A  L   E  P  H


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«Sta per morire» dice l'infermiera. E' lei che ha suonato il campanello per chiamare il dottore.

Il medico visita l'uomo nel letto. I colpi affannati del cuore, il sibilo del respiro irregolare gli dicono tutto quello che c'è da sapere. Rimette lo stetoscopio nella tasca.

«Chiamate i familiari» dice.

Sono diciotto anni che l'uomo nel letto vive confinato in quella stanza e ne esce molto raramente. Il termometro sul comodino, i medicinali sul tavolino a destra della porta, con un piccolo vaso di fiori vizzi. L'odore di alcool e di disinfettante per pavimenti. Niente è mutato per tutto quel tempo. Il calendario sulla parete di fronte al letto segna ancora la Domenica precedente, il 13 agosto 1915.

L'infermiera è ritornata. Il medico non è uscito dalla stanza. «Non soffre. Pare sereno» dice lei.

«E' vero», risponde il dottore. «Alcuni sono ostinati, attaccati alla vita. Sembrano soffrire e fanno smorfie anche in stato di incoscienza. Altri sembrano semplicemente ansiosi di lasciarsi tutto alle spalle e di procedere oltre».

«E' vero che è un grande matematico?» chiede la donna. «Le confesso: ho guardato i suoi fogli, mentre riordinavo la stanza, e ho cercato di capirli, ma mi sono subito scoraggiata: chi può intendere quelle espressioni difficilissime?»

«Sì» dice il dottore, «è un grande matematico. C'è chi dice che sia il più geniale della sua epoca».

E dentro di sé si meraviglia, esattamente come la prima volta, che uomini straordinariamente differenti per capacità, carattere, inclinazioni, abbiano il medesimo corpo, che funziona alla stesso modo, soggetto agli stessi identici mali, che orina la stessa orina, che suda lo stesso sudore, che espelle gli stessi identici rifiuti.

L'uomo si agita inquieto nel letto. Medico e infermiera si voltano verso di lui.

«Sta dicendo qualcosa.» L'infermiera si china per leggere le labbra che si muovono senza suono. Dopo pochi istanti si raddrizza, staccandosi dal letto. «E' morto, dottore».

«Cosa ha detto?» chiede il medico.

L'infermiera lo guarda: «Una sola parola. L'ha ripetuta diverse volte: Verzeihen».

«Perdonare» mormora il medico. «Credo di capire»

 

 

   ∼∼∼   

 

 

L'albergo è il tipico edificio di una località di villeggiatura inglese della costa Est, costruito negli anni '40. Mura solide, pavimenti di legno che scricchiolano sotto i passi, linoleum.

Ma c'è qualcosa di molto insolito nella sua architettura. Le pareti sembrano incontrarsi ad angoli bizzarri, uno strano ordine governa la disposizione delle stanze.

Ha corridoi interminabili, di cui non si scorge la fine. In ciascun corridoio infinite stanze. Di fronte a ciascuna stanza un altro corridoio conduce ad altre infinite porte. C'è un che di inquietante nella implacabile e assoluta simmetria di quella architettura chiaramente impossibile.

Un chiarore fioco illumina i corridoi. L'uomo ispeziona i numeri posti sulle porte con grande attenzione. Ritorna più volte sui suoi passi.

Imbocca un corridoio che non si ricorda di aver percorso. Procede lentamente, i minuti sembrano interminabili. Giunto di fronte ad una delle stanze, guarda il simbolo che vi è tracciato.

Appare profondamente emozionato.

Sono passati cinquant'anni dal momento in cui ha messo piede nel labirinto dei numeri infiniti.

Bussa alla porta.

 

 

    ∼∼∼   

 

 

Il visitatore attende qualche secondo, poi apre. Un uomo di trentacinque anni e una ragazzina di quattordici sono seduti al tavolo al centro della stanza. Alzano gli occhi al suo ingresso ma non si muovono. Il visitatore saluta educatamente.

«Ricordate i vostri nomi?» dice. «Vi chiamate Lucius e Leonore. Posso entrare?»

 

 

    ∼∼∼   

 

 

L'uomo si è seduto con loro. Ha inforcato un antiquato paio di pince-nez. «Sapete dove vi trovate?» chiede

Guarda l'altro. «Immagino, Lucius, che mi risponderai che siamo nell'Asquith Hotel, presso l'estuario di Ipswich, e che è in corso la stagione balneare».

«E' proprio così» dice Lucius

«Perché non provi ad uscire nel corridoio?» gli suggerisce l'uomo.

Lucius esce. Dopo parecchi minuti rientra, perplesso. «Questi non sono i corridoi dell'Asquith, sono interminabili. Non sono riuscito neanche ad arrivare alla fine di questo. E la numerazione sulle porte: è fatta di simboli bizzarri, che non ho mai visto»

«Perché la finestra è aperta con questo freddo?» chiede la ragazzina.

«Siamo molto in alto.» le risponde l'uomo «Al decimo piano. Le notti di fine agosto, quassù, sono fredde. Se una persona si gettasse da quella finestra morirebbe all'istante. Meglio chiuderla». Si alza e va a richiuderla.

Lucius non parla.

 

 

    ∼∼∼   

 

 

L'uomo ritorna a sedersi. «Sai che giorno è oggi, Leonore?» chiede gentilmente.

«Certo. E' il 20 agosto 1965. Siamo a Ipswich. La stagione balneare è al termine, ma i miei genitori sono ancora parecchio occupati nel nostro stabilimento. D'estate non sono più sorvegliata come una bambina da mia madre – grazie a Dio – e ho tutto il tempo per gironzolare ed annoiarmi. I miei compagni sono in vacanza altrove, torneranno solo tra qualche settimana».

«Lucius mi ha dato appuntamento a mezzanotte, al molo dietro il capanno da pesca, per vedere i fuochi artificiali della fine della stagione. Ha detto che avrebbe portato una piccola lanterna a butano e che dopo ci saremmo divertiti a pescare i pesci con la luce. Erano le undici e tre quarti quando sono arrivata».

«Ricordi bene, Leonore. Da questo albergo al capanno si impiegano dieci minuti a piedi. Alle undici e mezza Lucius si è cambiato d'abito proprio qui, per uscire. Aveva scelto la sera dello spettacolo pirotecnico perché il rumore dei fuochi artificiali avrebbe coperto quello di ciò che intendeva fare. Ma da quella porta non è mai uscito. Il suo corpo è stato ritrovato la mattina dopo, sfracellato sotto la finestra».

«Cosa!?!» grida Leonore.

«Ora ricordo» dice Lucius «E' vero».

 

 

    ∼∼∼   

 

 

Leonore è impaurita e confusa. Vuole tornare a casa. «Puoi andartene, se vuoi» le dice Lucius, «Ma ti chiedo di ascoltare prima ciò che ha da dirti quest'uomo. Potrai fare le domande che vorrai. E dopo deciderai cosa fare».

Leonore, pallida e diffidente, si risiede e guarda il visitatore.

 

 

    ∼∼∼   

 

 

«Il tuo nome è un nome bellissimo, lo sai?» le dice l'uomo. «Contiene la radice nur, "luce"».

«Grazie» dice la ragazzina educatamente. E' ancora guardinga, ma si vede che il complimento le fa molto piacere.

Aggiunge d'impulso: «Ho sempre invidiato quelle che avevano nomi alla moda o esotici, come Julia o Elizabeth, o Jasmine o Olga. Ora non li trovo più tanto belli». Poi tace, come se si vergogni di aver parlato troppo.

«Scusami, Leonore», dice l'uomo col pince-nez, «devo entrare in dettagli piuttosto noiosi, ma cercherò di non dilungarmi oltre l'indispensabile».

