragico degli Anni di Piombo. Il 15 dicembre 1978, i due agenti di polizia Salvatore Lanza e torino_valletteGiuseppe Porceddu sono di guardia su un pulmino sotto le mura del carcere. All’alba, tre giovani a bordo di una 127 rossa scaricano un mitra e due colpi di lupara sui due poliziotti che moriranno sul colpo. I colleghi all’interno fanno in tempo a vedere soltanto l’auto in fuga. L’attentato verrà rivendicato dalle Brigate Rosse.

Le carceri Le Nuove di Torino sono rimaste in funzione fino al 2005. Oggi una parte è stata restaurata e adibita a museo dove è possibile fare visite guidate sia diurne che notturne con il solo uso delle torce elettriche regalando un percorso molto suggestivo e, per i più sensibili, inquietante!

 

L’antico Carcere del Vicariato alle Torri Palatine

 

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La storia di queste torri è molto lunga e controversa. Nel Vangelo di Luca si narra che Pilato, caduto in disgrazia, a causa delle eccessive stragi ordinate, fu mandato a Roma per essere giudicato.

Un’altra versione, invece, ci dice che Pilato fu mandato in esilio in Francia e, di passaggio a Torino, fu imprigionato nelle Torri. Nessuno storico, però, ha mai trovato i documenti che confermassero il fatto.

Sembra che questa leggenda sia nata nel ‘500 con l’arrivo della Sindone nel Duomo. Questo fatto aveva facilitato la nascita di leggende di carattere religioso.

Scrive il Viriglio che in una delle due torri venne rinchiuso il famoso scrittore latino Ovidio, accusato di aver visto, nella casa di Augusto, “cose che non doveva vedere”.

Questo carcere, di cui abbiamo notizia certa del regolare funzionamento già dal 1500, era ubicato nei diversi piani delle torri.

Altre informazioni ci parlano dell’utilizzo delle torri da parte del tribunale dell’Inquisizione. Le persone inquisite venivano incarcerate in queste torri in attesa di giudizio o vi scontavano la pena.

In quello stesso periodo il tribunale dell’Inquisizione utilizzava anche le carceri criminali site nell’attuale via San Domenico 13.

Le persone arrestate (sia uomini che donne e ragazzi) venivano portate nelle torri e disponevano di pochissimo cibo e quasi nulla per coprirsi durante il rigido inverno torinese. Secondo alcuni documenti, le condizioni di vita dei detenuti erano disumane.

Nel 1699 fu aperta più a ponente, presso l’antica porta di San Michele (nella piazza della frutta) un’altra porta, che fu chiamata porta Vittoria e fu definitivamente chiuso l’accesso in città dalla Porta Palatina. Tutti, però, continuarono a chiamare la nuova porta aperta Porta Palatina, cioè con il nome della vecchia porta.

Il Cibrario scrive che Vittorio Amedeo II intendeva far abbattere la vecchia porta Palatina, ma il valente Antonio Bertola lo sconsigliò vivamente, facendogli capire l’importanza storica di quelle mura.

Il 4 novembre del 1702 la Porta Palatina viene chiusa , perché non serviva più come porta di accesso alla città e nel maggio del 1724 le torri passarono sotto il controllo del Vicariato per diventarne ufficialmente le sue carceri.

Esistono alcune fotografie e disegni in cui si vedono le torri con, davanti alle finestre, le “bocche di lupo”. Sono strutture che non permettevano dall’interno di vedere verso l’esterno, non lasciavano passare neanche la luce del sole e le stanze erano sempre molto buie.

La parte di collegamento tra le due torri venne trasformata in caserma per i soldati delle carceri del Vicariato.

Coloro che finivano nel carcere delle Torri o del Vicariato erano persone per lo più fermate dai militari del Vicariato. Si trattava di piccoli scippatori, ladruncoli, oziosi e vagabondi, prostitute.

I tempi di permanenza non erano lunghi, di solito si aggiravano sui due o tre mesi; se le condanne erano maggiori i detenuti venivano trasferiti nel carcere criminale, sotto la giurisdizione del Tribunale.

Dopo il 1750, parte della popolazione femminile venne smistata nel carcere delle Ferrate, appena aperto.

Nella Guida di Torino del Craveri, del 1753, si legge:” … indi salendo sul bastione a man destra della Porta Palazzo vedonsi verso levante due gran Torri, ove sono le Carceri del Vicariato, …”

Di questo carcere non si hanno molte notizie, poco è stato scritto anche perchè le condizioni di vita erano miserabili, ai limiti della sopravvivenza. Chi usciva era sicuramente una persona disperata e non pensava certo a scrivere le proprie memorie.

Sulla vita di questo carcere abbiamo scarse testimonianze come, ad esempio, alcune relazioni scritte da medici o altro personale che le aveva visitate: in una di queste si parla di un certo Baloc. Baloc era stato incarcerato nelle carceri delle Torri, nel 1685, ed era affetto da una grave malattia che stava portando alla tomba; il dottor Griffa, il medico che andava a visitarlo, scriveva:”Ditenuto Baloc ammalato abbandonato non per iperbole, ma in realtà sovra un vero letamaio, già esulcerate le parti genitali, e la schiena, già privo di voce e spirante a momenti”.

Il povero Baloc era stato abbandonato su un lato del camerone adibito a raccolta degli escrementi. Non vi era la possibilità di avere medicine di nessun tipo e il povero dottor Griffa decide, di tasca sua, di comprare del vino per alleviare gli ultimi momenti del carcerato Baloc.

Il fatto che non esistessero servizi igienici non deve meravigliare eccessivamente perché lo stesso problema veniva lamentato dai detenuti durante la rivoluzione francese del 1789. Esistevano addirittura delle “stanze di carcere” a pagamento. Erano disposte sui piani superiori ed avevano un buco in cui espletare i bisogni fisiologici che cadevano e venivano ammassati con gli altri delle camere inferiori (cioè di quelle che non erano a pagamento).

Alcune celle erano semplicemente dei pozzi da cui il recluso veniva “estratto” quando doveva essere interrogato o liberato.

Anche le guardie del Vicariato di Torino non stavano, sicuramente, molto meglio quando si legge che, a causa della mancanza di pane, molte volte non riuscivano a stare in piedi per la debolezza.

Nel 1860 le torri palatine vennero isolate dalle altre costruzioni esistenti. Si trattava di vecchie casupole poverissime e diroccate. Nel 1872 iniziarono i restauri e, nel 1906, il Comune ordinò il definitivo abbattimento delle parti aggiunte.

 

Le altre carceri di Torino dal Seicento all’Ottocento

 

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Alla fine del seicento a porta di Po sorgeva una prigione onorata per le persone di riguardo.

Per molti anni il carcere principale fu quello sito nel palazzo del Senato, isola 30, nell’attuale v. San Domenico.

Il sistema di carceri di Torino, al momento dell’erezione delle Carceri Nuove (tra il 1857 e il 1869) comprendeva:

- Carceri Criminali - v.San Domenico 13

- Correzionali - v. Stampatori 3, destinato ai condannati per reati minori.

- Delle Forzate - v. San Domenico 32 per le postitute, poi correzionale per giovani

- Torri o reclusorio, nel palazzo delle Torri Palatine - per le dame

- La “Generala” - sulla strada di Stupinigi per le prostitute che prima erano anche rinchiuse nel “Castro” (non più esitente) uato nell’attuale corso Massimo D’Azeglio. Nel 1600 fu villa del conte G.B. Trucchi di Levaldigi, barone della Generala. Nel 1779 accolse più di duecento fanciulle povere impegnate a cucire divise militari.

- Padri della Missione a 2 km da Torino sulla via Nizza a sinistra dal 1838 per donne e sifilocomio. Nel 1874 viene trasferito al Martinetto.

Furono anche usate come prigione le carceri della Cittadella (in funzione dal 1566) e Palazzo Madama. Qui i detenuti erano trattenuti o nei piani più alti oppure nei sotterranei delle torri orientali, i cosiddetti “crottoni”. Fra loro si ricordano l’abate Valeriane Castiglione, reo d’aver denigrato l’autorità ducale, l’ex monaco Giovanni Gandolfo, implicato in un clamoroso caso di presunta “magia nera”, come altri condannati per “astrologia giudiziaria e sortilegio”, il conte,catalano Alfieri, considerato responsabile dell’insuccesso della campagna contro Genova del 1672, e perfino il presidente della Camera dei Conti, Giuseppe A. Benso di Mondonio primo conte di Pino, condannato per peculato nel 1697, coinvolto in un grave scandalo.

Il sotterraneo della torre di sud-est, noto come “crottone”, dal piemontese croton (prigione), nei secoli XVIII e XIX fu destinato a carcere temporaneo per reati comuni, un antesignano delle celle che si trovano oggi nelle caserme e nei commissariati, ma vi vennero rinchiusi anche oppositori politici. Due celebri burattinai, Bellone e Sales, furono ospitati nel “crottone” dopo un processo che ispirò al Gramegna un gustoso intreccio romanzesco.

Gli istituti per la correzione dei minori erano:

- L’Ergastolo dal 1786,

- Via Carlo Francesco Ormea 127 e 129

I ragazzi che avevano commesso reati non venivano portati in questo istituto, ma nelle carceri comuni con gli adulti;

si arrestavano e si processavano i ragazzi dai dodici anni in su.

Le Carceri Nuove sostituirono il carcere criminale di via S. Domenico 13, il correzionale di via Stampatori 3, il carcere delle forzate di via S. Domenico n. 32 e il reclusorio per le condannate delle Torri Palatine.

 

Palazzo di Giustizia o Palazzo della Curia Maxima di Torino

 

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Nel 1848, quando una delle due Camere del Parlamento Subalpino prese il nome di Senato, il Senato di Piemonte divenne la Corte d’Appello.

Il palazzo mostra uno stile misto barocco e neoclassico, vari architetti vi misero mano: lo iniziò Filippo Juvarra (1720), lo proseguì Benedetto Alfieri (1741) e Ignazio Michela lo rese funzionale (1825-1838). Ma il nuovo palazzo occupava soltanto la metà dell’isolato sulla via Corte d’Appello.

Sul retro, in via San Domenico, restavano le antiche Carceri Criminali o Carceri Senatorie: un massiccio e squallido edificio che rappresentò sempre una vergogna per Torino.

Toccò ad Alessandro Antonelli, dopo il 1870, provvedere finalmente alla loro demolizione ed alla sistemazione del Palazzo, terminata nel 1878.

Nel 1870, a Torino si aprivano nuove e moderne (per allora!) prigioni: le Carceri Cellulari o “Nuove” di corso Vittorio Emanuele II. Per quei tempi, un forte miglioramento!

Le Carceri Senatorie non occupavano però l’intero isolato tra le vie Sant’Agostino e delle Orfane.

Sul lato prospiciente la via delle Orfane, quindi dirimpetto al Palazzo Barolo, si trovava un edificio dove aveva sede l’Amministrazione delle Carceri del Regno: vi lavorò Natale Aghemo, cugino di Rosa Vercellana, la Bela Rosin, prima di diventare, nel 1867, Segretario del Re Vittorio Emanuele II.

In questo edificio di via delle Orfane, oltre agli alloggi di servizio dei guardiani delle carceri, si trovavano all’ultimo piano le abitazioni degli esecutori di giustizia, cioè i boia, con le loro famiglie.

Il Palazzo della Curia Maxima ospitava quindi la completa “filiera” della Giustizia: le prigioni, le aule del tribunale, gli uffici, le abitazioni dei boia e anche la forca, tenuta nei sotterranei: veniva montata al momento delle esecuzioni capitali e, dopo, era smontata e riposta.

La forca di Torino finì nel Museo di Antropologia criminale del professor Cesare Lombroso nei primi decenni del Novecento, quando venne casualmente ritrovata nei sotterranei della Curia Maxima: una delle due scale, quella più lunga un tempo utilizzata dal boia, era stata adoperata per molti anni per la pulizia dei lampioni dell’atrio del Palazzo di Giustizia!

 

Le carceri criminali o senatorie

 

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Le carceri criminali o senatorie erano in funzione già nel ‘500, ma si hanno dati del ‘300 di una precedente costruzione in quel luogo ove era già presente una fortificazione con annesso un carcere.

Le carceri senatorie o criminali facevano parte della Curia Maxima, il complesso di tribunali che si affacciavano sul lato di via Corte d’Appello. Le carceri si affacciavano anche su via San Domenico e tutto l’isolato fu molte volte ristrutturato e in parte abbattuto nel tempo per riallinearsi con le case, in base alle leggi che prevedevano il raddrizzamento delle vie.

Scriveva il Cibrario:” Da questo ritiro nulla troviam di notevole fino al quinto isolato. Contiene le carceri senatorie la cui forma esteriore, la cui disposizione interna darebbe una mentita ai progressi del secolo, se l’augusto Re, fautor sollecito de’ miglioramenti che predica la carità cristiana, non avesse a sì importanti riforme già rivolto con effetto le savie sue cure. Non è la sola carità legale, è la giustizia, è la morale evangelica che vuole una distinzione tra il carcere preventivo che è solo a titolo di custodia, ed il carcere successivo alla sentenza che è a titolo di pena; che vuol separate le categorie de’ delinquenti, sia del carcere preventivo, sia nel carcere penale; che vuol separate soprattutto le età, dimodoché gli adolescenti traviati non sieno contaminati dal fiato pestifero di chi incallì ne’ misfatti. De’ quali miglioramenti tutti quelli che l’ingrata disposizione de’luoghi potea consentire si sono di già procurati, gli altri s’otterranno, noi confidiamo nella provvidenza del Re, senza troppo ritardo trasferendosi in edifizio meglio appropriato a queste condizioni i carcerati”.

Nelle carceri criminali furono rinchiuse anche le persone che erano state accusate dell’Inquisizione. Le sezioni peggiori di queste carceri erano i sotterranei, i famosi crottoni. In questi crottoni erano rinchiusi i peggiori criminali.

Sopra queste carceri era presente il Confortatorio che era il luogo in cui venivano portati i condannati a morte 24 ore prima dell’esecuzione. Essi erano assistiti dall’Arciconfraternita della Misericordia, in attesa dell’ultima ora. San Cafasso, nell’800, scriveva: “Che orrore si prova entrando in una prigione, al vedere tanti giovinastri chiusi tra quei ferri, legati come tante bestie, arrabbiati e consumati dalla fame”. Un altro dato che fa riflettere era il bisogno che aveva Cafasso, appena giunto a casa, doveva cambiarsi tutti i vestiti perché erano infestati da parassiti “ poco desiderabili”

Scrive Carnino che don Cafasso arrivava davanti alla finestra dei cameroni delle carceri e chiedeva: “Quanti siete?” “Quaranta!” e distribuiva ottanta pani. Ma dati antecedenti ci confermano la presenza in certi stanzoni di 70-80 persone tutte ammassate per terra con poca paglia, resa marcia dall’umidità. Bisogna ricordare che tutti avevano sempre fame perché il cibo era assolutamente insufficiente. Mancavano quasi del tutto i vestiti che erano indispensabili per sopravvivere al rigido inverno dato che le finestre non avevano i vetri.

Alcuni dati statistici dell’Arciconfraternita della Misericordia ci ricordano che molte persone uscite dal carcere (circa il 30%) erano colpite da malattie gravi che in molti casi le portavano ben presto alla morte.

Delle carceri Criminali, nel primo ‘800, si ricorda la famosa storia delle grida ascoltate da Giulia di Barolo. Silvio Pellico ci relaziona su questo fatto:”Un giorno, nell’ottava di Pasqua, ella incontrò la processione della parrocchia di sant’Agostino: veniva portato il SS. Sacramento agli ammalati. La Marchesa si inginocchiò, e mentre udivasi il canto della processione, una voce uscita da luogo chiuso gridò: Non di viatico vorrei, ma la minestra”. Turbata da quelle audaci parole, la Marchesa alzò gli occhi, vide le sbarre carcerarie del Senato, e propose al servo che la accompagnava d’entrare seco in prigione. Ella volea dare il denaro che aveva nella borsa, pensando che la fame avesse spinto il furioso a quel grido sperava così di torgli la tentazione di una nuova insolenza.

Qui iniziarono i rapporti di Giulia Colbert di Barolo con le carceri. La prima visita iniziò dai locali da cui erano partite le urla:... altri stavano chiusi nella stessa buia e fetida carcere, vi si rideva e cantava con urla più di animali feroci che d’umane creature...”.

Subito dopo, sconvolta, Giulia decise di andare a trovare le donne che erano carcerate ai piani superiori: ... fu condotta al piano più alto dell’edifizio, in quello delle donne. Queste misere non aveano altra luce né aria fuorchè da altissime aperture, sino alle quali non potevano elevarsi. Vi erano tante celle quanti pagliaricci la capacità del suolo poteva contenere; le divideva un stretto andito, e quest’unico luogo, ove prendessero qualche esercizio, veniva in più parti attraversato da grosse chiavi di ferro atte a sostenere i muri, impicciando assai il camminare.Nel corso di un anno e mezzo vi furono due braccia rotte e un piede slogato. Le detenute erano appena vestite, parecchie non avevano i cenci bastanti a coprirsi ...” Bastano queste poche parole per riuscire a descrivere cosa potesse essere la vita, se vita si vuole chiamare, all’interno e si può giungere a capire come fosse ulteriormente difficile nei secoli precedenti all’800.

Sempre Giulia di Barolo ci dice: Nel carcere Senatorio la piccolezza del luogo cagionava gravi inconvenienti. Le condannate e le prevenute (cioè le donne in attesa di giudizio) abitavano insieme. L’agitazione delle une, i timori, le speranze turbavano la rassegnazione necessaria alle altre”.

Queste carceri, che avevano una capienza di 350 detenuti, nell’800 ospitavano circa 700 persone, nelle celle c’era solo paglia marcia infestata dai parassiti, le finestre erano tutte rotte, inoltre le latrine intasate obbligavano i detenuti a vivere tra i loro escrementi. Su documenti conservati nell’Archivio Storico del Comune si scopre che le persone incarcerate nelle carceri criminali di Torino venivano chiamate ancora nell’800 i “sepolti vivi”.

Questa denominazione aveva delle ragioni reali basti pensare che molti di loro non erano stati ancora giudicati e dovevano “marcire” quattro, o cinque anni e, in certi casi, fino a dieci per avere un primo giudizio. Si era anche tentato di utilizzare i carcerati per farli lavorare ai telai, ma erano, ormai, tutti ridotti a livello di larve umane e perciò inabili al lavoro. Nel 1870 si decise lo smantellamento di questo carcere, i detenuti vennero trasferiti alle Nuove, che erano appena state aperte.

 

Il Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso” di Torino

 

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Nel Palazzo degli Istituti Anatomici dell’Università di Torino ha sede, dal 2009, il Museo di Antropologia Criminale, voluto e fondato nel 1876 da Cesare Lombroso (1835-1909). Anche se da tempo la sua teoria è del tutto abbandonata – in quanto totalmente infondata – Lombroso è considerato il padre dell’antropologia criminale perché, seppur con metodi e risultati per noi oggi discutibili, fu il primo a cercare di dare una definizione e un approccio empirico-sistematico allo studio della criminalità e a capire l’importanza della balistica, cioè, dello studio degli effetti dei proiettili sulle persone e sugli oggetti.

Basandosi sulla fisiognomica, ossia sulla pseudoscienza che pretendeva di capire il carattere e l’etica delle persone solo dal loro aspetto fisico, in particolare dai lineamenti del volto, Lombroso credeva che determinati tratti fisici fossero tipici solo dei criminali o dei “pazzi”. Un mento pronunciato, una fronte poco spaziosa, una determinata forma del cranio, ecc. venivano così a costituire la prova della follia, della colpevolezza o della presunta inclinazione a delinquere di un individuo. Lombroso arrivò persino ad applicare le sue teorie nella pratica forense, sostenendo a un certo punto che la pena di morte fosse l’unica soluzione agli istinti criminali, istinti per lui innati e quindi non modificabili né eliminabili.

Il museo, unico al mondo nel suo genere, è una collezione di 4000 pezzi: crani e cervelli di persone mentalmente instabili e di criminali, corpi del reato, foto, preparati anatomici, prodotti artigianali realizzati da prigionieri e da pazienti dei manicomi criminali, disegni, impronte, un migliaio di resti umani, oggetti trapassati da proiettili. Questi reperti provengono da tutto il mondo. Non sono, infatti, solo il frutto della collezione che Lombroso in persona iniziò nel 1859, ma molti di questi pezzi gli furono inviati da suoi studenti e ammiratori.

Ricordiamo, tra i pezzi più importanti della collezione, 150 teschi di criminali sardi, 250 di criminali piemontesi e 100 di malati mentali. Lombroso, infatti, prestava servizio nell’esercito piemontese e, durante la sua carriera a Torino, Pavia e Pesaro, poté misurare crani e procurarsi cervelli e teschi. I metodi che usava non erano sempre convenzionali, ad esempio, non disdegnava la profanazione delle tombe pur di procurarsi oggetti di studio che confermassero le sue ipotesi di atavismo criminale (vale a dire, si è criminali solo per nascita, e non per fattori sociali, ambientali, educativi).

Tra i reperti della collezione lombrosiana, vale la pena ricordare il cranio di Giuseppe Vilella, un criminale calabrese. È un pezzo importante perché in esso Lombroso riconobbe quegli aspetti somatici che gli fecero sostenere che il delinquente nasce tale: il criminale è diverso dalla persona “normale” perché possiede anomalie fisiche che lo spingono al crimine. In parole semplici, l’aspetto fisico, come una malattia ereditaria, condiziona e determina le azioni.

Molti dei resti umani di questo museo sono oggi oggetto di contese legali perché si vorrebbe dare loro una degna sepoltura. Lo stesso Lombroso donò il suo corpo alla scienza: scheletro, volto, cervello e cuore si trovano proprio in questo museo.

Nel Museo è inoltre possibile visitare il suo studio, ricostruito esattamente così com’era quando Lombroso era vivo.

 

I manicomi di Torino

 

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La costituzione ufficiale del manicomio risale al 1728, anno in cui il re Vittorio Amedeo II ne affidò, con regie patenti, la gestione alla Confraternita del S. Sudario e della Vergine delle Grazie.

Nel 1728 la Confraternita del Santo Sudario, attiva sin dal 1598, ebbe in donazione un terreno nel terzo ampliamento della città, per realizzarvi l’Ospedale dei Pazzerelli. L’edificio, costruito l’anno seguente, presenta uno schema introverso, caratterizzato da un percorso distributivo rivolto verso la strada e da ambienti affacciati invece verso l’interno. Nel 1781 l’istituzione ospitava 55 uomini e 5 ragazzi. La guida di Torino del Paroletti (1819) attribuisce la chiesa a Bernardo Antonio Vittone, a eccezione della facciata, assegnata invece all’architetto Butturini, membro onorario del Corpo Decurionale della città. Fonti recenti (Tamburini, 1968) riportano invece l’ingegnere Mazzone per la Confraternita (1734), e l’architetto Giacomo Antonio Paracca per la facciata, successiva. Dopo un periodo di abbandono il complesso è stato restaurato (1994) su progetto dell’architetto Eugenio Montanino, divenendo prima sede della Franco Rosso International e oggi della Société Générale.

La prima sede divenne presto insufficiente. L'ubicazione successiva, cioè presso l'Istituto per le figlie dei militari, sempre gestito dalla Confraternita, provocava grandi lamentele per il disturbo che i ricoverati provocavano alle Figlie ospiti dell'Istituto.

Nel 1827 venne quindi affidata all'architetto Talucchi la progettazione di una nuova sede in via Carlo Ignazio Giulio, sempre all'interno della città, per 600 pazienti, la quale fu inaugurata nel 1834 e abbandonata nel 1973.

Nel 1848 la direzione del Regio manicomio chiese l'istituzione di una cattedra universitaria per l'insegnamento della psichiatria (la prima in Italia), che fu affidata nel 1850 al prof. Bonacossa.

Già pochi anni dopo l'apertura del grande fabbricato di via Giulio, la struttura mostrava i suoi limiti di ricettività e la sua obsolescenza sotto il profilo medico-igienista. La saturazione degli spazi e, nel 1854, la previsione di epidemie di colera consigliarono quindi il trasferimento di buona parte dei degenti alla Certosa di Collegno, un grande complesso alle porte della città, la cui collocazione rendeva possibile la totale applicazione dei nuovi paradigmi manicomiali, essendo una costruzione di notevoli dimensioni situata in piena campagna, con estese aree verdi e colonie agricole in grado di offrire ai ricoverati la possibilità di lavorare.

I vari aggiornamenti ottocenteschi della struttura consistettero in veri e propri padiglioni che conferirono alla certosa l’aspetto di vero e proprio ospedale psichiatrico che poi diventerà.

La struttura divenne famosa all’inizio del XX secolo (1927) quando fu convertita anche in teatro e, contemporaneamente, saltarono agli onori della cronaca le vicende sullo “smemorato di Collegno”, un uomo che si riteneva fosse scomparso in guerra e che invece riapparve dal nulla.

Nel 1930 all’interno della struttura nacque un reparto dedicato ai pensionati chiamato “Ville Regina Margherita”. L’importanza della struttura era tale che negli anni 40, raggiunto il massimo della sua estensione, il Manicomio possedeva addirittura una piccola linea ferroviaria interna che si chiamava “Decauville”: serviva a collegare fra loro i venti padiglioni di cui era composto il tutto.

Gli ampliamenti ottocenteschi e novecenteschi apportati al complesso monastico per adattarlo alla nuova funzione furono realizzati in base a precise tipologie che si sono mantenute inalterate fino ad oggi. All'ingegner Giovanni Battista Ferrante venne affidato il compito di elaborare un progetto per rendere possibile il riutilizzo dei fabbricati esistenti e lo sviluppo organico degli ampliamenti. Dal 1864 al 1900 furono realizzati i padiglioni "dispari" disposti a pettine lungo il lato destro (sud) del chiostro: nove edifici a pianta rettangolare allungata, disposti su due o tre piani fuori terra con il piano interrato a cantina. A partire dal 1893 furono realizzati, su progetto dell'ingegner Luigi Fenoglio, sulla base della stessa tipologia, cinque padiglioni "pari" disposti a pettine lungo il lato sinistro (nord) del chiostro. La struttura fu completata con una enorme lavanderia a vapore.

Da ultimo, a partire dal 1899, furono realizzati, prima i locali di servizio per i giardinieri e, successivamente, i laboratori di arte e mestieri, collocati a nord del complesso manicomiale. Il Manicomio di Collegno costituì, per i suoi tempi, un modello di architettura manicomiale, in quanto fu il primo in Italia a prevedere due file di padiglioni paralleli, a più piani, isolati tra loro, in modo da separare le diverse forme e gradi di malattie mentali.

Nonostante la Legge provinciale e comunale del 1865 trasferisse alla Provincia di Torino la cura degli alienati poveri, la gestione dell'assistenza psichiatrica fu affidata all'antica Confraternita della Sindone. Poco prima delle leggi crispine del 1890, che riordinarono il settore assistenziale, alla Confraternita fu sottratta la gestione dei manicomi: l'opera pia divenne un ente autonomo, svincolato dall'ordine religioso e controllato da una direzione amministrativa di nomina prefettizia, assumendo il nome di Regio manicomio di Torino. Questo assetto venne ulteriormente modificato nel 1909 con l'introduzione del diritto provinciale alla nomina della maggioranza dei consiglieri di amministrazione e rimase valido fino allo scioglimento dell'ente nel 1980.

Considerato l'incremento del numero dei ricoveri alla fine dell'Ottocento, la Provincia deliberò la costruzione di un nuovo ospedale psichiatrico nella borgata di Savonera a Collegno.

L'edificazione del ricovero di Savonera, progettato e realizzato dall'ufficio tecnico provinciale, prese il via nel 1910 per completarsi nel 1913. Una volta terminato, il complesso sarebbe stato adibito a ricovero per i malati cronici tranquilli, assai più simile a un gerontocomio che a un manicomio, come dimostra il fatto che il progetto originario della struttura non prevedesse né sbarre alle finestra né muro di cinta. La gestione del nuovo ospedale venne ancora una volta affidata all'opera pia: la Provincia non aveva sufficiente cultura ospedaliera e adeguato personale sanitario per riuscire a condurre il nuovo ospedale psichiatrico, così la Confraternita continuò a mantenere un ruolo dominante negli ospedali psichiatrici. Il ricovero di Savonera fu ben presto insufficiente ad accogliere anche solo i malati "tranquilli" e il numero di ricoverati continuava a crescere, così la Confraternita della Sindone fu obbligata a prendere decisioni contrarie alle idee della Provincia, inviando a Savonera solo donne, con una rigida divisione dei sessi e non rispettando la suddivisione tra malati acuti e tranquilli lungodegenti.

Nel 1914, per ovviare a questa situazione e all'eccessivo affollamento delle strutture ospedaliere, l'opera pia propose una sistemazione diversa dei malati con il trasferimento di tutti gli uomini a Collegno (circa 1500) e di tutte le donne a Torino e Savonera (anch'esse circa 1500), ma questa ridistribuzione non bastò a risolvere il problema del sovraffollamento e nel 1915 i rappresentanti dell'opera pia e della deputazione provinciale s'incontrarono per dibattere su questo tema. Ci fu un compromesso tra i due enti per cui alla Provincia fu richiesta l'edificazione di una nuova struttura manicomiale e all'opera pia veniva confermata la gestione della struttura e la garanzia che il nuovo complesso ospedaliero sarebbe stato costruito vicino a Collegno con una capienza adatta al futuro abbandono della sede di Torino.

I lavori di costruzione iniziati nel 1928 terminarono nel 1931 e portarono all'edificazione a Grugliasco di un fabbricato direttivo, due di degenza, della camera mortuaria e della cucina. Il nuovo complesso fu denominato "Istituto Interprovinciale Vittorio Emanuele III per infermi di mente in Grugliasco". "L'indicazione di interprovinciale nasceva dalla suddivisione tra la Provincia di Torino e quella di Aosta. L'ente torinese era proprietario del complesso per l'85,85% e quello valdostano per il rimanente 14,15%: in tali proporzioni erano state suddivise le spese e, ovviamente, il numero delle ricoverate. Anche in questo caso l'opera pia dei Regi ospedali psichiatrici di Torino ottenne la gestione dell'ospedale, come era successo per Savonera.

Tra il 1931 e il 1934 erano anche state realizzate dall'opera pia la Villa Regina Margherita, struttura nel complesso della Certosa di Collegno destinata a pensionanti, cioè alienati che pagavano una retta di tasca loro.

Fu usato il nome Villa per evocare una maggior apertura, rispetto a ospedale o manicomio, e suggerire una maggior idea di libertà, nonostante questi ricoveri fossero uguali agli altri manicomi, a parte per il trattamento relativo al cibo e all'alloggio in camere singole.

Negli anni Sessanta del Novecento presero il via i lavori per l'ampliamento dell'ospedale di Grugliasco e per riportare alla sua destinazione originaria il padiglione medico - pedagogico, denominato Villa Azzurra, una struttura per il ricovero di 150 tra bambini recuperabili e scolarizzabili e bambini e non scolarizzabili. Il reparto venne definito "aperto", basato cioè sul sistema open door, per quanto il meccanismo della gestione medica e infermieristica risultasse identico a quello degli altri settori del manicomio.

Nel 1966, spinta dal sovraffollamento della struttura di Torino, l'opera pia costruì un nuovo grande padiglione ospedaliero nel complesso della Certosa di Collegno, denominato Villa Rosa e destinato alle degenti anziane tranquille, che erano già ricoverate in manicomio ma non potevano lavorare e le cui famiglie non potevano provvedere alla loro assistenza.

Dal 1968 al 1970 si tentò ripetutamente di sciogliere l'opera pia, fino a quando, nel 1971, fu rinnovato il consiglio di amministrazione degli ospedali psichiatrici di Torino e nominato un nuovo presidente: a quel punto divenne chiaro che era venuta meno l'ipotesi di scioglimento dell'ente. Parallelamente, nel corso degli anni Settanta, i degenti erano diminuiti e si erano creati spostamenti di malati da un reparto all'altro. Nel 1973 venne chiusa la sede di via Giulio, che divenne proprietà del Comune nel 1975. Nel 1978 venne chiuso l'ospedale di Savonera e nel 1979 Villa Azzurra.

Il 31 dicembre del 1980 l'Opera pia Ospedali psichiatrici di Torino venne definitivamente sciolta e la competenza dei degenti di Grugliasco e Collegno passò all'Unità sanitaria locale 24 di Collegno, oggi Azienda sanitaria locale Torino 3.

 

Il caso dello “Smemorato di Collegno”

 

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Il caso dello smemorato di Collegno e’ una storia che ha affascinato l’opinione pubblica italiana e torinese per molti decenni.

Un test del DNA, effettuato dalla genetista Marina Baldi a seguito della citazione del caso in un servizio di Chi l’ha visto?, ha fornito ulteriori prove per avvicinarsi alla soluzione del mistero.

L’episodio, noto anche come il caso Bruneri-Canella, si è svolto a partire dal 1926 con lo scopo di attribuire un’identità a un uomo, per l’appunto affetto da amnesia da shock, ricoverato al manicomio di Collegno.

La storia della smemorato di Collegno ebbe inizio il giorno di Natale del 1916, nel pieno della Grande Guerra.

Il capitano Giulio Canella, impegnato in una delle tante battaglie di trincea in Macedonia, scomparve alla vista dei suoi soldati dopo un lungo combattimento che aveva causato numerose vittime tra gli italiani.

Il corpo non fu mai ritrovato, tanto che venne iscritto alla lista dei soldati scomparsi al fronte.

Ben 11 anni dopo comparve a Torino una figura piuttosto insolita, un uomo con poco meno di cinquant’anni che si aggirava per la città commettendo piccoli furti e minacciando atti di violenza su se stesso, tanto da essere rinchiuso nel Manicomio Reale di Collegno.

La sua foto, pubblicata sulla Domenica del Corriere, fece il giro della città di Torino e provincia, tanto che la signora Giulia Canella (moglie del capitano scomparso) credette di riconoscere nell’uomo la figura del marito disperso in guerra.

Ufficialmente lo sconosciuto soffriva di amnesia e solo dopo diversi incontri in manicomio con la presunta moglie diede segno di riconoscerla e di ricordare la propria vita antecedente al conflitto.

Nel 1927, date le sue condizioni, fu rimandato a Verona con la propria famiglia ritrovata.

Eppure la vicenda non si concluse in maniera così semplice.

All’inizio del mese di marzo del 1927, poco dopo il rincasare dello smemorato, una lettera anonima fu indirizzata al Regio Questore di Torino, per avvertirlo che lo sconosciuto non era il capitano Canella, bensì un anarchico ricercato dal 1922 per lesioni e truffe, Mario Bruneri.

La sua immagine presente nel fascicolo che riguardava le sue malefatte, richiamava molto quella dello smemorato del manicomio di Collegno.

La somiglianza era tale che tutta la sua famiglia (compresa l’amante che aveva al di fuori del matrimonio) lo riconobbero una volta incontrato e ciò porto’ alla necessità di riaprire le indagini sull’identità di questo sconosciuto.

La vicenda da quel momento in avanti si fece sempre più complicata, in quanto le impronte digitali prese allo sconosciuto al momento della reclusione al manicomio corrispondevano a quelle presenti in Questura a corredo del fascicolo di Bruneri.

Inizio’ così una faida molto lunga tra la famiglia Canella, che voleva tutelare e difendere la memoria del congiunto che credeva essere lo smemorato, e la famiglia Bruneri, che sperava che questi fosse l’anarchico per ricondurlo alle proprie mansioni ed obblighi nei loro confronti. Sia con la prima sentenza nel 1928 che con la seconda in appello nel 1929, l’uomo fu identificato come Mario Bruneri.

Nonostante un tentativo della Corte di Cassazione nel 1930 di dare il beneficio del dubbio alla famiglia Canella, la Corte d’Appello di Firenze confermo’ ulteriormente la sentenza originaria, tanto che nel 1931 al di la di ulteriori ricorsi, il caso venne considerato chiuso.

Addirittura, ancora nel 1946, alla fine della Seconda guerra mondiale, la famiglia Canella tento’ di rendere nullo il processo precedente appellandosi alla possibilità di revocare quanto emanato dai tribunali del periodo fascista: ma il tentativo andò a vuoto.

Nel periodo in cui la Cassazione aveva però imposto ulteriori accertamenti, lo smemorato Bruneri o Canella che fosse continuo’ la propria vita con la signora Giulia Canella, da cui ebbe altri due figli e con cui si trasferì in Brasile.

Lo «smemorato» - vero o presunto che fosse - fu padre e marito esemplare ed ebbe come moglie una donna anch'ella non qualunque, per cultura, sensibilità, posizione sociale. Una donna che, ad acuire il dramma, era cugina prima di Giulio Canella e che, quasi certamente, fu consapevole dello sconvolgente equivoco, ma decise di perpetuarlo sino alla fine. Neanche sul letto di morte, nella remota Rio de Janeiro, neanche davanti al passo estremo, questo ex operaio (se era lui, ma c'è ancora qualcuno che ne dubita e che mette in campo ragioni) smentì l'identità nella quale si era calato, ora dopo ora, giorno dopo giorno. «Reincarnatosi» nei panni di uno dei maggiori pensatori cattolici, quest'uomo si accostava, ogni settimana, al sacramento della confessione. Che gli avrà raccontato al prete?

Il caso divise fortemente l’opinione pubblica, tanto che si erano venute a creare “fazioni canelliane” contro “fazioni bruneriane”, dove entrambe chiedevano ulteriori prove per motivare il riconoscimento in un senso o nell’altro.

Un elemento curioso che smosse le acque della vicenda avvenne a processo concluso, grazie a due testimonianze (presunte vere) di due donne, una nobile inglese presentatasi come signora Taylor e una lattaia di Milano.

Le testimoni avevano affermato di aver conosciuto lo smemorato come un mendicante nel 1923 e che i continui “sbalzi di umore” dell’uomo le avevano portate a pensare che potesse essere due persone diverse.

Il capitano Canella, sotto shock dopo la guerra avrebbe infatti così fornito alcune informazioni sulla sua vita privata al Bruneri, all’epoca truffatore di professione che ne avrebbe approfittato, facendosi ricoverare come malato di mente a Collegno per poi essere identificato dalla signora Canella.

A provare tale teoria emersero negli anni ’60 alcune lettere di una corrispondenza tra Bruneri e la madre mentre questi si trovava in manicomio e le spiegava quanto stava cercando di fare. Il caso non ha trovato pace nemmeno ai giorni nostri. Nel 2009 infatti, il popolare programma Chi l’ha visto? propose di riesaminare le lettere del Canella dal fronte con quelle del Bruneri dal manicomio per estrarne il DNA e effettuare un ulteriore controllo. Solamente quest’anno, 88 anni dopo il ritrovamento dello smemorato, nel mese di luglio il programma Chi l’ha visto? ha nuovamente parlato del caso consegnando al nipote certo di Giulio Canella il risultato dell’esame del DNA.

Nonostante non sia stato dichiarato alcunché la reazione degli eredi al momento della lettura fa presagire che l’identità dello smemorato coincida di fatto con quella di Mario Bruneri.

La prova è stata effettuata comparando il dna di uno dei nipoti certi del Canella (discendente diretto del figlio avuto prima della partenza per il fronte) con quello di uno dei nipoti dei figli avuti durante la il processo di riconoscimento.

Per la famiglia forse non cambierà molto dopo tutto questo tempo, ma senz’altro il caso continua ad affascinare chiunque ne senta parlare. La storia dello smemorato di Collegno, così lunga e così famosa, rimarrà sempre un caso particolare e caro all’opinione pubblica che cercherà di saperne, ogni volta, qualcosa di più.

 

fonti:

https://mole24.it/2014/08/25/smemorato-collegno-giallo-irrisolto/

 

Bate ‘l cul su la pera: la “pietra del fallito” a Torino

 

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Era un cimelio curioso della Torino più antica. Su questo masso, rimosso nel 1853, si faceva ricadere con una certa violenza il fondoschiena di chi aveva fatto fallimento, dando così un senso all’espressione del piemontese più schietto «Bate ‘1 cui su la pera», ossia sbattere il sedere sulla pietra. Il masso si trovava sull’angolo dell’attuale via Milano con via Corte d'Appello. Il masso costituiva un incubo, una sorta di patibolo, per coloro che, avendo un negozio. un’impresa commerciale di qualsiasi genere, erano falliti senza aver potuto soddisfare in qualche modo i creditori. Il malcapitato fallito era sbattuto più volte sulla pietra, mentre la plebaglia, assiepata sui marciapiedi, si diveniva un mondo alle sue smorfie di dolore, non solo, ma incitava gli addetti dei comune a dare più strattoni di corda per farlo «ben saltare sulle chiappe». In altre circostanze - e qui la tradizione presenta aspetti contraddittori - il fallito era fatto sbattere su una panca di legno tante volte sino a quando la panca non si fosse rotta. Venne da tale usanza il detto volgare piemontese corrispondente a “fare bancarotta”; la panca spezzata assumeva agli occhi dei creditori una sorta di risarcimento, anche se nessuno, pur divertito assistendo al supplizio, incassava un centesimo.

 

 

 

 

 

TORINO CAPITALE DELL’AUTOMOBILE

 

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Le 18 case automobilistiche di Torino che non ci sono più

 

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“Torino capitale italiana dell'auto” è l'epiteto più noto sulla nostra città. E forse anche il più vero. Non solo per la Fiat, oggi nel gruppo FCA che comprende anche la Lancia: sono tanrissime le case automobilistiche nate nella nostra città. Molti di questi marchi sono sconosciuti anche per gli appassionati, eppure è tra le vie di Torino che queste fabbriche sono nate e sono vissute. Alcune si sono unite nel “gigante” Fiat, altre hanno cessato l'attività per i più vari motivi; di quasi tutte sono custoditi esemplari e modelli al museo dell'auto di Torino.

Ecco una raccolta di 18 marchi automobilistici torinesi che oggi non esistono più: quanti ne conoscete?

Ceirano

La famiglia Ceirano è stata la più attiva, tra fine Ottocento e inizio Novecento. Giovanni Battista e i suoi fratelli Giovanni, Matteo ed Ernesto hanno dato vita a sei case: Accomandita Ceirano (1898-1899), Fratelli Ceirano (1901-1904), STAR Società Torinese Automobili Rapid (1904-1921), SPA Società Piemontese Automobili (1906-1926), Itala (1904-1934) e SCAT Società Ceirano Automobili Torino (1906-1932). Dall'Accomandita Ceirano di Giovanni Battista e soci uscì la Welleys, che piacque così tanto all'alta società torinese che parte dei soci cercò finanziatori per la produzione e diedero vita alla Fiat l'11 luglio 1899.

Diatto (1835-1955)

La storia della Diatto è lunga, varia e lussuosa. Nel 1835 Guglielmo Diatto la fonda come fabbrica di carrozze di lusso, poi con i figli Giovanni e Battista si affaccia nella produzione di vagoni per treni e tram. La generazione successiva, Pietro e Vittorio, decidono di costruire automobili nel 1905, dopo una lite con i Ceirano: erano rimasti insoddisfatti di una macchina appena comprata ed erano riusciti a ottenere di restituire la vettura e riavere tutti i soldi spesi.

La Diatto innovò le macchine agricole, costruendo modelli alimentati a benzina, ma poi si dedicarono ad auto di lusso, sia per le corse sportive sia per un pubblico di alto rango, tra cui la famiglia del giovane Enzo Ferrari e la famiglia reale dei Savoia. Dopo aver rilevato alcune fabbriche minori (e anche la Itala dei Ceirano), la Diatto si dedicò prima a rifornire gli eserciti in guerra di camion e motori aeronautici, poi avviò una lunga collaborazione con Ettore Bugatti, Bertone, Zagato e altri. Nel 1932, dopo aver costruito 8500 vetture per il Regno d'Italia che non confermava l'acquisto, andò in crisi e passò di mano, dedicandosi solo alla produzione di pezzi di ricambio fino al 1955. Nel 2007, Zagato ha creato una dream car su meccanica Ford Mustang che è stata chiamata Diatto GT Ottovù by Zagato come omaggio al marchio torinese.

Fabbrica Automobili Michele Lanza (1895-1903)

Dopo aver comprato a fini di studio una Peugeot Type 3, Michele Lanza insieme al geometra Giuseppe Stefanini creò un prototipo che nel 1895 chiamò Wagonette e che fece il collaudo tra Torino e Asti. Dopo cinque evoluzioni del modello, Stefanini lasciò l'azienda, che chiuse in breve tempo dopo un periodo come carrozzeria per la Fiat. Non sono rimasti modelli di questo marchio, a parte un modellino realizzato da Carlo Biscaretti di Ruffia, amico di Lanza.

Aquila Italiana (1905-1917)

Fondata dall'ingegner Giulio Cesare Cappa e dall'imprenditore Giulio Pallavicino, aveva l'opificio in via Graglia, l'odierno corso Belgio. Dopo un buon inizio, ebbe una crisi finanziaria nel 1907: Pallavicino si recò a Milano in cerca di finanziatori, ma morì insieme ai suoi accompagnatori quando a un passaggio a livello la sua auto fu travolta da un treno. Fu acquisita da Vincenzo Marsaglia, che lasciò andare Cappa alla Fiat e non si riconvertì in tempo all'industria bellica, finendo per dover cedere l'azienda alla SPA.

Temperino (1907-1924)

A fondarla furono i fratelli Maurizio, Secondo, Giacomo e Mary Temperino, che aprirono in corso Principe Oddone 44 un'officina per la riparazione di bici e moto. Iniziarono poi a produrre motociclette e quindi automobili, avendo il merito di essere stati i primi a realizzare vetture utilitarie a basso costo. Nel 1921 fallì la principale banca finanziatrice, e nel 1924 chiuse la fabbrica torinese.

Sclavo (1911-1914)

L'unico modello realizzato fu chiamato Eridano, come l'antico nome del Po. La sua particolarità era che nelle 5.500 lire di prezzo erano compresi la carrozzeria e tutti gli accessori, e non solo l'autotelaio da dover completare presso un carrozziere come negli altri casi dell'epoca.

Nazzario (1911-1915)

Ex pilota Fiat, nel 1911 Felice Nazzaro si mette in proprio e insieme a un gruppo di soci fonda la sua casa. Quattro anni dopo, a causa di problemi economici, Nazzario torna in Fiat.

Chiribiri (1911-1928)

I fondatori furono il veneziano Antonio Chiribiri, il pilota collaudatore Maurizio Ramassotto e l'ingegner Gaudenzio Verga: inizialmente costruivano aeroplani, anche monoposto, nella fabbrica in borgo San Paolo. Nel 1914 il conte Gustavo Brunetta d'Usseaux propose a Chiribiri di creare un'auto economica, ma durante la produzione il conte si ritirò per debiti di gioco. Ciò rese i fondatori molto gelosi della propria creatura: nei successivi decenni diedero vita a una squadra di corse molto forte, ma fatta in casa con Ramassotto e i figli di Chiribiri come piloti; l'unico pilota estraneo di cui si fidarono fu Tazio Nuvolari. Dopo anni di successi e di vendite, l'azienda entrò in crisi fino alla chiusura e alla cessione degli stabilimenti alla Lancia. Durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, l'archivio aziendale custodito a casa di Verga andò completamente distrutto.

FAST Fabbrica Automobili Sportive Torino (1919-1925)

Già costruttore di aerei, Arturo Concaris allarga la produzione anche alle auto. Il primo modello nel 1923 si chiamava Tipo Uno. Nel 1923 Concaris cede l'attività ad Alberto Orasi, che nel 1925 deve chiudere: troppo basse le vendite a causa degli elevati costi delle vetture.

FIAM Fabbrica Italiana Automobili e Motori (1921-1927)

Nel 1921 l'ingegnere torinese Amedeo Peano rilevò la fabbrica Marzoli & Magri di Brescia fondando la FIAM. Realizzò una vetturella e poi nel 1923 trasferì la sede e la fabbrica a Torino, in via sant'Ambrogio. La crisi economica costrinse Peano alla chiusura nel 1927, poche settimane dopo la consegna delle prime auto. Cedette la licenza di costruzione all'ungherese Manfred Weiss.

SIATA Società Italiana Applicazioni Tecniche Auto-Aviatorie (1926-70)

Fondata da Giorgio Ambrosini, inizialmente si occupa delle meccaniche di auto Fiat. Durante la guerra, studia un motore da applicare sulle biciclette: da lì nascerà nel 1945 il SIATA Cucciolo, le cui vendite furono così elevate da costringere Ambrosini a rivolgersi a una neonata azienda bolognese, la Ducati. Successivamente si allarga alle auto, con i modelli Amica e Daina. Dopo essere stata rilevata da Abarth si dedica ad auto da strada ad alte prestazione, fino alla Spring uscita nel 1967.

Moretti (1926-1989)

Fu fondata a Borgata Lesna da Giovanni Moretti. Dopo vari modelli di moto e motocarri, produce la Moretti 500, prima automobile. In seguito produce anche un autocarro a propulsione elettrica, chiamato Elettrocarro, il cui motore viene poi utilizzato per un'auto elettrica, l'Elettrovettura, “monovolume” da 7 posti pensato per il trasporto pubblico. Le Fiat 500 e 600 misero fuori mercato le auto di Moretti, che costavano troppo a causa delle serie limitate, e la casa passò a creare allestimenti speciali per Alfa Romeo, Maserati e Fiat. Dopo il successo della Fiat 128 Moretti Roadster, non ebbe fortuna con Uno Folk e Panda Rock, finendo col chiudere nel 1989.

Cisitalia (1946-1963)

Fondata da Piero Dusio e Pietro Taruffi, fu una casa dedicata all'automobilismo sportivo. Tra i suoi piloti, oltre ai fondatori, anche Tazio Nuvolari, che durante una gara al Valentino divertì il pubblico staccando in corsa il volante dal piantone dello sterzo e mostrandolo ai tifosi. Dusio pagò il riscatto del padre e dello zio di Ferry Porsche, detenuti in Francia come criminali di guerra, ma l'esborso provocò poi difficoltà all'azienda, che nel 1963 chiuse i battenti. Carlo Dusio, figlio di Piero, commemorò il momento buttando nelle acque del Po l'albero motore della Cisitalia Gran Prix.

 

La nascita della Fiat

 

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Nella strada intitolata a Lagrange, sorge il Palazzo Bricherasio. A poca distanza morì nella sua residenza il conte di Cavour. Al numero 20 si mise in moto la Fiat.

Il conte Emanuele Cacherano di Bricherasio aveva un vivo interesse per la meccanica. A Torino frequentava assiduamente il caffè di madame Burello, dove conobbe alcuni aristocratici appassionati di meccanica e di automobilismo. Alcuni suoi progetti – aveva anche alle spalle alcune iniziative imprenditoriali – arrivarono alle orecchie di Giovanni Agnelli.

Fra i “sognatori” di quel periodo c’era pure Roberto Biscaretti, fondatore insieme ad altri del primo Automobile Club italiano.

A Palazzo Bricherasio, il primo luglio 1899, quei “sognatori” si incontrarono per mettere nero su bianco il loro progetto. Così nacque la Fiat. La firma dell’atto fu fissato dal pittore Lorenzo Delleani in una tela che è tuttora nel palazzo di via Lagrange.

Al quadro si accompagna la dedica di Leonardo Bistolfi: «Il Conte Emanuele Cacherano di Bricherasio / ideatore e propugnatore primo della prima Fabbrica Italiana di automobili / nel luglio 1899 / Inizia l’impresa coraggiosa e feconda radunando nel suo palazzo i Soci Fondatori della Fiat: Cav. Giovanni Agnelli ! Conte Roberto Biscaretti di Ruffia / Conte Emanuele di Bricherasio / Cav. Michele Ceriana / Damevino sig. Luigi / Marchese Alfonso Ferrero di Ventimiglia / Avv. Cesare Gatti / Avv. Carlo Racca I Cav. Ludovico Scarafiotti».

 

Gli Agnelli e l’identità di Torino come città dell’auto.

 

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Dice il mito che una volta la Fiat era la padrona di Torino, dove la monarchia dei Savoia fu sostituita da quella degli Agnelli. La politica era nelle mani della Fiat, l’azienda, la chiesa, tutto. La Fiat ti accompagnava dalla nascita alla tomba. Quando nasceva il figlio di un impiegato, gli faceva un regalo. C’era un asilo della Fiat, una scuola della Fiat, campi estivi per le vacanze targati Fiat. La Stampa e altri grandi quotidiani di Torino erano della Fiat. La domenica, gli Agnelli, andavano a vedere la Juventus, squadra di loro proprietà. La loro influenza accompagnava la gente durante tutto l’arco. E la storia prosegue, raccontando che la famiglia Agnelli si è sempre opposta alla metropolitana perché voleva che tutti avessero un'auto, che Torino rimanesse la città-simbolo dell'auto. Si dice ancora che ci si aspettava che il dipendente Fiat investisse il benessere economico che gli donava la Fiat in un’auto Fiat, con la quale doveva presentarsi al lavoro. Vittorio Valletta, ligio al diktat padronale, andava al lavoro in Cinquecento. Pochi sanno che gli Agnelli si sono opposti anche alla fabbricazione dei trattori, che hanno - forse perché li ritenevano troppo rustici - delocalizzato in Romagna.

 

Torino capitale del design automobilistico: Pininfarina e gli altri carrozzieri torinesi

 

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Tutti i carrozzieri erano torinesi, da Pininfarina a Ghia, Vignale, Viotti, Bertone, con solo un paio di eccezioni, la milanese Zagato e la Touring erano considerate inferiori. Non era, o non era solo, questione di gusti, era un fatto oggettivo che le automobili europee - tedesche, inglesi, francesi -, almeno sino agli anni Sessanta, avevano un aspetto sgraziato, sproporzionato, se non decisamente «brutto» in confronto a quello delle italiane. E non c'entra lo sciovinismo: lo riconoscevano gli stranieri stessi, che ricorrevano alla consulenza dei torinesi o, addirittura, facevano non solo disegnare, ma anche costruire da noi le carrozzerie per i modelli più raffinati. Alla fine, anche a causa dell'espatrio di molti designer nostrani, allettati da pingui ingaggi, in tutta Europa (ma anche in Giappone e, in qualche modo, negli Stati Uniti) la produzione automobilistica si raffinò, si adeguò allo stile che a lungo era stato solo torinese. Quando i coreani decisero di entrare essi pure nel mercato mondiale delle auto, mandarono delegazioni a Torino per carpire qualche segreto ai carrozzieri del posto. Se anche sulle strade italiane, e lo dico con rammarico, le «nostre» macchine sono ormai minoranza, c'è comunque la zampata del "made in Turin" dietro i modelli costruiti in ogni continente e comprati dai nostri concittadini.

Ma il successo mondiale dei carrozzieri torinesi è significativo anche perché è l'unione inscindibile di tecnologia e arte. C'è davvero del genio artistico nella matita che, seguendo un'intuizione, disegna le linee fluenti di una bella automobile. Non è per una bizzarria snobistica se alcuni modelli torinesi sono esposti al Museum of Modern Art di New York.

Questo onore tocca al principe dei carrozzieri: Pininfarina. Il nome della Pininfarina è legato, nella mente non solo dei piemontesi, all’idea di eccellenza mondiale del design automobilistico. Icone come la Ferrari 212 e la Enzo e la Maserati Quattroporte sono uscite dalle matite dei disegnatori della Pininfarina; ma l’elenco — troppo lungo anche per il lettore più appassionato — ci porta a varcare i confini nazionali con la Peugeot 203 e l’Oceano Atlantico, con alcuni modelli della Nash Motors e della Cadillac, per poi tornare in Italia con la Cisitalia 202 del 1947. Quest’ultima sarà la prima automobile al mondo a entrare come oggetto d’arte in un museo, il MoMA, l’8 dicembre 1972, consacrando in questo modo la Pininfarina ai vertici del design mondiale.

Sì, perché non sono solamente automobili a portare il marchio della casa torinese; nel tempo Ansaldo, Benéteau, Lavazza, Motorola, Piaggio, Snaidero e altri ancora hanno affidato alla Pininfarina il lato stilistico di alcuni dei loro prodotti di punta.

Nato a Torino nel 1893 da una famiglia di viticoltori, che la crisi economica aveva costretto ad abbandonare la natia Cortanze, Giovanni Battista (Pinin) Farina inizia la propria esperienza lavorativa giovanissimo, ad appena 13 anni, come aiutante del fratello maggiore Giovanni, titolare a Torino di una carrozzeria, nella quale produceva in modo artigianale elementi di carrozzeria per le case automobilistiche del Torinese. Pinin rivela fin da subito capacità non comuni, fino a lasciare gli Stabilimenti Farina, che aveva diretto per due anni, nel 1930, anno in cui fonda l’azienda che ancora oggi porta il suo nome.

Quando, nel 1930, Pinin si stacca dal fratello e si mette in proprio, Vincenzo Lancia, amico di Pinin Farina, inizia a commissionare alla piccola azienda le carrozzerie di molti dei suoi modelli. Alla Lancia si aggiungono presto FIAT e Hispano-Suiza. L’anno di fondazione dell’azienda coincide con le prime fasi della Grande Depressione, e i bilanci dei primi anni mostrano sostanziali perdite. Nel 1940 lo scoppio della guerra costringe la carrozzeria a produrre soprattutto veicoli militari che, alla fine del 1942, portano al primo bilancio chiuso in utile.

La ripresa e la grande crescita della Pininfarina iniziano a partire dal 1949 e proseguiranno nel corso del grande boom economico italiano. Nel frattempo affiancano Pinin ai vertici dell’azienda due giovani ingegneri dotati di molto talento, che egli sa educare e indirizzare verso obbiettivi di crescita: suo figlio Sergio e il cognato di questi, Renzo Carli. La produzione si diversifica in due ambiti, da un lato carrozzerie in piccola serie per autovetture di élite, come le Ferrari; dall’altro carrozzerie per grandi serie per costruttori come FIAT, Alfa Romeo, Lancia, Nash, ecc. Il personale impiegato passa così da circa 250 unità nel 1947 a oltre 3.000 dieci anni dopo.

A Sergio Pininfarina e Renzo Carli si deve il cruciale salto tecnologico che produrrà enormi vantaggi competitivi per la Pininfarina: nel 1967 viene costituito il centro DEA, dotato di strumenti e di computer all’avanguardia, nel 1972 è il turno di una galleria del vento, la prima in Italia e una delle prime al mondo utilizzate per fini industriali. Nel 2002 si ha l’inaugurazione del centro di engineering di Cambiano (TO). Il 12 maggio 2006 Andrea diventa amministratore delegato dell’azienda, succedendo al padre Sergio, ottantenne, che purtroppo, due anni dopo, assisterà al tragico incidente stradale in cui resterà ucciso Andrea, al quale succede il fratello Paolo.

Negli anni successivi al 2002 la crisi finanziaria conduce alla cessione della proprietà al gruppo indiano Mahindra & Mahindra il 14 dicembre 2015. I bilanci del 2016 e del 2017 si sono chiusi con un aumento dei volumi di produzione e con risultati netti positivi. A ricordare la piemontesità dell’azienda rimane non solo la sede, ma anche quel “Pinin” all’inizio del nome.

 

Aneddoti sul periodo ruggente dell’auto a Torino

 

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La domenica si vedeva la gente lavare le auto, con spugne e secchi, accanto ai toret, le fontanelle con la bocca di toro, soprattutto sui murazzi della Dora. Oggi a lavarsi la domenica con il bel tempo con i turet sono gli immigrati, mentre si affida la propria preziosa automobile ad un autolavaggio: i temi cambiano!

Molti possessori di cinquecento toglievano le marmitte, producendo per le strade un baccano d’inferno, surrogando in tal modo la bassa cilindrata con l’alta rumorosità.

La Fiat aveva un team di piloti collaudatori molto capaci, ma la gemma della sua corona, la Dino, era riservata al mitico “Signor Maina”, uomo bellissimo e prestante, che veniva fotografato accanto all’auto, eventualmente con una bella ragazza, per le campagne pubblicitarie.

 

Il Museo dell’Automobile

 

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Il Museo Nazionale dell’Automobile nasce nel 1932 da un’idea di due pionieri del motorismo nazionale, Cesare Goria Gatti e Roberto Biscaretti di Ruffia (primo Presidente dell’Automobile Club di Torino e tra i fondatori della Fiat). Essi proposero durante il congresso indetto dall'Automobile Club di Torino nel 1932, di istituirlo per celebrare i "Veterani dell'Automobile", ovvero coloro che avevano conseguito la patente di guida da almeno 25 anni.

Il 19 luglio 1933 la Città di Torino deliberò di fondare il museo, nominando un apposito comitato promotore ed ottenendo l'approvazione del Capo del Governo, Benito Mussolini, che personalmente impose la denominazione "Museo Nazionale dell'Automobile". Pochi giorni dopo, il podestà di Torino, Paolo Thaon di Revel, affidò a Carlo Biscaretti l'incarico di "ordinatore provvisorio", che sarebbe durato vent'anni.

Nel 1938 si giunse al trasferimento del materiale esistente, costituito ormai da un centinaio di vetture e telai, una biblioteca e un archivio, nei locali ricavati sotto le gradinate dello stadio comunale. Durante la seconda guerra mondiale la collezione rimase pressoché intatta sia durante i bombardamenti sia durante la successiva presenza delle truppe alleate, ma la biblioteca e l'archivio andarono in parte distrutti o dispersi. Nel 1955 l'Associazione dei Costruttori decise di promuovere la costruzione una nuova sede. Il terreno fu trovato in corso Unità d'Italia, di proprietà del Comune di Torino; i finanziamenti furono assicurati dalle fabbriche di automobili e dalla famiglia Agnelli, alle quali si aggiunsero presto le case di pneumatici, le compagnie petrolifere, le banche cittadine ed altri enti. Mentre cominciavano i lavori per la costruzione, l'Ente venne rifondato e rinominato "Museo dell'Automobile". Il museo fu solennemente aperto al pubblico il 3 novembre 1960 poco prima di Expo 1961. Nel corso della sua storia, il museo si è arricchito di nuove sezioni: il centro di documentazione e la biblioteca.

La collezione ha continuato ad arricchirsi negli anni e l’esigenza di un nuovo spazio espositivo ha portato alla realizzazione di un progetto di ristrutturazione dell’edificio, realizzato nel 2011 dall’architetto Cino Zucchi, completato da una spettacolare contestualizzazione scenografica dell’allestimento creata da François Confino.

Il percorso espositivo è sviluppato su tre piani (oltre al piano interrato dove vi sono il Garage e la Scuola di restauro, visitabili solo su richiesta), con 30 sale e un totale di 160 vetture (la collezione ne conta più di 200) è concepito come un viaggio emozionale tra vetture d’epoca e auto da sogno, importanti prototipi e modelli iconici, mentre in sottofondo risuonano canzoni degli anni Sessanta e il ruggito dei motori della Formula Uno.

Il museo attuale è disposto. Sono più di 80 le case automobilistiche rappresentate, distribuite su tre piani e per tematiche.

La visita inizia dal secondo piano, intitolato a “L’automobile e il Novecento”. In 21 sale viene raccontata la nascita e lo sviluppo dell’automobile, partendo dalla Genesi (un omaggio ai precursori del moto meccanico) e arrivando fino al Destino, che parla appunto di futuro. Tra le due, viene raccontato il Novecento in tutte le sue sfumature: dalle carrozze a vapore alle automobili di lusso, dai due conflitti mondiali al boom economico, accostando armoniosamente la storia dell’automobile alla storia dell’uomo.

Si passa poi al primo piano, intitolato a “L’automobile e l’uomo”: 8 sale, nelle quali viene approfondito principalmente il rapporto tra l’uomo e l’automobile. Si parte con Torino, chiamata la “città dell’auto” non solo per la Fiat, ma anche per le innumerevoli aziende automobilistiche e carrozzerie che in questa città sono nate. Si prosegue poi, tra le tante cose, con l’esposizione dei componenti di una vettura (motori, ruote e telai), della pubblicità che negli anni ha accompagnato l’automobile e di una vera e propria giungla di variopinti cartelli stradali, fino ad arrivare alla sala dedicata alla Formula 1, dove una fila di auto da corsa sembra sfrecciare in pista. La visita di questo piano si conclude con 20 vetrine dedicate ad altrettanti primati (es. automobile più veloce, più piccola, più costosa), dopodiché si arriva alla sezione dedicata al design.

Al piano terra, infine, troviamo l’area dedicata al design, alla progettazione di un’automobile. Una parte di quest’area è dedicata a tutti coloro che hanno lasciato il segno nel settore del car design, e racconta di loro citandoli in una grande onda che, in ordine cronologico, ci guida attraverso i vari periodi della storia automobilistica. Ma ci sono anche diversi monitor che trasmettono interessanti filmati sul passato e il futuro del design, esposizioni temporanee, prototipi e modelli di vario genere, che servono a mostrarci la continua, straordinaria evoluzione del settore.

 

Dalla Dino alla Barchetta: la storia delle sportive Fiat

 

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Da quasi dieci anni la Fiat non produce più auto sportive: in tempi di crisi la Casa torinese ha preferito concentrarsi su modelli più profittevoli lasciando all’Alfa Romeo il compito di creare vetture in grado di fare battere forte il cuore degli appassionati. Oggi ci concentreremo sulla storia delle coupé e delle spider a motore anteriore realizzate a partire dagli anni ’60: veicoli brillanti e, spesso, alla portata di molte tasche.

Fiat Dino (1966)

La Fiat Dino nasce in seguito ad una partnership con la Ferrari: il Cavallino ha bisogno di omologare un motore V6 da destinare alle monoposto 166 di F2 e l’unico modo che ha è quello di farlo montare da una vettura prodotta in almeno 500 esemplari. La prima a debuttare è la Spider nel 1966: disegnata da Pininfarina e dotata di trazione posteriore, , monta un propulsore 2.0 V6 da 160 CV. L’anno seguente, a Torino, viene invece svelata la Coupé firmata Bertone: il passo più lungo, il peso più elevato e le dimensioni esterne più ingombranti (4,51 metri contro i 4,11 della variante scoperta) contribuiscono a migliorare la tenuta di strada. Nel 1969 arrivano le prime modifiche alla Fiat Dino: la cilindrata del motore viene portata a 2,4 litri (potenza salita fino a quota 180 CV) e il retrotreno a ponte rigido viene rimpiazzato dalle più moderne ruote indipendenti. Esteticamente, invece, i cambiamenti più rilevanti riguardano il frontale (con la mascherina nera opaca) e la plancia rivista.

Fiat 124 Sport Spider (1966)

La Fiat 124 Sport Spider – presentata ufficialmente al Salone di Torino del 1966 – è realizzata sullo stesso pianale (accorciato) della berlina. Dotata di un motore 1.4 da 90 CV, è una scoperta 2+2 disegnata e prodotta da Pininfarina.

Nel 1970 il propulsore viene portato a 1,6 litri e la potenza sale fino a quota 110 CV. Tre anni più tardi, in concomitanza con la riduzione di cavalli del 1.6 (106 CV) e il lancio di un 1.8 da 118 CV, viene svelata la versione Rally: la variante di serie realizzata in soli 900 esemplari e caratterizzata dal tetto rigido – monta un 1.8 da 128 CV mentre quella da gara (con potenze comprese tra 190 e 215 CV) si aggiudica due campionati europei rally nel 1972 (con Raffaele Pinto) e nel 1975 (con Maurizio Verini).

La 124 Sport Spider – che nel 1979 riceve un nuovo motore 2.0 – viene venduta con il brand Fiat fino al 1982. Dal 1983 al 1985 viene invece commercializzata con i nomi Pininfarina Spidereuropa e Spideramerica.

Fiat 124 Coupé (1967)

La Fiat 124 Coupé viene svelata al Salone di Ginevra del 1967, un anno dopo la Sport Spider. La prima generazione – denominata AC e disegnata da Felice Mario Boano del Centro stile della Casa torinese – monta un motore 1.4 da 90 CV abbinato ad un cambio a quattro marce (quinto rapporto optional).

La seconda serie – conosciuta con la sigla BC – debutta al Salone di Torino del 1969. Esteticamente si distingue dall’antenata per il frontale più simile a quello della Dino e per i gruppi ottici posteriori più voluminosi. Tecnicamente le modifiche riguardano invece l’arrivo di un propulsore 1.6 da 110 CV, che affianca l’unità 1.4.

L’ultima generazione della Fiat 124 Coupé – la CC – viene lanciata nel 1972. Il frontale è meno “pulito” rispetto a prima e nella coda spiccano i gruppi ottici verticali. Il 1.6 da 110 CV (l’unico motore previsto al debutto) viene presto rimpiazzato da un’unità leggermente calata alle voci “cilindrata” e “potenza” (108 CV). Si aggiunge anche un 1.8 da 118 CV.

Fiat Coupé (1993)

A poco più di dieci anni di distanza dall’addio al listino della 124 Sport Spider la Fiat rientra ufficialmente nel segmento delle sportive con la Coupé del 1993. Realizzata sullo stesso pianale della compatta Tipo a trazione anteriore e disegnata da Chris Bangle (esterni) e Pininfarina (interni), debutta al Salone di Bruxelles con due motori 2.0: aspirato da 139 CV e turbo da 190 CV.

Nel 1996 si aggiunge alla gamma propulsori un 1.8 da 131 CV e pochi mesi dopo arrivano due 2.0 a cinque cilindri da 147 e 220 CV che rimpiazzano i vecchi due litri. Nel 1999 è invece la volta di un altro 2.0, questa volta da 154 CV.

Fiat Barchetta (1994)

La Fiat Barchetta – ultima spider prodotta dal marchio piemontese – vede la luce nel 1994. Disegnata da Andreas Zapatinas e costruita sulla base accorciata della prima generazione della piccola Punto, monta un motore 1.8 da 130 CV. Il restyling del 2003 porta numerose modifiche al frontale e alla coda.

 

Il primo Automobile Club d’Italia

 

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Il primo Automobile Club nasce a Torino, su impulso di Roberto Biscaretti di Ruffia, che riunisce intorno a sé un gruppo di appassionati di auto. Suo figlio, Carlo, di lui ha lasciato scritto: «Aveva fatto un po’ di tutto, pittore e musico, capitano di lungo corso e uomo politico, presidente di cento società e collezionista di francobolli, fotografo emerito, assessore al Comune e organizzatore del servizio pompieri; corridore ciclista e timoniere ardito in regata con il suo panfilo, cultore di tutti gli sport (novantenne sognava l’aviazione). Aveva scalato le Alpi, praticato il canottaggio, era salito in pallone. Ottimo dilettante, aveva calcato le scene, era capace di parlare ogni lingua e ogni dialetto. Appena visti a Nizza i primi tricicli, se n’era comprato uno e lo aveva per primo portato a Torino. Dal Ricordi di Milano, aveva fatto acquisto di due Benz».

Prendiamo, dall’atto notarile di costituzione, il nome dei primi soci fondatori: particolare curioso, c’era persino un cronometrista:

Roberto Biscaretti di Ruffia, Presidente

Cesare Goria Gatti, Vice presidente

Emanuele Cacherano di Bricherasio, Economo

Giovanni Agnelli, Segretario

Michele Ceriana Mayneri, Tesoriere

Carlo Racca, Cronometrista

 

La Cinquecento è stata progettata da un Beato della Chiesa

 

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Pochi sanno che l'ingegnere progettista, con il mitico Dante Giacosa, della geniale Fiat 500 A - la prima Topolino, «a muso basso», la più piccola utilitaria del mondo (e la più venduta) - sarà presto beato? Alberto Marvelli, romagnolo di origine e torinese di adozione, seppur giovanissimo divenne una delle colonne dell'ufficio progettazione della Fiat e vi lasciò un grande segno, prima di morire nel 1946 investito da un camion militare americano. Straordinaria la sua precoce genialità meccanica, ma anche la sua devozione di cattolico. Anche le auto, sotto la Mole, possono nascere tra i rosari: in modo discreto, s'intende, basta che non lo si sappia troppo in giro.

 

La vetrina della Fiat in Via Roma

 

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Ecco, nei ricordi di Vittorio Messori, come viene revocato il salone espositivo in cui la Fiat esibiva i suoi nuovissimi modelli nella via più elegante della città.

Il salone della Fiat, dicevo: nell'immenso, scintillante ambiente, senza mura perimetrali perché tutto vetrate alte come i portici, chiunque poteva non solo ammirare gli ultimi modelli ma, addirittura, salirvi sopra, stringere il volante, toccare pulsanti e leva del cambio. Lì non si vendeva né si comprava (per farlo, bisognava andare alla filiale di corso Bramante, che aveva dimensioni, architettura, burocrazia da ministero); lì, in via Roma, la grande azienda, con sorriso materno e stile signorile, presentava se stessa e la bellezza unita alla tecnica, ovviamente definita «modernissima», delle sue realizzazioni. L'uscita di un nuovo modello era un evento nazionale, in qualche modo storico: non esagero, pensa a ciò che hanno significato per il Paese, a parte l'allora ormai passata stagione di Balilla e Topolino, la Cinquecento, la Seicento, la Millecento. Quando, mi pare negli anni Ottanta (già non ero più a Torino), seppi che la Fiat chiudeva quel salone, sulle prime non ci volevo credere, pensavo a uno scherzo di cattivo gusto. Ma poi, avutane conferma, mi rattristai: gran brutto segno la rinuncia a una vetrina leggendaria. Pessimo sintomo, per l'azienda, la chiusura di un luogo dove - il sabato pomeriggio, vestiti a festa - anche gli operai che avevano costruito quelle macchine, sacramentando contro il padrone per la fatica e i disagi, venivano con i figli per mostrargliele orgogliosi.

Un giro di prova per i nuovi modelli era prenotabile in via Roma: il turno veniva fissato con partenza davanti a quel Castello del Valentino che era anche il fondale obbligato per tutte le foto delle fuoriserie dei carrozzieri torinesi.

 

 

 

 

 

“NASCE A TORINO”. LA TORINO DELL’INDUSTRIA E DELL’INNOVAZIONE.

 

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La macchina per il caffè espresso

 

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Angelo Moriondo apparteneva a una famiglia di imprenditori, un suo antenato, già alla fine del XVIII secolo, aveva ottenuto dalla corte sabauda una licenza per fabbricare Vermouth. Il padre, con il fratello Agostino e il cugino Gariglio, fondò la nota fabbrica di cioccolato “Moriondo & Gariglio”. Angelo ampliò la sua sfera di attività acquistando a Torino il Grand-Hotel Ligure, nella centralissima piazza Carlo Felice, e l'American Bar nella Galleria Nazionale di via Roma. Fu proprio questa attività alberghiera e di ristorazione che fece sorgere l'esigenza, e quindi l'idea, di mettere a punto una macchina per la produzione del "caffè istantaneo" al fine di soddisfare in tempi rapidi la sempre più esigente e frettolosa clientela.

La macchina venne presentata in occasione dell'Expo Generale di Torino, presso lo stand allestito da Angelo Moriondo che ne ricevette la medaglia di bronzo. La macchina, costruita in collaborazione con il meccanico Martina sotto la direzione dell'inventore, era in rame e bronzo, alta circa un metro e aveva "la forma di campana", come venne riportato in un articolo della Gazzetta Piemontese del 24 luglio 1884.

Parlando di questa invenzione così un cronista la descriveva sul settimanale dell’Esposizione:

«Caffettiera degna d’essere presa in seria considerazione è quella esposta in apposito chiosco vicino all’entrata della Galleria dell’Elettricità dall’inventore signor Moriondo, padrone del Caffè Ligure e da lui tenuta in esercizio. È una curiosissima macchina a spostamento con cui si fanno trecento tazze di caffè a vapore in un’ora (proprio a vapore). Si compone di un cilindro o caldaia verticale che contiene 150 litri d’acqua la quale vien messa in ebollizione da fiammelle di gas sotto il cilindro, e per mezzo del vapore con una complicazione curiosissima di congegni si fanno in pochi minuti 10 tazze di caffè in una volta o, una sola tazza se volete.

È la caffettiera portata al suo massimo sviluppo, ridotta quasi ad essere pensante, e se Redi che ce l’aveva contro “l’amaro e rio caffè” tornasse in vita a vedere come il mondo si preoccupi più del caffè che della poesia, più delle caffettiere che dei poeti.»

 

I Bersaglieri nascono a Torino

 

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Il Corpo dei bersaglieri venne istituito, con regio brevetto del 18 giugno 1836, dal re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia su proposta dell'allora capitano del Reggimento guardie Alessandro La Marmora.

Il compito assegnato alla nuova specialità prevedeva le tipiche funzioni della fanteria leggera - esplorazione, primo contatto con il nemico e fiancheggiamento della fanteria di linea (senza però schierarsi e frammischiarsi con quest'ultima) - ma si caratterizzava, come nelle intenzioni del suo fondatore, per un'inedita velocità di esecuzione delle mansioni affidate ed una versatilità d'impiego che faceva dei suoi membri, ancorché appiedati, oltreché dei cacciatori, anche delle guide e dei guastatori ante litteram.

 

La Scuola Radio Elettra

 

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Tipicamente piemontese è la passione pedagogica che trasuda anche dalla famosa frase di D’Azeglio: “L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani”.

E proprio a Torino non poteva non nascere uno dei primi istituti in Italia di formazione a distanza, la Scuola Radio Elettra, che nel corso di decenni ha formato migliaia di tecnici.

Nell'immaginario di molti italiani la Scuola Radio Elettra (S.R.E.) occupa un posto di rilievo. Dal 1951, anno della sua fondazione a Torino, fino alla prima metà degli anni '90 tale scuola ha formato a distanza oltre un milione e mezzo di tecnici in Italia e all'estero. E' un fenomeno significativo che ha accompagnato la ricostruzione postbellica - col conseguente ingresso dell'Italia nel club delle nazioni più industrializzate.

La S.R.E. nasce per iniziativa di Vittorio Veglia (laureato in chimica) eTomasz Carver Paszkowski (ingegnere polacco stabilitosi in Italia nel 1947). La leggenda narra che i due abbiano avuto l'idea di mettere in piedi una scuola di formazione professionale per corrispondenza dopo aver facilmente riparato una radio. Pare abbiano pensato: se potevano farlo loro avrebbero potuto farlo anche molti altri. E' assai più probabile che l'idea sia venuta a Vittorio Veglia durante un suo viaggio negli USA, paese in cui la formazione per corrispondenza era già una realtà consolidata; o ancor più semplice-mente dopo la lettura da parte dello stesso Veglia di una rivista in lingua inglese che conteneva annunci di scuole professionali per corrispondenza. Sia come sia di una scuola del genere l'Italia aveva necessità per sostenere il decollo industriale del paese.

La carta vincente di Veglia e Paszkowski fu quella di essere stati tra i primi ad aver individuato una domanda di formazione professionale a cui la scuola pubblica non dava risposta. All'epoca gli Istituti di Avviamento Professionale erano prevalentemente a indirizzo meccanico, mentre il titolo di perito elettronico richiedeva cinque anni di studio. Tenendo conto che nei primi anni '50 meno della metà degli italiani aveva frequentato le scuole elementari (la cui licenza era obbligatoria per iscriversi all'Avviamento) va da sé che migliaia di persone piene di buona volontà e di voglia di fare si trovassero escluse da un mercato del lavoro che con la massiccia diffusione della radio e della televisione richiedeva tecnici specializzati nel comparto dell'elettronica di consumo. La S.R.E. colmò questo vuoto offrendo corsi (che andavano da una trentina a una cinquantina di lezioni ciascuno), a costi contenuti, senza limiti di età, senza che l'allievo dovesse spostarsi dalla propria residenza, senza scadenze prefissate (era l'allievo che decideva quando inviare a Torino i compiti e le schede di esame da correggere) e rilasciando un attestato finale.

Una volta terminato il corso per due settimane l'allievo aveva la possibilità di frequentare gratuitamente i laboratori della S.R.E. dove veniva attentamente seguito dai consulenti della Scuola. In proposito va ricordato che diversi di questi consulenti provenivano dal Politecnico di Torino, la cui vicinanza facilitò senz'altro l'iniziativa di Veglia e Paszkowski, così come la favorì il fatto di trovarsi in uno dei vertici del triangolo industriale. A metà degli anni '50 la S.R.E. disponeva di una propria litografia per la stampa delle dispense, di un impianto meccanografico IBM a schede perforate per la gestione delle spedizioni e di un ufficio postale interno (come aziende assai più grandi quali la FIAT e la RAI). Negli anni d'oro della sua esistenza la S.R.E. arrivò a contare 150 dipendenti (di cui 25 tra ingegneri, periti elettronici e tecnici) e un centinaio di collaboratori esterni.

Un altro vantaggio competitivo che permise alla S.R.E. di battere la concorrenza fu una strategia di vendita molto ben articolata. Innanzitutto i corsi potevano essere acquistati a rate. Ma c'era di più: chi non desiderava il corso completo poteva comprare singole dispense o una serie di dispense di suo interesse.

La S.R.E. trovò così spazio nell'immaginario collettivo degli italiani. Dagli anni '50 fino a tutti gli anni 70 e oltre dire Scuola Radio Elettra significava evocare la volontà di riscatto dalla povertà e riconoscere al lavoro la sua centralità nei processi di formazone dell'identità.

 

Borsalino, il cappello del famoso film, è nato a Torino

 

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I cappelli Borsalino sono oggi un’icona del Made in Italy di alta gamma; acquistare un panama Borsalino può costare fino a 1.300 euro, anche se, naturalmente, esistono versioni più abbordabili.

Giuseppe Borsalino, il fondatore dell’omonima casa, nasce a Pecetto di Valenza nel 1834 da una famiglia, le cui condizioni economiche lo spingono a emigrare a Parigi in cerca di lavoro. È il 1850 e Giuseppe si impiega come apprendista sarto, ma la sua vera passione sono fin da subito i cappelli; ottiene infatti pochi anni dopo il diploma di mastro cappellaio, col quale, tornato in Italia, apre un primo laboratorio per la produzione di cappelli ad Alessandria a soli 23 anni; rimarrà alla guida dell’azienda da lui fondata per 43 anni, fino alla morte, nel 1900.

La storia ci dice che Giuseppe Borsalino abbia raffinato la propria arte di cappellaio visitando, nel corso della sua vita, i più famosi produttori e la leggenda aggiunge che, durante la visita alla casa di cappelli Battersby a Londra, egli abbia intinto di nascosto — forma artigianale di spionaggio industriale — il fazzoletto nella vasca di catramatura delle bombette, per riportare con sé in Italia il segreto della perfetta resistenza e forma di questo prodotto d’oltremanica.

Sempre la storia ci ricorda un viaggio di Giuseppe dall’Italia alla remota (allora più ancora di oggi) Nuova Zelanda, in compagnia dell’amico alpinista Mattia Zurbriggen. Questi voleva scalare il Monte Cook, Borsalino stringere accordi con gli allevatori locali di conigli, per acquistare la loro lana pregiata e molto meno cara di quella italiana. I due amici tornarono a casa soddisfatti: uno aveva raggiunto la vetta del Monte Cook, l’altro aveva in tasca contratti di fornitura che gli permettevano di abbattere i costi di produzione, senza rinunciare alla qualità. Grande artigiano, intelligente imprenditore e pioniere della globalizzazione, Giuseppe seppe raccogliere le sfide e le opportunità dei mercati internazionali, costruendo una catena del valore globale.

Giuseppe lascia al figlio Teresio un’impresa con oltre 1.000 dipendenti, che esporta metà della produzione nel resto del mondo. Al proprio erede, il fondatore impartisce un’istruzione severa, che spazia dalle lingue (studiate da Teresio anche nei Paesi in cui esse si parlano, come Svizzera, Regno Unito e Germania) ai fondamenti dell’arte dei cappellai e dell’amministrazione aziendale, appresi direttamente lavorando dapprima come operaio e poi come impiegato amministrativo nell’azienda di famiglia. Teresio dimostra di aver imparato bene le lezioni apprese e, sotto la sua direzione, la Borsalino si espande fino ad arrivare a una produzione di 2.000.000 di cappelli (metà dei quali esportati) all’alba dello scoppio della prima guerra mondiale. Questa e la successiva Grande Depressione avranno effetti negativi sia sui volumi prodotti sia sull’occupazione, ma l’azienda uscirà dai due conflitti mondiali e dalla grande crisi economica ancora vigorosa.

Scorrendo l’elenco dei personaggi famosi che hanno indossato un Borsalino, viene da pensare che Teresio applicasse l’antica massima di Vespasiano, secondo cui pecunia non olet. Tra i clienti del cappellaio alessandrino, troviamo infatti un santo, Giovanni XXIII, che da cardinale prima e da papa poi indossa copricapi Borsalino, ma anche uno dei più famosi criminali della storia, Al Capone, che l’iconografia ci consegna con un immancabile Borsalino in testa: un Borsalino accompagna così lo stereotipo del boss mafioso d’oltreoceano. Di certo non fu Teresio a voler vendere il cappello ad Al Capone, e fu quest’ultimo ad acquistare i propri copricapi nei negozi di New York. Ma in fondo, bene o male, purché se ne parli, diceva un altro illustre imprenditore piemontese, anch’egli appassionato dei cappelli Borsalino. La lista prosegue poi con personaggi che, a volte acerrimi nemici, hanno scritto, nel bene e nel male, la storia del mondo: Mussolini, Churchill, Edoardo VIII. Si tratta di personaggi a modo loro simili, nella cura della propria immagine e nella ricerca di accessori che li consegnassero all’iconografia storica in modo inconfondibile. Il cappello Borsalino diventa così quasi un simbolo agiografico, quasi un’aureola per personaggi che hanno cercato sulla Terra una gloria non sempre celeste.

 

Il pomodoro in scatola e il vagone frigorifero nascono alla Cirio – cioè a Torino

 

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La stragrande maggioranza degli Italiani associa il nome della Cirio S.p.A. ai pomodori (pelati e in salsa) e al clima mediterraneo del Mezzogiorno, ma pochi conservano memoria delle origini torinesi dell’azienda e di quelle piemontesi del suo fondatore, Francesco Cirio, nato a Nizza Monferrato nel 1836.

Figlio di una famiglia molto modesta, dotato di grandissima iniziativa e insaziabile curiosità, Francesco inizia a lavorare da giovanissimo, partecipando a soli 10 anni come operaio alla posa del cavo telefonico sottomarino tra Genova e la Sardegna. Rientrato sulla terraferma, si dedica, dall’età di 14 anni, alla vendita di frutta e verdura nel mercato di Piazza Bodoni a Torino.

Contemporaneamente lavora, sempre a Torino, come scaricatore allo scalo merci ferroviario, dove rimane non solo affascinato dai treni, ma dove ne comprende anche l’immenso potenziale in termini di sviluppo del commercio. Così, nel 1850, sfruttando proprio le prime ferrovie che si stavano allora costruendo in Europa, avvia un piccolo commercio di prodotti freschi tra Italia e Francia: si tratta della prima azienda da lui fondata, che in pochi mesi espande le proprie attività oltre i confini francesi. Agli inizi del 1851, a 15 anni, Francesco Cirio è il maggiore esportatore del Piemonte. Sua, in questo periodo, un’invenzione destinata a cambiare il commercio internazionale nei decenni successivi: animato dal desiderio di raggiungere con prodotti velocemente deperibili mercati molto lontani, Francesco inventa il vagone frigorifero. Si tratta, nella sua forma di allora, di un comune vagone merci, con doppie pareti e doppio fondo: tra le assi delle due pareti e dei due fondi vengono inserite lastre di ghiaccio, che mantengono le verdure all’interno del vagone fresche per il tempo necessario a raggiungere in buone condizioni città come Londra e Budapest.

La svolta, che porta alla fondazione della Cirio come la conosciamo noi, produttrice di cibi conservati e in particolare di pomodori, viene da un evento esterno al commercio di verdure: la guerra di Crimea.

Iniziata nel 1853 e combattuta per il controllo dell’omonima penisola, all’epoca sotto controllo russo, ma parte dell’Impero Ottomano nel passato, la guerra richiamò l’attenzione (e la partecipazione militare) di Francia e Inghilterra, preoccupate che la Russia, in caso di vittoria, espandesse il proprio dominio a sud della Crimea, sulle coste meridionali del Mar Nero e su quelle orientali del Mediterraneo. La guerra di Crimea offrì al conte di Cavour, desideroso di trasformare il Regno di Sardegna da piccolo Stato periferico a importante interlocutore in ambito internazionale, un’occasione da non perdere. La Francia e l’Inghilterra si allearono contro la Russia, mentre il Regno di Sardegna, alleato dell’Impero Ottomano, inviò truppe in quella che nella mente dei cittadini di allora era una terra assai remota.

Viene spontaneo domandarsi a questo punto che cosa c’entrino Francesco Cirio e i pomodori in scatola con la guerra di Crimea. Come è noto gli Italiani sono particolarmente affezionati alla dieta mediterranea, che prevede il consumo di grandi quantità di frutta e verdura, entrambe difficilmente reperibili in un teatro di guerra a migliaia di chilometri di distanza dalla madrepatria.

Le lamentele dei soldati del Regno di Sardegna, che per i tre anni di durata della guerra, ebbero enormi difficoltà ad approvvigionarsi di frutta e verdura, spinsero Francesco a occuparsi di conservazione e inscatolamento di verdure e carni.

Nel 1856, appena terminata la guerra di Crimea, Francesco apre, in via Borgo Dora 34, il primo stabilimento per il trattamento e l’inscatolamento di verdure (inizialmente solo piselli). Il metodo utilizzato allora era quello ideato dal francese Nicolas Appert nel 1810. Il difetto di questo sistema era che, pur conservando abbastanza bene in confezione ermetica verdure e carni, queste perdevano il colore, risultando invariabilmente gialle o bianche e, quindi, poco appetibili. Inoltre, essendo stato brevettato prima degli studi di Louis Pasteur sui batteri, il metodo era approssimativo e la conservazione dei prodotti non sempre garantita. Francesco Cirio riuscì a migliorare il procedimento del collega francese ideando un sistema, che da allora porta il suo nome, più affidabile dal punto di vista della durata della conservazione e in grado di mantenere il colore originario del prodotto inscatolato. Nel 1867 il metodo Cirio riceve numerosi riconoscimenti e premi all’Esposizione Universale di Parigi.

L’espansione della Cirio fu rapidissima e portò l’azienda a esportare i propri prodotti conservieri in tutta Europa: nel 1867 circa 5.000 vagoni di prodotti inscatolati raggiunsero Vienna, Londra, Parigi e le altre capitali europee, dove venivano venduti come beni alimentari di lusso nei negozi più esclusivi. Francesco Cirio aveva reso possibile il consumo di pomodori e albicocche a Londra in pieno inverno!

L’Unità d’Italia aprì le porte del Meridione alla Cirio e le permise di occuparsi di quello che sarebbe diventato il prodotto principe dell’azienda: il pomodoro conservato nelle sue varie forme. Grandi appezzamenti di terreno, appartenuti alla nobiltà latifondista del Regno delle Due Sicilie e lasciati incolti per decenni, vennero recuperati da Francesco e adibiti alla produzione di materie prime per i suoi stabilimenti di inscatolamento che venivano creati nel frattempo anche nel Meridione. Nei due decenni successivi all’Unità, il metodo Cirio venne costantemente perfezionato e l’azienda si espanse notevolmente sia in Italia sia, ancora, all’estero. Degli stessi anni è la fondazione, sempre da parte di Francesco, di altre imprese specializzate nella produzione e nella vendita di particolari prodotti, alcune delle quali tuttora esistenti. È il caso del latte e dei latticini della Polenghi Lombardo Cirio, creata dai fratelli Polenghi nel 1870 come Polenghi Lombardo e divenuta Polenghi Lombardo Cirio nel 1884, con l’ingresso nel capitale azionario di Francesco Cirio. Anche la Società Italiana per la Bonifica dei Terreni Ferraresi (ancora oggi una delle maggiori aziende agricole italiane e quotata alla Borsa di Milano) è stata una creazione di Francesco Cirio.

 

L’idroscalo del Valentino, la prima linea aerea regolare d’Italia.

 

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A partire dalla metà degli anni Venti fu possibile ai torinesi, non più di una decina, imbarcarsi ogni mattina (spendendo l'equivalente del salario mensile di un operaio) su un idrovolante che raggiungeva Trieste, dopo uno scalo sul Ticino, a Pavia, poi all'Idroscalo di Milano, poi nel bacino di San Marco a Venezia. Il solito primato torinese, ovviamente: la prima linea aerea regolare in Italia. La città che avrà Caselle, è, "ça va sans dire", anche quella che diede inizio ai voli. L'aerostazione sul Po - che era al contempo hangar dove l'idrovolante veniva ricoverato di notte, dopo averlo tirato su per uno scivolo - era un grande e bel padiglione in vetro e ferro montato su poderose palafitte poco a monte del Borgo Medievale. Un bel reperto di archeologia industriale, ma anche il simbolo di una città che fu all'avanguardia, che fu poi malauguratamente abbattuto.

 

Torino capitale dei telefoni

 

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Nel dopoguerra le varie società telefoniche regionali, come la Telve nel Veneto, la Teti a Roma, la Timo ecc. erano tutte erano raggruppate nella Stet, acronimo di Società Torinese Esercizi Telefonici. «Società Torinese»: in effetti, la città era capitale anche dei telefoni, oltre che della radiofonia. Quando, negli anni Sessanta, fu nazionalizzata l'energia elettrica e nacque l'Enel, nel nuovo calderone pubblico finì anche la Sip, cioè la Società Idroelettrica Piemonte la quale, con i soldi dell'indennizzo, comprò le cinque o sei concessionarie telefoniche che si spartivano il territorio italiano e le unificò, dando alla nuova società il suo nome: Sip, appunto. Verrà poi un altro cambio di nome, Telecom, e la privatizzazione anche delle telecomunicazioni. Con questa, finì la centralità di Torino: era rimasta, qui, la sede legale, ma il patron della Pirelli, avendo comprato il tutto, la trasferì a Milano, che all’epoca della grande esposizione del 1961 dipendeva invece ancora da Torino.

 

Una contessa Torinese per dare lezioni di dizione ai telefonisti della SIP

 

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Gli operatori telefonici della Stipel, situata negli anni ’60 nel palazzo all’angolo tra Via Meucci e Via Confienza, dovevano subire un lungo e duro corso che durava diversi mesi, e tra le varie lezioni, fu chiamata nientemeno che la Contessa Morozzo della Rocca a impartire sedute di dizione, perché il loro accento al telefono fosse impeccabile. Perfezionismo piemontese…

 

La Torino delle realizzazioni eccezionali e dei record

 

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la prima penna stilografica ricaricabile con cartuccia nasce a torino

Negli anni Cinquanta, la diffusione sempre più capillare delle penne a sfera determina una forte riduzione delle quote di mercato delle case produttrici di stilografiche, le quali, per reagire a questo stato di cose, non hanno altra strada che quella di puntare con grande forza su una sempre maggiore innovazione dei propri prodotti. L'Aurora si dimostra pronta, a differenza di altri storici marchi internazionali (si pensi al caso della Waterman, che entrerà in una fase di grave declino), a raccogliere questa sfida, e introduce pertanto nel mercato modelli con particolari tecnici inediti: è il caso della Duocart, nella quale vengono utilizzate per la prima volta cartucce di inchiostro in materiale plastico in duplice copia per ogni penna (progettate dal futuro premio Nobel per la chimica Giulio Natta, il padre del celebre Moplen), consentendo di abbandonare definitivamente l'uso ormai anacronistico del calamaio. La stessa soluzione tecnica verrà adottata qualche anno dopo nel modello Auretta, penna con la quale l'azienda torinese cercherà, così come fece negli anni Trenta con la Topolino, di reinserirsi nel mercato degli studenti; questo modello verrà accolto con grande favore dai soggetti per i quali era stata pensata

Il progetto della cartuccia in polietilene prodotta in serie ha posto problemi tecnici risolti tramite lunghi studi e ripetute prove. L’azione imprenditoriale e manageriale di Franco Verona, a partire dal 1958, si sviluppa attraverso interventi pragmatici ma efficaci che consentono all’impresa un discreto recupero già nei difficili anni Sessanta, attraverso la produzione di nuovi modelli di penne stilografiche per rilanciare l’Aurora.

la ditta di torino che fabbrica gli addobbi dell’opéra di parigi, del bolshoi di mosca e gli interni della vettura del papa e del presidente della repubblica

La storica Passamaneria Vittorio Massia, in Via Barbaroux è tuttora in attività e una delle più longeve passamanerie d’Europa. Mantiene ancora una attività produttiva accanto a quella commerciale

Con il bisnonno di Max la produzione si svolgeva in via della Basilica 20, all’interno dello stesso palazzo in cui dal 1919 ebbe sede anche la famosa Ditta Penne Aurora. L’edificio fu spazzato via dai bombardamenti del 1943 e non venne mai più ricostruito. Dopo la seconda guerra mondiale, il nonno di Max, Giovanni, decise di concentrarsi di più sulla commercializzazione di passamanerie che sulla produzione e i macchinari furono accantonati. È stato Vittorio, figlio di Giovanni e padre di Max, a riattivare le attrezzature per imboccare la strada del restauro e della ricostruzione storica, che oggi costituisce la divisione Heritage dell’attività della Fabbrica Massia. Racconta Max in merito:

“Lavoriamo per antiquari, collezionisti, musei e residenze storiche. Abbiamo curato l’allestimento delle residenze sabaude, da Palazzo Reale a Venaria, da Agliè a Racconigi. Siamo specializzati nei teatri. Siamo intervenuti sul Bolshoi di Mosca, sul Colón di Buenos Aires, sull’Opéra Garnier di Parigi. In Italia abbiamo fatto una settantina di teatri, tra cui il Bellini di Catania, la Fenice di Venezia, prima e dopo l’incendio, e il Carignano qui a Torino. Il sipario del Carignano era stato fatto dal mio bisnonno. In occasione del restauro del teatro, noi lo abbiamo ricostruito esattamente com’era in origine e lo abbiamo donato.”

Altri committenti sono le compagnie teatrali, i gruppi storici e gli organizzatori di feste popolari, per i quali è fondamentale avere la certezza che i dettagli dei costumi indossati siano filologicamente corretti. E allora possiamo trovare l’intervento della Fabbrica Massia sulle divise del Gruppo Storico Pietro Micca e nelle sfilate del Palio di Siena e di Asti. Ma non solo: negli anni ’60 erano firmati Massia gli ornamenti interni dell’automobile papale e quelli della vettura del Presidente della Repubblica.

Più contemporanea è la divisione Day by day, che si focalizza invece su prodotti realizzati in esclusiva e sull’uso di materiali nuovi (neoprene, fibra di carbonio, fibre ottiche). Non mancano nemmeno le collaborazioni con le grandi firme dell’alta moda come Prada, Westwood, Dsquared, Armani, Cavalli, D&G, Fendi. Importanti sono poi le creazioni tese a modernizzare i manufatti classici.

il mercato all’aperto più grande d’europa

A Porta Palazzo, il mercato all’aperto più grande d’Europa, le distanze s’annullano. Partirete dall’ottocentesca Galleria Umberto I e conoscerete le botteghe storiche, le antiche ghiacciaie e il padiglione liberty dell’Antica Tettoia dell’Orologio. Sarete trasportati in un porto del meridione d’Italia entrando nel mercato ittico, per proseguire verso l’Asia, l’Africa e l’America Latina dei negozi che circondano la piazza.

la mole antonelliana

La Mole Antonelliana, con un'altezza di 167,5 metri, fu l'edificio in muratura più alto del mondo, prima che intervenissero ristrutturazioni con ferro e cemento armato che l’hanno escluso dal novero degli edifici in puro laterizio tradizionale.

piazza vittorio veneto

Piazza Vittorio Veneto, è una delle piazze storiche e porticate di Torino, situata nella parte orientale del centro cittadino, tra il termine di via Po e la riva sinistra del fiume Po. Di forma rettangolare con un lato a semicerchio, si estende su una superficie di 39.960 m². È la piazza più grande d'Italia, tenuto conto che Piazza Carlo III di Borbone, a Caserta pur con i suoi 130.000 m², è adibita più a parco e prato d'erba. Resta comunque la piazza porticata più grande della Penisola.

italia ’61 e la visita di walt disney a torino

Il 1961 fu l’anno in cui John Kennedy prestò giuramento come 35° Presidente degli Stati Uniti d’America e in cui Bob Dylan debuttò come cantante. E l’anno in cui, In Italia, i disoccupati scesero a soli duecentomila, proprio in occasione del primo centenaria dell’Unità d’Italia. Quell’anno, a Torino, prima capitale dello Stivale unito, la Circoscrizione IX ospitò l’Esposizione Internazionale del Lavoro, per gli amici, Italia ’61.

Più di 4 milioni di visitatori accorsero per prender parte all’evento promosso da Giuseppe Pella, Presidente del Comitato, Amedeo Peyron, l’allora sindaco e Achille Mario Dogliotti, Presidente del Consiglio Direttivo.

Molte le attrazioni, oggi quasi del tutto dimenticate: la monorotaia ALWEG, il Circarama della Walt Disney e poi lei, la diva indiscussa d’Italia ’61: l’Ovovia di Ugo Carlevaro.

Dall’attuale zona della Scuola di Amministrazione Aziendale, 61 piccole cabine biposto collegavano la zona dell’Expo con il Parco Europa Cavoretto, oggi conosciuto come rifugio di giovani innamorati in cerca di privacy, ma allora come adesso, uno dei punti panoramici più belli della città.

A 10 metri dal suolo correva un cavo su cui scorrevano 61 piccole simil smarties che trasformarono Torino in una città futuristica. 118 m di dislivello tra la stazione di partenza e quella di arrivo ed una lunghezza di 871 metri per una funivia amica dell’ambiente, alimentata ad energia elettrica. 600 passeggeri ogni ora, sorridenti ma un po’ preoccupati, che con 100 lire potevano godersi Torino da un nuovo punto di vista.

“Italia ’61” è l’esposizione che apre le porte a 4 milioni di visitatori mostrando attrazioni assolutamente innovative. Protagonisti e promotori dell’iniziativa, non solo il sindaco della città Amedeo Peyron, ma anche un uomo che con Torino forse non ha nulla a che fare e che ha creato un luogo, lontano da qui, in cui i sogni diventano realtà: Walt Disney.

Amato dai bambini, ammirato dagli adulti, lo stesso personaggio che ha creato Bambi e Topolino, quell’anno atterra in Italia e porta un’ondata di innovazione e magia proprio a Torino.

Con la collaborazione della WD Corporation, è proprio a Italia ’61 che installano la loro nuovissima tecnica cinematografica, conosciuta quell’anno e oggi con il nome di Circarama.

Progettata nel 1955 per Disneyland, questo sistema di proiezione filmica a 360° immerge totalmente lo spettatore in una visione che ha del futuristico.

Torino spalanca le braccia all’artista, accolto negli stabilimenti Fiat (quale luogo più simbolico dell’identità torinese?) dagli occhi sognanti degli operai e dall’allor dirigente Valletta, che gli dona il modellino della loro prima macchina. Successivamente, è il turno della visita a Peyron e poi, ovviamente, al Circarama, in cui è accolto ancora una volta da Valletta.

La Fiat, infatti, decide di investire in questo straordinario “cinema” e, oltre a costruirne il padiglione, ne comprende il valore per la costruzione del consenso nazionale.

Il loro orgoglio italiano coglie al volo l’occasione a 360° del Circarama e, sempre in collaborazione con la WDProduction e a cura della RoyFilm di Roma, creano un ambizioso film per la proiezione.

Non potendosi chiamare altro che “Italia 1961”, la pellicola comunica la fierezza di una nazione che, dopo aver raggiunto faticosamente l’unità, sta invece gloriosamente festeggiando i suoi cento anni.

Il film, o meglio il documentario, è una fantastica ripresa aerea del territorio e delle città italiane, dalle Alpi alla Sicilia e alla Sardegna, cercando di cogliere e rivelare gli aspetti più significativi del Bel Paese.

Non ci fu modo migliore per celebrare i cent’anni di una nazione, se non mostrandola nella sua intera bellezza.

 

Il primo Panopticon fu costruito a Torino

 

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Che cos'è il Panopticon o Panottico? Forse ne avete già sentito parlare, ma per capire esattamente il principio che sta alla base di questo sistema bisogna tornare indietro di un pò di anni.

Nel XVIII secolo iniziò una profonda riflessione riguardo il sistema penitenziario finora utilizzato e le finalità della carcerazione. Fino a quel momento il carcere era stato pensato come un luogo di punizione dove il detenuto doveva subire le peggiori pene per espiare le sue colpe. Il primo a porre un punto interrogativo sui metodi adottati fu Cesare Beccaria, che diede inizio ad un lungo dibattito politico e filosofico dove in molti cercarono di stabilire quali potessero essere le esigenze dei carcerati dal punto di vista umano e altri puntarono alla riorganizzazione architettonica del carcere vero e proprio. Tra questi ultimi emerse l'inglese Jeremy Bentham che nel 1786 inventò il Panopticon.

Il Panopticon ha una struttura ben precisa: l'edificio ideale ha forma in pianta circolare al centro della quale si trova una torre vedetta e le celle singole sono disposte tutte intorno ad essa lungo il confine del cerchio. Ogni cella ha due sole aperture: la prima si affaccia verso l'interno e quindi sulla torre vedetta, la seconda verso l'esterno per dare luce alla cella.

La torre vedetta ha i vetri schermati in modo tale che i detenuti non possano sapere se sono o meno controllati durante il giorno e la notte. Le celle hanno una conformazione tale da costringere il carcerato ad un completo isolamento. Questi due ultimi elementi caratterizzanti il Panopticon sono fondamentali per l'espiazioni delle colpe del detenuto poichè il sapere essere osservati induce i carcerati a rispettare la disciplina e l'isolamento favorisce il pentimento evitando l'abuso di strumenti di tortura.

E ora veniamo a Torino.

Il carcere giudiziario Le Nuove è stato costruito tra il 1862 e il 1870 e progettato dall'architetto Giuseppe Polani ispirandosi al sistema Panopticon. L'edificio, a differenza di quello ideale pensato da Bentham, è strutturato con uno schema in pianta a doppia croce dove dal corridoio centrale si diramano i bracci in cui sono ospitate le celle. Nei fulcri delle due croci sono presenti due corpi a tutta altezza a pianta ottagonale. Le celle erano state concepite per l'isolamento totale, come previsto dal Panopticon: 648 celle totali di dimensioni 4,00 x 2,00 m o 2,60 x 3,00 m, ognuna illuminata da una finestra posta a 2,10 m di altezza dal pavimento in modo da inquadrare solo il cielo e non permettere al detenuto di capire in che zona del carcere si trovasse.

Le carceri Le Nuove di Torino sono rimaste in funzione fino al 2005. Oggi una parte è stata restaurata e adibita a museo dove è possibile fare visite guidate sia diurne che notturne con il solo uso delle torce elettriche regalando un percorso molto suggestivo e, per i più sensibili, inquietante! L’unico altro cospicuo esempio di Panopticon è quello, più recente, del Presidio Modelo, a Cuba anch’esso ormai in disuso.

 

Il tramezzino nasce a Torino

 

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Nacque a Torino (per la precisione, presso il caffè Mulassano) nel 1925 ed era farcito con burro e acciughe. Qualche anno più tardi si arricchì di numerose varianti e, soprattutto, trovò il nome con cui è conosciuto ancora oggi: «Ci vorrebbe un altro di quei golosi tramezzini...», esclamò d'Annunzio, durante una visita allo storico bar torinese.

Il termine, che voleva essere la risposta italiana al sandwich inglese, deriva probabilmente dalla parola "tramezzo" ("Elemento situato in mezzo a due o più altri elementi", secondo la definizione del vocabolario Treccani).

A Torino, nel Caffè Mulassano c’è una targa che recita: “in questo locale, nel 1926, la signora Angela Demichelis Nebiolo inventò il tramezzino”. La signora, emigrata negli Usa, nel 1925 tornò in Italia e assieme al marito si dedicò alla gestione del caffè dell’allora proprietario Amilcare Mulassano. Dagli Stati Uniti aveva portato la macchina per i toast, ma decise di non tostare il pane. Ecco il tramezzino.

 

Il primo computer meccanico al mondo è nato a Torino

 

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Considerato in vita un genio da molti, un visionario da altri, Charles Babbage è oggi ricordato come uno dei pionieri della moderna informatica. Matematico, filosofo, ingegnere meccanico, Babbage fu uno dei primi a proporre l’idea di una macchina che fosse in grado di eseguire complesse operazioni matematiche in sequenza, e progettò una serie di macchine, dei calcolatori meccanici, capaci di eseguire i calcoli differenziali. Ad una prima Difference Engine fece seguito un più ambizioso progetto di Analytical Engine, una macchina non solo in grado di eseguire complesse operazioni, ma anche programmabile, utilizzando schede perforate come quelle usate dai telai meccanici. Il progetto destò l’interesse della corona britannica, che finanziò la creazione di un prototipo.

Il prototipo funzionante non vide mai la luce, ma i progetti ed i principi matematici delle macchine di Babbage ebbero ampia circolazione fra i matematici e gli ingegneri in Europa. E fu così che nel 1840, Charles Babbage venne invitato, a nome di re Carlo Alberto, a parlare della propria invenzione alla comunità scientifica italiana, riunita all’Accademia delle Scienze di Torino per il Secondo Congresso Italiano di Scienze. Fu in quella occasione che Giovanni Antonio Amedeo Plana concepì l'idea di quello che è considerato da molti il primo vero computer della storia.

Nato a Voghera nel 1781, Giovanni Antonio Amedeo Plana aveva studiato al Politecnico di Grenoble, ed aveva avuto fra i suoi insegnanti Lagrange e Fourier. I suoi studi sui moti lunari lo resero famoso a livello internazionale. L’interesse per la regolarità delle meccaniche celesti e per il calcolo ebbero un’ovvia influenza sul Calendario Meccanico Universale — un calcolatore meccanico (perché di questo si tratta) capace di identificare un giorno qualunque dall’anno 1 fino al 4.000, fornendo anche informazioni riguardanti lunazioni e maree.

La macchina di Plana, che molti considerano il primo vero computer della storia, è oggi esposta presso la sagrestia della Cappella dei Mercanti di Torino, al 25 di Via Garibaldi.

Il Calendario meccanico universale è valido per 4000 anni e anticipatore di tecnologie applicate molto tempo dopo nei computer.

Il calendario, costruito con legno e carta, è una straordinaria “macchina del tempo” che racchiude 46 mila dati in memorie a tamburo, a disco e nastro. Tramite un ingegnoso sistema di ruote dentate, catene e viti, si può identificare un giorno qualsiasi dall’anno “uno” dell’era cristiana fino all’anno 4000. Si può ben immaginare la difficoltà concettuale e pratica di mettere d’accordo e imbrigliare sotto un denominatore comune, per un tempo così lungo e con i mezzi dell’epoca, la durata fissa convenzionale della settimana, il dato astronomico del mese lunare, le variazioni da 28 a 31 giorni del mese solare, le stagioni astronomiche fra loro diseguali, la durata fissa dell’anno e quella convenzionale del secolo, che nulla ha a che vedere con la realtà fisica. Inoltre il Plana dovette tenere conto degli scarti (il giorno siderale non dura 24 ore ma 23 ore, 56 minuti, 4 secondi), del rallentamento della rotazione terrestre su base secolare, della sfasatura tra il mese lunare di 29 giorni, 12 ore, 44 minuti, 2 secondi e 8 decimi rispetto ai mesi solari, delle oscillazioni dovute al combinarsi dell’attrazione gravitazionale dei pianeti, degli anni bisestili, delle novità introdotte dalla riforma gregoriana (1582) sul precedente calendario giuliano e di molte altre cose ancora.

Oltre a conciliare giorni, settimane, mesi, anni, secoli, lune, solstizi ed equinozi, un calendario “cattolico” doveva poi rispettare le festività religiose e fare il complicatissimo calcolo necessario per ottenere la data della Pasqua e delle altre feste mobili (Settuagesima, Ceneri, Ascensione, Pentecoste, Santissima Trinità, Corpus Domini). Il tutto per una durata di 4000 anni e a mano con carta, penna, pennino e inchiostro, essendo di là da venire i calcolatori elettronici e anche le penne biro. Onore dunque a Giovanni Plana, al quale la città riconoscente ha dedicato una bella strada del Borgo Nuovo che si affaccia nella romantica piazzetta Maria Teresa.

Il calendario è custodito nella sacrestia della cappella dei Banchieri e dei Mercanti, in via Garibaldi 25, e trovarlo è come partecipare a una caccia al tesoro, ma ne vale la pena. Per raggiungere la cappella bisogna infatti passare attraverso il cortile degli Antichi Chiostri, un atrio di raffinate arcate del Vittone attualmente adibito a spazio espositivo e informativo daU’amministrazione comunale. Il piccolo oratorio (1692) è un gioiello di venti metri di lunghezza, dieci di larghezza e altrettanti in altezza, rigorosamente unitario nella concezione: tutti i quadri hanno le stesse dimensioni, come pure i personaggi raffigurati, e condividono un unico tema, la Natività di Gesù vissuta dai Re Magi. Sei sculture lignee di grandezza superiore al naturale incastonate nei vani delle finestre raffigurano i padri della chiesa del V e VI secolo. Il soffitto è affrescato dal Legnanino con una luminosa e serena visione del paradiso, in un tripudio di putti e di angeli vorticanti intorno a un Cristo in gloria di ascendenza correggesca. Costruita dalla Pia Congregazione dei Mercanti, la cappella aveva tra i suoi scopi quello di aiutare i confratelli in difficoltà economica. All’epoca Torino era una piccola città di circa 40.000 abitanti e i ricchi mercanti iscritti nel registro della congregazione, tuttora in uso, erano appena 15, saliti a 281 alla fine dell’ottocento. Non è paradossale e divertente che in questo scrigno barocco, dove ogni oggetto ci riconduce al passato regale e devozionale dell’antico regime, abbia trovato spazio uno strumento che è a tutti gli effetti un computer ante litteram, che ha memorizzato informazioni relative a un arco di 40 secoli ed è in grado di fornirci in pochi secondi la risposta a domande di questo tipo: «In che giorno della settimana cadrà il 16 marzo del 3077?».

 

Progetti folli nati a Torino: la deportazione con dirigibili

 

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Federico Menabrea, marchese di Valdora fu primo ministro del neonato Regno d’Italia dal 1867 al 1869. Nato a Chambery nel 1809, Menabrea aveva studiato ingegneria e matematica all’Università di Torino. Ufficiale del genio, era stato il sostituto di Cavour alla fortezza di Bard e successivamente si era dato all’insegnamento della matematica in università e di ingegneria e costruzioni presso l’accademia militare. La carriera politica di Menabrea si concluse con un posto da ambasciatore del Regno d’Italia a Parigi. L’ormai anziano matematico non aveva tuttavia dimenticato la propria passione per le macchine analitiche e le nuove tecnologie. I diari di Menabrea riportano infatti sia il suo progetto di utilizzare delle macchine analitiche per migliorare e snellire l’amministrazione dello stato (una sorta di informatizzazione con oltre un secolo di anticipo), sia un progetto molto più fantascientifico, e sinistro, relativo all’acquisizione di territori in Sud America dove deportare, con una flotta di dirigibili, dissidenti e indesiderabili.

 

L’ingrediente base della dinamite inventato a Torino

 

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Colui che scoprì la nitroglicerina fu Ascanio Sobrero, che nel 1847 nel Regno di Sardegna ripeté l'esperimento della sintesi di nitrocellulosa (che era stato effettuato, senza successo, nel 1845 dal chimico tedesco Christian Friedrich Schönbein): mise due gocce, questa volta di glicerina, in una provetta e la riscaldò, ma la piccola esplosione che ne scaturì durante l'esperimento danneggiò il laboratorio, così decise di interrompere gli esperimenti. Successivamente Sobrero riprese gli studi degli acidi e nel 1847 riuscì nella sintesi.

Sobrero, per esibire agli altri scienziati la consistenza della nitroglicerina, ne poneva una goccia su di un'incudine e la batteva con un martello, mostrando che questo, per lo scoppio, veniva lanciato via.

Alfred Nobel ne iniziò lo studio nel 1859 e, dopo la scoperta che l'esplosione poteva essere innescata con polvere da sparo, ne iniziò la commercializzazione sotto il nome di "olio esplodente". Un'esplosione distrusse la prima fabbrica svedese, uccidendo il fratello di Alfred. Il commercio di nitroglicerina continuò fino al 1867, anno in cui Nobel adottò il fulminato di mercurio come detonatore e stabilizzò la nitroglicerina, facendola assorbire da farina fossile (una diatomite), ottenendo una pasta morbida più stabile della nitroglicerina e che poteva essere plasmata in canne di dimensioni e forma idonea per l'inserimento nei fori di perforazione che chiamò dinamite, utile nelle cave, demolizioni ed agli usi bellici. Il tecnico-imprenditore svedese brevettò nel 1875 la cosiddetta "gelatina esplosiva", a base di cotone collodio e nitroglicerina, con un potere esplosivo maggiore della dinamite.

Uno dei primi e più grandi dinamitifici fu costruito nel Bel Paese, più precisamente in Piemonte, dopo l’Unità, presso una zona assai pittoresca, ricca allora di boschi: la località Valloja di Avigliana, dove la presenza di formazioni collinari consentiva una protezione dell’abitato dagli effetti delle deflagrazioni, spesso inaudite, che potevano essere causate da questa pericolosa attività.

Nobel si recò in Italia per seguirne la costruzione e aveva l’intenzione di incontrare Sobrero, ma pare che l’incontro non avvenne e l’imprenditore svedese lo rimandò a tempi successivi. Tuttavia riconobbe a Sobrero una pensione a vita come riconoscimento dell’importanza della sua scoperta.

 

L’Automobile Club d’Italia nasce a Torino

 

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Vedi l’articolo “Il primo Automobile Club d’Italia” nel percorso “Torino capitale dell’automobile”

 

Il Topolino italiano proviene da Torino

 

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Nato a Carmagnola il 9 febbraio 1906, Guido Martina si trasferisce nel 1922 con la famiglia a Torino, dove il padre Ermenegildo ha ottenuto una cattedra liceale, e nel 1925 si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia per conseguire la laurea nel 1930.

La passione per la scrittura è tale da fargli abbandonare dopo poco tempo l’attività di insegnante iniziata dopo la laurea ad imitazione del padre, per dedicarsi esclusivamente a vari settori dello scrivere. Ottiene così interessanti esperienze nel mondo radiofonico e cinematografico, in veste di sceneggiatore, e nell’ambito giornalistico, per poi trasferirsi a Milano dove, nel 1937, inizia la collaborazione con Mondadori che da circa due anni è il nuovo editore degli albi di Topolino, prima pubblicati dal fiorentino Nerbini.

La prima sceneggiatura di Martina per Disney risale al 1948, quando, a corto di materiale originale sufficiente a riempire Topolino, Mondadori ottiene finalmente dall’America il permesso di far realizzare in Italia nuove storie riferite ai protagonisti principali. In precedenza il nulla osta era stato concesso soltanto per Paperino e Biancaneve, coinvolgendo artisti quali Federico Pedrocchi. Nell’impossibilità di utilizzare ancora quei collaboratori (Pedrocchi, ad esempio, era mancato nel 1945), la scelta cadde dunque sul poliedrico Martina, noto nell’ambiente come “il professore”, ormai più che pratico nel creare storie utilizzando le immagini, anche per l’attività svolta nell’ambito dei fotoromanzi.

Quella prima sceneggiatura, molto nota agli appassionati, ha per titolo Topolino e il Cobra Bianco, storia disegnata dal già citato Angelo Bioletto. La prima puntata è apparsa su Topolino del 16 ottobre 1948 per concludersi l’anno successivo sul nuovo Topolino in formato tascabile (aprile 1949).

Maestro della scuola Disney italiana, Martina ha prodotto, sino alla metà degli anni Ottanta, oltre 1.200 soggetti, senza dire della sua fondamentale attività svolta per l’enciclopedia Disney (undici volumi su 24) e In giro per il mondo con Disney, e della creazione di personaggi nuovi, quali il giustiziere mascherato Paperinik, da un’idea di Elisa Penna. Gli studiosi di questa sua immane opera fumettistica hanno rilevato la presenza di tematiche insolite nel mondo disneyano (torture, possessioni spiritiche, suggestioni magiche, esoteriche e occulte) svolte con garbo, a sottolineare una personalissima visuale creativa.

 

La prima lampadina nasce a Torino

 

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Alla domanda "chi fu l'inventore della lampadina?" tutti, più o meno immediatamente, risponderemmo Thomas Edison, eppure ad accendere la prima lampadina in grado di funzionare per più di pochi secondi, rendendola quindi una valida alternativa all'illuminazione a gas, fu in realtà un piemontese originario di Piossasco, oggi pressoché dimenticato, Alessandro Cruto. La lampadina di Edison infatti si accendeva per pochi secondi e produceva una luce molto fioca e rossastra, fu Cruto, invece, a perfezionare il filamento collocato all'interno del bulbo in modo tale da produrre una luce bianca durevole nel tempo.

Dopo aver assistito a una conferenza di Galileo Ferraris presso il Museo Industriale Italiano, in cui il celebre ingegnere, portando ad esempio i risultati deludenti di Edison, affermava che la lampadina a filamento non sarebbe stata mai realizzata e che il futuro era costituito dalle lampade ad arco, Cruto non si lasciò dissuadere e intuì che per produrre una lampadina efficiente e affidabile era necessario un filamento molto sottile, e con un procedimento geniale riuscì a produrre un filamento cavo di carbonio che posto in un bulbo riempito di gas rari (altro punto innovativo) garantiva alla lampadina ben 500 ore di funzionamento.

Storico fu il momento in cui le vie di Piossasco furono illuminate dalle sue lampadine.

il noto stabilimento "Philips" di Alpignano nacque proprio dal laboratorio che Cruto fondò sulle rive della Dora verso fine Ottocento, producendo ogni giorno 1.000 lampadine che sarebbero andate a illuminare il mondo intero.

 

La Televisione e la Radio italiana nascono sotto la Mole

 

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Vedi à La Torino del cinema e della radio-televisione

 

Radiosveglia e motore elettrico: gli usi creativi dell’elettricità che sono nati a Torino

 

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la sveglia elettrica

Sembra certo che fu il beato Faà di Bruno a portare a Torino, da Parigi, la prima macchina fotografica. E fu lui l'inventore, e titolare poi di un brevetto internazionale, di quello che chiamò «svegliarino elettrico»: a noi sembra cosa banale, ma non era facile applicare la nascente elettricità al complesso meccanismo degli orologi dell'epoca, soprattutto se di piccole dimensioni.

il motore elettrico

Figlio di un farmacista, Galileo Ferraris, Dopo aver frequentato il collegio di San Francesco da Paola di Torino, che sarebbe poi diventato il liceo classico Vincenzo Gioberti, si laurea in ingegneria civile a 22 anni e diventa assistente di fisica tecnica presso il Regio museo industriale italiano (il futuro Politecnico di Torino).

Nel 1885 riesce a dimostrare a un pubblico stupefatto l'esistenza di un campo magnetico rotante generato da due bobine.

Nel Marzo del 1888, Galileo Ferraris pubblica i suoi studi sul ‘Motore Elettrico Asincrono’ senza precisare i possibili utilizzi, esponendo teorie ed esperimenti cominciati nel 1885 con la prima dimostrazione reale di un’esemplare funzionante.

Nel maggio del 1888, Nikola Tesla ottiene i brevetti per il ‘Motore Elettrico Asincrono’ aprendo la strada al suo sviluppo ed utilizzo industriale e commerciale. Chi viene prima e chi viene dopo?

Non lo sappiamo, è passato più di un secolo e purtroppo le leggi di mercato spesso riscrivono la storia.

Notiamo però che i contemporanei di Galileo Ferraris riconoscevano a lui la paternità dell’invenzione a prescindere della data di concessione del brevetto. Riconoscimento che lo stesso Galileo F. poté constatare nel 1891 all’ interno della Esposizione internazionale di elettrotecnica di Francoforte e durante il Convegno Internazionale di Elettricità di Chicago del 1893.

Qualche dubbio devono averlo avuto anche i dirigenti della Westinghouse che provarono a comprare l’invenzione direttamente da Galileo Ferraris che rifiutò l’offerta affermando che le sue scoperte erano rivolte a tutti senza alcun segreto.

 

Lavazza: 125 anni di caffè e di innovazione

 

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Se si scorre l’elenco dei principali Paesi produttori di caffè, si incontrano molti Paesi in via di sviluppo, concentrati soprattutto in Africa sub-sahariana, America del Sud e Asia Orientale, con Brasile, Vietnam e Colombia che occupano i tre gradini del podio. Quando invece si sceglie di leggere l’elenco dei principali Paesi esportatori di caffè per valore (in dollari statunitensi), la geografia di questo prodotto muta radicalmente: sebbene il podio resti invariato, subito al di sotto della terza posizione si incontrano tre Paesi (Germania, Svizzera e Italia), che non figurano in alcuna posizione della prima graduatoria. Così l’Italia detiene il 5% delle esportazioni mondiali di caffè, senza produrne nemmeno un chicco.

un primato tutto italiano

Considerando le sole capsule per macchine espresso, la quota dell’Italia nel mercato mondiale arriva a circa il 35%. La ragione di queste differenze risiede nell’industria della trasformazione del caffè, molto sviluppata in Italia, che riesporta gran parte della materia prima lavorata. Marchio storico di questa industria è Lavazza, azienda fondata nel 1895, quando Luigi Lavazza (nato a Murisengo, nell’Alessandrino 36 anni prima) apre a Torino la Drogheria Lavazza, specializzata nella vendita di caffè pregiati provenienti da tutto il mondo.

quando un’intuizione fa la differenza

All’epoca il caffè veniva venduto e consumato per singola origine, ovvero ciascun pacchetto di caffè conteneva macinato proveniente da un unico Paese. Di Luigi Lavazza fu l’intuizione di creare, a partire dal 1910, delle miscele (come si faceva già per i tè), mescolando caffè provenienti da Paesi diversi in proporzioni suggerite dallo studio dei diversi sapori. In origine questa tecnica ebbe motivazioni squisitamente economiche: l’utilizzo di miscele, infatti, rendeva per il venditore meno rischioso il commercio di un prodotto, che, per ogni singola origine, era soggetto a forti oscillazioni di quantità prodotte e di prezzo a causa delle variazioni meteorologiche da un anno all’altro. Le miscele, tuttavia, si rivelarono molto gradite ai consumatori, al punto da soppiantare in breve tempo la vendita di caffè di origine singola.

anni bui

Nel frattempo, la Lavazza, per incrementare le vendite, iniziò ad avvalersi della spedizione postale di cataloghi e alla drogheria fu annessa una torrefazione, per trattare direttamente i chicchi grezzi acquistati.

La Grande Guerra segnò una battuta d’arresto sia per le vendite di caffè, sia per le attività della famiglia Lavazza, che riuscì comunque a mantenere in vita la drogheria e l’attività di commercio di caffè, al punto che nel 1927 Luigi Lavazza, con la moglie e i figli, fonda la Luigi Lavazza S.p.A. con un capitale di 1.500.000 lire.

Gli effetti negativi della prima guerra mondiale sembravano ormai alle spalle, ma il peggio doveva ancora arrivare: la Grande Depressione del 1929, le sanzioni economiche imposte all’Italia nel 1935 a seguito dell’invasione dell’Etiopia e, infine, la Seconda guerra mondiale, segnarono gli anni più bui per la Lavazza, come dimostra la tabella 1, che riporta i saldi del conto economico (utili) della società in alcuni di quegli anni.

L’impatto delle sanzioni post 1935 è molto evidente e la capacità della famiglia Lavazza di ripianare sistematicamente le perdite e di traghettare l’azienda fuori dalla seconda guerra mondiale ha qualcosa di quasi eroico, soprattutto se si aggiunge che proprio in quegli anni si verifica il primo avvicendamento ai vertici dell’azienda: nel 1936 Luigi si era ritirato dagli affari, lasciando la guida della Lavazza ai figli.

l’arte di anticipare il mercato

Gli anni dal 1946 (caratterizzato dalla morte del novantenne fondatore) ai primi anni Sessanta non furono particolarmente felici, furono però caratterizzati da una delle tante innovazioni che nel tempo hanno portato al successo internazionale dell’azienda: il caffè confezionato sottovuoto in lattina, venduto con il marchio Paulista.

Gli italiani, abituati al caffè sfuso si rivelarono molto resistenti al nuovo prodotto e un’indagine di mercato del 1962 rivela che solo il 7,2% dei consumatori acquistava caffè preconfezionato, mentre gli altri preferivano quello sfuso. I costumi sarebbero cambiati, ma nel frattempo l’innovazione introdotta non portava grandi benefici. Fortunatamente, l’azienda trasse comunque vantaggi dalla forte crescita dei consumi di caffè nella Penisola, passati da 1,1 kg pro-capite del 1951 agli oltre 3,3 di venti anni dopo.

Nel 1957, tre anni dopo la nascita della tv, inizia Carosello. Lavazza fa il suo esordio nel 1965 con Caballero e Carmencita, protagonisti di un’ironica e surreale telenovela, “Carmencita sei già mia, chiudi il gas e vieni via!”

il felice incontro con armando testa

Fondamentali per la crescita della Lavazza furono in quegli anni gli investimenti pubblicitari, che, oltre ai tradizionali manifesti e volantini, riguardarono massicciamente la televisione. Dal 1957 la Lavazza iniziò in questo ambito la collaborazione con lo Studio Testa e il Carosello Lavazza, con personaggi indimenticabili come Carmencita e Caballero, entrò nelle case degli italiani, in cui il nuovo mezzo di comunicazione si stava rapidamente diffondendo. Tramontata l’epoca di Carosello, la comunicazione dell’azienda seppe rimanere al passo con i tempi e i nuovi testimonial del marchio furono volti notissimi della televisione italiana, a cominciare da Nino Manfredi.

rete, innovazione e controllo

L’innovazione in campo commerciale è stata in effetti, fin dalle origini dell’azienda, uno dei principali punti di forza di Lavazza, che ha sempre saputo essere all’avanguardia da questo punto di vista. Già all’inizio del XX secolo la società disponeva di depositi dislocati nei principali centri urbani italiani, da cui venivano riforniti i centri minori, riducendo i tempi di attesa per i clienti e i costi di spedizione. Altro vantaggio di questo sistema era la possibilità di raggiungere i piccoli negozi e i supermercati, aggirando la distribuzione all’ingrosso, riducendo i costi di intermediazione e mantenendo contatti diretti con i venditori finali. Questo dava alla direzione aziendale la possibilità di monitorare in tempo quasi reale la domanda effettiva del mercato, correggendo di conseguenza l’offerta e gli invii di caffè ai diversi depositi.

un’altra scommessa vinta

Gli investimenti in innovazione non hanno però riguardato solo l’ambito commerciale. Nel 1989 la Lavazza rileva la UNOPER e inizia a produrre direttamente macchine per il caffè espresso; le vendite di questo prodotto passano dalle 130.000 del 1993 all’oltre milione di oggi e rappresentano un’altra scommessa vinta dalla Lavazza, che intanto, nel 1982, aveva iniziato la propria internazionalizzazione, inaugurata con l’ingresso in Francia, e proseguita con l’apertura verso l’Europa Occidentale e gli USA, per giungere, oggi, a interessare oltre 90 Paesi. L’espansione internazionale dell’azienda è stata straordinariamente rapida, anche grazie alla forte valenza simbolica del caffè espresso come prodotto identitario della cucina italiana.

La Lavazza, guidata oggi dalla quarta generazione di una famiglia estremamente riservata e sui cui membri scarse sono le notizie in fatto di vita privata, vende dunque i propri prodotti in 90 Paesi del mondo, impiega oltre 3.000 persone e ha sei stabilimenti produttivi: tre in Italia, uno in Francia, uno in Brasile e il sesto in India. Nel 2017 la società ha acquistato il gruppo canadese Kicking Horse Coffee, espandendo così le proprie attività in Nord America. Nel 2013 [dati AIDA] la Lavazza aveva una quota pari al 44,95% del mercato italiano del caffè e al 17,37% di quello europeo. La storia dell’azienda, iniziata in condizioni difficili e sotto i non migliori auspici, sembra oggi avviata verso un solido successo.

 

fonti:

https://rivistasavej.it/lavazza-caffe-allitaliana-in-tutto-il-mondo-1e9df3bd4375

 

La prima fabbrica italiana di “penne a serbatoio”: la Ditta Aurora in Via della Basilica 9, Torino

 

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Fondata nel 1919, in via della Basilica, dall’imprenditore Isaia Levi, la Ditta Aurora viene destinata alla produzione e al commercio di strumenti per la scrittura, realizzando nel corso negli anni un marchio di successo ancora oggi sia in Italia sia all’estero. Negli anni Cinquanta, a ridosso dell’Abbadia di Stura, la ditta Aurora costruisce il suo stabilimento dopo che quello originario era stato distrutto durate i bombardamenti del 1943. Quello di Abbadia di Stura è ancora oggi l’edificio ove ha sede la storica azienda di penne stilografiche. Dal 2016 parte dello stabilimento è dedicata all’Officina della Scrittura.

È il 1919 quando in un’Italia ancora segnata dalla prima guerra mondiale, un ricco mercante tessile (Isaia Levi), fonda a Torino in via della Basilica 9 la prima industria italiana per la produzione delle penne a serbatoio.

La scelta del suo fondatore, l’imprenditore Isaia Levi, di investire nella produzione e nel commercio di piccoli strumenti per la scrittura (penne stilografiche in particolare, oltre a matite, inchiostri e articoli di cancelleria) deriva dalla percezione delle potenzialità del settore, superando la soglia della piccola produzione, già presente a Torino in quegli anni, per acquisire una dimensione industriale a livello internazionale.