«Oh, va bene» dice lei.

Si liscia inavvertitamente le punte dei capelli. Lo fa quando è soprappensiero, pensa Lucius. «Non mi ricordo di questa stanza» aggiunge.

«Non sei mai stata qui» dice l'uomo, «Qui è dove alloggia Lucius. Tu sei la figlia dei proprietari dello stabilimento, giù alla spiaggia, dove Lucius scende ogni mattina. E' qui in villeggiatura da Giugno».

«So benissimo chi sono io e chi è lui» replica Leonore, «è solo che i miei ricordi non vanno oltre la mezzanotte di oggi».

«E' perché a quel punto il tempo si è biforcato» dice l'uomo col pince-nez.

Fa una pausa e poi le dice gentilmente: «lascia che provi a spiegarti».

«Sì, per favore, mi sta venendo una gran confusione in testa». Leonore punta i gomiti sul tavolo, appoggia il mento sulle mani, e si accinge ad ascoltarlo.

 

 

    ∼∼∼   

 

 

«Per spiegarmi, utilizzerò le parole di un uomo che scrisse con chiarezza insuperata su questi argomenti. Un filosofo del Seicento. Un ingegno prodigioso. Gottfried Wilhelm Leibniz».

«Ma ricorrerò anche alle immagini della Kabbalah. Sono nato a San Pietroburgo nel 1845 da una famiglia di ebrei danesi emigrati in Russia un secolo prima della mia nascita, che si trasferirono in Germania poco dopo di essa. Per tutta la mia infanzia ho ascoltato le storie del Talmud, dei Midrashim e dei Ma’aseh Bereshit, i Racconti della creazione, ripetute dagli amici in visita a mio nonno».

«Ogni universo, scrive Leibniz, è popolato – è composto integralmente – da infiniti individui o creature: le monadi».

«Le monadi sono sostanze individuali. Ciascuna sostanza è la somma di un numero infinito di attributi. Tra gli attributi, oltre alle qualità essenziali, sono compresi infiniti predicati contingenti, che descrivono gli stati che la monade viene assumendo in momenti diversi di tempo».

«Nel concetto di Alessandro è contenuto il predicato che vinse Dario. Che recise il nodo di Gordio. Che arrivò col suo esercito fino alle porte dell'Asia. E innumerevoli altri, corrispondenti alle sue azioni e ai suoi modi di essere nei vari istanti di tempo. Per quanto definiti contingenti, sono anch'essi legati all'essenza della monade in modo necessario, e possono essere derivati analiticamente dal suo concetto».

«L'essenza di una monade è attività. Gli stati cambiano non per influenza esterna, ma per un principio dinamico intrinseco, che rappresenta al tempo stesso la legge di concatenazione temporale della serie dei predicati. E' una legge nel senso che esiste un ordine nella successione, non nel senso meccanicistico delle leggi fisiche».

«La legge di sviluppo di una monade, dice Leibniz, risponde ad un principio che inclina, ma non necessita: il principio di ragion sufficiente. In esso risiede il mistero della libertà umana e della preveggenza divina, che contempla dall'eternità la storia di un individuo, già compiutamente determinata, ma non necessitata».

«La scelta divina che chiama all'esistenza una monade tra le miriadi possibili e la libera autodeterminazione dei predicati da parte di quella hanno in comune precisamente il principio di ragion sufficiente».

«Alle proposizioni aristoteliche che attribuiscono predicati, come 'l'uomo è razionale', o 'Cesare è romano', Leibniz contrappose gli enunciati che esprimono relazioni, come 'Anna è la cugina di Maria' o 'Parigi è più a nord di Roma' ».

«Egli ricondusse tutte le proposizioni che descrivono relazioni tra più individui ad altrettanti predicati degli individui stessi».

«Dalla proposizione 'Alessandro è figlio di Filippo' egli trae 'Filippo ha la qualità di aver generato Alessandro' e 'Alessandro ha la qualità di essere stato generato da Filippo', che sono predicati rispettivamente di Filippo e di Alessandro».

«Ma come è possibile predicare, come inerente esclusivamente ad un dato individuo, una relazione che entra nell'essenza di altri individui o cose? L'unica conclusione logica è la negazione della distinzione tra individui, che conduce in ultima istanza alla identificazione della monade con l'universo in cui vive e da cui solo apparentemente è distinta».

«Dunque ogni monade, dice Leibniz, contiene entro di sé tutto ciò che le necessita, è priva di finestre, perché non riceve niente dall'esterno».

L'uomo si rivolge a Lucius. «Qui ho finito di parlare del primo mistero, e del perché tu, io e Leonore siamo facce di una stessa monade»

«E' terribilmente difficile» dice la ragazzina.

«Ma anche infinitamente semplice», dice l'uomo. «Gli universi possibili si differenziano per un dettaglio cruciale: l'esistenza. Leibniz sbagliava a pensare che uno solo di essi avesse esistenza: non tutti gli universi possibili hanno esistenza, ma nondimeno esistono infiniti universi alternativi. Ciascun universo è una monade nel senso più pieno del termine».

«Questi universi o monadi possono differire tanto quanto le leggi divine lo consentono. Secondo Leibniz, potrebbero risultare cambiate anche le leggi della fisica e del moto».

«Gli universi che non hanno esistenza sono quelli che rappresentano la possibilità d'essere di una stessa monade. Infatti, il principio di piena determinazione della sostanza individuale esige che una sola delle alternative sussista in ciascun singolo momento».

«Per capire la distinzione tra un universo che rappresenta una delle determinazioni possibili della stessa monade e un universo che rappresenta una monade distinta, occorre porsi una domanda: cosa ci fa dire che Alessandro avrebbe potuto essere sconfitto da Dario ed essere ancora Alessandro?»

«Non c'è limite alle alternative pensabili della storia di Alessandro. E' ancora Alessandro un condottiero nato non in Macedonia ma in Tracia? Un uomo morigerato, che non ha il vizio del bere smoderatamente che aveva il condottiero che conosciamo? Un uomo che invece di avere gli occhi chiari ha gli occhi neri? Qui tocchiamo con mano il mistero dell'individualità. Qui dobbiamo ascoltare ciò che la Kabbalah ci dice su come è nato l'universo».

«Quando l'infinita pienezza di Dio si manifestò nel mondo inferiore si creò quell'albero rovesciato della creazione, con la radice nel cielo e i rami che frondificano verso il basso di cui parla la letteratura mistica. Ma la potenza di Dio poteva essere contenuta a stento nei mondi inferiori. Essa generò di necessità infiniti universi».

«E tuttavia, la potenza della sua essenza ribolliva ancora, indocile, all'interno della singola monade o universo. Così, ad ogni istante, quello deve sacrificare se stesso, eliminando le infinite possibilità di cui è pregno e costringendosi in un corso definito di eventi».

«Il numero di queste possibilità è quello che i matematici chiamano un cardinale infinito, un aleph. Per una ammirevole legge divina, il numero delle possibilità di autodeterminazione della monade è fissato una volta per tutte e non varia in nessun istante della sua esistenza. Ne è un attributo essenziale. Ne è l'essenza».

«Esistono tante creature quanti aleph. Più alto è l'aleph, maggiore è la libertà della creatura, superiore il suo rango nella catena degli esseri».

«Il numero di stanze di questo albergo è eguale all'aleph della monade di cui esso rappresenta i destini alternativi. La Ghematria, la scienza della manipolazione delle parole alla ricerca di significati nascosti mediante l'attribuzione di un valore ad ogni lettera, mostra che è possibile calcolare questo numero, come già fece Giovanni nell'Apocalisse».

«I numeri alle porte di questo albergo, sono invece di un genere diverso dagli aleph. Sono i numeri infiniti che compongono ciascun aleph e ne costituiscono l'ordine e la sostanza. Sono conosciuti dai matematici come gli ordinali infiniti, i successori dell'omega».

«Il numero alla vostra porta è uno di essi. Stanotte, ciascuna stanza di questo albergo ospita uno dei possibili corsi di eventi, rappresenta uno degli universi possibili che costituiscono le infinite possibilità di determinazione della monade».

«In ciascuna delle stanze, un altro Lucius e un'altra Leonore attendono di sapere se la monade si determinerà in conformità a loro o se saranno destinati a polverizzarsi, a sparire nel nulla, perché un'altra possibilità ha prevalso».

 

 

    ∼∼∼   

 

 

L'uomo col pince-nez ha terminato la prima parte della propria spiegazione. Ora è la volta di Lucius e di Leonore di raccontare come si sono incontrati.

«Lucius è arrivato ad Ipswich ai primi di Giugno per concedersi una lunga vacanza» dice Leonore «Allo stabilimento, io gli portavo le bevande che ordinava. Era sempre molto educato, si vedeva che è una persona molto intelligente. Leggeva parecchi libri, in spiaggia e alla biblioteca. Mi sembrava molto solo: stava sulle sue e non avvicinava facilmente gli altri. Volevo capire cosa lo rendesse triste. Ed ero curiosa dei libri».

E' una ragazzina straordinaria  pensa Lucius, non per la prima volta.

«Il mio rifugio preferito, era in biblioteca. Penny – Miss Penelope Butterworth – mi lasciava stare tutto il pomeriggio al tavolo di lettura in fondo alla sala, dietro lo scaffale dell'Enciclopedia Britannica, a patto che sbrigassi di quando in quando delle piccole incombenze per lei».

La bibliotecaria era una persona formidabile. Penelope "Penny" Butterworth era un'istituzione a Ipswich. Tutti gli adulti della città la veneravano. Erano cresciuti con i libri della sua biblioteca, e le sue leggendarie ramanzine a chi non li restituiva entro il termine. Penny era in grado di trovare infallibilmente il libro giusto per te, quello che era capace di prenderti e conquistarti per sempre alla lettura.

I membri del consiglio comunale la temevano perché li tormentava, blandiva e minacciava finché non otteneva quel che voleva.

«Una località turistica che si rispetti deve offrire anche svaghi intellettuali, non solo quelli del locale di John Wyndham, giù al porto, che lei, sindaco, non ha il coraggio di chiudere» diceva guardandolo severamente da sopra gli occhialini, ogni volta che presentava la nota spese della biblioteca, su cui non erano ammessi tagli.

Il sindaco non l'avrebbe mai confessato, ma di fronte a lei si sentiva ancora il monello con i calzoni corti beccato con i suoi amici a valutare la misura e l'imbottitura dei reggiseni delle ragazzine più grandi dalle finestre aperte della sala di lettura della Laurie Bolton Municipal Library. Era più prudente accontentare Penelope Butteworth che correre il rischio che spifferasse ai quattro venti questi e altri episodi imbarazzanti della sua fanciullezza, cosa di cui, ne era certo, sarebbe stata perfettamente capace.

Lucius veniva a prendere in prestito libri, e non di rado ne tirava giù qualcuno e lo scorreva seduto al tavolo, o lo leggeva senza portarlo via. Leonore lo sbirciava dal suo nascondiglio, e cercava di leggere le annotazioni nel registro di Penny.

Alla fine, Penelope Butterworth non ne poté più.

«Leonore Swanson, smettila di spiare come Mata Hari. Non si importunano in questo modo i nostri ospiti estivi. Avrai ciò che vuoi: la lista dattiloscritta dei libri che legge, e il prestito di quelli che ti interessano».

«Passameli tutti, Penny, per favore» rispose immediatamente Leonore. Si disse che era ora di farsi una cultura da persona adulta, e iniziò davvero a leggerli tutti man mano che li riceveva.

La madre la guardava pensierosa. «Non che gli Swanson siano illetterati, davvero no» diceva «ma nessuno si era mai preparato per l'esame di ammissione ad Oxford». Leonore sbuffava e si chiudeva in camera.

Nel frattempo, qualcosa stava cambiando alla Laurie Bolton Municipal Library (il nome – come ci si poteva aspettare – era quello di una famosa suffragetta, scelto da Miss Penelope per sostituire il poco ispirato Ipswich Municipal Library).

Lucius – apprese Leonore origliando le conversazioni – aveva appena trascorso un anno in America, e riferiva a Penny le novità letterarie e culturali d'Oltreoceano. Le descrisse entusiasticamente le opere della beat generation, le nuove sperimentazioni artistiche, l'aria di libertà e di cambiamento che si respirava nei campus universitari.

Raccontò dell'indignazione e dell'emozione che aveva suscitato tra i giovani studenti dell'Università di New York l'espulsione di Bertrand Russell, che a quell'epoca aveva già pubblicato parecchi saggi sul matrimonio e la morale in cui metteva a nudo le ipocrisie degli establishment anglosassoni. Descrisse la raccolta di firme e le iniziative che avevano coinvolto professori e giovani partecipanti ai corsi di Russell, i sit-in e le manifestazioni.

Penny possedeva una abilità pressoché diabolica nel trovare qualsiasi libro le si chiedesse. Così, neanche tre settimane dopo il primo colloquio con Lucius, i Poems di Amy Lowell e di Sylvia Plath, On the Road, I Vagabondi del Dharma,  Lettere a Joyce Johnson di Kerouac, i Taccuini di viaggio di Allen Ginsberg, le Cartoline di Gary Snyder, e gli altri testi sacri della Beat Generation erano allineati in bella mostra nell'espositore dell'atrio della biblioteca, insieme alle opere da cui i giovani americani apprendevano il pensiero mistico dell'Asia: The Life of Buddha di Asvaghosa, The Buddhist Bible di Dwight Goddard, gli Essays in Zen Buddhism di Suzuki, The Philosophies of Asia, di Alan W. Watts. Per buona misura, Penny vi affiancò i Commentaries di Helen Vendler ad Emily Dickinson, Ezra Pound, Wallace Stevens e le opere di Thoreau che con la loro "mistica americana" avevano ispirato Ginsberg.

Lucius, che era venuto con un bagagliaio pieno di libri, glie ne prestò molti altri, col patto che sarebbe venuto a riprenderseli alla fine dell'estate o magari l'anno successivo. Miss Penny gli chiese di tenere un ciclo di conferenze sulla cultura americana ogni venerdì nei locali della biblioteca. Erano i primi di Luglio, e ad Ipswich si preannunciava una stagione culturale formidabile.

Lucius e Miss Penny erano spesso impegnati in lunghe ed accese discussioni. Miss Penny aveva una cultura vasta e raffinata, le sue repliche e le sue osservazioni erano sempre pertinenti e profonde. Lucius non era da meno. Il rispetto e l'ammirazione di Leonore aumentavano di giorno in giorno.

Gli inizi tra Lucius e Miss Penny non erano stati facili. Leonore avrebbe ricordato per sempre la faccia di Lucius al primo incontro con Penelope Butterworth quando, credendo di avere a che fare con una vecchia cariatide bigotta, aveva cercato di scandalizzarla parlando di libero amore e di pacifismo.

«Oh, sono così contenta che lei sia un conservatore critico, Mr. Lucius», aveva replicato lei, serafica.

Lucius non riuscì a parlare per parecchi secondi di seguito. Poi esplose in una fragorosa risata. I rapporti tra lei e Penny erano completamente cambiati in quell'istante.

Un giorno Leonore prese un libro che Lucius stava leggendo e vi trovò una nota a margine scritta a penna. Se c'era un crimine capitale per Miss Penny era proprio quello, e Lucius doveva saperlo. Leonore fu divertita dalla sua sfrontatezza e decise di scrivere accanto una replica.