Nel 1943 il laboratorio originario viene raso al suolo dai bombardamenti alleati e l’azienda è costretta a riprendere le attività in un’altra sede, che viene costruita nei pressi dell'Abbadia di Stura a ridosso del chiostro e della chiesa omonima, ove l’azienda ha sede ancora oggi. Negli anni Sessanta la proprietà passa alla famiglia Verona, che ancora oggi la dirige. Lo stabilimento di Abbadia di Stura occupa 10 mila metri quadrati e attualmente impiega circa 80 dipendenti.

L’Aurora ha, sin dalle origini, avuto grande sensibilità per la comunicazione e per il design, avvalendosi della collaborazione di artisti e designer che hanno contraddistinto il panorama nazionale del Novecento: Nizzoli, Steiner, Zanuso, Giugiaro e Bodino, solo per citarne alcuni. Le stilografiche Aurora sono entrate a far parte della vita quotidiana degli italiani: tutti coloro che sono stati bambini tra il 1950 e il 1980 hanno imparato a scrivere con un’Aurora, spesso con l'Auretta. La ditta Aurora è entrata anche nella storia del design con i suoi modelli all’avanguardia, come ad esempio i celebri modelli “88” o “Hastil”, quest’ultimo disegnato da Marco Zanuso, è esposto al MOMA di New York.

I modelli degli anni Venti sia in ebanite e in metalli sia in celluloide testimoniano una linea di tendenza consolidatasi nel tempo. Il successo di Aurora è trainato da un’efficace promozione commerciale, anche attraverso la partecipazione alle Fiere di Milano e Lipsia, e diversificando la produzione al fine di raggiungere diverse tipologie di clientela.

Durante la prima metà degli anni Trenta si succedono altri modelli come Superba, derivata dalla Duplex, Internazionale, Novum, Asterope ed Etiopia, pronta a sfruttare il traino pubblicitario dell’impresa coloniale italiana. La guerra crea allo stabilimento gravi danni a causa dei bombardamenti aerei nell’autunno 1943.

La produzione viene così interrotta e ripresa a fine 1943 con ritmi molto ridotti nella nuova sede di Abbadia di Stura. Verrà costruito un edificio per ospitare uffici, impianti e magazzini in locali più adeguati alle nuove dimensioni aziendali. Gli anni della ricostruzione sono segnati dalla produzione di un nuovo modello di penna, che otterrà grande successo in Italia e all'estero, lanciata nel 1947, tra le più famose e note dell’Aurora: il modello 88, disegnato da Marcello Nizzoli, pittore, architetto, pubblicitario e designer.

Negli anni Cinquanta, la diffusione sempre più capillare delle penne a sfera determina una forte riduzione delle quote di mercato delle case produttrici di stilografiche, le quali, per reagire a questo stato di cose, non hanno altra strada che quella di puntare con grande forza su una sempre maggiore innovazione dei propri prodotti. L'Aurora si dimostra pronta, a differenza di altri storici marchi internazionali (si pensi al caso della Waterman, che entrerà in una fase di grave declino), a raccogliere questa sfida, e introduce pertanto nel mercato modelli con particolari tecnici inediti: è il caso della Duocart, nella quale vengono utilizzate per la prima volta cartucce di inchiostro in materiale plastico in duplice copia per ogni penna (progettate dal futuro premio Nobel per la chimica Giulio Natta, il padre del celebre Moplen), consentendo di abbandonare definitivamente l'uso ormai anacronistico del calamaio. La stessa soluzione tecnica verrà adottata qualche anno dopo nel modello Auretta, penna con la quale l'azienda torinese cercherà, così come fece negli anni Trenta con la Topolino, di reinserirsi nel mercato degli studenti; questo modello verrà accolto con grande favore dai soggetti per i quali era stata pensata

Il progetto della cartuccia in polietilene prodotta in serie ha posto problemi tecnici risolti tramite lunghi studi e ripetute prove. L’azione imprenditoriale e manageriale di Franco Verona, a partire dal 1958, si sviluppa attraverso interventi pragmatici ma efficaci che consentono all’impresa un discreto recupero già nei difficili anni Sessanta, attraverso la produzione di nuovi modelli di penne stilografiche per rilanciare l’Aurora.

A fine anni Sessanta l’Aurora intensifica la collaborazione con i designer, intrecciando le idee creative con le capacità tecniche e meccaniche sempre ben radicate in azienda e con un uso innovativo della pubblicità, tramite consulenti di livello come lo Studio Barale.

Il primo designer coinvolto nella produzione è Marco Zanuso, il quale disegna per la ditta due penne destinate a collocarsi tra le icone contemporanee non solo degli strumenti per la scrittura ma del made in Italy nel mondo: la stilografica cilindrica Hastil del 1970 e una penna a sfera, la piatta Thesi, del 1974. Nell’arco di un ventennio, tra gli anni novanta del Novecento e gli anni dieci del Duemila, l’Aurora ottiene un rinnovato successo e un incremento delle vendite che si estende alle produzioni per le grandi firme internazionali, come Cartier, Yves Saint Laurent, Givenchy.

 

 

 

 

 

LA TORINO DEL CINEMA E DELLA RADIO-TELEVISIONE

 

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La nascita del Cinema italiano sulle rive del Po

 

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“Erano le 20.30 del 7 novembre 1896, quando un gruppo di persone selezionate si riunì sotto i portici di via Po 33 per entrare nell’antica chiesa dell’ex Ospizio di Carità. Erano state invitate ad assistere alla conferenza scientifico-didattica sulla cronografia fotografica, tenuta dal professore Louvet-Gay. È probabile che la curiosità dei partecipanti non fosse tanto rivolta alla conferenza, che si prospettava assai prolissa, bensì alle proiezioni sperimentali di fotografia animata che l’avrebbero seguita. La sala in cui gli astanti presero posto era buia, ma fu rischiarata da una dozzina di lampade elettriche. Nella parete di fondo, decorata da vasi di sempreverdi, campeggiava in alto un’alta cornice che racchiudeva un trasparente: il quadro delle proiezioni verso cui tendevano gli occhi i numerosi invitati, fra cui il sindaco Felice Rignon e vari consiglieri comunali.”

(Gazzetta Piemontese, 8 novembre 1896)

 

A Torino il Cinématographe Lumière giunse relativamente tardi, rispetto ad altre città italiane. Solo il 7 novembre 1896, quasi un anno dopo la prima proiezione pubblica dei fratelli Lumière davanti al pubblico del Gran Cafè del Boulevard des Capucines a Parigi, i fratelli Louis e Auguste Lumière mostrarono per la prima volta la loro invenzione in Italia, proprio a Torino, in ragione della vicinanza con la Francia. Fu organizzata una serata cinematografica in una sala appositamente attrezzata dell’ex Ospizio di Carità in via Po 33, alla presenza di un pubblico scelto, fra cui lo stesso sindaco di Torino. A organizzarla era stato Vittorio Calcina che, nato a Torino nel 1857 (vi morirà nel 1916), faceva di professione il fotografo e rappresentava per l’Italia la Société Anonyme des Plaques et Papiers Photographiques A. Lumière et Ses Fils.

Introdotti in francese dal professore Louvet-Gay, passarono sullo schermo venti film realizzati dagli operatori di Lumière, che riscossero un notevole successo. Ma più che uno “spettacolo” nel vero senso della parola, fu una serata didattico-scientifica, e l’interesse del pubblico fu rivolto soprattutto alla novità del procedimento tecnico che consentiva la riproduzione della realtà in movimento. Si trattava, in altre parole, di una dotta e piacevole conferenza, in cui l’ultima scoperta nel campo della fotografia – la “fotografia animata” – era illustrata da una serie di esempi particolarmente vivaci e istruttivi: per l’appunto, come altrove, l’arrivo del treno in stazione, i bambini che giocano, la corsa dei ciclisti ecc.

E tuttavia, grazie al successo cultural-mondano della serata, anche a Torino si aprono ben presto le porte a uno sfruttamento commerciale del cinema. Calcina, infatti, organizza nei medesimi locali una serie continua di proiezioni cinematografiche. Il manifesto che le annuncia è accattivante e preciso: in alto, in bella mostra, una grande immagine della sala addobbata, con il palcoscenico, lo schermo illuminato e un folto gruppo di spettatori; ai fianchi le scritte «Cinematografo Lumière» e «Fotografia Animata»; in basso l’indicazione della sede, degli orari e dei prezzi: «Via Po 33. Tutti i giorni, sedute serali dalle ore 20 alle 23. Giovedì e giorni festivi, sedute diurne dalle ore 14 alle 18. Ingresso cent. 50 Militari di bassa forza e ragazzi metà prezzo». Lo spettacolo dura circa venti minuti, ma costa poco; il programma non è molto diverso da quello della serata del 7 novembre, ma tuttavia cambia ogni settimana e va arricchendosi nel corso dei mesi seguenti, per tutto il periodo in cui dura la programmazione della sala di Via Po, che sarà chiusa nella primavera del 1897.

Oltre ai film realizzati da Lumière, vengono proiettati anche brevi documentari girati dallo stesso Calcina, il quale, da buon fotografo e accorto “industriale” cinematografico, comincia in quei mesi a riprendere “scene dal vero”. Un certo numero di film li realizza per conto della Casa Lumière di cui è rappresentante esclusivo, altri per conto proprio. E realizza soprattutto i documentari “ufficiali” sulla famiglia reale, divenendone anzi il fotografo ufficiale. Il 20 novembre 1896 gira a Monza Le LL. MM. il Re e la Regina (al R. Castello di Monza) – film conosciuto anche col titolo S.M. il Re Umberto e S.M. la Regina Margherita a Monza –; poco dopo gira Uscita del Corteo Reale (dal Quirinale - Roma) e Dimostrazione popolare alle LL. AA. i Principi Sposi (al Pantheon - Roma), altri due documentari, questa volta su Vittorio Emanuele ed Elena di Montenegro, che si sposarono il 3 dicembre di quell’anno.

Chiusa la sala di Via Po, l’infaticabile Calcina, sempre insieme all’amico Pasquarelli, suo socio d’affari, trasferisce gli spettacoli alla birreria Sala di Via Garibaldi 10, spettacoli che continueranno sino alla metà di giugno, per interrompersi nei mesi estivi. Ormai il cinema fa parte degli intrattenimenti torinesi di fine secolo. Se ne parla, si va con la famiglia o con gli amici, se ne discute al caffè, se ne scrive anche, a volte, sui giornali. Ed entra nel giro, tuttora chiuso e diffidente, della cultura ufficiale. Ad esempio il Teatro Carignano ne annuncia gli spettacoli nel cartellone della nuova stagione teatrale: dal 5 al 24 novembre 1897 vi saranno, nel grande tempio torinese della prosa, regolari proiezioni cinematografiche.

Insomma, anche a Torino, come nelle altre principali città italiane, l’invenzione dei fratelli Lumière si va diffondendo a macchia d’olio, attirando un pubblico sempre più vario e numeroso. Ma, a differenza della maggior parte di quelle città – se si escludono Roma e Milano e qualche centro minore, in cui nel primo decennio del Novecento nascono le prime case di produzione – a Torino, dopo il primo entusiasmo per i brevi film dei Lumière, di Calcina e di altri, che si rinnova di anno in anno sino al nuovo secolo, si comincia a pensare seriamente di “fare del cinema” in proprio: dar vita a una produzione regolare di film, superare la fase iniziale della curiosità e dell’entusiasmo per le immagini semoventi e avviarsi sulla via maestra intrapresa dai Lumière e soprattutto da Charles Pathé, che può essere considerato, a buon diritto, il primo vero produttore cinematografico.

Ci vuole naturalmente un certo spirito d’avventura, coraggio imprenditoriale, curiosità: doti che possiede Arturo Ambrosio, il quale, nel volgere di pochi anni, si affermerà (come in Francia il citato Pathé) come il primo autentico produttore cinematografico. E se altri italiani, prima di lui o contemporaneamente a lui, avevano imboccato la nuova strada del cinema che partiva da Parigi e stava ormai giungendo in ogni angolo d’Europa e poi del mondo, acquistando macchine da presa, fabbricandosele, riprendendo la realtà in movimento e restituendola sullo schermo davanti a un pubblico estatico e incuriosito, fu certamente Ambrosio a fare del cinematografo la sua ragione di vita, a comprenderne appieno le possibilità commerciali, a intuirne gli sviluppi successivi. Nato a Torino nel 1870, morirà nel 1960. Rimasto orfano, si diploma in ragioneria e studia anche il violino. Impiegatosi in una ditta di tessuti, si licenzia per seguire la sua vera grande passione, la fotografia. Apre un laboratorio fotografico, uno studio di posa, un negozio di fotografia in via Roma 2, nel centro della città, e costruisce un proprio apparecchio, l’“Ambrosio”. Con l’inizio del nuovo secolo è un uomo affermato e conosciuto, frequenta la migliore società e, per il tramite del suo operatore Giovanni Vitrotti, diventa (dopo Calcina) il fotografo ufficiale della famiglia reale (la regina Margherita, come si sa, era appassionata di fotografia). Di qui il passaggio dalla fotografia al cinematografo, o meglio l’allargamento del campo d’azione, dalla riproduzione statica a quella dinamica della realtà. Di qui le prime riprese cinematografiche nel 1904 e poi la costruzione del primo teatro di posa. Non solo: quando la sua attività di produttore di film comincia a dare i primi frutti, acquista e gestisce una propria sala cinematografica.

Insomma, ancora artigianalmente, forse senza un vero e proprio piano di sviluppo organico, ma già con una visione globale del problema, con un’intuizione che avrebbe costituito la base di ogni futuro investimento tecnico e finanziario, Ambrosio stava realizzando quel modello produttivo che, per almeno un decennio, avrebbe consentito alla cinematografia torinese di affermarsi in campo nazionale e internazionale. Il modello, cioè, di un ciclo conchiuso di lavorazione e di sfruttamento commerciale del prodotto: la progettazione, la realizzazione, la distribuzione, l’esercizio. In ogni fase di questo ciclo produttivo occorrevano competenze che Ambrosio andò cercando attorno a sé. Furono pertanto scritturati attori, registi, operatori, soggettisti, scenografi; si formarono, in altre parole, le prime troupe cinematografiche, che sarebbero state per molti anni la struttura portante di una casa cinematografica sempre più solida e attiva. E si formava anche una coscienza professionale che avrebbe dato linfa a quel cinema torinese che a cavallo degli anni Dieci si sarebbe affermato non solo in Italia, ma in tutto il mondo; un cinema che, anzi, per certi aspetti o, se si vuole, in funzione paradigmatica, poteva essere definito “il cinema muto italiano per eccellenza”.

Seguendo il cammino intrapreso da Ambrosio, altri si diedero alla produzione cinematografica, attratti in pari misura dal facile guadagno, dalle avventure galanti, da un mondo affascinante che contrastava con il lavoro quotidiano in fabbrica e in ufficio. Se Ambrosio, con l’aiuto del grande fotografo-operatore Roberto Omegna (nato nel 1876), comincia a produrre documentari di più ampio respiro, e poi, via via, brevi film drammatici, comici, avventurosi, spesso con la collaborazione del citato Giovanni Vitrotti, gli altri seguono il suo esempio e, nel volgere di pochi anni, danno vita a una produzione continuativa e sempre più curata tecnicamente. Nel 1906 Ambrosio fonda la sua casa produttrice, che l’anno dopo diventa l’Anonima Ambrosio, con un capitale sociale di 700.000 lire, una cifra piuttosto cospicua per quei tempi. Nello stesso 1907 Camillo Ottolenghi fonda la propria Casa, a cui darà successivamente il nome di Aquila Film; mentre Carlo Rossi e Guglielmo Remmert creano la Rossi & C., in seguito Sciamengo e Pastrone, con l’apporto dell’ingegner Sciamengo (genero di Remmert) e di Giovanni Pastrone (1883-1959), e quindi l’Itala Film, che diventerà una delle case cinematografiche torinesi più importanti del tempo, se non la più importante.

A queste se ne aggiungeranno, fra il 1907 e il 1915 (anno dell’entrata in guerra dell’Italia), più di dieci, raggiungendo il numero di circa trenta entro il 1920 (anche se non poche spariranno presto o produrranno un solo film). Tra le maggiori, oltre all’Ambrosio, l’Itala e l’Aquila, bisogna segnalare almeno la Pasquali & Tempo, divenuta il 1º luglio 1910 Pasquali & C., fondata da Ernesto Maria Pasquali, commediografo e giornalista, già soggettista dell’Ambrosio prima di Arrigo Frusta (al secolo Augusto Ferraris), che all’Ambrosio divenne una delle figure di maggior spicco, l’artefice di alcuni dei maggiori successi della Casa. E va segnalata anche la Savoia Films, creata nel 1911, con intenti artistici e culturali alquanto ambiziosi, dal pittore Piero Antonio Gariazzo, il quale nel 1919 pubblicherà un libro prezioso, Il teatro muto, in cui si traccia una prima teoria del cinema come arte essenzialmente mimica. Attorno agli anni Dieci Torino è insomma una città in cui il cinema ha posto le sue radici.

Non solo, ma accanto alle case di produzione nascono le sale cinematografiche, sempre più numerose e sparse in ogni quartiere della città; e le stesse sale diventano il luogo di ritrovo di una società che, a poco a poco, abbandona i caffè e i teatri per scoprire il nuovo fascino delle immagini semoventi. Le quali, lasciato lo stretto ambito del documentario e del breve film comico, si muovono ormai nel più vasto campo del film di medio e lungometraggio: dai drammi passionali a quelli storici e mitologici, dalle avventure esotiche alle commedie di costume. È un repertorio di situazioni, ambienti, personaggi, storie a cui attingono soggettisti, sceneggiatori, registi, attori e operatori: un repertorio che abbraccia la storia patria e le letterature d’ogni Paese, la cronaca mondana, le favole infantili, i casi giudiziari. Sulle rive del Po, nei teatri di posa, in collina e nella pianura circostante si girano quotidianamente film su film, che trovano poi, sugli schermi cittadini e nazionali, spesso anche internazionali, il loro pubblico entusiasta.

Nascono anche le prime riviste cinematografiche, i giornali di categoria, la pubblicistica più o meno pubblicitaria. E la stampa si occupa non saltuariamente di cinema. Nel 1907, il 18 maggio, compare sul quotidiano “La Stampa” un articolo dello scrittore Giovanni Papini intitolato La filosofia del cinematografo, in cui si può leggere: «I cinematografi, colla loro petulanza luminosa, coi loro grandi manifesti tricolori, e quotidianamente rinnovati, colle rauche romanze dei loro fonografi, gli stanchi appelli delle loro orchestrine, i richiami stridenti dei loro boys rosso vestiti, invadono le vie principali, scacciano i caffè, si insediano dove già erano gli halls di un réstaurant o le sale di un biliardo, si associano ai bars, illuminano ad un tratto con la sfacciataggine delle lampade ad arco le misteriose piazze vecchie, e minacciano a poco a poco di spodestare i teatri, come le tramvie hanno spodestato le vetture pubbliche, come i giornali hanno spodestato i libri, e i bars hanno spodestato i caffè». Qualche anno dopo, in occasione dell’apertura durante le feste natalizie del 1913 del nuovo Cinema Ambrosio – il miglior cinema della città, che si aggiungeva ai circa settanta che allora esistevano a Torino –, si poteva leggere sul periodico “Vita cinematografica“: «Nelle ore pomeridiane avanti al Cinema Ambrosio, ove si susseguono interessanti films, quanto di migliore conti l’applaudita produzione italiana, si vedono sempre lunghe teorie di automobili e di carrozze, il che dimostra il grande favore incontrato da questo nuovo Cinematograto fra il nostro pubblico più scelto. Entrate grandiose, rischiarate da grandi lampade ad arco, immettono nelle sale di attesa, ove si ha una scelta orchestrina di Tzigani, che con musica graziosa interessa vivamente il pubblico. Le sale di attesa dei vari posti sono larghe e spaziose ed artisticamente decorate con stucchi e con statue. Da una galleria, che ha della veranda e della serra, perché ornata di belle ed alte piante, il pubblico passa nella sala di proiezioni, e mi piace qui ricordare i nuovi mezzi di luce adottati, affinché lo spettatore possa comodamente prendere posto».

Sullo sfondo di questa Torino “cinematografica”, vera capitale del cinema italiano di quegli anni – per molti versi più di Roma, dove fioriva un’industria non trascurabile, e certamente più di Milano, di Napoli o di altre città –, i produttori si davano da fare per migliorare sempre più la produzione, per dare al pubblico spettacoli sempre più allettanti, grandiosi, magniloquenti, spesso affascinanti. Nel 1911, all’Esposizione Internazionale che si tenne a Torino nel parco del Valentino e lungo le sponde del Po, non poteva mancare il cinematografo, strumento ormai diffusissimo di conoscenza e di divulgazione, d’intrattenimento e di spettacolo, d’arte e di cultura (almeno nella prospettiva di una larga diffusione popolare): mezzo tecnico-artistico che si andava affermando ovunque assumendo poco alla volta la funzione simbolica di “arte del ventesimo secolo”. E il cinema, se non dominò il campo delle varie manifestazioni che furono organizzate dentro e fuori dei confini dell’Esposizione, certamente fu presente in maniera massiccia e attirò l’attenzione del pubblico, focalizzando anzi, per certi aspetti, l’interesse della stampa. Parecchi padiglioni nazionali avevano una propria sala cinematografica in cui proiettavano film e documentari; ma un intero padiglione era dedicato esclusivamente al cinematografo: e in questo padiglione passarono, per tutti i mesi che durò l’Esposizione, film d’ogni Paese, un vero e proprio primo festival internazionale del cinema, con tanto di giuria e di premi.

Alla Casa Ambrosio andò il primo premio per la categoria “artistica” con il film Nozze d’oro di Luigi Maggi, su soggetto di Arrigo Frusta, d’argomento risorgimentale; sempre all’Ambrosio, per la categoria “scientifica” andò il primo premio per il documentario La vita delle farfalle, realizzato da Roberto Omegna con la collaborazione del poeta Guido Gozzano. Altri premi furono assegnati a film della Cines e della Milano Films. D’altronde Arturo Ambrosio aveva intensificato e diversificato la sua produzione, portandola a un alto livello tecnico-artistico.

Già nel 1908 aveva preso contatti con Gabriele D’Annunzio per la riduzione cinematografica di alcuni suoi testi, e tra il 1911 e il 1912 produsse sei film tratti rispettivamente da La fiaccola sotto il moggio, Sogno di un tramonto d’autunno, L’innocente, La Gioconda, La figlia di Jorio, La nave. Nel 1913 fu la volta dei Promessi sposi dal romanzo di Manzoni, ridotto da Frusta e diretto da Eleuterio Rodolfi; della Lampada della nonna di Maggi, che Lucio D’Ambra definì «una specie di delicato e romantico gozzanismo cinematografico»; soprattutto degli Ultimi giorni di Pompei, dal romanzo di Lytton Bulwer, ridotto da Frusta, diretto da Mario Caserini e fotografato da Vitrotti, uno di quei grandi film storici che furono una delle specialità del cinema italiano muto, non solo torinese (basti pensare ai film romani di Enrico Guazzoni). Ma molti altri film dell’Ambrosio andrebbero citati, non foss’altro per il successo che ebbero in Italia e all’estero e per la varietà dei soggetti, degli stili, dei risultati artistici.

In quello stesso 1913 ci fu un altro film tratto dagli Ultimi giorni di Pompei, in diretta concorrenza con quello dell’Ambrosio. Fu prodotto dalla Pasquali, diretto da Enrico Vidali, interpretato da alcuni attori abbastanza noti. Una concorrenza che portò in tribunale le due Case, invero senza conseguenze penali, e dimostrò quanto fosse spregiudicata, senza quartiere, affannosa, la lotta per la conquista del pubblico cinematografico.

Sempre nel 1913 ci fu il successo strepitoso di Ma l’amor mio non muore, prodotto dalla Gloria Films, diretto da Mario Caserini, interpretato da Mario Bonnard e Lyda Borelli, due dei più famosi divi del tempo. Un film che segnò uno dei punti più alti del divismo italiano, in cui gli atteggiamenti della Borelli – da cui nacque il termine “borellismo” – e quelli di Bonnard si integravano in una sorta di paradigma della “passione cinematografica”, tanto affascinante e conturbante quanto foriera di sviluppi ulteriori, quasi modello per il divismo italiano e straniero degli anni seguenti.

Ed è ancora nel 1913 che Giovanni Pastrone, certamente l’autore più importante dell’intero cinema muto italiano nella sua duplice veste di produttore e regista, diede inizio alle riprese di Cabiria, il film storico in cui fu coinvolto, per le didascalie magniloquenti, Gabriele D’Annunzio. L’opera, che uscì nel 1914 ottenendo un successo di pubblico e di critica straordinario, superiore a quello di tutti i film storici italiani precedenti e successivi, è ampia, sontuosa e articolata (circa tre ore di proiezione!). Pastrone riesce a dare alla materia narrativa e drammatica una coesione esemplare, a costruire ambienti reali, a tratteggiare personaggi prospettici, a conferire allo spettacolo – che c’è e affascina per la grandiosità della messinscena – uno spessore drammaturgico raro per quei tempi. È come se i modelli del cinema storico, alquanto ripetitivi e rigidi, fossero d’un colpo ribaltati nella nuova dimensione di un film che non si accontenta di seguire la strada battuta, ma vuole al tempo stesso stupire lo spettatore, coinvolgerlo, portarlo a un alto grado di attenzione e partecipazione emotiva: in altre parole, vuole fare dello schermo cinematografico il luogo di una nuova forma di dramma, molto lontano dal palcoscenico e dalla letteratura, tutto interno a un uso della macchina da presa e del montaggio libero dai condizionamenti del cinema delle origini.

In questo senso Pastrone, che produsse moltissimi film sino e oltre il 1920 e ne diresse un certo numero (fra cui il poetico Il fuoco del 1915 e il bellissimo Tigre reale del 1916, dal romanzo di Giovanni Verga), può essere considerato emblematicamente il simbolo stesso del cinema muto torinese: per la serietà con cui intraprese la carriera di produttore, per l’ingegno che vi profuse e le continue innovazioni tecniche che vi introdusse, per una certa genialità, una certa fantasia, e quella volontà di ben fare che furono le caratteristiche salienti della migliore produzione cinematografica torinese (e italiana). Il decennio che segna la sua massima affermazione – da La caduta di Troia del 1910 a Hedda Gabler del 1920 – è anche il decennio che segna l’affermazione, e poi il declino, del cinema a Torino. Prima di allora si dovrebbe parlare di tentativi coraggiosi, di scommesse vincenti, di prove riuscite, di qualche film di maggior peso, ma sostanzialmente di un cinema ancora in fasce; dopo, di una produzione dispersiva e spettacolarmente inerte, ripetitiva, stanca, che a poco a poco è andata perdendo il favore del pubblico. Nel mezzo, cioè appunto fra il 1910 e il 1920 (all’incirca), si colloca la grande stagione del cinema torinese, che si impose proprio per l’eccellenza e l’abbondanza dei prodotti, per la varietà dei generi e degli stili, per la ricchezza delle proposte filmiche. Una produzione che ancora oggi – vedendo i non molti film conservati, fra i moltissimi realizzati – ci può stupire e far riflettere, se confrontata con la maggior parte dei film coevi, italiani e stranieri. Nel senso che in essa confluiscono i diversi caratteri non soltanto della cinematografia italiana, ma anche e soprattutto della società, del costume, della cultura, della moda, della mentalità di una nazione che stava attraversando un periodo solo apparentemente tranquillo, statico, uniforme; e che invece covava al suo interno i fermenti di una trasformazione che si sarebbe manifestata qualche anno più tardi, dopo la fine della Prima guerra mondiale, con l’avvento del fascismo.

 

fonti:

Gianni Rondolino, La nascita del cinema a Torino

Renzo Rossotti, Guida insolita di Torino

 

Torino e la radio-televisione

 

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L'8 febbraio 1923 venne pubblicato il regio decreto n. 1067, che affidava allo Stato l'esclusiva sulle radioaudizioni circolari, da concedere in concessione. Tra le società in lizza c'era la SIRAC, fondata da Riccardo Gualino e rappresentante per l'Italia della Radio Corporation of America. Le altre erano la società Radiofono di Guglielmo Marconi e la società telefonica di Luigi Ranieri.

Il 27 agosto 1924 SIRAC e Radiofono si accordarono per creare la URI, che ebbe l'esclusiva.

Il 17 novembre 1927 l'URI si trasforma nell'Ente italiano per le audizioni radiofoniche, conosciuto come EIAR. L'azienda era privata, e tra i soci vi erano la General Electric, la SIP - Società idroelettrica piemontese e la Fiat.

L'EIAR nel 1931 acquistò il Teatro di Torino di Via Verdi e lo adibì ad Auditorium per ospitare la sede della propria Orchestra Sinfonica Nazionale. Il 23 marzo 1933 la SIP divenne azionista di maggioranza della società.

Il 26 ottobre 1944 l'EIAR fu riaperta nell'Italia liberata con la nuova ragione sociale Radio Audizioni Italiane, che aveva come socio di maggioranza la SIP.

Il 15 settembre 1949 la Rai creò la propria casa editrice, la Edizioni Radio Italiana (ERI), interamente controllata dalla società madre[14], che si aggiungeva alle consociate storiche Sipra e Fonit Cetra. Nel 1949 la RAI riprese la sperimentazione delle trasmissioni televisive: dapprima a Roma, successivamente a Torino, dove fu costruito anche uno studio di registrazione. Il 5 febbraio 1950 l'incontro Juventus-Milan 1-7 fu la prima partita di calcio a venire ripresa dalle telecamere.

Dagli studi di via Arsenale 21, a Torino, giungevano negli anni ’60 i varietà presentati da Nunzio Filogamo e le musiche allegre del maestro Cinico Angelini, con le voci di Nilla Pizzi, Carla Boni, Giorgio Consolini, spesso «in diretta dalla Sala Danze Gay di Torino», come specificava l'annunciatore. Quel dancing era tra i locali più famosi della città, la Rai vi era di casa.

A Torino era la Direzione generale della Radio e da Torino partivano le trasmissioni più seguite in Italia ignota che si allungava proprio al di là della collina. A Torino c'era anche la direzione, la redazione, la tipografia del «Radiocorriere», che andava a ruba, perché aveva il monopolio sulle informazioni che riguardavano i programmi completi della Rete Rossa e della Rete Azzurra, i due soli canali radiofonici. A Torino c'era davvero tutto: in via Bertola, c'era anche la Società Italiana Pubblicità Radiofonica, in sigla Sipra, come veniva annunciato tra un programma e l'altro per sollecitare le imprese alla "réclame" via etere.

 

D’Annunzio a Torino: le Notti di Cabiria e la Hollywood sul Po

 

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cabiria di giovanni pastrone, con la collaborazione di gabriele d’annunzio

Cabiria, ovvero visione storica del terzo secolo a.C., è un film muto del 1914 diretto da Giovanni Pastrone.

Il nome "Cabiria", "nata dal fuoco" fu ideato da D’Annunzio ed era quello della protagonista. La sceneggiatura però non è dovuta a D'Annunzio: i soggetti utilizzati per la scrittura del film furono in gran parte tratti dai romanzi Cartagine in fiamme di Emilio Salgari e Salammbô di Gustave Flaubert.

Fu girato a Torino negli stabilimenti sulla Dora Riparia e alcune scene vennero girate anche in Tunisia, in Sicilia, sulle Alpi (nelle Valli di Lanzo, dove si diceva che fosse passato Annibale) e ai laghi di Avigliana dove venne ricostruita la città di Cirta, nei dintorni di Usseglio nelle Valli di Lanzo e nel Sahara algerino. Si distingue per la straordinaria varietà delle riprese, sia in scenografie ricostruite (di cartapesta), che in esterni. Le invenzioni visive sono continue e ricchissime.

La musica è dovuta a Ildebrando Pizzetti e al suo allievo, il compositore Manlio Mazza.

La prima ebbe luogo il 18 aprile 1914 al Teatro Vittorio Emanuele di Torino, in contemporanea col Teatro Lirico di Milano. Il film ebbe un grande successo di critica e di pubblico, sia in Italia che all'estero: restò in cartellone per sei mesi a Parigi e per quasi un anno a New York.

Il film vanta una serie impressionante di primati:

Il più grande kolossal del cinema muto.

Il primo film della storia ad essere proiettato alla Casa Bianca.

Il più lungo film italiano prodotto dei suoi tempi (3.364 metri di lunghezza circa per tre ore e dieci minuti di spettacolo)

Il film italiano più costoso dei suoi tempi: un milione di lire-oro, a fronte del finanziamento medio per un film dell'epoca di cinquantamila lire.

La versione originale era virata a colori in dodici tonalità diverse, alcune inedite.

Il film impiega una tecnica sino ad allora inedita delle "didascalie auliche" (affidate a D'Annunzio) intervallate alle scene.

Impiego delle lampade elettriche per ottenere effetti di chiaroscuro.

Il film segna la nascita del montaggio cinematografico moderno: invece di inquadrature lunghe e fisse, di ispirazione teatrale, le scene erano frammentate in più inquadrature da diversi punti di vista.

Il primo utilizzo del carrello di cui il regista Pastrone fu l'inventore, che permetteva di muovere la cinepresa sulla scena, creando tramite i movimenti della macchina da presa una scala molto ricca di inquadrature

Il primo utilizzo di una sceneggiatura costituita dall'intreccio in parallelo di più storie.

Prima colonna sonora nel senso moderno, con musiche composte espressamente per l'accompagnamento sonoro del film anziché con musiche di repertorio.

 

Il Museo Nazionale del Cinema

 

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Il Museo nazionale del cinema Fondazione Maria Adriana Prolo è uno dei musei del cinema più importanti del mondo ed è l’unico museo del genere in Italia. Il Museo ha sede nella suggestiva Mole Antonelliana, monumento simbolo della città di Torino ed opera dell’architetto Alessandro Antonelli, e conta ogni anno oltre mezzo milione di visitatori.

Nel 1941, la storica Maria Adriana Prolo, ebbe l’idea di costruire in Italia un museo interamente dedicato al cinema. I primi cimeli e documenti vennero acquistati grazie a contribuiti finanziari di aziende e enti e furono inizialmente stipati proprio in una delle sale della Mole Antonelliana. Nel 1992, dopo la morte della Prolo, divenne una fondazione a cui venne dato il suo nome. Il progetto per la sede definitiva del Museo, nella Mole Antonelliana, fu affidato all’architetto Gianfranco Gritella. Il Museo fu inaugurato nel luglio del 2000. In occasione dei Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006 l’allestimento è stato rinnovato con nuove postazioni multimediali e interattive e con tre nuovi spazi dedicati al cinema western, ai musical e ai film di fantascienza. Nella stessa occasione fu restaurato il film Cabiria di Giovanni Pastrone.

Del Museo fa parte anche una sala cinematografica, che si trova però all’interno del Cinema Massimo poco distante dalla Mole, dedicata alle retrospettive, attività e festival organizzati dallo stesso museo. Tra i festival il più importante e prestigioso è sicuramente il Torino Film Festival, rassegna di cinema indipendente nato a Torino nel 1982.

Delle varie collezioni del Museo del Cinema di Torino fanno parte foto, video e film, manifesti e locandine, apparecchiature cinematografiche, scatole ottiche, bozzetti, costumi e pezzi di scenografie di film. Uno dei pezzi più rappresentativi delle collezioni è sicuramente l’imponente statua del Dio Moloch usata nel film Cabiria del 1914 che si trova al piano terra. La visita continua “scalando” la Mole Antonelliana per scoprire com’è nata e sviluppata la settima arte, camminando tra cimeli, lanterne ottiche e attrezzature cinematografiche antiche e moderne. Un vero e proprio viaggio alla scoperta dell’affascinante mondo del cinema.

 

I film ambientati a Torino

 

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I luoghi famosi dei film girati a Torino comprendono la Mole Antonelliana, Piazza Carignano, Palazzo Reale, Porta Palazzo, Caffè Torino e Piazza Castello e Parco del Valentino. Dopo Cabiria ricordiamo i capolavori di Dario Argento e poi i luoghi dei film di Michelangelo Antonioni, Gianni Amelio, fino alle opere più recenti di Marco Ponti e Davide Ferrario.

Numerosi luoghi di Torino hanno fatto da cornice a numerose serie TV e soap opera nate negli ultimi anni proprio nel capoluogo piemontese.

Citare tutte le pellicole girate nel capoluogo piemontese sarebbe troppo lungo. Basti ricordare le seguenti:

I 4 tassisti è un film a episodi del 1963 diretto da Giorgio Bianchi con Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Erminio Macario Didi Perego e Gino Bramieri.

Le amiche è un film del 1955 diretto da Michelangelo Antonioni, liberamente tratto dal romanzo Tra donne sole di Cesare Pavese.

The Bourne Ultimatum è un film del 2007 diretto da Paul Greengrass, ispirato al romanzo Il ritorno dello sciacallo di Robert Ludlum.

Cattivi pensieri è un film del 1976 scritto, diretto e interpretato da Ugo Tognazzi.

La donna della domenica è un film del 1975 diretto da Luigi Comencini. È tratto dall'omonimo romanzo del 1972 di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, con Marcello Mastroianni e Jean-Louis Trintignant

l gatto a nove code è un film giallo del 1971 diretto da Dario Argento.

Mimì metallurgico ferito nell'onore è un film del 1972, scritto e diretto da Lina Wertmüller, presentato in concorso al 25º Festival di Cannes.

Le miserie del signor Travet è un film del 1945 diretto da Mario Soldati e interpretato da Carlo Campanini, nel suo primo ruolo di attore protagonista, al fianco di Alberto Sordi e Gino Cervi. Il film è tratto dall'omonima commedia ottocentesca in lingua piemontese di Vittorio Bersezio Le miserie 'd Monsù Travet.

Ninì Tirabusciò, la donna che inventò la mossa è un film comico del 1970, diretto da Marcello Fondato.

La Pantera Rosa 2 è un film commedia diretto da Harald Zwart e tra gli altri interpretato da Steve Martin e Jean Reno. La pellicola segue le vicende del film del 2006 La Pantera Rosa.

Profumo di donna è un film del 1974 diretto da Dino Risi, tratto dal romanzo Il buio e il miele di Giovanni Arpino del 1969, con Vittorio Gassman e Agostina Belli.

La solitudine dei numeri primi è un film del 2010 diretto da Saverio Costanzo tratto dall'omonimo romanzo di Paolo Giordano. Il film segna il debutto come attrice di Aurora Ruffino e come attore di Luca Marinelli.

Guerra e pace, del regista King Vidor non è certo ambientato a Torino, ma pochi sanno che alcune scene sono state girate nella palazzina barocca di Stupinigi

Profondo Rosso di Dario Argento è ambientato a Villa Scott, l’edificio liberty di Via Giovanni Lanza 57 dalle grandi vetrate e dalle ricche decorazioni floreali.

 

fonti:

https://it.wikipedia.org/wiki/Categoria:Film_ambientati_a_Torino

 

I cinema storici di Torino

 

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In città, soprattutto nel centro, anche nell'era dei multisala nei centri commerciali resistono ancora molte sale cinematografiche storiche, che hanno attraversato non poche difficoltà ma sono ancora attivi. Ecco le più importanti:

cinema ambrosio

(Corso Vittorio Emanuele II 52) Il nome è connesso a quello del ragioner Arturo, ma i capitali e il progetto furono dell'avvocato Cavaliere Giuseppe Barattolo, fondatore insieme ad Ambrosio e altri dell'Unione Cinematografica Italiana nonché grande animatore anche durante il Ventennio della cinematografia italiana. Il cinema Ambrosio è nato nel 1914, e da oltre un secolo si trova in quello che all'epoca era Palazzo Priotti, poi Frisetti e infine Priocca, uno stabile del 1913.

cinema lux

(Galleria San Federico 33) È il cinema della Galleria San Federico (sorta a sua volta dalla Galleria Natta), a cui si accede da via Roma, via Santa Teresa o via Bertola. Fu progettato dall'architetto Eugenio Corte e dall'ingegner Giovanni Canova, e venne inaugurato il 31 marzo del 1934 come "Cinema Rex". Fu rinominato Dux nel 1942, per assumere l'attuale nome Lux nel 1945. Nel 2004 è stato ristrutturato profondamente con la realizzazione di tre sale cinematografiche (dall'unica originaria di oltre 1500 posti) e di un'area ristorante.

cinema reposi

(via XX Settembre 15) Ha aperto i battenti nel 1947 con il nome di Cinema Teatro Reposi: costruito nel 1946 dal cinematografista imprenditore Amdeo Reposi, il cui padre Felice è stato uno dei pionieri del cinema. Dotato di 2700 posti, la sua forma a interno di uovo era stata ricavata per via sperimentale; aveva il soffitto apribile e si accedeva alla platea e alla galleria senza gradini. La multisala attuale è nata dalla trasformazione radicale del cinema originario: da cinque sale si accede in via XX Settembre, alle 2 sale Olimpia da via Arsenale.

cinema nuovo romano

(Piazza Castello 9) È il cinema della Galleria Subalpina, galleria inaugurata nel 1874. Nel 1897 nacque invece il Caffè Concerto Romano. Nel sottopiano del salone aprì, nel 1905, il cinematografo Lumière. La sala nel 1907 cambiò nome e divenne Cinema Romano, inaugurato il 10 giugno 1911. Chiuso per gli ammodernamenti necessari nella sala sotterranea, riaprì nel 1916 come teatro-varietà. Il bombardamento dell'agosto 1943 causò gravi danni e la sala rimase chiusa fino al 5 settembre 1946. Nel 1958 fu sottoposto a una radicale ristrutturazione. Il Nuovo Romano è oggi la sala cinematografica più antica di Torino.

cinema king kong

(Via Po 21) Curiosamente, al posto di un quasi coevo del Romano c'è oggi il locale notturno e bar Blah Blah, che ha parzialmente conservato le vestigia del primo cinema di Torino, sorto proprio nella via Po dov'era avvenuta la prima proiezione a pagamento dei Lumière. Qui infatti dal 1907 era presente il "Cinema per le famiglie", divenuto poi negli anni ’40 "Cinema Po" e, nel 1985, "King Kong".

 

 

 

 

 

LA TORINO MILITARE

 

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la tenace difesa degli ultimi presidi piemontesi contro i francesi

 

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Il Duca Carlo II, padre di Emanuele Filiberto, si schierò con la Spagna e contro la Francia, e nel 1553 Enrico II occupò il ducato ma neanche l’abile generale Charles de Cossé de Brissac riuscì a impadronirsi delle piazze di Vercelli, Asti, Ceva, Fossano, Cuneo, Nizza, Ivrea e della Valle d'Aosta, che resistettero con ostinazione e con valore.

Emanuele Filiberto entrò nel 1543 al servizio di Carlo V. Le armate imperiali avevano ampi settori formati da reparti Piemontesi e Sabaudi: con il loro principe parteciparono alle guerre dell’Imperatore i nobili sabaudi più fedeli. I Piemontesi furono determinanti nelle battaglie di Ingolstadt e di Mühlberg contro i Protestanti, e combatterono poi nelle Fiandre e nella ripresa della guerra con la Francia. L'esercito francese, comandato dal maresciallo Montmorency, fu schiacciato da quello spagnolo, comandato da Emanuele Filiberto. Aiutante di Campo del duca di Savoia fu il conte Carlo Manfredi Luserna d'Angrogna che due mesi prima aveva sconfitto i francesi a Cuneo.

 

l’architettura militare del piemonte e le fortezze sabaude.

 

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Una serie di formidabili fortezze erano costruite in modo da potersi guardare e ricevere segnalazioni. Esse sbarravano la strada agli eserciti che tentassero di giungere dal Nord, trasformando le Alpi in una formidabile combinazione di difese naturali e costruite dall’uomo. Il Forte di Exilles. il Forte di Fenestrelle, una lunga muraglia che sale la cresta della montagna, percorsa nel suo interno da una scala coperta di quattromila gradini che si inerpicano per tre chilometri lungo il fianco del monte. Il Forte della Brunetta, con i bastioni scavati nella roccia. La Rocca di Verrua Savoia, che risale al 1167. Di alcuni rimangono ruderi o edifici abbandonati: il Forte di Pampalù, il Fortilizio di Rochemolles, lo Sbarramento di Claviere, il Forte del Colle delle Finestre, il Forte Pramand, il Forte Sapé. Sono importanti esempi di architettura militare e facevano parte di questa inespugnabile cintura difensiva.

 

i grandi generali della stirpe di savoia: emanuele filiberto ed eugenio di savoia.

 

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emanuele filiberto di savoia

Emanuele Filiberto di Savoia, figlio secondogenito del Duca Carlo di Savoia e di Beatrice di Portogallo, Venne iniziato giovanissimo alla vita politica e militare, infatti nel 1543 entrò al servizio dello zio Carlo V Imperatore del Sacro Romano Impero. Prese parte alle vittoriose battaglie imperiali di Ingolstadt nel (1546) e di Mühlberg nel 1547 dove, sotto il comando di Maurizio di Sassonia, eseguì gli ordini con tale precisione e rapidità da contribuire in maniera decisiva alla vittoria finale. Prestò servizio anche con Ferrante I Gonzaga nella guerriglia tra spagnoli e francesi in Piemonte, quindi tornò nuovamente da Carlo V guidando l'esercito imperiale, come comandante supremo, alla presa di Metz e di Bra (1552).

Nel 1553 Emanuele Filiberto fu nominato luogotenente generale e comandante supremo dell'esercito spagnolo nelle Fiandre e nel 1556 ebbe da Filippo II la carica di governatore dei Paesi Bassi. Provvide a riorganizzare l'esercito, imponendo una ferrea disciplina, e nel 1557, alla ripresa delle ostilità, dopo l'effimera tregua di Vaucelles, inflisse alle truppe francesi guidate da Anne de Montmorency e da Gaspard de Coligny la decisiva sconfitta di San Quintino. Nonostante la grande vittoria, che segnò la completa distruzione dell'esercito francese, Filippo II non approfittò a pieno del risultato rifiutandosi di marciare su Parigi.

Emanuele Filiberto propugnava un approccio molto innovativo, una guerra di movimento in cui il proprio esercito doveva andare a cercare di impegnare il nemico in battaglia con l'obbiettivo di distruggerlo senza perdere tempo ad assediare le fortezze avversarie. Ribadì così il principio, ripreso successivamente da Clausewitz, che l'obbiettivo della guerra non doveva essere una serie di battaglie logoranti e dispersive, ma la disfatta del nemico da ottenere con qualunque mezzo. Risultava così un anticipatore della dottrina militare di età napoleonica

eugenio di savoia

A Superga riposa il cuore di Eugenio di Savoia, l’artefice della vittoria definitiva dell’Impero Austro-Ungarico contro i Turchi, sconfitti nella battaglia di Pontervadino e costretti all’umiliante pace di Passarowitz, dopo che una manovra del geniale condottiero aveva strappato nel 1717 al Sultano Belgrado, piazzaforte di importanza strategica vitale, che gli Ottomani tenevano dal 1521.

Membro di Casa Savoia (era diretto nipote del duca Carlo Emanuele I), apparteneva al ramo cadetto dei Savoia-Carignano. Iniziò la sua carriera al servizio della Francia, passando poi a quello dell'Impero, divenendo ben presto comandante dell'esercito imperiale. Non smise mai, però, di sentirsi prima di tutto un principe di Casa Savoia ed ebbe sempre rapporti strettissimi con suo cugino, il duca Vittorio Amedeo II.

E’ considerato uno dei migliori strateghi di tutti i tempi e con le sue vittorie e la sua opera di politico assicurò agli Asburgo la possibilità di imporsi in Italia e nell'Europa centrale e orientale. Napoleone Bonaparte annoverava Eugenio di Savoia fra i sette grandi condottieri militari della storia. Federico il Grande lo considerava suo maestro e lo definiva il “Vero imperatore degli Asburgo”.

Destinato dalla famiglia alla carriera ecclesiastica, ma assolutamente non interessato, non ancora ventenne si presentò al re Luigi XIV, di cui suo padre era stato uno stimato generale, per ottenere un comando nell'esercito francese. Il re, però, non gli diede alcuna risposta, di fatto rifiutando di accoglierlo nell'esercito. La leggenda vuole che dopo che Eugenio gli inflisse la sconfitta nella battaglia di Torino durante l’assedio del 17 06 il Re Sole abbia esclamato: «Che abbia commesso la più grande sciocchezza della mia vita?»

Deciso ad intraprendere la carriera militare, Eugenio fuggì allora da Parigi insieme ad un cugino alla volta della Germania. Venuto a conoscenza della loro fuga, Luigi XIV mandò a cercarli, con l'ordine di tornare indietro. Ma Eugenio scelse di proseguire per Vienna.

La vittoria sui Turchi nella epica Battaglia di Vienna nel 1683 a fianco del re polacco Giovanni III Sobieski, inaugurò per Eugenio una vita intera dedicata alla guerra, alla diplomazia ed alle vittorie. Si distinse nella successiva campagna contro i turchi (1687), portando con i suoi due reggimenti un contributo determinante. Nel 1703 Eugenio venne nominato dall'imperatore Presidente del Consiglio aulico di guerra, la carica che già fu del celeberrimo Raimondo Montecuccoli, uno dei più grandi generali italiani al servizio di Vienna.

Per le sue imprese contro i Turchi gli austriaci e gli ungheresi gli hanno dedicato ciascuno una statua equestre, una a Vienna e una a Budapest

 

le scuole militari.

 

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le accademie

Pochi anni dopo il suo ritorno sul trono del Piemonte a seguito della pace di Cateau-Cambrésis, Emanuele Filiberto aveva creato una Accademia militare, che però cessò l'attività a seguito della peste del 1598.

Nel 1673 Amedeo di Castellamonte, su richiesta della reggente Madama Reale Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, madre del piccolo Vittorio Amedeo II, iniziò la costruzione di un palazzo destinato a racchiudere un'accademia cavalleresca, centro di studi e di formazione per la nobiltà di tutta Europa, sul modello delle Ritterakademien di altri paesi europei. L'accademia. Il primo gennaio 1679 fu inaugurata la Reale Accademia di Savoia, alla quale affluirono prìncipi e giovani di nobili casati. Accanto ai sudditi sabaudi, vi erano italiani di ogni provenienza (in particolare dagli Stati Pontifici e dalla Repubblica di Venezia), ma un nucleo particolarmente consistente era rappresentato da inglesi, tedeschi, austriaci, boemi, polacchi, russi. Il meglio dell'aristocrazia di tali Paesi sino alla fine del Settecento trascorse a Torino più o meno lunghi periodi presso l'Accademia.

I primi ufficiali brevettati da questo Istituto ebbero il battesimo del fuoco nella battaglia di Torino del 1706, che vide la vittoria sull’esercito francese. Schiere di valorosi Ufficiali, provenienti dalla Reale Accademia di Savoia, furono protagonisti anche durante le campagne che condussero all’Unità d’Italia,

Nel 1798 la Reale Accademia di Savoia fu soppressa dai Francesi che avevano occupato lo Stato sabaudo.

All'indomani della Restaurazione, il 2 novembre 1815, Vittorio Emanuele istituì la Regia Militare Accademia, ponendole la sede nel palazzo castellamontiano che già aveva ospitato l'Accademia Reale. Il nuovo istituto era destinato unicamente a sudditi degli Stati sabaudi che desiderassero intraprendere la carriera militare. L'ammissione era tra i 9 e i 12 anni di età e la durata del corso era di 8 anni per ottenere i gradi di sottotenente alla Fanteria o alla Cavalleria; di nove anni invece era il corso di studi per gli allievi dell'Artiglieria e del Genio, dai quali si usciva con il grado di Luogotenente.

la scuola di equitazione

L’arte equestre ha avuto in Italia maestri famosi e scuole importanti. Quelle rinascimentali di Padova, Napoli e Ferrara, accolgono numerosi allievi stranieri, i quali assumono poi rilevanza e fama nella propria terra.

L'Italia, nella metà del secolo XVI è stata culla dell'equitazione accademica con le scuole di Fiaschi, Pignatelli e Grisone. Nel solco di questa tradizione, nel 1823 viene istituita a Venaria Reale la Regia Scuola Militare di Equitazione, in seno alla quale si sviluppa, sul finire dell'Ottocento, dopo un periodo in cui si affermano anche insegnamenti francesi, tedeschi e inglesi, la scuola italiana dell'"equitazione naturale", destinata a rivoluzionare il modo di cavalcare, attirando a Pinerolo, dove la scuola fu successivamente trasferita, cavalieri degli eserciti di tutto il mondo.

 

la restaurazione dei domini sabaudi e la costruzione della cittadella. l’architettura militare di torino.

 

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La pace di Cateau-Cambrésis (1559) tra Spagna e Francia premiò Emanuele Filiberto stabilendo la restituzione di tutti i domini della Savoia e del Piemonte nelle mani del Duca.

Ma Emanuele Filiberto aveva imparato la lezione: uno stato senza difese si può perdere nel breve volgere di una campagna militare. Così, la sua prima preoccupazione fu fortificare il Piemonte, e iniziò dalla sua nuova capitale: Torino.

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Dorso della mano con indice che punta verso destraLa Cittadella fu l’opera di ingegneria militare maggiore del suo tempo e per la sua costruzione furono impiegate enormi risorse. Era una fortezza nella fortezza, un fortilizio inespugnabile dove poteva trovare rifugio l’esercito e dove erano immagazzinati i materiali bellici necessari per sostenere un lungo assedio.

Fu progettata dall’ingegnere militare Francesco Pacciotto da Urbino, che insieme alla illustre famiglia dei Sangallo, creò uno stile di fortificazione che sarebbe stato esportato in tutta Europa, dalla lontana fortezza di Gyor, in Ungheria ad Anversa, nei Paesi Bassi. Sino a tutto il XVIII secolo l’esercito sabaudo vi ebbe il suo quartier generale nella Cittadella Militare. La Cittadella si estendeva, da Corso Siccardi si estendevano fino a corso Inghilterra, via Juvarra, corso Vittorio Emanuele, corso Re Umberto.

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Dorso della mano con indice che punta verso destraLa difesa della Cittadella si avvaleva di numerosi tunnel in partenza sotto le mura, diretti verso le campagne. Presso i principali bastioni partivano lunghe gallerie a 13-14 metri di profondità: ciascuna superava il grande fossato, oltrepassava le opere avanzate, terminava in aperta campagna con un grappolo di «fornelli da mina» pronti ad esplodere per colpire gli eserciti assedianti. In tutto 14 chilometri di tunnel.

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Dorso della mano con indice che punta verso destraLe gallerie «capitali» della Cittadella sono quella che del bastione detto «del Soccorso» dirigeva verso ovest (visitabile) e quella che dal bastione San Maurizio si protendeva verso nord-est (chiusa al pubblico). Una terza galleria capitale, dal bastione San Lazzaro muoveva verso la campagna in direzione sud.

La Cittadella aveva anche fortezze sotterranee, come il Pastiss, venuto recentemente alla luce, a cento metri dal monumento di Vittorio Emanuele II. La casamatta del Pastiss aveva 7 cannoniere puntate verso il fossato: teneva sotto tiro i soldati nemici che avessero tentato di spingersi fino ai piedi del bastione, penetrando nel fosso. Le sue feritoie da sparo si affacciavano nel fossato come ultimo micidiale strumento di difesa. A protezione dei cannoni sotterranei la casamatta era munita di doppie mura con intercapedine («muri genimini») ed era dotata di sistemi di chiusura capaci di paralizzare in «compartimenti stagni» il nemico che fosse riuscito a penetrare.

 

La guerra di mina e contromina: gli antenati dei tunnel rats del Vietnam

I sereti di Torino sotterranea, pp. 62 ss.

“Non si prenderà Torino per la parte dalla quale la si attacca. Il cavillo delle mine vi condurrà fino alla fine del mondo e non vi servirà che a far seppellire, da vivo, chò che avete di meglio tra le vostgre truppe, perché i nemici, essendosi collocati pe primi sottoterra, non hanno che d’attendervi: ed è sicuro che tutti i vantaggi delle mine sono per loro…”

Con queste parole Vauban, il grande architetto militare, sintetizza la situazione terribile degli attaccanti che penetrano nel sottosuolo delle fortificazioni, e il coraggio che è necessario per calarsi in quelle nere profondità piene di trappole mortali e di insidie nascoste.

 

 

I Piemontesi sono duri da conquistare: il regno più armato nell’Europa del Seicento

Per quanto possa sembrare sorprendente, se si chiede agli storici qual è lo stato che agli inizi dell’Europa moderna ha fatto le maggiori spese per armamenti, ci si sente rispondere che si tratta del Piemonte. Le spese di questo stato comparativamente piccolo per armamenti e fortificazioni superano persino quelli di Enrico IV in Francia e di Filippo III in Spagna o di Giacomo I in Inghilterra.

Se ne accorsero i Francesi che provarono ad assediare nel 1706 la piazzaforte di Torino e furono respinti dalle sue formidabili difese.

 

la flotta sabauda. torino a lepanto. i porti sabaudi.

 

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Con la nomina da parte di Emanuele Filiberto di Andrea Provana come capitano generale della flotta sabauda si può fissare la vera origine della marina piemontese, destinata un giorno a conglobare tutte quelle della nazione italiana.

I porti del Ducato di Savoia erano Nizza, Oneglia e Villafranca, che era il porto della marina militare piemontese. Il Comune di Nizza si era messo sotto la protezione dei Savoia nel 1388 e dal 1600 al 1699 appartenne al Duca di Guisa. Nel 1860 fu annessa alla Francia.

Nel 1720 lo sbocco sul mare si apre definitivamente per l’acquisiizone della Sardegna, quindi dell’intera Liguria, sia pure per breve tempo nel 1815, tanto che la Reai Marina sarda diventa una forza navale che parteciperà alle guerre d’indipendenza e sarà uno dei nuclei principali della nascente Marina italiana. Ecco spiegato in breve l’apparente paradosso, anche se resta da capire come lo scafo sia giunto fin qui.

La flotta ducale aveva tra le sue funzioni quella di reprimere il contrabbando, facendo pagare i diritti doganali alle navi soprattutto francesi che tentavano di eludere i dazi sbarcando merci in punti non sorvegliati della costa, ma, come tutte le altre flotte cristiane, oltre che a raccordare i possedimenti sabaudi sulla costa oggi francese e l’enclave piemontese insistente in Oneglia. Ma come tutte le flotte cristiane dell’epoca era attiva nella lotta contro i pirati barbareschi e le loro basi nordafricane. Navigò su ordine del Duca in varie imprese contro di essi e in soccorso della flotta spagnola contro i Turchi. Nel 1563 prese parte alla spedizione per il recupero di Peñón de Vélez de la Gomera, sulla costa marocchina, che dal 1522 era in potere dei barbareschi, minacciando le comunicazioni verso lo stretto di Gibilterra. Nel 1565, prese parte alla liberazione di Malta, che stava per essere conquistata dai Turchi.

La flotta era data in appalto all’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro

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Lepanto, 7 ottobre 1571: lo stemma dei Savoia si tinge di sangue e di azzurro

Nel 1571 tre galere guidate dall’ammiraglio Andrea Provana di Leinì parteciparono alla battaglia di Lepanto accanto alla flotta veneziana. Tale era la fama dell’Ammiraglio del Duca che Francesco Maria II della Rovere, Duca di Urbino, chiese di poter combattere sulla “Capitana” di Provana, al suo fianco.

Il tributo pagato dalle galere piemontesi fu sanguinoso: buona parte della nobiltà, che si era imbarcata in massa sulle navi, rimase uccisa, a testimonianza del coraggio dei Sabaudi. Il Provana stesso, in armatura da battaglia, si salvò per miracolo da un colpo d’arma da fuoco grazie al morione che gli proteggeva il capo.

 

l’assedio di torino e la basilica di superga

 

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Vedi “La storia di Superga e l’assedio di Torino del 1706”

Torino era una delle più formidabili piazzeforti d’Europa, difesa con artiglierie modernissime, tra cui i primi cannoni a retrocarica. Dagli alti campanili delle sue chiese un reparto di vedette teneva d’occhio i movimenti dei Francesi.

Le sue mura, come pure le fortezze sui monti furono abbattute da Napoleone, che pensò bene di non lasciarsi alle spalle quelle formidabili opere difensive. Avrebbero potuto resistere tranquillamente all’assedio dell’armata napoleonica, ma la fuga del Re lasciò le forze sabaude nel caos, e la città si arrese senza resistenza, anche perché il sentimento giacobino era molto diffuso.

 

Corazzieri e Minatori: la micidiale guerra sotterranea nelle gallerie della Cittadella

Lo sviluppo della nuova architettura militare dell’epoca moderna, con mura concepite in modo da resistere ai colpi di cannone, e lo sviluppo di reti di fortezze capaci di contenere eserciti in grado di colpire alle spalle il nemico che le superava, rese necessario un progresso della scienza degli assedi, che si trasformarono in una guerra sotterranea di mina e contromina.

Le cronache dell’assedio di Torino del 1706 rendono onore a Pietro Micca, ma esistono episodi dimenticati di eroismo e di sanguinosi combattimenti nelle gallerie. Ecco una pagina dalle cronache dell’Assedio del 1706 scritte dal Conte Solaro della Margarita, generale comandante dell’artiglieria della piazza:

“14 agosto. E’ avvenuto stanotte, sottoterra, un combattimento di enorme rilievo: i nemici sono vicino alla galleria che è al livello del fossato verso l’angolo uscente della Mezzaluna del Soccorso e la stanno per rovinare da un momento all’altro. I nostri minatori fanno brillare un petardo, nel punto dove si sente picchiare e i loro minatori ne sono schiacciati e sepolti. Ma questo petardo apre un buco molto largo, un pozzo tra la galleria della Mezzaluna e quella francese, per il quale i nemici fanno scendere un loro granatiere mediante una corda; appena compare viene ucciso da un colpo di pistola. Il dispetto e la rabbia fanno accanire i nemici su di noi; senza perdere tempo sbarriamo il cunicolo con sacchi di lana; avanzano subito dei granatieri per sostganere il trinceramento; ma ecco un’altra vittima che si fa calar già per cercare la morte e che non manca di trovarla… Quattro granatieri francesi erano stati comandati a questa impresa; essi si trovano in imbarazzo: l’onore li anima e la paura li trattiene: “Qui del vino” dice uno, glielo danno, lo tracanna, si cala in un attimo, ma non è ancora giunto a terra che viene ucciso. Il terzo si va a gettare pure lui nelle braccia della morte e così pure il quarto. I nemici fanno poi scendere un uomo armato da capo a piedi che apre la strada a molti altri che scendono con lui… il fuoco inizia da una parte e dall’altra e sono colpi di pistola, di moschetto, e di granata che rimbombano in quell’antro orribile. Il fumo, il puzzo e l’oscurità rendono terribile proseguire il combattimento. Alla fine, i nostri minatori danno fuoco alla salciccia e fanno saltare i due fornelli che distruggono una batteria nemica, con tutti i loro cannoni e cannonieri, minatori e materiali. Tutto non costituisce più che una massa confusa e coperta di terra.”

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“Maestà, Torino è imprendibile”. Parola del Maresciallo Vauban.

Sébastien Le Prestre de Vauban è considerato il più grande architetto militare di tutti i tempi. Quando l’esercito francese giunse ad assediare Torino, Luigi XIV lo inviò a studiare le fortificazioni della città. Vauban, per tre giorni studiò le opere difensive di Torino, e il quarto giorno diede il suo inappellabile verdetto: “Maestà, Torino è imprendibile”.

 

la partecipazione alle guerre internazionali. i piemontesi nella guerra di crimea e nelle guerre europee.

 

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le guerre europee di carlo emanuele iii

Con Carlo Emanuele III (1701-1773) il Piemonte prese parte alle vicende belliche internazionali ottenendo considerevoli acquisizioni territoriali, che ne spostarono il confine al Ticino.

Nel febbraio 1733 Francia e Austria, si divisero sul suo successore al trono di Polonia. Carlo Emanuele III si schierò con la Francia e marciò verso Milano per occupare la Lombardia. Filippo V di Spagna entrò in guerra contro l’Austria, e le truppe austriache del generale Mercy, provenienti dal Trentino, cercarono di attraversare l'Emilia per congiungersi a quelle di guarnigione nel Regno di Napoli, ma vennero bloccate con una serie di fortunate battaglie con le quali furono respinti fino alla Val d'Adige. Nella seguente pace di Vienna del 1738 Carlo Emanuele III, pur non ottenendo Milano, ottenne alcuni territori, tra cui le Langhe, il Tortonese e Novara.

Dal 1741 al 1748 l'Europa fu coinvolta nella guerra di successione austriaca, in seguito al rifiuto di alcune potenze di accettare che Maria Teresa d'Austria, come Grande Elettrice, potesse votare per il proprio marito Francesco I di Lorena, nell'elezione del Sacro Romano Imperatore Germanico.

Carlo Emanuele III si schierò con Maria Teresa, subendo ripetuti tentativi d'invasione: prima da parte spagnola e successivamente da parte franco-spagnola, ma poté valersi del sostegno finanziario dell'Inghilterra. Costretti alla ritirata dalla Romagna gli Spagnoli nel 1741, Carlo bloccò in Piemonte un secondo corpo di spedizione che si affacciava sulle Alpi. Negli anni seguenti, riuscì a bloccare i tentativi nemici di passare le montagne, pur accusando alcune sconfitte.

Nel 1745 l'esercito franco-spagnolo, riunito in Liguria a quello ispano-napoletano, batté gli austriaci a Velletri e invase il Piemonte costringendo il fronte Austro-piemontese a negoziare una tregua. Ma l'anno seguente, gli Austro-Piemontesi misero in rotta le truppe franco-ispano-napoletane e genovesi mentre Carlo Emanuele marciava su Tolone. Nel 1747 l'esercito francese attaccò di nuovo, ma i Piemontesi ottennero una schiacciante vittoria nella battaglia dell'Assietta.

Nel 1748 con il trattato di Aquisgrana, il regno di Sardegna riottenne le province di Nizza e Savoia e acquisì il territorio del vigevanese, spingendo la frontiera fino al Ticino, il vogherese, l'Oltrepò Pavese (Bobbio).

la partecipazione alla guerra di crimea

Nel marzo dell'1854, la regina Vittoria d'Inghilterra dichiarava ufficialmente guerra alla Russia a sostegno dell'Impero Ottomano; pochi giorni dopo lo stesso atto fu compiuto da Napoleone III. Anche il Regno di Sardegna si unì all'impresa: il presidente del Consiglio Conte di Cavour considerava infatti l'intervento un buon trampolino di lancio per entrare a far parte del gioco politico europeo, visto che cercava di assicurarsi l'appoggio di Londra e Parigi al fine di un esito positivo delle sue aspirazioni di liberazione del Lombardo-Veneto dall'occupazione austriaca.

I contingenti piemontesi si imbarcarono nella primavera del 1854. Arrivato nella capitale turca, La Marmora portò le sue truppe a Balaklava, in Crimea. Il 25 maggio tre brigate e tre unità di cavalleria alleate, sotto il suo comando, parteciparono all'occupazione di Kamara.

La mattina del 16 agosto 1855, nella famosa battaglia della Cernaia, i Piemontesi respinsero i russi che cercavano di occupare le alture sul fiume.

Dopo la caduta di Sebastopoli nel Settembre 1855 la Russia chiese l’armistizio e il 15 aprile 1856 veniva siglata la pace a Parigi, e le prime truppe piemontesi (in tutto 17.231 uomini) si imbarcarono per il ritorno in patria, dove furono accolte trionfalmente.

 

Intrigo imperiale a Torino. Carlo Emanuele I e lo scoppio della Guerra dei Trent’anni.

Uno dei fatti sorprendenti e meno noti della storia dei Savoia risale al 1618, quando l’Europa era percorsa da fremiti di guerra che poi sfociarono nel terribile conflitto conosciuto come Guerra dei Trent’anni, il primo conflitto pan-europeo dell’epoca moderna, una triste anticipazione dei due conflitti del 1915-18 e del 1939-1945. La Germania perse 5 milioni di uomini, e si spopolò a tal punto che uno storico ha detto che i tedeschi odierni, al contrario di quanto credono gli ideologi della razza, hanno tutti provenienza centro-europea: dall’Ungheria, dalla Romania, dalla Polonia, dall’Austria.

A Vienna, il 20 maggio 1619 muore senza lasciare eredi il Sacro Romano Imperatore Mattia d’Asburgo. Da tempo la sua salute è cagionevole a causa dell’età avanzata. Egli è anche Re di Boemia e di Ungheria: secondo gli Asburgo per diritto ereditario, secondo gli Stati Generali che raccolgono i nobili dei due Regni, per designazione elettiva. Subito si presentano da un lato come candidato cattolico l’imperatore spagnolo Felipe III, forte della appartenenza della stirpe degli Asburgo, che tradizionalmente occupa il trono boemo e quello ungherese, e un candidato protestante: il Grande Elettore del Palatinato Federico V, sostenuto dai calvinisti militanti e intransigenti. In questo gioco si inserisce a sorpresa anche Carlo Emanuele. Si respirano venti di guerra: il 23 maggio 1618 i nobili ribelli protestanti gettano dalla finestra i delegati dell’Imperatore, che accusano di lesione dei diritti degli Stati Generali, e rivendicano il diritto di eleggere il loro re – naturalmente un protestante. Dalla capitale Praga la ribellione contro l'opprimente potere cattolico asburgico si estese ben presto a tutti i territori della Corona di Boemia, infiammando la Slesia, l'Alta e Bassa Lusazia e la Moravia.

Il primo atto di guerra vera e propria si ebbe tra il settembre e il novembre del 1618, quando la città di Plzeň, roccaforte dei cattolici boemi e ancora fedele agli Asburgo, fu assediata ed espugnata dalle truppe boemo-palatine del generale Ernst von Mansfeld. Ma von Mansfeld fu a sua volta sconfitto dalle forze della Lega Cattolica nella battaglia di Záblatí il 10 giugno del 1619.

Egli fuggì, abbandonando i carriaggi e i suoi archivi. Quale non fu la sensazione in Europa nello scoprire, tra le lettere che egli conservava, una missiva di Carlo Emanuele di Savoia indirizzata al Principe Christian von Anhalt, ambasciatore dell’Elettore Palatino, con una offerta di finanziare il reggimento di Mansfeld a sostegno della causa protestante.

Forte della statura di difensore della libertà d’Europa contro le pretese di dominazione universale degli spagnoli, che gli avevano conferito le due durissime guerre combattute contro Filippo III tra il 1613 e il 1617 con le sue sole forze e senza appoggi da parte dei principi italiani, egli pretendeva di agire come sostenitore disinteressato di coloro che erano attaccati dalla Spagna, ma il suo scopo era stato reso chiaro a Mansfeld che, prima di partire dall’Italia col suo reggimento dopo la fine della guerra di Venezia con l’Austria, aveva ricevuto incarico da parte del Duca, suo finanziatore e alleato di Venezia, di promuovere la sua candidatura imperiale, e insieme ad essa quella al trono di Boemia e di Ungheria.

Quello che fece gridare allo scandalo la parte cattolica era che Carlo Emanuele affermava di aver sempre rispettato i diritti dei suoi sudditi protestanti, mentre in realtà aveva sempre temuto una evoluzione simile a quella francese, col paese spaccato in due dalla presenza di Ugonotti, ed aveva emanato editti severissimi perché il credo valdese fosse rimasto confinato nella Valle di Luserna e in quelle limitrofe, perché non fosse data ospitalità a ugonotti transfughi dalla Francia e aveva sradicato la presenza protestante nel Ducato di Saluzzo, di cui si era impadronito al dichiarato scopo di “tutelare la religione cattolica”.

Non solo: mentre trattava con i protestanti, cercava di organizzare una crociata contro Ginevra, che si era sottratta alla signoria sabauda durante l’occupazione francese, mettendosi sotto la protezione dei Grigioni protestanti.

Ma quello che più colpisce in questa vicenda, emblematica di 50 anni di politica opportunistica di questo sovrano, pronto a cambiare alleanze al bisogno e alla convenienza, era la completa indifferenza per l’Italia. Carlo Emanuele confessava ai suoi consiglieri più fidati, che la sua dinastia sarebbe andata a cercare la grandezza delle sue sorti e l’allargamento dei suoi domini là dove essa si sarebbe fatta trovare: per lui la corona di Ungheria, di Boemia, d’Italia o del Sacro Romano impero erano solo questione di una scelta che aveva come obiettivo prioritario quello di ingrandire la gloria dei Savoia, trasformando il titolo ducale in titolo regale o addirittura di imperatore.

Una volta scoperto, Carlo Emanuele – non senza cinicamente notare che l’unico indizio delle sue manovre, che in realtà coinvolsero anche l’ambasciatore inglese e un emissario inviato appositamente in Boemia per promuovere la sua candidatura tramite il denaro erano le lettere che sarebbero presto state dimenticate – si affrettò a offrire il suo aiuto militare a Ferdinando di Stiria, il pretendente cattolico al soglio imperiale, salvo rifiutare il suo invito di unirsi a lui nella campagna di Boemia perché troppo remota e lontana dal suo regno.

Su questo episodio gli storici del Risorgimento prima e gli storici del Novecento hanno gettato più di una palata di terra, che solo recentemente la storiografia anglosassone e quella italiana più imparziale ha cominciato a rimuovere.

 

fonte: ruth kleinman, “charles emmanuel i of savoy and the bohemian election of 1619”, european studies review, volume 5 (january 1, 1975)

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Custodi della Santa Sindone, Protettori dei pellegrini della Terrasanta, Cavalieri consacrati alla difesa dell’onore della Vergine, Flagello dei pirati barbareschi, Milizia scelta dei Duchi di Savoia: l’Antico Ordine Cavalleresco dei Santi Maurizio e Lazzaro.

Uno dei più antichi e illustri ordini militari della Cristianità, nato ai tempi delle crociate, ha ancora le sue Commanderie a Torino, dove ancor oggi continua la sua attività votata a fini umanitari.

A Torino, in Corso Unione Sovietica, c’è l’Ospedale Mauriziano, uno dei maggiori della città, e una delle loro sedi è a Stupinigi, nelle costruzioni che circondano la Palazzina di Caccia dei Savoia.

Emanuele Filiberto, come Duca di Savoia, era il comandante dell’ordine di San Maurizio e Lazzaro.

L'attuale ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, risulta dall'unione, avvenuta nel 1572, dei due ordini di S. Maurizio e di S. Lazzaro. Antichissimo l'ordine dei cavalieri di San Lazzaro, nato come ordine ospitaliero, a Gerusalemme, in un ospedale di lebbrosi e al tempo del primo regno latino dei crociati. Meno celebre dell'ordine di San Giovanni, era tuttavia molto rigoroso: vi si seguiva la regola di Sant'Agostino, e i cavalieri restavano obbligati alla vita d'ospedale in perpetuo.Anche in Europa i lebbrosarî erano spesso serviti dai cavalieri di S. Lazzaro.

L'ospedale di S. Lazzaro in Gerusalemme,nella seconda metà del sec. XIII, trasferitosi in Acri, cominciò ad armare soldati per la difesa dei Latini in Oriente: nacque così l'Ordine militare. Col sec. XIV scomparve del tutto, solo restando in Occidente i commendatarî, a godere i benefici che l'ordine possedeva in Europa.

L'ordine di S. Maurizio è collegato con il culto per l'eroe cristiano, tenuto vivo nella località di Agauno nel Chiablese, dove il re di Borgogna Sigismondo eresse nel 515 un'abbazia intitolata al santo martire. Molti re di Borgogna ebbero ivi l'investitura con la tradizione della lancia e dell'anello di S. Maurizio. Il Chiablese passò nel 1032 sotto il dominio dei Savoia; e nel 1250 Pietro di Savoia detto "il piccolo Carlomagno" chiese e ottenne in dono dall'abate Rodolfo l'anello di S. Maurizio, con l'obbligo che fosse tenuto in perpetuo dal principe di casa Savoia.

Amedeo VIII sul principio del secolo XV fece erigere a Ripaglia, sul Lago Lemano, una chiesa dedicata a S. Maurizio e un convento sotto la dipendenza dei canonici di Agauno. Dopo la sua rinuncia al governo, vi si ritirò con cinque cavalieri, con i quali fondò la sacra milizia di S. Maurizio.

Nel testamento Amedeo spiega che i cavalieri romiti di San Maurizio sono una milizia religiosa che, mentre serviva a Dio nella solitudine, serviva al principe con i consigli della matura esperienza. I nuovi cavalieri vengono eletti col consiglio dei già esistenti e devono avere avuto esperienze di guerre e di governo che facciano uomini saggi.

Poco dopo però Amedeo VIII veniva eletto antipapa e assunto il nome di Felice V, lasciò la solitudine di Ripaglia seguito dai suoi cavalieri. Pare che così andasse estinta, almeno per allora, quella milizia, perché da quel momento non se ne ha più notizia.

Più di un secolo dopo, Emanuele Filiberto di Savoia richiamò a nuova vita l'ordine di S. Maurizio, ma con altre regole e con altri fini: e cioè: purgare il mare dai pirati, combattere i nemici della fede, esercitare l'ospitalità e avere a sua disposizione una milizia nobile devota a lui, non solo per sudditanza, ma anche per voto di religione. Gregorio XIII con bolla del 16 settembre 1572 riconosceva l'ordine approvandone i nuovi statuti e lo sottoponeva alla regola cisterciense. Ma il compimento di quest'ordine doveva venire dall'unione con quello di S. Lazzaro.

Nel 1571 il gran maestro dell'ordine di San Lazzaro rinunciò alla carica a favore di Emanuele Filiberto, che col consenso di Gregorio XIII riunì i due ordini, dei quali lui e i successori erano gran maestri in perpetuo.

Emanuele Filiberto dotò l'ordine di beni che fruttassero annualmente quindicimila scudi, statuì le norme per l'ammissione dei cavalieri, ordinò le insegne, i manti, le regole per la riunione dei capitoli; dichiarò che la chiesa conventuale dell'ordine sarebbe stata nel castello di Torino, che esso avrebbe avuto due case conventuali: una a Torino per il servizio di terra e l'altra a Nizza per il servizio di mare; ordinò che i cavalieri dovessero servire in convento per cinque anni, fare tre carovane e possedere quattro quarti di nobiltà. Nello stesso anno ottenne pure dal pontefice Gregorio XIII che l'ordine fosse sottoposto, anziché alla regola cisterciense, a quella di Sant'Agostino, e nel maggio deputò ai servigi della religione le due galere la Piemontesa e la Margarita, che innalzarono la bandiera dell'ordine, inviandole al servizio del pontefice contro i Turchi.

 

L'Armeria Reale e la spada mancante

 

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Se volete vedere l'arma bianca con cui le fanterie piemontesi andavano all'assalto nel Seicento e all'inizio del Settecento dovete uscire dall'armeria reale, uscire da torino e imboccare la statale e recarvi ad Andrate, al Museo della Civiltà Contadina Lì potete ammirare la beidana, che fu temuta dalle fanterie francesi che tentarono a più riprese di invadere le valli senza riuscirci. Era una specie di lunga roncola dritta con un uncino in punta, che veniva usata per il lavoro quotidiano, ma anche come arma di offesa.

 

 

 

 

 

GRANDI PERSONAGGI A TORINO

 

Quando il Papa e Napoleone si trovarono insieme a Torino e la folla snobbò l’Imperatore dei Francesi

 

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Il 24 aprile 1805 Pio VII era a Torino, sulla via del ritorno da Parigi e - circostanza eccezionale - quel giorno ospite della città era pure Napoleone; il papa rimase a Torino sino alle 10 del 27 aprile. I torinesi sembravano di gran lungo preferire il papa a Napoleone. Leggiamo nell’autobiografia di Cesare Balbo: «Pio VII, a cui ero stato presentato, a cui avevo baciato i piedi pochi anni prima quando passava da Torino, che avevo veduto acclamare, venerare da tutta la popolazione di questa mia città abbandonando l’imperatore che passava insieme».

Napoleone era ospitato al castello di Stupinigi; quel 25 aprile, sotto la pioggia battente, l’imperatore sembrava di pessimo umore. Il giorno successivo ricevette il pontefice, che poi ripartì il 27 aprile. Nella storia di Stupinigi vi è, dunque, anche questo incontro fra Napoleone e Pio VII.

 

Torquato Tasso

 

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Il poeta (1544-95) soggiornò a Torino nel 1578 contemporaneamente a San Carlo, ed ebbe modo di vedere la Santa Sindone (v.). Incerto rimane il luogo in cui fu ospitato il Tasso anche se una lapide indica con sicurezza l’edificio in cui abitò il poeta.

Sulla permanenza del Tasso a Torino, sul suo soggiorno, sulla casa in cui venne ospitato, i dubbi storici non mancano. Michele Lessona ebbe a dire: «Nossignori, il Tasso non venne affatto ospitato in quella casa. La lapide è messa in un punto sbaglialo». Annotò: «La sorte iniqua che perseguitò il Tasso in vita, gli diede due secoli dopo ancora un ultimo colpo facendo mettere un’iscrizione in Torino sulla casa che non fu quella di sua dimora».

E il Cognasso, per quanto concerne l’abitazione del personaggio, si limita a dire: «Nell’autunno del 1578 capitò stracciato e affamato a Torino dove fu ospite del genero del duca, il marchese Filippo d’Este». Sulla casa, non una parola.

In un volumetto di autore anonimo, edito a Torino nel 1911, si parla di visitatori illustri che soggiornarono in città. A proposito del Tasso si legge: «Passeggiando a Torino presso la Corte, chiuso come sempre nei suoi pensieri, una sera ebbe a imbattersi in una fattucchiera che gli “regalò” un curioso presagio. Lo avvertì sottovoce che una grandissima gloria sarebbe venuta a trovarsi a portata della sua mano, ma che, per motivi fisici, per un non superabile impedimento, non l’avrebbe afferrata mai».

Papa Clemente VII fu lieto di sapere che il Tasso si trovava bene nell’Urbe e che si andava riprendendo. Il poeta andò per qualche tempo a Napoli. Rientrò a Roma e nell'aprile del 1595, in ospedale, fu convinto di poter riacquistare del tutto la salute.Nel monastero di Sant’Onofrio sul Gianicolo ebbe la sensazione di un miglioramento, ma non fu così. Gli costò sforzo non solo scrivere ma anche parlare. Gli recarono i conforti della fede sussurrandogli frasi di incoraggiamento. Il mattino del 25 aprile si guardò intorno come estasiato da qualche cosa che riusciva a vedere soltanto lui, poi si addormentò per sempre.

 

Richard Wagner

 

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Ben poco è rimasto annotato sul breve soggiorno a Torino del grande compositore tedesco (Lipsia 1813-Venezia 1883) nel 1853. La sua comparsa, quasi a sorpresa, è annotata sullo sfondo della vita torinese di allora per quanto concerneva il mondo del teatro.

Sulla rive droìte di via Po all’angolo con via Santa Pelagia, la via San Massimo di oggi, c’era il quarto teatro edificato a Torino fra il 1771 e il 1792, un locale che ha cambiato spesso nome. Un incendio divampato in città dopo una festa, fece tuttavia considerare pericoloso anche il nuovo locale, fatto “di bosco’’, ossia di legno, e perdipiù inserito fra le case. Così si pensò di chiuderlo e poi di abbatterlo. Venne rifatto con materiale non combustibile, con l’intesa che sarebbe rimasto inoperoso il venerdì e durante le più solenni cerimonie religiose. L’ingresso era in via Po 31, in fondo al cortile. Un teatro in cotto, con lo spazio scenico e la platea nel sottosuolo.

Per una serie di intoppi, anche per la morte del re, il teatro rimase di fatto chiuso fino al 1798. Subì più tardi, nel 1828, anche un incendio, nonostante le assicurazioni date in precedenza dai costruttori, e le fiamme ridussero in cenere anche i pregevoli scenari dipinti da Giuseppe Galliari. Poi il teatro ancora una volta risorse come Sutera, dal nome del proprietario.

Nel 1844 vi andò in scena il Conte Ory, di Rossini, e nel momento più caldo del Risorgimento espresse la sua miglior vena satirica nei confronti di Madama Scardassa, come veniva indicata l’Austria. Pietracqua potè veder recitato il suo Don Tempesta dopo il 1860. Poi trionfò Giandujot torna al to ciabot! Al Sutera, in una memorabile serata del 1853, Wagner, salutato dal pubblico con una calda ovazione, applaudì a sua volta II barbiere di Siviglia, dicendosene entusiasta.

 

Aleksandr Vassilievic Suvarov

 

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Maresciallo russo (Mosca 1729-Pietroburgo 1800), abile stratega, prese parte alle campagne russe della seconda metà del XVIII secolo. In Italia raggiunse Milano e Torino. Fra i momenti epici o drammatici, comunque “magici”, vissuti da via Po. risalta il giorno in cui si vide sfilare la cavalleria russa, e alla testa di quell’armata, un generale imponente in sella a un cavallo tartaro, Suvarov, acclamato dalla folla. In duomo l’arcivescovo Buronzo lo guardò stupefatto inginocchiarsi, quasi prostrarsi a braccia aperte, per ringraziare Dio della vittoria. Il calendario segnava il 22 giugno 1799.

I piemontesi vollero esprimere al russo la loro riconoscenza con un dono: una spada finemente lavorata dall’armaiolo Jura, ch’essi fecero arrivare attraverso l’avvocato Alloati, a Piacenza, dove si trovava il generale. Questi, gratissimo, offerse ai messi piemontesi un ricco pranzo; per sé fece servire il solito rancio, ossia una scodella di zuppa con verdure e pesci salati.

 

Friedrich Nietzsche

 

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Lo scrittore e filosofo tedesco (1844-1900) fu tra i maggiori estimatori di Torino, come rivelò in alcune sue lettere.

In via Carlo Alberto, quasi sull’angolo con la piazza pure dedicata a questo sovrano sabaudo, una lapide ricorda, al numero 6, il soggiorno torinese di Nietzsche.

Lo scrittore ebbe qui l’esplosione della follia e qui, in via Carlo Alberto, ci fu l’incredibile scena del suo abbraccio a un cavallo che il cocchiere frustava e prendeva a calci. «Tu disumano massacratore di questo destriero!», così Nietzsche apostrofò l’uomo, che lo guardò sbalordito.

Abitava allora in piazza Carlo Alberlo 6, al terzo piano, con finestre che s’affacciavano sulla piazza. Era, la sua, una camera ammobiliata che pagava 30 lire al mese a Davide e Candida Fino, gestori della rivendita di giornali, giù nella piazza. E qui trovò la giusta atmosfera per terminare il suo libro più virulentemente ostile all'antica fede, con un titolo esplicito, "Der Antichrist". Qui, dalla sua stanza che dava su piazza Carlo Alberto, scrisse il suo ultimo messaggio, prima di essere trascinato nel reparto furiosi di un manicomio: «Cantami un inno nuovo: il mondo è trasfigurato e tutti i Cieli esultano», firmando «il Crocifisso».

La pazzia di Nietzsche, sulla quale tanto è stato scritto, si manifestò quel 3 gennaio 1889, nel centro di Torino. Lo scrittore era appena uscito dall’abitazione, quando la scena del cavallo percosso gli aveva sconvolto il cervello.

Mentre veniva riaccompagnato a casa, lo scrittore gridava di essere «Dioniso o Gesù Crocefisso», e «il signore e il tiranno di Torino».

Fu un innamorato dell’«atmosfera torinese» e dai suoi scritti questo amore trabocca: «Ma che dignitosa, severa città!», ebbe a sottolineare. Ci venne per sei mesi dal 5 aprile al 5 giugno 1888, poi dal 21 settembre di quell’anno ai primi del 1889.

A Torino, come rammenta la lapide sull’angolo della casa, fra via Carlo Alberto e la piazza, «conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto; la volontà di dominio che suscita l’eroe».

E in quella dimora, «ad attestare l’alto destino e il genio scrisse Ecce Homo, libro della sua vita». La lapide, che mostra Nietzsche visto di profilo, era stata preparata da tempo dallo scrittore Rubino, ma per una serie di circostanze fu murata nel 1944, e ricorda il primo centenario della nascita dello scrittore.

Era stato a Genova, a Zoagli, Portofino, Roma e a Sorrento ma, incredibilmente, nessuna città aveva per lui un’aria di tanta “sublime purezza”: la città lo incantava, forse, perché tutti lo consideravano un “piccolo principe”, a cominciare dalla fruttivendola che per lui sceglieva il grappolo d’uva più bello.

Forse viveva di illusioni o vedeva una città che era assai diversa da oggi. Non si comprenderebbe la sua meraviglia nel constatare l’ordine, la pulizia, aggiungendo: «Gli omnibus e i tram son organizzati in modo perfetto!».

La figlia di Fino gli aveva messo a disposizione il proprio pianoforte e Nietzsche suonava anche per parecchie ore, frenetico.

In una sera di dicembre del 1888, smise di colpo di pestare sui tasti e si mise a ballare con mosse da satiro, poi tornò alla musica come un forsennato gridando frasi senza senso. Erano le avvisaglie della pazzia.

Per allontanarlo dalla sua Mole-Zarathustra occorse trascinarlo sino al treno e vigilare perché non fuggisse dalla stazione, per reimmergersi in quelle strade con le quali avvertiva una sintonia profonda. Dal suo manicomio continuò a invocare la città, gridando che doveva tornarvi perché era lui il "Rex Taurinorum".

 

Pètr Il’ic Cajkovskij

 

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Il celebre compositore russo (1840-93) giunse a Torino nel dicembre 1879, proveniente da Parigi e diretto a Roma, dove rimase poi fino al marzo del 1880. Al fratello Anatolij scrisse una lettera: «Trascinatici sino a Torino, rimasi assai stupito e lieto di finire in un eccellente hotel, di mangiare bene (per un giorno intero non avevo toccato cibo), di dormire magnificamente ed oggi di andar passeggiando per una bella e originalissima città. L’originalità consiste in ciò, che tutte le vie si aprono come raggi, a mo’ di linee rette dal centro, cioè dalla piazza su cui sorgono il palazzo, la cattedrale e i migliori alberghi».

 

Giacomo Casanova

 

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Sospettati di spionaggio furono non pochi celebri avventurieri, come Giacomo Casanova, che raggiunse Torino non una sola volta, fra il 1756 e il 1769,e Cagliostro nel 1788. Nelle sue Memorie Casanova ebbe a dolersi della cappa di conformismo controriformistico che regnava a Torino. Nel 1756 Giacomo Casanova, trovandosi in Piemonte, fece conoscenza delle masche a Rivara, in un periodo in cui le streghe erano pure segnalate nei sobborghi torinesi.

 

Giuseppe Balsamo, Conte di Cagliostro

 

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Cagliostro fu brevemente a Torino, insieme alla inseparabile compagna, Lorenza, nel 1788, ma ne venne subito allontanato dalla corte, diffidente della sua fama di mago e impostore.

 

Michel de Montaigne

 

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Ecco, dal diario di viaggio di Michel de Montaigne, che nel 1582 passò per Torino al ritorno dal suo viaggio in italia, la descrizione della città:

“Turin, dix milles, où nous aurions pu facilement être rendus avant le dîner. C’est une petite ville, située en un lieu fort aquatique, qui n’est pas trop bien bâtie, ni fort agréable, quoiqu’elle soit traversée par un ruisseau qui en emporte les immondices. Je donnai à Turin cinq écus et demi par cheval, pour le service de six journées jusqu’à Lyon : leur dépense sur le compte des maîtres. On parle ici communément françois et tous les gens du pays paroissent fort affectionnés pour la France. La langue vulgaire n’a presque de la langue italienne que la prononciation, et n’est au fond composée que de nos propres mots.”

 

Nicolò Tommaseo

 

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Abitò una casa (c’è la targa) tra il 1854 e il 1859, nel periodo in cui, su invito dell’Editore Pomba, stendeva il suo grande Dizionario della Lingua Italiana.

 

Jean-François Champollion

 

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Jean Francois Champollion, che nel 1822 aveva “decodificato” la scrittura egizia sulla base della Pietra di Rosetta, l’iscrizione bilingue, in egiziano e in greco, scoperta da soldati dell’Armata di Napoleone nel 1799, non aveva a disposizione che ben pochi documenti relativi all’antico Egitto, qualche papiro e gli obelischi di Roma. Quando apprese che a Torino era arrivata la collezione Drovetti, nel 1824 partì subito per il Piemonte. Instancabile, affrontò la massa di testimonianze a disposizione e perfezionò la sua conoscenza della scrittura egizia nelle varie grafie e nella lingua relativa, giungendo a ricostruire nelle grandi linee la lista dei Faraoni e la loro cronologia. Nacque così una nuova scienza, l’egittologia.

Andò subito a sistemarsi in un albergo dell’attuale via Verdi e poco dopo si trovò nel cortile dell’Ateneo davanti alla statua di Ramesse il Grande e ne rimase come incantato, come risulta dalle sue annotazioni. A chi gli domandava quando avesse riportato come studioso la sua maggiore sensazione, rispondeva senza esitazione: «L’incontro a Torino con i faraoni egizi». Segno evidente che, con ogni probabilità, considerava quell’esperienza come un “segnale” per iver imboccato la giusta via.

Era un seguace della “verità” che professava anche dalla cattedra, ma la sua mente credeva ai segni del fato, al “già scritto”. Vedeva perciò nell'incontro con Ramesse a Torino una conferma di ciò che l’analisi dei geroglifici gli aveva espresso.

 

Erasmo da Rotterdam

 

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Questo filosofo e umanista (1466-1536) fu legato a Torino in un modo misterioso, che i biografi non hanno del tutto svelato. Erasmo si laureò in teologia all’università torinese il 4 settembre 1506, come ricorda una lapide apposta nel 1876 nel cortile dell’ateneo, in via Po. Mancano documenti a suffragare quanto affermato da alcuni, appassionati cultori di esoterismo, per i quali, pure a Torino, Erasmo sarebbe stato iniziato a riti magici con una cerimonia “segreta” di cui non è rimasta traccia se non in resoconti romanzati. Si spiega così perché Erasmo sia quasi d’obbligo fra i personaggi citati nella galleria di una Torino insolita e inafferrabile.

 

Elisabetta II di Inghilterra

 

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In epoca moderna, è l’unica sovrana britannica ad avere visitato in forma ufficiale Torino. Avvenne il 9 maggio 1961 in occasione delle celebrazioni per il centenario dell’unità nazionale. Giunta da Milano in treno, la regina Elisabetta, accompagnata dal marito, principe Filippo, visitò l’esposizione sulle rive del Po, l’aula del Parlamento di Cavour, a Palazzo Carignano, e Palazzo Madama, dove pronunciò un discorso, si affacciò al balcone centrale, con il sindaco di Torino, Amedeo Peyron, per rispondere al saluto della folla. Elisabetta, che indossava uno smagliante abito giallo, ripartì con il marito in aereo dall'aeroporto di Caselle per tornare a Londra. D 23 marzo 1893 era passata da Torino la regina Vittoria d’Inghilterra, imperatrice delle Indie, diretta a Firenze, ospite di Villa Palmieri. Il treno reale, composto di undici vetture, proveniente da Modane, era sostato a Borgone per circa cinque ore, in modo da consentire alla sovrana, che viaggiava privatamente, sotto il nome di contessa di Balmoral, di riposare meglio. Il convoglio era poi entrato nella stazione di Porta Nuova alle 6,40.

 

Nostradamus

 

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A conferma di una strana attenzione e attrazione, quell'uomo certamente enigmatico - comunque lo si voglia giudicare - non si è limitato a parlare di Torino, ma vi è anche venuto e vi ha soggiornato, in una villa con rustico dalle parti del canale della Pellerina che, a partire dall'incrocio con corso Tassoni, negli anni Cinquanta non era ancora coperto e che sembrava una sorta di casalingo Rio delle Amazzoni, fiancheggiato com'era da una vegetazione selvaggia e lussureggiante. Nostradamus, nel 1561, annunziò ad Emanuele Filiberto e a Margherita di Francia, suoi genitori, la sua imminente nascita, aggiungendo che sarebbe diventato «il più grande condottiero del suo tempo». Il rifugio torinese di Nostradamus era la cascina Morozzo, che poi è andata demolita, e su cui stava una lapide (con data del 1556 e ritrovata non molti anni fa, in circostanze misteriose, dopo decenni che era data per dispersa) dove, in francese antico, si diceva che «ici il y a le paradis, l'enfer, le purgatoire».

 

Papa Francesco e i suoi nonni

 

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La chiesa barocca di Santa Teresa, è stata frequentata, in passato, da una coppia di devoti che hanno dato origine a un personaggio noto oggi nel mondo intero. Dopo la visita in città di papa Francesco nel giugno del 2015, in occasione dell’ostensione della Sindone, la chiesa di Santa Teresa è balzata in cima alla classifica dei luoghi che incuriosiscono i torinesi. Perché papa Bergoglio si è recato proprio in questo edificio religioso? Per rendere omaggio a un luogo fondamentale per il suo percorso, personale prima che religioso, in cui i suoi nonni paterni si giurarono eterno amore durante la cerimonia del loro matrimonio. I nonni si conobbero a Torino e qui si sposarono. Nella prima metà dell’Ottocento uno degli antenati di papa Bergoglio, probabilmente originario della zone che ruotano intorno a Castelnuovo d’Asti, acquistò l’unica dimora abitabile a Portocomaro. Lì nacque Giovanni Angelo, nonno Bergoglio appunto, il 13 agosto del 1884 e nel 1906 decise di trasferirsi a Torino, allontanandosi dalle campagne in un’epoca in cui la città era un forte richiamo per cercare una svolta economica, un riscatto e un’emancipazione di carattere sociale. E fu qui che conobbe Rosa Margherita Vassallo. Anche lei non era torinese di nascita, veniva da una frazione di Cagna, in provincia di Savona, oggi divenuta San Massimo, ed era nata anche lei nel 1884, il 27 febbraio. In realtà la ragazza era giunta in città all’età di otto anni e aveva risieduto dalla zia Rosa, da cui probabilmente aveva ereditato anche il nome: la sua famiglia era numerosa e in quell’epoca non era inusuale chiedere il supporto di altri parenti per crescere la propria prole. Rosa, la nonna Bergoglio, faceva la sarta quando conobbe Giovanni, il futuro marito. Si sposarono il 20 o il 21 agosto del 1907, le fonti sulla data sono imprecise anche se si conosce il numero di atto comunale, ovvero il 191 La chiesa fu quella di Santa Teresa, come già detto, che allora era solo una parrocchia e fu scelta probabilmente perché era proprio lì, in quella zona di Torino in cui i coniugi sarebbero andati a vivere, al numero 12 di via Santa Teresa, mentre la chiesa era collocata e si trova ancora adesso al civico 5. Proprio in quella abitazione nacque Mario Giuseppe Francesco, il padre di papa Francesco, che venne anch’egli battezzato nella chiesa dedicata a santa Teresa il 2 aprile del 1908. Prima del trasferimento in Argentina ci furono altri spostamenti da parte della famiglia Bergoglio, niente di inusuale per quell’epoca di migrazioni, ma appare tutto caratterizzante visto che si parla degli avi di un papa dinamico! Cambiarono più volte casa: abitarono in via Alfieri, in via Arsenale e poi anche in via Garibaldi. Pare che la vita torinese fosse stimolante per i due giovani, soprattutto per la signora Rosa che apprezzava molto l’impatto sulla società dei santi sociali, personalità molto attive sul suolo torinese che con le loro associazioni cattoliche, molte anche di carattere femminile, coinvolgevano i cittadini e le cittadine. Nel 1916 Giovanni venne richiamato alle armi per partecipare alla prima guerra mondiale. La sua visita di leva risale a quando aveva vent’anni, ed era il 28 giugno del 1904. Si hanno notizie ben precise sulla sua fisicità grazie a questi documenti: aveva capelli bruni ricci e gli occhi castani, alto un metro e sessantasei centimetri. Evitò i tre anni di servizio militare obbligatorio per una deficienza toracica, ma quando l’Italia entrò in guerra nel 1915 venne appunto richiamato alle armi. Si conosce anche il suo numero di matricola da soldato: 15.543. Dopo aver combattuto al confine con la Slovenia e aver fatto parte del 9° Reggimento dei Bersaglieri di Asti poté abbandonare il territorio di guerra. Nel 1918 si trasferì proprio ad Asti, fino al 1929, anno in cui la famiglia da Genova si imbarcò sulla nave Giulio Cesare e, dopo una lunga traversata, il 15 febbraio sbarcò a Buenos Aires. Si stabilirono inizialmente a Paraná, capoluogo della provincia di Entre Ríos, lavorando in un’azienda di pavimentazioni. Visto che i fratelli di Giovanni vivevano già in Argentina, passarono i loro primi anni in quella nuova terra a palazzo Bergoglio, un edificio di quattro piani in cui risiedevano quattro famiglie tutte imparentate sotto questo stesso cognome; la loro casa era stata tra le prime di Paraná ad avere un ascensore. Questa azienda, che lavorava i pavimenti ma si occupava anche di lavori stradali, fallì nel 1932 e così i coniugi si trasferirono a Buenos Aires, la città in cui Mario Giuseppe Francesco conobbe Maria Regina Sivori, sua futura moglie. I due convolarono a nozze il 13 dicembre del 1935 e un anno dopo, il 17 dicembre del 1936 nacque il loro primogenito: Jorge Mario, futuro papa Francesco.

 

Wolfgang Amadeus Mozart

 

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Negli anni ’70 il compositore più in voga in Italia è il napoletano Giovanni Paisello, celebre nel genere buffo, a cui il Regio commissiona una delle prime opere serie, l’‘Annibale in Torino’. Nel gennaio del 1771 assistono all’opera Wolfgang Amadeus Mozart e il padre Leopold, che restano estasiati dallo spettacolo e dalla magnificenza del Teatro.

 

Napoleone Bonaparte

 

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Napoleone si riservò come residenza in collina la Villa della Regina, in cui risiedette saltuariamente. Appassionato d’opera, presenziò per tre volte agli spettacoli del Teatro Regio, considerato allora il più bello d’Europa

 

Benedetto Croce

 

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Alcune delle più belle pagine su Torino come luogo favorevole agli studi e alla vita pacata e confortevole che questi esigono, sono state scritte proprio da Croce, questo abruzzese napoletanizzato. Apprezzava talmente la città da aver abdicato, in suo onore, al tenace scapolaggio, alla distrazione nei riguardi delle donne cui, fino ad allora, aveva preferito manoscritti e incunaboli. Sposò, infatti, una torinese, una giovane laureanda che era si era spinta sin sotto il Vesuvio per consultarlo sulla tesi che stava preparando. Ovviamente su di lui, don Benedetto. Invece che una prestigiosa accademica, la "tota" divenne l'intelligente e signorile padrona di casa in quel palazzo Filomarino gonfio di libri sino a minacciare rovina, davanti ai chiostri del «Munasterio 'e Santa Chiara».

Se le altre stagioni erano napoletane, l'intera estate era, per lui, tutta piemontese: per molti anni in Val di Susa, poi nel feudo dei Frassati, a Pollone, nel Biellese. Nella sosta rituale a Torino, non soltanto il pellegrinaggio dai librai antiquari, ma anche lunghe passeggiate sotto quei portici che, diceva sorridendo, «con la loro volta proteggono il pensiero». Ed era grato alla «Stampa» del suo amico giolittiano Frassati per la campagna anti-interventista nel 1915. Racconta la figlia Elena: «A mio padre, di Torino piaceva tutto. I grandi viali e i portici erano il suo ideale di passeggiatore miope e distratto. Gli piacevano i caffè, le abitudini rigide e ordinate della modesta borghesia, la civetteria delle signore, persino la durezza degli inverni. Lo divertivano persino, bonariamente, le manifestazioni di cocciutaggine e di durezza di testa tutte piemontesi. Di Torino era innamorato come di nessun'altra città».

 

L’Esercito della Salvezza a Torino

 

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A Torino, alla fine dell'Ottocento pose la sua sede italiana The Salvation Army, l'Esercito della Salvezza. Una presenza che, pur nel suo piccolo, si radicò e riuscì a superare le repressioni fasciste. Vittorio Messori ricorda, ancora nelle estati degli anni Cinquanta, la loro orchestrina, con i suonatori in berretto a visiera e divisa nera, ricalcata su quella dell'esercito inglese, che suonava davanti alle "terrasses" dei grandi caffè di corso Vittorio, tra Porta Nuova e il Po. Dopo il canto degli inni, l'ufficiale che li comandava faceva un fervorino, a quelli seduti ai tavolini con i gelati e le birre, sulla temperanza e sulle «belle virtù» in generale. Il vangelo inteso come manuale di morale perbenista, da Inghilterra vittoriana. La cosa pareva piacere agli avventori: non solo perché le marcette dai toni militari erano gradevoli, orecchiabili, ma anche perché quella piccola banda in uniformi per noi esotiche dava al corso Vittorio - già denso di folla, illuminato, reso vivo dall'estate - un tocco ulteriore da metropoli europea o addirittura americana.

 

Rousseau

 

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Per Rousseau Torino fu decisiva, qui cambiò confessione, frequentando il collegio per i convertendi, qui soggiornò per oltre un anno, qui - salito all'alba sul colle di Superga - scrisse che il panorama della città nella pianura, sul fiume serpeggiante, era «il più bello spettacolo del mondo».

 

Paracelso

 

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Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, detto Paracelsus, o Paracelso (Einsiedeln, 14 novembre 1493 – Salisburgo, 24 settembre 1541), è stato un medico, alchimista e astrologo svizzero che ha peregrinato in Europa, sostando anche a Torino

 

Giorgio de Chirico

 

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A ventitré anni Giorgio de Chirico, che, provenendo da Roma, nell'estate del 1911, dovette cambiare treno per andare a Parigi e scese a Torino. Non conosceva la città, uscì da Porta Nuova per una visita solitaria di poche ore. Ne nacquero, in lui, conseguenze tali che tutta la sua «pittura metafisica» ne fu segnata. Ricordando l’esperienza scrisse nel 1939: «Torino è la città più profonda, più enigmatica, più inquietante non d'Italia ma del mondo».

 

Lev Tolstoj

 

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Il grande scrittore russo Lev Nikolaevič Tolstoj, prima di diventare l’autore più famoso al mondo, grazie ai romanzi Guerra e pace e Anna Karenina, fa un breve ma intenso viaggio in Piemonte, nel giugno 1857. A Torino conosce il personaggio del momento, Camillo Benso conte di Cavour, e resta così sorpreso dalla brillante vita torinese da scrivere sul suo taccuino: "dovunque si può vivere e bene".

 

Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim

 

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Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim (Colonia, 15 settembre 1486 – Grenoble, 18 febbraio 1535) è stato un alchimista, astrologo, esoterista e filosofo tedesco.

Divenne medico personale di Luisa di Savoia nonché storiografo di Carlo V; ritenuto principe dei maghi neri e degli stregoni, riuscì tuttavia a sfuggire all'Inquisizione. La sua opera più importante, il De occulta philosophia, scritta nell'arco di circa venti anni, dal 1510 al 1530 è un compendio in 3 libri dell’arte magica che divenne la bibbia delle arti oscure e fu messo immediatamente all’Indice dalla Chiesa.

Nel settembre del 1515 venne in Piemonte e soggiornò prima a Casale, alla corte del Marchese del Monferrato, poi nel febbraio del 1517 si recò a Torino dove fu lettore all’Università per poi ripartirne a maggio.

 

Alexandre Dumas padre

 

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Tra le tre varianti del Bicerin, “pur e fior” (simile al cappuccino), “pur e barba” (caffe è cioccolato) e quella con un po’ di caffe, di latte e di cioccolato, Alexandre Dumas, l’autore de “I tre moschettieri”, preferiva di gran lunga quest’ultima e, nel suo soggiorno torinese del 1852 ebbe modo di scoprire le bellezze di Torino e la bontà della storica bevanda sabauda.

Proprio in uno dei suoi scritti, Alexandre Dumas, parlava della sua bevanda preferita in questi termini: “tra le cose belle e buone che ho trovato a Torino, non dimenticherò mai il Bicerin, quell’eccellente bevanda al caffè, latte e cioccolato, che viene servita in tutti i caffè ad un costo relativamente basso”.

Lo scrittore non nascondeva di essere rimasto affascinato da Torino, tanto da dedicarle un romanzo intitolato “il paggio del duca”, ambientato nel 1557 all’epoca di Emanuele Filiberto.

Chi può dire se, per la stesura del romanzo in questione, si sia lasciato ispirare dal sapore di quella bevanda che esisteva solo aTorino ed in nessun’altra parte d’Italia: e lui lo sapeva bene. Da amante del nostro Paese qual era, ed anche grazie all’amicizia che lo legava a Giuseppe Garibaldi, decise di seguire in prima persona la spedizione dei Mille e fu addirittura testimone della battaglia di Calatafimi. In quel periodo era in crociera nel Mediterraneo, ma la interruppe non appena seppe del progetto garibaldino di unire l’Italia sotto la corona Savoia.

 

Quando Einstein incontrò Rol al Turin Palace Hotel

 

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Einstein parlava bene l’italiano, perché per un certo periodo, con la sua famiglia, aveva soggiornato a Milano, dove si era temporaneamente trasferito il padre. Al punto che scrisse ad un matematico italiano con cui corrispondeva: “mi scriva nella sua lingua, che ricordo con nostalgia”. Si racconta (ed è una voce che è stata ripresa in ben due articoli di La Stampa) che Einstein venne a Torino, ed ebbe un incontro con Rol al Turin Palace Hotel, che lo lasciò entusiasta. Si dice che Rol materializzò una rosa sotto i suoi occhi.

 

Quando Torino impazzì per Buffalo Bill

 

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Persino le canzonette popolari recano memoria dell'arrivo a Torino del faraonico spettacolo di Buffalo Bill, un autentico eroe del Far West in quei quarantamila metri quadri che costituivano allora la porzione della piazza d’Armi, risalente al 1872, situata nella zona compresa tra gli attuali corsi Galileo Ferraris e Luigi Einaudi, prossimi alla Crocetta.

Gli spettacoli durarono dal 22 al 26 aprile di quel 1906, quando, da un paio d’anni, Emilio Salgari aveva rinvigorito il mito di Buffalo Bill stabilendo un primato italiano. Aveva cioè inventato sue nuove avventure scrivendo a Torino il romanzo La Sovrana del Campo d’Oro, apparso dapprima a puntate sul settimanale Per Terra e per Mare di Genova nel 1904 e poi in volume nel 1905. Prima di allora tutte le pagine avventurose riferite a Buffalo Bill circolate e lette in Italia erano infatti traduzioni.

Salgari, d’altronde, prima di trasferirsi a Torino, aveva già assistito nell’aprile del 1890 allo spettacolo circense, denominato Wild West Show, avvenuto nell’Arena di Verona, durante la tournée in Europa che Buffalo Bill aveva intrapreso in quell’anno, esibendosi anche a Roma, Napoli, Firenze, Bologna e Milano, per non dire di Parigi.

In quell’occasione non solo Salgari era stato cronista dell’avvenimento veronese quale redattore de L’Arena, scrivendo tre interessanti articoli, ma aveva anche partecipato allo spettacolo — per così dire — salendo (con autorizzazione) sulla vecchia diligenza che, in una esibizione particolarmente attesa dal pubblico, era assalita al galoppo dai pellirosse e difesa dai cowboys. Per la verità le cose erano molto cambiate dal 1890 e non sappiamo se Salgari fu spettatore anche nel 1906.

Buffalo Bill aveva ingigantito lo spettacolo, aggiungendo al grande wild West l’altrettanto grande wild East. Ai numeri western aveva aggiunto quelli con Arabi e Giapponesi. C’erano pure i Messicani dello stato di Montezuma, gli americani di colore del 10° reggimento di cavalleria, i Cosacchi del Caucaso e molto altro. E assistere, ad esempio, alle manovre di guerra antiche e moderne dei Samurai o ai virtuosismi messicani con il laccio, per non dire dei patrioti cubani, dei beduini del Sahara, dei lancieri dell’armata inglese, dei mangiatori di fuoco, degli incantatori di serpenti, dei nani e dei giganti, costituì per forza di cose un’esperienza priva di precedenti, in Italia e non solo.

E così, se le cronache del 1890 dicono di cento pellirosse, cento tra tiratori, cacciatori, cowboys e cavallerizzi, e duecento animali, lo spettacolo torinese annoverò 850 persone (chi dice quasi mille, comprendendo i musicisti e il personale vario) che si avvicendarono in scena, e 500 cavalli. I giornali torinesi precisarono che i pasti quotidiani per tutto il personale consistevano in 2.000 uova, cinque quintali di carne, dieci quintali di pane, 300 litri di latte e quattro quintali di patate.

Uno spettacolo di tali dimensioni doveva usufruire di pubblicità altrettanto ingombrante. Il Municipio concesse, in via straordinaria, l’utilizzo di enormi “steccati rèclame” in legno, lunghi sino a venti metri e alti tre per le più importanti piazze torinesi: piazza Emanuele Filiberto, piazza Statuto, piazza San Carlo, piazza Castello e piazza Vittorio Emanuele. L’installazione ebbe inizio il 24 marzo, ossia con un mese di anticipo

In compenso gli spettacoli torinesi ebbero successo e sicuramente Buffalo Bill e il suo impresario incassarono molto più delle settecentosessanta lire che avevano dovuto sborsare alla cassa comunale di Torino per tasse varie, ivi compresa quella di indennizzo d’erba e ripristino del suolo.

Gli incassi comprendevano anche semplici visite al campo nonché la vendita di un libretto di 80 pagine (a 50 centesimi), molto illustrato, redatto da John M. Burke in tutte le lingue (compreso l’italiano) in cui erano narrate le imprese storiche e circensi di Cody e di un numero incredibile di cartoline postali, oggetto ancora oggi di dispendioso collezionismo.

 

Walt Disney

 

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Vedi l’articolo “Italia ’61 e la visita di Walt Disney a Torino”

 

L’orma del Vate a Torino: dal tramezzino alle Notti di Cabiria

 

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Vedi la sezione “Cinema e radio-televisione a Torino”

 

Faust a Torino. Da Agrippa von Nettesheim a Cagliostro, tutte le figure dell’occulto che la città ospitò

 

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Se Torino, che prima di essere designata come capitale Sabauda nel 1563 era un centro abitato di dimensioni molto ridotte, chiuso nelle mura romane con pochi sparsi borghi nelle vicinanze e appartata rispetto a tante altre città d’Europa è stata meta di pellegrinaggio di tanti personaggi legati alla storia della magia, forse qualcosa di vero c’è nel pensare che la città abbia qualcosa di misterioso e soprannaturale. Il primo a visitare Torino fu Paracelso, alchimista, principe degli iatrochimici e profeta della riforma del mondo, che aveva studiato occultismo sotto il famigerato Abate Tritemio. Poi arrivò nientedimeno Enrico Cornelio Agrippa di Nettesheim, l’autore dell’opera proibita Della Filosofia Occulta o la Magia, una summa della magia naturale, della cabala, della magia cerimoniale e dei riti e sigilli per invocare entità soprannaturali. Il suo libro fu messo subito all’Indice dalla Chiesa, e le copie stampate sparirono dalla circolazione dovunque l’Inquisizione arrivava con la sua mano. Christopher Marlowe, nel suo celebre dramma teatrale La tragica storia del Dottor Faustus paragona Faust ad Agrippa. Si dice che il demonio lo seguisse sotto forma di un cane nero e che nel momento in cui la sua vita finì, probabilmente a Lione, solo e povero, il cane comparve un’ultima volta per portarlo all’inferno.

Agrippa era venuto nel 1515 a Casale, alla corte di Guglielmo IX, Marchese del Monferrato. Passò nel febbraio 1517 a Torino, ove fu lettore di teologia all’Università per poi lasciare la città a maggio. Molti biografi sospettano che alla Corte di Casale fossero coltivati studi esoterici e occultistici e che gli spostamenti del famoso mago in Italia, Francia e in Germania fossero la mappa di una rete di iniziati che coltivavano le arti proibite.

Cagliostro, avventuriero, alchimista e studioso dell’occulto, aveva già fondato la sua Massoneria di rito egizio, di cui si era proclamato Gran Cofto, quando nel luglio del 1788 arrivò a Torino dalla Svizzera insieme alla moglie Lorenza, ma la sua fama spaventa le autorità e viene immediatamente espulso.

Il Conte di Saint Germain, la cui vera identità è avvolta nel mistero, musicista sublime, cortigiano raffinato, che racontava amabilmente alle signore della sua vita immortale e delle sue conversazioni con il Faraone, era noto in tutte le corti d’Europa e fu anche ricevuto in quella di Torino, dove come altrove dovette suscitare una curiosità insaziabile.

Infine, si dice che Torino abbia visto aggirarsi per le sue vie il più enigmatico e famoso degli alchimisti moderni, Fulcanelli, il cui nome allude alle due parole “Vulcano” e “Helios”, due elementi che rimandano ai fuochi alchemici. Di lui non si sa nulla, tranne che è l’autore di due celebri testi di alchimia: Il mistero delle cattedrali e Le dimore filosofali, in cui rivela i simboli alchemici presenti nelle architetture delle antiche cattedrali gotiche e in palazzi fatti erigere da iniziati che vi nascosero il segreto della Grande Opera. La fama di Fulcanelli ha raggiunto ogni continente e i suoi libri sono stati venduti in milioni di copie. Sicuramente l'alone di mistero che avvolge questa figura del secolo scorso ha contribuito a fomentare l'interesse verso il filosofo. E a Torino forse egli ha sostato per scrivere le sue opere.

 

Un triangolo della morte a Torino: dove Nietzsche, Pavese e Salgari incontrarono il loro destino

 

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“Cantami un inno nuovo: il mondo è trasfigurato e tutti i Cieli esultano”: è l’ultimo messaggio di Nietzsche dalla sua stanza che dava su Piazza Carlo Alberto, prima di essere trascinato nel reparto furiosi di un manicomio, firmato “il croficisso” ovvero il “rex taurinorum”, come si credeva nel suo delirio.

C’è a Torino una zona che forma un triangolo equilatero i cui lati, partendo dalla piazza Rivoli, corrono per corso Francia sino a piazza Statuto, e da lì seguono Inghilterra sino a corso Vittorio Emanuele, e che risalivano a completare il triangolo, appunto in piazza Rivoli. Il più lungo dei lati misura quasi due chilometri. Dentro il perimetro c'era il grande mattatoio e il quartiere "Cit Turin", la Piccola Torino, con strade come via Susa e via Avigliana.Ebbene, in questo triangolo, Lucentini si è suicidato e Pavese e Salgari e Primo Levi pure e Nietzsche è diventato pazzo furioso, mentre a Gobineau è venuto l'infarto mortale. Sono solo coincidenze o qualcosa di oscuro si annida in quella zona?

 

Lizst a Torino per suonare l’Arpa di Davide

 

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Arpa di Davide, l’Immortale, Pianoforte di Siena o Pianoforte del Re è il soprannome che fu dato a un particolare pianoforte, realizzato a Torino e ritenuto unico al mondo per le sue caratteristiche costruttive e sonore.

La sua storia è avvolta da un’aura di mistero e ha inizio tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX secolo. A quell’epoca si stabilì a Torino la famiglia Marchisio, una dinastia formata da musicisti e compositori, nonché da inventori di apparecchi relativi all’ambito musicale. La Casa Fratelli Marchisio Negozianti e Fabbricanti di Pianoforti fu fondata ufficialmente nel 1830 e nella seconda metà dell’Ottocento ebbe sede in via Rossini e in piazza Vittorio Veneto. Negli ultimi anni del XVIII secolo Sebastiano Marchisio si mise in testa di costruire uno strumento unico al mondo, che fondesse insieme le sonorità poco dinamiche del clavicembalo con quelle più potenti del pianoforte. Si buttò a capofitto nell’impresa e, lavorando notte e giorno, riuscì a mettere a punto una cassa e una tavola armonica perfette. Il prodotto finale, terminato dai discendenti dopo la sua morte, fu un pianoforte verticale a corde oblique, al cui interno un particolare telaio rinforzato in ferro (brevettato nel 1866) conferiva solidità e sonorità. Il suono emesso era straordinario e senza precedenti. Vari musicisti concordarono nell’affermare come il suono mutasse a seconda delle melodie, tanto da assomigliare a quello di un’arpa, di un liuto o di un violino.

Si iniziò a mormorare che Sebastiano Marchisio avesse realizzato la tavola armonica usando il legno miracoloso proveniente nientemeno che dal tempio del re Salomone, distrutto nel 70 d.C. dalle truppe del generale Tito.

Il pianoforte giunse poi a Siena, dove lo scultore Nicodemo Ferri, imparentato con i Marchisio impreziosì la cassa con un involucro degno della fantomatica origine biblica: ricchi intagli raffiguranti una moltitudine di arabeschi, animali fantastici, puttini, strumenti musicali, nonché i ritratti di Händel, Mozart, Aretino, Cherubini e Gluck. Il pianoforte venne posizionato nella cattedrale di Siena e furono molti gli artisti che lo vollero provare.

Nel 1867 il pianoforte di Siena fu presentato all’Esposizione Universale di Parigi, dove fu suonato dal pianista Camille Saint-Saëns. In quell’occasione fu soprattutto la cassa decorata a riscuotere l’interesse di pubblico e critica. Nel 1868 il pianoforte venne regalato dalla municipalità di Siena e regalato a Umberto di Savoia e alla cugina Margherita.

E fu proprio in occasione delle loro nozze celebrate nel Duomo di Torino il 22 aprile di quell’anno, che Franz Liszt fu chiamato a suonare la sua opera La campanella durante la cerimonia di presentazione del dono ai principi e definì “divino” il suono dello strumento. Diventato di proprietà dei Savoia, il pianoforte di Siena venne conservato tra la Villa Reale di Monza e il Quirinale di Roma. Fu protagonista di svariati concerti e spesso era la stessa Margherita, abile musicista dilettante, a suonarlo.

La leggenda narra che il piano sarebbe sparito dalla Villa Reale durante la seconda guerra mondiale, probabilmente trafugato dai nazisti. Da allora se ne perse ogni traccia. Nei primi anni ’50 il pianoforte del re fece la sua ricomparsa nelle mani di Avner Carmi, un restauratore e accordatore di pianoforti israeliano, autore del curioso libro The immortal piano, pubblicato nel 1960. Nel suo libro autobiografico Avner Carmi racconta in modo molto fantasioso e romanzesco la storia della fabbricazione del pianoforte da parte della dinastia Marchisio e il modo in cui lui ne venne in possesso.

 

fonti:

[https://rivistasavej.it/il-segreto-del-pianoforte-di-siena-c718ce5fbe27]

 

Alessandro Tassoni e l’arrivo dei salami modenesi a Torino

 

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Il maggior poeta modenese, Alessandro Tassoni, passa proprio a Torino - invitato dai Savoia stessi - uno dei periodi più fecondi, che lasceranno una traccia profonda. Forse, non soltanto libresca. Una cronaca dell'arrivo del Tassoni nella città che gli era ancora sconosciuta racconta che dal soffitto della carrozza inviatagli dai Savoia per prelevarlo a Modena, pendevano prosciutti, coppe, mortadelle, pancette, zamponi.

Il poeta era stato avvertito che, quanto a salumi - di cui era, ovviamente, golosissimo - i piemontesi non valevano granché. Meglio, dunque, portarsi una scorta dall'Emilia. C'è chi dice, ma su questo non posso giurarci, che proprio da quell'arrivo sarebbe derivato un salto di qualità degli insaccati subalpini. Il Tassoni, infatti, avrebbe provveduto a ulteriori arrivi dalla sua terra, per farne omaggio agli aristocratici della corte.

Questi, deliziati da sapori per loro inediti, avrebbero chiesto ai contadini delle loro fattorie di studiare e, se possibile, imitare quelle specialità esotiche. Io, i salumi piemontesi li ho sempre trovati eccellenti. E se fosse un'eccellenza che deve almeno qualcosa agli emiliani, li apprezzerei con ancora maggiore gusto.

 

TORINESI FAMOSI

 

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La lista dei torinesi insigni è lunga, e comprende nomi della politica, della cultura e dell’arte. Ne diamo qui una lista incompleta:

 

Vittorio Amedeo II

Pietro Micca

Camillo Benso, Conte di Cavour

Carlo Alberto

Vittorio Emanuele II

Massimo D’Azeglio

Luigi Einaudi

Piero Gobetti

Vittorio Alfieri

Guido Gozzano

Cesare Pavese

Alessandro Baricco

Primo Levi

Guarino Guarini

Filippo Juvarra

Giuseppe Cafasso

Benedetto Giuseppe Cottolengo

Leonardo Murialdo

 

Benedetto Alfieri

Giovanni Agnelli Senior

Giovanni Agnelli Junior

Umberto Agnelli

Carolina Invernizio

Joseph de Maistre

Joseph-Louis Lagrange

Giovanni Arpino

Guido Ceronetti

Gustavo Adolfo Rol

Ernesto Schiaparelli

Vitaliano Donati

Bernardino Drovetti

Emilio Salgari

Cesare Lombroso

Luigi Orione

Francesco Faà di Bruno

Pier Giorgio Frassati

 

Mike Bongiorno

Piero Angela

Francesco Cirio

Bartolomeo Bosco (prestigiatore)

Alessandro Cruto

Galileo Ferraris

Nuto Revelli

Bruno Gambarotta

Maria Mazzarello

Don Giovanni Cocchi

Giuseppe Allamano

Vittorio Messori

Giovanni Garberoglio

Sebastiano Valfré

Giovanni Bosco

Riccardo Gualino

Luigi Lavazza

Luigi Ciotti

 

Carolina Invernizio

 

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Carolina Maria Margarita Invernizio nacque a Voghera nel 1851, da Anna Tattoni e Ferdinando Invernizio, funzionario delle Imposte. A lungo le fonti riportarono come sua data di nascita - da lei stessa accreditata - il 1858[2]. Nel 1865 la famiglia si trasferì a Firenze, divenuta la nuova capitale del Regno d'Italia. Qui Carolina frequentò l'Istituto Tecnico Magistrale, rischiando l'espulsione dopo la pubblicazione di un suo racconto sul giornale della scuola.

Con il ritorno del marito nel 1896 dalla guerra di Abissinia, la scrittrice si trasferì prima a Torino e poi, nel 1914, a Cuneo, dove aprì il suo salotto di via Barbaroux a intellettuali e a personaggi della cultura.

L'esordio letterario avvenne nel 1876 con la novella Un autore drammatico, pubblicata dall'editore Barbini di Milano. Nel 1877 uscì il primo romanzo, Rina o L'angelo delle Alpi, pubblicato dall'editore fiorentino Salani e nel 1879, ancora per Barbini, Pia de' Tolomei.

Ne seguirono molti altri, pubblicati a puntate su giornali quotidiani come l'Opinione Nazionale di Firenze o La Gazzetta di Torino.

Nel 1907 si legò in esclusiva all'editore Salani, per il quale scrisse, in una carriera durata quarant'anni, 123 libri, molti dei quali col sottotitolo "romanzo storico sociale",

 

Amedeo Avogadro

 

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Lorenzo Romano Amedeo Carlo Avogadro, conte di Quaregna e Cerreto (Torino, 9 agosto 1776 – Torino, 9 luglio 1856), è stato un chimico e fisico torinese. È famoso soprattutto per i suoi contributi alla teoria molecolare, culminata nella legge conosciuta come "Legge di Avogadro".

 

Alessandro Baricco

 

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Vedi “La Torino del Libro”

 

Joseph de Maistre

 

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Joseph-Marie de Maistre (Chambéry, 1º aprile 1753 – Torino, 26 febbraio 1821) fu un filosofo, politico, diplomatico, scrittore, magistrato e giurista savoiardo di lingua francese[1], tra i più noti pensatori reazionari del periodo post-rivoluzionario.

Ambasciatore del re Vittorio Emanuele I presso la corte dello zar Alessandro I dal 1803 al 1817, poi da tale data fino alla morte ministro reggente la Gran Cancelleria del Regno di Sardegna, de Maistre fu tra i portavoce più eminenti del movimento controrivoluzionario che fece seguito alla Rivoluzione francese e ai rivolgimenti politici in atto dopo il 1789.

Propugnatore dell'immediato ripristino della monarchia ereditaria in Francia, in quanto istituzione ispirata per via divina, e assertore della suprema autorità papale sia nelle questioni religiose che in quelle politiche, de Maistre fu anche tra i teorici più intransigenti della Restaurazione.

 

Gustavo Adolfo Rol

 

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Sensitivo di rilevanza mondiale, sbalordiva per i suoi “giochi” ad effetto, per la carte che maneggiava in modo spettacolare, come i pennelli, che proiettava sul tele vergini componendo paesaggi sullo stile di questo o quel grande maestro dell’arte da cui poteva, di volta in volta, dirsi ispirato. Rol scomparve il 22 settembre 1995 lasciando sulla propria scia una impressionante documentazione di volumi, articoli, saggi, in tutte le lingue,che ne rievocavano le facoltà, del tutto inspiegabili sul piano razionale.

Non mancarono polemiche ricordando come Rol non avesse mai accettato di sottoporsi a “esami” e a “verifiche” che in più occasioni gli furono sollecitate e che non lo interessarono mai.

Con il passare degli anni. Gustavo Adolfo Rol aveva visto ingigantirsi la propria “leggenda”, anche per la sua arte di negarsi, di non esibirsi mai in pubblico, se non in una cerchia ristretta, di non avere mai, di proposito, affrontato la televisione, lasciando che di lui raccontassero, anche con evidenti esagerazioni. Così per l’impresa, che gli era attribuita, di poter passare attraverso i muri, di farsi piccolissimo come un nanerottolo, di proiettarsi in un luogo assai distante, per una sorta di ubiquità riservata a pochi santi. Quando ne sentiva riferire, non accennava che un impercettibile sorriso, senza commenti. Era già vissuto in altre epoche? Era stato con Bonaparte in vittoriose battaglie?

La faccenda di Napoleone non potè mai essere appurata, analizzata come qualcuno avrebbe voluto. Rol di Napoleone sapeva tutto, “sentiva” Napoleone, ne conservava alcuni cimeli, lo amava. Era come se captasse l’immagine deli'ernpereur sfiorando a Parigi nella vetrinetta degli “Invalidi”, la sua redingote grigia. indossata sui campi di battaglia. Per Rol, Napoleone era sempre presente, gli dava un'ebbrezza difficile a esprimere in parole, da Austerlitz a Waterloo, e anche oltre, sino al crepuscolo. Napoleone appartiene al mistero Rol, ne è una delle componenti.

Alcuni personaggi celebri, dopo pochi momenti di conversazione, orientando il discorso su Torino, parlavano di Rol. Così Salvador Dali, la signora Eimaudi, consorte del presidente della Repubblica Luigi Einaudi, l’ultima regina d’Italia, Maria José. De Sica, Walt Disney, il grande predicatore padre Lombardi, il pittore Annigoni, l’artista che produsse i ritratti della regina Elisabetta e di altri membri della famiglia reale britannica. Rol, o di persona o con i riflessi della sua fama, li incantava.

Nella leggenda di questo gentiluomo c’è di tutto, da Merle Oberon. cui predisse la tragica fine del conte Cini, a Federico Fellini. al punto che, dopo la scomparsa di Rol, «La Stampa» lo chiamò in un titolo “il mago di Fellini”. C’era naturalmente Giulietta Masina, e qualcuno gli attribuisce incontri con Mussolini, Pio XII, Pitigrilli, che gli fu amico, e tante altre celebrità. Non negava, non confermava, sempre riservato, discreto, dandoti la sensazione che la cosa più diffìcile di questo mondo fosse di riuscire a farlo ridere.

Dino Buzzati, che ne rimase affascinato, sempre pronto a cogliere aspetti e personaggi di una Torino spesso definita “magica”, ebbe a riferire, dopo un incontro con Rol, la frase che più lo aveva toccalo:

«Non sono un mago. Non credo nella magia. Tutto quello che io sono e faccio viene di là [e intendeva il cielo]; noi tutti siamo una parte di Dio [...] e a chi mi domanda perché faccio certi esperimenti rispondo: “Li faccio proprio a confermare la presenza di Dio”».

Dio era il punto di riferimento di Rol, il cardine di tutto, l'inizio e la fine di una sciarada che per Rol durò novantun'anni. Forse, sembra, da qualche parte aveva scritto il momento della sua fine terrena, l’anno, mese e giorno, forse anche l’ora.

 

Giovanni Agnelli Senior

 

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Vedi “Torino città dell’automobile”

 

Emilio Salgari

 

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Lo scrittore, nato a Verona nel 1863, morto a Torino nel 1911, si integrò subito a Torino, dove si sentì d’impulso portato a inventare avventure incredibili, schiavo della penna soprattutto per necessità, angosciato di non poter sopperire, nonostante il tanto lavorare, alle quotidiane necessità della famiglia. Abitò in corso Casale 205, dov’è ricordato da una lapide. Salgari non si diplomò mai capitano di lungo corso, come vuole la leggenda da lui stesso alimentata. Studiò per due anni da ragioniere e per altri due frequentò la scuola navale di Venezia, ma solo come “uditore” e cioè senza sostenere alcun esame.

Non compì mai lunghe traversate marine; caso mai salì su un bragozzo o su un piroscafo, ma è certo comunque che il viaggio più lungo lo fece attraversando l'Adriatico, a proprie spese.

Il meraviglioso resto, con le foreste, le caverne con i selvaggi famelici, i ghiacci del Polo, lo sognò e lo descrisse a partire dal primo racconto Giorgio Schestakojf, ovvero un esiliato fuggito dalla Siberia, romanzo del 1878 illustrato da Salgari stesso con incisioni minute, sottili, tracciate a penna, di mano in mano che il racconto si sviluppava.