Il giorno dopo, da dietro l'Enciclopedia Britannica, vide Lucius aprire il libro, aggrottare le sopracciglia, poi sorridere, leggendo il suo messaggio. Da quel momento, a rischio della loro incolumità, si scambiarono battute scritte a margine dei libri, dove pensavano che miss Penny non le avrebbe trovate.

Col senno di poi, Leonore si era convinta che miss Penny le avesse trovate eccome, ma aveva deciso di entrare nel gioco. Quanto a Lucius, non sapeva chi fosse la sua interlocutrice, ma mostrò di conoscere anche lui le regole del gioco di Leonore – non cercò di scoprirlo di sua iniziativa. La rivelazione del mistero avvenne per un'altra serie di eventi.

Sei mesi prima, Miss Penny aveva acquistato per la biblioteca un volume collettivo dei migliori scatti dei fotografi della rivista Life degli anni Cinquanta e Sessanta e l'aveva esposto nell'atrio.

Per Leonore fu il colpo di fulmine. Aveva acquistato una vecchia Hasselblad perfettamente funzionante, finita chissà come nel negozio di elettrodomestici di Abe Thornton, e aveva risparmiato per tutto l'inverno e la primavera per comprare una immensa quantità di rullini. Come parte del contratto con Abe, il giovane Tom Thornton era stato costretto di malavoglia ad attrezzargli una minuscola camera oscura in un box dello stabilimento degli Swanson.

Quando seppe da Miss Penny che Lucius, oltre che consulente editoriale per la Penguin, era anche un fotografo che aveva all'attivo diverse mostre personali, gli mise nel libro una delle prime immagini che aveva scattato, di cui era molto orgogliosa. Lucius scrisse a penna dietro la foto: «Lei ha bisogno urgente di lezioni di fotografia. Possiamo incontrarci?»

Leonore era così offesa ed indignata che se la riprese senza preoccuparsi di rispondere. La risposta glie la diede l'indomani mattina, allo stabilimento, quando sbatté la fotografia sul suo tavolino e chiese con fare pericolosamente mieloso: «potrei, di grazia, confrontarla con uno dei suoi capolavori, Mr. Lucius?». Lucius la fissò un istante e replicò imperturbabile: «La mia prima foto era molto peggiore di questa. Piacere di fare la sua conoscenza, miss Leonore ».

Leonore quell'estate scattò un numero incredibile di istantanee, che Lucius quasi sempre gettava via, perlopiù dopo averle viste solo in negativo.

Questo faceva particolarmente infuriare Leonore, che in certi momenti avrebbe voluto dipingere Lucius di succo di mirtillo, come aveva fatto con Louise in quarta elementare.

Ma quando lui prendeva in mano una foto e si soffermava a studiarla cercando la luce migliore, lei tratteneva il fiato. Quelle foto erano religiosamente conservate in un album che aveva acquistato dal negozio di souvenir per turisti di Miss Crenshaw.

Dietro ogni immagine Lucius scriveva un commento, certe volte una nota tecnica, altre volte una impressione o qualche verso, uno di quegli haiku che leggeva dalla raccolta in quattro volumi di R. H. Blith che aveva portato dall'America.

«Una volta ha scritto un commento osceno» dice Leonore ridacchiando.

«Puoi riferirlo?» dice l'uomo col pince-nez.

«Beh, avevo fatto questa foto di Betsy, la mucca della signora McGuire, e lui scrisse dietro proprio queste parole: "La vacca si fa un grande / favoloso - ehm – bisogno, e si volta / A guardarmi"».

«E' un haiku di Jack Kerouac», sorride Lucius.

«Beh, Mr. Kerouac non avrebbe dovuto pubblicarlo. Inoltre, nella foto, la cacca di Betsy non si vede, anche se è vero che si era voltata a guardarmi».

«Quando Lucius ti ha invitato al molo, Leonore, ti è mai venuto in mente che avrebbe potuto proporti delle cose sconvenienti?» chiede all'improvviso l'uomo col pince-nez.

Leonore arrossisce violentemente. «L'avrei rimesso a posto con uno schiaffo e l'avrei costretto a pescarmi il luccio che mi aveva promesso. Dopodiché non gli avrei più rivolto la parola per molto tempo, fino a che non si fosse scusato».

Leonore, Leonore, ti fidi troppo delle persone, pensa Lucius, amaro.

«E' tempo di far visita agli altri ospiti dell'albergo, Leonore», dice l'uomo col pince-nez.

 

 

    ∼∼∼   

 

 

Tiene aperta la porta ed attende che anche Lucius sia uscito. Poi li precede lungo i corridoi, «Non mi perdete di vista» li avverte. Alla fine entrano in un'altra stanza, e Leonore fa un'esclamazione di sorpresa.

Due persone identiche a lei e a Lucius siedono ad un tavolo uguale al loro, in una stanza che è un'esatta replica di quella che hanno lasciato.

Non del tutto identica, si rende conto Leonore dopo qualche momento. Il Lucius di quella stanza ha uno sguardo opaco, che solleva appena un istante prima di tornare a guardarsi le mani. Leonore nota che sono insanguinate. Una sensazione di gelo le striscia addosso. La ragazzina nella stanza ha un'espressione triste, rabbiosa. Guarda Leonore. «Tu sei quella che si è salvata, non è vero?» Leonore nota altro sangue, sul suo abito.

«Lucius, la mattina dopo, ha acquistato il giornale locale, Leonore» dice l'uomo col pince-nez. E' lì sulla sedia. Puoi leggerlo. I titoli sono in prima pagina».

Con mani tremanti, Leonore apre il giornale e legge. Lo lascia cadere.

«Non l'avresti mai detto del tuo Lucius, non è vero?» dice la ragazzina seduta con tono cattivo, «vuoi vedere quante ferite di coltello ho sul corpo?»

«Non è il mio Lucius» dice lei in tono spento e incolore.

«Non bluffare con me, stupida!» esclama la ragazzina seduta. «Io sono te! – o non te ne sei resa conto?»

«Usciamo» dice l'uomo col pince-nez.

 

 

    ∼∼∼   

 

 

Sono di nuovo seduti nella loro stanza. «Permettetemi di terminare la mia spiegazione» dice l'uomo. E riprende da dove aveva interrotto.

«Ogni monade o universo, percorre una infinita serie di istanti e biforcazioni e giunge al collasso finale, per poi rinascere e ricominciare di nuovo. Gli Stoici ne parlano come dei grandi cicli».

«E' come vagare in un labirinto. Ci sono monadi che dopo infiniti cicli e infinite variazioni di percorso trovano l'uscita e ciò che le attende al di fuori di esso, l'incontro con il proprio Creatore. Questo puoi chiamarlo purgatorio, attesa della visione di Dio. Ci sono monadi che rimangono legate per sempre ad un percorso sbagliato, e questo puoi chiamarlo inferno, esilio irrimediabile da Dio».

«Per anni mi sono aggirato in questo labirinto senza sapere perché vi fossi finito. Ho impiegato molto tempo per orizzontarmi. Le stanze dell'albergo sono disposte in un ordine che non pensavo potesse esistere. Poi, all'improvviso, credetti di aver compreso. Ora sapevo cosa cercare. Cominciai a seguire l'ordine decrescente dei simboli».

«Vedete, i numeri di queste stanze non sono posti a caso. Essi rispecchiano il modo in cui la perfetta giustizia della mente divina contempla le infinite possibilità che si aprono alla monade: più alto è il numero, più distanti da sé ci vede l'occhio di Dio».