Nel 1883 la «Nuova Arena» di Verona cominciò a pubblicare a puntate Tay-Sec, romanzo breve più tardi elaborato e stampato in volume con il titolo La rosa del Dong- Giang. Scattò allora la popolarità di Salgari.

Gli editori si arricchivano e l’autore era sempre in miseria, chino sul suo scrittoio, in quella casa di corso Casale in cui, come un giorno disse, in amaro sfogo, era «ai lavori forzati», tra mappe e cartine geografiche, all’affannosa ricerca di nuovi intrecci. Produceva, fumava, beveva, si logorava.

A volte, per salvarsi dalle clausole-capestro impostegli dagli editori, firmava con pseudonimi come Altieri, Bettolini, Landucci e Romero.

Nacquero il corsaro Rosso, quello Verde, quello Nero, con la figlia Jolanda, i filibustieri, gli arrembaggi; sorse il ciclo della giungla con le Tigri di Mompracen, i bramini, gli incantesimi dell'india, arrivarono Sandokan, Janez e Tremal- Naìk.

Una impressionante catena di sciagure si abbatterono su Salgari, sulla moglie e sui quattro figli. Davanti a questo scrittore così fervido, fantasioso, valoroso e sfortunato, si prova un senso di angoscioso rimpianto.

Prima di darsi la morte nel verde della collina torinese, lasciò quella lettera disperata che fu anche il suo testamento: «Miei cari figli, sono ormai un vinto. La pazzia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni dei miei ammiratori che per tanti anni ho divertiti e istruiti provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di 600 lire che incasserete dalla signora Nusshammer. Vi accludo qui il suo indirizzo. Fatemi seppellire per carità, essendo completamente rovinato. Mantenetevi buoni e onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre. Vi bacia tutti, con il cuore sanguinante, il vostro disgraziato padre».

Salgari produsse 130 racconti. 85 romanzi d’avventura, scrisse per giornali, periodici, rivelando in più occasioni amore per la città in cui visse e che gli ha dedicato una via in zona Regio Parco.

 

Cesare Lombroso

 

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Celebre psichiatra e antropologo (Verona 1836-Torino 1909), docente di medicina legale all’università di Torino, dove insegnò psichiatria e antropologia criminale; gettò le basi di un campo di studio rivoluzionario, quello dell’antropologia criminale.

Abitò a Torino in via Legnano 26, considerato scienziato di fama e, pure, personaggio eclettico fuor del comune, attratto da qualsiasi nuova esperienza, come quando, da consumato scettico, si gettò a studiare i primi fenomeni del nascente spiritismo (v. anche Spiritismo).

Lombroso aveva cominciato assai giovane a guardarsi intorno e a studiare i tipi. Quel certo modo di camminare, di muovere le braccia nell'incedere, le mani corte, tozze, le mascelle mal disposte e sproporzionate rispetto al resto della faccia, lo convincevano di trovarsi in presenza di un potenziale criminale.

Non per nulla molti, che pur con la giustizia non avevano mai avuto a che fare, lo guardavano con timore. In via Po, al numero 18, Lombroso, docente di medicina legale, si installò nei due locali del convento di San Francesco da Paola, edificio del Seicento che subito gli piacque e gli parve l’ideale. Quella sede divenne una specie di “centrale operativa” delle sue ricerche sul crimine.

 

Mike Bongiorno, nobile piemontese per parte di madre, che studiò al Liceo D’Azeglio di Torino

 

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Mike Bongiorno, all'anagrafe Michael Nicholas Salvatore Bongiorno (New York, 26 maggio 1924 – Monte Carlo, 8 settembre 2009), era figlio della torinese Enrica Carello (1894–1991) e di Philip Bongiorno (1890–1971).

Il nonno paterno, Michelangelo Bongiorno, di origini nobili (il capostipite della famiglia, Landro Bongiorno, vissuto nel XIII secolo era alla corte del re Manfredi di Sicilia con l'appellativo di Gran Scopatore di Corte, ossia maggiordomo personale del re), era emigrato da Mezzojuso in Sicilia, dove aveva una bottega.

Suo padre fu un noto avvocato[6] che intraprese anche una positiva carriera politica arrivando a diventare presidente della potente associazione Sons of Italy in America (Figli d'Italia in America) e a candidarsi a sindaco di New York avendo come avversari Fiorello La Guardia e Generoso Pope.

La madre, ultima di dodici figli, apparteneva alla borghesia torinese, in quanto la sua famiglia era proprietaria di una fabbrica produttrice di fanali per auto, fondata nel 1876.

Quando era ancora un bambino Mickey - come era chiamato allora - a seguito della separazione dei genitori e della crisi del 1929, venne in Italia a Torino con la madre, andando a vivere a casa degli zii Giuseppina Carello, sorella della madre, e Nicolò Oneto di San Lorenzo - generale di origini nobili amatissimo da Mike, che in onore dello zio acquisito chiamerà Nicolò il suo secondogenito. A Torino frequentò le scuole elementari, il ginnasio e i licei classici D'Azeglio e Rosmini.

Fin da giovane entrò nel giornalismo e cominciò a lavorare per le pagine sportive de La Stampa come «galoppino».

Durante la seconda guerra mondiale, dopo l'invasione tedesca dell'Italia, decise di entrare a far parte dei gruppi partigiani e, grazie alla sua conoscenza dell'inglese, fu impiegato in un'importante e pericolosa "staffetta", per cui doveva attraversare nel periodo invernale i contrafforti alpini innevati per portare in Svizzera, per conto della Resistenza, dei messaggi che permettevano le comunicazioni fra i partigiani italiani e gli Alleati di stanza nel Paese elvetico.

Nel corso di una di queste operazioni, a seguito di una delazione, fu scoperto nell'aprile 1944 a Cravegna, in provincia di Novara (dal 1992 passata alla provincia del Verbano-Cusio-Ossola), catturato dalla Gestapo e messo al muro insieme ad alcuni altri partigiani per essere fucilato, ma si salvò perché gli agenti tedeschi ritrovarono un pacchetto che lui aveva poco prima buttato, contenente il suo passaporto americano.

Tornò a New York, dove riprese il giornalismo. Dal 1946 lavorò presso la sede radiofonica del quotidiano Il progresso italo-americano di Generoso Pope, per il quale condusse il programma Voci e volti dall'Italia, e incominciò a fare servizi dall'America per l'EIAR, diventata Rai dal 1944

Tornò in Italia, nel 1952, inviato di WOV - seconda stazione radiofonica italoamericana di New York, e fu Vittorio Veltroni, funzionario della Rai, a scegliere Mike per offrirgli un contratto di collaborazione per il Radiogiornale, per cui realizzò servizi di colore e radiocronache sportive, soprattutto di pugilato. Fu il primo in Italia a intervistare il presidente degli Stati Uniti d'America Eisenhower.

Nel 1955/1956, presentò alla radio il programma a quiz Il motivo in maschera, e tra il 1967 e il 1970, condusse Ferma la musica!, trasmissione radiofonica serale.

Il 19 novembre, lanciò il primo quiz della televisione italiana, Lascia o raddoppia?, versione italiana del quiz americano The $64,000 Question, contribuendo a far entrare il nuovo mezzo di comunicazione di massa nella cultura popolare di una nazione che, all'indomani della seconda guerra mondiale, stava subendo forti e radicali mutamenti.

 

Un “certificato di genialità” conferito… dallo Zar: il grande prestigiatore dimenticato Bartolomeo Bosco

 

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Esistono i certificati di genialità? Pirandello ci ha rivelato che esistono le patenti di iettatore, ma quelle di genio? Evidentemente sì, o almeno esistevano. Uno ne concesse con molti salamelecchi lo Zar ad un Torinese. Per meriti artistici? Per meriti scientifici? Per meriti umanitari? Niente di tutto questo: per meriti nientedimeno... prestidigitatori. Sì, perché uno dei più grandi prestigiatori di tutti i tempi, presso la cui tomba venne in pellegrinaggio anche il leggendario Houdini, è nato a Torino.

Lo Zar Nel 1823, lo zar Alessandro gli conferì a Pietroburgo, un diploma speciale di “Uomo di genio” e nel 1842 il suo successore Nicola I gli fece rendere gli onori dovuti ai più grandi personaggi. Nel 1832 fu a Berlino, ospite del re di Prussia che gli rilasciò un attestato di benemerenza. A Vienna l’imperatore d’Austria, dopo averlo ricevuto per una serie di esibizioni nel suo palazzo, gli inviò un superbo regalo. I reali di Danimarca lo ricevettero in forma privata nel loro castello di Frederiksborg; a Costantinopoli il sultano, dopo averlo colmato di doni e onorificenze, gli concesse di costruirsi un teatro a Pera e di intitolarlo a se stesso. Non mancò di esibirsi anche nella sua città natale alla presenza dei Savoia e nel 1852 venne chiamato a dare una rappresentazione alle Tuileries, davanti a Napoleone III, l’imperatrice e tutta la loro Corte.

Casa Bosco era situata nel quartiere di Sant’Ottavio, nelle vicinanze del Caffè di famiglia, ricordato da Luigi Gramegna nel suo postumo romanzo storico I tre paletti (1933), ambientato nel 1812 e dedicato al reggimento piemontese che in quell’anno combatté in quella campagna di Russia che, secondo molti storici, ha segnato l’inizio del declino di Napoleone. Gramegna, l’emulo piemontese di Dumas, ha scritto che nel 1812 il locale dei Bosco aveva cambiato nome in “Caffè Catlin-a”, perché la signora Bosco era diventata vedova nel 1800 e si era intestata l’esercizio con il secondo nome, visto che Cecilia, presumibilmente, non piaceva né a lei né agli avventori.

Il gioco per il quale Bosco è stato a lungo ritenuto il migliore in assoluto è quello, antichissimo, dei bussolotti, che lui però realizzava con tecniche nuove e sbalorditive. Si tratta del noto gioco, tratto dalle esibizioni di guitti e giocolieri da strada, che consiste nel nascondere una pallina sotto una delle tre tazze capovolte disposte sul tavolo, e poi mischiare le tazze così da rendere difficile capire dove si trova la pallina. In realtà è sempre impossibile indovinare (a meno che non sia voluto dal giocoliere) perché esistono mille trucchi per ingannare l’osservatore e perciò il gioco è sleale.

Quando si tratta di spettacolo, e non di truffa da piazza (o vicolo), è tuttavia sempre un bel vedere, perché sembra non esista più alcuna legge naturale. Bosco usava addirittura cinque tazze (o bussolotti) e alcune palline, in un vorticoso movimento che ha meravigliato e confuso persino suoi esperti colleghi. Va peraltro detto che, oltre alla destrezza manuale, Bosco usava due (su cinque) bussolotti truccati. Uno che tratteneva le palline e l’altro che le rilasciava da un fondo segreto.

Ma il suo repertorio era inesauribile, e comprendeva, fra i più spettacolari, il numero in cui un plotone di soldati fucila il mago che ne esce indenne perché i proiettili gli cadono ai piedi senza toccarlo oppure il numero dei piccioni decapitati, uno nero e un bianco, poi resuscitati, l’uno con la testa dell’altro. E sparizioni, distruzione di oggetti che ricompaiono intatti, altri che si trasformano in tutt’altre cose; penne che scrivono da sole; fazzoletti che spariscono da un’urna e ricompaiono all’interno di una candela accesa; semi annaffiati in un vaso che diventano subito fiori e che si moltiplicano in modo da essere gettati a pioggia agli spettatori, e ogni altra diavoleria che sia possibile immaginare.

 

Francesco Cirio

 

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È ancora considerato il re, soprattutto “il padre” dell’industria conserviera, nato in Piemonte, a Nizza Monferrato, anche se sono numerosi coloro che, non si sa bene perché, lo ritengono di origine meridionale. Venne al mondo il giorno di Natale del 1836. Figlio d’un mediatore di granaglie, a 14 anni cominciò a lavorare come operaio alla posa del cavo sottomarino fra Genova e la Sardegna. Era il 1850. Finita quell’impresa, s’incamminò per la strada che doveva portarlo a essere il primo industriale conserviero. Il suo lavoro fu quello umile del venditore ambulante di frutta e verdura che acquistava all’alba al mercato ortofrutticolo di Porta Palazzo, a Torino, per poi rivenderle in periferia. La grande occasione si presentò nel 1853 quando entrò in rapporti di affari con una ditta che esercitava il mercato all’ingrosso. Accettò l’offerta di lavorare nelle ore che gli lasciava libero il commercio ambulante, che del resto gli aveva permesso di mantenere genitori e fratelli e di mettere da parte un modesto gruzzolo. Nel 1856, fondò l’industria conserviera e aprì a Torino il primo stabilimento a cui ne seguirono altri nel meridione. La “Cirio S.p.A.” si affermò con rapidità impiegando migliaia di lavoratori.

Cirio morì nel 1900 mentre la sua “intuizione” si diffondeva per il mondo.

 

Fred Buscaglione

 

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Sigaretta in una mano, sguardo da duro e smorfia da gangster su un elegante vestito arricchito da un papillon nero: Fred Buscaglione, il profeta dello swing italiano, è entrato nella storia musicale italiana con la sua immagine da Chicago anni ’20, una città fatta di “bambole” accompagnate da uomini “dal whisky facile”.

Ma Buscaglione non era solo questo: quel torinese che da giovane tutti chiamavano Nando ‘d Piassa Cavour era prima di tutto un grande musicista, un vero e proprio appassionato delle sette note in grado di suonare non solo il violino, del quale era un vero e proprio maestro, ma anche tromba, sassofono e fisarmonica.

la musica nel sangue

La sua storia inizia a Torino il 23 novembre 1921: Ferdinando (questo il suo vero nome) Buscaglione è figlio di Mattia, originario di Graglia (Biella), che nel capoluogo piemontese dasia el bianc (verniciava) a ringhiere e infissi, e di Ernesta Poggio, che invece si occupava della portineria di via Cavour 3, dove la famiglia viveva assieme a Maria Teresa, secondogenita e tre anni più giovane di Ferdinando.

Sin dall’inizio in casa Buscaglione la musica non mancava mai: la madre Ernesta, infatti, diplomata in pianoforte, dava occasionalmente lezioni di musica, mentre il padre da giovane aveva suonato la fisarmonica e la chitarra alle feste con gli amici. Così, accompagnato da un’aria di Puccini e una fuga di Bach, il piccolo Ferdinando respirò a pieni polmoni la passione per le sette note: tra una partita di pallone e l’altra nei giardini di piazza Cavour, il futuro Fred si trovò ben presto a frequentare lezioni di violino e poi, nel 1933, a quasi 12 anni, a fare il suo ingresso come studente nel conservatorio “Giuseppe Verdi” di piazza Bodoni.

musicista… nonostante tutto

Le lezioni di armonia, composizione e storia della musica non erano però molto nelle corde del giovane Buscaglione che sentiva scorrere nel sangue la febbre del jazz e dello swing e sognava la New York dove nei club i musicisti erano liberi di esprimere la loro creatività e dare vita a nottate infuocate dove la musica era la regina assoluta.

Nel 1936, inoltre, la famiglia Buscaglione si allargò con la nascita di Umberto e il Conservatorio divenne una spesa in più che non ci si poteva permettere. Fu così che Ferdinando salutò le aule del Conservatorio: ancora non lo sapeva, ma gli insegnamenti appresi al Bodoni, anche se non sempre graditi, gli sarebbero state molto utili in futuro. Prima però bisognava darsi da fare e portare a casa un po’ di soldi per aiutare la famiglia: fattorino in un negozio di casalinghi, pellettiere, apprendista odontotecnico in uno studio di San Salvario e imbianchino insieme al padre. La voglia di lavorare non gli mancava di certo, ma nel suo cuore rimaneva un unico e grande amore: la musica.

il fermento artistico della torino anni ‘30

Fu così che nel tempo libero Ferdinando non smise di impegnarsi e di imparare: da autodidatta, facendo tesoro dei rudimenti appresi, divenne un ottimo musicista in grado di passare con disinvoltura dal violino al sassofono passando per il contrabbasso, la fisarmonica e la chitarra. Un potenziale artistico che veniva alimentato dalla Torino fine anni ’30, una città curiosa e aperta verso le nuove sonorità: nel 1935 Louis Armstrong aveva infatti tenuto un concerto al Teatro Politeama Chiarella di via Principe Tommaso 6, mentre nel 1939 l’Hot Club Torino trovò il suo locale di riferimento nella taverna Sobrero che da quel momento sarebbe diventata il punto di riferimento per tutti gli appassionati e i musicisti jazz.

Un fervore artistico nel quale Buscaglione si tuffò senza remore: furono anni di concerti come contrabbassista in piccole orchestre nei locali più noti di Torino, come il Fortino di via Cigna o lo Stadium di corso Peschiera, o presso hotel, come l’Hotel Ligure in piazza Carlo Felice, al quale si aggiungevano le esibizioni in duo con Renato Germonio alla fisarmonica. Concerti che appagarono la voglia di esibirsi di Ferdinando e che gli permisero anche di iniziare a guadagnare qualche soldo, sempre senza dimenticare la sua passione per il violino, ‘l merlus (il merluzzo) come lo chiamava lui. Una gavetta non sempre facile e che richiese molti sacrifici, ma che formò artisticamente il giovane musicista.

in guerra sulle note degli aster

Tutto cambiò però il 10 giugno 1940: l’entrata in guerra dell’Italia travolse anche Buscaglione che venne arruolato nel reggimento di fanteria della Divisione Calabria stanziato nel nord della Sardegna. Fine della musica? Niente affatto: anche da militare Ferdinando non riuscì a stare lontano dalle sette note e con una chitarra era in grado di intrattenere i commilitoni che lo ascoltavano affascinati. La sua capacità artistica non passò inosservata e ben presto entrò a far parte della “sezione spettacoli” dell’esercito con la quale riuscì a mettere in piedi un’orchestra di dieci elementi che chiamò Complesso Buscaglione e un gruppo artistico di sessanta elementi che avrebbero dato vita a spettacoli di teatro e musica.

Cimentandosi anche nel canto solista, Buscaglione divenne così un punto di riferimento per i militari in Sardegna, che potevano anche ascoltarlo sulle frequenze dell’emittente libera Radio Sardegna, nata in una grotta di Bortigali, vicino a Nuoro. Proprio questa emittente si rivelerà una delle prove più intense e formative per Buscaglione: la piccola, ma tenace radio, infatti, aveva presto iniziato a programmare esecuzioni di brani dal vivo con vari gruppi di musica leggera. Quando si diffuse la voce che era alla ricerca di musicisti per la propria orchestra, Buscaglione non si fece sfuggire l’occasione e in breve creò una sua compagine in cui il giovane torinese suonava il violino accompagnato da un’ottima sezione ritmica e un’invidiabile ensemble di fiati. Quel gruppo di commilitoni e di amici prese il nome di Aster, un quintetto che deliziò le ore di molti in quei giorni in cui la guerra calava il suo manto di tristezza e morte sull’Italia.

la rinascita al ritmo di jazz

Raggiunta la pace, dopo oltre quattro anni di vita militare, Buscaglione tornò alla vita civile con un bagaglio di esperienza incredibile: nella Torino dell’immediato dopoguerra, quella città dove nel luglio del 1945 nacque Jazz, il primo periodico in Italia, l’ex militare non ebbe alcuna difficoltà a trovare ingaggi con alcune delle più note orchestre cittadine. La vita ritornava alla sua normalità: c’era un’Italia da ricostruire, una cultura da rimpinguare e tanta musica da ascoltare e da ballare. Chi poteva aveva voglia di lasciarsi alle spalle la guerra, con i suoi lutti e le sue tragedie, e così, anche nella Torino liberata, i locali da ballo, o tabarin, riaprivano i battenti per regalare alcune ore di spensieratezza a tutti gli appassionati di musica. La Sala Ballo Serenella in via Cesana, il Giardino d’Inverno di corso Stati Uniti, il Chatam in via Teofilo Rossi, la Tavernetta del bar Sestriere in via Amendola e molti altri divennero nomi noti a tutti gli amanti del jazz e dello swing, sicuri di poter assistere ad esibizioni di livello grazie alla moltitudine di egregi musicisti presenti in città.

Spesso le formazioni duravano lo spazio di qualche concerto o pochi mesi, in un frenetico e accattivante fermento artistico che alimentava una scena musicale cittadina in continua evoluzione ed espansione.

gli asternovas

In un simile contesto era quindi naturale che Buscaglione si trovasse a suo agio: l’esperienza maturata durante la guerra, con il Complesso Buscaglione e con gli Aster, aveva permesso a Ferdinando di acquisire dimestichezza non solo con gli strumenti musicali, ma anche con gli orchestrali, stabilendo legami in grado di andare oltre la semplice collaborazione artistica. Tra i primi ingaggi ci fu quello con un’orchestra impegnata a intrattenere il pubblico del Dancing Augusteo e poi al Columbia di via Goito: durante queste serate Buscaglione dava prova della sua bravura al contrabbasso e non disdegnava di esibirsi in alcuni assoli di violino o al microfono per interpretare il brano I’m confessing dear, I love you.

Ma nella mente di Buscaglione rimaneva un progetto da realizzare: riformare gli Aster, ritornare a suonare insieme a quegli amici con cui aveva condiviso gli anni della guerra e con i quali si era stabilito un sodalizio forte e sentito. Finalmente nel 1947 quel desiderio a lungo covato si trasformò in realtà e il mitico quintetto di riunì sotto la Mole: assieme all’infaticabile Fred Buscaglione, c’erano i vecchi amici e colleghi Franco Pisano, Giulio Libano, Bruno Martelli e Vittorio Belleli ai quali si aggiunsero Sergio Valenti, Lino Garavelli e Nino Gay. Quanto tutto fu pronto l’orchestra fece il suo debutto all’Oriental Dancing di Alassio: una serata di puro swing con gli Asternovas, cioè i nuovi Aster.

Purtroppo l’avvenuta durò meno di quel che si sperava e, dopo essersi esibiti in alcuni locale piemontesi e lombardi, la formazione non riuscì a sfondare: che fosse il tipo di musica che offrivano o l’ingaggio troppo esoso richiesto, il fatto è che ben presto gli Asternovas si trovarono senza date e fu quindi naturale mettere la parola fine a quel complesso. Buscaglione tornò quindi a suonare in diverse orchestre prima di fare il grande passo e prendere una decisione che cambiò la sua vita.

nell’olimpo dei jazzisti europei

Nel 1948 ormai Ferdinando poteva contare su una grande esperienza: la sua abilità come musicista era fuori discussione e anche le sue perfomance come cantante risultavano molto gradite al pubblico. Bisognava però fare di più, pensò Buscaglione. Se si voleva davvero sfondare e vivere di musica si doveva osare e gettare il cuore oltre l’ostacolo. E così fece: accettò la proposta di un impresario svizzero e, da solo, andò in terra elvetica per suonare violino e contrabbasso in formazioni che si esibivano nei night club di Basilea prima di partecipare a tournée in Olanda e in Germania.

Nel 1949, a solo 28 anni, Fred Buscaglione entrò nell’olimpo dei musicisti jazz europei: la rivista Musica jazz, infatti, mise il suo nome al secondo posto nella classifica dei migliori violinisti europei di jazz, subito dopo il grande Stéphane Grappelli. Un risultato che il giovane torinese difese negli anni fino al 1952 quando la rivista lo consacrò posizionandolo sul gradino più alto del podio. Fu in quel crescendo di popolarità e maestria jazzistica che Buscaglione si fece raggiungere dai vecchi amici: gli Asternovas non erano finiti e quella che poteva sembrare la fine del gruppo, in realtà, fu solo una pausa.

fatima

Rimessi assieme i fedeli musicisti, Buscaglione e i suoi Asternovas si lanciano in una serie di concerti in giro per la Svizzera e la Germania: Locarno, Ginevra, Zurigo, Losanna, Amburgo, San Gallo, Francoforte, e Norimberga furono alcuni dei luoghi dove la compagine si esibì riscuotendo il meritato successo. Ed è proprio durante una di queste serate che il musicista torinese incontrò la sua futura moglie, Fatima Ben Embarek, acrobata e cantante marocchina, nata a Dresda, che si esibiva assieme al padre, Mohamed, e alla sorella, Aisha, formando il Trio Robin’s.

L’iniziale amicizia si trasformò ben presto in sincero amore, anche se i due erano costretti a vedersi di nascosto viste le resistenze del padre che considerava Buscaglione un Casanova. Ma l’amore fu più forte di tutto e, quando non c’è la possibilità di seguire le classiche regole e l’iter previsto in questi casi, occorre darsi da fare e inventarsi qualcosa. Fu così che Ferdinando e Fatima partirono per quella che in apparenza sarebbe stata un’innocente vacanza di pochi giorni, ma che, come programmato dai due, si trasformò in un sodalizio d’amore che troverà il suo coronamento il 29 maggio 1954 nella chiesa di via San Massimo, a Torino. Un sodalizio in grado di unire amore e arte che però durò solo cinque anni, fino al 1959, quando i due si separarono.

un gangster dall’animo romantico

Dopo il lungo tour europeo, Buscaglione tornò a Torino con la sua Fatima e assieme alla sua orchestra proseguì l’attività artistica esibendosi nei locali cittadini, come il Roof Garden Florida, in piazza Solferino. E fu proprio in questo periodo di intensa attività che iniziò la collaborazione con Leo Chiosso, vecchio amico d’infanzia, classe 1920, e avvocato. L’amicizia tra i due divenne un vero e proprio sodalizio artistico con Buscaglione a comporre la musica sulla quale Chiosso scriveva testi innovativi, diversi da quelli in voga e che avrebbero creato negli anni a venire il personaggio Fred Buscaglione fatto di whisky, “pupe” bellissime e duri dall’arma facile.

Una figura che velocemente entrò nell’immaginario collettivo e che Buscaglione cercò in parte di rimpiazzare verso la fine degli anni ’50 interpretando brani più lenti e romantici, prima di andare incontro al fato e morire tragicamente all’alba del 3 febbraio 1960 in un incidente d’auto.

Nando ‘d Piassa Cavour aveva solo 38 anni.

 

fonti:

https://rivistasavej.it/la-torino-swing-di-fred-buscaglione-226cecd703c6

 

Le sorelle Quaranta, dive del cinema muto italiano

 

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Le torinesi sorelle Quaranta si sarebbero presto distinte nell’industria cinematografica degli albori. La maggiore, Lydia (o Lidia), nacque il 6 marzo 1891. Il 30 dicembre 1892 fu la volta delle gemelle Letizia (o Laetitia) e Isabella. Insieme ad altri fratelli, erano figlie di Giuseppe Quaranta e Beatrice Rissoglio. Purtroppo, nulla si conosce della formazione delle fanciulle, ma si sa che mossero i primi passi nel mondo dello spettacolo sin da giovanissime, come attrici teatrali nella compagnia del capocomico Dante Testa.

Si esibivano con buon successo di pubblico e critica al Teatro Rossini di via Po 24, oggi non più esistente perché distrutto dai bombardamenti nell’agosto 1943. Era l’epoca in cui chi lavorava in teatro spesso e volentieri veniva precettato anche per il cinema che, essendo nato da poco, era carente di figure professionali proprie. Non aveva importanza se gli attori possedevano la voce da cornacchia: il primo film sonoro italiano, La canzone d’amore, sarebbe arrivato nelle sale soltanto nel 1930. Ben più rilevante era la fotogenia e quella non mancava di certo alle sorelle Quaranta. Dal palco del Rossini la “venustà di linee e di forme” di Lydia non passò inosservata e la ragazza fu scritturata dall’Aquila Films (fondata nel 1912) e poi dall’Itala Film, tra le prime case cinematografiche sorte in quell’epoca a Torino. Le sue prime apparizioni sullo schermo risalgono al 1910, nei film L’ignota, I cavalieri della morte, Il barone di Lagarde, Dopo la battaglia, Imperia. La grande cortigiana del secolo XVII.

Le pellicole dell’Aquila Films iniziarono a circolare nel 1907, ma la società fu fondata ufficialmente nel 1912. L’Itala Film nacque rilevando la Rossi & C. fondata nel 1907 e vissuta pochi mesi. Le prime pellicole dell’Itala Film invece risalgono al 1908, anche se la società fu costituita ufficialmente nel 1911. Nelle immagini sopra: gli esterni e gli interni dell’Itala Film.

tre sorelle sotto i riflettori

Presto Lydia fece entrare in questa macchina dei sogni anche Letizia e Isabella, che furono arruolate dall’Itala Film tra il 1912 e il 1913. Le sorelle entravano e uscivano dalle case di vetro, i teatri di posa dove i film venivano girati, vere e proprie cattedrali formate da strutture in ferro e ghisa, rivestite di vetro al fine di ottenere un’illuminazione ottimale. In quegli anni le case di produzione sorgevano come funghi e si sfornavano centinaia di pellicole: si stima che almeno 3.500 furono quelle giunte alla distribuzione tra il 1905 e il 1928, mentre molte altre sono andate perdute. I film realizzati in città toccavano tutti i generi, ma due furono quelli più in voga: il film storico e il dramma borghese.

Le tre ragazze facevano parte di questo vivace ambiente, in cui si intrecciavano rapporti e amicizie tra attori, letterati, pittori e intellettuali. Erano graziose, simpatiche e accoglienti. Il pittore sardo Tarquinio Sini, uno dei primi cartellonisti cinematografici arrivato a Torino tra il 1909 e il 1910, le frequentò e le soprannominò in modo scherzoso “le sorelle Centoventi”. Ricordò sempre la loro ospitalità, resa indimenticabile dal suono della pianola a rulli con cui intrattenevano gli amici.

le carriere si separano

Isabella lasciò per prima le luci della ribalta, ragion per cui è meno nota rispetto alle sorelle. Scritturata come attrice brillante, lavorò sia per l’Itala Film che per la Film Artistica Gloria. Tra i suoi film si ricordano: Ho l’onore di chiedere la mano di vostra figlia, Un qui pro quo, Romanticismo, Il pescatore del Rhóne… Isabella decise di ritirarsi nel 1917 forse perché né l’eccessiva somiglianza con Letizia né la spiccata personalità di questa sua gemella giocavano a suo favore. Ma più probabilmente si allontanò dallo spettacolo per sposarsi. Morì a Milano il 3 aprile 1975 e fu sepolta nel Cimitero Maggiore della città meneghina.

La carriera di Lydia e Letizia fu invece più lunga e intensa. Fu nel 1913 che ottennero dall’Itala Film il loro primo ruolo di rilievo nella prima versione cinematografica di Addio Giovinezza!, tratta dall’omonima operetta di gran successo scritta nel 1911 da Nino Oxilia e Sandro Camasio. Regista e attore fu lo stesso Oxilia. Lydia interpretò la dolce sartina Dorina, mentre a Letizia fu assegnata la parte della conturbante Elena. Da quel momento in poi le due sorelle divennero molto richieste.

la consacrazione

Il 1914 fu senza dubbio l’anno d’oro di Lydia. L’Itala Film le affidò il ruolo della protagonista femminile in un film che avrebbe fatto la storia del cinema. Si trattava di una pellicola in costume, ambientata durante la seconda guerra punica, intitolata Cabiria e diretta da Giovanni Pastrone, che della casa di produzione era anche il direttore. Cabiria fu senza dubbio il più importante film italiano della stagione del muto. Un kolossal, molto lungo e costoso, che ebbe una vasta eco internazionale sia per l’intensa campagna pubblicitaria che per le numerose innovazioni tecniche, dagli strabilianti effetti speciali alla macchina da presa in movimento.

La prima proiezione di Cabiria si tenne il 18 aprile 1914 in contemporanea al Teatro Vittorio Emanuele di Torino e al Teatro Lirico di Milano. Tutte le repliche successive andarono esaurite in un batter d’occhio. Il film rimase in cartellone per sei mesi a Parigi e addirittura per un anno a New York. Interessante è notare come sui quotidiani dell’epoca grande rilievo fu dato soprattutto al nome di Gabriele D’Annunzio, autore delle didascalie, e poco o niente a quelli degli attori. Per Lydia si trattò comunque della consacrazione, anche se non diventò mai una diva al pari della sua contemporanea genovese Lyda Borelli.

arte fatta di anima

Nel 1914 la maggiore delle “Centoventi” passò alla Savoia Film. Nel periodo della Prima guerra mondiale, fra il 1915 e il 1918, lavorò per varie case (Film Artistica Gloria, Società Anonima Ambrosio, Eccelsa Film), ma troppo spesso di lei veniva enfatizzata più l’avvenenza che non le doti artistiche. Nel 1919 rientrò all’Itala Film con un compenso di 10.000 lire al mese e la sua notorietà fu usata per spronare l’UCI-Unione Cinematografica Italiana a incrementare la pubblicizzazione del film Fiamma! che la vedeva protagonista con Ettore Piergiovanni. In una lettera di reclamo della società si legge infatti: “Che la signorina Quaranta è anche la protagonista di Cabiria dovrebbe essere un elemento da non trascurare nella pubblicità del film.”

Nel 1920 l’attrice fu scritturata dalla Photodrama di Grugliasco per la quale recitò ne I tre sentimentali, diretta da Augusto Genina. L’ultima apparizione di Lydia sullo schermo risale al 1925, nella commedia Voglio tradire mio marito!, diretta da Mario Camerini e prodotta dalla FERT. Ammalatasi di polmonite, alla vigilia dei trentasette anni, il 5 marzo 1928 morì nella casa di corso Regina Margherita 93, dopo un forte attacco. La sua morte lasciò addolorati i colleghi e i familiari (la madre Beatrice la seguì nel 1935), nonché il compagno Eligio Martini. Fu sepolta nel Cimitero Monumentale di Torino. Su La Stampa non ci furono articoli commemorativi: comparve soltanto uno scarno necrologio e nello Stato Civile, alla voce Morti, Lydia fu definita semplicemente “agiata”. Nulla a ricordare i rutilanti anni da attrice del cinematografo.

“Il suo nome suscita una visione di grazia e di bellezza; la sua persona è un’armonia di forme perfette e di fini eleganze […]. Più che nell’esteriorità dei gesti e della forma, l’arte di Lydia Quaranta sta nell’animo suo. Arte interiore, adunque, arte fatta di anima, di cuore e di sentimento.”

(La rivista cinematografica, 1920)

dal muto al sonoro

Letizia fu l’ultima delle Quaranta ad andarsene. Di bellezza più sbarazzina rispetto a quella soave e sofisticata di Lydia, eccelleva nei ruoli brillanti (Acquazzone in montagna, Florette e Patapon, I mariti allegri…) e avventurosi (L’isola tenebrosa, L’aeronave in fiamme, La signora delle miniere…), ma era molto versatile e in grado di interpretare i personaggi più disparati. Scrisse al riguardo Tito Alacci nel 1919:

Come attrice Letizia Quaranta ha tutte le migliori note. Sa riprodurre a perfezione la gran dama e l’orizzontale, l’ingenua e l’astuta, la savia e la pazza… Ma dove è rimasta insuperabile è nelle schermaglie amorose.

Letizia fu una delle attrici più richieste e quotate del cinema muto. Anche lei lavorò per varie case di produzione, fino a diventare la musa del regista e attore Carlo Campogalliani, che la diresse in numerosi film, tra cui la famosa Trilogia di Maciste, personaggio quest’ultimo nato proprio con Cabiria.

Letizia e Carlo si erano conosciuti a Torino, dove lui si era trasferito nei primi anni Dieci. A Torino convolarono a nozze, il 5 marzo 1921. Successivamente si recarono in Sudamerica. Lì girarono alcuni film (La mujer de medianoche, La esposa de solteiro, La vuelta del toro) e, messa in piedi la compagnia di prosa Campogalliani-Quaranta, fecero una tournée in giro per l’Argentina, in seguito alla quale rientrarono in Italia.

Con l’avvento del sonoro le quotazioni di Letizia diminuirono, ma lei continuò a recitare e riuscì a partecipare ad uno dei primi film sonori italiani, Medico per forza del 1931, in cui fu a fianco di Ettore Petrolini. Veniva scritturata soprattutto come caratterista e concluse la sua carriera alla metà degli anni Cinquanta con L’orfana del ghetto, film del 1954 tratto da un romanzo di Carolina Invernizio, diretto dal Campogalliani e prodotto dall’Ambra Film di Torino.

influencer di un’altra epoca

Lydia, Letizia e Isabella Quaranta. Nelle vecchie cartoline le vediamo vestite con raffinatezza, i capelli acconciati con le onde e la bocca a cuore, avvolte da quell’alone incantato che solo le immagini in bianco e nero riescono ad avere. Tre totine torinesi che decisero di intraprendere la strada di attrici in un tempo in cui il cinema era legato alla novità e alla sperimentazione, quando tutto era in divenire e ancora da costruire. Probabilmente, se fossero vissute ai giorni nostri, le brave e belle sorelle avrebbero avuto migliaia di followers sui social network, sarebbero state testimonial di svariati prodotti di bellezza e di moda e sarebbero diventate ricchissime. Ma poco importa. Hanno avuto il privilegio di essere delle pioniere e di aver contribuito a costruire la strada che ha condotto il cinema a diventare la Settima Arte.

 

fonti:

https://rivistasavej.it/le-sorelle-quaranta-dive-del-cinema-muto-italiano-df7db44b129d

 

Un grande esploratore: Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi

 

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Il giovane Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, futuro duca degli Abruzzi, venne fermato per strada un giorno da una zingara, che gli disse “Un giorno siederai sul trono, e tuo papà ti porterà la Regina più bella del mondo.” Ma lui le rispose “Sciocchezze! Cosa ne sai! Io sarò un marinaio e navigherò in tutto il mondo e sposerò chi voglio”.

un titolo “ad personam”

Il principe Luigi Amedeo Giuseppe Maria Ferdinando Francesco di Savoia-Aosta nacque a Madrid il 29 Gennaio 1873. Suo padre, il Duca d’Aosta, era da tre anni Re di Spagna, e a Luigi Amedeo sarebbe quindi toccato il titolo di Infante di Spagna, ma poiché il Duca d’Aosta abdicò poco dopo la sua nascita, Umberto I di Savoia creò il titolo di Duca degli Abruzzi appositamente per lui. Ma il titolo gli sarebbe stato assegnato solo nel 1890, alla morte del padre.

E a poco più di sei anni, Luigi Amedeo venne arruolato come mozzo nella Regia Marina, essendo stato destinato, come da tradizione familiare, alla carriera militare. Nel tempo libero sarebbe stato affidato a Francesco Denza, padre barnabita ma soprattutto scienziato e naturalista, fondatore della stazione meteorologica di Moncalieri. Sarà durante le estati trascorse con Denza che il giovane Duca svilupperà la passione per l’alpinismo.

compagni di avventure

La passione per la montagna evolve parallelamente alla carriera navale di Luigi Amedeo che viene nominato guardiamarina a sedici anni e si imbarca per una lunga crociera attorno al mondo durante la quale stringe amicizia con Umberto Cagni, che diventerà suo compagno d’avventura nelle successive spedizioni.

Tra il 1892 ed il 1894, il Duca degli Abruzzi si dedica alle scalate nell’arco alpino: Gran Paradiso, Monte Rosa (Punta Dufour, Punta Gnifetti), Massiccio del Monte Bianco (Dente del Gigante, Aiguille du Moine, Petit Dru), accompagnato dalle guide Emile Rey di Courmayeur e Jean Antoine Maquignaz di Valtournenche. In particolare, nell’agosto 1894, insieme ad Albert Frederick Mummery, a John Norman Collie e alla guida Joseph Pollinger, Luigi Amedeo affronta il Cervino lungo la Cresta di Zmutt, un’impresa che gli vale non solo la presidenza onoraria della sezione di Torino del CAI, ma anche l’ammissione nell’esclusivo Club Alpino Britannico.

in africa per la prima volta

Nel 1893 la carriera militare reclama il Duca, ora tenente di vascello, che viene inviato in Somalia sulla cannoniera “Volturno”. La Somalia era all’epoca dominio italiano, e la flotta sabauda ebbe il compito di sedare le rivolte e presidiare l’importante porto commerciale di Mogadiscio. Questa prima avventura africana lascerà il segno sul giovane ufficiale.

L’anno successivo Luigi Amedeo compie la sua seconda circumnavigazione del mondo. Durante una tappa a Victoria, nella Columbia Britannica, viene a sapere di una vetta, fra Alaska e Yukon, ancora inviolata — il Mount St. Elias di 5.489 metri. Una montagna che era stata misurata, nel 1792, da un italiano al servizio della corona spagnola, Alessandro Malaspina. E successivamente, durante una fermata in India, in compagnia di Cagni e di Filippo de Filippi, si spingerà fino ai piedi della catena Himalayana.

la conquista del mount saint elias

Tornato in patria dopo ventisei mesi di missione, Luigi Amedeo riprende l’attività alpinistica. Nel 1896 decide che è tempo di organizzare un’importante spedizione. Il suo primo piano è di andare sull’Himalaya e scalare la cima del Nanga Parbat, come tributo al suo amico Mummery che a 40 anni ne aveva tentato la scalata ed era svanito per sempre sulla montagna insieme a due portatori Gurkha. Il governo britannico in India rifiutò di autorizzare la spedizione del Duca a causa di un’epidemia di colera.

Perciò Luigi Amedeo volse nuovamente il proprio sguardo verso l’America, e nell’agosto del 1897, con i suoi abituali compagni d’avventura De Filippi e Cagni, accompagnati da Vittorio Sella e Francesco Gonella, la spedizione del Duca degli Abruzzi conquistò la vetta del St. Elias. E l’anno successivo, Luigi Amedeo conquistò le due vette delle Grande Jorasses, che battezzò Punta Margherita e Punta Elena in onore rispettivamente della zia e della cognata.

direzione polo nord

Ma gli ultimi anni del XIX secolo vedono anche l’avvio delle grandi imprese polari, e nel 1898 il Duca degli Abruzzi, a bordo della “Stella Polare”, tenta di raggiungere via mare il Polo Nord. La nave, originariamente una baleniera a vapore chiamata “Jason”, era stata ristrutturata nei cantieri navali di Colin Archer, uno specialista in vascelli artici, che la rinforzò perché potesse sopportare la pressione derivante dall’essere intrappolata fra i ghiacci.

La “Stella Polare” fece tappa ad Archangelsk, in Russia, dove l’arrivo della spedizione italiana venne accolto come un importante evento mondano. Stando a un giornale del 7 luglio 1899, il teatro comunale organizzò uno spettacolo straordinario alla presenza del Duca degli Abruzzi con la rappresentazione del dramma La principessa di Baghdad, composto da tre atti. Prima che il sipario si sollevasse, l’orchestra suonò l’inno reale italiano. Lo stesso Duca degli Abruzzi annotò nel proprio diario:

La nostra partenza era fissata per il 12 luglio. Al mattino presto la chiesa venne aperta a noi e, pur essendo cattolici, ci fu permesso di unirci alla messa. Nel pomeriggio tutti i cani sono stati riportati a bordo nei loro canili. La sera la Stella Polare lasciò il porto e fu scortato da due piroscafi lungo la Dvina. Sono rimasto a terra, così come il dottor Cavalli, per passare la serata insieme ai nostri amici italiani. La sera dopo lasciammo Arkhangel’sk. Durante tutto il viaggio abbiamo visto issare le bandiere per darci il benvenuto.

Venti uomini parteciparono alla spedizione, tra cui il capitano Umberto Cagni, il tenente F. Querini e il dottor A. Cavalli Molinelli. Il piano del Duca era di andare nella terra di Francesco Giuseppe, nella regione artica, per stabilire un campo in cui stare durante l’inverno e, successivamente, per raggiungere il Polo Nord in slitta trainata da cani attraverso il mare ghiacciato. Il campo invernale venne stabilito sull’Isola Rudolf. La spedizione doveva iniziare alla fine della notte artica. A causa del freddo, il Duca perse due dita, e questo gli impedì di partecipare alla spedizione con la slitta, che venne affidata al comando del capitano Cagni.

L’11 marzo 1900 Cagni lasciò il campo e raggiunse la latitudine 86° 34' il 25 aprile, stabilendo un nuovo record e battendo il risultato di Nansen del 1895 da 35 a 40 chilometri. Cagni riuscì a malapena a tornare al campo il 23 giugno. Il 16 agosto la “Stella Polare” lasciò l’Isola di Rudolf in direzione sud e la spedizione tornò in Norvegia. Durante la spedizione furono esplorate e misurate la costa settentrionale dell’Isola di Rudolf e altre due isole.

la spedizione in uganda

Il Duca degli Abruzzi con le guide Ollier e Petigax nella spedizione al Ruwenzori.

Nel 1906 il Duca degli Abruzzi si recò in Africa attratto dal fascino del continente visitato anni prima e ispirato dagli scritti dell’esploratore Henry Morton Stanley riguardo al massiccio del Ruwenzori in Uganda. Erano probabilmente le Montagne della Luna descritte da Tolomeo nella sua Geografia del II secolo, ma nei tempi moderni erano rimaste sconosciute fino a quando Stanley non ne aveva segnalato la presenza nel 1890. Diversi inglesi avevano raggiunto il Ruwenzori dopo Stanley e avevano fatto alcune ascensioni, ma il piano di Luigi Amedeo di Savoia era molto più ambizioso. Durante quella spedizione scalò sedici cime, una delle quali prese il nome di Monte Luigi di Savoia. La sua spedizione produsse le prime mappe adeguate del Ruwenzori, oltre a rapporti sulla flora, la geologia, l’idrologia e la glaciologia dell’area.

affari di cuore e di successione

Quando il Duca tornò dal Ruwenzori aveva 33 anni, era famoso in tutto il mondo ed era stato promosso ammiraglio. Qualcuno a Napoli aveva pubblicato un libriccino scandaloso intitolato Il Duca si diverte sulle sue presunte avventure sessuali. Il libro non divertì il Duca; alla polizia di Napoli fu ordinato di sequestrare e distruggere tutte le copie. A prescindere dalle accuse, il Duca era in età da marito da oltre un decennio, ma non aveva trovato una moglie. E tuttavia proprio in quegli anni Luigi Amedeo conobbe Katherine Hallie Elkins, detta Kitty, figlia di un senatore degli Stati Uniti. I due sarebbero stati pronti al matrimonio, ma Vittorio Emanuele III proibì al cugino, che era comunque in linea di successione, di sposare una donna della borghesia, e Luigi Amedeo venne convinto a troncare la relazione. Kitty avrebbe successivamente sposato il figlio di un senatore dell’Illinois. Chissà se in quell’occasione Luigi Amedeo ricordò ciò che aveva detto anni prima a quella zingara…

ad un passo dalla vetta

Nel 1909 fu poi la volta del massiccio del Karakorum dove il Duca degli Abruzzi ed i suoi compagni tentarono di raggiungere la cima del K2, arrivando ad una quota di 6.250 metri. La pista più battuta che conduce alla vetta prende oggi il nome di Abruzzi Spur. Un tentativo di scalata alla vetta del Chogolisa si concluse in un relativo fallimento — Luigi Amedeo non arrivò alla cima, ma segnò un nuovo record mondiale di scalata. Per le sue numerose imprese ed esplorazioni, Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, duca degli Abruzzi, venne eletto Membro Onorario del prestigioso Explorer’s Club di New York.

il villaggio duca degli abruzzi

Trasferitosi in Somalia, il Duca degli Abruzzi si dedicò alla sperimentazione agricola fondando, ad un centinaio di chilometri da Mogadiscio, il Villaggio Duca degli Abruzzi, dove sviluppare nuove tecniche di coltivazione.

Nel 1920 il Duca creò una nuova corporazione per il suo progetto, la Società Agricola Italo-Somala o SAIS. La sua fortuna personale non era grande, quindi il SAIS ebbe bisogno di estesi finanziamenti esterni, che trovò abbastanza alla svelta — era dopotutto un principe di sangue reale. Le azioni della società vennero acquistate dalle principali banche e dagli interessi commerciali italiani. Il governo italiano prese parte al progetto, concedendo alla SAIS oltre 60.000 ettari lungo lo Scebeli, fornendo materiali bellici in eccedenza e prestiti a basso interesse, e garantendo un mercato italiano protetto per la produzione della SAIS. Nel 1923 verrà costruita una grande diga di terra e un serbatoio sullo Scebeli e contemporaneamente verrà scavata una rete di canali di irrigazione. Nel 1928 più di 10.000 acri producevano banane, zucchero di canna e cotone quasi tutte spedite in Italia. C’erano 200 manager e capisquadra italiani residenti e 6.000 lavoratori somali delle tribù agricole locali.

I nomadi somali disdegnavano un simile lavoro e molti agricoltori preferivano lavorare con le proprie terre piuttosto che lavorare per la SAIS, anche se quest’ultima forniva migliori alloggi e strutture sanitarie. Nel 1922 i fascisti di Mussolini avevano conquistato l’Italia e le maniere forti del Duce si estendevano ora alle colonie. Con l’aiuto dei leader locali del clan, molti somali furono costretti contro la loro volontà a diventare lavoratori della SAIS. L’uso del lavoro forzato da parte del Duca in Somalia fu forse l’aspetto più negativo della sua vita.

le sorgenti del “fiume dei leopardi”

Nel 1928 la SAIS era uno dei due maggiori produttori di reddito della Somalia italiana. Il Duca degli Abruzzi decise che era ora di organizzare un’altra spedizione per trovare le sorgenti dello Scebeli. Ne gettò le basi durante una missione diplomatica ad Addis Abeba, intrapresa principalmente per concludere un nuovo accordo commerciale. Sette anni dopo Mussolini avrebbe invaso l’Etiopia e l’imperatore Haile Selassie sarebbe stato costretto a fuggire; per ora le relazioni bilaterali erano buone e il governo etiope promise la sua piena collaborazione per la spedizione del Duca.

Estratto del resoconto prodotto dall’Istituto Luce sull’esplorazione del fiume Uebi Scebeli (il più grande fiume del Corno d’Africa), guidata dal Duca degli Abruzzi fra il 1928 e il 1929.

Per quattro mesi Luigi Amedeo e un piccolo gruppo di italiani provenienti principalmente dallo staff della SAIS — nessuno dei suoi vecchi compagni di arrampicata — percorsero quasi l’intero corso di migliaia di miglia dello Scebeli. Attraversarono un paese in gran parte sconosciuto al mondo sviluppato, scalando picchi di 4.000 metri e localizzando la fonte del fiume in un prato erboso di montagna a 2.700 metri sul livello del mare, vicino a un villaggio che non aveva mai visto un europeo.

Fu l’ultima grande avventura di Luigi Amedeo di Savoia. Un improvviso deterioramento della sua salute risultò il prodotto di un cancro alla prostata. Venne operato a Torino e poi tornò nella sua villa in Somalia. Si spense nel Villaggio Duca degli Abruzzi il 18 Marzo 1933. Negli ultimi anni della sua vita aveva avuto una relazione con una giovane somala, Faduma Ali. Quando l’Italia lasciò la Somalia dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il villaggio venne ribattezzato Jowhar.

 

fonti:

https://rivistasavej.it/lesploratore-luigi-amedeo-di-savoia-duca-degli-abruzzi-1ee2fa15239c

 

Galileo Ferraris

 

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malattie bisbetiche e molto altro

A Torino, di fronte all’imminente introduzione di una nuova tecnologia, il tramvai elettrico, si potevano udire i commenti scettici o ameni dei passeggeri del vecchio mezzo a cavalli. Galileo Ferraris non esita a mescolarsi in incognito tra la gente per tastarne l’umore, per quanto gli fosse concesso dato che era pur sempre un inventore ed elettricista di fama mondiale. Ascolta noncurante i discorsi che giungono direttamente alle sue orecchie e, in silenzio, lisciandosi la barba nera, registra tutti i rischi possibili a lui stesso sconosciuti, come quello di poter toccare inavvertitamente, salendo o scendendo dal tram, la cassetta dove si trovava il così detto “deposito delle scintille” e cadere per terra stecchiti.

Peggio ancora, sulla linea del Martinetto, Ferraris sente un vecchietto pronosticare che i nuovi fili, che stavano aggiungendosi ai troppi altri già distesi tra casa e casa, saturando l’aria di elettricità, erano cagione di tanti sconcerti nervosi, di tante malattie bisbetiche e stravaganze d’idee e audacie matte di partiti sovversivi, per cui il mondo andava diventando un inferno.

Lasciamo Ferraris sulle linee metropolitane ad ascoltare le preoccupazioni e i timori dei cittadini di fronte ad un nuovo progresso tecnologico del quale era stato lui stesso un fautore, per ripercorrere la vita e l’opera di questo genio schivo che, nel suo laboratorio, scoprì il campo magnetico rotante.

non voglio mica diventare un asino!

A Livorno Ferraris, chiamato in passato Livorno Vercellese, nacque il 31 ottobre 1847 Galileo Giuseppe Antonio, nella famiglia numerosa del farmacista Luigi Ferraris. L’indole dello scienziato e della persona responsabile e rigorosa si affermò ben presto nella sua infanzia, vuoi per la perdita della madre Antonia Carlotta Messia avvenuta in tenera età, vuoi per una predisposizione innata verso una precoce e spasmodica curiosità del mondo che lo circondava.

Come ricordava Luigi Firpo, Galileo Ferraris: “bambino seienne, affardellò un giorno tutti i libri dismessi dal fratello maggiore su cui riuscì a metter mano ed andò a prender posto su un banco della quarta classe nella scuola comunale; al maestro che gli domandava stupito come fosse capitato in quell'aula rispose: ‘non voglio mica diventare un asino, io’, venne così accompagnato in prima, minuscolo volontario, prima di aver toccato l’età prescritta.

un giovanissimo ingegnere

Quando si trasferì a Torino all’età di dieci anni ospite di uno zio medico per proseguire i suoi studi presso il Ginnasio e Liceo del Carmine, gli andò decisamente meglio. Con uno stratagemma, ben espresso nelle lettere al padre e che poteva essere combinato all’epoca, si ritrovò a terminare gli studi superiori e contemporaneamente a frequentare come uditore il primo anno universitario di modo che, sostenendo vari esami, alcuni in orari a noi impensabili, tra le 7 e le 8 del mattino, si ritrovò a 22 anni, nel settembre del 1869, già laureato in ingegneria civile presso la Regia Scuola d’Applicazione per gl’Ingegneri con una tesi sull’energia distribuita a distanza.

In questi anni di studio furono diverse le lettere inviate al padre per informarlo sugli esami sostenuti, sul suo stato di salute o sullo stato della sua casa: “Puzza di vuoto. Causa di ciò sono le mance al bidello dell’università, un paio di scarpe comperate, e alcuni libri fatti legare; e a esse puoi aggiungere due o tre colazioni fatte al caffè, e anche le numerose tazze di caffè prese con lo scopo di tenermi isvegliato.”

in gita al traforo del frejus

In una lettera, scritta un paio di mesi prima della laurea, Ferraris racconta al padre di aver partecipato ad una gita di istruzione per osservare i lavori del costruendo traforo del Frejus, considerato la più alta realizzazione di ingegneria dell’epoca.

Per il giovane Ferraris fu un viaggio "piacevolissimo ed istruttivissimo", tutto condensato in un libretto denso di appunti, di calcoli, di formule matematiche e ricco di aneddoti. La gita iniziò a Susa alle tre del mattino per visitare il cantiere tra Bussoleno e Meana. Ben 14 ore di marcia dove, in quattro punti, furono costretti ad usare le corde per poter passare e raggiungere il cantiere della galleria, che costa all’impresa spese incalcolabili e benché breve, non potrà essere finita fra tre anni, in causa dell’enorme quantità d’acqua che trapela da quelle rocce. Ritornati a Susa sul far della sera, e passata nell’allegria quasi tutta la notte (perché non v’ha forse letto in Susa in cui si possa dormire senza essere divorato dalle cimici), il domani di nuovo alle tre antimeridiane, salimmo in vettura e fummo trasportati fino a Chaumont [Chiomonte].

In serata Ferraris e i suoi compagni furono ospiti in brande organizzate nelle case operaie a Bardonecchia, per poi iniziare il mattino seguente la visita della galleria: “Ci imbaccuccarono a mo’ de’ minatori, e ci fecero salire su di un convoglio appositamente preparato, che ci condusse fino a cinque chilometri entro la galleria. A questo punto, il convoglio non poteva più proseguire, epperò a piedi, nel fango, e con una temperatura di circa quaranta gradi, progredimmo fino al fondo dello scavo già fatto. L’emozione che si prova assistendo a tali scene, non si può descrivere: lo scoppio delle mine, il rumore delle perforatrici, il sibilo dell’aria compressa che, or qua, or là, sfugge fra le connessure dei tubi, e le voci degli operai che, nudi, passano i loro giorni in quella bolgia, formano di quell’antro il più nero teatro. Io credo che chi non avesse visitato come noi quaranta gallerie, non vi resisterebbe.”

Al gruppo si unirono nei giorni seguenti gli studenti di ingegneria della Sorbona, anche loro in visita di istruzione, per esplorare insieme i lavori sul versante francese e qui Ferraris confrontò le tecniche di lavorazione sui due versanti: “Differentissimi da quelli di Bardonecche [Bardonecchia], ma non meno belli e interessanti, questi lavori ci entusiasmarono.”

la trasmissione dell’energia

Poco tempo dopo Ferraris discusse la sua tesi sulla telodinamia, ovvero il trasporto della forza a distanza, problema che lo occuperà tutta la vita.

La grande industria si sviluppò in questi ultimi tempi poderosamente a danno dell’industria domestica. L’economia della forza e della produzione tende ogni giorno a far sostituire alle piccole officine i grandi centri di lavoro, attorno ai quali la popolazione operaia è costretta ad aggrapparsi. Una tale organizzazione del lavoro ha destato in molti spiriti i più vivi timori; si deplora che la famiglia sia distrutta, che l’interesse individuale e le sue benefiche conseguenze scompaiano; che una centralizzazione invaditrice tenda a fare della popolazione manufatturiera un immenso arruolamento.

Partendo da queste osservazioni, a testimonianza non solo delle sue doti di scienziato, ma anche della sua attenzione verso i temi sociali, Ferraris difese i suoi studi sostenendo che le funi metalliche dipartendosi dal motore, e seguendo canali sotterranei, andrebbero a mettere in moto telai, distribuiti nelle case operaie, ed affidati dalle donne, che non lavorano nell’opifizio. Questo sistema aumenta quindi il benessere della famiglia senza lederla, senza togliere i figli alle cure dirette della madre. Se è vero che il lavoro alla fabbrica conduce alla distruzione della famiglia, non è improbabile che nel progresso della telodinamia stia pure racchiuso il compimento d’un progresso sociale.

periziare i mulini

Dopo la laurea il giovane ingegnere piemontese lavorò da subito come assistente del professor Codazza al corso di Fisica Tecnica presso il Museo Industriale Italiano e poi, nel 1878, come professore. Per arrotondare accettò da subito diversi incarichi straordinari: nel 1873, ad esempio, Ferraris venne incaricato dal tribunale di periziare i mulini collocati sui monti dell’Appennino ligure, il lavoro consisteva nel determinare la quota fissa di tasse a carico dell'esercente per ogni cento giri di macina, secondo quanto disposto dall'impopolare imposta sul macinato riproposta dal governo Menabrea.

Durante i suoi viaggi di lavoro Ferraris annotò vari dati tecnici sul funzionamento dei mulini, la portata delle acque, la qualità delle macine e i tipi di farine (quelle grosse per esempio erano destinate “per uso delle sussistenze militari, della marina e dei condannati”) senza dimenticarsi di annotare anche i sotterfugi escogitati dai molinari per confondere a loro favore gli accertamenti.

alle origini del politecnico

Se vi domandate dove si trovi oggi il Museo Industriale, sappiate che da tempo non esiste più, ma era collocato dove ora sorge a Torino il piazzale Valdo Fusi. Il museo venne incorporato alla Scuola di Applicazione per Ingegneri per la fondazione, nel 1906, del Politecnico, e l’edificio venne distrutto dai bombardamenti del Secondo conflitto mondiale.

Vale però la pena di accennare brevemente alla sua storia. Quando Torino perse il ruolo di capitale la città tentò varie strade per risorgere: al Regio Museo Industriale, che in origine era un convento, venne affidato il compito di preparare ingegneri e capi officina per le varie fabbriche che avrebbero assicurato il decollo industriale del Piemonte.

studenti illustri

In questo contesto Ferraris ebbe un’intuizione per le sue lezioni. Il suo corso di elettrotecnica avrebbe dovuto rifarsi al modello dell’Istituto elettrotecnico Montefiore di Liegi, fondato nel 1883, secondo il quale le lezioni teoriche dovevano essere accompagnate da esercitazioni di laboratorio e di officina.

Ferraris abituava gli studenti, con i quali ebbe sempre un ottimo rapporto, alla deduzione analitica, come ricorda un suo allievo, Ignazio Verrotti a proposito della macchina dinamo-elettrica. Quest'ultima venne presentata da Ferraris inizialmente “in forma affatto ideale”, da cui “potevansi dedurre tutti i tipi di dinamo costruiti o costruibili”, poi "gradatamente" venne spiegata "sino a farcela vedere col pensiero nella sua vera forma e funzione".

Un altro studente che frequentò le lezioni di Ferraris e il suo lavoratorio fu Camillo Olivetti. Immaginandosi fin da giovane come costruttore di strumenti elettrici, Olivetti, su presentazione dello stesso Ferraris, venne mandato in Inghilterra da Silvanus Thompson, elettrotecnico di fama mondiale. Olivetti accompagnò inoltre Ferraris in America come interprete per il congresso di Chicago ed ebbe modo di ricordare che "grazie all’illustre uomo ebbi modo di conoscere una quantità di uomini illustri nell’elettromeccanica". Fu sempre grazie a Ferraris che Olivetti decise di accettare il posto di assistente all’Università di Stanford in California per poi dare il via, nel 1894, alla sua avventura industriale, ma questa è un’altra storia.

“La luce elettrica subentrerà sulle pubbliche strade a quella del gas. […] I nostri figli la vedranno applicata e quando vi saranno abituati non tollereranno più la luce del gas. Essi avranno un bisogno di più, che noi non abbiamo ancora, ma questa è la legge naturale del progresso”.

(Galileo Ferraris, 1879)

la scoperta del trasformatore

L’eredità più evidente che ci ha lasciato l'ingegnere vercellese sono gli imponenti tralicci elettrici che punteggiano le campagne. Nei loro cavi relativamente sottili, come ricordava Luigi Volta, nipote del famoso Alessandro, “fluiscono fiumi giganteschi di energia, che muovono migliaia di macchine, compiendo il lavoro di titani, illuminando le veglie di milioni di uomini. Quelle imponenti strutture devono ricordarci il grande elettricista piemontese, il quale co’ suoi studi teorici, ha indicato la via per il perfezionamento dei trasformatori e quindi per il progresso della tecnica del trasporto dell’energia.”

Il trasformatore è proprio l’oggetto che ha reso possibile il trasporto dell’energia elettrica a distanza. Parte dell’energia incanalata nei cavi elettrici viene infatti dissipata dal cavo stesso, di conseguenza maggiore è la distanza da percorrere, maggiore è l’energia persa. Allo stesso tempo, più elevata è la tensione della corrente elettrica, minori sono le perdite, quindi, per trasmettere energia elettrica su lunghe distanze, è necessario che la corrente abbia una tensione molto elevata. Una corrente alternata risolve questo problema perché, mediante un trasformatore, la sua tensione può essere variata a piacere.

Ma la storia non finisce qui. Una volta arrivata a destinazione, come usare questa energia? C’è bisogno di un motore, cioè un apparecchio che trasformi l’energia elettrica in energia meccanica. A Galileo Ferraris va il merito non solo di aver sviluppato la teoria che ci ha permesso di realizzare i trasformatori, ma anche di aver creato nel 1885 il primo esempio di quello che ora chiamiamo motore a induzione.

Il campo magnetico rotante e i motori a induzione.

Pare che l’intuizione gli fosse giunta camminando per Torino e in particolare osservando la successione dei portici di via Cernaia…

In un primo esperimento Ferraris era riuscito a sospendere un cilindretto nel centro di due telai, facendolo magicamente ruotare sotto l’azione della forza magnetica generata dalla corrente alternata. Un suo allievo, Ernesto Thovez, ebbe la fortuna e il piacere di assistere all'esperimento:

“Appena giunto in laboratorio (il Ferraris) tolse una bobina da un galvanometro e ne fece costruire un'altra dal meccanico. Questi era un po' lento ed il Ferraris, forse l'unica volta in vita sua, ne fu irritato; ma dopo alcuni giorni ebbe finalmente la bobina. Allora, utilizzando un vecchio trasformatore Gaulard che gli era servito per i suoi memorabili studi, per mezzo di induttanze e di resistenze ricavò da un'unica corrente due correnti derivate, sfasate l'una rispetto all'altra. Fra le due bobine sospese un cilindretto di rame. Il cilindretto si pose a girare, dapprima lentamente, poi rapidamente. Il motore a corrente alternata era scoperto!”

Questo prototipo che Ferraris chiamò "il mio giocattolo" era un nuovo dispositivo di conversione elettromeccanica, che avrebbe di lì a poco avuto enormi applicazioni industriali, ma di cui inizialmente lo stesso Ferraris non ne ebbe coscienza. Ferraris era solito mostrarlo nel suo laboratorio a chi fosse interessato, ma la sua diffusione ufficiale in tutto il mondo avvenne solo in seguito alla pubblicazione del suo studio, Le rotazioni elettrodinamiche prodotte per mezzo di correnti alternate, presso l’Accademia delle Scienze di Torino il 18 marzo 1888.

“non sono un industriale”

L'invenzione suscitò l'interesse della compagnia elettrica statunitense Westinghouse, che gli chiese l'uso esclusivo per l’America. Ferraris, che non aveva previsto brevetti per la sua scoperta, confidava nel fatto che la sua invenzione sarebbe andata a vantaggio del progresso elettrotecnico, e rispose semplicemente “sono un professore, non un industriale” (la compagnia elettrica gli donò comunque diecimila dollari).

Valori meno nobili guidarono invece Nikola Tesla, elettrotecnico americano di origine slava ed ex assistente di Edison. Tesla, messosi in società con Westinghouse, tentò di contestare a Ferraris la paternità della scoperta e il 1° maggio del 1888 richiese l’ottenimento di un brevetto su un motore ad induzione fondato sul campo magnetico rotante. A Parigi, nel 1889, Tesla presentò alla Exposition Universelle alcuni modelli funzionanti della macchina ad induzione e nel 1891 realizzò con la Westinghouse la prima centrale idroelettrica presso le cascate del Niagara.

Su questa diatriba Ferraris scriveva così in una lettera del 23 luglio 1891: “L’idea fondamentale di produrre un campo magnetico rotante per mezzo di correnti alternate è mia. Io feci su di ciò una serie di esperienze fin dal 1885 e pubblicai poi, dopo tre anni, il 18 marzo 1888, una nota in cui il principio e le sue applicazioni possibili sono esposti in poche parole. Ho visto a Francoforte che tutti attribuiscono a me la prima idea, il che mi basta. Gli altri facciano i denari, a me basta quel che mi spetta, il nome.”

Gli incarichi, le consulenze, i convegni, l’insegnamento e la ricerca assorbirono sempre più lo scienziato piemontese minandolo nel fisico, al punto che il discorso che tenne il 6 gennaio 1897 nella sua città natale, in occasione della nomina a senatore, suonò come una sorta di testamento morale, un segno premonitore degli eventi che sarebbero accaduti di lì a breve.

Una domenica, dopo aver lavorato tutto il giorno, Ferraris manifestò una febbre molta alta, tuttavia il giorno seguente, il 1° febbraio 1897, si recò ugualmente a far lezione, ma dopo mezz’ora fu costretto a congedarsi dall'aula dicendo:

“Signori, la macchina è guasta, non posso continuare.” Una settimana dopo, nemmeno cinquantenne, Galileo Ferraris si spense nella sua casa di via XX Settembre a causa di una polmonite.

 

fonti:

https://rivistasavej.it/lung/2020/il-progresso-secondo-galileo-ferraris

 

 

 

 

 

LA TORINO MISTICA, MAGICA ED ESOTERICA

 

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Il “Triangolo Bianco” e il “Triangolo nero”

 

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Secondo gli esoteristi Torino appartiene ad un triangolo “bianco” di forze benefiche, insieme a Lione e Praga, ma contemporaneamente anche ad un triangolo “nero”, insieme a Londra e San Francisco). Questo contrasto e questa ambivalenza la rendono una città enigmatica e misteriosa.

 

fonti:

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, formato eBook, posiz. 467,9

 

Sovrani alchimisti e architetti cabalisti e massoni

 

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L'aura «magica» di Torino non è di ieri, in una città il cui volto è stato forgiato in modo indelebile da quel Guarino Guarini che era tanto architetto quanto cabalista, attirando persino, per le sue attività «coperte», le temibili attenzioni della Santa Inquisizione.

La città fu fatta capitale da Emanuele Filiberto che, come molti ignorano, era – alla pari di suo figlio Carlo Emanuele – alchimista appassionato ed esperto e passava molte delle sue ore notturne fra storte e alambicchi. Sappiamo che Carlo Emanuele si recludeva per lunghi periodi di tempo nei propri appartamenti per produrre con l’aiuto di chimici l’oro filosofale. Verso la metà del 1600 Maria Cristina di Savoia, vedova di Vittorio Amedeo I, riprese le ricerche aiutata da un singolare personaggio, un mago francese di nome Craonne. Di questo laboratorio sappiamo che si trovava in una cantina del Palazzo, alla base di una torre orientata verso la collina, e sappiamo anche che il fumo veniva convogliato attraverso uno spiraglio nel fossato di cinta.

Torino è il posto dove, nel 1773 - quando i Lumi risplendono in Europa e l'intellighenzia celebra il suo trionfo sulle «superstizioni dei secoli bui» -, un decreto reale minaccia la pena di morte a chi pratichi «arti stregonesche e diaboliche». Decreto che ci informa come quelle «arti» fossero ancora correnti, in Piemonte, tanto da esigere l'intervento della legge. Non solo: le diavolerie erano ancora prese tanto sul serio, dalla gente come dalle autorità, da prevedere la pena capitale, proprio perché giudicate non farse o imbrogli, bensì minacce drammatiche alla convivenza sociale.

A Torino lavorò, disseminandola di simboli massonici il maggiore degli architetti neoclassici italiani, Pelagio Pelagi.

 

fonti:

Giuditta Dembech, Torino città magica, volume 1

 

L’oroscopo di Torino

 

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Come avviene per le persone, di cui si tenta, da parte di cultori dell’astrologia, di tracciare un quadro astrale, per analizzare il carattere, la vita, in una visione retrospettiva e anche in una dimensione che riguarda il futuro, così succede per le città. In questi ultimi anni da più parti si è scrutato il destino di Roma, New York, Londra, considerando tali metropoli in funzione delle stelle. Per le persone ci si basa sulla loro nascita, giorno, anno, ora e località, ma per le città, come orientarsi? Si è scandagliata la storia per intuire quando nacquero, magari come povero villaggio, con poche capanne - questa è perlopiù l’origine dei grandi centri urbani di oggi - oppure si è andati alla ricerca di un “atto”, ossia di un documento storico che ne sancisse la “nascita”, in modo più o meno attendibile.

Con tale metodo si è giunti ad affermare che Torino potrebbe dirsi “nata” il 7 febbraio 1563, una domenica, alle undici antimeridiane, quando Emanuele Filiberto (v.) vi trasferì la capitale del ducato nel cuore del Piemonte, preferendola a Chambéry. Il duca nel 1578 vi fece poi portare anche la Santa Sindone (v.) il talismano di Casa Savoia, quasi per consacrare la città quale “capitale effettiva”. Considerando tali eventi, gli amanti delle stelle sono giunti, quasi unanimemente, alla conclusione che Torino è nata con il Sole nell’Acquario e l’ascendente nel Toro, il che potrebbe spiegarne il carattere contrastante, creativo, conservatore, racchiuso in sé, caparbiamente rivolto al passato e, nello stesso tempo, proiettato al divenire. Un’anima molto conservatrice e un’altra progressista. Continua fucina di idee, di iniziative, che poi la scia cadere in mani d’altri, i quali pensano a sviluppare e, magari, a ricavarne fortuna. La Luna situata nel Leone, secondo gli esperti dell ’ astrologia, sottolineerebbe, almeno per la storia di Torino, la forza, l’amicizia, e anche il contrasto con la vicina Francia. Il Sole in Acquario evidenzierebbe lo slancio verso est, le lotte per l’indipendenza contro l’Austria. Non è mancato chi è giunto alle medesime conclusioni, o quasi, partendo però da un altro giorno storico, il 16 giugno 1687, quando Torino registrò il proprio stemma, con un toro rampante dorato e la corona comitale a nove perle. Altri sono andati ben più a ritroso.

Qualunque punto di riferimento venga scelto per determinare l’anima, il carattere della città, ne emergono caratteristiche ben delineate, anche sul piano strutturale, architettonico, oltre che su quello sociale e politico. Si può così reperire sullo schermo della storia passata, ma con premesse che coinvolgono presente e futuro di Torino, una città azzurra, liberale e conservatrice, la città di Cavour nel periodo risorgimentale, monarchica, cuore del regno sabaudo poi dell’Italia intera, città arroccata intorno a piazza Castello, Palazzo Reale, a Palazzo Carignano, primo parlamento subalpino e poi italiano. Ed è identificabile una città rossa, quasi culla del movimento operaio e socialista, presente in quel Borgo San Paolo già definito “piccola Stalingrado”. È la zona dell’ex via Villafranca, strada poi dedicata al partigiano Dante Di Nanni, piazza Sabotino, dove tenne i suoi comizi, sull’angolo di corso Peschiera, l’allora socialista Benito Mussolini. Qui aveva la sua stireria Rita Montagnana, dove il futuro leader comunista Paimiro Togliatti portava le camicie, e spesso compariva in bottega anche Antonio Gramsci, a parlare delle battaglie di allora, di proletariato, di risveglio delle masse. Dalla città considerata “sovversiva” presero le mosse movimenti politici che dall’“officina” Torino si svilupparono poi in quasi tutta la penisola.

Una Torino in continua fibrillazione, dove alcune menti diedero avvio a promettenti industrie, destinate in pochi anni a mutare il volto della città. È pure riconoscibile, forse attraverso un quadro astrologico, bene inteso per chi crede nell’influsso delle stelle, anche una Torino nera, in cui il colpevole l’ha fatta franca. Crimini insoluti, archiviati, senza un assassino individuato.

E sono davvero tanti, al punto da insidiare il primato di altre metropoli, anche d’oltreoceano. Torino, quindi, come un gioco di scatole cinesi: aprendone una, ne emerge un’altra. Non può trascurarsi la grandiosità della Torino bianca, splendente per i suoi santi, spesso definiti “sociali” per l’apostolato che svolsero fra i giovani, i diseredati, i malati, e qui vengono spontanei i nomi di don Bosco (v.), del Cafasso (v.), del Cottolengo (v.) È la città del miracolo eucaristico del 1453, legato alla chiesa del Corpus Domini (v.).

Nell’oroscopo di Torino viene inserita talvolta anche la mitologia, da chi vuole vedere ben più lontano nelle radici della città. Ci si rifa a Fetonte, figlio del Sole, che guidando il carro infuocato sottratto al padre venne da questo colpito con folgori. Fetonte precipitò nell’Eridano, ossia nel Po, e nacque così un rapporto mitico fra il Cielo, inteso come sede di divinità, e il lungo fiume che alcuni vogliono fratello del Nilo, in un sovrapporsi di circostanze, affinità e riflessi astrologici. Elementi che, forse in troppi casi, hanno suggerito queiraggettivo, “magica”, associando Torino ad altre città, ugualmente antiche, di forte spessore culturale, di buon impatto per il fascino che sprigionano, pur lontane fra loro e del tutto differenti per origini e per tradizioni, come Londra e Lione, come Praga. E poco importa che “magica”, in fondo, non voglia dire granché, provenendo tale aggettivo da magia, termine tanto complesso quanto impalpabile, con sfumature esoteriche che continuano ad attrarre, nonostante i tempi nostri sempre più disincantati.

 

fonti:

Renzo Rossotti, Guida insolita di Torino, pp. 179 ss.

 

I Templari a Torino

 

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Un mistero tira l’altro a Torino, che sia questo alimentato da prove certe o da semplici leggende. Fino a poco tempo fa la presenza storica dell’ordine templare nel capoluogo piemontese era più che altro una diceria.

La famosa storia del calice della statua della Fede, che si diceva indicasse la via verso il Santo Graal, oggi è accompagnata veri ritrovamenti archeologici che constatano l’effettiva presenza sul territorio dei monaci guerrieri. A cambiare le carte in tavola sono stati alcuni ritrovamenti archeologici ed uno studio durato diversi anni, che hanno comprovato l’esistenza templare in un presidio fortificato, sito sull’attuale Monte dei Cappuccini tra il 1204 e il 1314.

Lo scopo dei cavalieri all’epoca era quello di sorvegliare un ponte di legno che collegava le due rive del Po e che veniva giornalmente attraversato dai pellegrini diretti a Roma, oltre al controllare la navigazione fluviale dell’area.

Le nuove prove oggetto di studi sono state il rinvenimento del 1992 di un corredo funebre, composto da un cucchiaio in rame e un piatto con le insegne dell’Ordine ed un bacile decorato dal simbolo templare del nodo di Salomone nella zona del «Bastiglione Est» del Monte.

Già in quello stesso luogo nel 1943 era venuto alla luce uno scheletro, attribuibile ad un notabile templare, raccolto in periodo bellico e poi depositato nell’ossario del Monte.

Le ossa erano state trovate casualmente da un frate che stava coltivando l’orto, cosicché si esumò l’intero corpo, ma non si proseguì con gli scavi.

A confermare le numerose fonti d’archivio dell’Ordine dei templari a Torino è stato un gruppo di ricercatori, studiosi ed archeologi composto da frate Luca Isella, storico cappuccino, Mauro Lanza, che diresse i restauri all’edificio tra il ’92 e il ‘95, l’antropologo Renato Grilletto e Carla Amoretti, figlia del generale Amoretti che iniziò le indagini.

La cordata di archeologi si spinge persino ad ipotizzare l’identità del feretro, che sarebbe riconducibile a frate Ogerio, che nel 1276 era responsabile della precettoria templare torinese.

Le voci sono divenute quindi realtà ed è confermato che i monaci guerrieri vennero chiamati a Torino dal Vescovo verso il 1148.

Questi avevano proprietà nell’attuale zona Vanchiglia e in collina, ma la loro residenza cittadina si trovava attorno al 1203 nella “Porta Marmoream”, giusto fuori la cinta muraria, ricollocabile oggi tra via Principe Amedeo e via Po.

La notizia è stata comunicata solo ora dopo vent’anni poiché sono conclusi gli studi che daranno vita ad un volume che tratterà i templari torinesi ed in cui si parlerà anche di Frater Ogerius.

Ad un interrogativo risolto se ne contrappone uno nuovo: i resti rivenuti sono davvero di Ogerio?

La sepoltura individuale, dietro la antica chiesa di Santa Maria, indica un personaggio importante. Il corpo è stato inumato senza vestiti e cucito nel sudario, come imponeva il voto di povertà templare, ma alcuni dubbi sono però alimentati dal corredo alquanto povero.

Che vi siano altri oggetti sepolti che non hanno ancora visto la luce?

 

fonti:

https://mole24.it/2013/02/15/i-templari-a-torino/

 

Un triangolo della morte a Torino: dove Nietzsche, Pavese e Salgari incontrarono il loro destino

 

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“Cantami un inno nuovo: il mondo è trasfigurato e tutti i Cieli esultano”: è l’ultimo messaggio di Nietzsche dalla sua stanza che dava su Piazza Carlo Alberto, prima di essere trascinato nel reparto furiosi di un manicomio, firmato “il croficisso” ovvero il “rex taurinorum”, come si credeva nel suo delirio.

C’è a Torino una zona che forma un triangolo equilatero i cui lati, partendo dalla piazza Rivoli, corrono per corso Francia sino a piazza Statuto, e da lì seguono Inghilterra sino a corso Vittorio Emanuele, e che risalivano a completare il triangolo, appunto in piazza Rivoli. Il più lungo dei lati misura quasi due chilometri. Dentro il perimetro c'era il grande mattatoio e il quartiere "Cit Turin", la Piccola Torino, con strade come via Susa e via Avigliana.Ebbene, in questo triangolo, Lucentini si è suicidato e Pavese e Salgari e Primo Levi pure e Nietzsche è diventato pazzo furioso, mentre a Gobineau è venuto l'infarto mortale. Sono solo coincidenze o qualcosa di oscuro si annida in quella zona?

 

Le tre grotte alchemiche

 

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Le grotte alchemiche sono tre presunti luoghi sotterranei che costituirebbero dei veri e propri luoghi di potere, porte per altre dimensioni spirituali.

Queste grotte, che nel corso dei secoli sarebbero state abitate da celebri iniziati, come il mago Apollonio di Tiana e Paracelso. In esse si troverebbe la pietra filosofale, nel senso che esse stesse sarebbero il "lapis" che conferisce l'illuminazione a chi vi penetra, i catalizzatori di energie che possono promuovere la trasformazione dell'essere umano. A queste grotte si accederebbe da diversi punti di Torino. Atraverso la prima grotta si prende possesso della conoscenza che porta al dominio della materia. Nella seconda grutta si può accedere solo trascendendo la materia e si viene in contatto con intelligenze superiori. La terza grotta può essere fatale e rappresenta la soglia di una trasformazione definitiva e incomunicabile dell'essere.

Secondo la leggenda, la prima grotta sarebbe sotto Palazzo Reale. La seconda tra Piazza Castello e Via Garibaldi, e la terza avrebbe una ubicazione nota solo a pochissimi iniziati e racchiuderebbe la pietra filosofale.

 

Personaggi della Torino esoterica

 

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Faust a Torino. Da Agrippa von Nettesheim a Cagliostro, tutte le figure dell’occulto che la città ospitò

 

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Se Torino, che prima di essere designata come capitale Sabauda nel 1563 era un centro abitato di dimensioni molto ridotte, chiuso nelle mura romane con pochi sparsi borghi nelle vicinanze e appartata rispetto a tante altre città d’Europa è stata meta di pellegrinaggio di tanti personaggi legati alla storia della magia, forse qualcosa di vero c’è nel pensare che la città abbia qualcosa di misterioso e soprannaturale. Il primo a visitare Torino fu Paracelso, alchimista, principe degli iatrochimici e profeta della riforma del mondo, che aveva studiato occultismo sotto il famigerato Abate Tritemio. Poi arrivò nientedimeno Enrico Cornelio Agrippa di Nettesheim, l’autore dell’opera proibita Della Filosofia Occulta o la Magia, una summa della magia naturale, della cabala, della magia cerimoniale e dei riti e sigilli per invocare entità soprannaturali. Il suo libro fu messo subito all’Indice dalla Chiesa, e le copie stampate sparirono dalla circolazione dovunque l’Inquisizione arrivava con la sua mano. Christopher Marlowe, nel suo celebre dramma teatrale La tragica storia del Dottor Faustus paragona Faust ad Agrippa. Si dice che il demonio lo seguisse sotto forma di un cane nero e che nel momento in cui la sua vita finì, probabilmente a Lione, solo e povero, il cane comparve un’ultima volta per portarlo all’inferno.

Agrippa era venuto nel 1515 a Casale, alla corte di Guglielmo IX, Marchese del Monferrato. Passò nel febbraio 1517 a Torino, ove fu lettore di teologia all’Università per poi lasciare la città a maggio. Molti biografi sospettano che alla Corte di Casale fossero coltivati studi esoterici e occultistici e che gli spostamenti del famoso mago in Italia, Francia e in Germania fossero la mappa di una rete di iniziati che coltivavano le arti proibite.

Cagliostro, avventuriero, alchimista e studioso dell’occulto, aveva già fondato la sua Massoneria di rito egizio, di cui si era proclamato Gran Cofto, quando nel luglio del 1788 arrivò a Torino dalla Svizzera insieme alla moglie Lorenza, ma la sua fama spaventa le autorità e viene immediatamente espulso.

Il Conte di Saint Germain, la cui vera identità è avvolta nel mistero, musicista sublime, cortigiano raffinato, che racontava amabilmente alle signore della sua vita immortale e delle sue conversazioni con il Faraone, era noto in tutte le corti d’Europa e fu anche ricevuto in quella di Torino, dove come altrove dovette suscitare una curiosità insaziabile.

Infine, si dice che Torino abbia visto aggirarsi per le sue vie il più enigmatico e famoso degli alchimisti moderni, Fulcanelli, il cui nome allude alle due parole “Vulcano” e “Helios”, due elementi che rimandano ai fuochi alchemici. Di lui non si sa nulla, tranne che è l’autore di due celebri testi di alchimia: Il mistero delle cattedrali e Le dimore filosofali, in cui rivela i simboli alchemici presenti nelle architetture delle antiche cattedrali gotiche e in palazzi fatti erigere da iniziati che vi nascosero il segreto della Grande Opera. La fama di Fulcanelli ha raggiunto ogni continente e i suoi libri sono stati venduti in milioni di copie. Sicuramente l'alone di mistero che avvolge questa figura del secolo scorso ha contribuito a fomentare l'interesse verso il filosofo. E a Torino forse egli ha sostato per scrivere le sue opere.

 

Gustavo Adolfo Rol

 

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Sensitivo di rilevanza mondiale, sbalordiva per i suoi “giochi” ad effetto, per la carte che maneggiava in modo spettacolare, come i pennelli, che proiettava sul tele vergini componendo paesaggi sullo stile di questo o quel grande maestro dell’arte da cui settembre 1995 lasciando sulla propria scia una impressionante documentazione di volumi, articoli, saggi, in tutte le lingue,che ne rievocavano le facoltà, del tutto inspiegabili sul piano razionale. Non mancarono polemiche ricordando come Rol non avesse mai accettato di sottoporsi a “esami” e a “verifiche” che in più occasioni gli furono sollecitate e che non lo interessarono mai.

Con il passare degli anni. Gustavo Adolfo Rol aveva visto ingigantirsi la propria “leggenda”, anche per la sua arte di negarsi, di non esibirsi mai in pubblico, se non in una cerchia ristretta, di non avere mai, di proposito, affrontato la televisione, lasciando che di lui raccontassero, anche con evidenti esagerazioni. Così per l’impresa, che gli era attribuita, di poter passare attraverso i muri, di farsi piccolissimo come un nanerottolo, di proiettarsi in un luogo assai distante, per una sorta di ubiquità riservata a pochi santi. Quando ne sentiva riferire, non accennava che un impercettibile sorriso, senza commenti. <Era già vissuto in altre epoche? Era stato con Bonaparte in vittoriose battaglie?

La faccenda di Napoleone non potè mai essere appurata, analizzata come qualcuno avrebbe voluto. Rol di Napoleone sapeva tutto, “sentiva” Napoleone, ne conservava alcuni cimeli, lo amava. Era come se captasse l’immagine deli'ernpereur sfiorando a Parigi nella vetrinetta degli “Invalidi”, la sua redingote grigia. indossata sui campi di battaglia. Per Rol, Napoleone era sempre presente, gli dava un'ebbrezza difficile a esprimere in parole, da Austerlitz a Waterloo, e anche oltre, sino al crepuscolo. Napoleone appartiene al mistero Rol, ne è una delle componenti. Alcuni personaggi celebri, dopo pochi momenti di conversazione, orientando il discorso su Torino, parlavano di Rol. Così Salvador Dali, la signora Eimaudi, consorte del presidente della Repubblica Luigi Einaudi, l’ultima regina d’Italia, Maria José. De Sica, Walt Disney, il grande predicatore padre Lombardi, il pittore Annigoni, l’artista che produsse i ritratti della regina Elisabetta e di altri membri della famiglia reale britannica. Rol, o di persona o con i riflessi della sua fama, li incantava.

Nella leggenda di questo gentiluomo c’è di tutto, da Merle Oberon. cui predisse la tragica fine del conte Cini, a Federico Fellini. al punto che, dopo la scomparsa di Rol, «La Stampa» lo chiamò in un titolo “il mago di Fellini”. C’era naturalmente Giulietta Masina, e qualcuno gli attribuisce incontri con Mussolini, Pio xji, Pitigrilli, che gli fu amico, e tante altre celebrità. Non negava, non confermava, sempre riservato, discreto, dandoti la sensazione che la cosa più diffìcile di questo mondo fosse di riuscire a farlo ridere.

Dino Bozzati, che ne rimase affascinato, sempre pronto a cogliere aspetti e personaggi di una Torino spesso definita “magica”, ebbe a riferire, dopo un incontro con Rol, la frase che più lo aveva toccalo: «Non sono un mago. Non credo nella magia. Tutto quello che io sono e faccio viene di là [e intendeva il cielo]; noi tutti siamo una parte di Dio [...] e a chi mi domanda perché faccio certi esperimenti rispondo: “Li faccio proprio a confermare la presenza di Dio”». Dio era il punto di riferimento di Rol, il cardine di tutto, l'inizio e la fine di una sciarada che per Rol durò novantun'anni. Forse, sembra, da qualche parte aveva scritto il momento della sua fine terrena, l’anno, mese e giorno, forse anche l’ora.

 

fonti:

Renzo Rossotti, Guida insolita di Torino, pp. 217 ss.

 

La Torino dei gruppi e dei ritrovi esoterici

 

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La Federazione di Damanhur

 

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La Federazione di Damanhur, spesso detta semplicemente Damanhur, è una comunità situata a Vidracco in Piemonte, a circa 50 km a nord di Torino, dove venne fondata nel 1975 da Oberto Airaudi, e basata sulla sua filosofia che vede l'essere umano come portatore di una scintilla divina, della quale prendere consapevolezza attraverso la meditazione su di sé e sulla sacralità dell'universo. Damanhur prende nome dall'omonima città egiziana, sede nell'antichità di un tempio dedicato a Horo.

In anni precedenti Airaudi, che si era dedicato sin dagli anni settanta alla pranoterapia, alla ricerca nel campo della "selfica" e di altre discipline a carattere filosofico-esoterico aveva fondato a Torino il Centro Horus con l'intento di diffondere rudimenti delle principali discipline parapsicologiche e realizzare una clinica pranoterapeutica.

La comunità è costituita da una ventina di abitazioni sparse nella Valchiusella ognuna delle quali composta mediamente da una ventina di persone. La Federazione si struttura su aree boschive o agricole (campi coltivati e fattorie), con abitazioni, aree produttive (aziende, laboratori artistici), scuole e giornali, e qualche decina di altre attività economiche e di servizio. Damanhur è una società ecologica, membro del network Gen (Global Ecovillages network) e di Rive (Rete Italiana Villaggi Ecologici). I membri della comunità usano assumere un nome di animale e di vegetale, a simbolo di rinnovamento e unione con la natura.

Dal 1981 la comunità, con Airaudi come guida spirituale, ha adottato una propria moneta utilizzata per gli scambi interni, e ha sviluppato una propria economia applicando l'idea di beni e ricchezza comuni. Nel 1986 erano funzionanti un scuola materna privata interna alla comunità e una scuola elementare. Nel 2010 la comunità contava 600 residenti.

Il lavoro comune è gestito dai “Re Guida”, eletti semestralmente dai cittadini e sottoposti al giudizio del "Collegio di Giustizia", supremo organo di controllo della Federazione. I membri assumono un nuovo nome, ispirato alla natura per simboleggiarne la comunione; possono mantenere alcuni beni della vita precedente o affidarli definitivamente ad alcune cooperative locali; sono sottoposti a un regolamento interno che determina ogni aspetto della vita quotidiana, dal lavoro ai diritti e doveri di ognuno.

Ci sono anche dei centri in altre città italiane e all'estero (Europa e Giappone), dove si svolgono corsi, conferenze e attività collegate a essa.

 

I Raeliani

 

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Vedi “Extraterrestri e UFO a Torino”

 

La Società Teosofica

 

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Torino vanta la consolidata presenza di una sezione della Società Teosofica fondata nel 1875 a New York dalla medium e sensitiva Madame Helena Petrovna Blavatsky, il Colonnello H.S. Olcott, il Dottor S. Pancoast, l’avvocato ed editore J.S. Cobb, il fotografo e inventore J.J. Newton, l’esploratore e scrittore C. Sotheran, i pastori evangelici J.H. Wiggins e R.B. Westbrook, l’editore E.H. Britten, il medico e scrittore C.E. Simmons, il giornalista H.D. Monachesi, il procuratore legale W.Q. Judge.

Nel luglio dell'anno precedente la Blavatsky aveva annotato nel suo diario l'invito da parte di maestri occulti, con cui sarebbe stata in contatto telepatico, a fondare una Società filosofico-religiosa, per promuovere gli antichi insegnamenti della teosofia, quella saggezza divina che era stata alla base di altre scuole del passato, come il neoplatonismo, lo gnosticismo e i misteri del mondo classico. Nel 1888 la Blavatsky pubblicava il libro La dottrina segreta, in cui spiega che l’evoluzione dell'umanità si inserisce in quella complessiva del cosmo, ed è supervisionata da una gerarchia spirituale di personalità risiedenti in luoghi segreti, i cosiddetti «Maestri dell'Antica Sapienza», i cui gradi superiori sono costituiti da esseri spirituali ancora più avanzati. La Società Teosofica sarebbe uno dei numerosi tentativi attuati nel corso dei millenni da questa Gerarchia nascosta per aiutare l'umanità, in accordo con lo schema evolutivo cosmico intelligente, per guidarla verso il suo ultimo, ineludibile destino: il raggiungimento della perfezione e della consapevolezza, con cui prendere parte volontariamente al processo evolutivo in corso.

H.P. Blavatsky visitò frequentemente l’Italia: non è un caso che il primo Gruppo Teosofico, dopo la fondazione della Società Teosofica a New York, fu istituito a Corfù dall’avvocato Pasquale Menelao di Molfetta, il quale fu anche uno dei Vicepresidenti della Società Teosofica negli anni 1880-1888. Sono noti l’amicizia con Garibaldi e la collaborazione con Mazzini che incontrò a Londra.

Questo spiega il rapido sviluppo della Società Teosofica in Italia. Il primo Centro Studi Teosofici fu promosso nel 1891 a Milano dalla signora J. Murphy e a Roma nel 1897 dalla signora C.A. Lloyd in collaborazione con il dottor Calvari, Segretario Generale del Parlamento. Furono frequenti le visite in Italia di importanti esponenti come H.S.Olcott e Annie Besant. Per interessamento del Console Britannico si costituirono i Gruppi di Palermo e di Genova, seguiti a breve tempo dai Gruppi di Firenze, Napoli , Bologna, Torino etc.

 

Negozi e librerie di articoli esoterici

 

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Torino è sempre stata ricca di librerie specializzate in esoterismo, come la storica libreria Psiche, in Via Madama Cristina e in Via Monginevro, o la libreria Esotericamente di Via Garibaldi o L’Antro della Magia in Piazza Statuto, che vende cristalli magici, caandele, profumi e accessori rituali. Intorno ad esse gravita un mondo pittoresco di appassionati dell’occulto, di seguaci dei culti Wicca, di membri di centri Yoga o di società teosofiche che costituiscono il pittoresco sottobosco della Torino esoterica.

 

Fantasmi e spiriti a Torino. La Torino capitale dello spiritismo di fine Ottocento e le sue medium.

 

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Le meraviglie dello spiritismo a Torino

 

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Nel 1856 II libro degli Spiriti, di Allan Kardec, aveva provocato rumore. Kardec (pseudonimo di Hyppolite Denizard Rivail) è considerato il “codificatore” dello spiritismo, colui che cercò di dargli un ordinamento trasformandolo in dottrina. 1 circoli spiritistici, i club, da allora si moltiplicarono e in parecchi a Torino presero l’abitudine di ritrovarsi attorno a un tavolino per avere contatti con l’aldilà. Nel 1856 si costituì a Torino la prima società spiritica italiana di cui fece parte il vicepresidente della Camera dei Deputati, Gaetano Demarchi. Erede di quel sodalizio fu la Società Torinese di Studi Spiritici, nata nel 1863, che nel 1864 cominciò la pubblicazione degli Annali dello Spiritismo in Italia. Il gruppo trovava un appassionalo animatore in un tipografo. Enrico Dalmazzo, il quale esprimeva pure facoltà medianiche e usava lo pseudonimo di Teofilo Coreni. Nel 1865 gli Annali passano sotto la direzione di Niceforo Filatele (Vincenzo Scarpa) segretario del principe di Carignano c già segretario del conte di Cavour. Proprio lo spirito del conte doveva manifestarsi ad alcuni membri del gruppo e, in particolare, a Massimo d’Azeglio, a cui dettava faticosi “esercizi". «Chi mi avesse detto, vent’anni fa, che crederei (non dico agli spiriti,che ho sempre credulo nell'immortalità dell'anima) alle comunicazioni dirette degli spiriti!!’». Così d’Azeglio ebbe a scrivere in una lettera da Cannerò il 14 ottobre 1865.

Difficile distinguere, fra quelle “manifestazioni" spiritiche, ciò che pareva genuino, anche se inspiegabile, da evidenti imbrogli escogitati per far ballare il tavolo, causare la comparsa di fantasmi, di ectoplasmi che dovevano in qualche modo rassomigliare a un defunto evocato. Cesare Lombroso (v.) uscì stupefatto da una sala in cui aveva assistito a “esperimenti" compiuti dalla medium Eusapia Palladino, più volte accusata di ricorrere a banali trucchi a effetto.

All’inizio del Novecento ebbe fama a Torino la medium Linda Gazzera. Bruna e ricciuta, la donna è ritratta in alcune lastre fotografiche, sviluppate da Ferdinando Bietenholtz, banchiere e commerciante di sete, che in via Pietro Micca 9 aveva aperto un negozio di macchine fotografiche e di attrezzature per l'arte fotografica che stava facendo proseliti. Vicino al volto della Gazzera si scorge la caratteristica nube bianca dell’ectoplasma, come nelle ben note immagini del fantasma di Katie King evocata dalla medium Florence Cook.

Le fotografie “spiritistiche” furono di moda anche a Torino, come a Parigi. Là, nel 1875, aveva fatto scalpore il processo intentato contro il fotografo Jean Buguet, che sui boulevard si era specializzato nell’arte di fotografare, soprattutto per confortare vedove, mariti defunti, oppure, per vedovi, mogli decedute, o figli, o sorelle o altre persone care; bastava descrivergliele in modo da dargli il tempo di preparare il suo trucco: un viso adatto, già impressionato nella lastra, rimaneva poi visibile nella foto alle spalle del richiedente. Questi si commuoveva, riconosceva il “caro estinto”, pagava una modica cifra e se ne andava. Il gioco andò avanti finché non ci fu qualcuno che denunciò Buguet come «imbroglione che pasticciava con foto ritagliate, pupazzi e fotomontaggi».

A Torino, nell’attuale piazza Carlo Felice, di fronte alla stazione di Porla Nuova, certo Lazzaro Macrini (in alcune note cronistiche è chiamato Magrini), tentò nel 1909 qualcosa di simile. Per 50 centesimi fotografava l'aldilà, ma non venne processato. Se la diede a gambe quando tre militari, sentendosi gabbati, gli gettarono per aria il baracchino scoprendo i suoi trucchi e mettendolo in fuga. Anche nella Torino della belle epoque c’era chi tentava di barare al gioco.

Evocato in un salotto, il cosiddetto “fantasma" poteva incuriosire e suscitare differenti emozioni in coloro che prendevano parte alla seduta. Ben diverso il caso di un’entità che si manifestava spontaReamente in una casa, mettendo ogni cosa sossopra e causando panico.

Le cronache torinesi del primo Novecento riportano casi simili, ben più frequenti di quanto non siano oggi. Effetti rovinosi, soprattutto sul piano economico, causava la presenza di un fantasma in un albergo. Se per “studiare il caso” arrivavano due o tre sedicenti esperti, in compenso gli altri clienti se ne andavano impauriti, giurando che in quel locale mai più avrebbero rimesso piede.

Casi del genere avvennero in alcuni alberghi e ne abbiamo dato cenno.

il fantasma del cappel verde

Al Cappel Verde si udivano gemiti soffocali, singhiozzi di una donna che invocava aiuto o, in certe notti, ululava come un lupo. Si parlò così della presenza di Eleonora che, cinque anni prima, era stata soppressa dai parenti dopo una lite furibonda.

L’inquieto fantasma risultava dotato di una forza incredibile e, si disse, giunse al punto da spostare un pesante guardaroba lungo l’intero corridoio del primo piano, con rumori infernali.

l’albergo fucina

L’albergo Fucina in via Mascara (o delle Maschere), ebbe fenomeni analoghi che si protrassero per un certo tempo. La strada oggi non c’è più, abbattuta come altre a breve distanza dal palazzo del Municipio, presso la chiesa di San Pietro del Gallo, aneti'essa sparita nel quadro di una generale ristrutturazione urbanistica.

Prima del 1851 si chiamava contrada delle Maschere e si pensa da taluni che ciò derivasse da un emporio che vendeva oggetti per il carnevale, soprattutto maschere.

Altri ritengono che la denominazione provenisse da una famiglia, quella dei Mascara, che abitava nella contrada dal 1300. Adalgisa, legata agli ambienti di Corte, appariva turbata da un sogno ricorrente; lo riferì ai parenti e, quindi, a un conoscente magistrato che, incuriosito, volle indagare. Adalgisa sognava tre bare, nere e lucide, che lentamente si schiodavano lasciando uscire tre spettri che agitavano le braccia e parevano farle così un cenno di richiamo.

Si fecero ricerche negli scantinati, presso fattuale via Quattro Marzo, e alla fine vennero portali alla luce tre sacchi contenenti ciascuno uno scheletro. Le indagini su quel triplice omicidio non approdarono a nulla e tutto finì in archivio, ma da allora Adalgisa quel sogno non lo fece più.

la camera numero nove dell’hotel inghilterra

Storia analoga quella legata alla camera numero nove dell’Hotel Inghilterra. Anche in questo caso i clienti per un po’ si dileguarono o, comunque, chiedevano espressamente di non vedersi assegnare quella stanza in cui si diceva avvenissero cose agghiaccianti, come il sentirsi accarezzare da una mano gelida.

via della basilica

L’antica via torinese è legata a inquietanti presenze che trovarono posto anche in ballate popolari, spettri ai quali ciascuno tendeva ad attribuire una storia particolare. In alcuni casi la localizzazione del fenomeno appare incerta. Nei pressi di contrada delle Maschere, ma secondo altri più propriamente in via della Basilica, il giorno 10 di ogni mese si manifestava, al primo piano di una vecchia casa, un fantasma femminile che «irraggiava luce» e pareva pronunciare qualche parola, come «misericordia». Ci fu chi mise in correlazione tale entità con la scomparsa, qualche anno prima, di una donna a cui si attribuivano proprietà di guaritrice.

la bella cappellaia

La cosiddetta Bela Caplera, che aveva tradito e poi assassinato il marito, aveva un negozio nei pressi di quella che i torinesi chiamano piazza Carlina (piazza Carlo Emanuele) e proprio in tale piazza la donna fu decapitata con la ghigliottina. Viene riferito che la poveretta, dopo l'esecuzione, il capo afferrato per i capelli dal boia, venne schiaffeggiata dal carnefice che mostrò alla folla la testa sanguinante. Alberto Viriglio riferì la testimonianza del dottor Secondo Berruti, autore di una “memoria” Sul modo da preferirsi nell’applicazione della pena di morte, che assistette per anni alla fine di molti condannati. Sembra che tale medico avesse fatto promettere alla Bela Caplerà un segno per dirgli se, a esecuzione compiuta, sentisse ancora sofferenza. Mentre il boia esibiva la testa alla gente, intorno al patìbolo, gli occhi della decapitata si volsero verso il medico e ne uscirono abbondanti lagrime.

Secondo taluni studiosi dell’occulto, la Caplera si sarebbe manifestata in più occasioni, anche senza essere evocata. In particolare avrebbe dato segni della sua presenza in una soffitta di via San Francesco da Paola, a pochi passi di distanza da piazza Carlina in cui era stata ghigliottinata.

la principessa barbara beloselki

Questa principessa russa, sepolta nel vecchio cimitero di San Pietro in Vincoli, ha contribuito ad alimentare avventurosi resoconti, con il suo fantasma che, inquieto, si farebbe vedere di tanto in tanto. La principessa è detta anche “La velata” per la statua eretta presso il suo sepolcro. Barbara era la moglie di Aleksandr, letterato, poeta, musicologo e diplomatico, ambasciatore di Caterina di Russia presso i Savoia. Non si conoscono le cause della sua morte che sarebbe avvenuta il 25 novembre 1792. Appena ventottenne, lasciava tre figli, di otto, tre e due anni. La statua in suo ricordo raffigura una dama velata - il velo tanto aderente al volto da fame scorgere le sembianze - che stringe con la destra un calice. Il marito aveva dettato in francese l’epigrafe:

«Oh, sentimento! Sentimento! Dolce vita dell’anima. Quale cuore non hai mai colpito? Qual è lo sfortunato mortale cui non hai mai offerto il dolce piacer di versar lacrime, e qual è l’anima crudele che, dinnanzi a questo monumento così semplice e pietoso, non si raccolga con malinconia e non condoni generosamente i difetti allo sposo che l’ha innalzalo?».

Queste parole, impresse con caratteri in metallo dorato, vennero sottratte. Fantasiosi dell’occulto asserirono che Barbara in certe notti se ne usciva da San Pietro in Vincoli e vagava per Torino. Giunse a fare innamorare un tenente d’artiglieria, Enrico Biandrà, che se la vedeva comparire nel suo alloggetto; poi si dileguava e tornava nell'aldilà.

Il marito di Barbara era nato nel 1752. La carriera diplomatica lo aveva portato a Dresda, poi a Vienna, quindi a Torino. Il conte Zappata di Ponchy, ambasciatore piemontese a Pietroburgo, lo descrive come «uomo basso di statura. Le notizie che ho potuto raccogliere del detto signore sono che è di carattere dolce, amante delle scienze e delle aiti, autore di un’operetta sulla musica, assai ricco per conto proprio, sposato a una Tatichef, che lo segue nelle missioni diplomatiche, ereditaria di tremila paesani, che fanno circa 15.000 rubli di rendita».

Barbara Tatichef era bella, ricca, nata a Mosca il 27 marzo 1764. A Torino non era passata inosservata. Da una lettera del marito al Ministro degli esteri russo apprendiamo che la donna aveva sofferto per un pericoloso aborto. Va rilevato che alcuni autori fanno morire Barbara il 23 marzo 1792, mentre era ancora a Ginevra, e non a Torino. BeioseIkj - lo sappiamo dal carteggio dell’ambasciatore sabaudo a Pietroburgo - fece richiesta per ottenere un periodo di riposo «viste la condizioni di famiglia a causa della morte della principessa sua sposa». Barbara era stata inumata dapprima nel cimitero di San Lazzaro. Di fede ortodossa, non poteva essere sepolta in quello cattolico. Quando quel camposanto venne chiuso, la statua della velata fu trasferita in San Pietro in Vìncoli nel 1862. Aleksandr era morto nel 1809.

laura bon

Amante di Vittorio Emanuele II, in competizione con la più nota Rosa Vercellana, ossia la Bella Rosina, la Bon, attrice, si sarebbe mostrata come entità, secondo taluni, in via Po, presso via San Francesco da Paola, secondo altri in una casa di via Gaudenzio Ferrari.

piazza delle erbe

Nell’attuale piazza Palazzo di Città, sull’angolo con l’antica via delle Fragole, un fantasma combinava guai con rumori e con spostamento di suppellettili. In piazza delle Erbe, sull’angolo con via dei Cordai, compariva lo spettro di un funzionario governativo che si era tolto la vita impiccandosi a un abbaino, lasciandosi quindi penzolare sulla via. Costui tomo sul luogo del suicidio, gemendo e facendo piovere nella strada qualsiasi oggetto. Per tre volte vennero chiamati i gendarmi che non solo non seppero risolvere il problema ma, in una notte d’agosto, furono costretti a una fuga precipitosa inseguiti da una pioggia di tegole. Una ballata per cantastorie riferiva questo fatto ancora nel 1874.

filippo san martino di aglié e il suo spettro

Legato alla storia del Monte dei Cappuccini, Filippo San Martino di Agliè, secondo alcuni occultisti, non si sarebbe mai allontanato dalla collina torinese.

Nel 1978, in una sera di fine agosto, qualcuno credette di identificarlo nella curiosa descrizione di due fidanzati che, non lontano dalla chiesa del Monte, avevano visto «qualche cosa».

maria e caterina di savoia

Avvenne così anche per Maria e Caterina, due delle quattro figlie di Carlo Emanuele, che il popolino considerava “sante”. Nel 1629 il sovrano aveva donato alla Madonna del Monte due corone, una per la Vergine e una più piccola per il bambino, adorne di gemme. L’incoronazione avvenne alla presenza della Corte e fu officiata dal nunzio monsignor Castracane. Le due donzelle si flagellavano sovente per mortificarsi, uscivano raramente, non prendevano parte a ricevimenti. Dalle mani del padre provinciale dei Cappuccini, Paolo Maria Pergamo d’Asti, ricevettero l’abito del terzo ordine francescano. Le altre due figlie di Carlo Emanuele, andate a marito, Isabella, duchessa di Modena, e Margherita, duchessa di Mantova, furono indicate come modelli di virtù; alla morte di Isabella, il marito Alfonso in, rinunciò alle sue prerogative ed entrò anch’egli nei cappuccini con il nome di fra Giovanni Battista, il 15 luglio 1629. Caterina, che nell’ottobre del 1640 si trovava a Biella, volle andare al santuario di Oropa e prese mollo freddo; le venne la febbre alta e spirò pochi giorni dopo, a quarantasei anni. Era appena morta che la folla, in una incredibile calca, le ridusse in pezzi l’abito per fame reliquie. Sua sorella morì a Roma il 15 luglio 1656 e le sue spoglie vennero portate ad Assisi.

Un po' di tempo dopo la scomparsa delle “due sante”, ci fu chi raccontò di averle viste, quasi sempre nei sentieri lungo il Po o vicino al Monte. Qualcuno disse che Caterina si mostrava con gli occhi bassi, vestita in un lungo abito azzurro «come quello della Madonna». Maria era descritta con una veste rossa, mentre con passo lieve si muoveva presso il convento del monte.

Quando le principessine, figlie di Carlo Emanuele, erano ancora nel pieno della giovinezza, il gesuita padre Boterò le aveva inserite nel suo poema dedicato alla primavera, cantandole in rima:

Ma che si potrà dir che degno sia Della cortese e amabile isabella, Della vermiglia e candida Maria (Non contenda con lei qual sia più bella). Di Catterina, graziosa e pia

Qual divota e da Dio gradita ancella!

Qual Ha più vago fior che margherita

Di gentilezza c di valore idea. Cui cede in amie Vinorina ardila In pudica onestà Pcnclopca. Atalanta in beltà gaia e fiorita. In studi e zelo di driilura Aslrea? Questa dal materno alvo portò seco Quanto di grazioso ha il mondo cieco.

linda gazzera

Questa medium diviene popolare agli inizi del Novecento, fatta conoscere soprattutto dal medico Enrico [moda che le donò fama in campo nazionale, incoraggiandola e accompagnandola in alcune clamorose “esibizioni”. Imoda morì nel 1911, quando la Cazzerà risultava la medium forse più conosciuta per gli esperimenti parapsichici. Produceva telecinesie, fenomeni luminosi, materializzazioni di teste, alcune immortalate in lastre fotografiche che suscitarono forte impressione.

lo spettro della lavandaia

Questo spettro è stato segnalato nel dedalo di viuzze oggi scomparse nella ristrutturazione del quartiere, i cui nomi rievocavano antiche corporazioni, Cappellai, Panierai, Pellicciai. Pasticceri. Da taluni il fantasma della lavandaia era posto in correlazione, impossibile spiegarne il motivo, con un fattaccio avvenuto in via Cappel Verde angolo via dello Spirito Santo dove un bambino rimase accidentalmente schiacciato da un cavallo imbizzarrito. Pare che la lavandaia, una donna abitante nei paraggi, avesse tentato, invano, di fermare la corsa dell'animale.

gufanti le eteree creature in compagnia di fanciulle e di fiori, suscitando vivaci discussioni.

Madama Reale

Maria Cristina, seconda Madama Reale, è al centro di tre racconti leggendari, in uno dei quali si vuole che la sua immagine sia comparsa su un cocchio, trainato da caval|li infuocati, che la fecero precipitare nel Po.

Palazzo Madama

L'edifìcio, secondo il Peyrrot, sarebbe abitato da due fantasmi, uno dei quali visto più volte a metà dell’imponente scalone che conduce al primo piano. Presenza furono segnalate all’inizio del-l’Ottocento nei sotterranei, dov'erano un tempo le prigioni. Palazzo Reale

La reggia torinese era annotata dal Peyrrot per tre entità, una delle quali con la prerogativa di comparire nell’imminenza di sciagure che poi colpivano la cerchia dinastica o la città. Uno dei tre spettri veniva descritto come «dama regale con abito di colore chiaro, con lungo strascico».

via dei pasticceri

Nell’intrecciarsi delle vie più antiche abbattute, la strada era segnalata per due spettri, uno maschile e uno femminile, legati in qualche modo al terribile incendio che nel 1861, avvenne in via Tarino. In via dei Pasticceri abitavano congiunti di alcune vittime, che si abbandonarono a scene di disperazione. Si ebbe anche un suicidio. Un fantasma venne accusato di aver dato fuoco a suppellettili proprio in via dei Pasticceri. L’incendio fu presto domato ma si ripetè pochi giorni dopo, considerato come «riflesso sanguigno della catastrofe di via Tarino».

contrada san filipo

È l’attuale via Maria Vittoria. Qui, ancora prima dell’indagine del Peyrrot, venne evidenziata la presenza di una entità, soprattutto nei sotterranei della chiesa, dedicata a San Filippo. La prima pietra del tempio fu posta da Madama Reale Giovanna Battista nel settembre del 1679. Il 26 ottobre 1714 la pioggia incessante pròvocò il crollo della cupola. I disegni dell'architetto vennero cambiati e si rinunciò alla cupola monumentale.

 

Quando Lombroso incontrò la medium Eusapia Palladino e fu convertito allo spiritismo

 

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Lo studioso di antropologia criminale (Verona 1835-Torino 1909) celebre per le sue teorie secondo cui i tratti della personalità criminale sono determinati da tare e anomalie somatiche, ben riconoscibili, ha acquistato un posto nella storia dello spiritismo per essersi “convertito’’, conosciuto come convinto positivista, allo spiritismo. Lombroso, che si interessò personalmente a fenomeni inspiegabili, attribuiti agli spiriti, frequentò alcune medium e, a Torino, gruppi spiritisti.

Nel 1891, trovandosi a Napoli, Lombroso aveva conosciuto la celebre medium Eusapia Pailadino (1854- 1918) ricavandone una forte impressione. Ebbe poi a dichiarare: «Io sono mollo vergognato e dolente d’aver combattuto con tanta tenacia la possibilità dei fatti così detti spiritici; dico dei fatti, perché alla teoria ancora sono contrario. Ma i fatti esistono e io dei fatti mi vanto di essere schiavo».

Come ha rilevato Massimo Introvigne: «Più tardi, dopo i fatti, verrà anche la teoria, e Lombroso si convertirà nel più convinto divulgatore dello spiritismo». Lo scienziato antropologo si trovava del resto in compagnia di altri illustri, in ogni campo, convertiti allo spiritismo, da Camille Flammarion (1842-1925), astronomo e autore di varie opere divulgative, a Victorien Sardou (1831-1908), drammaturgo di buona fama ai suoi tempi, ad Arthur Conan Doyle (1859-1930), l’autore a cui si deve il personaggio di Sherlock Holmes. Doyle si occupò con passione dello spiritismo e di fenomeni esoterici, come la presenza delle fate che addirittura fotografò con lastre raffiggaranti le eteree creature in compagnia di fanciulle e di fiori, suscitando vivaci discussioni.

 

Quando Torino divenne la Mecca degli occultisti

 

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Dopo l’Unità le autorità politiche anticlericali non si limitarono a favorire - in Piemonte, ma soprattutto a Torino - i «culti acattolici», come si chiamavano.

Furono ben accolti anche coloro che facevano parte del mondo magari affascinante, ma oscuro, formato da chi aveva abbandonato la fede cristiana per passare ad altre fedi, come quella (di grandissima moda, allora) dello spiritismo o di un occultismo, di un esoterismo dai molti, inquietanti volti.

Sta di fatto che, nella seconda metà dell'Ottocento, il favore governativo fece di Torino una delle mecche occultiste d'Europa, forse inferiore soltanto a Londra: sul Po era ben accolto - o, almeno, non ostacolato - chiunque, di qualunque Paese, avesse dottrine e prassi tali da allarmare e indisporre i cattolici.

 

A Torino la prima società spiritica d’Italia

 

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Torino è da sempre collegata al mistero. Molti appassionati dell’occulto e non per esempio sanno che fa parte, con Lione e Praga, del triangolo della magia bianca e, con Londra e San Francisco, di quello della magia nera. Un’altra credenza legata alla città la presenta come punto di incontro di forze positive e negative: il centro dei flussi di energie positive sarebbe piazza Castello (e anche la Gran Madre si trova nell’area “bianca” della città), quelle negative in piazza Statuto.

Non tutti sanno forse che a Torino è nata nel 1856 anche la prima società spiritica italiana. Chiamata all’inizio Società Spiritica Italiana e poi diventata nel 1863 la Società Torinese di Studi Spiritici, includeva tra i suoi membri anche alcuni personaggi politici di spicco dell’epoca, come il segretario di Cavour Vincenzo Scarpa.

L’idea di base era quella di non trattare la credenza negli spiriti come semplice superstizione, ma di studiare queste entità dal punto di vista scientifico, come dei veri e propri esseri viventi.

La società fondata a Torino era diventata un punto di riferimento per tutti gli studiosi e appassionati di esoterismo e pubblicava persino una vera e propria rivista di stampo scientifico, gli Annali dello Spiritismo.

Potrà sembrare strano, ma l’approccio a questi temi era, tra fine Ottocento e inizio Novecento, molto serio e rigoroso. In quegli anni infatti, proprio a Torino, erano in particolare diventate famose due medium, particolarmente note negli ambienti esoterici per le loro doti paranormali e anche oggetto di esperimenti scientifici (o, per come la vedremmo oggi, pseudo-tali).

La prima, Eusapia Palladino, pur essendo napoletana, si ricollega all’elite torinese per aver causato una conversione illustre all’esoterismo: la sua capacità di far levitare i tavoli e vari oggetti durante le sedute spiritiche aveva infatti colpito Cesare Lombroso, che dopo questo incontro si è aperto e appassionato allo studio dell’occulto.

L’altra, Linda Gazzera, le cui capacità avevano affascinato la nobiltà torinese, per la quale teneva sedute spiritiche.

Tali riunioni esoteriche erano anche state fotografate, soprattutto perchè si era diffusa la voce che la donna fosse capace di far materializzare visi di donna durante la trance.

Le leggende e i misteri che allora circolavano in città sono innumerevoli e hanno contribuito ad avvolgere Torino in un’aura di mistero e a regalarle un fascino particolare.

 

Il diavolo a Torino

 

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La Torino massonica e la puzza di zolfo

 

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A Torino la Massoneria è presente sin dalla fine del Settecento. Sebbene la prima obbedienza massonica ufficiale fu costuita a Milano il 16 marzo 1805 col nome di Supremo Consiglio d'Italia del Rito scozzese antico ed accettato, per opera del francese Alexandre François Auguste de Grasse Tilly, su mandato del Supremo Consiglio inglese di Charleston (il primo Supremo Consiglio del Rito scozzese antico e accettato), questa loggia si dissolse dopo la caduta del Regn d’Italia e fu a Torino, in cui certamente erano giunte ramificazioni della Loggia milanese, che nell’ottobre 1859 prende nuovamente vita il Grande Oriente italiano. Quel giorno infatti sette confratelli diedero vita alla loggia "Ausonia", embrione e primo nucleo storico di quello che divenne ufficialmente il "Grande Oriente" italiano attuale il 20 dicembre 1859 - che per inciso ha sede a Torino.

La prima sede fu stabilita presso la casa del fratello Felice Govean, in via Stampatori 8 a Torino. Primo Gran Maestro ad interim fu Filippo Delpino, già primo Maestro venerabile della loggia "Ausonia".

Il Grande Oriente d'Italia fu ricostituito – gli storichi sono pressoché unanimi – su impulso di Cavour, che voleva contrastare una eventuale influenza filofrancese di logge provenienti d’Oltralpe. Ma la città, già a partire dalla fine del Settecento, si era dimostrata particolarmente ricettiva. Credo anche per la notevole presenza di militari. Nell'esercito, si sa, l'affiliazione massonica è sempre stata una buona garanzia di avanzamenti, ma poteva essere anche una buona assicurazione per tutelarsi dagli infortuni professionali. Il caso Badoglio è esemplare: per la disfatta di Caporetto pagò soltanto Cadorna, un cattolico da messa quotidiana, mentre il «fratello» Pietro non solo restò, ma andò avanti sempre più coperto di onori, mentre le pagine che lo riguardavano nella relazione della commissione d'inchiesta sulla disfatta furono «inspiegabilmente» stralciate.

L’immagine sulfurea che da sempre fu attribuita alla Massoneria dalla pubblicistica cattolica ha contribuito senz’altro, nel corso dei decenni, ad accrescere la fama di Torino come città dove sono all’opera, accanto alle forze del bene, anche le forze del male.

 

Nietzsche e Der Antichrist

 

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Nietzsche probabilmente capitò a Torino per caso (pare che abbia sbagliato coincidenza ferroviaria a Savona, venendo da Nizza ed essendo diretto a Sils Maria, in Engadina) e nulla conosceva di Torino, se non il nome. Ma, appena uscito da Porta Nuova - frastornato e seccato dal disguido -, fu folgorato dalla improvvisa, enigmatica certezza: questo, "proprio questo" era il luogo cui il suo spirito inconsciamente anelava. E qui trovò la giusta atmosfera per terminare il suo libro più virulentemente ostile all'antica fede, con un titolo esplicito, "Der Antichrist". Qui, dalla sua stanza che dava su piazza Carlo Alberto, scrisse il suo ultimo messaggio, prima di essere trascinato nel reparto furiosi di un manicomio: «Cantami un inno nuovo: il mondo è trasfigurato e tutti i Cieli esultano», firmando «il Crocifisso».

Jacques Maritain, il maggiore filosofo del cattolicesimo del Novecento, sosteneva che «due sono i padri del mondo moderno avverso al cristianesimo». E, cioè, Friedrich Nietzsche, «principe dei pensatori anti-egualitari», profeta di tutte le destre, e Jean-Jacques Rousseau, «principe degli scrittori egualitari», padre di tutte le sinistre. E forse non è un caso che entrambi abbiano soggiornato a Torino.

 

Fenomeni atmosferici inspiegabili a Torino: incendi e tornadi

 

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Torino ha una lunga storia di incendi, nubifragi, e tornadi. Qualcuno potrebbe vedervi lo zampino di Satanasso. Nella tradizione cristiana dei primi secoli, il diavolo è il signore dell’aria, e non per niente le streghe venivano arse vive perché, grazie ai poteri del loro signore, provocavano nubifragi ed incendi che distruggevano le messi, gli animali e le dimore delle persone.

 

Culti satanici a Torino?

 

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Cornuto e caudato, il maligno, contrariamente a quanto si crede, è assai più restio a mostrarsi dalle nicchie dei palazzi di Torino. Vi era un satanasso in una nicchia di via Cappel Verde ma scomparve sotto le bombe nel 1942. Altro diavolo, di pietra, era visibile nella vecchia Siberia, il quartiere che sorgeva dove poi sorse piazza Venezia, formata dalle vie Meucci e Davide Bertolotti, poi dagli edifici che vanno a dividerle quando costruì reno il palazzo dei telefoni, in via Confienza, e la scuola che è in corso Galileo Ferraris. L’abbattimento della Siberia e la sua bonifica sono ricordate nelle cronache più lontane insieme all’eliminazione del Meschino, che in corso San Maurizio, allungandosi verso piazza Vittorio Veneto, era malsano covo di malviventi, inaccessibile anche ai gendarmi dopo il tramonto. In Siberia, in un rudere di pietre e mattoni, una sorta di nicchia ospitava un diavolo dipinto da chissà chi. Si sussurrava che, per ingraziarselo, occorreva portargli almeno tre mele, altrimenti avrebbe combinato “il diavolo a quattro”.

Il Maligno tornò prepotentemente di moda quando alla fine di giugno del 1984, pronunciando l’omelia per la festività del Corpus Domini, l’arcivescovo di Torino, Anastasio Ballestrero, aveva denunciato «furti sacrileghi per riti satanici» con queste parole: «Intorno all'Eucarestia c’è l’ostinata avversione e ribellione di Satana che spinge a profanarla proprio nei suoi segni sacramentali. È la verità, bisogna dirlo. È la verità anche in questa nostra città, dove la profanazione delle specie eucaristiche, e solo di quelle, lo sottolineo perché tutti comprendano, avviene, si ripete ed è di una tristezza infinita».

Queste frasi suscitarono una forte sensazione. Del sacrilegio eucaristico non si parlava a Torino dalla fine degli anni Cinquanta, quando l’ostia era stata sottratta dalla chiesa di Santa Maria Goretti, in via Pietro Cossa. Il cardinale aveva aggiunto: «Qui, nella nostra città, i riti satanici della profanazione dell’Eucarestia si ripetono; qui, è orrendo a dirsi, c’è chi fa delle specie eucaristiche profanate la testimonianza resa a degli scellerati di aver tradito Cristo e di essersi consegnati a Satana». Sacrilegi, dunque, con un rituale di magia nera sconcertante.

 

Piazza Statuto, il “cuore nero” di Torino

 

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Stando agli esoteristi, almeno in questo unanimi, è piazza Statuto il «cuore nero», il centro degli influssi negativi di una città già di per sé pericolosa, o, almeno, da trattare con prudenza.

Certo, il luogo è singolare, non foss'altro perché c'è qui il solo monumento che, pare, esista al mondo, dedicato al meridiano su cui sorge l'abitato. E' la «guglia Beccaria», il piccolo obelisco - ancora una volta, l'esplicita simbologia massonica - che sta nel giardinetto già negli anni Cinquanta quasi inaccessibile, perché tutto circondato dal traffico, e che ha il corrispettivo nell'altra guglia, sulla piazza di Rivoli. Segno di innocue misurazioni matematiche di agnostici illuministi, di apostoli della nuova scienza fisica, o richiamo mascherato a realtà segrete? Non è l'astrologia che si preoccupa di determinare la posizione geografica delle persone e delle città rispetto agli astri del cosmo? Ovviamente, per gli esoteristi vale l'ipotesi occulta.

Sta di fatto che è antica la fama sinistra del luogo dove, nella seconda metà dell'Ottocento, sarebbe sorta la piazza chiamata dello Statuto. In effetti, è in corrispondenza con la porta romana a ponente, quella che guardava verso il tramonto del sole, metafora di ogni vita che si spegne.

E' probabile che, a piazza costruita e sistemata, una certa aura ambigua le sia venuta anche dal fatto che l'Ottocento anticlericale ne fece un vero e proprio magazzino liberomuratorio. Non solo nel monumento al Fréjus, dove l'Angelo che trionfa sulla piramide e scrive sul marmo il nome degli ingegneri apostoli del Progresso è un gemello dell'Angelo - o «Genio Alato», come si preferiva dire, per non usare il termine della tradizione cristiana - che la stessa ideologia volle fosse issato sulla sommità della Mole Antonelliana.

Un emporio davvero massonico, questa piazza Statuto, nel monumento «grande», la piramide, e in quello «piccolo», l'obelisco al Meridiano di Torino, ma anche nella struttura dei palazzi. Secondo alcuni esperti di simbologia massonica, è insistente e prevalente in essi l'elemento del triangolo. Alcuni, giganteschi, concludono le facciate; altri sovrastano tutte le finestre del «piano nobile», quello riservato all'élite, quasi a indicare che i Fratelli abitano lì (tra loro, in effetti, c'era Edmondo De Amicis, inquilino del palazzo all'angolo con il corso Beccaria), mentre altri triangoli formano il tetto di tutte le mansarde. Secondo alcuni sono elementi architettonici certamente non casuali, pensati e collocati (considera anche l'epoca della costruzione e il progetto fatto in Inghilterra, madre della Loggia delle Logge) per suggestione di una Libera Muratoria che celebrava allora la sua grande stagione di potere, politico e anche culturale.

Pure questo, dando un tocco di occulto, di segreto, può avere contribuito alla inclusione di piazza Statuto nella «mappa magica» torinese.

Non giova infine alla fama della Piazza il fatto che la Società che ne costruì i palazzi fallì clamorosamente poco tempo dopo la loro ultimazione, come se le forze negative volessero che essa rimanesse disabitata. La piazza ebbe la sua origine in una scommessa che il capitalismo inglese, disastrosamente, perse: la scommessa, cioè, che (vista la difficoltà di vincere la resistenza del Papa e considerata la difesa di Roma assunta dalla Francia), la capitale del nuovo Regno d'Italia sarebbe rimasta a Torino a tempo indeterminato o, almeno, per molti anni. Dunque, occorrevano case adeguate per tutti: per la nomenklatura ministeriale, per le falangi di impiegati, per l'esercito di "clientes" richiamati da ogni città sede di una corte e di un governo. I grandi palazzi di piazza dello Statuto furono progettati come contenitori per questo genere di inquilini: tutte le classi sociali dell'amministrazione statale, o ruotanti attorno a essa, avrebbero trovato l'alloggio adatto a loro, secondo la separazione verticale che sappiamo, tipica della tradizione torinese, con il reddito che scendeva man mano che si saliva, dai commendatori al piano nobile sino ai poveri negli abbaini. Nella zona, poi, altri grandi progetti prevedevano la costruzione di alcuni ministeri: insomma, un affare d'oro, questa nuova, gigantesca piazza, per i pragmatici investitori inglesi. I lavori cominciarono all'inizio del 1864 ma, nell'autunno di quello stesso anno, ecco la rovinosa convenzione con la Francia, ecco tutti cercar casa a Firenze, ecco il fallimento della britannica "City of Turin Improvement Company Limited", ecco il solito intervento - gravosissimo - del municipio per cercare di concludere lavori che non interessavano più a nessuno. Ecco, insomma, la piazza popolarsi dei fantasmi di coloro che qui avrebbero dovuto essere e che invece non furono. Alla reputazione sinistra di questo spazio ha contribuito insomma l'aura di abbandono, di vuoto, in fondo di sventura, che grava sin dai suoi inizi sui palazzoni porticati che, pur «bianchi e rossi come mele», per dirla con qualcuno, non riescono ad avere un'aria festosa e sembrano invece avvolti dal silenzio, irrigiditi nella mestizia.

 

Una seduta satanica nei sotterranei di Torino raccontata da Alberto Bevilacqua

 

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Cominciò con una rissa. Durante un rito satanico. Per me, Satana è semplicemente una curiosità filologica: Shaitan è il nome caldeo dato al dio adorato dagli Yezidi della Mesopotamia inferiore, sorgente della tradizione sumera. La versione biblica degrada un dio che, in origine, non era affatto un angelo del male. I maghi demenziali che, nei secoli, hanno cercato la conoscenza lungo vie sinistre e oscure, ne hanno fatto una realizzazione della perversità, creandone al tempo stesso un fascino che ha ispirato terrore e giustificato le nefandezze della Santa Inquisizione, della stregoneria, della magia nera e delle arti malvagie.

Ho amato un Papa, Paolo VI, che mi ha concesso la sua stima e la sua amicizia. Per quanto potevano valere le mie parole, le mie lettere, l'ho supplicato di evitare il , famoso pronunciamento sull'esistenza del Diavolo. Avrebbe aizzato, a mio avviso, ed è infatti accaduto, l'autosuggestione di cui si nutre il satanismo come religione di materia, trasgressione, turpe carnalità. I riti satanici si sarebbero moltiplicati nel mondo. Nessun'altra epoca ha contato tante persone insicure, facilmente plagiabili. E dunque era fatale che esse andassero a infoltire le sette grossolane che a fare da altare pongono una donna nuda, affermando: "La donna è il naturale ricettacolo passivo e rappresenta gli inferi della Madre Terra".

Io detesto ogni tenebra. Detesto ogni Chiesa Nera e sono mosso da furore contro gli organizzatori del satanismo contemporaneo, più preoccupati di soddisfare certe inclinazioni erotiche e spremere denaro che di inscenare le loro cerimonie secondo le antiche tradizioni pagane. Hanno compito facile.

Quanti uomini portatori di perversioni, violentatori in potenza, misogini senza dolore, voyeurs, trovano l'ambiente ideale in riti che assommano droghe, attività sessuale incontrollata, brutalità portata al massimo grado, evocazioni di spiriti diabolici.

E quante donne contrabbandano, in quei luoghi orribili, le proprie voglie oscene: spudorata ninfomania, esibizionismo; le donne che quando tradiscono un uomo vanno cercando scuse psicologiche e sentimentali, trovano in Satana un alibi perfetto...

Di fronte a tanta umanità detestabile, provo pena per il povero dio sumero, sfruttato e violentato, lui per primo.

Mi sono lasciato trascinare al rito satanico con la precisa intenzione di scatenare la rissa. Mi sono portato la pistola che, da quando la depressione mi ha assalito, tengo in un cassetto del mio tavolo di lavoro. In realtà, anche la pistola è un'amica della mia solitudine, perché so che non la userò mai per uccidermi; essa serve solo per il gusto morboso di accarezzare l'idea, come accarezzo lei, che chiamo "la mia amante signora Luger con cui rimando sempre il momento dell'amplesso", quando ogni mattina la scarico, ne lubrifico i congegni, la ricarico, con la pazienza che uso nell'allineare le penne facendone cabalistiche geometrie.

Con la pistola in tasca, e il mio furore, mi sono inoltrato nel sotterraneo, alla periferia della città.

Le donne, che ancora non distinguevo nel buio corridoio che immetteva nella sala del rito, sussurravano intorno: "Il Bello! Il Maschio!" Era l'uomo che mi faceva strada, e che avrebbe guidato la cerimonia. Passando, egli accarezzava via via i seni delle adepte assiepate ai lati in sua adorazione, con gesti di benedizione carnale.

Colui che aveva venduto l'anima alle Potenze del Male, aveva piuttosto l'aspetto di un attore cinematografico e di un copulatore superdotato. Mi stringeva la gola un odore misto di sudore, sangue, profumi femminili.

Per quanta sprezzante ironia uno possa ostentare, in circostanze simili, c'è sempre un momento in cui un terrore prevale sulla ragione, appunto perché "senza ragione", come quello di un bambino assediato dai fulmini.

Raggiunta la sala, di fronte agli arredi e alle candele nere, all'enorme simbolo fallico ottenuto da una croce col legno trasversale mozzato, mi sono ritrovato come nella "Casa dell'odio e del tradimento", centro medianico del male nel Pellicano di Strindberg, il quale sostiene che il male, quando è troppo, si trasforma nell'Assoluto dell'allucinazione.

Da un lato, uomini e donne si atteggiavano come il demone dipinto sulla parete, col volto bianco e da scimmia, accerchiato da una muta di cani adoranti; l'immagine appariva ancora più mostruosa in quanto l'umidità aveva raschiato i colori.

Dal lato opposto, donne nude, evidentemente signore della società bene, e numerose ragazze, anche molto giovani, in tuniche corte e trasparenti, aspettavano immobili nel buio: di essere possedute, forse, violentate.

Due presenze mi hanno sconcertato. Una ragazza dai grandi occhi chiari, e che parevano puliti da una testarda innocenza; quando i nostri sguardi si sono incrociati, ho avuto l'impressione che un rossore di vergogna le avvampasse il viso, ma probabilmente era il riflesso di una torcia.

E poi il profilo di un giovane, che ho afferrato in una frazione di secondo, mentre attraversava un lampo di luce per riaffondare nelle tenebre, in cui mi è parso per un attimo di riconoscere un conoscente.

Fece il suo ingresso la donna destinata a servire da altare. Era ben fatta, più alta delle compagne. Aveva grossi seni, le gambe lunghe e i polpacci forti, da ballerina. Ha sorriso invitante quando ha visto che i presenti si avvicinavano, contemplandole il corpo. L'hanno circondata mormorando una disgustosa parodia di una litania cristiana. Le adepte l'hanno aiutata a distendersi supina.

E difficile trovare un raffronto alla rappresentazione che, da quell'istante, ha preso vita sull'altare trasformato in palcoscenico. Mi chiesi, guardando la protagonista del rito satanico, come facciano le donne ad assorbire quei falli enormi: con quale dilatazione, non dico degli orifizi, ma della coscienza. Come riescano a sopportarne le cariche brutali, divaricate sulle ginocchia, la testa inchiodata all'ingiù, nella posizione di chi aspetta di essere decapitata, senza lasciarsi sfondare o spezzare le ossa.

Il sacerdote demone osannato come il Magnifico Maschio, impugnava e affondava il grande simbolo fallico. E fu ad un certo punto, con l'orrore che mi attanagliava, che afferrai d'istinto il primo calice a portata, dove c'era del sangue, umano credo, e ne scagliai il contenuto in faccia a colui che per le adepte era il Magnifico, e presi a strappare via gli arredi neri, le candele nere, a spezzare il Cerchio Magico indegno di questo nome, a scaraventare a terra una serie di simboli fallici.

Mi furono addosso. Con tale furia che avrebbero potuto farmi a pezzi. Non me ne importava: che ci provassero, a farmi del male, ad offuscare con le loro tenebre la luce del mio contagio magico che, più che mai, mi splendeva nella mente.

Sono arrivati i primi colpi: nelle reni, in pieno viso. Anche da me, ora, colava sangue. Mi sono specchiato, con la mia faccia insanguinata, nella faccia che avevo insanguinato.

Ho levato dalla tasca la pistola. A usare un'arma mi ha insegnato mio padre; o meglio, l'uomo d'avventura che ha abitato in mio padre. Mi hanno fatto largo. Mi sono salvato la vita per un soffio.

Ho sparato alla cieca contro l'imboccatura del sotterraneo, l'intero caricatore, non tanto per terrorizzare gli adepti che erano rimasti imprigionati sul fondo, dentro il loro buio, quanto perché vedendo le schegge di muro che schizzavano via, mentre mi lacerava i timpani il rimbombo degli scoppi nello spazio angusto, capivo fino a che punto fosse orribile l'idea che avevo accarezzato, con un gusto compiaciuto e controverso della depressione e della solitudine: appoggiare quell'arma alla mia tempia, e premere il grilletto. Ho raggiunto la mia automobile, tremando, reggendomi a malapena sulle gambe, con una voglia smisurata di vita.

 

Esorcisti a Torino

 

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La psicosi del diavolo si accentuò ancora nel febbraio del 1986, quando si apprese che l’arcivescovo aveva nominato sei nuovi esorcisti per la diocesi. Quale il significato di tale iniziativa? Il presule spiegò: «Siamo andati incontro alle esigenze delle persone che sempre più numerose ci chiedono aiuto, coprendo il vuoto lasciato dagli esorcisti dimissionari per anzianità o per ragioni di salute. Ne ho nominati tanti perché ci sia una maggiore disponibilità nell’affrontare i diversi casi: non più un esorcista full time, ma numerosi in modo da fornire un’assistenza più estesa».

Il diavolo, nella realtà quotidiana di una città come Torino, poteva davvero costituire un problema? L’arcivescovo spiegò: «Problema nel senso che aumentano coloro che si credono indemoniati.

È incredibile il numero delle persone che attribuiscono al diavolo i propri mali o che si sentono invasati. Più spesso è gente tribolata che ritiene Satana l’origine di tutte le sue difficoltà. Poiché la “domanda di assistenza” ai sacerdoti per le persecuzioni di cui molti dicono di soffrire sta diventando pressante, noi dobbiamo stare a sentire tutti, confortarli nella fede, fugarne le paure. Occorrono pazienza, capacità di consigli. Ecco perché il numero degli esorcisti è così alto».

Una nevrosi, dunque, travestita da diavolo, un agitarsi fra indovini, maghi, esperti in “fatture”, con il conseguente maggior numero di persone che ricorrono all’aiuto della Chiesa. Il cardinale stimava che fossero almeno cinquantamila nel nord d’Italia gli interessati all’occultismo. Da ciò l’urgenza di fare qualcosa.

Il settimanale diocesano torinese «La voce del Popolo» domenica 24 gennaio 1988 ospitò in prima pagina la lettera (anonima) di un esorcista. Vi si leggeva: «È impressionante il pullulare di maghi e maghe nere e bianche, pratiche spiritiche e divinali [...] segno di un grande vuoto spirituale e di una non valida risposta ai problemi fondamentali che ognuno porta in sé. Qualcuno lo fa per leggerezza, per gioco, ma non tutti esercitano così a buon mercato: i maghi impiantati lo fanno per denaro e ne spillano paurosamente (ad esempio cinque milioni e 500 mila lire) per togliere la fattura ostinata a un poveraccio spaurito in cura da un neurologo».

Il diavolo è più presente a Torino che in altre città? Se lo erano domandato i torinesi dopo alcune frasi pronunciate dal papa durante la sua visita del settembre 1988. In un commento di prima pagina sulla «Stampa», Sergio Quinzio s’interrogava in proposito e il titolo diceva tutto: «Il Maligno abita solo qui?».

 

Karol Wojtyla in visita a Torino parla del diavolo

 

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Riguardo a Giovanni Paolo Secondo, impressionano le cronache di quel suo soggiorno torinese perché, cosa mai vista, l'ufficio stampa della Santa Sede dovette procedere a una serie di precisazioni, imbarazzati commenti, inedite modifiche di comunicati precedenti.

E ciò perché il Pontefice si era lasciato andare a espressioni, come questa, testuale, dai giornali dell'epoca: «La città di Torino era per me un enigma, ma dalla storia della Salvezza sappiamo che là dove ci sono i santi entra anche un altro che non si presenta con il suo nome. Si chiama il Principe di questo mondo, il demonio».

Ritornando poi alla straordinaria fioritura di santità in questa diocesi, aveva improvvisato, al di fuori del testo preparato: «Quando ci sono tanti santi, è perché ce n'è bisogno».

Soprattutto, aveva moltiplicato gli appelli, gridati con voce che sembrava davvero angosciata: «Torino, convertiti!».

Impressionante il fatto che abbia poi paragonato, addirittura, questa città a quelle di Israele che non ascoltarono i profeti, non ascoltarono Gesù stesso e per questo furono severamente punite.

Proprio perché, sempre parole di Giovanni Paolo Secondo, i grandi santi piemontesi «sono come i profeti, e con i profeti non si scherza, tu, Torino, hai bisogno di una conversione eccezionale, superiore». Quasi ossessivi, continui, nei suoi discorsi di quella giornata in fondo drammatica, i richiami e gli avvertimenti nei confronti del «Principe di questo mondo». Che è poi, nel linguaggio evangelico, nient'altro che Satana.

Della straordinaria esplosione cristiana nella Torino tra Otto e Novecento parlava a Vittorio Messori il cardinal Ratzinger che glii ricordava che «la luce risplende là dove il buio è fitto». Dando quindi per scontato che le tenebre, in qualche modo, contrassegnassero il fondale torinese.

 

La Sindone

 

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Vedi “La Sacra Sindone e la sua storia” nel percorso “La Torino della fede”

 

Il Santo Graal

 

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(Vedi anche “Il Santo Graal di Torino e la Gran Madre di Dio” nel percorso “La Torino dell’architettura”)

Il termine graal, scritto talora anche gral, designa in francese antico una coppa o un piatto, e probabilmente deriva dal latino medievale gradalis, col medesimo significato, o dal greco κρατήρ (kratr «vaso»).[1] In particolare, secondo la tradizione medievale, il Sacro Graal o Santo Graal, è la coppa con la quale Gesù celebrò l'Ultima Cena e nella quale Giuseppe d'Arimatea raccolse il sangue di Cristo dopo la sua crocifissione.[2] Il termine italiano corrispondente è gradale.

Il Graal appare per la prima volta sotto forma letteraria nel Perceval ou le conte du Graal di Chrétien de Troyes (XII secolo). In questo racconto il Graal non viene definito "sacro" e non è ancora identificato col Calice contenente il Sangue di Cristo. Chrétien, descrivendo il banchetto nel castello del Re Pescatore, dice semplicemente che «un graal antre ses deus mains / une dameisele tenoit» («un graal tra le sue due mani / una damigella teneva») e descrive le pietre preziose incastonate nell'oggetto d'oro. Si suppone, data la probabile etimologia che l'autore descriva una coppa. Perceval, durante il banchetto vede sfilare una strana processione di reliquie religiose, tra cui una lancia che stilla sangue e una spada spezzata. Altrove viene detto che il Graal porta al padre del Re Pescatore nutrimento spirituale. Perceval non chiede quale sia la natura delle reliquie, e così non riesce a rompere l'incantesimo che mantiene il re Pescatore infermo e la sua terra sterile e priva di frutti, fallendo nell'impresa a cui era stato chiamato.

Fu Robert de Boron, nel suo Joseph d'Arimathie composto tra il 1170 ed il 1212, ad aggiungere il dettaglio, non presente nei Vangeli canonici né negli apocrifi, che il Graal sarebbe la coppa usata nell'Ultima Cena, la stessa nella quale Giuseppe di Arimatea avrebbe poi raccolto le gocce di Sangue del Cristo sulla croce, uscite dalla ferita infertagli dal centurione, poco prima che il suo Corpo venisse lavato e preparato per essere sepolto. Giuseppe avrebbe quindi lasciato la Palestina per rifugiarsi nelle Isole britanniche, portando con sé il Sacro Graal, raggiungendo la valle di Avalon (identificata già con Glastonbury) che sarebbe diventata la prima Chiesa Cristiana oltre la Manica.

Una successiva interpretazione del Graal è quella che si trova nel Parzival di Wolfram von Eschenbach (1210), secondo il quale il Graal sarebbe una pietra magica (lapis exillis) che produce ogni cosa che si possa desiderare sulla tavola in virtù della sua sola presenza. Questa pietra sarebbe caduta dalla corona di Lucifero, staccatasi precisamente nello scontro fra gli angeli del bene e del male, cadendo sulla Terra.

L'episodio del Graal è innestato da questi autori sulla trama delle gesta di Artù e dei suoi cavalieri, che era stato messo per iscritto da Goffredo di Monmouth, all'inizio del XII secolo, autore delle Profezie di Merlino e della Storia dei Re di Britannia.

E' opinione comune basata su lavori della prima metà del Novecento, e ripetuta acriticamente anche da voci di Wikipedia, che il mito del calice o piatto di Gesù Cristo affondi le sue radici in antiche saghe celtiche intorno ad un eroe viaggiatore che si ritrova in un "altro mondo" di cui la coppa del Graal simboleggia la natura spirituale. L'identificazione con la coppa dell'ultima cena, dovuta all'assonanza tra "san greal" («Sacro Graal») e "sang real" («sangue reale») sarebbe successiva alla formazione dei racconti del ciclo bretone o arturiano.

Non mancavano però studiosi accreditati che contestavano la supposta genesi pre-cristiana del ciclo arturiano che sarebbe contraddetta dalle analogie che la materia ha con la novellistica e le leggende del mondo orientale e di quello classico, nonché dal fatto che le gesta di re Artù non sono largamente diffuse prima della Historia regum Britanniae, terminata verso il 1136 da Goffredo di Monmouth, che lavorò su fonti per lo più di derivazione greco-latina e che sembra essere il vero inventore di questa figura leggendaria.

Nel 1967 due rispettati medievalisti americani, Henry e Renée Kahane hanno pubblicato un libro, The Krater and the Grail: Hermetic Sources of the Parzival, in cui, sorprendendo il mondo accademico, dimostrano in modo convincente che Goffredo di Monmouth e Chretien de Troyes hanno attinto a testi tardoantichi del III-IV secolo.

Il libro, solidamente documentato, ha probabilmente risolto l'enigma della scena del re pescatore: Chretien de Troyes prende a modello, quasi parola per parola, la processione di Iside descritta nell'undicesimo libro delle Metamorfosi di Apuleio di Madaura, mentre Wolfram von Eschenbach trae la sua descrizione del Graal dal quarto trattato del Corpus Hermeticum, una raccolta di testi di matrice gnostica, neoplatonica e giudeo-cristiana, con elementi di derivazione egizia che era utilizzato da un gruppo iniziatico di ambiente ellenistico dei primi secoli dell'era volgare. In questi testi viene descritto il Krater Hermetis, che come il Graal di Wolfram, è mandato dal cielo ad un circolo di eletti a cui conferisce la conoscenza di Dio o gnosi (simboleggiata in Wolfram dal battesimo) e il nutrimento spirituale che mantiene in vita l'anima. Come nel caso del Graal, il Krater Hermetis è il perno di una vicenda iniziatica di ignoranza, elezione, penitenza e rinascita. Henry e Renée Kahane mostrano che questa conoscenza dell'ermetismo fu trasmessa a von Eschenback da Guglielmo di Tudela, un chierico nato nel Regno di Navarra, dove apprese oltre al latino e all'occitano anche l'arabo e venne in contatto con le opere di autori islamici che nelle loro opere esponevano insegnamenti ermetici.

 

Extraterrestri e UFO a Torino

 

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Torino ha un forte legame con gli UFO. Da sempre ospita gruppi ufologici, ed è a Torino una importante sede dei Raeliani, un nuovo “gruppo religioso ateo”, come si definisce, che afferma che la vita sulla terra sarebbe dovuta all’ingegneria genetica degli extraterrestri che sarebbero approdati sulla terra guidati da un capo chiamato Yahvé. Nel 2014 i raeliani da tutta Europa si sono riuniti a Torino per una meditazione di pace che promuova una sensibilizzazione a livello globale sull'ideale di un mondo unito.

Il Movimento raeliano viene fondato da Claude Vorilhon, rinominatosi Raël nel 1973, a seguito di istruzioni ricevute dagli Elohim (così vengono chiamati gli extraterrestri). E’ presente in 104 Paesi e conta circa 70.000 membri impegnati a diffondere il messaggio affidato a Rael da questi esseri venuti dallo spazio, gli Elohim.

A Torino ha la sua sede ed archivio il Centro Italiano Studi Ufologici (C.I.S.U.) è un’associazione privata di volontariato culturale, senza scopo di lucro, costituita da soci e collaboratori che si interessano al problema ufologico e vi dedicano il loro tempo libero.

A Torino, secondo la cronaca, non sono mancati avvistamenti di UFO. Uno di questi, particolarmente a effetto, avvenne il venerdì 22 febbraio 1952, alle 12,30 all’incirca, ed ebbe fra i testimoni. Benedetto Lavagna, radiobiologo. Questi godeva di una certa fama poiché curava i mali più disparati apponendo sul corpo dei pazienti frammenti di stoffa colorata. Attribuiva infatti proprietà medicamentose al rosso, al viola, al verde, e numerosi ammalati ricorrevano con fiducia a lui. Tale personaggio si trovava quel venerdì su una vettura tranviaria della linea 21, in via Principe Amedeo. Arrivato quasi in fondo alla strada, sul punto di entrare in piazza Vittorio Veneto, udì il manovratore che richiamava stupito l'attenzione dei passeggeri. Un oggetto rotondo e schiacciato, lenticolare, di circa cinquanta metri di diametro, si librava a quasi duecento metri di altezza. Rimase là, a sbalordire i molti passanti, poi, senza emettere alcun rumore, sfrecciò via a velocità vertiginosa. Sormontato da unacupoletta semisferica, di colore deH’alluminio, - così lo descrissero i testimoni - quell’oggetto pareva sfumarsi nei contorni in una leggera nebbiolina. Il fenomeno venne riportato da alcuni giornali e trovò poi spazio nel volume Ufo in Italia, che di tali avvistamenti sulla penisola offre una copiosa quanto circostanziata documentazione.

A Torino sono apparsi personaggi enigmatici che dicono di essere in contatto con gli extraterrestri.

Nell’autunno del 1973. Una misteriosa organizzazione, il Sidereal Intercontacts Centre (Sic) fece pervenire alle redazioni dei giornali messaggi in cui si parlava del «Grande Maestro Absu Imaily Swandy», che allora aveva, si specificava, 256 anni e se ne allegava anche la foto. Absu, rivelava il Sic, atterrato a Torino con un’astronave, sarebbe poi ripartito, dopo una serie di conferenze tenute di fronte a ristretti gruppi di iniziati, dai dintorni di San Maurizio Canavese - a breve distanza da Torino - il 30 novembre, alle 18. Un appuntamento del Gran Maestro con i giornalisti, per una serie di contrattempi, andò a monte. Proprio nel momento della dichiarata partenza il pilota di un DC9 che stava atterrando a Caselle, un pilota affermò di aver visto un bagliore che però secondo lui “poteva rappresentare qualsiasi cosa”. Ma tanto bastò e d’improvviso, mentre i giornali italiani e molti organi di stampa estera uscivano riferendo il fatto di Torino, la «Domenica del Corriere » pubblicò foto a colori dell’Ufo visto a Caselle e «Panorama » non usò più il condizionale nel suo secondo servizio sulla vicenda.

 

Non poche persone, da anni, esprimono il convincimento di trovarsi in comunicazione con esseri abitanti negli spazi. Sarebbero, cioè, dei “contattisti”. Il personaggio torinese più interessante sotto tale aspetto rimane una donna, Germana Grosso che, dicendosi informata dagli alieni, seppe prevedere con anticipo fatti clamorosi, fra cui l’assassinio di John F. Kennedy.

La singolare esperienza della Signora Grosso avrebbe avuto inizio il 4 gennaio 1957. Quel giorno avvertì nella propria mente la voce di una entità che le si presentava con il nome di Guicciardo, nato a Ceppo, vissuto Castiglioncello, in Umbria, perito nelle Crociate. A quel primo “comunicatore" ne subentrarono altri, nel corso degli annidando alla signora messaggi particolari, che lei scrupolosamente trascrisse, ognuno con la propria data. In taluni casi le preannunciarono eventi che poi si verificarono puntualmente, come l’assassinio di John F. Kennedy, che Germana Grosso apprese, con buoni particolari, già nel luglio del 1963. La signora, priva di dimestichezza con pennelli e colori, dipinge quadri di luminoso effetto su ispirazione dei suoi amici che vivono e volano nello spazio, rammaricandosi spesso con lei per le condizioni in cui l’uomo ha lasciato scivolare il pianeta Terra. Dino Buzzati, inviato del «Corriere della Sera» a Torino, è fra gli autori che hanno riferito l’esperienza di Germana Grosso, con un articolo su sette colonne intitolato: La signora che è stata sulla Luna. Il mistero, dopo tanti anni, rimane intatto. Germana Grosso, già all’inizio del “caso", non aveva mai letto un libro di fantascienza, non si interessava di spiritismo e affermava di non essere una medium. Quando le creature che vivono nel cosmo si mettevano telepaticamente in contatto con lei, si poneva al tavolino, in un angolo della sua camera, e scriveva a macchina i loro “messaggi", come una dattilografa diligente. «Si può dire, anzi, che sono sempre in contatto con loro», spiegava, «in qualsiasi momento, e quando mi dicono di scrivere, io scrivo, anche se il senso di ciò che mi viene dettato, una frase o una certa espressione, qualche volta mi può sembrare oscuro. Se loro smettessero aH’improvviso di dettare, io non saprei aggiungere nulla di mio, neppure una virgola». E quando diceva loro, lo faceva con tono sommesso, tranquillamente, come accennasse agli inquilini del piano di sopra.

Il Monte Musiné, situato a soli 20 chilometri dal capoluogo piemontese è famoso per gli avvistamento UFO, tanto da essere chiamato “la Roswell del Piemonte”

Tra le storie che circolano su questa montagna di 1150 metri, molte riguardano avvistamenti UFO e strani fenomeni paranormali che alcuni collegano agli alieni. Il più famoso degli episodi legati alla credenza che esseri extraterrestri siano arrivati sul Monte Musiné risale all’8 Dicembre del 1978. La testimonianza è riportata da due giovani escursionisti, che si trovavano ai piedi del monte e che raccontarono di aver visto all’improvviso una luce fortissima. Uno dei due si allontanò per seguire questa luce e scomparve. L’altro escursionista, con l’aiuto di altre persone incontrate successivamente, iniziò le ricerche per cercare il suo amico che infine fu ritrovato sotto shock, infreddolito, con il battito cardiaco accelerato e con bruciatura sulla gamba. Quando si riprese, il giovane raccontò di essersi avvicinato ad una specie di astronave a forma di pera da cui erano scesi alcuni esseri con la testa a forma di melone che lo avrebbero toccato paralizzandolo per diverso tempo. Entrambi gli escursionisti, che avevano visto quella forte luce, soffrirono di congiuntivite per diverso tempo dopo l’avvistamento.

L’8 Marzo del 1996 ci fu invece un altro avvistamento da parte di altri due escursionisti che stavano scendendo dal Monte Musiné. I due testimoni parlarono di un oggetto volante di color giallo-verde e dalla forma cilindrica con le estremità arrotondate e trasparenti da cui si intravedevano delle figure simili ad uomini.

Altre storie sugli alieni ed il Monte Musiné riguardano l’avvistamento notturno di fuochi e strani segni sui terreni. Spiegazioni più scientifiche attribuiscono i fuochi alla riserva di gas naturale presente ancora sul monte o a fulmini, attratti dagli spessi strati sottostanti permeati di magnetite. Questi ultimi sarebbero anche all’origine dei vari segni ritrovati sul terreno.

Per gli ufologi invece tutti ciò è segno inconfondibile della discesa degli alieni sul Monte Musiné, dove, sempre secondo gli ufologi, questi esseri provenienti da altre parti dell’universo sarebbero scesi nelle viscere del monte per fare strani esperimenti.

Ma il Monte Musiné non è famoso solo per le leggende riguardanti gli avvistamenti di extraterrestri e oggetti volanti non identificati, ma anche per altre storie legate alla magia, all’esoterismo e alla religione.

A proposito della grande croce in cemento armato posta sulla vetta della montagna, si narra che sia stata posta lì perché in questo posto Costantino I si convertì al Cristianesimo. Leggenda vuole che una croce infuocata con su scritto In hoc signo vinces (in questo segno vincerai) sia apparsa qui a Costantino I la notte prima della Battaglia di Torino tra le sue truppe e quelle di Massenzio. In onore di quell’apparizione fu eretta sulla cima del Monte Musiné la croce bianca con su scritto: “In hoc signo vinces. A perpetuo ricordo della vittoria del Cristianesimo contro il Paganesimo riportata in virtù della Croce nella valle sottostante in principio del Secolo IV”.

Sempre in tema religione si narra che il Monte Musiné fu la sede temporanea dell’esilio del Re Erode, condannato per la cosiddetta strage degli innocenti. Si narra, ancora oggi, che i fuochi che si vedono ogni tanto sul monte provengano dal carro di Erode, la cui anima si aggira ancora per la montagna.

Più legata all’esoterismo è invece l’iscrizione che si trova su una targa posta alle pendici del monte, che qualcuno collocò presumibilmente tra il 1973 ed il 1978, e che dice: “Qui è l’Una Antenna dei Sette Punti Elettrodinamici, che dal proprio nucleo incandescente vivo la Terra tutta respira emette vita. Qui operano le Astrali Entità che furono: Hatshepsut, Echnaton, Gesù il Cristo, Abramo, Confucio, Maometto, Buddha, Gandhi, Martin Luther King, Francesco d’Assisi, e anche Tu, se vuoi, alla fratellanza costruttiva tra tutti i Popoli. Pensaci intensamente, 3 minuti: Pensiero è Costruzione”.

 

 

 

 

 

LA “TORINO RUBATA”

 

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La Torino della moda

 

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Nei primi anni dello scorso secolo, Torino era considerata la “capitale della moda”, appellativo blasonato, ricevuto grazie all’Esposizione internazionale del 1911, avvenuta in occasione della proclamazione del cinquantenario del Regno d’Italia, che ha contribuito a creare il mito di una città che ha saputo distinguersi nel mondo della moda non tanto per la creatività o per l’avanguardia, (questo ruolo spetta di diritto a Parigi), quanto per la straordinaria qualità professionale che veniva impiegata per la creazione degli oggetti di moda.

Lo studio degli addetti alla preparazione di abiti e accessori era assiduo, grandi sarti, modiste e pellicciai si adoperavano per realizzare nel migliore dei modi qualunque progetto venisse loro proposto, in un clima di partecipazione e collaborazione che ha reso la città sede di una produzione fondamentale per il modellamento del panorama lavorativo ed economico cittadino.

Proprio in occasione dell’Esposizione la Stampa scriveva: “Per essere la capitale dell’automobilismo e della moda femminile italiana, per certa rassomiglianza esteriore con Parigi, Torino è cara alle tribù sontuose e raffinate”.

Il Palazzo della Moda, ideato da Ceragnoli e Pizzo, fu l’elemento più attraente per i visitatori dell’Esposizione: in un’ambientazione borghese, manichini di cera vestivano le più grandi creazioni delle sartorie torinesi.

Esso ospitava inoltre sia la produzione nazionale sia quella straniera, soprattutto francese, e fu realizzato su iniziativa della rivista “La Donna”, il periodico di moda più letto in Italia, edito dalla Stampa.

Con i suoi sette milioni di visitatori, l’Esposizione fece epoca e diede un nuovo impulso all’industria manifatturiera, incrementando attività già ben avviate nel Settecento e nell’Ottocento.

Sorsero così negozi di abiti già pronti, laboratori di biancheria e maglieria che producevano su larga scala, come il maglificio Bevilacqua che esportava in America latina e nelle colonie inglesi e francesi. Il mestiere della sartoria si perfezionò a più livelli, con scuole di taglio e confezione e aziende specializzate, collegate con l’estero, che diffondevano metodi e modelli in tutta Italia.

La sartoria “La Merveilleuse” fu una delle più importanti sartorie torinesi; fondata nel 1912 da Giuseppe Tortonese, con sede in via Garibaldi e via Doria, divenne famosa per la produzione delle “camicette” di Torino; permise inoltre il diffondersi delle tendenze d’oltralpe contribuendo a raffinarle secondo il tipico gusto piemontese e estese successivamente la sua produzione agli abiti pronti di qualità, i “nonni” del prêt-à porter.

Il gusto torinese divenne famoso in tutta Italia e in Francia, tanto da attirare una clientela elitaria, come la regina Margherita e altre personalità di spicco dell’epoca, che aveva il privilegio di avere un manichino personalizzato a disposizione nelle sartorie.

Le grandi case di moda, come De Gaspari, Isnardon, Re-Chiantore, Rosa e Patriarca, che si fregiavano del titolo di “Fornitore della Real Casa” organizzarono sfilate in varie città italiane, su modello del sistema commerciale delle ditte francesi, che a loro volta avevano a Torino le sedi per le loro sfilate: all’epoca veniva giudicato essenziale per chi intraprendeva un lavoro nel mondo della moda aver fatto un periodo di pratica in un atelier torinese.

Il ruolo della sarta mutò notevolmente: la “sartina” torinese era una persona elegante come chi le commissionava il lavoro, e lavorava duro con la speranza di mettersi in proprio e creare il suo personale atelier.

Il volto di Torino era ormai cambiato, la simbiosi tra arti visive, design e moda aveva dato vita ad uno stile epocale,la nuova via Roma si arricchì di negozi con grandi vetrine a tutta parete e arredamenti all’avanguardia, come la modisteria Borletti.

Proprio grazie alla grande tradizione e al supporto della casa regnante, Torino fu scelta nel 1932 per le esposizioni annuali dell’Ente autonomo per la Mostra permanente Nazionale della Moda e nel 1935 divenne sede dell’Ente Nazionale della Moda.

Ma da decenni sono sparite le splendide vetrine che la Merveilleuse aveva Via Roma, davanti alle quali sostavano ammirate e desiderose schiere di donne sono sparite. Quel nome in francese, ma torinesissimo, famoso in tutta Italia, e non solo, era sinonimo di eleganza non lo ricorda più nessuno. Anzi, ai giovani sembra una stranezza che vi sia stato un tempo in cui era sul Po, accanto agli altiforni dell'industria pesante e alle catene di montaggio, ciò che viene associato da tutti, istintivamente, ai Navigli, all'Arno, al Tevere. A metà degli anni Settanta si interruppero i due appuntamenti annuali, a Torino Esposizioni, con il Samia, cioè con quei Saloni dell'abbigliamento che furono per molto tempo le maggiori occasioni del sistema-moda. La fine del Samia, alla pari di quella del Salone dell'auto, è una storia un po' umiliante. Il Salone dell'abbigliamento, in effetti, finì per la rivolta spontanea degli operatori, che non avevano più intenzione, e lo dissero chiaro, di incontrarsi in una città che giudicavano periferica, poco accogliente, non abbastanza "glamour" come scenario per le loro raffinatezze. Piantarono in asso Torino, dunque, mentre gli organizzatori, imbarazzati, cercavano di fermarli, e si accordarono per ritrovarsi a Milano.

 

Il Salone dell’auto

 

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Dispiegata su una superficie espositiva di 800 mq, vide la partecipazione di 25 espositori di Italia, Francia e Germania, registrando la presenza di circa 2 000 visitatori, nonostante il costo del biglietto d'ingresso.

A quella prima edizione ne seguirono molte altre con gli espositori che incominciarono ad arrivare anche da oltre confine; divenne così una consuetudine il celebrare i nuovi modelli presentati dalle maggiori case automobilistiche mondiali che si davano appuntamento nel capoluogo piemontese ogni mese di maggio.

Molte furono le auto, soprattutto italiane di FIAT e Lancia, che videro la presentazione ufficiale in questa sede, tra le altre le Fiat 1400 e Fiat 126, le Lancia Appia e Lancia Thema (nel 1984 anno del trasferimento nella nuova sede) solo per citare alcuni dei modelli di maggior successo nella storia delle case italiane.

Nel 2000 venne festeggiato il centenario con la 68ª edizione del Salone la cui sede si era nel frattempo trasferita negli spazi espositivi dell'ex stabilimento Fiat del Lingotto.

Per la prima volta dal dopoguerra la prevista edizione numero 69, in calendario dal 25 aprile al 5 maggio 2002, non si tenne a causa della crisi del mercato automobilistico.

Gli organizzatori, gli stessi del Motor Show che alcuni mesi prima avevano acquistato i diritti della manifestazione, per scongiurare la cancellazione dell'evento proposero a tutti gli espositori di partecipare gratuitamente alla manifestazione, ma tutte le principali case automobilistiche, escluso gruppo FIAT, diedero forfait.

Ne scaturì una violenta polemica in Sala Rossa. Alcuni sostennero polemicamente che gli organizzatori avrebbero fatto saltare l'evento di proposito al fine di eliminare la concorrenza del salone torinese e consacrare il Motor Show di Bologna come unica manifestazione fieristica dell'automobile d'Italia. L'allora sindaco Sergio Chiamparino disse che la città era interessata a riacquistare i diritti del Salone dell'auto o ad organizzare una nuova manifestazione analoga.

Ma la verità era che gli espositori erano migrati a Ginevra, dove si svolge dal 1905, nel marzo di ogni anno, il Salone dell'automobile di Ginevra, che ha continuato ad incrementare i visitatori a fronte della chiusura del Salone di Torino: Nella edizione 2017 del Salone circa 700.000 persone hanno visitato l'esposizione, composta da 180 stand.

Nel 2015, grazie alla iniziativa e alla caparbietà dell'imprenditore Andrea Levy, Torino si è ripresa il suo Salone dell'Automobile trasformandolo in Salone all'aperto, e ha scelto il Parco del Valentino come cornice suggestiva. La prima edizione del nuovo Salone segnò un modo nuovo di concepire l'esposizione: per quattro giorni il Parco del Valentino ospitò avveniristiche pedane d'acciaio con le automobili che i vari marchi, in tutto 35 brand, avevano scelto per rappresentare la propria produzione lungo due chilometri di itinerario.

Ma nel 2020 arriva la doccia fredda: il presidente del Salone dell'Auto Andrea Levy, in un comunicato ufficiale annuncia che il salone del 2019 è l'ultimo che si tiene a Torino e che i successivi avranno luogo a Milano.

 

I Paolini fuggono a Milano

 

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Il Gruppo Editoriale San Paolo è un è un gruppo multimediale di proprietà della Pia Società San Paolo, una Congregazione religiosa fondata ad Alba (Cuneo) nel 1914 dal beato don Giacomo Alberione. L’istituto religioso ha ricevuto l’approvazione definitiva della Santa Sede il 27 giugno 1949, per volere di papa Pio XII. E' una presenza importante nel settore dei media, e si occupa di stampa (sia libri che periodici), cinema, musica radio e televisione. Per raccogliere la pubblicità per il mercato televisivo viene fondata una specifica società.

Ma anche questo gruppo, che aveva uffici direzionali sia ad Alba che a Torino, è emigrato a Milano. Quando i Paolini, fondati dal piemontesissimo, e da poco beato, don Giacomo Alberione, vollero fare giornali «veri» - nel senso che non avessero come target soltanto i praticanti delle parrocchie - conservarono le loro grandi tipografie ad Alba, dove già avevano impianti e terreni e dove potevano contare su maestranze solide e docili, con radici secolari in un cattolicesimo tradizionale e, dunque, refrattario a certe demagogie sindacali. Ad Alba restarono gli operai e le rotative, e a quelle che c'erano se ne aggiunsero altre, sempre più grandi e sempre più moderne. Ma, saltando a piè pari Torino, le direzioni, le redazioni, le amministrazioni di quei loro periodici, che volevano rifondare e moltiplicare, i Paolini le portarono a Milano. Dove costruirono una grande sede nell'elegante quartiere della Fiera e dove, nell'immediata "banlieue", a Cinisello Balsamo, qualche anno dopo trasferirono anche le redazioni librarie, il cui nucleo centrale era sino ad allora a Torino, in due palazzoni sul Po, alla fine di corso Regina Margherita. Così, la città prima perse un'opportunità preziosa, quella di essere la sede di un grande gruppo giornalistico. Poi, perse qualcosa di altrettanto importante, una grande casa editrice.

 

La guerra degli aeromodelli tra Piemonte e Baden-Württemberg: come Torino perse l’Aeropiccola

 

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La Graupner ei Wangen, nel Baden-Württemberg, e la Aeropiccola di Torino, che negli anni ’60 e ’70 divennero i maggiori produttori europei di aeromodelli, sono separate solo da 8 anni. Nel 1930 Johannes Graupner fonda la ditta omonima, e nel 1943 Domenico Conte inizia la produzione e la vendita di aeromodelli in Italia, con il caratteristico logo che contiene l’immagine della Mole.

Tutti i vecchi aeromodellisti si ricordano i meravigliosi cataloghi della aeropiccola, composti da un centinaio di pagine, che si vendevano al prezzo di 1500 lire ed erano un paese dei balocchi per molti ragazzini con l’hobby del modellismo.

Per un certo periodo Aeropiccola e Graupner procedettero senza troppe ingerenze nei reciproci mercati, ma inevitabilmente, con l’espansione, iniziò la guerra.

All’inizio Aeropiccola e poco a poco Graupner procedettero testa a testa. Il catalogo Aeropiccola presentava una maggiore varietà e numero di modelli, ma Graupner raggiunse la concorrente e poi passò al contrattacco con una mossa a sorpresa, spostando la guerra in Sudamerica, là dove entrambe le ditte si approvvigionavano di una materia prima fondamentale: la balsa. Nel 1976 venne fondata “EBAGEC” in Guayaquil, Ecuador, che diede a Graupner il monopolio della esportazione. Aeropiccola iniziò ad accusare colpi, il capostipite dovette lasciare il timone per una grave malattia e l’impresa, proseguita dalla figlia Maria Teresa e dal marito, pure lui modellista, dapprima ridotta a ditta di import-export di materiale per modellismo, chiude negli anni ’90.

Nel 2007 Graupner GmbH fatturava 40 milioni di euro esportati per il 50% ed era l’immagine di una realtà imprenditoriale solida e duratura. Ma anche la storica fabbrica tedesca, dopo 80 anni, soccomberà alla concorrenza giapponese. L'11 novembre 2010 muore Hans Graupner, il figlio del fondatore, all'età di 81 anni. E nel dicembre 2012 c’è il colpo di scena: la richiesta di fallimento contro Graupner Beteiligungen GmbH davanti alla corte di Esslingen. Alla data del 12 febbraio 2013 viene imposta l'amministrazione controllata. All'inizio del marzo 2013 la Graupner è liquidata e venduta alla giapponese SJ Incorporated.

 

La Fiat fugge all’estero

 

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La crisi economica, soprattutto nel settore auto, è un dato di fatto, eppure per le grandi imprese è una occasione per ristrutturarsi e delocalizzare, riducendo salari, costi ecologici e tutele sindacali.

Mentre la Fiat in Italia licenzia, in Brasile, che è il suo primo mercato mondiale, ha assunto negli ultimi tre anni 8mila addetti e in Serbia ne assumerà almeno altri mille. La Fiat in realtà non sta andando male, il fatto è che la Fiat ha spostato la sua produzione fuori dall’Italia, dove si produce appena un terzo delle auto assorbite dal mercato interno, una quota inferiore non solo a quella di Paesi di nuova industrializzazione ma anche a quella di Paesi capitalisticamente maturi come Francia e Germania. I modelli a marchio Fiat che stanno realizzando i volumi maggiori, la 500 e la Panda, sono prodotti in Polonia ed importati in Italia. La strategia Fiat è evidente: concentrarsi sulla produzione di massa di auto economiche a livello globale e pertanto spostare quote crescenti di produzione nei Paesi in via di sviluppo. Le produzioni di auto premium a maggiore valore aggiunto, che normalmente vengono conservate nei Paesi più avanzati come accade in Germania con BMW e Mercedes, sono state abbandonate. Due marchi prestigiosi, prima Lancia e poi Alfa Romeo, sono stati praticamente distrutti dalla rinuncia ad adeguati investimenti da parte della Fiat.

La Fiat, che ormai più che una impresa italiana è una multinazionale, ha stabilito la sua sede legale in Olanda e quella fiscale a Londra. In una certa misura questo è la punizione che paga un sistema legislativo e fiscale farraginoso e una Pubblica Amministrazione inefficiente e non in grado di offrire un reale valore aggiunto alle imprese con i suoi servizi. Ma è anche una tendenza diffusa a livello mondiale: le aziende globali, potendo pagare meno tasse sugli utili e oneri sociali non esitano a delocalizzare per la logica della competizione internazionale.

Nel 2014 la Fiat aveva già delocalizzato fiscalmente la sua produzione industriale, creando CNH Industrial N.V. dalla unione di Fiat Industriale (Industrial) e la conglomerata New Holland e Case Corporation (CNH), come società di diritto olandese, con sede legale ad Amsterdam e domicilio fiscale a Londra (Inghilterra), ciò che le consente di usufruire del trattamento fiscale più favorevole della Gran Bretagna.

Poiché questo esperimento è andato a buon fine, il passo successivo è stato di far espatriare anche la Fiat Auto, che sempre nel 2014 aveva pagato in Italia imposte per 420 milioni di euro a fronte di 33 miliardi di ricavi mentre Chrisler a fronte di 51 miliardidi fatturato ne aveva pagati solo 205 milioni. Nessun manager di una multinazionale potrebbe mantenere il suo impiego, in una situazione simile, se non tentasse di delocalizzare fiscalmente, cioè di trasferire una parte sostanziale della propria organizzazione all’estero, in particolare la struttura gestionale e organizzativa, in modo di evitare la tassazione come impresa nazionale per le imprese che hanno nel paese secondo il Testo Unico delle Imposte sul reddito “una stabile organizzazione”.

 

Il Club Alpino Italiano si trasferisce a Milano

 

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L'idea di fondare un club che riunisse gli alpinisti italiani era nata nella mente di Quintino Sella presso Casa Voli (Verzuolo), il 12 agosto 1863, in occasione dell'ascensione del Monviso da parte sua e di altri alpinisti italiani tra cui si possono ricordare Giovanni Barracco, e Paolo e Giacinto di Saint Robert; ispirandosi ad analoghe associazioni esistenti in altri paesi europei come Austria, Svizzera e Inghilterra con l'Alpine Club di Londra.

La fondazione ufficiale del club si ebbe all'una del pomeriggio il 23 ottobre 1863, nel Castello del Valentino a Torino. Tra i fondatori appartenenti alla prima lista di adesione, oltre al Sella, vi furono circa altri duecento appassionati di montagna, tra cui: Giovanni Piacentini, Giorgio Tommaso Cimino, Luigi Vaccarone, Bettino Ricasoli e Giovanni Battista Schiapparelli.

Il primo presidente del CAI eletto fu il barone Ferdinando Perrone di San Martino e vicepresidente Bartolomeo Gastaldi, che ne divenne poi secondo presidente dal 1864 al 1872.[1]

Il CAI ebbe sede dapprima a Torino, e poi dopo la seconda guerra mondiale la sede legale fu trasferita a Milano in via Errico Petrella 19, dove si trova tuttora.

 

 

 

 

 

LA TORINO DELLA FEDE

 

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Alcune Chiese di Torino.

 

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(Vedi anche “La Torino della fede” per altre chiese storiche di Torino)

 

Il “mistero” della Basilica di Santa Maria Ausiliatrice

 

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Quando si imbocca la strada in discesa verso la Basilica da Corso Regina Margherita, forse non ci si rende subito conto del fatto che invece che su un’altura l’edificio giace in una conca. Nessuno, a quei tempi, avrebbe costruito una chiesa, per giunta di quella mole e di quella importanza, in un luogo infossato. Le case di Dio non si costruiscono, forse, sulle alture, ben visibili e dominanti? Non si «ascende» ai templi, mentre qui «si scende» da un corso Regina Margherita notevolmente più elevato? Un luogo, per di più, alluvionale, paludoso - la Dora che ha formato i terreni con i suoi detriti era allora, non deviata, ancora più vicina - e dove, per sostenere un simile colosso, fu necessario triplicare le spese e procedere a capolavori ingegnereschi di palafitte e sotterranei labirintici.

Ma Don Bosco fu irremovibile, voleva la chiesa in quella conca instabile e malsana, senza possibilità di spostarsi. C'era di mezzo un «sogno», naturalmente; anche se, da qualche suo accenno, fu probabilmente qualcosa di più: una visione, un'apparizione, pare più volte ripetuta. Lì, e proprio lì, colei che, ispirata, cantò la profezia che ho appena citato voleva essere onorata, perché lì sparsero il loro sangue per Cristo i militi della legione Tebea, Solutore, Avventore, Ottavio, i primi martiri torinesi; divenuti, poi, i venerati patroni della città, per le cui reliquie si erigerà la sfarzosa chiesa, affidata ai gesuiti, di via Dora Grossa. Si erano dovute portare le loro ossa al sicuro, dentro le mura. Ma ora che le mura non esistevano più, diceva a don Bosco il «sogno» o apparizione o visione che fosse, era tempo di costruire sul luogo del loro martirio quella che sarebbe divenuta la più imponente chiesa della Torino moderna. Stando al Santo, furono indicate dalla Madonna stessa anche le parole che stanno in grandi lettere sulla facciata e che (cito a memoria) dicono «Haec domus mea, inde gloria mea»

 

La Chiesa degli Inglesi e i dispetti di Don Bosco

 

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In Corso Vittorio Emanuele sorge l’austero edificio della Chiesa Valdese. Una targa reca gli orari delle funzioni in lingua inglese, a cui assiste la comunità protestante anglofona della città.

Don Bosco che non apprezzò per niente la decisione del Comune di concedere ai valdesi uno dei posti più belli della città, sul viale del Re, come allora si chiamava il corso Vittorio Emanuele Secondo, per erigervi il loro grande tempio, finanziato da benefattori di rutto il mondo protestante, in atto di omaggio al prezioso «Israele delle Alpi», a questo mitico aggancio con il cristianesimo delle origini. Il prete di Valdocco, allora, passò all'offensiva: proprio accanto al tempio «eretico», fece erigere San Giovanni Evangelista, la sua maggiore chiesa in città dopo Maria Ausiliatrice. Aggiunse poi, come ulteriore baluardo, l'attiguo, grande collegio salesiano. E, tanto per lanciare un segnale preciso, non solo al Municipio ma anche al governo, volle che quell'edificio religioso fosse considerato come il monumento dei cattolici torinesi alla memoria di Pio Nono, le cui gesta sono celebrate già dalle formelle scolpite sui battenti della porta.

 

La Chiesa di San Domenico e gli inquisitori uccisi

Pochi sanno che la sede del Tribunale dell’Inquisizione a Torino fu il Convento di San Domenico e la sede delle udienze più solenni era la annessa Chiesa di San Domenico.

In San Domenico, chi cerca l’atmosfera dell'Inquisizione, può visitare il Chiostro dei morti. Qui è sepolto, in un’urna

di rame argentato, Pietro Cambiasi di Ruffia, uno dei primi inquisitori in Piemonte. Due lapidi ricordano la vicenda di sangue: nel 1365 il frate inquisitore fu ucciso nel chiostro del Convento di San Francesco a Susa, in una gelida notte d’inverno. Dieci pugnalate. La caccia all’assassino fu infruttuosa, così da eccitare la fantasia popolare che cominciò a parlare di una vendetta. Si parlò di una setta di eretici di Meana, di un misterioso sicario che arrivava dalla Valle di Lanzo, e ovviamente di streghe. Sorte analoga toccò al suo successore, l’inquisitore Favonio (o Pavone), ferito mortalmente a Bricherasio, la domenica in Albis del 1374.

La chiesa ha l’ingresso in via San Domenico ma l’edifìcio sorge lungo via Milano. Nonostante i rifacimenti, ha ritrovato e mantenuto, con restauri del principio del secolo, l’originaria impronta gotica. Costruita tra il 1257 e il 1280, dotata della facciata gotica nel 1334, ampliata nel 1351, fornita di campanile nel 1451, snaturata nel Seicento e Settecento da decorazioni e sovrastrutture barocche, colpisce per la facciata in cotto che ne fa un prezioso documento della Torino medievale.

Il convento di San Domenico venne fondato verso l’anno 1260 per opera di frate Giovanni, torinese, domenicano del convento di Sant’Eustorgio di Milano. Ivi Padre Giovanni da Torino mise insieme una rilevante biblioteca.

Così si spiega anche la funzione culturale dei Domenicani e la rilevanza che chiesa e convento ebbero nella storia di Torino, apprezzati dalla casa regnante che si preoccupò ogni qualvolta qualche incidente ne minacciasse la stabilità, soprattutto gli incendi un tempo alquanto frequenti.

Nonostante le precauzioni, il 31 ottobre 1762 il fuoco divorò la casa dietro la cappella del Rosario e s’appiccò alla chiesa. Si arrivò appena in tempo a staccare il quadro del Guercino della Madonna del Rosario. La cappella e parte della navata destra si dovettero ricostruire. Nel 1776 i domenicani fecero rifare l’altare maggiore della chiesa, e due anni dopo anche quello di San Vincenzo Ferreri. Nel 1780 Vittorio Amedeo in costruì la cappella del beato Amedeo, e la ornò di medaglioni di marmo raffiguranti la beata Ludovica e la beata Margherita di Savoia.

In San Domenico è sepolto un personaggio di rilievo per Torino, lo storico Filiberto Pingone (v.), nativo di Chambéry nel 1525,ma torinese “per vocazione” dal 1569.

 

La Consolata, il santuario più caro ai Torinesi

 

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tre chiese in una

La Consolata è in realtà un complesso di tre edifici: la Chiesa di Sant’Andrea, il Santuario della Consolata e il Sotterraneo di N. S. delle Grazie, comunicanti fra loro.

La chiesa S. Andrea è quasi rotonda, con cinque cappelle. Il pregevole organo è del Bianchi (1864). Fu ricostrutta nel 1679 secondo il disegno del Guarini , sulle rovine della chiesa esistente fino dal X secolo. La vòlta è dipinta da Pozzi e Sereno. Gli ornati sono dell’ORSi. Vi si accede da un grande cancello, è di forma esagona , ornato di colonne e marmi preziosi, rifatto secondo il disegno del Guarini. L’altare è disegno del Juvarra. La cupola innalzata nel 1703 è dipinta dall’ Alberoni sui modelli del Bibbiena.

A sinistra, in una cappella appositamente aperta nel 1861, sono le statue in ginocchio di Maria Teresa e Maria Adelaide, consorti ai due ultimi re, opere del Vela.

Da un corridoio coperto di ex-voto si discende nella Cripta di N. S. delle Grazie.

Nel santuario si conserva una immagine veneratissima dai piemontesi , della Vergine , che risale ai tempi di Arduino (1015).

Nel 1835, minacciando il colèra, il Consiglio generale della città fece un voto a quella Madonna e due anni dopo sulla piazza surse una colonna di granito sormontata dalla immagine marmorea della Vergine consolatrice col bambino, opera pregiata del Bogliani.

la chiesa più amata dai torinesi

Tra i frequentatori abituali dei confessionali discreti in penombra si dice vi fosse – in stretto incognito – l’Avvocato. Ed è lì che la Famiglia Agnelli ha voluto fosse celebrata la messa in suo suffragio.

Per costruire il santuario più amato dai Torinesi la città mobilitò - secolo dopo secolo - gli architetti migliori di cui disponeva. Guarini, certo, ma anche Bertola, Juvarra, infine Ceppi.

A ogni necessità grave della città, il Comune, con apposito documento ufficiale, prometteva alla Consolata qualche lavoro di miglioria, un restauro, una grossa offerta, o l'erezione di una colonna. Nel piazzale, dietro il cespuglio di un'aiuola, si trova uno dei pilastrini che stavano sulla linea della battaglia del 1706, quando la città fu liberata dal maggiore dei suoi assedi.

Nel 1954 il sindaco Peyron consacrava solennemente la città alla Madonna, la sera della festa della Consolata, sopra un palco eretto davanti al santuario, accanto alla colonna dedicata a un altro voto comunale, quello per la liberazione dal colera, nel 1835. Il gesto del sindaco che, sette anni dopo, festeggerà il milionesimo torinese (una bambina, figlia naturalmente di immigrati meridionali) non poteva aver luogo altro che lì, sul piccolo piazzale dominato dalle cupole e cupolette di quella chiesa.

il quadro scomparso della consolata

Il quadro della Vergine con il Bambino, posto nell'altare principale, in un tripudio di decorazioni barocca, ha una storia piuttosto complicata e non sempre provata. Ancora le leggende vogliono che sia arrivato a Torino intorno al Mille, con i monaci dell'Abbazia di Novalesa, in fuga dalle devastazioni dei Saraceni; un'altra leggenda spiega invece che questo quadro fosse già a Torino e che fosse andato perduto, venendo ritrovato nel 1104 grazie al cieco di Briançon, Giovanni Ravacchio, che arrivò in città giurando di aver avuto dalla Madonna le indicazioni per ritrovare il quadro. E, ritrovatolo, Giovanni riacquisto la vista. Il ritrovamento e il miracolo diedero un forte impulso al culto della Consolata.

Nel 1898, però, ci fu la grande sorpresa: per poter fotografare il quadro nella sua interezza, venne smontata la cornice e venne così scoperta una scritta sapientemente occultata, “Santa Maria de Populo de Urbe”, che datava il quadro al XVI secolo. Cos'era successo? Forse il quadro originale era andato di nuovo perduto o forse era andato distrutto in qualche guerra, fatto sta che il dipinto della Consolata è stato realizzato da Antoniazzo Romano su commissione del cardinale Della Rovere; l'artista si ispirò a una Madonna presente nella Cappella Paolina di Santa Maria Maggiore, a Roma, "una giovane donna con bambino, che si dice sia stata dipinta da San Luca e che intorno al 1240 era venerata come Regina Coeli.

I lumini rossi delle pourteire: un santuario e una devozione di tutta una città

Le pourteire, le portiere dei cortili di Torino, tra le varie incombenze ne avevano una a cui tutti tenevano particolarmente: tenere perennemente acceso il lumino rosso di fronte al medaglione con l’immagine della Consolata che non mancava in nessun androne della Città.

 

Miracoli a Torino

 

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il cane grigio di don bosco

Sono molte le persone che possono testimoniare un atto eroico del loro animale da compagnia, che le ha messe in guardia da un incidente futuro, le ha avvertite del fatto che una persona stava cercando di entrare in casa con chissà quali intenzioni, ha evitato qualche violenza domestica o ha aiutato una persona smarrita a ritrovare la strada.

Anche don Bosco aveva il suo animale misterioso, che appariva e scompariva nella sua vita difendendolo dagli attacchi dei malviventi o accompagnandolo in strade insicure.

Egli stesso racconta nelle sue Memorie dell’Oratorio come nel 1852 sia apparso nella sua vita il cane lupo che chiamò Grigio:

“Una sera oscura, piuttosto sul tardi, venivo a casa solo soletto, non senza un po’ di paura, quando mi vidi accanto un grosso cane che a prima vista mi spaventò. Ma non ringhiò contro di me, anzi mi fece le feste come se fossi il suo padrone. Abbiamo fatto amicizia e mi accompagnò fino all’Oratorio. Ciò che avvenne quella sera si ripeté molte altre volte. Posso dire che il Grigio mi ha aiutato parecchie volte in maniera straordinaria. Esporrò alcuni fatti.

Sul finire del novembre 1854, una sera nebbiosa e piovosa, venivo solo dalla città. Per non percorrere un lungo tratto disabitato, discendevo per la via che al santuario della Consolata porta all’Opera del Cottolengo. A un ratto mi accorsi che due uomini camminavano a poca distanza da me. Acceleravano o rallentavano il passo ogni volta che io acceleravo o rallentavo. Tentati di portarmi dalla parte opposta per evitare di incontrarli, ma essi lestamente si riportarono davanti a me. Provai a tornare indietro, ma era troppo tardi: con due balzi improvvisi ,in silenzio, mi gettarono un mantello sulla testa. Mi sforzai di non lasciarmi avviluppare nel mantello, ma non ci riuscii. Uno tentò di turami la bocca con un fazzoletto. Volevo gridare, ma non ci riuscivo più. In quel momento apparve il Grigio. Urlando si lanciò con le zampe contro la faccia del primo, poi azzannò l’altro. Ora dovevano pensare al cane prima che a me.

‘Chiami questo cane!’, gridarono tremanti.

‘Lo chiamo se mi lasciate andare in pace’.

‘Lo chiami subito!’, implorarono.

Il Grigio continuava a urlare come un lupo arrabbiato”.

In base a varie testimonianze, il cane difese don Bosco perlomeno tre volte dagli attacchi dei malfattori, e almeno in altre due occasioni comparve misteriosamente dal nulla indicandogli la strada quando si era smarrito.

L’aspetto più incredibile di tutta questa storia è che Grigio difese il santo in vita e continuò a proteggerlo dopo la morte, come testimonia il signor Renato Celato, autista affidabile e discreto di quattro Rettori salesiani.

In un’intervista ha raccontato in dettaglio questo fatto piuttosto curioso:

“Era il 5 o il 6 di maggio del 1959, dopo l’inaugurazione del grande tempio di Cinecittà. Eravamo di ritorno da Roma con l’urna di don Bosco. L’urna era rimasta a Roma vari giorni. Era venuto ad onorarla anche Papa Giovanni XXIII”.

“L’urna di don Bosco rimase due giorni a San Pietro, intanto che si facevano le pratiche burocratiche per il viaggio di ritorno a Torino. Siamo partiti da Roma nel tardo pomeriggio. Cominciava a farsi buio. Dovevamo arrivare a La Spezia alle quattro del mattino, sennonché eravamo stanchi e don Giraudi ci consigliò di fermarci un paio d’ore a Livorno dai Salesiani”.

“Il confratello sacrista, signor Bodrato, aveva aperto le porte della Chiesa alle quattro e mezzo e aveva visto questo cane accovacciato davanti alla porta e gli aveva rifilato un calcio per mandarlo via. Senza reagire, il cane si era ritirato in disparte ed aveva aspettato l’arrivo dell’urna”.

“Poi quando incominciò ad arrivare la gente e iniziarono le Messe e le funzioni, il direttore si preoccupò e disse ai carabinieri: ‘Mandate via questa bestia che sta sotto l’urna!’. Ma non ci riuscirono. Il cane digrignava i denti e sembrava arrabbiato. Rimase là fino a mezzogiorno. A quell’ora chiusero la chiesa. Il cane uscì e cominciò a gironzolare tra i ragazzi in cortile. I ragazzi naturalmente erano felici di averlo in mezzo a loro: lo accarezzavano, gli tiravano la coda”.

“Verso le quattordici, tornammo in chiesa per ripartire, perché il viaggio era ancora lungo. Il cane era di nuovo accovacciato sotto l’urna. Come aveva fatto a entrare? La chiesa aveva le porte sbarrate, com’è facile immaginare”.

Quando l’urna con i resti di don Bosco ripartì, il Grigio scomparve misteriosamente.

Il signor Celato ha documentato l’accaduto con alcune fotografie.

il miracolo della madonna del pilone

Posto al confine nordorientale della città, in zona precollinare e collinare, questo borgo ha una storia raccontata dallo storico ottocentesco Luigi Cibrario in “Storia di Torino”. Il pilone di cui si parla era una nicchia in cui era custodita un'immagine della Vergine. Il 29 aprile 1644 una donna di nome Margherita Molar si recò al mulino lì vicino con la figlia di undici anni, che a un certo punto scivolò e finì tra le pale del mulino. Mentre la gente accorsa tentava di salvarla ma disperava di vederla viva, alla madre parve di vedere la Madonna che l'aiutava e poco dopo la bambina emerse dalle acque. I fedeli vi fecero quindi erigere una cappella in ricordo del miracolo, poi divenne una chiesa grazie alle donazioni di nobili e reali che vi si appellavano per avere figli.

il miracolo commemorato dalla chiesa del corpus domini

La chiesa del Corpus Domini sulla vicina piazzetta presso alla Cattedrale, deve la sua fondazione ed il suo nome alla seguente leggenda: Il giorno 6 giugno 1453, un soldato passava per Torino, reduce dal paese di Exilles, cui erasi dato il saccheggio. Spingeva davanti a sè un mulo carico di oggetti predati, fra i quali un ostensorio rubato alla chiesa d’Exilles, con dentro l’ostia consacrata. Giunto davanti alla chiesa di S. Silvestro, e dove ora è la chiesa del Corpus Domini, il mulo cadde, nè si potè più rialzare. Il sacco che portava si ruppe nella caduta, e l’ostia s’ innalzò e stette sospesa in aria finché non venne, seguito da molto popolo, il vescovo monsignor Lodovico Romagnano, che pose con ferventi preghiere sotto l’ostia il calice, e questa vi scese. Nella chiesa anche oggi una iscrizione sopra una lapide di marmo commemora il fatto.

il cieco che ritrova il quadro della consolata

Nel 1104, un giovane nobile di Brian^on, cieco dalla nascita e devoto credente, riceve in sogno dalla Madonna la missione di ritrovare un suo miracoloso quadro andato perduto sotto le rovine di un’antica chiesa torinese. Questo quadro fu portato in Piemonte dall’oriente, dal vescovo di Vercelli Sant’Eusebio, che lo donò al vescovo di Torino, Massimo, per far crescere il culto della Madre di Dio nella città. Nell’820 questa sacra immagine corse il rischio di essere distrutta dai seguaci iconoclasti del vescovo Claudio, e quindi fu nascosta, insieme con altre immagini religiose, in una cappella tenuta segreta. Nel corso del tempo la cappella cadde in rovina e le sue preziose immagini stavano per correre il rischio di andare perdute, se una fortunata circostanza non avesse permesso di rimuovere il quadro e poterlo collocare nel 1015 nella cappella di Sant’Andrea. Purtroppo nel 1080, per mano dei soldati dell’imperatore Enrico IV, la cappella fu distrutta e il quadro un’altra volta perduto. Il giovane s’incamminò a piedi nei primi giorni di giugno del 1104 passando per il Monginevro, e dirigendosi verso Susa e Rivoli per poter raggiungere Torino. Doveva percorrere 120 km. Giunto nei pressi della contrada di Pozzo Strada, borgata costruita intorno a un antico pozzo romano, il Puteum Stratae, ebbe la visione folgorante del punto preciso dove si sarebbe trovato il quadro. Riuscì a entrare in città e a giungere nel luogo delle rovine della vecchia chiesa di Sant’Andrea, inginocchiandosi e mettendosi a pregare in mezzo alla via. Quello strano atteggiamento attirò viandanti e commercianti del posto, e anch’essi si misero presto a pregare, tanto che le guardie stesse avvisarono il vescovo Mainardo che allora guidava la comunità torinese. Questi non tardò ad arrivare e a unirsi nella preghiera, facendo poi scavare nel luogo indicato dal giovane cieco di Brian^on. Quando il quadro venne alla luce lo stupore fu grande, ma ancora di più fu la sorpresa quando il grido del giovane nobile chiarì che l’impegno della Madonna era stato assolto: Giovanni Ravacchio (o Jean Ravais) ci vedeva! Aveva riacquistato la vista nel preciso momento in cui il quadro era ritornato alla luce del sole. Era il 20 giugno, e ogni anno a Torino questo giorno è ricordato come la festa della Consolata, “la Santa Signora di Torino”.

La chiesetta di Sant’Andrea dapprima fu restaurata per riaccogliere il quadro, come attesta un documento del 1313, poi venne ampliata nel 1448 e nel 1598, per poter far fronte al grande afflusso di fedeli e di pellegrini, con nuovi restauri e ampliamenti susseguitisi sino al XVII secolo. Nel 1678, per ordine della seconda Madama reale. Maria Giovanna Battista di Nemours, iniziarono i lavori di rifacimento e di ampliamento, in stile barocco, della chiesa di Sant’Andrea, completati nel 1703, su progetto del Guarini e la direzione di Antonio Bertola. Nel 1706 la Madonna della Consolata fu proclamata “patrona di Torino”. Nel 1714, Filippo Juvarra costruisce l’imponente altare maggiore. Tra il 1742 e il 1748 il pittore Felice Cervetti dipinge i sei quadri che riproducono i momenti salienti del miracolo del cieco che ritrova la santa icona. Nel 1835 l’amministrazione comunale, in seguito a un’epidemia di colera, affida la città alla protezione della beata Vergine della Consolata, facendo erigere vicino alla chiesa una colonna, progettata dall’architetto Ferdinando Caronesi. Alla sua sommità venne installata una statua della Madonna. Nel 1904 ulteriori migliorie architettoniche ne decretavano la struttura attuale.

il miracolo del tabernacolo inviolato

Il 12 maggio del 1640 il generale francese D’Ancourt entra in Torino e attacca in forze il monte dei Cappuccini, difeso all’incirca da 400 uomini tra mercenari e regolari. È il periodo della guerra tra “madamisti” e “principisti”, come abbiamo già accennato riguardo alle storie sulla prima Madama Reale, Cristina di Francia. I “principisti” si batterono con grande valore e tennero il monte per parecchi giorni, ma il loro esiguo numero venne infine sopraffatto dalle migliaia di soldati francesi che, incattiviti dalla strenua resistenza, una volta conquistato il monte e penetrati nella chiesa fecero una gran strage, passando a filo di spada tutti i presenti, soldati, donne bambini, risparmiando soltanto i frati cappuccini, che tentavano disperatamente di salvare almeno i bimbi. I Francesi perpetrarono un eccidio che raggiunse le 400 anime! Iniziò pure il saccheggio nella chiesa e nel convento, e un soldato più spregiudicato e cinico degli altri forzò violentemente con la spada il tabernacolo dell’altar maggiore, per impadronirsi della pisside d’oro che conteneva le ostie consacrate; tuttavia, improvvisamente, quando stava per mettere le mani sul sacro oggetto, una vampata di fuoco fuoriuscì dal tabernacolo investendolo completamente e ustionandolo gravemente alle mani, al volto e al petto, mentre i suoi vestiti prendevano fuoco. Il malcapitato cominciò a urlare dal dolore e dal terrore, e così gli altri commilitoni, rimasti inizialmente sbalorditi del fatto, lo soccorsero e abbandonarono in fretta e furia la chiesa.

In seguito vennero rilasciate diverse testimonianze al tribunale dell’inquisizione, tra le quali spiccava quella del soldato Baldovino Betlem, della compagnia di Corazze del capitano Gay, e residente in Moncalvo. L’8 agosto dello stesso anno, d’innanzi al notaio ufficiale del Santo Uffizio, firmò la sua testimonianza giurata davanti al Vangelo, per il fatto da lui assistito alla chiesa dei Cappuccini. La forza del “corpo di Cristo*’ fu pertanto da monito contro le ignominie della guerra e della violenza.

 

Centosessanta isolati e centosessanta nomi di santi

 

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Torino fu una città tanto cattolica che, sino alla seconda metà dell'Ottocento, fu divisa in centosessanta isolati, ciascuno dei quali aveva il nome di un santo. Niente indirizzi, qui, ma l'indicazione del protettore del «quadrato», come lo chiamavano. Neanche la Roma papale, men che meno la Milano prima spagnola e poi austriaca hanno mai avuto una toponomastica urbana così interamente religiosa.

 

Antichi martiri e reliquie a Torino

 

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Torino è forse la città più ricca di reliquie, a cominciare col corpo di Don Bosco, dietro la cui urna la gente infila bigliettini, per terminare con quella dei santi protettori della città, custoditi nella chiesa dei Gesuiti in Corso Garibaldi. Per non menzionare la Sindone.

 

Gli ex-voto

 

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Torino ne è particolarmente ricca e non mancano privati collezionisti in questo settore. La devozione popolare si manifesta soprattutto con la donazione di un “cuore” - il formato di esso varia di volta in volta -, posto sotto vetro e incorniciato, quale manifestazione di gratitudine per avere ricevuto una grazia. Il “cuore” può essere offerto genericamente a questa o a quella chiesa o, con un omaggio più specifico, alla Vergine, a un santo o a una santa di cui si è invocata l’intercessione. Al “cuore” si affiancarono con il tempo altre espressioni devozionali, dovute ad artisti specializzati nella produzione degli ex voto: come un braccio, una gamba, a testimoniare una avvenuta guarigione. Il militare, ferito in combattimento, che non sperava più di fare ritorno a casa, rientrato in patria offriva le spalline, a volte in argento, della propria uniforme.

Nelle chiese se ne vedono ancora in gran numero. Più interessante l’ex voto che, in una raffigurazione pittorica, vuole rappresentare il momento in cui si era invocata la grazia. Le chiese torinesi più vicine al cuore del popolo sono stracolme di queste umili testimonianze. Il santuario della Consolata addirittura ne trabocca e centinaia di ex voto coprono le pareti all’interno della chiesa in una lunga galleria interessante anche sotto l’aspetto storico.

Differenti per stili, formati, comici, ciascuno rispecchia un’epoca. Gli ex voto radunati alla Consolata compongono la più vasta collezione in materia. Accanto ai “cuori” offerti dai fedeli per qualche favore ricevuto, ci sono “spalline” di militari, soprattutto quelle argentee delle vecchie uniformi dei carabinieri, ma sono soprattutto le composizioni pittoriche a stupire. Per decenni, artisti di questo particolare genere si sono dedicati, per un prezzo spesso quasi trascurabile, a dipingere ex voto.

«Mi trovavo sul carro di fieno, con mio marito, il cavallo si è imbizzarrito, siamo finiti contro il parapetto del vecchio ponte. Se non siamo precipitati nel fiume è stato per l’intervento della Coniolata, che ho invocato», si sentiva raccontare il pittore e subito ce a metteva tutta a raffigurale la scena, con carro, cavallo, ponte e, in alto a destra, la Consolata.

Quante sale operatorie in questi quadretti; impossibile contarle. Un intervento difficile, un caso disperato, poi la guarigione. Il tram, la donna che finisce sotto, poi farrivo dei pompieri e la donna si salva. «Grazie perché sono stato assolto di tutto», dice Antonio G„ e il quadretto lo mostra, quasi tremante, davanti ai giudici. Sarà poi stato davvero innocente? Molti dipinti sono datati fine Ottocento, come quello delle operaie-filatrici precipitate in strada per il crollo di un balcone, nel 1890. Non si capisce dal piccolo quadro se si sono salvate proprio tutte. Poi gli ex voto dei militari, tantissimi, da tutti i fronti, nella prima e seconda guerra mondiale. Se la sono vista brutta, per quello scontro sanguinoso, parecchi sono caduti, falciati, questi l’hanno scampata e, tornati a casa, hanno voluto dire “grazie” in questo modo alla Consolata.

Nel 1940 sono piovute le prime bombe su Torino, appena dichiarata la guerra. Impauriti ma salvi, gli inquilini di via Priocca si sono affrettati a mandare il loro ex voto. Treni che deragliano, aerei che precipitano, case che crollano e che bruciano, torrenti in piena, aerostati che stanno cadendo al suolo come sassi; carri, auto.biciclette, terremoti, alluvioni, negli ex voto si vede di tutto. Elemento immancabile la Consolata, sempre lei.

L’ex voto più antico sembra quello offerto da Antonia Margherita Noberasca, moglie di un mercante di Savona, tormentata per nove anni dal diavolo, poi liberata per l’intervento della Madonna. È datato 25 marzo 1670.

Fra i più recenti, uno portato al santuario da chi è riuscito a liberarsi dalla droga. Pochi ingenui versi dicono tutto: «Droga e vin l’avean ridotto male / ma ora fa il dottore in ospedale / piangere non servì, servì, servì pregare / la nostra Consolata sull’altare». Il corridore ciclista Nino Defilippis è in una foto. Ha dedicato alla Madonna una delle sue più belle vittorie in bici. Gli ex voto sono oltre duemila; alcuni hanno avuto restauri recenti, proprio perché considerati documenti, testimonianze di costume, oltre che povera e ingenua forma di arte sacra. Si calcola che due o tremila quadretti siano andati persi con il tempo, in specie quando il santuario venne restaurato e ingrandito nel 1904. Molto materiale può trovarsi ancora depositato nel sottosuolo della chiesa; non si può esporre tutto, di certo non la lettera di un poveretto, poche righe con molti errori, che accompagnava una pagnotta; un ex voto da parte di qualcuno che non aveva null’altro da offrire.

 

Il falò di San Giovanni

 

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La Festa di San Giovanni è sicuramente uno degli eventi più importanti della città di Torino. L’elezione di di San Giovanni Battista come patrono del capoluogo piemontese ha origini molto antiche. In alcuni documenti storici è già menzionata nel 602 quando Aginulfo, duca di Torino, fece erigere una chiesa in suo onore.

Per quanto riguarda i due giorni di festeggiamenti in occasione della festa del patrono, questi risalgono al Medioevo. Tutta la popolazione, gli abitanti della città e delle zone adiacenti, era coinvolta nelle varie celebrazioni che avvenivano durante i festeggiamenti: danze, canti, banchetti e gli appuntamenti religiosi.

In realtà la celebrazione, la processione e l’ostensione della reliquia del Santo (proveniente dalla chiesa di St. Jean de Maurienne) erano i soli eventi di tradizione cristiana inseriti nei due giorni di festeggiamenti. I momenti centrali di questa festa medievale erano invece la balloria (le danze e i canti in preparazione dei festeggiamenti serali), la corsa dei buoi (pittoresca corsa che si svolgeva nelle vie della città e più precisamente nelle strade del Borgo Dora) ed il Farò (ovvero il falò serale).

Nell’Ottocento vi assisteva una deputazione della città e le truppe di guarnigione e la guardia nazionale, schierate in bell’ordine ai quattro lati della piazza, sparano tre volte le loro armi, mentre cade la catasta.

Da fonti storiche (i verbali redatti dai decurioni dopo l’evento) si sa che la tradizione del Farò (parola in piemontese che significa “falò”) è antichissima, forse quanto la stessa festa del Santo. La catasta di legna da ardere veniva già anticamente preparata in Piazza Castello, più precisamente all’altezza di Via Dora Grossa (oggi Via Garibaldi). Soltanto più tardi sarà spostata all’altezza di Via Palazzo di Città per consentire al cavaliere del vicario e ai suoi uomini di vegliare tutta la notte

Per il Farò, alla vigilia del 24 giugno, veniva preparata nella piazza centrale una enorme catasta piramidale di legna a cui il figlio più giovane del principe regnante doveva dare fuoco creando un grande falò intorno al quale gli abitanti si lasciavano andare in vivaci e sfrenate danze. La notte del 23 giugno veniva celebrata così: cantando, danzando in cerchio intorno al fuoco e recitando preghiere in onore di San Giovanni. Le danze erano guidate da re Tamburlando, una figura che oggi può essere paragonata a quella di Gianduja che appunto guida i festeggiamenti della vigilia di San Giovanni.

Come spesso accade nelle feste cristiane della tradizione, la religione si mischia alle credenze più antiche e alle superstizioni. La Festa di San Giovanni coincide d’altronde con il solstizio d’estate, che nel mondo pagano simboleggiava un rito di passaggio che portava la Terra dal predominio lunare a quello solare durante la notte più corta dell’anno.

Sempre durante questa lunga notte di festeggiamenti gli abitanti della città si lasciavano andare a riti e credenze magiche come bruciare le vecchie erbe nel falò e raccoglierne di nuove per leggere il futuro, comprare l’aglio per avere un anno fortunato, raccogliere un ramo di felce a mezzanotte e conservarlo in casa per aumentare i soldi. Si dice anche che durante la notte venissero raccolte erbe e foglie da battezzare nelle acque per poi, durante l’anno, preparare filtri e pozioni magiche utili per fare incantesimi. Sulla base di queste tradizioni si diffuse la credenza che la notte di San Giovanni fosse dedicata alla celebrazione dei rituali delle streghe, ovvero le “masche” piemontesi.

Oggi questo lato scaramantico e un po’ magico rimane con la tradizione della caduta del toro posto in cima al falò. Al centro del Farò viene infatti issata la sagoma di un Toro, che a seconda della direzione in cui cade porterà fortuna o sfortuna alla città durante l’anno che segue. La leggenda narra che, se la sagoma del Toro cade verso Porta Nuova, l’anno che si apre sarà propizio per la città mentre se cade nella direzione opposta sarà un anno poco fortunato per Torino.

 

La cripta delle reliquie

 

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Vedi “Torino città delle reliquie” nel percorso “La Torino del silenzio”

 

La Sacra Sindone e la sua storia

 

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la storia della sindone

La Sindone di Torino, nota anche come Sacra Sindone o Santa Sindone, è un lenzuolo di lino conservato nel Duomo di Torino, sul quale è visibile l'immagine di un uomo che porta segni interpretati come dovuti a maltrattamenti e torture compatibili con quelli descritti nella passione di Gesù. Alcune persone identificano l'uomo con Gesù e il lenzuolo con quello usato per avvolgerne il corpo nel sepolcro.

La prima notizia riferita con certezza alla Sindone che oggi si trova a Torino risale al 1353: il 20 giugno il cavaliere Goffredo (Geoffroy) di Charny, che ha fatto costruire una chiesa nella cittadina di Lirey dove risiede, dona alla collegiata della stessa chiesa un lenzuolo che dichiara essere la Sindone che avvolse il corpo di Gesù, senza spiegare come ne sia venuto in possesso.

Nel 1389 il Vescovo di Troyes protesta presso l’antipapa Clemente VII – allora pontefice legittimo in Francia – per l’ostensione fatta quell’anno dal figlio di Goffredo, dopo una prima esposizione del 1355 o 1357 dopo la morte di Goffredo nella battaglia di Poitiers.

Il figlio di Goffredo di Charnay invia un contro-memoriale e nel 1390 Clemente VII, con bolle papali autorizza l’esposizione a patto che si dichiari che la Sindone è un dipinto e che non è il vero sudario.

Nei decenni successivi scoppia una disputa per il possesso della Sindone tra la Collegiata di Lirey e Margherita di Charny, che organizza una serie di ostensioni durante i suoi viaggi in giro per l’Europa. Infine, sempre rifiutandosi di restituire la Sindone, Margherita la vende nel 1453 ai Savoia, fatto per il quale viene scomunicata.

I Savoia conservano la Sindone nella loro capitale, Chambéry, dove nel 1502 fanno costruire una cappella apposita; nel 1506 ottengono da Giulio II l'autorizzazione al culto pubblico della Sindone.

Nel 1535 il Ducato di Savoia entra in guerra: il duca Carlo III deve lasciare Chambéry e porta con sé la Sindone. Negli anni successivi il lenzuolo soggiorna a Torino, Vercelli e Nizza; soltanto nel 1560 Emanuele Filiberto, successore di Carlo III, può riportare la Sindone a Chambéry, dove rimane per i successivi diciotto anni.

Dopo aver trasferito la capitale del ducato da Chambéry a Torino nel 1562, nel 1578 il duca Emanuele Filiberto vi fa trasportare la Sindone perché San Carlo Borromeo possa visitarla in pellegrinaggio, e da quel momento il sudario rimarrà nella capitale sabauda, tranne una breve parentesi a Genova, durante l’assedio di Torino del 1706.

Nel 1983 muore Umberto II di Savoia, ultimo re d'Italia: nel suo testamento egli lascia la Sindone in eredità al Papa. Giovanni Paolo II stabilisce che essa rimanga a Torino e nomina l'arcivescovo della città suo custode.

Nella notte tra l'11 e il 12 aprile 1997 un incendio scoppiato nella Cappella della Sacra Sindone o Cappella del Guarini, mette di nuovo in pericolo la Sindone. La Sindone, tuttavia, non fu direttamente interessata dall'incendio poiché il 24 febbraio 1993, per consentire i lavori di restauro della Cappella, era stata provvisoriamente trasferita (unitamente alla teca che la custodiva) al centro del coro della Cattedrale, dietro all'altare maggiore, protetta da una struttura di cristallo antiproiettile e antisfondamento appositamente costruita.

l’ipotesi del mandylion

Nel 1989 Daniel Scavone, professore di storia antica e moderna presso l’Università dell’Indiana del Sud a Evansville, nel suo libro The Shroud of Turin, ha avanzato l’ipotesi secondo cui la Sindone di Torino sarebbe da identificare con il mandylion o "Immagine di Edessa", un'icona di Gesù molto venerata dai cristiani d'Oriente, scomparsa nel 1204. In realtà il telo di Edessa è descritto come un fazzoletto che si credeva fosse il telo della Veronica, ma potrebbe essere stato il lenzuolo ripiegato in modo tale da mostrare unicamente il volto. Secondo la cronaca di Evagrio Pontico nella sua Historia Ecclesiastica, nel 544, quando la città era assediata dai Persiani del re Cosroe e si temeva la disfatta perché i difensori non riuscivano con le loro frecce ad incendiare le macchine da guerra del nemico, il Vescovo Eulalio fece un sogno in cui una donna gli rivelava dove era nascosto il sudario. Il mattino gli abitanti si recarono presso la porta occidentale e la trovarono in una nicchia del muro, proprio dove il sogno aveva indicato. In quel momento, le macchine di assedio colpite dalle frecce dei difensori presero fuoco e i persiani abbandonarono il campo. Nel 944 l’imperatore Bizantino Romano Lecapeno pretese la restituzione del Mandylion all’Emiro di Edessa, e al suo rifiuto gli mosse guerra, recuperando il sudario e nell’agosto dello stesso anno fu celebrato l’arrivo del sacro telo a Costantinopoli ed esso fu depositato presso la chiesa di Santa Maria delle Blacherne. Questo è attestato da una omelia di Papa Gregorio Magno – rinvenuta nell’Archivio Vaticano – con data del 16 agosto 944, composta in occasione della notizia, giunta a Roma, del recupero del Mandylion.

Da Costantinopoli il Mandylion scomparve – a partire dal 1240 non se ne hanno più notizie – ma secondo l’ipotesi di Scavone in realtà esso sarebbe ricomparso nella mani di Goffredo di Charnay.

caratteristiche della sindone

Il lenzuolo riporta due immagini molto tenui che ritraggono un corpo umano nudo, a grandezza naturale, una di fronte (immagine frontale) e l'altra di schiena (immagine dorsale); sono allineate testa contro testa, separate da uno spazio che non reca tracce corporee. Sono di colore più scuro di quello del telo.

L'immagine appare essere la proiezione verticale della figura dell'Uomo della Sindone: le proporzioni del corpo sono infatti quelle che si osservano guardando una persona direttamente o in fotografia, mentre l'immagine ottenuta stendendo un lenzuolo a contatto col corpo dovrebbe apparire distorta, ad esempio il viso dovrebbe apparire molto più largo.

Il corpo raffigurato appare quello di un maschio adulto, con la barba e i capelli lunghi.

L'immagine è poco visibile a occhio nudo e può essere percepita solo a una certa distanza (uno-due metri), mentre avvicinandosi sembra scomparire.

studi scientifici sulla sindone

In occasione dell'ostensione pubblica del 1898, l'avvocato torinese Secondo Pia, appassionato di fotografia, ottiene dal re Umberto I il permesso di fotografare la Sindone. Superate alcune difficoltà tecniche, il Pia esegue due fotografie e al momento dello sviluppo gli si manifesta un fatto sorprendente: l'immagine della Sindone sul negativo fotografico appare "al positivo", vale a dire che l'immagine stessa è in realtà un negativo. La notizia fa discutere e accende l'interesse degli scienziati sulla Sindone, dando inizio a un'epoca di studi che fino a oggi non si è conclusa.

Nel 1988, l'esame del carbonio 14 sulla Sindone, eseguito contemporaneamente e indipendentemente dai laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo, ha datato la sindone in un intervallo di tempo compreso tra il 1260 e il 1390, periodo corrispondente all'inizio della storia della Sindone certamente documentata. Ciononostante, la sua autenticità continua a essere propugnata da una serie di autori.

 

 

 

 

 

LA PARLATA PIEMONTESE NELLE VIE DI TORINO. ESPRESSIONI E MODI DI DIRE.

 

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Da “cicchetto” a “naja”: tutte le parole e le espressioni piemontesi esportate nella lingua italiana

 

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cicchetto

Il vocabolo sarebbe il piemontese “cichet” e questo dal provenzale “chiquet”, piccolo bicchiere, bicchierino e, per estensione, il suo contenuto. Il passaggio semantico da bicchierino a rimprovero, nato dapprima negli ambienti militari – secondo il linguista Lorenzo Renzi - «deve esser nato nelle caserme cosí: chi veniva chiamato in disparte dal superiore per una strigliata, sarà tornato riferendo scherzosamente ai colleghi che il capitano (o chi per lui) gli aveva dato “un cicchetto”; e cioè offerto da bere».

punt e mes

Il nome del famoso vermouth è di origine piemontese e significa “un punto (di dolce) e mezzo (di amaro)”

travet

Espressione torinese per indicare un “mezzemaniche”, un impiegatuccio. Deriva dalla commedia di Vittorio Bersezio intitolata Le miserie ’d Monsù Travèt (Le miserie del signor Travèt), andata in scena per la prima volta a Torino, al Teatro Alfieri, nel 1863. Venne rappresentata a Milano cinque anni dopo, quando fra il pubblico che l’applaudì vi era Alessandro Manzoni. La commedia fu tradotta in veneto e in lingua tedesca.

naja

Dizionari come il Deli (Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli), o il Devoto-Oli rimandano il termine (che fanno derivare dal latino natalia) ad attestazioni databili alla fine del XVI secolo in friulano o in qualche parlata veneta.

Però il il professor Bruno Villata, docente di linguistica alla Concordia University di Montréal, rileva come già nella Opera Jucunda dell’astigiano Giovan Giorgio Alione del 1521 ma ancor prima nei Sermoni Subalpini, del XII secolo, sia presente il termine omografo naye con il significato di natiche e poiché “il passaggio da natica a naja è del tutto conforme alle leggi fonetiche del piemontese, in cui la -t- intervocalica latina sonorizza e poi sparisce” come in coppie del tipo siass (setaccio)- lat. setaciu, è possibile che naia non derivi dal più tardo termine attestato in qualche parlata veneta e derivante dal latino natalia, bensì dal più antico piemontese dei Sermoni mutuato dal latino parlato naticae.

imbranato

Curioso è il caso di imbranato, collegato al lemma bren, ovvero crusca che diede al toscano il verbo incruscarsi, perdersi cioè nella crusca, meglio, come definisce il Devoto-Oli “perdersi in cose da poco”, sostituito da imbranato in quanto “impacciato dalla bren”, impacciato dalla crusca, detto dagli alpini ai muli renitenti e passato all’italiano, ancora una volta attraverso il gergo militare.

imballato

Un caso particolare è quello di imballato che il dizionario Petrocchi del 1892 definiva con il solo significato di “avvolto in tela o sim. in modo da esser spedito”. Bisognerà aspettare il 1970 perché il Palazzi ne restituisca un altro significato in uso, ovvero “girar troppo velocemente e rumorosamente che fa il motore di una automobile, motocicletta e sim.”, derivato dal francese emballer, voce a cui avrebbero rimandato anche i lessicografi successivi. Il fatto è che però già nel 1859, nel Gran Dizionario Piemontese-Italiano del Sant’Albino la voce anbalà era presente, e lo era con entrambe le definizioni di “imballato … messo in balla” e “impallato” con il senso che assumerebbe nel “giuoco del bigliardo, ed è il fare in modo che l’avversario colla sua palla non possa colpire quella dell’altro, per esservi di mezzo i birilli o qualche altra palla”. Se il senso di imballato è quindi anche quello di essere “bloccato, impacciato” allora è l’attestazione più antica di un senso che sarebbe passato dal piemontese all’italiano e non dal francese.

bastian contrario

A Torino il Bastian Contrario (in piemontese Bastian Contrari [pronuncia: bastiàn cuntràri]) per antonomasia è considerato il Conte di San Sebastiano, che nella battaglia dell'Assietta (1747) fu il solo a disobbedire all'ordine di ripiegare sulla seconda linea. Il gesto del Conte e dei pochi fedeli granatieri da lui comandati determinò l'esito favorevole di tutta la battaglia contro l'esercito franco-ispanico. L'episodio ha ispirato anche un altro detto tipico riferito alla popolazione piemontese, quello di bogia nen!

mak pi 100

Non tutti sanno che nelle accademie militari italiane il culmine delle feste è rappresenta­to dal «MAK P 100», festa che segna gli ultimi cento giorni di permanenza nella Scuola. e che deriva dal piemontese mak= soltanto; pi= più; cent= 100

 

fonti:

https://rivistasavej.it/letimologia-dimenticata-c67d234dfa8

 

I “false friends” della lingua piemontese: ovvero parole piemontesi che somigliano a parole italiane di cui NON hanno il significato.

 

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Il piemontese è una vera e propria lingua, differente da quella italiana. A ricordarcelo sono i false friends, di cui riportiamo qualche esempio:

 

in italiano

significa

in piemontese

significa

pera

il frutto del pero

pera

pietra

brusco

improvviso

brusch

acido

magna

mangia

magna

zia

barba

peli del viso

barba

anche “zio”

baby

bambino (all'inglese)

babi

rospo

sette

numero

set-te

siediti

bona

romanesco per "buona"

bòna

multa

roca

rauca, voce non pulita

ròca

roccia

nata

da "nascere"

nata

tappo

rapa

un ortaggio

rapa

grappolo

mare

dove vanno i fiumi

mare

madre

stop

“fermo” in inglese

stop

tappato, turato, ostruito

masnada

branco di facinorosi

masnà

bambino

biro

penna a sfera

biro

tacchino

 

Boja Faus, E bon, Cerea…: le espressioni che si sentivano per le vie di Torino

 

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boja fauss

Questa è una tipica imprecazione piemontese che indica stupore e/o rabbia e che significa generalmente “porca miseria”. L’espressione è nata al tempo delle esecuzioni capitali quando i torinesi, non apprezzando il fatto che il Boia guadagnasse soldi uccidendo altri uomini, gli diedero il nomignolo di Fauss. Questa parola in piemontese ha diversi significati tra cui “falso” (il più facile) e “maiale” quello che veniva usato per il boia.

com'è?

Variante italianizzata di coma a và-lo? “come va?” a cui il piemontese pessimista potrebbe rispondere: la va coma na barca ant un bòsch va come una barca in un bosco, ovvero non andare granché bene) ovvero con l’ancora più spassoso: La va ben cme na barca n'tin puss (va bene come una barca in un pozzo).

e bon

E niente, finiamo con “e bon” che vuol dire proprio “e niente” e che i torinesi usano alla fine per concludere un pensiero. Le possibili varianti sono “e bo” ed “e bom”.

conté dla rava e dla fava

“raccontare della rapa e della fava”, ovvero chiacchierare del più e del meno, fare chiacchiere senza venire al dunque)

Pare abbia a che fare con una ricetta di minestrone contadino dove si metteva di tutto". Altri pensano che all'origine l'espressione era un richiamo tipico dei fruttivendoli ambulanti di una volta, che insieme a frutta, verdura, vendevano anche «rape e fave»

anciuè

Era il grido dell’acciugaio, che arrivava col suo carrettino dai colori sgargianti per vendere alle madamine le acciughe sotto sale. Non di rado gli acciugai praticavano il contrabbando del sale dalla Liguria, nascosto nel doppio fondo dei loro barili.

fé una figura da cicôlatè

“Fare una figura da cioccolataio”, cioè una figuraccia

cerea

Tipico saluto piemontese di commiato. Cerea è il corrispettivo piemontese dell’italiano “arrivederci”. Volete saperne di più? Allora date un’occhiata al nostro articolo “Cerea: storia e leggende della curiosa espressione piemontese“.

ciau neh

Forma diffusissima di commiato piemontese

oh, basta là

Il suo significato lo spiega il geniale Umberto Eco che, nel suo libro Il Pendolo di Foucault, scrisse:

“O basta là,” disse Belbo. Solo un piemontese può capire l’animo con cui si pronuncia questa espressione di educata stupefazione. Nessuno dei suoi equivalenti in altra lingua o dialetto (non mi dica, dis donc, are you kidding?) può rendere il sovrano senso di disinteresse, il fatalismo con cui essa riconferma l’indefettibile persuasione che gli altri siano, e irrimediabilmente, figli di una divinità maldestra

alloggio

A Torino non si cerca, compra, abita in un appartamento, ma in un “alloggio”

hai voglia di…?

È la tipica espressione dei torinesi per chiedere un favore a qualcuno. “Hai voglia di andare a comprare il pane?”; “Hai voglia di aprire la porta?” In alcune circostanze, soprattutto per le richieste più scoccianti, si può aggiungere il rafforzativo “mica”: Hai mica voglia di lavare i piatti?

solo più…

Eh sì, il “solo più” è tipicamente torinese e non è né corretto in italiano, né tanto meno usato in altre regioni della penisola. “C’è solo più una bottiglia di vino…” Pizzicati, siete torinesi!

va bin

Questa espressione è abbastanza riconoscibile anche oltre i confini piemontesi e significa ovviamente “va bene”.

Fare che… + verbo

“Facciamo che andare…” una perifrasi un po’ lunga che a Torino significa semplicemente “andiamo”. È il barocco torinese che regna, a volte, anche nella lingua.

Piciu

“Ma sei proprio un piciu” è una frase che si può sentire spesso all’ombra della Mole. Si tratta del corrispettivo padano di “pirla”… non molto gentile, ma molto caratteristico.

Non mi oso

Un’altra espressione linguisticamente non corretta che i torinesi ed i piemontesi usano spesso è “non mi oso”. Il verbo osare non è difatti riflessivo in italiano quindi la frase corretta è “Non oso”. Ma per ribadire bene il concetto un vero torinese “non si osa”, no no!

Fare cena / Fare pranzo

A Torino non si cena si “fa cena” e non si pranza, ma si “fa pranzo”. Un’altra espressione un po’ abbondante tipica dei torinesi.

Già

Sempre per rimarcare il barocco anche nella lingua, il torinese inserisce un “già” spesso alla fine delle frasi. “Dove era l’appuntamento già?”, “Com’era il titolo di quella canzone già?” e così via.

Mandare a stendere

Se qualcuno a Torino vi manda a stendere, non parla certo di bucato. L’espressione vuol dire “mandare a quel paese”. Meglio saperlo!

Cicles

Semplicemente la gomma da masticare che a Torino tutti chiamano cicles.

Preso bene/Preso male

Gli stati d’animo di un torinese si possono riassumere in “preso bene/preso male”. “Preso bene” si usa quando ci si diverte, si sta bene, si ride e si è felici. Al contrario, “preso male” indica cattivo umore, tendenza a vedere tutto nero e a non amare particolarmente il proprio stato d’animo del momento. Speriamo che siate “presi bene” nel leggere la nostra lista!

Fatti furbo/a

Questa espressione può avere due significati: “svegliati/datti una svegliata” oppure “non dire cavolate”.

Neh

Una piccola particella, usata alla fine di una frase, che si usa in domande orientate. Possiamo dire che in italiano corrisponde al “vero” alla fine della frase che indica che l’affermazione precedente è data per sicura da chi parla. “Conoscevi già questo intercalare? Allora sei di Torino, neh”.

Baròt

Il “baròt” in piemontese è il bastone. Gli abitanti della città, negli anni passati, hanno usato poi questo

Fagnan

Una persona che non ha voglia di fare niente è un “fagnan”, ovvero uno scansafatiche.termine per definire le persone che venivano dalla campagna, i cosiddetti “villani” o “campagnoli”.

Napuoli

Espressione per indicare gli immigrati

Portogallo

Idem come sopra (il portogallo è un tipo di arancia)

Göba

E’ il nome familiarmente dato alla Juventus

Cerüti

Era il modo curioso in cui i Torinesi indicavano il Duce, Benito Mussolini

Suma mal ciapà!

“Siamo messi male!”

merenda sinoira

Pasto dei contadini durante le lunghe giornate di lavoro estive o nel periodo della vendemmia, quando fra le 17 e le 18 avevano bisogno di rifocillarsi per poter continuare a lavorare fino al calar del sole. Solitamente i cibi che si portavano erano dettati dalla praticità di poter essere mangiati in modo veloce senza bisogno di sedersi a tavola. Gli alimenti più frequenti erano: pane, salame, formaggio, frittate e la soma d’aj, il tutto accompagnato da un vino di produzione propria. Ad esempio nel pinerolese si usava bere il picheta.

crota

Da “grotta”: è il termine piemontese per la cantina

 

Paragoni stravaganti, metafore curiose e definizioni spassose della lingua piemontese

 

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E’ rimasta famosa l’esclamazione di Pietro Micca che disse ad un giovane lasciar fare a lui perché era “lungo come un giorno senza cibo”, ma la lingua piemontese è insolitamente ricca di paragoni stravaganti e metafore curiose:

 

bòrgno com un pom (cieco come una mela)

brut coma la neuit (brutto come la notte)

busiard com un gavadent (bugiardo come un cavadenti)

fòl coma na mica (fesso come una pagnotta)

fortunà coma ij can an cesa (fortunato come i cani in chiesa)

giovo coma n'aj (giovane come un aglio, giovanissimo)

grand coma la fam (grande come la fame: cresciuto a sufficienza)

màire coma l'argheuj (magro come l'orgoglio)

noios coma na pieuva (noioso come una pioggia)

plà com un gënoi (pelato come un ginocchio: senza un capello in testa)

ël color dj'aso cit (il colore degli asini piccoli: colore indefinibile, insipido).

bianch coma la coa d'un merlo (bianco come la coda di un merlo. Indica una cosa evidentemente nera, o comunque, tutto meno che bianca. Fa parte dei paragoni di uso corrente, ma con tono ironico. L'aggettivo è paragonato al suo inverso.

grassios com na ronza (grazioso come un rovo)

a-i son le pùles ch'a l'han la toss (ci sono le pulci che hanno la tosse: a proposito di piccole cose a cui si dà importanza esagerata)

avèj la blëssa 'd l'aso (avere la bellezza dell’asino: quando si è giovani bene o male si è tutti belli)

pisté l'aqua ant ël morté (pestare l'acqua nel mortaio, ovvero fare una cosa inutile, fare un buco nell'acqua)

cand ij giari a l'avìo ij sòco (quando i topi avevano gli zoccoli., ovvero un tempo molto lontano, nelle leggende del passato).

a Turin a l'han rangià fin-a cola dël bur (a Torino hanno risolto persino quella del burro., ovvero tutto si aggiusta. Segue da un aneddoto raccontato come vero, da un episodio clamoroso di mancanza di burro a Torino (storicamente il burro, in Piemonte, è sempre stato condimento e mezzo per cucinare essenziale, al posto dell'olio).

nen savèj quanti pé a intro ant n' ëstival (non sapere quanti piedi entrano in uno stivale., ovvero essere decisamente ignorante, essere poco sveglio).

buté 'n papin s'na gamba 'd bòsch (mettere un impacco su una gamba di legno., ovvero fare una cosa inutile. oppure usare un rimedio assolutamente insufficiente al bisogno).

pende la saraca ovvero dé 'd patele ant la saraca (appendere l'acciuga o dare botte all’acciuga, cioè fare economia fino all'osso. Nelle famiglie povere, per non mangiare solo pane, si appendeva al soffitto con un filo una acciuga e gli si batteva contro con un pezzo di pane, che prende qualche microscopico frammento. Finché questa durava non se ne mette un'altra).

plé na pules për vend-ne la pél (pelare una pulce per venderne la pelle., ovvero approfittare di ogni inezia per averne un vantaggio, essere "pidocchioso" all'inverosimile)

fé set pass an 's na pianela (fare sette passi per ogni mattonella, ovvero procedere con lentezza esasperante, non sbrigarsi a fare qualcosa.. Ha un senso di disapprovazione, sottolinea una lentezza esagerata).

esse nen bon a trové d'aqua an Pò (non essere capaci a trovare acqua in Po)

fésse brusé j'euj con le siole dj'àotri (farsi bruciare gli occhi con le cipolle degli altri., ovvero prendersi impicci non dovuti, andarci di mezzo in grane altrui)

avèj trovà la smens dij gratacuj (aver trovato i semi della rosa canina, gratta-culo in piemontese, resa in italiano con aver scoperto l'acqua calda)

avèj batù (la testa) (da cit) an s'na pera bleuva (aver battuto (la testa) (da piccolo) su una pietra blu, ovvero essere fuori di testa, essere scemo)

capon che a veul canté da gal (cappone che vuole cantare da gallo, ovvero presuntuoso)

arsèive un servissial (ricevere un clistere., ovvero essere ingannato)

avej tranta dolor e na sfita (avere trenta dolori e una fitta., ovvero essere pieno di malanni. Detto in tono canzonatorio di chi si lamenta sempre per i suoi acciacchi)

tiré dë sfris (tirare di sfregio, ovvero satireggiare)

la va ben cme na barca n'tin puss (va bene come una barca in un pozzo, cioè va male)

ai temp dël mila doi e més (ai tempi del mille due e mezzo, ovvero tanto tempo fa, roba passata)

fé una figura da cicôlatè (fare una figura da cioccolataio, fare una figuraccia)

Ciampòrgna Ciampòrgna in piemontese è la “zampogna”, ma detto di una persona vuol dire “pettegola” nel migliore dei

casi, “donna di facili costumi” nel peggiore.

Ciaparat In piemontese “ciapa” è un verbo e significa “acchiappare” e “rat” invece vuol dire “topo”. Letteralmente

l’espressione significa “acchiappa-topi”, mentre il significato vero è quello di “fanfarone”, “incapace”.

 

I piemontesi hanno delle espressioni peculiari anche per mandare qualcuno a quel paese (che a Torino ha un corrispettivo divertente: “mandare a stendere”) o lanciare un avvertimento o un insulto:

vate a caté 'n casul (vai a comperarti un mestolo)

l'armanach a marca patele (il calendario indica botte., ovvero ... se continui così te le prendi).

cutu da Cottolengo, per dare dello stupido

facia 'd tola che non necessita traduzione…

piciu “testa di…” (la parola indica il sesso maschile)

fatti furbo “svegliati” oppure “non dire cavolate”

 

Piemonteis bougia nen: il carattere dei piemontesi attraverso proverbi ed espressioni

 

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piemonteis bougia nen

Questa espressione, che è passata ad indicare il conservatorismo dei piemontesi, in realtà pare sia legata ad un episodio della storia sabauda, e cioè alla Battaglia dell’Assietta e al Conte Novarina di San Sebastiano.

Dal 1741 al 1748 l'Europa fu coinvolta nella guerra di successione austriaca, in seguito al rifiuto di alcune potenze di accettare che Maria Teresa d'Austria, come Grande Elettrice, potesse votare per il proprio marito Francesco I di Lorena, nell'elezione del Sacro Romano Imperatore Germanico.

Carlo Emanuele III si schierò con Maria Teresa e contro la Spagna a cui si aggiunse poco dopo la Francia. Nel 1747 l'esercito francese tentò anora una volta di penetrare in Piemonte, ma i Piemontesi ottennero una schiacciante vittoria nella battaglia dell'Assietta.

Durante la battaglia il conte Novarina di San Sebastiano, che era agli ordini del comandante Giovanni Battista Cacherano di Bricherasio, non obbedì ad un ordine scritto, che era quello di ritirarsi. Valutò un debole attacco francese come un grande assalto francese alla butta dei granatieri, si fece fissare sulle sue posizioni e innescò una grave crisi tattica nello schieramento austro-sardo. Fortunatamente i reggimenti svizzeri al Gran Serin tennero le loro posizioni e di fatto vinsero la battaglia.

Nella seconda metà dell’Ottocento sulla scia della vena celebrativa dell’evento fu inventata la frase eroica che avrebbe detto ai suoi soldati, invitandoli a rimanere al proprio posto: "fiöj, bugé nen”

esagerouma nen

“Non esageriamo!” Anche questa esclamazione è in carattere con la avversione alla ostentazione dei Torinesi, che va di passo col bougia nen.

 

Il numero di espressioni dedicate ad un particolare tipo umano fa capire il carattere dei piemontesi. Ai piemontesi – che a torto o a ragione si ritengono gente sveglia - non piace la gente stupida, e hanno una impressionante serie di denominazioni al riguardo: Gadan, Tupin, Fòl, Fulatun, Fulatrun, Ancütì o espressioni come esse nen bon a trové d'aqua an Pò (non essere capaci a trovare acqua in Po).

La ricchezza di espressioni per designare chi capisce poco fa anche capire che ai Piemontesi piace sfottere bonariamente.

 

I Piemontesi sono gente operosa che odia i poltroni, i Frusta-cadreghe, come li chiama, o anche fagnan, come non sopportano quelli che si lamentano troppo o barbotun

 

ant la guardaròba dij can, “nell'armadio dei cani”, ovvero abbandonato per terra) Torino è una città pulita e ordinata e i Torinesi scuotono la testa con disapprovazione quando vedono immondizia gettata per terra.

 

Come parlavano i Torinesi al tempo di Emanuele Filiberto?

 

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Ecco, dal diario di viaggio di Mchel de Montaigne, che passò per Torino al ritorno dal suo viaggio in italia, la descrizione di Torino e della lingua che vi si parlava:

 

Turin, dix milles, où nous aurions pu facilement être rendus avant le dîner. C’est une petite ville, située en un lieu fort aquatique, qui n’est pas trop bien bâtie, ni fort agréable, quoiqu’elle soit traversée par un ruisseau qui en emporte les immondices. Je donnai à Turin cinq écus et demi par cheval, pour le service de six journées jusqu’à Lyon : leur dépense sur le compte des maîtres. On parle ici communément françois et tous les gens du pays paroissent fort affectionnés pour la France. La langue vulgaire n’a presque de la langue italienne que la prononciation, et n’est au fond composée que de nos propres mots.

 

[“Qui si parla normalmente il francese e tutta la gente della zona sembra molto affezionati alla Francia. La lingua volgare non ha nulla della lingua italiana eccetto la pronuncia, e in sostanza è composta delle nostre parole”]

 

Fare la figura del cioccolataio: un indovinello al quale hanno cercato di rispondere in molti

 

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L’origine di questa espressione, che non è riferita univocamente dagli esperti di lingua piemontese, ci viene detto – e probabilmente è quella giusta – da Luigi Pietracqua in uno dei suoi libri: si racconta che quando un monarca sabaudo vide un cioccolatiere arricchito transitare per Piazza Castello con un tiro di 6 cavalli fece subito rientrare la sua carrozza e attaccare il tiro da 8: “non sia mai che faccia la figura del cioccolataio”.

Il celtico nella toponomastica e nelle parole piemontesi: Torino, doira e Superga

 

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doira

Le doire incrociavano tutta la campagna intorno a Torino Il nome deriva dal latino Duria minor, contrapposto alla Duria Maior (l'attuale Dora Baltea). In piemontese dòira indica qualsiasi corso d'acqua, con le varianti doiron e doirëtta, alla base di molti idronimi e toponimi storici.

L'idronimo dora risale alla radice preindoeuropea *dura/duria, diffusa in Europa (cfr. Duero e Dour), e particolarmente in area celtica, ma la derivazione dal celtico è messa in discussione[6]. Dora si ritrova anche in alcuni appellativi come il ligure doria, che significa ‘corso d'acqua’.

superga

Nell’Ottocento fu proposto per etimo di Soperga una specie di acrostico: super terga montium, sul dosso de’monti.

Cesare Balbo cominciò ad intravederci un’origine teutonica e propose il zum Berg, al monte.

Alcuni assonantisti credono trovarla nel chaux - berg, pronunziato so-berg a cagione di certe cave di calce, che si trovano ne’fianchi di quella montagna.

Ma la più razionale finora è la etimologia proposta dal Promis, il quale in carta dell’A. 1034 trovò come il monte, su cui nel 18m0 secolo fu poi innalzato il monumento a ricordo della fiaccata prepotenza francese; quel monte si chiamava Mons Iovis, monte di Giove, come difatti tutte le vette cospicue nel mondo romano venivano a quel Dio consecrate. Poi negli ordinati comunali nostri dell’A. 1389 trovò lo stesso monte denominarsi Sarobergia ed in esso una località chiamata Sarra (dove tuttora scorre il torrente Barra), e l’illustre storico della Torino antica pensò che il vocabolo Sarobergìa potesse significare teutonicamente Sarra-berg, cioè il monte di Sarra.

Però, Sar è parola prettamente celtica che vuol dire eccelso, eminente (Ob. Müller), berg è il perg teutonico, elemento di monte.

Parrebbe quindi più corretto dire che i Celti, secondo il loro costante costume, avessero già designata la vetta di Soperga, coll’ aggettivo saro che la qualificava come vetta eminente, e che in seguito i Teutoni vi abbiano aggiunto il loro suffisso Berg, come porta il carattere del loro linguaggio, e che perciò il vocabolo Saro - berg, latinizzato dall’Archivista comunale in Sarobergìa, significherebbe il monte eccelso.

La o finale di saro segna il genere neutro; la r celtica vien tenuta come vocale nell’alfabeto sanscrito, e, come si suol dire, masticata (in fr. grasseyée), quindi il saro fu pronunciato dapprima scio, poi so colla o larga e coll’accento circonflesso; ma i Piemontesi pronunziano la o sempre colla ou provenzale, e così ne risultò che il primitivo Sarobergìa del Promis, divenne prima Saóbergici, poi Soberqia, poi So-perga e finalmente Superga.

torino (taurinensis)

Discussa e assai complessa l’assunzione del toro, animale indomito, a simbolo della città, presente già in lontane monete. Si è a lungo dissertato se la città abbia preso il proprio nome per amore del toro, oppure se il nome abbia poi ispirato il simbolo. Il Viriglio affermò che nell’idioma dei Celti la radicale thor stava per altura, monte. Montanari erano i Taurasii o Taurisci e quando giunsero i Romani non fu difficile dare alla città il nome di Augusta Taurinorum, che sarebbe quindi la “città dei montanari”.

 

 

 

 

 

INCENDI, TORNADI, BOMBARDAMENTI, ESPLOSIONI, INONDAZIONI, EPIDEMIE E ALTRO ANCORA: PICCOLA GUIDA AI DISASTRI PIÙ FAMOSI DI TORINO

 

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La peste del 1598

 

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Alla fine del XVI secolo Torino fu colpita da un’epidemia di peste proveniente dalla Savoia, al di là delle Alpi. In quanto capitale del Ducato sabaudo, la città era sede di vivaci attività artigianali e commerciali, vi risiedevano la Corte e il centro amministrativo dello Stato: notevole l’afflusso di persone e di beni da paesi vicini e lontani, per i motivi più svariati.

Casi di peste in Savoia erano stati rilevati nei primi mesi del 1598 e intere città erano state comprese in elenchi che le qualificavano come sospette o, addirittura, infette. Per questi luoghi passavano importanti vie di comunicazione fra la Pianura Padana e i centri commerciali svizzeri e francesi e, in più, esisteva un flusso interno allo Stato di persone e di beni. Come se non bastasse il Duca Carlo Emanuele I era di frequente in Savoia per le vicende belliche in corso, che imponevano contatti continui con Torino.

Blocchi alle frontiere.

Alla notizia della peste il Magistrato Generale sopra la Sanità si attivò per porre in essere quelle che erano ritenute le misure necessarie per interrompere la diffusione del contagio sul territorio. Nell’aprile 1598 bandì i paesi accertatamente infetti della Savoia dai rapporti commerciali, decretò il divieto per le comunità al di qua dei monti di ricevere persone e cose provenienti dalla Savoia e mise guardie armate ai valichi alpini. Queste avevano l’incarico di impedire l’ingresso di coloro che arrivavano da luoghi infetti o sospetti e, per gli altri, di verificare che fossero in possesso di certificati di buona salute emessi dalle autorità competenti. Tutte le persone non munite di questo certificato dovevano fare una quarantena di 20 giorni in locali che erano stati appositamente attrezzati presso i valichi.

L’inizio della malattia

Nel successivo mese di maggio fu firmata la pace e i soldati impegnati in Savoia si trovarono nella necessità di rientrare nei luoghi di origine. Furono tutti accompagnati a casa sotto scorta dopo essere stati sottoposti a quarantene ai valichi, all’esterno di Torino o nelle vicinanze del loro paese. I risultati di queste misure preventive furono inefficaci e i primi casi di peste comparvero poco dopo lungo la strada che portava a Torino e poi dentro la città.

All’inizio di settembre ci furono i primi casi di peste in Torino e il giorno 13 la città fu sospesa dal Magistrato Generale sopra la Sanità e bandita dal resto dello Stato. L’andamento del contagio fu altalenante e vide due fasi: una prima più leggera nel 1598 con una mortalità contenuta e provvedimenti sanitari ordinari; la seconda nel 1599 che richiese, invece, interventi eccezionali.

La Corte sabauda si trasferì fuori Torino, così come si allontanarono gli addetti alla diplomazia, il Nunzio apostolico, il Senato, il Consiglio di Stato; i Principi furono ospitati nel castello di Fossano. A Carlo Emanuele I di ritorno dalla Savoia fu consigliato di non entrare nella citta e, in un primo tempo così fece, poi si stabilì nel castello di Miraflores.

Il lazzaretto

Il Consiglio Comunale di Torino deliberò il ricovero coatto degli infetti nel lazzaretto fuori le mura al quale aggiunse la costruzione di casette di legno, la quarantena prolungata a 22 giorni dei sospetti, la distruzione con il fuoco dei loro abiti e degli altri effetti personali, l’assunzione di nuovi medici e monatti, il divieto delle funzioni religiose e di ogni altra manifestazione al chiuso e all’aperto, dei contatti con ammalati e la chiusura delle porte di accesso alla città.

Di fronte alla peste non erano sufficienti i soli ricoveri per le persone, perché quando i monatti trasferivano un ammalato nel lazzaretto dovevano prelevare gli oggetti contenuti nella casa, in quanto si ritenevano possibili fonti di contagio e dividerli a seconda della possibilità o meno di recupero. Tutto veniva bruciato, bollito o disinfettato e il recuperabile, come denaro e preziosi, conservato in locali appositi per poter essere restituito, a epidemia cessata, ai legittimi proprietari o ai loro eredi dopo aver trattenuta una quota a titolo di imposta sulle eredità.

Molte attività produttive cessarono così come i commerci; le persone ricoverate dovevano essere vestite, nutrite e curate, i morti seppelliti, i medici, gli speziali, i becchini, i chirurghi barbieri, le guardie alle porte e nelle strade, coloro che preparavano le razioni alimentari da distribuire, i monatti dovevano essere pagati in denaro e in natura e costavano parecchio. Le razioni alimentari quotidiane per i monatti erano state stabilite in ben: «pane rationi una e meza che son michoni tre, vino pinte doe il giorno, carne livre doe il giorno, ovi nelli giorni di vigilia numero quatro per caduno, butiro onze quatro per caduno il giorno, formagio onze 4».

l’errore di abbassare la guardia

Un paio di mesi dopo, molti dei ricoverati nel lazzaretto risultarono sani, il numero dei morti quotidiani iniziò a diminuire e venne smantellato in parte l’apparato predisposto, anche, perché la crisi economica iniziava a farsi grave, le provviste scarseggiavano, le entrate fiscali erano quasi nulle e la spesa pubblica era divenuta insostenibile.

La decisione di ridurre le cautele fu pessima e incauta. La peste ricomparve più virulenta di prima. I documenti coevi scrivono che si arrivò a 150 morti al giorno nel luglio 1599, tra i quali alcuni Consiglieri comunali e molti addetti alla sanità, in una città che, prima dell’epidemia, aveva poco più di 20.000 abitanti e molti erano fuggiti in luoghi ritenuti sani.

Carlo Emanuele I emanò, allora, l’ordine di procedere con misure straordinarie ed eccezionali. Di altro simile non si trova traccia nelle pubblicazioni degli storici che hanno studiato le pestilenze.

Si impose una maggiore necessità di distinzione fra individui, medici, cirogici, monatti «netti» cioè coloro che non avevano avuto contatti con gli appestati e che, ormai, erano rimasti solo in poche unità, e i «brutti o sospetti», sempre più numerosi da sistemare in locali appositi fuori dalle mura e separati dagli altri. Gli addetti alla sanità pagarono un caro prezzo per questa pestilenza.

La città venne svuotata e le 500 persone ancora all’interno di Torino furono spostate in abitazioni di fortuna nel territorio circostante divisi fra sani, ammalati e sospetti. Altri 100 monatti provenienti dalla Savoia o dai paesi lungo la strada verso Torino ove la peste era stata debellata e, quindi, «vaccinati» vennero assunti e furono reclutati anche nuovi medici e becchini.

La purificazione

Proprio i monatti furono incaricati della gigantesca operazione di purificazione di Torino. Le strade e gli edifici della città ormai vuota vennero lavati, profumati, disinfettati e i muri esterni e interni coperti di calce viva considerata un disinfettante efficace, risparmiando solo alcuni palazzi della nobiltà e della Corte che ebbero un trattamento sanitario diverso.

A questo punto, per garantirsi che la città fosse veramente libera dalla peste, si fecero intervenire «le prove», una particolare e singolare categoria di addetti alla sanità, perlopiù monatti o volontari. Già in precedenza, quando in una casa si verificava un caso di peste, si provvedeva alla sua disinfezione cioè la si svuotava, lavava, profumava e imbiancava con calce viva. Ma dopo tutto questo chi garantiva che fosse veramente un luogo sicuro e non più infetto? Ed ecco le «prove».

La «prova» era una persona del tutto sana, che aveva già fatto una quarantena e che si impegnava a stare chiusa nella casa per i 22 giorni considerati quelli dell’incubazione della malattia. Una piccola fessura per passare cibo e acqua. Nel corso del 1599 il numero delle «prove» raggiunse un tale livello numerico da richiedere la presenza di controllori e assistenti. Anche Palazzo di Città ebbe le sue «prove», ben due.

La crisi economica

La crisi economica che accompagna sempre le epidemie mosse il Consiglio Comunale a occuparsi, già dal settembre 1598, in modo più intenso del solito dei suoi poveri: i «poveri mendicanti» che, non solo non avrebbero più trovato elemosine, ma che dovevano essere provvisti di un maggior numero di ricoveri in quanto possibili diffusori del contagio; e i «poveri vergognosi», cioè coloro che, pur essendo in difficoltà, non andavano per le strade a mendicare, disponevano perlopiù dell’uso di una abitazione e vivevano di carità. Erano quelli che oggi chiameremmo «nuovi poveri». Per questi l’amministrazione comunale dovette accrescere il contributo pubblico venendo a mancare quello privato. La situazione contingente aveva aggiunto gli «sprovvisti» che non erano poveri di base, ma che in quel momento non erano in grado di approvvigionarsi perché rinchiusi nelle loro abitazioni.

Nei primi mesi del ‘600 la peste a Torino non c’era più e il problema che i torinesi dovettero affrontare fu quello della ripresa economica.

 

fonti:

https://torinostoria.com/la-guerra-di-torino-contro-la-peste-del-1598/

 

La peste del 1630

 

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Sulla Peste del 1630 a Torino sappiamo che morirono dalle 8000 alle 11000 persone in base al campione che decidiamo di analizzare, ma sappiamo poco su cosa avvenne in quel fatidico anno.

Le cronache ricordano l’anno 1630 come uno dei più pestiferi. Il cronista frate Giovanni Giovenale Gerbaldo da

Fossano, testimone e attore uscito per miracolo dal contagio, così ricorda:

“Pareva che fossimo all’ultimo sterminio, quasi si perdeva la speranza di campare da questa generale distruzione

e generale distruzione la chiamo perché si dice che si semina poco o niente. Le terre sono talmente spopolate che

nelle più buone di esse non si trovano abitanti. La campagna che altre volte era un paradiso florido e abbondante di

qualsivoglia frutto, ora pare un deserto… le cascine sono tutte senza massari.. non cantano più i galli né fanno uova

le galline”(2).

Un altro frate, Francesco Voersio da Cherasco che più d’ogni altro visse il contagio assistendo gli appestati,

soggiunge:

“O posteri, se sentiste i pianti e le grida di quest’anno 1630, vi creperebbe il cuore”.

La peste del 1630 infierì in quasi tutta l’Europa: la Valle d’Aosta contò settantamila morti affossati nelle isole

della Dora e nei campi a “vacolle”.

Conosciamo i nomi di chi è restato in città a gestire l’ emergenza come Bellezia e Fiochetto, sappiamo che le famiglie nobili e aristocratiche scappavano a molti kilometri di distanza e sappiamo che la povera gente moriva come moriva chiunque, all’improvviso . . . il corpo ricoperto di tacchi, bubboni e . . . . .

Il cardinale Maurizio di Savoia non era indifferente alle condizione di quelli che lui chiamava ‘povera gente’ e, quando le autorità decisero di espellere dalla città mendicanti, poveracci e i più miseri dei miseri, non esito a stampare moneta per dare qualche soldo che alleviasse gli ultimi giorni di vita dei forestieri. I Torinesi, invece, potevano contare sull’ aiuto del municipio.

Che c’era qualcosa che non andava lo si era capito il 5 gennaio del 1629 quando, durante la seduta municipale, il ‘medico chirurgo civico’ informava il consiglio che all’ospedale dei poveri erano presenti molti ammalati con evidenti segni sul corpo della peste: tacchi e bubboni.

Chi erano?

Poveri che in città trovavano sempre un torinese disposto ad alleviare le loro sofferenze, erano forestieri arrivati in città per scappare dalle truppe mercenarie tedesche. Questi soldati oltre a combattere al soldo del duca sabaudo razziavano tutto ció che trovavano sul loro cammino e, probabilmente, contribuirono a portare la peste dai territori milanesi. Ma non solo . . .

A Susa premevano i francesi, che al pari dei loro nemici di battaglia, non erano troppo gentili con i valsusini. Gli abitanti della valle furono così costretti a spostarsi verso la città portando con loro il morbo che, arrivato forse dalla Francia, si dirigeva verso Torino; l’ anno precedente si era concluso con i frati torinesi che si dirigevano in Val di Susa per aiutare, appunto, i malati di peste.

Capita la gravità della situazione, il comune decide di spostare i malati al San Lazzaro e inizia la distribuzione di 1000 pasti al giorno per i più poveri nella speranza di contenere il morbo e alleviare le sofferenze della ‘povera gente’.

L’ autunno inizia con la notizia di due forestieri morti con tacchi nel corpo ad Orbassano e di focolai di peste a Brianson, Chiomonte e San Michele.

L’ opinione diffusa che la peste arrivasse dalla Francia e i consigli del protomedico Fiochetto suggeriscono al consiglio comunale, presieduto da Bellezia, di adottare provvedimenti urgenti: dal mese di novembre è impossibile entrare in Torino senza una bolletta di sanità che indichi caratteristiche fisiche della persona e l’ indicazione di essere sano nel paese di provenienza; non può entrare in città la merce proveniente da Susa, i privati non possono ricevere visite e le sepolture devono avvenire fuori città.

arriva la peste

Il 1630 inizia con ‘Guglielmo Calzolaio abitante presso il Guanto Rosso’ identificato dal Fiochetto come ‘Franceschino Lupo’: è il primo caso di peste certificato a Torino*.

Ad aprile la situazione precipita: il miglioramento delle condizioni climatiche favorisce la diffusione del morbo. Il 17, dello stesso mese, il Magistrato di Sanità, preoccupato della velocità con cui si diffonde la malattia, decide di espellere tutti i mendicanti dotando loro di 200 fiorini; anche il cardinale Maurizio di Savoia si interessa del problema ordinando il conio di nuova moneta non disponibile in città.

All’ interno delle mura rimangono solo i torinesi che, arrivata la stagione calda, cominciano a morire in centinaia ogni giorno. Il panico si diffonde trovando terreno fertile nell’ ignoranza, qualcuno da bruciare con l ‘ accusa di unzione lo si trova sempre e tale pratica facilità il mantenimento dell’ ordine pubblico. I roghi pubblici diventano anche un modo liberarsi dei corpi che cominciano ad accumularsi ai bordi delle strade: é ben documentato il caso di Francesco Giugulier che viene bruciato in piazza castello sopra una catasta fatta dai cadaveri sparsi nella piazza, avvenimento che causo anche le protesta da parte del popolo ma . . . cosa doveva o poteva fare il sindaco Bellezia?

Mentre i duchi e la nobiltà cittadina scappavano dalla città, lui continuava a combattere contro la peste e in particolar modo contro l’ ignoranza e la cattiveria umana che nelle situazioni difficili esplode in tutta la sua crudeltà. Furti, omicidi, sostituzione di identità, adulterio, paura, vigliaccheria si impadroniscono della città e costringono il sindaco a emanare giornalmente una nuova disposizione per mantenere l’ ordine.

Nonostante il forte impegno di Bellezia, del protomedico Fiochettto e dei pochi uomini municipali rimasti in città il morbo decima la popolazione torinese. In un anno la popolazione passa da 11000 a 3000 anime e quando il morbo comincia ad essere sotto controllo oramai e troppo tardi.

Non esistono più attività commerciali e laboratori artigianali, i frati e gli uomini di chiesa sono tutti morti colpiti anche loro dal morbo durante la loro opera di aiuto alla città e i lazzaretti sono diventati cimiteri a cielo aperto.

Ai pochi cittadini rimasti vivi spetta il compito di risollevare le sorti della città diventandone padroni per poco tempo. Finita l’ emergenza, la nobiltà torna in città ripristinando la solita vita, i saltimbanchi tornano ad animare le piazzette cittadine, le porte della città vengono riaperte ricominciando ad attrarre i mendicanti che trovano nei torinesi la generosità che distingueva la ‘povera gente’ delle piccole strade di una Torino che non esiste più.

* Esistono varie interpretazioni sul primo caso di peste a Torino. La peste girovagava nei territori sabaudi già dal 1629, arrivando molto vicina alle mura della città. Sappiamo che nel 1629 alcune persone erano state condotte a morire di peste nei lazzareti e sappiamo che un probabile caso era stato registrato in via Dora Grossa. Si riportano varie date e le più attendibili ci sembrano quelle riportate da Vincenzo Claretta che possiamo riassumere in questo modo: 6 gennaio il medico Zurlino informa il municipio di un calzolaio sospetto di avere il morbo, il 12 gennaio Bellezia invia Fiochetto a verificare la presenza della malattia, il 14 gennaio il Sindaco informa la congrega che è stato registrato il primo caso del 1630 di peste a Torino.

L’ estate torinese del 1630 narrata dal Fiochetto racconta una Torino che mai potremmo immaginare e, forse a causa della vergogna, si evita di descrivere. Il problema non è tanto il fastidio di immaginare via Dora Grossa ricoperta di cadaveri in putrefazione ma il dover osservare come, nei momenti peggiori, anche l’ uomo tira fuori il peggio di se.

Si salvi chi può

Al duca il merito di essere stato tra gli ultimi a lasciare Torino quando oramai la situazione era prossima al peggio. Prima di lui la nobiltà aveva abbandonato la città portando via tutto quello che poteva e gli uomini del consiglio comunale, neanche il tempo di essere eletti, lasciavano la città. Per arginare la fuga dei Torinesi il duca fu costretto ad emanare un piccolo editto che minacciava la confisca dei beni a chi lasciava la città. La povera gente invece passava per la frusta anche se c’erano delle eccezioni: vista la gravità della situazione erano esonerate le donne e i bambini essendo le sofferenze della morbo già sufficienti come pena.

La selezione

Il numero di cadaveri ai bordi delle strade aumentava di giorno in giorno. I beccamorti, pagati dal comune, colsero subito l’ occasione per guadagnare qualche soldo in più raccogliendo solo i defunti che avevano i familiari ancora in vita e disposti a cedere qualche soldo per far portar via il loro caro.

Bellezia dovette intervenire minacciando pene severe ai beccamorti che prendevano soldi o sceglievano i cadaveri in base allo stato di decomposizione, che se in stato avanzato perdevano pezzi durante il carico sul carretto.

Troppi

Nei momento peggiori sembra che i cadaveri ammassati arrivassero al primo piano delle abitazioni, venivano gettati direttamente in strada dalle finestre finchè c’erano familiari in casa ma poi anche loro morivano. Per le strade non c’ erano abbastanza beccamorti e anche loro perivano, tanto che il duca decise di offrire due dei suoi schiavi di colore per la raccolta.

Quando la peste cominciò ad allentare la presa, pulite le strade si passo a sanitizzare le case che da mesi erano visitate da ladri e miserabili.

Sotto lo stesso tetto

É forse impossibile capire cosa succedeva in quei giorni ed è forse ancora più difficile accettare che la vita era molto diversa da oggi: tra la povera gente perdere un familiare voleva dire non poter più mangiare e perdere il marito voleva dire morire di fame. Nei mesi che precedettero il culmine della pestilenza, quando moriva l’ uomo di casa non passavano neanche 24 ore che un altro uomo si sostitutiva nel suo letto. Il limite si tocco quando la sostituzione avveniva in tempi troppi brevi e sospetti costringendo il sindaco a vietare l’ abitudine con le consuete frustate.

Le campagne

Nelle campagne si moriva per due motivi, o per la peste o per i mercenari sabaudi. In prevalenza tedeschi, questi soldati si spostavano di cascina in cascina uccidendo tutti gli abitanti e stazionando all’ interno finche non consumavano tutte le provviste. Spostandosi da una cascina all’ altra lasciavano dietro di se tanti di quei cadaveri che non fu possibile seppellirli essendo piú veloce e sicuro buttarli direttamente nel fiume Po. Come se ciò non bastasse, nei pressi di quella che oggi è Vanchiglia, un accampamento di soldati tedeschi costrinse il municipio a scendere ad accordi per far passare il grano che la città aspettava.

Le Paure del duca

Prima di darsi alla fuga, giustificata dagli impegni che il ruolo esigeva, il duca cerco di convincere il sindaco a far entrare in città i mercenari al soldo della corte. Conoscendo l’ odio dei cittadini nei loro confronti, Bellezia preferì provvedere al pagamento di 300 cittadini per difendere la città. La situazione era talmente grave che non era consigliabile avere in città soldati stranieri che si sentivano padroni di dire, fare e volere qualsiasi cosa. Il popolo li temeva e li odiava e Bellezia non poteva permettere il loro ingresso in città nonostante, una Torino indebolita, era facile preda dei francesi che avrebbero potuto entrare ed impadronirsene. In realtà i soldati francesi erano impegnati ad emulare i mercenari tedeschi nelle campagne all’ esterno di una Torino che cominciava ad avere piú cadaveri che vivi.

Numeri

11000 abitanti prima della peste meno 3000 abitanti alla fine della peste fa 8000 anime. Il conteggio si riferisce con tutta probabilità alle persone all’ interno delle mura Torinesi e nei lazzareti nelle immediate vicinanze. Il calcolo non tiene conto di tutte le persone morte, nelle campagne sabaude, per il morbo e per la spada dei tedeschi e dei francesi. Inoltre non considera le persone morte per la fame che circolava indisturbata, sempre nei territori sabaudi, prima, durante e dopo la peste.

 

fonti:

https://www.torinoxl.com/la-peste-narrata-del-fiocchetto/

 

Gli incendi a Torino

 

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Sulla vecchia Bastiglia dei Maletti, dove sorge ora la chiesa dei Cappuccini, c’era un tempo una guardia con il compito di segnalare per mezzo di lanterne e bandiere, a seconda che si fosse di notte oppure di giorno, ogni principio d’incendio.

Un suono di chiarina avvertiva il presidio della sottostante Rocca, al di là del Po, e scattava così l’allarme per coloro che, svelti di braccia, potessero accorrere con secchi e sabbia a domare le fiamme. «In tempi non remotissimi, poiché toccano il 1875 - scrive Viriglio - manifestandosi incendi, l’avviso veniva dato dalla stazione di guardia del Palazzo Civico, costituita da un solo pompiere, costretto ad abbandonare il posto per rintracciare il trombetta che girava poi da un quartiere all’altro a snidare i colleghi nelle officine e nel talamo fecondo».

Nonostante i tentativi per migliorare il servizio contro gli incendi, esso rivelava di anno in anno gravi lacune. Nel 1767 le pompe contro il fuoco dovevano essere insufficienti se il vicario, in un rapporto-progetto, aveva letto allarmato: «Sono presentemente in Torino cinque pompe. Quella degli Svizzeri, attesa la sproporzionata grandezza si riguarda come fuori uso e verrebbe rimpiazzata da quella di primo soccorso (proposta da tenersi sotto l’atrio di SAJC il Principe di Piemonte). Tre sono proprie di Sua Maestà: una sta nel Bastion Verde, l’altra vicino al Teatro di S.A.R. il Principe di Carignano, e la terza all’Arsenale. Le altre due sono della Città. Tutte queste pompe sono costrutte in modo che vi resta l’acqua nel fondo delle loro caldaie che venendo a gelarsi (nell’inverno maggiormente propizio alti incendi) rende la macchina inabile [...] Una sola di queste pompe ha dei budelli (tubi), cioè una della città: quella del Teatro ne ha alcuni trabuchi ma fuori servizio».

Un antico regolamento «da osservarsi nei casi di incendio nella città di Torino» porta la data del 20 aprile 1776 e affronta il problema dei segnali per avvertire il pubblico del pericolo: «Occorrendo il caso di incendio, i segnali da darsene al pubblico dovranno essere diversi secondo la diversità del medesimo: qualora il fuoco prenda solamente ad un camino, il segnale si darà con interrotti tocchi di campana e col semplice rapel del tamburo: ove poi il fuoco appicciato ad una qualche fabbrica, il segnale in tal caso verrà dato dalle campane con tocchi continuati e dal tamburo con battere la generala. Per indicare il sito dell’incendio medesimo, dovranno suonare tutte le campane circonvicine al luogo del medesimo, oltre a quella della Chiesa dello Spirito Santo». Nei pressi di questa chiesa abitavano molti “brentatori”, che erano tenuti a correre portando acqua dove stava bruciando qualcosa, una casa, un negozio o un deposito di merci.