«Ora permettetemi una digressione solo apparente – una domanda: qual è il numero che descrive l'insieme di tutti gli aleph

«La risposta è sorprendente solo in apparenza: l'insieme di tutti gli aleph – dei cardinali infiniti – non esiste: è costituito da quella che i logici chiamano una classe propria, che non può essere afferrata dalla mente a meno di paradossi».

«Pensate a questa contraddizione: qual è la cardinalità di tale classe, la classe di tutti gli aleph? Questa cardinalità, l'aleph degli aleph, non può essere uno degli aleph che include, perché c'è sempre un aleph superiore. Ma contemporaneamente deve essere uno di questi aleph, perché, per definizione, li include tutti».

«Questa cardinalità finale, che non esiste per l'intelletto umano, è il nulla della teologia negativa, e quindi si identifica con il primo cardinale: l'insieme vuoto».

«E' un concetto fondamentale della tradizione kabbalistica: i kabbalisti rifiutano l’immagine del demiurgo e sviluppano l’idea della creazione dal nulla. Dio è un punto geometrico senza dimensione che si espande acquistando dimensione materiale. Quindi essi lo identificano col nulla, l'infinito, l'indeterminato, l'Ein Sof».

«E così si ritorna all'inizio, e il cerchio si chiude. Dio è il punto in cui la catena degli aleph ritorna su se stessa. Ora capite ciò che cercavo: la stanza con il numero iniziale, l'origine».

«Ma qui c'è un altro mistero: questa stanza, per la monade, è introvabile, o meglio, essa non vi può entrare con le sue sole forze. Chiamatelo, se volete, il peccato originale: solo l'intervento divino della Grazia può consentirlo.

«Stanotte», dice l'uomo, «è avvenuto un fatto straordinario. Ma prima di parlarvene, devo essere sicuro di non sbagliarmi». Fa una pausa. Svita il tappo di una sontuosa stilografica Meisterstück e la porge a Leonore.

«Leonore, ti ricordi il numero che hai visto fuori della porta? Lo puoi scrivere su questo foglio?».

«Certo, è un simbolo molto semplice». Leonore prende la penna e traccia un simbolo:

 

 

    ∼∼∼   

 

 

Per diversi minuti l'emozione impedisce all'uomo di parlare.  I suoi occhi non si sono ingannati. Leonore ha confermato ciò che lui ha visto. Rimane ben poco da aggiungere a quanto ha già detto.

«Questa è la stanza dell'aleph originario. Questo è il destino alternativo in cui Lucius ritrova la strada perduta. Ma la cosa straordinaria è in realtà un'altra. Vedete, il fatto che io, ombra della monade, abbia trovato questa stanza, vuol dire che stanotte il suo aleph è stato cancellato dalla mano dell'Eterno e sostituito dall'aleph originario, dall'Ein-Sof il vuoto della divinità».

«Stanotte il numero delle possibilità della Monade è oltre gli infiniti. Essa può diventare qualunque cosa incluso Dio».

 

 

    ∼∼∼   

 

 

«Come è possibile che Dio non consenta una sorte migliore di quella del Lucius e della Leonore di questa stanza?» dice la ragazzina turbata. «Come può un destino come il nostro aprire una via verso di  Lui?»

«Tutto è possibile a Dio» dice l'uomo col pince-nez. «Il Sepher ha-Bahir, un altro grande testo kabbalistico sconosciuto ai più, scritto in linguaggio mistico impenetrabile, sostiene l'idea audace che Dio contenga, nella sua incomprensibile pienezza, il principio del male accanto a quello del bene. Che possa combinare il male del peggior Lucius e il bene della migliore Leonore, trasformandoli e accogliendoli entrambi in sé».

Leonore è ancora scettica. «Ci devono essere delle stanze in cui un'altra Leonore ha appoggiato la testa sulla spalla di Lucius guardando i fuochi e ha pescato insieme a lui un bellissimo pesce che lo ha costretto a rigettare in acqua».

«Temo di no» dice l'uomo. «Questa notte la vita di uno di voi due deve cessare. Per la stessa ragione per cui io sono vissuto nell'Ottocento e non ho incontrato Lucius, tu e Lucius siete due manifestazioni della stessa monade che non sono destinate ad esistere contemporaneamente oltre questo punto».

«Non potete vivere entrambi perché, per usare le parole di Leibniz, non siete compossibili secondo le leggi dell'Eterno. Io dovetti vivere prima di Lucius e lui dopo di me. Se tu, Leonore, vivrai, Lucius morirà. Perché la sua vita possa proseguire, la tua deve essere interrotta. Non chiedermi perché»

«Lucius, non aprire quella finestra» dice Leonore d'impulso. «Io ora uscirò e andrò via. Tu domattina lascerai Ipswich. Non ci vedremo più. La legge sarà rispettata»

«Leonore» dice dolcemente l'uomo col pince-nez, «né tu né Lucius, in questa stanza, potete cambiare. Voi non avete essere. Siete solo possibilità, e come tali siete fissi e immutabili come un simbolo, un segno»

«La creatura, la monade, può rifiutare la Grazia. Il mistero del libero arbitrio è insondabile. Secondo la celebre dottrina kabbalistica di Rabbi Isaac Luria, coincide col mistero del Tsimtsum, il ritrarsi di Dio per fare spazio alle creature, all'origine alla creazione».

«L'anima decide entro di sé, nel suo centro più profondo, che ha sede in questo vuoto inaccessibile all'Altissimo per suo stesso decreto. Possiamo solo aspettare e sperare di non dissolverci» le dice l'uomo col pince-nez.

«E se stanotte la monade non compisse la scelta giusta, potrebbe ritrovare la via in seguito?» chiede Leonore.

L'uomo scuote il capo. «No. Il rifiuto della grazia divina è un atto definitivo. La monade continuerebbe ad aggirarsi all'infinito nel labirinto: avrebbe sigillato il suo destino».

«Non possiamo fare proprio niente?» insiste Leonore, frustrata e angosciata.

L'uomo col pince-nez non le risponde subito. Alza la testa e si mette in ascolto, poi, come se un suo pensiero abbia trovato una conferma dice: «Sentite? Le altre stanze sono silenziose. Sono sature d'odio e di paura, congelate. Solo noi stiamo parlando. La monade sta dialogando con se stessa – qui ed ora».

 

 

    ∼∼∼   

 

 

«Ti farò delle domande, Lucius. Tu dovrai rispondermi. Io devo capire. Leonore ha diritto di sapere».

«Questo è ancora più difficile di quanto sia stato aprire quella finestra» dice Lucius rigido.

«Non più difficile. Anche quella è stata una scelta terribile, eppure l'hai fatta» dice l'uomo col pince-nez. «Io, a mia volta, ti racconterò la mia storia».

Leonore ora è silenziosa. Guarda Lucius come se lo vedesse per la prima volta. Eccoci, pensa Lucius.

«Leonore, Lucius ti fa orrore?» le dice piano l'uomo col pince-nez.

Lei si rivolge a Lucius. «Una volta ho tenuto in mano una piccola lucertola e l'ho deposta con infinita delicatezza su una pietra scaldata dal sole. Non si è mossa, ha alzato il capo verso di me. Sono stata a guardarla incantata per un tempo interminabile, Lucius.  Cosa significa quello che hai fatto? Quelle cose terribili che hai fatto all'altra Leonore potrebbero esistere dentro ciascuno di noi? Anche dentro di me? Da quale luogo provengono, Lucius? Puoi dirmelo?».

Lucius non risponde. Guarda altrove.

Leonore è molto agitata. Deve fermarsi un momento per raccogliere i suoi pensieri.

«Da un lato Lucius non è lo stesso Lucius dell'altra stanza, non è vero?». Senza attendere risposta, prosegue la sua riflessione.