Come ogni grande città, Torino ha subito in differenti epoche l’assalto del fuoco, che le ha causato devastazioni, a volte assai gravi, e anche vittime. A parte i roghi più lontani, viene in proposito ricordato l’incendio, accompagnato dal saccheggio, appiccato alle capanne da cui doveva scaturire Torino, per mano di soldati di Annibaie, si rammentano nelle pagine di storia vari incendi, a partire dal Duecento.

Alberto Viriglio ne ha tentato un elenco2 non privo di interesse.

1216 (2 febbraio) n Po essendo gelato alla profondità di quindici cubiti per restremo rigore del freddo, accadde un incendio nella casa di un cantiniere, e fu osservato che mentre le botti erano arse dal fuoco, il vino congelalo non si lìquefaceva, ed era d’uopo spezzarlo «colla scure». (Calendario isterico, Torino 1817). Questo episodio, così citato dal Viriglio, ha riscontro in Plinio, che parla di barili, di botti che, mandate in pezzi, lasciavano intrawedere intatta la forma del vino che vi era contenuto, tutto gelato. Ma il Viriglio nella sua elencazione aggiunge altri incendi:

1240 (2 febbraio) In vari punti della città per opera di plebaglia facinorosa.

1532 (4 dicembre) Cappella Ducale. La cassa d’argento in cui si conservava la SS. Sindone rimase illesa benché ravvolta dalle fiamme.

1640 Villa Ludovica (Villa della Regina).

1653 (8 dicembre) Corpus Domini (Aitar maggiore, tabernacolo, baldacchino, soffitto, organo).

1667 (5 dicembre) Distrugge una delle gallerie del Castello (Palazzo Madama) e con essa molte curiosità che vi aveva raccolte Carlo Emanuele i.

1696 (9 dicembre) Legnaia del Convento al Monte dei Cappuccini.

1697 Palazzo Reale. Dalla Scala delle Guardie del Corpo, dilatandosi nei piani superiori con rilevanti danni.

1716 Una delle Torri di Palazzo Madama.

1725 Palazzo della Zecca.

1741 (29 giugno) Intiero casamento in via Consolata ove era la dimora del Conte Gioanni Battista Bogino.

1745 (ottobre) Teatro del vecchio Palazzo Reale presso S. Gioanni.

1762 (31 ottobre) Chiesa di san Domenico. (Con avarie al quadro del Quercino, rappresentante la B.V. del Rosario).

1782 (2-3 febbraio) Casa Derozi (?) dimora di Gioanin d’j osei, celebre burattinaio.

1787 (17 febbraio) Teatro Carignano.

1797 (settembre) Locale del Tesoro nella Metropolitana.

1811 (20 marzo) Padiglione di piazza Reale (Feste nascita Re di Roma).

1816 Palazzo Regio Parco.

1817 (23-24 gennaio) Palazzo Municipale. Uffici del Consolato

1821 Palazzo Chiablese.

1828 (21 febbraio) Teatro Sutera.

1840 (13-14 gennaio) Albergo della Dogana Vecchia.

1858 (5 gennaio) Teatro Alfieri.

1861 (28-29 agosto) Casa Tarino, via Po-Montebello.

1864 (11 gennaio) Uffici Ministero delle Finanze.

1868 (12 luglio) Teatro Alberto Nota.

1871 (19 settembre) Magazzino legnami Ferrato.

1871 (27 novembre) Tettoia merci Stazione di Porta Nuova.

1871 (5 dicembre) Archivi Camera di Commercio.

1875 (28 ottobre) Drogheria Tortora, via Milano 14.

1880 (27 gennaio) Istituto Figlie militari, via Roma.

1881 (17 aprile) Laboratorio Leverà, via S. Ottavio.

1882 (26 luglio) Comune di Nichelino.

1884 (5 agosto) Fabbrica di nastri (Remmert) in Borgo Dora.

1889 (26 febbraio) Negozio Righini, via San Francesco da Paola 1.

1889 (19 dicembre) Molini Sociale di Collegno.

1890 (8 agosto) Segheria Falco e Obiglio, Barriera di Nizza.

1893 (23 aprile) Cartiera italiana, Borgo S. Secondo.

1894 (2 marzo) Fabbrica d’Armi in Valdocco.

1894 (5 marzo) Stabilimento Ansaldi, Borgo Dora.

1894 (10 marzo) Fabbrica cotone cardato, via Artisti.

1894 (29 luglio) Cascina Robilant al Lingotto.

1897 (24 ottobre) Cotonificio Girard e Kollinger, sulla stradale di Borgate,

Dal 1900 in poi altri gravi incendi non sono mancati, mentre andava migliorando il servizio per spegnere le fiamme e i vigili del fuoco venivano dotati di mezzi sempre più efficenti. Nella notte fra 1’11 e il 12 aprile 1997 un incendio devastò il Duomo di Torino, la cupola del Guarini sotto cui si conservava la Santa Sindone (v.), un tratto dell’adiacente Palazzo Reale. Il coraggio e l’abnegazione dei vigili del fuoco hanno salvato la Sindone. I pompieri spezzarono l’urna in cui si trovava la reliquia per portarla all’esterno della cattedrale. La scena del rogo che colpiva il cuore di Torino e uno dei suoi più insigni monumenti veniva trasmessa in diretta dalla televisione. Alcune scene dell’incendio sono state riprodotte dai maggiori giornali del mondo.

 

L’incendio della Grande Galleria di Piazza Castello

La manica di collegamento tra il Castello di Torino (Palazzo Madama) e l’antico Palazzo del vescovo (abbattuto per edificare Palazzo Reale) era originariamente costituita da un piano terreno porticato e da un primo piano coperto, e serviva da passaggio sicuro tra le due principali sedi del potere cittadino. Quando Emanuele Filiberto (1528-1580) trasferì la capitale del ducato da Chambéry a Torino (1563) e fissò la sua residenza nel palazzo vescovile, questo ambiente divenne parte integrante della dimora del duca.

Il primo vero intervento di decorazione della galleria venne commissionato, dal 1587, dal duca Carlo Emanuele I (1562-1630) al pittore Giovanni Caracca (l’olandese Jan Kraeck attivo alla corte sabauda dal 1568 al 1607). Il sovrano affidò un successivo e più ambizioso progetto di allestimento al pittore Federico Zuccari (1539-1609). L’artista elaborò per la volta una complessa rappresentazione di quarantotto costellazioni e per le pareti una sequenza di monumentali ritratti equestri della dinastia. Questo progetto però venne realizzato solo nella parte relativa alle immagini celesti della volta che vennero dipinte da Guglielmo Caccia detto il Moncalvo (1568 ca.-1625). I dipinti che dovevano illustrare la genealogia sabauda vennero invece confinati nella parte alta delle pareti, per lasciare spazio nella parte inferiore ad armadiature che dovevano accogliere la ricca collezione di libri e oggetti del sovrano: la manica assunse così una duplice funzione di biblioteca e di museo.

La galleria fu distrutta da un incendio nel 1659; successivamente venne ricostruita per essere definitivamente demolita nel 1801 in epoca francese.

La collezione di libri e oggetti rari raccolta dal duca Carlo Emanuele I di Savoia (1562-1630) venne ordinata, secondo l’uso delle principali corti europee, nella Grande Galleria. Per sistemare degnamente la sua collezione il duca fece modificare il progetto di allestimento, incentrato sulla celebrazione della dinastia sabauda, ideato dal pittore Federico Zuccari, e fece sistemare intorno al 1607 nella galleria undici armadiature per lato. Ogni mobile era tripartito e contrassegnato da un cartiglio che indicava la disciplina alla quale erano riconducibili gli oggetti che vi erano ospitati. La lettura dell’inventario della biblioteca ducale, compilato nel 1659 dal protomedico e bibliotecario Giulio Torrini, può aiutare ancora oggi a ricostruire idealmente gli interessi collezionistici del sovrano che miravano ambiziosamente a racchiudere in questo luogo l’intero “teatro del mondo” e spaziavano dai bronzi dell’antichità classica agli strumenti tecnici e scientifici e alle curiosità naturalistiche. Le collezioni sono state disperse a causa delle successive trasformazioni della Galleria e dalla sua definitiva demolizione nel 1801. È però ancora possibile riconoscere nei musei e nelle biblioteche torinesi alcuni oggetti che vi erano conservati, come i celebri volumi di antiquaria di Pirro Ligorio (oggi Torino, Archivio di Stato).

Nel 1659 un grave incendio la distrusse quasi completamente. Fu parzialmente ricostruite, ma Napoleone la smantellò definitivamente

 

L’incendio dell’Armeria Reale

Nel 1837 Carlo Alberto diede ordine di allestire, negli ambienti la­sciati liberi dalla collezione di dipinti del­la Galleria Reale (poi Galleria Sabauda) trasferiti a palazzo Madama, una raccolta delle armi, occidentali e orientali, appartenute e collezionate nei secoli dai Savoia, e in gran parte provenienti dagli arsenali di Torino e Genova. La collezione fu subito esposta al pubblico e ben presto si rivelò una delle più importanti d'Europa. Dopo diversi assestamenti, nel 1998 fu avviato il restauro per recuperare la disposizione ottocentesca, strutturando tre ambienti: la Rotonda di Pelagio Palagi, la galleria del Beaumont e la sala del Medagliere Reale. La sala della Rotonda prende il nome dal rondò, lo spazio circolare che un tempo costituiva la cerniera architettonica tra l'ala orientale di Palazzo Reale, palazzo Madama e palazzo Chiablese. Nel 1809, infatti, venne demolita la galleria che avanzava sulla piazza fino a congiungersi con palazzo Madama, mentre nel 1811 un incendio distrusse parzialmente il padiglione che correva dove ora sorge la cancellata che divide piazzetta Reale da piazza Castello. La sala, già destinata a teatro di corte prima e quindi a sala da ballo, venne ristrutturata dal Palagi (1841-45) che ne fece un ampliamento dell'Armeria e la provvide di una loggia affacciata su piazza Castello.

 

L’incendio della Chiesa di San Domenico

Il convento di San Domenico venne fondato verso l’anno 1260 per opera di frate Giovanni, torinese, domenicano del convento di Sant’Eustorgio di Milano. Ivi Padre Giovanni da Torino mise insieme una rilevante biblioteca.

Così si spiega anche la funzione culturale dei Domenicani e la rilevanza che chiesa e convento ebbero nella storia di Torino, apprezzati dalla casa regnante che si preoccupò ogni qualvolta qualche incidente ne minacciasse la stabilità, soprattutto gli incendi un tempo alquanto frequenti.

Nonostante le precauzioni, il 31 ottobre 1762 il fuoco divorò la casa dietro la cappella del Rosario e s’appiccò alla chiesa. Si arrivò appena in tempo a staccare il quadro del Guercino della Madonna del Rosario. La cappella e parte della navata destra si dovettero ricostruire.

Nel 1776 i domenicani fecero rifare l’altare maggiore della chiesa, e due anni dopo anche quello di San Vincenzo Ferreri.

Nel 1780 Vittorio Amedeo in costruì la cappella del beato Amedeo, e la ornò di medaglioni di marmo raffiguranti la beata Ludovica e la beata Margherita di Savoia.

 

L’incendio della cappella della Sindone

 

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Nella notte tra venerdì 11 e sabato 12 aprile 1997, poco prima di mezzanotte, un furioso incendio si sviluppò nella Cappella della Sindone posta tra la Cattedrale torinese e Palazzo Reale. Le fiamme devastarono la cappella barocca seicentesca progettata da Guarino Guarini e si estesero successivamente al torrione nord-ovest del palazzo distruggendo alcune decine di quadri preziosi. Solo alle luci dell’alba i vigili del fuoco riuscirono a spegnere definitivamente le fiamme.

La Sindone non fu direttamente interessata dall’incendio poiché il 24 febbraio 1993, per consentire i lavori di restauro della Cappella, era stata provvisoriamente trasferita (unitamente alla teca che la custodiva) al centro del coro della Cattedrale, dietro all’altare maggiore, protetta da una struttura di cristallo antiproiettile e antisfondamento appositamente costruita.

Poiché durante l’incendio nella Cappella furono superati i 1000 gradi centigradi, è evidente che se al momento dell’incendio la Sindone fosse stata ancora conservata nell’altare progettato da Antonio Bertola al centro della Cappella, sarebbe andata completamente distrutta.

Pur non essendo la Sindone e la sua teca interessate dal fuoco dell’incendio, nel corso di quella notte fu deciso di rompere la struttura di cristallo e di portare via la Sindone, onde evitare sia i rischi di un crollo anche solo parziale della cupola della cappella, sia i possibili danni provocati dall’acqua degli idranti usati dai vigili del fuoco.

La Sindone venne immediatamente trasferita nel palazzo arcivescovile e lunedì 14 aprile fu effettuato un sopralluogo ufficiale alla presenza del Card. Giovanni Saldarini e di alcuni membri della Commissione internazionale per la conservazione della Sindone, sopralluogo che confermò che la Sindone non aveva subito alcun danno.

 

L’incendio del Teatro Carignano

 

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La realizzazione del teatro originario avvenne tra gli ultimi anni del Seicento e i primi del Settecento a cura di Luigi Amedeo, figlio di Emanuele Filiberto, per ospitare spettacoli minori come il “ballo di corda” o il “ballo di spada”. Proprio per questo motivo all’origine era chiamato il “Trincotto rosso”. Solo dopo il passaggio alla Società dei Cavalieri, nel 1727, iniziarono spettacoli di maggior lustro: prosa, canto e balletti.

Nel maggio del 1752 venne posata la prima pietra di un nuovo teatro, disegnato da Benedetto Alfieri con 84 logge e tre ranghi di panche in platea, lumi a candela e stucchi lumeggiati d’oro. Il soffitto fu dipinto da Gaetano Perego e Mattia Franceschini, e il sipario da Bernardino Galliari. Il teatro fu inaugurato per la Pasqua del 1753 con la Calamita dei cuori di Carlo Goldoni, musicata da Baldassarre Galluppi.

L’incendio del 16 febbraio 1786 distrusse l’edificio, imponendo una nuova costruzione, che si realizzò in breve tempo su progetto di Giovanni Battista Feroggio: quattro ordini di palchi, di cui venti al primo ordine, ventuno al secondo, ventidue al terzo e quarto ordine. La divisione delle logge era data da cariatidi in cartapesta sovrastate da un capitello jonico, dal colore prevalentemente giallo e grigio. Riprendendo i disegni di Benedetto Alfieri, Feroggio modificò l’edificio dotandolo all’esterno di un ampio porticato, caratteristico dei teatri settecenteschi, e di tredici finestre al piano nobile. La nuova sala fu disegnata a ferro di cavallo, le decorazioni vennero affidate ai fratelli Pozzo, mentre il soffitto e il sipario furono dipinti ancora una volta dall’ormai ottantenne Bernardino Galliari. Nel 1845 il pittore Francesco Gonin realizzò la decorazione del soffitto della platea, dipingendovi un Trionfo di Bacco.

 

L’incendio del Teatro Regio

 

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8 febbraio 1936, un sabato in piena stagione lirica al Teatro Regio di Torino. Platea e palchi del Teatro erano colmi di pubblico venuto ad applaudire la ‘Liolà’ di Giuseppe Mulè, scritta l’anno prima e basata sull’omonima commedia di Luigi Pirandello. L’opera, diretta dal compositore, aveva debuttato al San Carlo di Napoli nel 1935 riscuotendo un lusinghiero successo sia di pubblico che di critica, che ne lodava la tessitura folcloristica siciliana con gustose, come riportato sul Corriere della Sera, scenette e passaggi pittoreschi. Dunque non solo una primizia per Torino, ma anche una serata divertente e leggera. Conclusa l’esecuzione il pubblico soddisfatto si ritrovò per le vie intorno al Teatro e la sala venne chiusa dal custode che abitava nell’edificio, al quarto piano sopra la biglietteria. Poco dopo mezzanotte un passante notò dei bagliori filtrare dalle finestre della facciata su piazza Castello e corse ad avvertire la stazione dei pompieri di Porta Palazzo.

Una prima squadra arrivò aiutando il custode e i suoi familiari a mettersi al sicuro, rendendosi immediatamente conto della gravità dell’incendio. A questo primo intervento ne seguirono altri, perché l’incendio continuava velocemente ad avvolgere tutto il Teatro. Inoltre il rogo si stava propagando agli edifici contigui, l’Archivio di Stato e l’Accademia Militare, e si provvide a isolarli dall’incendio principale. Era stupefacente la rapidità con la quale il fuoco si era propagato, fu domato in poche ore, ma le strutture, quasi tutte in legno, e la copertura erano completamente distrutte. La mattina del 9 febbraio la città si raccoglie attonita intorno al suo Teatro. C’è un grande silenzio in piazza Castello e si guarda angosciati e stupiti alla facciata del Teatro, unico manufatto rimasto quasi del tutto integro, quella lunga e severa facciata di mattoni a vista, magnifico, emblematico esempio della stagione barocca di Torino. Una facciata che sembra racchiudere tutto il mistero della vocazione musicale della città e della ‘grande macchina’ rappresentativa che conteneva. Bisognerà ripartire da lì guardando al suo passato.

 

L’incendio della Regia Biblioteca Nazionale di Torino del 1904

 

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Molti Torinesi ne hanno perso la memoria, ma nel 1904 accadde un evento che segnò profondamente la Storia della città: l’incendio della Biblioteca Nazionale.

A quei tempi, la Biblioteca Nazionale (o, meglio, la “Regia Biblioteca Nazionale”), aveva sede in via Po, in un edificio accanto a quello dell’Ateneo. Essa era sorta nel 1720, per volontà di Vittorio Amedeo II, che aveva deciso di riunire in un'unica istituzione i volumi già presenti nella biblioteca dell’Università, con quelli della biblioteca ducale.

La biblioteca ducale possedeva un’ampia collezione di manoscritti e codici miniati, acquisiti soprattutto da Amedeo VIII. Amedeo VIII era ambizioso, e vedeva (come molti principi del suo periodo) il possesso di una ricca biblioteca come uno strumento sia di potere che di credito politico. Negli anni successivi, la Biblioteca Universitaria divenne sempre più ampia ed acquistò sempre maggior prestigio, grazie ai numerosissimi lasciti, e alle numerose acquisizioni di valore.

Per fare un esempio, la Biblioteca ricevette in dono, da Tommaso Valperga di Caluso, 621 antichi e rarissimi manoscritti talmudici in ebraico, e in dono dal conte Carlo Alfieri di Sostegno, ben 1.500 volumi stampati a Venezia nel XV-XVI secolo dalla bottega di Aldo Manuzio.

Nel 1749, il patrimonio della Biblioteca era già enorme, e l’Abate padovano Giuseppe Pasini, nominato Prefetto della Regia Biblioteca Universitaria, assieme ai bibliografi Francesco Berta e Antonio Rivautella, si incaricò di compilare il repertorio di tutti i manoscritti conservati.

Questo repertorio richiese più volumi, e venne pubblicato dalla Stamperia Reale, con il titolo “Codices Manuscripti Bibliothecae Regii Taurinensis Athenaei, per Linguae Digesti & Binas in parte distribuiti, in quarum prima Hebraei, & Graeci, in altera Latini, Italici & Gallici”.

Come si vede, la biblioteca di Torino possedeva antichi manoscritti ebraici, greci, bizantini, latini, italici e francesi, a partire dall’epoca altomedievale.

Le acquisizioni di questi testi preziosi erano continuate: per esempio, nel 1824, il ministro Prospero Balbo incaricò il filologo Amedeo Peyron di raccogliere i manoscritti altomedievali dello Scriptorium” dell’Abbazia di San Colombano a Bobbio, i quali, dopo la soppressione di tutti i monasteri voluta nel 1810 da Napoleone, correvano il rischio di finire dispersi.

Nel 1900, (come riportava Georges Bourgin, nel già citato “L' incendie de la bibliothèque nationale et universitaire de Turin“), essa possedeva 1.095 incunaboli, 10.321 incisioni (tra le quali rare carte geografiche), 4.500 manoscritti su papiro o pergamena (suddivisi nei fondi ebraico, arabo, persiano, copto, greco e latino), oltre a centinaia di codici miniati, che la rendevano una delle biblioteche di respiro europeo.

Molti di questi manoscritti erano appartenuti al celebre Cardinale Della Rovere, altri provenivano dallo “Scriptorium” dell’Abbazia di Staffarda.

Nel 1904, del tutto imprevisto, l’incendio: in una sola notte, tra il 25 e il 26 gennaio, andò perduto irrimediabilmente un patrimonio paleografico inestimabile.

Come dimensioni generali, l’incendio distrusse circa un terzo del materiale posseduto, ma il danno fu molto più grave, perché distrusse la metà dei materiali più rari e preziosi, che costituivano il tesoro vero e proprio della biblioteca, ossia gli incunaboli, i codici miniati e i manoscritti.

Ma come potè accadere, tutto questo?

Le cause esatte dell’incendio non furono mai precisate, anche se fu ipotizzato un corto circuito dell’impianto elettrico.

Esso, come scrissero i giornali dei giorni successivi, si originò nel cuore della notte, trovando facile esca sia nei volumi, sia nelle strutture lignee, estendendosi con grande rapidità.

I Vigili del Fuoco, subito allertati, accorsero dalla Caserma di Corso Regina, con le autopompe, inondando d’acqua le finestre. Sciaguratamente l’acqua, pur fermando il fuoco, imbevendo carta e pergamena, provocò anch’essa a volte dei danni irreparabili nei volumi.

Oltre all’oltraggio del fuoco, altri danni furono prodotti dalla buona volontà delle persone inesperte: per esempio i guardiani, pensando di far bene, lanciarono dalle finestre i pezzi più rari, che si sbriciolarono nell’impatto con il selciato.

La più celebre foto del rogo di via Po, venne scattata alle prime ore di quel 26 gennaio, quando il fuoco era ormai spento. È l’immagine che venne riprodotta anche nelle prime pagine dei giornali, in Italia e all’estero.

Essa, ripresa dall’alto di una via Po deserta, mostra un’infilata di arcate di portici, mentre un solitario vigile del fuoco indirizza un getto d’acqua all’interno di una finestra di un edificio il quale ha il tetto in parte scoperchiato, che mostra l’ossatura composta da travi annerite. Ma ciò che colpisce l’osservatore è una grande quantità di quella che sembrerebbe cartaccia gettata a terra, che ingombra la strada per quasi un isolato.

La Stampa del giorno successivo, uscì con un grande titolo: “Un gravissimo incendio alla Biblioteca Nazionale. Diecimila volumi perduti. Manoscritti preziosissimi inceneriti. La grande emozione in città”. Il Corriere della sera, di Milano, titolò invece: “L’incendio della Biblioteca Nazionale a Torino. Preziosissimi cimeli distrutti dall’acqua e dal fuoco”.

Dopo qualche giorno, si cercò di fare un primo punto dei danni, e la situazione si dimostrò ancora peggiore di quanto si fosse ipotizzato in un primo momento.

Un articolo su La Stampa descriveva così la situazione: «Le sezioni più danneggiate risultarono quelle dei manoscritti orientali, di quelli francesi e di quelli italiani [...]. Nei codici membranacei, le modificazioni strutturali delle pergamene, provocate dall’effetto del calore, si aggravarono a causa dei getti d'acqua fredda che arrivarono su di essi; sotto l’effetto del calore, si ebbero drastiche riduzioni delle dimensioni dei codici, e l’agglutinamento delle pergamene: il risultato fu la trasformazione di molti codici in blocchi compatti».

Quest’ultimo effetto fisico veniva spiegato su LA STAMPA, dallo studioso Pietro Giacosa: «La massa dei codici si è ridotta in una specie di mattone, di quelli cosiddetti ferrigni che escono dalla fornace storti e bruciati. I margini dei fogli si sono saldati in uno strato catramoso, fatto di fumo e di colla di gelatina impastati insieme. Sotto la pressione poi dello scaffale, accresciuta per la dilatazione conseguente al riscaldarsi, l’insieme del libro che non trovava spazio si accartocciò e si contorse come in uno spasimo. Dove il caldo era maggiore e la pergamena perdeva l’umidità sua naturale, essa si ritraeva, s’aggrinziva, seccava e diventava fragile come biscotto. Quando si aggiunga l’azione dell’acqua gettata su queste masse di membrane calde, il crogiolarsi di questa congerie di cose, carta, legno, inchiostro, gomme, colori, ori, cuoj in una lenta combustione, in una carbonizzazione, ora in un ambiente saturo di vapor acqueo caldissimo, ora in spazii secchi, si comprenderà l’aggravarsi delle condizioni». [...]. «I codici cartacei non hanno avuto difesa; il fuoco li ha carbonizzati; l’acqua li ha inzuppati. Sono una poltiglia di fango e carbone. I codici membranacei, invece, si aggrovigliarono contro alla fiamma in una crosta ribelle e aspra, che assorbiva per sé il calore senza trasmetterlo all’interno, che offriva se stessa bruciandosi e carbonizzandosi, ma sotto di sé manteneva intatto il deposito affidatogli».

Insomma, come abbiamo detto sopra, un danno incalcolabile, e irrimediabile. Svanirono, in un attimo, dei pezzi preziosissimi: per esempio, andarono perduti per sempre dei rarissimi manoscritti bizantini, come le “Chronĭcas” dello storico Giorgio Sincello (IX secolo) e quelle del patriarca Niceforo I di Costantinopoli (IX secolo), e il “Diplomaire”, un codice miniato e decorato con oro, composto da 258 fogli di pergamena, e risalente al 1286.

Torino conservava anche alcuni antichi manoscritti persiani di carattere astronomico, che andarono anch’essi perduti: per esempio, una mezza pagina dai bordi anneriti è tutto ciò che rimane del “Liber Messahala”, manoscritto dell’ VIII-IX secolo dell’astronomo ed astrologo persiano Masha'Allah ibn Atharī.

La Biblioteca di Torino era famosa per i suoi i codici miniati: lo studioso francese Georges Bourgin, nelsuo articolo del 1904 “L' incendie de la bibliothèque nationale et universitaire de Turin“, scriveva : «Récemment, une étude de M. Durrieu dans la Chronique des Arts, rappelait l'importance exceptionnelle d'un grand nombre des manuscrits de Turin, et dans chaque fonds, pour l'histoire des arts en général et de la miniature en particulier».

Tra questi codici, esistevano alcuni “Livres d’Heures“, che testimoniavano l’affinità del nostro territorio, durante il Medioevo, con il mondo culturale d’Oltralpe. I “Livres d’Heures“ infatti, sono espressioni artistiche tipiche del gotico francese, del XIII, XIV e XV secolo: si tratta di testi devozionali finemente miniati, che contengono salmi, preghiere e brani delle sacre scritture, redatti in base al calendario liturgico, che non erano usati dagli ecclesiastici ma dai fedeli in generale. assieme ad un calendario della liturgia durante l’anno.

Nel rogo di Torino, finirono inceneriti due preziosi “Livres d’Heures“ che facevano parte della collezione del Duca di Savoia, “Les Heures de Savoye”, e “Les Heures de Turin”. Il primo di essi, “Les Heures de Savoie, ou le Livre d'Heures de la Comtesse de Savoie“, era stato realizzato, negli anni tra il 1335 e il 1340, dalla bottega di Jean le Noir, su commissione della contessa Bianca di Borgogna.

Dopo essere passato di mano in mano durante i secoli, ed essere stato smembrato in due parti, una di queste era finita a Torino, in possesso di Vittorio Amedeo II, che l'aveva conferita alla Biblioteca. Nessuno sapeva più dove fosse finita l'altra parte del codice, così, quando le "Heures de Savoye" furono ridotte in cenere nel 1904, tutti credettero di averle perdute per sempre. Ma nel 1910 accadde un fatto inaspettato: un monaco benedettino che stava compiendo delle ricerche nella biblioteca della diocesi di Portsmouth, ebbe la ventura di scoprire un manoscritto gotico miniato di 26 fogli, che venne identificato dagli esperti proprio come l'altra parte del codice delle "Heures de Savoye".

Questo codice, è oggi conservato nella biblioteca dell'Università di Yale. Il secondo dei "Livres d'Heures" veniva chiamato "Les Heures de Turin", e corrispondeva alla metà delle pagine di un codice originario, le “Très Belles Heures de Notre-Dame du Duc de Berry. Queste “Très Belles Heures de Notre-Dame”, erano state realizzate, attorno al 1380, dalla bottega del celebre Jan van Eyck, su commissione, appunto, del Duca Jean de Berry.

Qualche decennio dopo, anche questo codice venne smembrato in due parti, che passarono entrambe di mano in mano, nel corso dei secoli. La prima parte, nel 1720, si trovava in possesso di Vittorio Amedeo II con il nome di "Les Heures de Turin", e finì anch'essa nei conferimenti alla Biblioteca, perduti nel rogo del 1904.

La seconda parte, dopo lo smembramento, finì in Baviera, e lì venne acquistata dal patrizio milanese Gian Giacomo Trivulzio, all'inizio del XIX secolo, per arricchire la sua ricchissima biblioteca.

Queste 28 pagine miniate, denominate "Les Heures de Milan", fecero parte della Collezione Trivulzio fino al 1935, anno nel quale furono cedute al Museo Civico di Arte Antica di Palazzo Madama, presso il quale si trovano attualmente. Da quel momento, esse vennero ridenominate "Les Heures de Turin-Milan".

Ma la Biblioteca di Torino, possedeva anche, tra i manoscritti francesi, dei codici miniati relativi ai Poemi Cavallereschi: tra essi, Torino conservava cinque manoscritti del “Roman de la Rose” (quattro del XIV secolo, e uno del XV), anch'essi ridotti in cenere.

Torino possedeva poi (assieme a Parigi), una delle due uniche copie esistenti del “Livre du Chevalier Errant”, uno dei testi più importanti della “chevalerie médiévale“. Come sappiamo, il “Livre du Chevalier Errant” fu composto proprio a Torino, tra il 1394 e il 1396, da Tommaso III di Saluzzo, mentre era tenuto prigioniero a Palazzo Madama dai suoi nemici Acaja.

Del meraviglioso “Livre du Chevalier Errant” torinese, il fuoco non ha risparmiato che qualche frammento di pagina, con i bordi bruciati: se si vuole avere idea di come potesse essere, si può confrontare l'altra copia di Parigi, presso la Bibliothèque Nationale.

L’impressione destata dalla catastrofe del 26 gennaio 1904 fu enorme, sia in Italia che all’estero. La «sventura mondiale», l’«incalcolabile danno» colpendo «Torino madre dell’Italia nuova» avevano ferito «il cuore stesso della nazione». Tutti giornali esteri diedero ampio risalto alla notizia, e tutte le Università e le Istituzioni d’Europa organizzarono convegni di studi per capire fino a che punto la Cultura fosse stata ferita. (Per esempio, nella prima seduta dell’“Académie des Inscriptions et Belles-Lettres“ di Parigi, uno dei membri, Paul Meyer, così relazionava ai soci in apprensione: «Voglio richiamare l'attenzione dell'Accademia sul disastro irreparabile che ha appena colpito non solo l'Italia, ma tutta la cultura mondiale. Non abbiamo ancora molti dettagli: sappiamo soltanto che il fuoco ha distrutto interamente quattro saloni, con tutti i libri che contenevano; che la sala dei manoscritti è stata devastata sia dalle fiamme che dall'acqua delle pompe, perché non si è potuto accedere ad essa in quanto sciaguratamente chiusa da un cancello di ferro, che si è potuto abbattere solo dopo lunghi sforzi; che tutti i manoscritti greci e i manoscritti orientali sono bruciati nel rogo. Se siamo riusciti a salvare i manoscritti di Bobbio, pur intrisi d’acqua, un numero enorme di manoscritti latini o in lingua romanza, che costituivano dei testi unici dal valore inestimabile, li dobbiamo considerare irrimediabilmente perduti».

La perdita che ebbe a subire la Cultura fu così grande, che i festeggiamenti per il quinto centenario dell'Università di Torino, che cadeva proprio nel 1904, e per il quale erano già state approntate fastose cerimonie, ed erano già state invitate delegazioni di studenti e professori da tutte le Università europee, non ebbero più luogo, in segno di lutto.

 

fonti:

http://www.atlanteditorino.it/documenti/incendio.html

 

L’incendio del Cinema Statuto

L'incendio del Cinema Statuto fu un tragico evento, avvenuto a Torino la sera del 13 febbraio 1983, che provocò la morte di 64 persone, 31 uomini, 31 donne, un bambino e una bambina che assistevano alla proiezione pomeridiana del film “La capra”.

Il cinema era considerato uno dei locali più sicuri della città, visto che una lunga serie di porte di sicurezza si apriva direttamente lungo la via Cibrario.

Intorno alle 18:15, quando era iniziata da circa venti minuti la proiezione, si verificò un'improvvisa fiammata (i sopravvissuti riferiranno di aver udito un tonfo sordo, simile all'accensione di una stufa) causata da un cortocircuito, che incendiò una tenda adibita a separare il corridoio di accesso di destra dalla platea; cadendo, questa innescò il fuoco alle poltrone delle ultime file, tagliando in questo modo un'importante via di fuga che, comunque, alcuni riusciranno ugualmente a guadagnare. Gli altri spettatori, terrorizzati, si rovesciarono in massa sulle sei uscite di sicurezza le quali, però, erano state tutte chiuse tranne una, per iniziativa del gestore, il quale in questo modo aveva voluto contrastare i frequenti ingressi di "portoghesi". Dall'esterno si udivano le urla e le richieste di aiuto, mentre alcuni spettatori della platea riuscirono a raggiungere l'atrio della biglietteria, dov'era presente il proprietario del cinema, il quale cercò inutilmente di calmare gli animi temendo un'ondata di panico collettivo.

A questo punto ebbe luogo una serie di errori che risulteranno determinanti: venuta a mancare l'illuminazione principale, non furono accese le luci di sicurezza tramite l'interruttore ausiliario ubicato dietro la cassa e la proiezione non fu interrotta, sempre secondo la ricostruzione, nel tentativo di contenere il panico. Le conseguenze furono catastrofiche, perché in galleria il pericolo non fu percepito, se non quando fu invasa dal fumo. Chi riuscì a rendersi conto della situazione si diede alla fuga: alcuni si diressero verso l'accesso di sinistra che dava sull'atrio, ma nessuno riuscì a raggiungerlo (in questo punto si conteranno quasi quaranta morti); un'altra parte del pubblico, invece, si rovesciò in quello di destra, che però portava alle toilette, dalle quali non riuscirono più a uscire. Altri spettatori, inoltre, vennero trovati morti ancora seduti in poltrona. Comune a tutte le vittime, il viso annerito dal fumo tossico scatenato dall'incendio, che aveva trasformato la galleria in una sorta di camera a gas soffocando i presenti in meno di un minuto.

A causa delle rigidissime misure di sicurezza stabilite, in seguito alla strage, per tutti i locali pubblici della città, tre anni dopo almeno la metà di essi era chiusa o definitivamente scomparsa, mentre gli altri, pur dopo altissime spese, avevano visto ridotta di molto la capienza e l'attività e non sapevano se avrebbero potuto continuare.

 

Il tornado del 23 maggio 1953

 

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La sera del 23 maggio 1953 si verificò a Torino un episodio meteorologico del tutto eccezionale, una tromba d’aria di proporioni gigantesche si abbatté sulla città. Ecco il racconto che ne fa Vittorio Messori nel suo libro Il mistero di Torino:

 

La sera del 23 maggio 1953 (prendo la data esatta dalla «Stampa», che ha dedicato un articolo ai cinquant'anni da quel cataclisma), verso le sette, ero per strada, solo, e mi affrettavo lungo i larghi marciapiedi in salita di via Sobrero per rientrare al più presto a casa. Il cielo si era fatto tutto nero, era calata un'oscurità mai vista a quell'ora di tarda primavera.

Di colpo, arrivò quello che sembrò davvero la fine annunciata dall'angelo sulla torre. Non avevo che dodici anni, ma è scolpito nella memoria il ricordo del «tornado», per usare il termine che è entrato nelle cronache torinesi e nel linguaggio di chi ha vissuto quel giorno, che - oltre alle rovine - causò solo in città sei morti e centinaia di feriti. Appiattito contro il muro di una casa, senza possibilità di un riparo (i custodi si erano affrettati a sbarrare tutti i portoni) mi sembrò di essere aspirato dentro il tunnel di un lavaggio per automobili. O, meglio, questa è l'immagine che mi sono formata dopo: non sono per niente sicuro che quei tunnel, allora, fossero già in uso; la domenica si vedeva la gente lavare le auto, con spugne e secchi, accanto ai «toretti» per le strade e, soprattutto, sui murazzi della Dora.

Sotto il frastuono del diluvio e del vento di forza impressionante, sentivo le scariche secche e continue delle tegole e dei vasi di fiori che si sbriciolavano sull'asfalto. Eppure, non erano quei proiettili micidiali che temevo: era del campanile che avevo paura. Sforzandomi di tenere aperti gli occhi frustati dalla pioggia, con le spalle appiattite contro il muro e completamente fradicio, guardavo in alto, verso sinistra. Dietro la barriera d'acqua e le nuvole quasi raso terra non si scorgeva nulla, ma ero certo che da un momento all'altro da quella oscurità sarebbe sbucata - precipite, enorme, mortale - la massa del gigante stroncato.

Il tornado (stando ai meteorologi, vedo nell'articolo commemorativo, l'uragano di maggior violenza mai registrato nella pianura padana, una sorta di anomalo tifone asiatico o americano: un altro primato torinese?) finì con la stessa rapidità con cui era giunto. L'oscurità si dileguò di colpo, la torre altissima riemerse intatta dalla caligine, con il suo angelo ancora una volta vittorioso.

Non andò così per la Mole Antonelliana: dopo settant'anni dacché svettava sino a 167 metri nel cielo sopra Torino, la guglia fu catturata dal vortice, e con tale forza che il vento non si limitò a spezzarla. Ne sradicò una cinquantina di metri dal tempietto che sovrasta la cupola e la sollevò in alto, roteante, per poi farla cadere - verticalmente, a candela - nel piccolo giardino della sede Rai sottostante, il bel palazzetto rosso che usava la Mole come un ripetitore gigantesco che proiettava i segnali verso le antenne dell'Eremo che contemplavo da via Venti Settembre. Il crollo non causò morti per uno strano caso, che non cessò di meravigliare: il fazzoletto di terra in cui si abbatterono quelle centinaia di tonnellate era il solo non edificato della zona.

Non ci furono morti in via Montebello, anche se lo schianto fu tale che, per l'onda d'urto, andarono in frantumi i vetri delle case vicine. Di morti e di feriti, però, ce ne furono in tutti i quartieri della città, che sembrava ritornata a otto anni prima, al tempo dei bombardamenti.

 

Il disastro di Superga

La tragedia di Superga fu un incidente aereo avvenuto il 4 maggio 1949. Alle ore 17:03, il Fiat G.212 della compagnia aerea ALI, siglato I-ELCE, con a bordo l'intera squadra del Grande Torino, si schiantò contro il muraglione del terrapieno posteriore della basilica di Superga, che sorge sulla collina torinese; le vittime furono 31.

L'aereo stava riportando a casa la squadra da Lisbona, dove aveva disputato una partita amichevole contro il Benfica. Nell'incidente perse la vita l'intera squadra e che costituiva la quasi totalità della Nazionale italiana. Nell'incidente morirono anche i dirigenti, gli accompagnatori, l'equipaggio e tre noti giornalisti sportivi italiani: Renato Casalbore (fondatore di Tuttosport); Renato Tosatti (della Gazzetta del Popolo, padre di Giorgio Tosatti) e Luigi Cavallero (La Nuova Stampa).

Il trimotore Fiat G.212, con marche I-ELCE, delle Avio Linee Italiane, decolla dall'aeroporto di Lisbona alle 9:40 di mercoledì 4 maggio 1949. Comandante del velivolo è il tenente colonnello Meroni. Dopo un atterraggio a Barcellona, Alle 14:50 l'I-ELCE decolla con destinazione l'aeroporto di Torino. Il tempo su Torino è pessimo. Alle 16:55 l'aeroporto comunica ai piloti la situazione meteo: nubi quasi a contatto col suolo, rovesci di pioggia, forte libeccio con raffiche, visibilità orizzontale scarsissima (40 metri).

La torre chiede anche un riporto di posizione. Dopo qualche minuto di silenzio alle 16:59 arriva la risposta: "Quota 2.000 metri. QDM su Pino, poi tagliamo su Superga".Giunti sulla perpendicolare di Pino, mettendo 290 gradi di prua ci si trova allineati con la pista dell'Aeritalia, a circa 9 chilometri di distanza, a 305 metri di altitudine. Poco più a nord di Pino Torinese c'è il colle di Superga con l'omonima basilica, in posizione dominante a 669 metri di altitudine. Si ipotizzò che - a causa del forte vento al traverso sinistro - l'aereo nel corso della virata potesse aver subìto una deriva verso dritta, che lo spostò dall'asse di discesa e lo allineò, invece che con la pista, con la collina di Superga; a seguito di recenti indagini è emersa la possibilità che l'altimetro si fosse bloccato sui 2.000 metri e quindi inducesse i piloti a credere di essere a tale quota, mentre erano a soli 600 metri dal suolo.

Alle ore 17:03 l'aereo con il Grande Torino a bordo, eseguita la virata verso sinistra, messo in volo orizzontale e allineato per prepararsi all'atterraggio, si va invece a schiantare contro il terrapieno posteriore della basilica di Superga. Il pilota, che credeva di avere la collina di Superga alla sua destra, se la vede invece sbucare davanti all'improvviso (velocità 180 km/h, visibilità 40 metri) e non ha il tempo per fare nulla: non si ravvisano infatti, dalla disposizione dei rottami, tentativi di riattaccata o virata. L'unica parte del velivolo rimasta parzialmente intatta è l'impennaggio.

Alle 17:05 Aeritalia Torre chiama I-ELCE, non ricevendo alcuna risposta. Delle 31 persone a bordo non si salvò nessuno.

I funerali delle vittime si svolsero il 6 maggio presso il Duomo di Torino e videro un'imponente partecipazione popolare: oltre 600.000 persone si riversarono infatti per le strade del capoluogo sabaudo a salutare per l’ultima volta i calciatori. Tra i presenti anche Giulio Andreotti, in rappresentanza del Governo, e Ottorino Barassi, presidente della FIGC. La camera ardente si tenne a Palazzo Madama, ex residenza reale situata nella centralissima piazza Castello. Vittorio Veltroni, redattore capo cronache della Rai, effettuò la radiocronaca in diretta delle esequie della squadra.

 

Il fulmine del 1904 che scardinò l’angelo della Mole

 

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Nel 1904, l'Angelo con stella sulla Mole fu colpito dalla folgore. Tutte le cronache dell'epoca parlarono, come faranno nel 1953, di «un fatto che ha del prodigioso». Successe, infatti, che la statua, da tre tonnellate, non rovinò che per pochi metri, restando in bilico sul terrazzino sottostante. Ricordo di avere visto pure le foto: impressionanti. Anche quella volta, nessuna vittima, l'Angelo stesso rimase quasi intatto. E’ esposto nel Museo del Cinema che c'è adesso, dentro la Mole.

 

I bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale

 

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Tra il 1940 e il 1945 si abbattono su Torino i bombardamenti alleati provocando sulla città e sui suoi abitanti effetti devastanti. Dopo le brevi incursioni dell’estate 1940 e dell’inverno 1941, tra il novembre 1942 e l’agosto 1943 si registrano sulla città altri dodici attacchi, che provocano la morte di 1.186 persone e la distruzione di 54.000 abitazioni su un totale di 217.000. I bombardamenti continuano, seppure a ritmi più sporadici, anche durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana: l’ultimo colpisce Torino il 5 aprile 1945, provocando danni alla periferia sud della città. Oltre alle fabbriche, le bombe colpiscono case, edifici storici, monumenti e vetrine, lasciando sulle strade mucchi di macerie. Complessivamente, i bombardamenti uccidono 2.069 persone tra la popolazione civile, distruggono il 7% dei vani disponibili rispetto a quelli del 1942 e danneggiano il 10% dei negozi.

Obiettivo principale dell’aviazione alleata è però il sistema produttivo cittadino. Tra il 1940 e il 1942, il primo ciclo di incursioni che si abbatte sulla città causa alle fabbriche danni limitati. Dall’autunno del 1942, lo scenario cambia: le bombe trafiggono la città senza risparmiare le industrie, colpendo, in maniera spesso devastante, quelle di maggiori dimensioni che continuano ad essere bersaglio dell’aviazione alleata durante l’intero arco del conflitto. Le bombe alleate riducono Torino a brandelli, lasciando senza casa migliaia di persone. Trasporti e servizi pubblici sono paralizzati, i disoccupati aumentano, così come l’inflazione, e il sistema industriale è in ginocchio.

Disordine economico e tensioni sociali accompagnano il riavvio di un processo produttivo che inizia a raggiungere livelli di normalità soltanto alla fine degli anni Quaranta.

 

fonti:

https://www.fondazionescuola.it/sites/default/files/allegati_iniziative/laygt_torinofabbriche_03.pdf

 

 

 

 

 

ALBERGHI, RISTORANTI, NEGOZI, CAFFÈ E MERCATI STORICI DI TORINO

 

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Le osterie

 

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Oltre al mercato, un altro luogo di ritrovo, ma rigorosamente appartenente al sesso maschile, era l’osteria. Questi locali erano decisamente numerosi, sia nei piccoli paesi che nelle città un po più grandi, e il giorno di mercato e ancora di più in quello della fiera vedevano gente andare e venire in continuazione, per tutto il giorno e fino a tarda notte o addirittura all'indomani. Molti, quindi, erano attrezzati anche per ricoverare cavalli, muli e asini, se si usava come mezzo di trasporto un carretto o un calesse trainati da un animale.

Stallaggio era la parola che specificava questo tipo di servizio, consistente nello staccare la bestia dal traino, darle da bere e riattaccarla al carro o al calesse quando il suo proprietario fosse tornato: un servizio di poche ore, oppure tutto il giorno, o anche per la notte, se si disponeva di stanze per il pernottamento degli ospiti.

Ancora fino agli anni Sessanta del Novecento, molte osterie resistevano alla concorrenza dei bar, mantenendo la loro originalità, grazie ai tanti clienti che nei locali più moderni si trovavano un po’ fuori posto. Probabilmente, tra l’altro, perché le loro canzoni non sarebbero state sopportate molto volentieri, anche se poco alla volta la tradizione di trovarsi in queste vecchie stanze si andava ormai perdendo. I bar, tutto sommato, non furono un’innovazione, ma si sostituirono sostanzialmente a quelli che erano definiti caffè, luoghi pubblici decisamente più eleganti, frequentati da una clientela appartenente ad un elevato ceto sociale e dunque adatti anche alle donne.

Qui si consumavano soprattutto caffè e cioccolata calda, e dai loro locali si sprigionava il gradevole aroma della bevanda preparata con i pregiati chicchi, non certo l’aspro odore di vino che si allargava per diversi metri attorno ad un’osteria.

I caffè, però, erano presenti solamente nelle città, mentre nei paesi è solo da pochi decenni che le osterie, perdendo poco alla volta le loro caratteristiche tradizionali, si sono trasformate in bar, cambiando anche il tipo di clientela. Contemporaneamente, la fòrmica ed il metallo, più eleganti e più facili da pulire, hanno sostituito il vecchio legno di tavoli e sedie, ricoperto da strati decennali di unto e sporco. Un rinnovamento fin da subito apprezzato da tutti, anche associato a moderne macchine per il caffè e a nuovi tipi di bevande, alcoliche e non.

Ci sono tante storie che si raccontano sulle osterie, come il fatto che quando certi avventori erano già ubriachi si iniziasse a servire loro del vino più scadente. Oppure che certi giocassero a carte con il coltello piantato sotto il tavolo, pronti a saldare subito il conto con qualche baro. Forse più fantasia che realtà.

Di tanta gente si sapeva che si era rovinata il patrimonio, costituito non da denaro, ma dalla propria cascina e dalla terra, per pagare debiti di gioco, che anche senza parole scritte andavano comunque onorati.

La poesia malinconica del ricordo di queste vicende non può finire qui, se si pensa ai tanti nomi di fantasia, a volte anche esotica, che avevano questi locali. Denominazioni ancora oggi insuperate da quelle degli innumerevoli bar esistenti, che in confronto appaiono freddi, paradossalmente quasi anonimi. Nomi che oggi ci danno un senso di nostalgia: in molti casi potevano essere stati usati non solo per decenni, ma per secoli. Pensando a Corona di Ferro, Aquila Nera, Duecavalli, Leon d Oro, Tre Scalini, TreStelle, Del Moro, Del Falcone, Del Riposo, e a tanti altri ancora, la mente galoppa verso fantasie da mille e una notte. C’è poi il nome Cantina della Pace che fa un po sorridere, immaginando quante discussioni erano scoppiate tra i tavoli soprattutto per motivi di gioco, sfociate non solo in risse, ma addirittura in accoltellamenti.

Le insegne ormai scomparse, insieme alla storia di questi punti di ritrovo, spiccavano anche nei paesi, e perfino un Comune di circa mille abitanti aveva non meno di quattro o cinque osterie.

A volte il locale era anche solo una stanza dell abitazione, come avveniva in paesi o borgate di montagna, e un normale armadio di casa era sufficiente a contenere piatri, bicchieri e i pochi liquori disponibili.

 

Osterie nel sottosuolo: la Crota Paluch

 

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Ecco, dai ricordi di Vittorio Messori, una osteria situata in un profondo crottone, la Crota Paluch.

“A proposito di operai o, se vuoi, di «proletari». Mi viene in mente che, proseguendo per Via Venti Settembre in direzione di Porta Nuova e restando sullo stesso marciapiede di destra, poco prima di arrivare al cinema Reposi (il non plus ultra della modernità, resta incerta la pronuncia, su cui si discuteva: Rèposi o Repòsi?), in un vecchio edificio poi abbattuto, su una porticina stava scritto «Crota Paluch».

Che significasse "Paluch" non l'ho mai saputo. So che, varcando la porticina, la "crota", la cantina, c'era davvero, al fondo di un paio di rampe di ripide scale. Un'osteria incredibile, ma non di quelle finte, folkoristiche, non un locale furbo e ipocrita come i tanti che sono venuti molto dopo, tipo le «hostarie» per turisti a Roma o Firenze.

Era una bettola autentica, sopravvissuta non so come nel centro elegante, e dove i «tomini elettrici» e le "anciue al vert", le acciughe al verde, si accompagnavano a barbera e, soprattutto, a grappa, tantissima grappa, per la quale la "Crota" era famosa.

Tra i ricordi che ormai pochi torinesi possono esibire c'è anche questo: essermi affacciato, curioso e un po' timoroso, da quelle scale e avere intravisto - nel fumo delle Alfa e delle Nazionali, fumo che non so che sfogo trovasse, in un sotterraneo senza finestre - la folla di popolani veri, che al massimo venivano dal Monferrato e dal Vercellese, non ancora dalla Sicilia.

Né addirittura, cosa del tutto impensabile, dal Maghreb o dalle Ande, che conoscevamo soltanto perché De Amicis le aveva legate agli Appennini nel suo «racconto mensile».

 

fonti:

Vittorio Messori, Il mistero di Torino, versione eBook, posiz. 67,5

 

Le prime residenze consolari a Torino: ovvero le piole della veja Turin

 

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La "piola" a Torino è la vecchia osteria, un posto dove bere un bicchiere di Barbera, mangiare un uovo sodo, magari un friciulin (le frittelline), leggere il giornale, giocare a carte con i vecchi. In città ce n'è più poche, ché ora è tutto un fiorire di montaditos e Starbucks, ma qualcuna resiste. Al tempo di Emanuele Filiberto, mancando a Torino palazzi in grado di ospitare rappresentanze diplomatiche, queste venivano alloggiate nelle piole, presso cui il Duca si recava a pranzare con gli ospiti in segno di amicizia e di stima per il loro Paese.

 

“A metà del Vicolo delle Asine c'era una breve discesa con un piccolo spiazzo dove si teneva il mercato degli animali. Il vicolo era squallido e lercio - mancava solo che vi aprissero le loro botteghe i beccamorti - ma la gargotta era a buon mercato. Fuori non aveva nessuna insegna, ma evidentemente era ben conosciuta, perché gli avventori rigurgitavano già a quell'ora, al primo imbrunire: operai, suonatori, rivendugliole di Porta Palazzo, giocatori, sacrestani, lacché, macellai, soldati. Vi si entrava per un rozzo usciale con l'impannata di tela incerata. L'ambiente era male illuminato dalla luce rossastra di una lucerna bisunta di ferro che pendeva dal soffitto per un regolo di legno, ed era saturo di fumo di pipe, odor di cipolla fritta, afrore di vino, frastuono di voci e tonfi. La padrona era una vedova con due figli giovani, un maschio e una femmina, che correvano senza sosta tra i tavoli carichi di piatti, richiamati a gran voce dagli avventori.”

(Descrizione di una piola tipica di fine Settecento, dal libro di Luigi Pietracqua, La sposa dl’ebanista (1891)

 

Il più antico albergo di Torino

 

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Nei pressi del Palazzo di Città e non lontano dal tribunale ormai dismesso in favore della nuova cittadella giudiziaria c’è un albergo adatto a chi preferisce le atmosfere del tempo andato ai comfort e ai lussi tecnologici degli hotel a cinque stelle di ultima generazione. È l’Antica Osteria della Dogana Vecchia, il più antico tra gli alberghi tuttora in funzione a Torino. Alla fine del Settecento sorgeva, con il nome di Dogana Nuova, nei pressi delle mura nella zona dove venivano effettuati i controlli doganali. Era la tipica locanda alla quale facevano capo i servizi di posta, dove trovavano alloggio i viaggiatori che arrivavano a Torino per affari di stato e commerci, oppure attirati da eventi artistici, culturali, religiosi o dinastici che si svolgevano nella capitale del Ducato. Oggi l’albergo si trova nel cuore della città, si può facilmente raggiungere anche a piedi attraversando i vicoli del Quadrilatero romano, è servito perfettamente dai mezzi pubblici, ha un ampio parcheggio per chi invece gira la città in automobile, e garantisce di accogliere anche i piccoli animali. L’esterno ha l’andamento signorile e regolare delle facciate barocche del quartiere, l’interno, dalle proporzioni riposanti, ha una grazia antica.

La curiosità più accattivante è la targa commemorativa che ricorda il passaggio di Mozart alla Dogana Vecchia dal 14 al 30 gennaio del 1771. Il musicista quindicenne, insieme al padre Leopold, nel corso del suo primo viaggio in Italia, si era recato in quell’anno a Torino per assistere al Teatro Regio alla rappresentazione de LAnnibale di Torino di Giovanni Paisiello e visitare la scuola di violino locale, assai rinomata, dove si stava facendo le ossa Giovanni Battista Viotti. Un bel racconto di Laura Mancinelli, Amadé (Einaudi, 1994), rievoca la tappa dei Mozart alla Dogana: «Mentre la neve imbianca l’austera città, Amadeus o Amadé incontra la bellissima fanciulla Rosa, e il suo cuore si scalda». Da quel giorno, nell’invenzione letteraria, il fanciullo prodigioso è consapevole di diventare un uomo. Se siete fortunati, o semplice-mente previdenti prenotando per tempo, potrete chiedere di dormire nella suggestiva Suite Mozart dell’albergo, a un prezzo più che equo. Oltre all’ospite più amato, altri personaggi illustri sono transitati alla Dogana, che ne va giustamente fiera. Giuseppe Verdi, che si recò due volte a Torino per motivi politici: per incontrare Vittorio Emanuele II nel 1858 enei 1861 per assistere, da deputato, alla proclamazione del Regno d’Italia. Prima di lui, anche Napoleone Bonaparte, da primo console, fu ospitato nell’albergo dopo la battaglia di Marengo nel 1800. E su un’altra iscrizione si legge che: «La sera del 2 settembre 18 2 7 il canonico Cottolengo assisteva in questa casa una povera ammalata forestiera e, scosso da infinita pietà per le sventure umane, divampava in quell’anelito di bene che diventò un prodigio quotidiano nella piccola casa della Divina Provvidenza».

Chi vuole aggiungersi a questa lista davvero eccellente, non se ne pentirà. Dopo aver riposato sotto lo sguardo di Mozart, ritratto in giacca rossa e parrucca d’ordinanza, dopo aver consumato l’ottimo buffet della prima colazione, è consigliabile fare due passi nella piazza del Municipio, che ai tempi della Dogana si chiamava piazza delle Erbe. Spesso alla domenica contadini e aziende agricole allestiscono banchetti di prodotti agricoli. Non solo erbe, ma anche biscotti caserecci, miele, formaggi e fiori. Come ai vecchi tempi del mercato.

 

Il Santo Zabaglione

 

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Pasquale Baylon, di origine spagnola (1540-92), è considerato il patrono dei cuochi e, in particolare, dei pasticcieri, ricordato soprattutto nella chiesa torinese di San Tommaso, sull’angolo di via Pietro Micca con via San Tommaso, in cui si conserva la sua statua lignea. Una raffigurazione del santo patrono è pure al Monte dei Cappuccini e una si può ammirarla anche nella pala d’altare alla Madonna della Divina Provvidenza, in Borgata Parella. Pasquale Baylon è per i torinesi San Bayon,da cui deriverebbe san Buglione, zabaione o zabaglione, dolce liquido, anche se piuttosto denso, ottenibile dall’uovo fresco con raggiunta d’una buona dose di Marsala. Lo zabaglione viene impiegato, ma senza zucchero, come salsa che può accompagnare un buon piatto di selvaggina.

 

Tra un vassoio di bignole e un bicchiere di ratafià: la pasticceria dove nacque la Società Torino Calcio e altri caffè storici di Torino.

 

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I caffè erano un centro fondamentale della vita di Torino, che non possedeva club al modo inglese, ma piuttosto seguiva il modello dei cafés francesi in cui si riunivano artisti, intellettuali, politici, a cui la città aggiungeva, col suo pragmatismo anche industriali, appassionati di automobile o di sport. Nei caffè si fece il risorgimento. Nei caffè nacquero imprese come la Fiat. Nei caffè si crearono squadre storiche di calcio. La Società Torino Calcio nasce nel Caffè Norman, anchra esistente in via Cernaia. Il conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, uno dei fondatori della Fiat insieme a Giovanni Agnelli aveva un vivo interesse per la meccanica. A Torino frequentava assiduamente il caffè di madame Burello, dove conobbe alcuni aristocratici appassionati di meccanica e di automobilismo. Alcuni suoi progetti – aveva anche alle spalle alcune iniziative imprenditoriali – arrivarono alle orecchie di Giovanni Agnelli.

 

Caffè Al Bicerin

Il caffè preferito da Camillo Benso Conte di Cavour è aperto fin dal 1763. In quell’anno, l’acquacedratario (venditore di acqua cedrata) Giuseppe Dentis aprì il piccolo locale in piazza della Consolata dove, oltre alle classiche bevande dell’epoca come la limonata e la cedrata, vendeva alcune delizie esotiche come il caffè, cioccolata e tè. All’epoca si trattava ancora di un modesto locale, ma a metà Ottocento fu arricchito da tavoli in legno e marmo, boiseries di legno decorate da specchi, vetrinette, colonnine e capitelli. In questa rinnovata ed elegante atmosfera nasce una delle bevanda simbolo del capoluogo piemontese, il Bicerin. All’inizio il rito del bicerin prevedeva che i tre ingredienti fossero serviti separatamente, ma già nell’Ottocento vengono riuniti in un unico bicchiere e declinati in tre varianti: pur e fiur (simile all’attulae cappuccino), pur e barba (caffè e cioccolato), e quella servita ancora oggi ‘n poc ‘d tut (ovvero “un po’ di tutto”) con tutti e tre gli ingredienti. Il Caffè Al Bicerin custodisce la ricetta segreta dell’originale bicerin. Oltre al Conte di Cavour, il locale ebbe tra i suoi clienti personaggi come Dumas, Puccini, Nietzsche, Calvino e Gozzano.

Indirizzo: piazza della Consolata, 5 – 10122 Torino

Caffè Fiorio

Nel 1780 apre, nella Contrada Po (antico nome di via Po), il Caffè Fiorio fin da subito frequentato da aristocratici e alti ufficiali. Tale frequentazione altolocata valse al Caffè Fiorio il soprannome di “Caffè dei Machiavelli” o “Caffè dei Codini”. Tra i suoi frequentatori ci furono Urbano Rattazzi, Massimo D’Azeglio, Camillo Benso Conte di Cavour, Giacinto Provana di Collegno, Cesare Balbo, Giovanni Prati, Santorre di Santarosa e anche Carlo Alberto. In questo locale nacque anche il cono gelato da passeggio.

Indirizzo: via Po, 8 – 10121 Torino

Caffè San Carlo

Nel Salotto di Torino dal 1822 è aperto il Caffè San Carlo, originariamente chiamato Caffè di Piazza d’Armi poiché la piazza svolse quella funzione fino al 1817. Al contrario del Caffè Fiorio dove si riuniva la Torino conservatrice, il Caffè San Carlo fu presto uno dei più famosi ritrovi di intellettuali e patrioti di tutta la stagione del Risorgimento. Proprio per questo motivo fu chiuso più volte dall’autorità cittadina per sospetta attività sovversiva. Tra i suoi frequentatori più assidui c’erano Giovanni Giolitti, Francesco Crispi, Alexandre Dumas (figlio), Antonio Gramsci e l’ammiraglio Cagni che, insieme al Duca degli Abruzzi Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, qui progettò nel 1899 la spedizione in Antartide con la nave Stella Polare. Nel ‘900 prese il nome di Caffè San Carlo e continuò ad essere un importante ritrovo per intellettuali e artisti dell’epoca come Benedetto Croce, Edmondo De Amicis, Luigi Einaudi, Piero Gobetti e Felice Casorati.

Indirizzo: piazza San Carlo, 56 – 10121 Torino

Pasticceria Confetteria Stratta

Rimaniamo in piazza San Carlo che, fin dal 1836, ospita un altro dei più antichi bar di Torino. Stiamo parlando della Pasticceria Confetteria Stratta. Il locale fu aperto dalla ditta “Reina e Stratta pasticceri”, attiva dal 1858, come vetrina delle proprie creazioni dolciarie. Fu uno dei primi negozi ad avere l’installazione dell’illuminazione a gas all’esterno. Divenuto presto un importante punto di ritrovo della borghesia e della nobiltà torinese, da Stratta era possibile trovare insieme alla pasticceria anche vini scelti e la loro vasta produzione di cioccolato.

Indirizzo: piazza San Carlo, 191 – 10121 Torino

Caffè Baratti & Milano

Situato nella bellissima Galleria Subalpina, il caffè storico Baratti & Milano ha festeggiato nel 2018 i suoi 150 anni di attività. Il locale fu aperto nel 1958 in via Dora Grossa 43 per poi trasferirsi nella sua attuale dimora nel 1875. Lo storico bar torinese deve il suo nome ai due confettieri canavesani Ferdinando Baratti ed Edoardo Milano. Qui, il signor Baratti creò il primo cremino della storia che ben presto diventò, insieme al gianduiotto, uno dei cioccolati più famosi e apprezzati di Torino e d’Italia. Il locale diventò presto luogo di ritrovo di intellettuali e della borghesia cittadina diventando talmente tanto importante da ricevere la qualifica di “Azienda fornitrice ufficiale della Real Casa”.

Indirizzo: piazza Castello, 10 – 10123 Torino

Caffè Platti

Il Caffè Platti di Torino è aperto sin dalla seconda metà dell’Ottocento. Più precisamente fu aperto nel 1870 come liquoreria Principe Umberto e nel 1890 venne poi rilevato da Ernesto e Pietro Platti. Nei suoi quasi 150 anni di storia, il Caffè Platti le preziose sale in stile barocco e in art decò hanno ospitato importanti personalità come Luigi Einaudi, Natalia Ginzburg e Cesare Pavese.

Indirizzo: Corso Vittorio Emanuele II, 72 – 10121 Torino

pasticceria peyrano-pfatisch

A questo punto, prima di proseguire, è necessaria una digressione intorno al nome del pasticcere dall’origine bavarese. Infatti, sotto altre arcate, i portici di via Sacchi al numero 42, non bisogna perdere la visita alla pasticceria-madre fondata da Gustavo Pfatisch e collocata in un bell’edificio liberty di Piero Fenoglio del 1903, dalle scale riccamente decorate in stile floreale. Gli abitanti del quartiere sostengono che questa è l’unica vera confetteria che ha diritto di fregiarsi del nome del fondatore e, soprattutto, che qui i dolci sono incomparabilmente migliori che in qualunque altro posto. L’interno del negozio, rimasto intatto dalla fondazione nel 1926, ha arredi di noce con specchiere, piani di cristallo, banchi di marmo, lampadari di Murano e vetri givré alle vetrine. Nel seminterrato il fondatore aveva attrezzato una fabbrica che produceva cioccolato partendo dalla tostatura del cacao, e che ora, con le vecchie macchine ripristinate, rappresenta un perfetto museo del cioccolato. Appena defilato rispetto alle sontuose pasticcerie del centro, questo laboratorio (dichiarato locale storico d’Italia) è meno conosciuto di altri dal pubblico, ma in compenso è frequentato dalla vecchia nobiltà, da scrittori e giornalisti buongustai e talvolta usato come set per fiction televisive.

Indirizzo: Via Sacchi 42

caffè mulassano

Sotto i portici di piazza Castello incontriamo il piccolo e raccolto caffè Mulassano, anch’esso amato da Gozzano, che sicuramente vi avrà gustato quella che agli inizi del Novecento era la novità gastronomica del momento. Al fondatore del locale si deve infatti l’invenzione dei tramezzini che resero celebre il caffè in tutta la città e che ancora oggi ne fanno la fama e la fortuna. Accolti negli spazi di stile Art Nouveau e Déco, che ospitarono anche i Savoia e furono ritrovo di artisti e attori del vicino Teatro Regio, si può gustare un ottimo aperitivo accompagnato dagli impareggiabili tra tramezzini. Peccato che i tavolini siano pochissimi, date le piccole dimensioni del locale.

Indirizzo: Piazza Castello 15

confetteria avvignano

In piazza Carlo Felice, ricca di marmi e stucchi, la confetteria ha l’intemo curato dall’antiquario Luigi Quaglino intorno al 1920. Forse più di altri negozi del settore, infonde l’idea storica che noi passiamo ma il tempo no, si è fermato. I barattoli in vetro, i cristalli che proteggono le “confetture”, porgono un cocktail di colori, un amalgama di gusti, e la clientela pare sempre la medesima, in un’illusione ottica, nel succedersi delle generazioni, così differenti, l’una dal l’al tra.

Indirizzo: Piazza Carlo Felice 50

Pasticceria Giordano

In piazza Carlo Felice, a due passi dalla stazione di Porta Nuova, questa pasticceria colpisce per la decorazione dei fiori intagliati nell’insegna, mentre l’interno, prezioso e raccolto, è in legno di noce; specchi e decorazioni dorate riprendono i motivi della facciata. È noto il simbolo di questa pasticceria, la graziosa olandesina, dipinta sul vetro, uno dei marchi più noti di Torino.

Caffè Torino

Un po’ più recente rispetto agli altri locali storici, il Caffè Torino fu inaugurato agli inizi del Novecento. Anche qui in un’atmosfera di altri tempi, tra marmi pregiati e lampadari sontuosi, potrete gustare alcune delle tradizionali delizie torinesi come ad esempio i gianduiotti.

 

Premiata Drogheria Lavazza, 1895: caffè di tutto il mondo a Torino

 

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Se si scorre l’elenco dei principali Paesi produttori di caffè, si incontrano molti Paesi in via di sviluppo, concentrati soprattutto in Africa sub-sahariana, America del Sud e Asia Orientale, con Brasile, Vietnam e Colombia che occupano i tre gradini del podio. Quando invece si sceglie di leggere l’elenco dei principali Paesi esportatori di caffè per valore (in dollari statunitensi), la geografia di questo prodotto muta radicalmente: sebbene il podio resti invariato, subito al di sotto della terza posizione si incontrano tre Paesi (Germania, Svizzera e Italia), che non figurano in alcuna posizione della prima graduatoria. Così l’Italia detiene il 5% delle esportazioni mondiali di caffè, senza produrne nemmeno un chicco.

un primato tutto italiano

Considerando le sole capsule per macchine espresso, la quota dell’Italia nel mercato mondiale arriva a circa il 35%. La ragione di queste differenze risiede nell’industria della trasformazione del caffè, molto sviluppata in Italia, che riesporta gran parte della materia prima lavorata. Marchio storico di questa industria è Lavazza, azienda fondata nel 1895, quando Luigi Lavazza (nato a Murisengo, nell’Alessandrino 36 anni prima) apre a Torino la Drogheria Lavazza, specializzata nella vendita di caffè pregiati provenienti da tutto il mondo.

quando un’intuizione fa la differenza

All’epoca il caffè veniva venduto e consumato per singola origine, ovvero ciascun pacchetto di caffè conteneva macinato proveniente da un unico Paese. Di Luigi Lavazza fu l’intuizione di creare, a partire dal 1910, delle miscele (come si faceva già per i tè), mescolando caffè provenienti da Paesi diversi in proporzioni suggerite dallo studio dei diversi sapori. In origine questa tecnica ebbe motivazioni squisitamente economiche: l’utilizzo di miscele, infatti, rendeva per il venditore meno rischioso il commercio di un prodotto, che, per ogni singola origine, era soggetto a forti oscillazioni di quantità prodotte e di prezzo a causa delle variazioni meteorologiche da un anno all’altro. Le miscele, tuttavia, si rivelarono molto gradite ai consumatori, al punto da soppiantare in breve tempo la vendita di caffè di origine singola.

anni bui

Nel frattempo, la Lavazza, per incrementare le vendite, iniziò ad avvalersi della spedizione postale di cataloghi e alla drogheria fu annessa una torrefazione, per trattare direttamente i chicchi grezzi acquistati.

La Grande Guerra segnò una battuta d’arresto sia per le vendite di caffè, sia per le attività della famiglia Lavazza, che riuscì comunque a mantenere in vita la drogheria e l’attività di commercio di caffè, al punto che nel 1927 Luigi Lavazza, con la moglie e i figli, fonda la Luigi Lavazza S.p.A. con un capitale di 1.500.000 lire.

Gli effetti negativi della prima guerra mondiale sembravano ormai alle spalle, ma il peggio doveva ancora arrivare: la Grande Depressione del 1929, le sanzioni economiche imposte all’Italia nel 1935 a seguito dell’invasione dell’Etiopia e, infine, la Seconda guerra mondiale, segnarono gli anni più bui per la Lavazza, come dimostra la tabella 1, che riporta i saldi del conto economico (utili) della società in alcuni di quegli anni.

L’impatto delle sanzioni post 1935 è molto evidente e la capacità della famiglia Lavazza di ripianare sistematicamente le perdite e di traghettare l’azienda fuori dalla seconda guerra mondiale ha qualcosa di quasi eroico, soprattutto se si aggiunge che proprio in quegli anni si verifica il primo avvicendamento ai vertici dell’azienda: nel 1936 Luigi si era ritirato dagli affari, lasciando la guida della Lavazza ai figli.

l’arte di anticipare il mercato

Gli anni dal 1946 (caratterizzato dalla morte del novantenne fondatore) ai primi anni Sessanta non furono particolarmente felici, furono però caratterizzati da una delle tante innovazioni che nel tempo hanno portato al successo internazionale dell’azienda: il caffè confezionato sottovuoto in lattina, venduto con il marchio Paulista.

Gli italiani, abituati al caffè sfuso si rivelarono molto resistenti al nuovo prodotto e un’indagine di mercato del 1962 rivela che solo il 7,2% dei consumatori acquistava caffè preconfezionato, mentre gli altri preferivano quello sfuso. I costumi sarebbero cambiati, ma nel frattempo l’innovazione introdotta non portava grandi benefici. Fortunatamente, l’azienda trasse comunque vantaggi dalla forte crescita dei consumi di caffè nella Penisola, passati da 1,1 kg pro-capite del 1951 agli oltre 3,3 di venti anni dopo.

Nel 1957, tre anni dopo la nascita della tv, inizia Carosello. Lavazza fa il suo esordio nel 1965 con Caballero e Carmencita, protagonisti di un’ironica e surreale telenovela, “Carmencita sei già mia, chiudi il gas e vieni via!”

il felice incontro con armando testa

Fondamentali per la crescita della Lavazza furono in quegli anni gli investimenti pubblicitari, che, oltre ai tradizionali manifesti e volantini, riguardarono massicciamente la televisione. Dal 1957 la Lavazza iniziò in questo ambito la collaborazione con lo Studio Testa e il Carosello Lavazza, con personaggi indimenticabili come Carmencita e Caballero, entrò nelle case degli italiani, in cui il nuovo mezzo di comunicazione si stava rapidamente diffondendo. Tramontata l’epoca di Carosello, la comunicazione dell’azienda seppe rimanere al passo con i tempi e i nuovi testimonial del marchio furono volti notissimi della televisione italiana, a cominciare da Nino Manfredi.

rete, innovazione e controllo

L’innovazione in campo commerciale è stata in effetti, fin dalle origini dell’azienda, uno dei principali punti di forza di Lavazza, che ha sempre saputo essere all’avanguardia da questo punto di vista. Già all’inizio del XX secolo la società disponeva di depositi dislocati nei principali centri urbani italiani, da cui venivano riforniti i centri minori, riducendo i tempi di attesa per i clienti e i costi di spedizione. Altro vantaggio di questo sistema era la possibilità di raggiungere i piccoli negozi e i supermercati, aggirando la distribuzione all’ingrosso, riducendo i costi di intermediazione e mantenendo contatti diretti con i venditori finali. Questo dava alla direzione aziendale la possibilità di monitorare in tempo quasi reale la domanda effettiva del mercato, correggendo di conseguenza l’offerta e gli invii di caffè ai diversi depositi.

un’altra scommessa vinta

Gli investimenti in innovazione non hanno però riguardato solo l’ambito commerciale. Nel 1989 la Lavazza rileva la UNOPER e inizia a produrre direttamente macchine per il caffè espresso; le vendite di questo prodotto passano dalle 130.000 del 1993 all’oltre milione di oggi e rappresentano un’altra scommessa vinta dalla Lavazza, che intanto, nel 1982, aveva iniziato la propria internazionalizzazione, inaugurata con l’ingresso in Francia, e proseguita con l’apertura verso l’Europa Occidentale e gli USA, per giungere, oggi, a interessare oltre 90 Paesi. L’espansione internazionale dell’azienda è stata straordinariamente rapida, anche grazie alla forte valenza simbolica del caffè espresso come prodotto identitario della cucina italiana.

La Lavazza, guidata oggi dalla quarta generazione di una famiglia estremamente riservata e sui cui membri scarse sono le notizie in fatto di vita privata, vende dunque i propri prodotti in 90 Paesi del mondo, impiega oltre 3.000 persone e ha sei stabilimenti produttivi: tre in Italia, uno in Francia, uno in Brasile e il sesto in India. Nel 2017 la società ha acquistato il gruppo canadese Kicking Horse Coffee, espandendo così le proprie attività in Nord America. Nel 2013 [dati AIDA] la Lavazza aveva una quota pari al 44,95% del mercato italiano del caffè e al 17,37% di quello europeo. La storia dell’azienda, iniziata in condizioni difficili e sotto i non migliori auspici, sembra oggi avviata verso un solido successo.

 

fonti:

https://rivistasavej.it/lavazza-caffe-allitaliana-in-tutto-il-mondo-1e9df3bd4375

 

Il Vermouth e i suoi fratelli: una storia fatta di liquori.

 

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Secolo di contraddizioni, il Settecento torinese, che inizia con i fasti virtuosi di Vittorio Amedeo II e finisce con i grigiori sonnolenti di Vittorio Amedeo III; ma anche secolo di novità destinate ad entrare nella storia della città. Sul piano delle edificazioni, vanno ricordati due teatri simbolo della vita sociale cittadina: il Teatro Regio, costruito nel 1740 su progetto di Benedetto Alfieri, e il Teatro Carignano, costruito dallo stesso architetto nel 1752 e, dopo un devastante incendio, ricostruito nel 1787 da Giovan Battista Feroggio. Distanti poche centinaia di metri, essi sono ancora oggi i due riferimenti della ricreazione colta della città, il primo tempio della musica lirica, il secondo dell’arte drammatica. Nel 1780, sotto i portici di via Po, nasce il Caffè Fiorio, uno dei centri pulsanti della futura Torino risorgimentale: tra le sedie rivestite di velluto rosso, gli specchi e gli stucchi si discute, si fumano sigari, si leggono gazzette e si bevono le due bevande tipiche della città, il bicerin e il vermouth.

Il bicerin (letteralmente “piccolo bicchiere”, che secondo alcuni sarebbe nato proprio nel caffè Fiorio) deriva dalle tradizioni della “cioccolata” in forma solida, di cui Torino ha il primato. Il primo ad eludere il monopolio degli Spagnoli e a portare in città fave di cacao è Emanuele Filiberto, e i suoi pasticcieri di corte si ingegnano a manipolare le fave per imitare la nuova bevanda, che all’epoca va tanto di moda tra l’aristocrazia europea. Nel 1678 una “patente” firmata da Giovanna Battista di Savoia-Nemours autorizza un cittadino torinese di nome Giovan Battista Ari a “vendere pubblicamente la Giocolata in bevanda nella presente Città per i prossimi sei anni”: in realtà, già da qualche decennio ci sono botteghe che servono la cioccolata liquida ed è probabile che qualche artigiano abbia cominciato a pensare alla realizzazione del cioccolato solido. Sicuramente a fine Seicento la produzione di cioccolata è avviata e gli artigiani torinesi ne producono 750 libbre18 al giorno, esportandola negli altri stati della Penisola e in Francia: alla stessa epoca risalgono i diablotin (“diavoletti”, ormai quasi introvabili sul mercato), una sorta di pastiglia di cioccolato a figura di rotella piana, progenitrice dei cioccolatini. Da queste tradizioni di alta pasticceria, nel corso del Settecento si sviluppa il bicerin, un miscuglio di cioccolata, caffè, latte e zucchero, servita bollente in un piccolo bicchiere con supporto e manico in metallo. Gli intellettuali e gli artisti che frequentano il Caffè Fiorio bevono il bicerin in mattinata, accompagnandolo con biscotti tipici, i torcet, i savoiardin, i crocio: tutti questi biscotti si chiamano genericamente “bagnati”, perché per ammorbidirli vengono immersi nel bicerin. Tra i più celebri estimatori del bicerin va segnalato Alexandre Dumas padre, che soggiorna a Torino nell’agosto 1852 e scrive: “Tra le belle e buone cose di Torino, non dimenticherò mai il bicerin, un composto di cioccolato, latte e caffè, che si serve in tutti i locali a prezzo relativamente basso” (per tutto l’Ottocento, il bicerin avrà un prezzo fisso di 15 centesimi, aumentati a 20 nel 1913 )19.

A differenza del bicerin, il vermouth ha invece una data e un luogo di nascita precisi: anno 1786, liquoreria Carpano in via della Palma (oggi via Viotti) angolo piazza Castello. L’inventore, Antonio Benedetto Carpano, è un artigiano ambizioso, che proprio in quell’anno ha rilevato la bottega dall’acquavitaro Luis Marendaz-zo. I suoi clienti sono nobili che si recano al passeggio coperto sotto i portici, professori universitari del vicino ateneo, professionisti che esercitano attorno al palazzo del potere regio, funzionari di corte, addetti ai ministeri, ufficiali: si tratta di un pubblico abbastanza raffinato per non essere soddisfatto da un banale bicchiere di vino bevuto fuori pasto e che, nel contempo, non vuole ingerire grappe o acquavite durante la giornata. Carpano sperimenta allora miscele che migliorino la qualità del vino e ne aumentino la gradazione, senza diventare superalcolici. Nasce così l’aperitivo vermouth, un vino liquoroso bianco o rosso con gradazione compresa tra i 16° e i 20°, aromatizzato con assenzio e altre erbe: ideale per essere bevuto prima del pranzo, sorseggiato tra una conversazione e l’altra.

L’origine del nome (assolutamente inusuale per la parlata piemontese) è sconosciuta: secondo alcuni deriva da un vocabolo tedesco che significa “assenzio”; secondo altri da veran (“sollevare”) e muth (“spirito” nel tedesco antico), e significherebbe dunque “sollevare lo spirito”. Certo è che il vermouth ha un immediato successo e Carpano si ingegna di trovare delle varianti: qualche anno dopo nasce così il “Punt e mes”, un vermouth arricchito da una correzione di amaro. Il nome deriverebbe dal fatto che la quantità della correzione è di “un goccio e mezzo”: nella ressa del bancone, gli avventori erano abituati ad alzare in direzione del liquorista un dito e poi fare con la stessa mano il gesto di mezzo; un punt e mes, nel dialetto torinese.

Il successo di Antonio Benedetto Carpano stimola la concorrenza. I primi ad imitarlo sono i Cinzano, una famiglia di distillatori originari di Pecetto, nella collina meridionale torinese. Già nel 1707 un Giovanni Cinzano ottiene licenza per distillare acquavite e produrre rosolio con la condizione di vendere il prodotto soltanto a Precetto e Torino: attorno al 1760 due suoi discendenti, i fratelli Carlo Stefano e Giacomo, vengono ammessi alla corporazione dei “maestri acquavitai”, a testimonianza di un’attività di livello che si tramanda da una generazione all’altra; all’inizio dell’Ottocento altri due fratelli Cinzano, Francesco e Giacomo, aprono bottega in via Dora Grossa (oggi via Garibaldi) e cominciano a produrre la loro varietà di vermouth. Qualche anno più tardi un’altra imitazione arriva da un’azienda creata a Pessione presso Chieri da Alessandro Martini e Teofilo Sola, cui successivamente subentra Luigi Rossi. La concorrenza è forte, ma la qualità dei prodotti è notevole e il mercato è abbastanza ampio da fare posto a più produttori: la Francia, in particolare, rappresenta uno sbocco fortunato per le esportazioni, tanto che ancora negli anni Cinquanta del Novecento a Parigi si sentiva chiedere “un Torino” per indicare il vermouth. La dimostrazione della validità dell’invenzione è data dal fatto che le aziende fondate dagli acquavitari torinesi tra la fine del XVIII secolo e gli albori del XIX secolo, “Carpano”, “Cinzano”, “Martini&Rossi”, sono ancora oggi tra le più importanti del settore.

vermouth

Il vino aromatizzato più famoso. Il suo nome particolare ha due origini: la prima, tedesca, deriva dal termine “wermut”, che ricorda principalmente uno dei suoi componenti aromatici, l’assenzio, ovvero l’Arthemisia Absinthum, mentre la seconda si riferisce al nome italiano “Americano”, che deriva dal piemontese “vin amaricà” (vino reso amaro).punt e mes

È considerato, per molti versi, l’aperitivo “torinese” per eccellenza, di lunga tradizione. Nei cartelloni pubblicitari di Armando Testa, il re Vittorio Emanuele n e il conte di Cavour brindano con il Punt e Mes. Dalle 18 in poi, in via Roma, piazza San Carlo, piazza Castello, si assapora l’aroma del vermouth, con il “Punto e mezzo” di Carpano, successore del noto Merendazzo scomparso nel 1810.

Viriglio, che del Punt e Mes era un consumatore,di quel locale dice con tono enfatico, che non gli è consueto: «Là palpita in ciascuna ora del giorno il cuore dell’alcolismo torinese. È una specie di piccola California, un Transwaal, un Eldorado, un Perù; a quel banco, immutato nella forma antica, fra quei grembiali di carta, invenzione privilegiata di Maurizio (Maurizio Boeris, benemerito presidente della Società Italiana di Mutuo Soccorso fra giovani caffettieri, confettieri e liquoristi) si sono affollate quattro o cinque generazioni di aristocrazia delle arti, delle scienze, delle lettere, del blasone e dell’oro; è sfilata tutta la pleiade luminosa delle grandi figure d’Italia: Vittorio Emanuele n, Lamarmora, Brofferio, Rattazzi, Farini, Boggio, Tecchio, Minghetti, Cialdini, Garibaldi, Persano, Valerio».

l’elixir di china e gli altri elisir e “acque”

Dice una guida turistica di fine Ottocento che “una bibita assai in uso, che serve a corroborare lo stomaco prima del pranzo, è quella del vermouth ed elixir di china, che si fabbrica a Torino, e di cui vi ha molto consumo all’estero.

Torino era rinomata per i suoi Elixir di China, una preparazione officinale a base di estratti alcolici di corteccia di China calisaia originariamente utilizzata, tra fine Settecento e metà Ottocento, come farmaco nella lotta alla malaria. Ma si poteva anche bere un “Elisir di Caffè”, creato e diffuso durante la Prima Guerra Mondiale, quando il caffè “vero” era praticamente introvabile. Una pubblicità dell’ “Elixir Caffè” del Dottor Ottavio Botto-Micca di Lanzo Torinese veniva allora insignito con gran premio e medaglia d’onore e raccomandato dalle maggiori celebrità mediche. Se torniamo ancora più indietro nel tempo, troviamo ”L’Elixir di Lunga Vita del medico Tamet”, Morto, secondo una cronaca dell’epoca, all’età di 104 anni d’un calcio d’un cavallo mentre suo avolo morì all’età di anni 130, suo padre di 110 e sua madre di 107. Ed una ancora precedente, un acqua medicinale, che per lunghi anni godette di gran fama a Torino. Si trattava Dell’”Acqua Medicinale del Carmine”, che era preparata nel “Convento della Madonna del Carmine” dal frate Amedeo Rosso, morto nel 1792.

Ma se continuiamo a scorrere ancora più indietro nel tempo, l’interesse per alcune bevande diventa irresistibilmente curioso. Nelle case dei Torinesi era abitudine consolidata possedere “L’Acqua Bianca di Torino”, un particolare ed ormai perduto liquore che si preparava durante il Sei-Settecento a base di cannella, chiodi di garofano, noce moscata, zucchero e alcol. Oppure “L’Acqua D’Oro”, molto conosciuto e consumato ancora nelle famiglie della Torino della prima metà dell’Ottocento. Gli ingredienti erano l’angelica, cannella, chiodi di garofano, scorzette di limone, zucchero e alcol. Nel recipiente venivano messi sottilissimi fogli di oro zecchino, a quei tempi creduti altamente curativi. Tra i prodotti raccomandabili presenti in una pubblicità del 1930 dei Fratelli Grassotti di Rivarolo Canavese, antica Casa fondata nel 1872 in via Cristoforo Colombo al numero due, si fa menzione dell’”Acquavite Doree”. Si trattava forse di un tentativo di commercializzazione dell’Acqua D’oro nominata pocanzi? In un altro caso, con poco meno di quattro grammi di essenza di cedro e la stessa quantità di essenza di rosa e unendo un foglio d’argento per ogni bottiglia preparata, si otteneva così “L’Acqua D’Argento”. Innumerevoli comunque sono i tentativi di distillare “Elisir di Lunga Vita” nel disperato tentativo di prolungarsi l’esistenza o curare ogni malattia. Se ne potrebbero contare a centinaia tra manoscritti e pubblicazioni. Come la ricetta tardo-settecentesca per fare “LElixir Fino Composto dal Dottor Yemes Svedese”, che comprendeva, tra gli ingredienti, “L’Aloe Sucotrini”, (una pianta perenne delle liliacee, dalla quale si ricavava una droga medicinale purgativa), “L’Agarico” (una polvere cristallina ricavata da un fungo, sempre con proprietà purgative), genziana, china, rabarbaro e zafferano, la “Zeodaria”, i quali rizomi fornivano un liquido denso di colore verde, odore di zenzero e sapore amaro, ed infine il pezzo forte: “La Triacha fina di Venezia”, farmaco di origine antichissima, di preparazione e composizione complessa, si presentava come un bene comune: la carne di vipera, e veniva adoperato come antidoto contro ogni veleno. Dopo un periodo di particolare fortuna in età medioevale e rinascimentale, sopravvisse nella farmacia popolare fino ai primi decenni dell’Ottocento.

In tutto il Piemonte divenne noto il “Balsamo di Gerusalemme”, prodotto ancor oggi con ricetta segretissima dalla Farmacia Schiapparelli.

il bicerin

Quando Alessandro Dumas visitò Torino, alla fine di agosto del 1852, rimase colpito dal bicerin. Scrivendone più tardi in una lettera, ebbe a dire: «Fra le belle e buone cose notate a Torino, non dimenticherò mai il bicerin, eccellente bevanda composta di caffè, latte e cioccolato, servita in tutti i caffè a un prezzo relativamente molto basso». Dumas ci fornisce così la ricetta base del bicerin, che in piemontese significa semplicemente ‘bicchierino’. Per Alberto Viriglio il bicerin sarebbe figlio della “Bavarese”, bevanda composta dagli stessi ingredienti ma servita dolcificata da sciroppo, in grossi bicchieri. Il bicerin, di cui si è persa la moda, andava bevuto sino a mezzogiorno; dopo sarebbe stato fuori posto. Costava quindici centesimi; ne occorrevano però altri cinque se si chiedeva anche la stissa, ossia una goccia di cioccolato in più. Il tasson, bicchiere più grande, quasi una tazza, costava venticinque centesimi. Per intingere qualcosa nella bevanda vi sono prodotti di pasticceria dai nomi curiosi come Crocion, Torcet, Savoiardinza, Parisien, Brioss, Biciolan, Garibaldin e Michette. Piccole ghiottonerie piemontesi che stanno a mezza strada fra il biscotto, di vario tipo e dimensioni, e il cornetto, che a Torino però è più frequentemente indicato con il termine piemontese di briòss, dal francese brioche. Il bicerin ha dato il nome a un caratteristico locale torinese, Al bicerin in piazza della Consolata 5.

arquebuse

Liquore dalle origini d’oltralpe, l’inizio della produzione cominciò sicuramente in Francia e poi si diffuse in Piemonte e nelle regioni montane vicine, diventando una delle bevande alcoliche di punta della tradizione piemontese. Le prime fonti storiche risalgono alla fine del secolo XVII. Il termine Arquebuse cela più di un significato, uno dei quali risale all’uso curativo che aveva il liquore proprio sulle ferite da archibugio, ma anche alla sensazione di bruciore che si prova nello stomaco dopo averlo bevuto (la gradazione alcolica è comunque alta). Infatti, l’invenzione di questo liquore aveva prima di tutto scopi officinali, piuttosto che edonistici. L’ingrediente base della sua ricetta sono le foglie di tanaceto mischiate insieme ad un mix di erbe, come menta, salvia, iperico e camomilla. Le proprietà del tanaceto sono innumerevoli e molto benefiche, le foglie sono ricche di sostanze antidolorifiche e antibatteriche e apportano un buon contenuto in Vitamina C, manganese, tannini e polisaccaridi. Insomma, per il prossimo inverno una buona scorta di Arquebuse vi preserverà dai vari malanni di stagione!

genepì

Tipico liquore di montagna, compagno di sciate e ciaspolate degli amanti della neve, il Genepì ha origini antiche. Siamo verso la fine dell’Ottocento, quando la pianta aromatica inizia ad essere trasformata in liquore, anche in questo caso come medicamento per patologie infiammatorie. La pianta aromatica utilizzata per la preparazione del liquore cresce proprio tra i monti di Piemonte, Valle d’Aosta e valli Occitane delle province di Cuneo e Torino. Appartiene al genere Artemisia e conta circa 200 specie, anche se quelle utilizzate per produrre il Genepì sono solo tre: Artemisia Spicata, Mutellina e Glacialis. Il Genepì oggi è utilizzato in tanti modi, sia come aperitivo o cocktail, dove sprigiona le sue caratteristiche dissetanti, ma anche come bevanda calda, ideale come drink energetico e confortante.

ratafià

Lo strano nome di questo liquore ha una storia tutta sua molto curiosa. In passato i contratti venivano conclusi con una particolare dicitura latina “et sic res rata fiat”, che significa: “che la cosa sia valida”. Questa era la modalità con cui i notai validavano gli atti con la propria firma. Nel dialetto piemontese si è poi perso il collegamento con la lingua latina e il liquore ha assunto il termine “rata fià”, che letteralmente vuol dire “il gratta fiato”. Il ratafià è un liquore aromatizzato alla frutta prodotto in tutta Italia, ma con una diffusione maggiore soprattutto in Piemonte, Valle d’Aosta e Abruzzo. I ratafià piemontesi e valdostani hanno inoltre ricevuto il riconoscimento come PAT (Prodotto Agroalimentare Tradizionale). Esistono due tipologie di ratafià: una ricetta ha come base di partenza il vino (come ad esempio il tipico ratafià abruzzese), mentre la ricetta piemontese un infuso di frutta, erbe e spezie in alcol puro. Tipico infatti il Ratafià di ciliegie nere del Piemonte.

serpoul

Questo liquore rappresenta una nicchia di mercato, che si traduce nella produzione caratteristica delle valli sopra Pinerolo. Il suo nome deriva proprio dall’ingrediente principale della ricetta, il timo serpillo. Questa erba cresce spontanea ad elevate altitudini, fino a 2600 metri, è il parente più stretto del timo mediterraneo, utilizzato come erba aromatica in molte preparazioni culinarie. Il Serpoul viene prodotti con i piccoli fiori di color rosa dell’erba, dal profumo molto intenso. Vengono lasciati macerare in acqua, zucchero e alcol, che fa sì che i fiori rilascino poco a poco le loro proprietà aromatiche. Il liquore che si ottiene possiede una gradazione alcolica di 30 gradi, ideale oltre che come fine pasto, anche per cocktail e long drink.

altri liquori

Oltre a questi liquori citati, non possiamo non dimenticarci dell’Amaro San Simone, ottenuto da un mix di circa 34 piante ed erbe selezionate nei territori circostanti a Torino e provincia, il Bicerìn liquore, da non confondersi con la bevanda calda Bicerìn, a base di cioccolato (crema al Gianduja per la precisione) e il Nocciolino di Chivasso, preparato a partire da un infuso di nocciole piemontese.

 

Stufato di stambecco servito al caffè: una descrizione dei caffè di Torino a metà dell’Ottocento

 

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Dal libro di Guglielmo Stefani, Torino e i suoi dintorni (1852), prendiamo il seguente brano:

Molti sono i caffè in Torino cd alcuni assai magnifici c provveduti in gran copia di giornali; oggi se ne contano 150. Arredati con lusso straordinario, messi ad oro, a stucchi, a specchi grandissimi, a pitture; sono assai frequentati in tutte le ore del giorno e da tutte le classi di persone. Il bicchierino (misto di cioccolatte, latte e caffè) è la bibita prediletta della mattina: ministri, magistrati, professori, negozianti, fattorini, crestaie, venditori c venditrici ambulanti, campagnuoli, ccc., tutti spendono volentieri i loro tre soldi per refocillarsi economicamente l0stomaco. Alcuni caffè hanno sostituito alla fragranza dell’araba bevanda, quello degli stufati, degli intingoli, dei rostbcuf. Il caffè si è democratizzato esso pure associando al cuo nome quello di restaurant: anche questi Caffè Restaurant sono assai frequentati, specialmente sulle ore del mezzogiorno; c il Caffè del Cambio (in piazza Carignano) vede ogni giorno sedere sulle sue panche molti onorevoli deputati, i quali prima di recarsi nei loro stalli per discutere degli interessi della nazione vengono a provvedere agli interessi del loro stomaco; c quivi senza distinzione di partito si appigliano ad una o ad altra ristoratrice vivanda. Molte sono, c molto visitate, le birrerie che forniscono una birra nazionale eccellente. Il giuoco reale del trucco (bigliardo) è assai in uso, non trovandosi quasi contrada che non ne tenga aperto almeno uno, e non abbia numerosi gli accorrenti. V’ha un luogo di ritrovo pe’nobili in casa Viale, chiamato del Whist-club; ma manca un Casino, convegno e ricreazione di tutte le classi còlte della società, come v’ha in molte altre parti d’Italia, che serve così provvidamente a diffondere l’amore alla sociabilità e a stringere nuovi vantaggiosi legami d’interesse c di amicizia.

Alle ore undici di sera i caffè e le osterie si chiudono, le contrade restano pressoché deserte. La state si protraggono un po’ più. ma in generale il torinese ama coricarsi per tempo, ed è mattiniero al lavoro.

 

Le gastronomie torinesi

 

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Nel settembre del 218 a.C. Annibaie, attraversate le Alpi con esercito ed elefanti, cinge d’assedio ed espugna dopo tre giorni il villaggio di Taurinia, la futura Torino. La leggenda ci dice che migliaia di soldati affamati e non abituati ad alimenti derivati dal latte venissero conquistati dalle “tome” locali, che tanto piacquero loro da indurli a ritardare la partenza verso Roma e a fermarsi nella città. La voce popolare così la racconta: «Calà dal Mongineiver coi soldà pien d’aptit, diret a Roma, e l’ancrosià la rasa pe na toma», (sceso dal Monginevro diretto a Roma, con i soldati affamati, ha incrociato la razza per merito delle tome). Insomma, sembrerebbe che alcuni, sedotti dal formaggio locale, avessero deciso di fermarsi e metter su famiglia con donne torinesi. Quando si dice prendere qualcuno per la gola! Vera o falsa che sia la vicenda, rimane il fatto che i formaggi torinesi e piemontesi godono di una meritata fama che sembra risalire a oltre 2000 anni fa. Componente essenziale della gastronomia locale, vengono chiamate tome quelle forme che altrove prendono il nome di caciotta, e che qui sono prodotte in una varietà infinita di gusti: di mucca, di capra, di pecora, di latte misto, fresche, stagionate, ultra invecchiate. Talvolta messe sotto grappa o nel mosto, in grandi forme come in minuscole formaggette: i ben noti tomini bianchi, o con la “bagnetta” verde o rossi piccanti. E ogni casolare, villaggio e città ha la sua specialità.

La cucina torinese e piemontese si caratterizza per essere estremamente variegata e fantasiosa. Infatti, se ha assorbito i gusti e le usanze dei tanti invasori che hanno attraversato la regione nel corso dei secoli, ha anche conservato le consuetudini legate ai prodotti del proprio territorio, e insieme ha saputo rielaborare piatti nati da una cucina povera e campagnola tramutandoli in ricercate e raffinate prelibatezze. È il caso della finanziera, pietanza molto apprezzata a Torino e sicuramente nata in campagna per utilizzare le creste, i bargigli e le ghiandole strappate ai galletti quando venivano castrati per farne capponi. Anche i rinomati numerosissimi antipasti serviti caldi o freddi, che oggi vengono proposti in una sequela ininterrotta di portate, hanno origine da una antica povertà, quando all’ospite si offrivano resti di cibo conservati: sott’olio, in carpione, o fritti come nel caso del fritto misto piemontese. Sicuramente un momento di internazionalizzazione della cucina torinese si ebbe tra il Cinquecento e il Seicento, con i duchi Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele I i quali, dopo aver spostato a Torino la capitale e averne fatto il baricentro dei propri domini, vollero darle una impronta e una visibilità non solo politica e architettonica, ma anche gastronomica, accogliendo a corte cuochi e ricette di altri paesi, in particolare francesi.

Che la cucina torinese si sia conquistata la fama di essere tra le migliori nel mondo è risaputo. Quello che non tutti sanno è che la si può gustare non solo nei più famosi ristoranti, ma anche in negozi, che a Torino hanno il nome di gastronomie, specializzati nella preparazione di manicaretti, apparentemente (ma solo apparentemente!) a prezzi più accessibili.

Le gastronomie torinesi sono il tempio della gola e dei buongustai. Sono l’equivalente, in salato (ma anche loro propongono dolci e creme) delle migliori pasticcerie locali. Una delle capostipiti, Steffanone in via Maria Vittoria quasi all’angolo di piazza San Carlo, si presenta con vetrine irresistibili. Fondata nel 1866, come ricorda la sua insegna, ha retto a mode e a cambiamenti di gusti alimentari mantenendo inalterate le specialità che l’hanno resa famosa, come la finanziera e la celeberrima insalata russa (si vantano di essere stati tra i primi a proporla a Torino all’inizio del Novecento), oltre a una particolare leccornia: la lingua salmistrata cucinata secondo le antiche tradizioni. Alcune danno il meglio di sé in occasione delle festività natalizie e di fine d’anno. Sbriccoli, in corso Fiume, propone, tra le tante specialità, sformati di formaggio, tortini di verdure, insalate russe e capricciose, verdure in carpione, vol-au-vent di fonduta, gamberi e aragoste in salsa rosa, agnolotti e tortellini, e ovviamente i migliori formaggi, oltre a paté di salmone, prosciutto, cacciagione e fegato. A nostro parere uno dei più prelibati assortimenti di paté che la città possa offrire lo troviamo in una piccola non appariscente gastronomia in precollina, di fronte al ristorante I Birilli. Quello di fegato è indimenticabile. Provare per credere.

 

Perruquet: un negozio storico che ha chiuso di recente

 

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Perruquet, storica bottega e allevamento di vendita di uova e burro a Torino in via Barbaroux angolo via S. Tommaso ha chiuso nel novembre del 2018.

Negli anni ’60 serviva anche migliaia di persone al giorno. Una delle cose che hanno sofferto di più i Torinesi è indubbiamente la mancanza di due ingredienti fondamentali del loro vitto: il burro e le uova.

 

Come il grissino portò fortuna ad Amedeo II

 

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Come singolare forma di pane è legata alla tradizione gastronomica torinese e può vantare origini storiche sabaude. Nacque, in curiose circostanze, nel 1675, affilato, simile a un segmento di farina cotta. Quando a Torino venne alla luce Vittorio Amedeo II di Savoia quasi subito ci si rese conto delle sue condizioni molto delicate. Gracile - dicono i biografi - macilento, si dubitava che potesse crescere. Alla scomparsa del padre, Carlo Emanuele I, il bambino aveva ormai nove anni. La reggenza era passata nelle mani della madre, Maria Giovanna Battista di Nemours, preoccupata perché il figlio, destinato a un posto tanto in alto, sembrava così sofferente. Ne parlò con il medico di corte, don Baldo Pecchi di Lanzo, il quale pensò di rivolgersi a un “primario” piuttosto anomalo, il panettiere. Questi sentenziò che il ragazzo andava nutrito con pane friabile, ben digeribile. Antonio Brunero, così si chiamava il mastro fornaio, “panataio ducale” per l’occasione, si mise al lavoro e produsse il grissino.

Etimologicamente deriva da gherssa, che in piemontese vuol dire ‘filone di pane’, e divenne gherssin, italianizzato in glissino, perché minuto, allungato. Un diplomatico lo descrisse: «Un pane di forma stravagante, lungo più di un braccio e mezzo, e sottile, a similitudine di ossa di morti». Il paragone non è allettante ma rende bene l’idea. Qualcuno capovolse poi il raffronto in senso positivo asserendo che il grissino, anche se pare un osso di morto, serve bene a dare un po’ di tono e fa “resuscitare”. In un primo tempo, forse per le circostanze in cui nacque, il grissino venne considerato da destinarsi alla mensa delle persone di rango. Per il popolo andavano benissimo le pagnotte. Così Il grissino divenne un raffinato pane di corte. Era puro fioretto di farina, purgato dal reprimo. Quello che veniva offerto ai normali clienti era invece misto, ossia due terzi di frumento e un terzo di segala, talvolta con l’aggiunta di una manciata di farina di mais. Il grissino aveva in origine una lunghezza corrispondente all’apertura delle braccia dell’artigiano che lo lavorava.

Les petits batons de Turin divennero celebri e Napoleone non appena li ebbe assaggiati ne ordinò un quantitativo per sé e per i generali che sedevano alla sua tavola. Bonaparte non era un buongustaio.

Si può pensare che i grissini gli piacessero anche perché, sofferente di ulcera allo stomaco, li digeriva meglio del pane. Che fosse rimasto soddisfatto se ne ha la prova dalla richiesta da Parigi di due grissinieri torinesi. I panificatori furono trovati e raggiunsero la capitale francese ma sembra che il risultato sia stato deludente. Il grissino non era all’altezza della sua fama poiché gli mancavano gli elementi-base delle sue proprietà: l’acqua e l’aria del Piemonte. Un corriere imperiale venne allora incaricato di raggiungere Torino, prelevare il carico di grissini e portarlo a Parigi.

Così ogni volta. Le mense di Corte vennero rifornite con buona regolarità. Alcuni tentativi di produne grissini sulle rive della Senna ebbero modesti risultati. Il “miracolo” riusciva soltanto a Torino, e da quel momento la città fu anche chiamata Grissinopoli.

Si disse che il grissino è “taumaturgico” e il termine, con l’esagerazione che racchiude, si ricollega alla guarigione del principe. Vittorio Amedeo, più tardi indicato con l’appellativo di Volpe Savoiarda, per la sua perspicacia, fu in grado di salvare il ducato e di sfuggire alle nozze combinate per lui dalla madre e dalla sorella di questa, sovrana del Portogallo, auspice il Re Sole. Volevano dargli per moglie l'erede al trono portoghese: un sistema per allontanarlo da Torino e impedirgli scelte politiche che a Parigi non riuscivano gradite.

Quando navi portoghesi giunsero a Nizza per “prelevare” lo sposo, Vittorio Amedeo si ricordò di essere stato per tanto tempo gracile, malato, e annunciò di essere indisposto. Così non poteva mettersi in viaggio né prendere moglie.

II “miracolato del grissino” doveva essere più tardi protagonista, accanto al principe Eugenio, della “battaglia di Torino” che liberò la città dai francesi, dopo il sacrificio di Pietro Micca. Logico che un prodotto del genere prima o poi sfondasse e uscisse da una cerchia ristretta per essere degustato dai più. Così i simpatizzanti del grissino divennero migliaia e nell’imbandire le tavole si ponevano pagnotte e grissini in bella mostra affinché i commensali si servissero a piacimento.

 

Il ristorante del Cambio, il posto preferito da Cavour

 

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In piazza Carignano 2, a fianco del Teatro Carignano, quasi di fronte al palazzo che ospitò il Parlamento, prima subalpino e poi italiano, non appena nacque l’Italia unita, questo ristorante appartiene allo scenario storico torinese. Nel suo interno davvero si respira la storia: il posto preferito da Cavour, il fazzoletto bianco che. dalla finestra del Palazzo Carignano, richiamava il conte d’urgenza al suo ufficio, i baffi di re Vittorio, D’Azeglio, Alessandro Manzoni, un mondo, come i piatti preparati e poi mandati in prefettura per qualche ospite di riguardo che non poteva uscire dal “Palazzo del Governo”. Cominciò tutto con il trìncotto, come si legge nelle istorie più remote legate a Torino: «nell’isola San Pietro - tra l’attuale piazza Carignano, via Cesare Battisti, via Principe Amedeo e via Roma - si trovava l'antico Trincotto Rosso; i “trincotti” erano dei locali a forma rettangolare destinati ai giocatori di pallacorda e a spettacoli di compagnie comiche. Vicino al Trincotto Rosso si trovava una bottega di acquavitaro; se ne reperisce menzione nel contralto di sublocazione fatto da Roberto Evans il 22 agosto 1721 a Gio Marco Benedetto per “distribuire qualonque sorta di rinfreschi in occasione di opere, commedie ed altre fontioni pubbliche nel teatro” ».

Roberto Evans era inglese, professore di ballo da corda e capo di una compagnia di ginnasti, al quale il principe Luigi Amedeo di Savoia Carignano, proprietario del teatro, aveva affittato il Trincotto Rosso. La gestione passò alla Nobile Società dei Cavalieri, che nel 1751 fece notare al principe di Carignano le precarie condizioni del vecchio trincotto.

Con patenti del 30 giugno 1752, Carlo Emanuele ni accorda il permesso di occupare una parte della piazza per la ricostruzione del teatro; alla stessa data il sovrano approva la planimetria dell’architetto Benedetto Alfieri, nella quale sono già delineati gli avancorpi che fiancheggiano il teatro.

Il principe fece acquistare vecchie case, anche una proprietà detta Confraternita del Santo Sudario, pagata 6700 lire, e altri edifici. Nacque un'area in cui sorse poi il Cambio che tanta parte doveva avere nel l'albeggi are del Risorgimento, sino al giorno in cui, con un brindisi commosso quanto storico, l’Italia nacque e mosse i primi passi. Il Cambio l’aveva sognata e poteva ben vantare il diritto di averla a battesimo. Auspice Cavour, giustamente fiero re Vittorio. Conservava il numerale di “secondo”, come sovrano sardo, mentre diveniva il “primo” dell’Italia nuova. AI Cambio conclusero che l'Italia era fatta ma sul trono non c'era stato nessun cambio.

 

Farmacie ed erboristerie

 

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Quando non c’erano le multinazionali farmaceutiche e le fabbriche di medicinali erano le farmacie

 

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Già nella Torino più antica era diffusa la farmacopea legata alle erbe, di cui si servivano pure numerosi speziali. Botteghe si aprivano nel centro cittadino, in viuzze scomparse con la ristrutturazione urbana del quartiere delimitato daH'attuale via Pietro Micca. In centro, rimangono erboristerie “storiche", mentre nuovi empori per la vendila di erbe e di prodotti naturali sono sorti in quartieri nuovi, verso la periferia. Emblematica, in via Monte di Pietà, l’erboristeria Abello, anno di fondazione 1838. Mantiene la facciata di ferro con decorazioni in ghisa, del 1860, opera del fabbro Bertero, il medesimo che produsse i lampadari di ferro battuto per il vecchio teatro Regio. L’interno venne arredalo nel 1912 dal falegname Cornetti con larice rosso proveniente dalla grande Esposizione di Torino del 1911. che presentava ambientazioni di botteghe con particolare raffinatezza. La fondatrice della casa, Teresa Bertero, ebbe il diploma d'erbolaio nel 1858.

Le farmacie di un tempo avevano un ruolo centrale nella cura delle persone perché preparavano esse stesse, al proprio interno e con ingredienti tratti dalla natura, molti dei medicinali che servivano a risolvere o ad alleviare i problemi di salute.

L’industria farmaceutica e il ricorso eccessivo da parte dei cittadini, spesso non guidato dai medici, ha snaturato l’antico ruolo delle farmacie, dei farmacisti e degli stessi farmaci.

Tanti anni fa il farmacista indossava il camice nero e si sporcava le mani; oggi ha il camice bianco misurato al ginocchio, ha le mani pulite perché non maneggia più utensili e sostanze di laboratorio.

Tanti anni fa il farmacista aveva una attrezzata officina farmaceutica (si chiamava così). Scaffali e scansie erano gremiti, stivati da bocce di vetro, albarelle decorate, ampolle, scatole di legno per le erbe, cortecce, semi e radici… Sulle rastrelliere, bevute, storte, imbuti, matracci… In un angolo c’era l’alambicco di rame a cupola come una moschea… E poi allineati in artistica mostra decine di vasi per gli unguenti, gli oli, gli sciroppi e gli intrugli della universale Teriaca e del suo compagno Mitriade, carichi di oppio che calmava il dolore e faceva gridare al miracolo.

I vasi, prestigio della farmacia al pari dei farmaci inventati e preparati dal farmacista, erano di terracotta invetriata policroma, con il cartiglio che indicava il contenuto, incorniciato da simboli, figure e volute di vegetali. Quei vasi ora sono vuoti, ambiti e ricercati da amatori del bello e da antiquari.

E poi nei cassetti del laboratorio c’erano spatole, forme per ovuli, supposte e pillole: oggetti di artigianale fattura con un segno d’arte tale da ben figurare oggi in un salotto di riguardo. E poi cumuli di tappi di sughero, di vero sughero della Barbagia, di tutte le misure anche minime per sigillare la evanescente boccettina con le gocce di biancospino e valeriana per gli instabili umori della giovane signora. C’era anche la grande damigiana di vetro verde foresta dove invecchiava il barolo chinato, capolavoro del farmacista.

C’era il torchio per l’olio di mandorle dolci che doveva essere sempre di recente spremitura. C’era il mortaio di bronzo, grande come una campana… e poi bilance e bilancini per dosare i veleni, le droghe.

Quelle droghe che ora è più facile trovare fra le mani dei giovani che nell’armadietto di farmacia. Ora nel banco c’è il registratore di cassa, bello e lustro come una fuoriserie. Una volta, nascosta in un cassetto sottobanco c’era la ciotola di legno di bosso per il guadagno della giornata. Alzate le ante di legno a sera, e chiusa la farmacia, si faceva la “coppa”; si contavano monete spicciole che valevano. Ora si fa la mazzetta di carta moneta svalutata come un convalescente da grave malattia.

Nel retro della farmacia in discreta penombra c’era il salottino con le poltroncine di velluto un pò smunto. Era per gli amici (si poteva fumare il mezzo toscano) che portavano le notizie della piazza. Bevevano il bicchierino di barolo chinato per dare voce e credito alle parole, come accadeva nel retro delle farmacie durante la rivoluzione francese, il risorgimento italiano.

Sono passati tanti anni da quando le medicine si inventavano e facevano in farmacia e pochi ricordano la tipica figura del pistur. Come un campanaro a rovescio (il mortaio, era una campana rovesciata) il pesante pestello fra le mani pestava, frangeva, polverizzava erbe, semi, cortecce, frutti: la farmacia odorava di mercato orientale. Con fantasia e azzardo, suggeriva tisane, infusi, decotti e clisteri; le erbe non avevano segreti per lui.

Nei tempi antichi la farmacia non era “chimica”, era “botanica” nel senso che la gente trovava nelle foreste, nei boschi, nei campi, negli orti di casa, nel cortile, nelle acque, nelle stalle le medicine belle e pronte per curare, non sempre per guarire le malattie.

 

Le antiche farmacie del centro storico

 

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Tra le diverse botteghe che a Torino nel corso del Settecento e dell’ottocento si sono moltiplicate sul modello di quelle francesi, abbellendo le strade cittadine con elaborate ed eleganti facciate ed insegne e arricchendo gli interni con decorazioni, oggetti d’uso quotidiano e suppellettili che spesso andavano oltre l’eccellenza artigianale per diventare vere e proprie opere d’arte, si sono conservate soprattutto le farmacie. Ne sono rimaste fortunatamente di pregevoli in molte città italiane, ma certamente qui il loro numero è tale che vagabondare per antiche farmacie può costituire un vero e proprio itinerario attraverso il quale conoscere il centro della città sotto una luce particolare e inconsueta. In tutte si è mantenuta una traccia di quello che doveva essere il mondo degli “speziali” antecedente all’epoca della produzione su scala industriale dei prodotti farmaceutici, quando nel retrobottega si preparavano infusi, decotti, pastiglie e pomate, utilizzando bilancini e mortai e i contenitori in vetro o ceramica dalle fogge e le dimensioni più diverse, adatti alla conservazione dei medicinali. Tutto avveniva in ambienti confortevoli ed eleganti che nulla avevano da invidiare a locali come i caffè, peraltro più affollati e rumorosi, tant’è che talora le farmacie diventavano luoghi dove sostare per scambiare quattro chiacchiere in tranquillità e informarsi delle novità politiche e mondane. La farmacia Anglesio, in via Milano 11, esempio di bottega settecentesca, conserva alcuni tra i pezzi più antichi dell’arredo commerciale piemontese. Gli Anglesio, speziali di corte fin dal tardo Seicento, nel 1774 acquisirono il diritto di fregiarsi delle armi ducali, come testimonia la preziosa insegna esterna. La scultura riporta gli stemmi di un principe sabaudo: uno scudo dipinto, una coppia di leoni e ghirlande di foglie di quercia. All’interno, su un imponente bancone di noce, esempio significativo del barocco piemontese, sono scolpiti i simboli dello speziale: una conchiglia a due valve con un groviglio di serpenti. Sull’alzata, opera dell’artigiano Camoletto, e nella credenza del primo Ottocento sono conservati strumenti e suppellettili di pregio, come il mortaio in bronzo siglato G.A. A. 1763 (Giovanni Antonio Anglesio) e un grande vaso settecentesco in marmo, destinato alla conservazione della “theriaca”, l’antico medicinale composto di moltissimi ingredienti usato come antidoto contro il morso dei serpenti e come rimedio per un gran numero di malattie.

Un altro importante esempio di bottega settecentesca è la farmacia Ferrerò, che occupa parte del piano terreno del Palazzo Saluzzo Paesana in via del Carmine 1. Operante fin dal 1500, fu qui trasferita nel 1768, data a cui risalgono gran parte delle decorazioni. I due eleganti portali sono dello stesso marmo bianco usato per le sculture e sono sormontati da fregi scolpiti ad altorilievo che rappresentano i simboli dell’attività dello speziale. L’arredo, anch’esso di disegno settecentesco, è caratterizzato da scaffalature a giorno e da piccole cassettiere destinate alla conservazione delle erbe medicinali. Un grande mortaio in bronzo riporta incisa la data del 1767. Restando nel cuore della Torino vecchia, incontriamo la farmacia della Consolata di via delle Orfane 25, che ha mantenuto un arredo del tardo Ottocento, con banco, scaffali e cassettiere di gusto eclettico adornati di lesene e fregi dorati. Qui, tra deliziose ampolle in vetro e recipienti di ceramica che conservavano spezie, erbe e sostanze dai misteriosi e complicati nomi latini, spicca un grande registratore di cassa di fine Ottocento. Forse, quella che più conserva l’atmosfera delle antiche spezierie adatte a soste rinfrancanti, è la Regia farmacia di via XX settembre 87 che si trova al piano terra del palazzo settecentesco del Seminario arcivescovile, in piazza del Duomo, rilevata nel 1824 da Giovanni Battista Schiapparelli, uno dei precursori dell’industria chimicofarmaceutica italiana e patriota liberale, che nel 1821 aveva aperto in città uno stabilimento per produrre il solfato di chinina secondo il metodo scoperto da Pelletier e Caventou. Qui, in un ampio spazio, raffinatezza ed eleganza la fanno da padrone, dal bancone ottocentesco in noce ricoperto di marmo bianco e istoriato con i simboli farmaceutici, alle scaffalature dai vetri a cattedrale con dipinti a fuoco gli stemmi dei Savoia. Tra le numerose suppellettili in vetro e le albarelle in ceramica spicca una grande idria ottocentesca, ornata da una ghirlanda di foglie, con la immancabile scritta latina che ne illustra il contenuto. Nei secoli scorsi l’idria era il vaso da farmacia di maggiori dimensioni, raggiungeva fino ai 70 centimetri di altezza ed era usato per contenere medicamenti liquidi. Le albarelle, i vasi in ceramica più diffusi e presenti in ogni farmacia, ricalcavano la forma orientaleggiante dei contenitori in legno o bambù con cui le spezie giungevano in Europa dall’oriente.

Preziose albarelle e numerosi manufatti sono conservati in altre farmacie, alcune delle quali si trovano disseminate tra piazza Vittorio Veneto e via Po. Sulla piazza si affacciano la farmacia Operti e la Algostino Demichelis, della prima metà dell’ottocento. In via Po troviamo la farmacia degli Stemmi, i cui arredi scolpiti con i simboli farmaceutici sono attribuiti per finezza di disegno al famoso ebanista Gabriele Capello, detto il Moncalvo. Da Almasio, in piazza Statuto, fanno bella mostra soprattutto boccali e albarelle di fabbricazione ligure, toscana e francese, e da Montanaro, in corso Vinzaglio 31, arredi liberty e uno strano utensile in rame, dotato di orologio, ampolle e rubinetti: una vecchia autoclave usata per la sterilizzazione. La facciata più scenografica è certamente quella della farmacia Bosio, in via Garibaldi 24/26. Monumentale e di disegno eclettico, mescola spunti Liberty con elementi di Art Nouveau di fine Ottocento. L’ingresso è fiancheggiato da due sculture che rappresentano Galeno e i simboli farmaceutici, mentre altri motivi ornamentali decorano tutta l’ampia facciata. Il colpo d’occhio è di grande effetto. Tra le più antiche c’è poi quella fondata nel 1667 da Giambattista Masino, nominato l’anno successivo “speziale di corte”. Dal Settecento è situata al piano terra del Collegio dei Nobili, prima nei locali verso via Lagrange, poi negli attuali in via Maria Vittoria ed è appartenuta ininterrottamente alla famiglia Masino fino al 1905. Sino al 1989 sulla facciata campeggiava un’imponente insegna di legno scolpito con stemma sabaudo che ora si trova all’interno della farmacia, come anche la targa in bronzo e le imposte dipinte con stemmi reali del 1870. L’arredo è in noce di fattura settecentesca, così come i pregevoli contenitori di legno dipinto e il grande mortaio in bronzo su piedistallo originale. Le statue dei santi Cosma e Damiano, protettori di farmacisti e medici, alle cui reliquie erano attribuiti poteri taumaturgici, osservano dalle loro nicchie il viavai dei clienti e sembrano pensosamente suggerire loro di portarsi a casa, oltre alle aspirine, l’ottimo elisir tuttora prodotto secondo l’antica ricetta dello speziale del re.

 

Sangue di stambecco, polvere di mummia e fiele di zibetto: le antiche farmacie di Torino

 

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… ma anche zucchero, osso triturato, mandragora, urina di fanciullo, carne di pipistrello, graveolenti unguenti, pozioni, sciroppi, elettuari, depurativi, teriache, clisteri, panacee, mercuriali, vescicatori, mitridate con confetti di giacinto, conserve e precipitati, sangue di stambecco ecc. e chi più ne ha più ne metta: i rimedi sorprendenti che si mettevano in campo contro le malattie dell’epoca erano numerosissimi.

All’inizio del Seicento lo zucchero di canna, che era un prodotto costoso, veniva considerato un ottimo rimedio ricostituente. Ma anche sterco di piccione unito a occhio di granchio polverizzato e mescolato con l’urina di un bambino dai capelli rossi poteva servire allo stesso scopo.

Secondo i trattati del Cinque-Seicento, I vasi di farmacia dovevano contenere: sugna di anitra, di oca, di cappone, di gallina; acqua di lumache, carne di cinghiale, di leone, di lepre, di volpe; polvere di cantaridi, castoreo, varie specie di corna; fiele, ossa umane, sangue di becco, di porco, tela di ragno, unghie di animali e (colmo della ciarlataneria e dell’inganno) latte di fanciulla vergine! Ci si curava con queste schifezze. Ma per la salute si beveva anche distillato di urina umana e raschiatura di cranio di uomo vivo cioè deceduto non per malattia ma per morte violenta.

Arsenico e Acqua Tofana (ossido di arsenico, un potentissimo veleno se preso a dosi normali) erano utilizzati come agenti terapeutici sin dal tempo degli antichi Greci e Romani e Cinesi.

A quel tempo le bacche di vaniglia venivano considerate un afrodisiaco, molto diffuso tra la nobiltà.

Poiché la principale cura per riequilibrare gli umori ippocratici (sangue, bile gialla e bile nera) era spurgarne gli eccessi con salassi, tra i vasi sugli scaffali c’era quello che conteneva delle sanguisughe vive, che potevano essere utilizzate sul momento dai clienti, e vasi simili di vetro trasparente per reclamizzarle erano sovente esposti fuori delle botteghe dei farmacisti e dei barbitonsori.

Una tradizione coltivata in certe zone del Piemonte era, come si è detto, quella di bere sangue di stambecco. Per quale malattia? Il sangue di caprone ha la virtù di sciogliere (brisé) i calcoli che sono nei reni. La ricetta dei Seicento, scritta in latino, secondo il costume medico d’allora dice : “prendi sangue di caprone alpino (sanguinis Hircini Alpini) due dracme e mezzo (sei gr. e mezzo), aggiungi sciroppo di papavero rosso once due, più acqua di cardo benedetto once sei, più sciroppo di capelvenere once due”.

Contro la tosse catarrosa venivano invece vendute scatolette di resina liquida di larice e di abete.

Per proteggersi dai miasmi infettanti delle città, e in particolare dalla peste, venivano vendute palle profumate da portare in mano, specie d’estate, confezionate con zafferano, grani di mortella, scorza di cedro, rose, viole.

Come strumenti di profilassi venivano venduti piccoli granuli di smeraldo da tenere in bocca. Anche le altre pietre preziose, indossate come pendagli, tenute in bocca, o legate al braccio, avevano un simile potere.

L’olio di scorpione veniva venduto per ungere i polsi e la pelle sopra il cuore a scopo preservativo.

Venivano venduti sacchetti a metà tra l’amuleto e il presidio medicinale, che contenevano arsenico in cristalli, bolo armeno (terra argillosa rossastra), sandalo bianco, coralli, perle, zafferano, legno di aloe, ambra grigia, càlamo aromatico, polvere di rose, il tutto spruzzato con acqua di rose. Così equipaggiati e nutriti (era sconsigliatissimo uscire di casa a digiuno: semmai andava presa una fetta di pane inzuppata nel vino con un po’ di cedro confettato) si era in grado di scampare persino la peste.

Per più di duecento anni nelle farmacie e nelle case dove si sapeva leggere, si consultava l’opera Certains remèdes du Grand Mattioli, che era famosa come la Bibbia, e dove il Grand Mattioli era nientedimeno che un medico e naturalista senese, Pierandrea Mattioli, che aveva pubblicato nel 1579 i Commentaire sur les six livres de Pedanius Dioscorides Anazarbeen de la matière medecinale, dove Dioscoride Pedanio era un botanico e medico dell’antichità . Si trattava di un ricettario medico botanico: preparazioni artigianali costituite in gran parte da erbe, cortecce e qualche minerale tipo mercurio, piombo, argento ecc.

Tra i rimedi ricostituenti attestati da ricette dell’epoca, come quella del medico dell’Ospizio Vernetti di Aosta datata 1703 c’erano anche la celeberrima “mumia”, che si ricavava dalle mummie egizie ed era pagata a peso d’oro o dalla mummia officinale estratta da cadaveri di plebei imbalsamati; oppure si ricavava da quella artificiale o chimica che altro non era che un pezzo di carne umana messa a macerare nell’alcool. Una ricetta che ha dell’incredibile.

A compensare questa aberrazione in quel tempo era già utilizzato il chin-chin, cioè la polvere di chinino solo o in associazione con la teriaca, indescrivibile miscela di erbe.

A parte gli accidenti che provocavano ferite o fratture, che i cerusici barbitonsori raddrizzavano con dubbi esiti, come ci viene rivelato ad esempio da biografie come quella di Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti e ferito alla gamba da un colpo di cannone durante l’assedio di Pampona, le malattie più diffuse erano quelle che interessavano la pelle. Si può dire che il 90% delle persone era affetto da scabbia, rogna, pustole e porcherie del genere. La sporcizia conviveva come un vestito di tutti i giorni. Sotto le vesti preziose di una gran dama del 1700 era facile trovare le pulci… Dopo le malattie della pelle, comuni come l’acqua di un ruscello, venivano le malattie dell’apparato digerente se si vogliono chiamare malattie le indigestioni o meglio i travagli di stomaco causati da certi cibi indigesti che si consumavano. Meraviglia che il pane nero di segala, largamente consumato, non favorisse l’intestino come denotano le numerosissime ricette. Il sale inglese o sal canale e i clisteri erano il punto di forza dei medici. Tenevano buona compagnia il tartaro emetico, il rabarbaro, tamarindo, olio canforato, chinino in polvere, santonina, teriaca, pomata a base di piombo, unguento antiscabbioso, clistere lenitivo, elisir di lunga vita, empiastri per tutti i gusti, unguento mercuriale… e così via sempre per quelle quattro o cinque malattie, meglio disturbi, che lasciavano vivere.

 

La storia di un inganno colossale ai tempi della peste: quella dell’”Olio Miracoloso”

 

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Nel Consiglio del 2 dicembre 1630 il sindaco di Aosta chiede un mandato di pagamento di quindici pistole e due ducatoni, da lui dati ad un certo padre dominicano Jacobini, che aveva portato da Milano “L’olio miracoloso” che doveva preservare la Valle d’Aosta dalla peste.

Valdostani, Lombardi, Piemontesi e altre genti d’Italia, caddero nel colossale inganno dell’olio miracoloso. L’inganno prese l’avvio nella chiesa della Madonna delle Grazie in Milano sul finire del 1630 quando la peste, che aveva già portato via migliaia di persone, incominciava ad assopirsi perché disturbata dai primi freddi. Frate Geraldo racconta che “Essendo la città di Milano in mal termine per questa incurabile piaga, raccorsero diverse persone divote nella chiesa della Madonna delle Grazie et dopo aver fatto oratione si unsero dell’olio della lampada ed essendo appestati guarirono. Palesarono la cosa per la città, per il che molti infermi andarono a farsi ungere e anche dai luoghi vicini. Molti che avevano fede furono liberati. Di poi si palesò il miracolo anche nelle città più lontane, come Alessandria, Asti… Ed Aosta dove l’olio giunse nel settembre 1630”.

Di guarigioni miracolose in realtà non ce ne fu neppure una. Quella straripante ondata d’olio diffusa in tutta Italia, fu propiziata dal disperato bisogno di miracoli che avevano le genti immerse in un contagio senza rimedi.

In quei tempi, con immensa credulità, si vedevano ovunque streghe e malefici, santi, diavoli e miracoli. Strade e piazze erano piene di miracolisti nelle vesti di falsi predicatori e di eremiti. Gli artigiani lavoravano sodo a fare ex voto, sorgevano santuari e cappelle votive: la gente chiedeva a Dio il pane quotidiano, dai santi volevano grazia di un miracolo quotidiano.

Fatalmente in questo clima psicologico, le prime unzioni diedero l’avvio a un generale inganno e per i frati che officiavano la chiesa della Madonna delle Grazie, furono pretesto per un colossale affare.

Costoro, in buona o cattiva fede che fossero, non potevano tirarsi indietro: sarebbero stati lapidati a furor di popolo; così la lampada continuò a versare olio miracoloso e la gente a morire di peste.

Anche il cronista frate Geraldo credette sinceramente all’olio miracoloso e se l’effetto venne a mancare fu, dice, perché il demonio aveva spento la fede e la devozione. Secondo il costume e la mentalità del tempo, nella vicenda non poteva mancare una scena demoniaca. Accanto al santo si inserisce così la strega, nel nostro caso l’untore.

La cronaca narra che un pover’uomo si lasciò indurre dal demonio e prendere anche lui un certo olio. Chi l’avesse toccato, benché infermo e appestato sarebbe guarito. Quel disgraziato d’un uomo fece appena in tempo a ungere poche porte di case altrui, perché fu preso, incarcerato, messo ai tormenti. Confessò e morì sul rogo.

In seguito, non si sa con quali mezzi – probabilmente con la tortura di un presunto untore o l’esorcismo di un invasato – si interrogò il demonio per sapere in che modo facesse morire tanta gente e quello disse che molti erano stati unti con l’olio miracoloso si , ma mescolato con olio dell’inferno da certi stregoni, per cui erano già morte più di cinquecento persone.

 

La Torino bio e vegana

 

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i prodotti bio

A Torino, se siete alla ricerca del mercatino di riferimento dei prodotti naturali, a chilometri zero e biologici, potete andare il quarto sabato del mese in Piazza Palazzo di Città. Qui troverete “Oltremercato”, il mercatino biologico della città di Torino promosso dall’Asci (Associazione di Solidarietà alla Campagna Italiana).Sulle splendide bancarelle di questo mercato biologico di Torino potrete trovare tantissime e squisitissime prelibatezze: frutta e verdura del pinerolese e saluzzese, i rinomati vini piemontesi, castagne, noci, patate di montagna, distillati di lavanda della Val di Susa, la fontina valdostana, il pane con lievito madre cotto nel forno a legna, marmellate, miele e tantissimo altri prodotti certificati biologici di piccoli produttori locali. Oltre alle bancarelle che vendono prodotti alimentari, ne troverete anche altre che propongono diversi oggetti tra cui le luffe (spugne vegetali) coltivate a Pianezza, manufatti in ceramica, gioielli, borse, cappelli ed abiti realizzati con stoffe ecocompatibili o riciclate.

ristoranti bio

La cucina vegetariana e vegana non è sinonimo di piatti insipidi ed di sola insalata. Al contrario, l’universo della cucina senza piatti e pietanze di origine animale è sinonimo non solo di buon cibo, ma anche di varietà e ricchezza di piatti.

Anche in Italia, da un po’ di anni a questa parte, si sta diffondendo sempre di più questa vera e propria filosofia di vita che è il veganismo e vegetarianismo. Tanti sono i ristoranti che nei loro menù propongono piatti senza carne e anche senza uova, latte e altri derivati animali. Sempre di più sono quelli esclusivamente dedicati a questo tipo di cucina.

Anche il panorama della gastronomia torinese conta numerosi ristoranti vegetariani e vegani dove poter provare nuovi piatti o piatti della tradizioni rivisitati in chiave veg. Il vegetariano viene offerto in tutte le declinazioni: dal latto-ovo-vegetariano tradizionale al vegano, fino al raw (crudismo). Antipasti, primi, piatti, dolci, gelati, hamburger di soia o di azuki, tempeh, pizze con farina di canapa, cotoletta al tempeh, sformato di quinoa, tartare di seitan, insalata russa con maionese vegana: la creatività dei ristoranti non ha limiti, e offre oltre ai piatti da mangiare in sede anche il take away vegano.

aziende produttrici o distributrici di prodotti bio

In Piemonte vi sono diverse aziende che si sono conquistate un posto nel mercato della distribuzione e produzione del bio, come ad esempio Il Baule Volante o La Finestra sul Cielo.

 

La Torino del cioccolato: una lunga storia di amore

 

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Quando si parla di cioccolato in Italia, si parla di Torino. In nessun’altra città si trova una tradizione così importante per quel che riguarda il cosiddetto “cibo degli dei”. Il Gianduja è sicuramente il re della tradizione gastronomica torinese: un impasto di cacao finissimo arricchito da nocciole del Piemonte che si può gustare nella variante dei famosissimi gianduiotti

E ormai una tradizione consolidata che Torino festeggi la cioccolata nel corso di una grande kermesse invernale che per una decina di giorni invade allegramente con feste, eventi, degustazioni, mostre e spettacoli a tema le piazze, i locali e le pasticcerie della città, nonché il cuore e la gola dei torinesi e dei tanti produttori e turisti che visitano la fiera. Stiamo parlando del CioccolaTò, inaugurato per la prima volta nel 2003 e saga delle migliori cioccolate e dei più eccelsi maestri cioccolatieri della città, e non solo.

Ovviamente inconsapevole del fatto che il suo gesto avrebbe contribuito (tra l’altro!) a fare una delle fortune di Torino, il cioccolato fu introdotto in Europa dal conquistatore spagnolo Herman Cortès, che agli inizi del Cinquecento riportò in patria alcune ceste di semi di cacao ricevute in dono da Montezuma, imperatore del regno azteco. Il cacao era da secoli una delle risorse principali dei popoli Maya e Azteco i quali, oltre a ricavarne una energetica bevanda, lo usavano come merce di scambio. Recato in dono da Cortès al proprio sovrano Carlo V, il cacao qualche anno dopo giunse anche a Torino. Nel 1559 Emanuele Filiberto di Savoia, generale degli eserciti spagnoli, tornò nei suoi stati portandone con sé alcuni semi. L’anno successivo, per festeggiare il trasferimento della capitale del Regno di Savoia da Chambéry a Torino, il sovrano offrì alla città una simbolica tazza di cioccolata calda. Pochi anni dopo, in occasione delle nozze del figlio Carlo Emanuele I, la bevanda verrà offerta a tutta l’aristocrazia locale, che ne sarà definitivamente conquistata. Da allora il cioccolato si assicura un posto d’onore nella storia della cultura e nell’economia della città, destinato a consolidarsi nel corso dei secoli in un amore che dura ormai da quasi 500 anni.

A scrivere una pagina importante nella storia del cioccolato a Torino fu nel 1678 Maria Giovanna di Nemours, reggente sul trono di Savoia, che concesse la “patente” di cioccolatiere a Giò Antonio Ari, autorizzandolo così a vendere, oltre che a produrre, la cioccolata.

Fino ad allora, infatti, i fabbricanti di bevande a base di cacao non potevano commercializzarla: erano confettieri e acquavitari, chiamati a Torino limonadier, mentre la vendita spettava ai caffettieri che servivano la cioccolata accanto al caffè e ad altre bevande calde e fredde.

Con questo provvedimento il cicolaté d’Turin divenne una figura di primo piano, detentore di un’arte rinomata e apprezzata, oltre che economicamente redditizia. Ma il vero salto di qualità avvenne nel XVIII secolo, quando i maestri cioccolatieri torinesi cominciarono a servirsi di macchine che permettevano di solidificare il cioccolato, fino ad allora consumato esclusivamente come bevanda.

Era l’inizio dell’industria cioccolatiera, affidata alla maestria di artigiani i cui nomi ancora oggi firmano la produzione delle migliori cioccolate.

Ricordarli tutti è quasi impossibile. Da Paolo Caffarel che agli inizi dell’ottocento apre uno stabilimento di produzione del cioccolato sulle rive del canale Pellerina, a Michele Prochet che si fonderà con Caffarel dando vita alla Caffarel Prochet, da Talmone ai fratelli Stratta, da Streglio e Pernigotti alla Venchi, fondata nel 1878, per citare solo alcune delle tappe della secolare storia dei cioccolatieri torinesi. Nel 1852, a opera di Michele Prochet, nasce il gianduiotto, il più famoso dei cioccolatini torinesi e il primo al mondo a essere incartato. Inizialmente era chiamatogivu, che in piemontese significa cicca di sigaretta, e solo nel 1865 prese il nome con cui è noto in tutto il mondo. Ancora oggi la Caffarel Prochet continua a produrre il gianduiotto 1865 con la data ben visibile sulla stagnola dorata.

Altro baluardo della tradizione torinese è Peyrano che, fedele alle ricette ottocentesche, lavora ogni anno tonnellate e tonnellate di cacao che trasforma in oltre 80 tipi di cioccolatini, con novità continue come i grissini di cioccolato speziato o i gianduiotti “estrusi”, così detti per la loro forma volutamente imperfetta e non modellata. Sì, perché nella produzione del gianduiotto tutti i migliori cioccolatieri seguitano a cimentarsi in una gara di eccellenza che, per la gioia dei consumatori, sembra non avere mai fine.

Ed ecco allora, tra gli ultimi arrivati, ma non certo per qualità, Guido Gobino che, utilizzando nel suo laboratorio artigianale ingredienti di prima scelta, crea la serie di gianduiotti di varie dimensioni, dal Tourinot mignon da 5 grammi, che lo ha reso famoso, al Tourinot maximo, erede del gianduiotto originale da 10 grammi.

O Guido Rosso, che nella sua pasticceria di corso Traiano la Cioccolateria di Capitano Rosso si sbizzarrisce a impastare e a creare con il cioccolato gusti e forme sempre diverse, tra cui primeggia l’ormai mitico cioccolatino Ciao Turin. Una curiosità particolare. In occasione della sesta edizione della fiera (2008) un altro noto maestro cioccolatiere, Silvio Bessone, ha realizzato un particolarissimo gianduiotto, il Giangioiello, impreziosito da un diamante e incartato in oro puro, il cui valore si aggira sui 150.000 euro. Il ricavato della vendita è stato devoluto a una iniziativa di solidarietà per lo Sri Lanka.

Un altro nome, noto agli ultra-raffinati è Domori, che ha conquistato diversi primati di eccellenza. Domori, sin dalla nascita nel 1997, è stata una vera rivoluzione per il mondo del cacao: E’ stata la prima azienda di cioccolato a impiegare solo cacao fine puntando sull’alta qualità. La prima a produrre un cioccolato con cacao Criollo, il più raro e pregiato in assoluto. La prima a controllare la filiera a partire dalle piantagioni situate in Sud America e America Centrale e ad avere una piantagione di proprietà che le ha permesso di recuperare in campo la biodiversità del cacao Criollo. La prima a riscoprire e utilizzare per il cioccolato una formula antica e semplice: pasta di cacao e zucchero. La prima a realizzare una tavoletta 100% pure Criollo. Infine, la prima a creare un Codice di Degustazione del Cioccolato per scoprire le infinite sfumature del cacao.

L’elenco non finisce qui. Tutte le migliori pasticcerie della città hanno una produzione propria di tavolette di cioccolata, di praline, di creme da spalmare e di cioccolatini. Scoprirli e gustarli tutti è possibile al CioccolaTò, quando la fiera, che si svolge tra i mesi di febbraio o di marzo, sembra chiudere l’inverno e preparare con dolcezza l’arrivo della primavera. Girare tra le decine di stand che vengono allestiti nelle più belle piazze di Torino, assistere a lezioni di cioccolato o partecipare a degustazioni farà allora tornare alla mente il nome con cui Linneo ebbe a classificare nel suo Genera Plantorum il cacao: Teobroma, che vuol dire “cibo degli dèi”. E non potremo che concordare con lui.

 

Una volta c’era Paissa, in Piazza San Carlo

 

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Da decenni i torinesi si erano abituati a vederla ingombra di auto e intasata dal traffico, tant’è che la decisione dell’amministrazione comunale di farne un’isola pedonale, oltre a suscitare le proteste dei commercianti della zona, aveva lasciato perplessi tutti gli abitanti della città. Si sa, i torinesi sono un po’ conservatori e abitudinari, non amano le novità che mettono in discussione abitudini consolidate. Ma ora che piazza San Carlo, sgomberata dal parcheggio selvaggio di auto e motorini è stata restituita in pieno alla sua vocazione di “salotto bene” anche i più restii si sono convinti. E finalmente è possibile ammirare le belle facciate seicentesche, i porticati eleganti e le insegne degli storici caffè e dei locali che occhieggiano dietro i portici, senza venire affumicati da tubi di scarico e assordati da clacson impazziti.

La piazza, che ha conservato nel tempo l’armoniosa uniformità architettonica e cromatica conferitale a metà Seicento dall’architetto regio Carlo di Castellamonte, e che è stata completata e arricchita un secolo dopo da Benedetto Alfieri, ha una base rettangolare sui cui lati maggiori si affacciano gli splendidi edifici barocchi dalle facciate finemente decorate e sovrastate da lunghe file di abbaini. Il lato sud è incorniciato da due chiese anch’esse barocche, quella di Santa Cristina progettata da Castellamonte, la cui facciata fu ridisegnata nel 1715 da Filippo Juvarra, e quella di San Carlo, di attribuzione incerta, che venne in parte rifatta nel 1800. Tra gli edifici, tutti di origine nobiliare, spicca per la sontuosità degli interni Palazzo Solaro del Borgo (già Isnardi di Caraglio), cui tra gli altri mise mano l’architetto Benedetto Alfieri; vi si possono ammirare il grande scalone decorato di stucchi, le sale che affacciano sull’interno, la biblioteca e un prezioso salottino ottagonale. Dal 1838 è sede dell’Accademia Filarmonica e dal 1947 del Circolo del whist, che era stato fondato un secolo prima da Cavour, appassionato cultore di questo gioco. A palazzo Villa di Villastellone, sito nell’ultimo tratto della piazza prima della chiesa di San Carlo, visse in gioventù per alcuni anni Vittorio Alfieri, come egli stesso racconta nelle sue memorie: «Provvistami in Torino una magnifica casa posta su la bellissima Piazza San Carlo, e ammobiliatala con gusto, mi posi a far vita da gaudente...». Ritrovati i compagni dell’Accademia militare fondò con loro una società che si riuniva settimanalmente presso la sua dimora «per banchettare e ragionare su ogni cosa».

Nel corso dell’ottocento sulla piazza aprirono i battenti alcune tra le più eleganti caffetterie e confetterie della città, e dopo di loro il favoloso emporio Paissa, sorto nel 1884 come importatore di prodotti alimentari e coloniali provenienti da tutto il mondo. Dopo più di un secolo l’abbondanza e l’originalità delle offerte di Paissa sono rimaste immutate: l’ottocentesco negozio seguita a essere fornitissimo di centinaia e centinaia di prelibatezze di ogni genere, altrove irreperibili, che espone nelle grandi vetrine, sul bancone centrale e negli scaffali lungo le pareti del negozio. A Natale, da Paissa i torinesi benestanti si fanno confezionare colorati pacchi dono stracolmi di prodotti esotici e non, dal caviale iraniano alla originale bottarga sarda, dalla grappa brasiliana al cervo affumicato, dalle spezie del Madagascar al barolo invecchiato di decenni. Ai meno abbienti di solito tocca accontentarsi di saziare gli occhi davanti alle vetrine, ma una capatina all’interno prima o poi la fanno tutti.

Fino ai primi decenni del Novecento la piazza rimane meta delle famiglie “bene” che amano recarvisi a passeggiare e a prendere il cioccolato caldo o l’aperitivo seduti ai tavolini dei caffè sotto i portici. Poi, come abbiamo già detto, la sempre crescente ondata di traffico ne aveva offuscato lo smalto. È stato in occasione delle Olimpiadi invernali del 2006 che piazza San Carlo è stata restituita ai pedoni e alle migliaia di turisti che vi si sono riversati. E ora è diventata un’oasi di silenzio e di tranquillità. Così tranquilla che probabilmente a sentirsi un po’ solo sarà Emanuele Filiberto che troneggia al centro del grande spazio sulla statua equestre edificata nel 18 3 8 da Carlo Marocchetti. Il duca vi è raffigurato nell’atto di rinfoderare la spada dopo la battaglia di San Quintino del 15 5 7, forse in attesa che si rinnovi il rito cui il cavai d’brons, come familiarmente viene chiamato il monumento (che peraltro ha dato il nome anche a un celebre ristorante), è ormai abituato da anni. È infatti consuetudine che i tifosi, in occasione della vittoria della propria squadra di calcio, dopo aver invaso la città con ogni tipo di mezzo mobile e di strumento rumoroso, confluiscano in piazza San Carlo per concludere i festeggiamenti, e che i più ardimentosi si arrampichino a grappolo fin sul cimiero del duca, sventolando bandiere e intonando cori. E dubitiamo che a questo rituale i torinesi intendano rinunciare.

 

Il paradiso dei collezionisti di francobolli e monete. La storica Bolaffi, una impresa poco decorosa per il pretendente di una madamina di buona famiglia

 

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La filatelia È l’hobby più diffuso e ha avuto a Torino numerosi cultori sin dalla fine dell’ottocento. In città sono nati i primi francobolli del Regno di Sardegna e qui è sorta una delle maggiori case collezionistiche e antiquariati presenti in Italia, la Bolaffi, fondata da Alberto Bolaffi, che inizialmente riceveva i clienti in via Po 2, ed aveva al contempo la rappresentanza delle biciclette Ormonde.

Nel 1890 Bolaffi offriva mille francobolli differenti per ventidue lire, e gli affari erano ottimamente avviati. Una curiosità: il giovanotto intraprendente aveva chiesto la mano di Vittoria Foa, ma era stato scacciato dai genitori, austeri funzionari delle ferrovie che consideravano “frivolo” il suo lavoro. Solo il successo commerciale della sua impresa li convinse a dare il tanto sospirato assenso.

«Per noi la storia è un oggetto da collezione» è il motto con cui il fondatore, e poi i suoi discendenti hanno esteso le attività dell’azienda dalla filatelia alla numismatica e ai manifesti del XX secolo (considerati una fedele rappresentazione della società e dei costumi contemporanei), fino al collezionismo di tutti quei documenti e reperti che hanno precorso la genesi del francobollo. Non a caso è dal cuore dell’azienda torinese che viene coniato il neologismo, non ancora presente sui dizionari: filografia, che sta a significare amicizia della scrittura. Perché dal collezionismo e dalla commercializzazione di francobolli, la Bolaffi ha ampliato la sua sfera di interessi a tutto ciò che attiene alla storia dell’uomo, rivisitata attraverso l’evoluzione della comunicazione scritta.

Se siete appassionati filatelici, collezionate monete antiche, vi interessano vecchi manifesti, o vi piacerebbe sapere tutto sulla storia dei francobolli o sulle prime monete e banconote italiane, ebbene, visitando la sede di Bolaffi in via Cavour 17 potrete soddisfare ogni curiosità. Potrete consultare una biblioteca filatelica unica in Italia, contenente oltre 50.000 volumi, cataloghi di numismatica e di mostre d’arte dedicate ad artisti piemontesi, il mensile «Il Collezionista di Francobolli», la più antica rivista di settore, fondata nel 1945 da Giulio Bolaffi, o ammirare manifesti pubblicitari e cinematografici del primo Novecento. E non solo. Potrete perfino partecipare a un’asta da semplici osservatori o, per chi può permetterselo, da acquirenti.

La Bolaffi, oltre a svolgere una importante attività commerciale, ad arricchire continuamente le sue offerte, a bandire aste, conserva nel proprio Archivio di filografia e comunicazione reperti unici e di altissimo valore. Alcuni esempi. La prima lettera rivolta a una divinità, una tavoletta sumera del II millennio a.C.; una pagina della Bibbia di Gutenberg; uno dei soli tre manifesti esistenti di Metropolis, il film di Fritz Lang del 19 2 7; il telegramma entrato nel guinness dei primati come il più costoso del mondo: quello inviato da Kruscev a Gagarin per rallegrarsi del suo volo nello spazio; una delle prime lettere ad aver attraversato l’Atlantico, nel 1512, a soli vent’anni dallo sbarco di Colombo; il manoscritto di Einstein della formula della relatività; la prima edizione del Capitale di Karl Marx; il manifesto di Toulouse-Lautrec per il Moulin Rouge; il bozzetto chirografico di Rowland Hill per il primo francobollo del mondo, il Penny Black, emesso il 6 maggio 1840.

Per gli appassionati di curiosità ricordiamo che il Penny Black occupa un posto d’onore particolare nei guinness. Oltre a essere il primo francobollo al mondo è anche il primo a effigiare una donna: la Regina Vittoria; primo a riprodurre gioielli: il diadema sul capo della regina; primo a mostrare un’immagine di profilo; primo a celebrare una visita reale, poiché il profilo della regina fu ricavato dalla medaglia eseguita da William Wyon, coniata a ricordo della visita compiuta dalla sovrana il 9 novembre 18 3 7 al The Corporation of London, il cuore commerciale dell’impero britannico, equivalente dell’attuale City. Fu anche il primo di colore nero, simbolo di importanza. Altri memorabili francobolli furono in seguito stampati in nero, come il primo a uscire in Italia, il 5 centesimi con il profilo del Re Vittorio Emanuele II, emesso il primo gennaio 1851 dal Regno di Sardegna.

Che Bolaffi sia una vera e propria miniera d’oro per intenditori e collezionisti è testimoniato dalle aste pubbliche che dal 1990

l’azienda torinese ospita due volte l’anno, nel periodo di maggiogiugno e di novembre-dicembre. Entriamo anche noi. Per l’occasione la sala sfoggia i manifesti più belli, il personale indossa il distintivo fiore all’occhiello, i telefoni squillano per raccogliere le offerte dei clienti non presenti, la sala gremita di pubblico si anima, il suono della campanella richiama l’attenzione... L’asta ha inizio. E allora, se saremo fortunati ci capiterà di assistere all’offerta di esemplari di prestigio, a volte unici, come nel caso di una delle due sole buste esistenti al mondo affrancate con il 3 lire di Toscana del 1860 (documento appartenuto al re Faruk d’Egitto) aggiudicato all’equivalente di oltre 400.000 euro, o del manifesto di grandi dimensioni disegnato nel 1922 da Plinio Codognato per la FIAT in pista, nel 2000 acquistato per l’equivalente di oltre 100.000 euro, record mondiale per un manifesto italiano, o della moneta aurea del 1610 da 10 scudi di Carlo Emanuele I aggiudicata per oltre 70.000 euro. Tra le tante altre curiosità battute dal martello del banditore anche una lussuosa e in parte inedita collezione di manifesti dei magazzini Mele, l’edizione del 13 gennaio 1898 del quotidiano «L’Aurore» che pubblicava il J’accuse di Emile Zola, il manifesto della Corazzata Potemkin, carteggi risorgimentali, lettere mercantili medievali, lettere autografe di personaggi illustri.

Pochi possono permettersi il lusso di concedersi esemplari eccezionali come questi, ma tutti possono goderne la vista sia pure invidiando un po’ i fortunati che riescono ad aggiudicarseli. Basta entrare un giorno di maggio, o in autunno se preferite, nelle sale Bolaffi, e assistere a un’asta. Sarà allora chiaro il significato dell’iscrizione impressa nelle sale dell’Archivio Storico della filografia che così esprime la filosofia dell’azienda: «La pittura si coglie con gli occhi / la musica si percepisce con l’anima / la filografia si apprezza con l’intelletto».

 

Negozi particolari di Torino

 

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La antica ditta Comi di arredi sacri

 

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Nel perimetro della Torino più antica, la ditta Comi, fondata nel 1898, arredata con i mobili originali da quando venne costituita, in larice rosso del Canada, è tra i negozi storici torinesi. Se inizialmente l’emporio di arredi sacri vendeva soltanto tessuti prodotti dalle seterie proprie, ampliò poi la gamma dei prodotti passando anche ai pizzi di Lione. Divenne presto punto di riferimento per chi cercava paramenti sacri e tovaglie d'altare in puro lino di Fiandra, ricamati a mano o con macchine manuali. La casa offre pure icone bizantine e russe, quadri in argento e miniature di pregio e, su ordinazione, quadri dipinti a mano a olio; rosari di legno e di pietra dura, statue, tabernacoli, calici, ostensori e pissidi, candelieri in ottone e bronzo. Vasta per il Natale la scelta dei presepi dai più semplici a quelli scolpiti della Val Gardena.

 

Via Principe Amedeo 25: il negozio delle statue false

 

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Da una vetrina di via Principe Amedeo 25 occhieggiano candidi volti dai tratti conosciuti: è la Gipsoteca, una ditta artigiana in un quartiere di artigiani nel cuore della città, che produce copie delle più famose opere d’arte di tutti i tempi. Più che un negozio è una bottega nel senso proprio del termine, un laboratorio. Gli oggetti in vendita sono prodotti in loco, si vedono nascere e perfezionarsi sotto gli occhi del cliente, non stanno in fila allineati come le merci, ma affastellati in un armonioso disordine in un locale che ricorda una piccola caverna, non oscura e paurosa ma come di ovatta bianca. Oggetti è un termine riduttivo, sono volti, bassorilievi, fregi, corpi. Il repertorio spazia dalle statue arcaiche ai ritratti e busti più illustri, ai dettagli e particolari architettonici dei monumenti più importanti, a medaglioni e bassorilievi, alle sculture antiche a partire dall’epoca greca, romana e bizantina passando per quella romanica, gotica e rinascimentale sino ad arrivare ai primi del Novecento. Come racconta la proprietaria, appassionata di questo lavoro, in Italia sono rimasti in pochi a tenere in piedi la tradizione delle copie in gesso delle opere d’arte. La Gipsoteca Mondazzi è un piccolo mondo a parte. Qui si occupano del restauro di statue da consolidare o di cui occorre ripristinare le parti mancanti, lavorano per i musei o le sovrintendenze alle Belle Arti, accolgono scolaresche che possono vedere a tutto tondo e in qualche caso a grandezza naturale i personaggi illustrati nei libri. Con il passare del tempo il numero delle copie prodotte è aumentato, arricchendosi continuamente di nuove opere che hanno portato la collezione a più di un migliaio di soggetti. Il visitatore è ben accolto, può curiosare in giro, può farsi raccontare i segreti del mestiere (dal lunedì al venerdì). Parlando con la proprietaria si viene a sapere che la ditta ha anche un atelier per i lavori più grandi e i restauri in via Sant’Ottavio 42, nella zona dell’università, e un museo nei pressi di Torino, che si vorrebbe trasferire in città per mettere a disposizione di tutti, studenti, artisti, curiosi, questo ricco patrimonio: c’è perfino un David di Michelangelo a grandezza naturale, di oltre cinque metri di altezza.

Ma poiché c’è un certo mercato privato, e nessuno o pochi possono mettersi in casa una statua integrale, le sculture sono state scomposte nei loro particolari: ecco pendere dal soffitto le braccia muscolose del David e le mani che stringono il ciottolo che atterrò il gigante Golia, o spuntare da un angolo il suo occhio fiero e aggrondato. Ecco sorriderci appeso a uno scaffale un putto del Verrocchio accanto a un efebo ateniese, ecco appoggiato al muro un Cristo dolente vicino a una dama neoclassica. Ciascuno può trovare e magari portarsi via il volto che lo ha colpito in qualche museo del mondo: lo schiavo michelangiolesco del Louvre, il Ramesse II appena ammirato all’Egizio di Torino, la testa di un cavallo di Fidia del British Museum. Oltre al mondo dell’arte classica e moderna, la gipsoteca offre servizi specialistici, come le patine, gli invecchiamenti e le marmorizzazioni, per cui, a tratti, in mezzo al bianco abbagliante dei gessi, compare inaspettatamente il manto porporino di un severo imperatore romano o la doratura che simula un crocifisso ligneo, o i riflessi bronzei di un torso umano o di un animale, o il caldo colore di un cotto senese. E si possono commissionare pezzi di arredo, mensole, fregi, camini, colonne, capitelli, formelle, medaglioni e ghirlande da mettersi in casa come un tocco fantastico o magari per fare un regalo speciale, che so: il tondo con il profilo di Mozart all’amico musicista o il cavallino rampante a quello che ama le Ferrari. Soprattutto, il visitatore curioso ha la possibilità di aggirarsi e trovare da sé l’oggetto che lo colpisce o che gli suscita dei ricordi, perché si trova, finalmente, in un mondo di cose “uniche e irripetibili”.

 

Dallo sceicco arabo al capo pellerossa: la ditta di costumi Devalle

 

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Fra le ditte torinesi specializzate nella creazione e nel noleggio di costumi di qualsiasi genere, in particolare modo per il mondo del teatro, spicca la ditta Devalle. La sua vastissima sede, in via degli Artisti 16, può lasciale stupefatto chi vi entra per la prima volta: non vi è richiesta che non possa essere appagata, dall’abito per impersonare uno sceicco arabo all’uniforme napoleonica, dalla divisa da grande ammiraglio ài panni d’un capo pellerossa. Tutto per ogni gusto e moda, con una galoppata attraverso i secoli, per trasformarsi in pochi istanti in Dante Alighieri o in Giuseppe Gastucchi ribaldi, con camicie rosse in quantità, per raffigurare sulla scena lo sbarco dei Mille.

 

La più longeva passamaneria d’Europa

 

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Torino, ultimi anni dell’Ottocento. Sulla riva del Po si vede passeggiare un giovanotto. Ogni tanto si ferma e si china a raccogliere qualcosa. Tra le mani sta componendo un mazzolino di violette fresche, appena spuntate, destinato alla sua fidanzata, Antonietta. Il ragazzo vorrebbe stupire la sua amata donandole un ventaglio, o magari un ombrellino, tempestato di ametiste, ma non è possibile. I soldi in tasca non sono poi così tanti e si racconta che quelle pietre pregiate siano usate nientemeno che per ornare i gioielli delle regine. Soltanto a chi è di alto rango è consentito l’onore di indossare il colore viola che le caratterizza. Il mazzolino di violette ha poco a che fare con la preziosità delle ametiste, o di qualsiasi altra pietra dura, ma ciò è poco importante. Antonietta è felice di ricevere quel regalo fatto con il cuore. Usando l’essenza delle violette, la ragazza prepara delle caramelle dal gusto delicato. Il più delle volte, però, decide di conservare tra le pagine di un libro i soffici petali dei fiori che il suo innamorato va a raccogliere per lei allo scoccare di ogni primavera. Il viola di quei petali diventerà il colore distintivo dell’Antica Fabbrica Passamanerie Vittorio Massia, una bottega storica ancora oggi in piena attività a Torino.

Vittorio Massia era il nome del romantico cacciatore di violette. Lavorava nella bottega di passamanerie della sua famiglia. Con le mani sapienti e allenate a intrecciare fili, realizzava galloni, frange, alamari, nappe, mostrine. Insomma, tutte quelle guarnizioni che impreziosivano i tessuti usati per l’arredamento e l’abbigliamento delle illustri famiglie torinesi e per le livree dei loro domestici, nonché per le uniformi dei soldati e per i paramenti liturgici. Era stato il nonno Vittorio a fondare la bottega nel 1843: il laboratorio e il negozio erano collocati al pianterreno di un edificio costruito all’inizio di via dei Mercanti, mentre l’alloggio era al primo piano.

una stirpe di artigiani

I Massia discendevano da una dinastia di tessitori ed erano artigiani “passamantieri”. Continuano ad esserlo tuttora, ma nel frattempo le cose sono cambiate. Nel 1880 il negozio si è spostato in via Giuseppe Barbaroux 20 ed è ancora lì, nel cuore del cosiddetto quadrilatero romano. Dal 2000 la produzione è stata trasferita da Torino a Pianezza, in seguito ai lavori di riadattamento di un’ex fabbrica di bachelite sita in lungo Dora Maria Bricca 20. Qui, nel 2001 è stato inaugurato anche il Museo della Passamaneria Vittorio Massia.

Oggi è il pronipote di Vittorio e Antonietta, Massimiliano “Max”, a essere a capo dell’azienda. L’Antica Fabbrica Passamanerie Vittorio Massia è la più longeva d’Europa e l’unica ancora attiva in Italia. Se si pensa che alla metà dell’Ottocento Torino vantava la presenza di ben duecento passamantieri, si comprende come il saldo legame famigliare, l’alta professionalità e la capacità di rinnovarsi, senza mai dimenticare la tradizione, siano state quelle marce in più che hanno consentito alla Fabbrica Massia di entrare nel nuovo millennio.

lungo il filo del tempo

La storia della famiglia affonda le radici nella Torino del Seicento. Risale al lontano 1686 il primo documento in cui viene citato un Massia. Si tratta di Giovanni Battista, che figura tra i 138 firmatari dei Privilegi, Regolamenti e Statuti dell’Università de’ Mastri Mercanti Fabbricatori di stoffe, e drappi d’oro, argento e seta. Giovanni Battista operava all’interno dell’Albergo di Virtù, un istituto assistenziale fondato nel 1597, situato dapprima in via delle Rosine e poi in piazza Carlo Emanuele II, e finalizzato all’insegnamento di un lavoro manuale ai fanciulli di famiglie economicamente decadute. Nell’Albergo di Virtù lavoravano soprattutto mastri tessitori e filatori, aiutati da questi giovani che, dopo sei anni di apprendistato, potevano cercare lavoro all’esterno. Giovanni Battista, inoltre, fu il primo della dinastia a ottenere l’autorizzazione per la tessitura di velluti uniti. Il mestiere venne tramandato di padre in figlio, ma la ricostruzione della genealogia è assai difficoltosa, soprattutto tra Settecento e Ottocento, perché mancano i documenti, dispersi a causa della guerra. Ed eccoci quindi ritornare al fatidico 1843.

Racconta Max Massia:

“Fu forse il mio quadrisnonno, nel 1843, a variare dall’attività di tessitura a quella di passamaneria, proprio nel periodo del suo boom. All’epoca le passamanerie erano richieste nell’arredamento, nell’abbigliamento, per le carrozze… e chi più ne ha più ne metta. Oltre a essere Fornitori della Real Casa, nel 1846 diventiamo anche fornitori di tutte le cordoliere e le mostrine per l’esercito regio ed è probabile che fornissimo i tessuti ancor prima di specializzarci nelle passamanerie.”

la ripresa di una eredità

Con il bisnonno di Max la produzione si svolgeva in via della Basilica 20, all’interno dello stesso palazzo in cui dal 1919 ebbe sede anche la famosa Ditta Penne Aurora. L’edificio fu spazzato via dai bombardamenti del 1943 e non venne mai più ricostruito. Dopo la seconda guerra mondiale, il nonno di Max, Giovanni, decise di concentrarsi di più sulla commercializzazione di passamanerie che sulla produzione e i macchinari furono accantonati. È stato Vittorio, figlio di Giovanni e padre di Max, a riattivare le attrezzature per imboccare la strada del restauro e della ricostruzione storica, che oggi costituisce la divisione Heritage dell’attività della Fabbrica Massia. Racconta Max in merito:

“Lavoriamo per antiquari, collezionisti, musei e residenze storiche. Abbiamo curato l’allestimento delle residenze sabaude, da Palazzo Reale a Venaria, da Agliè a Racconigi. Siamo specializzati nei teatri. Siamo intervenuti sul Bolshoi di Mosca, sul Colón di Buenos Aires, sull’Opéra Garnier di Parigi. In Italia abbiamo fatto una settantina di teatri, tra cui il Bellini di Catania, la Fenice di Venezia, prima e dopo l’incendio, e il Carignano qui a Torino. Il sipario del Carignano era stato fatto dal mio bisnonno. In occasione del restauro del teatro, noi lo abbiamo ricostruito esattamente com’era in origine e lo abbiamo donato.”

Altri committenti sono le compagnie teatrali, i gruppi storici e gli organizzatori di feste popolari, per i quali è fondamentale avere la certezza che i dettagli dei costumi indossati siano filologicamente corretti. E allora possiamo trovare l’intervento della Fabbrica Massia sulle divise del Gruppo Storico Pietro Micca e nelle sfilate del Palio di Siena e di Asti. Ma non solo: negli anni ’60 erano firmati Massia gli ornamenti interni dell’automobile papale e quelli della vettura del Presidente della Repubblica.

tradizione e innovazione

Più contemporanea è la divisione Day by day, che si focalizza invece su prodotti realizzati in esclusiva e sull’uso di materiali nuovi (neoprene, fibra di carbonio, fibre ottiche). Non mancano nemmeno le collaborazioni con le grandi firme dell’alta moda come Prada, Westwood, Dsquared, Armani, Cavalli, D&G, Fendi. Importanti sono poi le creazioni tese a modernizzare i manufatti classici. Dice Max:

“Ce n’è bisogno. Quando si parla di passamaneria subito si pensa a quelle frange tutte polverose che stavano sotto il divano della nonna!”

Sono esempi di questa produzione i Tassel Brick, colorati bracciali per l’arredamento in cui i fili intrecciati si mescolano a piccole sculture create con i mattoncini LEGO, e i Cocktail Bracelet, lunghi soutache che si trasformano in eleganti braccialetti personalizzabili.

nel cuore del quadrilatero

E le donne della famiglia? Anche loro negli anni si sono passate il testimone. Da Antonietta a Nella, per arrivare a Margherita, dal 1968 affiancata dalla signora Angela, sono loro a curare la parte di vendita al pubblico che si svolge in via Barbaroux. Il negozio è situato all’interno dello storico palazzo dei conti Giriodi di Panissera, dove Silvio Pellico si ritirò a scrivere Le mie prigioni subito dopo la scarcerazione dallo Spielberg. Dal 1880, anno di apertura del negozio, nulla è cambiato. Nel contesto della via, una delle più antiche della città, ben si inseriscono le raffinate vetrine e la sobrietà dell’insegna su cui campeggia il nome del fondatore. A questo proposito, diceva Giovanni ridendo:

Mio figlio l’ho chiamato Vittorio, è una tradizione della nostra famiglia: così di generazione in generazione risparmiamo sull’insegna.

Il locale di vendita è arredato con le antiche armadiature in legno di palissandro che ricoprono per intero le pareti. La parte superiore è caratterizzata dalla presenza di scaffali a giorno, o protetti da ante di vetro, in cui è esposta la merce dai colori variopinti. Nella parte inferiore, oltre ai cassetti, si trovano vani chiusi da ante piene. Il bancone corre tutto intorno alla sala e su di esso trovano posto un registratore di cassa americano e un bilancino. Due sedie Savonarola sono pronte per far accomodare gli acquirenti più indecisi. In questa atmosfera d’altri tempi non è difficile immaginare quello che raccontava Giovanni:

“la principessa Iolanda di Savoia veniva spesso in bottega, si sedeva sul bancone e chiacchierava con mia madre.”

All’interno di questa bottega storica tutta l’attenzione del cliente viene catturata dalla ricca esposizione dei prodotti. Tuttavia, si trovano appese alle pareti anche alcune stampe antiche tratte dalla celeberrima Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers di Diderot e D’Alembert, pubblicata tra 1751 e 1780. Raffigurano gli strumenti per la ritorcitura dei filati, i telai, gli orditoi utilizzati dai passamantieri, gli stessi su cui ancora oggi lavorano i dipendenti dell’azienda nella sede di Pianezza.

formazione in bottega

Per quanto riguarda la produzione, le collaboratrici della Fabbrica Massia si occupano delle lavorazioni più minute, al banco, come intrecci e nodi. La lavorazione industriale, che prevede la movimentazione di macchinari molto grandi e pesanti, è svolta da personale prettamente maschile. In generale, i collaboratori della Fabbrica sono laureati in Restauro e Storia dell’Arte, ma la formazione vera e propria avviene all’interno dell’azienda. L’iter dura cinque anni, durante i quali si ricoprono tutte le mansioni, così da capire meglio qual è quella per cui si ha più attitudine.

Si segue perciò la tradizione di famiglia, che prevedeva che il passaggio dei segreti del mestiere potesse avvenire solo lavorando giorno dopo giorno all’interno della bottega.

il museo

Presso lo stabilimento di Pianezza è possibile visitare su prenotazione il Museo della Passamaneria Vittorio Massia. Si possono scoprire le varie tecniche e fasi della lavorazione e osservare i telai e le attrezzature tessili, risalenti a un arco di tempo che corre dalla fine del Settecento alla metà del Novecento. Inoltre, il museo conserva quasi duecento anime in legno tornito usate per confezionare fiocchi e bracciali, numerosi campioni di passamanerie antiche e una biblioteca di libri specialistici, dal XIX secolo a oggi, riguardanti la tessitura.

L’origine dell’arte della passamaneria è antica, testimoniata da ritrovamenti in Egitto. Dall’Oriente, dove viene esercitata perlopiù per guarnire i tappeti, si è diffusa in Europa in seguito alle Crociate.

La creazione delle passamanerie è un’attività certosina: spesso per realizzare soltanto venti centimetri di prodotto non basta un giorno intero e due anni possono essere spesi sopra un unico gallone. La stessa preparazione dei macchinari può richiedere fino a sei mesi. Precisione e pazienza sono le virtù che un buon passamantiere deve sapere padroneggiare, perciò “non si può fare questo lavoro se non lo si ama”, afferma Max. Questo lo sanno davvero bene i Massia: da generazioni continuano a proiettare l’arte della passamaneria verso il futuro, maneggiando abilmente tessuti e fili, con un’attenzione particolare verso quelli viola. Ricordano il colore di quei fiori raccolti da Vittorio per la sua Antonietta sul finire dell’Ottocento.

 

Timbri falsi per la Resistenza: la Premiata Ditta Casalegno Timbri, Via dell’Arsenale 42

 

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una porta su un mondo fantastico

A Torino, nei pressi della stazione ferroviaria di Porta Nuova, in via Arsenale 42, esiste una bottega che non stonerebbe per niente nella Diagon Alley immaginata dalla fantasia di J. K. Rowling. Questo negozio possiede due vetrine piccine, poste su un alto zoccolo in marmo grigio, che fiancheggiano la stretta porta d’ingresso. Circonda il tutto una classica devanture in ferro e ghisa, tipologia di serramento diffusasi in fretta nei locali del centro storico tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo, grazie soprattutto alla semplicità di esecuzione e di manutenzione. La porta e le vetrine sono sormontate da un’insegna che nel 2014 ha avuto l’onore di essere citata dalla graphic designer americana Louise Fili nel suo volume dedicato alle più belle insegne d’Italia. In vetro nero, leggermente aggettante, reca la scritta a lettere bianche “Timbri Incisioni Tipografia” e, vicino, il cognome “Casalegno” in un carattere aggraziato e tondeggiante. Si tratta infatti di Casalegno Timbri, una delle attività artigianali storiche a gestione famigliare della città.

attraverso la storia

Fu Giuseppe Casalegno ad aprire la sua porta per la prima volta ben 110 anni fa. All’epoca attività artigianali di questo tipo non erano così insolite a vedersi, invece oggi sembrano quasi spuntate fuori da un libro di fiabe in mezzo alle vetrine di prodotti omologati e dalle insegne di dubbio gusto. Nel terzo millennio, quasi tutti i più antichi esercizi commerciali di via Arsenale sono purtroppo spariti, ma quella porta resiste ancora e viene aperta da Laura e Gianluigi, i fratelli appartenenti alla quarta generazione di Casalegno. Le nipoti di Giuseppe, le sorelle Giovanna, detta Vanna, e Maria Lucia, sono la memoria storica del negozio.

una bottega belle epoque

Varcare la soglia di Casalegno Timbri è come essere catapultati indietro nel tempo, dritti nella sfavillante Torino della Belle Époque o, quanto meno, in uno dei negozi della Diagon Alley descritta sopra. La bottega è microscopica, composta dall’area di vendita con il pavimento in mattonelle rosse e dal laboratorio sul retro, non accessibile ai clienti. Le pareti sono fiancheggiate da espositori con vetrinette e da scaffalature in legno scuro ad ante scorrevoli che, insieme al bancone, sono pieni di oggetti. Timbri, sigilli in ottone, bastoncini di ceralacca, biglietti da visita, ex libris, attrezzi tipografici e da incisione fino a curiosi rulli a stampo usati per imprimere sui tessuti le immagini che le sartine avrebbero poi ricamato… ogni angolo è pensato per sfruttare al meglio tutto lo spazio disponibile. Insomma, qui l’horror vacui, il terrore degli spazi vuoti, non è proprio di casa. Alle pareti, oltre a numerosi esempi di targhe di varie forme incise negli stili più diversi, sono appesi anche i diplomi di merito ottenuti negli anni e le esercitazioni di disegno fatte dal capostipite durante i suoi studi da futuro artigiano-artista.

l’arte dell’incisione

Giuseppe Casalegno era un valente artigiano. Alla fine dell’Ottocento frequentò per cinque anni le Scuole Tecniche Operaie di San Carlo, nate nel 1848 da un’idea di Gabriele Capello detto Moncalvo, l’ebanista del re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia, e finalizzate a fornire una formazione professionale sul territorio.

Giuseppe vi conseguì il diploma di incisore e nell’anno scolastico 1894–1895 vinse anche il premio per il migliore disegno araldico. Era particolarmente interessato agli stemmi nobiliari, che studiò sempre in modo approfondito e che incise più volte su svariati anelli e sigilli, assecondando le elevate richieste in tal senso da parte della nobiltà subalpina. La carriera lavorativa di Giuseppe ebbe inizio con l’apprendistato. Trascorsi alcuni anni, decise di mettersi in proprio installando la sua attività all’interno di alcuni locali rivolti verso il cortile del palazzo di via Arsenale 42. Il lavoro girava bene e così Giuseppe passò dal cortile alla più prestigiosa via, aprendo al pubblico il negozio con annesso il laboratorio d’incisione. Correva l’anno 1908.

il corsivo casalegno

Quarant’anni prima Giuseppe era nato a Torino da una famiglia di lontane origini astigiane. All’epoca dell’apertura della bottega era già sposato e aveva due figli, Luigi e Mario, nati entrambi agli inizi del XX secolo. I due fratelli impararono presto il mestiere dal padre ed entrarono subito nel laboratorio. Luigi si dedicò all’arte incisoria e calligrafica. Arrivò a perfezionare e a personalizzare i tratti del corsivo inglese, il carattere di scrittura più diffuso in Europa tra Settecento e Novecento, con cui il padre era diventato famoso e del quale si sente dire ancora oggi: “il corsivo di Casalegno, non è copiabile”. Mario si indirizzò invece verso l’arte tipografica. Il lavoro si svolgeva tutto nel laboratorio retrostante la zona di vendita al pubblico e inizialmente era distribuito solo tra padre e figli. In seguito, man mano che l’attività si ingrandì, si aggiunsero parecchi aiutanti. Ricorda Vanna:

Nel laboratorio c’era un grosso bancone in legno che correva tutto intorno alla stanza. Aveva degli incavi in cui sedevano i vari apprendisti impegnati ciascuno nella loro parte di lavoro.

la seconda sede

Nel 1937 venne anche aperta la succursale in piazza Palazzo di Città. Il lavoro andava a gonfie vele: il nuovo negozio era vicino al vecchio Palazzo di Giustizia di via Corte d’Appello e riceveva molte commissioni soprattutto da parte degli avvocati. Chiuso nel 2014, nell’ultimo periodo fu gestito da Anna, la nuora di Luigi. A Luigi nacquero tre figli: Giuseppe, il marito di Anna detto Pino, Vanna e Maria Lucia. Mario invece non si sposò mai e non ebbe figli.

Casalegno Timbri ha attraversato tutti i grandi eventi del cosiddetto secolo breve. Anche sotto le bombe della Seconda guerra mondiale il negozio rimase aperto e, racconta Vanna:

“Io ero piccola e in tempo di guerra eravamo sfollati a Giaveno, ma rammento che, nonostante il negozio fosse piccolo, mio padre, che fu membro anche del CLN-Comitato di Liberazione Nazionale, nascose parecchie persone e fece tanti timbri falsi…”

riconoscimenti e soddisfazioni

La famiglia era molto stimata: da sempre dedita alle opere di beneficenza, fu attiva sia nell’ambito dell’Azione Cattolica che della Società San Vincenzo De Paoli. Nel giugno 1926 il capostipite Giuseppe fu insignito dal papa Pio XI della Croce pro Ecclesia et Pontifice, onorificenza conferita a coloro che si distinguono per il servizio nei confronti della Chiesa, e ricevette anche la nomina a cavaliere dell’Ordine di Santa Maria della Mercede. Il figlio Luigi si dedicò molto alle sorti della sua categoria professionale, ottenendo il diploma di merito dalla C.A.S.A. — Confederazione Autonoma Sindacati Artigiani

“per la sensibilità d’animo nel paziente lavoro e nella dedizione ai problemi sindacali dell’artigianato.”

Fu inoltre insignito del cavalierato dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana e la pergamena ricevuta, redatta a mano, fa bella mostra di sé nel negozio, all’interno di una sobria cornice dorata.

Nel 1950 Giuseppe Casalegno morì e la bottega passò a Luigi e Mario, che la traghettarono negli anni del boom economico insegnando i segreti del mestiere alla terza generazione della famiglia. Fu subito dopo le scuole medie che il primogenito di Luigi, Pino, entrò nella bottega. Mentre lavorava con il padre e lo zio, studiava alle scuole serali. Vanna frequentò le scuole commerciali e poi, nel 1939, a quindici anni, entrò anche lei in negozio, ma rinunciando alle sue aspirazioni.

“All’inizio non volevo lavorare lì, ne ho fatto una malattia. Il mio sogno era di continuare a studiare per diventare una maestra. Ero poi molto timida. Spesso capitava che chi arrivava in negozio non volesse affatto parlare con me, poco più che una bambina, ma con mio padre. Allora ci rimanevo molto male e mi sentivo mortificata. Poco per volta però ho iniziato ad amare molto questo lavoro. Ho capito che non era fatto di sola manualità, ma anche di fantasia e di arte. Lavorando al negozio ho imparato a distinguere il bello dal brutto. Non importa se non ho fatto la maestra. Mia figlia Donatella fa l’insegnante e così, in un certo senso, il mio sogno si è comunque realizzato.”

L’ultimogenita di Luigi, Maria Lucia, frequentò l’Istituto Clotilde di Savoia, poi per un po’ aiutò la mamma nell’amministrazione della casa e infine andò a lavorare anche lei al negozio con i fratelli. È stata l’ultima della terza generazione di Casalegno ad andare in pensione. Dice Vanna:

“Siamo talmente orgogliose, soprattutto dei nostri avi, che ne paliamo volentieri. Anche Pino lo era. Nonostante fosse malato, venne fino all’ultimo in negozio. Stava nel retro seduto su una poltrona e controllava tutto, era lui la mente. Il nostro negozio è bellissimo, una bomboniera davvero.”

al passo coi tempi

Ormai sono più di trent’anni che i figli di Pino, Gianluigi e Laura, sono al timone della ditta. Accanto alle lavorazioni artigianali, sempre personalizzabili e realizzate con rapidità, la quarta generazione Casalegno ha introdotto l’uso delle nuove tecnologie. Senza tralasciare mai l’accuratezza nei confronti del prodotto e l’attenzione alle esigenze del cliente, Gianluigi e Laura, non solo artigiani ma veri e propri artisti, sono riusciti a fondere l’innovazione con la tradizione. E continuano, in questo tempo in cui tutto cambia alla velocità della luce, ad aprire la porta del negozio della loro famiglia.

Quando vi trovate a passare per via Arsenale, date un’occhiata alle vetrine di Casalegno Timbri e fate capolino dentro al negozio. Vi riporterà per un momento alle atmosfere della vecchia Torino. E poi, chissà, potrebbe anche capitarvi di vedere entrare un maghetto in erba che, dopo aver acquistato la sua bacchetta magica nella rivendita del venerando signor Garrick Olivander, è pronto a scegliere da Casalegno lo stemma del suo sigillo per la ceralacca da portare con sé ad Hogwarts.

 

La sede storica della Banca Sella in Piazza Castello: un tuffo nella Belle Epoque

La filiale della Banca sella in Piazza Castello 127 ha mantenuto nel tempo l’arredo e il fascino di inizio secolo, pur nei mutamenti tecnologici che ne fanno una delle banche private più dinamiche della finanza italiana.

Nella splendida cornice della Sala di Rappresentanza, al piano terreno, trovano la loro collocazione ideale eventi come ad esempio l’esposizione della pittrice Line Danielsen, norvegese di nascita ma torinese di adozione, che è rimasta affascinata dall’atmosfera. L’arredo elegante, la boiserie alle pareti, gli sfarzosi lampadari a goccia, le bronzee appliques alle pareti, ricreano il ricordo di un’epoca di Torino vetrina d’Italia.

 

Cereria Conterno di Piazza Solferino, “Fornitori di candele di Casa Reale”

È la più antica di Torino, tuttora esistente, fondata nel 1795. In un documento del Vicariato di quell’anno, il 18 aprile, il marchese d’Ormea faceva domanda per poter aprire un canale «nella contrada attinente al mercato del bosco per derivare acqua», e si accennava ad «altro simile di già esistente nella casa dell’illustrissimo signor marchese di Parella». Bosco in piemontese significa anche legno e l’antica piazza oggi denominata Solferino era un tempo nota come piazza della Legna, poiché vi si svolgeva il mercato del legname. In quella richiesta del marchese d’Ormea sì può reperire, dunque, un cenno preciso alla Fabbrica della Cera, non molto vasta, poiché dava lavoro a due persone e una apprendista.

Produceva circa cinquemila chilogrammi di cera all’anno, La clientela era buona: molte le candele per le chiese u numerosi prodotti derivati dalla cera, fra i quali spiccava, come innovazione, il “cordollo”, cerino particolare da illuminazione, inoltre cera per lucidare legni, per cosmetici c per forme dentarie.

Nel 1885 gli eredi, fratelli Beimondo, trasferirono la fabbrica in via Moniebcllo e il negozio, in piazza Solferino 3, venne dato in gestione a Francesco Corrà. Nel 1867 la fabbrica e il negozio furono ceduti dai Beimondo a Luigi Conterno, il quale subito s'impegnò per dare impulso all’azienda rendendola idonea ai tempi nuovi.

Inventò una macchina per fabbricare candele c anche ciò portò nuovi clienti, mentre lasciò il negozio affidato al Coirà, Luigi Conterno vedeva espandersi la produzione e nel 1879 diede avvio a un’altra fabbrica in una via del centro, al numero 38 di via Borgo Nuovo, strada che prenderà poco dopo il nome di Giuseppe Mazzini.

Nelle “guide” di Torino appare nel 1885 la dizione «Luigi Contemo, fabbrica di candele con succursale in via Lagrange 5 e via Mazzini 27». C’erano stati, dunque, nel frattempo, alcuni mutamenti di sede. Nel 1896 un’altra succursale venne aperta al numero 9 di via Andrea Doria.

Candele erano impiegate in banchetti ufficiali, non soltanto per illuminare le mense, ma anche come ornamento. Ne venivano richieste in numerose residenze di nobili e, sempre più spesso, anche a Palazzo Reale. Ciò spiega perché nel 1877 la ditta fosse autorizzata a fregiarsi del brevetto ducale e nel 1878 potesse inalberare sull’insegna la particolare e ambita etichetta di “Fornitori di Casa Reale”.

Nel 1898 il negozio di piazza Solferino da Francesco Corrà passò nelle mani del titolare Luigi Contemo. La cereria si vide assegnare la medaglia d’oro all’Esposizione di Torino per il settore di Arte Sacra. 1 cambiamenti non erano ancora del tutto terminati, per il volgere del tempo e il succedersi delle generazioni. Nel 1910 fabbrica e negozio passarono a Luigi Bongiovanni a cui, nel 1928, subentrò il genero, Vittorio Giuganino.

Nel 1968 la cereria passò in proprietà a Giuseppina Colenghi, attuale proprietaria, e il negozio fu condotto dalla figlia, Carla. Anche la fabbrica ebbe ancora mutamenti: venne portata prima in via Modena, quindi in corso Potenza. La cererìa di piazza Solferino rimane, come istituzione storica, fra i più antichi negozi di Torino.

 

I mercati di Torino

 

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La piacevole sorpresa, durante un viaggio, di arrivare in una città che non si conosce e trovarsi inaspettatamente in mezzo a un mercato è difficile da descrivere. La gente, la merce, ci dicono tante cose di quel posto, più di ogni guida turistica. Ci raccontano di abitudini, di prodotti del territorio, del modo di mangiare e di tante altre cose. Il mercato è un luogo universale, un punto di riferimento da sempre immancabile e necessario.

Nelle grandi città i supermercati non sono riusciti a cancellare i mercati, allestiti ogni giorno feriale in mezzo ai viali o nelle piazze. Addirittura Firenze ne ha di più rispetto alle grandi strutture commerciali, Roma ne ha un po’ di meno, mentre Torino più della metà.

Tra i banchi è sempre più frequente incontrare venditori provenienti da diversi continenti, con merce che non è più solo esotica, ma è fatta di prodotti di ogni tipo. Nuovi addetti, per un lavoro che in certe famiglie si tramanda da generazioni, continuando a svolgere il mestiere di commerciante ambulante con orgoglio, senza cercare di trasferire la propria attività tra i muri di un negozio.

Come non è neanche raro che alcuni negozi, approfittando del grande afflusso di gente richiamato dal mercato, allarghino il loro spazio espositivo con una bancarella di fronte alla loro vetrina.

La mattina presto, quando arrivano i commercianti, non c'è un grande vociare, perche tutti sono ancora assonnati, ma è possibile cogliere qualche battuta che rimbalza tra i commercianti, per compensare la fatica di una levataccia e dell’attrezzare il banco di vendita. Parole dette a denti più stretti quando il cielo è inclemente, e per chi lavora all aperto la pioggia può rovinare la giornata. Ma non mancano gli ottimisti, che invece di prendersela con il tempo si mettono a canticchiare alcune parole di una canzone, immancabilmente degli anni Sessanta. Se piove è Scende la pioggia di Gianni Morandi a consolare gli animi, mentre se il problema è il freddo Ma che freddo fa di Nada è la citazione musicale che viene subito in mente.

Il mercato era effettivamente una volta, prima della radio, della televisione e del cinema, il luogo dove si imparavano nuove canzoni. Prima di avere questi apparecchi in casa propria, si andava alle fiere anche per conoscere qualche nuovo motivo musicale, che veniva cantato e suonato in mezzo alla gente, con lo scopo di venderne il testo stampato su un foglio di carta. Se la memoria non tradiva, diventava così facile imparare a cantarla e diffonderla con parenti e amici.

Se per un paese è sufficiente un mercato con tutti i tipi di merci esposte vicine tra loro, per una città, nei secoli passati, occorreva diversificare gli spazi dedicati a un particolare prodotto.

Collocazioni che sono poco alla volta cambiate nel tempo, con le continue modifiche dell’assetto urbano con le quali i nuovi luoghi di mercato si sono intrecciati, al punto che non è neppure ben chiaro chi abbia determinato luna o l’altra cosa. Resta comunque evidente che alla storia di Torino si è sempre accompagnata quella dei mercati che, certamente fin dalla sua origine urbana, ne hanno fatto da cornice. O meglio ancora da cuore, visto che a frequentarli è sempre stata la gente comune, che da sempre costituisce l’anima di ogni comunità, piccola o grande che fosse.

Ancora oggi, se questa città è costellata di tante zone dove ogni giorno feriale si svolge un mercato, è perché evidentemente la gente ne sente la necessità, e sa bene che un banco di qualunque prodotto ha sempre i prezzi inferiori rispetto a qualsiasi altro punto di vendita fisso, negozio o supermercato che sia. Cento anni di storia industriale hanno formato a Torino un consistente ceto operaio, che nei mercati ha sempre saputo approvvigionarsi di ciò che necessitava, tanto che ci sono anche alcune bancarelle ambulanti che i clienti se li vanno a cercare davanti ai cancelli della Fiat: una consuetudine che si va però perdendo.

Certo, ci sono mercati che hanno assunto fama di boutique a buon prezzo, come quello della Crocetta, zona residenziale di un certo prestigio dove, negli ultimi decenni, i commercianti ambulanti hanno saputo offrire un tipo di merce consona alla classe sociale più rappresentata.

Come si possono incontrare ovunque, a fine mercato, persone che rovistano tra gli avanzi di frutta e verdura, per trovare qualcosa da mettere in tavola senza dovere spendere niente.

La realtà odierna di quarantadue mercati, con migliaia di banchi che ogni giorno lavorativo espongono la loro merce, affonda le sue radici storiche documentate fin dal Medioevo, e trova il suo inizio nella piazza delle Erbe, l’attuale piazza Palazzo di Città. Qui, ancora nella struttura urbana tipica di un insediamento romano, venne localizzato il mercato più necessario per un piccolo centro abitato, quello degli alimenti, soprattutto verdure.

Poi, nel corso dei secoli, insieme all’allargamento della citta aumentarono gli spazi che servivano a mercati sempre più specializzati. Gerano quelli del grano, del legno, del carbone, di fieno e paglia, dei vino, di uova e pollame e, un po’ più lontano per motivi igienici, del bestiame.

Il loro confine rimase compreso nelle mura della città fortificata, che fino a tutto il Settecento riusciranno a contenerli, mentre un deciso ampliamento dello spazio abitato, e quindi delie aree commerciali, avvenne nel secolo seguente.

Si trattava ancora, comunque, di una veste rurale, con prodotti che mantenevano un forte collegamento con la vicina campagna e collina. Torino era una città che non conosceva ancora l’industrializzazione, e il ritmo di vita era un ibrido tra le tradizioni agricole dei paesi vicini e le esigenze di un ambiente prettamente urbano. In questi secoli, almeno fino all Ottocento, attorno a nuovi spazi sì alzarono edifìci, che fecero da corona a una piazza per il mercato.

Dopo un certo numero di anni, la piazza veniva abbandonata poiché il mercato aveva bisogno di aree più periferiche con una superficie più adatta. Può sembrare strano, oggi, immaginarsi piazza Solferino con un ampio spazio dedicato alla vendita di legna e carbone, oppure piazza San Carlo con banchi di generi alimentari, o ancora piazza Carlina con il commercio del vino.

Non mancano neanche esempi di spazi coperti, come quello occupato oggi dal Sermig di Ernesto Olivero, che un tempo era utilizzato per il mercato del bestiame.

Ma è una storia neppure tanto lontana, appena dell’ottocento, mentre un più deciso cambiamento avvenne nel Novecento, con la nascita dell’industria automobilistica e con essa di tante altre industrie minori.

Dalle campagne vicine arrivava manodopera. Si costruivano case, e con queste spazi per i mercati. Non più però con caratteristiche agrarie, ma con merci che potevano soddisfare le nuove necessità. Cambiarono i nomi dei mercati, che venivano identificati con la zona urbana che li ospitava e le merci proposte erano di ogni genere.

Prevalevano i banchi di vendita di prodotti alimentari, e per rifornire questi e i negozi venne realizzato, nel 1933, il grande mercato ortofrutticolo all’ingrosso, i Mercati Generali. Successivamente, nel dopoguerra, la massiccia immigrazione da altre regioni italiane, soprattutto da quelle meridionali, farà ingigantire la città tra gli anni Cinquanta e Sessanta e in ogni nuova zona urbana nascerà l’immancabile mercato.

Uno spazio di vendita che oggi rimane anche in pieno centro, come avviene per piazza Carlo Emanuele II, più conosciuta come piazza Carlina, dove ogni mattina feriale alcuni banchi allestiscono un piccolo commercio ambulante che la colora di gente e merci varie.

Una tradizione che oggi rappresenta il cuore di un sistema mercatale che si allarga capillarmente in ogni quartiere di Torino, da nord a sud e da est a ovest. Piazze, viali, piccoli spazi, si riempiono con una consuetudine che continua da almeno mille anni e che potrà continuare ancora, visto che la richiesta di questi commerci non accenna a diminuire, ma anzi sembra rivitalizzarsi mano a mano che il tempo passa.

Di tutta questa presenza di bancarelle, non ne risentono i negozi posti in prossimità dei mercati, perché l’attrattiva dei banchi giova anche a chi esercita un tipo di commercio fisso. Non ci sono lamentele di concorrenza, visto che la storicità di entrambe le modalità di vendita si è ormai consolidata insieme alla clientela del quartiere. Un banco dove fare acquisti può essere comodo quando si è in orario di chiusura dei negozi, mentre di pomeriggio è il negozio ad essere aperto; e non sempre si trova un certo tipo di merce alimentare, come il pesce, vicino alla zona dove si risiede.

Considerando inoltre l’andamento della situazione economica di molte famiglie, risparmiare ogni giorno sulla spesa alimentare, approvvigionandosi al mercato anziché nei negozi, aiuta a migliorare i propri conti. In più, lo smercio abbondante operato da alcuni commercianti ambulanti garantisce la costante freschezza della merce. Ci sono poi, tra quelli che vendono generi alimentari, alcuni che propongono esclusivamente prodotti della loro terra d’origine, generalmente il meridione. Così, si dà la possibilità di avere formaggi, salumi, olio, frutta o verdura della terra d’origine. Un legame che continua attraverso il cibo e che fa sentire meno la lontananza degli affetti, lasciati per cercare un futuro migliore.

Anche in questo i mercati di Torino si sono modificati attraverso i secoli, continuandi ad essere lo specchio di una società che cambia, prima molto lentamente, poi in maniera sempre più rapida.

Alle immigrazioni dal sud dell’Italia si sono sostituite quelle da altri continenti, e anche queste, immancabilmente, hanno creato nuove tipologie di mercati, aggiungendo odori e sapori esotici ai tradizionali banchi del mercato di Porta Palazzo. Inserito nel cuore storico della città, immediatamente a ridosso delle tracce della sua origine romana, rappresentate dalla Porta Palatina, questo mercato ha sempre emanato un fascino particolare per tutto il tessuto urbano, e non solo.

Non è un caso che le nuove connotazioni sociali derivate nel tempo da migrazioni di gente forestiera abbiano trovato il loro primo insediamento in questa zona, quasi a ricordare l’inizio di tutto ciò che è avvenuto a Torino dal momento della sua fondazione.

E tutti quelli che la abitano vogliono continuare, nel loro modo di essere torinesi, le abitudini alimentari delle loro terre, e la possibilità, a chi non appartiene alla loro cultura, di gustare questi cibi sconosciuti, acquistandoli sui banchi o nei negozi.

La storia di quello che oggi è diventato il più vario e colorato mercato di Torino, non solo per le merci, ma anche per la gente che lo frequenta, inizia nel Settecento, con lo spostamento del mercato che fino ad allora si teneva in piazza Palazzo di Città.

C’era I’esigenza di dare più decoro al centro amministrativo, e così si individuò una nuova area, dove all’inizio si vendevano principalmente frutta, pesci e tele. Proprio per la merce principale che si vendeva, questa prese il nome di piazza della Frutta, poi modificato nel tempo in piazza d’Italia, piazza Emanuele Filiberto, fino all’attuale nome di piazza della Repubblica, attribuitole nel 1946.

Ai generi commerciali originari, nel tempo se ne aggiunsero molti altri, individuando in questo grande spazio un insediamento ottimale non solo per la vendita, ma anche la produzione. Mulini, filatoi, un macello, una ghiacciaia fecero di questo grande borgo il centro commerciale di una Torino che continuava poco alla volta il suo ampliamento urbanistico. Anche l’architettura di quest’area venne condizionata dalla presenza del mercato, e i nuovi edifici ottocenteschi ne diventarono un’elegante cornice, disegnando così la nuova piazza.

L’Ottocento vide consolidarsi la vocazione commerciale del borgo, mentre l’esigenza di dare una maggiore stabilità e organizzazione ai tradizionali cortili o alle pìccole tettoie dove si svolgeva il commercio, e anche maggiori garanzie igieniche, fece sì che tra la fine di quel secolo e l’inizio del Novecento si realizzassero le grandi strutture in ferro e vetro che oggi continuano a caratterizzarne l’aspetto.

Un’altra sua tipicità è il Balon, lo storico mercato delle cose vecchie, che negli ultimi decenni è stato imitato da innumerevoli mercatini dell’usato, che si tengono una o più volte all’anno in molti paesi e città piemontesi. Oggi è frequentato più che altro per il collezionismo, o per trovare qualcosa di antico, mentre un tempo a cercare tra il vecchiume era chi non si poteva permettere di acquistare merce nuova, e sperava nell’occasione. Se il mercato dì piazza della Repubblica è quotidiano, quello del Balon si tiene ogni sabato, attirando compratori o curiosi da ogni parte del Piemonte.

 

Le vecchie malattie del bestiame descritte nel pittoresco dialetto dei mercati e delle fiere

 

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Sia per l’allevamento degli animali che per il loro commercio, i principali difetti o malattie avevano un nome particolare conosciuto da tutti e usato anche dai veterinari per capire e farsi capire dai contadini. Come decenni, o addirittura secoli fa, i termini che descrivono anomalie e patologie sono rimasti nella semplice cultura lessicale veterinaria della gente di campagna, e ben descritte dalla lingua piemontese:

Bovin i

aborto: bestia sfrasà

andare a sbattere contro altre bestie: vissi 'd dé

febbre catarrale: mal massuch

muovere la testa su e giù: 'nveuja dl’aso

ninfomania: bestia torera

prolasso uterino: mostré la mare

rotazione della lingua: 'nvira dla serp

selvatichezza: servaj

succhiarsi i capezzoli: pupesse

ticchio: tich

zoppia: sopin-a lombarda

Equini

bolsaggine: caval bols

infezione ad un arto: caval sop

farcino: mòrva

selvatichezza: servaj

ticchio: tich

Suini

dissenteria emorragica: mal dij crin

mal rossino: mal ros

setticemia: mal dij crin

 

Le antiche consuetudini nelle contrattazioni

 

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Un tempo non c’erano certamente tutte le garanzie di controllo e di legge che oggi consentono di effettuare un acquisto o una vendita con una certa tranquillità, anche se probabilmente non si sarà mai sicuri di niente. L’ingegno umano, infatti, è senza limiti, soprattutto dove c’è la possibilità di truffare il prossimo.

C’era tutta una serie di leggi non scritte, ma comunque conosciute e rispettate: gli usi e le consuetudini relative alle varie contrattazioni. Valevano per molte merci: una normativa, dunque, consolidata, che nelle varie trattazioni di merci, visto che pochi sapevano leggere e scrivere, non faceva riferimento ad un contratto ufficiale, con tanto di firme.

Era sufficiente una semplice stretta di mano, citata persino negli statuti medievali con il termine di palmata, e che quindi da molti secoli e ancora oggi ha qualcosa che va oltre il semplice gesto simbolico tra persone che danno e ricevono fiducia.

A suggellare l’accordo a volte c’era anche la presenza di testimoni, soprattutto quando la merce non veniva consegnata subito.

Un rito ancora più particolare era quello di sputare, entrambi i contraenti, ciascuno sulla propria mano, prima di stringerle insieme: quasi un patto di sangue, per garantire maggiormente il valore del contratto.

Sovente, poi, si rafforzava la stretta di mano con espressioni particolari, che in alcuni casi erano tipiche di certe zone, come a Vinadio, in Valle Stura, dove si pronunciava la frase: ti it ses nom,a l’é fàit, “tu sei un uomo, è fatto”.

Per il bestiame da macello non c’era sempre la pesa pubblica, e quindi si pesava a bota “a occhio”. E prima della pesata il compratore si assicurava che l’animale fosse a digiuno. di norma si procedeva alla pesatura, ma siccome un tempo

C’erano curiose espressioni che garantivano l’assenza di difetti e malattie negli animali di allevamento: sano e franco, buono di tutto, da amico, da galantuomo, non guardatelo neppure.

Ma non mancava la vendita senza garanzia, e allora si ricorreva a frasi come: alla riga, alla cavezza, vendo un sacco di ossa, come un sacco di concime, lo vendo morto, morto sotterrato, con i seli, a lagnanza nessuna.

Per la frutta, un tempo non c’era grande contrattazione, in quanto non era consuetudine consumarne a fine pasto. Solamente in certi paesi, dove già all’inizio del Novecento l’agricoltura aveva iniziato a specializzarsi in questo genere di prodotto, come Barge per mele e pere, e soprattutto Canale per le pesche, venivano portati al mercato grossi quantitativi.

 

I banchi degli acciugai

 

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Non ci sono solo le anguille che dal mare risalgono le terre attraverso i fiumi. Le acciughe, nei tempi passati, arrivavano addirittura in montagna, in Valle Maira, in provincia di Cuneo. Non ce la facevano da sole, ovviamente. Ci pensavano i montanari di quella zona, del vallone di Moschieres, che si erano ingegnati - loro gente di montagna - a vendere un prodotto di mare. Sicuramente ciò avvenne almeno dall’inizio dell’ottocento, come testimonia Goffredo Casalis nel volume VI, pubblicato nel 1840, della sua opera Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di SM. Il Re di Sardegna: “Gli abitanti della borgata montuosa di Moschieres si danno esclusivamente al traffico speciale delle acciughe, cui vanno a comperare nei paesi della riviera ligustica, e rivendono poi in tutti i paesi del Piemonte, ed anche in alcuni dellaLombardia”.

È probabile, però, che l’origine di questo commercio sia ancora più antica, in quanto sembra che nel Medioevo, per contrabbandare il sale che si andava a prendere in Provenza, lo si nascondesse coprendolo, nei barili, con un abbondante strato di acciughe, una merce che pagava meno dazio.

Si ipotizza anche che all’inizio le acciughe venissero date sui mercati liguri come merce di scambio, in un baratto in cui i montanari di Moschieres, vicino a Dronero, e di Celle Macra, davano tele o forse altro, ricevendone in cambio l’unica cosa povera di cui disponevano in abbondanza i liguri, le acciughe appunto.

Finché qualcuno non pensò che vendere questi pesci poteva essere un buon mestiere; e non fu tanto difficile, in quanto la tradizione della bagna càuda, almeno in pianura, era fortemente radicata.

Con il consolidarsi del loro commercio, le acciughe non venivano più trasportate fino su in montagna e di qui portate nei mercati, nelle fiere e nelle cascine di pianura per venderle.

Ogni acciugaio (così viene tradotto un po forzatamente dal piemontese anciové il nome con cui si indicava questo commerciante) aveva il suo deposito nelle città; però, grazie alla fama che si era conquistata, era come se anche le sue acciughe provenissero dalla montagna.

All inizio, questa attività si faceva solo in autunno e in inverno, per non dover restare inoperosi, visto che la neve e il freddo non lasciavano lavorare la terra. Per tanti montanari era infatti usuale che, finiti i lavori al pascolo e nei campi, quando ormai a natura incominciava a fermarsi, ci si arrangiasse per guadagnare qualche soldo nei unghi mesi da ottobre a maggio. Si facevano mestieri di artigianato, qualche riparazione di ombrelli, e anche commercio, soprattutto di stoffe, ma per la gente della a e Maira anche di acciughe. Un’attività che dava lavoro non solo agli uomini, ma anche a tanti ragazzi. Infatti, quando il mestiere di acciugaio aveva messo radici ben salde e si aveva bisogno di aiutanti, molti genitori, oltre ad affittare i figli come pastorelli nelle cascine al pascolo in montagna, trovavano il modo di farli lavorare anche in inverno, mandandoli a fare i garzoni degli acciugai. Un modo per risolvere anche in questa stagione il problema di dover sfamare i propri figli.

Decisamente singolare, dunque, il caso di questa valle cuneese, dove era nato questo insolito mestiere, che vedeva montanari giovani e adulti scendere in autunno da alcune precise borgate, per spargersi nelle pianure piemontesi, fino a quelle lombarde. Si andava in giro con qualunque tempo, trascinandosi dietro un carretto per trasportare acciughe, i pesci più richiesti perché più economici, ma anche merluzzo, stoccafisso, aringhe. L’unica attrezzatura che serviva era la stadera, per pesare, e un pacco di carta gialla per avvolgere i pesci. Ogni commerciante aveva la sua piazza, e non erano solo fiere e mercati i luoghi di vendita, ma anche la capillare rete di strade di pianura che attraversavano Piemonte e Lombardia. Pochi uomini, alle cui dipendenze cerano per ognuno anche fino a più di cinquanta ragazzi, a volte poco più che bambini, che facevano il faticoso lavoro di tirare il carretto, avevano in mano i più importanti mercati di queste due regioni. Si passava per ogni cascina a vendere le acciughe, per cui il lavoro non aveva praticamente interruzioni, soprattutto a partire dal momento in cui non fu più una semplice occupazione per i mesi invernali, ma divenne uno stabile e fiorente commercio.

I banchi degli acciugai, che nei mercati più importanti erano anche una ventina, si distinguevano bene dagli altri, anche da lontano, per l’odore inconfondibile che emanavano. Nelle fotografie storiche si vede l’ampio spazio vuoto che avevano attorno, per non contaminare con la loro puzza le bancarelle vicine: era il maggiore inconveniente del mestiere, per il quale spesso venivano derisi. In più, a puzzare non era solo il pesce, ma anche quelli che lo vendevano, in quanto, fino a quando non erano ancora diventati stanziali, erano solo gli uomini a svolgere questa attività, e stavano lontano da casa per molti mesi, per cui la possibilità di lavare se stessi e i loro vestiti erano decisamente scarse. Per questo, come stoffa degli abiti si usava esclusivamente il robusto velluto, che resisteva ai vari logorìi dovuti al traino del carretto e allo sporco. Certo, alla fine della stagione, più che da lavare erano da buttare, come pure i carretti, che subivano vari danni lungo le migliaia di chilometri che si facevano per le strade di campagna, per cui spesso capitava che occorreva sostituirli ogni anno. Venivano costruiti a Tetti, una frazione di Dronero, sempre ovviamente in Valle Maira.

Quando era ancora un’attività che durava dall’autunno alla primavera, si tornava a casa appena puma di ncominciare i lavori nei campi, e ai ragazzi presi come aiutanti si dava ben poco, un vestito, un paio di scarpe e qualche soldo. Era la paga che faceva nfenmento al compenso dato ai bambini affittoti nelle cascine da marzo a Natale. Pur essendo stati tantissimi i bambini e i ragazzi che hanno fatto da garzone agli acciugai, sono stati rari i casi in cui sono riusciti a rubare il mestiere ai padroni. Questi, d'altra parte, erano anche riusciti a spartirsi tutto quanto il commercio del pesce conservato senza danneggiarsi troppo l'un l'altro. L'emigrazione stagionale, che all'inizio caratterizzava questo lavoro, nel tempo divenne quindi definitiva, sia perché la licenza di commerciante valeva solo per le province più vicine a quella di residenza, sia per avere la precedenza nell’assegnazione di un posto nel mercato dove si risiedeva.

Se all’inizio bastava un piccolo carro per trasportare i barili in legno con dentro le acciughe sotto sale, e si dormiva nei fienili delle cascine dove si passava, lasciando come pagamento per l’ospitalità un pugno di acciughe, l’attività ebbe poi centri stabili.

L’intraprendenza di molti aveva infatti allargato e consolidato il commercio in grandi città non solo del Piemonte, per cui ogni acciugaio si era fatto la sua piazza, diventando un importante grossista che non andava più in giro per i mercati, ma vendeva grandi quantità di pesce ai dettaglianti. Asti, Torino, Milano erano i principali centri urbani dove avevano la loro sede, spingendosi addirittura fino a Firenze, senza mancare, come avveniva per uno di loro, di arrivare a vendere le acciughe anche a Roma. Erano ben organizzati, e comperavano il pesce nei porti del Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia, passando per Sicilia e Africa settentrionale, per farlo arrivare poi a Genova.

Pertanto, poco alla volta si sono delineati i nomi storici dei negozianti che da circa duecento anni hanno in mano tutta questa tipologia di mercato. Nomi che si sono tramandati fino ad oggi e chi li porta, nonostante risieda lontano dalla Valle Maira, mantiene ben salde le radici nella propria terra e conserva la memoria del passato. Un legame che continua ancora più rafforzato dal 25 marzo del 1979, quando ad Asti è stata fondata l’associazione AVALMA, che riunisce tutti i commercianti di pesce che hanno la loro provenienza da questa valle. Da allora, ogni anno, in giugno, gli aderenti si ritrovano a Dronero, per una ricorrenza che sottolinea non solo il loro corporativismo ma anche la continuazione di un mestiere che, nato per fame, è diventato un lavoro dignitoso e remunerativo. Il fatto stesso che questo tipo di commercio sia sempre rimasto in mano a gente della Valle Maira, la dice lunga su una legge non scritta di rispetto reciproco, e ancor più sulla difesa collettiva da ogni tentativo di concorrenza da parte di altri, estranei alla loro terra d’origine.

 

I venditori di bachi da seta e di foglie di gelso

 

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Nelle terre sabaude la bachicoltura ebbe inizio nel 1664 con la costruzione a Tonno del primo filatoio idraulico, ad opera di Gian Francesco Galleani. In soli trent’anni le strutture si moltiplicarono in molte città, tra le quali primeggiava Racconigi, fino a far diventare questa parte di Piemonte la zona che produceva piu seta non solo m Italia, ma in tutta Europa.

La grande quantità di prodotto degli allevamenti di bachi, e la necessità di smerciarlo rapidamente prima che avvenisse lo sfarfallamento, facevano sì che in tale periodo ogni giorno se ne facesse mercato. Per quasi tutto il mese di luglio, nelle città dove avveniva il commercio si assisteva a una processione di contadini, che partivano dai loro paesi che era ancora buio, per essere nella piazza del mercato prima delle cinque, quando poteva avere inizio la contrattazione. Tutte le strade che convergevano verso l’abitato erano un formicaio di gente e carretti, che poi, ben prima di mezzogiorno, facevano già ritorno a casa: alle sette era già tutto venduto e acquistato.

I requisiti che questi dovevano avere per essere commercializzati, e che venivano riassunti nell’espressione consegnamercantile, prevedevano le seguenti caratteristiche: la partita in bozzoli deve essere matura al bosco, ma non in nascita, ed inoltre scevra delle mezze gallette, faloppe morte, totalmente rugginose, da calcino aderente o da negrone.

Per matura al bozzolo si intende che tutti i bachi abbiano subito l’intera trasformazione in crisalide, di modo che i bozzoli non siano in stato di incipiente malusanza. Per non nascita s’intende che i bozzoli non siano in istato di incipiente sfarfallamento. Non sono mercantili i bozzoli col calcino aderente, od affetti da negrone.

Questo per quanto riguardava i cosiddetti bozzoli freschi, in quanto potevano anche essere trattar, bozzoli vecchi di mesi, che si potevano conservare dopo avere fatto morire l’insetto al loro interno con il calore di una specie di stufa.

Poiché non sempre le piante di gelso di cui si disponeva erano sufficienti a nutrire il quantitativo di bachi allevati, a partire da maggio c’era il commercio delle foglie, anche in questo caso con un mercato quotidiano.

 

Il mercato delle donne

 

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Il mercato è sempre stato di tutti, uomini e donne. Tra chi compra e chi vende non c’è distinzione di sesso, anche se certi affari, come la contrattazione di una bestia, sono esclusivamente cose da uomini.

C’è però, a volte, in alcune città e paesi, uno spazio di mercato che da sempre vede le donne protagoniste assolute, dove le contadine vanno a vendere i prodotti dell’orto, i frutti delle piante che crescono nei loro terreni, qualche uovo e un po’ di fiori. Un modo antico per avere la possibilità di far entrare qualche soldo in più nel magro bilancio famigliare; e non ha mai importato a nessuno se perlopiù si tratta di una vendita tutto sommato abusiva, in quanto poche (forse nessuna) delle improvvisate commercianti ha avuto o ha la licenza per vendere.

Ogni tanto, se c’era una gallina già un po vecchia, non piu adatta a fare uova, la si portava a vendere mettendola dentro una cesta. Ci si incamminava molto presto, addirittura alle tre di notte, per cercare di vendere tutto subito, e poi tornare a casa ancora nella mattinata e fare qualche lavoro in campagna. Quando era stagione di funghi, si passavano ore della giornata per cercarli nei boschi, soprattutto quelle del mattino presto, per anticipare altre persone che facevano altrettanto. Poi si portavano a vendere al mercato settimanale, o anche a quello speciale, che si tiene ancora oggi in un paese della valle per agevolare i commercianti che arrivano da fuori per acquistarli.

 

Una Miss Torino ante litteram: la Regina di Porta Palazzo

 

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Porta Palazzo diventò il regno del commercio torinese, al punto di volerlo sottolineare anche con l’elezione annuale della sua regina. Negli anni del primo decennio del XX secolo, tra le ragazze che insieme ai propri famigliati esercitavano il mestiere di commerciante ambulante, veniva eletta la Regina del mercato, quasi un’anticipazione di quella che oggi sarebbe la miss del mercato.

Ovviamente, data l’epoca, non vestiva un succinto costume da bagno, ma indossava abiti regali, che sottolineavano l’importanza dell’avvenimento e del ruolo, sfilando in carrozza per le vie del borgo e della città. Una cerimonia che attesta quanta importanza economica avesse quel luogo per la Torino di cento anni fa.

 

Il Balon

 

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Ogni grande città ha il suo mercato delle pulci e ogni mercato delle pulci ha una sua anima, una filosofia, un nome. Il Balón è nato a metà Ottocento (l’abitudine antica degli straccivendoli e dei robivecchi di riunirsi lungo le rive della Dora è stata infatti ufficializzata il 10 luglio del 1856 da una delibera comunale, grazie anche alla donazione da parte dell’industriale Liautaud di un piccolo spazio trapezoidale, all’angolo tra le attuali vie Lanino e Cottolengo), più o meno in contemporanea con Portobello Road a Londra, il Marché aux Puces a Parigi, Porta Portese a Roma e la Fiera di Senigallia a Milano. In quegli anni Torino viveva i suoi anni di gloria, si avviava a diventare la capitale del Regno d’Italia e la vivacità industriale e commerciale la rendeva simile, per modernità se non per dimensioni, alle grandi città europee. Il mercato dell’usato doveva servire a rifornire di oggetti usati la gente che affluiva in città dalla campagna e non poteva permettersi i prezzi dei negozi. C’erano vestiti e cenci, galline e attrezzi agricoli, pomate miracolose e pentole. Il gusto antiquario e il gioco di società che consiste nello scovare pezzi pregiati per pochi soldi sarebbero venuti in seguito.

Tutti i torinesi vecchi e nuovi sanno che cos’è il Balón, ma l’origine di questo nome è tuttora controversa, com’è inevitabile che sia per le tradizioni popolari nate al di fuori di ogni formalità. C’è chi dice che derivi da “vallone”, in quanto il quartiere settecentesco di Borgo Dora in cui si è formato il mercato è adagiato in un avvallamento che scende verso il fiume, e chi lo collega con “pallone” per via di un antico sferisterio in cui da quelle parti si tenevano incontri di “pallone elastico”, o per la mongolfiera che segnalava da lontano l’ubicazione delle bancarelle. Quello che è certo è che questa scritta campeggiava e campeggia tuttora, rinfrescata, sulla facciata di un vasto magazzino che del Balón è rimasto nel tempo il cuore e il simbolo. È un antro in cui perdersi, dove sono accatastati mobili interessanti e quelli che vengono chiamati “particolari d’epoca”: porte, sovraporte, ante di armadi a muro, camini, ringhiere, lavandini di marmo, lastre di pietra da riutilizzare per dare un tocco antico alle case ristrutturate. Intorno a questa grande baracca si addensa un borgo pittoresco, un intrico di vicoletti, cortili e strade acciottolate a ridosso della città geometrica e squadrata.

Grazie alla sua struttura antica, il luogo mantiene un fascino speciale anche se ora alle bancarelle del sabato si sono affiancate botteghe antiquarie permanenti, se al posto delle bettole per i contadini inurbati ci sono piccoli bar sfiziosi, se le casette popolari sono ingentilite da intonaci sapienti e balconi fioriti, se, insomma, un vecchio e povero quartiere si è trasformato in un posto alla moda. Alla moda, ma non finto. A renderlo vero e vivo ci sono innanzitutto le bancarelle di sempre, con l’eterno turn over degli oggetti della nonna, dei piatti e dei bicchieri spaiati (che emozione trovare il pezzo mancante del servizio di porcellana a fiori!), delle cartoline e delle stampe, delle borsette di paillette e dei cappelli di feltro, ma anche le botteghe del circuito amatoriale, come quella specializzata in splendide stufe di ghisa o di maiolica perfettamente funzionanti. Nella zona di confine tra l’antiquariato vero e proprio e il non lontano mercato alimentare di Porta Palazzo, fioriscono qua e là isole di commercio etnico, spezie, tè, pane arabo venduto per strada. Verso la Dora i banchi si fanno via via meno ricchi e confinano con i teli distesi a terra dai venditori avventizi, senza licenza, quelli del piccolo scambio a un euro, due euro. Il bello del Balón, che lo differenzia da altri mercati del genere, è il suo essere un mondo che evolve, cresce, si trasforma, subisce l’urto di presenze nuove e fenomeni spontanei, ma riesce a far convivere straccioneria e raffinatezza, non precipita nel caos, anzi riesce a darsi delle regole, non diversamente dagli antichi bazar orientali. Non limitano la poesia del mercato (forse la potenziano!) l’esistenza di un’associazione dei commercianti nata per tutelare i loro interessi, né l’ordinanza del comune che obbliga gli espositori a pagare l’occupazione del suolo, che per cento anni era stata completamente gratuita, né il fatto che la seconda domenica di ogni mese si tenga il Gran Balón, una fiera specializzata che attira collezionisti da tutta Italia.

Si può sempre cercare l’affare, accanirsi nelle contrattazioni, farsi tentare dai ninnoli, giocare all’intenditore o farsi imbonire come in tutti i mercati di questo mondo, ma non è necessario. Si improvvisano concerti di strada e performance di saltimbanchi, e sono programmati tour con guide specializzate per far conoscere gli aspetti culturali, urbanistici ed economici del borgo, aneddoti e personaggi che ne hanno fatto la storia. Tra una curiosità e l’altra, c’è da fare una sosta e bere un bicchiere in uno dei molti locali sparsi nei vicoli: Bar del Balón, Brillo Parlante, Caffè Molaffi, Brocante, Osteria del Balón, Peccati di Gola, SaporDivino, San Giors, Trattoria da Dino, Al Jazira... Una celebre rappresentazione letteraria del Balón sta nella Donna della domenica di Frutterò e Lucentini, romanzo giallo, affresco sociale, lettura sapiente e ironica della società torinese, portata sul grande schermo da Luigi Comencini nel 1975. Marcello Mastroianni e Jacqueline Bisset si divertirebbero un mondo, come allora, a girare per il Balón, sempre più bello, sempre più ricco di sorprese.

 

Il mercato di Porta Palazzo: il giro del mondo in una piazza

 

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A Porta Palazzo, il mercato all’aperto più grande d’Europa, le distanze s’annullano. Partirete dall’ottocentesca Galleria Umberto I e conoscerete le botteghe storiche, le antiche ghiacciaie e il padiglione liberty dell’Antica Tettoia dell’Orologio. Sarete trasportati in un porto del meridione d’Italia entrando nel mercato ittico, per proseguire verso l’Asia, l’Africa e l’America Latina dei negozi che circondano la piazza.

Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, ogni domenica mattina una specie di gigante incatenato sollevava un masso pesantissimo nella piazza del mercato davanti a una folla di uomini col vestito della festa. La piazza era allora il centro della vita popolare della città, il luogo di tutti i commerci che nella notte tra il sabato e la domenica si lavava dei residui della frutta e della verdura e si faceva palcoscenico, salotto politico e punto di incontro degli emigrati dal Sud d’Italia che qui si davano appuntamento tra compaesani. Si parlavano tutti i dialetti e si facevano prove di convivenza, perché “Porta Pila” è sempre stato un luogo mitico dei torinesi che abitavano nella borgata. I vecchi che giocavano a carte nelle osterie e i giovanotti, un po’ scapestrati e un po’ poeti, sempre a caccia di ragazze, protagonisti delle struggenti canzoni che Gipo Farassino ha dedicato alla città e ai suoi compagni di giovinezza e che ora rivivono spesso negli spettacoli allestiti nella zona, dove capita che una ragazza congolese le canti accompagnata dai tamburi anziché dalla chitarra di Gipo. Il mercato, il più grande all’aperto che ci sia in Europa, ha attraversato tutte le trasformazioni sociali del secolo senza mai smettere di essere una piazza nel senso pieno che questa parola ha nella tradizione italiana: un luogo del commercio e anche e soprattutto della conversazione e dello scambio di idee. C’è un bel sonetto romanesco di Filippo Tartufari, scritto nel 1951, che rende bene l’idea:

 

Porta Palazzo: viva quer mercato che ricorda le fiere de campagna!

Ce se trova l’oggetto er più svariato, ma soprattutto robba che se magna.

Chi va, chi viè, chi fa lo scanzonato p’aranciasse er oriente che se lagna; un poveraccio, come un addannato strilla “comprate, prezzi da cuccagna!”.

Qui se rispetta er patto, là se nega;

trovi l’imbonitore e l’asta pubbrica, chi venne a bon mercato e chi te frega.

Sta spece de Sciangai senza riposo

l’hanno chiamata mo, Piazza Repubbrica: er torinese è sempre spiritoso!

 

Il nome ufficiale è, in effetti, piazza della Repubblica, ma pochi lo sanno. Il nome popolare, quello che sanno tutti, deriva dalla porta che segnava l’ingresso attraverso le mura alla città fortificata romana e che veniva chiamata “Palatina” in quanto era vicina alla sede del senato locale. Al di fuori delle mura si era poi sviluppato un quartiere detto “Contrada di Porta Palazzo”, luogo di transito delle merci e delle persone. Proprio per questo si volle, da parte del duca Vittorio Amedeo II, dare dignità a questo ingresso con la costruzione degli edifici settecenteschi che circondano l’area del mercato, che sarebbe entrata a far parte a tutti gli effetti della città nel 1800, quando Napoleone fece smantellare le mura difensive di Torino. Involontariamente, si è creato uno scenario urbano dei più stupefacenti, perché i palazzi barocchi, eleganti e severi, fanno da quinta al più variopinto ammasso di bancarelle che si possa immaginare. Poiché la realtà commerciale e popolare del borgo ha sempre attirato a sé gli immigrati italiani e stranieri nel corso delle varie ondate migratorie, su quei banchi che avevano conosciuto uva e asparagi, mele e funghi, nocciole e castagne, hanno fatto la loro comparsa prima i cumuli di arance e limoni, le angurie e le olive piccanti, i caciocavalli e le corone di peperoncini, poi via via le spezie e i datteri, la semola per il cous cous e i ciuffi di menta. E tutto questo ben di dio, buono anche nel prezzo, convive felicemente. Al riparo della tettoia ottocentesca di ferro con l’orologio, molto parigina, si trovano ancora, al sabato, i contadini piemontesi che portano al mercato i prodotti degli orti di collina: carote rugose piene di terra, piccole mele irregolari, formaggi rustici, galline, uova, erbette aromatiche che non esistono che qui, ortiche per le frittate, barba dei frati. Al centro della piazza c’è il cuore della vendite per le famiglie a “due chili un euro” strillati da voci robuste. Dal lato opposto c’è un lussureggiante mercato coperto del pesce, per tutte le tasche. Ai lati, banchi di ogni genere alimentare, pesce secco, sottaceti, mandorle, dolciumi, acciughe, pane. Che cosa c’è di strano? Niente, se non la quantità e la varietà, davvero in grado di stupire anche i più scaltri frequentatori di mercati alimentari.

Dopo aver fatto il giro delle bancarelle, restano da vedere due o tre cose interessanti. Per esempio, a partire dalla piazza, la galleria Umberto I, un lungo passaggio ottocentesco di negozi arricchito da quattro lunette del pittore Mauro Chessa, che così ebbe a descrivere il luogo, nel momento in cui doveva scegliere dove collocare le sue opere:

Negozi di tessuti, negozi di vestiti, di calzature, negozi di generi alimentari, negozi leggiadri come pasticcerie o cruenti come macellerie... sentivo che non avevo trovato la soluzione giusta, e poi: quali negozi scegliere, quali escludere? Un problema senza soluzione è la probabile conseguenza di un errore nella sua impostazione e infatti, appena provai ad immaginarmi il tutto “in esterno”, subito mi vidi il quadro: i negozi in una strada e la gente che ci passa davanti o si sofferma ad osservare le vetrine.

Superata la salita viene la discesa e ben presto il percorso fu abbastanza chiaro, ma non privo di difficoltà, poiché un conto è dipingere quattro bozzetti di un metro e un altro dipingere quattro quadri di 6 metri, posti ad un’altezza notevole che avrebbe dato l’effetto di schiacciare le figure alla base come se camminassero sul cornicione. Allora pensai che se la realtà che fingevo era un gioco della fantasia, tanto valeva fare un passo più avanti e sovrapporre le figure alle vetrine come per caso, senza legami con la forza di gravità (che è qualcosa di maledettamente serio) e perciò le circondai con un rettangolo come si fosse trattato di figurine da appiccicare.

Con lieve sorpresa, mi sembrò che i miei personaggi stessero ballando, con la gioiosa leggerezza e la stessa irrealtà "pop” di Gene Kelly con l’ombrello, sotto la pioggia.

Di qui, se ci sposta al numero civico 24 di piazza della Repubblica, si trova una lapide con un altorilievo liberty e un testo elogiativo inciso nel marmo: «Con una fede iniziatrice, un’ardimentosa energia che, fra gioie e dolori, suscitò gloriose fortune per gli agricoltori italiani insegnando nuovi commerci, nuove vie e nuovi mercati, alla memoria di Francesco Cirio». Sarà per molti una sorpresa scoprire che la Cirio di San Giovanni a Teduccio, una gloria nazionale che evoca nelle mente di ogni italiano campi di pomodori e il profilo del Vesuvio, in realtà è nata proprio qui, in via Borgo Dora, dove nel 1850 un giovane e intraprendente contadino di Nizza Monferrato aveva affittato un locale per attuare una sua brillante intuizione. Il ragazzo giunto a Torino per fare il venditore ambulante di verdure arrivò ad applicare ai suoi prodotti, per poterli conservare, un sistema di sterilizzazione dei contenitori con il vapore acqueo, prendendolo a prestito da un cuoco francese. Il laboratorio, in breve tempo, diventò una vera e propria industria, la Cirio cominciò a esportare i suoi prodotti nel Regno Unito e in Francia, divenendone in poco tempo uno dei maggiori partner commerciali. Da piccola azienda con pochi dipendenti, arrivò a dare lavoro a più di 200 persone e nel 1885 nacque la Società anonima di esportazione agricola Cirio che aprì succursali a Castellamare di Stabia, Milano, Berlino, Bruxelles, Londra, Parigi e Vienna. Altre curiosità, in questa vasta piazza ottagonale, il visitatore le scoprirà da sé.

 

 

 

 

 

GLI ALTRI MUSEI DI TORINO: NON SOLO ARTE

 

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Torino è una città ricchissima di Musei. Un elenco che forse ne trascura ancora qualcuno è il seguente:

 

Museo delle antichità egizie

Museo nazionale del cinema

Museo nazionale dell’artiglieria

Museo di anatomia umana

Museo Internazionale delle Arti Applicate Oggi - MIAAO

Museo delle marionette

Museo nazionale del Risorgimento Italiano

GAM - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea

Museo Civico Pietro Micca e dell’assedio di Torino del 1706

Museo dell’automobile

Museo civico dell’arte antica Palazzo Madama

Galleria sabauda

Armeria reale

Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

Borgo e rocca medievale

Museo della Radio e della Televisione a Torino (vedi “La Torino dell’innovazione”)

Museo diffuso della resistenza

Si tratta di allestimenti permanenti che illustrano temi e vicende della Resistenza. L’ultimo allestimento riguarda la Torino del 1938-1948, dalle leggi razziali alla Costituzione.

Museo numismatico

Accademia e Pinacoteca albertina

Museo Giovanni e Marella Agnelli

Museo della frutta

Museo del risparmio

Museo delle Carceri nuove (vedi “La Torino della devianza e della repressione”)

Museo della Sindone

Museo A come Ambiente

Museo del gas (Via Po)

Juventus Museum

Museo Lombroso (vedi “La Torino della devianza e della repressione”)

Museo della Montagna

 

Ecco una breve descrizione di alcuni di essi:

 

Il MAU, Museo di Arte Urbana di Torino

Quanti musei a cielo aperto hai visto nella tua vita? Io nessuno, almeno finché non mi sono trasferito in Borgo Campidoglio. Il MAU, Museo di Arte Urbana è (copiando dal loro sito ufficiale) “…il primo museo di arte contemporanea all’aperto in un centro urbano in Italia. È un percorso a cielo aperto tra più di 170 opere realizzate sui muri di case e piazze del Borgo Vecchio Campidoglio, visitabile gratuitamente”.

Sì insomma, street art, ma diffusa e incorniciata in uno degli angoli più suggestivi e particolari di Torino. Riuscirai a trovare tutte le opere del museo senza l’aiuto della mappa?

Palazzo Mazzonis, Museo di Arte Orientale, via San Domenico 11

Frutto di una trasformazione di un edificio preesistente (1639) su progetto (1767?) tradizionalmente attribuito a Benedetto Alfieri, il palazzo, in origine Solaro della Chiusa, poi Mazzonis, è caratterizzato da una facciata di cui è unico ornamento il portale e da un grande atrio colonnato. Gli ambienti interni, già trasformati in uffici giudiziari e poi destinati a museo con progetto di allestimento di Andrea Bruno, conservano solo in parte la decorazione originaria. Le raffinate boiseries, caratterizzate dall’ampio uso di specchi, sono state asportate ricollocate nella sede di piazza San Carlo della Banca oggi Intesa-San Paolo (ex palazzo Turinetti di Pertengo). Il cortile è ornato con gusto teatrale da un’esedra settecentesca coronata da balaustra e vasi decorativi.

Museo Archeologico di Torino

Creato nel XVI secolo dai Savoia come “Regio Museo di Antichità Greco-Romane ed Egizie”, fu arricchito con la collezione egizia di Bernardino Drovetti che nel 1940 fu separata e costituita come Museo Egizio. Il Museo è attualmente diviso in tre settori: Collezioni Storiche, Territorio, Torino. Nel settore Collezioni Storiche trovano posto i reperti della nostra penisola, di tutta l’Europa continentale e del bacino del Mediterraneo. Si tratta di antichità preistoriche e protostoriche, etrusche, cipriote, greche, magno-greche, romane, fenicie e assire. Nel settore Territorio si trovano i reperti disposti in un ordine cronologico che va a ritroso, dal Rinascimento al Mesolitico e Paleolitico. Ci sono resti di castelli e monasteri medievali, corredi funerari longobardi e molteplici testimonianze della più antica presenza umana in Piemonte risalenti all’età del Ferro e del Bronzo (come i Bronzi di Industria). Il settore Torino è dedicato alla città di Torino. È costituito dai saloni dell’edilizia pubblica e privata e dalla sezione dei riti funerari.

Museo Accorsi-Ometto

Il Museo è stato allestito dal presidente della Fondazione, Giulio Ometto, secondo il gusto del fondatore, Pietro Accorsi, che prediligeva le arti decorative (soprattutto del Settecento e legate al Piemonte e alla Francia). Giulio Ometto collaborò attivamente con l'antiquario fin dagli anni Settanta, diventando responsabile della Galleria di Accorsi nel 1978 nonché suo erede universale.

Nelle 27 sale del Museo sono esposti oltre tremila oggetti, appartenuti al celebre antiquario.

Il percorso museale è suddiviso in due parti: la prima è dedicata a una serie di vetrine con all'interno cristalli di Baccarat, argenti, tabacchiere e porcellane di Meißen, Frankenthal e Sèvres; la seconda è dedicata alle sale ammobiliate, così come l'Antiquario le aveva arredate presso la sua villa di Moncalieri. Nel susseguirsi delle stanze, oltre a preziosi oggetti d'arredo, arazzi e dipinti del Settecento, si trovano mobili francesi, veneziani e piemontesi, tra cui spicca il celebre “doppio corpo” firmato e datato nel 1738 da Pietro Piffetti e ritenuto essere il mobile più bello del mondo.

Il museo è fin dalla sua costituzione sede di importanti mostre, principalmente volte alla conoscenza delle arti decorative e di quella del patrimonio storico artistico piemontese, non tralasciando temi di interesse anche internazionale.

Fondazione Merz

La Fondazione Merz nasce nel 2005 a Torino come spazio espositivo volto a ospitare le opere di Mario Merz (1925-2003), esponente italiano dell’arte moderna e dell’arte povera. E’ disposta su una superficie di oltre 1.500 metri quadrati, all’interno di un edificio in stile razionalista originario degli anni ’30, già sede della centrale termica delle officine Lancia. All’interno dell’edificio non solo è possibile ammirare i capolavori dell’artista, ma anche visitare il centro specializzato e le molte mostre temporanee che vengono organizzate per offrire momenti di riflessione e discussione sul patrimonio artistico di Merz e, in generale, sull’arte contemporanea. Inoltre, la Fondazione Merz è responsabile dell’Archivio Merz, che include circa 1.000 volumi, e di una biblioteca specializzata, nella quale sono presenti più di 4.000 esemplari.

museo e teatro delle marionette

Torino ospita uno dei più importanti musei della marionetta d’Italia e un gruppo teatrale, dalla storia antica e gloriosa, che ancora oggi con le sue marionette diverte grandi e piccini presso il piccolo Teatro Gianduia. La compagnia da ben due secoli è diretta dalla stessa famiglia, i Lupi, che di generazione in generazione si sono tramandati il mestiere di marionettisti. Tutto ha inizio nel 1818 quando la compagnia di marionette del ferrarese Jacoponi arriva a Torino. Con loro era Luigi Lupi, che aveva abbandonato il mestiere di droghiere per dedicarsi all’attività teatrale. Nel 1823 l’intraprendente Luigi si mette in proprio: affitta un teatrino vicino alla chiesa di San Martiniano, in via san Francesco d’Assisi, e presenta al pubblico torinese la marionetta e le gesta d’Arlecchino. Il 19 ottobre debutta con una vera e propria commedia: La Castalda veneziana di Goldoni. Quando nel 1824 i teatri vengono chiusi in lutto per la morte di Vittorio Emanuele I, Lupi allestisce due nuovi spettacoli: Pigmalione e II trionfo dell'amore. È del 1840 il debutto di Gianduia, la maschera tipica di Torino, che da allora sostituisce Arlecchino in tutte le produzioni, con spettacoli che sempre più si vengono caratterizzando come tipicamente sabaudi. Nel repertorio della compagnia, in breve, trovano posto diversi generi, dalla prosa al balletto, dal varietà all’opera lirica, tutti rigorosamente rappresentati con le marionette. Quando nel 1843 muore Luigi Lupi, la sua attività viene portata avanti dal figlio Enrico e dopo di lui, nei decenni successivi, saranno i nipoti e poi i loro figli che raccoglieranno l’eredità del fondatore.

La compagnia riscuote grande successo anche fuori Torino. Lo stesso Enrico viaggia per l’Europa importando e traducendo nuovi testi dalla Francia e dall’Inghilterra. Vengono così proposti spettacoli d’ogni genere che spesso incappano nella censura, soprattutto per le battute salaci di Gianduia. È sempre di questi anni la produzione più ricca e fantasiosa di fondali e oggetti di scena, con marionette azionate da complessi sistemi di fili che ne accrescono la mobilità. Dopo la chiusura del Teatro Martiniano, nel 1884 la famiglia Lupi acquista il glorioso vecchio Teatro D’Angennes, fondato nel 1786 e divenuto storico per aver ospitato eventi memorabili, come i primi moti studenteschi del 1821. Il 4 ottobre il teatro inaugura la stagione con Le novantanove disgrazie capitate ovviamente a Gianduia. Ma lo spettacolo di maggior successo è II ballo Excelsior di Luigi Manzotti e Giovanni Chiti, grandioso rifacimento per marionette del primo musical dell’Italia umbertina. Qualche anno dopo, nel 1887, uno spettacolo rende omaggio a Garibaldi con L'eroe dei due mondi. Da allora, e per decenni, larga parte della produzione dei Lupi si ispirerà ai fatti e ai personaggi più significativi del tempo, seguendo mode, ricorrenze ed eventi, sottolineando spesso con ironia i gusti e le manie degli italiani, e dei piemontesi in particolare. Ecco allora Cristoforo Colombo del 1892 e, in omaggio alla Torino di Salgari, spettacoli esotici come Stanley attraverso l'Africa tenebrosa, mentre più avanti nel tempo l’avvento dell’automobile viene celebrato nel 1901 con il divertente Turin, Paris, Pechin. Sono gli anni in cui le marionette sempre più parlano piemontese, mentre per il teatro, dove accanto al nome D’Angennes comincia ad apparire quello di Gianduia, lavorano scenografi e pittori del Teatro Regio di Torino come Bosio, Gastaldi, Venere, Gheduzzi, Fontana, Provinciali, Recanatini, Morgari, Vacca. La cronaca e la storia del nuovo secolo non mancano di fornire continui spunti, e il divertimento di grandi e piccini continua. Nel 1912 la guerra di Libia è salutata da Gianduia a Tripoli di Luigi Lupi V, l’anno successivo è il turno di Gianduia nei Balcani, mentre il Tuti a ca' del Diau (tutti a casa del Diavolo) del 1914 sembra commentare l’inizio della prima guerra mondiale. È poi la volta, nel 1923, de II mondo sottosopra, rappresentato dopo la rivoluzione russa, mentre nel 1925 lo spettacolo Nerone racconta di un “qualcuno” che da Roma terrorizza l’Italia. Insomma, la compagnia Lupi diventa per Torino una sorta di “gazzettino” pronta a tradurre in spettacolo tutto ciò che stupisce o scuote l’Italia.

Nel 1934, per celebrare il cinquantenario della permanenza presso l’ex Teatro D’Angennes i Lupi allestiscono un grande spettacolo diviso in tre parti, che è un po’ la summa della loro produzione e che riscuote enorme successo e partecipazione di pubblico. Nel fascicolo pubblicato per l’occasione dal titolo Nozze d'oro di Gianduia col Teatro di via Principe Amedeo: 1884-1934 così De Amicis descrive le sue impressioni sulle marionette: «La prima cosa che mi stupì quando salii per la prima volta sul palcoscenico, fu la statura dei personaggi, che visti dalla platea sembrano poco più alti di un palmo, e sono invece più di mezzo metro, come bimbi. E mi meravigliò l’esattezza minuziosa, perfin superflua, dei vestimenti... e la produzione delle loro forme è mirabile... e la varietà dei tipi».

Ma ormai i tempi stanno cambiando e i gusti si vanno modificando. Il cinema, soprattutto dopo l’avvento del sonoro, richiama sempre più spettatori che cominciano a disertare le sale teatrali, tant’è che nel 1940, dopo oltre mezzo secolo di attività, il Gianduia, ricco di decorazioni e di addobbi, fiero della sua orchestra stabile e del meraviglioso complesso di marionette, è costretto a chiudere. Ma non tutto andrà perduto. A guerra finita la compagnia riprende la sua attività, ospitata da diversi teatri cittadini, tra cui il Carignano, l’Alfieri e il Romano, finché trova una sede stabile in un salone sotterraneo della galleria di via Roma. Nel 1960 viene inaugurato il Teatro Gianduia di via Santa Teresa con lo spettacolo Pinocchio, e dal 1962 con il Pollicino di Luigi Lupi ha inizio la serie di rifacimenti di fiabe e romanzi per bambini. Nel 1976 il teatro viene ristrutturato, e nel 1978 viene inaugurato il Museo della Marionetta di Torino, adiacente al teatro stesso. Nelle quattro ampie sale, dove è raccolta parte del materiale storico, si può ripercorrere una storia affascinante e fiabesca, raccontata dai copioni, dagli arredi, dai fondali, da centinaia di marionette, dalle più antiche e preziose alle più recenti, realizzate nei primi decenni del Novecento. Un viaggio ricco di emozioni, di sorprese e di poesia.

E se qualcuno, catturato dal fascino di un’arte antica e ormai quasi dimenticata, volesse provare a seguirne le orme, può iscriversi a un corso di formazione per marionettisti o partecipare alle attività di un laboratorio dove si può seguire il gioco teatrale in tutte le sue espressioni, dalla costruzione delle marionette alla elaborazione drammaturgica fino alla rappresentazione. E merita anche assistere a uno spettacolo della compagnia che, oltre a proporre un repertorio sempre nuovo, organizza rassegne di prosa, danza, operetta, cabaret a Torino e in diverse cittadine del Piemonte.

il museo di anatomia umana

Il Museo di Anatomia Umana, recentemente rinnovato e aperto al pubblico il 13 febbraio 2007 fa parte del più ampio progetto Museo dell’uomo di Torino che, oltre al Museo della Frutta, ospita il Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso e il Museo di Etnografia e Antropologia. Le basi del museo furono gettate nel 1739 dal professore di anatomia Gian Battista Bianchi che, con il favore di re Carlo Emanuele III, sviluppò il progetto nella Regia Università. Ebbe così con lui inizio la storia delle collezioni scientifiche degli atenei torinesi che si svilupperà e arricchirà nell’arco dei tre secoli successivi. Nel 1898, dopo vari trasferimenti, le collezioni di anatomia furono riallestite nell’attuale sede, il Palazzo degli Istituti Anatomici, in locali monumentali appositamente costruiti a sottolineare il prestigio della scuola anatomica torinese di quegli anni. E finalmente, oggi il patrimonio raccolto, rimasto quasi inalterato nella sua completezza, è visibile nella sua veste originaria. Il museo è dedicato a Luigi Rolando, studioso e docente di anatomia, vissuto a cavallo tra l’ottocento e il Novecento, il quale diede un fondamentale contributo alla conoscenza del funzionamento del cervello umano. A Torino Rolando allestì un museo di anatomia indipendente dalle altre collezioni di storia naturale, creando anche un piccolo laboratorio per la costruzione di modelli anatomici in cera seguendo le tecniche apprese durante un suo soggiorno a Firenze. Insieme agli oli su tela di Pasquale Baroni che raffigurano importanti personaggi del mondo scientifico e alla serie completa a colori della Grande Anatomia di Paolo Mascagni, il primo atlante che riproduce la figura e gli organi umani a grandezza naturale, il museo ospita una ricca collezione di strumenti per la ricerca scientifica raccolti e qui conservati fin dal Settecento. Ma sicuramente la parte che più interesserà e incuriosirà il visitatore sarà quella dedicata ai modelli in cera, alle raccolte di scheletri, di crani e di cervelli, ai reperti trattati “a secco” o immersi in liquidi per la conservazione, o alla serie di calchi in gesso di teste ed encefali di personaggi famosi. A condizione, però, di non essere troppo facilmente impressionabili dato che, inoltrandosi in questo particolare museo, alcuni potrebbero avere l’impressione di essersi avventurati in una sorta di antro di Barbablù.

Si inizia fin dall’atrio dove si è accolti da scheletri umani e di animali e si prosegue attraverso due saloni ai cui lati sono disposte bacheche che contengono resti umani trattati con procedure chimiche, o riprodotti in cera secondo una pratica risalente al Seicento, quando non si era ancora in grado di conservare i cadaveri per studiarli e anche il clero si opponeva al loro utilizzo per scopi scientifici. Oltre alla raccolta di questi manufatti, usati per l’insegnamento fino a metà Ottocento quando, con il miglioramento delle tecniche di conservazione vennero considerati didatticamente superati, ricchissima (sono ben 800!) è anche la collezione di cervelli umani conservati “a secco” con una tecnica elaborata nel 1878 dal medico chirurgo Carlo Giacobini. A imperituro ricordo della sua attività, il Giacobini volle che il proprio cervello, conservato con la procedura da lui stesso messa a punto, venisse esposto nel museo, insieme al suo scheletro.

Le curiosità un po’ grandguignolesche non finiscono qui. Due scheletri, quelli di un nano e quello di un gigante alto due metri e 19 centimetri, si fronteggiano e sembrano osservare i visitatori da due vetrine, quasi a volerci ricordare quanto sia normale per gli umani essere diversi gli uni dagli altri. E poi, le teste frenologiche di Gali, fondatore nella prima metà dell’ottocento della frenologia, la disciplina che si proponeva di localizzare anatomicamente le funzioni cerebrali, e, tra i pezzi più pregiati, un manichino a grandezza naturale di «donna di ordinaria grandezza gravida di sei in sette mesi solo nel ventre aperta» e l’interessante Uomo di Auzoux, statua anatomica in cartapesta scomponibile in 129 parti, realizzata nel 1830 a Parigi dal francese Louis Jerome Auzoux, forse il pezzo più bello della collezione. Infine, i calchi in gesso del capo di personaggi famosi come Raffaello, Napoleone, Cavour. E, a fianco di teste così eccelse, non poteva mancare per contrappunto quella di un criminale, un tal Giorgio Orsolano, detto la iena di San Giorgio Canavese, giustiziato nel 1835 per aver ucciso giovani ragazze e averne macellato i corpi fabbricandone salumi.

Uscendo da qui non rimane che allietarsi lo spirito e rifarsi gli occhi nel contiguo Museo della Frutta, allegro, colorato, variopinto, così diverso da questo, ma anch’esso altrettanto eloquente rappresentazione del rigoroso e insieme fantasioso e creativo mondo scientifico ottocentesco.

il museo lombroso

E noto quanto tra gli scienziati positivisti di fine Ottocento fosse diffusa in forma quasi maniacale la tendenza a raccogliere, catalogare, esaminare e analizzare reperti attinenti la propria branca di sapere. E Cesare Lombroso fu certamente uno tra i più meticolosi e assidui collezionisti: «Per quanto disordinato, e noncurante di quello che possedeva, il Lombroso era un raccoglitore nato: mentre camminava, mentre parlava, mentre discorreva; in città, in campagna, nei tribunali, in carcere, in viaggio, stava sempre osservando qualcosa che nessuno vedeva, raccogliendo così o comperando un cumulo di curiosità, di cui lì per lì nessuno, e neanche egli stesso qualche volta avrebbe saputo dire il valore, ma che si riannodavano nel suo inconscio a qualche studio passato o presente».

A descrivere così lo scienziato (nato a Verona nel 183 5, e morto a Torino nel 1909) è la figlia Gina, che racconta della ricerca e della raccolta da parte del padre di crani, di scheletri e di cervelli di criminali e di folli, di pugnali e di altre armi fabbricate o appartenute loro, insieme a fotografie, a scritti e a disegni di detenuti e di malati di mente e a quant’altro venisse considerato da lui rilevante ai fini dei propri studi.

Lo scienziato, considerato il maggior rappresentante del positivismo evoluzionistico, si dedicò soprattutto alla fisiognomica, vale a dire allo studio delle caratteristiche fisiche degli individui, principalmente di criminali e di malati mentali, con l’obiettivo di dimostrare il nesso tra le devianze comportamentali e le alterazioni e le deformazioni fisiche, in particolare quelle relative alla misura e alla conformazione dei crani. Fondatore dell’antropologia criminale, pose al centro dei suoi studi la follia e la criminalità e, anche se il lombrosismo morì con la morte del suo creatore, la sua appassionata ricerca ci ha lasciato un ricco patrimonio di reperti, di scritti e di manufatti che permettono di gettare uno sguardo su un particolare scorcio della società a cavallo tra Ottocento e Novecento. Lui stesso iniziò a esporre in pubblico i risultati del suo lavoro in una prima mostra allestita nel 1884 nell’ambito dell’Esposizione Nazionale di Torino, che attirò un vasto pubblico e l’interesse del mondo scientifico, tanto che nel 1899 il museo, ampliato e arricchito da donazioni pubbliche e private, venne ospitato in spazi messi a disposizione dall’università per poi essere trasferito nel 1947 presso l’istituto di Medicina Legale di corso Galileo Galilei.

La raccolta completa è oggi visibile nel Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso, con la cui apertura si completa l’ambizioso progetto del Polo Museale dedicato agli studi sull’uomo. Si incrociano qui diverse branche del sapere che vanno dall’anatomia alla psicologia e la psichiatria, dalla criminologia alla sociologia, dal diritto alla semiologia e la linguistica, fino alle scienze dell’igiene e dell’alimentazione. Il museo ci presenta la figura di Lombroso inquadrato nel suo tempo e nel suo ambiente culturale, mettendo in evidenza come la sua ricerca scientifica si sia avvalsa degli strumenti metodologici dell’epoca, e come avesse a fondamento quella concezione deterministica del destino dell’individuo, portatore di una propria insopprimibile eredità genetica, tesi questa, che molto ha influenzato la cultura del Novecento contribuendo, al di là della volontà dello stesso Lombroso, ad alimentare pregiudizi e preconcetti sulla base di stereotipi fisici. Insieme all’ampio repertorio di cervelli, scheletri, crani e calchi in gesso, sono esposte fotografie segnaletiche, armi, ritagli di giornali e gli arredi dello studio dello stesso Lombroso, nonché i resti del suo scheletro e del cervello, quest’ultimo conservato in formalina. Data la frequenza con cui avveniva, si direbbe che l’abitudine di mantenere intatto il proprio cervello fosse quasi una civetteria, cui gli scienziati del tempo evidentemente non sapevano resistere. Ad alleggerire la visita sarà l’esposizione delle variopinte e coloratissime opere pittoriche astratte e i manufatti in ceramica, prodotti artigianali di detenuti e di folli, considerati manifestazione della mente malata o delinquenziale di soggetti criminali. Ma non li considereremmo tali se non ne conoscessimo la provenienza e se per caso li trovassimo esposti in un museo di arte moderna. Perché soprattutto i disegni che ricordano le variegate composizioni di un caleidoscopio sono veramente affascinanti, a conferma della teoria della contiguità tra genio e follia.

la sede della società operaia edmondo de amicis in corso casale

Torino è città operaia, o forse sarebbe più giusto dire era, adesso che le sue grandi fabbriche, a cominciare dalla FIAT, sono state in larga misura smantellate, e che la città sta scoprendo, tra le altre, anche una nuova vena turistica. Saranno state le opere di risanamento degli ultimi anni, culminati con i lavori in occasione delle Olimpiadi invernali del 2006, ma certo è che oggi agli albori del terzo millennio il volto di Torino è profondamente mutato. E, se non assomiglia più a quello dei decenni appena trascorsi è ancora più difficile trovare una qualche traccia di quel mondo popolare e operaio che, insieme alla benestante borghesia, all’inizio del Novecento aveva costituito l’ossatura della città e ne aveva caratterizzato l’immagine, quando a insediarsi nelle zone allora ancora periferiche erano i contadini inurbati che scoprivano il duro lavoro della fabbrica. Di quel mondo, del suo modo di vivere, delle sue prime organizzazioni, il ricordo è conservato ormai nei libri di storia.

Sono quei libri a raccontarci di quando, tra la metà dell’ottocento e gli inizi del Novecento, in Italia sorsero le Società di Mutuo Soccorso, libere associazioni di lavoratori che si aggregavano, generalmente in base alla categoria professionale, istituendo un fondo alla cui formazione tutti gli iscritti partecipavano sottoscrivendo quote, che servivano a fronteggiare i problemi economici più urgenti dei soci in caso di disoccupazione o di malattia. Insomma, una cassa comune cui attingere per piccoli aiuti, anziché ricorrere alla carità pubblica. Le società non avevano solo una funzione assistenziale, erano anche luogo di socializzazione, di ritrovo per bambini e anziani, erano sedi dove incontrarsi per discutere, per passare il tempo libero sfidandosi in lunghe partite a carte e a bocce, per mangiare e bere in compagnia, per organizzare feste. In Piemonte, dove si ebbe la loro maggiore concentrazione, raggiunsero il numero di 4000, di cui moltissime, di ispirazione per lo più socialista, a Torino città operaia per eccellenza. Furono particolarmente attive fino ai primi decenni del Novecento, poi con l’avvento del fascismo molte furono costrette a chiudere, per riaprire nei difficili anni dell’immediato dopoguerra e della ricostruzione fino agli anni Settanta, quando le conquiste contrattuali e sociali ne svuotarono la funzione. Le vecchie società cambiarono allora volto. Alcune chiusero definitivamente i battenti, altre rimasero aperte mantenendo il ristorante e i campi di bocce, pur cercando di mantenere viva la memoria del passato, lasciando ben in vista le vecchie insegne con il nome della società.

La Società Edmondo De Amicis di corso Casale 134, ha fatto qualcosa di più. Per settant’anni la società, fondata nel 1908, ha più o meno vissuto vicende analoghe a quelle delle altre associazioni sorelle, poi, dopo un periodo di inattività, alcuni anni fa i suoi gestori hanno deciso di ricostruirne e di pubblicizzarne la storia e di fare dei suoi locali un luogo del ricordo e della memoria. Le vecchie fotografie chiuse nei cassetti, che ci mostrano i protagonisti della vita della società, sono state selezionate, ingrandite ed esposte sulle pareti, insieme alla sua “gloriosa” bandiera. Inoltre, in un video, sono state raccolte le testimonianze dei figli superstiti, oggi molto anziani, e dei nipoti dei fondatori della De Amicis. Scopriamo così dalle immagini e dai loro racconti che la società, come tutte le altre consimili, si era dotata di un proprio statuto, aveva un presidente e un consiglio di amministrazione, si autofinanziava, oltre che con la tassazione degli iscritti, con un piccolo commercio di vini, il cui responsabile aveva il curioso nome di “buffettista”. Ma soprattutto scopriamo, attraverso le nostalgiche, affettuose e orgogliose parole di questi testimoni, quale spirito di fratellanza, di solidarietà e di amicizia avesse animato i loro nonni e genitori. Una testimonianza corale che ci parla di sacrifici, di tensione politica, di antifascismo, ma anche di gioia e di divertimento quando in occasioni speciali, come la ricorrenza del Primo maggio o l’anniversario della fondazione della società o in occasione della Festa dell’uva che si celebrava ogni ottobre, nel cortile della De Amicis venivano imbanditi grandi tavoloni per pranzi all’aperto, si organizzavano giochi, cori e piccoli spettacoli.

Alla De Amicis si può entrare anche solo per dare una occhiata alla sala dove è stata allestita la mostra fotografica, o per prendere visione del video. Volendo potrete fermarvi a cena per assaggiare prodotti provenienti dal commercio equo e solidale e dalla coltivazione di territori confiscati alla mafia. Il ristorante è infatti gestito da una cooperativa, legata all’associazione Libera contro le mafie. Un modo ulteriore per mantenere vivo lo spirito solidaristico dei fondatori della società, i cui volti dalle pareti del locale sembrano guardare compiaciuti quanti hanno conservato il ricordo e hanno oggi fatto rivivere la vecchia Società di Mutuo Soccorso.

miaao - museo internazionale delle arti applicate oggi

Accanto al portale principale della chiesa settecentesca di San Filippo Neri, nei pressi del palazzo che ospita il Museo Egizio, campeggia in rosso la scritta MIAAO, e chi passa è invariabilmente portato a chiedersi quale possa essere la relazione tra l’austero edificio e un ipotizzabile evento felino, tanto più che il logo formato dalla sigla maliziosamente ricorda la testa di un gatto. L’ambiguità è probabilmente voluta, perché l’eccentricità e il gioco fanno parte di quello che, sciolto l’acronimo, si scopre essere il Museo Internazionale delle Arti Applicate Oggi, situato nel complesso monumentale juvarriano di San Filippo Neri e dedicato all’eccellenza artigiana. La prima cosa che colpisce è l’abbinamento tra l’architettura barocca del contenitore e l’originalità contemporanea del contenuto, secondo il modello inaugurato in Piemonte dal Castello di Rivoli. Sul sagrato della chiesa, di fronte al pronao classicheggiante, durante le esposizioni temporanee trovano posto grandi installazioni o bizzarri manufatti.

Ma qui siamo oltre la contaminazione tra antico e contemporaneo che ormai conosce molti esempi in Italia e in Europa, in quanto la peculiarità del MIAAO consiste nell’essere esso stesso un prodotto, una dimostrazione vivente dell’eccellenza artigianale che si propone di esporre al pubblico. Per capirci, i restauri della prima delle due gallerie che costituiscono il museo sono stati realizzati in gran parte utilizzando materiali sia storici che contemporanei locali: dal recupero delle lastre di quarzite di Barge del cantiere settecentesco di San Filippo, al nuovo pavimento in cotto appositamente realizzato dalla Fornace di Sezzadio che ancora adotta tecniche tradizionali di foggiatura e cottura delle piastrelle. E ancora, come elemento di assoluta novità per questo tipo di intervento, l’utilizzo di un materiale e una tecnica primordiale come la terra cruda battuta, nella quale è stato impresso il logo del museo. Persino i bagni, al MIAAO, sono puri esempi d’arte applicata. Richiamandosi idealmente all’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna del 1902 di Torino, la prima al mondo dedicata esclusivamente alle arti applicate, il MIAAO nasce con l’intento ambizioso di garantirne il futuro e il prestigio e di promuovere quella che è stata definita la figura dell’“artigiano metropolitano”.

È dunque un museo cantiere che cresce su se stesso, come un ramo di corallo che produce la materia di cui è fatto. Visitando le mostre permanenti e quelle temporanee, aggirandosi nei meandri e nei sotterranei dell’edificio, ci si addentra in una struttura in divenire e in una realtà sorprendente, compreso il progetto che prevede all’interno del complesso di San Filippo anche l’insediamento di un ostello di venticinque stanze. La chiesa di San Filippo non è nuova, tuttavia, alle sperimentazioni e da tempo è diventata una vera e propria cittadella della cultura, dopo essere stata per secoli uno dei maggiori luoghi di culto della città. È la più vasta di Torino (69 metri di lunghezza per 3 7 di larghezza) e venne costruita sull’area che Carlo Emanuele II aveva donato alla Congregazione dell’oratorio San Filippo Neri, fondata a Roma dal santo nel 1552. Iniziata sui disegni dell’architetto Antonio Bettino nel 1679, subì vari interventi, tra cui, probabilmente, quello di Guarino Guarini, e certamente quello dell’architetto militare dei Savoia, Antonio Bertela, prima di venire danneggiata dai cannoni francesi durante l’assedio del 1706, di cui rimane il ricordo di una palla di ferro conficcata nel muro che delimita a est il sagrato. Filippo Juvarra iniziò a lavorare al ripristino della cupola crollata nel 1715, ma il progetto definitivo è del 1730 ed è costituito da una grande volta che copre la navata unica raccordandosi al preesistente presbiterio, dalle cappelle ellittiche laterali e da un uso sapiente degli ordini architettonici, che legano coerentemente le parti del progetto. La chiesa, alla cui costruzione contribuirono in seguito vari altri architetti, conserva l’impronta juvarriana ed è adorna di importanti pitture: all’altare maggiore campeggia la tela di Carlo Maratta (1700) rappresentante La Vergine, il Beato Amedeo e Santa Caterina; altri dipinti agli altari laterali sono del Caravoglia, del Solimena, del Trevisani, del Conca e del Milocco. Stupendi sono gli angeli del Plura e le sculture del Bernero e del Clemente.

Nella chiesa vi è un altare laterale particolarmente importante per i torinesi in quanto è dedicato al beato Sebastiano Valfrè. Proprio quest’ultimo, sacerdote piissimo e consigliere di Vittorio Amedeo II, può essere considerato l’anello di congiunzione tra Filippo Neri e i padri dell’oratorio, che ancora oggi si curano della chiesa e che l’hanno aperta in modo così generoso e lungimirante al laicato operoso, agli artisti, alla città intera. Caso più unico che raro, la chiesa si è infatti aperta alle più diverse esperienze e suggestioni: oltre alle attività proprie di un luogo di preghiera e devozione, nei suoi labirintici spazi si tengono concerti, si trova la sede del gruppo degli Artisti Associati che mettono regolarmente in scena, da molti anni, una ricca rassegna teatrale di testi classici e contemporanei, si allestiscono mostre temporanee, si tengono convegni e si è insediata la sede permanente del MIAAO di cui si diceva all’inizio.

La ragione di questo fervore non è contingente né casuale, ma ha radici profonde nella vicenda umana e religiosa di san Filippo Neri, come testimonia un bel volume collettivo dal titolo significativo di Oratorio e laboratorio (Bologna, 2008) che documenta in modo ampio i caratteri originali della spiritualità antieroica di un personaggio che ha attraversato il secolo del Concilio di Trento e i mutamenti del clima spirituale nella fase postridentina mantenendo fermo il proprio specifico messaggio: la perfezione della vita spirituale può essere raggiunta in ogni stato di vita, dall’artigiano al curiale, dal padre di famiglia al prelato, senza separarsi dal mondo ma, al contrario, attraverso l’esercizio quotidiano del mestiere o della professione. Non stupisca allora che i padri oratoriani torinesi, sulla scia dell’insegnamento del fondatore, ancora operino nelle più varie direzioni, dall’assistenza ai malati alla valorizzazione della liturgia, all’insegnamento, alla cultura, alla musica e all’arte contemporanea.

Sono passati circa cinquecento anni dalla nascita di Filippo Neri e circa trecento dalla collocazione nella chiesa della splendida pala di Francesco Solimena che raffigura il santo che intercede presso la Madonna per la salvezza di Torino, il che ci ricorda che All art has been contem-porary, ogni arte è stata contemporanea, come recita la scrittura di luce al neon dell’artista Maurizio Nannucci che campeggia sul tetto della Galleria d’Arte Moderna di Torino.

museo della montagna

Il Museo Nazionale della Montagna "Duca degli Abruzzi" è ubicato in Torino, lateralmente alla chiesa e al convento del Monte dei Cappuccini, in una posizione panoramica dalla quale si possono ammirare un lungo tratto di Alpi e la sottostante città. L'idea di costituire un Museo nacque nel 1874 tra i primi soci del Club Alpino Italiano che da un decennio era nato nella stessa città. Attualmente il Museo opera, con un'ampia e composita attività, sia a livello nazionale che internazionale. Vuole essere un polo culturale che unisca idealmente, sotto tutti gli aspetti, le montagne del mondo intero. Quindi, seguendo lo scopo prefissato, all'allestimento museografico fisso si aggiungono le esposizioni temporanee. Il Museo nacque però con orizzonti ben più ristretti, e fu suo merito sapersi accrescere e migliorare progressivamente; i punti salienti si possono brevemente sintetizzare in una serie abbastanza ridotta di avvenimenti.

Nel 1871 il Fondo per il Culto cedette al Municipio di Torino i locali dell'ex Convento dei Cappuccini del Monte di Torino e precisamente il fabbricato già in uso ai medesimi con la chiesa annessa unitamente a tutte le adiacenze. Successivamente nel 1874 il Consiglio comunale, accogliendo la proposta del Club Alpino Italiano, acconsentì a sistemare sul Monte dei Cappuccini una Vedetta Alpina e un osservatorio, consistente in un semplice padiglione dotato di cannocchiale mobile. L'inaugurazione della vedetta avvenne il 9 agosto dello stesso anno, in concomitanza con l'VIII° Congresso del Club Alpino Italiano. I locali del Museo e la somma per adattarli vennero donati alla Sezione di Torino solo nel 1877. Fu così che l'edicola venne trasportata all'interno dell'edificio e negli anni successivi si andarono occupando nuove sale. Si giunse così al 30 agosto 1885 quando in occasione dei Congressi Alpini, si inaugurò un salone contenente collezioni fotografiche e piccole industrie. Il 26 giugno 1888 si completò e inaugurò il primo salone, che in seguito ospitò le collezioni scientifiche. Dopo dieci anni (1898) le sale vennero arricchite di un cosmorama alpino ubicato al piano terreno e di un diorama dello stesso tipo nei locali del piano superiore. Nel 1901 il Principe Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi donò alla sezione, di cui era presidente onorario, oggetti appartenutigli nella spedizione al Polo Nord. Con L'Esposizione Internazionale tenutasi a Torino nel 1911 le collezioni del Museo si arricchirono nuovamente e nel 1918 si potè avere un ordine più preciso del complesso delle sale. Esistevano infatti due saloni al piano terreno, la sala superiore e, infine, il terrazzo della vedetta su cui era collocato un ottimo telescopio. Il Museo continuò ad essere aperto al pubblico, con progressivi deperimenti sia dei locali che delle collezioni, sino a quando, nel 1935, venne chiuso per le inadeguatezze del fabbricato.

 

Un sommergibile-museo sul Po

 

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Immaginate, in un pomeriggio d’estate, di passeggiare in riva al Po. Lungo il sentiero che segue l’argine del fiume partendo dal ponte Isabella s’incontrano impiegati in maglietta che nella pausa pranzo cercano di smaltire la pancetta, anziani pensionati che corrono con le ginocchia un po’ rigide, veri atleti che superano tutti gli altri con facilità, ragazzi in mountain bike che fanno lo slalom tra i podisti, coppiette mano nella mano, mamme con passeggini. Questa affaccendata e variopinta corrente umana scorre parallela alle acque pigre del fiume e sembra non fare caso a una sagoma scura che fa capolino a qualche metro dal percorso pedonale vicino al ponte, sulla riva sinistra. Siamo molto lontani dal mare, eppure si distinguono una torretta e un periscopio, e sotto di loro lo scafo di un sommergibile contrassegnato dalla sigla PR. Si tratta del sommergibile Provana, che prende il nome dall’ammiraglio Andrea II Provana (Leinì, 1511- Nizza, 1590), capitano della flotta sabauda nella battaglia di Lepanto.

Nel 1928 il sommergibile era stato esposto al pubblico in occasione di una mostra organizzata per il decimo anniversario della vittoria nella grande guerra, dopodiché lì è rimasto, affidato nel 1933 all’associazione Marinai d’Italia, che ancora oggi se ne occupa e organizza le visite degli appassionati di storia militare al sabato e alla domenica, oppure su appuntamento. Per loro vale la pena di ricordare che YAndrea Provana è un battello di tipo Laurenti della classe Barbarigo varato nel gennaio del 1918 ai cantieri FIAT di San Giorgio del Muggiano presso La Spezia, e che è entrato a far parte della Regia Marina nel settembre dello stesso anno con il motto “Omnia omnium bene agere”, e un equipaggio di 4 ufficiali e 36 tra sottufficiali e marinai comuni. Dopo aver svolto le sue navigazioni e missioni per qualche anno, nel 1927 a Portoferraio subì un’esplosione al motore che lo mise fuori combattimento. E fu così che il sommergibile si risparmiò le tragiche vicende della seconda guerra mondiale e si trasformò in una pacifica curiosità per turisti.