«Se tu lo fossi avresti commesso quel che ha commesso l'altro».

Fa una pausa. «Neanche la ragazzina era esattamente me, era più cattiva, piena di odio. Anche se non possiamo sapere quanto dipenda da ciò che ha subito».

«Ma dall'altro» dice guardandolo, «Tu sei il Lucius dell'altra stanza. Non hai negato i tuoi impulsi»

L'uomo col pince-nez interviene. «L'avevi fatto prima, Lucius?»

«No. Certi atti rappresentano un punto di non ritorno. La perdita definitiva della possibilità di scelta» dice Lucius.

Quel che sta dicendo gli costa molta fatica, ma prosegue a parlare.

«Ho fatto altre cose prima di questa. Ho preso donne contro la loro volontà, le ho avute in cambio di denaro, di droga, di minacce, di ricatti, di false promesse. Sono rimasto indifferente di fronte alle loro accuse, alla loro sofferenza, al loro sprofondare nell'autodistruzione. Ma non sono mai giunto alla violenza nuda, omicida, efferata»

«Ma eri pronto a farlo. L'avresti fatto perché ti eri infatuato di Leonore?» chiede l'uomo, «Lei non se ne rende ancora conto, ma già ora è una adolescente di rara bellezza e intelligenza»

Lucius scuote il capo «Non pretendo che tu capisca – il vecchio me stesso non capirebbe. Avrei agito per la soddisfazione di farle del male e violarla, con assoluta indifferenza. Lei sarebbe stata una cosa»

Lacrime scorrono silenziose sul volto di Leonore. L'uomo col pince-nez cambia discorso.

«Perché ti sei trattenuto? Provavi rimorso per i pensieri nei confronti di lei?»

«Te l'ho già detto: non provavo nessun rimorso»

«Eri giunto ad odiarti? Eri pentito di quel che avevi fatto sino ad allora?»

«Odiarmi? Non mi odiavo. Ero definitivamente stanco di oppormi inutilmente a me stesso. Dovevo accettarmi com'ero»

«Devo capire» insiste l'uomo col pince-nez «Prova a ritornare indietro al momento in cui hai aperto la finestra. Concentrati su quello che eri in quel momento».

Lucius chiude gli occhi.

«Ora puoi spiegarmi perché, essendo diventato quel che sei diventato, hai fatto alla fine quello che hai fatto?»

Lucius riapre gli occhi. «Posso tentare» dice. Fa una pausa. Inizia a parlare lentamente.

«Immagina un assassino, un uomo terribile, che ha preso molte vite senza un rimorso. Un giorno vede una magnifica farfalla. Allunga la mano: quella non si muove. L'uomo pensa: potrei stritolarla per il puro gusto di farlo. In verità, ho fatto cose ben peggiori».

«D'improvviso gli viene in mente una cosa che gli ha detto una volta sua madre: che i gelsomini attirano le farfalle perché il fiore ha imparato a generare l'odore che le guida una verso l'altra. L'odore delicato del fiore è il richiamo con cui una farfalla chiama a sé il proprio compagno».

«Questo pensiero lo affascina. E la farfalla è veramente bella. Ritira la mano: stavolta ha l'impressione che commetterebbe un atto gratuito, senza senso. La farfalla vola via. L'uomo si allontana, di lì a qualche minuto non ricorderà più nulla. Ecco, mi è venuta in mente questa storia.»

«Ti sei spiegato» dice l'uomo col pince-nez. «Leonore è stata la tua farfalla»

La ragazzina sorride, triste. Lucius vorrebbe dirle che gli piace il suo sorriso, ma non crede ci potranno più essere parole tra loro.

«E tu, l'hai incontrata, la tua farfalla?» dice lei all'uomo col pince-nez.

Lui si stringe nelle spalle. «La matematica».

La ragazzina arriccia il naso. L'uomo col pince-nez sorride ancora. Fa un cenno di scuse. Si tocca la tempia come a dire sono matto, che ci vuoi fare?

La ragazzina si fa seria. «E' come se il cuore di una persona si restringa, non è così?» dice. «E' diventato di tre taglie più piccolo, come quello del vecchio avaro Ebenezer Scrooge nella Favola di Natale. Non è più capace di cogliere la bellezza, perché le sue antenne si sono ritirate all'interno, ascoltano solo i suoi terribili pensieri. Non vede più. E' cieco. C'è bisogno di un fatto straordinario perché veda di nuovo».

«Confondi La Favola di Natale con il Grinch, Leonore» dice sorridendo l'uomo col pince-nez, «ma hai ragione. E' la storia di Lucius».

«C'è un'ultima cosa, un dubbio» dice l'uomo col pince-nez, «Il tuo atto, Lucius, è considerato un gesto di disperazione. C'è chi dice che il rifiuto della vita è in realtà una riaffermazione della brama di vivere. Come tale, è peccato agli occhi di Dio. Quando hai aperto la finestra, l'hai fatto per disperazione?»

Lucius scuote la testa.

«Avevo paura. Ero stanco. Ma non ero disperato. Ero semplicemente arrivato ad una alternativa finale: potevo terminare la mia esistenza o prendere quella di un'altra persona. In entrambi i casi, la mia ne sarebbe stata distrutta. La polizia mi avrebbe trovato. La scelta da fare mi appariva assolutamente chiara. Ero lucido. Ero sollevato».

L'uomo col pince-nez annuisce lentamente.

 

 

    ∼∼∼   

 

 

«Ascoltate», dice loro l'uomo, «voglio raccontarvi anch'io una storia. Quella di Friedrich Nietzsche».

«Nietzsche, il grande filosofo. Colui che scrisse Così parlò Zarathustra, che predicò il disprezzo per i deboli, per i brutti e informi, come chiamava la gente comune. Che aborriva il cristianesimo e la compassione universale. Che definì Paolo di Tarso un piccolo ebreo epilettico. Che odiava talmente la morale dell'epoca da sfidare tutte le convenzioni divenendo amante della bellissima Lou Salomé insieme all'amico Weismann e facendosi fotografare con la donna che li teneva per le redini con la frusta alzata».

«E' il 1898. Nietzsche è a Torino, in visita ad un conoscente. Ad appena trentasei anni, è all'apice della fama. Ha bruciato le tappe: professore di filologia classica all'università di Basilea ad appena venticinque anni, è un uomo di cultura immensa, che ha scritto tutti i suoi maggiori capolavori tra i venticinque e i trenta. Una parabola intellettuale che ha del prodigioso».

«Sceso in strada, vede un fiaccheraio picchiare selvaggiamente un vecchio cavallo troppo sfinito per proseguire».

«Corre verso l'animale. Lo abbraccia. Impedisce che riceva altri colpi dal padrone infuriato. "No! No!" grida. Scoppia in pianto. Ha un crollo nervoso. Nel giro di pochissimo tempo diviene completamente catatonico. Non si riprende più. Muore dieci anni dopo, accudito dalla sorella. L'incontro con la propria anima ha sempre un esito drammatico» conclude l'uomo.

 

 

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«Abbiamo ancora del tempo da passare» dice l'uomo «Lasciate che ora vi racconti la mia storia e capirete perché sono in questo albergo e come sia riuscito a trovare questa stanza. La verità è che sono stato in grado di orizzontarmi in questo labirinto perché i simboli che sono scritti su ciascuna porta li avevo creati io»

«Siete stupiti? E' comprensibile. Lasciate che vi faccia capire. Tu, Leonore, cosa penseresti se usassi l'espressione un'infinità di infiniti

«Che è sciocca», dice Leonore, «perché l'infinito è uno solo: quello che si ottiene contando 1, 2, 3, … senza mai fermarsi».