Per restare in tema di imbarcazioni, poco oltre il sommergibile è ormeggiata la barca Genna, che nulla ha a che vedere con la marina militare, ma completa questo angolo vagamente marinaresco della città. È un ristorante raffinato, dove si cena a lume di candela, inventato dalla signora Rita Ciacci, che dopo aver gestito per decenni la vicina osteria Catullo Ciacci, ha deciso di scendere direttamente sul fiume e di trasformare il vecchio barcone in un ambiente divertente con l’aiuto di un vero capitano che ha preso dimora nella stiva. Dopo cena, la cosa migliore è prendere il fresco e sorseggiare un long drink lasciandosi cullare dalle increspature del fiume con intorno il silenzio e sullo sfondo i ponti illuminati.

 

Uno straordinario tour degli animali impagliati, tra elefanti e colibrì

 

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Da tempo il grande zoo che si estendeva sulle rive del Po è stato smantellato in omaggio alle norme europee che negli anni Novanta del secolo scorso ne hanno vincolato, a torto o a ragione, l’istituzione o il mantenimento. Siccome, come dice il filosofo, nelle traversie si nascondono spesso le opportunità, il venir meno della possibilità di vedere dal vivo la fauna locale ed esotica ha avuto se non altro il pregio di riportare in auge le collezioni di animali imbalsamati che per lungo tempo, sospettate di essere reperti polverosi di scarso interesse, sono rimaste in ombra e dimenticate. Ma tutto cambia, i gusti si evolvono, e con la complicità delle tecnologie virtuali anche le raccolte ottocentesche di animali stanno vivendo una seconda vita, e appassionano adulti, ragazzi e bambini liberandoli dal vago senso di colpa che la vista degli animali in cattività pur sempre procura.

A Torino non c’è che da scegliere. Chi fosse interessato ai colibrì, dovrebbe rivolgersi al Collegio San Giuseppe, in via San Francesco da Paola nel centro della città, dove ha sede una collezione fantastica degli uccelli più piccoli del mondo raccolta da un prete scienziato, don Fran-chetti (1878-1964), laureato in scienze naturali. Si racconta, di questo singolare sacerdote, che andasse ovunque gli veniva segnalata la possibilità di acquistare qualche esemplare importante di colibrì, e che addirittura, in occasione di una prima teatrale, fosse riuscito a farsi dare da una signora il vezzoso uccellino che ne ornava il cappello. Aneddotica a parte, la raccolta è davvero spettacolare, con le sue 1100 specie raggruppate in 118 generi, di cui la più grande ha le dimensioni di un rondone e la più piccola misura meno di tre centimetri. Hanno conservato colori splendidi e piumaggi cangianti; alcuni se ne stanno accovacciati, come vivi, in nidi grandi quanto un guscio di noce, altri sono montati su trespoli e sembrano in procinto di spiccare il volo. Non esiste in Europa una raccolta altrettanto vasta e ben tenuta, eppure pochissimi la conoscono. Chi ha la fortuna di vederla avrà modo di stupire gli amici e i bambini raccontando di uccelli che pesano poco più di un grammo, si posano sui fiori come le farfalle e succhiano il nettare come le api.

Saltando le vie di mezzo, il percorso zoologico può proseguire alla grande, con la visita all’elefante Fritz, un esemplare indiano maschio regalato nell’ottocento (1827) dal viceré d’Egitto Mohamed Alì al re di Sardegna Carlo Felice in cambio di 100 pecore merinos. Arrivato in Piemonte, il pachiderma suscitò l’interesse del pubblico, all’epoca certo non abituato a vedere elefanti, e venne ritratto e studiato con passione. Una celebre litografia di Enrico Gonin lo ha immortalato, bardato a festa, davanti alla palazzina di caccia di Stupinigi. Anche questa sarebbe una bella storia da raccontare, se non fosse per la brutta fine dell’animale, condannato a morte nel 18 5 2 da Vittorio Emanuele II, stufo delle sue bizze di prigioniero impazzito e delle ingenti spese per il suo mantenimento. Adesso Fritz si gode la pace del Museo Regionale di Scienze Naturali di via Giolitti 36 con la compagnia di alcuni scheletri di dinosauri. La cosa strana è che gli elefanti sono due, ma non si tratta di un improvviso strabismo del visitatore. I cartelli spiegano che lo scheletro del pachiderma è stato riprodotto in una copia artificiale perfettamente identica, poi ricoperta di pelle e dotata di lunghe zanne e così, come in una composizione cubista, si vedono contemporaneamente l’involucro esterno e l’architettura interna del povero Fritz.

Poco oltre si passa nel cuore del museo, in un salone che accoglie nel suo ventre capace, come una grande arca di Noè, animali impagliati della più varie specie e mammiferi tassidermizzati (impagliati e ricoperti di pelli fatte arrivare dagli habitat di origine): leoni e giraffe, foche e leoni marini, oltre allo scheletro enorme di una balenottera collocata al centro della scena. Per chi volesse strafare, l’innocua battuta di caccia può continuare in viale Thovez 3 7, ai piedi della collina, nel museo dell’istituto Valsalice fondato da don Bosco nel 1878, dove si trovano altre ricche collezioni zoologiche provenienti dalle missioni salesiane sparse per il mondo. Tra i pezzi pregiati del museo ci sono esemplari locali, come l’ultimo lupo vissuto in Piemonte, rinvenuto nella valle di Lanzo, ed esotici come il tuatara, un rettile primitivo considerato un fossile vivente, il koala, l’ornitorinco, l’ekidna, i lemuri del Madagascar, i colibrì e i pappagalli americani. Se poi qualcuno è interessato ai fossili o ai minerali, non ha che da chiedere ai padri salesiani di poterli visitare e sarà accontentato.

 

Un tour per gli appassionati delle bambole d’epoca

 

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Prima delle Barbie c’erano, tanto tempo fa, le bambole Lenci. Sembra un cognome, invece è l’acronimo di un motto latino:

Ludus est nobis constanter industria (il gioco è per noi costante lavoro). Si sa, il lavoro in questa città è tutto: vita, cultura, arte, passione, mania. Era il 1919, un’epoca ancora molto lontana dal tempo della civiltà dei consumi. La grande guerra era da poco finita, si poteva riprendere a giocare e a sognare. Così, a Torino, Enrico Scavini e sua moglie Elena Kònig pensarono di lanciarsi nella produzione di bambole e inventarono l’omonimo panno di feltro leggero per rivestirle.

Il procedimento di fabbricazione era complesso, la sola realizzazione del viso delle bambole prevedeva ben dodici sequenze realizzate da artigiani specializzati. Dopo aver modellato a mano il viso con l’argilla, bisognava metterlo negli stampi, pressarlo, lasciarlo asciugare per quattro o cinque settimane, riempirlo di feltro e collante, e finalmente dipingerlo. Fatto tutto ciò, ci si dedicava all’assemblaggio delle varie parti (tronco, braccia e gambe). Dopo aver applicato la parrucca, si passava alle rifiniture. C’erano bambole che riproducevano fattezze infantili, quelle vestite con i costumi tradizionali delle regioni italiane, quelle che prendevano a prestito il volto di personaggi dello spettacolo, come la celebre e anticonformista Gigolette, ripresa nell’atto di fumare avvolta in un elegante abito nero e rosso. Inoltre, più avanti nel tempo, la collezione si arricchì anche di un assortimento completo di animali in feltro e peluche e di una serie di personaggi tratti dalle favole o dai cartoni animati, come Capitan Uncino e Gamba di Legno.

Depositato subito il marchio, già nel 1922 le bambole prodotte nella fabbrica Lenci, con il loro stile innovativo e provocatorio, l’aria monella e il caratteristico sguardo sbieco, si erano diffuse in tutto il mondo. Erano ricercate particolarmente negli Stati Uniti dove erano apprezzate per la bellezza e l’accuratezza della lavorazione. Nel 1923 il «Toys and Noveltiers», una nota rivista americana specializzata in giocattoli, scriveva: «Stilisti e modiste ricevono ordini per abiti e cappelli come quelli che vestono le bambole italiane Lenci». Le bambole, affidate al tratto di artisti d’avanguardia come Sandro Vacchetta, Mario Sturani, Gigi Chessa, Aldo Mondino e all’antesignano dei pubblicitari Marcello Dudovich, diventarono una sorta di status symbol per bambini di famiglie benestanti, ma anche oggetti di culto per adulti amanti dello stile futurista e déco. Il grande successo, che portò la ditta a esporre in tutto il mondo le sue bambole (furono molto apprezzate anche in Giappone), diede il via alle imitazioni, il che, combinandosi con la grande crisi del 1929, impose alla ditta di diversificare la produzione e di inventarsi un nuovo genere: le ceramiche artistiche, piccole statuine o gruppi con personaggi e animali, fino alla creazione di vasi e servizi da caffè e da tè, anche se il nome Lenci rimase, e tuttora rimane, soprattutto legato alle sue incantevoli bambole.

Ma perché attardarsi a parlare di questi oggetti ormai così lontani dai prodotti del mondo contemporaneo, che nessuna bambina o bambino dell’era tecnologica degnerebbe di uno sguardo? Il fatto è che ben presto il marchio Lenci era divenuto oggetto di una vera e propria furia collezionistica e ancora oggi i pezzi d’epoca sono in vendita nelle botteghe di antiquariato e modernariato e battuti nelle aste a prezzi da capogiro. A Torino, culla delle bambole Lenci, c’è

una Casa delle Bambole aperta nel cuore della città, in via Amendola 5/b, dove si può curiosare nella collezione completa di circa centoquaranta modelli e tra le riedizioni in numero limitato delle ceramiche più famose. In vari negozi del centro storico, come la Turin Gallery e Oz in via Maria Vittoria, o alla casa d’aste Della Rocca, in un impeto di nostalgia per chi se le ricorda a casa della nonna (e beninteso con libretti di assegni o carte di credito ben fornite) si può tentare di ritrovare la “Bella lavanderina”, o forse una delle “Prosperity Baby” degli anni Trenta o l’“Agnesina”, regalata a chi comprava la pasta Agnesi negli anni Cinquanta o addirittura la “Violetta” verdiana del 19 21, dai capelli neri in seta cuciti a mano, o “Lavinia” dall’abito di organza che fece innamorare l’Aga Khan. E con un po’ di fortuna qualche nonna di oggi potrebbe rincontrare una delle bambole preferite della propria infanzia, “Trudy ”, gioia e meraviglia di chi è stata bambina negli anni Quaranta. Trudy, vestita di panno rosso e blu, aveva in testa un cappuccetto che nascondeva una sorta di bottone, girando il quale era possibile far ruotare il volto della bambola. Antesignana di ben più sofisticate soluzioni tecnologiche, Trudy poteva così ridere, piangere o dormire a seconda del gioco del momento.

Bambole e giocattoli di tutt’altro genere, alla portata di tutti, si trovano in via Fiesole 15, al Centro di cultura ludica, dove si può visitare una collezione di circa duemila giochi della tradizione italiana e di altre culture raccolti da Giancarlo Perempruner, scrittore, attore di teatro e appassionato ricercatore della dimensione del gioco in tutte le sue forme.

 

Un museo unico in Europa: il museo della passamaneria a Pianezza

 

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Presso lo stabilimento di Pianezza è possibile visitare su prenotazione il Museo della Passamaneria Vittorio Massia. Si possono scoprire le varie tecniche e fasi della lavorazione e osservare i telai e le attrezzature tessili, risalenti a un arco di tempo che corre dalla fine del Settecento alla metà del Novecento. Inoltre, il museo conserva quasi duecento anime in legno tornito usate per confezionare fiocchi e bracciali, numerosi campioni di passamanerie antiche e una biblioteca di libri specialistici, dal XIX secolo a oggi, riguardanti la tessitura.

L’origine dell’arte della passamaneria è antica, testimoniata da ritrovamenti in Egitto. Dall’Oriente, dove viene esercitata perlopiù per guarnire i tappeti, si è diffusa in Europa in seguito alle Crociate.

La creazione delle passamanerie è un’attività certosina: spesso per realizzare soltanto venti centimetri di prodotto non basta un giorno intero e due anni possono essere spesi sopra un unico gallone. La stessa preparazione dei macchinari può richiedere fino a sei mesi. Precisione e pazienza sono le virtù che un buon passamantiere deve sapere padroneggiare, perciò “non si può fare questo lavoro se non lo si ama”, afferma Max. Questo lo sanno davvero bene i Massia: da generazioni continuano a proiettare l’arte della passamaneria verso il futuro, maneggiando abilmente tessuti e fili, con un’attenzione particolare verso quelli viola. Ricordano il colore di quei fiori raccolti da Vittorio per la sua Antonietta sul finire dell’Ottocento.

 

L’Officina della scrittura: il museo della Aurora

 

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Officina della Scrittura è il primo museo al mondo dedicato al Segno, attraverso un grande progetto che testimonia la nascita e l’evoluzione di un’invenzione straordinaria, quella della comunicazione non orale.

Vera e propria “cittadella della conoscenza”, Officina della Scrittura, è il luogo in cui viene raccontato e valorizzato tutto ciò che è legato alla cultura della scrittura e, più in generale, al segno dell’uomo: dalle pitture rupestri fino alle svariate forme della comunicazione contemporanea.

Un museo unico nel suo genere che presenta un perfetto mix di tecnologia e tradizione, attraverso un percorso organico che con le sue diverse anime racconta, emoziona, educa il pubblico di ogni età.

Oltre 2.500 metri quadri suddivisi in aree ben distinte, ma tra loro profondamente interconnesse: dal racconto delle origini del segno, alla prima macchina da scrivere Remington; dal viaggio all’interno della scrittura alla sezione dedicata alla storia delle penne stilografiche, dove è possibile apprezzare una selezione delle 13 penne iconiche del XX secolo, come la Waterman’s 22 del 1896 e la Hastil Aurora disegnata da Marco Zanuso nel 1970 ed esposta al MoMA di New York.

 

 

 

 

 

LA TORINO DEI CONFLITTI RELIGIOSI

 

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La Torino gesuitica

 

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In realtà, se a Torino si dovesse applicare un marchio, un emblema, uno stemma da affiancare al toro rampante, sarebbe probabilmente quello della Compagnia di Gesù. Cioè, della nemica più accanita di ciò che si distaccava dalla più stretta osservanza cattolica e che si distinse proprio nella lotta contro giansenismo e protestantesimo. Sin dai tempi delle "Provinciali" di Pascal e dei trattati teologici di Calvino, l'opposizione della Compagnia a ogni sospetto di eresia è stata accanita sino allo stremo.

Torino è stata gesuitica, non a caso la polemica acre di Vincenzo Gioberti contro la Compagnia ignaziana. Per cambiare la sua città, quell'abate infervorato di utopie risorgimentali, eccitato dai «tempi nuovi» come solo i preti sanno esserlo, se la prendeva con ciò che più aveva forgiato la tradizione locale. Per lui il vero problema piemontese è liberarsi dall'influsso della Compagnia. E non a caso fu messo in prigione e poi espulso: a Torino non piacevano affatto le sue idee sui Gesuiti.

Qualcuno ha affermato che la nomea dei “torinesi falsi e cortesi” viene da questo marchio gesuitico, che per secoli ha contrassegnato la formazione delle classi dirigenti del Ducato e poi del Regno: era precisamente così che venivano definiti gli uomini della Compagnia di Gesù: ipocrisia e doppiezza sotto impeccabili buone maniere.

Torino mostrò la sua fedeltà alla Compagnia di Gesù anche quando Clemente XIV, nel 1773, la soppresse e quando i religiosi furono espulsi con la forza, a Roma stessa, dalle loro case. Il loro Generale finì nelle segrete di Castel Sant'Angelo, dove morì. A Torino invece il re, pur fedele al Papa come tutti i suoi predecessori e successori sino a Vittorio Emanuele Secondo, fece la lettura più benevola che poté della bolla dì soppressione e diede ordine che i padri rimanessero al loro posto di lavoro sino a esaurimento. Non poterono, cioè, accettare novizi, ma chi già era gesuita poteva continuare a educare i figli dell'aristocrazia piemontese. La Santa Sede si decise a ricostituire la Compagnia solo nel 1814, riconoscendo l'errore che aveva fatto sciogliendo i suoi reparti scelti (ventiduemila uomini organizzatissimi, disciplinatissimi, coltissimi, con duemila case in ogni continente) proprio alla vigilia della grande battaglia rivoluzionaria. Ma il re piemontese, in esilio in Sardegna, aveva permesso che si riorganizzassero nell'isola ben tredici anni prima, nel 1801: aveva fretta, insomma, di riavere i suoi padri, amati e rispettati da lui come da tutti i suoi predecessori.

Il successo degli ignaziani a Torino, chiamati personalmente da Emanuele Filiberto, fu immediato, divennero direttori spirituali della più potente compagnia di carità laica della città, la Compagnia di San Paolo e raccolsero subito sostenitori e donazioni. Fondarono la loro prima scuola (“Collegio”) a Torino nel marzo del 1567 sotto la guida del primo Rettore, Padre Giacomo Acosta, in un edificio attiguo alla piccola chiesa di San Benedetto (oggi scomparsa) presso la “Porta Susa”, dove già risiedeva una piccola comunità di Gesuiti (due padri e un fratello). Dopo poco tempo i Padri, sempre grazie ad alcuni benefattori, traslocarono in via Dora Grossa (l’attuale via Garibaldi), trasferendo anche la scuola che da “Collegio San Benedetto” divenne “Collegio SS. Martiri”.

Nel 1678 i Gesuiti presentarono alla duchessa reggente, Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours (1644-1724), un’ambiziosa proposta per erigere un Collegio dei Nobili nel centro di Torino, dove educare i giovani rampolli dell’aristocrazia piemontese. Il nuovo complesso, nelle idee grandiose del padre Carlo Maurizio Vota (1629-1715), avrebbe dovuto occupare tre interi isolati compresi tra piazza Castello e Piazza Reale (ora San Carlo), legato anche fisicamente alla «zona di comando», in comunicazione diretta con la reggia, le cancellerie, l'archivio del Regno, l'accademia militare, il Teatro Regio, e ospitare, oltre al collegio, un seminario dei Gesuiti e una chiesa, dedicati alla gloria perpetua della reggente. Madama Reale, proclamatasi patrona dell’iniziativa, nel giugno del 1679 pose la prima pietra; ma le ingenti somme che il cantiere richiedeva finirono per ridimensionare un’impresa giudicata fin dall’inizio troppo dispendiosa e magniloquente dagli stessi vertici della Compagnia di Gesù.Fu comunque eretto in una zona egualmente privilegiata, preferita dai nobili per i loro palazzi, ed era previsto un sistema di gallerie e di passaggi coperti che lo legassero comunque alle sedi del potere regio.

Il Collegio dei Nobili finì per avere praticamente il monopolio dell'istruzione della classe dirigente dell'intero Stato. Ed era così imponente, che quando fu tolto ai religiosi, dentro ci fu spazio per il Museo Egizio, per la Pinacoteca Sabauda, per l'Accademia delle Scienze, con la sua biblioteca da duecentomila volumi.

La loro chiesa, in contrada della Dora Grossa, fu la più sontuosa della città. Non solo: proprio ai gesuiti Torino affidò le sue reliquie più preziose, quelle dei protomartiri di Valdocco, Solutore, Avventore, Ottavio, protettori della città. Credo che questa sia la sola diocesi in cui le reliquie dei patroni non sono ospitate nella cattedrale ma in una chiesa di religiosi: e, a Torino, questi non potevano essere che i figli di sant'Ignazio.

Sin dalla fine del Cinquecento i Gesuiti furono attivi nel proselitismo nelle valli dei Valdesi, insieme all’altro ordine più aggressivo della Controriforma: i Cappuccini.

Malgrado siano stati spesso associati con l’Inquisizione, che a Torino era controllata dai Domenicani, in realtà se ne tennero sempre distanti, e semmai accettavano – con riluttanza – la nomina a “consultori” teologici nei processi inquisitoriali: il modello repressivo dell’Inquisizione romana contrastava con quello predicato da Sant’Ignazio, basato sulla dolcezza, il dialogo e la conversione spontanea.

Oggi il Centro Teologico, gestito dai Gesuiti in Corso Stati Uniti, è una vera miniera di libri sulla storia dell’ordine, secondo solo alla ricchezza di documentazione dell’ARSI, l’archivio della Casa-madre.

L’Istituto Sociale, in Corso Siracusa 10 continua la tradizione educativa dei gesuiti, offrendo un percorso educativo completo dai 3 ai 18 anni. Nacque nella seconda metà del XIX secolo, quando i Gesuiti decisero di riaprire un collegio a Torino, grazie alla maggior tolleranza della legge Casati per l’istruzione, che permetteva l’esistenza di istituti privati dopo una lunga fase di accesa politica anticlericale.

 

Prefazione storica: L’ascesa dei Gesuiti, le truppe d’élite della Controriforma

 

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After the year 1530 seven spanish devils entered Italy: Inquisition, Misgovernment, Soldiery, Taxation, Vain Ostentation, and the Jesuits.

symonds, renaissance italy, vol. vi

 

I Gesuiti costituiscono un soggetto storico affascinante. Nato nella fucina della Controriforma, ultimo arrivato tra le grandi famiglie religiose, l'ordine fondato da Ignazio di Loyola a Roma nel 1540, divenne nel giro di pochi lustri uno dei più potenti, agguerriti, famosi e controversi della Cristianità. La storia di questa drammatica crescita, costellata di conflitti, opposizioni e lati oscuri, e culminata, nel Settecento, con la temporanea soppressione ad opera di Clemente XIV con la bolla Domus ac Redemptor, ha costituito materia di inesausto interesse per storici, polemisti, detrattori ed estimatori di parte cattolica e di parte protestante.

Volta a volta i Gesuiti sono stati considerati spie del Papa, eroici difensori della Cristianità, sobillatori di guerre, straordinari missionari, corruttori della morale, eccezionali educatori, innovatori scientifici, campioni dell'oscurantismo, promotori di una straordinaria rinascita religiosa e fanatici sanguinari, fervidi cristiani e scaltri doppiogiochisti, e la lista di contraddizioni potrebbe continuare ancora a lungo.

Per riuscire a penetrare attraverso questo groviglio di rappresentazioni contrastanti e giungere a conoscere cosa sia stata la Compagnia di Gesù ai tempi della sua costituzione e come si sia sviluppata occorre tornare indietro, al tempo in cui un ignoto monaco agostiniano, di nome Martin Lutero, affisse alla porta del castello di Wittenberg - così vuole la storia raccontata da Melantone - un documento che avrebbe scosso le fondamenta della cristianità: le 95 tesi contro le indulgenze.

Era il 31 ottobre 1517. Il fuoco della protesta attecchì con la velocità di un incendio. Nel 1527 il re di Svezia Gustavo Vasa adottò il luteranesimo. Meno di dieci anni dopo il re di Danimarca cacciò i vescovi, abolì i monasteri e seguì il suo esempio. La Finlandia, essendo allora sotto la sovranità della Svezia, subì la stessa sorte: la Scandinvia era stata persa nel giro di vent'anni. In Inghilterra, Enrico VIII si era dichiarato capo della Chiesa indipendente di Inghilterra già nel 1534. La maggioranza dei principi dell'Impero Germanico, a quella data, era già passata al protestantesimo o meditava di farlo. Calvino e Zwingli avevano guadagnato una vasta parte della Svizzera alle nuove idee ed essa sarebbe stata persa per sempre per Roma. Il calvinismo, molto più aggressivo del luteranesimo, fornì ulteriore propellente alla forza esplosiva della Riforma. Nel 1551, quando Enrico II emanò il suo editto contro gli Ugonotti che si erano organizzati con l'aiuto della Chiesa di Ginevra da poco costituita, la Francia piombò nel caos e nel sangue delle guerre di religione, che sarebbero durate, a intermittenza, fino a tutto il primo quarto del Seicento. Nei Paesi Bassi, nell'agosto del 1566, i calvinisti armati assaltano il governatorato spagnolo e le chiese cattoliche. È l'inizio di una guerra che durerà, con una breve pausa, per ottant'anni e sottrarrà definitivamente l'Olanda alla Spagna e al Cattolicesimo.

I mercanti calvinisti olandesi, a differenza di quelli degli altri paesi europei, si fecero aggressivi promotori della Riforma al di fuori dell'Europa. Ben presto Inghilterra e Paesi Bassi, con la creazione del loro impero coloniale, portarono la guerra di religione al di là dell'oceano.

Di fronte a questa serie di catastrofi, ai cattolici europei di quel periodo, sembrava che tutti i demoni dell'inferno fossero usciti dall'oltretomba per spargere violenza, odio e divisione nella critianità. La vecchia Chiesa, che aveva fornito unità e certezza era lacerata da un numero sempre crescente di dottrine in competizione. Ogni giorno sembrava portare nuove notizie di paesi che cadevano nel caos religioso, dove ogni verità veniva messa in dubbio e ogni ordine costituito sfidato e minacciato. Anabattismo, rivolte contadine, ribellioni venivano scatenati dovunque.

Molti cristiani continuavano a guardare al Papa di Roma come alla figura che, in quanto Vicario di Cristo in terra e capo spirituale dell'Occidente era colui che aveva il compito di intervenire a sanare i dissidi religiosi e riportare ordine, unità e certezza. Ma il papato aveva subito un catastrofico declino nel corso dei secoli, e nell'ora in cui veniva chiamato ad assumere il ruolo di guida e pacificatore, veniva a mancare sia della visione ecumenica che del prestigio spirituale richiesti da una simile sfida.

I Papi dell'epoca erano, in primo luogo e soprattutto, principi secolari nell'Italia del Rinascimento, votati all'accrescimento delle proprie famiglie e dei loro clan: i Della Rovere, i Medici, i Farnese. Come monarchi di uno tra gli stati della penisola, essi erano immersi fino al collo in un mondo di intrigo politico, dove nessun mezzo - diplomazia, guerra, tradimento, sicari - era escluso per promuovere i propri interessi territoriali. Non a caso il nipote di un Papa, Cesare Borgia, servì a Machiavelli come modello di principe astuto, brutale e spietato. Per garantirsi l'indipendenza di fronte ai grandi stati nazionali europei, e alle mire degli altri stati italiani, essi si gettarono a capofitto in una politica di guerre e alleanze, aprendo le porte della Penisola alle devastazioni ora di questo ora di quell'esercito straniero e offrendo alla cristianità lo spettacolo desolante di un papato che ora si vendeva alla Francia, ora alla Spagna.

Come conseguenza di tutto questo, nel momento in cui Lutero lanciò la sua sfida, essi avevano semplicemente perso ogni prestigio e autorità morale. Questo si vide immediatamente quando Leone X ricorse ad un'arma collaudata della Chiesa, la scomunica. Quell'arma, che in mano ai suoi formidabili predecessori aveva messo in ginocchio re e imperatori, semplicemente non ebbe alcun effetto. Il Papa si vide costretto a chiedere, riluttante, l'aiuto di Carlo V. Ma anche così, e a causa ancora una volta degli interessi temporali di Roma, che rendevano questa alleanza fragile e precaria, il protestantesimo continuava ad avanzare. Il Papa semplicemente non era in grado di spegnere l'incendio. La situazione era tragica. Nell'anno 1540, con uno scisma che assumeva ogni giorno di più dimensioni epocali e una Curia romana corrotta e dedita agli interessi di fazione, tutti gli osservatori obiettivi in Europa davano i giorni della Chiesa per contati.

Ma nel settembre di quello stesso anno 1540, nel momento in cui la tempesta infuriava più violenta, e le prospettive sembravano più buie, Paolo III compì un atto apparentemente insignificante e senza alcuna relazione con i drammatici eventi del suo tempo: approvò una petizione da parte di un piccolo gruppo di dieci sacerdoti per formare una compagnia religiosa dedicata al servizio del Papa e della Chiesa. Sebbene questo evento al tempo passò inosservato, esso fu forse il singolo più importante passo fatto dal Papato per salvare la Chiesa Romana dalla dissoluzione. Nella bolla che annunciava la costituzione del nuovo ordine, Paolo III approvò anche il nome che che era stato chiesto dal gruppo: essi avevano deciso di chiamarsi Compagnia di Gesù.

La società, come scrisse Ignazio, sarebbe stata aperta a "chiunque desideri servire come soldato di Dio sotto la bandiera della sua croce". Sarebbe stato, in altre parole, l'esercito del Papa.

Ci volle quasi un anno, ma alla fine il Papa approvò la Compagnia di Gesù. Manifestando le sue perplessità, egli limitò il numero di membri che l'ordine avrebbe avuto a sessanta, ma la restrizione fu presto superata, nel momento in cui l'ordine si ingrandì e prosperò. La crescita iniziale della Compagnia di Gesù non può che essere definita spettacolare. Dieci uomini in tutto, intimi amici, elessero Ignazio come primo generale della società, nel medesimo anno. Ma al tempo della sua morte nel 1556, i ranghi dell'ordine si erano moltiplicati di cento volte, di mille volte. Dieci anni dopo la Compagnia aveva tremilacinquecento membri, e alla morte del Generale Acquaviva, nel 1615, non meno di tredicimila uomini avevano preso gli ordini gesuiti. La crescita successiva, sebbene meno impressionante, fu comunque sostenuta e alla fine del secolo successivo era stato raggiunto il numero di ventimila membri. Durante tutto questo periodo, la Compagnia non fece mai concessioni riguardo la qualità delle nuove reclute allo scopo di aumentare i propri effettivi. Sin dall'inizio, Ignazio aveva insistito che tutti i candidati fossero rigorosamente selezionati già prima di essere accettati come novizi. Per quelli che erano accettati, la strada da novizio a membro di pieno diritto era lunga e ardua, e durava anni, talvolta anche decenni. I Gesuiti non abbassarono mai questi standard, anche se tutti gli altri ordini religiosi non richiedevano nulla di remotamente simile a questa severità. A dispetto di questo, o forse proprio per questo, i Gesuiti non mancarono mai di postulanti con le più alte doti intellettuali e le più elevate condizioni sociali.

Molti dei primi leader della Compagnia venivano da antiche e nobili famiglie, come lo stesso Ignazio e il suo compagno dai giorni della Sorbona Francisco Xavier. Il terzo generale dell'ordine, Francisco de Borja, che governò dal 1565 fino al 1572, era stato Duca di Gandia in Castiglia prima di prendere gli ordini. Egli era il pronipote del famoso Papa Alessandro VI Borgia. Claudio Acquaviva era il figlio del Duca di Atri nel Vicereame di Napoli. Altri gesuiti provenivano da umili origini, ma si distinsero come intellettuali di primo piano dell'epoca. Tali furono i teologi spagnoli Francisco de Toledo e Francisco Suarez e l'italiano Roberto Bellarmino. Cristoforo Clavio, Gregorio di St. Vincent e André Tacquet erano matematici d'avanguardia; Christoph Grienberger e Christoph Scheiner erano importanti astronomi; e Athanasius Kircher e Roger Boscovich erano capiscuola di filosofia naturale. E nessuna lista di eminenti gesuiti può tralasciare il brillante Matteo Ricci, che viaggiò sino in Cina per diffondere la parola di Dio e divenne uno dei principali eruditi ed esponenti del pensiero occidentale alla corte Ming. Questo è solo un piccolo campione, ma sufficiente a giustificare il giudizio di Michel de Montaigne quando visitò il loro quartiere generale a Roma, nel 1581. Egli chiamò l'ordine "una culla di grandi uomini".

I Gesuiti, comunque, non erano solo una associazione di individui straordinari. Erano un corpo altamente addestrato e disciplinato, forgiato in un potente strumento per uno scopo tenace: la diffusione degli insegnamenti della Chiesa Cattolica, l'espansione dei suoi confini, il sostegno alla sua autorità. Fu così sin dall'inizio, quando Ignazio e la sua banda di seguaci si offrirono subito di servire il Papa in ogni angolo del mondo, figurandosi in un primo tempo che sarebbero andati a predicare la parola di Dio ai mussulmani in Terrasanta. Sebbene quella missione non si concretizzò mai, non passò molto tempo che i Gesuiti si distinsero per il loro straordinario lavoro missionario in quattro continenti. Già nel 1541, Francisco Xavier lasciò il Portogallo per una missione che lo avrebbe portato a Goa, in India, a Giava, nelle Molucche e in Giappone, a predicare il Vangelo e a stabilire missioni dovunque andasse. Morì nel 1552 mentre attendeva il passaggio per la Cina, dove sperava di convertire la più popolosa nazione del mondo alla fede romana. Nel frattempo, altri Gesuiti viaggiarono fino al Messico, al Perù, e al Brasile, dove si unirono ai Domenicani e ai Francescani nei loro sforzi di cristianizzare il Nuovo Mondo. Lavoravano con zelo ed efficienza, eressero residenze e missioni, si occuparono del benessere spirituale dei primi colonizzatori, e lavorarono incessntemente per convertire i popoli nativi.

Nondimeno, l'impatto cruciale dei Gesuiti va individuato nel loro confronto con pagani molto più vicini ai loro paesi di origine. Perché, negli anni turbolenti della Riforma, quando la stessa sopravvivenza della vecchia Chiesa era appesa ad un filo, i Gesuiti divennero l'avanguardia d'élite del cattolicesimo romano, impegnati con tutte le loro forze a mantenere le posizioni contro la marea protestante che sembrava travolgere ogni cosa. Con eccezionale abilità, dedizione e spirito indomito e pieno di iniziativa, ottennero una stupefacente rinascita cattolica che non solo bloccò l'ulteriore diffondersi della Riforma, ma riconquistò al Papa molti paesi che sembravano persi per sempre. Questi uomini erano esattamente come Ignazio li aveva immaginati: l'esercito personale di Dio, che ingaggiava battaglia con i suoi nemici e si poneva alla testa del movimento cattolico noto come Controriforma.

Era la visione del loro fondatore che rendeva i Gesuiti strumenti così formidabili al servizio del Papa. Già negli Esercizi spirituali del 1522 - quasi vent'anni prima della costituzione ufficiale dell'ordine - Ignazio diede corpo all'intimo paradosso che avrebbe formato lo spirito gesuita per secoli. In primo luogo, gli Esercizi sono un testo mistico, pensato per elevare i lettori al disopra della propria esistenza materiale e portarli ad una unione estatica con Dio. La storia della Chiesa medievale abbonda di mistici carismatici che, come Ignazio, ebbero visioni di Cristo e della Vergine e che si elevarono su un piano di esistenza più alto e persino divino. Nei loro scritti, mistici come Gioacchino da Fiore e Caterina da Siena tentarono di condividere in parte la loro esperienza con i seguaci, e a questo proposito Ignazio era assolutamente rappresentativo.

Ma gli Esercizi sono al contempo qualcosa di completamente diverso: un manuale pratico meticolosamente dettagliato su come raggiungere l'unione con Dio. Il corso delle meditazioni prescritti è diviso in quattro "settimane", per quanto esse possano anche non corrispondere necessariamente a sette giorni. Le meditazioni di ogni settimana hanno un oggetto differente, dalla natura del peccato e dei tormenti dell'inferno nella prima, alle sofferenze di Cristo alla Resurrezione nella qauarta. L'"esercitante" deve seguire queste direttive con scrupolo, con un cuore aperto e la volontà di rinunciare all'egoismo e di accettare la grazia che Dio ci offre. La strada che porta a Dio, come è tracciata negli Esercizi, non è un singolo misterioso salto dal nostro mondo decaduto ai cieli divini, spiegabile solo attraverso la grazia divina. Piuttosto, è un lungo e arduo viaggio che richiede disciplina, impegno, fiducia incondizionata nella guida del proprio superiore, e stretta obbedienza alle sue direttive.

La tensione tra misticismo estatico e disciplina rigorosa, che rappresenta il nucleo degli Esercizi, li rende profondamente differenti dagli altri testi mistici, in cui l'enfasi viene posta sulla gloria della unione con Dio ma non offrono una itineriario di viaggio per ottenerla. E è precisamente questo paradosso che animava sin dall'Inizio la Società di Gesù e che la rese lo strumento efficace e potente che rappresentò nelle mani del Papato. Perché i Gesuiti erano inequivocabilmente mistici: ogni novizio, all'ingresso nella società, doveva passare attraverso l'esperienza degli Esercizi spirituali e sperimentava la beata unione con Dio che ne è il culmine. Dopo questa esperienza, egli avrebbe agito con la indiscutibile confidenza che è tipica di tutti quelli che hanno incontrato Dio e sanno ciò che vuole da loro. Ma laddove i mistici tradizionali erano condotti ad una vita di solitudine e contemplazione interiore, i Gesuiti proiettavano la loro intima confidenza sul mondo, procedendo con disciplina, ordine e pazienza. Il risultato fu che i Gesuiti presentavano una combinazione unica di caratteristiche che li rendeva una delle più efficienti organizzazioni, religiose e non, della storia: lo zelo e la sicurezza del mistico, e la rigida organizzazione e tenace proposito di una unità militare d'élite.

Oltre a stabilire i principi guida per l'Ordine, Ignazio predispose il meccanismo che avrebbe tradotto questi principi in realtà. La sfida più grande, capì, era creare un corpo di uomini che fossero incrollabilmente fedeli alla Compagnia e ai suoi scopi e disposti a dedicare la loro intera vita ad entrambi. Persino un individuo brillante e altamente morale avrebbe dovuto essere respinto se la commissione incaricata della selezine avesse stabilitoi che era troppo individualista e quindi inadatto alla vita in un corpo disciplinato. Una volta ammesso, un giovane sarebbe stato distaccato dalla sua vita precedente e passava attraverso un noviziato di due anni in cui gli erano inculcati gli ideali di povertà e di servizio della compagnia. Avrebbe dovuto praticare la successione completa degli Esercizi spirituali e prestare servizio nelle missioni collegi e residenze della Compagnia sparse dappertutto. Sopra ogni altra cosa, gli era richiesto di accettare senza fare domande l'autorità dei superiori, e seguire le loro direttive nelle grandi e nelle piccole cose.

Alla fine dei due anni, i novizi professavano i voti monastici di povertà, castità e obbedienza. Per quelli che non erano destinati a essere ordinati sacerdoti, questo rappresentava la fine dell'addestramento formale. Sarebbero diventati "coadiutori approvati" e, anni dopo, "coadiutori formati", e avrebbero prestato servizio come amministratori, cuochi o giardinieri. I novizi destinati al sacerdozio, invece, sarebbero diventati "scolastici", e avrebbero intrapreso anni di studi avanzati nelle istituzioni dei Gesuiti. Ad un certo punto del percorso darebbero stato ordinati sacerdoti, e avrebbero dovuto anche dedicare diversi anni lontano dagli studi per insegnare ai nuovi studenti. Una volta completati i loro studi, dovevano intraprendere un altro anno di "formazione spirituale" alla fine del quale avrebbero pronunciato i loro voti finali. Alcuni avrebbero formulato di nuovo i tre voti tradizionali e sarebbero diventati "coadiutori spirituali". Ma quelli giudicati più notevoli per conoscenza e carattere, avrebbero aggiunto un quarto voto, tipico dei soli Gesuiti, la professione di obbedienza assoluta al Papa. Questi uomini erano conosciuti come "professi" o "padri professi" e formavano l'indiscussa élite dell'Ordine. Nel suo complesso, questo lungo processo, che durava da otto a quattordici anni, produceva il tipo di persona che Ignazio aveva immaginato: intelligente, energico e disciplinato. Insieme essi formavano una confraternita estremamente unita, legata da una profonda identificazione con gli scopi della Compagnia, un forte cameratismo, e dall'orgoglio di essere un corpo d'élite al servizio di Cristo e della Chiesa.

I Gesuiti, tuttavia, non erano solo una fratellanza basata sull'affetto e la solidarietà; formavano anche una gerarchia rigidamente organizzata dall'alto in basso, concepita per operare fluidamente e con l'efficienza di una moderna unità militare. All'apice c'era il superiore generale, o preposto generale o Generale, immancabilmente un professo dei quattro voti, eletto a vita dalla congregazione generale dell'Ordine. I suoi poteri entro l'ordine erano assoluti e illimitati. Egli aveva facoltà di nominare o licenziare qualsiasi membro da qualsiasi posizione entro l'ordine. Al disotto di lui c'erano i superiori provinciali, responsabili per l'opera della Compagnia in grandi aree territoriali, le "province", quali quella del Reno inferiore e superiore in Germania, o quella del Brasile nel Nuovo Mondo; al disotto di essi c'erano i superiori locali, responsabili per particolari regioni o città, giù giù fino ai singoli collegi e residenza. A differenza degli altri ordini religiosi, dove le comunità locali godavano di considerevole autonomia e potevano eleggere i propri superiori, il potere, tra i Gesuiti andava rigidamente dall'alto verso il basso: era il Generale a Roma, non i membri locali, che nominava i provinciali, e questi, a loro volta, in stretto accordo con Roma, nominavano i superiori locali. Ci si aspettava che i membri di ogni comunità locale accettassero senza discutere queste decisioni, che ad essi piacessero o meno, e salvo rare eccezioni essi obbedivano.

La prontezza con cui i Gesuiti delle comunità locali si sottomettevano agli editti di superiori che risiedevano molto lontano richiede qualche misura di spiegazione. Dopo tutto, il Generale, a Roma, per quanto zelante e capace, era non di rado all'oscuro delle situazioni locali, e le sue direttive potevano essere erronee, e perfino disastrose. Era stato il caso, ad esempio dell'esperienza dei Gesuiti francesi nel 1594, quando venne loro richiesto di giurare fedeltà ad Enrico IV, il nuovo re di Francia, che si era di recente convertito al cattolicesimo. Il Generale Claudio Acquaviva proibì severamente ai Gesuiti di prestare un simile giuramento, una decisione che ebbe come conseguenza la loro espulsione da Parigi e per poco non segnò la fine della loro opera in Francia. Ma persino in tale situazione estrema, pur sapendo perfettamente che le direttive di Roma erano sbagliate e basate su una conoscenza erronea delle condizioni locali, e che essi erano destinati a pagare duramente il prezzo degli errori dei superiori, essi obbedirono.

La ragione era che, per i Gesuiti, il principio della "obbedienza" non era solo una concessione pratica alle esigenze di una azione efficiente, ma un ideale religioso del più alto livello. "Con tutte le nostre facoltà di giudizio messe da parte, noi dobbiamo… essere obbedienti alla vera Sposa di Cristo nostro Signore, che è la nostra Santa Madre, la Chiesa Gerarchica", scrisse Ignazio negli Esercizi spirituali. Quest'obbedienza si estendeva non solo alle azioi, ma anche alle opinioni e addirittura alle percezioni dei sensi. "Per mantenersi nel giusto in tutte le cose", scrisse Ignazio, "dobbiamo tenere fermo questo principio: ciò che io vedo come bianco, giudicherò che sia nero se la Chiesa Gerarchica stabilisce così".

Un lettore moderno potrebbe comprensibilmente associare una tale obbedienza assoluta a una rigida gerarchia con i regimi totalitari che hanno gettato un'ombra sulla storia del Ventesimo Secolo. E in effetti, la richiesta di vedere il nero per il bianco ricevendone l'ordine riporta alla mente il libro 1984 di George Orwell, in cui al protagonista, Winston, si ordina di vedere quattro dita anziché cinque per provare la sua lealtà al Grande Fratello. Ma c'è un'importante differenza: Winston, in 1984, viene torturato, ed è costretto ad accettare la supremazia del Grande Fratello contro la sua volontà. Per i Gesuiti, l'obbedienza era un altissimo ideale, e il suo raggiungimento era completamente volontario. Obbedire all'ordine di un superiore, scrisse Ignazio, non era un atto di abietta sottomissione, ma una positiva riaffermazione della missione della Compagnia e del proprio ruolo entro di essa. Ne seguiva che sebbene nella Compagnia di Gesù esistessero severe misure disciplinari come ammonizioni e persino l'espulsione, esse erano raramente usate in pratica. Quelli che avevano completato il rigoroso tirocinio per divenire padri gesuiti raramente avevano bisogno l'implementazione di tali misure per ricordare loro il valore dell'obbedienza. In ultima analisi, aveva scritto Ignazio, "tutta l'autorità deriva da Dio", e di conseguenza, l'obbedienza ai comandi di un superiore avrebbe dovuto essere immediata e volontaria, "come se esso venisse da Cristo nostro Salvatore".

In un senso lato, imporre ordine sul caos era la missione fondamentale della Compagnia, sia nel suo modo di funzionamento interno che nella sua pratia con il mondo. Questo era già evidente negli Esercizi spirituali, che trasformano una esperienza mistica ineffabile in qulacosa che somiglia a un ordinato corso di studi. È anche evidente nelle Costituzioni di Ignazio, che forniscono direttive dettagliate e sistematiche per la gestione della Compagnia, per finire con la Ratio studiorum, il documento che tratteggia in minuto dettaglio ciò che deve essere insegnato nei collegi dei Gesuiti, da chi e in che modo. Persino nelle loro vite individuali i Gesuiti si attenevano a un codice di rigido ordine: "Chiunque studi il regime dei Gesuiti non può non rimanere colpito dalla frequente enfasi sulla pulizia e l'ordine", ha notato uno storico dei Gesuiti del XX secolo. La pulizia, l'ordine sia della camera personale che della residenza comune erano "un requisito assoluto". Più che in ogni altro luogo questo era espresso nella chiara gerarchia della Compagnia, in cui ad ogni membro era assegnato un posto preciso e non discutibile. Fu questa abilità di imporre ordine al caos che rese la Compagnia uno strumento così straordinariamene efficace per combattere e sconfiggere il Protestantesimo e ristabilire il potere e il prestigio della gerarchia della Chiesa.

Altamente educati e fanaticamente devoti alla causa della Chiesa e del Papa, i Gesuiti erano un esercito spirituale quale l'Europa non aveva mai visto. Per i papi, essi costituirono un'arma senza eguali nella loro lotta per imporre l'autorità e gli insegnamenti della Chiesa ad un mondo turbolento e scettico, ed i pontefici non esitarono a farne buon uso. Sin dall'inizio, i Gesuiti furono mandati per le vie d'Europa e del mondo per puntellare la fede in paesi dove era sotto attacco. Pierre Favre, uno dei primi compagni di Ignazio sin dai tempi di Parigi, fu il primo gesuita ad operare in Germania. La migliore possibilità per la Chiesa Romana, giudicò Favre, era di rinforzare la devozione popolare ai tradizionali sacri riti e servizi: "Se gli eretici vedranno nelle chiese la pratica della comunione frequente, con i fedeli che ricevono la loro Forza e la loro Vita… non uno di loro oserà predicare la dottrina di Zwingli sulla Santa Eucaristia". Egli viaggiò per il Paese, visitò le parrocchie, predicò a vaste folle, e rianimò le antiche tradizioni comunitarie della Chiesa.

Favre morì nel 1546, ma due altri straordinari gesuiti si fecero avanti a dargli il cambio sul fronte della lotta: dapprima lo spagnolo Jeronimo Nadal e poi Pietro Canisio, il "secondo apostolo" di Germania. Dagli anni '40 agli anni '60, Canisio macinò ventimila miglia sulle strade di Austria, Boemia, Germania, Svizzera e Italia. Non si limitò a predicare e ad organizzare il lavoro per risollevare la vita parrocchiale: produsse un flusso ininterrotto di libri popolar di istruzione sia per i sacerdoti che per il loro gregge riguardo le corrette dottrine e pratiche cattoliche. Il risultato che lui e altri gesuiti ottennero fu niente meno che drammatico: i sacerdoti nella chiesa dei Gesuiti di Vfienna, per esempio, ricevettero centinaia di confessioni il giorno di Pasqua del 1560, ma nove anni dopo il numero era arrivato a tremila. A Colonia, nel 1576, quindicimila fedeli ricevettero la Santa Comunione presso la cappella dei Gesuiti, ma solo cinque anni più tardi il numero era triplicato, arrivando a quarantacinquemila. Era la prova della straordinaria capacità dei Gesuiti di riportare in vita la vita del Cattolicesimo là dove essa sembrava la preda designata dell'attacco protestante.

I Gesuiti servirono da motore della ripresa cattolica anche in altre forme. Alcuni, come Francisco Suarez, erano eminenti teologi, che dettagliarono le dottrine della Chiesa e furono più che capaci di tenere testa nelle dispute con i loro avversari protestanti. Altri, come Diego Laynez e Antonio Possevino, agirono come emissari personali del Papa in importanti missioni diplomatiche, e altri ancora, come Roberto Bellarmino, unirono i due ruoli di consigliere e teologo del Papa. Alcuni, come François de la Chaise, confessore personale di Luigi XIV, che diede il nome al famoso cimitero Père Lachaise di Parigi, fornirono guida morale e conforto spirituale ai coronati d'Europa. Altri ancora, come l'inglese Edmund Campion, furono mandati in missioni segrete nei loro paesi protestanti di origine per non far estinguere la fiamma del cattolicesimo, a enorme rischio per se stessi. In tutti questi compiti, essi si dimostrarono eccezionali guarrieri di Dio: colti e non di rado brillanti, dotati, attivi e assolutamente devoti alla causa della Chiesa e del Papa.

Ma mentre i Gesuiti ebbero successo in tutti queste imprese, era in un'area, in particolare, che essi erano realmente senza pari: l'educazione. È notevole il fatto che Ignazio inizialmente non considerava l'educazione l'oggetto primario della sua Compagnia. La sua visione contemplava un gruppo di preti itineranti, pronti a fare i bagagli senza preavviso e a viaggiare ai quattro angoli della terra ad un comando dei loro superiori o del Papa, e di conseguenza non adatti a gestire scuole. Ma quando Francesco Borgia fondò il primo collagio gesuita a Gandia, in Spagna, nel 1545, i principali tra i cittadini lo assediarono con richieste perché i loro figli fossero accolti per esservi istruiti. Borgia si rivolse ad Ignazio, che, intuendo una opportunità preziosa per avanzare la causa del Cattolicesimo, diede il suo consenso. Fu così che già dal 1548 il collegio di Gandia aprì le porte alla gioventù della città.

L'esperienza di Gandia stabilì la rotta per altre istituzioni simili. L'anno 1548 vide anche l'apertura del collegio di Messina, la prima istituzione gesuita rivolta principalmente all'educazione di studenti laici. Per sovrintendere alla sua fondazione, Ignazio inviò un certo numero dei suoi più fidati subordinati, inclusi Nadal e Canisio, che resero Messina un modello per tutti i futuri collegi. Seguendo le direttive di Ignazio, il curriculum includeva un corso intensivo di latino, gli autori classici, e la filosofia, studiata con la guida delle opere di Aristotele. Al culmine della gerarchia degli studi c'era la teologia, la "regina delle scienze" che aveva l'ultima parola in tutti i campi della vera conoscenza. La facoltà di Messina, sotto la guida di Nadal, operò per trasfondere questo ampio programma di istruzione in un curriculum ordinato e sistematico e formulò parecchie proposte per un "ordine degli studi", o ratio studiorum. Dopo aver subito molte revisioni e molte redazioni in bozza, la Ratio studiorum fu formalmente approvata nel 1599 dalla congregazione generale della Società e divenne il modello per l'insegnamento gesuita ovunque impartito.

A seguito di questi primi successi, la domanda di collegi dei gesuiti esplose in tutta l'Europa cattolica. In città grandi e piccole principi regnanti, vescovi locali e cittadini eminenti fecero istanza alla Compagnia perché fondasse dei collegi nelle loro comunità. Riconoscendo il valore dell'educaizone per la diffusione degli insegnamenti della Chiesa, Ignazio scelse di abbracciare questa nuova missione dell'ordine, e lo chiamò a mobilitarsi per stabilire istituzioni gesuite da un capo all'altro dell'Europa. Al tempo della sua morte nel 1556 c'erano già 33 collegi, e la domanda continuava a crescere: 144 collegi nel 1579, 444 collegi e 100 seminari e scuole nel 1626, 669 collegi e 176 seminari e scuole nel 1749. Per la maggior parte in Europa, ma non tutti. Collegi gesuiti potevano incontrarsi nell'estremo oriente, a Nagasaki, in Giappone, e all'estremo ovest, fino a Lima, in Perù. Era realmente, sotto tutti i punti di vista, un sistema mondiale di istruzione, su una scala che non era stata vista mai prima di allora e, se è per questo, dopo di allora.

Al centro di questa enorme rete educativa svettava il Collegio Romano. Fondato nel 1551 fu inizialmente ospitato in varie modeste abitazioni sparse per la città. Gregorio XIII, ammiratore e sostenitore dei Gesuiti, decise di fornire alla loro istituzione portabandiera una sede più consona. Espropriò due isolati cittadini in prossimità del crocevia principale di Via del Corso e affidò al rinomato architetto Bartolomeo Ammannati il progetto di un adeguato quartier generale del sistema educativo dei Gesuiti. Il risultato fu un imponente, anche se non appariscente palazzo che rifletteva il potere e il prestigio della Compagnia di Gesù, ma anche la serietà della sua missione e il suo pragmatismo con i piedi per terra. Il Collegio si spostò in questa nuova sistemazione nel 1584. Sarebbe rimasto lì, in Piazza del Collegio Romano, quasi ininterrottamente per i successivi tre secoli.

Il nome semplice di "Collegio Romano", non differente da quello dei collegi delle altre città, suggerisce che esso fosse concepito per servire i giovani di Roma. Ma questo non è esatto. Sebbene educare l'élite romana era invero parte della missione del Collegio, esso era anche, sin dal suo inizio, un modello e un faro intellettuale per gli altri collegi del sistema. Solo i più esperti ed abili studiosi gesuiti venivano chiamati a Roma per fungere da professori al Collegio, che radunò sotto lo stesso tetto i più grandi luminari dell'Ordine. I matematici Christoph Clavius e Christoph Grienberger, i filosofi naturali Athanasius Kircher e Roger Boskovich, i teologi Francisco Suarez e Roberto Bellarmino e molti altri - in pratica la quasi totalità degli intellettuali gesuiti di punta - insegnavano al Collegio Romano. Secondo la consueta pratica gerarchica della Compagnia, la facoltà romana aveva l'autorità di stabilire il curriculum dei collegi provinciali e di determinare ciò che sarebbe e ciò che non sarebbe stato insegnato nelle scuole dei Gesuiti. Come gli ordini del Generale valevano per ogni singolo gesuita, così il Collegio Romano dominava sulle centinaia di collegi gesuiti in tutto il mondo.

Non è difficile rendersi conto del perché nobili e ricchi borghesi in tutta l'Europa cattolica reclamavano a gran voce la costituzione di collegi gesuiti nelle loro cittò. Le tradizionali scuole parrochiali erano di dubbia qualità, e la vita studentesca nelle grandi università era notoriamente dissoluta e immorale e poco preoccupata di darsi effettivamente ad attività di studio. I Gesuiti offrivano qualcosa di completamente diverso: un curriculum esigente e rigoroso, impartito da insegnanti altamente qualificati e regolarmente aggiornato dai luminari del Collegio Romano. Laddove gli studenti delle università erano liberi di indulgere in una vita di dissipata ubriachezza, gli studenti dei collegi gesuiti erano strettamente sorvegliati e occupavano i loro giori con lo studio e la preghiera. Un aristocratico o un mercante che mandavano il proprio figlio ad una scuola gesuita potevano essere sicuri che il ragazzo ne avrebbe avuto un immenso miglioramento, sia morale che intellettuale.

La lunga lista di eminenti allievi dei collegi dei gesuiti conferma in pieno questo giudizio. Oltre ai personaggi famosi dello stesso Ordine, i diplomati includevano coronati come Ferdinando II di Stiria, poi Sacro Romano Imperatore, statisti come il Cardinal Richelieu, umanisti come Justus Lipsius e filosofi e scienziati come René Descartes e Marin Mersenne. L'educazione gesuita, come riconoscevano persino i nemici della Compagnia, era né più né meno la migliore disponibile in tutti i paesi cristiani. Persino Francesco Bacone, Lord Cancelliere di Inghilterra e assolutamente non amico dei Gesuiti, commentò tristemente, talis quus sis, utinam noster esses, "fossero i nostri tali quali siete voi".

Bacone aveva buone ragioni per invidiare l'eccellenza educativa dei Gesuiti. Perché di tutti i servizi inestimabili che la Compagnia di Gesù offrì al Papato nella sua lotta contro il Protestantesimo, nessuno si rivelò più potente o efficace dei collegi. Dovunque uno fosse fondato, diveniva ben presto un centro di vita cattolica e una dimostrazione vivente di ciò che la Chiesa romana poteva fare. Erano rare le scuole luterane e calviniste che potevano competere con i Gesuiti sul piano della pura qualità dell'insegnamento o della competizione per attrarre l'utenza delle élite laiche. Una volta che gli studenti gli erano affidati, i Gesuiti spendevano anni ad impartire gli insegnamenti cattolici, completi di dotte e autorevoli confutazioni delle dottrine protestanti. Inevitabilmente gli studenti assorbivano la devozione gesuita per il papato e lo spirito di sacrificio per la causa della Chiesa e della sua gerarchia. Per mezzo di centinaia di simili collegi in tutta Europa e con centinaia e talvolva migliaia di studenti immatricolati in ciascuno di essi, il sistema educativo gesuita produsse una generazione di cattolici ben istruiti e devoti, che avrebbero occupati i posti di comando nelle loro comunità. In effetti, come principali educatori dell'élite cattolica, i Gesuiti assicurarono la sopravvivenza, tanto quanto il rifiorire della Chiesa Romana in vaste parti d'Europa.

L'impatto dei collegi gesuitici fu innegabile. Il primo collegio gesuita nel Sacro Romano Impero Germanico fu fondato a Colonia nel 1556, in un momento in cui l'Impero sembrava sull'orlo di soccombere sotto l'ondata luterana. Ma con il collegio saldamente stabilito entro la città, Colonia divenne una roccaforte cattolica e la base per le successive espansioni dell'attività dei Gesuiti. Nei decenni successivi, grazie anche ad un forte appoggio dalle famiglie regnanti dei Wittelsbach e degli Asburgo, i Gesuiti fondarono dozzine di collegi in Bavaria e Austria, e si impadronirono delle università locali. Arrivarono persino a istituire a Roma una scuola speciale dedicata alla formazione di promettenti allievi tedeschi, destinati ad occupare posizioni elevate nella gerarchia ecclesiastica. Dopo aver completato i loro studi, i diplomati del "Collegium Germanicum" ritornavano ai loro paesi, dove divennero vescovi e arcivescovi, e la spina dorsale della riscossa cattolica in Germania. Anche nei Paesi Bassi i Gesuiti furono straordinariamente attivi: quando le province del Nord passarono al protestantesimo e presero le armi contro i loro sovrani della Casa di Asburgo, i Gesuiti contribuirono a rendere le Province del sud un bastione del cattolicesimo. Fu in gran parte grazie ai loro sforzi che il paese fu salvato per la Chiesa Cattolica, acquisì una distinta identità rispetto alle province del Nord e alla fine ottenne l'indipendenza come il moderno stato del Belgio.

In modo molto simile alla Germania, la Polonia del sedicesimo secolo sembrava ormai avviata ad accettare una o un'altra forma di protestantesimo quando i nobili cattolici invitarono i Gesuiti a aprire i loro collegi negli anni '60 del 1500. L'impresa guadagnò rapidamente l'appoggio della famiglia reale polacca, che aiutò i Gesuiti ad espandersi, dai primi cinque collegi nel 1576 ai trentasei del 1648. I Gesuiti divennero gli educatori della classe dirigente polacca, sia dell'aristocrazia rurale che dell'élite urbana, mentre contemporaneamente a Roma formavano i quadri di un clero istruito che ritornò in Polonia per assumere la leadership della Chiesa. I Gesuiti erano così vicini ai monarchi polacchi che il re Sigismondo II era conosciuto come il "Re Gesuita" e suo figlio, Jan II Kazimierz fu membro dell'ordine e cardinale prima di salire al trono. La Polonia ne fu trasformata: una nazione che in precedenza si era vantata della sua tolleranza religiosa, e aveva aperto le sue chiese ai riformatori, divenne il paese di devoti cattolici che conosciamo oggi. In Polonia, come altrove, l'intervento dei Gesuiti fu decisivo.

I discepoli formati sul modello di Ignazio compirono ciò che i papi del Rinascimento non erano stati in grado di fare: arrestarono il progresso apparentemente inarrestabile del Protestantesimo in Europa e ridiedero nuova vita al potere e al prestigio della Chiesa Romana. Laddove la Compagnia piantò le sue bandiere, una nuova energia di devozione spirituale e una nuova determinazione fu instillava nella vecchia Chiesa e ispirò i suoi aderenti a fare fronte contro gli eretici. Un riconoscente Gregorio XIII si rivolgeva in questi termini alla Congregazione Generale della Compagnia del 1581:

 

Il vostro Santo Ordine si è diffuso per l'intero mondo. Dovunque si guardi, avete collegi e case. Dirigete regni, province, in verità l'intero mondo. In breve, in questi tempi non esiste uno strumento levato da Dio contro gli eretici più grande del vostro Ordine. Esso venne al mondo proprio nel momento in cui i nuovi errori iniziavano a diffondersi. È dunque della massima importanza che questo Ordine accresca la propria prosperità di giorno in giorno.

 

Il miracolo di Sant'Ignazio è un grandioso quadro che originariamente doveva illustrare l'altare della cattedrale di Anversa, e oggi si può ammirare al Kunsthistorisches Museum di Vienna. È opera del fiammingo Peter Paul Rubens, la cui riputazione di pittore di forme opulente ed erotiche nasconde a molti il fatto che era un devotissimo cattolico, che ascoltava messa ogni mattina e era intimo dei gesuiti di Anversa, la sua città natale. Nel 1605, quando i Gesuiti stavano portando avanti la campagna per la canonizzazione del loro fondatore, Rubens contribuì con ottanta incisioni all'opera agiografica ufficiale dell'Ordine, La vita del Ignazio. Quattro anni dopo, quando ci fu la beatificazione, gli fu commissionata la creazione di diversi grandi ritratti del futuro santo per la Chiesa del Gesù, la chiesa madre dell'Ordine a Roma.

Il quadro del Kuntshistorisches Museum ci pone dinanzi agli occhi una scena altamente drammatica, che ha luogo in un vasto ambiente, probabilmente una chiesa, che viene dipinto in tutta la sua magnificenza, dal soffitto a volta fino al pavimento di marmo. In alto, vicino alla cupola fluggua un gruppo di ridenti angeli e cherubini che sembrano non prestare attenzione al caos degli eventi umani che si svolgono al disotto. Là, si assiste ad una scena di dolore, paura e confusione, con un grande gruppo di uomini, donne e parecchi bambini colti in una tormentata frenesia. Uno degli uomini cade sulla schiena come in preda ad un attacco epilettico, mentre un altro, con strisce sanguinanti sulla schiena tende le braccia nella sua direzione. Una donna discinta, con i pugni seerrati, il volto contorto da una smorfia selvaggia e gli occhi vitrei cerca di divincolarsi da due uomini che la sorreggono. Un uomo dai capelli grigi, di cui è visibile solo la testa, leva gli occhi in un moto di disparazione, la faccia distorta in una maschera di orrore. Gli altri, che non sono stati sopraffatti dalla frenesia, guardano in alto con un misto di tormento, supplica e speranza: potranno essere salvati da chi li tormenta?

La figura a cui volgono lo sguardo è lo stesso Ignazio, eretto, risplendente negli abiti sacerdotali. Sulla sua pedana, Ignazio è rialzato solo di pochi palmi dal suolo, ma pare abitare un reame completamente differente. Calmo e imperioso, con la mano destra alzata in segno di benedizione, sta effettuando un esorcismo, scacciando gli spiriti maligni dalle persone, riportando pace e ordine a quelli che erano afflitti da tormento e caos. Una nube di cattivi spiriti è uscita dai corpi e sta fuggendo di fronte alla santità di Ignazio e uno degli angeli fa loro un irrisorio gesto di saluto. Ignazio, sebbene sia il protagonista indiscusso del quadro, non è solo: dietro di lui ci sono i sui uomini, una lunga fila di gesuiti vestiti di nero che si perde nella distanza. Come lui, sono calmi e austeri, e tengono d'occhio la scena di sofferenza che si svolge di fronte a loro. Sono l'esercito di Ignazio, e sono lì per apprendere dal loro maestro, per seguire le sue direttive e infine per succedergli nella missione di trasformare il caos nell'ordine e di portare pace agli afflitti.

Perché è questo il "miracolo" di Sant'Ignazio e dei suoi. Come nessun altro prima di loro essi sono riusciti a riportare la pace e l'ordine in una terra lacerata dalla sfida dei Riformati. Al posto dell'eresia e della confusione essi hanno portato unità e ortodossia; dove il governo della Chiesa è stato rovesciato e i preti e i vescovi spogliati delle proprie prerogative, essi hanno ricostruito il grande e antico edificio cattolico e hanno ristabilito la potenza della sua gerarchia; dove regnava la confusione hanno ripristinato la incrollabile certezza della verità e la giustizia della Chiesa Romana. Il loro successo nel compiere tutto questo è stato veramente miracoloso. Le chiavi di questo miracolo, secondo le convinzioni dei Gesuiti, erano semplici: verità, gerarchia e ordine.

I Gesuiti non credevano nella pluralità delle opinioni: la verità è assoluta. Non credevano nel pluralismo di poteri e autorità: una volta che la verità è conosciuta, tutto il potere deve fluire da quelli che la riconoscono e accettano come tale, e deve essere imposta su quelli che ancora non l'hanno accettata. E certamente essi non credevano nella democrazia, che consente l'espressione di punti di vista differenti e persino opposti e prospera nel libero dibattito e nella libera competizione per il potere. La verità non lascia spazio a simili dissensi o contestazioni. Solo l'autorità assoluta degli emissari di Dio e la verità divina che essi trasmettono, essi erano convinti, può consentire alla pace e all'armonia di prevalere. Questa era la visione del mondo dei Gesuiti, ed essi operavano strenuamente, con tutte le loro forze, entro il loro Ordine, entro la Chiesa e entro il mondo per renderla realtà. Con la sua chiara e strutturata gerarchia, Il miracolo di Sant'Ignazio espone queste idee in forma plastica e visuale. Al sommo, c'è il regno della luce e della verità divina; in basso ci sono gli uomini confusi e tormentati. Tra questi due estremi, ci sono Ignazio e i suoi uomini: disciplinati, imperturbabili e imperiosi, essi scacciano i demoni delle lotte e dei conflitti e fanno risplendere la luce della verità sulle persone.

Grazie ai Gesuiti, la pace prevarrà.

 

Le accuse di Gioberti e degli altri polemisti contro i Gesuiti: ovvero tutte le astuzie del Gesuiti

 

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L'efficienza dell'organizzazione dei gesuiti li rese il bersaglio di ogni propagandista protestante in Europa. Penne intinte nel veleno si diedero a scrivere una diluvio di pamphlet che inondarono l'Europa e le sue corti, generarono paura, diffidenza, ammirazione, timore, rispetto. "I gesuiti," ammonirono quelle penne, "sono come la notte: ritornano sempre." Era l'inizio della "Leggenda nera" che da allora e fino ai nostri giorni ha accompagnato la Compagnia di Gesù.

Sin dalla nascita dell'ordine, la clausola contenuta nella bolla di istituzione canonica della Compagnia, del 1540, con la quale Paolo III concedeva facoltà di redigere le costituzioni anche in deroga ai canoni conciliari e costituzioni apostoliche rappresentò una novità che rese diffidenti tutti gli stati europei nei loro confronti. Illuminante è la storia dell'ordine in Francia.

Il 26 gennaio 1552, l'avvocato Seguier presentava una rimostranza al Parlamento affinché i gesuiti non fossero ammessi nel regno, additando i privilegi che esentavano questo nuovo ordine dal pagamento della decima ai curati e dalla giurisdizione vescovile.

Nel 1554 il Parlamento di Parigi decideva di sottoporre le costituzioni dei Gesuiti all'esame della Sorbona e del vescovo di Parigi, Du Bellay, il quale sconsigliò di accettarli nel regno, stigmatizzando in particolare il privilegio di non essere corretti che dai superiori dell'ordine, di assolvere anche nei casi riservati, di scomunicare e consacrare chiese.

Egualmente grave appariva la minaccia dei Gesuiti alle università. Nei Paesi Bassi meridionali l'Università di Lovanio e gli Stati del Brabante si congiunsero nel 1583 contro i privilegi dei Gesuiti, le cui lezioni tenute nelle scuole proprie degli ordini erano considerate valide per conferire i gradi a studenti estranei all'ordine stesso.

Alla fine del Cinquecento i Gesuiti venivano additati in tutta Europa come sovversivi e partigiani delle guerre di religione. Nel 1578 venivano banditi da Anversa come oppositori della pacificazione di Gand; nel 1581 Edmond Campion e Alexander Briant venivano messi a morte in Inghilterra con l'accusa di aver tramato contro la vita di Elisabetta. Tre anni dopo, nel 1584, le imputazioni si ripetevano diffondendo la voce che dietro gli attentati alla vita di numerosi principi protestanti agisse la dottrina e l'opera attiva della Societas Iesu. Nel 1584 i gesuiti venivano accusati di stare dietro l'attentato contro Elisabetta da parte di William Parry, sospettato di essere stato istruito ed istigato a Venezia da Benedetto Palmio e in Francia da Annibale Coudret, oltre che da altri di Parigi e di Lione; e di stare dietro l'uccisione del principe d'Orange, il più importante capo militare protestante, in guerra contro la Spagna, da parte di Baltasar Gerard. Padri Gesuiti furono direttamente coinvolti nella guerra civile francese seguita alla morte di Enrico III e si segnalarono nell'organizzazione della resistenza di Parigi assediata da Enrico IV.

I primi importanti scritti antigesuitici apparvero in Francia verso la fine del secolo decimosesto, dopo che già erano già stati stampati contro di loro il Theologiae jesuitarum praecipua capita di Martin Chemnitz e la Assertio ueteris ac veri cbristianismi adoersus novum et fictum Iesuitismum. Nel suo Plaidoyer, Etienne Pasquier nel 1594 sostiene che i gesuiti parigini cercano di ottenere per vie traverse quel che non riescono a raggiungere in campo aperto e l'intento dei gesuiti è pieno di dissimulazione e di ipocrisia. La dissimulazione e l'ipocrisia consistevano, in questo caso, nel tentare di aggirare il divieto di leggere pubblicamente e conferire i gradi accademici in concorrenza con l'università facendosi incorporare nell'università stessa.

La campagna antigesuitica divenne virulenta quando venne pubblicato, nel 1599, il De Rege et regis instituzione di Juan de Mariana dove il gesuita spagnolo sosteneva che, in presenza di una tirannia intollerabile divenisse lecito al suddito uccidere il tiranno. Praticamente era un manifesto della teoria dell'uccisione del principe eretico durante la guerra di religione. La campagna letteraria antigesuitica prese fuoco in tutta Europa.

Fu in questi anni, a cavallo tra Cinque e Seicento, che cominciò ad essere attribuita ai gesuiti la dottrina, inizialmente sostenuta dal loro padre Skarga, confessore di Sigismondo III, secondo cui i cattolici non erano tenuti a mantenere la parola data agli eretici. Una simile dottrina, diffusa ampiamente in quegli anni, aveva la conseguenza di considerare non vincolante ogni pace di religione o editto di tolleranza, a cominciare dalla pace di Augusta e dall'Editto di Nantes. Conseguentemente, i Gesuiti vennero accusati di Machiavellismo. La dottrina di Skarga aveva una innegabile rassomiglianza con le parole del Principe di Niccolò Machiavelli: "Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservantia li torni contro, e che sono spente le ragioni che le feciono promettere."

I Gesuiti vennero accusati di mescolare le cose di stato con quelle di religione, e persino di non credere alla religione che professavano, se non come strumento per mantenere il potere dei sovrani e l'ordine pubblico. In particolare, veniva considerato machiavellico il sistema del duplice ordine di voti all'interno della Compagnia: i professi emettevano i voti solenni di obbedienza, castità e povertà, divenendo inabili ai diritti civili di proprietà e di successione, mentre gli scolastici del primo voto semplice, benché prestassero anche essi i tre voti, erano considerati ancora abili civilmente, e capaci di succedere e di possedere: un espediente per mantenere una parte dei membri della Compagnia in grado di avere proprietà e anzi di ampliare i beni dell'ordine mantenendo intatta la facciata di povertà tradizionale, attraverso l'acquisizione di eredità e di legati che poi, al momento di compiere la professione solenne, sarebbero stati lasciati alla Compagnia stessa. Le Regole, infatti, sconsigliavano di lasciarli ai parenti. Veniva citata, dai detrattori, tutta una serie di supposte tecniche dei gesuiti per impossessarsi dei legati testamentari.

Il patriziato veneziano era particolarmente in allarme per queste manovre. Per individuare i canali e le tecniche attraverso cui i gesuiti riuscivano ad aggirare il divieto fatto ai cittadini veneti di ogni classe di testare in loro favore, Giovan Francesco Sagredo predispose un'esca. Si pose in contatto con un corrispondente gesuita fingendosi una devota e, a un certo punto dello scambio epistolare, manifestò l'intenzione di testare in favore della Compagnia, trattenuta soltanto, diceva, dal divieto fattone dalla Repubblica. E il gesuita le aveva tempestivamente risposto dettando la forma testamentaria che avrebbe consentito di far pervenire il lascito alla Compagnia.

Veniva denunciata la massima gesuitica dell' obbedienza cieca basata sull'idea che ogni superiore rappresenti il Cristo. Da qui l'accusa di non rispettare, a somiglianza degli anabattisti, il potere civile. Essi rendevano presente l'ordine divino in quello umano e abolivano per tal via il potere politico.

Durante la vicenda dell'interdetto, che oppose Paolo V a Venezia, i Gesuiti furono espulsi, pagando il fatto che erano le truppe più fedeli del Papa nel territorio della Repubblica. I Veneziani erano stati anche motivati dalle voci che giungevano da tutta Europa sul conto degli Ignaziani: in Inghilterra li si accusava di essere dietro la congiura delle polveri, in Russia dietro al tentativo fallito sanguinosamente del Falso Dmitri di impadronirsi del trono e di sostituire il rito greco con quello latino. Subito dopo la loro partenza dal dominio veneto si diffuse la voce di enormità e di reperti criminosi trovati in quei Collegi dai quali i gesuiti non avrebbero fatto a tempo a portare via ogni cosa. Il cardinale di Joyeuse, mediatore tra Venezia e il Papa, parlava di «enormissime colpe». Di fatto, i Gesuiti si erano rifiutati di dire messa, e avevano pubblicato ai confini dello stato veneto, a Bologna e Milano, il testo dell'interdetto papale che era stato fatto sparire invece nel territorio della Serenissima. Nell'immaginazione dei Veneziani, essi ora operavano con tutte le loro arti per ostacolare la Repubblica: con lettere, emissari, pamphlets antiveneziani, e con innumerevoli altri mezzi, non più legali, ma segreti, arcani e misteriosi.

Nel 1608 usciva a Wittenberg un libro che riportava 16 biasimevoli massime gesuitiche che erano state prese dai loro testi e dai loro discorsi, tra cui la "potestà totale" del Papa, l'immunità assoluta degli ecclesiastici per i crimini compiuti, l'invalidità dei patti con gli eretici, la non obbligatorietà della Pace di Augusta, la dottrina del tirannicidio, la teorizzazione della revoca di ogni tolleranza religiosa là dove i cattolici avevano riguadagnato sufficiente forza.

In Francia i Gesuiti erano accusati da pamphlet anonimi di dedicarsi alla magia e alle arti occulte e di interrogare i demoni presenti nel corpo degli ossessi, durante i loro esorcismi, con domande proibite e riguardo la conoscenza del futuro. Venivano citati i casi di gesuiti esperti nella Kabbala, come Athanasius Kircher o dediti all'alchimia, come Johannes Roberti.

In campo teologico, venivano accusati in ambienti domenicani di essere pelagiani e di non riserbare alcun ruolo alla grazia divina nella salvezza, tanta era la loro avversione alle teorie calviniste che negavano il libero arbitrio. Grande allarme suscitavano le prime congregazioni segrete create da loro create, Gesuiti, la prima a Napoli nel 1593, e poi a L'Aquila e altrove. la Compagnia assumeva i contorni di una setta politica di carattere iniziatico. Il complesso sistema del reclutamento, con i coadiutori in temporalibus, gli scolastici, i voti semplici e i voti solenni era visto come il percorso di un procedimento di iniziazione. Come notava Paolo Sarpi, la conoscenza delle regole e degli affari dell'ordine era compartimentalizzata, e ogni livello conosceva solo quello che doveva conoscere riguardo il fini e le procedure della Compagnia. È un fatto che essi avessero una letteratura interna, che era gelosamente celata agli estranei, e che raramente e controvoglia mostrassero tutti i documenti che componevano le loro estremamente complesse costituzioni.

Tra i loro arcani, i gesuiti avevano innanzitutto quello di travestirsi e di agire in territorio ostile sotto mentite spoglie. L'infiltrazione gesuitica attraverso il travestimento divenne presto una delle preoccupazioni dei governanti europei. Nella sua arringa per l'espulsione dei gesuiti dalla Francia, l'avvocato parlamentare Dollé aveva enumerato tra i privilegi gesuitici quello di travestirsi da laici in occasione di particolari missioni. Dall'Inghilterra giungeva notizia che il gesuita Henry Garnet - insieme ai suoi compagni Creswell, Oswald Greemway e Gerard - era stato accusato, durante le indagini seguite alla congiura delle Polveri, di avere usato equivoci e travestimenti. Ai Gesuiti veniva attribuita la massima secondo cui è lecito, in territorio eretico e sotto interrogatorio di magistrati eretici, usare equivoci, nomi ed abiti falsi; veniva esibita una lettera di Edmond Campion del 1583 dove questi narrava al padre generale di aver spesso cambiato nome ed abito in Inghilterra. In effetti, come sappiamo, nel 1580 il gesuita Robert Persons giunse a Londra travestito da ufficiale, mentre Edmond Campion aveva assunto l'identità di un gioielliere. Una volta arrivato a Londra, George Gilbert fornì a quest'ultimo diversi travestimenti e i due si mossero per lo più travestiti da nobili.

I gesuiti Matteo Ricci in Cina e Roberto de' Nobili in India adottavano usi e costumi del posto e si abbigliavano secondo la tradizione locale. Ricci giunse addirittura a travestirsi più volte da bonzo buddhista.

A Venezia si denunciava il fatto che gesuiti entravano nel territorio vestiti da secolari per riscuotere le rendite del loro patrimonio, nonostante che questo fosse stato confiscato dalla repubblica e dato in amministrazione al Nunzio apostolico. Al tempo dell'espulsione la loro rendita veniva valutata tra i dodicimila e i quindicimila scudi: una somma enorme. Girava voce che a Padova e a Brescia, dove i padri dei collegi non avevano fatto a tempo a portare in salvo la documentazione posseduta, sarebbero state ritrovate delle inchieste sulla disponibilità finanziaria dello Stato e delle grandi famiglie venete. A Roma, i fanciulli che chiedevano di frequentare il Collegio venivano sottoposti ad un esame concernente anche lo stato patrimoniale della famiglia.

Per mostrare la spietatezza e la perfidia che i Gesuiti usavano nel perseguire i loro fini economici, veniva citato il caso, storicamente documentato, di una benefattrice, una nobile spagnola che aveva donato all'ordine enormi somme e che aveva l'abitudine di frequentare il loro collegio per ricevere direzione spirituale dai padri. Un giorno vi capitò mentre era in visita un censore della Compagnia, che la cacciò dalla casa dei Gesuiti, scandalizzato che una donna vi fosse ammessa. La vecchia signora raccontò l'episodio a parenti che le dissero che era stata gravemente offesa. Quando giunse alle orecchie dei Gesuiti che la benefattrice meditava di revocare le sue disposizioni a favore dell'ordine a causa della sua ingratitudine, essi si mossero per farla interdire e far assegnare l'amministrazione del suo patrimonio ad un parente a loro amico, asserendo che era una donna e come tale incapace di intendere e di volere.

La dottrina gesuitica della equivocazione, ad essa attribuita dagli avversari, costituisce il corrispondente interiore del travestimento e della falsità esteriore: essa concerne i casi in cui si deve ritenere lecito usare termini equivoci e riserve mentali. In un corso di lezioni sui casi di coscienza dettato dal gesuita Jacob Gordon nel Collegio di Bordeaux, riguardo ai giuramenti equivoci vengono dettate tre regole. Quando qualcuno, interrogato, non è tenuto a rispondere secondo il senso dell'interrogante, si può usare equivocazione. Quando qualcuno che non è tenuto a rispondere secondo il senso dell'altro gli risponde giurando equivocamente, non pecca mortalmente, a meno che non porti grave detrimento all'altro. Il motivo ne è che in questo caso non vi è menzogna, perché questa consiste nel proferire qualcosa contro la propria mente, non contro la mente dell'altro, «nam mendacium est dicere contra propriam mentem, non contra mentem alterius».

Riguardo poi al parlare in modo ambiguo in un giuramento estorto, Gordon svolgeva due osservazioni: che era lecito in questi casi non soltanto usare parole espresse ambigue ma anche ritenere parte della sentenza mentalmente; e che, in caso di necessità, si poteva proferire le parole del giuramento senza l'intenzione di giurare «et ita nulla orietur obligatio». In questo caso dal giuramento non discendeva nessuna obbligazione. Riguardo ai casi di scomunica, Gordon traeva le conseguenze anche a favore del rifiuto del pagamento dei debiti da parte della Compagnia: insegnava che la scomunica del creditore non libera il debitore dal pagamento; tuttavia, quando qualcuno è scomunicato nominativamente, si può differire il pagamento fino a quando non abbia ottenuto l'assoluzione. Intorno al 1606 queste massime erano già correntemente considerate dottrina della Societas Iesu.

Quando, il 14 maggio 1610, Enrico IV venne assassinato da un fanatico cattolico, François de Ravaillac, il regicida fu così sottoposto ad uno stringente interrogatorio rivolto ad individuare ogni possibile collegamento con i gesuiti. Il 17 maggio, dichiarava di aver cercato di parlare con Enrico per convincerlo; e, per essere introdotto presso di lui, di aver parlato con numerose persone quali il padre D' Aubigny, gesuita. Interrogato del perché avesse incontrato proprio il gesuita D' Aubigny, Ravaillac rispondeva che in passato aveva coltivato il progetto di farsi gesuita. Questo, e l'opera sul tirannicidioi di Mariana, venne pubblicizzato come la prova che i Gesuiti erano, direttamente o indirettamente, dietro l'assassinio del Re di Francia. Girava voce, nei paesi Protestanti, che nei loro Collegi essi avessero stanze segrete dove preparavano i sicari istigando il loro fanatismo mediante una sorta di ipnosi attuata con gli Esercizi Spirituali del fondatore.

La dottrina gesuitica dell'obbedienza cieca, codificata da Ignazio nella famosa immagine del membro della compagnia che doveva eseguire prontamente qualsiasi ordine senza alcuna resistenza, perinde ac cadaver, "come fosse un cadavere" privo di iniziativa propria, sembrava ai detrattori, con la deresponsabilizzazione che comportava, la perfetta teoria del sicario e del fanatico.

L'educazione gesuitica veniva accusata di mirare ad un apprendimento mnemonico ma soprattutto ad un pesante indottrinamento degli alunni. Bernardino Giraldi difendeva il metodo umanistico di insegnamento, proprio delle scuole venete, basato sulla lettura dei testi antichi, contrapponendolo alle innovazioni del metodo gesuita, basato invece su una forte memorizzazione e sulla compilazione di nuovi manuali, scritti da autori della Compagnia. Sarpi scriveva che l'educazione dei loro collegi consiste nello "spogliare l'alunno di ogni obbligazione verso il padre e verso il Principe naturale, e voltar tutto l'amore e il timore verso il Padre spirituale, dipendendo dalli cenni e motti di quello".

Aneddoti sul fanatismo dei Gesuiti abbondano nella letteratura polemica. Come quando, durante i festeggiamenti a Ingolstadt della beatificazione di Ignazio crollò una impalcatura fatta erigere da loro uccidento uno studente, ed essi dichiararono che si trattava di uno studente protestante.

Allo scopo di promuovere la canonizzazione del loro fondatore, essi giravano per Roma visitando le case dei malati e convincendoli a pregare Ignazio, e poi annotavano scrupolosamente i casi di religione, trascurando quelli di morte, per costruire i miracoli utili alla causa di santificazione.

A Costantinopoli, quando il patriarca della Chiesa Ortodossa Cirillo Loukaris impiantò una pressa di stampa con l'aiuto dell'ambasciatore calvinista dell'Olanda, con l'intenzione di pubblicare un catechismo con evidenti influenze riformate, i gesuiti si recarono dallo stampatore e lo avvisarono che se non desisteva poteva capitare che qualcuno, un giorno o l'altro, l'avrebbe ucciso nella sua casa mentre dormiva.

I Gesuiti si distinsero nella cattolizzazione dei Valdesi di Piemonte a Saluzzo e in altri luoghi dove essi furono ostacolati e perseguitati senza pietà dalle missioni itineranti dell'ordine, che si spingeva fino ai più remoti villaggi dei monti. Durante la guerra di Gradisca, contro Venezia che si era ribellata al Papa e nelle Fiandre, dove la Spagna combatteva gli eretici, i cappellani gesuiti seguivano le truppe incoraggiandole nella sacra missione di trucidare gli eretici e talvolta prestandosi anche come messaggeri militari, e ingegneri militari gesuiti davano consigli sulle fortificazioni. In Boemia, all'indomani della battaglia della Montagna Bianca, con cui l'ultracattolico Ferdinando aveva sconfitto i ribelli calvinisti del Palatinato, i gesuti, fiancheggati da unità militari, dilagarono per tutto il paese, piombando nei villaggi, facendosi aprire a forza le porte delle case per requisire i libri eretici e farne dei roghi e per cercare tracce di eresia che portavano alla cattolizzazione o espulsione forzata dell'intera famiglia. Quando in una regione la presenza cattolica, anche grazie ai loro sforzi, si era sufficientemente rafforzata, essi si recavano presso i fittavoli delle terre che i principi protestanti avevano tolto agli ordini religiosi e imponevano loro con l'intimidazione di pararle all'ordine. Mai una volta restituirono di propria volontà il patrimonio ecclesiastico di cui si erano appropriati agli ordini religiosi che ne erano gli originari proprietari, facendo anzi una forte resistenza ogniqualvolta ne venivano richiesti.

I Gesuiti erano confessori di tutti i sovrani e i nobili cattolici d'Europa, cercavano di accaparrarsi il posto di direttori di coscienza estromettendo gli altri ordini da cui erano accusati di promuovre una casuistica, cioè un esame dei casi di coscienza, più lassista di quella degli altri religiosi, che aveva il potere di ingraziarli agli occhi dei Re e dei principi. Blaise Pascal si scaglierà, nella sua Lettera a un Provinciale, contro il lassismo gesuitico e contro la loro dottrina del probabilismo. Con tale termine si designa tesi secondo cui, nei casi in cui l'applicazione di una regola morale sia dubbia, per non peccare basterebbe attenersi ad una opinione probabile, intendendosi per opinione probabile quella sostenuta da qualche teologo.

I confessori della Compagnia, se pure indulgenti riguardo i peccati privati dei governanti, d'altro lato li istigavano instancabilmente a non scendere a compromessi con i protestanti. Secondo un noto storico anglosassone, la Guerra dei Trent'anni scoppiò a causa del fanatismo del confessore gesuita dell'imperatore Ferdinando II, Wilhelm Lamormaini, che pretese l'applicazione integrale dell'editto di restituzione, ben sapendo che avrebbe scatenato una sollevazione generale dei principi protestanti tedeschi.

Alla corte di Vienna, come in quella di Madrid, i Gesuiti cercarono di creare una rete di influenza legata alla famiglia reale che li metteva in grado di controllare l'erogazione di benefici ai propri benefattori. Un viaggiatore francese di passaggio a Vienna agli inizi del Seicento scrisse che la corte era ostaggio dei padri della Compagnia, che la tenevano nelle loro grinfie, cosicché niente che vi capitava sfuggiva al loro controllo.

Tra gli altri ordini religiosi, non contando i Domenicani, loro acerrimi nemici, i Gesuiti non erano molto popolari. Né aiutava il fatto che non di rado i vescovi o i sovrani li chiamavano a riformare i costumi del clero locale. Né che utilizzassero tutti i mezzi a disposizione per impadronirsi di lasciti, benefici, e persino di edifici ecclesiastici a danno delle altre famiglie religiose. A Mondovì, per ampliare i locali dove tenevano i loro corsi, non esitarono a scacciare le poche monache rimaste nel monastero delle Clarisse, e ad occuparlo.

Santa Teresa d'Avila, benché li avesse come confessori ed alleati nella sua battaglia per la riforma dell'ordine carmelitano, diffidava di loro, e nelle sue lettere di istruzione alle religiose dei suoi conventi ricordava alle monache che "dal trattare con loro riguardo faccende materiali non viene mai alcun bene".

Una delle tattiche dei Gesuiti per "ripulire dalle mele marce" una diocesi, era screditare senza pietà, con ogni mezzo, i religiosi il cui stile di vita essi ritenessero anche minimamente reprensibile. Ancora a distanza di decenni, Matteo Gentili, il padre del famoso giurista Alberico Gentili di Oxford, che era emigrato in Inghilterra per sfuggire le persecuzioni religiose dalla natia San Ginesio nelle Marche, dove esercitava la professione di medico e discuteva troppo liberamente di religione nella confraternita locale dei Santi Tommaso e Barbara, tremava di rabbia nel ricordre gli "infami gesuiti" la cui venuta nella zona aveva segnato la fine di ogni tentativo di riforma spirituale.

I Gesuiti erano avversari formidabili in ogni campo, compreso quello scientifico, ma talvolta i mezzi che usavano erano decisamente poco ortodossi, per non dire sleali. Nel 1668, nel corso di una controversia che opponeva i loro matematici del Collegio Romano ai matematici dell'ordine dei Gesuati, essi manovrarono perché Clemente IX sopprimesse l'ordine, senza alcuna ragione apparente, con la bolla Romanus Pontifex.

Miguel Mir, un ex gesuita che scrisse un'opera estremamente critica, Storia interna documentata della Compagnia di Gesù, aveva tanto paura delle rappresaglie dell'ordine che la affidò ad un amico perché la pubblicasse dopo la sua morte. Nell'opera viene dato un esempio della spietata disciplina che veniva mantenuta nei collegi dell'ordine sin dai tempi di Sant'Ignazio. Due coadiutori laici un giorno, nella cucina di una delle case di Spagna, presero a schizzarsi per gioco con l'acqua delle tinozze. Saputolo, Ignazio inviò al superiore della casa istruzioni perche per diversi mesi i due sventurati mangiassero a terra, in ginocchio, nella sala comune, cominciando dal bere l'acqua sporca delle tinozze.

La disciplina nei collegi e nelle case dei Gesuiti era strettissima. Veniva largamente impiegata e incoraggiata la delazione reciproca. Al momento dell'ingresso dei novizi nelle case dell'ordine veniva detto loro che tutti dovevano considerarsi spie e spiati, e comportarsi di conseguenza.

È noto che Paolo IV il terribile papa Carafa che creò l'Inquisizione romana, che conosceva bene come andavano le cose nell'Ordine, confidasse ai suoi intimi che Ignazio di Loyola governava la Compagnia "con mano tirannica", il che è tutto dire. Ogni anno c'erano espulsioni dall'ordine, dalle sue Case, dai suoi Collegi, dai suoi seminari, eppure, si meravigliava Paolo Sarpi all'inizio del Seicento, non si trovava nessuno disposto a parlare dei segreti della Compagnia. Allo scopo di rendere ancora più ermetica la cortina di riservatezza, i Gesuiti non utilizzavano manodopera esterna, ma tutti i loro lavoranti, senza esclusione, erano membri laici dell'ordine, come tali tenuti all'osservanza dei dettami dei superiori riguardo il silenzio.

I Gesuiti erano altrettanto spietati nella difesa del loro buon nome. In Spagna, quando un loro membro veniva implicato in pratiche discutibili, prima che venisse messo sotto processo dall'Inquisizione, controllata dai Domenicani, nemici implacabili dell'ordine. questo veniva trasferito in lontani collegi o espulso dall'ordine. Nel caso di membri processati, l'ordine incaricava i propri uomini più influenti presso il Tribunale della Suprema di prevaricare e ostacolare gli inquisitori con ogni mezzo, cercando di distruggere o occultare le prove. Tanta era l'importanza che la Compagnia attribuiva all'"onore" e al "buon nome", presupposto di ogni sua influenza o prestigio.

Le lotte all'interno dell'ordine non erano meno violente né spietate di quelle che la Compagnia sosteneva all'esterno. Esse furono incessanti sin dalla morte di Ignazio, e la lotta di fazioni perdurò con l'impiego di ogni mezzo, dalla richiesta dell'intervento esterno di re o di cardinali a contro la parte avversa, fino alla calunnia propalata contro di essa, sin verso i primi anni del Seicento, quando il Generale Acquaviva riuscì ad imporre una pacificazione generale.

Sebbene si considerassero agenti del Papa e pronti esecutori dei suoi comandi, i Gesuiti lottarono sempre ferocemente, con tutti i mezzi disponibili, per evitare che venissero toccate le loro costituzioni e che i Pontefici si ingerissero nei loro interna corporis. Dando un precoce sfoggio di tattiche tortuose e oblique, essi riuscirono prima ad aggirare e poi ad eliminare il limite massimo di 60 membri previsto dalla bolla di approvazion di Paolo III intendendo questo limite come riguardante solo i professi dei quattro voti. Come risultato, dopo appena qualche decennio accanto ai 60 membri con voce attiva e passiva nell'ordine vi erano migliaia di coadiutori sia laici che preti. A differenza di quasi tutti gli altri ordini religiosi gli ignaziani si opposero sempre alla nomina di un cardinale protettore dell'ordine, che avrebbe avuto poteri di controllo su di esso. Ancora nell'Ottocento, il famoso gesuita spagnolo e storico dell'ordine Antonio Astrain, parlando delle riforme con cui Sisto V e Clemente VIII volevano snaturare la Compagnia, dichiarò che la loro morte, che impedì loro di portare a termine questi empi propositi, era stata "giusta e provvidenziale".

 

Un fosco episodio di sangue nella Torino dei Gesuiti

 

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Quando Carlo Emanuele, nel corso della sua guerra contro i Francesi scoppiata per la faccenda del Marchesato di Saluzzo, riprese con le armi il castello di Cavour. Il pastore André Laurent fu accusato di tradimento e gettato in carcere senza speranza di uscirne. Prima a Saluzzo. Poi a Coni, poi a Torino. Finché alla fine cedette ed abiurò. Fu costretto ad andare in giro per le valli a disputare con i suoi vecchi compagni di religione, che lo guardavano con pietà e commiserazione. I Gesuiti dichiararono che si sarebbero fatti carico della sorte della figlia. La separarono dalla famiglia per cattolizzarla e per costringere il padre a non recedere dall'abiura. Non passò molto tempo che fu violentata da un membro della Compagnia di Gesù, che fuggì e non fu mai ripreso, e il padre ne morì.

 

Gli statuti dei Carabinieri scritti da un Padre Gesuita: perché no?

 

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Vittorio Emanuele Primo, volendo fondare, alla Restaurazione, un corpo al contempo di soldati e di gendarmi che gli fosse fedelissimo - i Reali Carabinieri -, affidò a un padre gesuita di Torino la stesura del loro regolamento, di un ascetismo più religioso che militare. La loro obbedienza al re di Sardegna («usi a obbedir tacendo / e tacendo a morir») era ricalcata sull'obbedienza al Padre Generale e al Papa dei figli di sant'Ignazio: "perinde ac cadaver".

 

L’Inquisizione in Piemonte

 

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L'Inquisizione iniziò ad operare a Torino e in Piemonte nel XIII sec. Dal XIV secolo il potere inquisitoriale fu esercitato dai frati predicatori del convento (precedentemente l'attività inquisitoriale era stata diretta dal vescovo). Un Inquisitore con competenza solo sul territorio di Torino fu introdotto attorno al 1480.

Nel XIV e XV secolo l'Inquisizione domenicana era stata molto attiva in Piemonte contro gli eretici (valdesi) e le streghe, ma anche contro le infiltrazioni catare nel biellese.

L’azione degli inquisitori fu implacabile. Ancora cento anni dopo, tra la gente dei quei luoghi era ancora viva la terribile memoria di Angelo Ricciardino, l'inquisitore mandato là all’inizio del Cinquecento da Margherita di Foix, che aveva estirpato l'eresia dei valdesi giunta dalle valli del Pellice fino alle radici. E del Conte Castellar di Saluzzo, che tre mesi dopo l'arrivo dell'inquisitore e su sua richiesta, aveva scatenato una sanguinosa crociata contro gli eretici. Ma anche la resistenza degli eretici fu accanita, come è testimoniato dall’assassinio di ben due inquisitori. Pietro Cambiasi di Ruffia, uno dei primi inquisitori in Piemonte. Scrupoloso, attento al difficile incarico e animato da fervore religioso. Pietro Ruffia si trovava a Susa, nel chiostro dei Frati Minori, quando venne assassinato. Dieci pugnalate. La caccia all’assassino fu infruttuosa, così da eccitare la fantasia popolare che cominciò a parlare di una vendetta. Si parlò di una setta di eretici di Meana, di un misterioso sicario che arrivava dalla Valle di Lanzo, e ovviamente di streghe. Il frate inquisitore fu poi fatto Beato e fino a non molti anni fa si usava celebrarne la memoria apponendo un’immagine dipinta e due ceri accesi accanto a una delle due lapidi a lui dedicate nel “chiostro dei morti” della Chiesa di San Domenico.

Sorte analoga toccò al suo successore, l’inquisitore Favonio (o Pavone), ferito mortalmente a Bricherasio, la domenica in Albis del 1374.

Nel 1542 Paolo III emanò la bolla Licet ab initio, con la quale istituì la "Sacra Congregazione della romana e universale inquisizione" detta altresì Congregazione del Sant'Uffizio, sancendo quindi la nascita della "nuova" Inquisizione romana, che prese subito il controllo dei processi inquisitoriali anche in Piemonte, affidata ai domenicani, dandole nuovo impulso.

I sovrani piemontesi peraltro pretendevano di controllare l'attività dell'Inquisizione. Carlo Emanuele duca di Savoia (1580-1630), appena insediatosi, propose di affiancare funzionari laici agli inquisitori, ma la sua richiesta non fu soddisfatta da Roma.

Le tensioni tra i governanti piemontesi e la Congregazione del Sant'Uffizio furono costanti per tutto il XVII secolo e si acuirono durante il regno di Vittorio Amedeo II (duca di Savoia dal 1675 al 1732): nel 1698 si giunse a un primo provvedimento di espulsione di tutti gli inquisitori dai domini dei Savoia che ebbe la conseguenza che nel Settecento le sedi inquisitoriali piemontesi non furono più governate da inquisitori titolari ma da semplici vicari. Nel 1708 Giovanni Andrea Cauvino da Nizza fu nominato Inquisitore di Torino ma non ottenne il beneplacito di Vittorio Amedeo II e non poté insediarsi (il tribunale fu quindi retto da un vicario generale, fra Giovanni Alberto Alfieri; da quel momento in poi la sede inquisitoriale di Torino non ebbe più inquisitori titolari).

L'Inquisizione, così drasticamente depotenziata, continuò formalmente ad esistere in Piemonte per tutto il XVIII secolo. L'abolizione definitiva fu sancita, nel quadro degli sconvolgimenti generali dell'età napoleonica, da un decreto del governo provvisorio piemontese del 28 gennaio 1799.

 

Gli Ugonotti a Torino e le 13 chiese distrutte

 

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Quando Carlo II di Savoia (1486-1553), che cercava di destreggriarsi tra Spagna e Francia fece il passo falso di inviare a Madrid il figlio Ludovico per esservi educato, fornì il pretesto a Francesco I per invadere la Savoia. Il 3 aprile 1536 i francesi occuparono Torino e Carlo II fuggì con il figlio Emanuele Filiberto a Vercelli. Il Piemonte venne dichiarato annesso alla Francia da Francesco I, nonostante l'eroica resistenza di città quali Aosta e Nizza. Sfortunatamente, Carlo II era troppo debole, sia economicamente che militarmente, per poter sperare di riprendersi le città perdute e, ben presto dimenticato, nemmeno cercò di ristabilire il suo potere in Piemonte.

Allorché però spagnoli ed inglesi giunsero a minacciare la stessa Parigi, Francesco I fu costretto a firmare la pace di Crepy (18 settembre 1544), con la quale si impegnava a restituire ai Savoia tutte le terre occupate escluse Pinerolo e Montmélian. Ma i francesi rimasero di fatto dov'erano e, morto Francesco I (1547), il suo successore Enrico II venne in visita a Torino accolto trionfalmente come se la città fosse francese. Il dominio francese durerà per più di vent’anni dal 1536 al 1559. I Savoia non riprenderanno il Piemonte se non dopo il trattato di Cateau-Cambrésis che concluse la guerra d’Italia tra Spagna e Francia dopo la schiacciante vittoria degli Asburgo contro i Francesi a San Quintino. Ridotto con le sole province di Aosta, Vercelli e Nizza, l'infelice Carlo II morì in Vercelli e fu sepolto in una cappella del duomo di questa città.

I Francesi avevano preso possesso di Torino il 1° aprile 1536: un araldo entrò ad intimare la resa. Il 3 aprile i Francesi entrarono in città: l’ammiraglio francese si installò nel Palazzo del vescovo e subito ordinò l’inizio dei lavori per fortificare Torino che doveva diventare la base della lotta contro Milano.

Senza preoccuparsi di opere d’arte e di tradizioni, si prese a distruggere tutto quanto era fuori mura per assicurare la visuale ed il tiro delle artiglierie. Scomparvero i borghi di Porta Susina, di Dora, di Po; scomparve la grande abbazia di San Solutore, altre chiese e monasteri ed anche gli ultimi resti dell’anfiteatro romano. Ai quattro angoli della vecchia cerchia furono costruiti grandi baluardi forniti di artiglierie; le vecchie mura furono rispettate, ma davanti fu eretto un argine o cortina di terra, alta tanto da mascherare le stesse mura.

La violenta ed ingiustificata occupazione della Savoia e del Piemonte destò grande impressione in tutta Europa. Pretendendo di essere non conquistatore ma legittimo sovrano, Francesco I trattò subito il Piemonte come provincia francese. Un editto regio uni il Piemonte alla corona di Francia, stabili la capitale a Torino, confermò gli statuti e le franchigie. I Piemontesi erano dichiarati abili a tutti gli uffici come i Francesi. Tutti i sudditi furono costretti a giurare fedeltà; un nuovo giuramento fu imposto nel 1538. Molti giurano, molti esitano; i conti di Piossa-sco si rivolgono al duca: questi da Nizza risponde vietando ai sudditi di giurare fedeltà all’usurpatore; se vi saranno costretti, giurino, ma protestando contro la violenza.

Francesco soppresse l’Università di Torino: non voleva centri di agitazione sabauda. Grave guaio: gli abitanti non avrebbero potuto conseguire i gradi accademici, adire agli uffici. Questi tosto furono pieni di Francesi. E l’infranciosamento del Piemonte era quello che si voleva.

Enrico II nel 1548 venne a prender possesso del suo Piemonteed il 12 entrò solennemente in Torino. Da Torino il re passò a Moncalieri, a Carmagnola, a Savigliano; poi si recò a Saluzzo a prendere possesso del marchesato incorporato al regno, e per Pinerolo rientrò in Francia. l’anno dopo Enrico II proclamò ancora una volta l’unione del Piemonte alla Francia; la città di Torino ebbe pure riconfermati i suoi privilegi.

Il governo francese aveva lasciato che le dottrine cal-viniste e luterane si espandessero liberamente: i Valdesi avevano fatto ampia diffusione delle loro teorie fuori delle valli. Solo dopo il 1550 vi era stata una reazione ed alcuni roghi erano stati accesi, ma con scarso risultato. La zona torinese aveva dato al movimento della riforma alcune figure di rilievo come Matteo Gribaldi Mofa di Chieri, Giorgio Biandrata di Saluzzo, Giovanni Paolo Alciati di Savigliano ecc.

Molti Ugonotti erano venuti come soldati o come amministratori, e ben 13 chiese vennero distrutte, alcune per motivi di fortificazione, ma altre probabilmente per odio alla religione. Testimonianza di poco posteriori al dominio francese non lasciano dubbi sulla influenza deteriore dei Francesi sul culto cattolico a Torino e in Piemonte: un visitatore apostolico nel 1577 fece delle ben tristi constatazioni sullo stato delle chiese torinesi, compresa la cattedrale. Altari indecenti, mancanza della suppellettile necessaria, volte affumicate, pareti polverose,mancanza di confessionali; ora si ordina ai sacerdoti di portare la chierica, di radere baffi e barba (ma l’arcivescovo aveva questa e quelli!) ; vestire abiti lunghi, non frequentare le osterie, non fare mercatura, non tenere donne in casa. Alcuni anni dopo, un altro visitatore constatava gli stessi abusi. Che faceva l’arcivescovo? Ancora si passava nelle vigilie delle feste le notti in chiesa in canti profani: nelle chiese comandavano gli abati delle feste, i balli si facevano o nelle chiese o nei portici. Però ora non si dovè più constatare, come nel 1542, che i parroci fossero ignari della disciplina cattolica e non sapessero predicare; ora si constatava come la quasi totalità dei parrocchiani avesse ripreso l’uso dei Sacramenti.

Emanuele Filiberto quando ricuperò i suoi Stati trovò una situazione disperata. Egli che pensava ad una riconquista di Ginevra non poteva ammettere che il suo Stato di Piemonte assumesse una coloritura calvinista cosi pronunciata. Si trattava di difendere il suo Stato e la sola politica da fare era quella della lotta contro l’eresia. Già da Nizza, il 15 febbraio 1560 emanò un editto per la lotta contro gli eretici delle valli. Una commissione fu incaricata della conversione e della repressione: truppe armate furono messe a disposizione dei commissari.

Roghi furono accesi a Carignano, a Meana ecc; spedizioni armate vennero dirette in varie località. Molto spavento, molti fuggiaschi oltre monti, molti abiurarono. Poi il duca si stancò ed acconsenti ad ascoltare le offerte di obbedienza dei capi Valdesi; si adoprò come mediatrice la duchessa Margherita. Il 5 giugno 1561 a Cavour fu firmata la pace tra il duca ed i Valdesi: questi ebbero il permesso di conservare la loro fede e di professarla pubblicamente entro le valli. Il patto di Cavour fu per tre secoli, sino al 1848, la base della libertà religiosa dei Valdesi.

 

La repressione del Protestantesimo nel Ducato di Savoia

 

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Torino era considerata da Roma una delle due “porte dell’eresia” in Italia, l’altra essendo Venezia. Luogo di commerci e di transito dalla Francia, dalla Germania e dall’Austria, vicinissima alla Ginevra di Calvino, da cui giungeva la propaganda segreta che vi aveva il suo centro europeo e la Bibbia tradotta in volgare da un esule senese, Giovanni Diodati, che ebbe straordinaria diffusione tra i riformati della Penisola, Torino rappresentava una possibile fonte di irradiazione delle idee protestanti in Italia, e la situazione religiosa era seguita con attenzione dalla Corte Pontificia, che aveva mandato assai presto un Legato in città, che si aggiungeva alle altre due macchine belliche contro i Riformati: l’Inquisione romana e l’inquisizione locale del Vescovo.

Dopo l'editto del 1565 di Emanuele Filiberto, con veniva ordinato a tutti i protestanti, con l'eccezione dei valdesi di Valle Pellice, di abiurare o lasciare il paese, seguì un periodo in cui l'Inquisizione si sarebbe data con implacabile tenacia a far sparire ogni traccia della dissidenza, con il pieno appoggio della corona: i Savoia avevano deciso che la Riforma non sarebbe passata.

In quel periodo, a Torino e ancor più a Chieri, era segnalata la presenza di "Chiese di Cristo", che si riunivano in case private ad ascoltare i predicatori riformati, coinvolgendo anche nobili, senatori, giuristi e medici, e le valli facevano da tramite con Ginevra. Circolavano bibbie in volgare e catechismi che gli stampatori piemontesi emigrati in svizzera sfornavano dai loro torchi.

Chieri all’epoca era più grande di Torino e, per il gran numero di riformati era chiamata la piccola Ginevra. Gli strati umili della popolazione, in particolare gli operai tessili, e i routurier, la borghesia benestante ed operosa a contatto con la forza lavoro convertita al calvinismo, erano imbevuti delle nuove idee che provenivano d'oltralpe.

Vincenzo Lauro, vescovo di Mantova, aveva scritto il 30 marzo del 1569 una lettera riservata indirizzata ai Domenicani di Torino. Era venuto a conoscenza della esistenza di una conventicola di riformati addirittura a Corte, che comprendeva alcune delle dame più in vista: Anna Lascaris di Savoia, Contessa di Tenda, Margherita di Saluzzo-Cardè, Claudia contessa di Caraglio, Anna di Cardè. Due di queste avevano assistito, venti anni prima, alle prediche del famoso cappuccino Goffredo Varaita, caduto successivamente nell'eresia e salito sul patibolo in Piazza Castello nel 1558. In quegli anni, egli, ormai passato al calvinismo, predicava quattro volte al giorno, nelle valli valdesi, e c'era gente, nobili inclusi, che camminava due giorni per andare a sentire le idee della Riforma. Ne erano divenute segretamente discepole e stavano organizzando, in segreto, la dissidenza religiosa, fidando nell'impunità data loro dalla posizione altolocata. C'erano copie del catechismo di Calvino che venivano distribuite. I nobili stavano istruendo i propri figli anche sulle dottrine di Calvino.

Bisognava fare di tutto per fermare l’eresia. I domenicani cominciarono l'opera da Chieri. Nicolò Sartoris era uno studente di 26 anni nato Chieri. Suo padre, notaio del regno, aveva sistemato quattro dei figli a Ginevra e aveva permesso a Nicolò di studiare teologia a Losanna. Fu arrestato in Savoia, dove gli ritirarono tutti i libri. Portato a Chieri fu costretto all’abiura ma senza convincere i giudici. Nel 1556 morì di freddo in carcere. Un altro chierese, Guido, suo parente, trasferitosi ad Aosta fu tradito dall’entusiasmo nel tentativo dei nicodemiti aostani, protestanti nascosti. Scoperto, fu arso nella piazza di Aosta nel 1557. La fine esemplare di questi due concittadini spinse gli abitanti di Chieri, ancora incerti, a rinunciare alla nuova fede o a prendere la via dell'esilio. Negli anni seguenti, 40 cittadini, tra i più in vista, lasciarono non senza scalpore la città.

La rete inquisitoriale si strinse anche a Torino. Processi e delazioni si moltiplicarono. Il meccanismo collaudato vedeva i Cappuccini, che erano a contatto col popolo, fungere da intelligence per segnalare i casi di sospetta eresia. Anche i parroci contribuivano, tenendo un registro dove annotavano la frequenza alle funzioni e ai sacramenti dei propri parrocchiani. Successivamente, grazie alle informazioni acquisite, entrava in azione l’Inquisizione, che oltre che del contributo dei Domenicani e del braccio secolare, si valeva di una vasta rete di coadiutori laici che avevano il diritto di portare le armi e la facoltà di arrestare i sospetti.

 

Valdesi e Riformati nel Ducato di Emanuele Filiberto

 

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I Valdesi, tollerati da Emanuele Filiberto e da Carlo Emanuele I, furono in realtà eliminati da quest’ultimo nel Marchesato di Saluzzo, la cui annessione con la forza al Ducato Sabaudo nel 1588 fu appunto motivata con il pretesto di estirpare l’eresia dalla regione.

I Savoia, pur praticando un avvicinamento alla Francia di Enrico IV sin dal trattato di Lione del 1601, non estesero mai alle loro terre l’Editto di Nantes del 1598, con cui Enrico pose fine alle Guerre di religione, iniziate diversi anni prima (1562) tra cattolici ed ugonotti, con il quale, a certe condizioni e con certi limiti anche territoriali, veniva concessa la libertà di culto in tutto il territorio francese. Essi temevano di fare la fine della Francia, dilaniata da conflitti religiosi tra Cattolici e Ugonotti, e statuirono che la fede valdese potesse essere praticata solo nelle Valli e che nessun profugo francese vi potesse trovare asilo.

Non solo questo, ma anche le missioni di Cappuccini e Gesuiti nelle valli valdesi promosse e appoggiate dal Vescovo e dal Legato Pontificio a Torino furono tollerate dai Duchi, che stabilirono pene severissime per chi avesse osato attentare alla vita o alla incolumità dei religiosi cattolici nelle Valli.

Di fronte a queste persecuzioni molti Valdesi emigrarono in Europa, una parte di loro riparò a Venezia, dove all’inizio del Seicento esisteva una consistente comunità.

 

Le Pasque piemontesi del 1655, il massacro dimenticato dei Valdesi

 

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Il 25 gennaio del 1655, Andrea Gastaldo, dottore in giurisprudenza, con la piena approvazione del duca di Savoia, emana il seguente ordine: “Che ogni capofamiglia, insieme ai membri di quella famiglia, appartenente alla religione riformata, di qualsiasi rango, grado o condizione, nessuno escluso, abitante e con proprietà a Lucerna, San Giovanni, Bibiana, Campiglione, San Secondo, Lucernetta, La Torre, Fenile e Bricherassio, abbandoni nel giro di tre giorni dalla data della pubblicazione, suddetti posti… ciò deve essere fatto pena la morte e la confisca di case e di beni, a meno che entro il limite di tempo prescritto si converta alla religione cattolica romana”. Siamo nelle valli Valdesi del Piemonte. Il fondatore del movimento valdese fu un mercante di Lione, Pietro Valdo, che tra il 1173 ed il 1175, dopo aver concesso tutti i beni di sua proprietà ai poveri, si dedicò ad una vita votata alla povertà ed alla predicazione itinerante.

Pochi anni dopo Pietro Valdo fu accusato d’eresia e dovette vivere, con il seguito, in clandestinità. I pochi che rimasero sul suolo italiano si ritirarono nelle valli alpine. L’accusa? I Valdesi volevano sovvertire la tradizione cristiana, secondo l’idea di santa romana chiesa, poiché rinnegavano la fede per abbracciarne un’altra alle cui fondamenta vi era un patto con il diavolo.

In Italia i Valdesi si riparano nelle valli alpine del Piemonte, ed in questi luoghi avviene la tragedia del 1655.

L’editto del gennaio 1655 prevedeva che i Valdesi abbandonassero i luoghi citati per ritirarsi nei territori a monte, nei borghi di Angrogna, Bobbio Pellice, Villar Pellice e Rorà.

Nei giorni seguenti furono intavolate delle trattative, che portarono all’esilio dei soli capifamiglia, che si radunarono nella località di Angrogna. Le trattative continuarono sino ad aprile, quando il marchese di Pianezza, incaricato di affrontare i Valdesi, non si fece trovare nel luogo stabilito.

Il 16 aprile del 1655 il marchese lasciò la valle per ricongiungersi con il suo esercito, che marciava verso le valli Valdesi.

Inizia la persecuzione sistematica condotta da cattolici e soldati.

Di queste vicende abbiamo uno straordinario documento: i due volumi della History of the Evangelical Churches of the Valleys of Piemont, scritti da Samuel Morley, che Oliver Cromwell inviò nelle Valli proprio nel periodo citato per raccogliere materiali sulla storia dei Valdesi e i loro testi sacri. Il libro, stampato a Londra già nel 1658, con illustrazioni che mostravano le terribili crudeltà della soldatesca e delle autorità cattoliche, destò scalpore in Inghilterra e nell’intera Europa protestante.

Un testimone afferma: “la moltitudine armata si gettò sui valdesi nella maniera più furiosa. Non si vedeva altro che il volto dell’orrore e della disperazione. I pavimenti delle case erano macchiati di sangue, le strade erano disseminate di cadaveri, si udivano gemiti e grida da ogni parte…. In un villaggio torturano crudelmente 150 donne e bambini, dopo che gli uomini erano fuggiti. Decapitarono le donne e fecero schizzar fuori i cervelli ai bambini. Nelle città di Villaro e Bobio, la maggior parte di quelli che si rifiutarono di andare a messa e che avevano più di 15 anni, fu crocifissa a capo all’ingiù, e quasi tutti quelli che erano di età inferiore furono strangolati.”

All’orrore di quei giorni non vi è mai fine. “Uomini scannati posti al ludibrio dei viandanti, pargoli strappati al seno materno e sfracellati contro le rocce. Fanciulle e donne vituperate, impalate lungo le vie.” Bimbi di pochi mesi strappati alle madri e lanciati, con forza, contro le rocce affinché morissero nel momento in cui le madri subivano violenza barbarica.

I miliziani, al soldo dei Savoia, provocarono mutilazioni di ogni genere prima di procedere con il colpo di grazia, anche se, molto spesso, non era necessario secondo il loro modo di agire. Preferivano lasciare che la vittima morisse, lentamente, di fame o dissanguata. Una delle torture preferite consisteva nel mettere dei sacchetti di polvere da sparo in bocca alle vittime e, poi, dar loro fuoco.

Tra le più atroci torture perpetrate, in quest’angolo di Piemonte, vi era quella di traforare i calcagni dei malcapitati ed, attraverso le ferite, far passare delle corde che servivano al trascinamento della vittima per le vie del paese.

Non meno feroce fu il comportamento dei preti cattolici. Cipriano Bastia, a cui era stato ordinato di rinnegare la religione valdese e di accettare quella papale, rispose: “Piuttosto rinuncerei alla mia stessa vita o vorrei essere trasformato in cane!” Un prete che assisteva la scena aggiunse: “Per ciò che hai detto rinuncerai proprio alla vita e sarai dato in pasto ai cani!”

Bastia fu gettato in prigione per alcuni giorni sino a quando, ormai sfinito dal digiuno, venne trasportato in strada e dato in pasto ai cani randagi.

Le atrocità maggiori furono perpetrate ai danni dei piccoli. I bambini erano fatti a pezzi, decapitati o uccisi, in vari modi, davanti agli occhi dei genitori. Una di queste madri, Maria Pelanchion, fu denudata ed appesa, a testa in giù, ad un ponte per essere bersaglio degli spari dei soldati.

I Valdesi si armarono ed iniziarono a contrattaccare le forze cattoliche. A San Secondo di Pinerolo toccò ai piemontesi subire una disfatta. Le relazioni parlano di oltre 1000 morti tra i soldati al comando del marchese di Pianezza.

Nel frattempo alcuni Valdesi, fuggitivi, si erano recati a Parigi per far conoscere al mondo la disgrazia in corso nelle valli piemontesi. Successivamente cercarono di scuotere gli animi dei Paesi Bassi e dell’Inghilterra. La reazione della duchessa di Savoia non si fece attendere. Chiese al cardinal Mazarino di impedire l’accesso, dei profughi valdesi, in Francia. Il cardinale oppose un secco rifiuto, garantendo alla duchessa che i sudditi francesi non lasceranno la nazione per aiutare i “ribelli”.

Le notizie circolarono velocemente sul suolo europeo. I Re di Svezia e Danimarca e le città di Berna e Ginevra manifestarono appoggio al popolo valdese.

Viste le richieste degli ambasciatori, di molti paesi europei, la duchessa di Savoia si dichiarò stupita che le corti dei principali paesi potessero ascoltare tali smoderate dichiarazioni circa le stragi e le torture subite dai ribelli. Dichiarò che non si erano consumate atrocità, ma solo punizioni moderate verso i sudditi ribelli.

Tra una trattativa ed una strage si giunge al 18 agosto del 1655. A Pinerolo furono firmate le Patenti di Grazie che garantivano il perdono, da parte dei Savoia, ai Valdesi per la ribellione e ripristinavano le libertà civili e religiose.

Le patenti di grazia non risolsero integralmente la questione valdese, e gruppi di valdesi ribelli, le famose bande dei “digiunanti”, rischiarono di inasprire la situazone cercando vendetta per le torture e le stragi degli innocenti con rappresaglie nei confronti dei villaggi cristiani a valle.

Nel 1664 il duca di Savoia firmò le nuove patenti che sarebbero rimaste in vigore sino al 1685, anno delle nuove persecuzioni.

Un particolare poco noto: All'offensiva sabauda del 1655 contro i valdesi, quella delle famigerate «pasque piemontesi», parteciparono alcuni battaglioni di volontari irlandesi che si erano precipitati a Torino, avendo avuto notizia che ci si poteva in qualche modo vendicare per le loro famiglie, massacrate dai protestanti inglesi.

 

Il “glorioso rimpatrio” dei Valdesi

 

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Le persecuzioni contro i Valdesi ripresero nel 1686. A quell’epoca i valdesi costituivano nelle valli di Perosa (oggi bassa val Chisone), San Martino (oggi val Germanasca) e Luserna (oggi val Pellice), una popolazione di circa 12.500 persone.

Quando il duca sabaudo Vittorio Amedeo II, fedele alla politica del re Sole, impose ai suoi sudditi di religione riformata di cessare ogni manifestazione pubblica, demolire i luoghi di culto e battezzare i figli nella Chiesa romana, i valdesi rifiutarono l'ipotesi di un esilio e decisero di resistere, incorrendo così nella dura repressione dei francesi. Deportati nelle prigioni e nelle fortezze, la maggioranza perì di stenti e solo poco più di 3.000 riuscirono a trovare rifugio in Svizzera.

Tre anni dopo, nell'agosto del 1689, la situazione internazionale si volse in loro favore: Guglielmo III d'Orange, diventato re d'Inghilterra, ricostituì il fronte anti-francese con la Lega di Augusta e nel quadro della guerra contro la Francia finanziò una spedizione militare in Piemonte, organizzata dal pastore valdese Arnaud e composta da un migliaio di uomini, in maggioranza valdesi.

Partiti il 26 agosto dal lago Lemano, attraversarono la Savoia con una marcia di 250 km, scontrandosi con le truppe francesi a Salbetrand, in val di Susa. Ripreso infine possesso delle loro valli, e stretti dalle truppe francesi, si trovarono impegnati in mesi di guerriglia e furono costretti ad asserragliarsi alla Balsiglia, una borgata sopra Massello, in val Germanasca.

L'attacco delle truppe franco-sabaude nel maggio del 1690 stava per segnare la loro fine, ma li salvò l'improvviso cambiamento nelle alleanze politiche, che portò il duca di Savoia a scendere in guerra contro i suoi ex alleati francesi.

 

Il “pellegrinaggio” dei protestanti di tutta Europa nelle Valli valdesi

 

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Tanto per cominciare: a partire dal Settecento e, poi, per tutto l'Ottocento, e ancora nei primi decenni del secolo successivo, nasce e prospera in tutto il mondo protestante il mito dell'«Israele delle Alpi». Il problema della Riforma era tormentoso: se il «vero» vangelo era quello scoperto da Lutero, da Calvino, da Zwingli, come mai il Cristo aveva atteso una quindicina di secoli prima di far comprendere la sua volontà, nel significato autentico? C'era un buco nero tra le origini della Chiesa (assai presto, innegabilmente, «cattolica», come già appare dagli stessi Atti degli Apostoli) e il sedicesimo secolo: possibile che, per tanto tempo, nessuno avesse praticato il cristianesimo come voleva Gesù stesso? Possibile che i seguaci dei riformatori fossero i primi a farlo? Dio aveva dunque oscurato così a lungo la Rivelazione del Suo Figlio?

Finalmente, la consolante scoperta: asserragliato al fondo di remote vallate alpine piemontesi, un piccolo popolo aveva eroicamente difeso la sua fede, quella «pura», quella che il Cristo voleva, dalle depravazioni di Roma, questa Babilonia la Grande. I valdesi nascono, come tutti sanno, nel dodicesimo secolo, dalla predicazione di Pietro Valdo, il mercante di Lione che, distribuite le sue ricchezze ai poveri, si mise a predicare preghiera, pentimento, penitenza. Niente di nuovo né di speciale, casi come quello facevano parte della quotidianità del Medioevo, quando l'Europa era percorsa, fra l'altro, da colonne di flagellanti che, battendosi a sangue, gridavano che il ritorno di Cristo era imminente. Il fervore religioso di quei secoli portò a un filone ortodosso, rimasto in comunione con il papato (san Francesco, innanzitutto, ma non solo), e a un filone che finì nell'eresia: catari, umiliati, patarini, albigesi e, appunto, «poveri di Lione», com'erano chiamati quelli che saranno indicati come valdesi.

Accettati, anzi guardati all'inizio con rispetto, Valdo e i suoi si misero poi in rotta con la Chiesa ufficiale e, tra le persecuzioni, formarono una loro piccola comunità. Una normale eresia, come un'infinità di altre a quei tempi, nata dal fervore, dal desiderio sempre rinascente di ritornare al vangelo «puro e duro». La persistenza del valdismo, a differenza di tanti altri gruppi finiti nel nulla, e di cui solo gli storici conoscono il nome, è dovuta a una serie dcircostanze particolari, nonché all'indubbia tenacia (spesso spinta sino all'eroismo) nel salvaguardare la propria individualità di vero e proprio popolo, con i suoi usi, i suoi costumi, fondati su una lettura della fede che oggi diremmo integralista. A questo senso di appartenenza molto contribuì l'isolamento che i valdesi cercarono presto sulle montagne, per sfuggire alle persecuzioni.

Questa la storia, che ha pagine gloriose e dolorose ma nient'affatto misteriose. I seguaci di Lutero e di Calvino, invece, crearono un mito - volto a tranquillizzare la loro «solitudine», il loro «isolamento» nella storia del cristianesimo che era stato frainteso, dicevano, sino a loro - un mito, dunque, secondo il quale i discepoli di Valdo erano in realtà i discendenti di un gruppo di ebrei, di giudeo-cristiani primitivi che, in dissidio con la Chiesa nascente, avevano raggiunto l'Italia e da lì le Alpi. Secondo altri, l'origine stava in una comunità di convertiti stanziata tra quei monti da san Paolo in persona, in viaggio verso la Spagna. Per altri ancora, non di una tribù d'Israele si trattava, bensì di cristiani che si erano allontanati scandalizzati dai «cattolici», quando, a partire da Costantino, la Chiesa si era compromessa con il potere imperiale. Per i protestanti di tutte le obbedienze, comunque, questo piccolo popolo montanaro era il "trait d'union" con il vangelo autentico, era il sospirato «anello mancante» tra la Chiesa primitiva e la Riforma del Cinquecento.

Il sostegno economico dei protestanti Inglesi arrivò a diverse riprese alle valli valdesi. Nel 1665 Samuel Morland, inviato di Cromwell, portò il risultato di una colletta e raccolse materiali sulla storia di questo gruppo religioso, considerato il primo nucleo protestante d’Europa. Successivamente, nel primo Ottocento, un ufficiale inglese che era rimasto ferito e privato di una gamba a Trafalgar Square decise di vivere con i Valdesi e condividerne la sorte. I suoi oggett personali sono esposti nel museo valdese di Torre Pellice. A partire da questo momento, in nome del mito della filiazione apostolica originaria dei Valdesi, ecco, nelle valli sopra Pinerolo, accorrere da tutta Europa (poi, anche dall'America) i riformati delle innumerevoli confessioni, denominazioni, sette in cui il protestantesimo si è fratturato e continuamente si frattura. Com'è facilmente intuibile, i più assidui nel recarsi in pellegrinaggio devoto a Torre Pellice e dintorni, dunque nella terra benedetta dell'«Israele alpino», erano i seguaci, magari i fondatori, delle comunità più eccentriche, più radicali.

Per esempio, pochi sanno che Charles Taze Russell, che è all'origine dei Testimoni di Geova, lasciò apposta la sua lontana America per raggiungere quest'angolo remoto di Piemonte. Dalle valli del Pinerolese, molti di questi singolari, magari un po' fanatici, pellegrini, finivano col rifluire su Torino. E in città stabilivano delegazioni, filiali, comunità.

Da qui, soprattutto a partire dal 1848, con la libertà di culto concessa dallo Statuto di Carlo Alberto, un fermentare tra il Po e la Dora di quanto di più pittoresco, di «strano» (almeno secondo la prospettiva cattolica) presentava il vasto, variegato, complesso mondo protestante.

 

Una Vandea italiana dimenticata: la storia della “Massa cristiana”

 

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Per i carnefici torinesi, il periodo di maggior lavoro della loro storia furono i quattordici anni di dominazione francese, tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento. In piazza Carlina, ribattezzata naturalmente «piace de la Liberté», furono ghigliottinate 423 persone (112 nel solo 1803), in una città che contava meno di 60.000 abitanti. Molti di quei condannati andarono al patibolo proprio perché legati alla resistenza, di cui la Massa Cristiana era stata l'espressione più clamorosa, ma che non cessò praticamente mai sino alla fine dell'avventura napoleonica.

Nessuno al giorno d’oggi ha sentito remotamente parlare della «Massa Cristiana» (l'equivalente piemontese della vandeana «Armata Cattolica e Reale») che arrivò ad assediare Torino, controllò intere zone del Piemonte, costituì una minaccia costante per i francesi che spesso conservarono, e a fatica, solo il controllo delle città, al di fuori delle quali erano sempre sotto l'incubo dell'imboscata, se non dello scontro campale.

Qualcosa come i russi in Afghanistan o gli americani in Vietnam. Bada, però: la Massa Cristiana non era uno strumento degli aristocratici, che - quando non fuggirono - spesso si affrettarono a fare atto di umile sottomissione al nuovo padrone; e non era creazione neanche dei parroci che, anzi, tuonavano quasi tutti dai pulpiti contro la ribellione all'invasore, considerato ormai come «autorità legittima», cui si doveva obbedienza. Quella «Massa» era composta e guidata da artigiani e da contadini che, alla testa delle loro colonne, alzavano gli stendardi delle confraternite religiose e le statue dei loro patroni e andavano all'assalto con il rosario al collo.

Alla pari dell'Armata della Vandea, neanche questa era di certo una sorta di confraternita tutta di santi. Accanto agli idealisti accorsero anche i profittatori e gli avventurieri, ebbe capi pittoreschi (e discutibili) come il leggendario Branda Lucioni, che lasciò tracce profonde nella cultura popolare, nei racconti, nei canti, negli affreschi e disegni "naïfs". «Branda», nel dialetto di alcune zone piemontesi, divenne nome comune per indicare, appunto, un guerrigliero.

Questa sorta di leader carismatico, già maggiore degli ussari nell'armata austriaca, dopo una lunga lotta di resistenza a Napoleone, quando nel 1799 gli austro-russi cacciarono i francesi dall'Italia, anche se solo per poco più di un anno, liberò il Piemonte e a capo della Massa fu determinante per la fuga da Torino dei collaborazionisti locali.

Per capire il personaggio e il clima, avvicinandosi a città e villaggi, il Branda Lucioni mandava avanti messaggeri con un proclama che finiva invariabilmente così: «Resto con augurarvi che Dio vi salvi ed a me concedere grazia di fedelmente servirlo in questa misera vita e poi per un'eternità goderlo in Paradiso».

Nel 1799 «il Branda» e gli altri capi dell'insurrezione antifrancese furono preceduti, accompagnati, seguiti da folle di contadini armati di fucili da caccia, forconi, falci, accette. Se poi i giacobini dovettero sgombrare in tutta fretta Torino e fuggire oltre il Moncenisio è perché si resero conto che anche in quella città, pur non barricadiera, il popolo stava per sollevarsi, eccitato dall'arrivo di quei guerriglieri che promettevano di restaurare innanzitutto la devozione religiosa di un tempo.

Un anno dopo, ritornò il Bonaparte reduce dal disastro egiziano: e fu Marengo. Il Piemonte si ritrovò riannesso alla Francia con, fra l'altro, la proibizione di scrivere ma anche di parlare in italiano, sotto pena di prigione e addirittura di morte per i recidivi. E la ghigliottina riprese a funzionare. A Torino, in nessuna epoca c'erano stati tanti giustiziati, e non ce ne saranno neppure nei tragici mesi tra l'autunno del 1943 e la primavera del 1945.

 

La Torino anticlericale e massonica

 

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C'è una Torino anticlericale e massonica e giacobina, quella che ha eretto in piazza Carlina una forca che ha decapitato 4000 nobili. Che ha una storia di aneddoti che fanno impallidire quelli dei personaggi del Guareschi di Peppone e Don Camillo.

Molte delle voci dell’anticlericalismo italiano provenivano da Torino: dallo straordinario successo della letteratura di Edmondo De Amicis, che proponeva con il libro Cuore un codice di morale laica, alla militanza parlamentare di Cavour, D’Azeglio e altri deputati torinesi.

L'anticlericalismo accademico derivò in larga parte dall'adesione di molti docenti al positivismo e allo scientismo. All'università di Torino il positivismo fece la sua comparsa negli anni sessanta del XIX secolo presso la facoltà di medicina, dove insegnava l'olandese Jacob Moleschott. Cesare Lombroso, fondatore dell'antropologia criminale, Salvatore Cognetti de Martiis, professore di economia politica garibaldino, e Arturo Graf, docente di letteratura italiana, furono celebri esponenti di teorie anticlericali. Anche le teorie darwiniane ebbero tra i centri di diffusione Torino.

Celebri riviste anticlericali, come La Gazzetta del Popolo, diretta da Felice Govean, erano stampate a Torino, dove si svolsero famose polemiche, come quella tra la Gazzetta e L’Armonia cattolica, diretta da Don Giorgio Margotti. Nella vicina Vercelli erano in scena due spettacoli anticlericali, due commedie, intitolate "Gli orrori dell'Inquisizione" e "Il diavolo e i Gesuiti".

 

il fronte anticlericale

Il fronte anticlericale italiano della seconda metà dell’Ottocento e di riflesso Torinese era alquanto variegato: comprendeva massoni (che a loro volta accettavano tutti coloro che professavano una forma di deismo), Liberali, protestanti, intellettuali ebrei, democratici e rivoluzionari di sinistra, anarchici.