«Sbagli», disse l'uomo, «e io sono riuscito a dimostrarlo, ma ti puoi consolare: prima di me, tutti i matematici, senza eccezione, la pensavano come te».

«Io dimostrai una cosa che nessuno prima di allora aveva dimostrato: che esistono infiniti di tipo differente. Che oltre l'infinito dei numeri naturali esiste l'infinito dei numeri reali, e oltre quello innumerevoli e diversi altri, senza fine».

«Per distinguerli l'uno dall'altro, creai dapprima gli ordinali transfiniti, capaci di esprimere ogni successione concepibile, e poi i cardinali transfiniti o aleph, capaci di esprimere ogni quantità concepibile».

«Gli ordinali costituiscono la numerazione utilizzata in questo albergo: ecco i primi simboli che creai, quelli che corrispondono agli ordini finiti:

 

: l'insieme vuoto, che è l'ordinale di partenza, da cui nascono tutti gli altri

 

{} : il primo ordinale: un insieme che contiene l'insieme vuoto

 

{, {}} : il secondo ordinale: un insieme che contiene i due insiemi che lo precedono.

 

La serie prosegue secondo questo criterio senza fermarsi:

 

{, {}, {, {}}} : il terzo, che contiene lo zero, il primo, il secondo ordinale.

 

il quarto…

 

il quinto…

 

il sesto…

 

«Scoprii una definizione meravigliosamente semplice di questi insiemi: un ordinale è un insieme, ciascun elemento del quale ne è anche sottoinsieme, e possiede a sua volta questa proprietà.

«La serie proseguiva all'infinito, e tutti i suoi elementi erano detti ordinali finiti, così chiamati perché il numero dei loro elementi è un numero naturale: 1, 2, 3, ecc. La domanda successiva fu: esistevano altri insiemi ordinali, che soddisfacevano la definizione, ma che era diversi da tutti gli ordinali finiti?

Il primo di essi, se esisteva, doveva venire dopo tutti gli ordinali finiti, cioè essere un ordinale transfinito. Per proseguire la serie avevo bisogno di ampliare la regola per costruire la sequenza di ordinali. Ad ogni serie di ordinali successori, costruiti secondo la regola vista sopra feci seguire un ordinale iniziale o ordinale limite λ, costituito dall'insieme di tutti gli elementi degli elementi di S.

«Il primo ordinale transfinito, già noto ai matematici della mia epoca con il nome greco di omega: "ω" non è altro che l'insieme formato da tutti i numeri naturali.

«Beninteso, essi si rifiutavano di considerarlo come un insieme, meno che mai come  numero, dotato di successori.

«Ma io liquidai i paradossi dell'infinito attuale e affermai la legittimità logica del concetto di insieme infinito, dando una definizione rigorosa del primo di essi, omega, e indicando il modo di costruire i suoi successori:

 

{ω, {ω}} : omega più uno

 

{ω, {ω}, {ω, {ω}}} : omega più due

 

{ω, {ω}, {ω, {ω}}, {ω, {ω}, {ω, {ω}}}} : omega più tre…

 

«Esplorai l'affascinante matematica delle operazioni tra ordinali transfiniti, che aveva leggi stupefacenti, del tutto diverse da quelle dell'aritmetica ordinaria, e tuttavia altrettanto rigorose e conseguenti.

«Ora dovevo costruire i numeri cardinali, i numeri che definiscono ciascuno una determinata dimensione, ovvero quantità di elementi, in altre parole, quelli che servono ad enumerare le cose. Detti anzitutto la definizione di equipotenza: due insiemi sono equipotenti se i loro elementi possono essere messi in una relazione uno-a-uno.

«In ogni serie infinita di insiemi equipotenti identificai un insieme particolare che fungesse da numero degli elementi, ne rappresentasse la dimensione. In modo straordinariamente semplice, la scelta cadde su un ordinale, chiamato ordinale iniziale, perché più piccolo di tutti gli altri ordinali equipotenti, secondo la relazione di inclusione. Ciò voleva dire che esso era incluso in tutti gli altri insiemi equipotenti, ma non includeva nessun sottoinsieme con cui fosse equipotente.

Avevo così la serie dei numeri cardinali, che comprende i cardinali finiti, che coincidono con gli ordinali finiti, e i cardinali transfiniti o ordinali iniziali, che chiamai aleph, dal nome della prima lettera dell'alfabeto ebraico, che si scrive "".

«Gli aleph e gli ordinali transfiniti estendono la numerazione ordinaria, e sono la numerazione definitiva: la loro successione non ha limite, è in grado di esprimere qualsiasi quantità e, all'interno di ciascuna, qualsiasi ordine.

«Ero forse riuscito a realizzare il sogno che i cabalisti avevano inseguito per più di millennio, quello dei numeri mistici capaci di contrassegnare tutte le opere della creazione? Per ogni essere, un simbolo. Essere e simbolo una identica cosa. Ciò che aveva adombrato Platone quando disse che l'essenza riposta della creazione è costituita da numeri. Essa è costituita precisamente di aleph, mentre il numero del Creatore, calcolabile, è il limite a cui tende la successione degli aleph.

 

 

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«Come cominciò tutto questo? Per puro caso. Ad un certo punto della sua vita un matematico si imbatte in un problema che per lui riveste uno straordinario fascino, vi scorge ciò che gli altri non sono in grado di scorgere. A quel punto, la sua strada è tracciata. Continuerà a scrivere di quell'argomento fino a che la sua fonte si inaridirà».

«Evariste Galois era affascinato dal problema delle equazioni di grado superiore al terzo. Cauchy studiò per tutta la vita la definizione di limite. Ne era così preso che quando il giovanissimo Heinrik Abel gli inviò i suoi lavori geniali sulle equazioni, non ebbe il tempo di leggerli. Abel morì disperato il giorno prima di ricevere la nomina a professore all'università di Berlino che avrebbe potuto ottenere molto prima, se Cauchy avesse gettato uno sguardo sul suo lavoro».

«Così è la mente di un matematico. Riemann studiò l'elettromagnetismo e i numeri complessi, ma dedicò gli sforzi più grandi ad elaborare il concetto di varietà, che portò frutto solo settant'anni dopo la sua morte. Gregorio Ricci Curbastro e il suo brillante allievo, Tullio Levi-Civita, furono affascinati dalla bellezza dei tensori e ne esposero le leggi, incuranti del fatto che molti li giudicassero null'altro che sterile formalismo».

«Vent'anni più tardi Albert Einstein, che aveva utilizzato il linguaggio geometrico di Minkowski per esporre la teoria della relatività speciale, ed era alla ricerca di un simbolismo più adeguato per la sua teoria della relatività generale, si imbatté nei lavori dei due italiani e, trovandoli straordinariamente difficili, se li fece spiegare dall'amico Marcel Grossmann. La descrizione del modo in cui la gravità incurva lo spazio fu scritta nel linguaggio dei tensori. E' una delle ragioni per cui viene considerata una delle più belle creazioni dell'ingegno umano».

«Alcuni matematici si cimentano con problemi troppo difficili per le conoscenze del loro tempo, sono destinati all'amarezza del fallimento. L'ultimo teorema di Fermat tra gli altri, con la sua ingannevole semplicità, ha attirato gli studiosi come la luce attira le falene, ma è tutt'oggi indimostrato»

 

 

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«Io, al confronto, sono stato eccezionalmente fortunato. I problemi che studiai cominciavano appena allora ad essere sollevati nei lavori degli analisti più valenti, da Weierstrass a Dirichlet. Non avevo punti di riferimento, ma nondimeno, le conoscenze della mia epoca erano mature per le mie scoperte».

«Ma, occupandomi degli insiemi infiniti, avevo introdotto un concetto sino ad allora severamente bandito dalla matematica, l'infinito attuale: stavo andando contro duemilacinquecento anni di pregiudizi. Già Aristotele ammoniva che i numeri sono potenzialmente infiniti in quanto è sempre possibile aggiungere una unità a un qualsiasi numero per ottenerne uno nuovo, ma il loro insieme, in quanto tale, non esiste, perché non può essere ottenuto con questo procedimento».

«Eresia! Eresia! gridavano i matematici di fronte alle mie scoperte. Uomini miopi mi diedero addosso. Leopold Kronecker, uno degli eminenti studiosi dell'epoca, era tanto grande nel suo intelletto, quanto piccino e miserabile nei suoi sentimenti. Era un individuo pomposo: "I numeri naturali ci sono dati da Dio" diceva, "E non è ammesso che si aggiunga qualcosa a ciò che Dio ci ha dato"».

«Questo evidentemente gli dava il diritto divino di utilizzare tutta la sua influenza per bloccare i miei articoli e la mia carriera. Mi criticò e sbeffeggiò ferocemente. Fu il segnale per gli altri, che fino a quel momento avevano avuto timore: ora seguirono il suo esempio, come lupi del branco. Fui fatto a pezzi sulle riviste scientifiche, ai congressi, nelle lezioni all'Università, negli scambi epistolari».

«Cantor l'eretico, Cantor il bizzarro, Cantor l'impostore: il coro crebbe. L'uomo è un animale che vive in società, ha bisogno di qualcuno che approvi le sue opinioni, altrimenti lui stesso inizia a dubitarne. Tenni duro finché potei. Puoi misurare il mio coraggio da questo: che i miei dubbi erano superiori a quelli dei miei detrattori – ciononostante seguii fino in fondo la via che la ragione mi mostrava».

«Alla fine, la tensione a cui ero sottoposto ebbe la meglio. Qualcosa dentro di me si ruppe. Gli anni di studio furibondo, le notti insonni passate su problemi che fino ad allora avevano eluso gli sforzi dei migliori ingegni, lo sforzo titanico di creare dal nulla una teoria completamente nuova, quella degli infiniti: tutto questo pretese il suo prezzo. Un giorno mi ritrovai nel manicomio di Halle».

«Mi dissero che il mio comportamento dava segni allarmanti di squilibrio, che temevano per me. Gli credetti: nel mio delirio ero convinto che la mia opera avesse attirato la vendetta degli Dèi, come quella di Giove su Prometeo. Temevo di aver scatenato le forze misteriose e terribili che sono a guardia dei segreti iniziatici. Dieci anni dopo morii nella stanza del manicomio in cui mi avevano portato quel primo giorno».

Poi l'uomo col pince-nez tace, e tutti e tre rimangono seduti in attesa, guardando la notte fuori della finestra.

 

 

    ∼∼∼   

 

 

Il tempo passa lentamente. Ogni tanto si avverte una sorta di scossa di terremoto e l'albergo trema. Ma la stanza rimane al suo posto.

Poi, nel silenzio, si sente, lontano ma nitido, il rintocco di una campana. Dopo diversi secondi, segue quello di un'altra. Le campane si moltiplicano. I campanili di tutte le chiese della costa stanno suonando i rintocchi del mattino. Un chiarore rosato tinge le finestre, anche se mezzanotte non è passata da molto. Inizia, sommesso, il canto mattutino degli uccelli.

All'uomo col pince-nez vengono in mente le parole del Sepher Yetsirah sul rapimento mistico dell'uomo in preghiera, il Magghid:

 

 

L’uomo santo attende la visita del Magghid, il messaggero del Trono. Indossato lo scialle della preghiera, sentirai improvvisamente il timore della Shekinah che è accanto a te. Sentirai il canto degli uccelli all’alba descrivere il modo in cui si intrecciano i fili della creazione. Vedrai dapprima la luce rosata – Hokmah – poi la luce dorata – Binah – poi la luce piena – Malkuth. Sentirai gli animali sussurrare i misteri degli esseri. Leggerai nel cielo la lingua delle stelle, vi contemplerai le forze che percorrono Olam ha-Asiyah, il Cosmo dell'Azione. Tutto questo è donato dalla visita del Magghid».

 

 

Leonore e Lucius si alzano. «Me la sto facendo sotto dalla paura, Lucius» dice Leonore.

«Dammi la mano» le dice lui. La prende nella sua e la conduce alla porta.

«Addio, Georg»

«Addio, Leonore. Addio Lucius»

 

 

    ∼∼∼   

 

 

Rimasto solo, l'uomo col pince-nez si toglie gli occhiali, riavvita il cappuccio della penna e la rimette nel taschino.

Indugia ancora un po', controllando che tutto sia in ordine –  è una delle sue abitudini, quando lascia una stanza d'albergo. Poi si avvia senza fretta per il corridoio e scende le scale.

L'atrio è deserto, una luce sempre più intensa entra dalle finestre e filtra da sotto la porta. Il suono delle campane è insistente, gioioso.

L'uomo sosta al banco, apre il registro e scrive con la sua grafia nitida e ordinata un'ultima annotazione:

 

 

Mi chiamo Georg Cantor, sono un matematico, uno studioso.

Stanotte, mi è stato concesso di fare da testimone ad un grande prodigio.

Ne sia gloria a Dio,

l'Altissimo,

l'Aleph degli aleph.


poscritto al racconto

 

Sebbene i dettagli di teoria matematica siano rigorosamente esatti, la definizione di numero ordinale data nel testo – oggi correntemente adottata – è dovuta a Janos von Neumann, che la propose nel 1923, sfruttando i concetti insiemistici che erano stati affinati da Hausdorff nel suo Mengenlehre e da Enrst Zermelo e Abraham Fraenkel nella loro riformulazione assiomatica.

Ma colui che aveva tracciato la via era stato Georg Cantor. Qualcuno ha scritto che ci sono due tipi di scienziati: i pionieri e i continuatori. I primi esisterebbero anche senza i secondi, ma non vale il contrario.

Ho alterato qualche notizia biografica su Cantor. Non è vero che Hilbert fu il suo esecutore testamentario, anche se è vero che fu uno di coloro che lo incoraggiò a perseverare e ne lodò l'opera.

Ho modificato significativamente la cronologia della vita di Nietzsche. In realtà le sue opere, stampate inizialmente a spese dell'autore, non ebbero grande fortuna, e gli alienarono anzi la cerchia degli amici per il loro pensiero troppo radicale. Solo dopo la sua morte, avvenuta il 25 agosto 1900, esse iniziarono a correre per il mondo.

Qui, come pure nel caso di Cantor, il lettore può pensare, se vuole, che si tratti di una realtà alternativa, vera in qualche universo possibile.

Per l'esposizione della filosofia di Leibniz ho adottato l'impostazione contenuta nel fondamentale saggio di Bertrand Russell The Philosophy of Leibniz, pubblicato originariamente nel 1900 e sempre attuale.

In realtà quella che è esposta nel racconto è una personalissima contaminazione tra monadologia e filosofia idealista. In particolare, la teoria che un attributo non sia un predicato di un singolo individuo, ma dell'intera realtà vista come un tutto, è contenuta in nuce nel pensiero di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831).

Leibniz non avrebbe mai affermato che esistono più universi possibili né che le monadi si identifichino con un intero universo.

L'affermazione che l'analisi del concetto di relazione conduce a concludere che le monadi sono sfaccettature di un'unica realtà avrebbe potuto, essere formulata da un seguace dell'idealismo neohegeliano inglese di Francis Herbert Bradley (1846-1924) e John McTaggart (1866-1925), ma di fatto nessuno ha sostenuto una simile tesi, più congeniale forse alla speculazione mistica che a quella filosofica.