Tra gli anticlericali Giuseppe Garibaldi, l'eroe nazionale italiano, fu il più celebre, e definì la Chiesa cattolica una «setta contagiosa e perversa», mentre rivolse a papa Pio IX l'epiteto di "metro cubo di letame".

L'anticlericalismo di molti uomini del Risorgimento ebbe radice e motivo nell’ostacolo che il Papa e lo Stato Pontificio rappresentavano all’Unità italiana. Ma anche cristiani moderati che non intendono appoggiare le posizioni più estreme di Roma, che nelle ultime fasi prima della annessione allo Stato Italiano giunse a riaprire il ghetto degli Ebrei, ad instaurare un controllo inquisitorio, e successivamente a proibire ai cattolici l’attività politica e ad attestarsi su posizioni decisamente antimoderniste, bollando addirittura i treni come strumenti satanici. I Gesuiti, identificati come le più fedeli truppe del papa, furono investiti delle bordate anticlericali. Una violenta polemica oppose il padre del cattolicesimo liberale italiano, Vincenzo Gioberti (1801-1852), ai gesuiti e ai cattolici reazionari. Nel Regno di Sardegna, con la legge del 25 agosto 1848 n. 777 che espelleva tutti i gesuiti stranieri, ne sopprimeva l'ordine e ne incamerava tutti i collegi, convertendoli ad uso militare. Negli anni seguenti i gesuiti furono nell'occhio del ciclone in tutta Italia e dopo il 1848 (durante il quale alcune residenze gesuite furono assaltate da folle inferocite),[16] saranno soppressi in tutti gli Stati italiani (escluso lo Stato pontificio).

In conclusione, l’ideologia anticlericale assumeva tutta una varietà di tinte, che andava dalla demonizzazione della Chiesa e dei suoi misfatti alla posizione moderata di Cavour sintetizzata dal principio “Libera chiesa in libero stato”.

A partire dal 1848, cominciò, nel Regno dei Savoia, prima la separazione, poi il contrasto, infine la guerra aperta tra governo e Chiesa, tra autorità politiche e autorità religiose. Alle leggi Siccardi del 1850, che l’opinione pubblica liberale sentiva giustificate dai tempi nuovi, seguirono la soppressione delle comunità religiose che non svolgevano attività socialmente utili, e lo scontro con il Papa per le terre pontificie prima e per Roma stessa poi. In questa situazione, il governo liberale, per indebolire e imbarazzare l'antagonista «clericale», vide di buon occhio nella capitale sabauda presenze sgradite ai cattolici dell’epoca, a cominciare ovviamente dai protestanti attirati qui dal fascino della Chiesa Valdese, che essi consideravano erede attraverso una catena ininterrotta che giungeva ai primi Apostoli, del vero insegnamento cristiano.

Per molti la religione della Madre Patria doveva sostituire la religione tradizionale, con il re al posto del Papa, i generali al posto dei vescovi, la classe degli ufficiali come clero, le parate militari come solenni processioni, le feste nazionali al posto di quelle del calendario cristiano.

 

l’obelisco di piazza savoia e i monumenti anticlericali

In piazza Savoia, a uno degli ingressi del Quadrilatero Romano, sorge un obelisco ben noto a tutti i torinesi.La storia di questo obelisco affonda le sue origini in un pacchetto di leggi che venne promulgato dal Regno di Sardegna nel 1850 e che regolamentava il rapporto tra Stato e Chiesa: erano le cosiddette leggi Siccardi, realizzate dal ministro della giustizia piemontese Giuseppe Siccardi, la prima del 9 aprile 1850 e la seconda del 5 giugno dello stesso anno, che fecero esultare gli anticlericali perché abolirono alcuni privilegi goduti fino ad allora dal clero cattolico: in particolare il foro cattolico, il diritto di asilo e la manomorta (che indica l'inalienabilità dei possedimenti cattolici da parte dello Stato).

La collocazione dell’obelisco è fortemente simbolica, a pochi passi dal Santuario della Consolata e anche dal Palazzo Barolo dove viveva la cattolica Giulia Falletti di Barolo. L'inaugurazione avvenne il 4 marzo 1853, come si legge anche in un'epigrafe incisa sull'obelisco che ne spiega l'origine: “Abolito da Legge IX Aprile MDCCCL il Foro ecclesiastico, popolo e municipio posero IV Marzo MDCCCLIII”. Il foro ecclesiastico a cui si fa riferimento era un tribunale che sottraeva alla giustizia dello Stato gli uomini di Chiesa per le cause civili e anche per i reati comuni (compresi quelli di sangue).

Dopo l'unità d'Italia in moltissimi comuni furono eretti monumenti anticlericali, anche per rimarcare la vittoria degli ideali risorgimentali, che avevano portato al crollo dello Stato della Chiesa. Nelle tante lapidi che ricordano Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini, ma anche l'infinita schiera di patrioti, raramente manca un accenno polemico contro il clero, la "tirannide", la "superstizione", mentre vengono esaltati la libertà, l'"affrancamento" e il "progresso".

Fra i monumenti maggiori, oltre all’obelisco torinese di Piazza Savoia è da annoverare quello a Giordano Bruno a Roma, e il monumento ad Arnaldo da Brescia, a Brescia, eretto nel 1882.

La costruzione del monumento a Giordano Bruno fu sostenuta fra gli altri da Francesco Crispi, che fu Primo Ministro per diversi anni, e noto anticlericale. Nel 1889, l'erezione del monumento a Giordano Bruno in Campo de' Fiori avvenne in un contesto di violenta lotta politica in cui si confrontarono le posizioni più oltranziste delle fazioni anticlericali e clericali. L'opera fu realizzata dallo scultore Ettore Ferrari, che più tardi divenne gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Fra i promotori non mancarono toni di sfida al Pontefice, che minacciava di lasciare Roma per rifugiarsi in Austria, e il monumento divenne uno dei simboli dell'anticlericalismo. Francesco Crispi ottenne dal re Umberto I un decreto di destituzione nei confronti del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia, che aveva fatto una visita ufficiale al cardinale vicario Lucido Maria Parocchi, portando un messaggio per papa Leone XIII. Nello stesso periodo a Roma la Massoneria metteva in scena sotto i Palazzi apostolici banchetti nei venerdì di Quaresima, per dileggiare il digiuno cristiano.

 

anticlericalismo e massoneria

La pubblicistica cattolica, con in prima linea i Gesuiti di Civiltà Cattolica, concentrava il suo tiro in particolare sulla Massoneria, dipinta invariabilmente come onnipresente ispiratrice e responsabile delle tendenze laiche del Risorgimento Italiano, della abolizione del potere temporale del Papa e dei provvedimenti di secolarizzazione dei beni ecclesiastici e dei conventi.

Che ci fosse, sotto i grembiuli e le cazzuole, lo zampino del diavolo lo affermavano le pubblicazioni cattoliche: le Logge erano, per il popolo credente, la «Sinagoga di Satana», una caratterizzazzione di cui nell'immaginario qualcosa è rimasto.

I loro timori non poterono che aumentare quando, l’8 ottobre 1859, si ebbe la fondazione a Torino della loggia Ausonia. Le logge che si costituirono dopo la parentesi della Restaurazione si riempiono di uomini che avevano combattuto con la penna o con la spada per l’indipendenza nazionale, che avevano sofferto l’esilio e il carcere, che si avviavano a ricoprire le più alte cariche della politica e dell’amministrazione. Erano la nuova classe dirigente del paese, che aderiva alla massoneria perché la si considera l’unica realtà organizzativa in grado di potersi contrapporre alla ancora totalizzante cultura cattolica e di costituire un campo di dialogo e aggregazione delle forze laiche.

 

la massoneria torinese post-unitaria

La presenza della Massoneria a Torino non era una novità. Notava con ironia Pietracqua, noto anticlericale, che a fine ‘700 Torino ebbe una loggia massonica e quasi sicuramente dipendeva da Ginevra. Se l’avesse saputo Carlo Emanuele I si sarebbe rivoltato nella tomba.

Dopo la pausa della Restaurazione, con la proibizione nello Stato sabaudo di “assembramenti sovversivi o pericolosi”, è probabile che dietro la ricostituzione a Torino del Grande Oriente d’Italia ci siano Cavour e la Società nazionale italiana. Rosario Romeo – che allo statista piemontese ha dedicato lunghi studi – ignora la questione e sostiene anzi che Cavour diffidava delle società segrete nei paesi liberi, né del resto ci sono prove di una sua adesione alla massoneria. Nell’autunno 1859 Cavour, che è stato il grande artefice delle vicende politico-militari di quell’anno, è fuori dal governo e teme il fallimento dei suoi progetti e il consolidarsi di un’egemonia francese in terra italiana. Per questi motivi potrebbe aver valutato positivamente la nascita di una massoneria nazionale per neutralizzare il pericolo che il Grand Orient de France – guidato dal principe Luciano Murat, cugino di Napoleone III – potesse favorire la costituzione di un regno dell’Italia centrale per un napoleonide, in linea con i progetti dell’imperatore dei francesi.

 

la guerra delle riviste

La libertà di stampa concessa dallo Statuto Albertino provocò una fioritura di quotidiani, molti dei quali erano schierati su fronti contrapposti, in particolare sul fronte clericali-anticlericali.

Il periodico dei cattolici intransigenti “L’Armonia” fondato da Guglielmo Andrea Audisio, rettore all'Accademia ecclesiastica di Superga uscì con il primo numero il 4 luglio 1848. Annoverava tra i collaboratori nientedimeno che il fratello di Camillo di Cavour, il marchese Gustavo Benso di Cavour, insieme ad altri esponenti ecclesiastici e della nobiltà.

All’Armonia si contrapponeva il quotidiano liberale e anticlericale “Gazzetta del popolo”. Per capire quanto fosse forte l’ostilità tra le due testate basti dire che quando, l'ultimo di gennaio del 1888, morì don Bosco la Gazzetta si rifiutò di dare la notizia e si limitò a pubblicare un «Bosco sac. Giovanni, anni 75» nell'elenco dei defunti della giornata, guadagnandosi il pungente giudizio degli avversari: «Gli uomini onesti hanno per massima di tacere di quei morti di cui non si può parlare bene. I veri massoni preferiscono serbare il silenzio su quelle persone di cui non possono dire male». Quando il santo era in vita la «Gazzetta» traduceva in italiano il piemontese "bòsc" e parlava, irridente, di un «don Legna».

Nel 1849 ne divenne direttore Don Giacomo Margotti. Don Margotti era uno straordinario pubblicista, un polemista abile e intrepido, che non si lasciò scoraggiare dai provvedimenti di sospensione del suo giornale ad opera delle autorità, né dagli arresti che subì, né dalle spedizioni punitive che devastarono la redazione.

Il suo giornale sparava a zero anche sul “Risorgimento”, il giornale che aveva come direttore nientemeno Camillo Benso Conte di Cavour.

Un bel mattino dell’inverno del 1861 il suo giornale uscì con il famoso titolo “Né eletti né elettori”, schierandosi dalla parte dell’obbedienza al Papa.

 

episodi alla peppone e don camillo in parlamento e fuori

Sebbene i liberali fossero per le libertà, però non gradivano molto quelli che le usavano per criticarli. Lo imparò a sue spese Don Margotti in un episodio che ha il sapore di un racconto di Guareschi. Presentatosi alle elezioni per il Parlamento nel novembre del 1857, don Giacomo fu eletto deputato con buona maggioranza. Uno scacco intollerabile per il governo che, da lì a meno di due anni, avrebbe condotto, grazie alla Francia, quella che fu chiamata seconda guerra d'indipendenza. Avere il terribile giornalista in sottana nera a Palazzo Carignano era troppo rischioso e andava evitato a ogni costo. Così, fu approvata una leggina "ad personam", una misura addirittura retroattiva, per la quale, a causa del suo "status" di ecclesiastico, l'elezione doveva considerarsi invalida. Ma allora, perché era stata accettata la candidatura? Beffa nella beffa, il suo scranno in Parlamento fu occupato dall'antagonista sconfitto, naturalmente un liberale mangiapreti. E Cavour ebbe un prete in meno e un prezioso voto in aula in più.

Nel 1861 il clero, per protestare contro le persecuzioni cui erano sottoposti la Chiesa e il Papa, rifiutava di partecipare alla festa dello Statuto, trasformata nella prima festa dell'Unità italiana e fissata al 2 giugno. Cavour, per rappresaglia, fece approvare dal gabinetto una misura che proibiva alle autorità dello Stato di intervenire alla solennissima processione del Corpus Domini, con sgomento di non pochi nobili e borghesi.

 

giovanni bosco e i suoi conflitti con i liberali cavouriani

Don Giovanni Bosco era solito dichiarare che non si occupava di politica, o meglio si occupava della “Politica del Padre Nostro”. In realtà, da buon monferrino sornione, un occhio aperto sulla politica lo teneva eccome. E non era solito porgere l’altra guancia alle provocazioni di quelli che considerava nemici della Chiesa.

Uno degli episodi della sua biografia lo vide contrapporsi a coloro che volevano che anche i preti celebrassero la festa dell’Unità d’Italia. Don Bosco, come l’ala cattolica più fedele al Papa, si rifiutò recisamente, malgrado tutte i tentativi di intimidirlo e di blandirlo. Quando i suoi preti lo abbandonarono per andare a celebrare una cerimonia patriottica sul Monte dei Cappuccini, fece loro sapere che li avrebbe accettati solo se fossero tornati pentiti e col capo cosparso di cenere. Cosa che tutti fecero, tranne il “rivoluzionario sobillatore” che Don Bosco espulse dall’Oratorio.

Don Bosco che non apprezzò per niente la decisione del Comune di concedere ai valdesi uno dei posti più belli della città, sul viale del Re, come allora si chiamava il corso Vittorio Emanuele Secondo, per erigervi il loro grande tempio, finanziato da benefattori di rutto il mondo protestante, in atto di omaggio al prezioso «Israele delle Alpi», a questo mitico aggancio con il cristianesimo delle origini. Il prete di Valdocco, allora, passò all'offensiva: proprio accanto al tempio «eretico», fece erigere San Giovanni Evangelista, la sua maggiore chiesa in città dopo Maria Ausiliatrice. Aggiunse poi, come ulteriore baluardo, l'attiguo, grande collegio salesiano. E, tanto per lanciare un segnale preciso, non solo al Municipio ma anche al governo, volle che quell'edificio religioso fosse considerato come il monumento dei cattolici torinesi alla memoria di Pio Nono, le cui gesta sono celebrate già dalle formelle scolpite sui battenti della porta.

Nel 1884 si tenne al Valentino la grande Esposizione nazionale della Scienza e della Tecnica, la prima e la più grande che si tenesse dopo l'Unità e che, naturalmente, voleva magnificare il progresso e la ragione dei Lumi contro l'oscurantismo e il fideismo dei papisti. Ma la festa fu guastata proprio da quell'avveduto sornione di don Bosco. Il quale non solo ottenne di partecipare ma, accanto alla Galleria ufficiale dell'Esposizione, ne costruì una, tutta e solo sua, lunga quasi 60 metri. Qui, partendo dagli stracci, si arrivava al bancone della libreria: decine di suoi giovani, addestrati a usare macchine modernissime, mai viste in Italia, fabbricavano la carta, fondevano i caratteri, stampavano, rilegavano, mettevano in vendita belle edizioni illustrate, con fregi e incisioni, del Catechismo e di "Fabiola", il romanzo edificante del cardinal Wiseman, uno dei bestseller religiosi del secolo. Stando a tutte le testimonianze, la «Galleria don Bosco», non a caso approvata con resistenze e diffidenze dagli organizzatori, divenne subito la principale attrazione proprio di quell'Esposizione, impostata con finalità anticlericali.

Per dare un saggio ulteriore delle capacità organizzative della giovane congregazione salesiana, prima di mezzogiorno partiva da Valdocco un carro appositamente costruito, e attrezzato in modo speciale, che portava al Valentino un pranzo completo e caldo per i ragazzi che, a ciclo continuo, lavoravano attorno agli impianti. Neanche l'esercito aveva un simile mezzo, così funzionale e moderno.

Il malumore degli organizzatori crebbe, perché il Santo faceva fermare e chiudere tutto alla domenica, quando i visitatori erano più numerosi, volendo riaffermare l'importanza del riposo festivo, insidiato dall'organizzazione capitalista del lavoro. Anzi, con il suo amico Faà di Bruno aveva fondato e presiedeva la battagliera Lega per la difesa della domenica, che aveva sì motivazioni religiose (permettere ai lavoratori di partecipare alla liturgia) ma agiva, in concreto, come uno dei primi e più attivi sindacati: tutelare uno spazio settimanale per il riposo e per la famiglia aveva, o no, un significato sociale?

Alla fine, si arrivò allo scandalo, giudicato imbarazzante anche da molti liberali non faziosi: conclusa l'Esposizione, erano previsti premi agli espositori più meritevoli. Ai salesiani e ai loro impianti, inediti per modernità, che avevano attirato la maggiore attenzione e il maggiore compiacimento del pubblico, fu negata una delle medaglie d'oro distribuite generosamente e non fu attribuito che un diploma d'onore, come quello che era dato praticamente a tutti gli espositori. Don Bosco non era tipo da scambiare per cristiana umiltà il silenzio davanti a una palese ingiustizia. Così, protestò pubblicamente, a difesa dei suoi giovani che tanto e tanto bene avevano lavorato; e visto che le sue rivendicazioni erano ignorate, diede ordine di non ritirare neanche il diploma.

 

protestanti sotto la mole

La formazione dello Stato nazionale del 1861 fu preceduta e accompagnata dal tentativo di una riforma religiosa di ispirazione cristiana protestante, sul modello della Chiesa nazionale d'Inghilterra, appoggiata dalle chiese valdesi, memori delle persecuzioni, che, nei propositi di alcuni esponenti delle classi dirigenti piemontesi, si proponeva l'ambizioso obiettivo di sradicare dal cuore del popolo la fede cattolica: la cosiddetta Chiesa Libera Evangelica Italiana. Don Leonardo Murialdo scrisse: «Gesù Cristo è bandito dalle leggi, dai monumenti, dalle case, dalle scuole, dalle officine; perseguitato nei discorsi, nei libri, nei giornali, nel papa, nei suoi sacerdoti». Alla Camera, il deputato Filippo Abignente si augurava «che la religione cattolica sia distrutta d'un colpo».

 

la competizione delle istituzoni sociali

La Chiesa cattolica che, nella visione dei politici di ispirazione liberale (sovente aderenti alla Massoneria)[17], costituiva un freno al progresso civile, ritenendo che la religione non fosse altro che superstizione, mentre la verità andava ricercata avvalendosi del metodo scientifico. Nella realtà piemonteseSi trattava di un aperto contrasto con la realtà italiana - e soprattutto piemontese - del primo Ottocento, in cui per assenza d'intervento dello Stato era la Chiesa ad organizzare e finanziare scuole, istituzioni sociali[18] e ospedali. Non di rado docenti e scienziati erano essi stessi ecclesiastici. Si sviluppò così, in particolare nella capitale sabauda, una competizione tra istituzioni caritative e assistenziali laiche e istituzioni cattoliche, non priva di attriti e colpi bassi.

 

don bosco sacro iettatore:

Il nome di “sacra iettatura” fu dato da Vittorio Gorresio ad un episodio che fece molto scalpore nell’Italia di allora e che vide protagonista da un lato Don Bosco e dall’altro il Parlamento subalpino e la Casa Reale.

Al parlamento subalpino era in discussione la legge di soppressione delle famiglie religiose dedite alla preghiera piuttosto che al “sociale” con l’incamerazione dei loro beni da parte dello stato.

Questa legge era voluta da Cavour e da altri illustri liberali, come Massimo D’Azeglio. I vescovi piemontesi offersero di versare allo Stato sardo l'equivalente di ciò che sperava di guadagnare confiscando i beni ecclesiastici, ma Cavour e i suoi rifiutarono quella proposta.

Don Bosco si si sentì spinto a intervenire nel drammatico dibattito parlamentare in corso nel 1855. Ci fu un primo avvertimento del Santo al giovane Vittorio Emanuele Secondo (senza la sua firma, la legge di soppressione e di confisca non avrebbe potuto entrare in vigore), facendo trascrivere dal giovanissimo Domenico Savio le maledizioni degli antichi duchi sabaudi contro i discendenti che avessero osato toccare la Chiesa. Non giunse nessuna risposta dal Palazzo.

Ecco allora il sogno con il valletto di Palazzo Reale che correva smarrito e gridava: «Gran funerali a corte! Gran funerali a corte!». La corte in questione protestò, quando don Bosco sentì il dovere di informarla di quanto aveva sognato, ma non intervenne sui politici. La legge, detta Rattazzi dal suo proponente più deciso, cominciò a essere discussa alla Camera il 2 gennaio 1855.

Tre giorni dopo cadeva malata, improvvisamente, Maria Teresa, madre del re. Morì di lì a dieci giorni, mentre la discussione continuava.

Al ritorno dai funerali a Superga, si metteva a letto Maria Adelaide, la moglie di Vittorio Emanuele. Aveva solo trentatré anni, morì il 20 gennaio. La sera dello stesso giorno si ammalava il fratello unico del sovrano, anch'egli di poco più di trent'anni, Ferdinando duca di Genova. Spirò pochi giorni dopo.

A questo punto si impressionarono anche i miscredenti, il dibattito fu sospeso, Cavour e Rattazzi si rivolsero a teologi di corte perché tranquillizzassero il re angosciato e ammonissero don Bosco. Ma questi, da Valdocco, replicò con logica dura, eppure inappuntabile: «O mi credono profeta, e allora provvedano. Oppure credono che io sia un impostore: ma allora perché non vanno per la loro strada, senza curarsi di questo povero prete visionario?».

Fu deciso di riprendere il dibattito in aula. Ma il presidente della Camera, il celebre Giovanni Lanza (sarà il capo del governo che ordinerà la breccia di Porta Pia e la presa di Roma), stava per aprire la prima seduta, quando un commesso trafelato gli annunciava la morte improvvisa della madre. La seduta fu interrotta prima ancora di cominciare.

In maggio, alla fine dell'iter, quando ormai si era alla vigilia dell'approvazione del provvedimento, ecco la perdita forse più dolorosa per Vittorio Emanuele: moriva il piccolo, sino ad allora sano e forte, suo ultimogenito. Il provvedimento diveniva legge dello Stato, ma il re era rimasto, in pochissimi mesi, tragicamente solo.

Queste vicende fecero scalpore all’epoca, e per esse lo scrittore Vittorio Gorresio coniò il termine “sacra iettatura”.

 

La morte di Cavour e l’epitaffio di Civiltà Cattolica: “La giustizia divina fa il suo corso”

 

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Cavour morì a soli cinquantun anni - di malaria perniciosa: il padre era stato tra coloro che, sfidando la scomunica lanciata dalla Chiesa, per pochi soldi avevano comprato la grande tenuta risicola di Leri, confiscata (quella volta da Napoleone) ai monaci cistercensi che, in secoli di lavoro, della palude avevano fatto un posto fertilissimo. Proprio durante una visita a quei redditizi poderi, la sua principale fonte di ricchezza, Camillo fu infettato dalle zanzare e, tornato a Torino, moriva nel momento del suo trionfo.

Nel 1861, poiché il clero, per protestare contro le persecuzioni cui erano sottoposti la Chiesa e il Papa, rifiutava di partecipare alla festa dello Statuto, trasformata nella prima festa dell'Unità italiana e fissata al 2 giugno. Cavour, per rappresaglia, fece approvare dal gabinetto una misura che proibiva alle autorità dello Stato di intervenire alla solennissima processione del Corpus Domini. La cosa fu presa assai male dal popolo, molto attaccato alle sue tradizioni religiose, ma ci fu sgomento anche tra la nobiltà e tra molta borghesia.

Ebbene, proprio la sera del 29 maggio, cioè giusto alla vigilia del Corpus Domini, il Conte rientrò nel suo palazzo, cenò e andò in carrozza a trovare l'amante, Bianca Ronzani, cui aveva regalato una villa in collina. Al ritorno, «colpito da sincope, cadeva improvvisamente come morto». Il giorno dopo, mentre Cavour, immobilizzato nel suo letto, cominciava la lunga agonia, la processione usciva dal duomo. Con uno dei colpi di quel genio che non gli mancava neanche in queste cose, don Bosco aveva pensato di fare sfilare in ordine perfetto, al posto delle autorità mancanti, centinaia e centinaia di suoi giovani di Valdocco. Tre giorni dopo, il 2 giugno, domenica, ecco la prima festa dell'Unità nazionale, che Cavour aveva voluto a ogni costo e che coronava l'aspirazione di un'intera vita. In realtà, quella sua vita era alla fine: proprio nelle ore della grande parata militare era colpito da una seconda «sincope», in realtà un collasso, da cui non si sarebbe più ripreso.

A Valdocco si leggeva, ovviamente, la «Civiltà Cattolica», che scrisse: «Se vi è morte che mostri chiaramente l'impronta della giustizia celeste, questa è la morte del conte di Cavour».

 

Un tour delle religioni a Torino

 

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Passeggiando tra le vie di San Salvario, quartiere modello di integrazione e riqualificazione urbana, farete un viaggio tra le religioni del mondo. Partendo dalla stazione di Porta Nuova arriverete presso il Tempio Valdese, per proseguire l’itinerario verso la Sinagoga, la Chiesa cattolica dei S.S. Pietro e Paolo e terminare con un incontro presso la sala di preghiera islamica Omar Ibn Al Khattab.

 

 

 

 

 

LA FLORA DI TORINO

 

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(Vedi anche il percorso “La collina di Torino”)

 

I nomi piemontesi delle piante

 

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le piante medicinali

Un tempo era essenziale identificare un’erba o una pianta in modo semplice e rapido, magari fornendo anche qualche informazione circa le proprietà positive o negative della medesima, un esempio su tutti è l’erba bun-a, l’erba buona (Salvia sclarea). Questa pianta è infatti conosciuta fin dall’antichità per le sue proprietà salutari e ciò ne spiega il suo nome, proveniente dal latino salvus, sano.

La salvia è “l’Erba bun-a”, l’edera il “Brassabosch”, “Virassul” indica il girasole. I nomi dati alle piante testimoniano l’acuta capacità di osservazione dei piemontesi.

I Galli, in particolare, ritenevano che la salvia avesse la capacità di guarire tutte le malattie e infatti viene anche indicata come bun-a a tüt. Altre piante denominate per le loro proprietà medicamentose sono l’erba dij taj, delle ferite (Achillea millefolium), già usata da Achille per curare le ferite di Telefo; l’erba dij purèt, delle verruche (Chelidonium majus), il cui lattice giallognolo è in grado di far guarire da queste fastidiose formazioni cutanee; l’erba dël camule, delle carie dei denti (Hyosciamus albus), il cui infuso è conosciuto sin dall’antichità per le sue proprietà antidolorifiche e narcotiche.

noti alcune somiglianze?

L’osservazione del comportamento o di alcune caratteristiche delle piante ha condotto a nomi come brassabosch, abbraccia alberi, dato all’edera (Hedera helix); virassul, il girasole (Helianthus annuus); erba brüsca, acidula, il romice (Rumex acetosa); cua ‘d caval, coda di cavallo (Equisetum ramosissimun) le cui foglie assomigliano ai crini della coda del cavallo; urije ‘d feja, orecchie di pecora, la piantaggine (Plantago officinalis), per i romani le foglie assomigliavano alla pianta dei piedi, per i piemontesi alle orecchie di una pecora.

il periodo di fioritura

Primula vulgaris (Pasquëtta) - Botanica piemontese

Primula vulgaris detta anche "Pasquëtta" (©Martino Ghisleni).

Molti altri nomi sono collegati al periodo di fioritura per cui troviamo la pasquëtta, il fiore di Pasqua, la primula (Primula vulgaris), l’erba ‘d San Pe, di San Pietro, erba amara balsamica (Balsamita major) e l’erba ‘d San Giuan, di San Giovanni, l’iperico (Hypericum sp.). Ma in quest’ultimo caso il legame tra questa pianta e San Giovanni Battista è dovuto, oltre al periodo di fioritura, anche al fatto che il santo viene considerato da alcuni come l’analogo cristiano del mago, del maestro conoscitore e dispensatore delle proprietà delle piante. La tradizione vuole che le piante raccolte nella notte della sua festa avessero maggior efficacia.

dimmi dove cresci e ti dirò chi sei

Il luogo di crescita della pianta ha sovente aiutato nella scelta del suo nome e ne sono esempi l’erba dij puss, dei pozzi, il capelvenere (Adiantus capillus veneris), felce che cresce rigogliosa proprio sui muri umidi e ombrosi dei pozzi, rifuggendo invece la luce diretta del sole; l’erba dël ca o guardacà, erba delle case o di guardia alle case, il semprevivo (Sempervivum tectorum) che cresce sui vecchi tetti in pietra delle case e si credeva potesse proteggerle dai fulmini.

i giochi dei bambini

Alcune piante venivano usate dai bambini per i loro giochi e ne hanno preso il nome, rappresentative di questo sono il peru-peru, l’orzo selvatico (Hordeum murinum) che deriva dalla conosciuta filastrocca: “Peru peru munta sü, cala cala mai pi giü”, pronuciata mentre si faceva risalire lungo il braccio una sua spighetta matura; la bela dona o madona, la bella signora, il papavero (Papaver rhoeas) perché dispiegando in modo opportuno il fiore, ancora nel bocciolo, si può fabbricare una graziosa bambolina; lo s-ciupèt, schioppetto, la silene (Silene inflata), i fiori opportunamente chiusi ad una estremità tra indice e pollice, se schiacciati su una mano o sulla fronte, producono un caratteristico schiocco.

dal portogallo all’amazzonia

I nostri antenati hanno osservato anche la provenienza vera o presunta di alcune piante e dei relativi frutti producendo una serie di interessanti fitonimi come ad esempio purtigal, l’arancio, (Citrus sinensis), che pur originario della Cina fu importato in Europa dai Portoghesi che lo diffusero in tutto il Mediterraneo; fu invece Alessandro Magno che promosse la coltivazione dell’armugnan, l’albicocco (Prunus armeniaca) originario dell’Armenia; il darmassin, pruno damasceno (Prunus damascenum), arriverebbe da Damasco in Siria; originario della Persia sarebbe il persi, pesco (Prunus persica), mentre mandarin, mandarino (Citrus deliciosa), non può che indicarne una provenienza cinese.

Insieme al Portogallo anche la Spagna ha contribuito al nome di alcune piante, il gramun dë Spagna, sorgo selvatico (Sorgum halepense) e i più comuni spagnulèt, arachide (Arachis hypogea) e spagnulin, peperoncino (Capsicum longum), dove il nome potrebbe arrivare semplicemente dal luogo d’importazione oppure dalla somiglianza dei frutti alla spagnoletta, che non era altro che un tipo di sigaretta. Non si può dimenticare insieme a questi il gran sarrasin, il grano saraceno (Polygonum fagopyrum) che si credeva fosse arrivato qui durante le invasioni dei Saraceni stessi.

Tra i deonimi più curiosi possiamo annoverare quello di un conosciuto tubero autunnale, il tapinabò, il topinambour (Helianthus tuberosus) che ha mutuato il proprio nome da quello di un’antica tribù dell’Amazzonia, i Tupinamba; tuttavia la pianta a differenza del girasole (Helianthus annuus) è arrivata dal Nord America e precisamente dal Canada. Questa pianta dai bei fiori gialli, presenta altre diverse denominazioni popolari tra cui girasole del Canadà, patata di Spagna e carciofo di Gerusalemme.

le piante antropomorfe

Caratteristici sono invece i nomi che si riferiscono alle “azioni” compiute da alcune piante, il lapassot, erba che beve alla pozza, la tossilaggine (Tussilago farfara) che cresce appunto in prossimità di sorgenti, corsi d’acqua e stagni, le cui foglie si piegano a lambire l’acqua; lo s-ciapa pere, spacca pietre, la salvastrella (Sanguisorba minor muricata) che cresce nelle fessure delle pietre e dei massi, tanto che pare spaccarli; s-cianca beu, sfianca buoi, il poligono (Polygonum avicolare) che ha radici così profonde e fitte che i buoi riescono a strapparle solo con grande sforzo; aggiungerei anche il punzarat, pungitopo (Ruscus hypoglossum) che non ha bisogno di commento.

ad ognuno il suo predatore

Gli animali hanno scelto alcune piante, tuberi o frutti come loro cibo preferito suggerendone il nome all’osservatore, come ad esempio l’ajèt dij babi, aglio dei rospi (Allium angolosum), l’üva dj’urs, uva degli orsi (Arctostphylos uva ursi), il pan dël bisse, pane delle bisce (Arum italicum), l’erba dij can, erba dei cani (Agropyron caninum), il brutalevrin, cibo della lepre (Coronilla emerus).

appellativi e religione

Aquilegia vulgaris conosciuta come i “guant dla Madona” - Botanica piemontese

Aquilegia vulgaris conosciuta come i “guant dla Madona” (©Arne Nordmann).

La devozione popolare ha prodotto anch’essa un buon numero di definizioni come le scarpëtte dla Madona, le pianelle della Madonna (Cypripedium calceolus) una bellissima orchidea nostrana, i cui fiori sono così belli che potrebbero calzare addirittura i piedi della Madonna; i guant dla Madona, i guanti della Madonna (Aquilegia vulgaris) pianta dai fiori così delicati, tanto da essere adatti a proteggere le mani di Maria.

 

La Torino degli antichi giardini

 

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Molti palazzi realizzati nei grandi isolati del primo e secondo ampliamento di Torino possedevano giardini. Lo sviluppo urbano ha col tempo riempito ogni spazio: edifici sorgono in luogo dei giardini di palazzo Graneri, di palazzo Asinari e di tanti esempi consimili, e oggi gli unici esempi rimasti sono quello dei palazzi Cisterna e d’Azeglio. Ma al giardino, come in quest’ultimo caso, si associava un vero proprio modello diverso di palazzo, mutuato dallo schema delYhótel francese, con un diverso rapporto fra strada ed edificio. Al palazzo vero e proprio in cui erano ricavati gli ambienti di residenza (corps de logis) e che si trovava arretrato rispetto alla strada, era anteposto un cortile, diviso da questa mediante un muro munito di portone carraio o una sottile manica, spesso non più alta del piano terreno. Dietro il corps de logis, riparato dai traffici e dalle attività di servizio si apriva il giardino. A fianco del cortile d’accesso, detto cour d’honneur, si apriva spesso il cortile delle rimesse e delle cucine, detto basse cour o altrimenti, in Italia, corte rustica. Nonostante la citata scomparsa dei giardini e le modifiche edilizie intervenute, in alcuni palazzi torinesi è ancora possibile riconoscere lo schema alla francese14. Si tratta di pochi esempi, un numero ristretto dovuto probabilmente alla scarsa fortuna di una tipologia che, nonostante i forti legami tra la cultura architettonica locale e quella al di là dei monti, si scontrava con le esigenze di modellazione della fisionomia urbanistica della capitale. Gli editti ducali che governavano la costruzione delle principali vie della città promuovevano infatti la costruzione degli edifici sul filo di strada, in modo da rendere possibili quelle quinte architettoniche così ben evidenti nelle tavole del Theatrum Sabaudiae, in aperto contrasto con i cosiddetti vacui costituiti dai muri bassi di corti e giardini. A Torino offrono una configurazione entre cour et jardin i palazzi Pallavicino Mossi, Ferrerò d’ Ormea, Taparelli d’Azeglio, Thaon di Revel, Gonteri di Cavaglià. Si tratta di edifici quasi tutti collocati in isolati di bordo della città, il cui retro era aperto alla vista della campagna.

Ecco alcuni palazzi che mostrano ancora il giardino che avevano nell’Ottocento:

palazzo negri vercellone, già galoppo, via cernaia 40

L’isolato comprendente il numero civico 40 di via Cernaia nasce, sul fronte stradale, come complesso di due case e una palazzina di proprietà Galoppo, progettate in forme eclettiche nel 1863 da G. Ferrando e unite dai portici ancor oggi esistenti. Nel 1879 l’ingegner Perini progetta la grande palazzata che incrementa i fabbricati esistenti sopraelevandoli e occupando gli spazi fra le palazzine, ma conserva intatto il grande giardino interno, giunto con buone cure sino ai nostri giorni. Nel 1993 il rilievo botanico segnala la presenza di tigli, ippocastani, magnolie, aceri, olmi siberiani, tassi, ligustri e altre specie arboree per circa cinquanta unità.

palazzo cisterna, via maria vittoria 12

Il palazzo è uno dei pochissimi edifici nobiliari torinesi a conservare il giardino, in origine separato dalla corte da una semplice quinta architettonica in seguito trasformata nell’attuale manica di fondo del cortile. Attribuito all’ingegnere ducale Maurizio Valperga e pervenuto nel 1685 al principe Giacomo Dal Pozzo della Cisterna, il palazzo venne quindi ampliato aggiungendo nel 1691 la manica verso via Carlo Alberto. Il giardino venne inizialmente affidato a Henry Duparc, in seguito Intendente dei giardini del castello di Venaria Reale. Ma è fra il 1773 e il 1787 che il palazzo assume il volto attuale, nei canoni di un raffinato gusto orientato verso il Neoclassicismo, sotto la direzione dell’architetto Francesco Valeriano Dellala di Beinasco (1780). Anche l’interno viene aggiornato con l’apporto di artisti fra i più quotati: i pittori Antoniani e Cignaroli, gli scultori in legno Gianotti e Bonzanigo, gli scultori in marmo Bernero e Ferrerò, lo stuccatore Bolina, tutti attivi in decine di cantieri fra palazzi nobiliari e di corte. Nel 1867 l’ultima erede dei Dal Pozzo sposò Amedeo di Savoia figlio di Vittorio Emanuele II, e il palazzo, a parte l’interludio (1870-73) in cui la coppia regnò a Madrid, divenne quindi dimora dei duchi d’Aosta, i quali promossero il completamento del palazzo, il rifacimento dello scalone e la cancellata lungo il giardino (ing. Camillo Riccio, 1878). Dal 1940 l’edifìcio è sede della Provincia di Torino.

giardino dei ripari

Con l’abbattimento dei bastioni e il tracciamento dei viali secondo il piano del 1817, venne resa possibile la costruzione dell’area compresa fra la città barocca e il Viale del Re, l’odierno corso Vittorio Emanuele IL Alla realizzazione della parte nord di piazza Carlo Felice (Gaetano Lombardi, 1822) seguì la lottizzazione a ville e palazzine lungo il viale, spesso arretrate e precedute da un giardino, secondo una configurazione purtroppo oggi perduta a causa del successivo sviluppo edilizio. Nell’area retrostante, accidentata per via dei dislivelli creati dagli antichi bastioni, venne decretata la costruzione del Giardino dei Ripari, sotto la cui promenade alberata passava via Accademia Albertina. Nella strada, all’epoca detta per questo motivo via dell’Arco, si trovavano, fra l’altro, gli stallaggi per i cavalli da posta. Ridotto poi dalle ulteriori lottizzazioni all’aiuola Balbo e all’area di piazza Cavour, il giardino rimase cuore di uno dei quartieri più eleganti della città, costruito negli anni trenta e quaranta dell’800. I palazzi, di volumi contenuti e improntati a chiari stilemi neoclassici, furono commissionati soprattutto dalla borghesia fatta di ingegneri, architetti, medici, impresari. Nel quartiere venne decisa anche la costruzione di un teatro e di una chiesa. Quest’ultima fu realizzata dal Sada nel 1844, con toni che ci riportano alle grandi capitali neoclassiche del Nordeuropa, mentre il teatro (oggi cinema Nazionale), originariamente previsto in piazza Maria Teresa, venne edificato nel 1847, con la capacità di 2000 posti, al fondo di via Pomba.

 

L’ecosistema del Po

 

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Flora e vegetazione del fiume

I diversi ambienti che caratterizzano il Parco del Po presentano una vegetazione peculiare, dovuta soprattutto alle condizioni ecologiche esistenti, largamente influenzate dal fiume.

I sabbioni

rappresentano una situazione ecologica in continuo mutamento, in quanto governate dall'andamento annuale delle portate del fiume. Durante il periodo di magra del Po (estivo e invernale) le isole possono essere colonizzate da piante annuali graminacee caratteristiche delle aree più calde della pianura quali Paleo sottile (Vulpia myuros), Poligono nodoso (polyum lapathifolium), il Pepe d'acqua (polyum hydropiper) da ranuncoli tipici di ambienti sabbiosi con ristagno d'acqua, da piante stolonifere perenni che riescono a rimanere legate al suolo anche durante le piene del fiume. In genere in questi ambienti le piante erbacee vengono avvantaggiate per le loro minori esigenze biologiche, gli alberi incontrano maggiori difficoltà; solo alcuni salici riescono a sopravvivere anche sui sabbioni.

Le sponde

del Po sono popolate da alberi quali Salice bianco (Salix alba), il Salice odoroso (Salix pentandra) che contribuiscono al consolidamento delle sponde messe a rischio dalle piene primaverili. All'ombra delle grandi chiome si può sviluppare una interessante flora: Salcerella (Lythrum salicaria), Scagliola palustre (Typhoides arundinacea), Carice pendula (Carex pendula), Agrostis stolonifera che ricopre interamente estesi lembi del sottobosco.

Accanto a specie della nostra flora compaiono anche molte specie esotiche tra cui si ricordano la Budleja (Budleia davidii) originaria della Cina, il Topinambour (Helianthus tuberosus) specie esotica proveniente dall'America le cui radici sono commestibili e molto apprezzate e il Senecio sudafricano (Senecio inaequidens), giunto dal Sudafrica in Europa al seguito delle truppe alleate.

Le lanche

zone palustri originate da un tratto di fiume abbandonato dal corso d'acqua, sono le aree ove il fiume durante le piene deposita grandi quantità di sostanza organica e di sali nutritizi e per questa ragione ospitano una ricca fauna sia di invertebrati che di vertebrati, che vi trovano alimento e luoghi idonei per la riproduzione. L'ecosistema della lanca è sempre minacciato sia dagli apporti artificiali di materiale terroso per la creazione di nuovi terreni agricoli, sia dal naturale interramento dovuto al progressivo depositarsi di sostanza organica. In queste aree non esiste una corrente elevata, quindi le piante hanno sviluppato la capacità di radicare sul fondo mediante grosse radici e rizomi Nannufaro (Nuphar sp.), Ninfea (Nymphaea sp.) Situazione simile è presentata dal Poligono acquatico (Poligonum amphibium) che presenta caratteristiche foglie a forma allungata adagiate sulla superficie dell'acqua dalla quale spunta la spiga fiorale. Il Morso di Rana (Hydrocharis morsus ranae) non radica invece sul fondo ma porta all'estremità inferiore del fusto ciuffi radicali che pescano direttamente nell'acqua; essa ama molto le acque limpide e ben ossigenate ed è caratterizzata da foglie reniformi che galleggiano sull'acqua tra le quali spuntano i delicati fiori bianchi con soli tre tepali. La piccola felce galleggiante Salvinia o Erba pesce (Salvinia natans) che presenta le foglioline a verticilli di tre, delle quali la terza si è trasformata in filamenti radicali e portata inferiormente immersa nell'acqua dalla quale assume le sostanze minerali disciolte.

Il canneto

è costituito da piante erbacee che radicano sul fondale subito a ridosso della sponda dove dominano la Mazzasorda (Thypha sp.) che ospita un sottobosco di Felce d'acqua e associata la Mazzasorda maggiore (Thypha latifolia), di dimensioni maggiori e foglie di colore verde ceruleo. Diffusa è la Cannuccia di Palude (Phragmites australis) i cui fusti danno sostegno alla nidificazione di molti uccelli strettamente legati a questo ambiente. Alle spalle del canneto si estende una fascia costituita da Salici con portamento arbustivo; in questa fascia il suolo è impregnato d'acqua nei periodi primaverile ed estivo e vi cresce in particolare il Salice cinereo (Salix cinerea). Forse a causa di queste particolari oscillazioni d'acqua la vegetazione naturale è stata recentemente invasa da un arbusto infestante: l'Indaco bastardo (Amorpha fruticosa), fabacea americana.

I popolamenti arborei succedono nella parte più esterna del saliceto, ove l'acqua della lanca giunge solo attraverso i canali e ricopre il suolo solo nei periodi di piena. La pianta più caratteristica di questo ambiente è l'Ontano nero (Alnus glutinosa), anche se compaiono il Salice bianco (Salix alba), il Pioppo bianco (Populus alba). Entrambe queste ultime specie hanno la caratteristica di presentare la pagina inferiore delle foglie ricoperta da una fitta peluria bianca. Tra gli arbusti che ravvivano le boscaglie umide spicca il Pallon di Maggio (Viburnum opulus), mentre lo strato erbaceo è per la maggior parte colonizzato da densi ciuffi che formano come dei cuscini: le carici, come la Carice spondicola (Carex elata) e la Carice tagliente (Carex acutiformis). Nella zona più esterna della sponda della lanca si trovano i popolamenti arborei che vengono raggiunti dall'acqua solo durante le piene di maggiore estensione e il terreno rimane impregnato solo durante le piene eccezionali. Questo è l'ambiente ove dominava la farnia, oggi ridotta a pochi esemplari.

I canali

utilizzati per l'irrigazione che si gettano nel Po ospitano un particolare tipo di vegetazione acquatica adattata a vivere in acque con corrente accentuata, radicanti sul fondo, e per lo più interamente sommerse quali quelle del genere Potamogeton (Brasche). L'adattamento di queste piante alla vita acquatica è tale che l'impollinazione avviene attraverso l'acqua. I Ranuncoli acquatici (Ranunculus fluitans e Ranunculus trichophyllus) presentano degli adattamenti particolari delle foglie mediane e basali sommerse che risultano trasformate in lunghe e fini lacinie che resistono alla continua azione della corrente. Fra le specie che popolano questi ambienti vi sono anche piccolissime piante ridotte a dimensioni di pochi millimetri: le Lenticchie d'acqua (Lemna sp., Spirodela sp., Wolffia sp.); la radichetta di queste piante non si abbarbica sul fondo, ed esse si lasciano trasportare sul pelo dell'acqua. Vi sono anche piccole felci acquatiche come l'Azolla (Azolla sp.) che con le sue piccole foglioline embricate può ricoprire interamente una superficie d'acqua libera.

Nei gerbidi

l'acqua invece di essere abbondante è praticamente assente; questi ambienti sono presenti in prossimità dei grandi fiumi in corrispondenza dei terrazzi con suoli molto ghiaiosi e permeabili, dove l'acqua può giungere solamente nel caso di piene di straordinaria portata. In questa situazione, le specie arboree igrofile riescono ancora a sopravvivere grazie alla profonda radicazione che permette loro di pescare dalla falda in profondità. Le specie erbacee invece si trovano in condizioni di particolare siccità; si possono trovare ampie radure dove domina l'Euphorbia cipressina (Euphorbia cyparissias), che si difende bene dalla siccità grazie ai vivaci rizomi. Si diffondono inoltre delle Carex, tra le quali la Carice lustra (Carex liparocarpos), grazie ai loro sottili e lunghissimi rizomi. Le Liliacee come il Muscari azzurro (Muscari botryoides) e il Cipollaccio (Muscari comosa) sono favorite dal portamento a bulbo che permette loro nella stagione primaverile, quando il clima è più umido, di fiorire. E' diffuso l'asparago selvatico (Asparagus sp.) che presenta lunghi rizomi a grande profondità e foglie particolarmente trasformate tanto da essere ridotte a corti filamenti che impediscono una eccessiva traspirazione della pianta.

 

La flora ruderale di Torino

 

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È del 1923 una interessante, curiosa e fondamentale ricerca sulla vegetazione del fossato di Palazzo Madama: La vegetazione del fossato di Palazzo Madama in Torino, di Oreste Mattirolo, Roma, Tipografia della Reale Accademia dei Linciei, 1923

Precedentemente, nel 1864, Francesco Domenico Guerrazzi aveva espresso su questo fossato e sulla sua vegetazione una nota battuta di spirito. In alcune pagine dedicate a «I Piemontesi e Cavour» nel suo Assedio di Roma, il feroce livornese aveva descritto un suo incontro con Torino.

«D’incanto passando in incanto, ecco il Palazzo Madama, congerie immaginata da Belzebub l’ultimo giorno di carnevale: lì prigioni, lì apparizioni, lì tormentatori e tormentati, lì specola per contemplare le stelle, lì pinacoteca, lì senato, lì fossato dove si coltivano cavoli o vuoi fiori o vuoi cappucci. Sì, signori, in Piazza Castello, allato il Palazzo dei Ministri, intorno all’aula dei Senatori ed a tutte le altre degne persone ricordate qui sopra, crescon all’ombra dell’aquila sabauda cavoli fiori o vuoi cappucci. Certo bell’umore, a cui io notava il fatto tutto tremante, mi rispose che avrei torto a farne le stimate; ammirassi al contrario la previdenza piemontese la quale, considerato di avere a surrogare via via i senatori defunti, se n era allestito un semenzaio sotto casa».

Evidentemente, nello storico fossato, qualche guardiano aveva fatto il suo orto.

Al di là delle battute e dei motti di spirito interverrà lo studio serio e scientifico di Oreste Mattirolo per il quale la grande area (circa duemila metri quadri), «situata nel centro monumentale di una grande città moderna, quasi si direbbe a bella posta scavata, ripulita, resa piana e poi abbandonata a se stessa non costituisce forse un interessantissimo campo di studio per la ricerca delle modalità colle quali, per opera dei soli mezzi naturali, vincendo ostacoli considerevoli, vi immigrarono e s’adattarono a ricrescervi i vegetali che oggi ne costituiscono la minuscola flora?»

A questo punto l’autore compie un singolare flash-back sulla storia del terreno, sito a 7 metri di profondità sotto la piazza Castello. Con un excursus tipicamente ottocentesco, egli rievoca il passato fino alle legioni romane trionfanti che sostarono sul terreno «allora ancora a livello del circostante» intorno alla porta romana «prima di entrare, colle aquile spiegate, nel rettangolare recinto della città».

Carlo Alberto trasferì nel Castello per alcuni anni la Regia Pinacoteca e nel 1848 il Senato Subalpino. Ma dopo il trasporto della capitale a Firenze vi si trasferì anche la Corte di Cassazione. Solo dopo la soppressione di questa, nel 1923, il primo piano di Palazzo Madama fu ceduto al Municipio di Torino per le sue attività di rappresentanza.

Durante i lavori, eseguiti sotto la direzione del D’Andrade tra il 1883 e il 1885, si accertò che Guglielmo di Monferrato e Filippo d’Acaja avevano fatto scavare, per difesa, un fossato tutto intorno al Castello.

Con D’Andrade il fossato fu abbassato in più punti (e fu proprio in uno di questi lavori che si ritrovò, dentro uno dei torrioni quadrangolari a nord, l’ambiente di scarico delle cucine del castello che restituì un cospicuo numero di frammenti di ceramiche e di vetri; il terriccio ormai inodore che lo riempiva venne sparso, costituendo un ottimo concime per il fossato).

Si sarebbe dovuto, in quegli ultimi anni del secolo scorso, creare in situ un giardino, ma vennero a mancare i mezzi, già scarsi; si generò quindi una vegetazione spontanea.

Dice il Mattirolo che in quegli scavi varie specie di semi furono riportate in superficie e messe in condizione di germinare; cosicché, «si svilupparono con*tale energia, da. necessitare ogni tanto una ripulitura della superficie dell’area, indispensabile per togliere lo sconcio di una vegetazione disordinata e per facilitare il passaggio attraverso a questa miniatura di vergine vegetazione».

Si trattava di una flora ruderale (o «dei monumenti antichi delle vecchie mura, dei castelli, delle chiese, degli ambienti urbici vari»). Il Mattirolo cita per essa gli studi a partire dal 1643.7

I caratteri di questa particolare vegetazione sono infatti determinati dalla presenza nel terriccio di sostanze organiche e di sali minerali, dalla costante umidità e dalla scarsa illuminazione che determina uno sviluppo vegetativo in altezza per raggiungere la luce.

E così solanum dulcamara, solanum nigra, calystegia urbica, fragaria, alliaria ed euphorbia e molte altre specie crebbero nel fossato tra i detriti di cotto, di pietrame e di calce e tra i rifiuti che si accumulavano.

La ricerca di Mattirolo si approfondì; egli analizzò le specie, la loro crescita, la loro riproduzione e le vie per le quali esse si introdussero. «Le lotte fra vegetali, le concorrenze fra le associazioni, che ci appaiono guidate quasi dall’acutezza di un ragionamento pensante, non sono infatti altro se non rispondenze alle infinite variazioni che si osservano nelle condizioni fisiche e chimiche dell’ambiente».

Alle piogge torrenziali e agli stessi visitatori del castello spetta la responsabilità di aver favorito la diffusione delle diverse specie arboree che vennero a costituire, in questa area ai piedi del castello, una flora vergine «risultante dalle particolari condizioni d’ambiente, determinata dalla natura chimica del terreno, dalla topografia, dalle condizioni di illuminazione e di temperatura della località». Che - alla fine del secondo millennio - ci pare da ricuperare e da rivisitare, magari anche al lume di quello studio originale.

il giardino delle piante officinali di palazzo madama

In piena torino, in quello che era il fossato di Palazzo Madama, c’è un prezioso giardino botanico con una ricca collezione di piante officinali che crescono con le tecniche di coltivazione di un tempo, suddivise in 18 aiuole tematiche in cui perdersi tra ricette e rimedi antichi, usi più o meno noti di erbe selvatiche e coltivate. Sono oltre 70 le specie coltivate nelle aiuole: tra esse l'achillea e l'assenzio, la maggiorana e il verbasco, la liquirizia e la malva.

 

Gli alberi di Torino

 

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In Torino, una fra le più verdi città d'Europa (nel 2020 la FAO e l'Arbor Day Foundation hanno conferito alla città di Torino il riconoscimento di Tree City of the World 2019), gli alberi sono oltre sessantamila, di alto fusto, con una novantina di specie diverse, escludendo le piante dei giardini e dei parchi, soprattutto della vasta zona collinare. Più frequente la presenza dei platani, circa diciassettemila, seguiti da magnifici tigli, ottomila ippocastani, aceri e bagolari, che costituiscono un insieme di cinquemila alberi. Il Centro-Crocetta è il quartiere più ricco di verde, con ben ottomila esemplari, mentre il più povero è quello di Mirafiori-Sud, appena quattromila piante, che, per contro, ospita la vasta area del grande cimitero parco, costituito in anni recenti. L'ippocastano è presente in viali del centro cittadino, come corso Stati Uniti, corso Matteotti, corso Galileo Ferraris e corso Palestra. Il platano domina corso Vittorio Emanuele n, corso Regina Margherita, corso Inghilterra. Il tiglio è in corso Massimo d'Azeglio, in una parte di corso Re Umberto e in una parte di corso Galileo Ferraris e in Lungo Dora Voghera, nonché in piazza Carducci e in altre zone. L’olmo è reperibile nei corsi Dante, Stupinigi, Trapani e Undici Febbraio.

 

I parchi di Torino

 

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Il 19 marzo 2016 l'UNESCO ha riconosciuto il parco del Po e la collina torinese come riserva della biosfera. Sono una decina i parchi torinesi, propriamente detti, che per ampiezza, che si distinguono dai numerosi giardini che costellano la città.

parco colletta

Costituito di recente, è situato fra la Dora, il Po, via Carcano e il Cimitero Generale. Porta il nome di Pietro Colletta (1775-1831) storico, ingegnere, generale partenopeo, incarcerato ed esiliato dai Borbone.

parco colonnetti

Di 340.000 metri quadrati, sulla sinistra della strada del Castello di Mirafiori, fra via Artom e Strada delle Cacce. Costruito nel 1982 sul tenitorio occupato dall’aeroporto di Mirafiori, è intitolato a Gustavo Colonnetti (1886-1968) già presidente del Consiglio delle Ricerche.

parco crescenzo

Vicino al Parco Colletta, fra le vie Varano, Poliziano e Nievo, nei pressi del Ponte Emanuele Filiberto, è intitolato a Roberto Crescenzio (1955-77), perito tragicamente durante una tumultuosa manifestazione studentesca, vittima degli estremisti.

parco di vittorio

In zona Lingotto Mercati generali, area verde compresa tra le vie Spazzapan, Vian, Monte Pasubio, Pio vii e Passo Buole. Questo giardino è intitolato a Di Vittorio (Cerignola 1892-Lecco 1957) sindacalista e uomo politico. Nel 1945 fu segretario della Confederazione generale italiana del lavoro, poi senatore.

parco europa

Una magnifica area panoramica, da cui si gode una buona prospettiva della città, è in regione Cavoretto, da piazza Freguglia in via San Rocco, interno. Il nome gli viene dal continente, quasi un omaggio allo sforzo europeistico dei paesi che tendono a un’unità commerciale e politica.

parco villa genero

Magnifica residenza collinare, già appartenuta a nobile famiglia, entrata nel 1890 nel patrimonio cittadino. La zona verde è di 42.000 metri quadrati e comprende alcuni resti del piccolo forte di Airasca, che si collega al 1706 e alla battaglia dell’assedio di Torino da parte dei francesi. Contiene anche piante mediterranee, come ulivi, palme e pini. Ricorda con il nome il banchiere Felice Genero (1819-55) che ne fu l’ultimo proprietario.

parco leopardi

Questo territorio verde ha ingresso principale in corso Moncalieri, con 70.000 metri quadrati con numerosi platani, castagni e rare piante, con alcune sequoie, molte delle quali già si trovavano presso la Villa Sanseverino, poi abbattuta, dove abitavano i conti Calvi di Bergolo, comperata dai Comune nel 1948.

parco maddalena

In bella altura, con 441.000 metri quadrati, occupa la sommità del colle della Maddalena (a metri 714,82); è il parco dedicato al ricordo dei soldati caduti nella prima guerra mondiale, i cui nomi spiccano in circa seimila targhette metalliche, ognuna apposta al fusto di un albero così da costituire un vasto Parco della Rimembranza. In cima al colle spicca la Vittoria alata, opera dello scultore Edoardo Rubino. La Vittoria ha un faro mobile che al tramonto punta la sua luce circolare sulla città ed è visibile da qualunque punto di essa.

parco michelotti

Sulla sponda destra del Po, il parco oggi è territorialmente poco identificabile anche se ebbe un tempo il suo splendore, andando dalla piazza Gran Madre di Dio a piazza Borromini.

Il Michelotti (Torino 1764-1846), ingegnere, architetto, idraulico, membro dell’Accademia delle Scienze dal 1791, legò il proprio nome al canale Michelotti, progettato e costruito nel 1816. Correva lungo la riva destra del Po, fra il Ponte Vittorio Emanuele 1, presso la chiesa della Gran Madre di Dio e il ponte che si trova più a valle, Regina Margherita. Secondo il progetto, le acque del canale, che venivano “catturate” dal Po, ponevano in azione le ruote del mulino, abbattuto nel 1930, quando anche il canale, secondo una nuova sistemazione, venne eliminato, riempito di macerie, soprattutto quelle che sarebbero poi emerse dai lavori per la nuova via Roma, nel cuore della città.

Il Parco Michelotti fu un’attrattiva per i torinesi che vi scopersero un ottimo angolo verde, soprattutto nei mesi estivi, un punto d’incontro, anche perché vi si organizzarono spettacoli che riscossero buon successo; non per nulla la soppressione del canale e dell’area che lo circonda suscitò non poche amarezze e rimpianti. Rammarico si ebbe soprattutto per il teatro estivo di Umberto Fiandra, al posto del quale venne sistemato il piccolo giardino zoologico di Torino, mentre negli spazi circostanti trovarono sede alcune società ricreative. Anche lo zoo (v.), visitato soprattutto da bambini, venne eliminato in anni recenti dopo alcune polemiche sollevate da animalisti.

La parte del parco Michelotti al di là del ponte Regina Margherita appare solitaria e alquanto negletta. Soprattutto in questo punto crebbe in alcuni casi il livello del Po e qui si registrarono alcune “piene” rimaste memorabili nelle cronache torinesi, come nel 1152, nel 1331, 1374 - come rilevò il Calendario isterico, per il 1817-, nel 1454,1702,1706 e poi nel 1839 quando le acque si alzarono di oltre sei metri e superarono il ponte di pietra. Altre gravi inondazioni si ebbero ancora nel 1879, nel 1892 (come ricorda una stele al Valentino che indica il livello raggiunto dalle acque), quindi nel 1902,1948,1951 e nel 1960. In molte di queste “alte ondate” la prima a fame le spese fu la chiesetta di Madonna del Pilone, proprio perché costruita nel pun lo più depresso dell'oltre-Po, dove comincia la collina, quasi sul fondo di corso Casale.

parco del nobile

Si estende nella fascia collinare fra la Strada del Nobile e la Strada San Vincenzo. Venne istituito nel 1981 dando una sistemazione a circa 100.000 metri quadrati con un’azione di rimboschimento e opere di arginatura del Rio Paese.

parco pellerina

Fra i corsi Appio Claudio, Lecce, Regina Margherita e via Pietro Cossa, quest'area verde è di circa 210.000 metri quadrati, contiene 10.000 alberi d'alto fusto, campi da gioco, piscine. Il nome del parco viene da un’antica cascina “La Pellegrina”, all’incrocio di corso Regina Margherita con via Pietro Cossa. Per i torinesi la vasta zona verde è detta “La Pellerina”, anche se la titolazione ufficiale la vorrebbe dedicata a Mario Carrara (1866-1937), docente dell'Ateneo torinese, discepolo di Cesare Lombroso e suo continuatore.

parco del valentino

È il più nolo parco torinese, lungo il corso del Po. Può dividersi in tre sezioni: la prima va da corso Vittorio Emanuele LI all’Orto Botanico, la seconda è quella relativa al Castello, costruito nella prima metà del Seicento per Carlo Emanuele t e Madama Reale, Cristina di Francia, dagli architetti Carlo e Amedeo di Castellamonte; la terza parte è costituita dal giardino roccioso, il roseto e la fontana monumentale.

Incerti gli storici su come sia nato il grande “polmone verde”. «Sulle rive del Po eravi qualche casa che avea preso probabilmente fin dai tempi romani il nome di Valentino; seppure non derivava quel nome da una cappella dedicata a San Valentino». Così il Cibrario accenna al parco lungo le rive del Po, il cui nome ha fatto discutere. Un tempo era molto più vasto di oggi, poi le costruzioni io hanno limitato e ora va, all’incirca, dall’inizio di corso Massimo d’Azeglio fino al complesso di Torino Esposizioni. Nel 1745, mentre al Valentino si abbatteva un tratto di muro, venne alla luce un’anfora colma di monete romane di bronzo, segno di una presenza assai remota in questa zona. Giacomo Garbolino, l’uomo che le trovò, le offrì subito a Carlo Emanuele ni, che lo ricompensò con 36 lire di mancia.

Il nome del parco è stato fatto pure risalire all’imperatore Valentiniano, sul trono dal 364 al 375, o a qualche altro Valentinus che vi aveva un appezzamento; altri hanno pensato di far derivare il nome da una piccola cappella dedicata a San Valentino, martirizzato a Roma sulla via Flaminia nel 268. Questa, abbiamo visto, è la lesi accolta dal Cibrario.

Il 6 novembre 1275 il vescovo Goffredo, per conto della chiesa torinese, rilasciò una concessione di diritto di pesca - è il più antico documento relativo al parco - a tale Corrado Mazza, o Maccia, e vi è già chiaramente menzionalo il Valentinurm altri documenti successivi si riferiscono a strade oppure a vendite di tratti di prato nell’area del Tati naie parco.

Meno convincente la tesi per cui il nome del parco verrebbe da Valentina Balbiano, dama chierese moglie di Renato Birago luogotenente del re di Francia in Piemonte dal 1543 al 1563, nel periodo che vide i francesi occupanti. Questa argomentazione ha avuto alcuni sostenitori ma Goffredo Casalis fu invece tra coloro che non raccolsero e nel 1856, nel suo Dizionario geografico storico, statistico, commerciale degli Stati di S.M. il re di Sardegna, ritenne d’aver dimostrato, citando il testamento del vescovo Amedeo di Romagnano, che la dizione Valentino esisteva ben prima che Renato Birago giungesse a Torino; in quel testamento, rogato il 13 giugno 1505, si cita un legato di sei giornate di terreno ai monaci di San Salvatore situs super finibus Taurini ubi dicitur ad Valentinunv, ossia «posto ai confini di Torino nel luogo detto Valentino».

Casalis riteneva che il nome derivasse da San Valentino, pensando vi fosse nell’attuale parco una chiesa dedicata a tale santo, poi demolita per far posto al castello. Ciò potrebbe essere confermato dal fatto che Maria Cristina fece poi costruire in San Salvario da Amedeo di Castellamonte una chiesa intitolata a San Salvatore, a Santa Cristina e, anche, a San Valentino, quasi una riparazione per aver privato quest’ultimo santo della chiesa precedente, sacrificata per costruire il castello.

Da taluno si è accennato a feste dei Valentini, cavalieri d'amore, al tempo di Madama Reale, e altri ricordano una dama d’onore di Caterina d’Austria, di nome Valentina, che si distinse in una battuta di caccia organizzata da Carlo Emanuele i. Per gli innamorati il parco non ha mai perso l'alone romantico che ha ispirato poesie e canzoni.

parco della mandria

Il Parco della Mandria è stato il primo parco regionale istituito in Italia nel 1978 ma la sua storia è molto più antica. Quest’area, che oggi è di circa 2.000 ettari, fu adibita fin dal XVI a riserva di caccia per la famiglia reale sabauda e attrezzata per il soggiorno del re e della corte. Il re Vittorio Amedeo II creò qui un allevamento di cavalli per le scuderie reali da cui deriva il nome di “La Mandria”, mentre Vittorio Emanuele II, volle che qui venissero costruiti il Borgo Castello e altri edifici per viverci, pare, con la sua moglie morganatica, Rosa Vercellana.

Alla morte di Vittorio Emanuele II la tenuta passò ai marchesi Medici del Vascello e, nel corso del periodo successivo, porzioni di terreno vennero vendute per la costruzione di varie residenze e perfino di un campo da golf, finché, dal 1976, divenne proprietà della Regione Piemonte che istituì poi il Parco Regionale della Mandria.

parco le vallere

Un'oasi di verde fra Torino e Moncalieri, dove il Sangone si getta nel Po

Istituita inizialmente come "Area attrezzata" dall'apposita legge regionale n. 37 del 9 dicembre 1982, la zona delle Vallere nel 1990 è entrata a far parte delle aree protette della fascia fluviale del Po. Successivamente la legge regionale n. 19 del 29 giugno 2009 ha trasformato l’Area Attrezzata in Riserva Naturale.

La Riserva Naturale Le Vallere si estende su una superficie di 130 ettari (di cui 34 di proprietà regionale) e sorge alla confluenza fra il torrente Sangone ed il fiume Po, nei territori comunali di Moncalieri e, in misura minore, di Torino. Fra le presenze faunistiche è degno di segnalazione il rospo smeraldino. La zona un tempo era destinata esclusivamente a prato per il pascolo, mentre oggi, se da un lato residuano ancora terreni destinati a coltivazioni intensive di foraggio, dall'altro lato una vasta parte dell'area è stata convertita ad uso pubblico, con interventi che hanno riportato la zona alle sue caratteristiche naturali originarie, con radure e boschetti. A differenza di altri parchi urbani l'area Le Vallere si distingue per la compresenza di paesaggio agricolo e di parco pubblico, con alternanza di prati a foraggio e di specie arboree quasi tutte autoctone, quali carpini, aceri, tigli, pioppi e salici, tipici della vegetazione di ripa. Sul confine orientale della riserva un doppio filare di pioppi cipressini crea una sorta di diaframma visivo e sonoro per separare l'area delle Vallere dall'incombente presenza di edifici e di infrastrutture urbane.

Nella Riserva Le Vallere si trovano anche una area gioco per bambini, due recinti in cui lasciare i cani in libertà, punti di sosta nel verde, un giardino botanico-fenologico ed un attracco idoneo per eventuali traghetti di linea sul Po. Nella zona confluiscono inoltre alcuni percorsi ciclabili ed a cavallo. All'interno della riserva si trova anche una grande cascina settecentesca (Cascina Le Vallere), che costituisce un bell'esempio di architettura contadina di antica origine. Già proprietà, fra le tante, della agiata famiglia moncalierese dei Nasi, la cascina si trovava fino al 1955 al centro di una vasta e fertile area agricola di 150 giornate piemontesi di terreno ed era raggiungibile da Moncalieri tramite una strada consortile campestre.

Parzialmente salvata in extremis dalla cementificazione degli anni 1955/1960, che portò alla costruzione del vasto Corso Trieste e del quartiere residenziale che sorge ad ovest della grande arteria, l'area in seguito diventò di proprietà della Regione Piemonte, che inizialmente insediò nella ristrutturata Cascina Le Vallere il Centro di Documentazione delle Aree Protette. Successivamente, trasferito il Centro di Documentazione a Torino, la Regione Piemonte nel 1990 destinò la cascina a diventare la sede del nuovo Ente di gestione del Parco Fluviale del Po Torinese, appena costituito.

Il nome "Le Vallere" è derivato dal nome che i francesi diedero ai terrapieni costruiti nel 1541, al tempo della prima occupazione francese del Piemonte. La zona infatti è citata per la prima volta col nome "Les Valleres" in una carta della montagna, redatta nel Seicento. Nel 1706, durante l'assedio di Torino da parte dei Francesi, la zona delle Vallere fu teatro di scontri tra le truppe francesi e quelle piemontesi. Antiche mappe mostrano la dislocazione dei terreni agricoli e della cascina, costruita alla fine del Settecento, che ancora oggi si trova a poche decine di metri dall'ingresso stradale del parco Le Vallere.

 

I 5 parchi fluviali più grandi di Torino

 

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Le acque di Torino venivano anche utilizzate per creare scenari per le feste, per lavare, per portare via l’immondizia, per trasportare merci, per le fabbriche e concerie, per i mulini, per allagare le gallerie del nemico. A Susa furono utilizzate per distruggere le antiche catacombe dove trovavano asilo gli ugonotti.

I 5 parchi fluviali più grandi di Torino „ Il nome di Torino, lo sappiamo, ha a che fare con le montagne. Ma una caratteristica geografica ancora più netta della nostra città, rispetto alla sua vicinanza alle montagne, è la presenza dei fiumi. Al plurale, perché non c'è solo il Grande Fiume, il Po, a scorrere nel territorio torinese.

Tralasciando i canali, le (mille) fonti, le antiche sorgenti e i pozzi sparsi per la città in epoche più o meno lontane, oltre al Po a Torino scorrono infatti anche la Dora Riparia, il Sangone e lo Stura di Lanzo.

Lungo i corsi di questi fiumi si trovano a Torino diversi cosiddetti “parchi fluviali”, ovvero aree verdi comunali sulle sponde dei corsi d'acqua, con spazi per attività ginniche e relax, percorsi ciclabili, aree gioco per i bambini e anche attività commerciali (come i tipici chioschi), oltre a una grande varietà dal punto di vista della flora e della fauna.

La loro importanza per la cultura e l'ambiente di Torino è testimoniata perfettamente dalla recente nomina da parte dell'Unesco a “patrimonio mondiale dell'umanità” per i Parchi del Po e della Collina Torinese, che riguarda non solo la città ma numerosi Comuni piemontesi.

Ecco quali sono i 5 parchi fluviali più grandi di Torino

1 – Parco del Meisino (450.000 mq)

Si trova alla confluenza dello Stura nel Po, nella parte nordorientale della città, e insieme all'Isolone Bertolla forma la Riserva Naturale speciale Meisino e Isolone Bertolla; il nome di questo parco deriva da “mezzino”, ovvero terra di mezzo tra il fiume e la pianura sotto Superga. In passato questa zona era soggetta a numerose inondazioni; nel 1952 il problema è stato risolto con un argine in muratura, che insieme alla Diga del Pascolo forma un invaso utilizzato per creare energia idroelettrica. Oggi il suo tratto distintivo di maggior interesse è nell'ex galoppatoio militare, dove si possono ancora ammirare e cavalcare i cavalli del locale maneggio.

2 – Parco Colletta (448.000 mq)

Molti lo chiamano “della Colletta”, ma il suo vero nome è solo “Parco Colletta”. Il suo nome deriva dal Lungodora che lo attraversa, intitolato al patriota napoletano Pietro Colletta. Si trova nella zona lungo il corso occidentale del fiume Po tra la confluenza della Dora Riparia, a sud, e della Stura di Lanzo, a nord, al confine con il Parco della Confluenza (vedi oltre). Fu fatto realizzare dai Savoia nel Seicento come riserva di caccia, e fu nominato “Regio Parco”, ma l'assedio di Torino del 1706 lo rovinò e da queste parti i Savoia realizzarono le Manifatture Tabacchi. Oggi il suo “punto di forza” è il percorso ciclabile che lo attraversa, verso San Mauro su un lato e verso i Lungodora sull'altro.

3 – Parco dell'Arrivore (204.000 mq)

Insieme al Parco Colletta, fa parte dell'Area attrezzata Arrivore e Colletta. Situato sulla sponda destra dello Stura, nella parte nord della città; il nuovo volto del parco è stato inaugurato del 2009, ma la sua storia è molto antica. Nel Settecento la strada dell'Arrivore si chiamava Reale Strada di Chivasso: all'epoca in quest'area si trovava una cascina che era di proprietà del signor Falchero (da cui il nome di un borgo di Torino in cui aveva molti possedimenti). La cascina era La Rivore, come attestano gli antichi archivi, da cui il nome della strada e del parco. Tra i punti di forza, un campo da calcio e uno da pallavolo, entrambi liberi e a disposizione.

4 – Parco della Confluenza di Piazza Sofia (151.000 mq)

Anche questo parco si trova nella stessa zona dei precedenti. Situato tra piazza Sofia e il Lungostura Lazio: la confluenza del nome è quella tra Stura e Dora. Il punto di forza di questo parco è sicuramente nella ricchezza fioristica: qui ci sono i salici sulle rive, gli ontani negli stagni lungo i rigagnoli, le querce ed altre essenze che si sviluppano senza interventi di taglio e che formano una fisionomia ad alto fusto.

5 – Parco Millefonti (143.560 mq)

Tra i parchi fluviali più grandi è l'unico nella zona sud di Torino. Si trova infatti lungo il Po nel tratto di corso Unità d'Italia. A parte le mille fonti (che abbiamo spiegato in questo articolo), oggi non più esistenti, sulla sponda occidentale del Po in zona Molinette si trova questo parco con giardini, aree per gli esercizi ginnici, aree gioco e percorsi ciclabili e pedonali che, passando sotto il Ponte Isabella, conducono fino al parco del Valentino.

 

fonti:

http://www.torinotoday.it/cronaca/parchi-fluviali-piu-grandi-torino-fiumi.html

 

L’orto botanico di Torino

 

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Agli inizi del Settecento sorse, a breve distanza dal Po, l'Orto Botanico dell’università di Torino. Nel 1729, una Regia Patente di Vittorio Amedeo nominò Bartolomeo Caccia “professore di Botanica”, riconoscendo così ufficialmente la cattedra universitaria di “Lettura dei Semplici” istituita da Emanuele Filiberto nel 1560, che poi decadde, nel 1687, per le guerre e la crisi economica. L’area a fianco del Castello del Valentino fu posta, da parte di Vittorio Amedeo li, a disposizione di Caccia, perché si trovasse nell’ambiente più favorevole agli studi e allo sviluppo delle sue scienze naturali. Alcune scuderie presso il castello vennero trasformate in serre, mentre un certo numero di giardinieri ebbero modo di abitare nel castello. L’Orto Botanico si è sempre di più ampliato nel corso degli anni e alla prima parte, la più antica, se ne affiancò una seconda, con raggiunta dei locali dell’istituto, dell’imponente erbario, della biblioteca. Danneggiato nel corso della seconda guerra mondiale, il complesso ospita una collezione di piante aromatiche e medicinali, i visitatori scoprono, con sorpresa, la pianta del caffè, la canna da zucchero, il banano e il papiro, oltre a circa quattrocento specie delle montagne vicine al Piemonte ed esemplari della flora americana e asiatica. L’erbario riunisce mezzo milione di esemplari ed è il secondo in Italia, dopo quello di Firenze, che ne conta quattro milioni e mezzo; si pensi che il Museo di Storia Naturale di Parigi può vantarne allincirca sei milioni e mezzo, mentre il prestigioso Erbario del Kew Garden, a Londra, ne schiera cinque milioni. La biblioteca, iniziata dalla metà dell’ottocento, ospita circa cinquantamila opere, comprendendo volumi, opuscoli e oltre settecento periodici.

 

fonti:

https://www.guidatorino.com/orto-botanico-torino/

 

Il giardino roccioso e il giardino medievale del Valentino

 

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Una delle attrazioni che si trovano nel Parco del Valentino è sicuramente il Giardino Roccioso. Questo giardino, che si trova nei pressi del Borgo Medievale e del Castello del Valentino, fu costruito da Giuseppe Ratti nel 1961 in occasione dell’Esposizione Internazionale e del centenario dell’unità d’Italia. Oggi, quasi la metà del Giardino Roccioso di Torino è intitolata al III° Reggimento Alpini. Su un’area di oltre 44.000 metri quadri ,su cui si estende questo giardino, sono disseminati numerosi giochi d’acqua, ruscelli, stradine, panchine e punti di sosta, piante e aiuole con fiori che vengono allestite e cambiate nei vari periodi dell’anno. Camminando per i viali di questo delizioso giardino si può fare un percorso mirato alla conoscenza di numerose piante e fiori tra cui oltre 200 esemplari esotici, sia arborei che arbustivi, di cui si possono leggere nomi scientifici, storie e specificità nelle targhette messe a disposizione lungo il percorso stesso. Oltre alle tante specie di fiori e piante presenti, all’interno del Giardino Roccioso potrete trovare anche molte sculture e installazioni. Una delle più romantiche è sicuramente la “panchina innamorata”, una scultura raffigurante una panchina su cui sono seduti due lampioni che sembrano abbracciati ed un gattino al loro fianco. Durante la bella stagione apre anche il giardino medievale.

 

 

 

 

 

LA COLLINA DI TORINO

 

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La collina di Torino è un luogo che presenta molteplici occasioni di visita e interessanti testimonianze del passato di Torino.

Le leggende vogliono che una carozza chiusa portasse una misteriosa occupante – che il popolino identificava in Madama Cristina di Borbone-Francia – presso questa o quella delle dimore nobiliari che sorgevano sopra Torino, per incontri amorosi dell’insaziabile – sempre a detta del pettegolezzi – sovrana. Templari, Santuari miracolosi, bellissimi parchi con stupende viste panoramiche, Ville dalla fama sinistra teatro di delitti completano il fascino di questa zona della cintura di Torino.

Il Colle della Maddalena e la Basilica di Superga sono i due poli principali, il primo ricco di storia e sede di fortificazioni militari fino a tutto l’Ottocento.

 

I parchi della collina di Torino

 

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Il 19 marzo 2016 l'UNESCO ha riconosciuto il parco del Po e la collina torinese come riserva della biosfera.

Sulla Collina Torinese c’è il Parco della Maddalena suddiviso in Parco della Rimembranza e Parco delle Repubbliche Partigiane Piemontesi. Con i suoi 715 metri di altitudine, il Parco della Maddalena è il punto più elevato della città. A disposizione dei cittadini diverse aree picnic sia nel Parco della Rimembranza sia nel Parco delle Repubbliche Partigiane Piemontesi, fontanelle di acqua potabile, servizi igienici e un’area giochi molto grande e divertente per i bambini.

I rilievi collinari occupano circa 30 chilometri quadrati sui 130 totali del territorio comunale, e oltre a costituire l'orizzonte orientale della città sono un rifugio naturale per chi vuole allontanarsi dal traffico e – nei mesi caldi – dalle temperature bollenti delle zone urbane. Ecco quindi i 5 parchi collinari pubblici più belli di Torino consigliati a chi vuole godere di temperature più miti e di un po' di relax:

Parco della Maddalena

Delimitato da strada Comunale da San Vito a Revigliasco, strada Val Salice, strada alla Vetta del Colle della Maddalena, è il più grande parco di Torino, non solo della collina. In totale 892 mila metri quadri, 55 mila in più della Pellerina. A costituirlo, però, sono due parchi: nella parte più in alto (massima altitudine della città) si chiama Parco della Rimembranza (442.000 mq), è stato aperto nel 1925 e dal 1928 ospita la statua della Vittoria Alata. Fu fatta realizzare dal senatore Giovanni Agnelli per celebrare i 10 anni dalla fine della prima guerra mondiale, e all'epoca era la più grande statua interamente in bronzo (18,5 metri e 25 tonnellate di bronzo). La parte più in basso è il Parco delle Repubbliche Partigiane Piemontesi (450.000 mq), frutto di un ampliamento degli anni '70. Per arrivare a questo grande parco con i mezzi pubblici, la linea GTT è il 70.

Parco Europa

Sul punto più alto di Cavoretto (il cui nome in sé già indica la conformazione geografica) si trova questo parco di 99.300 metri quadri. Molto più piccolo di quello della Maddalena (a proposito, da non confondere con l'omonimo colle della Maddalena che è un valico alpino), non ha nulla da invidiare per bellezza e soprattutto per l'aria che si respira sui prati in pendenza o tra le panchine coperte dagli alberi che costituiscono anche uno dei posti più romantici della città. Le prime terrazze risalgono al 1737 per volere del marchese Carlo F.M. d'Ormea, ma poi il re Carlo Emanuele III interruppe i lavori perché non gradiva una fortezza tenere sotto tiro la città. Fu quindi realizzato il parco pubblico nel 1954 e concluso nel 1961. Per arrivarci in pullman la linea è il 47.

parco di superga

Per i torinesi e non solo, Superga è sinonimo di tragedia del Grande Torino del 4 maggio 1949. Ma oltre alla basilica e ai luoghi che celebrano la drammatica fine di una delle squadre di calcio più forti di sempre, qui si trovano diverse aree verdi. La più grande è il cosiddetto Parco della Panoramica, 842.000 mq sulla strada dei Colli, con sconfinamento nel comune di Pino Torinese. Il Parco di Superga propriamente detto si estende invece per 410.000 metri quadri, in parte nei comuni di San Mauro e Baldissero. La linea GTT per raggiungere questi due parchi è il 79.

parco di san vito

Non è molto grande – “solo” 54.600 metri quadrati – ma è uno dei più tranquilli e isolati. Accessibile dall'omonima strada collinare, è una sorta di terrazza naturale affacciata sulla città, con un sentiero che l'attraversa e un immenso prato su cui prendere il sole o l'ombra, a seconda delle preferenze. Per i mezzi pubblici, si arriva con il 73.

parco giacomo leopardi

Si estende per 68.200 mq, ed è il più facilmente raggiungibile: si trova infatti su corso Moncalieri, vicino al ponte Isabella, e lo si raggiunge con il pullman 66. Ma soprattutto è il parco collinare più importante nella storia della città: sul piazzale antistante l’ingresso del parco reso pubblico dal 1937 e all’interno in corrispondenza del primo tornante, infatti, sono visibili i quattro ingressi murati dei rifugi antiaerei con la sigla P.A.A. (Protezione Anti Aerea). A partire da ogni accesso un corridoio rettilineo penetra nella collina intersecando, a una profondità di circa 30 metri, quattro lunghe gallerie in cemento, a loro volta intersecate da due più corte in modo da formare una griglia ortogonale sotterranea. Il rifugio antiaereo fu costruito durante la seconda guerra mondiale e offriva riparo e protezione a molte centinaia di persone dal “caldo” delle bombe che cadevano sulla città.

 

Spiritismo ed evocazioni sulla collina di Torino

 

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Torino era una città molto effervescente ed aperta alle novità, curiosa di indagare anche i fenomeni occulti. Di spiritismo si occupava un allievo, anche lui medico, del celebre ricercatore Cesare Lombroso, Enrico Imoda, che pubblicò un famoso libro, Fotografie di fantasmi, con scatti fatti a Napoli, Milano e Torino, dove una delle sedi più gettonate per questo genere di attività era la villa dei marchesi di Ruspoli, in precollina. Vi partecipavano di norma, oltre al marchese e alla marchesa, un entourage di appassionati, fra cui, appunto, il dottor Imoda, anche perché all’epoca, a dispetto della fede positivista, lo spiritismo era di gran moda, non solo come passatempo mondano, ma anche come oggetto di indagine scientifica.

 

Il Monte dei Cappuccini e il Convento dei Cappuccini

 

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Il monte dei Cappuccini si erge alle spalle della Gran Madre sul lato sud orientale del Po. Vi si accede attraverso una ripida e stretta stradina che sbuca su uno spiazzo da cui si gode uno dei più suggestivi panorami di Torino. Se si è dotati di un buon fiato, lo si può raggiungere anche a piedi dalla Gran Madre con una passeggiata di circa quindici minuti, immersi nel verde della collina. A questa piccola altura perfettamente inserita nel cuore della città sono legati episodi che raccontano di guerre, di epidemie, di eventi miracolosi e perfino di una storia d’amore.

Roccaforte militare fin dal XIII secolo, quando allo scopo di difendere il sottostante ponte di legno sul Po vi fu costruito un piccolo complesso fortificato detto “bastia” (cui pare corrispondesse al di là del fiume una rocca, da cui prese il nome l’omonima via), nei secoli successivi fu teatro dei numerosi scontri che videro protagonisti i Savoia, le truppe francesi e quelle spagnole, in un continuo alternarsi di alleanze e di conflitti per la conquista di nuovi territori e per complesse questioni di successione. A una di queste guerre sono legati un sanguinoso episodio e una leggenda. Correva l’anno 1640 e a Torino infuriava la guerra tra i seguaci di Madama Cristina, vedova di Vittorio Amedeo I, e i sostenitori dei suoi cognati, il Cardinal Maurizio e Tommaso Francesco di Carignano, in lotta per la guida del Ducato di Savoia. Dopo un lungo assedio le truppe francesi, penetrate nel convento dei Cappuccini, dove si erano rifugiate le popolazioni inermi, trucidarono oltre 400 tra uomini donne e bambini. Si dice che durante questa strage avvenisse anche un fatto miracoloso. Un soldato francese che aveva tentato di fare razzia degli arredi sacri sarebbe stato investito e fulminato da una violenta vampata di fuoco.

Il convento, sorto intorno al 1200 vicino a un’antica cappella dedicata alla Vergine, è ricordato per la santità di vita dei frati che lo abitarono, noti per essersi costantemente dedicati al soccorso e all’assistenza della popolazione di Torino, colpita da ricorrenti epidemie, tra cui quella devastante del 1630 che decimò gli abitanti della città. Il convento ospita attualmente una ricca biblioteca che, fondata nel 1596 con un lascito di circa 1000 volumi del duca Carlo Emanuele I di Savoia, nel 1963 è divenuta la Biblioteca Provinciale dei Cappuccini con una dotazione di circa 80.000 titoli. Tra le opere più significative un testo di musica del XVI secolo, una Bibbia del 159 7 rilegata in cuoio con il dorso decorato in oro, un curioso trattato di Cosmografia del 1584 arricchito di illustrazioni e tavole, e numerosi altri antichi testi di carattere religioso e teologico. La biblioteca è privata, ma si può visitare su appuntamento.

Il piazzale che affaccia sul Po è dominato dalla chiesa di Santa Maria del Monte. Voluta da Carlo Emanuele I, fu costruita tra il 15 84 e il 16 5 6, anno in cui venne consacrata, su progetto di Ascanio Vitozzi. L’edificio a pianta centrale a croce greca è sormontato da una cupola a tamburo ottagonale, e al suo interno è possibile ammirare un pregevole altare, opera di Carlo di Castellamonte e, sopra il tabernacolo, un tronetto marmoreo di Benedetto Alfieri. Qualche anno fa uno degli autori delle illuminazioni natalizie della città, le ormai famose Luci d'artista, rivestì la facciata della chiesa di un magico alone azzurro circondato da anelli luminosi. Tanto fu spettacolare l’effetto che da allora tutte le notti il monte risplende di quell’azzurro. Uno spettacolo da fiaba da non perdere.

La chiesa è stata restaurata nel 1989. Ed è stato proprio nel corso di quei lavori che sono venuti alla luce, sepolti ormai da secoli, due scheletri. Uno potrebbe appartenere a padre Cherubino Fournier da Maurienne, che fu amico di Francesco da Sales e consigliere del duca Carlo Emanuele I. Morì nel convento nel 1604 e della sua sepoltura si erano perse le tracce durante la peste del 1630. L’altro ritrovamento è avvolto da un alone romantico. Rinvenuto casualmente uno scheletro inumato nel giardino del convento fu subito evidente che non poteva essere quello di un frate, essendo i frati sepolti nella cripta, né quello di un qualche anonimo personaggio, la cui sepoltura non avrebbe potuto avvenire all’interno di un famoso convento. Ed ecco allora intorno a quel corpo misterioso nascere una romantica ipotesi, alimentata da due preziose pipe in ceramica bianca ritrovate al suo fianco. La presenza dei due oggetti che richiamano il tabacco ha fatto pensare che potrebbe trattarsi del conte Filippo d’Agliè, nobile cavaliere e uomo d’armi, nonché artista raffinato, autore di composizioni musicali per la corte di Torino, tra cui una dal titolo II tabacco. Più che per le doti artistiche e le virtù militari Filippo è però passato alla storia per il suo amore con la Madama Reale Cristina di Francia, di cui fu fedele servitore negli anni della guerra civile per la successione al trono dei Savoia. Il conte morì nel 1667. E forse fu per restare anche dopo la morte accanto alla donna amata che chiese di venir sepolto su quel monte da cui lo sguardo spazia oltre il fiume fin al palazzo della Madama Reale.

 

I sotterranei sotto il Monte dei Cappuccini

 

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Torino è una città piena di sorprese e lo abbiamo sempre sostenuto.

Questa volta un luogo misterioso e particolare sorge proprio sotto uno dei suoi simboli, il Monte dei Cappuccini.

Ai piedi dell’imponente altura infatti, i più attenti e curiosi avranno senz’altro notato la presenza di aperture e cancellate disseminate per una buona porzione di territorio. Sotto al monte si ergerebbero dunque due luoghi affascinanti e dalla posizione misteriosa.

Un enorme rifugio antiaereo della Seconda Guerra Mondiale e, al suo interno, un laboratorio di ricerca nato negli anni ’60.

Una struttura intricata

Otto gallerie si dipanano sotto all’altura del Monte dei Cappuccini e una di queste conduce al rifugio edificato proprio sotto alla chiesa.

Nei pressi poi del civico 9 sorgerebbe un laboratorio risalente appunto agli anni ’60 e facente capo all’Inaf (Istituto Nazionale di Astrofisica).

La parte davvero interessante di questa storia però, è che le gallerie del rifugio sono ormai in disuso da anni, ma il laboratorio è stato a lungo pienamente operativo.

Data la sua posizione particolare nel sottosuolo infatti, risultava infatti essere uno dei centri più attivi in Italia e in Europa per lo studio dei materiali radioattivi presenti nei meteoriti e per quello dei sedimenti nei fondali marini.

La posizione a trenta metri dal suolo permette al laboratorio una schermatura unica dagli elementi della natura e dell’aria, senza contare il fascino esercitato dal trovarsi sotto all’altura del Monte dei Cappuccini.

Un laboratorio a rischio

Attualmente i locali del laboratorio sono purtroppo inutilizzati ai fini della ricerca. Per poter continuare la loro opera di eccellenza avrebbero bisogno di manutenzione e ristrutturazione in relazione alle norme vigenti al giorno d’oggi.

La ristrutturazione del laboratorio non porterebbe soltanto ad una ripresa dell’attività di ricerca a pieno ritmo, ma anche all’apertura dello spazio sotterraneo a scuole e gruppi di studio affascinati dalla materia.

Indubbiamente anche le gallerie del rifugio antiaereo avrebbero il loro fascino se visitabili dai turisti.

La suggestività della location sotto al Monte dei Cappuccini, insieme con l’opportunità di visitare luoghi ormai fantasma, porterebbe senz’altro ad un altro livello il turismo cittadino. Specialmente in una città come Torino che è già abituata a dare spazio a

 

La storia di Superga e l’assedio di Torino del 1706

 

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l’assedio di torino e superga

Vedi “La storia di Superga e l’assedio di Torino del 1706”

Torino era una delle più formidabili piazzeforti d’Europa, difesa con artiglierie modernissime, tra cui i primi cannoni a retrocarica. Dagli alti campanili delle sue chiese un reparto di vedette teneva d’occhio i movimenti dei Francesi.

Le sue mura, come pure le fortezze sui monti furono abbattute da Napoleone, che pensò bene di non lasciarsi alle spalle quelle formidabili opere difensive. Avrebbero potuto resistere tranquillamente all’assedio dell’armata napoleonica, ma la fuga del Re lasciò le forze sabaude nel caos, e la città si arrese senza resistenza, anche perché il sentimento giacobino era molto diffuso.

 

Corazzieri e Minatori: la micidiale guerra sotterranea nelle gallerie della Cittadella

Lo sviluppo della nuova architettura militare dell’epoca moderna, con mura concepite in modo da resistere ai colpi di cannone, e lo sviluppo di reti di fortezze capaci di contenere eserciti in grado di colpire alle spalle il nemico che le superava, rese necessario un progresso della scienza degli assedi, che si trasformarono in una guerra sotterranea di mina e contromina.

Le cronache dell’assedio di Torino del 1706 rendono onore a Pietro Micca, ma esistono episodi dimenticati di eroismo e di sanguinosi combattimenti nelle gallerie. Ecco una pagina dalle cronache dell’Assedio del 1706 scritte dal Conte Solaro della Margarita, generale comandante dell’artiglieria della piazza:

“14 agosto. E’ avvenuto stanotte, sottoterra, un combattimento di enorme rilievo: i nemici sono vicino alla galleria che è al livello del fossato verso l’angolo uscente della Mezzaluna del Soccorso e la stanno per rovinare da un momento all’altro. I nostri minatori fanno brillare un petardo, nel punto dove si sente picchiare e i loro minatori ne sono schiacciati e sepolti. Ma questo petardo apre un buco molto largo, un pozzo tra la galleria della Mezzaluna e quella francese, per il quale i nemici fanno scendere un loro granatiere mediante una corda; appena compare viene ucciso da un colpo di pistola. Il dispetto e la rabbia fanno accanire i nemici su di noi; senza perdere tempo sbarriamo il cunicolo con sacchi di lana; avanzano subito dei granatieri per sostganere il trinceramento; ma ecco un’altra vittima che si fa calar già per cercare la morte e che non manca di trovarla… Quattro granatieri francesi erano stati comandati a questa impresa; essi si trovano in imbarazzo: l’onore li anima e la paura li trattiene: “Qui del vino” dice uno, glielo danno, lo tracanna, si cala in un attimo, ma non è ancora giunto a terra che viene ucciso. Il terzo si va a gettare pure lui nelle braccia della morte e così pure il quarto. I nemici fanno poi scendere un uomo armato da capo a piedi che apre la strada a molti altri che scendono con lui… il fuoco inizia da una parte e dall’altra e sono colpi di pistola, di moschetto, e di granata che rimbombano in quell’antro orribile. Il fumo, il puzzo e l’oscurità rendono terribile proseguire il combattimento. Alla fine, i nostri minatori danno fuoco alla salciccia e fanno saltare i due fornelli che distruggono una batteria nemica, con tutti i loro cannoni e cannonieri, minatori e materiali. Tutto non costituisce più che una massa confusa e coperta di terra.”

LOOK
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Dorso della mano con indice che punta verso destra

Maestà, Torino è imprendibile”. Parola del Maresciallo Vauban.

Sébastien Le Prestre de Vauban è considerato il più grande architetto militare di tutti i tempi. Quando l’esercito francese giunse ad assediare Torino, Luigi XIV lo inviò a studiare le fortificazioni della città. Vauban, per tre giorni studiò le opere difensive di Torino, e il quarto giorno diede il suo inappellabile verdetto: “Maestà, Torino è imprendibile”.

 

“Superga va abbassata di un tiro di schioppo”: mattoni trasportati con la catena delle braccia ed opere straordinarie su una collina remota e popolata dai corvi.

 

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Pochi sanno che all’epoca della costruzione della Basilica (1717-1731) Superga era una collina così ripida e con sentieri così scoscesi che i muli non riuscivano ad arrampircarsi, e i materiali per la costruzione, compresi i mattoni dovevano essere passati con la catena delle braccia.

Altra opera titanica è stato l’abbassamento della cima di ben 300 metri per ricavare l’enorme spianata necessaria per la costruzione, secondi i progetti dello Juvarra.

 

Quello che pochi sanno: Superga era un monte sacro dei Celti.

 

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Nell’Ottocento fu proposto per etimo di Soperga una specie di acrostico: super terga montium, sul dosso de’monti.

Cesare Balbo cominciò ad intravederci un’origine teutonica e propose il zum Berg, al monte.

Alcuni assonantisti credono trovarla nel chaux - berg, pronunziato so-berg a cagione di certe cave di calce, che si trovano ne’fianchi di quella montagna.

Ma la più razionale finora è la etimologia proposta dal Promis, il quale in carta dell’A. 1034 trovò come il monte, su cui nel 18m0 secolo fu poi innalzato il monumento a ricordo della fiaccata prepotenza francese; quel monte si chiamava Mons Iovis, monte di Giove, come difatti tutte le vette cospicue nel mondo romano venivano a quel Dio consecrate. Poi negli ordinati comunali nostri dell’A. 1389 trovò lo stesso monte denominarsi Sarobergia ed in esso una località chiamata Sarra (dove tuttora scorre il torrente Barra), e l’illustre storico della Torino antica pensò che il vocabolo Sarobergìa potesse significare teutonicamente Sarra-berg, cioè il monte di Sarra.

Però, Sar è parola prettamente celtica che vuol dire eccelso, eminente (Ob. Müller), berg è il perg teutonico, elemento di monte.

Parrebbe quindi più corretto dire che i Celti, secondo il loro costante costume, avessero già designata la vetta di Soperga, coll’ aggettivo saro che la qualificava come vetta eminente, e che in seguito i Teutoni vi abbiano aggiunto il loro suffisso Berg, come porta il carattere del loro linguaggio, e che perciò il vocabolo Saro - berg, latinizzato dall’Archivista comunale in Sarobergìa, significherebbe il monte eccelso.

La o finale di saro segna il genere neutro; la r celtica vien tenuta come vocale nell’alfabeto sanscrito, e, come si suol dire, masticata (in fr. grasseyée), quindi il saro fu pronunciato dapprima scio, poi so colla o larga e coll’accento circonflesso; ma i Piemontesi pronunziano la o sempre colla ou provenzale, e così ne risultò che il primitivo Sarobergìa del Promis, divenne prima Saóbergici, poi Soberqia, poi So-perga e finalmente Superga.

 

Le tombe di Superga

 

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La Storia delle Tombe

La cripta, contenente le Tombe Reali di Casa Savoia, viene realizzata nei sotterranei della Basilica di Superga per volere del Re Vittorio Amedeo III, ma il desiderio di avere un mausoleo per i defunti dei Savoia era già nella mente del nonno, Vittorio Amedeo II.

Il progetto, affidato all’architetto Francesco Martinez nel 1774, nipote di Filippo Juvarra, è concluso nel 1778.

La pianta della Cripta si presenta a croce latina allungata e ospita 62 sepolture di Casa Savoia.

Il Chiostro

Progettato da Juvarra con una doppia sequenza di archi, il Chiostro è caratterizzato da un giardino all’italiana, decorato con siepi di bosso che creano un motivo a labirinto. Al centro del giardino è situato il pozzo, arricchito da un tettuccio a forma di pagoda cinese.

La Sala dei Papi

Diventata pinacoteca nel 1876, la Sala dei Papi era in origine il refettorio estivo per i 12 Padri della Reale Congregazione di Superga, istituita da Vittorio Amedeo II.

Ai Padri si deve l’idea di raccogliere le immagini dei Papi, idea ispirata dalla collezione in mosaico presente nella Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma.

La Sala è composta da 265 dipinti che ritraggono i Papi canonicamente eletti: sulla parete principale, in basso al centro, è situato il ritratto dell’attuale Papa, Francesco.

Una scalinata in marmo conduce al corridoio del mausoleo.

Alla fine dello scalone, come guardiano a difesa delle tombe, è posta la scultura in marmo di Carrara dell’Arcangelo Michele in atto di sconfiggere il demonio.

Superato lo scalone, percorrendo il breve corridoio, si entra nella Cripta.

Le Tombe Reali

Il progetto per la costruzione delle Tombe Reali viene affidato – nel 1774 – all’architetto Francesco Martinez dal Re Vittorio Amedeo II.

Formato da una croce latina allungata, il mausoleo ospita al centro il Sarcofago dei Re, monumento funebre riservato alle spoglie dell’ultimo Re di Sardegna, mentre nei due bracci laterali si possono ammirare la Sala degli Infanti e la Sala delle Regine.

Lungo le pareti della Cripta sono presenti importanti monumenti funebri in memoria di celebri personaggi di Casa Savoia.

Nel braccio sinistro osserviamo il monumento Funebre dedicato a Vittorio Amedeo II, fondatore della Basilica di Superga e Duca di Savoia, che otterrà il titolo di “Re di Sardegna”.

Poco distante troviamo il Monumento Funebre del principe Ferdinando di Savoia, Duca di Genova e padre della Prima Regina d’Italia, Margherita.

Lungo il braccio destro possiamo notare la scultura commemorativa dedicata a Carlo Emanuele III, secondo Re di Sardegna, con il bassorilievo che rappresenta la battaglia di Guastalla del 1734.

Il Sarcofago dei Re

Dal 1849 il Sarcofago dei Re custodisce la Salma di Carlo Alberto, VII Re di Sardegna, famoso per aver concesso nel 1848 lo “Statuto Albertino”, che trasforma di fatto il Regno di Sardegna in Monarchia Costituzionale.

Il Sarcofago, su disegno dell’architetto Martinez, è realizzato in onice di Busca, con quattro puttini in marmo bianco su due lati, opera dei fratelli Ignazio e Filippo Collino. Degli stessi artisti sono anche le quattro statue in marmo bianco collocate nelle nicchie laterali, che rappresentano la Fede, la Clemenza, la Carità e la Scienza.

Dietro il sarcofago è posto l’Altare della Pietà, opera di Agostino Cornacchini di Pistoia, realizzato in marmo bianco di Carrara.

La Sala degli infanti

Era destinata a ospitare le salme dei principi sabaudi morti in tenera età. Attualmente sono conservati i resti di 14 bambini e 9 adulti, tra cui la principessa Maria Clotilde di Savoia, la “Santa di Moncalieri”, donna profondamente devota e moglie di Gerolamo Bonaparte, sepolto accanto a lei.

La Sala delle Regine

Accoglie le salme delle Regine sabaude ed è abbellita con diverse opere scultoree in marmo bianco.

Di particolare interesse è il monumento funebre di Maria Teresa di Toscana – Asburgo, moglie di Carlo Alberto, realizzato da Sante Varni come personificazione della Carità.

Non lontano possiamo ammirare il monumento funebre che ritrae la Regina Maria Adelaide d’Asburgo, prima moglie di Re Vittorio Emanuele II. La Regina, indebolita da numerose gravidanze, morì a soli 33 anni di tifo. Benché moglie del Re d’Italia, non divenne mai Regina, perché scomparsa prima del 1861.

Sopra l’urna è presente una nicchia dove, nel 1879, lo scultore Pietro della Vedova realizza un drappeggio marmoreo finemente lavorato.

Per concludere, osserviamo il monumento funebre di Maria Vittoria dal Pozzo, moglie del Primo Duca d’Aosta, Amedeo Ferdinando, Sovrano di Spagna.

Maria Vittoria si dedicò molto al prossimo, ma soprattutto si occupò delle donne più povere dell’epoca, le lavandaie che, alla sua morte, inviarono corone di fiori di seta realizzate con le loro mani, ancora oggi conservate nella teca.

 

Il disastro di Superga

 

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La tragedia di Superga fu un incidente aereo avvenuto il 4 maggio 1949. Alle ore 17:03, il Fiat G.212 della compagnia aerea ALI, siglato I-ELCE, con a bordo l'intera squadra del Grande Torino, si schiantò contro il muraglione del terrapieno posteriore della basilica di Superga, che sorge sulla collina torinese; le vittime furono 31.

L'aereo stava riportando a casa la squadra da Lisbona, dove aveva disputato una partita amichevole contro il Benfica. Nell'incidente perse la vita l'intera squadra e che costituiva la quasi totalità della Nazionale italiana. Nell'incidente morirono anche i dirigenti, gli accompagnatori, l'equipaggio e tre noti giornalisti sportivi italiani: Renato Casalbore (fondatore di Tuttosport); Renato Tosatti (della Gazzetta del Popolo, padre di Giorgio Tosatti) e Luigi Cavallero (La Nuova Stampa).

Il trimotore Fiat G.212, con marche I-ELCE, delle Avio Linee Italiane, decolla dall'aeroporto di Lisbona alle 9:40 di mercoledì 4 maggio 1949. Comandante del velivolo è il tenente colonnello Meroni. Dopo un atterraggio a Barcellona, Alle 14:50 l'I-ELCE decolla con destinazione l'aeroporto di Torino. Il tempo su Torino è pessimo. Alle 16:55 l'aeroporto comunica ai piloti la situazione meteo: nubi quasi a contatto col suolo, rovesci di pioggia, forte libeccio con raffiche, visibilità orizzontale scarsissima (40 metri).

La torre chiede anche un riporto di posizione. Dopo qualche minuto di silenzio alle 16:59 arriva la risposta: "Quota 2.000 metri. QDM su Pino, poi tagliamo su Superga".Giunti sulla perpendicolare di Pino, mettendo 290 gradi di prua ci si trova allineati con la pista dell'Aeritalia, a circa 9 chilometri di distanza, a 305 metri di altitudine. Poco più a nord di Pino Torinese c'è il colle di Superga con l'omonima basilica, in posizione dominante a 669 metri di altitudine. Si ipotizzò che - a causa del forte vento al traverso sinistro - l'aereo nel corso della virata potesse aver subìto una deriva verso dritta, che lo spostò dall'asse di discesa e lo allineò, invece che con la pista, con la collina di Superga; a seguito di recenti indagini è emersa la possibilità che l'altimetro si fosse bloccato sui 2.000 metri e quindi inducesse i piloti a credere di essere a tale quota, mentre erano a soli 600 metri dal suolo.

Alle ore 17:03 l'aereo con il Grande Torino a bordo, eseguita la virata verso sinistra, messo in volo orizzontale e allineato per prepararsi all'atterraggio, si va invece a schiantare contro il terrapieno posteriore della basilica di Superga. Il pilota, che credeva di avere la collina di Superga alla sua destra, se la vede invece sbucare davanti all'improvviso (velocità 180 km/h, visibilità 40 metri) e non ha il tempo per fare nulla: non si ravvisano infatti, dalla disposizione dei rottami, tentativi di riattaccata o virata. L'unica parte del velivolo rimasta parzialmente intatta è l'impennaggio.

Alle 17:05 Aeritalia Torre chiama I-ELCE, non ricevendo alcuna risposta. Delle 31 persone a bordo non si salvò nessuno.

I funerali delle vittime si svolsero il 6 maggio presso il Duomo di Torino e videro un'imponente partecipazione popolare: oltre 600.000 persone si riversarono infatti per le strade del capoluogo sabaudo a salutare per l’ultima volta i calciatori. Tra i presenti anche Giulio Andreotti, in rappresentanza del Governo, e Ottorino Barassi, presidente della FIGC. La camera ardente si tenne a Palazzo Madama, ex residenza reale situata nella centralissima piazza Castello. Vittorio Veltroni, redattore capo cronache della Rai, effettuò la radiocronaca in diretta delle esequie della squadra.

 

Il trenino a cremagliera Sassi-Superga

 

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La linea Sassi-Superga è lunga circa 3,1 Km, supera un dislivello di 425 metri con una pendenza media del 13,5% e punte massime del 21% nel tratto finale. E' una linea a binario unico, tranne per un breve tratto (circa 35 metri a metà del percorso) dove è presente un raddoppio per permettere l'incrocio a due convogli (uno in salita ed uno in discesa).

Il primo impianto è datato 1884 e prevedeva una funicolare mossa tramite un ingegnoso sistema di cavi d'acciaio (detto, dal suo creatore, "Agudio") che scorrevano, su pulegge poste lungo il percorso, parallelamente al binario. Fu sostituito nel 1934 da quello attuale, composto da un binario tradizionale affiancato da una terza rotaia per la presa di corrente e da una cremagliera centrale di tipo Strub, detta comunemente "dentiera", che permette la salita.

Il tracciato è caratterizzato da tre ponti e due gallerie. Il punto di raddoppio della linea è contiguo alla strada per Superga tanto che è stato possibile realizzare una fermata con accessi separati per i due binari. Altre due fermate, chiamate "Prima Galleria" e "Pian Gambino", completano il percorso. Tutte le fermate sono facoltative e per poterne usufruire occorre informare il capotreno prima della partenza del convoglio. Chi intende salire, invece, deve utilizzare gli appositi cartelli o bandiere che permettono a chi è sul treno di vedere se qualcuno è in fermata, dato che si può accedere alla banchina solo in presenza di personale Gtt che apre i cancelli chiusi a chiave.

La fermata della prima galleria è posta poco oltre il primo tunnel, a 800 metri dalla stazione Sassi. Si trova all'altezza del civico 45 della strada Comunale di Soperga. All'altezza di questa fermata è presente il "primo casello", costruzione un tempo abitata dal guardiano della fermata.

Il raddoppio è posto a metà della linea, a 1500 metri dalla stazione Sassi. E' l'unica fermata dotata di due binari e doppio accesso dalla strada.

La fermata di "Pian Gambino" è situata a 2300 metri da Sassi. E' l'ultima fermata istituita in ordine cronologico ed è l'unica situata a fianco del piano stradale.

 

La Villa della Regina

 

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La Villa della Regina, la splendida villa seicentesca è stata per secoli la residenza di molte sovrane sabaude, a partire dalla moglie di Maurizio di Savoia, Ludovica. Proprio alle sue illustri padrone di casa deve oggi il suo nome.

La villa è situata sulla Collina di Torino e fu proprio Maurizio di Savoia, fratello di Amedeo I, a volerne la realizzazione, affidando nel 1615 il progetto all’architetto Ascanio Vitozzi e, dopo la morte di quest’ultimo, a Carlo e Amedeo di Castellamonte. Secondo il progetto originale, la villa avrebbe dovuto assumere le sembianze di una sontuosa residenza di campagna, con tanto di vigneti.

Il primo nome della villa fu “Villa Ludovica”, proprio perché divenne la residenza personale di Ludovica di Savoia. Nella villa, Maurizio di Savoia era solito organizzare riunioni di accademici e di intellettuali, durante le quali si discuteva, nei molteplici salotti presenti nell’edificio, di arte, scienza, filosofia e matematica.

Dopo la morte di Ludovica di Savoia, nel 1692, il complesso divenne la residenza della regina Anna Maria di Orléans, moglie di Vittorio Amedeo II, che amava trascorrere il proprio tempo nella villa, soprattutto per seguire l’educazione dei figli.

Vittorio Emanuele II nel 1868 donò la residenza all’Istituto per le Figlie dei Militari. Purtroppo, il complesso fu pesantemente danneggiato durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e in seguito cadde in stato di abbandono. Bisognerà attendere il 1994, anno in cui la villa diviene proprietà dei beni artistici dello Stato, per far sì che abbia inizio il progetto di recupero e restauro dell’edificio.

Oggi il complesso della villa è visitabile e, all’interno dell’affascinante edificio seicentesco in stile barocco, possono essere ammirate numerose tele di artisti come Daniel Seiter e Giovanni Battista Crostato. Di particolare bellezza sono gli splendidi gabinetti cinesi in legno laccato e dorato che si trovano al suo interno.

Sul retro dell’edificio si trova un giardino all’italiana, a forma di anfiteatro, in cui è situato il padiglione dei Solinghi, una costruzione a due piani a forma di pagoda in cui si riuniva l’Accademia dei Solinghi, circolo di intellettuali fondato proprio da Maurizio di Savoia.

 

Il Gineceo delle Figlie dei Militari a Villa Regina

 

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Dalla fondazione alla Seconda Guerra Mondiale

L’Istituto, fondato nel 1866 per iniziativa della Marchesa Maria Luisa del Carretto di Santa Giulia con il contributo di Vittorio Emanuele II (1820-1878), è un collegio inizialmente riservato alle orfane di guerra e alle figlie di invalidi e decorati al valore. Nasce all’indomani dell’Unità per accogliere le figlie dei militari che hanno partecipato alla sua costruzione, provenienti da tutte le regioni del nuovo Stato. Nel 1868, in attesa del completamento della sistemazione della Villa Della Regina, donata da Vittorio Emanuele II, avviene l’inaugurazione ufficiale nell’ex convento delle Cappuccine oggi scomparso, in Via Roma 28 angolo via dell’ Arcivescovado. Nel 1869 viene inaugurata la sede principale alla Villa della Regina, e nel 1873, dopo l’accorpamento del settecentesco Ritiro per le figlie dei Militari di via San Domenico 32, viene attuata una riorganizzazione generale con le 3 sedi ben distinte per ordinamento di studi. Nella prima, quella inaugurata nel 1868 nella centrale Via Roma l’Istruzione Professionale; nell’edificio di proprietà dell’ex Ritiro per le Figlie dei Militari di via San Domenico 32, la Scuola Magistrale perfettamente conformata alle scuole normali governative e alla Villa della Regina un corso di studi “integrato” con le materie base delle scuole Complementari e Normali più musica, canto, pittura e lingue “a completamento” del percorso educativo. Nel 1888 l’Istituto si dota di una nuova sede, in via Figlie dei Militari 25, opera dell’architetto Giovanni Angelo Reycend (1843-1925) dove vengono trasferite le allieve delle due sedi in centro città, ritenute non più idonee per uso scolastico e le due ali del grande edificio vengono destinate alle sezioni professionale e magistrale. Successivamente la sezione professionale sarà integrata con l’istituzione di una Scuola tecnica commerciale. Nel corso degli anni Venti e Trenta, per adeguarsi ai cambiamenti economici e a quelli della legislazione scolastica, le sezioni vengono completamente riformate: la professionale istituisce un corso completo di studi tecnici, la magistrale viene parificata e alla Villa della Regina apre il ginnasio-liceo classico.

Dalla Seconda Guerra Mondiale alla soppressione dell’ente

Gli eventi bellici della seconda guerra mondiale interrompono la fiorente vita dell’Istituto. La sede di via Figlie dei Militari nell’estate del 1940 viene temporaneamente requisita come ospedale militare; le allieve di entrambe le sedi sono poi costrette a sfollare a causa dei bombardamenti. Alla riapertura, nell’autunno 1945 l’operato dell’ente viene ridimensionato. Le varie sezioni vengono gradualmente soppresse: privato di Villa della Regina (il cui restauro è stato ultimato solo nel 2006) e costretto ad affittare, per motivi economici, parte della propria sede ad altre scuole bisognose di locali, l’Istituto, ridotte anche le funzioni di convitto, limita le proprie funzioni scolastiche alla scuola media, vedendo gradualmente ridursi il numero delle allieve. Nel 1965 sorge l’associazione ex allieve dell’Istituto. Le difficoltà non cessano nei decenni a seguire: l’Istituto, ormai sopravvissuto a se stesso, cede in affitto a partire dal 1978 le proprie proprietà immobiliari al Comune di Torino, e nel 1982, in seguito al lungo processo di riforma delle Ipab, viene soppresso con delibera regionale.

 

Il Santuario (non Chiesa!) della Madonna del Pilone: una Lourdes italiana

 

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la storia

Il Santuario della Madonna del Pilone è situata in Torino nell'omonimo quartiere - Madonna del Pilone - sulle sponde del Po lungo corso Casale ed ai piedi della collina torinese.

Molti la chiamano “Chiesa”, ma in realtà è un “Santuario”, perché pochi sanno che Torino ebbe la sua minuscola Lourdes, un borgo sorto non a servizio di gabellieri, di soldati, di commercianti, bensì di pellegrini. E siccome mi è assai cara la città di Bernadette, tra le cose che più mi sono care a Torino c'è anche quest'angolo, pur se lambito dal traffico infernale di corso Casale che, fra l'altro, è ostacolato, qui, dalla strettoia delle antiche case, anzi casette, spesso poco più che catapecchie.

Naturalmente, sui miracoli ciascuno la pensa come crede (o come non crede), anche se, pure qui, troppi dottoreggiano senza informarsi: sta di fatto che, di quanto avvenuto in questo luogo, abbiamo rendiconti notarili immediati, processi scrupolosi, una miriade di testimonianze. Siamo alle solite: spesso gli eventi prodigiosi sono attestati con una mole di documenti assai superiore a quella che certifica ogni altro della storia. Eppure, a questi si da credito, ai miracoli no. Sta di fatto che non è basata sul nulla o su voci vaghe o superstiziose la devozione verso il luogo di Casa Savoia (i soldi per costruire il santuario vennero in gran parte da Madama Cristina, e poi dai sovrani che seguirono) e il culto fervorosissimo del popolo, continuato per almeno tre secoli.

In sostanza: qui c'era uno dei molti «mulini delle catene», un pontone, cioè, fluttuante sulle acque ma ancorato alla riva, sulla quale si trovava quel "piloùn" - un tabernacolo, un'edicola, una santella - con l'immagine della Madonna Annunciata che si vede ancora sull'altar maggiore. O, almeno, spero che si veda ancora, sono anni che non vi entro e so che nel frattempo c'è stata un'alluvione. Margherita, la moglie di un "monsù" Alessandro Molar, calzolaio, venne qui, il 29 aprile 1644, con un sacco di grano da macinare e con una sua figlia di undici anni che, scivolata dalla passerella, cadde nell'acqua. Fu agganciata dalla grande ruota del mulino che le fece fare tre giri completi e poi la rigettò in mezzo al fiume, in piena per le piogge primaverili. Disperata, Margherita si aggrappò, urlando misericordia, al pilone devozionale. E a questo punto - stando al racconto concorde, certificato dai notai, dei molti testimoni - si vide l'immagine della Vergine, che, materializzatasi, scendeva dalla santella, camminava sulla corrente, dava la mano alla ragazzina che annaspava, la sollevava e la teneva in piedi accanto a lei, fino a quando non arrivò la barchetta del mugnaio.

La devozione fu subito tale da creare un flusso ininterrotto di pellegrini: i torinesi giungevano nei giorni di festa, anche perché il luogo era ideale per una scampagnata. Vi accorrevano in massa soprattutto a settembre, per la festa del Nome di Maria. Ho incontrato molti anziani che ricordavano, nostalgici, quelle grandi processioni, a parrocchie intere, cantando dietro gli stendardi delle confraternite. Il tram vi fece poi capolinea, vi fu una fermata del trenino a vapore per San Mauro e Gassino e, sempre qui (presso il celebre ristorante «Muletto», il sogno, almeno ai miei tempi, di ogni ghiottone), si affittavano i muli, appunto, per salire a Superga. I mezzi pubblici non mancarono, dunque, e favorirono ancor più il pellegrinaggio e una sorta di povero, embrionale «turismo religioso». Ma molti pellegrini venivano da tutto il Piemonte. Se penso che questo luogo, toccato dal mistero mariano, era il punto d'arrivo delle solitarie passeggiate di Nietzsche, durante le quali ruminava sulla morte di Dio e sulla miseria del cristianesimo! Ed era, questo, come sai, anche il posto dove abitava Emilio Salgari che da qui partì per suicidarsi, proprio nei giorni più solenni e festosi per Torino, quelli dell'inaugurazione della favolosa esposizione dell'11.

Comunque, le casette ancor oggi affiancate o prospicienti il santuario sorsero a servizio di quei fedeli, per fornire loro cibo, alloggio, stalle, oggetti devoti: come dicevo, una minuscola Lourdes alle porte della Capitale. Salgari fissò qui il suo laboratorio fantastico e la sua misera famiglia non, come fanno ora molti di coloro che ci abitano, perché il sito è pittoresco, ma perché quelle casupole al di fuori della cinta daziaria, umide e spesso allagate, avevano gli affitti più bassi della città e gli alimentari costavano meno, non dovendosi pagare la gabella.

l’edificio

Il pilone che ha dato il nome alla Chiesa della Madonna del Pilone non esite più, ma all’ interno della chiesa rimane l’affresco che rappresenta la Beata Vergine Maria con l’Arcangelo Gabriele nell’atto dell’Annunciazione: i restauri novecenteschi lo hanno però un po’ alterato.

Il pilone originario sorgeva nei pressi dei molini delle catene sulla riva destra del Po. Edificato nel 1587 era un luogo di preghiera per i passanti e per gli abitanti della zona. Un anno dopo il miracolo Per ringraziare la beata Vergine i fedeli fecero costruire costruire una piccola cappella che inglobava al suo interno il capitello votivo. Un anno più tardi, grazie all’intervento della Madama Reale Maria Cristina di Borbone Francia, la cappella fu trasformata nell’attuale chiesa; ampliata nel 1779 fu dotata di battistero nel 1807, anno in cui divenne parrocchia.

La chiesa della Madonna del Pilone è a navata unica con due cappelle laterali dedicate a San Giuseppe, a destra, e a San Giovanni decollato a sinistra. Dietro l’altare maggiore, incastonato tra due colonne in marmo l’affresco dell’annunciazione, più in alto quattro puttini, anch’essi in marmo, incorniciano lo stemma sabaudo.

La cupola ottagonale è stata decorata da Bartolomeo Guidobono, gli stucchi che impreziosiscono tutta la chiesa sono di Giovanni Andrea Casella, mentre le decorazioni del battistero originariamente erano di Luigi Vacca.

La semplice facciata è caratterizzata da un timpano ad arco con al centro un affresco, anch’esso rappresentante l’annunciazione.

L’affresco della Madonna posto dietro l’altare maggiore, a ricordo del miracolo, è ancora oggi meta di devoti pellegrini oltre che per gli abitanti del borgo Madonna del Pilone.

 

L’Eremo dei Camaldolesi

 

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L'eremo dei Camaldolesi è un ex convento risalente al XVI secolo ed eretto sul versante orientale di una delle colline che sovrastano il Po sulla sua destra orografica sopra la città di Torino; si trova nel territorio comunale di Pecetto Torinese.

Il duca Carlo Emanuele I di Savoia aveva fatto un voto nel 1559: «...se l'epidemia di peste cesserà realizzerò un grande convento, composto da numerosi edifici». Nel 1601 assieme al suo consigliere spirituale, padre Alessandro dei Marchesi di Ceva, e all'architetto Ascanio Vitozzi, mantenne la sua promessa e diede il via ai lavori, proprio in località Monveglio, laddove sarebbe sorto l'Eremo dei Camaldolesi. Cinque anni dopo, nel 1606 in quel luogo sorse il maestoso edificio immerso in un parco ricco di pini, cipressi e cedri. Questo convento fu l'impresa edilizia più importante di Carlo Emanuele I. Per ogni eremita l'architetto aveva previsto una casetta indipendente con un pozzo interno, una cella, un oratorio e un piccolissimo orto. Una chiesa bianca dominava le celle. Nei due secoli di vita del monastero vennero concentrate, oltre ad una ricca biblioteca, diverse opere di artisti: Beaumont, Bernero, Cignaroli, i fratelli Pozzo, per non citarne che alcuni. Ma la diaspora artistica iniziò prima dello smantellamento ufficiale del convento che fu deciso nel 1801 dalla commissione esecutiva del Piemonte. La soppressione, che avvenne contemporaneamente a quella degli eremi di Cherasco e Busca era necessaria per motivi finanziari: il governo francese all'epoca non era in grado di mantenere la dotazione annua di 13.125 Lire. L'eremo rimase deserto per otto anni, fu oggetto di ripetuti saccheggi, finché nel 1809 fu messo all'asta ed acquistato dal banchiere Ranieri. Il monastero, ridotto a condizioni pietose, ritornò alla curia nel 1874, per essere adibito a sede estiva del Seminario. I lavori di ristrutturazione fecero perdere completamente la fisionomia delle antiche vestigia. Oggi i resti della proprietà sono stati demoliti e al suo posto sorge un edificio che ospita una sezione dell'Ospedale Maggiore di Torino. Le uniche testimonianze dello splendore del passato sono il campanile e la cappella dell'Ordine dell'Annunziata.

 

La fontana dell’Eremo dei Camaldolesi

 

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Non c’è niente di magico nell’obelisco situato nel piazzale difronte all’Eremo dei Camaldolesi e a poche centinaia di metri dai ripetitori della Rai. Si tratta della Fontana dell’Eremo, purtroppo in disuso da decine d’anni, abbandonata a se stessa e da alcuni, per fortuna pochi, spacciata come simulacro, non ben spiegato, legato alla Torino Magica che spesso non risponde alla semplice curiosità di sapere cos’è quello o cos’è quell’altro.

Oggi, guardandola si rimane indifferenti e senza risposte, scritte imbrattano la sua superficie, il tempo la sta consumando e il compito più nobile che ricopre è quello di far compagnia a chi, vicino a lei, aspetta l’arrivo dell’autobus diretto verso Torino.

Il suo scopo però era ben altro, lasciare ai posteri il ricordo di una grande conquista che oggi a molti farebbe ridere: il municipio di Torino aveva portato l’acqua al di sopra dei 400 metri della collina Torinese, luogo che non era mai stata troppo generoso nel dispensare acqua.

Da decenni esisteva il problema dell’approvvigionamento dell’acqua in una zona che, nel dopoguerra, si configurava ideale per lo sviluppo residenziale e per le gite dei Torinesi che, grazie alla diffusione dell’automobile, guardavano alla collina come luogo di distrazione dalla sempre più caotica ed industriale Città di Torino.

Erano gli anni in cui l’Azienda Acquedotto Municipale, dopo la sensata concentrazione della gestione delle acque alla cosa pubblica, aveva il dovere di portare l’acqua dove non c’era, per rispondere alle necessità reali dei suoi cittadini, e dove avrebbe potuto arrivare per favorire lo sviluppo della città.

Nasce così l’ esigenza di costruire l’acquedotto sull’Eremo, un ambiziosa opera che, senza discostarsi dal preventivo originale di 50 milioni di lire, consisteva in lunghe tubature, una stazione di pompaggio con una adiacente vasca, una seconda vasca di compensazione in cima al colle e la Fontana dell’Eremo a ricordo dell’allora più grande opera costruita per le necessità idriche della collina torinese.

La Fontana dell’Eremo, opera di Mario Dezzuti, fu inaugurata in pompa magna il 30 maggio 1955 con una cerimonia che vide la partecipazione delle autorità cittadine, dell’ingegnere autore dell’opera Salvatore Chiaudiano, del presidente dell’Acquedotto Municipale, del Sindaco di Torino Peyron, dei soliti ministri presenti ad ogni cerimonia importante e del Cardinale Fossati che benedì la Fontana.

Nessuno però sapeva che questo piccolo monumento a forma di fontana sarebbe finito nel dimenticatoio nonostante le pure e buone intenzioni.

Gli applausi, le strette di mano e i reciproci complimenti festeggiavano un’opera importante e una fontana che avrebbe dovuto dare conforto e ristoro ai viandanti che si sarebbero trovati in cima al Colle dell’Eremo durante le loro gite domenicali o di ritorno verso casa.

 

La Villa del delitto: Villa Centocroci a Pino Torinese

 

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A Pino Torinese, comune della città metropolitana di Torino, più precisamente nella frazione Centocroci, nella via Centocroci, che prende il nome dalla nobile famiglia Fiora di Centocroci, al numero quattordici della via, tra alberi e una fitta vegetazione, appare un’antica villa, fatta costruire nel 1888 da Giovanni Centocroci, professore all’Accademia militare di Torino. Il giardino fu disegnato invece dall’architetto Carlo Ceppi.

Nei suoi centotrent’anni di esistenza, Villa Centocroci si è costruita una sinistra fama. Eretta su un luogo sacro, segnalato da un antico pilone tuttora presente, la Villa fu il teatro, nell’estate del 1910, della morte violenta dei due proprietari, Giovanni Fiora di Centocroci, il primo proprietario, e sua sorella Benvenuta.

Nel pomeriggio essi erano usciti; poi, quando rientrarono nella casetta ove non c’era servitù che li attendesse, vennero barbaramente assassinati da qualcuno penetrato, sembra, nella villetta durante la loro assenza. All’indomani i loro corpi furono trovati sgozzati in una stanza a terreno, presso l’ingresso, con gli abiti della passeggiata ancora addosso. Gli assassini avevano fatto strazio dei due poveretti. Tutti i cassetti dei mobili erano stati aperti a forza e frugati: segno evidente che lo scopo del duplice assassinio fu il furto. Il generale Vittorio Fiora, fratello delle due vittime è assai vecchio anche lui e vive a Torino. Gli assassini non anche vennero scoperti.

I cadaveri furono trovati dal contadino, che mentre attraversava il giardino in cerca di legna, aveva visto la porta della Villa aperta ed era entrato al piano terreno. Prima ha visto la giacca elegante del Maestro per terra, poi il berretto di lana con il pon pon appoggiato sul tavolo. Sembrava un viaggiatore addormentato, ma era strano. Stava appoggiato sul fianco sinistro, offrendosi per intero alla vista di chi arrivava. Era in un bagno di sangue, la testa mutilata, straziata da chissà quanti colpi.

Il contadino pare abbia vomitato sul vecchio ed andato a cercare mio nonno Battista, l’unico familiare che si trovava quell’estate in zona.

Poi arrivarono i carabinieri. Trovarono morta anche la sorella del Maestro. In quella stanza che hai provato ad aprire stanotte, lì c’era Giovanni, ucciso mentre leggeva. I parenti coprirono le macchie sul pavimento con la paglia. Da cent’anni nessuno più entra in quella stanza, adibita a magazzino e deposito attrezzi dai giardinieri della villa.

Al cimitero di Pino. La lastra centrale tra Giovanni e sua sorella Benvenuta porta l’iscrizione “morti assassinati”. Non ci va mai nessuno, nessuno vuole vedere quella tomba e quella scritta.

All’epoca, nell’estate del 1910, il duplice assassinio colpì per l’efferatezza e per l’importanza dei due uccisi, vicini a Casa Savoia. Ne parlò anche la Domenica del Corriere, famosa per le tavole disegnate da Achille Beltrame.

 

Templari sulla Collina di Torino

 

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Un mistero tira l’altro a Torino, che sia questo alimentato da prove certe o da semplici leggende. Fino a poco tempo fa la presenza storica dell’ordine templare nel capoluogo piemontese era più che altro una diceria.

La famosa storia del calice della statua della Fede, che si diceva indicasse la via verso il Santo Graal, oggi è accompagnata veri ritrovamenti archeologici che constatano l’effettiva presenza sul territorio dei monaci guerrieri. A cambiare le carte in tavola sono stati alcuni ritrovamenti archeologici ed uno studio durato diversi anni, che hanno comprovato l’esistenza templare in un presidio fortificato, sito sull’attuale Monte dei Cappuccini tra il 1204 e il 1314.

Lo scopo dei cavalieri all’epoca era quello di sorvegliare un ponte di legno che collegava le due rive del Po e che veniva giornalmente attraversato dai pellegrini diretti a Roma, oltre al controllare la navigazione fluviale dell’area.

Le nuove prove oggetto di studi sono state il rinvenimento del 1992 di un corredo funebre, composto da un cucchiaio in rame e un piatto con le insegne dell’Ordine ed un bacile decorato dal simbolo templare del nodo di Salomone nella zona del «Bastiglione Est» del Monte.

Già in quello stesso luogo nel 1943 era venuto alla luce uno scheletro, attribuibile ad un notabile templare, raccolto in periodo bellico e poi depositato nell’ossario del Monte.

Le ossa erano state trovate casualmente da un frate che stava coltivando l’orto, cosicché si esumò l’intero corpo, ma non si proseguì con gli scavi.

A confermare le numerose fonti d’archivio dell’Ordine dei templari a Torino è stato un gruppo di ricercatori, studiosi ed archeologi composto da frate Luca Isella, storico cappuccino, Mauro Lanza, che diresse i restauri all’edificio tra il ’92 e il ‘95, l’antropologo Renato Grilletto e Carla Amoretti, figlia del generale Amoretti che iniziò le indagini.

La cordata di archeologi si spinge persino ad ipotizzare l’identità del feretro, che sarebbe riconducibile a frate Ogerio, che nel 1276 era responsabile della precettoria templare torinese.

Le voci sono divenute quindi realtà ed è confermato che i monaci guerrieri vennero chiamati a Torino dal Vescovo verso il 1148.

Questi avevano proprietà nell’attuale zona Vanchiglia e in collina, ma la loro residenza cittadina si trovava attorno al 1203 nella “Porta Marmoream”, giusto fuori la cinta muraria, ricollocabile oggi tra via Principe Amedeo e via Po.

La notizia è stata comunicata solo ora dopo vent’anni poiché sono conclusi gli studi che daranno vita ad un volume che tratterà i templari torinesi ed in cui si parlerà anche di Frater Ogerius.

Ad un interrogativo risolto se ne contrappone uno nuovo: i resti rivenuti sono davvero di Ogerio?

La sepoltura individuale, dietro la antica chiesa di Santa Maria, indica un personaggio importante. Il corpo è stato inumato senza vestiti e cucito nel sudario, come imponeva il voto di povertà templare, ma alcuni dubbi sono però alimentati dal corredo alquanto povero.

Che vi siano altri oggetti sepolti che non hanno ancora visto la luce?

 

fonti:

https://mole24.it/2013/02/15/i-templari-a-torino/